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Il Tutto e la Parte
Collana di storia delle idee politiche e sociali
4.

L’elaborazione di un sapere sulla politica è orientata da una triplice aspirazio-


ne: coglierne in chiave teoretica la totalità essenziale, fissarne in schemi con-
cettuali o in regole empiriche la realtà fenomenica, trovare nell’hic et nunc
delle sue dialettiche storiche soluzioni globali e durevoli ai problemi che ne
derivano. Ma alla domanda di totalità come meta della riflessione politica e
sociale hanno risposto e rispondono risultati inesorabilmente parziali. Nella
tensione fra totalità e parzialità, fra generale e particolare, fra collettivo e in-
dividuale, fra «pubblico» e «privato» si è costituita la storia sociale dell’uma-
nità e si dibatte la storia personale dell’uomo. Una tensione mai risolta e pro-
babilmente insolubile, che caratterizza in modo specifico lo svolgimento del
pensiero politico e sociale e la sua stessa storiografia. Anche quest’ultima, co-
me ogni altra, vorrebbe cogliere la totalità del suo oggetto. E come ogni altra
non può sfuggire al suo destino di parzialità e incompiutezza. Come ogni al-
tra resta (perché scandalizzarsene?) in qualche misura «di parte». Ma con in
più una tematica centrale: quella dei mille rapporti, in politica e nella rifles-
sione politica, fra «tutto» e «parte». Di qui il titolo di questa collana, che nul-
l’altro potrà fare se non accogliere e raccogliere parti e frammenti di una sto-
ria delle idee politiche e sociali, ma che cercherà per quanto possibile di
allargare e spezzare ogni cerchio, di differenziare e moltiplicare presenze
e provenienze, di aprirsi alle infinite,
. e libere,
direzioni verso la Totalità
Il Tutto e la Parte
Collana di storia delle idee politiche e sociali
diretta da Anna Maria Lazzarino Del Grosso
e Maria Antonietta Falchi Pellegrini

1. Pier Paolo Petrini, José Carlos Mariátegui e il socialismo moderno,


[con una «Presentazione» di Anna Maria Lazzarino Del Grosso],
1995, pp. 586.
2. Maria Antonietta Falchi Pellegrini, Libertà e dominio nella teoria
critica di Max Horkheimer [In preparazione].
3. Marco Ferrari, La destra francese tra controrivoluzione e orléani-
smo: Joseph Fiévée (1767-1839) [In preparazione].
4. Stefano Visentin, La libertà necessaria. Teoria e pratica della demo-
crazia in Spinoza, 2001, pp. 482.
UN LIBRO È UN LIBRO

C’è una legge dello Stato che punisce coloro che fotocopiano o mi-
crofilmano i libri senza autorizzazione. Una legge che non è solo italia-
na. Una legge di cui già molti editori si sono serviti per difendere i
propri diritti.
Ma al di là di questa legge, anzi al di là di tutte le leggi del diritto,
c’è la legge dell’etica. E l’etica comanda di riconoscere che il libro, in
quanto frutto di un lavoro comune tra l’autore e l’editore, in quanto
patrimonio di una memoria storica e di una cultura sempre viva, non
può e non deve morire.
Coloro che fotocopiano un libro, ne vogliono la fine. E forse non lo
sanno, o fingono di non saperlo. Colpevoli, comunque. Colpevoli di-
nanzi a quel tribunale del mondo che mai ergendosi a giustiziere, e
mai utilizzando il diritto come strumento di rivalsa o di rancore, pre-
suppone l’onestà nei costumi e la dignità di ogni lavoratore.
Il resto, ancora una volta, è silenzio.

Volume pubblicato con un contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche.


Una parte della ricerca confluita in questo volume è stata svolta
grazie al contributo dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

© Copyright 2001
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
e-mail edizioniets@tin.it
www.edizioniets.com

Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN 88-467-0272-7
Stefano Visentin
LA LIBERTÀ NECESSARIA
TEORIA E PRATICA DELLA DEMOCRAZIA IN SPINOZA

EDIZIONI ETS
Introduzione
LA LIBERTÀ NECESSARIA. TEORIA E PRATICA DELLA DEMOCRAZIA
IN SPINOZA

«Una cosa ho imparato, pensò Yakov. Non esiste


un uomo non politico, specialmente un ebreo. Non
puoi essere l’uno senza esser l’altro, è chiaro. Non
puoi assistere con le mani in mano alla tua distruzione.
Più avanti, pensò: dove non c’è lotta per la libertà,
non c’è libertà. Che cosa dice Spinoza? Se lo Stato agi-
sce in maniera incompatibile con la natura umana, il
male minore è distruggerlo».
da L’uomo di Kiev, di Bernard Malamud

Soltanto nell’ultimo secolo la riflessione politica spinoziana è


diventata oggetto di indagini sistematiche e autonome, dopo
essere rimasta a lungo schiacciata da un interesse sempre rin-
novato per il sistema metafisico dell’Etica, piuttosto che dal di-
battito intorno all’apparente contraddizione dell’ ‘ateismo vir-
tuoso’ di Spinoza (per usare la definizione di Pierre Bayle). A
partire dagli studi di autori come Menzel e Gebhardt in Ger-
mania, Meijer in Olanda, Adelphe in Francia, o infine Pollock
in Inghilterra, si è fatta via via strada la consapevolezza – raf-
forzatasi grazie agli interventi apparsi nei decenni successivi –
della rilevanza di questo aspetto del pensiero spinoziano sia al-
l’interno dell’impianto complessivo della sua filosofia, sia in re-
lazione alla genesi della concettualità politica seicentesca, cosic-
ché è ormai evidente che tanto il Trattato teologico-politico
quanto il Trattato politico si inseriscono a pieno titolo in quel
processo di laicizzazione del potere e di costruzione di una
nuova sovranità che definisce in ambito politico la nascita della
modernità – benché ancora oggi vi siano letture molto differen-
ziate intorno al modo specifico di tale inserimento e al suo va-
lore. Inoltre, a partire dagli anni ’60, si è sviluppato, soprattut-
to in ambito olandese (si pensi agli scritti di Kossmann e di Ro-
wen e, più recentemente, a quelli di Haitsma-Mulier e di
10 La libertà necessaria

Blom), un filone di indagine volto a istituire un collegamento


tra i due trattati spinoziani e le dottrine politiche delle Provin-
ce Unite nel XVII secolo. Questi lavori, affiancandosi ai nuovi
risultati delle ricerche biografiche e delle analisi del contesto
storico, hanno evidenziato non solo l’esistenza di numerosi
contatti tra Spinoza e personaggi di rilievo del mondo politico
– anche se magari soltanto per discussioni di carattere filosofi-
co o scientifico –, ma, più in generale, un interesse tutt’altro
che marginale del filosofo per gli avvenimenti storici del suo
paese. Il fatto che poi, nel corso del Seicento, la Repubblica
delle Province Unite dei Paesi Bassi raggiunga in brevissimo
tempo una potenza economica straordinaria, dando vita a una
società estremamente dinamica e avanzata, ma anche solcata da
profonde tensioni politiche, rende ancora più interessante ap-
profondire il significato dell’attenzione spinoziana per la con-
tingenza storica.
Da un lato, quindi, è ormai stato assodato che Spinoza cono-
sce attentamente e utilizza – con modalità e finalità che restano
comunque da chiarire – l’apparato concettuale del pensiero
contrattualista moderno presente nelle opere dei principali
pensatori politici dell’epoca, da Grotius a Hobbes; opere che
egli spesso possiede, e talvolta, seppure di rado, cita esplicita-
mente. Dall’altro lato, la partecipazione alla dimensione ‘alta’
del dibattito politico è accompagnata e quasi filtrata da un’os-
servazione attenta dello scontro ideologico che si svolge nelle
Province Unite tra le opposte fazioni, il cui esito non è privo di
conseguenze per l’esistenza stessa del filosofo di Amsterdam,
che perciò non può certo considerarne con animo distaccato
gli sviluppi. Può allora accadere che, di volta in volta, nelle di-
verse interpretazioni del suo pensiero politico venga privilegia-
to il confronto serrato con i capisaldi teorici del giusnaturali-
smo moderno, a discapito dei legami con le circostanze storico-
politiche dell’epoca; o che invece si preferisca insistere sulla
contestualizzazione della politica spinoziana, interpretandola
come una proposta di intervento nel dibattito olandese, magari
più consapevole e smaliziata di altre, ma comunque nettamente
distinta dalla prospettiva metafisica dell’Etica. Tuttavia, in en-
trambi i casi, emergono non poche difficoltà interpretative, ad
Introduzione 11

esempio quando si voglia confrontare la proposta teorica spi-


noziana con quella hobbesiana senza conoscere le modalità
della ricezione del pensiero di quest’ultimo in Olanda, e il suo
‘utilizzo’ all’interno delle dispute tra sostenitori del partito re-
pubblicano e difensori della casa degli Orange; oppure quando
si cerchi di comprendere il senso dell’emendazione delle pro-
poste politiche dei fratelli De la Court operata nel Trattato poli-
tico, senza aver precedentemente riconosciuto l’intima connes-
sione tra la dottrina dello jus naturale ivi presente e la struttura
ontologica del Deus sive Natura. Si potrebbero elencare nume-
rosi altri aspetti problematici di una lettura unilaterale dell’o-
pera politica di Spinoza; più importante è però cogliere come i
due piani ermeneutici possano essere tenuti insieme in maniera
armonica, e fatti interagire; come cioè sia possibile trattarli uni-
tariamente. In concreto, si tratta di individuare la connessione
esistente tra l’attenzione di Spinoza per la situazione politica
olandese e la collocazione della sua riflessione nel panorama
della storia del pensiero politico, in particolare dentro la corni-
ce della nascente concettualità moderna; quella concettualità
che genera un’antropologia rigorosamente individualistica e
una teoria politica fondata sull’alienazione dei diritti naturali
attraverso il contratto sociale, operando uno scarto radicale ri-
spetto all’epoca precedente.
Nei confronti del nuovo apparato teorico che il XVII secolo
viene montando, e al quale corrisponde un mutamento altret-
tanto radicale delle coordinate materiali della realtà politica, so-
ciale ed economica, la riflessione politica di Spinoza si colloca
in una prospettiva complessa, al punto che – va ripetuto – non
vi è accordo in materia tra gli studiosi. È certo possibile ricon-
durre l’anomalia della posizione spinoziana anche alle caratteri-
stiche peculiari dell’Olanda del Secolo d’Oro, a quella potente
energia espansiva e libertaria che attraversa la società olandese,
manifestandosi tanto nella proliferazione delle sette e delle fedi,
alla quale le autorità non possono reagire se non con una politi-
ca di eccezionale (almeno per l’epoca) tolleranza, quanto nell’i-
nadeguatezza della costituzione formale ai repentini mutamenti
dei rapporti di potere tra le diverse componenti sociali; una for-
za che scardina ogni principio tradizionale di legittimazione,
12 La libertà necessaria

ma che al tempo stesso rilutta a farsi rinchiudere in una nuova


forma, come quella dell’assolutismo monarchico che si sta pro-
filando all’orizzonte. Ma se, ancora una volta, le circostanze sto-
riche sono un elemento imprescindibile, questo accade perché
nella filosofia di Spinoza è presente un’esigenza che le rende ta-
li; ossia, perché, nel profondo della sua costruzione teorica,
opera un principio che spinge urgentemente verso la dimensio-
ne pratica. Negli ultimi due decenni alcuni importanti lavori (in
particolare quelli di Negri in Italia, e di Balibar, Macherey e To-
sel in Francia) hanno contribuito a mettere in evidenza – sep-
pure da prospettive differenti, e con diversi esiti – il radicamen-
to del progetto politico spinoziano nella struttura metafisica del
suo pensiero, al punto che è ormai impossibile riconoscere i
tratti peculiari del primo senza operare dei precisi riferimenti
alla seconda. Ma da questi studi è emersa, sebbene in misura
meno evidente, anche un’ulteriore consapevolezza a proposito
del nesso esistente tra politica e ontologia, la quale non si limita
a rintracciare i fondamenti dell’una nell’altra, bensì evidenzia
come l’apertura alla dimensione storica costituisca l’esito neces-
sario dell’impianto metafisico spinoziano. Di conseguenza, l’at-
tenzione del filosofo di Amsterdam nei confronti delle trasfor-
mazioni sociali e dello scontro ideologico che avvengono nelle
Province Unite, la sua volontà di intervenire nel dibattito teolo-
gico-politico come la ricerca di alleanze con i settori più avan-
zati del patriziato cittadino olandese, in breve, la sua partecipa-
zione agli avvenimenti del suo paese e dell’intera Europa (e ba-
sterebbe leggere l’epistolario per rendersi conto che l’immagine
di uno Spinoza isolato nel suo laboratorio ottico è una figura
mitologica) derivano necessariamente dall’orientamento della
sua ricerca filosofica, e costituiscono un momento essenziale
della costruzione del suo sistema.
La filosofia di Spinoza è intrinsecamente ‘votata’ alla prassi,
poiché è il principio metafisico della Natura, che è potenza in-
finita e infinita attività causale, a determinare l’essenza dei sin-
goli individui secondo una prospettiva dinamica e produttiva;
il che significa, nel caso dell’uomo, secondo una prospettiva
etica. Lo stesso titolo dell’opera principale di Spinoza – Ethica
ordine geometrico demonstrata – manifesta l’inseparabilità del
Introduzione 13

piano etico da quello ontologico, secondo un duplice aspetto:


da una parte perché non è possibile costruire un percorso di li-
berazione dell’uomo dall’asservimento passionale senza prima
aver riformulato il significato dei concetti metafisici tradiziona-
li, cancellando ogni traccia di finalismo e di antropomorfismo
dalla definizione del Deus sive Natura; ma dall’altra perché è
proprio la ridefinizione di questi concetti a chiamare in causa
l’uomo e il suo agire, legandolo indissolubilmente ai destini
dell’intero universo: non c’è potenza della Natura se non nelle
espressioni determinate dei suoi modi, non c’è essenza divina
se non nel dispiegarsi esistenziale – e quindi sempre problema-
tico, quando non contraddittorio – dell’agire (e del patire) dei
singoli individui naturali. La distinzione tradizionale tra teoria
e prassi si fa quindi molto sottile, per non dire che quasi scom-
pare. Di certo in Spinoza l’agire – in ambito etico come in
quello politico – non è semplicemente il risultato meccanico
dell’applicazione di principi assolutamente certi e aprioristica-
mente definiti; piuttosto, esso si sviluppa dall’idea che non esi-
ste uno spazio teorico che non sia anche già immediatamente
pratico: ogni sguardo sull’universo – e in particolare sulle cose
umane – è sempre anche una modificazione che viene apporta-
ta a quest’ultimo (e, nel contempo, tanto all’oggetto quanto al
soggetto dell’osservazione).
Si può comprendere meglio la connessione indissolubile di
teoria e pratica attraverso il riferimento al ‘metodo’ spinoziano,
che costituisce l’oggetto del Trattato sull’emendazione dell’in-
telletto. È stato Pierre Macherey a evidenziare, in Hegel ou Spi-
noza, la netta, benché implicita, contrapposizione tra Spinoza e
Descartes per quanto riguarda la definizione del metodo: per il
filosofo olandese, infatti, il metodo non precede la conoscenza
vera, bensì esprime il risultato di un processo conoscitivo natu-
rale, che emerge spontaneamente dalle condizioni effettive del-
l’esistenza umana. Questo conduce a una perdita di valore del
metodo stesso, che viene privato della funzione, attribuitagli da
Descartes, di garanzia «giuridica» del procedimento conosciti-
vo: non c’è un ordine teorico che preesiste al momento della
produzione concreta del conoscere, giudicando della validità
dei singoli atti della conoscenza (ovvero: non c’è una teoria che
14 La libertà necessaria

precede e determina la prassi), ma esiste invece un ordo geome-


tricus che esprime il movimento reale del pensiero, nell’esatto
istante in cui esso si produce. Per questo secondo Spinoza il
metodo altro non è se non l’idea dell’idea, ovvero la consape-
volezza che accompagna il processo di produzione delle idee
vere. Né sussiste la possibilità di istituire un criterio universale
che certifichi la validità del percorso di emendazione dell’intel-
letto, poiché esso sarebbe inevitabilmente trascendente rispetto
allo svolgersi di quest’ultimo: il problema del cominciamento,
che conduce a una regressione all’infinito, o alla postulazione
di un Dio garante, è fatto cadere da Spinoza come un proble-
ma fittizio (il che non toglie che si debba comprendere perché
esso comunque appare reale agli occhi di molti), dal momento
che la realtà effettuale – per usare un termine machiavelliano –
indica chiaramente che, comunque, gli uomini pensano e ope-
rano nel mondo, entrano in relazione e, sebbene con difficoltà
e non senza fraintendimenti, comunicano tra loro.
L’esplicito rifiuto spinoziano di ricondurre a un piano di tra-
scendenza il fondamento della conoscenza umana si appoggia
sull’antropologia dell’Etica e dei due trattati: l’uomo non è, e i
testi spinoziani lo ripetono spesso, un imperium in imperio, non
ha cioè la costituzione gerarchica e fondamentalmente statica di
un ordinamento politico (una costituzione che, in realtà, è del
tutto immaginaria anche per uno Stato). Per questo la ragione
non può essere concepita come un principio d’ordine e di gui-
da, alla stregua del sovrano di una monarchia assoluta, al quale
l’elemento corporeo – i sudditi – è sottomesso senza riserve;
piuttosto, razionalità e affettività stanno in un rapporto di con-
tinuità dinamico e immanente, nel quale la ragione pienamente
dispiegata si colloca alla fine, e non all’inizio del processo. In tal
senso, se la razionalità mantiene comunque una valenza univer-
sale, ciò accade non perché essa sia pienamente sviluppata in
tutti gli uomini, bensì perché ognuno, secondo la propria pecu-
liare complessità naturale, è dotato della capacità di pensare:
homo cogitat, come afferma l’assioma II della seconda parte
dell’Etica. Il che significa che in ciascun uomo sono presenti le
condizioni necessarie per procedere, attraverso un processo di
emendazione che è sempre anche collettivo, nel potenziamento
Introduzione 15

della propria facoltà raziocinante, senza rinnegare la propria


costituzione affettiva. Da questa intima connessione di ragione
e affettività consegue la conferma decisiva del nesso indisgiun-
gibile tra teoria e prassi, poiché, nel momento in cui l’osservato-
re della natura umana individua questo legame negli altri uomi-
ni, non può che riconoscerne la presenza anche in se stesso,
scoprendo, di conseguenza, la necessità non più solo teorica
(cioè astrattamente razionale), ma anche pratica (ossia affettiva
ed esistenziale) della sua indagine: ancora una volta, la realtà di
una collettività umana non può essere oggetto di uno sguardo
disincantato e scisso da essa, ma è anche costituita da quello
sguardo. Il «teorico» della politica è inevitabilmente legato alle
vicende della comunità che egli osserva, implicato senza possi-
bilità di fuga nello sviluppo della storia del suo paese; e, ovvia-
mente, legato con un doppio filo ai processi di emancipazione e
di liberazione (o di assoggettamento) della società e dei suoi
concittadini.
Teoria e pratica, dunque, costituiscono una dicotomia fitti-
zia, soltanto immaginaria, poiché in realtà l’analisi teorica che
si sviluppa nei due trattati politici, e che manifesta a ogni passo
il proprio debito con le pagine dell’Etica – non soltanto quelle
dedicate all’uomo, ma anche nei confronti della prima parte,
del De Deo –, esprime la verità di un procedimento razionale
nel momento in cui propone delle misure concrete adeguate al-
la situazione contingente: l’insistenza sul nesso tra la pace della
Repubblica e la libertà di pensiero nel caso del Trattato teologi-
co-politico, la volontà riformatrice in senso democratico delle
istituzioni dopo la crisi del 1672 nel Trattato politico. Sono le
stesse circostanze storiche a richiedere tali soluzioni: quindi
nessun progetto utopico, ma il riconoscimento della realtà ef-
fettuale, della potenza determinata che una collettività è in gra-
do di esprimere, in un preciso momento della sua esistenza.
Per questo la conoscenza da parte di Spinoza del dibattito poli-
tico e religioso olandese, e anzi la sua partecipazione ad esso,
per quanto marginale, sono parte integrante della costruzione
del suo sistema filosofico, che non è, come vuole una lunga tra-
dizione storiografica, l’opera di un pensatore isolato dal mon-
do, che trascorre i suoi giorni a molare lenti e a osservare il
16 La libertà necessaria

combattimento tra i ragni e le mosche (come raccontano le pri-


me biografie); Spinoza è invece noto nei circoli intellettuali
olandesi per la sua fama di libero pensatore; è uno studioso co-
nosciuto in Europa, al punto da ricevere l’offerta di una catte-
dra presso l’Università di Heidelberg (ma è anche sufficiente-
mente indipendente da rifiutarla); è un pensatore a cui il giova-
ne Leibniz si rivolge indirizzando la propria missiva al «cele-
berrimo medico e profondissimo filosofo», e con il quale
Henry Oldenburg, uno dei fondatori della Royal Society, in-
trattiene una lunga comunicazione epistolare; infine, la sua spe-
culazione è al centro dell’attenzione di numerosi personaggi ri-
levanti del mondo culturale olandese, studiosi della filosofia
cartesiana o membri delle sette cristiane che proliferano nel
paese. In breve, Spinoza vive con piena consapevolezza la so-
cietà del suo tempo e, pur non rinunciando alle proprie idee,
decisamente controcorrente e per questo assai pericolose, tenta
in tutti i modi possibili di stringere rapporti di collaborazione
con chi gli appare più vicino alle sue proposte filosofiche e ai
suoi progetti politici; in particolare, con i gruppi religiosi etero-
dossi più tolleranti e i politici maggiormente consapevoli dei
mutamenti in corso.
L’apertura costitutiva della filosofia spinoziana alla dimen-
sione storica (che è altro modo per indicare la coimplicazione
di teoria e prassi presente in essa) si manifesta con la massima
evidenza nel carattere intrinsecamente democratico della sua
riflessione politica. Con questo non si intende fare riferimento
semplicemente al riconoscimento da parte di Spinoza dell’ec-
cellenza della democrazia rispetto agli altri regimi, ovvero di
quella organizzazione politica in cui, come afferma il Trattato
politico, la cittadinanza è stabilita dalla legge, e con essa il dirit-
to di accedere alle cariche pubbliche e di tenere il governo del
paese; piuttosto, si vuole sottolineare la presenza di un princi-
pio ontologico, e conseguentemente antropologico, che fonda
la necessaria democraticità di ogni società politica. Per poter
sostenere adeguatamente una simile affermazione è necessario
non restare ancorati al puro riscontro terminologico, ma pren-
dere spunto da esso per ricercare nel testo spinoziano le fila di
un ragionamento che si snoda non solo attraverso, ma anche
Introduzione 17

nonostante l’apparato linguistico dell’epoca; un’epoca che va


ormai sostituendo il lessico precedente con uno interamente
nuovo, ma non ancora compiutamente formato. Infatti la storia
del concetto di democrazia vede all’opera, nel corso del XVII
secolo, la dissoluzione della tradizione classica, che si concre-
tizza nella graduale perdita di centralità da parte della teoria
aristotelica delle forme di governo, sostituita dall’elaborazione
giusnaturalistica del principio della sovranità popolare. Si trat-
ta allora di valutare la possibilità di individuare, al cuore della
metafisica spinoziana, i fondamenti di un pensiero politico in-
novativo, ma non per questo, come è già stato detto, scisso da
un’attenta osservazione della realtà, e anzi pienamente corri-
spondente ad essa. L’uso del termine ‘democrazia’ può appari-
re limitativo, se rapportato alla prospettiva di dare conto di un
complesso di suggestioni che riguardano l’essenza della comu-
nità umana, e perfino la costituzione dell’individualità, trascen-
dendo quindi l’ambito statuale, nel quale soltanto sembrerebbe
potersi intendere il significato di un pensiero democratico;
nondimeno nessun altro concetto, per quanto concepito al
massimo della sua estendibilità, è in grado di assumere in mo-
do più efficace gli esiti di questa riflessione, che conduce al ri-
conoscimento della piena immanenza del potere all’intera mol-
titudine degli individui associati nel costituire lo Stato, e della
conseguente intrascendibilità dei limiti naturali che ciascun
membro di questa aggregazione possiede; limiti che, per quan-
to producano momenti di separatezza e di conflitto, costitui-
scono comunque l’unico principio di determinazione dello spa-
zio comune della collettività. Si tratta quindi di svolgere ade-
guatamente il contenuto politico implicito di un’ontologia che
fa della potenza della moltitudine la sola forza in grado di dare
corpo in ogni istante all’agire politico.
La concezione spinoziana dell’humana societas poggia su
due fondamenti metafisici: l’assoluta uguaglianza di tutti gli uo-
mini, fondata a sua volta sull’universalità del carattere passio-
nale e immaginativo della natura umana; ma anche la capacità
costituente, e non semplicemente la carenza o l’imperfezione,
degli affetti umani, i quali esprimono la tendenza del singolo a
riprodurre le condizioni della propria vita, e anzi a incremen-
18 La libertà necessaria

tarne la stabilità. Non che Spinoza tratteggi una visione idillia-


ca o pienamente pacificata dell’esistenza; al contrario, è del tut-
to assente nella sua riflessione l’idea di un mondo in cui le con-
traddizioni ed i conflitti giungano a una risoluzione spontanea-
mente, come per un’armonia naturale. Infatti in ogni momento
dell’agire umano, e in particolare di quello che si caratterizza
nella relazione con gli altri uomini, è implicita la condizione
strutturale di ogni modo finito, ovvero l’inevitabile determina-
tezza – e quindi, almeno parzialmente, la passività – di fronte
alla potenza illimitata dell’intero universo. La deduzione neces-
saria della politica dalla metafisica non elimina il rischio dell’a-
gire, ma neppure carica sul singolo una responsabilità insoste-
nibile, poiché egli opera comunque all’interno delle leggi natu-
rali che lo definiscono, né può alunché al di fuori di esse: cia-
scuno diventa responsabile di ciò che è, riconoscendo però che
il suo essere è sempre anche l’essere di quanto gli sta attorno.
Sulla base di questa intuizione filosofica il principio democrati-
co si salda con la libertà: l’attiva potenza che si manifesta in
ogni individuo – anche nel folle o nell’idiota – e che lo rende
letteralmente insostituibile all’interno di una comunità, perché
il suo posto non può essere preso da nessun altro, dal momen-
to che la sua potenza è incedibile, lega il destino del singolo a
quello della collettività: la possibilità per ciascuno di essere li-
bero – ovvero di raggiungere un grado di autonomia tanto ma-
teriale quanto intellettuale sufficiente a controbattere gli aspetti
negativi dell’esistenza – si identifica con lo sviluppo della liber-
tà di tutti gli altri.
La democrazia è dunque, prima di tutto, potenza dell’essere:
forza naturale, energia necessaria, libertà irrinunciabile e insop-
primibile. Non è casuale che l’intera filosofia di Spinoza abbia
nella radicale riformulazione dei concetti di libertà e di necessi-
tà uno dei suoi momenti decisivi, e che questo appaia con la
massima chiarezza proprio all’altezza della riflessione politica,
dove lo studioso e il cittadino coincidono pienamente, e l’opera
del pensatore manifesta la propria intenzione di incidere sulla
realtà. Allora il filosofo Spinoza diventa un tassello necessario
del processo di emancipazione della collettività in cui vive; la
democrazia è da lui, più che teorizzata, vissuta come una liber-
Introduzione 19

tà necessaria, che immane al suo essere e, al tempo stesso, a


quello dei suoi concittadini. Ognuno si trova infatti a fronteg-
giare l’ostacolo della finitezza, propria ed altrui, delle passioni
che disgregano i rapporti interindividuali e spingono gli uomini
gli uni contro gli altri: le cause della superstizione in campo re-
ligioso, della tirannide in quello politico, di una vita confinata
tra la paura degli altri e quella che agli altri si incute. Spinoza
sa bene, per esserne stato vittima lui stesso, di che genere sia la
‘forza impotente’ – perché in realtà di debolezza si tratta – del-
la violenza e dell’ideologia, la rintraccia e la combatte tanto in
campo religioso, quanto in quello politico. Ma egli sa anche di
non essere solo in questa lotta: è a conoscenza delle pratiche di
culto dei Collegianti, che rifiutano ogni gerarchia ecclesiatica e
si attengono al più scrupoloso egalitarismo; legge i testi dei di-
fensori della tolleranza religiosa, così come le opere politiche
dei fratelli De la Court, esponenti del partito repubblicano nel-
l’Olanda di metà secolo, magari anche per prenderne le distan-
ze, ma pur sempre con l’intenzione di cogliere dal mondo in
cui vive l’emergenza della forza di un popolo che sta assapo-
rando una libertà da poco conquistata, e di cui percepisce, for-
se solo inconsciamente, il significato. Senza proporre miracolo-
se soluzioni o utopie irrealizzabili, ma anche senza passare il
tempo a deprecare la malvagità dell’uomo, Spinoza porta co-
raggiosamente il suo contributo di uomo di studio alla causa
dellla democratizzazione del suo paese; certo di non poter so-
stituire, con le sole forze di cui dispone, la potenza delle molti-
tudine dei suoi concittadini, sulla quale si fonda la possibilità
stessa che si dia uno Stato, ma convinto, al tempo stesso, che
l’unico modo di essere liberi sia di esprimere in ogni istante la
propria naturale libertà.

Numerose persone mi hanno aiutato a portare a termine


questo lavoro, e a loro devo un sincero ringraziamento. Deside-
ro innanzitutto ringraziare la Prof. Anna Maria Lazzarino Del
Grosso, che ne ha seguito pazientemente l’intero sviluppo, pri-
ma come mia tutor durante il dottorato di ricerca in Storia del
pensiero politico e delle istituzioni politiche presso il Diparti-
mento di Studi politici di Torino, e poi come direttrice di que-
20 La libertà necessaria

sta collana; un grazie va inoltre alla Prof. Lea Campos Boralevi,


al Dr. Wiep van Bunge e al Dr. Hans W. Blom, che hanno letto
e discusso, in diversi momenti, i risultati della mia ricerca; e
inoltre al gruppo di ricerca sulla storia dei concetti politici, co-
ordinato dal Prof. Giuseppe Duso presso il Dipartimento di
Filosofia dell’Università di Padova: ringrazio in particolare
Adone Brandalise, Stefano Ganis, Maurizio Merlo, Mario Pic-
cinini, Fabio Raimondi e Maurizio Ricciardi, oltre al Prof. Fer-
ruccio Gambino, del Dipartimento di Sociologia di Padova.
Un grazie, infine, a mia moglie Mariasilvia. Dedico questo libro
ai miei genitori.
Capitolo Primo
LE CIRCOSTANZE DELLA COMPOSIZIONE
DEL TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO

1. La filosofia minacciata
È dallo scambio epistolare tra Spinoza e Henry Oldenburg
che emergono le prime notizie attorno alla stesura del Trattato
teologico-politico e ai motivi che inducono il filosofo olandese a
comporlo. In una lettera del 16651, infatti, lo scienziato tedesco
emigrato in Inghilterra, dove fu tra i fondatori della Royal So-
ciety, manifesta una grande curiosità per gli sviluppi del nuovo
lavoro dell’amico, nel quale la ricerca filosofica tocca l’ambito
della teologia, fino quasi a confondersi con essa: «Vedo che voi,
più che filosofando, state se così è lecito dire, teologizzando,
con le vostre meditazioni intorno agli angeli, alle profezie e ai
miracoli»2. Il riferimento all’orizzonte teologico, che tanto inte-
resse muove in Oldenburg, indica l’apertura di un nuovo spa-
zio d’indagine, a fianco (ma anche in simbiosi) del graduale
processo di maturazione del sistema filosofico spinoziano, de-
stinato a confluire nell’Etica. Si tratta di una ricerca «intorno al

1 Si tratta della lettera XXIX, scritta tra il 4 settembre (data di una lettera inviata
da Spinoza ed andata perduta) ed il 12 ottobre 1665 (data della lettera XXXI). L’epi-
stolario spinoziano è nel IV volume degli Opera, ed è stato integralmente tradotto in B.
SPINOZA, Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino, 1974 (I ed. 1951).
2 Opera, IV, p. 165 (trad. it. p. 162). Un’analisi della ricezione del Trattato teologi-
co-politico da parte di Oldenburg è presente in E. CURLEY, Homo audax. Leibniz, Ol-
denburg and Theological-political Treatise, in «Studia Leibnitiana Supplementa»,
XXVII, 1990, pp. 277-312, nonché in S. HUTTON, Henry Oldenburg (1617/20-1677)
and Spinoza, in L’hérésie spinoziste. La discussion sur le Tractatus theologico-politicus,
1670-1677, e la réception immédiate du spinozisme, atti del Convegno internazionale di
Cortona, 10-14 aprile 1991, a cura di P. Cristofolini, APA – Holland University Press,
Amsterdam & Maarssen, 1995, pp. 106-19.
22 La libertà necessaria

mio modo di intendere la Scrittura»3, afferma lo stesso Spino-


za, aggiungendo subito dopo le motivazioni di una tale scelta:
a farlo mi muovono: 1) i pregiudizi dei teologi, perché so che essi più
d’ogni altra cosa impediscono agli uomini di applicare il loro intelletto al-
la filosofia, e mi propongo perciò di svelarli e di rimuoverli dalla coscien-
za dei saggi; 2) l’opinione che di me ha il volgo, il quale non cessa di di-
pingermi come ateo, onde mi vedo costretto a rintuzzarla per quanto mi è
possibile; 3) la libertà di filosofare e di dire quello che sentiamo; libertà
che io intendo difendere in tutti i modi contro i pericoli di soppressione
rappresentati ovunque dall’eccessiva autorità e petulanza dei predicatori4.

La difesa della libertas philosophandi dicendique quae senti-


mus, quindi della libertà del filosofo e, insieme, del cittadino
che intende manifestare le proprie idee, deve confrontarsi con
una duplice minaccia, che provenendo da due direzioni appa-
rentemente contrapposte converge nel determinare un rischio
continuo per chi non si adegua all’ideologia dominante: l’opi-
nio vulgi e i prejudicia theologorum, in realtà, sono le due facce
di una stessa medaglia, di un meccanismo sociale che alimenta
l’ignoranza come decisivo instrumentum auctoritatis.
Espulso ventiquattrenne dalla comunità ebraica di Amster-
dam nella quale era cresciuto, e costretto ad abbandonare la
sua città natale per un piccolo paesino vicino a Leiden prima, e
per una dimora nei dintorni di L’Aia poi, Spinoza non può non
aver maturato una sensibilità tutta particolare per le persecu-
zioni delle minoranze eterodosse e dei liberi pensatori; e si po-
trebbe aggiungere, a supporto di questa ricostruzione delle in-
fluenze biografiche ed ambientali sullo sviluppo del suo pensie-
ro, l’origine sefardita, gli antenati fuggiti dalla Spagna prima e
dal Portogallo poi, e ancora, su un altro versante, la significati-
va componente marrana – cioè di coloro che, per salvarsi dal-
l’Inquisizione, avevano pubblicamente abiurato la propria fe-
de, conservandola però segretamente – presente tra gli ebrei di
Amsterdam, che aveva alimentato il sorgere di figure emblema-
tiche come quella di Uriel Da Costa, morto suicida dopo aver
subito quello herem che sedici anni più tardi avrebbe toccato
3 «Compono jam tractatum de meo circa scripturam sensu» (lettera XXX, in
Opera, IV, p. 166; trad. it. p. 164).
4 Ibid.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 23

anche Spinoza5.
Ma dalla lettera a Oldenburg emergono anche i segni di un
atteggiamento nei confronti della contingenza storica ben di-
verso dall’impegno che il passo citato in precedenza sembrava
suggerire; poche righe sopra, infatti, riflettendo sulla sanguino-
sa guerra in corso tra le Province Unite dei Paesi Bassi e l’In-
ghilterra, Spinoza afferma: «Quanto a me, invece, queste masse
armate non mi fanno né ridere, né piangere, ma piuttosto mi
muovono a filosofare e a osservare più attentamente la natura
umana»6. Si tratta dell’enunciazione succinta di un programma
metodologico che verrà ripreso e di fatto confermato sia nell’E-
tica, sia nel Trattato politico7, e che, a una prima lettura, sembra
invitare a prendere una chiara distanza dal fluire convulso delle
vicende degli uomini e degli Stati, per trovare invece nella me-
ditazione filosofica un rifugio sicuro. Forte è l’impressione di
un’ambivalenza del discorso spinoziano, oscillante tra l’inten-
zione di intervenire direttamente nella vita politica del suo pae-
se e il proposito opposto di isolarsi per poter raggiungere una
distanza dagli avvenimenti tale da garantire la scientificità del-
l’osservazione: un’ambivalenza che tocca il cuore della riflessio-
ne filosofica spinoziana, rivelando il tratto estremamente pro-
blematico, se non addirittura aporetico, di quella saldatura tra
libertà e necessità che rappresenta uno dei cardini della sua on-
tologia8. Da un lato, infatti, la partecipazione alla battaglia teo-

5 È stato già C. GEBHARDT, Die Schriften des Uriel da Costa,, «Bibliotheca Spino-
zana», vol. II, M. Hertzberger, Amsterdam, 1922, a riconoscere nel naturalismo di
Uriel Da Costa assonanze con la successiva filosofia spinoziana. In tempi più recenti,
oltre alla monografia di J.P. OSIER, D’Uriel da Costa a Spinoza, Berg International, Pa-
ris, 1983, cfr. G. ALBIAC, La sinagoga vacía. Un estudio de las fuentas marranas del espi-
nosismo, Hiperión, Madrid, 1987, Y. YOVEL, Spinoza and Other Heretics, vol. I: The
Marrano of Reason, Princeton University Press, Princeton, 1989, e R.H. POPKIN, Was
Spinoza a Marrano of Reason?, in «Philosophia», XX, 1990, pp. 243-46, i quali hanno
affrontato, con prospettive ed esiti peraltro assai differenti, il tema del nesso tra la spe-
culazione di Spinoza e l’universo teorico e psicologico del marranismo.
6 Lettera XXX, cit., p. 166 (trad. it. p. 163).
7 Cfr. Ethica, III, Prefazione (Opera, II, p. 138; trad. it. in SPINOZA, Etica, a cura
di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma, 1988, p. 172), e Tractatus politicus (d’ora in poi:
TP), cap. I, § 4 (Opera, III, p. 274; trad. it. in B. SPINOZA, Trattato politico, testo e tra-
duzione a cura di P. Cristofolini, ETS, Pisa, 1999, pp. 29-31).
8 «Si dice libera quella cosa che esiste in virtù della sola necessità della sua natura
24 La libertà necessaria

rica in difesa della libertà di parola implica una fiducia nella


forza della verità, nella capacità che lo smascheramento della
falsa conoscenza sia effettivamente in grado di modificare i
comportamenti individuali; in breve, essa ipotizza la libera ade-
sione da parte di ciascuno a questa o quella dottrina, e conse-
guentemente la possibilità di modificare volontariamente la
propria opinione. D’altro lato, però, vi è nelle pagine della let-
tera la percezione di una più profonda necessità che a tale li-
bertà si contrappone, cancellandola come mera illusione dai
processi che determinano le azioni umane9, come quelle di
ogni altra res naturalis, cosicché, di fronte ai meccanismi deter-
minati che sembrano regolare ogni aspetto dell’esistenza, il filo-
sofo non può che retrocedere dai suoi progetti etico-politici
nella contemplazione della potenza infinita di una natura che è
anche destino inevitabile.
La storiografia filosofica ha espresso la consapevolezza di
questo problema nella lettura hegeliana di uno Spinoza «orien-
tale», che dissolverebbe il «principio occidentale dell’indivi-
dualità» nell’infinitezza priva di forma della sostanza10. Dal
semplice tentativo di ripercorrere i tratti genealogici del Tratta-
to teologico-politico emerge un aspetto filosofico di grande rilie-
vo, che tocca l’impianto stesso della costruzione teorica spino-
ziana, rilevandone, proprio laddove se ne mostra la complessità
e la problematicità, anche la grande compattezza e pervasività,
tale per cui risulta impossibile affrontare qualsiasi scritto del fi-
losofo olandese – anche la lettera a un amico – senza rimettere
in gioco l’intero sistema. Di conseguenza l’interrogativo che la
missiva pone è duplice: innanzitutto, essa richiede che venga
e che è determinata ad agire soltanto da se stessa» (Ethica, I, definizione VII, in Opera,
II, p. 46; trad. it. p. 88).
9 Nell’Etica, d’altra parte, Spinoza sottolinea il fatto che gli uomini «ritengono di

essere liberi poiché sono consapevoli delle proprie volizioni e dei propri appetiti, men-
tre non pensano neppure lontanamente alle cause dalle quali sono disposti ad appetire
e a volere, poiché di queste cause essi sono ignari» (Ethica, I, Appendice; Opera, II, p.
78; trad. it. p. 117).
10 Cfr. G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche, ann. al § 151, citato da

P. MACHEREY in Hegel ou Spinoza, La Découverte, Paris, 1990 (I ed. Maspero, Paris,


1979), p. 25. Sull’interpretazione della filosofia spinoziana da parte di Hegel si veda,
dello stesso Macherey, anche Le Spinoza idéaliste de Hegel, in Id., Avec Spinoza. Etudes
sur la doctrine et l’histoire du spinozisme, PUF, Paris, 1992, pp. 187-97.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 25

sottoposto a questione il rapporto tra libertà e necessità, alla


luce delle implicazioni sul piano antropologico e su quello me-
tafisico riscontrabili nell’ambiguità delle affermazioni di Spino-
za; ma, al tempo stesso, e forse in intima connessione con
quanto sopra evidenziato, si manifesta l’esigenza di determina-
re la portata della relazione tra l’orizzonte ontologico dell’Etica
e quello pratico-politico del TTP; ovvero, tra la filosofia come
riflessione sull’essere e l’agire del filosofo come intervento sul
mondo11.
Che il testo spinoziano – epistolario compreso – sia inevita-
bilmente il riferimento privilegiato di una simile indagine non
toglie che alcune indicazioni, quanto meno di carattere intro-
duttivo, possano giungere da uno sguardo sulla realtà storica
nella quale vive Spinoza, al fine di cogliere le coordinate del pe-
ricolo da lui paventato. Le accuse presenti nella lettera ad Ol-
denburg verso quella «nimiam concionatorum authoritatem et
petulantiam» che mina il diritto dell’individuo a filosofare e a
esprimere le proprie opinioni, costituiscono un preciso riferi-
mento al dibattito concernente lo spazio ed il ruolo della tolle-
ranza religiosa all’interno dei nascenti Stati nazionali, dibattito
che, sviluppatosi fin dalla metà del secolo precedente, assume
un ruolo di grande rilevanza nella genesi della mentalità e delle
strutture socio-politiche dell’epoca moderna12. Decisivo è il pe-
so del confronto ideologico su questo tema nella storia delle
11 In proposito J. PREPOSIET, Sagesse et combat idéologique chez Spinoza, in Spino-

za nel 350° anniversario della sua nascita, Atti del Convegno internazionale (Urbino, 4-
8 ottobre 1982), a cura di E. Giancotti, Bibliopolis, Napoli, 1985, pp. 373-80, indivi-
dua un dualismo irriducibile nell’opera spinoziana, da una parte dedicata alla ricerca
esclusiva della salvezza personale, dall’altra costantemente interessata agli avvenimenti
politici del suo tempo e del suo paese; ma è proprio tale presunta irriducibiltà che deve
essere oggetto di un’indagine approfondita.
12 Sull’argomento la letteratura è vastissima, né questo può essere il luogo adatto

per renderne conto; ad ogni modo, sui riflessi politici della lotta per la tolleranza reli-
giosa si vedano almeno R.H. BAINTON, La lotta per la libertà religiosa [1951], Il Muli-
no, Bologna, 1963 (IV ed. 1982); M. FIRPO, Il problema della tolleranza religiosa nell’e-
tà moderna, Loescher, Torino, 1978; La liberté de conscience (XVI-XVII siècles), Atti
del Convegno di Mulhouse e Basilea (1989), a cura di H.R. Guggisberg, F. Lestrignant
e J.C. Margolin, Droz, Geneve, 1991. Indicazioni bibliografiche più ampie sono rin-
tracciabili in H. DREITZEL, Gewissensfreiheit und soziale Ordnung. Religionstoleranz als
Problem der politischen Theorie am Ausgang des 17. Jahrhunderts, in «Politische Vier-
teljahresschrift», XXXVI, 1995, pp. 3-33.
26 La libertà necessaria

Province Unite, e dell’Olanda in particolare: già nel XVI seco-


lo, infatti, la rivendicazione della libertà religiosa assume una
valenza fondamentale nella lotta per l’indipendenza dal potere
imperiale13, ma è soprattutto dopo il raggiungimento dell’auto-
nomia politica con la Tregua di Anversa (1609), successivamen-
te consolidata dalla Pace di Münster (1648)14, che la Repubbli-
ca delle sette Province Unite dei Paesi Bassi settentrionali rag-
giunge un livello di tolleranza in materia religiosa priva di egua-
li nel resto d’Europa (con la sola eccezione forse della Polonia,
almeno fino alla metà del secolo15). In particolare, nella città di
Amsterdam, grazie alla convergenza di molteplici fattori, si svi-
luppa un così alto grado di libertà di coscienza da spingere al-
cuni studiosi contemporanei ad affermare che ci si trovi di fron-
te a un fenomeno di portata più ampia della tolleranza religiosa,
ovvero al riconoscimento attivo dell’altro nella sua radicale alte-
rità16. Ad ogni modo la tolleranza religiosa si dispiega sull’inte-
ro territorio olandese, né tale fenomeno può essere ricondotto
all’incapacità del potere politico di imporre la sua autorità, co-
me nel caso dell’Editto di Nantes per la Francia (1589)17, o a
un patto di non aggressione sancito tra forze contrapposte di
eguale potenza, come era avvenuto in Polonia; piuttosto, tale
tolleranza è la conseguenza dello sviluppo di una società che
fonda il proprio benessere, se non addirittura la propria so-
pravvivenza, sull’accettazione delle diversità, tanto sul versante
delle nazionalità quanto su quello religioso (restando comun-

13 Cfr. M. VAN GELDEREN, The Political Thought of the Dutch Revolt, Cambridge

University Press, Cambridge, 1992.


14 Per una ricostruzione puntuale di questi avvenimenti si veda il lavoro di J.I.

ISRAEL The Dutch Republic. Its Rise, Greatness, and Fall 1477-1806, Oxford University
Press, Oxford, 1995, pp. 399-420, cui si rinvia anche per la bibliografia.
15 Cfr. J. TAZBIR, A State without Stakes. Polish Religious Toleration in the Six-

teenth and Seventeenth Centuries [1967], P.I.W., Warsaw, 1973.


16 Così si esprime ad esempio H. MÉCHOULAN, Amsterdam au temps de Spinoza.

Argent et liberté, PUF, Paris, 1990, p. 145. Dello stesso autore cfr. anche Une vision laï-
que du religieux, in Amsterdam XVIIe siècle. Marchands et philosophes: les bénéfices de
la tolérance, a cura di H. Méchoulan, Autrement, Paris, 1993, pp. 42-58.
17 Firpo sottolinea come tale editto costituisca una sorta di concessione di privile-

gio e di autonomia corporativa, che mescola ancora elementi premoderni al processo


di secolarizzazione della politica e di neutralizzazione delle fedi religiose (cfr. Il proble-
ma della tolleranza religiosa, cit., pp. 37 sgg.).
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 27

que vero il fatto che, soprattutto nei confronti dei cattolici, i


quali costituiscono circa un terzo della popolazione olandese,
nonché la metà di quella dell’intera Repubblica, una politica re-
pressiva avrebbe comportato dei costi enormi18).
Questa attitudine alla tolleranza trova un saldo appoggio
teorico nella tradizione irenica propria dell’umanesimo di Era-
smo da Rotterdam e Dirk Volckertsz. Coornhert, ridislocato at-
traverso la mediazione giuridica groziana, che si sviluppa a par-
tire dai primi anni del XVII secolo, dall’orizzonte individuali-
stico originario su un piano universalistico; ma è indubbio che
il principale fattore di sviluppo della libertà religiosa sia la cre-
scita economica eccezionale della regione, basata principal-
mente sull’attività commerciale e finanziaria. Il riconoscimento
e l’accettazione dell’altro, quindi, rispondono a un calcolo im-
mediato di utilità materiale per chi fonda il proprio benessere
sullo scambio di merci e sul prestito di denaro, ed è solo in
questo contesto che si inserisce, come fattore di stabilizzazione,
l’intervento delle autorità politiche locali, mirante a garantire la
competizione tra gli attori economici, difendendo un’ugua-
glianza di condizioni che implica di fatto anche il rispetto per
le differenze religiose19. Proprio l’assenza di qualsiasi forma di
dirigismo economico da parte del potere centrale, presente in-
vece nei due grandi paesi vicini, Francia e Inghilterra, rende
problematica la definizione dell’Olanda come «modello capita-
listico» per l’Europa del XVII secolo20; piuttosto, il rapporto
tra la gestione politica e l’organizzazione degli interessi mate-
riali del paese è, per l’epoca storica, del tutto originale (o, per
usare un termine che ha goduto di grande fortuna nella storio-
grafia, «anomalo»21).

18 Cfr. J.L. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century. The

Politics of Particularism, Clarendon Press, Oxford, 1994, pp. 87-8.


19 Cfr. M.T’HART, Freedom and Restrictions. State and Economy in the Dutch Re-

public 1570-1670, in The Dutch Economy in the Golden Age, a cura di K. Davids e L.
Noordegraaf, NEHA, Amsterdam, 1993, pp. 105-30.
20 Così A. THALHEIMER, Klassenverhältnisse und Klassenkämpfen in den Nieder-

landen zur Zeit Spinozas, in A. THALHEIMER, M. DEBORIN, Spinozas Stellung in der Vor-
geschichte des dialektischen Materialismus, Verlag für Literatur und Politik, Wien-Ber-
lin, 1928, pp. 11-39.
21 La tesi di un’anomalia olandese, riemersa nell’opera di A. NEGRI L’anomalia sel-
28 La libertà necessaria

Tra le diverse confessioni religiose presenti in Olanda quella


calvinista, che aveva giocato un ruolo fondamentale nell’orga-
nizzazione della ribellione al potere spagnolo, conserva una po-
sizione di privilegio, essendo condizione necessaria per accede-
re alle cariche pubbliche (ma per coloro che aderiscono ad al-
tre fedi, da quella luterana a quella cattolica, fino al variegato
panorama delle sette protestanti e alla comunità ebraica22, è
sufficiente pagare una tassa per godere di tale diritto). È vero
che il clero calvinista, attraverso i suoi rappresentanti più in-
transigenti, attua una costante pressione sui magistrati civili af-
finché limitino o proibiscano determinati culti, e che talvolta
esso riesce ad ottenere alcuni effetti, come nel 1580, quando
viene promulgato un editto contro i cattolici romani, o nel
1653, quando vittime dell’intervento politico sono invece i so-
ciniani; tuttavia, in realtà, questi divieti rimangono per lo più
inefficaci per la scarsa attenzione con la quale gli stessi magi-
strati li mettono in atto e per la quasi totale assenza di control-
lo. La produzione legislativa sembra pertanto rispondere più al
desiderio delle autorità politiche di mantenere buone relazioni
con la Chiesa di Stato, che non alla volontà di intraprendere ef-
fettivamente una campagna di limitazione della tolleranza reli-
giosa; il che si spiega con la già sottolineata attenzione da parte
dei governi olandesi per gli interessi economici del paese, la
quale impediva, ad esempio, di forzare la mano nei confronti
dei fedeli alla Chiesa di Roma, per non compromettere i rap-
porti commerciali con Francia e Italia. Né l’ambito religioso è
il solo a godere di una simile situazione: una libertà forse anco-
ra maggiore si manifesta nella diffusione della stampa che ha
luogo già a partire dal XVI secolo ad Amsterdam23, dove ven-

vaggia. Saggio su potere e potenza in Baruch Spinoza, Feltrinelli, Milano, 1981 (ora an-
che in ID., Spinoza, DeriveApprodi, Roma, 1998, pp. 21-285), è comunque già indivi-
duabile – per quanto con accentazioni assai diverse – sia in J. HUIZINGA, La civiltà
olandese del Seicento [1941], Einaudi, Torino, 1967, sia in C. WILSON, La repubblica
olandese [1968], Il Saggiatore, Milano, 1968.
22 Per una storia delle confessioni e dei movimenti religiosi in Olanda, e in partico-

lare ad Amsterdam, cfr. la monumentale opera di R.B. EVENHUIS Ook dat was Amster-
dam, 5 voll., W. Ten Have N.V., Amsterdam, 1965-1978, soprattutto i volumi II e III.
23 Cfr. MÉCHOULAN, Amsterdam au temps de Spinoza, cit., pp. 187-204, e H. BOTS-

O.S. LANKHORST, Une librairie universelle, in Amsterdam XVIIe siècle, cit., pp. 124-37.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 29

gono pubblicati libri che in nessun altro luogo avrebbero potu-


to vedere la luce, sia di carattere filosofico – dall’opera di De-
scartes a quella di Hobbes –, sia religioso – pars pro toto, la Bi-
bliotheca fratrum Polonorum, in otto volumi pubblicati tra il
1665 ed il 1668 (più un nono nel 1692), che contengono le
opere di Fausto Socino e di altri suoi epigoni. Una produzione
così cospicua alimenta il dibattito culturale e le dispute teologi-
che, ampliandone l’eco e la partecipazione, e, non va dimenti-
cato, costituisce una fiorente attività per numerosi imprenditori
cittadini.
I timori avanzati da Spinoza nella lettera a Oldenburg intor-
no all’influenza dei teologi sull’opinione comune e al pericolo
che correrebbe la libertas philosophandi in terra olandese po-
trebbero quindi sembrare eccessivi, se non addirittura infonda-
ti; tanto più che anch’egli appare consapevole dell’eccezionalità
rappresentata dalla città in cui era nato e aveva vissuto la sua
giovinezza, come prova lo stesso Trattato teologico-politico:
«Amsterdam [...] sta sperimentando con suo grande vantaggio
e con l’ammirazione di tutte le nazioni, i frutti di questa libertà.
In questa floridissima Repubblica e nobilissima città, infatti,
convivono nella piena concordia uomini di tutte le nazionalità
e di tutte le religioni»24. A Spinoza è ben presente il fondamen-
to materiale sul quale si radica il comportamento tollerante dei
suoi concittadini, ovvero il fatto che «per affidare i propri beni
a qualcuno i cittadini di questo Stato si preoccupano soltanto
di sapere se costui sia ricco o povero, o se sia solito agire in
buona o in mala fede»25, e non si curino affatto del suo credo
religioso o della sua origine. Gli spazi della libertà individuale
si allargano in perfetto accordo con lo sviluppo della ricchezza
del paese, seguono lo stesso movimento espansivo che spinge la
Compagnia delle Indie Orientali – vero e proprio Stato nello

24 Tractatus theologico-politicus (d’ora in poi: TTP), cap. XX, in Opera, III, pp.

245-6 (trad. it. in Benedetto SPINOZA, Trattato teologico-politico, introduzione di E.


Giancotti Boscherini, traduzione e commenti di A. Droetto ed E. Giancotti Boscherini,
Einaudi, Torino, 1992 (I ed. 1972). Mentre questo volume andava alle stampe è uscita
una nuova traduzione del Trattato teologico-politico, con testo latino a fronte, a cura di
A. Dini, Rusconi, Milano, 1999).
25 Ibid.
30 La libertà necessaria

Stato26 – a fondare nuovi empori nei territori d’oltremare, o


che alimenta l’enorme progresso delle scienze applicate, delle
tecniche di costruzione delle navi alla cartografia. In quest’otti-
ca la libera indagine del filosofo e dello scienziato assume un
ruolo estremamente importante nella crescita della prosperità
della società olandese, costituendo l’humus nel quale matura il
mercator sapiens, per parafrasare il titolo di una famosa orazio-
ne dell’umanista Caspar Barlaeus (1584-1648), che individua
nella compenetrazione di spirito commerciale e di virtù civica il
fondamento della fortuna olandese27.
Eppure non può essere casuale il fatto che, tra le poche ec-
cezioni al clima di tolleranza, spicchi il caso di Adriaan Koer-
bagh, libero pensatore e buon conoscente di Spinoza, condan-
nato nel 1668 dalle autorità civili di Amsterdam per i suoi scrit-
ti giudicati eretici, e morto in prigione l’anno successivo28; o,
ancora, che tra i libri censurati dalle Corti d’Olanda nella se-
conda metà del ’600 si trovi proprio il Trattato spinoziano,
messo all’indice nel 1674, insieme alla Philosophia Sacrae Scrip-
turae Interpres di Lodewijk Meyer, altro amico e corrisponden-
te di Spinoza, ed al Leviathan di Thomas Hobbes, che era stato
tradotto in olandese nel 1667 da Abraham van Berkel, a sua
volta in contatto con Koerbagh, Meyer e quasi sicuramente an-
che con lo stesso Spinoza. La condanna di Koerbagh è ricon-
ducibile alla radicalità della sua critica, che non investe soltan-
to il campo religioso, ma lo stesso principo di autorità, uscendo
così da quei limiti impliciti posti dal potere politico alla libertà

26 Cfr. R. VAN GELDER, Les Messieurs XVII, in Amsterdam XVIIe siècle, cit., pp.

82-102.
27 Cfr. H.W. BLOM, Citizens and the ideology of citizenship in the Dutch Republic:

Machiavellianism, wealth and nation in the mid-seventeenth century, in «Yearbook of


European Studies», VIII, 1995, pp. 131-52, in particolare pp. 134-5.
28 Per le notizie biografiche su Koerbagh e per un racconto dettagliato sul suo

processo si veda innanzitutto K.O. MEINSMA, Spinoza et son cercle. Étude critique histo-
rique sur les hétérodoxes hollandais [1896], a cura di P.F. Moreau ed H. Méchoulan,
Vrin, Paris, 1983, capp. IX e X. Secondo Meinsma, il destino di Koerbagh ebbe una
parte non trascurabile nella decisione di Spinoza di comporre il TTP (cfr. Spinoza et
son cercle, cit., pp. 375-7). La stessa opinione è espressa da M. FRANCÉS, Spinoza dans
le pays néerlandais de la seconde moitié du XVIIe siècle, 2 voll., Alcan, Paris, 1937, I
vol., p. 62; tuttavia occorre ricordare che nell’anno della sua condanna il TTP era già
ampiamente in fase di elaborazione.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 31

del cittadino, la quale deve restare nell’ambito delle opinioni


private – e quindi non toccare i fondamenti dell’ordine pubbli-
co – per poter godere della tolleranza. Il medesimo grado di in-
dipendenza da ogni auctoritas è praticato nelle discussioni tra
Spinoza e i suoi più stretti interlocutori, prima presso la scuola
di latino dell’ex-gesuita Franciscus van den Enden, poi nelle ri-
unioni di quel circolo spinoziano, sul quale le indagini storio-
grafiche si sono spesso soffermate, accentuandone di volta in
volta la dimensione mistico-religiosa, ovvero l’interesse filosofi-
co e scientifico29, ma riconoscendo in ogni caso la portata inno-
vativa – per non dire rivoluzionaria – degli argomenti trattati.
Quel che è certo è il fatto che non si tratta di un gruppo di stu-
diosi isolati dal mondo; al contrario, sia Spinoza sia molti dei
suoi amici mantengono contatti con gli esponenti della nuova
filosofia cartesiana, che conosce in terra olandese un enorme
interesse30, e con il frastagliato universo delle sette religiose
olandesi e inglesi.
Nei confronti di chi assume un atteggiamento così appassio-
natamente votato alla ricerca e alla messa in questione di ogni
principio di autorità, anche i tolleranti Stati Generali d’Olanda
si trovano in aperta difficoltà, e non solo per l’interesse a non
far precipitare i rapporti con il clero calvinista. Emerge piutto-
sto un’esigenza implicitamente contraddittoria, segnata dalla
necessità di concedere ai sudditi margini sempre più ampi di
autonomia, poiché da essa trae origine la prosperità del paese,
ma nel contempo di salvaguardare un ordine costituito che non
può non fondarsi sul rispetto delle istituzioni vigenti e sull’indi-
scutibilità della loro legittimazione. Di una simile contraddizio-
ne lo stesso Spinoza prende atto, allorché sia in apertura, sia in
chiusura del TTP afferma di volersi sottomettere al placet della
magistratura («nulla io ho scritto che non sia dispostissimo a
29 La prima ipotesi è avanzata da MEINSMA, Spinoza et son cercle, cit., e ancora più

insistentemente da C.B. HYLKEMA, Reformateurs. Geschiedkundige studiën over de god-


sdienstige bewegingen uit de nadagen onzer gouden eeuw, Bouma, Groningen-Amster-
dam, 1978 (I ed. 1900); sulla seconda insiste invece FRANCÉS, Spinoza dans le pays néer-
landais, cit.
30 Cfr. P. DIBON, La Philosophie néerlandaise au Siècle d’Or, Elsevier, Amsterdam-

Paris-London-New York, 1954, e C. THIJSSEN-SCHOUTE, Nederlands Cartesianisme,


HES Uitgevers, Utrecht, 1989 (I ed. 1954).
32 La libertà necessaria

sottoporre all’esame e all’approvazione dell’autorità del mio


paese; e se essa giudicherà che qualcuna delle cose da me dette
sia contraria alle patrie leggi o nociva al comune benessere, è
mia intenzione che si abbia per non detta»31); un atto formale
che tuttavia non impedisce a quelle stesse autorità di percepire
la pubblicazione dell’opera come un pericolo per lo status quo.
L’apprensione manifestata a Oldenburg per la sua filosofia
minacciata dall’ignoranza e dal pregiudizio definisce il terreno
di uno scontro tra una concezione e una pratica espansiva della
libertà e il tentativo, operato dai teologi calvinisti (ma non solo)
di imbrigliare tale libertà, concedendole facoltà di muoversi so-
lo in determinate zone, e negandole tuttavia l’accesso ai «san-
tuari» della religione e della politica. Che poi questo conflitto
abbia luogo in Olanda, paese che ha nella tolleranza un elemen-
to fondamentale della sua prosperità, indica proprio come sia la
natura stessa della libertas philosophandi a non tollerare costri-
zioni di alcun genere, e che per tale ragione essa venga costan-
temente, costitutivamente minacciata. Non solo, quindi, la valu-
tazione di Spinoza è del tutto realistica, ossia fondata su un’e-
satta percezione dei processi sociali e politici che attraversano il
suo paese; ma essa tocca consapevolmente un problema filoso-
fico decisivo, riguardante la determinazione, declinata sul piano
della storicità, del nesso tra necessità e libertà. L’ambiguità è
nella realtà, prima ancora che nel linguaggio della lettera XXX.

2. L’intervento sulla realtà


La forza che si oppone al pieno dispiegamento della libertà è
esplicitamente nominata; meno chiara, invece, è la strategia che
Spinoza intende seguire. Un passo della lettera a Oldenburg
potrebbe far ipotizzare che si tratti di un ostacolo da aggirare
piuttosto che da rimuovere, e che il filosofo debba trovare la
propria dimensione speculativa nel distacco da ogni tentativo
di modificare la realtà: «Lascio, dunque, che ognuno viva a suo
talento (ex suo ingenio) e che chi vuol morire muoia in santa

31 Opera, III, Prefazione, p. 12 (trad. it. p. 10); ma si veda anche la conclusione

del capitolo XX, p. 247 (trad. it. p. 490).


I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 33

pace, purché a me sia dato vivere per la verità»32. Ancora una


volta, però, è possibile rintracciare in uno scritto giovanile
un’affermazione difficilmente conciliabile con questa dichiara-
zione di disimpegno etico e politico; infatti nelle prime pagine
del Trattato sull’emendazione dell’intelletto si legge:
fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino
come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino (conveniant)
perfettamente col mio intelletto e coi miei desideri. A questo fine è ne-
cessario <in primo luogo> capire della natura delle cose tanto quanto ba-
sta ad acquistare tale natura umana; poi formare una società tale quale è
da desiderare perché quanti più uomini è possibile vi pervengano nella
maniera più facile e sicura33.

Non solo la libertà, ma anche la felicità personale viene a di-


pendere dal processo di armonizzazione delle diverse nature in-
dividuali e dalla costituzione di una società desiderabile dalla
grande maggioranza (quamplurimi): in quest’ottica i destini dei
singoli appaiono quindi fortemente interrelati, e la ricerca di
una convenientia34 con gli altri sembra essere inscindibile dalla
ricerca del proprio bene. E tuttavia le parole della lettera XXX
operano un mutamento esplicito dello scenario sopra descritto,
quasi la presa di distanza da un progetto giovanile e utopico, ri-
velando un approccio ben più realistico, se non addirittura pes-
simistico, intorno alla possibilità di un’emendazione collettiva
degli uomini e al raggiungimento di un sommo bene connotato
in senso etico-religioso e quasi ascetico35. Occorre allora com-
prendere se questo implichi l’abbandono dell’orizzonte delinea-
32 Opera, IV, p. 166 (trad. it. p. 164).
33 Opera, II, pp. 8-9 (trad. it. in B. DE SPINOZA, Trattato sull’emendazione dell’in-
telletto, a cura di E. De Angelis, SE, Milano, 1990, pp. 14-5). Intorno alla collocazione
di quest’opera all’interno della produzione spinoziana cfr. F. MIGNINI, Per la datazione
e l’interpretazione del «Tractatus de intellectus emendatione» di Spinoza, in «La Cultu-
ra», XVII, 1979, pp. 87-160.
34 L’uso del termine convenire è riscontrabile in numerosi punti dell’opera spino-

ziana, dalle pagine riguardanti la fisica a quelle di filosofia politica, costituendo una
sorta di filo rosso che collega e unifica zone apparentemente differenti.
35 Nel Tractatus de intellectus emendatione, infatti, si dice che dai beni materiali

che gli uomini inseguono, ovvero le ricchezze, i successi, il piacere dei sensi, la mente
viene «così distratta che non può affatto pensare ad un qualche altro bene» (Opera, II,
p. 6; trad. it. p. 11). Tuttavia poco più avanti Spinoza stempera la radicalità di questa
affermazione (cfr. Opera, II, p. 8; trad. it. p. 14).
34 La libertà necessaria

to nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, o se piuttosto si


tratti di una progressiva messa a fuoco del medesimo obiettivo.
A tale proposito può essere utile approfondire la questione
intorno alla natura dei destinatari del Trattato teologico-politico.
Se nella lettera Spinoza fa appello ai prudentiores, cioè ai «sag-
gi»36 tra i cittadini del suo paese, nella Prefazione dell’opera egli
si rivolge esplicitamente a un «lettore filosofo», sconsigliando di
contro la lettura al «volgo, e [a] tutti coloro che ne condividono
le passioni», a causa della difficoltà, se non dell’impossibilità, di
«sottrarre le masse [vulgus] alla superstizione e alla paura»37.
L’universalismo del De emendatione sembra qui fare posto a
uno spirito più aristocratico, portato a dialogare esclusivamente
con l’élite intellettuale, e fiducioso soltanto in una possibilità di
cambiamento regolata dall’alto, che il volgo non potrà che subi-
re, così come ora subisce i pregiudizi religiosi e le passioni.
Questa cesura posta tra gli individui razionali e il grande nume-
ro di coloro che sono invece dominati dagli affetti negativi e
dall’ignoranza pone certamente un serio problema pratico, ma
soprattutto presenta un dilemma teorico fondamentale: da dove
può emergere la ragionevolezza di alcuni, come è potuta gene-
rarsi, se il mondo degli uomini è irrimediabilmente marchiato
dall’irrazionalità?38. Ancora, che tipo di ratio è quella del «letto-
re filosofo» cui Spinoza indirizza il suo scritto? E che cos’è que-
sta filosofia che libera dai pregiudizi e innalza sopra la massa?
È stato spesso sottolineato come il significato del termine
philosophia nell’opera spinoziana sia tutt’altro che univoco,
mutando nel corso degli anni e dipendendo spesso dal contesto
nel quale viene utilizzato39, al punto che si potrebbe affermare

36 In una traduzione meno recente dell’epistolario spinoziano U. LOPES-PEGNA

rende il termine latino con «persone di senno» (Lettere, 2 voll., Carabba, Lanciano,
1934, vol. I, p. 191); un’espressione che probabilmente individua con maggiore preci-
sione il pubblico di riferimento della lettera.
37 Opera, III, p. 12 (trad. it. pp. 9-10)
38 Su tale domanda si sofferma anche A. TOSEL in Spinoza ou le crépuscule de la

servitude. Essai sur le Traité Théologico-Politique, Aubier, Paris, 1984, p. 28.


39 Tra gli ultimi contributi si veda P.F. MOREAU, Qu’est-ce que la philosophie? Spi-

noza et la pratique de la démarcation, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, Atti del


convegno internazionale, Urbino 14-17 ottobre 1988, a cura di D. Bostrenghi, Biblio-
polis, Napoli, 1992, pp. 53-69.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 35

che l’uso di tale parola, lungi dall’istituire una continuità con la


tradizione – dalla quale Spinoza prende le distanze proprio nel
Trattato teologico-politico – finisca per indicare sempre un’atti-
vità ben determinata e concreta, il cui valore dipende intera-
mente dal soggetto che la pratica. Nessuna autorità filosofica
può essere chiamata in causa per conferire forza alle proprie
opinioni, come afferma la lettera LVI ad Hugo Boxel40, poiché
i filosofi di professione sono spesso soggetti quanto gli altri uo-
mini ai pregiudizi, e anzi proprio a partire da questi costruisco-
no il loro sistema41. Ma se esiste una filosofia che riproduce l’i-
gnoranza del volgo, magari rafforzandola attraverso l’arte della
retorica e la teatralità di un sapere enciclopedico, ve n’è però
anche una che riconosce le false credenze e se ne libera: una fi-
losofia che non viene praticata soltanto da chi la esercita come
mestiere, ma anche da chi, spinto dalla propria costituzione na-
turale (dal proprio ingenium) e favorito dalle circostanze ester-
ne favorevoli, come quelle offerte dall’Olanda della seconda
metà del ’600, ricerca la verità in piena autonomia. A costoro,
ai quali il termine «filosofo» è per così dire qualcosa di aggiun-
to, una determinazione ulteriore (Philosophe lector) rispetto al-
la loro attività principale, Spinoza indirizza il proprio trattato:
non una categoria professionale, né un gruppo sociologicamen-
te omogeneo, ma piuttosto un pubblico trasversale composto
dall’unione degli individui che non sottostanno passivamente
alle imposizioni dell’ideologia dominante42.
Proprio perché la filosofia si identifica con la libertas philo-
sophandi, ovvero con la pratica e la continua disponibilità alla
ricerca, ben più che con il possesso di conoscenze esoteriche o
comunque specialistiche, anche la cesura tra chi usa la propria
ragione e chi invece soccombe alle passioni non può essere let-
ta come un’alterità radicale, uno iato incolmabile prodotto da
40 «L’autorità di Platone, Aristotele e di Socrate non ha per me gran valore» (Ope-

ra, IV, p. 261; trad. it. p. 244).


41 Sarà il I capitolo del TP a mettere in evidenza la distanza dalla verità della dot-

trina filosofica tradizionale riguardante la natura umana.


42 O, per usare una definizione di Tosel, di «coloro che osano pensare» (Spinoza

ou le crépuscule de la servitude, cit., p. 51). L. STRAUSS, Come studiare il «Trattato teolo-


gico-politico» di Spinoza, in ID., Scrittura e persecuzione [1952], Marsilio, Venezia, 1990,
pp. 137-97 afferma che questo libro «è diretto ai potenziali filosofi cristiani» (p. 158).
36 La libertà necessaria

circostanze che sfuggono all’umana comprensione; piuttosto –


e in questo consiste il progresso rispetto all’orizzonte del De
emendatione – una cornice etica dominata da una metafisica
gerarchizzante (nella quale le influenze neoplatoniche del gio-
vane Spinoza hanno senza dubbio un peso importante) viene
gradualmente sostituita da un’ontologia immanente della po-
tenza, che ha come ricaduta sul piano antropologico un’atten-
zione specifica al dispiegamento dei conatus individuali, tanto
nelle loro irriducibili peculiarità, quanto nel loro necessario in-
tersecarsi e reciproco determinarsi43. Spinoza può così appog-
giare il suo progetto emancipatorio alla costituzione reale del
mondo che lo circonda, pur senza abbandonare il suo ideale di
società espresso nel De emendatione. Non solo, ma ora egli può
cercare lo spazio per il suo intervento proprio dentro la neces-
sità naturale che attraversa l’agire degli uomini (compreso, ov-
viamente, il suo agire), dal momento che non è la libertà di un
individuo ad essere minacciata, ma la libertà di tutti, la commu-
nis libertas, poiché «ripugna assolutamente alla comune libertà
il soffocare coi pregiudizi o il costringere comunque la libera
opinione individuale»44.
Il vulgus, allora, non è né un avversario da tenere a bada gra-
zie agli stratagemmi che l’arte politica mette a disposizione dei
governanti, né la materia malleabile di un’educazione filosofica
che conduca tutti senza intralci a una superiore e più felice for-
ma di esistenza; piuttosto, esso esprime il nome collettivo con il
quale Spinoza indica la resistenza, presente in ogni uomo (sep-
pure con diversa intensità) al pieno dispiegamento della pro-
pria natura; un’inerzia che però va attribuita non a un vizio
morale, bensì alla stessa necessità naturale, così come necessa-
rio – cioè determinato da un processo causale definito – è lo
sviluppo della libertà45.
43 Su questo punto insiste giustamente P.F. MOREAU, Biographie intellectuelle et rè-

gles d’interprétation, in Spinoza’s Political and Theological Thought, a cura di C. De


Deugd, North Holland Publ. Company, Amsterdam-Oxford-New York, 1984, pp.
137-42.
44 TTP, Prefazione (Opera, III, p. 7; trad. it. p. 4).
45 Ulteriori riflessioni intorno alla natura dei destinatari del TTP si trovano in F.

AKKERMAN, Le caractère rethorique du Traité théologico-politique, in «Les Cahiers de


Fontenay», XXXVI-XXXVIII, 1985, pp. 381-90.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 37

3. Superstizione e religione
Il TTP, che verrà pubblicato anonimo e con false indicazioni
editoriali nel 167046 – una professione di realismo da parte del
suo autore –, ribadisce fin dal sottotitolo l’intenzione espressa
nella lettera a Oldenburg, ampliando la portata della posta in
gioco: «si mostra come la libertà di filosofare non soltanto può
essere concessa salve restando la pietà e la pace dello Stato, ma
piuttosto non può essere negata se non distruggendo insieme la
pietà e la pace dello Stato»47. Libertà dei cittadini e pace della
Respublica – soprattutto della Repubblica d’Olanda – sono di-
chiarati coessenziali, e delineano il quadro di un’analisi che de-
ve appunto toccare i principi fondamentali del vivere politico.
C’è tuttavia un terzo sostantivo, pietas, che non sembra rientra-
re direttamente nel novero di un approccio filosofico, libero dai
pregiudizi, alla politica, e che anzi lo stesso Spinoza, al capitolo
XV, colloca nell’ambito della teologia («La ragione [è padrona]
nel campo della verità e della sapienza, la teologia in quello del-
la pietà e dell’obbedienza»48). La sua comparsa in questo con-
testo induce a ipotizzare l’esistenza di un legame tra il piano re-
ligioso e quello politico: se la pietà, infatti, può essere tanto pa-
radigma di fede quanto virtù civica, ne consegue che la rifles-
sione sulla teologia, che occupa i primi quindici capitoli del
TTP, e quella sullo Stato e sulla libertà, concentrata invece ne-
gli ultimi cinque, vanno lette in un’evidente continuità logica49.
La compenetrazione tra i due livelli è comunque esplicita fin

46 Tractatus Theologico-Politicus, Hamburgi, apud Henricum Künraht,

MDCLXX; in realtà la pubblicazione avviene ad Amsterdam, a cura di Jan Rieu-


wertsz., editore amico di Spinoza e noto per le sue idee eterodosse in materia religiosa.
47 Opera, III, titolo.
48 Ivi, p. 184 (trad. it. p. 364). Nel capitolo XIV, inoltre, Spinoza definisce «dogmi

di pietà (pia dogmata)» i principi della fede «che muovono l’animo all’obbedienza»
(ivi, p. 176; trad. it. p. 348).
49 La struttura del TTP è stata suddivisa da Giancotti in quattro parti (cfr. l’Intro-

duzione alla traduzione italiana, p. XIV), ma tale ripartizione non va considerata rigida-
mente, bensì deve riconoscere come le diverse tematiche si intersechino fin dalle prime
pagine; basti pensare al significato politico della discussione intorno al concetto di
«legge» nel capitolo IV, o all’affondo del capitolo successivo sulla genesi della società.
D’altra parte, l’analisi della Repubblica ebraica al capitolo XVII contiene elementi im-
portanti della riflessione spinoziana sulla religione e sulla teologia.
38 La libertà necessaria

dalla Prefazione, dedicata all’analisi della superstizione:


Se gli uomini potessero procedere a ragione veduta (certo consilio) in
tutte le loro cose o se la fortuna fosse loro sempre propizia, non andreb-
bero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché essi vengono spesso a
trovarsi di fronte a tali difficoltà che non sanno prendere alcuna decisio-
ne (ut consilium nullum adferre queant) e poiché il loro smisurato deside-
rio degli incerti beni della fortuna li fa penosamente ondeggiare tra la
speranza e il timore, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi
cosa50.

Spinoza mette in luce i meccanismi che determinano la gran


parte dei comportamenti e delle opinioni umane, meccanismi
generati ad un tempo dalla costituzione complessiva della realtà
– la fortuna, infatti, coincide con le leggi che governano l’uni-
verso o, per usare le parole del III capitolo, con «l’ordine fisso
e immutabile della natura», stante l’identità tra fortuna e Dei di-
rectio51 – e dalla natura peculiare dell’affettività umana, che im-
pedisce agli individui il raggiungimento di un certum consilium,
di una decisione fondata sulla ragione e capace di dare una ret-
ta misura alla cupiditas 52. In realtà i due piani sono strettamente
correlati, essendo l’uomo costitutivamente determinato dai pro-
cessi che regolano la natura nel suo complesso, cosicché l’inda-
gine antropologica, e conseguentemente anche quella politica,
vanno intese come aspetti particolari dello studio dei fenomeni
naturali (il che tuttavia non significa affatto che l’esistenza stori-
ca dei popoli non possa subire dei mutamenti significati, e che
le leggi ed i costumi di una nazione non possano evolversi e
mutare anche radicalmente53), e in nessun caso l’uomo può ve-

50 Opera, III, p. 5 (trad. it. p. 1).


51 Ivi, pp. 45-6 (trad. it. p. 81).
52 F. MIGNINI, Theology as the Work and Instrument of Fortune, in Spinoza’s Politi-

cal and Theological Thought, cit., pp. 127-36, sottolinea come la locuzione «certum
consilium» comprenda in sé i concetti di «reason, clear knowledge and prudence» (p.
128); ma, giustamente, afferma anche che la forza per contrapporsi alla fortuna non
può essere rintracciata esclusivamente nell’ambito delle scelte dettate dalla ragione.
53 Su questo punto insiste P.F. MOREAU, Fortune et thèorie de l’histoire, in Spinoza.

Issues and Directions, Atti del convegno internazionale di Chicago (1986), a cura di E.
Curley e P.F. Moreau, Brill, Leiden-Kopenaghen-New York-Köln, 1990, pp. 298-305,
nonché M. CHAMLA, Spinoza e il concetto della tradizione ebraica, Angeli, Milano,
1996, pp. 20-5.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 39

nire considerato come appartenente a un regno diverso da


quello della natura. La Prefazione della III parte dell’Etica
esprime questa posizione in modo inequivocabile:
La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo
di vivere degli uomini danno l’impressione di trattare non di cose natura-
li che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuo-
ri della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come
un dominio all’interno di un dominio (hominem in naturam veluti impe-
rium in imperio, concipere videntur) [...] La mia convinzione è, invece,
questa: in natura nulla accade che possa essere attribuito ad un suo vizio;
la natura, infatti, è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è
ovunque una e identica [...], e perciò uno e identico deve anche essere il
metodo (ratio) per intendere la natura di qualunque cosa54.

La necessità naturale è all’origine della nascita della supersti-


zione, alla quale «tutti gli uomini sono naturalmente inclini [ob-
noxii]»55, poiché tutti soggiaciono, almeno parzialmente, all’in-
certezza esistenziale che nasce dal susseguirsi incessante di paura
e di speranza. La linea genetica che dalla fluctuatio animi si svi-
luppa in direzione della superstitio produce a sua volta «un vano
culto religioso (vana religio)», ovvero una «fantasia e delirio di
un animo angosciato e tremebondo»56. La religione manifesta
così la propria genesi dalla dimensione passionale della vita uma-
na, rappresentando un’idea confusa della divinità che è diretto
effetto, e non causa, dell’impotenza dell’animo umano. Questo
significa, ad esempio, che la percezione di Dio sotto sembianze
umane è il frutto di un antropocentrismo naturale, radicato nella
costituzione dell’individuo (gli uomini infatti «scambiano per di-
vini responsi i deliri della loro immaginazione»57) più che nelle
pieghe di un universo abitato da segni e presagi58.

54 Opera, II, pp. 137-8 (trad. it. pp. 171-2).


55 Opera, III, p. 6 (trad. it. p. 3). Il termine obnoxius indica uno stato di passività
costitutivo, che più correttamente andrebbe espresso con «sottoposti», come fa la tra-
duzione di S. Casellato nell’antologia curata da E. Scribano (B. SPINOZA, Trattato teolo-
gico-politico, La Nuova Italia, Firenze, 1993, p. 4).
56 Opera, III, p. 6 (trad. it. p. 2).
57 Ibid. Sul peso del pregiudizio antropocentrico e finalistico nell’analisi spinozia-

na della superstizione cfr. F. MIGNINI, La dottrina spinoziana della religione razionale, in


«Studia Spinozana», XI, 1995, pp. 53-80, in particolare pp. 60-2.
58 Si veda in proposito M. WALTHER, Biblische Hermeneutik und/oder theologische
40 La libertà necessaria

In conseguenza di questo stato diffuso di angoscia e di igno-


ranza, sul piano delle relazioni individuali si sviluppa una situa-
zione segnata dal timore e dall’odio reciproco, e quindi sempre
a rischio di sfociare in un conflitto generalizzato. Gli uomini si
trovano così a vivere in una dimensione paragonabile al bellum
omnium contra omnes dello stato di natura hobbesiano59, con
la significativa differenza che questa conflittualità latente non
esclude l’emergenza di alcune forme di ordinamento politico,
nelle quali comunque dominano la paura e la sopraffazione. Ci-
tando Quinto Curzio Rufo60, Spinoza sottolinea come «<nulla
riesce più della superstizione a dominare le masse (nihil effica-
cius multitudinem regit, quam superstitio)>; onde avviene che
queste siano facilmente indotte, col pretesto della religione, ora
ad adorare come Dei i loro re, ora ad esecrarli e a detestarli»61.
Il peso ideologico della vana religio è un elemento decisivo nel-
la costituzione di un potere che, grazie all’accecamento delle
menti umane, incapaci di comprendere il loro utile, trasforma i
sudditi in strumenti passivi della volontà altrui. Tra uno stato
di disordine totale e questa forma di organizzazione politica
non vi è differenza sostanziale: in entrambi i casi gli uomini
conducono un’esistenza miserabile e incerta, minacciata di
continuo dalla violenza, e soprattutto dominata dall’impotenza,
che li rende schiavi delle passioni e dei deliri. In tal senso, un
regime nel quale «tutto il segreto (arcanum) e l’interesse [...]
sta nell’ingannare gli uomini e nell’adombrare col nome specio-
so di religione il timore che serve a frenarli»62 non rappresenta

Politik bei Hobbes und Spinoza, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 623-69.
59 Si veda, ad esempio, quanto afferma Hobbes nel De Cive; cfr. Thomas HOBBES,

Elementorum Philosophiae Sectio Tertia – De Cive, in Thomae Hobbes Malmeburniensis


opera philosophica quae latine scripsit, vol. II, a cura di W. Molesworth, J. Bohn, London,
1839 (rist. anastatica Scientia Verlag, Aalen, 1966) p. 165-6 (trad. it. a cura di T. Magri,
Edizioni Riunite, Roma, 1992 (I ed. 1979), pp. 86-7). La seconda edizione del De cive fu
pubblicata ad Amsterdam, ed è presente nella bilblioteca di Spinoza; cfr. C. GALLICET
CALVETTI, Spinoza lettore del «De Cive», in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», LXXIII,
1981, pp. 321-44 e, più in generale, W. SACKSTEDER, How much of Hobbes might Spinoza
have read?, in «The Southwestern Journal of Philosophy», XI, 1980, pp. 25-39.
60 Su Curzio Rufo cfr. la nota 5 (p. 12) di Droetto alla traduzione citata del TTP, e

soprattutto MOREAU, Fortune et théorie de l’histoire, cit.


61 Opera, III, p. 6 (trad. it. p. 3).
62 Ivi, p. 7 (trad. it. p. 3).
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 41

alcun mutamento di quadro rispetto a un orizzonte naturale


nel quale regna la superstizione.
Il disvelamento degli arcana regiminis è immediatamente ri-
condotto da Spinoza alla concretezza della situazione olandese,
dove alla minaccia costituita dalla religione si oppone quella
communis libertas già ricordata; tuttavia, ancora una volta, re-
sta imprecisato il principio da cui essa tragga il proprio soste-
gno, e conseguentemente la possibilità di porre freno al domi-
nio onnipervasivo della superstizione. Un quadro antropologi-
co dominato dagli affetti passivi – dai quali seguono necessaria-
mente superstitio e vana religio – non sembra concedere spazio
al sorgere di processi in grado di spezzare il riprodursi all’infi-
nito dell’impotenza umana; ma l’impasse viene superata dal-
l’improvviso scarto prospettico operato dal testo:
Mi sono spesso meravigliato (Miratus saepe fui) che uomini, i quali si
vantavano di professare la religione cristiana, e cioè l’amore, la gioia, la
pace, la moderazione e la lealtà con tutti, contendessero tra di loro con
tanto astiosa irruenza e si odiassero a vicenda con sí feroce accanimento,
da far capire da ciò, piuttosto che dall’esercizio di quelle virtù, la specie
di fede da ciascuno professata63.

La meraviglia di Spinoza apre un nuovo registro semantico,


svolgendolo su due piani: da un lato evidenzia l’esistenza di un
tratto affettivo (appunto il meravigliarsi) che non si contrappo-
ne all’indagine filosofica, ma che anzi ne costituisce l’elemento
propedeutico64; dall’altro introduce una definizione della reli-
gione cristiana assai diversa da quella prodotta dalla supersti-
zione: infatti tanto quest’ultima è causa di dissidi e di odio tra
gli uomini, quanto la prima invita a seguire quelle virtù che
fondano un’esistenza comune nella pace e nella concordia. Di
fatto, però, i dettami della Christiana religio sembrano restare
lettera morta, non sortendo alcun effetto sul versante pratico,
per un motivo ben preciso, il fatto cioè che «per il volgo ebbe-
ro valore di religione il considerare il ministero ecclesiastico co-
me una dignità [dignitas] e i doveri ad esso connessi come un

63 Ivi, p. 8 (trad. it. pp. 4-5).


64 Sull’importanza di questa meraviglia insiste anche S. ZAC, Spinoza et l’interpré-
tation de l’Écriture, PUF, Paris, 1965.
42 La libertà necessaria

beneficio e il rendere i massimi onori ai pastori»65; ragion per


cui la religione «degenerò in vergognosa avidità ed ambizione,
trasformando il tempio stesso in un teatro, dove presero parola
non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di
istruire il popolo, bensì di imporsi alla sua ammirazione (nemo
desiderio tenebatur populum docendi, sed eundem in admiratio-
nem sui rapiendi)»66.
Nonostante la comune radice dei verbi miror e admiror, l’am-
mirazione che questi predicatori cercano di suscitare è tutt’altra
cosa dalla meraviglia del filosofo: se quest’ultima pur nella di-
mensione affettiva che le è propria, apre la strada all’indagine
razionale della realtà, di contro l’admiratio dei predicatori pro-
duce sulle menti del popolo un effetto di chiusura, impedendo
loro di liberarsi dalle passioni. La chiesa si trasforma allora nel
luogo di una rappresentazione scenica, il cui scopo è quello di
piegare la volontà del pubblico a sottomettersi agli attori, tribu-
tando loro «i massimi onori» e cedendo ogni facoltà di decidere
intorno alla natura del culto. Il quadro si ripresenta identico a
quello iniziale, dominato dalla superstizione e dai meccanismi
di assoggettamento; e tuttavia l’originaria omogeneità dell’uni-
verso passionale è spezzata, e il mondo affettivo appare ora at-
traversato da una nuova possibilità, rappresentata dalla religio-
ne di Cristo, che predica l’amore e la pace per tutti gli uomini.
Essa si oppone chiaramente alla religio dei predicatori, che ecci-
tano gli animi all’odio e alla guerra, non avendo in comune con
quest’ultima che il riferimento generico al culto esterno; mentre
radicalmente diverso, oltre al messaggio professato, è il signifi-
cato attribuito alla dignità ecclesiastica e, soprattutto, al lumen
divinum che la legittima. I pastori che dai pulpiti recitano i loro
dogmi si affannano a convincere il volgo del carattere sovranna-
turale della rivelazione divina, e della conseguente oscurità del
suo messaggio, che soltanto i pochi che abbiano ricevuto da
Dio l’adeguata dignitas sono in grado di comprendere67. La Sa-

65 Opera, III, p. 8 (trad. it. p. 5). La traduzione del termine dignitates con «stru-

menti di potere», da parte di Casellato (op. cit., p. 6), per quanto un po’ forzata sul pia-
no lessicale, rende con esattezza il senso del discorso spinoziano.
66 Opera, III, p. 8 (trad. it. p. 5).
67 Per cogliere la complessità della figura del predicatore nel TTP cfr. P.F. MO-
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 43

cra Scrittura, che costoro pretendono sia stata dettata diretta-


mente dallo Spirito Santo, e che quindi «sia veritiera e ispirata
da Dio in tutte le sue parti»68, (dimostrando di essere loro stessi
le prime vittime del delirio superstizioso che infondono negli al-
tri), diviene allora la vera posta in gioco, poiché attraverso di es-
sa si attua il tentativo spinoziano di liberare la fede dai pregiudi-
zi dei teologi, affinché possa emergere il vero sentimento cristia-
no. Si tratta, per Spinoza, di liberare la fede dalla stessa teolo-
gia, da quell’apparato di dogmi e di culti esteriori che i profes-
sionisti della religione hanno costruito per confondere e soggio-
gare l’umanità69.
Poiché dunque i teologi «in nessuna cosa agirono con mino-
re scrupolo e con minore leggerezza [temeritas] quanto nell’in-
terpretazione delle Scritture»70, è necessario, ponendosi a ri-
cercare il senso veritiero della religione, ricostruire corretta-
mente i principi dell’esegesi scritturale, corrotti da secoli di su-
perstizione, alla quale andarono soggetti i credenti, ammaliati
dalle parole dei loro pastori, ma anche questi ultimi, resi ciechi
da una «scellerata ambizione (ambitio et scelus)»71. È al capito-
lo VII del TTP che appare la completa enunciazione della pro-
posta ermeneutica spinoziana, che gioca un ruolo fondamenta-
le nella storia dell’ermeneutica biblica del XVII secolo72, ma

REAU, Sacerdos Levita Pontifex. Les prêtres dans le lexique du Traité théologico-politique,
in «Kairos», XI, 1998, pp. 33-40.
68 Opera, III, p. 9 (trad. it. p. 6).
69 L’opposizione esistente tra teologia e religione (intesa come vera religio), tale per

cui la prima è, più ancora che un’antifilosofia, un’«antireligione», viene sottolineata da É.


BALIBAR, Spinoza e la politica [1985], Manifestolibri, Roma, 1996 pp. 18-20. Resta tutta-
via il fatto che l’orizzonte teologico nella riflessione spinoziana pare difficilmente riduci-
bile in toto a ideologia, senza invece manifestare una propria autonomia e, conseguente-
mente, la possibilità di una declinazione filosofica ma anche eticamente significativa.
70 Opera, III, p. 97 (trad. it. p. 185).
71 Ibid. (trad. it. p. 186).
72 Per un approfondimento del rapporto tra l’ermeneutica biblica spinoziana e il

dibattito teologico-politico dell’epoca cfr. J.P. OSIER, L’herméneutique de Hobbes et Spi-


noza, in «Studia Spinozana», III, 1987, pp. 319-47; WALTHER, Biblische Hermeneutik,
cit., in particolare pp. 647-58; la raccolta L’Écriture Sainte au temps de Spinoza et dans
le système spinoziste, Groupe de Recherches Spinoziste, Presses de l’Université de Pa-
ris Sorbonne, Paris, 1992; R.H. POPKIN, Spinoza and Bible Scolarship, in The Books of
Nature and Scripture: Recent Essays on Natural Philosophy, Theology and Biblical Criti-
cism in the Netherlands of Spinoza’s Time and the British Isles of Newton’s Time, a cura
44 La libertà necessaria

anche, come è evidente, all’interno del progetto filosofico com-


plessivo di Spinoza, in quanto si propone il compito di liberare
le menti dalla superstizione, operando come elemento prope-
deutico alla libertas philosophandi 73. Contro il rinvio a un prin-
cipio aprioristico e trascendente, la teoria spinoziana dell’inter-
pretazione della Scrittura proclama il carattere integralmente
umano del linguaggio biblico, indissociabile non soltanto dai
fattori naturali determinanti l’esistenza degli autori, ma anche
dal contesto storico nel quale essi vivevano e dal pubblico cui
si rivolgevano. La fortuna precedentemente ricordata ha quindi
un ruolo fondamentale anche nelle vicende della produzione
del testo sacro, del quale Spinoza evidenzia il carattere origina-
rio di «scritto»74, affermandone la materialità intrascendibile,
sottomessa alle leggi del tempo.
La lingua ebraica si trova al centro dell’indagine spinoziana,
non per una sua presunta sovannaturalità, bensì esclusivamente
perché essa è la lingua dei testi sacri; ed è proprio l’aspetto lin-
guistico che espone questi ultimi a un divenire storico segnato
dalla puntualità e dalla discontinuità75, introducendo come mi-
naccia sempre presente la possibilità della corruzione e dell’e-
mergenza di oscurità e incomprensioni per coloro che, a distan-
za di secoli, cercano di comprenderne il significato. Per sfuggi-
re a un simile rischio Spinoza afferma la necessità di adottare

di J.E. Force e R.H. Popkin, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht-Boston-London,


1994, pp. 1-23. Più specifico è il contributo di D. PASTINE, Spinoza et les interprétations
scolastiques de l’Écriture, in L’interpretazione nei secoli XVI e XVII, a cura di G. Can-
ziani e Y.C. Zarka, Angeli, Milano, 1993, pp. 709-18.
73 Cfr. Y. YOVEL, L’intepretazione eterodossa della Bibbia in Spinoza, in La lettura

ebraica delle Scritture, a cura di S. J. Sierra, EDB, Bologna, 1995, pp. 317-27.
74 Che la Scrittura diventi con Spinoza «un écrit, au sens strict du terme» e, di

conseguenza, appaia «relevant d’une science philologique», è affermato da P.F. MO-


REAU, La méthode d’interprétation de l’Ecriture Sainte: déterminations et limites, in Spi-
noza. Science et religion, Atti del Convegno di Cerisy-la-Salle, 20-27 settembre 1982, a
cura di R. Bouveresse, Vrin, Paris, 1988, pp. 109-13 (citazione da pp. 110-1). Non mol-
to diversamente, Yovel parla di una trasformazione del testo biblico in «documento»,
che richiede un lavoro simile a quello dell’archeologo (cfr. L’intepretazione eterodossa
della Bibbia in Spinoza, cit., p. 325).
75 Di «nominalismo storico» parla ad esempio CHAMLA, Spinoza e il concetto della

tradizione ebraica, cit., pp. 53-4, il quale sottolinea come tale locuzione indichi in par-
ticolare un approccio «che è tutto il contrario di una ‘filosofia della storia’ finalistica e
mono-direzionale» (p. 54).
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 45

un procedimento che non differisca in nulla «dal metodo di in-


terpretazione della natura»76, e che cioè sia in grado di «rico-
struire la storia genuina della Scrittura stessa, per dedurre poi
da questa, come legittima conseguenza di principi e dati certi, il
pensiero (mentem) dei suoi autori»77. La riduzione dell’erme-
neutica biblica ai principi della scienza naturale comporta che
la conoscenza della Scrittura vada dedotta «esclusivamente dal-
la Scrittura stessa»78, a patto però che venga postulata l’insepa-
rabilità del testo dal proprio contesto, così da far confluire nella
sola Scriptura l’indagine dell’universo storico e linguistico che la
Bibbia ha attraversato. Poiché, infatti, è l’uso determinato che
definisce il senso delle parole79, ne consegue che soltanto da
una ricostruzione attenta delle abitudini individuali e collettive,
che si affianchi all’analisi comparativa degli enunciati meno im-
mediatamente afferrabili, è possibile far emergere dalle ombre
del tempo il vero significato del testo biblico.
Parallelamente, Spinoza rifiuta ogni forma più o meno strut-
turata di lettura canonica, fondata cioè su un canone determi-
nato dalla tradizione, e quindi agente come principio autorita-
tivo esterno al testo, poiché essa ricondurrebbe al cuore del
problema ermeneutico un referente trascendente, che altro non
è se non la cifra di un’operazione politica da parte di chi vuole
assumere il monopolio della vera interpretazione. L’implicita
politicità di ogni canone, che nasce sempre da una decisione
storicamente determinata, come nei casi ricordati nel TTP dei
Farisei e dei Pontefici romani80, in realtà spezza proprio quella
continuità linguistica che afferma di voler salvaguardare, e so-
stenendo di custodire il valore della tradizione, di fatto compie
un’operazione di radicale innovazione, per spazzare via ogni

76 Opera, III, p. 98 (trad. it. p. 186).


77 Ibid. (trad. it. pp. 186-7).
78 Ivi, p. 99 (trad. it. p. 188).
79 Sul carattere operativo del linguaggio nell’interpretazione biblica spinoziana in-

siste T. PENTZOPOULOU-VALALAS, Remarques sur l’herméneutique chez Spinoza, in Spi-


noza. Science et religion, cit., pp. 115-22, che ne sottolinea la portata fortemente critica
nei confronti di ogni circolarità ermeneutica (cfr. soprattutto pp. 118-9); inoltre, per
una attenta sottolineatura dell’importanza del contesto nel TTP si veda S. BRETON, Spi-
noza. Teologia e politica [1977] La Cittadella, Assisi, 1979, pp. 68-70.
80 Cfr. Opera, III, pp. 91 e 116 (trad. it. pp. 194 e 206).
46 La libertà necessaria

potenziale concorrente sul versante della ‘fedeltà’ ad un vero


eterno ed immutabile81. Tuttavia occorre sottolineare fin d’ora
come il rifiuto da parte di Spinoza di accettare un principio au-
toritativo esterno alla Scrittura non implichi l’omologazione di
quest’ultima alle storie dei poeti antichi e moderni, non com-
porti cioè la secolarizzazione del racconto biblico; al contrario,
rimane una esplicita differenza tra le pagine dell’Orlando Furio-
so o delle Metamorfosi di Ovidio – per usare l’esempio portato
da Spinoza82 –, che intendono rappresentare semplici fantasie
dell’autore o, al massimo, argomenti di interesse politico, e
quelle della Bibbia, che contengono invece «storie sacre»83, ov-
vero storie che, pur con modalità linguistiche peculiari dell’e-
poca e dello scrittore che le compose, vogliono esprimere un
messaggio universale e metastorico. Si tratta quindi di far se-
guire a un’operazione di archeologia, e quindi eminentemente
filologica, un’analisi filosofica della Bibbia, mirante a cogliere il
messaggio universale che circola in essa84.
A questa altezza si manifesta pienamente la scansione, tema-
tizzata da Spinoza in questo capitolo, tra il senso di un’afferma-
zione e la sua verità:
Ciò di cui ci occupiamo, infatti, non è la verità dei discorsi, ma soltan-
to il loro senso. Bisogna fare ben attenzione, anzi, quando cerchiamo il
senso della Scrittura, di non lasciarci sedurre dal nostro raziocinio (per
non dire dai nostri pregiudizi), in quanto esso è fondato sui principi della
conoscenza naturale85.

Nel cogliere questa differenza anche il raziocinio può indur-


re all’errore, qualora gli si attribuisca l’intero orizzonte del sen-
so, e non si comprenda invece il ruolo che gioca l’ingenium in-
81 Cfr. OSIER, L’herméneutique de Hobbes et Spinoza, cit., pp. 341-2; ma per una

riflessione a tutto tondo sulla posizione spinoziana intorno alla tradizione, posizione
non priva di risvolti complessi ed articolati, si veda il volume di Chamla già citato.
82 Cfr. Opera, III, p. 110 (trad. it. p. 199).
83 Ibid.
84 Di una «circulation de sens» all’interno del testo biblico, che unifica il messag-

gio in esso contenuto, parla A. MATHERON, Le statut ontologique de l’Écriture Sainte et


la doctrine spinoziste de l’individualité, in L’Écriture Sainte au temps de Spinoza, cit., pp.
109-18. Su questo punto cfr. inoltre, nella stessa raccolta, P.F. MOREAU, Les principes de
la lecture de l’Écriture Sainte dans le T.T.P., pp. 119-31.
85 Ivi, p. 100 (trad. it. pp. 188-9).
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 47

dividuale e collettivo – frutto di quell’intersecarsi di meccani-


smi affettivi e di processi ambientali che era stato definito co-
me fortuna – nella genesi del testo biblico (come di qualsiasi al-
tro testo). Si dimostrano altrettanto erronee sia l’attribuzione
unicamente a un lumen supernaturale della capacità di intende-
re la Scrittura, sia l’ipotesi che soltanto la ratio possa servire da
strumento interpretativo tanto della verità quanto del senso del
testo biblico. Quest’ultima posizione, che nel TTP è rappresen-
tata da Maimonide86, concede surrettiziamente ai filosofi (o,
per usare il termine di Spinoza, ai philosophantes) un monopo-
lio dell’interpretazione biblica che, di fatto, finisce per istituire
«una nuova autorità ecclesiastica ed un nuovo tipo di sacerdoti
e di pontefici, al quale il volgo riserverebbe più dileggio che ve-
nerazione»87. Spinoza, quindi, non intende in alcun modo so-
stituire al dominio dell’ideologia religiosa quello, forse ‘più il-
luminato’, ma ugualmente percepito come totalmente estraneo
dalle masse, di una élite di ragione, proprio perché la lettura
dei testi sacri non può essere patrimonio esclusivo di alcuna
minoranza.
Su questo specifico argomento è evidente la distanza tra Spi-
noza e uno dei suoi più stretti amici e collaboratori, quel Lode-
wijk Meyer che nel 1666 pubblica la Philosophia Sacrae Scriptu-
rae Interpres 88. Non è necessario avallare la tesi, avanzata da al-
86 Cfr. ivi, p. 113 (trad. it. p. 203), ma anche il cap. XV, dove il filosofo medievale

rappresenta la corrente esegetica razionalista o dogmatica, in opposizione a quella scet-


tica, rappresentata invece da Giuda Alphakar (ivi, p.181; trad. it. p. 359). In proposito
si veda l’analisi di L. STRAUSS Spinoza’s Critique of Religion [1930], University of Chi-
cago Press, Chicago, 1997, pp. 107-92 e, più recentemente, G. BENUSSAN, Spinoza li-
sant Maïmonide. Antifinalisme et contingence, in «Les Etudes Philosophiques», IV,
1995, pp. 441-55 e S. SMITH, Spinoza, Liberalism and the Question of Jewish Identity,
Yale University Press, New Haven-London, 1997, pp. 71-83.
87 Opera, III, p. 114 (trad. it. p. 204).
88 Il titolo continua così: Exercitatio Paradoxa, in qua, veram Philosophiam infalli-

bilem S. Literam interpretandi Normam esse, apodictice demonstratur, et discrepantes ab


hac Sententiae expenduntur, ac refelluntur, Eleutheropoli, 1666 (s.e. [Rieuwertsz.?]); di
quest’opera esiste anche una recente traduzione francese (La Philosophie Interprète de
l’Ecriture Sainte, a cura di J. Lagrée e P.F. Moreau, Intertextes, Paris, 1988). Per le noti-
zie sullo scritto e sul suo autore si rimanda al volume di R. BORDOLI Ragione e Scrittura
tra Descartes e Spinoza. Saggio sulla «Philosophia S. Scripturae Interpres» di Lodewijk
Meyer e sulla sua recezione, Angeli, Milano, 1997, mentre per una ricostruzione dei
rapporti tra Meyer ed il circolo spinoziano si veda l’articolo di J. LAGRÉE e P.F. MO-
48 La libertà necessaria

cuni studiosi, di una critica nei confronti di Meyer condotta in-


direttamente da Spinoza attraverso l’attacco a Maimonide89,
per cogliere come la proposta ermeneutica del medico cartesia-
no, se certo mostra numerosi punti di vicinanza con quella spi-
noziana, d’altra parte se ne allontana proprio per quanto ri-
guarda la prospettiva complessiva90. Anche la Philosophia Sa-
crae Scripturae Interpres, infatti, attraverso la distinzione tra
sensus verus e veritas orationis91, induce a configurare la Scrit-
tura non «come il doppione (malfatto) della ragione, bensì co-
me una forma storica peculiare (ma non autonoma) di espres-
sione di contenuti razionali non chiari a se stessi»92, quindi
strutturalmente segnata dall’ oscurità e dall’ambiguità93; e tut-
tavia, diversamente che per tutti gli altri testi, nella Bibbia av-
viene che «veritates et veros sensus indissolubili nexu ubique
copulari»94, cosicché l’interprete (cioè il filosofo) che ricerca e
intende il vero senso, coglie anche immediatamente la verità
eterna che in esso si esprime. Il Dio cartesiano di Meyer, che
non può ingannare gli uomini, si erge a garanzia di questa iden-
tità, e quindi anche di quella pratica filosofica che illumina il
senso oscuro della Scrittura, rivelandone nel contempo anche il
contenuto di verità. La razionalità, di cui la filosofia è portatri-
ce eminente, permea di sé anche la Bibbia, per lo meno nella

REAU, La lecture de la Bible dans le cercle de Spinoza, in Le Grand Siècle et la Bible, a cu-
ra di J.R. Armogathe, Beauchesne, Paris, 1989, pp. 97-115.
89 Ad esempio Droetto nel commento al TTP afferma che l’obiettivo polemico di

Spinoza non era soltanto la filosofia scolastica, di cui Maimonide sarebbe stato espo-
nente paradigmatico, «ma anche quella moderna, che si arrogava tuttavia la funzione di
‘interprete della Scrittura’, come dichiarava esplicitamente il Meyer nel titolo della sua
‘exercitatio paradoxa’» (op. cit., p. 225). Per una discussione puntuale di questa ipotesi
cfr. BORDOLI, Ragione e Scrittura, cit., pp. 215 sgg.
90 Questa tesi è stata sostenuta anche da M. WALTHER, Biblische Hermeneutik

und historische Erklärung. Lodewijk Meyer und Benedikt de Spinoza über Norm, Me-
thode und Ergebnis wissenschaftlicher Bibelauslegung, in «Studia Spinozana», XI,
1995, pp. 227-300.
91 In realtà la distinzione è triplice: sensus simpliciter dictus, sensus verus e veritas

(cfr. Philosophia Sacrae Scripturae Interpres, cit., p. 8).


92 Così BORDOLI, Ragione e Scrittura, cit., p. 113.
93 Cfr. Philosophia Sacrae Scripturae Interpres, cit., p. 32.
94 Ivi, p. 33. Sul carattere ‘privilegiato’ del testo sacro rispetto a tutti gli altri si sof-

ferma G. BONOLA, La proposta ermeneutica radicale di Lodewijk Meyer, in «Annali di


storia dell’esegesi», V, 1988, pp. 261-99, in particolare pp. 294-5.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 49

misura in cui quest’ultima asserisce il vero, di modo che ogni


contrasto tra verità filosofica e verità biblica svanisce. Il che
non significa che nella Scrittura sia sottesa una trama filosofica
(come poteva invece pensare Maimonide), ma solo che la filo-
sofia è norma del contenuto di verità della Bibbia95.
Proprio intorno all’idea che la filosofia sia norma della lettu-
ra del testo biblico si manifesta la principale – e non di poco
conto – differenza tra Meyer e Spinoza: il primo, infatti, conce-
pisce il rapporto tra verità filosofica e rivelazione scritturale
dentro un paradigma di impronta cartesiana che radicalizza lo
scarto tra ciò che è razionale e ciò che non lo è, producendo
una rigida gerarchia semantica, all’apice della quale – vero e
proprio principio ordinatore – sta la ratio di Dio e dei filosofi96;
Spinoza, invece, rifiuta questa cesura, che si riprodurrebbe sul
piano antropologico separando i veri e legittimi interpreti della
Bibbia dalla massa del popolo, alla quale non resterebbe se non
«presupporre che i filosofi non possano errare nell’intepretazio-
ne della Scrittura»97. Tale rifiuto si regge sul fatto che la natura
stessa della verità religiosa – e soprattutto la sua portata etica –
si oppone a ogni principio di autorità, cosicché dal metodo che
Spinoza propone «non segue necessariamente che il volgo deb-
ba rimettersi alla testimonianza degli interpreti»98.
Per meglio comprendere questa affermazione occorre ritor-
nare sulla concezione spinoziana del linguaggio (non solo bibli-
95 Cfr. BORDOLI, Ragione e Scrittura, cit., p. 216. Che invece esista un’evidente
dissimmetria tra ragione e Scrittura è quanto sostiene P.F. MOREAU, Louis Meyer et
l’Interpres, in «Revue de Sciences philosophiques et theologiques», LXXVI, 1992, pp.
73-84; dissimmetria che pone con urgenza la domanda intorno all’effettiva utilità della
Bibbia, alla quale Meyer risponde collocando di fatto Descartes nel luogo «demeurée
vide du Magistère ou de la Loi orale» (p. 82).
96 Questa conclusione è condivisa dalla breve nota di P. MACHEREY Louis Meyer

interprète de l’écriture, in ID., Avec Spinoza, cit., pp. 168-72.


97 Opera, III, p. 114 (trad. it. p. 204). La denuncia spinoziana del pericolo di una

nuova casta sacerdotale, ammantata dall’autorità della filosofia, è opportunamente sot-


tolineata anche da J. LAGRÉE, Louis Meyer et la Philosophia S. Scripturae Interpres.
Projet cartésien, horizon spinoziste, in «Revue de Sciences philosophiques et theologi-
ques», LXXI, 1987, pp. 31-43, la quale conclude affermando che per Spinoza la Scrit-
tura «n’enseigne pas de verité, seulement le salut par l’obéissance» (p. 41); ma una si-
mile conclusione manca forse di interrogarsi intorno alla complessità che il concetto di
verità assume nel TTP.
98 Opera, III, p. 115 (trad. it. p. 205).
50 La libertà necessaria

co, bensì del linguaggio tout court): se, infatti, il popolo ebraico
«conosceva la lingua dei profeti e degli apostoli»99, e per que-
sta ragione poteva leggere e cercare di comprenderne il mes-
saggio, questo significa che la lingua, sebbene non possa essere
intesa come segno immediato del vero100, tuttavia permette in
qualche modo l’accesso alla verità. Va ricordata la stretta di-
pendenza che Spinoza individua tra il linguaggio e l’universo
affettivo, dalla quale segue che il primo si colloca nell’ambito
dell’immaginazione e non in quello della razionalità dispiegata,
come afferma Spinoza nello Scolio della proposizione 18 della
II parte dell’Etica:
dal pensiero della parola pomum un Romano passa immediatamente
al pensiero di un frutto che non ha alcuna somiglianza con quel suono ar-
ticolato, né qualcosa di comune se non che il Corpo dello stesso uomo è
stato affetto spesso da queste due cose, è cioè che lo stesso uomo ha udi-
to spesso la parola pomum mentre vedeva lo stesso frutto e così ognuno
passa da un pensiero all’altro, a seconda di come l’abitudine di ognuno
ha ordinato nel corpo le immagini delle cose101.

La genesi immaginativa delle parole, pur costituendo il mo-


tivo della loro equivocità, non impedisce che nella sfera lingui-
stica si dispieghi il valore espressivo del messaggio religioso di
cui la Bibbia è portatrice. Questo comporta la possibilità di
leggere il testo biblico a partire proprio dalla percezione imma-
ginativa del suo significato, per poi procedere, attraverso un
progresso immanente, in direzione di una piena comprensione
razionale. Vi è cioè una verità dell’immaginazione religiosa che
non coincide né con il senso vero delle parole, né con la verità
eterna che da tale senso si distingue, e che tuttavia pone in una
relazione di continuità questi due poli, smorzandone la con-
trapposizione; una verità che si esprime nella critica immanente

99 Ibid.
100 È. BALIBAR, L’institution de la verité. Hobbes et Spinoza, in Hobbes e Spinoza.
Scienza e politica, cit., pp. 3-22, osserva in proposito che «le ‘lieu’ de la verité n’est
pas...le langage en tant que nomination et représentation», poiché «le ‘lieu’ (ou le non
lieu) de la verité est en fait un procès» (p. 18).
101 Opera, II, p. 107 (trad. it. p. 143). Un bel commento di questo Scolio è offerto

da S. ZAC, Spinoza et le langage, in ID., Philosophie, théologie, politique, dans l’oeuvre


de Spinoza, PUF, Paris, 1979, pp. 45-66.
I. Le circostanze della composizione del Trattato teologico-politico 51

al testo che tanto il filosofo quanto il volgo compiono, ciascuno


per mezzo delle proprie conoscenze linguistiche e della propria
specifica comprensione testuale. L’immanenza di tale critica in-
dica il tentativo di liberare il linguaggio della Bibbia dal potere
illusorio connaturato alla sua natura immaginativa, per eviden-
ziarne invece il carattere di insegnamento morale e religioso,
che dipende ugualmente dall’immaginazione, considerata però
sotto un diverso aspetto o, per meglio dire, emergente attraver-
so un diverso uso che si fa di essa102; differenza sancita proprio
nella Prefazione del TTP, quando Spinoza sottolinea l’opposi-
zione tra la parola «teatrale» dei predicatori, che istiga all’odio
teologico ed alla divisione, e il linguaggio «morale» dei dottori
della Chiesa, mirante a istruire il popolo nei precetti dell’amore
e della pietas.
È necessario ricordare che il TTP non intende concentrarsi
esclusivamente sull’indagine intorno al nesso tra Scrittura e ve-
rità filosofica (soprattutto se si colloca quest’ultima nell’ambito
della pura speculazione), come invece fa l’Interpres di Meyer;
Spinoza affronta – e lo dichiara apertamente a Oldenburg – un
problema politico, o meglio di «politica teologica»103, intenden-
do con questa locuzione non semplicemente l’intervento nel di-
battito sul diritto dello Stato nei confronti della religione (quel
dibattito sugli jura circa sacra che coinvolge numerosi studiosi
olandesi intorno alla metà del secolo XVII), che pure gioca un
ruolo di grande rilievo nell’opera spinoziana, bensì il tentativo
di rintracciare la genesi del sentimento religioso sul medesimo
terreno dal quale nasce la teoria politica, ovvero sulla comune
natura e linguaggio degli uomini; fondazione che ha anche un
esito lato sensu politico, determinato dalla fine del dominio del-
la superstizione religiosa e dei suoi effetti perversi sull’esistenza
umana collettiva, e dall’emergenza di un nuovo legame sociale,
fondato sulla pace e sulla tolleranza. L’esegesi spinoziana è dun-

102 Quanto alle diverse possibilità inerenti all’uso del linguaggio – e in particolar

modo del linguaggio teologico-politico – offre interessanti spunti di riflessione il saggio


di P.F. MOREAU Politiques de langage, in «Revue philosophique de la France et de l’E-
tranger», CX, 1985, pp. 189-94.
103 La definizione è in WALTHER, Biblische Hermeneutik, cit., p. 625; ma cfr. anche

MOREAU, Les principes de la lecture de l’Écriture Sainte dans le T.T.P., cit.


52 La libertà necessaria

que un atto politico perché emancipa il testo da ogni autorità


che avoca a sé il monopolio dell’intepretazione, per aprire uno
spazio di lettura e di comunicazione universale.
Proprio per non sostituire un’autorità a un’altra, Spinoza
combatte il potere dei predicatori sul medesimo terreno nel
quale essi operano, quello religioso, anziché affidarsi all’inter-
vento del potere statale; infatti
la semplicità e la sincerità d’animo non si infondono negli uomini con
l’imperio delle leggi e con la forza della pubblica autorità, e nessuno può
essere costretto con la forza o con le leggi a raggiungere la beatitudine;
per questo è necessario invece un richiamo pietoso e fraterno, una saggia
educazione e soprattutto spontaneità e libertà di giudizio (proprium et li-
berum judicium)104.

Rimane tuttavia ancora aperta la domanda riguardante la re-


lazione esistente tra la libertà religiosa e quella invece di una li-
bera Respublica, la communis libertas che trova il proprio fon-
damento nell’ordinamento politico; ma questa non è se non la
riproposizione su una scala più generale del problema che as-
silla Spinoza nella sua missiva a Oldenburg, sulla possibilità di
conciliare il carattere espansivo della libertà individuale con le
forme storicamente determinate della politica. La contingenza
storica, nella molteplicità indefinita delle sue manifestazioni,
appare nuovamente al centro dell’interesse spinoziano, come se
proprio a questo livello si giocasse la partita più importante per
la sua filosofia; come se, nel configurarsi delle libertà degli in-
dividui e delle loro relazioni, ne andasse dell’eterna necessità
della sostanza.

104 Opera, III, p. 116 (trad. it. p. 207).


Capitolo Secondo
LINGUAGGIO, PROFEZIA E IMMAGINAZIONE

1. Spinoza e i «cristiani senza Chiesa»


Esponendo nella Prefazione del TTP le linee fondamentali
della sua critica alla religione positiva, Spinoza fa riferimento a
un processo storico che ha determinato, nel corso dei secoli, la
corruzione del sentimento religioso originario e la perdita di
comprensione del vero insegnamento biblico, istituendo di
contro un meccanismo autoritario che ha trasformato la religio-
ne in uno strumento di dominio della massa dei fedeli da parte
dei teologi, che l’hanno mantenenuta nell’ignoranza e ne hanno
eccitato gli aspetti passionali più violenti1. Un simile esito è il
risultato del disprezzo in cui è caduto il lumen naturale degli
uomini, cioè il mezzo attraverso il quale ognuno sarebbe potu-
to giungere con le proprie forze a una conoscenza adeguata
della Scrittura; il suo posto è stato preso da quel lumen divi-
num che, per la sua natura di dono soprannaturale, è patrimo-
nio di un gruppo ristretto di eletti, che detengono così il mono-
polio dell’interpretazione veritiera del testo biblico e delle
oscurità che vi sono raccolte. Infatti, come sostiene il VII capi-
tolo del TTP, i teologi
sognano che nella Sacra Scrittura siano nascosti profondissimi misteri
[...], e qualunque cosa essi immaginano nel loro delirio la attribuiscono

1 Sul ruolo politico dell’ignoranza Spinoza si sofferma anche nell’Appendice della


I Parte dell’Etica, dove afferma che «coloro che il volgo adora quali interpreti della na-
tura e degli Dei» sanno che, «eliminata l’ignoranza, viene tolto anche lo stupore, cioè
l’unico mezzo che essi abbiano di argomentare e di difendere la propria autorità»
(Opera, vol. II, p. 81; trad. it. p. 120).
54 La libertà necessaria

allo Spirito Santo, e si sforzano di sostenerlo con estrema decisione e con


impeto passionale2.

Nel rilievo conferito da Spinoza alla degenerazione storica


dell’istituzione ecclesiastica è coglibile la consonanza con alcu-
ne argomentazioni tipiche dei gruppi religiosi appartenenti al
cosiddetto movimento della «Seconda Riforma», o «Riforma
Radicale»3, che attraversa i secoli XVI e XVII. Ciò che acco-
muna questi movimenti, per altri aspetti molto lontani l’uno
dall’altro, è il rifiuto di una legittimazione giuridica dell’autori-
tà ecclesiastica, legittimazione che troverà la sua definitiva san-
zione in campo cattolico nel Concilio di Trento4; ma altrettanto
condivisa è la presa di distanza nei confronti della riflessione
luterana sul rapporto tra chiesa e istituzioni temporali. La teo-
logia luterana, infatti, nonostante l’antinomismo che la con-
traddistingue, rifiuta ogni declinazione escatologica, cosicché il
tratto istituzionale della religione, abbandonato in prima istan-
za, riemerge nella necessità di attendere pazientemente la se-
conda venuta di Cristo, senza forzare il corso degli eventi terre-
ni5: il violento scontro con Thomas Müntzer esprime con esat-
tezza il «conservatorismo» di Lutero. Di contro, la religiosità
dei movimenti radicali ricerca propria una dimensione che co-
involga tutti i piani dell’esistenza6, coniugando una riforma
complessiva dell’organizzazione ecclesiastica (che in taluni casi,
ad esempio quello di Müntzer, vuole toccare anche quella so-
ciale e politica) con un recupero dei fondamenti etici della spi-
ritualità: non una semplice Reformatio, quindi, né tantomeno
una nuova Institutio, come quella proposta da Calvino, ma una

2 Opera, III, p. 81 (trad. it. p. 186).


3 La prima definizione è in L. KOLAKOWSKI, Chrétiens sans Église. La Conscience
religieuse et le lien confessionel au XVII siècle, Gallimard, Paris, 1969, mentre la secon-
da dà il titolo al volume di G.H. WILLIAMS, The Radical Reformation, The Westminster
Press, Philadelphia, 1962.
4 Cfr. KOLAKOWSKI, Chrétiens sans Église, cit., pp. 24-31.
5 Per la bibliografia su questo argomento si rinvia alla recente edizione italiana di
M. LUTERO, La libertà del cristiano, a cura di J. Landakammer, La Rosa, Torino, 1994.
6 Nessuna mondanizzazione della religione rientra quindi negli scopi del movi-
mento riformato radicale, come è ben evidenziato nel classico lavoro di E. TROELTSCH,
Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani [1912], La Nuova Italia, Firenze,
1969 (I ed. 1949).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 55

vera e propria Restitutio in integrum, mirante appunto a resti-


tuire all’umanità la perduta contiguità con Dio7.
In quest’ottica – soprattutto all’interno della corrente ana-
battista, che è una delle più importanti del cristianesimo radi-
cale8 –, gioca un ruolo di rilievo il tema della caduta della Chie-
sa, collocata storicamente all’epoca dell’imperatore Costantino,
quando l’istituzione ecclesiastica intraprende quel processo di
ibridazione con il potere secolare che produrrà, nel corso dei
secoli, la perdita dell’uguaglianza originaria di tutti i fedeli e la
sua sostituzione con un imponente apparato gerarchico. Di
conseguenza per molti gruppi eterodossi – certamente l’ana-
battismo, ma ancora di più il socinianesimo9 – il monopolio ec-
clesiastico dell’esegesi biblica va tenacemente combattuto, e
con esso anche il carattere sovannaturale del rito, che proprio
per l’inarrestabile corruzione della Chiesa non è più in grado di
mediare tra l’uomo e Dio. È questo il secondo punto di conver-
genza con le tesi del TTP, fondato sulla tendenza a concepire la
religione come un fatto essenzialmente morale, che si manifesta
più adeguatamente nella piena adesione all’insegnamento evan-
gelico (rappresentato esemplarmente dal sermone della Monta-
gna), piuttosto che nella produzione di un’organizzazione ec-
clesiastica visibile. Perciò il carattere di partecipazione volonta-
ria alla comunità dei fedeli viene continuamente evidenziato
negli scritti di questi autori.
Il territorio olandese, che già negli ultimi decenni del XV se-
colo aveva visto nascere il movimento della Devotio Moderna,

7 Tra i numerosi contributi su questo tema particolarmente significativo è il sag-


gio di J.H. YODER Anabaptism and History, in Umstrittenes Täufertum 1525-1975.
Neue Forschungen, a cura di H.J. Görtz, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1975,
pp. 244-58.
8 WILLIAMS, The Radical Reformation, cit., pp. XXVII-XXXI, propone una tri-
plice distinzione tipologica tra anabattismo, spiritualismo e razionalismo evangelico,
quest’ultimo sorto in un’epoca successiva rispetto ai primi due, e rappresentato emi-
nentemente dal socinianesimo; ma cfr. anche U. GASTALDI, Storia dell’anabattismo, 2
voll., Claudiana, Torino: I. Dalle origini a Münster (1525-1535), 1972; II. Da Münster ai
giorni nostri, 1981, che ripropone la medesima suddivisione, sottolineando però l’inter-
secarsi continuo delle diverse posizioni (vol. I, p. 25).
9 Un’affinità di fondo tra la riflessione religiosa spinoziana e l’insegnamento di
Fausto e Lelio Socino è al centro del lavoro di F. MELI, Spinoza e due antecedenti italia-
ni dello spinozismo, Sansoni, Firenze, 1934.
56 La libertà necessaria

con la sua accentuazione del tema della conversione interiore e


dell’imitatio Christi 10, è assai ricettivo nei confronti delle diver-
se correnti della Seconda Riforma11. Ad esempio l’anabattismo
si instaura prestissimo nei Paesi Bassi, e in particolare in Olan-
da, grazie all’opera di Melchior Hofmann, che impone una for-
te accentuazione millenaristica e rivoluzionaria, culminata nel-
l’occupazione di Münster (1534-5) e nella successiva violenta
repressione da parte degli eserciti degli Stati confinanti (cattoli-
ci o luterani che fossero, comunque uniti dall’esigenza di con-
trastare ogni tentativo di tradurre politicamente le richieste di
una riforma religiosa). Toccherà in seguito a David Joris (1501-
1556) e soprattutto a Menno Simmons (1496-1561) spingere i
loro correligionari – che assumeranno il nome di mennoniti per
onorare il loro capo carismatico – ad abbandonare il progetto
di un mutamento rivoluzionario della società, rifugiandosi nel-
l’attesa della seconda venuta di Cristo12.
Anche maggiore rilievo nella storia religiosa olandese hanno
le opere di Sebastian Franck (1499-1542) e di Kaspar von
Schwenckfeld (1489-1561), appartenenti a quella corrente ete-
rogenea che viene denominata, non senza una certa approssi-
mazione, spiritualismo riformato. Proprio in Olanda il mistici-
smo e l’ispirazionismo spiritualista trovano grande seguito, ar-
monizzandosi con i temi della tradizione umanistica della De-
votio, rinnovata da Erasmo da Rotterdam. Il principale esito di
questa mediazione è la figura di Dirk Volkertsz. Coornhert
(1522-1590), che svolge un ruolo determinante nello sviluppo
successivo della Riforma in Olanda, poiché le sue idee saranno
10 Il De imitatione Christi di Thomas da Kempis (1379-1471) è il più importante
scritto della Devotio Moderna, sulla quale cfr. W. LOURDAUX, Les Dévots modernes, ré-
novateurs de la vie intellectuelle, in «Bijdragen en mededelingen betreffende de ge-
schiedenis der Nederlanden», XCV, 1980, pp. 279-97.
11 Per uno sguardo complessivo sulla presenza di questi movimenti in Olanda cfr.

A.C. FIX, Radical Reformation and Second Reformation in Holland: the Intellectual
Consequences of the Sixteenth-Century Religious Upheaval and the Coming of a Rational
World View, in «The Sixteenth Century Journal», XVIII, 1987, pp. 63-80, nonché
ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp. 84-101.
12 Sulle vicende dell’anabattismo olandese cfr. W.J. KÜHLER, Geschiedenis der Ne-

derlandsche Doopsgezinden in de zestiende eeuws, H.D. Tjeenk Willink & Zoon, Haar-
lem, 1932, e il più recente C. KRAHN, Dutch Anabaptism. Origin, Spread, Life and
Thought, Nijhoff, Den Haag, 1986.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 57

riprese da Grotius e da Arminius13. Coornhert teorizza la com-


pleta interiorizzazione del sentimento religioso, lasciando alle
forme esteriori del culto un ruolo esclusivamente propedeuti-
co, e in quanto tale destinato a essere superato: l’istituzione ec-
clesiastica è ad interim, e le cerimonie possono avere un’effica-
cia educativa, ma non possiedono in alcun modo un valore sal-
vifico14.
Infine merita di essere ricordato, tra le dottrine eterodosse
di maggiore impatto (un impatto individuabile, più che dal nu-
mero degli adepti, dalla pervasività delle idee anche in ambiti
diversi da quello religioso), il socinianesimo, che a partire dai
primi anni del ’600 si diffonde sul territorio delle Province
Unite dei Paesi Bassi15. Il movimento sociniano è senza dubbio
quello che subisce con maggiore continuità gli attacchi della
chiesa calvinista e le persecuzioni da parte delle autorità politi-
che, come nel caso già ricordato dell’editto del 1653, emesso
dagli Stati d’Olanda contro l’antitrinitarismo. In realtà, più che
con l’opposizione al dogma trinitario, è attraverso l’esaltazione
del libero arbitrio che i sociniani sostengono la loro critica ser-
rata alla pretesa di una fondazione divina della Chiesa visibile:
nella dottrina sociniana la natura umana appare capace di com-
piere il bene autonomamente, cosicché la forza del peccato ori-
ginale e la centralità della predestinazione vengono decisamen-
te limitate. Per comprendere la portata rivoluzionaria di questa
posizione basti pensare che lo stesso Grotius, il quale milita tra

13 Della vita e della dottrina di Coornhert si occupano R.M. JONES, Spiritual Re-

formers in the 16th and 17th Centuries, London, Macmillian, 1914 (II ed. 1959), pp.
104-13, J. LINDEBOOM, Stiefkinderen van het Christendom [1929], Gijsbers & Van
Loon, Arnhem, 1973, pp. 264-74, e, più recentemente, H. BONGER, Leven en werken
van D.V. Coornhert, van Oorschot, Amsterdam, 1978. Bonger è anche autore di un sag-
gio dedicato al confronto tra la riflessione religiosa di Coornhert e quella di Spinoza
(Spinoza en Coornhert, «Mededelingen vanwege het Spinozahuis», Brill, Leiden, 1989).
Sull’impatto del pensiero di Coornhert nel contesto olandese cfr. VAN GELDEREN, The
Political Thought of the Dutch Revolt, cit., pp. 243-59.
14 Tra i numerosi scritti in cui Coornhert avanza la sue tesi, il più noto e discusso è

il Synodus van der Conscientien Vryheydt [1582], in D.V. COORNHERT, Wercken, 3 voll.,
Amsterdam, by Jacob Aertsz., 1630.
15 Per una storia del socinianesimo nei Paesi Bassi cfr. J.C. VAN SLEE, De geschiede-

nis van het socinianisme in de Nederlanden, F. Bohn, Haarlem, 1914, e W.J. KÜHLER,
Het socinianisme in Nederland, H.W. Sijthof, Leiden, 1912 (II ed. 1980).
58 La libertà necessaria

le file più tolleranti del calvinismo rimostrante, compone nel


1617 uno scritto contro la dottrina della giustificazione di Fau-
sto Socino16. Resta il fatto che, proprio per il loro rifiuto delle
barriere confessionali, numerosi sociniani entrano in contatto
con altri gruppi religiosi – in particolare con i mennoniti –,
esercitando un’influenza non trascurabile, soprattutto per
quanto concerne la pratica della libera interpretazione del testo
biblico; per non toccare un altro aspetto ampiamente sottoli-
neato, e ancora oggi oggetto di discussione tra gli studiosi, ov-
vero il ruolo della ratio umana nel processo di secolarizzazione
delle categorie religiose17.
Il panorama religioso olandese del XVII secolo appare quin-
di attraversato da una forte tensione: da un lato gli elementi più
conservatori della chiesa calvinista, ma anche numerosi espo-
nenti della dottrina anabattista, che tendono a chiudersi in una
difesa rigorosa dell’ortodossia; dall’altro l’universo multiforme
delle diverse fedi cristiane, che esprime un fermento innovatore
nato dall’interazione tra individui di fede diversa, ma tutti spin-
ti dal desiderio di superare le barriere dottrinali per realizzare
un ideale etico fondato sull’universalismo piuttosto che sulle di-
stinzioni dogmatiche. La principale conseguenza è rappresenta-
ta dai numerosi conflitti che scuotono le comunità ecclesiasti-
che: in primis quella calvinista, che vede il montare della prote-
sta arminiana, infine condannata dal Sinodo di Dordrecht nel
1618; ma anche quella mennonita, che nel 1659 ad Amsterdam
si spezza in due correnti. In entrambi i casi, tuttavia, la chiusura

16 Defensio fidei catholicae de satisfactione Christi adversus Faustum Socinum se-

nensem, Lugduni Batavorum,1617, anche in ID., Opera omnia theologica, vol. IV, Am-
stelodami, apud heredes Joannis Blaev, 1679, pp. 293-348 (nuova ed. a cura di E. Rab-
bie, Van Gorcum, Assen, 1990). Occorre comunque ricordare che la presa di distanza
dal socinianesimo risponde anche all’esigenza ‘tattica’ di parare le critiche dei calvinisti
ortodossi, i quali cercano di appiattire la posizione dei Rimostranti su quella sociniana,
considerata da tutti eretica.
17 Su questo ruolo insiste F. PINTACUDA DE MICHELIS, Socinianesimo e tolleranza

nell’età del razionalismo, La Nuova Italia, Firenze, 1975, in particolare pp. 1-9; tuttavia
occorre anche sottolineare come negli scritti sociniani il significato del concetto di ra-
gione resti spesso indeterminato, e quindi sia estremamente difficile coglierne i nessi
con la razionalità ‘laica’ della scienza moderna. Per una problematizzazione del quadro
cfr. E. SCRIBANO, Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento,
Angeli, Milano, 1988, pp. 152 sgg.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 59

a ogni contaminazione da parte degli apparati ecclesiastici non


riesce ad avere la meglio sulla forza centrifuga dell’eterodossia,
che tende a spezzare gli steccati dottrinali e a favorire la condi-
visione di esperienze religiose apparentemente lontane tra loro.
Uno degli esiti più originali e nel contempo paradigmatici
della diffusione delle dottrine eterodosse in Olanda è il movi-
mento collegiante; un fenomeno assai difficile da inquadrare
sociologicamente, al punto che la stessa definizione di ‘setta’ ri-
sulta inadeguata. Infatti il tratto distintivo di un raggruppa-
mento settario è la presenza di un forte elemento identitario,
che discrimina inequivocabilmente i membri della setta dal re-
sto degli uomini18; tale aspetto è sempre la conseguenza di una
scelta volontaria (poiché se nella chiesa cattolica si entra pres-
soché con la nascita, nella setta invece si decide di entrare; di
qui il rifiuto, caratteristico non soltanto dell’anabattismo, del
battesimo dei neonati), dell’adesione a una proposta esistenzia-
le radicale che spezza la continuità della vita quotidiana, mani-
festandosi come autentica anticipazione del regno di Cristo sul-
la terra. Una simile impostazione è invece assente nei collegi
che sorgono durante il XVII secolo in numerose città olandesi,
e nei quali la partecipazione è aperta a tutti coloro che deside-
rano ricercare la verità e praticare la carità cristiana, senza di-
stinzioni, almeno in linea di principio, di confessione19.
Il movimento collegiante nasce a Warmond (un paesino
presso Rijnsburg) nel 1619, per iniziativa di Gijsbert van der
Kodde, un calvinista arminiano educato sui testi dell’irenismo
cristiano rinascimentale, da Sébastien Castellion a Coornhert.
Costui, in seguito alla deposizione del pastore rimostrante del
paese, propone ai suoi correligionari di continuare gli incontri
di preghiera autonomamente, organizzando in comune la lettu-

18 Il rinvio è ancora all’opera di TROELTSCH, Le dottrine sociali delle chiese e dei

gruppi cristiani, cit.


19 Cfr. J.C. VAN S LEE , De Rijnsburger Collegianten [1895], Hes Publishers,

Utrecht, 1980, il quale afferma che quella collegiante è una setta che intende eliminare
ogni settarismo (p. 270). Per una ricostruzione della storia del movimento collegiante
(che già nel XVIII secolo suscitava l’interesse degli studiosi, come attesta il libro di E.
VAN NIMWEGEN Historie der Rijnsburger Vergadering, Rotterdam, 1775), cfr. anche
A.C. FIX, Prophecy and Reason. The Dutch Collegiants in the Early Enlightenment,
Princeton University Press, Princeton, 1991.
60 La libertà necessaria

ra e il commento dei Testi Sacri. L’esperimento ha successo, al


punto da suscitare l’interesse di numerose altre congregazioni
religiose sparse su tutto il territorio olandese, in particolare nel-
le grandi città, dove al nucleo originario calvinista si aggiungo-
no membri delle chiese mennonitiche (che potevano contem-
poraneamente frequentare i collegi e restare legati alla loro co-
munità20), quaccheri e perfino sociniani ed esponenti del razio-
nalismo scettico. Esemplare dell’eclettismo collegiante è la co-
stituzione del collegio di Amsterdam, fondato nel 1645 o 1646
da Daniel De Breen (1594-1664) e da Adam Boreel (1603-
1666), i quali propongono una sintesi tra la tradizione umani-
stica olandese, rifluita nella protesta rimostrante contro l’orto-
dossia calvinista, e le pulsioni millenaristiche dello spirituali-
smo. Ed esemplari sono anche le biografie intellettuali dei due
fondatori: Boreel (1603-166621) è un teologo spiritualista che
aveva già tentato precedentemente di costituire dei gruppi di
preghiera non confessionali in diverse città olandesi, seguendo
il modello istituito da Schwenckfeld nella Germania meridio-
nale, rifiutando quindi di considerare come fondativo l’aspetto
sacramentale all’interno della comunità ecclesiastica22; De Breen
(1594-1664) partecipa dapprima al movimento rimostrante in
seno al calvinismo olandese, operando anche come segretario
di Episcopius, colui che prende il posto di Arminius alla sua
morte, ma poi se ne allontana gradualmente, per maturare una
visione religiosa millenaristica. Infine va ricordato che il colle-
gio di Amsterdam è frequentato dall’amico di Spinoza Pieter
Balling, che partecipa attivamente al dibattito interno.
Il grande fermento che movimenta la vita religiosa olandese
20 Sulle relazioni che intercorrono tra collegianti e mennoniti cfr. S.B.J. ZILVER-
BERG, De plaats van het collegiantisme in de zeventiende-eeuwse kerkgeschiedenis, in
«De zeventiende eeuw», V, 1989, pp. 113-9; A.C. FIX, Mennonites and Collegiants in
Holland 1630-1700, in «Mennonite Quarterly Review», LXIV, 1990, pp. 160-77.
21 Questi sono gli estremi biografici presentati da VAN SLEE, De Rijnsburger Colle-

gianten, cit., pp. 138-41 e ripetuti da L. VAN BUNGE, Johannes Bredenburg (1643-1691).
Een rotterdamse collegiant in de ban van Spinoza, Erasmus Universiteit Drukkerij, Rot-
terdam, 1990, p. 10; Fix, invece, anticipa entrambe le date di un anno (cfr. Prophecy
and Reason, cit., p. 87).
22 Cfr. FIX, Prophecy and Reason, cit., pp. 41-5. Per una panoramica più dettaglia-

ta sulle vicende e sulle idee di Adam Boreel cfr. W. SCHNEIDER, Adam Boreel: Sein Le-
ben und seine Schriften, Giessen, Münchow, 1911.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 61

del XVII secolo non può non avere degli effetti sulla riflessione
di Spinoza, che condivide con i gruppi eterodossi, come si è
evinto dalla Prefazione del TTP, alcuni importanti presupposti
teorici; resta da capire se questo sia sufficiente per individuare
un terreno concettuale comune, o se le consonanze si limitino
alla polemica nei confronti dell’intolleranza istituzionale. Due
sono i versanti lungo i quali è possibile affrontare questo tema:
quello della ricezione dello scritto spinoziano nell’ambito del
cristianesimo eterodosso olandese23, e quello, già parzialmente
considerato, dell’individuazione da parte di Spinoza dei desti-
natari della sua opera. Se la prima via permette una valutazione
complessiva delle diverse posizioni, e deve quindi essere tenuta
nella giusta considerazione, il secondo percorso può tuttavia
offrire un contributo teorico di maggiore spessore: non si trat-
ta, infatti, soltanto di chiedersi se tra i «lettori filosofi» di Spi-
noza vi siano anche i membri di questi gruppi riformati – la ri-
sposta non potrebbe che essere positiva –, quanto piuttosto di
determinare le linee fondamentali del progetto che sottende la
stesura e la pubblicazione del TTP, e in seconda battuta di in-
terrogarsi intorno alla relazione esistente tra tale progetto e la
riflessione filosofica spinoziana. L’indagine sugli interlocutori
scelti da Spinoza mette in gioco la relazione esistente tra oriz-
zonte metafisico e prassi politica, e lo fa attraverso la mediazio-
ne del linguaggio: non solo del linguaggio religioso come og-
getto d’indagine del TTP, ma anche del linguaggio che Spinoza
utilizza per comunicare la sua verità, e che perciò esprime un
elemento decisivo di soggettività.

2. Critica del linguaggio, politica e religione:


Koerbagh e Balling
Il capitolo precedente aveva sottolineato il peso fondamen-
tale dello studio storico della lingua biblica nel TTP, allo scopo
23 Cfr. H.G. HUBBELING, Aperçu général de la réception de la philosophie de Spino-

za en Holland au XVIIe siècle, in «Cahiers Spinoza», V, 1983-4, pp. 167-85; L. VAN


BUNGE, On the Early Dutch Reception of the Tractatus theologico-politicus, in «Studia
Spinozana», V, 1989, pp. 225-51; e inoltre i numerosi articoli presenti negli atti L’héré-
sie spinoziste, cit.
62 La libertà necessaria

di distinguere in maniera inequivocabile il sentimento religioso


che il cristianesimo originario esprimeva dalla deriva autorita-
ria imposta alla religione dalla superstizione. Su un piano con-
tiguo si muove l’opera di Adriaan Koerbagh (1632/3-1669) di
cui si è già ricordata la triste fine nelle prigioni di Amsterdam;
un’opera tesa a scavare nell’ambiguità semantica delle parole e
a denunciarne l’aspetto ideologico attraverso la critica serrata
all’autorità politica e religiosa. Studioso di diritto e di medicina
presso l’università di Utrecht – mentre il fratello Johannes, an-
ch’egli poi accusato di eresia, segue i corsi di teologia –
Adriaan conosce Spinoza durante le comuni frequentazioni
della casa di Franciscus van den Enden negli anni precedenti
alla partenza del filosofo per Rijnsburg (1661), e successiva-
mente con ogni probabilità fa parte del gruppo di amici che si
riunisce per commentare le opere spinoziane, a partire dal Bre-
ve Trattato; nel contempo studia anche Descartes e Hobbes24.
Lo scritto che gli costerà la violenta persecuzione da parte del
clero prima, e della magistratura civile poi, è intitolato Een
Bloemhof van allerley lieflijkheyd sonder verdriet 25: come affer-
ma anche il seguito del titolo, si tratta di una sorta di vocabola-
rio ragionato delle parole straniere in uso nella lingua nederlan-

24 Sulle vicende di Adriaan Koerbagh, oltre al racconto di MEINSMA, Spinoza en

zijn kring, cit., sostanzialmente ripreso da FRANCÉS, Spinoza dans le pays néerlandais,
cit., cfr. anche H. VANDENBOSSCHE, Adriaan Koerbagh en Spinoza, «Mededelingen van-
wege het Spinozahuis», Brill, Leiden, 1978. La tesi di una esplicita influenza hobbesia-
na nel pensiero di Koerbagh, e in special modo nella sua filosofia politica, è sostenuta
da G.H. JONGENEELEN, La philosophie politique d’Adrien Koerbagh, in «Cahiers Spino-
za», VI, 1991, pp. 247-67.
25 Een Bloemhof van allerley lieflijkheyd sonder verdriet, geplant door Vreederijk

Waarmond, ondersoeker der waarheyd, tot nut en dienst van al die geen die der nut en
dienst uyt trekken wil. Een vertaling en uytlegging van al de Hebreusche, Griecksche, La-
tijnse, Franse en andere vreemde bastaard-woorden en wijssen van spreeken, die (‘t welk
te beklaagen is) soo inde Godsgeleertheyd, regtsgeleerthyd, geneekonst, als in andere kon-
sten e wetenschapen, en ook in het dagelijks gebruyk van speeken, inde Nederduytse taal
gebruykt worden, Tot Leyden, voor Goedaert Onderwijs, 1668. Il titolo può essere tra-
dotto così: Un giardino fiorito di ogni genere di piaceri e privo di afflizioni, piantati da
Tranquillo Boccasinsera, ricercatore della verità, per l’uso e il vantaggio di chiunque ne
voglia trarre uso e vantaggio. Ossia una traduzione e interpretazione di tutte le parole
ibride e i modi di dire tratti dall’ebraico, dal greco, dal latino, dal francese e da altre lin-
gue straniere, e che sono usate – cosa deplorevole – in teologia, nel diritto, nella medici-
na e in tutte le arti e scienze ed anche nell’uso quotidiano della lingua nederlandese.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 63

dese, delle quali la maggior parte degli uomini ignora il signifi-


cato originario e che, proprio per questo, possono diventare
degli strumenti di potere nelle mani dei «professionisti del lin-
guaggio», soprattutto i giuristi e i predicatori. Il ruolo fonda-
mentale della conoscenza filologica come strumento di libera-
zione dall’ignoranza e dai pregiudizi si contrappone all’uso
oscurantista di chi detiene il monopolio integrale dell’interpre-
tazione delle parole – non necessariamente solo del testo bibli-
co: infatti Koerbagh è autore anche della traduzione di un di-
zionario latino di terminologia giuridica composto da Grotius
(’t Nieuw Woorden-boek der Regten, Amsterdam, 1664) –, una
contrapposizione vissuta ovviamente dalle autorità ecclesiasti-
che e politiche come una grave minaccia. Fin dall’introduzione
l’obiettivo polemico del Bloemhof è evidente: essa afferma che
la molteplicità dei linguaggi e la loro indisponibilità a unifor-
marsi in una lingua universale non è solo il principale proble-
ma delle scienze, ma presenta anche un aspetto politico di
grande rilievo, determinato dall’impossibilità da parte della
«maggioranza della popolazione (het meeste volk)» di formarsi
un proprio giudizio intorno alle «verità» che la classe dei pre-
dicatori le comunica, sostenendole su un principio d’autorità
trascendente26. Di conseguenza Koerbagh si impegna in un ac-
curato lavoro di demistificazione, che ha lo scopo di educare al
dubbio e alla critica27, e che è rivolto all’intera umanità, dal
momento che ognuno è, almeno in linea di principio, in grado
di cogliere il contenuto di verità di un’affermazione.
Si tratta senza dubbio di una visione monistica e astratta del
proprio pubblico di lettori28, che corrisponde a un razionalismo
radicale (di cui testimonia anche la volontà di Koerbagh di isti-
tuire una scienza unitaria, che raccolga in sé la fisica, l’escatolo-
gia, la morale e la politica) assente nell’opera di Spinoza; tutta-

26 Cfr. ivi, pp. 1-4.


27 Un’analisi della struttura pedagogica dell’opera di Koerbagh è in H.J. SIEBRAND,
Spinoza and the Netherlanders, Van Gorcum,. Assen-Maastrichit, 1988, pp. 13 sgg.
28 Su questo aspetto, e più in generale sull’antropologia di Koerbagh che ne è a

fondamento, cfr. H. VANDENBOSSCHE, Spinozisme en kritiek bij Koerbagh, Publicatie


van de Vrije Universiteit Brussel, Centrum voor de studie van de Verlichting, Bruxel-
les,1974, pp. 11-24.
64 La libertà necessaria

via i due pensatori sono accomunati dalla precisa valutazione


dal carattere mistificatorio del linguaggio usato dal potere, in
particolare quello religioso. Di questo giudizio Koerbagh dà un
chiaro esempio nel Bloemhof alla voce «DUYVEL (diavolo)»29,
dove egli spiega come il significato del termine greco diabolos,
cioè ‘mentitore, calunniatore’, venga interamente decontestua-
lizzato e rimodellato dai predicatori (gli «handelaars-theolo-
gen», cioè i «teologi mercanti», che fanno commercio della reli-
gione), i quali lo sostituiscono con un significato nuovo, privo
di alcuna giustificazione filologica, ma utile al fine di ingannare
chi non può attingere al testo originario: così il diavolo non è
più semplicemente un essere menzognero, ma diventa l’incarna-
zione del male, colui che da buono è poi divenuto malvagio in
seguito alla disobbedienza nei confronti del Signore. Lo scopo
di questa riformulazione semantica è evidente: essa serve ad
ammonire chiunque rifiuti di sottomettersi a Dio e ai suoi rap-
presentanti sulla terra, poiché rivela come non sia sufficiente un
animo onesto per la salvezza, ma occorra anche e soprattutto
l’assoluto rispetto dell’ordine religioso costituito.
Già nella Prefazione, d’altra parte, veniva smascherata l’ope-
razione ideologica dei teologi per allontanare la gente comune
dalla lettura dei Testi Sacri, condotta attraverso una violenta
propaganda contro chi, anziché occuparsi del proprio lavoro,
che è il modo migliore per santificare la propria vita ed essere
degni della grazia divina, perde invece tempo prezioso nello
studio (a meno che non lo faccia di professione, come nel caso
dei teologi stessi) e in altre attività non redditizie30. Contrav-
vendendo a questo diktat, Koerbagh affronta l’esegesi biblica
con la volontà di far emergere il significato originario di ogni
termine; ma, laddove la ricostruzione storica e linguistica non
sia sufficiente, dove cioè il vero senso e la verità della cosa non
combacino, spetta in ultima istanza alla ragione operare un
chiarimento definitivo del significato. Così, alla voce «BIBEL
(Bibbia)», il Bloemhof spiega che occorre distinguere la Scrittu-
ra nella sua interezza – la Bibbia come semplice «libro», secon-

29 Een Bloemhof, cit., p. 258.


30 Ivi, p. X.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 65

do l’etimologia, e come tale scritta dalla mano dell’uomo – da


quella parte che invece esprime effettivamente la parola di Dio,
e che si accorda con le verità razionali31. Coerentemente, nella
sua seconda opera, Een Ligt schijnende in Duystere Plaatsen 32,
Koerbagh parla del testo biblico come di un libro superfluo
per il raggiungimento della vera fede, dal momento che il suo
contenuto è dato dalla narrazione delle vicende storico-politi-
che del popolo ebraico piuttosto che dai principi della religio-
ne universale33.
In Een Ligt si legge che la religione razionale consegnata da
Dio agli uomini ha subito un processo di corruzione, anzi una
vera e propria caduta34 che, nonostante i tentativi di Mosè pri-
ma, e di Cristo poi, ha infine prodotto la Chiesa di Roma, vero
e proprio modello per ogni istituzione ecclesiastica successiva,
compresa quella calvinista. Koerbagh quindi non limita la sua
critica al linguaggio, ma la allarga anche alle forme di comuni-
cazione non linguistica, come i riti religiosi e i misteri che vi si
rappresentano, i quali costituiscono il cuore pulsante delle reli-
gioni confessionali: libro, rito e clero sono i tre obiettivi polemi-
ci del medico di Leiden, ai quali è necessario contrapporre la
vera conoscenza, fondata sulla ragione, la cui definizione nell’o-
pera di Koerbagh rimane tuttavia molto generica35. La medesi-
ma contrapposizione esistente sul piano religioso è presente an-
che in politica, dove si fronteggiano due dottrine inconciliabili:
da una parte l’autoritarismo oppressivo e irrazionale del potere
dei teologi, dall’altra la razionalità del patto sociale, attraverso il
quale gli individui decidono «con un voto collettivo (met ge-

31 Cfr. ivi, pp. 95-7.


32 ‘T Amsterdam, Gedrukt voor de Schrijver, 1668 (traduzione: Una luce che bril-
la in luoghi oscuri).
33 Ivi, pp. 337 sgg. Il volume, bloccato dalla censura prima di essere distribuito, è

ora consultabile nell’edizione critica curata da H. Vandenbossche (Vlaamse vereniging


voor wijsbegeerte, Bruxelles, 1974), da cui sono tratti i riferimenti testuali.
34 Cfr. ivi, p. 237, ma anche Een Bloemhof, cit., p. 556 (articolo ‘RELIGIE’).
35 La mancanza di determinazione del concetto di razionalità è evidenziata da SIE-

BRAND, Spinoza and the Netherlanders, cit., p. 20, e appare simile a quella riscontrata
anche in numerosi testi sociniani (cfr. la nota 17 di questo capitolo). La cosa forse non
è casuale, se si pensa che Koerbagh frequentava con assiduità numerosi esponenti di
questo movimento, per il quale nei suoi scritti ha anche parole di lode.
66 La libertà necessaria

meene stemmen)» di affidare ad un terzo il potere di legiferare,


in modo da vivere tutti in pace e libertà36. Al di là degli aspetti
poco convincenti nell’argomentazione (come ad esempio l’inde-
terminatezza del concetto di misbruikte macht, «abuso di pote-
re», a causa del quale il detentore della sovranità perde la legit-
timazione popolare37), va sottolineato come in Koerbagh l’inte-
resse politico si fonda con quello religioso, ed entrambi trovino
un preciso riferimento nella situazione olandese dell’epoca, co-
me testimonia un altro breve scritto, ‘t Samen-spraeck Tusschen
een Gereformeerden Hollander en Zeeuw. Waer in de Souverai-
niteyt van Holland ende West-Vriesland klaer ende naectelijck
werd vertoont 38, composto per sostenere la tesi della subordina-
zione dell’autorità religiosa a quella civile39. Tanto Koerbagh
quanto Spinoza affrontano così il medesimo problema teorico a
partire da un impulso che nasce dalla volontà di intervenire di-
rettamente sul piano della contingenza storica; tuttavia le ango-
lature dei due interventi e i loro esiti (che finiscono per incidere
sulle esistenze dei due pensatori) sono assai diversi: infatti dalla
fiducia illimitata nella forza della ragione che l’opera di Adriaan
Koerbagh testimonia, Spinoza sembra prendere le distanze fin
dalle prime pagine del TTP, quasi volesse esorcizzare lo sfortu-
nato destino dell’amico. Ma è chiaro che non si tratta solo di un
problema esistenziale, bensì anche di una visione complessiva
differente, poiché, nonostante la comune percezione del pro-
blema teologico-politico, per Spinoza la frattura postulata da
Koerbagh tra l’unica fonte di conoscenza vera, cioè la ragione,
e il mondo necessariamente falso dell’immaginazione religiosa,
non può risultare soddisfacente.
Della natura del linguaggio religioso si occupa anche uno
dei più stretti amici di Spinoza, quel Pieter Balling (morto pro-
babilmente di peste nel 1664) che traduce in lingua olandese il

36 Cfr. Een Ligt, cit., p. 307.


37 Ivi, p. 14.
38 Tot Middelburg, by Antoni de Vrede, 1664 (traduzione: Dialogo tra un riforma-

to olandese e un zelandese, in cui la sovranità dell’Olanda e della Frisia occidentale


viene rappresentata in modo chiaro ed evidente).
39 Su quest’opera cfr. G.H. JONGENEELEN, An Unknown Pamphlet of Adriaan

Koerbagh, in «Studia Spinoziana», III, 1987, pp. 405-15.


II. Linguaggio, profezia e immaginazione 67

primo ed unico libro pubblicato in vita da Spinoza con il suo


nome, ovvero i Principi della filosofia cartesiana (1663 nell’edi-
zione latina; l’anno successivo in quella olandese). Nato ad
Amsterdam, mercante di professione, e probabilmente entrato
in contatto con Spinoza per questo motivo40, Balling è un uo-
mo di buona cultura e di profonda religiosità, conoscitore del
latino e del greco e membro della congregazione mennonitica
di Amsterdam; fa parte del circolo spinoziano al quale appar-
tiene anche Koerbagh, ed è l’autore di un breve scritto, intito-
lato Het Licht op den Kandelaar 41, un testo fortemente impre-
gnato di religiosità spiritualistica, al punto da essere stato rite-
nuto a lungo uno scritto di ispirazione quacchera (tesi suppor-
tata dal fatto che il frontespizio reca il nome di William Ames
come traduttore e autore), ma che presenta anche evidenti ele-
menti razionalistici, sulla base dei quali Balling può essere con-
siderato un esempio eminente del tentativo, proprio del circo-
lo spinoziano, di conciliare l’indagine filosofica con un senti-
mento cristiano autentico42. Fin dalle prime pagine il libro af-
fronta l’analisi della natura del linguaggio, e in particolare del
nesso problematico esistente tra le parole e le cose: «Non sono
le cose ad esistere per le parole, bensì le parole esistono per le
cose. Perciò le cose dovrebbero essere comprese attraverso le
parole bene e in modo conveniente, il che accade soprattutto a
40 Cfr. MEINSMA, Spinoza et son cercle, cit., pp. 135 sgg. Anche Spinoza da giovane

lavora nella ditta commerciale del padre, come attestano i due studi di A.M. VAZ DIAS
e W.G. VAN DER TAK, Spinoza Merchant and Autodidact. Chartes and other authentic
Documents relating to the Philsopher’s Youth and his Relations, in «Studia Rosenthalia-
na», XVI, 1982, pp. 113-71 (I ed. 1932), e The Firm Bento y Gabriel De Spinoza, in
«Studia Rosenthaliana», XVI, 1982, pp. 178-87.
41 Gedrukt voor den Autheur, 1662 (traduzione: La luce sul candelabro). Esiste

una seconda edizione, del 1684, in cui compare il nome dell’autore, e che esce rilegata
insieme allo scritto di un altro membro del circolo spinoziano, Jarig Jelles, la Belijdenis-
se des algemeenen en christelyken geloofs (Confessione di fede universale e cristiana),
pubblicata dall’editore Jan Rieuwertsz., l’editore del TTP.
42 Questa è ormai l’opinione più diffusa negli studi più recenti, che hanno preso le

distanze dalla lettura ‘mistica’ di C. GEBHARDT, Pieter Ballings. Het Licht op den Kan-
delaar, in «Chronicon Spinozanum», IV, 1925-26, pp. 187-200; cfr. FIX, Prophecy and
Reason, cit., pp. 199 sgg., e W.N.A. KLEVER, De spinozistische prediking van Pieter Bal-
ling, in «Doopsgezinde Bijdragen», XIV, 1988, pp. 55-85, il quale individua una forte
assonanza con l’opera di Koerbagh; ma si veda anche la posizione, discordante dai pre-
cedenti, di SIEBRAND, Spinoza and the Netherlanders, pp. 24 sgg.
68 La libertà necessaria

coloro che sono riusciti ad imprimersi [nella mente] le cose


stesse, che sono comparse loro dinanzi»43. Per Balling il lin-
guaggio, pur presentandosi come mezzo di comunicazione in-
dispensabile, è strutturalmente inadeguato a sciogliere le ambi-
guità che reca con sé e a chiarire definitivamente le incom-
prensioni tra gli uomini; al punto che due individui, usando le
stesse parole, possono talvolta esprimere concetti contrappo-
sti. D’altra parte, l’esigenza di creare una lingua priva di frain-
tendimenti sembra perdersi in un processo di emendazione
pressoché infinito44. Le incomprensioni linguistiche tendono a
generare profondi dissidi in ambito religioso, dove ognuno
conferisce a determinate parole un valore assoluto e non pro-
blematizzabile, col risultato che le diverse opinioni in materia
di fede si contrappongono l’un l’altra come muro contro
muro45. Come Spinoza, anche Balling individua nel registro
linguistico il nodo da sciogliere per far luce sulla natura di una
pratica religiosa che, invischiata nella rete dei pregiudizi e della
superstizione, si frantuma in una pluralità di confessioni in pe-
renne conflitto, ma che in ultima istanza «nulla hanno a che fa-
re con la religione originaria»46.
La via d’uscita proposta da Balling si fonda sul principio
della «luce interiore», da intendersi come la «conoscenza chia-
ra e distinta della verità [...], tale per cui è impossibile che si
possa dubitare di essa»47. Una luce presente in ogni uomo, che
permette di distinguere il vero dal falso e il bene dal male48, e
che quindi ha un’immediata valenza etico-religiosa, al punto da
essere identificata con il Cristo49. Si tratta di una tesi che ha
una notevole rilevanza per la comprensione dei rapporti tra il
43 «De zaken zijn niet om de woorden; maar de woorden om de zaken. Zo dan de

zaken wel en behoorlijk door de woorden zouden verstaan werden, dat most geschieden
door zodanige die bequaam waren de zaken zelven den genen die ze voor quamen in te
drukken». Le citazioni sono tratte dalla riproduzione del testo di Balling presente in
KLEVER, De spinozistische prediking van Pieter Balling, cit., pp. 66-74 (citazione da p. 66).
44 Cfr. ivi, par. 2 e 3, p. 66.
45 Cfr. ivi, par. 5, p. 67.
46 «’T niet de ware Ghodtsdienst zoo niet gelegen» (ibid.).
47 «Klaare en ondershiedene kennisse van waarheit [...], dat het voor hem onmo-

gelijk is, daar aan te konnen twijffelen» (ivi, par. 9, p. 68).


48 Cfr. ivi, par. 10, p. 68.
49 Cfr. ivi, par. 11, p. 69.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 69

pensiero cristiano eterodosso e lo sviluppo della razionalità


moderna, e manifesta inoltre non pochi elementi di contatto
con la dottrina del lumen naturale sviluppata nel TTP50; l’inne-
re Licht costituisce infatti il fondamento della religiosità auten-
tica, come dichiara lo stesso Balling: «questa luce è anche il
primo fondamento della religione, dal momento che non vi
può essere alcuna vera religione senza una conoscenza di Dio,
e nessuna conoscenza di Dio senza questa luce»51. Quanto
proviene all’uomo dal mondo esterno rischia di diventare una
distrazione che allontana dalla verità, poiché il nostro corpo è
passivo nel ricevere le immagini, cosicché queste possono
oscurare la luce interiore52; di conseguenza la luce «è anche la
vera regola secondo la quale dobbiamo agire e giudicare ogni
cosa. Essa viene prima di ogni scritto, di ogni dottrina, di qua-
lunque cosa giunga a noi dal di fuori»53. Nessuna autorità
esterna potrà giudicare l’adeguatezza del comportamento al-
trui alla volontà divina («Chi sarà qui il giudice? Chi può esser-
lo se non la luce che è in noi?»54), cosicché la vera religione,
pur in assenza di apparati ecclesiastici, testimonia comunque la
sua presenza attraverso la pratica dell’amore verso il prossimo,
che soltanto la luce interiore è in grado di fondare, poiché
«senza questa luce nell’uomo non vi è alcun potere, o potenza
di fare il bene»55.
L’universalismo, il rifiuto di ogni istituzionalizzazione e di
ogni principio autoritativo, il fondamento etico, e soprattutto
un individualismo radicale, fondato sull’immediata chiarezza e
distinzione (termini che, come è noto, sono usati da Descartes

50 Cfr. ancora KLEVER, De spinozistische prediking van Pieter Balling, cit., p. 61.
51 «Dit Licht is ook het eerste beginzel van den Ghodsdienst, want dewijle geen
ware Ghodsdienst kan zijn zonder een kennisse Ghodts; en geen kennisse Ghodts zon-
der dit Licht» (Het Licht, cit., par. 14, p. 70).
52 Cfr. ivi, par. 12, p. 69.
53 «Dit is ook het ware richtsnoer, na’t welke al ons doen en laten gericht moet

worden. Dit staat voor, voor alle schrift, lere, of iets dat ons van buiten voorkomt» (ivi,
par. 18, p. 72).
54 «Wie zal hier den Richter zijn? wie kan het anders zijn als het Licht in ons?»

(ibid.).
55 «Zonder dit Licht is in den mensche geen macht, of vermogen om yet dat

ghoedt is te konnen doen» (ivi, par. 15, p. 70).


70 La libertà necessaria

nel suo Discorso sul metodo 56) della conoscenza interiore, sono
i tratti della religione descritta nella Licht, che riecheggiano le
affermazioni presenti nella Prefazione del TTP; tuttavia la vo-
lontà di liberare l’uomo dall’assoggettamento alle leggi del
mondo trae con sé una sostanziale svalutazione della facoltà
immaginativa come strumento di comunicazione tra gli uomi-
ni, finendo per gettare delle ombre sulle modalità della concre-
ta articolazione della comunità dei veri fedeli; e di conseguenza
anche sul linguaggio, che pure Balling considera un medium
insostituibile per comunicare nel mondo l’essenza della vera
religio.

3. Libera profezia e visibilità della Chiesa:


l’esperienza dei collegianti
L’interesse per il ruolo del linguaggio nell’ ambito della reli-
gione è dunque il denominatore comune tanto alla Prefazione
del TTP, quanto all’opera di Koerbagh e alla Licht di Balling;
resta da considerare come proceda la riflessione di Spinoza, a
partire da questo sfondo problematico condiviso, e in questa
direzione delle importanti indicazioni sono presenti nei primi
tre capitoli del TTP, che si occupano del significato e del valo-
re della profezia.
È noto il ruolo dell’ispirazione profetica nella storia delle re-
ligioni riformate57 e in quella dei movimenti entusiastici, in lot-
ta perenne con l’isitituzione ecclesiastica58; in particolare, l’ana-
battismo sviluppa una concezione della profezia che, svolgen-
dosi a partire dall’ispirazionismo rivoluzionario fino al pacifi-
smo mennonita, produce la netta separazione tra piano divino
e piano mondano, consentendo infine la piena interiorizzazio-
ne del messaggio religioso, e nel contempo istituendo una pra-
56 È soprattutto FIX, Prophecy and Reason, cit., a insistere sulla presenza di una

matrice cartesiana nello spiritualismo di Balling.


57 Tra i lavori più recenti cfr. M. MIEGGE, Il sogno del re di Babilonia. Profezia e

storia da Thomas Müntzer a Isaac Newton, Feltrinelli, Milano, 1995, e R.H. POPKIN,
Prophecy and Skepticism in the 16th and 17th Centuries, in «British Journal of the Hi-
story of Philosophy», IV, 1996, pp. 1-20.
58 Si veda ad esempio R.A. KNOX, Illuminati e carismatici. Una storia dell’entusia-

smo religioso [1950], Il Mulino, Bologna, 1970.


II. Linguaggio, profezia e immaginazione 71

tica di paziente sopportazione nei confronti delle persecuzioni


attuate dai poteri terreni59. In altri ambiti confessionali, invece,
dall’accentuazione del carattere profetico della religione emer-
ge la tendenza opposta, ovvero la richiesta di un deciso cam-
biamento della struttura ecclesiastica, quando non dell’intera
società; si pensi, ad esempio, al radicalismo politico calvinista,
che nasce proprio dalla fede nell’autenticità dell’ispirazione di-
vina, la quale comanda ai veri fedeli di farsi strumenti nelle ma-
ni di Dio per la realizzazione della sua Chiesa60. Tra queste po-
sizioni estreme – da un lato il rifiuto spiritualista di ogni visibi-
lità, dall’altro l’iperattivismo rivoluzionario –, entrambe deri-
vanti dall’accentuazione dell’elemento profetico nella religione,
esiste anche una terza via, che privilegia il valore comunicativo
ed aggregante della conoscenza profetica: è la strada intrapresa
in Olanda dal movimento collegiante.
Dopo la nascita e la diffusione dei primi collegi nelle princi-
pali città olandesi, il movimento è attraversato da un periodo di
forte tensione chiliastica, contemporanea alla rinascita seicente-
sca del millenarismo nei circoli anabattisti e nel settarismo ingle-
se, e del messianismo in ambiente ebraico61. I principali espo-
nenti di questa tendenza sono Daniel De Breen e Pieter Serra-
rius; De Breen, già ricordato come uno dei fondatori del colle-
gio di Amsterdam, nella sua opera principale commenta alcuni
passi biblici famosi (soprattutto il II capitolo del Libro di Da-
niele62), prevedendo l’imminente creazione del regno di Cristo
sulla terra, caratterizzato dall’annullamento di ogni struttura ec-
clesiastica e dalla conseguente instaurazione di un’uguaglianza
assoluta tra tutti i credenti, senza distinzione tra clero e laici63.

59 Sul ruolo del profetismo nella storia dell’anabattismo cfr. GASTALDI, Storia del-

l’anabattismo, cit., vol. I, pp. 7-35.


60 Cfr. il classico lavoro di M. WALZER, La rivoluzione dei Santi [1965], Claudiana,

Torino, 1996.
61 Cfr. FIX, Prophecy and Reason, cit., pp. 57 sgg.
62 Per una storia dell’interpretazione di questo passo in età moderna cfr. MIEGGE,

Il sogno del re di Babilonia, cit.


63 Cfr. DE BREEN, Van’t geestelijk triumpherende ryck onses heeren Jesu Christi (Del

regno spirituale trionfante di nostro signore Gesù Cristo), Amsterdam, 1653. Ne esiste
anche una traduzione latina, apparsa pochi anni dopo (Tractatus de Regno Ecclesiae
glorioso per Christum in terris erigendo, Amsterdam, 1657).
72 La libertà necessaria

Serrarius (1600-1669) è invece un personaggio di rilievo nelle


vicende dei movimenti settari anglo-olandesi, nonché l’interme-
diario nello scambio epistolare tra Spinoza ed Henry Olden-
burg, come testimoniano le lettere XXV e XXVI dell’epistolario
spinoziano64. Della sua ampia produzione scritta vanno ricorda-
te alcune tappe fondamentali: la confutazione dell’opera di Lo-
dewijk Meyer Philosophia S. Scripturae Interpres, che contrappo-
ne al razionalismo dell’autore un’ermeneutica della grazia divi-
na65; gli scritti di carattere astrologico, miranti a supportare la
tesi di un’imminente seconda venuta di Cristo66; e, infine, un
breve scritto polemico in difesa di Galenus Abrahamsz., sul
quale si dovrà tornare più avanti67.
A fianco di questa tendenza millenaristica, nel movimento
collegiante si sviluppa anche un’articolata discussione intorno
alla libertà di parola nelle riunioni religiose, che prende lo
spunto dalla pratica stabilita dal fondatore del primo collegio,
per poi diventare una riflessione collettiva sulla natura della
chiesa visibile e sul significato dei colloquia prophetica (termine
con cui venivano chiamate le riunioni dei collegianti, le quali
presto divennero la cifra distintiva del movimento68). Tra gli
scritti di maggiore spessore teorico vi sono quelli del collegiante
di Leiden Laurens Klinkhamer (1626-1687), fondatore del col-

64 Cfr. Opera, IV, pp. 158-9 (trad. it. pp. 154 e 156).
65 Responsio ad exercitationem paradoxam anonymi cujusdam, cartesiane sectae di-
scipuli, qua philosophiam pro infallibili S. Literas intepretandi norma orbi christiano ob-
trudit, C. Cunradus, Amsterdam,1667.
66 Il primo e più importante è la Brevis dissertatio de fatali et admiranda illa om-

nium planetarum conjunctione, Amsterdam, 1662.


67 Sulla vita e le opere di Serrarius si veda J. VAN DER BERG, Quaker and Chiliast:

the ‘contrary thoughts’ of William Ames and Petrus Serrarius, in Reformation, Confor-
mity and Dissent, a cura di R. Buick Knox, Epworth Press, London, 1977, pp. 180-98,
nonché i numerosi contributi di E.G.E. VAN DER WALL, in particolare: De Hemelse ta-
kenen en het rijk van Christus op aarde: chiliasme en astrologie bji Petrus Serrarius, in
«Kerkhistorische Studien», LVII, 1982, pp. 45-64; Petrus Serrarius (1600-1669) et l’in-
terpretation de l’Écriture, in «Cahiers Spinoza», IV, 1982-3, pp. 187-217; De mystieke
chiliast Petrus Serrarius en zijn wereld, dissertazione, Leiden, 1987; The Amsterdam
Millenarian Petrus Serrarius (1600-1669) and the Anglo-Dutch Circle of Philo-Judaists,
in Jewish-Christian Relations in the 17th Century, a cura di J. van der Berg e E.G.E.
van der Wall, Kluwer, Dordrecht-Boston-London, 1988, pp. 73-94.
68 I colloquia prophetica furono «both the outward symbol and the functional

principle of the Rijnsburger religion» (FIX, Prophecy and Reason, cit., p. 169).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 73

legio di quella città; la sua opera principale, intitolata Vryheidt


van spreecken inde gemeynte der geloovigen 69, conduce fin dalle
prime pagine un attacco violento al ceto dei predicatori, accusa-
ti di produrre innumerevoli divisioni tra i credenti. Già nell’In-
troduzione al lettore – Aan den Leezers – Klinkhamer si chiede:
«ci si deve allora affidare interamente ai predicatori? Solo loro
devono parlare, e noi dobbiamo seguirli come stupidi animali?
Sono forse soltanto loro i sostenitori infallibili della verità? E
Dio ha lasciato cadere il suo spirito solo su di loro, cosicché essi
non vogliono né possono ingannarci?»70. Che l’interpretazione
della Scrittura sia un monopolio nelle mani di pochi è per Klin-
khamer il vero scandalo delle religioni storiche, il principale
motivo per cui esse si allontanarono dal vero e universale mes-
saggio di Cristo, che occorre invece riattualizzare, dal momento
che il rito deprivato dello spirito divino finisce per essere fre-
quentato «non tanto per imparare e aumentare la propria sag-
gezza, quanto per ascoltare orazioni piacevoli ed ingegnose, co-
sicché, come in un’opera teatrale, [gli ascoltatori] vengono colti
più dal piacere e dal divertimento delle orecchie che dalla vera
beatitudine divina»71. Si tratta di una denuncia non dissimile da
quella con cui il TTP aveva accusato i predicatori di trasformare
il tempio in un teatro72, dove essi fanno sfoggio di abilità retori-
ca per stupire gli astanti, anziché insegnare la parola di Dio. An-
cora una volta emerge il tratto perverso del linguaggio, la sua
disponibilità a diventare strumento di dominio delle coscienze.
Ad ogni modo Klinkhamer individua il rimedio a questo uso
degenerato della parola religiosa, affermando la necessità di ri-
tornare alla condizione originaria dei cristiani, grazie alla crea-
zione di una comunità nella quale ogni fedele ha il compito di

69 Tot Leyden, By Isaac de Waal, 1655 (traduzione: Libertà di parola nella comu-

nità dei fedeli).


70 «Moet het even-wel den Predikanten alleen toe-vertrouwt zijn? Moeten de’et

alleen zeggen, en wy als domme Dieren volghen? Zijn zy dan alleen de onfeylbaere ver-
kondigers der waerheydt? En heeft Godt zijnen Gheest alleen over haer uytghegooten,
dat zy noch willen noch konnen bedriegen?».
71 «Niet zo zeer om te leeren, en verstandiger of vroomer te worden, als om aerdigh

en konstig te hooren redeneeren, zo dat-ze, gelijck de Comedy-speelen, meer uyt lust en


vermaeck der ooren, als waere Godt-zaeligheydt, worden bezocht» (ivi, pp. 253-4).
72 Cfr. il I capitolo, par. 3, p. 42.
74 La libertà necessaria

«illuminare (verlichten)» chi vive nell’oscurità dell’ignoranza73.


Nella chiesa primitiva, infatti, a nessuno era proibito parlare e
profetizzare perché, come recita S. Paolo nella Lettera ai Corin-
ti, e Klinkhamer riprende letteralmente, «chi profetizza costrui-
sce la comunità»74: la libertà di profetizzare è dunque il fonda-
mento della comunità, la condizione necessaria della sua esi-
stenza, alla quale ciascuno partecipa attivamente, e non da sem-
plice spettatore. In uno scritto composto alcuni anni dopo per
difendere le sue idee dagli attacchi del predicatore calvinista
Isaac Pontanus, Klinkhamer spiega che «il Signore Dio ha sta-
bilito questa libertà di profetizzare nella comunità per preveni-
re la discordia e il caos»75, e che profetizzare non significa altro
che «presentare in una lingua comune e nota, in modo che pos-
sano venire intesi da ognuno, alcuni doni spirituali, per mezzo
dei quali la comunità possa venire ammonita, mossa a commo-
zione, istruita, migliorata o istituita»76. Proprio perché il dono
profetico non è patrimonio di una minoranza, esso stabilisce fra
tutti i credenti un piano di radicale uguaglianza, cosicché «nel-
l’assemblea è lecito che i poveri migliorino e ammoniscano i ric-
chi, i dotti gli ignoranti, i vecchi i giovani e anche viceversa, e
gli uni gli altri, senza distinzione di stato, conoscenza, età,
ecc.»77. Sebbene la libera profezia non dipenda da una facoltà
sovrannaturale, come accadeva invece nella chiesa apostolica,
tuttavia essa non indica semplicemente la volontà di rivendicare
uno spazio pubblico, all’interno del quale ogni singolo indivi-

73 Cfr. Vryheidt van spreecken, cit., pp. 14 sgg.


74 «Die propheteert die sticht de Gemeynte» (ivi, p. 39). Si tratta del versetto 4
del capitolo XIV, un passo che compare in moltissimi altri testi collegianti.
75 «Godt de Heere dese vryheydt van propheteren in de Ghemeynte heeft ghe-

stelt, om twistingh en verwerringh voor te komen» (Verdedinge van de Vryheydt van


Spreken inde Gemeente der Gelovigen, ofte een Antwoort waar de Argumenten welcke
Isaacus Pontanus Remostrant Predikant tot Amsterdam tegen de selve heeft uytgegeven,
t’Amsterdam, Ter Druckerye van Daniel Baccamude, Anno 1662, p. 72).
76 «In een ghemeene en bekende tael, op dat men van een yder verstaen soude

konnen worden, eenighe Geestelijcke gaben voordragen, waer door de Ghemeynte


vermaent, ghetrooft, gheleert, ghebetert, of ghesticht soude worden» (ivi, p. 54).
77 «Inde Vergadering de Arme den Rijcken, de Geleerde den Ongeleerden, de

Oude den Jonghen, &c. ende oock Weerkeerig, de een den ander, zonder onder-
scheydt van staeten, kennis, ouderdom, &c. geoorloft is te beteren, en te vermaenen»
(Vryheidt van spreecken, cit., p. 42).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 75

duo possa liberamente esprimere la propria attitudine naturale


a leggere ed interpretare la Scrittura; per questo Klinkhamer ri-
pete la distinzione della Lettera ai Corinti tra linguaggio natura-
le e profezia, sottolineando la superiorità della seconda sul pri-
mo, «poiché, anche se chi parla una lingua comunica con Dio
nello spirito, ed edifica se stesso, tuttavia egli non porta alcuna
utilità né alla comunità, né ai non credenti [...]; al contrario, se
tutti profetizzassero, una duplice salvezza verrebbe apportata,
sia a loro stessi, sia alla comunità e ai non credenti»78. La profe-
zia è quindi un elemento fondamentale per la ricostituzione di
quel rapporto puro e incontaminato che la comunità originaria
dei fedeli intratteneva con Dio, e che una Chiesa istituita sulla
base della separazione dei credenti in clero e laici non è in gra-
do di riprodurre. Klinkhamer ricorda altresì che anche nell’e-
braismo la libertà di profetizzare aveva un ruolo centrale nell’e-
ducazione religiosa della popolazione, al punto che la discussio-
ne della legge di Dio nella sinagoga «era un dovere comune
(een ghemeene pflicht)»79, cosicché «sia presso i Cristiani, sia
presso gli Ebrei, tanto all’interno quanto fuori dall’assemblea,
ciascuno era autorizzato a presentare la volontà e le leggi di
Dio, e a parlarne per l’edificazione [di tutti]»80. Di Klinkhamer
va infine citato un altro breve scritto, composto per intervenire
nel dibattito sorto in seno al collegio di Rotterdam a seguito
delle affermazioni di Johannes Bredenburg, il quale sosteneva
che l’unità della comunità ecclesiastica non dovesse essere dife-
sa a scapito della libertà di ciascuno81. Di contro, nel suo Losse
en quaade Gronden, Van de Scheur-kerk 82, Klinkhamer rifiuta

78 «Want, al-hoe-wel een die een Taele spreeckt, Godt in den Geest spreeckt, en

hem selven sticht, zoo brengt hy nochtans geen nuttigheydt, noch aen de Gemeynte,
noch aen de Ongeloovige...: daer in tegendeel, zoo zy alle Propheteerden, een dubbel
heyl zoude worden aengebragt, en aen zelfs, en aen de Gemeynte, en aen de Ongeloo-
vige» (ivi, p. 52).
79 Ivi, p. 162.
80 «En onder de Christenen, en onder de Joden, zoo in, als buyten de Vergaede-

ringh, yder een gheoorloft was, om de Will, en Wetten Godts voor te draegen, en tot
stichting daer van te spreecken» (ivi, p. 145).
81 Sulla vita e le opere di Bredenburg cfr. VAN BUNGE, Johannes Bredenburg, cit.
82 Amsterdam, By A.D. Oostzaan, Boekverkooper op den Dam, 1686 (traduzione:

Motivi corrotti e malvagi della scissione in seno alla Chiesa).


76 La libertà necessaria

un individualismo così radicale e il relativismo religioso in esso


implicito, sostenendo che, sebbene non fondata integralmente
su un principio trascendente, ma soltanto sull’adesione quoti-
diana e volontaria di tutti i fedeli, non per questo la comunità
collegiante deve abdicare al compito di ricreare sulla terra la
Chiesa originaria, ed anzi soltanto in quest’ottica la libertà di
profezia assume il suo pieno valore.
Un altro importante contributo alla discussione intorno alla
libera profezia viene dagli scritti di Galenus Abrahamsz. (1622-
1706), noto per aver dato il via alla cosiddetta Lammerenkrijg
(guerra degli agnelli), l’accesa disputa sorta alla fine degli anni
’50 in seno alla chiesa mennonitica. Galenus è inoltre il predica-
tore della congregazione di Amsterdam, della quale fanno parte
i due amici di Spinoza Pieter Balling e Jarig Jelles83. Condotto
da Adam Boreel a una riunione collegiante, Galenus ne diviene
un assiduo frequentatore, finendo per maturare una concezione
originale della Chiesa, che espone in un’opera composta nel
1657 insieme al correligionario David Spruyt, le Bedenckingen
over den toestant der sichtbare Kercke Christi op aerden, korter-
lijck in XIX artikelen voor-ghestelt 84, più note come i XIX Arti-
kelen. Gli autori prendono lo spunto dal tema anabattista della
caduta della Chiesa visibile istituita da Cristo, che aveva prospe-
rato grazie ai doni spirituali peculiari conferiti da Dio ai primi
cristiani. Tutti i membri di questa comunità primitiva possede-
vano infatti «una parola pura e non alterata (een louter en on-
vervalst Woordt)»85, tale per cui il rapporto con la trascendenza
divina, per quanto mediato dall’intervento dello Spirito Santo,
si svolgeva in una dimensione che rifiutava ogni gerarchizzazio-
ne dei rapporti tra i fedeli. Ma proprio la concessione di uno
spazio così ampio alla libertà umana è alla base della decadenza
della chiesa apostolica; Galenus, seppure in modo confuso, par-
la di una «negligenza nei confronti dei doni (versuym van ga-

83 Sulle sue vicende biografiche si veda la monografia di H.W. MEIHUIZEN, Gale-

nus Abrahamsz. 1622-1706. Strijder voor een onbeperkte verdraagzaamheid en verdedi-


ger van het Doperse Spiritualisme, H.D. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem, 1954.
84 Traduzione: Considerazioni sullo stato della Chiesa visibile di Cristo sulla terra,

proposte brevemente in 19 articoli.


85 Ivi, art. 4.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 77

ven)»86 che mette irrimediabilmente in crisi il fragile equilibrio


di questa comunità. Inizia così il periodo di decadenza che an-
cora colpisce tutte le «chiese istituzionali del giorno d’oggi (de
hedendaeghsche op-gerechte Kercken)»87, compresa quella men-
nonitica, alla quale Galenus appartiene; pertanto nessun mini-
stro ecclesiastico può ancora sostenere legittimamente di posse-
dere un’autorità sovrannaturale88. Ai veri credenti, allora, non
resta che intraprendere un nuovo cammino per restituire la
Chiesa alla sua santità primitiva; un cammino che può essere
sorretto solo dalla buona volontà dei fedeli, la quale trae origine
«dalla nuda fede (een bloot vertrouwen)» e «da una speranza
priva finora di certezza (tot noch toe onverseeckerde hoop)»89.
Che cosa sia questa «nuda fede» è detto in uno scritto successi-
vo, il Nader verklaringe van de XIX Artikelen (Ulteriore chiari-
mento dei 19 articoli): «Chiamiamo nuda questa fede, poiché,
oltre alla fede che ciascuno pratica da sé attraverso la compren-
sione della Scrittura [...] non è evidente, né viene prodotta alcu-
na altra prova o dimostrazione divina priva di dubbio che Dio
sia vissuto in Cristo»90. Quindi nessun segno esteriore, ma solo
una pratica quotidiana che intende essere fedele ai dettami
evangelici, così come essi vengono compresi dalla lettura comu-
ne del testo biblico, può indicare il cammino verso la salvezza.
L’incertezza della fede non diminuisce il ruolo attivo degli
individui, ma al contrario rafforza la necessità della loro parte-
cipazione alla preparazione del terreno per la seconda venuta
di Cristo: occorre infatti che i cristiani «per tutto il tempo di
questa caduta veglino scrupolosamente, fino a quando il Signo-
re verrà»91, e che nel frattempo esercitino una mutua tolleranza

86 Ivi, art. 10
87 Ivi, art. 11.
88 Ivi, art. 13.
89 Ivi, art. 16.
90 «Bloot noemden wy dit vertrouwen: Om dat benevens het vertrouwen, dat yder

hier toe uyt het verstandt der Heylighe Schrift sich selven toepast,... niet en blijck,
noch voort-gebracht wordt, eenigh ander ontwijffelijck Goddelijck bewijs, en betoogh,
van dat het Godt in Christo belieft heeft» (Nader verklaringe van de XIX Artikelen,
t’Amsterdam voor Ian Rieuwertsz., 1659, p. 52).
91 «Gedurende den tijdt deses vervals, sorghvuldighlijck te waken, tegens dat de

Heere komen sal» (ivi, p. IX dell’Aenspraek an den Leser.).


78 La libertà necessaria

e pratichino la completa libertà di parola nelle riunioni, in ana-


logia con quanto accadeva nella chiesa primitiva, dove l’edifica-
zione dei membri della comunità avveniva «non in forza di un
privilegio o autorità, o di una vocazione divina particolari, co-
me se fossero presenti degli ambasciatori di Dio e di Cristo; ma
in virtù di una vocazione universale, e di un obbligo d’amore
nei confronti del prossimo»92. Ancora più radicalmente di
Klinkhamer, Galenus evidenzia la natura integralmente umana
delle comunità ecclesiastiche a lui contemporanee, tutte ugual-
mente lontane dall’unica vera Chiesa di Dio, quella dei primi
cristiani. Su questa base egli fonda la strenua difesa della liber-
tà di parola nelle riunioni religiose e quella della tolleranza ver-
so le altre confessioni; ma, a loro volta, questi principi assumo-
no valore soltanto nella misura in cui sono compresi all’interno
di un progetto ben più ambizioso, che mira a creare le condi-
zioni affinché venga recuperata l’originaria «simpatia» tra uo-
mo e Dio, e si produca l’humus adatto ad accogliere la seconda
e decisiva venuta di Cristo. Si spiega così anche il millenarismo
di Galenus, presente soprattutto nel Nader Verklaringe, dal
momento che al predicatore di Amsterdam, come anche a
Klinkhamer, importa soprattutto il recupero di una dimensione
collettiva della fede distinta da quella delle chiese istituzionali,
e per questo in grado di rimediare alla crisi che queste ultime
avevano prodotto. Tale dimensione collettiva è iscritta nella
pratica dei collegi, che non può essere interpretata come la ri-
duzione del fenomeno religioso a fatto privato e ripiegato in in-
teriore homine: nessun processo di secolarizzazione è quindi al-
l’opera nella lotta per la libertà di parola combattuta da questi
autori93.
Il movimento collegiante percorre l’angusto cammino trac-
ciato già nel secolo precedente da pensatori come Sébastien
Castellion (tra l’altro, uno degli scrittori religiosi più letti e tra-
dotti in terra olandese94), un percorso schiacciato tra le pareti

92 «Niet uyt kracht van eenigh bysonder voor-recht, authoriteyt, ofte Goddelijcke

beroepinge, als Ghesanten Godts en Christi; Maer uyt kracht van een alghemeen be-
roep, ende plicht van liefde tot haer even-naesten» (ivi, p. 90).
93 Una simile lettura è presente, ad esempio, in FIX, Prophecy and Reason, cit.
94 Per un’intepretazione dell’idea di tolleranza nell’opera di Castellion mi permet-
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 79

dell’irrigidimento dottrinale delle diverse confessioni, ma che


comunque intende recuperare quella dimensione universalisti-
ca del cristianesimo che il secolo XVII sembra aver definitiva-
mente rimosso. Alla base di questo tentativo sta una concezio-
ne dell’umanità che rifiuta il pessimismo antropologico tanto
nella sua declinazione cattolica, quanto in quella calvinista, e
con esso l’idea di una distanza abissale tra la creatura umana e
il creatore, che soltanto un rigido apparato ecclesiastico nel pri-
mo caso, e l’insondabile grazia divina nel secondo, possono
colmare. La lontananza da Dio è invece collocata in una di-
mensione storica, e perciò strutturalmente aperta, cosicché il
rischio e che per i collegianti caratterizza la «nuda fede» in
un’epoca che ha perduto i doni dello Spirito Santo implica al-
tresì un’esaltazione della dimensione pratica, poiché coglie nel
debole legame che tiene unita la comunità degli uomini di buo-
na volontà l’unico mezzo disponibile per partecipare alla re-
denzione del mondo. Questa dimensione, già definita come
espansiva o partecipativa, della libertà religiosa, è pienamente
congruente con le vicende storiche olandesi95 e soprattutto con
lo sviluppo economico del paese, che spinge l’individuo a ri-
porre piena fiducia nelle proprie capacità, senza indulgere ad
atteggiamenti passivi o rinunciatari, ma confidando invece nel-
le potenzialità di una società in continua espansione.

4. Profezia, conoscenza naturale e immaginazione nel TTP


Alla disputa sorta in seno alla comunità mennonitica di Am-
sterdam a seguito della pubblicazione dei XIX Artikelen parte-
cipano anche Pieter Balling e Petrus Serrarius. Il primo compo-
ne nel 1663 un pamphlet in difesa delle tesi di Galenus, dal tito-
lo Verdediging van de Regering der Doopsgezinde Gemeente, Die
men de vereeinigde Vlamingen, Vriezen, en Hoogduytsche

to di rimandare alla mia Introduzione a S. CASTELLION, La persecuzione degli eretici, To-


rino, La Rosa, 1997. Sulla presenza dell’opera di Castellion in terra olandese cfr. C.
GILLY, Sebastiano Castellione, l’idea di tolleranza e l’opposizione alla politica di Filippo
II, in «Rivista storica italiana», CX, 1998, pp. 144-65.
95 A conclusioni simili giunge anche TOSEL, Spinoza ou le crépuscule de la servitu-

de, cit., pp. 94 sgg.


80 La libertà necessaria

noemt, binnen Amsterdam 96; si tratta di una replica all’attacco


del predicatore Jan van Dijk nei confronti dell’eccesso di demo-
crazia che Galenus vuole introdurre nella comunità97, a dimo-
strazione che la disputa dal piano teorico aveva investito in bre-
ve tempo anche il piano dell’organizzazione materiale della vita
religiosa. Balling insiste sul carattere univoco della vocazione e
sull’origine egalitaria della chiesa anabattista, concludendo che
«l’autorità suprema (het alderopperste gezag)» non può che ap-
partenere all’intera comunità, e che nessuno «può fare appello
a nulla di superiore (in deze tot geen hooger kan beroepen)»98;
inoltre egli richiama tutti i contendenti a una maggiore tolleran-
za99, traducendo così in pratica quotidiana gli ammonimenti ga-
leniani. Quanto a Serrarius, il suo intervento, pubblicato nel
1659100, mira soprattutto a sostenere la natura strutturalmente
umana di ogni Chiesa visibile, in piena concordanza con le af-
fermazioni di Galenus101, insistendo nel sottolineare l’errore di
chi, in nome di un’autorità trascendente, pretende di erigere la
propria chiesa sull’esclusione e sull’intolleranza.
Per quanto non si abbiano prove di un diretto interessamen-
to da parte di Spinoza a queste vicende, risulta difficile pensare
che egli non ne fosse a conoscenza, vista l’amicizia che lo lega a
Balling e i buoni rapporti esistenti con Serrarius; tanto più che
proprio in questi anni, durante i quali soggiorna a Rijnsburg, la
«capitale» del movimento collegiante102, egli si sta dedicando

96 T’Amsterdam, by Jan Rieuwertsz. Boekverkoeper, in Dirk van Affensteeg, in’t

Martelaars Boek, 1663 (Difesa del governo della comunità anabattista unita dei Vla-
mingen, Vriezen e Hoogduytsche di Amsterdam). L’anno successivo Balling pubblica un
secondo scritto, la Nader Verdediging, presso il medesimo editore.
97 Noodtwendigh Bericht, tot Openinge der tegenwoordighe Onlusten en Geschillen

in de Gemeente der Doops-Gesinde (Intervento necessario ad esporre i malesseri e le con-


troversie presenti nella comunità anabattista), Amsterdam, Johannes van Someren, 1663.
98 Cfr. Verdediging van de Regering der Doopsgezinde Gemeente, cit., pp. 3 e 4.
99 Ivi, pp. 36 sgg.
100 De vertredinge des heyligen stads, ofte Een klaer bewijs van’t Verval der Eerste

Apostolische Gemeente, tot Amsterdam, Gedruckt by de Weduw’ van Ioost Broersz.


woonende in Pijl-steegh, inde Boeck-druckerye, 1659 (La città santa calpestata, ovvero
una chiara dimostrazione della caduta della prima comunità apostolica).
101 Dei XIX Artikelen Serrarius riporta, ad esempio, la definizione della fede come

«bloot vertrouwen» (cfr. ivi, p. 16).


102 Di fatto, non vi sono prove che Spinoza abbia partecipato a una o più riunioni
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 81

allo studio delle tematiche religiose e teologiche che andranno


a confluire nel TTP. Per analizzare in modo più efficace i punti
di contatto tra la riflessione di Spinoza e il dibattito sopra indi-
cato occorre quindi volgere lo sguardo alla trattazione spino-
ziana del tema della profezia, al quale sono dedicati i primi due
capitoli del Trattato: il primo discute la natura della conoscenza
profetica, mentre il secondo si sofferma sulle caratteristiche de-
gli individui dotati del dono profetico. L’avvio è dato dalla se-
guente definizione:
Profezia o rivelazione è la conoscenza certa di una cosa rivelata da
Dio agli uomini. E profeta è colui che interpreta la rivelazione di Dio per
coloro che non ne possono avere una conoscenza certa e che, perciò, per
sola fede possono accettare la cose rivelate [...] dalla cui data definizione
segue che la conoscenza naturale si può chiamare profezia. Infatti, le cose
che conosciamo per lume naturale dipendono tutte dalla conoscenza di
Dio e dai suoi eterni decreti103.

Due affermazioni si impongono all’attenzione: innanzitutto


che la profezia sia una forma di conoscenza dotata di una sua
certezza, che le deriva dall’origine divina; e in secondo luogo,
che il profeta svolga un ruolo essenzialmente linguistico, nel sen-
so che egli è, secondo la stessa etimologia ebraica, «inviato e in-
terprete»104: uomo della parola, comunicatore e mediatore tra
Dio e gli uomini105. La necessità di una mediazione nasce dal fat-
to che non tutti gli esseri umani sono in grado di cogliere auto-
nomamente la verità della Rivelazione: esiste uno iato tra cono-
scenza profetica e conoscenza naturale – che è presente in tutti
gli uomini, essendo radicata nella facoltà dell’intelletto e nelle

collegianti, anche se la cosa è probabile. Nel passato alcuni studiosi (in particolare
Hylkema e Meinsma) hanno insistito nel cercare un’associazione stretta tra Spinoza e il
movimento rijnsburghese, mentre altri (tra i quali soprattutto Francés) si sono dimo-
strati più scettici. Ad ogni modo, per una ricostruzione di queste letture cfr. FIX, Pro-
phecy and Reason, cit., pp. 240-2.
103 Opera, III, p. 15 (trad. it. p. 19).
104 Ibid.
105 Su questo punto insistono numerosi intepreti, in particolare H. DONNER, Pro-

phetie und Propheten in Spinozas Theologisch-politischem Traktat, in Theologie und


Wirklichkeit: Festschrift für Wolfgang Trillhaas zum 70. Geburstag, a cura di H.W.
Schütte e F. Wintzer, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1974, pp. 31-50, nonché
TOSEL, Spinoza ou le crépuscule de la servitude, cit., pp. 127 sgg.
82 La libertà necessaria

nozioni comuni di cui parla la II parte dell’Etica 106 –, nonostante


Spinoza concluda il brano affermando il contrario. In realtà,
mentre la conoscenza naturale implica una certezza intellettuale
e autonoma, in quanto fondata sulla natura stessa di tale cono-
scenza, la profezia, come avverte Spinoza al capitolo II, contrad-
dicendo quanto detto in precedenza, «per sé non può implicare
alcuna certezza, perché [...] essa dipendeva dalla sola immagina-
zione», la quale «non implica per sua natura alcuna certezza»107.
Se certezza vi è nella conoscenza profetica, essa deve aggiungersi
dall’esterno, attraverso l’apparizione di un segno divino: quindi
non si tratta di una certezza «matematica», bensì di una certezza
«soltanto morale»108.
Alla base della certitudo moralis si trovano non tanto i tratti
universali dell’intelletto, quanto piuttosto le caratteristiche sin-
golari dell’ingenium di ciascun profeta, e in primo luogo la sua
disposizione etica. Infatti la conferma che il segno non sia in-
gannevole, e che quindi legittimi realmente la profezia, provie-
ne dal fatto che «Dio non inganna mai i fedeli e gli eletti, ma
[...] si serve degli uomini pii come strumenti della sua pietà»109.
La connessione tra pietas divina e umana definisce il ruolo del
profeta; per tale ragione, continua Spinoza,
la certezza dei profeti era fondata su questi tre motivi: I) che essi im-
maginano le cose rivelate con vivacità pari a quella con la quale noi so-
gliamo essere affetti dagli oggetti allo stato di veglia; II) sul segno; III)
infine e soprattutto, che avevano l’animo inclinato soltanto all’equità e al
bene110.

Questa fondazione etica della conoscenza profetica rende in-

106 Cfr. Ethica, II, 38, corollario: «Esistono certe idee o nozioni comuni a tutti gli

uomini» (Opera, II, pp. 118-9; trad. it. p. 153).


107 Opera, III, p. 30 (trad. it. p. 48). La distinzione tra queste due forme conosciti-

ve è radicalizzata da alcuni interpreti, ad es. in ZAC, Spinoza et l’interprétation de l’Écri-


ture, cit., p. 78, che contrappone profezia e lumen naturale, forzando così l’intenzione
di Spinoza.
108 Opera, III, p. 30 (trad. it. p. 48).
109 Ivi, p. 31 (trad. it. p. 49).
110 Ibid. Anche il capitolo I afferma che «i profeti erano dotati di virtù singolare

e non comune, e che coltivavano la pietà con esimia perseveranza» (ivi, p. 27; trad. it.
p. 32).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 83

dipendente il suo contenuto di verità dall’esame della ragione111,


legandolo invece alla produzione affettiva di una collettività,
come ad esempio la fiducia che solitamente viene concessa agli
individui di spiccata moralità112. Inoltre, proprio per il suo ra-
dicamento nella costituzione particolare del singolo profeta,
anziché nella dimensione intellettuale comune – almeno in li-
nea di principio – a tutti gli uomini, il messaggio profetico
mantiene un certo grado di ambiguità e di rischio, prodotto dal
ruolo decisivo dell’immaginazione all’interno dell’esperienza
profetica. Tuttavia, benché Spinoza insista sulla diversità esi-
stente tra i vari profeti e sull’irripetibilità delle loro rivelazioni,
che variavano «a seconda della costituzione fisica, dell’immagi-
nazione e delle opinioni che [i profeti] avevano in precedenza
confessato»113, non per questo introduce una differenza quali-
tativa tra i profeti ed il resto degli uomini, come se i primi pos-
sedessero un dono sovrannaturale dal quale gli altri sarebbero
esclusi; al contrario, così come la loro moralità, per quanto
eminente, non ha nulla di sovrannaturale, anche la loro poten-
za immaginativa differisce soltanto quantitativamente dalla me-
desima facoltà presente negli altri uomini: ovvero, per usare le
parole del TTP, i profeti «non furono dotati di una mente più
perfetta, ma di una più viva capacità di immaginare (quidem
potentia vivdius imaginandi)»114. Le caratteristiche di ciascun
profeta sono dunque del tutto naturali, poiché, come spiega in
modo esauriente la nota 3 del capitolo I, sebbene
alcuni uomini posseggano doti che la natura ad altri non ha largito,
non per ciò, tuttavia, si dice che essi trascendono la natura umana, se non
nel caso in cui le qualità, in cui sono singolarmente dotati, siano tali che la
loro nozione non possa desumersi dalla definizione della natura umana115.
È proprio il radicamento della sua attività nella comune na-
111 Che invece Spinoza finisca per sottomettere la profezia al controllo della ratio è
sostenuto da C. GALLICET CALVETTI, Spinoza. I presupposti teoretici dell’irenismo etico,
Vita e Pensiero, Milano, 1968, p. 100.
112 Cfr. in proposito S. BRETON, Politique, religion, écriture chez Spinoza, Profac,

Lion, 1973, p. 33.


113 TTP, cap. II, in Opera, III, p. 32 (trad. it. p. 50).
114 Ivi, p. 29 (trad. it. p. 47).
115 Ivi, p. 254 (trad. it. p. 32). Sull’umanità delle caratteristiche profetiche insiste

M. CORSI, Politica e saggezza in Spinoza, Bibliopolis, Napoli, 1978, pp. 66 sgg.


84 La libertà necessaria

tura umana che permette al profeta di svolgere il ruolo di me-


diatore tra Dio e gli uomini: la sua immaginazione, lungi dall’i-
solarlo dal resto della comunità, costituisce il medium nel quale
procede la sua parola, e attraverso cui il messaggio divino di
pietà e amore viene accomodato all’intelligenza della massa. Ne
consegue la necessità di tenere rigorosamente distinto il piano
della mediazione profetica da quello della conoscenza raziona-
le, propria della filosofia: contro l’intepretazione di Maimoni-
de, il TTP sottolinea che i profeti nulla possono insegnare in-
torno all’essenza dell’universo o alla vera natura di Dio, della
quale essi ebbero «soltanto opinioni del tutto volgari»116. Tut-
tavia non si deve credere che Spinoza intenda perciò screditare
il valore della profezia, la quale gioca il suo ruolo decisivo nella
dimensione immaginativa e affettiva, dal momento che la po-
tentia imaginandi permette ai profeti di esercitare una funzione
decisiva nella costituzione della comunità religiosa. Infatti, gra-
zie alle loro qualità, che il popolo seppure confusamente rico-
nosce e ammira117 (e in questo caso l’admiratio ha un valore
positivo, non essendo strumento di dominio – come nell’Ap-
pendice della I parte dell’Etica –, ma di liberazione), i profeti
agiscono come catalizzatori dell’attenzione collettiva verso la
parola di Dio, che trova così maggiore ascolto e seguito, indu-
cendo gli uomini a un comportamento più rispettoso dei detta-
mi religiosi: la natura immaginativa non è il limite, bensì la con-
dizione di possibilità della profezia, la quale necessita dell’equi-
vocità propria del linguaggio e degli affetti118.

116 Opera, III, p. 37 (trad. it. p. 56). Sulla critica spinoziana alla concezione maimo-

nidea della profezia cfr. ZAC, Spinoza et l’interprétation de l’Écriture, cit., pp. 65-73, e
S.S. GEHLHAAR, Prophetie und Gesetz bei Jehudah Hallevi, Maimonides und Spinoza,
Lang, Frankfurt, 1987. Per una più completa ricostruzione dei rapporti tra l’intepreta-
zione spinoziana della profezia e la tradizione filosofica ebraica cfr. inoltre S. PINES,
Spinoza’s Tractatus Theologico-Politicus and the Jewish Political Tradition, in Jewish
Thought in the Seventeenth Century, a cura di I. Twerski e B. Septimus, Harvard Uni-
versity Press, Cambridge Mass.-London, 1987, pp. 499-521.
117 «Si diceva che i profeti possedevano lo Spirito di Dio perché gli uomini ignora-

vano le cause della conoscenza profetica e pertanto la ammiravano» (TTP, cap. I, in


Opera, III, p. 27; trad. it. p. 32). Sul nesso profezia-immaginazione cfr. S. BRETON, Spi-
noza, l’imaginaire et l’admirable, in Métaphisique. Histoire de la philosophie. Recuieil
d’études offert à F. Brunner, Payot, Neuchatel-Paris, 1981, pp. 153-60.
118 Su questo punto corretta è la lettura di N.O. BROWN Philosophy and Prophecy.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 85

Il limite di chi vede nell’interpretazione spinoziana della co-


noscenza profetica soltanto la critica a un potere simbolico che
si muove nella dimensione passionale per imporre il dominio
del sovrannaturale119 consiste nella mancata comprensione del-
l’equivocità dell’imaginatio: certamente il pericolo di una deri-
va autoritaria è sempre presente, si potrebbe dire implicito nel-
l’instabilità che attraversa la comunicazione tra il profeta e il
suo popolo, ma questo non può cancellare la funzione educati-
va del messaggio profetico, che pur appoggiandosi «sulla testi-
monianza e sull’autorità del profeta stesso»120, insegna però la
pratica della carità e dell’amore verso il prossimo, preparando
così il terreno all’avvento della vera religio. Né può essere ca-
suale che la gran parte dei profeti, nonostante la diversità dei
loro ingenia, concordi sull’essenza del contenuto della Rivela-
zione, e che proprio questa concordanza sia il principio sul
quale si sostiene e si rafforza la comunità religiosa che si costi-
tuisce attorno al profeta stesso. Tale comunità risulta così indi-
viduata da una disposizione naturale e quasi «involontaria» dei
suoi membri, prodotta da un linguaggio che neppure il suo
enunciatore sembra in grado di dominare pienamente: il profe-
ta, più che elaborare da sé la profezia, ne è attraversato, costi-
tuendo nient’altro che lo strumento per la sua diffusione121. E

Spinoza’s Hermeneutics, in «Political Theory», XIV, 1986, pp. 195-213, in particolare


pp. 203-4. Ma cfr. anche L. BOVE, La stratégie du conatus. Affirmation et résistance chez
Spinoza, Vrin, Paris, 1996, che definisce l’attività profetica come «l’expression de l’ima-
ginaire propre du people hébreu» (p. 213).
119 In tale direzione vanno ad esempio alcune affermazioni di TOSEL, Spinoza ou le

crépuscule de la servitude, cit., soprattutto a p. 133; chi invece mette in guardia dall’iso-
lare la pars destruens del discorso spinoziano dal suo progetto etico-politico è D. BO-
STRENGHI, Forme e virtù dell’immaginazione in Spinoza, Bibliopolis, Napoli, 1996, pp.
126-8. Sulla questione Tosel è ritornato in un articolo dal titolo Que faire avec le Traité
Théologico-politique? Réforme de l’imaginaire religieux et/ou introduction à la philoso-
phie?, in «Studia Spinozana», XI, 1995, pp. 165-88, cui ha risposto, nello stesso volu-
me, H. LAUX, Religion et philosophie dans le Traité Théologico-politique. Débat avec
André Tosel, pp. 189-99.
120 TTP, I, nota 2, in Opera, III, p. 251 (trad. it. p. 20). È interessante il parallelo,

che Spinoza svolge in questa nota, tra il potere dei profeti sul loro uditorio e quello
delle somme potestà, il cui «diritto d’imperio (imperri jus)» si fonda esclusivamente
sulla loro autorità (ibid.).
121 Molto appropriatamente si esprime H. LAUX, Imagination et religion chez Spi-

noza, PUF, Paris, 1993, quando afferma che «quelque chose se passe dans le prophète,
86 La libertà necessaria

tuttavia attorno alla «sua» parola si catalizza un interesse che


ridefinisce uno spazio comune, solcato dagli affetti e dalle pas-
sioni, unendo gli individui tra loro e ridefinendone i comporta-
menti. Come questo sia possibile, ovvero come la potentia ima-
ginandi dei singoli possa costituire un momento di coesione an-
ziché un’occasione incessante di conflitto, come invece sembra-
va indicare la Prefazione, si potrà comprendere soltanto alla lu-
ce delle indicazioni offerte dalla II parte dell’Etica intorno alla
natura della conoscenza immaginativa.
Ma prima è opportuno compiere alcuni rilievi riguardanti la
specificità della riflessione spinoziana sul linguaggio profetico,
la cui originalità si manifesta chiaramente attraverso il confron-
to con un suo grande contemporaneo, Thomas Hobbes. Nella
storia del pensiero politico Hobbes riveste il ruolo paradigma-
tico di aver avviato quel processo di secolarizzazione dei con-
cetti teologico-politici che si snoda lungo tutto l’arco della mo-
dernità, costituendone la trama concettuale122; un ruolo ribadi-
to anche dalla sua riflessione sul tema della profezia123. Ad
esempio, il Leviatano dedica ai profeti e alla loro «parola» un
capitolo124, dal quale emerge chiaramente come per Hobbes
essi costituiscano più una minaccia all’unità dello Stato, che
non un sostegno alla rivelazione della parola divina; cosicché,
conclude Hobbes, i sudditi che si lasciano trascinare dalle pro-
fezie senza averle prima giudicate con la massima attenzione,
«distruggendo tutte le leggi, sia umane sia divine, riducono
ogni ordine, governo e società al primitivo caos di violenza e

à travers son corps situé dans la totalité des relations constituant la nature, et cela
échappe à un libre vouloir de type cartésien» (p. 24).
122 Cfr. in particolare C. SCHMITT, Scritti su Hobbes [1938], Giuffrè, Milano, 1986;

L. JAUME, Hobbes et l’État représentatif moderne, PUF, Paris, 1986; Y.C. ZARKA, Hob-
bes et la pensée politique moderne, PUF, Paris, 1995; C. GALLI, Ordine e contingenza: li-
nee di lettura del «Leviatano», in Percorsi della libertà. Scritti in onore di N. Matteucci, a
cura di G. Giorgini et als., Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 81-106.
123 Si tratta di un nesso ben evidente in L. STRAUSS, La filosofia politica di Hobbes

[1936], in ID., Che cos’è la filosofia politica?, Argalia, Urbino, 1977, pp. 117-350.
124 Cfr. il cap. XXXVI: «La «parola di Dio» e i «Profeti» (Leviathan, or the matter,

form and power of a commonwealth, ecclesiastical and civil, in The English Works of
T.H. of Malmesbury, vol. III, a cura di W. Molesworth, J. Bohn, London, 1839 (rist.
anastatica Darmstadt, Scientia Verlag, Aalen, 1966, pp. 407-27); trad. it. a cura di A.
Pacchi, Laterza, Roma-Bari, 1989, pp. 340-54).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 87

guerra civile»125. La conclusione è che ciascun suddito «deve


perciò considerare chi è il profeta sovrano, cioè, chi è il reggen-
te di Dio sulla terra e detentore, primo al di sotto di Dio, del-
l’autorità di governare i cristiani»126; ne consegue che solo il
detentore della sovranità possiede anche il diritto di profetizza-
re senza mettere a rischio l’esistenza della comunità politica.
Ciò che il Leviatano teme è la valenza destabilizzante del mes-
saggio profetico, mentre è del tutto assente ogni riferimento al-
la sua potenza aggregativa: nessuna fruttuosa ambiguità sembra
quindi attraversare la riflessione hobbesiana. La ragione di un
giudizio così netto risiede nel fondamento antropologico della
teoria politica di Hobbes, e in particolare nell’individualismo
radicale che definisce lo stato di natura; un individualismo che
letteralmente «dissocia» gli individui127, rendendo impossibile
ogni forma di comunicazione, e di conseguenza anche la nasci-
ta di uno spazio comune organizzato a partire da un’immagina-
zione condivisa e attivata dalla parola del profeta. L’individuo
hobbesiano non può comprendere il linguaggio profetico per-
ché la distanza tra lui e il profeta è incommensurabile, e nessu-
na mediazione è praticabile, se non quella operata scientifica-
mente dal contratto sociale. In tal senso uno stato di natura
atomizzato, in cui la moltitudine degli uomini vive in una con-
dizione di isolamento comunicativo pressoché totale, diventa
funzionale a predisporre l’entrata in gioco della nuova concet-
tualità pattizia.
Nel suo celebre lavoro sulla critica della religione nel TTP,
Leo Strauss riconduce l’interpretazione spinoziana del fenome-
no profetico allo schema hobbesiano, affermando che anche in
essa emergerebbe la volontà di scindere, attraverso un’accurata
indagine filologica – che diviene così sinonimo di un corretto
atteggiamento scientifico – l’elemento sovrarazionale della reli-
gione dalla vera religione, che esprimendosi nei dettami della
ragione coincide con la filosofia, e sulla quale soltanto può fon-

125 Ivi, p. 427 (trad. it. p. 354).


126 Ibid.
127 Su questo passaggio cfr. M. PICCININI, Potere comune e rappresentanza in Tho-

mas Hobbes, in Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, a cura di G. Duso,
Carocci, Roma, 1999, pp. 123-41, in particolare p. 127.
88 La libertà necessaria

darsi la costruzione della società civile. Strauss postula così l’in-


differenza da parte di Spinoza nei confronti della storicità della
rivelazione biblica, alla cui base starebbe la percezione dell’alte-
rità assoluta tra il piano razionale e quello immaginativo-affetti-
vo (e, conseguentemente, tra il saggio e la moltitudine)128. La
lettura straussiana rappresenta uno dei momenti più significati-
vi di un filone interpretativo iniziato già all’epoca di Spinoza
con Isaac Orobio de Castro, autore di una confutazione del
TTP (per quanto formalmente rivolta contro lo «spinozista» Jo-
hannes Bredenburg) dal titolo Certamen Philosophicum, Propu-
gnatae Veritatis Divinae ac Naturalis 129; si tratta di una lettura
che, seppure con accentuazioni assai diverse, accusa Spinoza di
aver tradito la propria origine ebraica, abbandonando la tradi-
zione per volgersi invece alla piena trasparenza della razionalità
secolarizzata e alla mediazione neutralizzante del cristianesi-
mo130. Tuttavia la tesi di Strauss sull’affinità tra la critica hobbe-
siana della conoscenza profetica e quella spinoziana appare dif-
ficilmente condivisibile, proprio per il ruolo del tutto differente
che l’immaginazione gioca nella riflessione dei due filosofi: se
Hobbes, infatti, afferma l’indisponibilità di quest’ultima a costi-
tuire la base di una teoria politica efficace – in grado cioè di da-
re una forma stabile e pacifica alle relazioni umane –, al contra-
rio in Spinoza sembra rivelarsi la necessità di pensare una me-
diazione immanente tra il piano dell’immaginario – in particola-
re dell’immaginario religioso – e quello razionale, della quale si
fa carico proprio la figura del profeta, catalizzatore di un’imma-
ginazione e di un’affettività in grado di produrre un primo li-
128 Cfr. STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, cit., cap. V: The Critique of Ortho-

doxy (pp. 111-46). Per una lettura problematica dell’interpretazione straussiana cfr. M.
PICCININI Leo Strauss e il problema teologico-politico alle soglie degli anni Trenta, in Fi-
losofia politica e pratica del pensiero. Eric Vögelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, a cura
di G. Duso, Angeli, Milano, 1988, pp. 199-233, soprattutto le pp. 193-200.
129 Amsterdam, 1684. Sulla vita e le opere di questo personaggio cfr. la monografia

di Y. KAPLAN, From Christianity to Judaism. The Story of Isaac Orobio de Castro, Ox-
ford University Press, Oxford, 1989.
130 Oltre a Strauss vanno ricordati gli interventi di Samuel David Luzzato, di Her-

mann Cohen, di Emmanuel Lévinas, ai quali è legata la più recente interpretazione di


S. TRIGANO, La demeure oubliée. Genèse religieuse du politique, Lieu Commun, Paris,
1984. Per uno sguardo filosofico attento su queste tematiche cfr. CHAMLA, Spinoza e il
concetto della tradizione ebraica, cit., soprattutto il cap. III (pp. 75-112).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 89

vello di socialità131: al contrario che nel Leviatano, nel TTP la


profezia biblica svolge un ruolo fondamentale di trasformazio-
ne degli affetti individuali in un sentimento universalmente
condiviso, grazie alla valenza comunicativa dell’immaginazione
profetica132.
Se l’esito della riflessione spinoziana viene messo a confron-
to con l’intepretazione della pratica collegiante della «libera
profezia» da parte di autori come Klinkhamer e Galenus, allora
emergono alcuni importanti aspetti teorici comuni. In primo
luogo, è evidente come in entrambi i casi sia all’opera un po-
tente meccanismo di naturalizzazione del fenomeno religioso,
nel quale la dimensione pratica individuale conquista un rilievo
impensabile all’interno delle chiese istituzionali, dominate da
una gerarchizzazione più o meno rigida delle funzioni. Infatti il
linguaggio profetico, tanto nel TTP quanto nei colloquia di
Rijnsburg o nei testi di Klinkhamer, non attinge la sua verità da
una dimensione sovrannaturale, bensì esclusivamente da quella
«nuda fede» che si radica nelle potenzialità della natura uma-
na, nell’amore come nella speranza, nell’immaginazione come
nel linguaggio; cosicché la trascendenza del dogma, propria
delle religioni positive, è qui sostituita dal trascendimento atti-
vo e arrischiato della propria finitezza da parte della comunità
dei credenti. Al di là di una ricostruzione biografica dei rap-
porti effettivamente intercorsi tra Spinoza e il movimento col-
legiante, dei quali la letteratura secondaria si è spesso occupata,
senza però riuscire a definirli con esattezza133, è evidente la

131 In una direzione simile sembra andare anche l’interpretazione di E. CURLEY,«I

durst not write so boldly», or How to read Hobbes’ theological-political treatise, in Hob-
bes e Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 497-593.
132 Nella sua recensione a L’anomalia selvaggia, A. Matheron sottolinea come pro-

prio l’attenzione ai meccanismi dell’immaginazione, tanto sul piano individuale quanto


su quello collettivo, costituiscano la peculiarità del TTP come opera di passaggio alla
piena maturità filosofica del suo autore (cfr. «L’anomalie sauvage» de A. Negri, in «Ca-
hiers Spinoza», IV, 1982-3, pp. 39-60).
133 A partire dal dibattito, all’inizio del secolo, tra A. Menzel e W. Meijer (cfr. W.

MEIJER, Wie sich Spinoza zu den Collegianten verhielt, in «Archiv für Geschichte der
Philosophie», XIV, 1901, pp. 1-31; ID., Spinozas democratische Gesinnung und sein Ver-
hältnis zum Christentum, in «Archiv für Geschichte der Philosophie», XVI, 1903, pp.
455-83; A. MENZEL, Spinoza und die Collegianten, in «Archiv für Geschichte der Philo-
sophie», XV, 1902, pp. 277-98), fino a P. HIRSCH, Spinoza, wijsgeer tussen regenten en
90 La libertà necessaria

presenza di un interesse da parte del filosofo per l’approccio di


questi cristiani eterodossi alle tematiche religiose ed ecclesiolo-
giche; tanto più che essi, lungi dal costituire una setta isolata e
nascosta, appartengono in buon numero a quella borghesia cit-
tadina che regge le redini economiche e politiche dell’Olan-
da134. Spinoza, insomma, ha degli ottimi motivi per cercare di
elaborare una strategia comune con costoro nella lotta contro
l’ortodossia calvinista e per la libertà di espressione.

5. La potentia imaginandi nell’Etica


L’attenzione nei confronti della teoria spinoziana dell’imma-
ginazione è a un tempo antica e nuova135: antica, perché, rien-
trando quest’ultima nella partizione classica della teoria della
conoscenza, dal Breve Trattato all’Etica, essa è stata materia di
indagine da parte di tutti gli studiosi dell’epistemologia spino-
ziana136; ma nuova, perché solo recentemente il tema dell’ima-
ginatio è stato preso in considerazione prescindendo dalla sua
rigida collocazione nello schema dei generi della conoscenza,
per agganciarlo ad altri aspetti della filosofia di Spinoza: da
quello estetico137 a quello etico (sia individuale, sia sociale)138,
fino alla teoria politica e alla dottrina religiosa139, cogliendone

doopsgezinden collegianten, in «Doopsgezinde Bijdragen», VI, 1980, pp. 137-53, e FIX,


Prophecy and Reason, cit., pp. 213-4 e 240-6.
134 Un caso esemplare è quello di Coenraad van Beuningen (1622-1693), frequen-

tatore del collegio di Amsterdam e personaggio politico di spicco, al punto da ricoprire


la carica di borgomastro della città; cfr. la monografia di C.W. ROLDANUS, Coenraad
van Beuningen, staatsman en libertijn, Nijhoff, Den Haag, 1931.
135 Così LAUX, Imagination et religion chez Spinoza, cit.
136 Si veda ad esempio l’approfondita analisi di C. DE DEUGD, The significance of

Spinoza’s First Kind of Knowledge, Van Gorcum, Assen, 1966 (per altri indicazioni si
rinvia alla bibliografia presente in BOSTRENGHI, Forme e virtù dell’immaginazione in
Spinoza, cit., pp. 205-12).
137 Cfr. F. MIGNINI, Ars imaginandi. Apparenza e rappresentazione in Spinoza, ESI,

Napoli, 1981.
138 Cfr. M. BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, PUF, Paris, 1983, e Id., Spinoza. Le

projet ethique et l’imaginaire, in «Bulletin de l’Association des Amis de Spinoza», XIV,


1984, pp. 1-12; ma anche P. CRISTOFOLINI, La scienza intuitiva di Spinoza, Morano, Na-
poli, 1987, e, più recentemente, BOVE, La stratégie du conatus, cit.
139 Sul ruolo costitutivo dell’immaginazione nell’organizzazione del politico cfr. so-

prattutto NEGRI, L’anomalia selvaggia, cit.; per quanto riguarda invece il nesso immagi-
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 91

la profonda connessione con la costituzione affettiva dell’indi-


viduo. D’altra parte è lo stesso Spinoza a manifestare la consa-
pevolezza del fatto che l’analisi della facoltà immaginativa non
riguarda soltanto l’ambito gnoseologico, bensì attraversa tutte
le dimensioni sopra citate; lo testimoniano le pagine del TTP
riguardanti la profezia, e ulteriori conferme sono rintraccibili
in tutti gli altri scritti, a partire dall’epistolario, che non offre
soltanto un’utile serie di notizie biografiche, ma è spesso anche
il luogo in cui vengono affrontati, chiariti e ripensati temi deci-
sivi del sistema filosofico spinoziano. Un caso paradigmatico è
la lettera XVII, scritta nel 1664 a Pieter Balling (dalla quale tra-
spare, tra l’altro, l’intensa amicizia che legava i due)140. L’argo-
mento principale è costituito dalla discussione intorno al signi-
ficato dei presagi (omina) e al loro valore conoscitivo. Nella
Prefazione del TTP il presagio è connesso alla superstizione, e
quindi radicato nella dimensione passionale dell’esistenza uma-
na, dominata dalla paura:
Se, mentre [gli uomini] sono in preda al terrore, succede qualcosa che
richiama alla loro mente un bene o un male passato, ciò essi ritengono fo-
riero di felicità o di disgrazia e lo dicono perciò di buono o di cattivo au-
gurio (faustum vel infaustum omen vocant), anche se avvenga cento volte
il contrario141.

Nella lettera XVII, invece, il quadro appare più complicato,


probabilmente – ma non solo – anche a causa dell’elemento
biografico, determinato dalla necessità di consolare un amico
che aveva da poco perduto un figlio. Nella lettera di Balling a
Spinoza, andata perduta ma riassunta all’inizio della risposta,
veniva posto il problema dell’origine di alcune allucinazioni
acustiche che lo stesso Balling aveva avuto prima e durante la
malattia del figlio; Spinoza non ha dubbi nel ricondurle ai mec-
canismi dell’immaginazione che durante il sonno, «libera e ab-

nazione-religione, cfr. TOSEL, Spinoza ou le crépusclue de la servitude, cit., e LAUX Ima-


gination et religion chez Spinoza, cit.
140 Per un’analisi particolareggiata cfr. BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, cit., pp.

5-36, J.D. SANCHEZ ESTOP, Des présages a l’entendement. Notes sur les présages, l’imagi-
nation et l’amour dans la lettre a P. Balling, in «Studia Spinozana», IV, 1988, pp. 55-74,
e BOSTRENGHI, Forme e virtù dell’immaginazione in Spinoza, cit., pp. 39-50.
141 Opera, III, p. 5 (trad. it. p. 1).
92 La libertà necessaria

bandonata a se stessa, ha potuto immaginare più vivamente e


fortemente certi gemiti»142. Dopo aver sottolineato come tal-
volta anche a lui fosse accaduto di sognare ad occhi aperti143,
Spinoza passa a distinguere tra due possibili origini delle im-
magini, sottolineandone la differenza decisiva:
Gli effetti dell’immaginazione derivano dalla costituzione o del Corpo
o della Mente [...]. Noi vediamo anche che l’immaginazione non è deter-
minata che dalla costituzione dell’anima, poiché, come sperimentiamo,
essa segue in ogni cosa le tracce dell’intelletto, e concatena e connette le
une alle altre le sue immagini e le sue parole, nello stesso modo in cui
l’intelletto concatena e connette le sue dimostrazioni [...]. Così stando le
cose, io dico che tutti gli effetti dell’immaginazione che procedono dalle
cose corporee non possono giammai essere presagi di cose future, perché
le loro cause non implicano affatto l’avvenire. Ma gli effetti dell’immagi-
nazione o immagini, che derivano dalla costituzione dell’anima, possono
essere presagi di una cosa futura, perché l’anima può presentire confusa-
mente una cosa avvenire144.

Le immagini elaborate dalla mente possono valere come an-


ticipazioni degli eventi futuri perché esse intervengono sul flus-
so delle percezioni, modificandolo secondo un ordine proprio.
Affinché questo avvenga, e un individuo non sia semplicemen-
te ricettivo nei confronti del materiale immaginativo, ma, per
così dire, lo produca da sé, è necessario che tra lui e l’ «ogget-
to» dell’immaginazione esista un intenso legame affettivo, tale
per cui egli possa venire in contatto, per quanto in maniera
confusa, con le idee e le affezioni dell’altro. L’esempio riportato
nella lettera riguarda il caso personale di Balling, cioè l’amore
di un padre verso il figlio, un affetto così intenso da costituire
«per così dire, un solo e unico essere (quasi unus, idemque
sint)»145, così da permettere al primo di partecipare dell’essen-
za del secondo:

142 Opera, IV, p. 76 (trad. it. p. 101).


143 Si tratta del famoso incubo del «nero e irsuto Brasiliano» (ibid.), che ha suscita-
to la curiosità di numerosi lettori, dando vita ad altrettante interpretazioni; basti ricor-
dare quella di BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, cit., cap. I, nonché la lettura psicana-
litica di L.S. FEUER, The Dream of Benedict de Spinoza, in «American Imago», XIV,
1957, pp. 225-42.
144 Opera, IV, p. 77 (trad. it. p. 102).
145 Ibid.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 93

l’anima del padre partecipa, idealmente, delle cose che accompagnano


l’essenza del figlio, perciò egli può, talora, immaginare qualcosa che inte-
ressa l’essenza di suo figlio altrettanto vivamente come se questa cosa si
trovasse davanti ai suoi occhi146.

Un presagio può dunque essere veridico a due condizioni: I.


che nasca dalla costituzione della mente, e non dalle affezioni
del corpo, ovvero da uno stato di attività dell’individuo, e non
di mera ricettività nei confronti del mondo esterno147; II. che
esista un forte sentimento verso l’altro, in grado di produrre
una comunione di inclinazioni e di affetti148. Per quanto riguar-
da il primo punto, esso sembra postulare un dualismo mente-
corpo – la prima necessariamente attiva, il secondo sempre
passivo – di matrice cartesiana149 che Spinoza nella II parte
dell’Etica non solo rifiuterà, ma anzi confuterà con decisione (a
testimonianza del fatto che la riflessione spinoziana attraversa
una fase di elaborazione nella quale «sconta» l’influenza del
pensiero di Descartes). Per quanto invece riguarda il secondo
punto, esso mette in relazione immaginazione vera e dimensio-
ne affettiva, recuperando un rapporto non confliggente tra pia-
no mentale e piano corporeo150. È evidente la congruenza tra la
vivacità di questa immaginazione che, coniugata con l’amore,
può divenire preveggenza, e quella «potentia vividius imagi-
nandi» di cui i profeti dispongono, e che li porta ad immagina-
146 Ivi, pp. 77-8 (trad. it. pp. 102-3).
147 BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, cit., p. 16, afferma che questo lavoro dell’im-
maginario è in qualche modo paragonabile all’operare dell’intelletto.
148 Per questo Spinoza si mostra interessato a discutere un tema come quello dei

presagi soltanto nella misura in cui esso è connesso a un’analisi più profonda della na-
tura umana; di contro, ogni dibattito teorico intorno a non meglio identificate realtà
spirituali lo lascia del tutto indifferente, come si può cogliere dallo scambio epistolare
con Ugo Boxel (cfr. le lettere LI-LVI, in Opera, IV, pp. 241-62; trad. it. pp. 226-44).
149 Così ad esempio SANCHEZ ESTOP, Des présages a l’entendement, cit., p. 67; inve-

ce M. Gueroult nella sua celebre analisi dell’Etica coglie nella «imaginatio soluta e libe-
ra» della lettera XVII un’anticipazione, per quanto ancora confusa, della dottrina del
parallelismo (cfr. GUEROULT, Spinoza II. L’âme (Ethique II), Aubier-Montaigne, Paris,
1974, pp. 572-7).
150 SANCHEZ ESTOP, Des présages a l’entendement, cit., p. 71, sottolinea le sugge-

stioni suggestioni derivanti dagli scritti di Leone Ebreo e da altre opere rinascimentali;
ma cfr. anche BOSTRENGHI, Forme e virtù dell’immaginazione in Spinoza, cit., p. 48, che
sottolinea opportunamente come la lettera XVII segni il graduale costituirsi di una ri-
flessione originale.
94 La libertà necessaria

re le loro profezie «con vivacità pari a quella con la quale noi


sogliamo essere affetti dagli oggetti allo stato di veglia»151; ov-
vero, per usare le parole della lettera XVII, «come se questa
cosa si trovasse davanti agli occhi». Ripensando poi al fatto che
nel profeta l’immaginazione si accompagna necessariamente al-
l’inclinazione morale, ossia a una naturale e costante attitudine
a fare il bene e ad amare il prossimo, allora diventa difficile
non scorgere un’affinità tra il ragionamento che nella lettera
collega i presagi veritieri con la vivacità immaginativa e l’amo-
re, e quello che nel TTP unisce la profezia con l’immaginazione
e la virtù etica. In entrambi i casi, infatti, emerge l’esistenza di
un orizzonte conoscitivo e comunicativo diverso da quello pro-
dotto dalla ragione, ma capace ugualmente di esprimere un
certo grado di verità, per quanto privo di quella certezza e uni-
versalità che compete solo alla ratio.
Quali siano le caratteristiche di questa verità, soltanto una
lettura della II parte dell’Etica, e in particolare delle pagine de-
dicate alla conoscenza immaginativa, è in grado di precisare.
Prima di tutto, però, va sottolineato, al fine di evitare frainten-
dimenti, come fin dalla I parte Spinoza utilizzi spesso i termini
imaginari ed imaginatio per indicare una conoscenza mutila e
inadeguata, e in tal senso contrapposta all’intelletto152: l’imma-
ginazione, quindi, mantiene in sé un grado ineliminabile di am-
bivalenza, una duplicità che non è mai risolvibile in un senso
piuttosto che nell’altro, del quale occorre tenere conto soprat-
tutto nel momento in cui ne emergono i tratti positivi e produt-
tivi. Passando a una più attenta analisi testuale, si nota in primo
luogo il fatto che Spinoza abbandona la definizione, avanzata
nella lettera XVII, dell’immaginazione come prodotto sponta-
neo della mente, per collegare la genesi delle immagini alle af-
fezioni che il corpo riceve dall’esterno153:
151 Cfr. la nota 111 di questo capitolo. Sulla somiglianza tra l’imaginatio della lette-

ra XVII e quella dei profeti si sofferma anche ZAC, Spinoza et l’interprétation de l’Écri-
ture, cit., pp. 175-8.
152 Ad esempio nel lungo scolio della proposizione 15 (Opera, II, pp. 57-60; trad.

it. pp. 98-101) la conoscenza immaginativa è attribuita a coloro che non sono in grado
di formarsi di Dio e della materia alcuna idea adeguata (cfr. in particolare p. 59; trad.
it. p. 100).
153 Tra i primi a insistere sul legame immaginazione-corporeità è R.G. BLAIR, Spi-
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 95

Se il Corpo umano è affetto da un modo che implica la natura di un


certo Corpo esterno, la Mente umana contemplerà lo stesso Corpo ester-
no come esistente in atto o come a sé presente, fino a quando il Corpo
non venga affetto da un affetto che escluda l’esistenza o presenza dello
stesso corpo154.

In base alla dottrina del parallelismo espressa poche propo-


sizioni prima, secondo la quale «l’ordine e la connessione delle
idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose»155, il
meccanismo corporeo di ricezione delle affezioni si sviluppa
lungo le medesime linee direttrici attraverso le quali la mente
percepisce le idee che corrispondono a tali affezioni. Questa
processualità non definisce semplicemente le modalità di inte-
razione di una realtà singolare con il mondo, bensì esprime la
natura stessa di ogni cosa finita esistente in atto, la quale, lungi
dall’essere un principio indipendente dalle relazioni che essa
intreccia, è invece determinata dalla propria capacità di modifi-
care la realtà e dalla contemporanea disponibilità a venirne mo-
dificata: in una parola, dagli incontri, più o meno fortuiti, che
essa ha con gli altri modi della sostanza. Per Spinoza quindi le
res singulares non possiedono una struttura autonoma e immo-
dificabile, ma sono piuttosto dei momenti, o delle parti, di un
processo complessivo di individuazione, ovvero di composizio-
ne (e scomposizione) continua di modi interconnessi e interdi-
pendenti156; cosicché la loro realtà non ha nulla di sostanziale,
ma è una condizione dinamica, legata alla fatticità della loro
esistenza157; e quindi, anticipando le conclusioni, anche all’atti-
vità immaginativa. Non è casuale che la proposizione 14, con la
quale inizia l’analisi dell’immaginazione, affermi che la mente
umana – di quella res singularis chiamata «uomo» – «è atta a

noza’s Account on Immagination, in Spinoza. A Collection of Critical Essays, a cura di


M. Grene, Anchor Books, Garden City (NY), 1973, pp. 318-28, dove la posizione spi-
noziana è messa a confronto con gli esiti di alcune riflessioni contemporanee.
154 Ethica, II, 17, in Opera, II, p. 104 (trad. it. p. 141).
155 Ethica, II, 7, in Opera, II, p. 89 (trad. it. p. 127).
156 Un’analisi approfondita del concetto di individuo in Spinoza è presente nel sag-

gio di È. BALIBAR Spinoza: from Individuality to Transindividuality, «Mededelingen


vanwege het Spinozahuis», Eburon, Delft, 1997.
157 Su questo punto cfr. P. MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La se-

conde partie, PUF, Paris,1997, pp. 36-7.


96 La libertà necessaria

percepire moltissime cose, e tanto più è atta più il suo corpo


può essere disposto in molti modi»158: al parallelismo mente-
corpo si affianca qui la determinazione dell’aptitudo propria di
ogni essere umano, che per la complessità della sua struttura è
naturalmente disposto a intessere una molteplicità di relazioni
col mondo esterno, nella forma della percezione immaginativa
e del corrispondente mutamento affettivo. L’uomo manifesta
così una assoluta plasticità naturale, che ne ridefinisce conti-
nuamente l’essenza, la quale pertanto non è mai catalogabile al-
l’interno di definizioni precostituite.
Nello scolio della proposizione 17 Spinoza riassume il pro-
cesso dal quale vengono generate le immaginazioni mentali e le
affezioni corporee:
chiameremo immagini delle cose le affezioni del Corpo umano, le idee
delle quali rappresentano i Corpi esterni come a noi presenti, nonostante
che esse non rispecchino le figure delle cose (tametsi rerum figuras non
referunt). E quando la Mente contempla i corpi in tal modo, diremo che
essa immagina159.

L’imaginatio è una facoltà rappresentativa, che presentifica


le idee delle affezioni dei corpi esterni che giungono al corpo,
per contemplarle come se esse riproducessero esattamente i
corpi stessi; in tal senso essa istituisce, attraverso un giudizio
d’esistenza sul materiale percepito, un’oggettivazione del rea-
le160, crea cioè degli oggetti mentali privi di corrispondenza
con la forma esteriore delle cose [rerum figurae], e che, nella
loro qualità di oggetti, vengono opposti alla mente-soggetto.
Caratteristica fondamentale della facoltà immaginativa è questo
meccanismo implicito – ovvero non immediatamente evidente,
e come tale non riconosciuto dalla mente – ma presente in ogni
immaginazione, di separazione tra il corpo percepito e quello
percepiente, che rivela un tratto allucinatorio, di mancata cor-
rispondenza con il dato corporeo161. Va sottolineato il fatto che
158
Opera, II, p. 103 (trad. it. p. 139).
159
Opera, II, p. 106 (trad. it. p. 142).
160 Così MIGNINI, Ars imaginandi, cit., p. 122: «Le immagini sono rappresentazioni

oggettive del corpo come oggetto di affezioni esterne, nella sua ricettività strutturale;
ma questa struttura è, allo stesso tempo, determinata nella mente, nell’intelletto».
161 Quindi l’elemento allucinatorio non è soltanto una tendenza dell’immaginazio-
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 97

questo meccanismo non esprime compiutamente la relazione


fisica esistente tra il corpo umano e il mondo, dal momento che
esso non coglie la causa che genera l’immagine; infatti, sottoli-
nea Spinoza,
l’idea di un qualunque modo in cui il Corpo umano è affetto dai corpi
esterni, deve implicare (involvere) la natura del Corpo umano e, simulta-
neamente, la natura del corpo esterno162 [da cui segue che] le idee che
abbiamo dei corpi esterni indicano più la costituzione del nostro corpo
che la natura dei corpi esterni163.

Ma allora la produzione delle immaginazioni, se da un lato


non è mai l’esito di una attività della mente libera e autonoma,
come sembrava indicare la lettera XVII, tuttavia non è neppure
un momento di completa passività, tale, ad esempio, da risol-
versi nell’impressione delle figure corporee sul nostro cervello,
come se si trattasse di un sigillo sulla ceralacca; piuttosto, essa
esprime un articolato meccanismo di interazione tra i modi che
compongono l’individuo – nella sua duplice natura corporea e
mentale – e il mondo, composto da innumerevoli altri indivi-
dui, ciascuno dei quali, a sua volta, è il frutto di un’identica
processualità. Per tale ragione, come chiarisce lo scolio della
proposizione 17, è evidente
quale sia la differenza tra l’idea per es. di Pietro che costituisce l’es-
senza della Mente dello stesso Pietro e l’idea dello stesso Pietro che è in
un altro uomo, per esempio in Paolo. Quella, infatti, spiega (explicat) di-
rettamente l’essenza del Corpo dello stesso Pietro, e non ne implica (in-
volvit) l’esistenza se non fin quando Pietro esiste; questa invece indica
(indicat) più la costituzione del Corpo di Paolo che la natura di Pietro164.

ne, come sostiene GUEROULT, Spinoza II. L’âme, cit., p. 201, ma ne costituisce la strut-
tura profonda; cfr. in proposito MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La se-
conde partie, cit., pp. 176 sgg. Che le categorie di «soggetto» e «oggetto» per Spinoza
siano semplicemente degli enti di ragione è quanto sottolinea BOVE, La stratégie du co-
natus, cit., p. 49.
162 Ethica, II, 16, in Opera, II, p. 103 (trad. it. p. 140). Su questo passaggio, fonda-

mentale per la comprensione della teoria spinoziana dell’imaginatio, si sofferma con


precisione BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, cit., pp. 72-8.
163 Ethica, II, 16, Corollario II, in Opera, II, p. 104 (trad. it. p. 140).
164 Opera, II, pp. 105-6 (trad. it. p. 142). Come questa distinzione tra l’atto di expli-

care, quello di involvere e quello di indicare, che costituisce un elemento distintivo della
gnoseologia, si radichi nell’impianto ontologico della filosofia spinoziana, è prefetta-
98 La libertà necessaria

Nell’indicare si manifesta l’aspetto produttivo delle immagi-


nazioni, la loro natura di segni che esprimono i mutamenti della
costituzione attuale di un corpo, quando esso viene affetto da
un corpo esterno, pur senza farci conoscere l’essenza del corpo
che produce l’affezione; ma a tale caratteristica si accompagna
necessariamente anche quell’elemento rappresentativo, cioè og-
gettivante, che offusca, all’interno dell’atto di indicare, la distin-
zione tra involvere ed explicare, ipostatizzando la distinzione tra
corpo affetto e corpo afferente nella separazione tra soggetto e
oggetto. L’‘errore’ presente in ciascuna immaginazione non è
quindi generato da una rappresentazione inadeguata del reale,
che l’intelletto sarebbe in grado di sostituire con una rappre-
sentazione adeguata: ogni rappresentazione, infatti, è sempre
inadeguata, nella misura in cui non riesce a cogliere e a espri-
mere compiutamente la relazione esistente tra il corpo che im-
magina e quello che viene immaginato.
Se l’immaginazione è contemplazione della presenza «imma-
ginaria» di un oggetto che essa stessa ha inconsapevolmente
creato, e la cui esistenza è soltanto illusoria165, d’altro canto, pe-
rò, essa è anche espressione di un evento reale, cioè dell’intera-
zione tra due individui – che esprimono così la loro natura166 –
e delle modificazioni che si producono in uno di essi. Per que-
sto Spinoza può affermare che «le immaginazioni della Mente,
considerate in sé, non contengono nulla di erroneo, ossia che la
Mente non cade in errore per il fatto che immagina; ma soltan-
to in quanto la si considera priva dell’idea che esclude l’esisten-
za di quelle cose che immagina come a sé presenti»167. L’appa-

mente chiarito nello scritto fondamentale di G. DELEUZE Spinoza et le problème de l’ex-


pression, Éditions de Minuit, Paris, 1985 (I ed. 1968), in particolare ai capp. VIII e IX
(pp. 114-39).
165 Che l’imaginatio, nel suo tratto rappresentativo, «n’est pas un pouvoir de fic-

tion, mais d’illusion», è quanto sostiene anche il bel saggio di F. HADDAD-CHAMAKH,


L’imagination chez Spinoza. De l’imbecillias imaginationis à l’imaginandi potentia, in
Studi sul Seicento e sull’immaginazione, a cura di P. Cristofolini, Pubblicazioni della
Scuola Normale Superiore, Pisa, 1985, pp. 75-94 (citazione da p. 78).
166 È ancora all’opera di DELEUZE Spinoza et le problème de l’expression, cit., pp. 9-

18, che occorre fare riferimento per comprendere il valore dell’espressività nella filoso-
fia di Spinoza.
167 Ethica, II, 17, scolio, in Opera, II, p. 106 (trad. it. p. 142). Ma cfr. anche l’esempio

del sole presente nello scolio della proposizione 35, in Opera, II, p. 152 (trad. it. p. 117).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 99

rente complessità di questo passo si scioglie qualora si ricono-


sca il carattere di privazione dell’errore, la sua collocazione,
per così dire, al bordo dell’immaginazione, ossia come suo li-
mite strutturale: l’attività immaginativa manifesta così la sua
impotenza (cioè il limite della sua potenza finita) nella forma
dell’inerzia, dell’incapacità di continuare a immaginare liberan-
dosi, di volta in volta, degli esiti residuali di tale processo; in-
fatti l’idea che «esclude l’esistenza di quelle cose» immaginate
come presenti è esattamente ciò che rimette sempre in movi-
mento l’immaginazione, impedendo di identificare la verità
dell’imaginatio con il suo tratto oggettivo e inerziale; in tal sen-
so, la potentia imaginandi sta nel superamento dell’aspetto abi-
tudinario e ripetitivo, che assegna alle immaginazioni ricorrenti
uno statuto di realtà che esse non posseggono168. D’altra parte,
continuare ad immaginare non significa accumulare immagina-
zioni l’una sull’altra, producendo così quegli «Universali» che,
in realtà, «significano idee in sommo grado confuse»169, bensì
immaginare distintamente, focalizzando la propria attenzione
di volta in volta su immaginazioni semplici, in modo da «distin-
guerle dalle altre e contemplarle come cose singolari»170; ovve-
ro, per quanto si è già detto riguardo alle res singulares, ricono-
scendone l’intrinseca dinamicità e mutevolezza. A tale proposi-
to Spinoza, nella IV parte dell’Etica, rileva come il movimento
continuo dell’immaginazione avvenga sulla base di un princi-
pio immanente alla facoltà immaginativa, cosicché «le immagi-
nazioni non svaniscono per la presenza del vero, in quanto ve-
ro; ma perché ne intervengono altre più forti che escludono la
presente esistenza delle cose che immaginiamo»171. È chiaro al-
lora che l’elemento attivo dell’immaginazione si sostiene esclu-

168 Sull’importanza dell’abitudine nella teoria spinoziana dell’immaginazione cfr.

BOVE, La stratégie du conatus, cit., pp. 19-33.


169 Ethica, II, 40, scolio I, in Opera, II, p. 121 (trad. it. p. 155). Per una discussione

sul nominalismo di Spinoza cfr. J. BENNETT, A Study of Spinoza’s Ethics, Hackett, New
York, 1984, pp. 39-41, e M. MESSERI, L’epistemologia di Spinoza. Saggio sui corpi e le
menti, Il Saggiatore, Milano, 1990, pp. 146 sgg.
170 Ethica, III, 55, scolio, in Opera, II, p. 183 (trad. it. p. 212). Sulle caratteristiche

del distincte imaginari cfr. BOSTRENGHI, Forme e virtù della immaginazione in Spinoza,
cit., pp. 90-3.
171 Ethica, IV, 1, scolio, in Opera, II, p. 212 (trad. it. p. 236).
100 La libertà necessaria

sivamente su se stesso, senza cercare un’impossibile adeguazio-


ne a un paradigma esterno, che di fatto non esiste se non come
allucinazione; pertanto la mente umana esprime la propria es-
senza-potenza anche nell’atto di immaginare, dal momento che
se la Mente, mentre immagina come a sé presenti le cose non esistenti,
sapesse contemporaneamente che quelle cose in realtà non esistono, in
verità attribuirebbe questa potenza di immaginare (haec sane imaginandi
potentiam) non a un suo difetto, bensì ad una virtù della sua natura; so-
prattutto se questa facoltà di immaginare dipendesse dalla sola sua natu-
ra, cioè (per la Def. 7, p. I) se questa facoltà di immaginare della Mente
fosse libera172.

Resta da comprendere quale sia il significato di questa con-


clusione, che rinvia alle affermazioni della lettera XVII; se cioè
si tratti di un’ipotesi dell’irrealtà, o se invece Spinoza pensi a
un possibile superamento dei limiti della conoscenza di I grado
verso una dimensione ulteriore, che non è quella del concetto,
quanto piuttosto quella della scienza intuitiva. Del tutto evi-
dente è comunque la congruenza tra il carattere attivo dell’ima-
ginatio e quello del concetto, che «sembra esprimere l’azione
della Mente»173, sebbene quest’ultimo manifesti un potenza
ben maggiore e non corra il rischio, come invece accade per i
prodotti dell’immaginazione, di mutarsi in «qualcosa di muto
al pari di una pittura in un quadro»174. Ad ogni modo, la ric-
chezza e la complessità della conoscenza immaginativa appaio-
no chiare nel II scolio della proposizione 40, dove Spinoza ca-
taloga i diversi generi conoscitivi attraverso i quali gli uomini
formano le «nozioni universali». Il primo di questi percorsi
prende l’avvio «dalle cose singolari rappresentate a noi me-
diante i sensi in modo mutilato, confuso e senza ordine per
l’intelletto», ed è chiamato «conoscenza per esperienza va-
ga»175; il secondo, invece, sorge «da segni, per esempio dal fat-

172 Ethica, II, 17, scolio, in Opera, II, p. 106 (trad. it. p. 142).
173 Ethica, II, definizione 3, spiegazione, in Opera, II, p. 85 (trad. it. p. 123).
174 Ethica, II, 43, scolio, in Opera, II, p. 124 (trad. it. p. 158); ma cfr. anche Ethica,

II, 49 scolio, dove Spinoza sottolinea la differenza tra l’idea e le immagini (e le parole),
individuando in questa mancata distinzione l’origine di numerosi pregiudizi antropolo-
gici (Opera, II, pp. 131-2; trad. it. pp. 164-5).
175 Opera, II, p. 122 (trad. it. p. 156).
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 101

to che, udite o lette certe parole, ci ricordiamo delle cose e for-


miamo di esse certe idee simili a quelle mediante le quali im-
maginiamo le cose»176. Insieme, queste due modalità compon-
gono la conoscenza di primo genere («opinione o immagina-
zione»), pur essendo molto differenti tra loro, dal momento
che, se l’esperienza vaga è irrimediabilmente segnata dalla pas-
sività e dal disordine, la conoscenza ex signis implica, oltre al
momento percettivo, anche un atto produttivo di creazione
delle idee: il segno non blocca l’attività immaginativa, ma ne
costituisce il punto d’avvio, l’elemento catalizzatore di una pro-
cessualità che si muove gradualmente verso l’adeguatezza177.
Se è vero che la mente può risultare attiva anche quando im-
magina, d’altra parte – e in ciò consiste l’evoluzione decisiva ri-
spetto alla lettera XVII – tale attività mentale implica anche la
parallela attività corporea, che si dispiega nella dimensione af-
fettiva: infatti, come afferma l’inizio della III parte dell’Etica,
poiché «la Mente e il Corpo sono una sola e stessa cosa, [...]
conseguentemente l’ordine delle azioni e delle passioni del no-
stro Corpo è simultaneo per natura con l’ordine delle azioni e
delle passioni della Mente»178. Ne risulta che non si può in al-
cun modo ipotizzare l’esistenza di un «dominio (imperium)»
della seconda sul primo, ma entrambi devono essere concepiti
come «disposti (apti)» a un determinato comportamento, se-
condo quanto già rilevato alla proposizione 14 della II parte.
Questo significa che l’azione della mente non è mai rappresen-
taibile come un atto di volontà esercitato sull’elemento corpo-
reo, ma che essa manifesta i suoi effetti sempre e soltanto sul
piano del pensiero; e che, per lo stesso motivo, la potenza del
corpo non determina mai l’asservimento dell’elemento mentale
agli istinti ed ai bisogni materiali. L’imaginatio gioca allora un

176 Ibid.
177 CRISTOFOLINI, Immaginazione, gioia e socialità, in ID., La scienza intuitiva in Spi-
noza, cit., pp. 77-89, individua questo sdoppiamento della conoscenza immaginativa
anche nel TTP, e proprio nelle pagine dedicate alla profezia, attribuendo l’aspetto pas-
sivo dell’esperienza vaga alla massa degli uomini, ed il ruolo attivo dell’immaginazione
ex signis alla figura del profeta, il cui agire «è orientato alla realizzazione di una società
di uomini concordi» (p. 87).
178 Ethica, III, 2, scolio, in Opera, II, p. 141 (trad. it. p. 174). Su questo scolio cfr.

BERTRAND, Spinoza et l’imaginaire, cit., pp. 54-7.


102 La libertà necessaria

ruolo decisivo per lo sviluppo dell’essenza umana, che Spinoza


definisce con il termine «cupiditas»; lo testimonia il susseguirsi
dei riferimenti presenti nella III parte dell’Etica, dove il verbo
imaginari ricorre ogniqualvolta vengano descritte le modalità di
dispiegamento dell’esistenza affettiva, individuale come collet-
tiva. Infatti, è vero che «in tanto soltanto siamo passivi in quan-
to immaginiamo, ossia [...] in quanto siamo affetti da un affetto
che implica la natura del nostro Corpo e la natura del corpo
esterno»179, e che quindi l’immaginazione – e, parallelamente,
l’affettività del corpo – manifesta inevitabilmente la finitezza e
l’impotenza del modo «uomo»; tuttavia tale impotenza non è
mai assoluta, bensì convive con un certo grado di potenza, che
è anche potentia imaginandi, come ricorda la proposizione 12,
quando afferma che la mente «per quanto può si sforza di im-
maginare (imaginari conatur) le cose che aumentano o favori-
scono la potenza d’agire del Corpo»180, mirando a favorire
quella transizione dalla passività all’attività che costituisce uno
degli aspetti centrali dell’etica spinoziana181.
Un’ambivalenza strutturale è insediata al cuore dell’essenza
umana, finantoché essa si manifesta nei modi della conoscenza
immaginativa e dell’esistenza passionale; a essa è imputabile lo
sdoppiamento del sentimento religioso, evidenziato dalla Prefa-
zione del TTP, nella superstizione (vana religio) da un lato, e
nell’amore verso Dio e il prossimo (vera religio) dall’altro. Il le-
game esistente tra le passioni – in primis la paura e la speranza –
e la superstizione è stato già evidenziato; ma anche l’immagina-
zione concorre, in piena simultaneità, a rinsaldare l’odio teolo-
gico e l’intolleranza: basti pensare all’evidente derivazione della
concezione antropomorfica e trascendente di Dio – sulla quale
si fonda ogni pretesa di esclusività avanzata dalle religioni isti-
tuzionali – dalla dimensione allucinatoria dell’imaginatio. Pa-
rallelamente, agli affetti positivi e alla potentia imaginandi oc-
corre far riferimento per inquadrare l’origine e il significato

179 Ethica, III, 56, dimostrazione, in Opera, II, p. 184 (trad. it. p. 213).
180 Opera, II, p. 150 (trad. it. p. 182).
181 Sul concetto spinoziano di transizione si vedano R. BODEI, Geometria delle pas-

sioni, Feltrinelli, Milano, 1991, in particolare pp. 315-336, e F. ALQUIÉ, Servitude et li-
berté selon Spinoza, Centre de Documentation Universitaire, Paris, 1957, pp. 26-44.
II. Linguaggio, profezia e immaginazione 103

della pietas e del linguaggio profetico, in una riabilitazione del-


la corporeità e dell’imaginatio che trova il suo apice nella V e
ultima parte dell’Etica, dedicata alla genesi e allo sviluppo della
conoscenza intuitiva e della libertà dell’uomo. Così alla propo-
sizione 20 si può leggere che l’Amor erga Deum «è tanto più
alimentato, quanto più numerosi sono gli uomini che immagi-
niamo essere uniti a Dio con lo stesso vincolo d’Amore»182: la
dimensione religiosa e quella etico-sociale sono intimamente
connesse dall’azione della facoltà immaginativa, che fonda l’in-
cremento dell’amore verso Dio sul coinvolgimento affettivo di
una molteplicità di individui, aprendo la strada per un’emen-
dazione collettiva dell’esistenza passionale. In questa prospetti-
va è assente ogni riferimento a un principio di trascendenza,
che definisca tanto i criteri della moralità individuale quanto la
forma ordinata della collettività; al contrario, è la dinamica im-
manente e costitutiva dell’imaginatio a dominare la scena, esat-
tamente come, nel caso già rilevato della comunicazione profe-
tica, la possibilità di istituire la comunità dei fedeli si regge sul-
la sola capacità aggregante del linguaggio del profeta. A questo
punto, chiarita, almeno nei suoi tratti essenziali, la natura della
facoltà immaginativa, e in particolare l’ambivalenza che la co-
stituisce, per la quale essa può divenire tanto il luogo di una
conflittualità generalizzata, quanto lo spazio per la produzione
di un legame sociale, è necessario tornare al TTP, per appro-
fondire l’analisi del modo in cui l’immaginazione opera all’in-
terno delle condizioni storiche che definiscono lo spazio esi-
stenziale di un popolo.

182 Opera, II, p. 292 (trad. it. p. 303). L’importanza di questa proposizione è giusta-

mente sottolineata da CRISTOFOLINI, Immaginazione, gioia e socialità, cit., pp. 80 sgg.


Capitolo Terzo
IMMAGINAZIONE E DEMOCRAZIA:
UNA LETTURA DELLA TEOCRAZIA EBRAICA

1. La critica storica nel TTP


È noto che nei secoli XVI e XVII le chiese riformate, e in
particolare quella calvinista, identificarono spesso le loro vicen-
de con la storia di Israele narrata nell’Antico Testamento: infat-
ti il biblicismo dei movimenti protestanti veniva spesso giocato
polemicamente contro la dittatura spirituale esercitata nei seco-
li dalla Chiesa di Roma, e contro quella materiale degli Stati
che tale Chiesa sostenevano, in primis la Spagna; al punto che
in terra olandese le guerre per la libertà religiosa e per l’indi-
pendenza politica erano vissute alla stregua di una nuova epo-
pea biblica1. Era soprattutto la dimensione sacra della storia
del popolo ebraico e la nozione di elezione divina ad attirare i
teologi, spingendoli a concepire per il loro popolo un destino
parallelo a quella della nazione israelitica2. Per tali ragioni, an-
che le vicende storiche della repubblica ebraica – rimodellate e
idealizzate secondo l’ottica dei tempi – riscuotono un fascino
particolare nei Paesi Bassi del Seicento, attraversati dalla filia
1 Su questo punto, e più in generale sul ruolo giocato dal calvinismo all’interno
della rivolta olandese contro la Spagna, cfr. VAN GELDEREN, The Political Thought of
the Dutch Revolt, cit., soprattutto il cap. VI.
2 Cfr. su questi temi il saggio di F. LAPLANCHE Débats et combats autour de la Bi-
ble dans l’orthodoxie reformée, in Le Grand Siècle et la Bible, cit., pp. 117-40. L.S.
FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, Beacon Press, Boston, 1958 (II. ed. 1964),
ricorda come «the Calvinist agitators of the seventeenth century, in England and Hol-
land, were imbued with Old Testament fervor. They looked upon themselves as the
modern successors of the Hebrew prophets, and they proclaimed that <prophets co-
uld, in virtue of their mission, choose a new king, and give absolution for regicide>»
(p. 99).
106 La libertà necessaria

veterotestamentaria calvinista, e da un malcelato (e anzi talvol-


ta esplicitamente rivelato) desiderio delle frange più estremiste
di riprodurre in terra olandese la struttura teocratica dello Sta-
to mosaico – benché tale desiderio non avesse il vigore che
possedeva invece presso i Puritani inglesi3. Ma non è soltanto il
clero ortodosso a manifestare un simile interesse: su tutta la po-
polazione, in particolare su quella cittadina (nelle campagne,
infatti, persiste una forte presenza cattolica), agisce l’influenza
del modello biblico, rivitalizzato dai pulpiti delle chiese, ma an-
che dall’oratoria patriottica dei poeti come Vondel, o dalle ri-
produzioni pittoriche dei grandi pittori come Rembrandt4. In
questo orizzonte ideologico, che permea tanto le classi popolari
quanto l’élite dirigente, si innestano le ricerche e gli studi acca-
demici, miranti ad individuare nello Stato ebraico un modello
costituzionale di stampo repubblicano adatto alle neonate Pro-
vince Unite e alternativo a quello della repubblica romana,
troppo legato storicamente e geograficamente all’odiata chiesa
papista. Si pensi ad esempio al De Republica Hebraeorum (1617)
di Peter van der Cun (latinizzato in Petrus Cunaeus), professo-
re di diritto e di politica all’Università di Leiden, un’opera se-
gnata da un’esplicita intenzionalità politica, come afferma a
chiare lettere la Prefazione: «Erunt illic quaedam, quae reges
principesque, et rerumpublicarum moderatores seligere in
usum suum queant»5. Il predominio dell’interesse politico su
quello esclusivamente religioso nella lettura del testo biblico da
parte di Cunaeus apre la strada a un mutamento qualitativo

3 Cfr. soprattutto G. GROENHUIS, Calvinism and National Consciousness: the


Dutch Republic as a New Israel, in Britain and the Netherlands. Vol. VII: Church and
State since the Reformation, a cura di A.C. Duke e C.A. Tamse, Nijhoff, Den Haag,
1981, pp. 118-33, e, in Italia, C. SIGNORILE Politica e ragione. Spinoza e il primato della
politica, Marsilio, Padova, 1968. Un giudizio diverso, che nega l’identificazione dei cal-
vinisti olandesi con il popolo ebraico, è invece presente in E.H. KOSSMANN, In praise of
the Dutch Republic: some Seventeenth-Century Attitudes, in ID., Politieke theorie en ge-
schiedenis, Uitgeverij Bert Bakker, Amsterdam, 1987, pp. 161-75.
4 Cfr. l’analisi condotta da S. S CHAMA , La cultura olandese dell’epoca d’oro
[1987], Il Saggiatore, Milano, 1988, pp. 96-126, ripresa anche da L. CAMPOS BORALEVI
nell’Introduzione a Petrus CUNAEUS, De Republica Hebraeorum (The Commonwealth of
the Hebrews), CET, Firenze, 1996, pp. XVII sgg.
5 Petri CUNAEI De Republica Hebraeorum Libri III, Apud Ludovicum Elzevirum,
Lugduni Batavorum, 1617 (p. 24 della ristampa cit.).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 107

nella ricezione della storia del popolo ebraico6, dal momento


che ora esso agisce coscientemente come punto di riferimento,
a fianco dell’altro grande modello ideologico olandese di que-
gli anni, quello della repubblica batava7.
Lo scritto di Cunaeus era noto a Spinoza, che ne possedeva
una copia, ed è indubbio che esso abbia influenzato la stesura
dei capitoli XVII e XVIII, del TTP, dedicati alla teocrazia mo-
saica; ma l’indagine storiografica delle vicende del popolo
ebraico inizia già al capitolo III, intitolato «Della vocazione de-
gli Ebrei, e se il dono della profezia sia stato ad essi peculiare».
Si tratta di un capitolo che, prendendo esplicitamente in consi-
derazione il carattere peculiare del popolo ebraico, è stato
spesso letto in stretto rapporto con le vicende personali del suo
autore, e in particolare con la sua scomunica da parte della co-
munità ebraica di Amsterdam; al punto che lo si è anche rite-
nuto la riscrittura di un’apologia composta da Spinoza per di-
scolparsi di fronte agli anziani della comunità dalle accuse di
ateismo8; tuttavia occorre probabilmente ridimensionare que-
sto tratto biografico, o quanto meno negare che esso abbia il
sopravvento sull’interesse per la situazione politica olandese,
che nella lettera XXX compare esplicitamente quale fonte d’i-
spirazione del TTP 9.

6 Di «salto di qualità nella storia del modello ebraico» parla L. CAMPOS BORALE-
VI, Per una storia della Respublica Hebraeorum come modello politico, in Dalle ‘repub-
bliche elzeviriane’ alle ideologie del ’900, a cura di V.I. Comparato e E. Pii, Olschki, Fi-
renze,1997, pp. 17-33 (citazione da p. 21).
7 Utili informazioni su Cunaeus e sulla storia dei trattati dedicati alla repubblica
ebraica nel Cinquecento si possono trovare in CAMPOS BORALEVI, Introduzione, cit.,
nonché, per la sua collocazione nel panorama accademico olandese, in H. WANSINK,
Politieke wetenschappen aan de Leidse Universiteit 1575±1650, H&S, Utrecht, 1981,
in particolare pp. 90-3.
8 In proposito cfr. le numerose ricerche condotte negli anni ‘60 da I.S. Revah, i cui
risultati sono riassunti nel saggio Aux origines de la rupture spinozienne: nouvelle exa-
men des origines, du deroulement et des conséquences de l’affaire Spinoza-Prado-Ribera,
in «Annuaire du Collège de France», LXX, 1970, pp. 562-8; LXXI, 1971, pp. 574-89;
LXXII, 1972, pp. 641-53; ma si vedano anche H. MÉCHOULAN, Quelques remarques sur
le marranisme et la rupture spinoziste, in «Studia Rosenthaliana», XI, 1977, pp. 113-25,
A. KASHER e S. BIDERMAN, Why was Baruch de Spinoza Excommunicated?, in Sceptics,
Millenarians and Jews, a cura di D.S. Katz e J.I. Israel, Brill, Leiden-Kopenaghen-New
York-Köln, 1990, pp. 98-141, e YOVEL, Spinoza and Other Heretics, vol. I, cit., pp. 3-14.
9 Tra i più recenti lavori sulla «questione ebraica» nel TTP SMITH, Spinoza, Libe-
108 La libertà necessaria

Risponde senz’altro anche – se non soprattutto – alla volon-


tà di intervenire nel dibattito politico-religioso olandese l’arduo
lavoro di ricostruzione storica e filologica che Spinoza affronta:
le vicende del popolo ebraico esprimono infatti uno sfondo
ideologico condiviso tra l’autore e i suoi lettori, offrendo così le
condizioni di una piena decifrabilità della riflessione spinozia-
na per chi voglia applicarsi a una lettura attenta. Ancora una
volta emerge la consapevolezza di Spinoza del ruolo decisivo
dell’imaginatio nell’ambito della comunicazione: «imitando» i
profeti ebraici che costituivano l’argomento dei primi due capi-
toli del TTP, il filosofo ricerca nella dimensione immaginativa
della narrazione biblica un terreno comune sul quale potersi
confrontare con i suoi lettori, permettendo loro di avvicinarsi
gradualmente al testo e al suo arduo contenuto, e nel contem-
po impedendo che la sua teoria resti priva di quella valenza
pratica che ne costituisce l’imprescindibile completamento10.
Questo non significa che il TTP rinunci a esprimere un’argo-
mentazione filosofica rigorosa11, bensì piuttosto che la sua filo-
soficità richiede un’ibridizzazione del linguaggio, derivante dal-
la necessità del pensiero spinoziano di misurarsi con la realtà
che lo circonda. Per questo diventa imprescindibile, come af-

ralism, and the Question of Jewish Identity, cit., sostiene che il principale obiettivo di
Spinoza «was Christian sectarianism and intolerance, not Jewish particularity and ex-
clusivity» (p. 26). Una posizione più articolata mantiene invece CHAMLA, Spinoza e il
concetto della tradizione ebraica, cit., pp. 52-8.
10 J.J. GROEN, Spinoza: Philosopher and Prophet, in Spinoza on Knowing, Being and

Freedom. Proceedings of the Spinoza Symposium at the International School of Philo-


sophy in the Netherlands, a cura di J.G. van der Bend, van Gorcum, Assen, 1974, pp.
69-81, paragona Spinoza ai profeti biblici per sottolineare l’elemento mistico presente
nella sua filosofia. Tuttavia un simile confronto evidenzia piuttosto la dimensione prati-
ca del pensiero spinoziano; così anche Y. YOVEL Spinoza: la religion et l’état, in Politi-
que et religion. Actes du XX colloque des intellectuels juifs de langue française, a cura di
J. Halpérin e G. Levitte, A. Michel, Paris, 1981, pp. 331-48 (in particolare pp. 344-8).
11 Così sembra invece pensarla BROWN Philosophy and Prophecy, cit., quando af-

ferma che «the Tractatus is not a pure product of philosophic thought but a hybrid:
moving in a terrain between philosophy, political power, and positive religion» (p.
195); in realtà quel «terreno» coincide interamente con la pratica filosofica spinoziana.
Sul linguaggio del TTP cfr. anche Y. YOVEL, Spinoza: the Psichology of the Multitude
and the Use of Language, in «Studia Spinozana», I, 1985, pp. 305-33, e A.C. WERN-
HAM, Le Contract Social chez Spinoza, in «Revue de Synthese», LXXIX-XC, 1978, pp.
69-78.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 109

fermava già il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, «parlare


al livello della gente comune (ad captum vulgi loqui) [...]. Infatti
possiamo ottenere dalla gente comune non pochi vantaggi solo
che concediamo alla sua intelligenza ciò che è possibile conce-
dere. Inoltre in questo modo porgerà orecchie propense ad
ascoltare la verità»12. La narrazione biblica rappresenta la cor-
nice indispensabile di un progetto filosofico e politico rivolto al
presente, che nulla concede all’astrattezza di una propedeutica
iperrazionalistica ed elitaria; la storia del popolo ebraico, così
come ha fornito il materiale immaginario sul quale il clero cal-
vinista ha costruito la sua ideologia, definisce nel TTP lo spazio
di un processo di risemantizzazione13 del dibattito teologico-
politico olandese, essenziale alla produzione delle condizioni
necessarie perché si metta in moto un processo virtuoso di
emendazione degli intelletti e di liberazione degli individui dal-
l’asservimento alla superstizione. Una simile funzione prope-
deutica, osserva Spinoza al capitolo IV, è propria della cono-
scenza storica; infatti,
benché la fede nei racconti storici non possa darci la conoscenza e l’a-
more di Dio, non neghiamo tuttavia che la lettura di essi riesca di grande
utilità alla vita civile (ratione vitae civilis perutilem), perché quanto più
noi riflettiamo sui costumi e sulle condizioni di vita degli uomini, che da
nessuna cosa meglio che dalle loro azioni possono essere conosciute, tan-
to più accortamente riusciremo a vivere in mezzo a loro, e ad adeguare le
nostre azioni e la nostra vita alla loro indole, compatibilmente con le esi-
genze della ragione14.

La storia è il luogo in cui gli hominum mores, et conditiones


si dispiegano in un’esistenza regolata non dalla razionalità, ben-
sì dalla natura affettiva degli ingenia individuali, e quindi dal
prevalere di comportamenti segnati dalla conoscenza immagi-
nativa, che possono venire compresi soltanto se lo storico rico-
nosce nel suo lavoro interpretativo l’interazione di ragione e
immaginazione. Pertanto l’ipotesi che individua nel TTP una
12 Opera, II, p. 9 (trad. it. p. 15). In modo quasi identico si esprime anche il TTP

al capitolo V (Opera, III, pp. 61-2; trad. it. p. 133).


13 O, per usare le parole di LAUX, Imagination et religion chez Spinoza, cit., «le lieu

d’une opération de sens» (p. 291).


14 TTP, cap. IV, in Opera, III, pp. 61-2 (trad. it. pp. 107-8).
110 La libertà necessaria

dottrina esoterica, che Spinoza intenderebbe celare alle masse15,


non può essere accettata, dal momento che nel linguaggio spi-
noziano emerge esattamente l’intenzione contraria, ovvero la
volontà di farsi comprendere il più possibile dal maggior nume-
ro di individui (ossia da tutti coloro che, per riprendere la defi-
nizione già data del philosophus lector, «osano pensare»16). Di-
venta allora imprescindibile ricostruire i capisaldi di questa er-
meneutica storica, al fine di chiarire come l’indagine della storia
ebraica consenta a Spinoza di interagire con il contesto ideolo-
gico olandese17.

2. La desacralizzazione del racconto biblico


All’interno del dibattito teologico-politico olandese, la fun-
zione di sostegno ideologico assolta dalla storia biblica si regge
in massima parte sulla ripetuta sottolineatura del carattere sa-
cro degli eventi narrati, diretta conseguenza dell’ispirazione di-
vina della Scrittura; tale sacralità, infatti, agisce nell’immagina-
rio collettivo come garanzia della veridicità delle tesi avanzate
dai predicatori calvinisti, i soli legittimati all’interpretazione dei
Testi, e di conseguenza come elemento di consolidamento della
loro auctoritas e del loro progetto egemonico. Per poterlo con-
trastare adeguatamente, Spinoza deve quindi scendere sul ter-
reno degli avversari, destrutturandolo dalle fondamenta attra-
verso un’interpretazione radicalmente diversa delle categorie
ermeneutiche utilizzate dai calvinisti. È questo il compito dei
capitoli che vanno dal III al VI, i quali, proprio perché mirano
a ridefinire il quadro categoriale che sostiene la lettura della
storia ebraica, si muovono in esplicita continuità con le pagine
precedenti sulla profezia. Non solo, ma il ragionamento svilup-

15 È questa l’opinione di numerosi studiosi, tra i quali STRAUSS, Come studiare il

«Trattato teologico-politico» di Spinoza, cit., pp. 173 sgg. Chi invece la pensa diversa-
mente è E.E. HARRIS, Is there an Esoteric Doctrine in the Tractatus Theologico-politi-
cus?, «Mededelingen vanwege het Spinozahuis», Brill, Leiden, 1978, dove il tentativo
spinoziano di adattare il linguaggio della verità alle capacità di comprensione del vul-
gus è chiaramente riconosciuto.
16 Cfr. cap. I, p. 35.
17 Sulla portata politica della critica storica nel TTP si sofferma G. BOSS, L’histoire

de Hobbes à Spinoza, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 455-95.


III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 111

pato in questa parte del TTP riveste una funzione propedeutica


rispetto ai capitoli successivi – in particolare quelli politici, dal
XVI in avanti –, poiché consente di spostare la discussione in-
torno al nesso religione-politica su un piano radicalmente altro
rispetto a quello utilizzato dal clero ortodosso, svincolando co-
sì la teologia dalla funzione di instrumentum regni e di legitti-
mazione di un potere trascendente e arbitrario18.
La rilettura della storia biblica inizia alla fine del II capitolo,
dove Mosè, in precedenza definito come il più grande dei pro-
feti ebraici, assume la nuova veste del creatore di leggi: infatti,
afferma Spinoza, egli agì nei confronti del suo popolo «non co-
me filosofo, e in maniera che dalla libertà dell’animo fossero
spinti a vivere bene, ma come legislatore in maniera da costrin-
gerli a vivere bene con la forza della legge (ex imperio legis)»19.
Oltre alla funzione morale e di mediazione sociale riconosciuta
a ogni vero profeta, Mosè dispone di una peculiarità ulteriore –
caso unico nel TTP –, per la quale la sua parola assume anche
una valenza direttamente politica, diventando comando fonda-
to sulla legge: con la comparsa del concetto di legge, fede reli-
giosa e obbedienza si fondono, producendo uno scarto nella
descrizione delle relazioni affettive e immaginative di una col-
lettività, e aprendo la strada all’analisi del regime teocratico dei
capitoli XVII e XVIII.
Il riferimento all’imperium legis evidenzia quindi l’esistenza
di un legame tra la dimensione religiosa e quella politica, ma
non ancora il suo significato e le sue caratteristiche peculiari;
un primo passo nella direzione di un chiarimento ulteriore è
dato dalla critica al concetto di elezione (o vocazione) ebraica,
presente al capitolo III. Fin dall’inizio Spinoza mette in guar-
dia contro gli esiti nefasti di un’errata intepretazione della vera
foelicitas, che va individuata «soltanto nella fruizione del bene,
e non, in verità, in quella sorta di compiacimento (in ea gloria)

18 Cfr. in proposito B.J. DE CLERCQ, Spinoza over democratie en godsdienst, in

«Respublica», XIX, 1977, pp. 661-71. Che la storia sacra sia letta da Spinoza non attra-
verso principi teologici di natura trascendente, bensì a partire da una «teoria della for-
tuna» tutta immanente, è quanto afferma MOREAU, Spinoza. L’expérience et l’éternité,
PUF, Paris, 1994, p. 483; ma cfr. anche infra, il paragrafo 3 del I capitolo.
19 Opera, III, p. 41 (trad. it. p. 59).
112 La libertà necessaria

che nasce dall’essere il solo, tutti gli altri esclusi, a goderne»20;


in questo secondo caso, infatti, si produce l’esatto contrario
della vera beatitudine, una chiusura solipsistica che esprime
l’impotenza della cattiva immaginazione. Si tratta di un errore
nel quale può cadere non soltanto un singolo individuo, ma an-
che un’intera popolazione, qualora i suoi membri condividano
la stessa percezione illusoria della realtà: è il caso della nazione
ebraica che, nel ritenersi privilegiata rispetto agli altri popoli,
manifesta l’aspetto superstizioso della propria religiosità. L’au-
tointerpretazione del popolo ebraico come popolo eletto da
Dio è quindi frutto di una conoscenza immaginativa non emen-
data, che trae con sé, sul versante degli affetti, passioni negative
come l’invidia, la superbia, e anche la gloria che, se nell’Etica
assume una valenza positiva21, qui è invece indice di un isola-
mento paranoico. È necessario quindi privare di ogni patina di
sacralità tale nozione, per coglierne l’origine determinata dallo
sviluppo naturale dell’esistenza affettiva22.
Che l’idea ebraica di elezione, così come è venuta svilup-
pandosi in una riflessione plurisecolare, sia ben più articolata
del modo in cui ne dà conto Spinoza, è cosa nota23, e perciò
potrebbe stupire la disamina compiuta nelle pagine del TTP, se
la si ritenesse principalmente un attacco diretto alla comunità
ebraica, magari dettato dal rancore per l’espulsione. In realtà
questa apparente superficialità conferma il fatto che la critica
di Spinoza mira, più che a fare i conti con la propria identità, a
scontrarsi con la posizione teorica dell’ortodossia calvinista:
definire come delirio dell’imaginatio la presunzione di essere
oggetto di una scelta divina imperscrutabile equivale a confuta-
re indirettamente il dogma della predestinazione, fondato, co-
me il principio dell’elezione, sull’assoluta trascendenza del vo-
20 Ivi, p. 44 (trad. it. p. 79).
21 Cfr. la definizione in Ethica, III, 30, scolio, in Opera, II, p. 163 (trad. it. p. 194).
22 Giustamente G. BRYKMAN, L’election et l’insoumission des Hebreux selon Spino-

za, in Spinoza. Science et religion, cit., pp. 141-9, sottolinea come la critica spinoziana
dell’elezione ebraica sottenda «une désacralisation totale du judaïsme» (p. 144). Della
stessa autrice si veda anche La judéité de Spinoza, Vrin, Paris, 1972.
23 Per una lettura stimolante del tema dell’elezione ebraica cfr. S. LEVI DELLA

TORRE, L’idea di «popolo eletto», in Filosofia e ebraismo. Da Spinoza a Levinas, a cura di


K. Tenebaum e P. Vinci, Roma, Giuntina, 1993, pp. 129-50.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 113

lere di Dio rispetto a ogni possibilità umana di comprensio-


ne24. Non è casuale che, discutendo il significato di questa ele-
zione, Spinoza chiami in causa il concetto di direzione divina,
elemento teorico cruciale del predestinazionismo calvinista:
poiché nessuno fa mai alcunché se non secondo l’ordine predetermi-
nato della natura, e cioè, secondo l’eterna direttiva del decreto di Dio, ne
segue che nessuno si sceglie un tenore di vita o opera alcunché, se non in
virtù di una singolare vocazione divina, che lo sceglie a preferenza degli
altri al compimento di quell’opera o all’adozione di quel modo di vita25.
Questo brano va letto con attenzione, per non venire ingan-
nati dalla consonanza terminologica che Spinoza mantiene con
il linguaggio dell’ortodossia; infatti potrebbe sembrare che qui
venga confermato l’intervento di Dio sul mondo, dal quale de-
riverebbe appunto quella singularis Dei vocatio che agisce come
una sorta di predestinazione individuale, se non collettiva. Tut-
tavia l’intero ragionamento si fonda sull’identità già evidenziata
tra Dei directio e il concetto, tutto immanente ed anti-teologico,
di fortuna, «l’ordine fisso ed immutabile della natura». Sulla ba-
se di tale identità la vocazione non può essere la ricaduta sul
piano umano di una volontà assolutamente altra, e per tale ra-
gione incomprensibile e irresistibile, ma piuttosto il risultato
necessario di un’interazione di forze che insieme costituiscono
l’ordo naturae. Tale ordine, poi, è sì infinito ed eterno – e in
quanto tale mai interamente trasparente all’intelletto umano –,
ma non per questo trascende la dimensione dell’agire indivi-
duale, dal momento che quest’ultimo contribuisce, secondo un
grado determinato di potenza (quantum in se est) alla sua pro-
duzione. Non a caso Spinoza, poco dopo, distingue tra il Dei
auxilium internum, ovvero «tutto quello che la natura umana
può trarre dalla sua sola potenza al fine di conservare il proprio
essere», ed il Dei auxilium externum, cioè «tutto ciò che a pro-
prio vantaggio essa trae dalle cause esterne»26: nel primo caso

24 Su questo punto cfr. l’articolo di M. FRANCÉS, La morale de Spinoza et la doctri-

ne calvinienne de la prédestination, in «Revue d’Histoire et de Philosophie Religieu-


ses», III, 1933, pp. 401-8, dove però talvolta sembra mancare la consapevolezza del
progetto spinoziano di risemantizzazione del linguaggio religioso.
25 Opera, III, p. 46 (trad. it. p. 81).
26 Opera, III, p. 46 (trad. it. p. 81).
114 La libertà necessaria

l’aiuto divino si risolve nello stesso conatus singolare, nel secon-


do esso comprende tutti gli aspetti della fortuna che sostengo-
no tale conatus. Nonostante l’ambiguità del linguaggio – o forse
proprio grazie ad essa – il discorso spinoziano mina le fonda-
menta di ogni teologia positiva, e in particolare annienta la rap-
presentazione di Dio come essere dotato di una volontà infinita
e separata dalla facoltà intellettiva, attraverso la quale decide di
creare un mondo, tra gli infiniti possibili. Proprio la distinzione
in Dio di volontà e intelletto nega all’uomo la comprensione
dei meccanismi del volere divino, poiché, mentre la distinzione
tra un intelletto infinito e uno finito è di tipo quantitativo (co-
sicché, in linea di principio, l’uomo pensa allo stesso modo di
Dio, seguendo cioè le medesime regole), quella tra le volontà è
qualitativa, e conseguentemente tra un volere infinito e uno fi-
nito vi è un rapporto di incommensurabilità27.
Un pendant della critica dell’elezione-predestinazione è pre-
sente nella discussione intorno alla natura dei miracoli, svolta
al capitolo VI, dove Spinoza afferma che la causa principale
della fede negli eventi miracolosi consiste nel fatto che il volgo
«immagina (imaginantur) due potenze numericamente distinte
l’una dall’altra: quella di Dio e quella delle cose naturali, seb-
bene quest’ultima si ritenga in certo qual modo determinata da
Dio, o, come oggi la maggior parte preferisce credere, da lui
creata»28. Il mancato riconoscimento dell’identità tra potenza
divina (Dei directio) e potenza naturale (fortuna) è alla base del-
la credenza nei miracoli: un’ignoranza che deriva dal ritenere, o
per meglio dire, dall’immaginare «la potenza di Dio come il
potere di una maestà reale (tanquam Regiae cujusdam majestatis

27 Per un’analisi di questo passaggio fondamentale, che conduce Spinoza ad affer-

mare che «Dio non agisce mediante la libertà della volontà» (Ethica, I, 32, corollario I, in
Opera, II, p. 73; trad. it. p. 112), cfr. M. GUEROULT, Spinoza I. Dieu (Ethique I), Parigi,
Aubier-Montaigne, 1968, pp. 375-400, e P. MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spi-
noza. La première partie, PUF, Paris, 1998, pp. 185-92. Gli esiti della metafisica spinozia-
na sul piano della critica religiosa sono opprtunamente rilevati da M. WALTHER Metaphy-
sik als Anti-theologie. Die Philosophie Spinozas in Zusammenhang der religionsphilosophi-
sche Problematik, Felix Meiner, Hamburg, 1977, in particolare il II capitolo (pp. 31-75).
28 Opera, III, p. 81 (trad. it. p. 150). Su questo tema cfr. M. WALTHER, Spinozas

Kritik der Wunder – ein Wunder der Kritik?, in «Zeitschrift für Theologie und Kirche»,
LXXXVIII, 1991, pp. 68-80.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 115

imperium), e quella della natura come forza e impeto»29. Il pa-


ragone tra Dio e la figura del monarca rinvia a un importante
scolio della II parte dell’Etica, dove viene confutata l’opinione
volgare della natura divina:
Per potenza di Dio il volgo intende la libera volontà e il diritto di Dio
su tutte le cose che sono e che, perciò, comunemente vengono considera-
te come contingenti. Dicono, infatti, che Dio ha il potere di distruggere
tutte le cose e di ridurle a nulla (potestatem omnia destruendi habere di-
cunt, et in nihilo redigendi). Inoltre, molto spesso paragonano la potenza
di Dio alla potenza dei Re. Ma nei Corollari 1 e 2 della Proposizione 32
della I parte abbiamo confutato ciò e con la Proposizione 16 abbiamo di-
mostrato che Dio agisce con la stessa necessità con la quale intende se
stesso [...]. Se piacesse poi portare avanti ulteriormente questa argomen-
tazione, potrei mostrare qui che quella potenza che il volgo attribuisce a
Dio non soltanto è umana (il che dimostra che il volgo concepisce Dio
come un uomo o a somiglianza dell’uomo), ma implica anche impotenza
(sed etiam impotentiam involvere)30.

È chiaro che secondo Spinoza Dio non può essere assoluta-


mente considerato alla stregua di un re che governa un mondo
contingente, totalmente sottomesso alle sue decisioni; nè Dio, a
differenza di un monarca, dispone di alcuna potestas destruendi,
la quale sarebbe indice non di potenza infinita, bensì di impo-
tenza: infatti soltanto i modi finiti, e tra questi l’uomo, essendo
dotati di una potenza limitata, la esprimono anche attraverso la
negatività di un potere di distruzione che nasce dalla contrap-
posizione con altri modi, in una lotta senza fine per la sopravvi-
venza; mentre l’attuosa potenza di Dio non tollera pause od
ostacoli nella sua catena causale, dalla quale, come spiega la
proposizione 16 citata nello scolio, «devono seguire infinite co-
se in infiniti modi»31.
Da questa critica radicale all’immagine del Dio-sovrano con-
segue la piena rimessa in gioco di entrambi i termini della cop-
pia, nel senso che, se da un lato la teologia deve cercare un di-
verso orizzonte semantico per nominare Dio (come conferma
anche il TTP, affermando che «soltanto per l’intelligenza del

29 Opera, III, p. 81 (trad. it. p. 150).


30 Ethica, II, 3, scolio, in Opera, II, p. 87 (trad. it. pp. 125-6).
31 Opera, II, p. 60 (trad. it. p. 101).
116 La libertà necessaria

volgo e per il solo difetto del pensiero Dio è presentato come


legislatore o principe»32), dall’altro la politica non può più tro-
vare una legittimazione del potere attraverso l’analogia sovra-
no-divinità: entra irrimediabilmente in crisi il principio della
monarchia per diritto divino, fondato sul carattere esemplare
del potere di Dio, che il monarca riprodurrebbe a un gradino
più basso della gerarchia naturale33. Ma altrettanto rilevante è
che da questa critica riemerge l’intreccio inscindibile tra teolo-
gia e politica, cosicché al mutare del registro concettuale teolo-
gico corrisponde un mutamento parallelo della concettualità
politica; pertanto, se il riconoscimento dell’identità tra potenza
divina e potenza della natura implica l’abbandono di un lessico
antropomorfico e di una metaforica regale, questo significa al-
tresì che non sarà più possibile fondare alcuna teoria politica a
partire da un impianto segnato dalla trascendenza. Deantropo-
morfizzazione di Dio e desacralizzazione dell’universo umano –
della storia come della politica – sono due facce di una medesi-
ma operazione filosofica.
Nell’intepretazione spinoziana del concetto di elezione
ebraica si può cogliere questo capovolgimento prospettico: l’e-
lezione assume una valenza integralmente storica, determinata
da circostanze che riguardano le modalità di costituzione del
popolo ebraico, in relazione a quelle degli altri popoli:
Le nazioni, dunque, si distinguono tra loro soltanto in rapporto al ti-
po di società e alle leggi sotto le quali vivono e sono governate; onde con-
cludiamo che la nazione ebraica fu eletta da Dio non riguardo all’intellet-
to o alla tranquillità d’animo, ma riguardo all’ordinamento sociale e alla
fortuna (ratione societatis, et fortunae) con la quale conquistò e mantenne
per tanti anni un impero34.

Societas e fortuna altro non sono se non i due Dei auxilia – ri-
spettivamente internum ed externum – che naturalizzano l’inter-
vento divino. Poco dopo il testo diventa ancora più esplicito:

32 Cap. IV, in Opera, III, p. 65 (trad. it. p. 112).


33 Insistono su questo aspetto L. MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de
Spinoza, Vrin, Paris, 1976, pp. 131 sgg., e C. PACCHIANI, Spinoza tra teologia e politica,
Francisci, Padova, 1979, pp. 64-95.
34 Opera, III, p. 47 (trad. it. p. 83).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 117

«l’elezione dei Giudei non riguardava se non la temporanea


prosperità materiale e la libertà, ossia lo Stato politico (impe-
rium), nonché il modo e i mezzi con cui lo raggiunsero, e di con-
seguenza anche le leggi»; infatti, per quanto invece riguarda la
virtù e la beatitudine, Spinoza afferma contro ogni predestina-
zionismo che «Dio è ugualmente propizio a tutti»35. La presun-
zione di essere un popolo eletto deriva quindi da un’immagina-
zione ancora succube della superstizione; e tuttavia esistono del-
le circostanze materiali e storicamente individuabili che eviden-
ziano l’esistenza di un effettivo periodo di corporis foelicitatem,
et libertatem, nonché la presenza di un certo grado di razionalità
nell’organizzazione della società ebraica. È evidente che, come
nella Prefazione il sentimento religioso non era interamente ri-
ducibile al suo tratto superstizioso, così ora gli aspetti di passivi-
tà che la religiosità ebraica manifesta non ne esauriscono il signi-
ficato storico, né tantomeno l’impianto teorico36; ancora una
volta l’ambivalenza costitutiva di ogni prodotto dell’immagina-
zione emerge dall’analisi spinoziana, definendone il campo.
La medesima ambivalenza è presente nella già citata figura
di Mosè, a un tempo profeta e legislatore; educatore del suo
popolo, ma anche detentore di un potere che esige l’obbedien-
za assoluta e incondizionata, perché fondato su un’investitura
divina ed esclusiva, almeno secondo l’interpretazione dei Fari-
sei, i quali «vogliono concludere che Mosè ha chiesto a Dio di
essere propizio ai Giudei, di manifestarsi a loro profeticamente
e di non concedere questa grazia a nessun’altra nazione»37. Se
nei confronti del fariseismo Spinoza avanza un giudizio estre-
mamente negativo, a causa dell’uso acritico e ideologico che

35 Ivi, pp. 49-50 (trad. it. p. 85). Il testo prosegue con una citazione del Salmo

145, il quale dice che «Dio è vicino a tutti coloro che lo invocano, a tutti coloro che ve-
ramente lo invocano» (ibid.), a ribadire il carattere universale della vocazione religiosa.
36 Opportunamente LAUX, Imagination et religion chez Spinoza, cit., sottolinea co-

me, se l’analisi spinoziana dell’ebraismo ne coglie l’incapacità «à trouver dans son


système les ressources d’un accroissement de puissance et de liberté», d’altro canto
questo non possa mascherare il grande rispetto per le sue «esigences éthiques» (pp.
242-3). In proposito cfr. anche H. MÉCHOULAN, Quelques remarques sur le chapitre III
du «Traité Théologico-politique», in «Revue internationale de Philosophie», CXIX-
CXX, 1977, pp. 198-216.
37 Opera, III, p. 53 (trad. it. p. 89).
118 La libertà necessaria

esso fa della Scrittura38 (cosicché non è privo di fondamento il


paragone tra Farisei e calvinisti olandesi39), tuttavia questa va-
lutazione non toglie che esista un problema reale, riguardante
la natura del legislatore e, prima ancora, della legge, problema
al quale è dedicato il IV capitolo del TTP. Un primo affondo
era apparso già alla fine del III capitolo, dove la legge univer-
sale ed eterna, «che concerne unicamente la vera virtù», e
quindi la conoscenza e l’amore di Dio, viene distinta dalla leg-
ge «che è promulgata in rapporto al principio e alla costituzio-
ne di quel particolare Stato (pro ratione, et constitutione singu-
laris cujusdam imperii) e che si adegua all’indole (ingenium) di
una sola nazione»40. La stessa dicotomia si ripresenta anche al-
l’inizio del capitolo successivo, dove compare la seguente defi-
nizione:
La parola ‘legge’, intesa in senso assoluto (absolute sumptum), indica
ciò secondo cui ciascun individuo o tutti o alcuni di una medesima specie
agiscono in una sola, certa e determinata maniera; e questa maniera di-
pende o dalla necessità naturale o dalla decisione dell’uomo (ab homi-
num placito)41.

Absolute 42 sumptum, cioè privo di qualsiasi determinazione


ulteriore, il concetto di legge esprime la regola dell’agire di un
individuo naturale, non necessariamente di un essere umano;
ma se la legge governa tutti i modi finiti della natura, nessuno
escluso, questo significa che, nel suo significato assoluto, il ter-
mine legge coincide con quello di «legge di natura», ovvero
che «in assoluto [...] tutte le cose sono determinate all’esistenza
e all’azione secondo una certa e determinata ragione dalle leggi

38 Del fariseismo come «tradizionalismo senza la Ragione» parla CHAMLA, Spinoza

e il concetto di tradizione ebraica, cit., p. 110. Più in generale, sulla critica spinoziana al
«fariseismo perenne» cfr. ivi, pp. 75-112, nonché H. MÉCHOULAN, Hébreux, Juifs et
Pharisiens dans le «Traité Théologico-politique», in Spinoza nel 350˚ anniversario della
sua nascita, cit., pp. 439-60.
39 Cfr. FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., p. 101.
40 Opera, III, p. 54 (trad. it. p. 90).
41 Ivi, p. 57 (trad. it. p. 103).
42 Il termine absolutum, con i suoi derivati, ha nel lessico spinoziano un ruolo di

fondamentale importanza, non soltanto nell’Etica, ma anche nel TP; in questo passo,
tuttavia, Spinoza vuole evidenziare essenzialmente un uso «originario» del concetto di
legge, dal quale derivano i significati determinati.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 119

universali della natura»43. Resta così sospeso il significato della


distinzione, che compare alla fine del passo sopra citato, tra la
legge che dipende dalla necessità naturale e quella che invece
deriva ab hominum placito, come se la decisione umana potesse
collocarsi in un territorio extra-naturale. Spinoza non mantiene
a lungo questa ambiguità, ma anzi chiarisce subito in che senso
sia possibile parlare di leggi umane:
I) Perché l’uomo, in quanto è parte della natura, costituisce una parte
della potenza di questa: onde le cose che procedono dalla necessità della
umana natura, e cioè dalla natura stessa in quanto la concepiamo deter-
minata attraverso la natura umana, procedono tuttavia, sia pure necessa-
riamente, dall’umana potenza; onde si può benissimo dire che la sanzione
di queste leggi dipende dalla decisione dell’uomo, perché dipende princi-
palmente dalla potenza della mente umana44.

La spiegazione chiama in causa la costituzione ontologica


della sostanza e la relazione che essa intrattiene con i suoi mo-
di, in particolare con il modo finito ‘uomo’45: per mezzo del
suo conatus, cioè della sua essenza-potenza, l’essere umano
esprime una parte dell’intera potenza naturale cosicché, nella
misura in cui le leggi di natura determinano il suo agire specifi-
co, è possibile effettivamente sostenere che esse dipendono
«praecipue a potentia humanae mentis». In tal modo Spinoza,
quando sembra voler concedere all’uomo uno spazio di auto-
nomia decisionale, in realtà nega ogni possibilità che esista una
facoltà di decidere sganciata dai meccanismi propri della legge
di natura46. Risuona l’eco della Prefazione della III parte dell’E-
tica, dove si legge che «la natura [...] è sempre la stessa e la sua
virtù e potenza di agire è ovunque una e identica, cioè le leggi e
regole della natura secondo le quali tutte le cose avvengono e si

43 Ivi, p. 58 (trad. it. p. 103).


44 Ibid. (trad. it. pp. 103-4).
45 La costituzione della natura umana come potentia è affrontata da Spinoza nelle

prime proposizioni della III parte dell’Etica, la cui importanza sul versante politico ho
cercato di evidenziare nel mio contributo Potenza e potere in Spinoza, in Il potere. Per
una storia della filosofia politica moderna, cit., pp. 143-56.
46 D’altra parte nell’Etica Spinoza afferma che «le decisioni della Mente non sono

altro che gli stessi appetiti che, perciò, variano in corrispondenza della varia disposizio-
ne del Corpo» (III, 2, scolio; in Opera, II, p. 143; trad. it. p. 176).
120 La libertà necessaria

mutano da una forma all’altra sono ovunque sempre le stes-


se»47; di modo che in nessuno modo è possibile concepire l’uo-
mo «nella natura come un dominio all’interno di un dominio
(veluti imperium in imperio)»48.
A questo punto, il capitolo VI del TTP passa a una seconda
motivazione, che introduce un elemento di complicazione:
II) Perché, trattandosi per noi di definire e spiegare le cose mediante
le loro cause prossime, quell’universale considerazione della fatale conca-
tenazione delle cause non serve minimamente al nostro scopo, che è di
formare e di coordinare le nostre idee circa le cose particolari. Si aggiun-
ga il fatto che noi ignoriamo del tutto quel coordinamento e quella con-
catenazione delle cose, e cioè come in realtà le cose siano ordinate e con-
catenate; sicché, per la prassi della vita (ad usum vitae), è meglio, anzi ne-
cessario per noi considerare le cose come possibili49.

Si manifesta così una necessità («melius, imo necesse est»)


non deducibile dalla costituzione dell’universo naturale, eppu-
re ugualmente cogente: una cogenza di ordine pratico, fondata
sul carattere determinato e limitato dell’umana potenza che,
non essendo in grado di risalire all’infinito nella concatenazio-
ne causale, necessita «per la prassi della vita» di un’approssi-
mazione conoscitiva. Tale approssimazione è espressa dall’uso
della nozione di «possibile». L’Etica definisce il possibile (o
«contingente») come ciò «della cui essenza ignoriamo che essa
implichi contraddizione, o della quale sappiamo giustamente
che essa non implica contraddizione, e della cui esistenza tutta-
via non possiamo affermare con certezza nulla, per la ragione
che l’ordine delle cause ci è nascosto»50; si tratta di una costru-
zione mentale che, esattamente come per l’immaginazione, non
indica tanto la natura di una cosa, quanto piuttosto riconosce
l’ignoranza del soggetto conoscente. Se di limite conoscitivo si
tratta, esso è comunque un limite coessenziale alla natura uma-
na, e come tale va assunto, soprattutto nella prassi quotidiana

47 Opera, II, p. 138 (trad. it. p. 172).


48 Ivi, p. 137 (trad. it. p. 171). Sul nesso esistente tra legge, decisione e volontà in-
siste È. BALIBAR, Jus-Pactum-Lex. Sur la constitution du sujet dans le «Traité Théologico-
politique», in «Studia Spinozana», I, 1985, pp. 105-42, in particolare pp. 120 sgg.
49 Opera, III, p. 58 (trad. it. p. 104).
50 Ethica, I, 33 scolio I, in Opera, II, p. 74 (trad. it. p. 113).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 121

delle relazioni con gli altri uomini; per questo Spinoza, dimo-
strando ancora una volta la sua attenzione alla dimensione co-
municativa, preferisce non insistere sulla definizione esatta di
legge, ma piuttosto cercare di intervenire sulle false opinioni
per farne emergere gradualmente l’aspetto veritiero.
Il rischio di questo procedimento è però considerevole, e il
TTP lo avverte immediatamente: «poiché la parola legge sembra
applicarsi alle cose naturali soltanto in senso traslato, comune-
mente per legge non s’intende altro che un comandamento
(mandatum) che gli uomini possono osservare o trascurare»51.
La natura allucinatoria dell’immaginazione produce uno scivola-
mento (una translatio) semantico che assolutizza l’aspetto uma-
no del concetto di legge, pervertendone così il significato origi-
nario: «la legge sembra doversi definire come un modo di vivere
che l’uomo prescrive a sé o agli altri in vista di un fine». Come
ultima conseguenza avviene che, dal momento che il fine sopra
citato è ignoto ai più, «per legge più che altro si intendesse un
modo di vivere imposto agli uomini dall’autorità di altri (ex alio-
rum imperio)»52. Si è dunque giunti alla nozione inadeguata di
lex, sorretta da un fondamento teleologico ed eteronomo, di
contro al carattere immanente, antifinalistico e necessario della
legge absolute sumpta dalla ragione. Nello spazio esistente tra
questi due estremi, ossia nel medium dell’immaginazione, che
accomuna tutti gli uomini (mentre la razionalità immediatamen-
te dispiegata è di pochi), Spinoza tenta di costruire un percorso

51 Opera, III, p. 58 (trad. it. p. 104).


52 Ivi, pp. 58-59 (trad. it. p. 104). Diversa è la lettura dei passi sopra indicati propo-
sta da D.J. DEN UYL, Power, State and Freedom. An Interpretation of Spinoza’s Political
Philosophy, Van Gorcum, Assen, 1983; dove – riprendendo le tesi di G. BELAIEF, Spino-
za’s Philosophy of Law, Mouton, Den Haag, 1971, pp. 34 sgg. –, viene sostenuto che Spi-
noza considera metaforica la prima definizione, e che quindi anche per lui la legge è pro-
priamente il frutto di una convenzione umana (cfr. pp. 2-3). Tuttavia questa interpreta-
zione rimuove il senso più originale del pensiero spinoziano, trascurando il nesso esi-
stente tra la riflessione metafisica e quella antropologica e politica. Anche L. ADELPHE,
Comment la notion de «loi humaine» çoncue par Spinoza peut-elle être déduite da sa philo-
sophie générale?, Crépin, Nancy, 1905, afferma che per Spinoza esistono solo leggi uma-
ne, e non può esistere alcuna legge divina, se non per omonimia, poiché Dio non formu-
la alcun comando (cfr. p. 26); ma, nuovamente, rimane oscuro il movimento profondo
della critica spinoziana al concetto di legge. Un movimento che è invece riconosciuto da
Droetto nel suo commento alla traduzione del TTP (cfr. op. cit., p. 116, nota 4).
122 La libertà necessaria

di graduale emendazione, che accettando di utilizzare la termi-


nologia volgare – secondo una prassi «necessaria» –, ne mostra
l’implicita contraddittorietà, ma anche le potenzialità di un suo
sviluppo nella direzione del concetto vero.
Un esempio chiarificatore di questo metodo è dato al capito-
lo XVI del TTP, dove compare la distinzione tra chi è schiavo
della legge e chi invece, pur obbedendo a quest’ultima è, per
un paradosso solo apparente, libero:
si ritiene che sia schiavo colui che agisce per mandato (qui ex mandato
agit), e libero colui che fa a modo suo (qui animo suo morem gerit): il che
non è vero in senso assoluto (absolute), perché di fatto colui che è trasci-
nato dal suo piacere fino al punto da non essere in grado di vedere e di
fare ciò che gli è utile, è in sommo grado servo, mentre libero è soltanto
colui che vive integralmente secondo il solo dettame della ragione. L’azio-
ne comandata, e cioè l’obbedienza, toglie bensì in un certo senso la liber-
tà, ma non rende senz’altro schiavi; è invece il movente dell’azione (actio-
nis ratio) che rende schiavi53.

Questo passo esplicita il nesso costitutivo esistente tra i con-


cetti di attività, libertà e razionalità, nesso che attraversa l’intero
impianto filosofico spinoziano, dall’ontologia alla politica. L’uni-
vocità del significato metafisico di libertà e di quello antropolo-
gico risulta evidente se solo si richiama la definizione 7 della I
parte dell’Etica, secondo la quale è libera «quella cosa che esiste
in virtù della sola necessità della sua natura e che è determinata
ad agire soltanto da essa»54; tale necessità è espressa nel brano
del TTP dal riferimento conclusivo all’actionis ratio, la quale
non indica tanto un orizzonte teleologico, ma è piuttosto espres-
sione della razionalità interna dell’azione. In tal modo Spinoza
opera il tentativo di innestare la propria filosofia nel linguaggio
comune, sovvertendo le certezze sclerotizzate nelle parole.

53 Opera, III, p. 194 (trad. it. pp. 383-4).


54 Opera, II, p. 46 (trad. it. p. 88). Un approfondito esame delle fondamentali im-
plicazioni etiche presente nella I parte dell’Etica, e in particolare nella definizione so-
pra ricordata, si trova in P. MACHEREY, From Action to Production of Effects: Observa-
tions on the Ethical Significance of «Ethics» I, in God and Nature. Spinoza’s Metaphysics.
Papers Presented at the First Jerusalem Conference, a cura di Y. Yovel, Brill, Leiden,
1991, pp. 161-80, e anche nella risposta, contenuta nella stessa raccolta, di J. LAGRÉE,
From External Compulsion to Liberating Cooperation: A Reply to Macherey, pp. 181-90.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 123

La stessa differenza presente al capitolo XVI tra chi è schia-


vo della legge e chi invece è libero, pur all’interno di essa, è rin-
tracciabile anche al capitolo IV, seppure in una forma meno
esplicita, allorché l’individuo che «dà a ciascuno il suo per ti-
more del castigo», agendo così «per imposizione di altri e sotto
la minaccia del male», viene distinto da chi invece «conosce la
vera ragione delle leggi e la loro necessità», e pertanto agisce
«secondo la propria e non secondo l’altrui decisione»55. La
possibilità che l’uomo rimanga libero – o, come lo definisce
Spinoza, prendendo spunto dalle Scritture, «giusto» – anche ri-
spettando la legge, modifica totalmente il quadro teorico, rein-
troducendo quelle distinzioni che la cattiva immaginazione
aveva schiacciato sotto la rappresentazione monolitica della
legge come comando: non solo quella tra legge giusta e ingiu-
sta, ma anche la distanza tra legge umana, «che serve soltanto
alla tutela della vita e della cosa pubblica», e legge divina, «che
concerne unicamente il sommo bene, cioè la vera conoscenza e
l’amore di Dio»56. Pur all’interno di una concezione sostanzial-
mente inadeguata, in quanto ancora legata a una visione antro-
pocentrica della realtà, e quindi incapace di cogliere il signifi-
cato razionale del concetto di legge, tuttavia ora diventa possi-
bile riarticolare una riflessione altrimenti bloccata; dopo essere
state separate, legge divina e legge umana trovano un punto di
saldatura, poiché la prima si manifesta come condizione di pos-
sibilità della seconda. Solo da essa infatti, per il tramite dell’E-
tica universale, derivano «i fondamenti di uno Stato ottima-
mente ordinato e la regola del vivere umano»57. Spinoza offre
un chiarimento recuperando un esempio dalla storia di Israele,
da quella legge mosaica che mantiene a un tempo l’aspetto co-
ercitivo e contingente di adeguamento «all’indole e alla parti-

55 Opera, III, p. 59 (trad. it. p. 105).


56 Ibid.
57 Ivi, p. 60 (trad. it. p. 106). Ma cfr. anche ivi, p. 67 (trad. it. p. 114): «il nostro

intelletto e la nostra scienza dipendono, traggono origine e perfezione esclusivamente


dall’idea ossia dalla conoscenza di Dio», e da questa scienza soltanto si possono de-
durre «la vera Etica e la vera Politica: <allora intenderai la giustizia e l’equità ed ogni
retto sentiero>». Sul nesso tra legge divina e legge civile insiste, seppure in una dire-
zione differente rispetto a quella qui delineata, BELAIEF, Spinoza’s Philosophy of Law,
cit., pp. 72-99.
124 La libertà necessaria

colare conservazione di un popolo»58, e quello religioso di con-


tinuo riferimento al piano del divino, dal quale essa ha ricevuto
la propria sanzione. Infatti null’altro se non l’esistenza di un’a-
pertura verso la dimensione metapolitica del bene comune, che
il tratto profetico del linguaggio mosaico garantisce, permette il
buon esito del progetto politico, impedendone la caduta nell’e-
teronomia e nella coercizione della legge temporale59. La con-
nessione tra politica giusta e religione vera si contrappone a
quella tra superstizione religiosa e l’ordine oppressivo che si
sostiene su di essa; ma entrambe le possibilità, che rinviano
nuovamente ai diversi significati della lex, si dispiegano sullo
stesso terreno, quello della conoscenza immaginativa – propria
del profeta, come anche del predicatore – e degli affetti – costi-
tutivi del popolo ebraico, come di quello dominato dall’ideolo-
gia religiosa. Il profeta e legislatore Mosè, e come lui tutti gli al-
tri profeti, non raggiunge in modo stabile e definitivo il piano
della conoscenza razionale, bensì continua ad immaginare Dio
«come rettore, legislatore, re, misericordioso, giusto, ecc., ben-
ché tutti questi siano attributi della sola natura umana e che
devono essere del tutto rimossi dalla natura divina»60; il che si-
gnifica che la bontà della costituzione politica dello Stato ebrai-
co, che spinse gli Ebrei a credersi il popolo eletto, non nasce da
una conoscenza vera della natura divina, ma da un uso peculia-
re dell’immaginazione.
Due sono le conseguenze teoriche più rilevanti: in primo
luogo, la critica spinoziana alla nozione antropomorfica di Dio
trova qui un elemento di complicazione, poiché la teocrazia
mosaica sembra dimostrare che è possibile istituire uno Stato
giusto e ben ordinato anche a partire da una conoscenza inade-

58 Opera, III, p. 60 (trad. it. p. 106).


59 Questa connessione tra politica e religione è ben evidenziata anche da S. ZAC,
Rapports de la religion et de la politique chez Spinoza et J. J. Rousseau, in «Revue d’Hi-
stoire et de Philosophie Religieuses», L, 1970, pp. 1-22. Altri interventi, invece, tra i
quali J. PREPOSIET, Spinoza et la liberté des hommes, Gallimard, Paris, 1967, pp. 117-
212, e soprattutto J.P. RAZUMOWSKI, Spinoza und der Staat [1931], in Texte zur Ge-
schichte der Spinozismus, a cura di N. Altwicker, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,
Darmstadt, 1971, pp. 377-92, riducono il carattere politico dell’analisi spinoziana della
religione alla sua pars destruens, ovvero alla denuncia dell’aspetto ideologico.
60 Opera, III, p. 64 (trad. it. p. 110).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 125

guata della natura divina, e che quindi l’immagine di Dio come


sovrano non conduce necessariamente a una politica oppressi-
va; in secondo luogo – ma si tratta di un aspetto strettamente
legato a quello precedente – emerge anche sul versante della
politica quel carattere dinamico e produttivo dell’imaginatio
che il linguaggio profetico aveva messo in evidenza sul piano
etico-religioso (o genericamente «sociale»).

3. Religione e democrazia nella teocrazia ebraica


È nella seconda metà del secolo XVI che storici ed eruditi
umanistici cominciano a occuparsi in modo sistematico della
costituzione della repubblica mosaica; dopo che l’umanista sa-
voiardo Sébastien Castellion aveva tradotto il IV libro delle
Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio61, tale attenzione culmi-
na in due opere pressoché coeve: il De Republica Hebraeorum
(1582), del bolognese Carolus Sigonius62, che, ristampata più
volte anche in terra protestante, costituisce una delle principali
fonti dei riferimenti althusiani all’argomento; e il De Politica Ju-
daica (pubblicato a Ginevra nel 1574), di Bonaventure Corneil-
le Bertram, autore riformato che manifesta un interesse non so-
lo teologico e filologico, ma anche politico per le vicende vete-
rotestamentarie, dalle quali egli trae la giustificazione delle pre-
rogative del Concistorio ginevrino, evidenziando la presenza
nella Bibbia di una separazione netta tra potere civile e potere
ecclesiastico63. In terra olandese la prima importante analisi
della teocrazia ebraica si trova nel De republica emendanda del
giovane Grotius64, uno scritto rimasto inedito durante la vita

61 Sull’importanza di questa traduzione cfr. C.R. LIGOTA, Histoire à fondement

théologique: la République des Hébreux, in L’Écriture Sainte au temps de Spinoza, cit.,


pp. 149-67.
62 Caroli SIGONII, De Republica Hebraeorum Libri VII; Boboniae, apud Joannes

Rossium, 1582.
63 Cfr. F. LAPLANCHE, L’éruditione chretienne au XVIe et XVIIe siècles et l’État des

Hébreux, in L’Écriture Sainte au temps de Spinoza, cit., pp. 133-47. Più in generale, sulle
vicende dell’interpretazione storica della teocrazia mosaica cfr. J. WEILER, Jewish Theo-
cracy, Brill, Leiden, 1988.
64 Cfr. V. CONTI, Consociatio civitatum. Le repubbliche nei testi elzeviriani (1625-

1649), CET, Firenze, 1997, pp. 116-9.


126 La libertà necessaria

dell’autore65, nel quale lo studio della repubblica ebraica si


propone lo scopo di recuperare un modello utile a indirizzare il
processo di costituzionalizzazione delle Province Unite66. Que-
sto è anche il fine, esplicitamente dichiarato, dell’opera già cita-
ta di Petrus Cunaeus, quel De Republica Hebraeorum la cui pri-
ma edizione risale al 1617, ma che verrà ristampato più volte
nelle edizioni elzeviriane67.
La costante volontà di stabilità politica e la strenua difesa
della piena uguaglianza tra tutti i cittadini costituiscono i prin-
cipi ispiratori di Cunaeus, la cui opera può essere considerata
un esempio significativo dei mutamenti che la tradizione di
pensiero repubblicana veniva subendo nel corso del XVII seco-
lo68. Cunaeus intende dimostrare l’eccellenza dello Stato ebrai-
co non a un pubblico di dotti, bensì alla classe dirigente della
Repubblica olandese, che negli anni della prima edizione dove-
va fronteggiare la crisi religiosa aperta dai Rimostranti, e con-
clusasi con la loro sconfitta al Sinodo di Dordrecht (1619). Il ri-
ferimento non è casuale, poiché l’autore sottolinea contempora-
neamente la centralità dell’elemento religioso nella costituzione
elaborata da Mosè e la grande concordia che essa produce tra
la popolazione; un simile risultato si fonda sulla sua natura teo-
cratica, ossia sul fatto che Dio è il fondatore, oltre che il solo e
unico reggente dello Stato69. Su tutto si staglia l’eccezionalità
della figura di Mosè che, illuminato dall’ispirazione divina, tra-
65 Per ulteriori notizie cfr. l’Introduzione di A. Effinger all’edizione apparsa su

«Grotiana», V, 1984, H.G., De republica emendanda. A juvenile tract by Hugo Grotius


on the emendation of the Dutch Polity; F. DE MICHELIS, Le origini storiche e culturali del
pensiero di Ugo Grozio, La Nuova Italia, Firenze, 1967 (che in Appendice ha un’edizio-
ne del testo); G. SILVANO, La rivolta delle Province Unite e il De Republica Emendanda
di Ugo Grozio, in «Il pensiero politico», XX, 1987, pp. 395-404.
66 Cfr. in proposito CAMPOS BORALEVI, Introduzione a Petrus CUNAEUS, De Repu-

blica Hebraeorum, cit, pp. XXVI-XXVIII, nonché, della stessa autrice, il già citato Per
una storia della Respublica Hebraeorum come modello politico.
67 Cfr. CONTI, Consociatio civitatum, cit., p. 105.
68 R. TUCK, Philosophy and Government 1572-1651, Cambridge University Press,

Cambridge, 1993, parla del De Republica Hebraeorum come di «one of the most remar-
kable pieces of political theory to come out of the early seventeenth-century United
Provinces» (p. 167). Più in generale, per una discussione sul pensiero repubblicano in
epoca proto-moderna si vedano gli articoli di D. Taranto, V. Conti, S. Visentin e M.
Geuna presenti nel I numero di «Filosofia politica», XII, 1998.
69 Cfr. CUNAEUS, De Republica Hebraeorum, cit, pp. 38-40.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 127

scende i limiti della natura umana, rifiutando di cercare per sé


potere ed onori, e preoccupandosi invece esclusivamente di isti-
tuire una legislazione capace di neutralizzare gli effetti antiso-
ciali delle passioni individuali, realizzando la definizione aristo-
telica di legge come «mentem quandam sine cupiditate»70. Le
caratteristiche principali che Cunaeus individua nella teocrazia
mosaica sono la continua ricerca dell’equalitas tra tutti i cittadi-
ni – da prodursi attraverso particolari meccanismi legislativi, tra
i quali uno spazio particolare merita la legge agraria71 – e ap-
punto l’uso della religione come «rerumpublicarum quoddam
coagulum»72 – ma anche, nei casi di estrema necessità, come
deterrente al prodursi di turbolenze interne; un uso che, a ogni
modo, deve restare nelle mani del potere civile, pena l’imme-
diata disgregazione del tessuto sociale73.
L’attenzione alla rilevanza pratica della religione mosaica è
dunque un aspetto fondamentale della riflessione di Cunaeus,
costituendo il punto di contatto tra l’analisi teorica e l’inter-
vento politico. Questo testimonia, ancora una volta, dell’esi-
stenza in Olanda di uno sfondo ideologico condiviso che per-
mette di riconoscere l’eventuale intenzionalità politica presente
nell’intepretazione della storia del popolo ebraico. A tale sfon-
do fa implicitamente riferimento il TTP, non solo nei primi
quattro capitoli, ma quasi ovunque compaiano temi e vicende
dell’Antico Testamento. Non fa eccezione l’analisi del signifi-
cato dei riti svolta al capitolo V. Che i riti siano aggiunti dall’e-
sterno alla religione originaria era già stato sottolineato al capi-
tolo precedente, nel momento in cui Spinoza aveva affermato
che «questa legge divina naturale non esige riti (caerimonias),
cioè azioni che sono in sé indifferenti e che si chiamano buone
soltanto per istituzione». Le cerimonie possono essere soltanto
«simboli (repraesentamina) di un qualche bene, non possono

70 Ivi, p. 42.
71 Cfr. ivi, cap. II (pp. 46-58), ma anche i tre capitoli successivi, dedicati al mede-
simo argomento.
72 Ivi, p. 306.
73 Su questo punto insiste CAMPOS BORALEVI, Introduzione a CUNAEUS, De Repu-

blica Hebraeorum, cit, p. XLIX, cogliendo la sostanziale adesione all’erastianesimo da


parte di Cunaeus.
128 La libertà necessaria

perfezionare il nostro intelletto, né sono altro che mere ombre,


e non possono essere annoverate tra le azioni che sono come la
prole o il frutto dell’intelletto e della mente sana»74. Esse han-
no dunque un valore soltanto rappresentativo, poiché sono un
prodotto dell’immaginazione, ed esprimono come tali la dupli-
ce natura di ogni atto immaginativo; Spinoza, infatti, non man-
ca di sottolineare il tratto di passività presente nel rito, che
emerge dalla pretesa di possedere un valore salvifico per il solo
fatto di rappresentare un’immagine divina, ma che in realtà si
riduce alla produzione di «merae umbrae», simulacri che inibi-
scono il conatus dell’individuo, anziché potenziarlo. Tuttavia
esiste anche un aspetto positivo del rito, evidenziato proprio al
capitolo V:
i riti, invece, quelli almeno che si trovano nel Vecchio Testamento, fu-
rono istituiti soltanto per gli Ebrei e adattati al loro Stato (imperio), in
maniera che per la massima parte essi poterono essere praticati non dal
singolo ma dall’intera comunità (ab universa societate).... [Essi] riguarda-
no esclusivamente l’elezione degli Ebrei, e cioè (per quanto abbiamo di-
mostrato nel capitolo III) soltanto la felicità temporanea del corpo e la
tranquillità dello Stato e non poterono perciò avere alcuna applicazione
se non lungo la durata del loro Stato75.

Il riferimento all’elezione del popolo ebraico, di cui Spinoza


ha già dimostratto il carattere contingente, chiarisce anche il si-
gnificato del rito: eliminato ogni possibile riferimento all’oriz-
zonte autoritativo della trascendenza, esso si mostra come un
momento peculiare del processo storico che dà la nascita alla
società ebraica, ed è quindi necessario al costituirsi dell’identità
nazionale. Infatti una delle principali caratteristiche delle ceri-
monie è quella di socializzare il momento religioso, che da ge-
sto interiore e individuale diviene un atto pubblico, celebrato
«ab universa societate». Viene così introdotta una dimensione
partecipativa e collettiva che permette il consolidamento del le-
game sociale, attraverso il rafforzamento del sentimento comu-
ne della devozione: «Mosè introdusse la religione nello Stato
(in Rempublicam), affinché il popolo facesse il suo dovere, non

74 Opera, III, p. 62 (trad. it. p. 108).


75 Ivi, p. 69 (trad. it. p. 124).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 129

tanto per timore quanto per devozione»76.


Emerge nuovamente il riferimento alla figura di Mosè, non
solo profeta e legislatore, ma anche eroe fondatore di Stati, se-
condo un’intepretazione presente anche in Cunaeus, ma che ha
le sue origini nel Rinascimento italiano, e in particolare in Ma-
chiavelli77. Dopo l’esodo dall’Egitto, quando la massa degli
ebrei fuggiti vive in uno stato di semi-anarchia e in assenza di
obbligazione politica, il problema che Mosè deve affrontare è
quello della creazione di un nuovo diritto comune, al quale tut-
ti obbediscano non soltanto perché intimoriti dalla minaccia
della punizione, ma soprattutto perché ne percepiscono, seppu-
re in maniera confusa, l’utilità e l’accordo con il loro conatus
singolare. Spinoza, ricostruendo le vicende narrate dal testo bi-
blico, sottolinea «l’indole irriducibile del popolo (che non sop-
portava di essere piegato soltanto con la forza)»78, e l’«ingegno
quasi rude» dei suo membri, che impediva loro «di costituirsi
un saggio ordinamento giuridico e di esercitare collegialmente
il potere (imperium)»79. Questi due aspetti – che non riguarda-
no la natura specifica della nazione ebraica, ma che hanno una
funzione esemplare, indicando le caratteristiche di ogni popola-
zione primitiva – rendono arduo il compito che Mosè si era
proposto, perché sembra mancare anche quel grado minimo di
razionalità che permette agli individui di accordarsi su un prin-
cipio universalmente riconosciuto. L’unica strada possibile è
quella di intervenire sull’immaginazione attraverso la religione,
suscitando negli uomini, se non un agire razionale, almeno un
senso di partecipazione affettiva al rito, attraverso il quale il sin-
golo non solo si sente parte di una comunità, ma è anche, per
76 Ivi, p. 75 (trad. it. p. 131). Cfr. in proposito BOVE, La strategie du conatus, cit.,

che sottolinea come «les Hébreux definissent ainsi leur identité dans l’imaginaire» (p.
200). Inoltre A. MALET, Le Traité Théologico-Politique de Spinoza et la pensée biblique,
Les Belles Lettres, Paris, 1966, mette in risalto l’aderenza dell’interpretazione spinozia-
na alla realtà storica – non sempre così evidente –, in quanto proprio la fede religiosa
garantiva l’unità della coscienza nazionale del popolo ebraico subito dopo la fuga dal-
l’Egitto (cfr. pp. 253 sgg.).
77 Su questo argomento e sul parallelo Spinoza-Machiavelli insiste R. MC SHEA,

The Political Philosophy of Spinoza, Columbia University Press, New York, 1968, pp.
95-104.
78 Opera, III, p. 75 (trad. it. p. 131).
79 Ibid.
130 La libertà necessaria

quanto in misura limitata, attivo, dal momento che contribuisce


alla nascita di una collettività organizzata80.
La religione istituita da Mosè, pur essendo fondata sulla na-
tura affettiva dell’uomo, e non offrendo quindi alcuna verità di
ragione, non è riducibile alla superstizione, nè ha come conse-
guenza la produzione di un’ideologia che domina sulle coscien-
ze individuali. È senz’altro vero che lo scopo delle cerimonie
religiose è l’obbedienza, e che pertanto esse finiscono per «in-
durre gli uomini ad agire esclusivamente secondo l’altrui co-
mando (ex mandato alterius), invece che per propria delibera-
zione, e a confessare con le azioni e le meditazioni quotidiane
di non avere alcun diritto proprio, ma di essere completamente
soggetti a un diritto altrui (se nihil prorsus sui, sed omnino alte-
rius juris esse)»81; tuttavia la mancanza di autonomia e la dipen-
denza dal diritto altrui non è tanto un esito del culto voluto da
Mosè, quanto piuttosto la situazione originaria nella quale gli
Ebrei, incapaci di darsi un ordinamento politico razionale, si
trovano; uno stato di fatto, che può essere modificato soltanto
gradualmente. Ritornando alla distinzione tra i diversi signifi-
cati di legge, non è tanto «l’azione comandata, e cioè l’obbe-
dienza», a rendere schiavi, bensì l’actionis ratio, cioè la raziona-
lità interna dell’azione, a prescindere – almeno in parte – dal
fatto che tale razionalità sia presente consapevolmente nel sog-
getto agente; per questo vi è una netta differenza tra l’eterono-
mia di chi obbedisce ad altri senza che questo gli sia di alcuna
utilità, e quella di chi invece, pur obbedendo, e quindi senza
saperlo (o percependolo solo confusamente), agisce nella dire-
zione di un potenziamento della sua natura82.
Quest’ultimo caso è quello preso in considerazione dal TTP,
nel momento in cui Spinoza sottolinea come il culto religioso

80 Cfr. in proposito anche BOVE, La strategie du conatus, cit., pp. 211-2.


81 Opera, III, p. 76 (trad. it. p. 132). La coppia sui juris-alterius juris, che qui com-
pare di sfuggita, gioca invece un ruolo centrale nel TP, come si avrà modo di osservare.
82 Oltre a BRETON, Politique, religion écriture chez Spinoza, cit., pp. 44 sgg., e ID.,

Spinoza. Teologia e politica, cit., pp. 205 sgg., cfr. soprattutto S. ZAC, Spinoza et l’État
des Hébreux, in ID., Philosophie, théologie, politique, cit., pp. 145-76, il quale sottolinea
l’importanza delle cerimonie religiose per la nascita e lo sviluppo del sentimento civico
degli Ebrei, poiché esse avrebbero trasformato il sentimento dell’obbedienza alla legge
civile in desiderio di libertà.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 131

tenda a sostituire, come affetto collettivo che muove all’obbe-


dienza, la paura con la devozione. La devotio, che può essere
interpretata come un’«antenata» della pietas, ovvero del senti-
mento religioso divenuto consapevolezza, viene definita nell’E-
tica come «Amore, unito all’Ammirazione o Venerazione»83:
essa mantiene quindi il duplice aspetto della passività, implica-
ta nell’admiratio 84, e dell’aumento della potenza derivante dal-
l’Amore (quell’Amore che costituisce uno degli aspetti decisivi
della profezia). Contrariamente alla paura, la quale produce
nell’individuo un effetto di isolamento determinato dalla per-
cezione di una minaccia incombente, la devozione istituisce
uno spazio neutrale, se non di collaborazione, tra gli uomini,
favorendo così, attraverso la comunicazione tra i diversi inge-
nia, la genesi di una dimensione esistenziale condivisa85. Non
va comunque dimenticato che la società nascente è segnata dal
pericolo dell’instabilità e percorsa dal rischio di una trasforma-
zione in senso autoritario: l’admiratio ha infatti come potenzia-
le ricaduta una sclerotizzazione delle menti e, qualora venga in-
dirizzata verso un individuo particolare – come potrebbe esse-
re Mosè –, la nascita del culto della personalità, che è il primo
passo nella direzione di un potere monarchico per diritto divi-
no86; pericolo che Spinoza ha ben presente.
Il capitolo V costituisce una sorta di introduzione all’analisi
della teocrazia mosaica, che occupa soprattutto le pagine del
capitolo XVII. La peculiarità di questo regime, che anche Cu-
naeus aveva messo in evidenza, recuperando la tesi di Giuseppe
Flavio87 contro le letture rinascimentali laicizzanti, che tendeva-

83 Ethica, III, 52, scolio, in Opera, II, p. 180 (trad. it. p. 210). Ma cfr. anche lo stes-

so TTP, cap. XVII: «da nessuna cosa questi [sc. gli uomini] sono presi quanto dalla
gioia che nasce dalla devozione, ossia dall’amore e dall’ammirazione insieme» (Opera,
III, pp. 216-7; trad. it. p. 432).
84 Cfr. in proposito il paragrafo 3 del I capitolo.
85 Sul valore della devozione religiosa come medium dell’integrazione politica si

veda anche M. WALTHER, Institution, Imagination und Freiheit bei Spinoza. Eine kriti-
sche Theorie politischer Institutionen, in Politische Institutionen in gesellschaftlichen
Umbruch, a cura di G. Goelher et als., Westdeutscher Verlag, Opladen, 1990, pp. 246-
75, in particolare pp. 256 sgg.
86 Cfr. l’accurata analisi di questo processo in A. MATHERON, Individu et commu-

nauté selon Spinoza, Editions de Minuit, Paris, 1988 (I ed. 1969), pp. 211-4.
87 È infatti lo storico romano il primo a usare, nel Contra Apionem, questo termi-
132 La libertà necessaria

no a ricondurlo all’aristocrazia, viene sottolineata già al capitolo


VIII, dove Spinoza dichiara l’impossibilità di interpretare lo
Stato ebraico come una variante dell’imperium monarchicum:
«non ha senso il voler inserire Mosè nel catalogo dei re Ebrei,
dal momento che per divina ispirazione egli istituì lo Stato
ebraico (Hebraeorum imperium) del tutto diverso da uno stato
monarchico»88. Come dimostra chiaramente l’atto di nascita
della teocrazia, «Mosè, non appena conobbe l’intenzione del
popolo di stringere un patto con Dio [...], lesse all’intera assem-
blea (universae concioni) le condizioni del patto da stringersi, e
dopo quella lettura, compresa senza dubbio dalla folla intera, il
popolo espresse il suo pieno consenso (populus se pleno consen-
su adstrinxit)»89. Il tema dell’universalità e del consenso popo-
lare, che al capitolo V non era mai apparso in forma esplicita,
delinea un nuovo scenario, che riguarda il grado di partecipa-
zione della popolazione alla costituzione dell’ordinamento poli-
tico attraverso la forma del patto. La descrizione completa e ac-
curata del meccanismo pattizio si trova al capitolo XVII:
Trovandosi, dunque in questo stato di natura, essi [sc. gli Ebrei] deli-
berarono, su consiglio di Mosè nel quale avevano la massima fiducia, di
non trasferire ad alcun uomo, ma a Dio soltanto il proprio diritto, e senza
indugio promisero tutti ad una voce (omnes aeque uno clamore) di obbe-
dire in modo assoluto a tutti i comandamenti divini e di non riconoscere
altro diritto all’infuori di quello che Dio stesso avesse dichiarato tale per
mezzo della rivelazione profetica. E questa promessa o traslazione a Dio
del diritto avvenne allo stesso modo in cui fu da noi concepito che avven-
ga nella società comune, quando gli uomini decidono di rinunciare al
proprio naturale diritto. Con un patto esplicito (vedi Esodo 24.7) e con
giuramento, infatti, essi rinunciarono liberamente, e non costretti dalla
violenza o impauriti dalle minacce (libere, non autem vi coacti, neque mi-
nis territi), al proprio diritto naturale, trasferendolo a Dio90.

Le caratteristiche del patto con Dio secondo l’intepretazione


spinoziana sono le seguenti: innanzitutto la partecipazione una-

ne, ampliando così la tradizionale ripartizione aristotelica. Sull’influenza di Giuseppe


Flavio nell’opera di Cunaeus cfr. CAMPOS BORALEVI, Introduzione a CUNAEUS, De Re-
publica Hebraeorum, cit, p. XLI-XLII.
88 Adn. X, in Opera, III, p. 254 (trad. it. p. 234).
89 Ivi, p. 122 (trad. it. p. 234).
90 Ivi, p. 205 (trad. it. pp. 417-8).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 133

nime di tutto il popolo, per quanto determinata (come sembra


indicare il riferimento all’uno clamore, che ricorda il grido di
entusiasmo con cui gli eserciti eleggevano il loro generale capo
politico) dal convenire degli affetti individuali piuttosto che da
una decisione razionale; in secondo luogo, la libertà – ma forse
sarebbe più corretto parlare di «assenza di una coazione ester-
na» – con cui ciascuno decide di entrare nel patto. Ma, quel
che è più importante, il testo esplicita la modalità costitutiva
dell’ordinamento politico, che si produce attraverso il trasferi-
mento dei diritti naturali di ogni individuo a Dio. Si opera così
il passaggio da uno stadio di aggregazione altamente instabile,
perché fondato esclusivamente sul sentimento e sull’immagina-
zione religiosa, a un livello più omogeneo e strutturato, sebbe-
ne sia sempre un’immagine – la figura di Dio – a fungere da
collante, come conferma un altro passo dello stesso capitolo:
E per questo, appunto, che credettero di potersi in seguito salvare sol-
tanto con l’aiuto della potenza divina (sola Dei potentia), [gli Ebrei] tra-
sferirono in Dio tutta la naturale facoltà di difendersi che prima potevano
credere di avere in se stessi, e di conseguenza tutto il diritto. Solo Dio,
perciò, tenne il governo degli Ebrei (Imperium ergo Hebraeorum Deus so-
lus tenuit) [....]. In questo Stato, perciò, il diritto civile e la religione (jus
civile et Religio) che, come abbiamo dimostrato, consiste nella sola obbe-
dienza verso Dio, erano una sola e medesima cosa91.

La sola Dei potentia appare l’unica forza in grado di salva-


guardare l’indipendenza del popolo ebraico, e per questo essa
diventa la fonte del diritto civile, che prende così la forma della
precettistica religiosa: «Fu così che questo ordinamento (impe-
rium) poté chiamarsi <teocrazia>, non essendo i cittadini tenu-
ti all’osservanza di alcuna legge che non fosse quella rivelata da
Dio»92. Vi è una precisa differenza tra questa definizione e
quella di Cunaeus, che suona così: «persignificanter Flavius vo-
cari posse θεοκρατιαν (theocratian) ait, quasi tu ejusmodi civi-
tatem dixeris, cujus praeses rectrorque solus Deus sit»93. Se an-
che Spinoza aveva in precedenza affermato che nella Repubbli-

91 Ivi, p. 206 (trad. it. p. 418).


92 Ibid.
93 De Republica Hebraeorum, cit., p. 40.
134 La libertà necessaria

ca ebraica è Dio a governare, tuttavia, al momento di indicare


la caratteristica fondamentale del regime teocratico, egli sposta
l’attenzione sul rapporto che si instaura tra i cittadini e la legge,
come a voler evidenziare i meccanismi reali di costituzione del-
la forma politica. E infatti poco più avanti egli indica la natura
interamente immaginativa del processo di trasferimento dei di-
ritti individuali a Dio con affermando che in realtà «tutto ciò
era piuttosto un’opinione che una realtà di fatto (haec omnia
magis opinione, quam re constabant)»94. Con maggiore radicali-
tà del calvinista Cunaeus, il quale non mette in dubbio la veri-
dicità del racconto biblico, Spinoza applica la sua critica serra-
ta alla narrazione testamentaria, riconoscendo, dietro le imma-
gini del linguaggio, i comportamenti propri di una moltitudine
dominata dalla conoscenza inadeguata e dalle passioni. Così il
Dio che gli Ebrei si raffigurano, al momento della cessione dei
loro diritti, altro non è se non il Deus rector, legislator, rex, de-
tentore di un potere assoluto e trascendente, che nella perce-
zione fantasmatica della popolazione siede su un trono, e da es-
so governa come un monarca. La teocrazia ebraica riproduce la
figura speculare e rovesciata della monarchia per diritto divino:
non è il sovrano a «diventare» Dio, bensì Dio stesso ad essere
acclamato re95. Tuttavia, ancora una volta, Spinoza non si limi-
ta a smascherare l’inganno cui gli Ebrei soggiacciono, bensì ne
evidenzia le decisive conseguenze sul piano politico:
In realtà, infatti, gli Ebrei mantennero assolutamente il loro diritto
d’imperio (jus imperii absolute retinuerunt), come si vedrà da quanto ora
diremo, e cioè dal carattere e dalla forma della pubblica amministrazione
(ratione, qua hoc imperium administrabatur), che ora mi propongo di illu-
strare.
Poiché gli Ebrei non trasferirono a nessun altro il loro proprio diritto,
ma tutti ugualmente, come nella democrazia (ut in Democratia), proce-
dettero alla cessione del proprio diritto e dichiararono unanimamente di
fare (senza alcun espresso intermediario) qualunque cosa Dio dicesse, ne
segue che tutti in seguito a questo patto rimasero assolutamente uguali, e
che eguale rimase in ciascuno il diritto di interpellare Dio, e di riceverne
e interpretarne la leggi, e che tutti assolutamente parteciparono in egual

94 Opera, III, p. 206 (trad. it. p. 418).


95 Cfr. BOVE, La stratégie du conatus, cit., p. 198.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 135

misura a tutta l’amministrazione dello Stato (absolute omnem imperii ad-


ministrationem omnes aeque tenuisse)96.

Nel processo costitutivo della teocrazia Spinoza intravede la


genesi di un regime politico simile a quello democratico, nel
quale i cittadini agiscono come se vivessero in una democrazia,
poiché dispongono di un potere effettivo, per quanto limitato
dalla mancanza di una piena consapevolezza della propria po-
tenza e dei propri diritti (il che, ovviamente, ha una ricaduta
negativa sulla democraticità complessiva del sistema). Se in
precedenza Spinoza aveva evidenziato il movimento consen-
suale che spinge una massa di individui uguali ad accettare li-
beramente di trasferire i loro diritti, ora egli sottolinea come, in
realtà, quell’uguaglianza e quella libertà si conservano, seppure
sotto una forma differente, sostanzialmente identiche. Questo è
reso possibile dal fatto che la cessione immaginaria dei diritti
individuali a Dio avviene «nullo expresso mediatore», senza
cioè che nessuna persona assuma il potere di gestire per conto
degli altri il rapporto con la divinità. In tal senso, la teocrazia
esprime originariamente l’universalità dello jus Deum consulen-
di, attraverso il quale si manifesta, anche al livello dell’immagi-
nazione, l’uguaglianza naturale di tutti gli individui; è come se
attraverso di essa venisse sancito un diritto naturale inalienabi-
le di ogni uomo alla profezia, ovvero a ricercare con le proprie
forze di venire in comunicazione con il piano del divino.
Tuttavia il TTP blocca immediatamente il processo verso la
piena democraticizzazione dello Stato ebraico che avrebbe po-
tuto svilupparsi da queste condizioni di assoluta uguaglianza e
di comune partecipazione: è ancora una volta l’ambivalenza
della dimensione immaginativa a dettare le regole dell’agire
umano, mettendo in luce la fragilità di un ordine politico fon-
dato su un’immaginazione così primitiva. Accade infatti che,
alla prova dei fatti, il regime teocratico subisca un mutamento
radicale, poiché fin dal primo tentativo di stabilire un contatto
collettivo con Dio per riceverne le leggi politiche gli Ebrei ab-
dicano al loro potere97, terrorizzati dalla voce divina e dalla

96 Opera, III, p. 206 (trad. it. pp. 418-9).


97 Che il primo e ultimo atto della democrazia originaria ebraica sia un atto di ab-
136 La libertà necessaria

paura di una morte certa98; essi chiedono perciò a Mosè di fare


da unico interprete dei decreti divini, promettendogli un’obbe-
dienza assoluta99. Il significato di questo improvviso terrore,
che compare al momento di applicare il principio della profe-
zia universale, è stato diversamente interpretato dagli studiosi
del pensiero spinoziano: vi è chi lo ha imputato al sentimento
di sperduta solitudine del singolo di fronte a Dio, che fa la sua
comparsa quando la religiosità è marcata dalla conoscenza ina-
deguata del divino100; altri hanno parlato di un effetto della su-
perstizione derivante dall’immagine di un Dio trascendente101;
e vi è chi ha sottolineato come tale terrore deriverebbe da mec-
canismi passionali ben più concreti, ovvero dall’impossibilità
che individui così diversi tra loro per natura fossero in grado di
trovare un accordo stabile, e come di conseguenza gli Ebrei sa-
rebbero ritornati inevitabilmente al regime politico al quale
erano abituati, cioè alla monarchia102. Tutte queste letture con-
vergono nell’imputare alla passionalità e all’ignoranza del po-
polo ebraico il fallimento del tentativo di dare vita a un patto
comune e privo di alcuna mediazione; l’irresistibile terrore che
coglie gli Ebrei va addebitato alla loro «cattiva immaginazio-
ne», che li spinge a ritenere Dio alla stregua di un maestoso so-
vrano, dotato di un potere assoluto e incommensurabile con
quello degli uomini, al punto che ogni comunicazione risulta
impossibile: non si può venire a patti con colui il quale dispone
di una potestas omnia destruendi et in nihilo redigendi, per usa-
re le parole dello scolio della II parte dell’Etica citato prece-
dentemente. È il tratto allucinatorio e superstizioso dell’imagi-
natio – a causa del quale gli Ebrei credettero realmente di udi-

dicazione è giustamente sottolineato nella sua analisi del regime teocratico da MATHE-
RON, Individu et communauté selon Spinoza, cit., pp. 374-5.
98 «In questo primo incontro furono talmente atterriti e fu tale il loro smarrimento

nell’udire la voce di Dio, che credettero fosse arrivata la loro ultima ora» (Opera, III, p.
206; trad. it. p. 419).
99 Cfr. ibid.
100 Cfr. BRETON, Politique, religion, écriture chez Spinoza, cit., p. 78 e, seppure con

un’accentuazione un po’ differente, BOVE, La strategie du conatus, cit., p. 209.


101 Così, ad es., L. MUGNIER-POLLET, La conception spinoziste de la démocratie, in

ID., Etudes de philosophie politique, Le Belles Lettres, Paris, 1985, pp. 41-5.
102 Cfr. MATHERON, Individu et communauté chez Spinoza, cit., p. 375. Su questo

passo si veda anche ZAC, Spinoza et l’État des Hébreux, cit.


III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 137

re Dio parlare nel fuoco103 – ad avere il sopravvento, disgre-


gando il legame prodotto dall’immaginazione religiosa e la-
sciando ciascun individuo solo e attonito di fronte all’immane
potenza di Dio104.
In questa situazione bloccata entra in gioco la figura di Mo-
sè, colui che riesce a raggiungere una mediazione tra Dio e gli
uomini105. Con la sua comparsa si dissolve l’immagine divina
che tanto terrore aveva prodotto, poiché ora l’intero meccani-
smo pattizio viene ricondotto a una figura nota e meno minac-
ciosa – quella di un monarca in carne e ossa. Tuttavia la gran-
dezza di Mosè – come già Cunaeus aveva colto – sta proprio
nel rifiutare il ruolo di sovrano offertogli dagli Ebrei, per tenta-
re una nuova strada; a tale proposito sono significative le paro-
le che egli scambia con Giosuè, il quale, afferma Spinoza, «lo
consigliava a far valere il suo regale diritto»; al che Mosè repli-
ca: «Ti adonti per causa mia? Magari tutto intero il popolo di
Dio fosse profeta; e cioè [vorresti tu che fossi io solo a regnare?
Per me, io augurerei] che il diritto di interpellare Dio tornasse
ad essere esercitato in modo che la sovranità fosse nel popolo
stesso (ut regnum apud ipsum populum esset) [e mi lasciassero
andare]»106. Secondo Spinoza tutta l’opera politica mosaica de-
ve essere interpretata a partire da questo desiderio che la pro-
fezia, e con essa il potere, passasse infine nelle mani dell’intera
popolazione. Tale risultato non è tuttavia immediatamente rag-
giungibile: infatti le parole con cui il popolo ebraico lo incarica
di parlare a Dio («Presentati dunque tu, e ascolta le parole del
nostro Dio, e tu (non Dio) ci parlerai: noi obbediremo ed ese-
guiremo tutti gli ordini che Dio ti darà»107) testimoniano del-

103 Cfr. Opera, III, p. 206 (trad. it. p. 419).


104 In tal senso questa paura è la figura di una più generica paura esistenziale che
scuote l’uomo sottomesso alle passioni e privo di alcuna sicurezza garantitagli dal pote-
re dello Stato.
105 Un’interessante ricostruzione del ruolo di Mosè nel TTP, volta a sottolineare

l’importanza dell’elemento immaginativo nella sua azione politica, è presente nell’arti-


colo di M.A. ROSENTHAL, Why Spinoza chose the Hebrews: the Exemplary Function of
Prophecy in the Theological-political Treatise, in «History of Political Thought», XVIII,
1997, pp. 207-41.
106 Adn. 36, in Opera, III, p. 265 (trad. it. p. 420).
107 Opera, III, p. 206 (trad. it. p. 419).
138 La libertà necessaria

l’incapacità da parte degli Ebrei a dare vita, in quel momento


storico determinato, a un governo democratico, e della loro vo-
lontà di affidarsi a una monarchia – e in effetti, una volta cedu-
to il loro potere di interpellare Dio, gli Ebrei «perdettero com-
pletamente tutto il loro diritto»108. La fragilità dei legami affet-
tivi e la debolezza dell’immaginazione, così come impedisce la
profezia universale, nega anche la possibilità di un regime fon-
dato sul consenso e sull’uguale partecipazione; ma Mosè è con-
sapevole altresì del fatto che neppure una monarchia assoluta
si adatterebbe – per usare le parole del capitolo V del TTP –
all’«indole irriducibile» degli Ebrei e all’«incombente minaccia
della guerra» che gravava sulla nazione di Israele, cosicché egli,
se da un lato decide di dilazionare il suo progetto democratico,
dall’altro non intende creare un sistema politico in cui il potere
graverebbe interamente sulle sue spalle ed egli dovrebbe gover-
nare «contro» sia l’ingenium dei suoi sudditi, sia circostanze
complessivamente sfavorevoli109.
Sul piano concreto, la strategia politica di Mosè si realizza
nel tentativo di impedire che, dopo di lui, coloro che saranno
incaricati di interpretare le leggi divine, vale a dire la casta sa-
cerdotale, utilizzino il loro carisma per instaurare un potere
personale, usando la loro autorità religiosa come instrumentum
tyrannidis. Al fine di evitare un simile esito, che sarebbe di-
sastroso per la sopravvivenza dello Stato, e anche per mantene-
re nella popolazione la fiducia e l’ammirazione nei confronti dei
sacerdoti – dalla quale soltanto può derivare il genuino amore
verso Dio e la fede nei suoi precetti –, Mosè separa «il diritto di
interpretare le leggi [...] e di comunicare i responsi divini» dal
«diritto e potere di amministrare la cosa pubblica (potestas im-
perium administrandi) secondo le leggi già interpretate e i re-
sponsi già comunicati»110, in modo che chi funge da mediatore

108 Ivi, p. 207 (trad. it. p. 420).


109 BALIBAR, Jus-Pactum-Lex. Sur la constitution du sujet dans le «Traité Théologico-
politique», cit., afferma che «Moîse fait partie, en dernière analyse, de la multitude, il
n’est que le vecteur d’une causalité immanente: c’est la puissance <naturelle> des Hé-
breux eux-mêmes qui, par son intermédiaire, se réalise dans la constitution d’un régime
politique donné» (p. 117).
110 Opera, III, p. 208 (trad. it. p. 421).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 139

tra Dio e gli uomini sia tenuto lontano dall’esercizio concreto


del potere: per questo «l’intera tribù di Levi fu esclusa in ma-
niera così assoluta dal comune governo (communi imperio), che
non fu ammessa nemmeno con le altre tribù alla divisione delle
terre, onde potesse ricavarne quanto le era necessario per vive-
re; e si stabilì invece che fosse mantenuta dal resto del popolo,
ma in modo, tuttavia, che fosse tenuta sempre in grande onore
dal popolo comune, come quella che sola era dedicata al servi-
zio di Dio»111. Il compito dei Leviti è di fornire ai governanti
delle indicazioni di carattere generale (responsa), le quali però
«soltanto quando pervenivano a Giosuè o in seno ai consigli ac-
quistavano la forza di comandamenti e di decreti»112. Per la
stessa ragione, ossia affinché non fossero tentati dall’istituire
una tirannia, i governanti vengono privati del diritto di inter-
pretare le leggi divine; infatti coloro i quali
amministrano o tengono le redini del governo (imperium), qualunque
misfatto commettano, sempre si studiano di adombrarlo con l’apparenza
del diritto e di persuadere il popolo di aver agito onestamente: e ciò riesce
loro anche facilmente, quando tutta l’interpretazione del diritto dipende
soltanto da essi [...] mentre invece gran parte di questa libertà viene loro
tolta, se il diritto d’interpretare la legge spetta ad un altro e se inoltre la
vera interpretazione delle leggi stesse sia a tutti talmente palese che nessu-
no possa dubitare di essa. Onde è manifesto che fu tolta in gran parte ai
capi degli Ebrei la possibilità di commettere soprusi per il fatto che ogni
diritto di interpretare le leggi fu dato ai Leviti (vedi Deuteronomio 21.5), i
quali non avevano alcun ruolo nell’amministrazione della cosa pubblica
né partecipavano ad essa insieme agli altri, e la cui fama e il cui prestigio
dipendevano interamente dalla vera interpretazione delle leggi113.

In tal modo i detentori del potere finiscono per essere «am-


ministratori, e non dominatori della cosa pubblica (administra-
tores, non autem dominatores imperii)»114. È a questa altezza
che emerge un’importante differenza tra l’analisi spinoziana e
quella di Cunaues. Quest’ultimo, infatti, fa riferimento al ruolo
della tribù di Levi soltanto alla fine del I libro del De Republica

111 Ibid. (trad. it. p. 422).


112 Ivi, p. 209 (trad. it. p. 423).
113 Ivi, p. 212 (trad. it. p. 427).
114 Ivi, p. 209 (trad. it. p. 423).
140 La libertà necessaria

Hebraeorum, quando affronta le cause del passaggio dalla re-


pubblica alla monarchia, per sottolineare il pericolo connesso
all’usurpazione del potere politico da parte di quello religio-
so115, rivelando così la propria scelta di campo erastiana nel di-
battito olandese intorno agli jura circa sacra116. Di contro, il
TTP si muove in un’ottica di maggiore complessità, manife-
stando una peculiare attenzione al mantenimento dell’equili-
brio dei poteri di chi detiene il dominio temporale e di chi in-
vece quello spirituale; una posizione teorica cui corrisponde,
come si vedrà in seguito, una scelta politica ben più articolata
rispetto a quella di Cunaeus.
La principale funzione esercitata dai sacerdoti nei confronti
della popolazione è di tipo educativo: come spiega Spinoza, il
popolo ebraico «era tenuto a riunirsi ogni sette anni in un de-
terminato luogo per essere edotto dal pontefice intorno alle
leggi, e inoltre ciascuno da solo doveva poi continuare a legge-
re e rileggere con grande attenzione il libro della legge»117. A
questo ininterrotto esercizio di esegesi che ogni fedele deve
praticare, espressione ancora ‘immatura’ dell’intenzione mosai-
ca di allargare al massimo la partecipazione liturgica e, con es-
sa, il controllo del potere religioso e politico, si affianca, come
mezzo ben più efficace per il medesimo scopo, la leva popola-
re: «l’esercito era formato da tutti i cittadini, nessuno escluso,
tra i venti e i sessant’anni, e [...] i capi non potevano assoldare
milizie mercenarie. Questo, dico, fu di grande importanza, per-
ché è certo che soltanto con le milizie così assoldate i principi
possono ridurre i popoli in schiavitù, mentre invece nulla incu-
te loro maggior timore della libertà delle milizie cittadine»118.
Nell’esercito di popolo la difesa della propria libertà da parte
di ciascun cittadino si fonde con la forza unificante della reli-
gione, dal momento che i soldati «combattevano, non per la

115 Cfr. CUNAEUS, De Republica Hebraeorum, cit., cap. XVI, pp. 320-35.
116 Vedi la nota 75 di questo capitolo.
117 Opera, III, p. 212 (trad. it. p. 427).
118 Ivi, pp. 212-3 (trad. it. pp. 427-8). Il tema dell’esercito popolare ritorna anche

nel TP, in più stretto rapporto con la situazione olandese dell’epoca. In questo passo,
inoltre, risuonano accenti machiavelliani facilmente riconoscibili, come sottolinea NE-
GRI, L’anomalia selvaggia, cit., p. 143.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 141

gloria del principe, ma per la gloria di Dio, e che soltanto per


obbedire ad un ordine divino ingaggiavano una battaglia»119.
Sentimento religioso e opposizione al potere dispotico com-
paiono uniti anche nella figura del «nuovo profeta», colui che,
grazie alle proprie caratterstiche morali universalmente ricono-
sciute, solleva il popolo contro il tiranno; infatti «non v’è dub-
bio che tali profeti potessero facilmente trascinare dietro a sé il
popolo oppresso e convincerlo anche con segni di poco rilievo,
a fare ciò che essi volessero; mentre invece, se la cosa pubblica
era ben amministrata, il principe poteva a suo agio far sì che il
profeta soggiacesse anzitutto al suo giudizio»120. Di conseguen-
za nello Stato ebraico la religione (e si tratta sempre di una reli-
gione dell’immaginazione, e non della ratio) agisce, oltre che
come momento fondativo dell’unità e dell’identità nazionale e
come strumento di partecipazione popolare alla vita pubblica,
anche come principio di mobilitazione della masse.
Ma non è soltanto la religione a garantire la coesione e l’or-
ganizzazione politica. La legislazione mosaica definisce anche
dei princìpi fondamentali laici, che assicurano l’uguaglianza tra
tutti i cittadini: sia dal punto di vista formale («i capi non erano
superiori agli altri per nobiltà o diritto di sangue, ma soltanto
in ragione dell’età e della virtù competeva ad essi l’amministra-
zione della cosa pubblica»121), tali per cui che la società ebraica
non riconosce l’istituzione della schiavitù («nessuno era sogget-
to ad un suo simile, ma soltanto a Dio (nemo suo aequali, sed
soli Deo serviebat)»122); sia da quello materiale, come nel caso
dell’organizzazione della proprietà fondiaria (benché Spinoza
non vi insista tanto quanto Cunaeus), strutturata in modo che
in nessun altro paese «i cittadini godevano di un diritto di pro-
prietà più pieno dei sudditi di questo Stato, i quali partecipava-
no da pari a pari col principe alla divisione delle terre e dei
campi, e ciascuno dei quali era padrone per sempre della pro-
pria parte. Giacché, se qualcuno fosse stato costretto dall’indi-
genza a vendere il suo fondo o il suo podere, nella ricorrenza
119 Opera, III, p. 213 (trad. it. p. 428).
120 Ibid. (trad. it. pp. 428-9).
121 Ivi, p. 214 (trad. it. p. 429).
122 Ivi, p. 216 (trad. it. p. 432).
142 La libertà necessaria

del giubileo gliene doveva essere restituito il pieno possesso; e


così erano regolate anche le altre istituzioni, in modo che nes-
suno potesse essere espropriato dei suoi beni immobili»123. In-
fine un importante contributo alla libertà e alla partecipazione
dei cittadini al governo proviene dalla costituzione federale
dello Stato, che Mosè istituisce affinché «ciascuno avesse cura
della propria parte»124. La rilevanza che il federalismo ha nella
ricostruzione spinoziana è tanto più grande, quanto meno è
messo in rilievo il ruolo del Sinedrio, ossia del Gran Consiglio
centrale – la cui creazione secondo Spinoza non è attribuibile a
Mosè –, un’istituzione che aveva spesso condotto gli studiosi a
interpretare la costituzione mosaica come una costituzione ari-
stocratica, e sulla quale indugia anche Cunaeus125.
Secondo la lettura di Spinoza la costituzione teocratica di
Mosè esprime quindi il tentativo di salvaguardare, per quanto è
possibile, il carattere egalitario e partecipativo che si manifesta
confusamente all’atto di nascita dell’organizzazione politica,
quando la moltitudine della nazione ebraica si era riunita per
interpretare collettivamente i decreti divini; il fallimento di
quella fondazione originaria di un potere democratico dimo-
stra la necessità, di cui Mosè è consapevole, di un intervento
politico in grado di rafforzare la fragile potenza coesiva dell’im-
maginazione, a scapito dei suoi aspetti disgreganti. L’intuizione
mosaica consiste nell’aver individuato la religione come moda-
lità specifica attraverso la quale rendere possibile lo sviluppo
dei conatus individuali, indirizzandoli verso un potenziamento

123 Ibid. (trad. it. p. 431). Secondo MALET, Le Traité Théologico-Politique de Spino-

za et la pensée biblique, cit., p. 259, l’eguaglianza sociale e questa sorta di «comunismo


agrario» attribuiti da Spinoza allo Stato ebraico concordano solo molto parzialmente
con la verità storica. Tuttavia la stessa osservazione vale forse anche a maggior misura
per Cunaues, e in generale per tutti coloro che, nella seconda metà del XVII secolo, ri-
cercavano dei nuovi modelli costituzionali per riformare l’ordinamento politico nel
quale vivevano. Si pensi, ad esempio, a James Harrington, che in Inghilterra concentra
la propria attenzione esattamente sulla riforma della legge agraria. Sui possibili contatti
tra Spinoza e il pensatore inglese cfr. FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism,. cit.,
pp. 129 sgg., e soprattutto J.G.A. POCOCK, Spinoza and Harrington: An exercise in com-
parison, in «Bijdragen en Mededelingen betreffende de Geschiedenis der Nederlan-
den», CIII, 1987, pp. 435-49.
124 Opera, III, p. 210 (trad. it. p. 424).
125 Cfr. il cap. XII del De Republica Hebraeorum, pp. 228 sgg.
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 143

di quella tendenza aggregante che essi avevano debolmente


manifestato al momento del patto. Non si tratta tanto – o non
solamente – di un’operazione di ingegneria costituzionale, fina-
lizzata a creare un equilibrio tra poteri esistenti (quella ebraica
non è quindi un esempio di «costituzione mista», come aveva
invece ipotizzato Tommaso d’Aquino126), ma piuttosto della
creazione di una legislazione fondamentale capace di imple-
mentare la partecipazione collettiva al continuo rinnovarsi del
legame politico. È evidente che, alla base di questa lettura della
teocrazia mosaica, sta una concezione dinamica e mai definiti-
vamente «decisa» della politica; una concezione che Spinoza
chiarisce quando sottolinea il fatto che la natura
non crea le nazioni, bensì gli individui, i quali nell’ambito delle nazio-
ni non si distinguono se non per la diversità della lingua, delle leggi e dei
costumi seguiti, ed è soltanto da queste due cose, e cioè dalle leggi e dai
costumi, che può derivare ad una nazione la particolarità di una propria
indole (ingenium)127.

Questo passo, che ha offerto non pochi problemi ai lettori


del TTP, sembra negare la naturalità della genesi dello Stato,
interpretandolo, hobbesianamente, come puro artificium128;
ma in realtà l’intenzione spinoziana è piuttosto quella di sotto-
lineare la complessità dei processi costitutivi di un ordinamen-
to politico, i quali non sono certamente altra cosa dai meccani-
smi di produzione dei fenomeni naturali, ma che tuttavia non
possono essere ridotti a caratteri sempiterni e immutabili: è co-
sì definita la dimensione interamente storica della politica, in
cui contingenza e necessità si competenetrano, e l’agire umano
risulta di fondamentale importanza, senza che per questo si
possa parlare dell’uomo come di un imperium in imperio 129.
126 Cfr. in proposito H. LIEBESCHÜTZ, Die politische Interpretation des Alten Testa-

ments bei Thomas von Aquino und Spinoza, in «Antike und Abendland», IX, 1960, pp.
39-62. Sul dibattito che si sviluppa in terra olandese intorno all’eccellenza della costitu-
zione mista, e sull’opposizione da parte di Spinoza a essa, l’analisi del TP offrirà nume-
rosi spunti.
127 Opera, III, p. 217 (trad. it. p. 433).
128 Così, ad esempio, lo interpreta MC SHEA, The political Philosophy of Spinoza, cit.
129 Come afferma BALIBAR, Spinoza e la politica, cit., p. 5, questo passo sottolinea la

continuità tra natura e storicità nella riflessione spinoziana. A tale proposito cfr. inoltre
CHAMLA, Spinoza e il concetto della tradizione ebraica, cit., pp. 15-7.
144 La libertà necessaria

In questo orizzonte, l’opera di Mosè agisce da catalizzatore


di una processualità immanente all’immaginario collettivo del
suo popolo130, attraverso un uso peculiare della religione e del-
l’immagine che il volgo ha di Dio. Infatti, salvaguardando la fi-
gura del Deus legislator, e impedendo così che la suprema maje-
stas sia trasferita a un individuo umano, Mosè blocca sul nasce-
re l’istituzione di un potere fondato sul diritto divino, in quan-
to la rappresentazione della potenza regale di Dio rimane patri-
monio della collettività. L’impossibilità di distinguere in modo
chiaro e definitivo tra immaginazione cooperativa e immagina-
zione superstiziosa conduce comunque la teocrazia a muoversi
in una dimensione perennemente arrischiata e instabile; l’ambi-
valenza domina l’esistenza affettiva del popolo ebraico, come
esemplifica il sentimento di amore che gli Ebrei hanno verso la
propria patria: esso è da un lato pietas, ovvero piena coinciden-
za di sentimento religioso e legame politico, ma dall’altro è
odium nei confronti dei popoli circostanti, i quali vengono im-
maginati come nemici a un tempo della nazione ebraica e di
Dio131. Allo stesso modo in cui speranza e paura – entrambe
generate dall’incostanza di un’esistenza passionale – sono indi-
sgiungibili, e dove si manifesta l’una, compare immediatamente
anche l’altra132, così l’amore che nasce dall’immaginazione reca
con sé anche l’odio, poiché, concentrandosi inevitabilmente su
un oggetto determinato, ne pretende l’esclusività: l’amore si
muta in desiderio di possesso e in difesa del privilegio conqui-
stato, e dunque in odio nei confronti di chiunque costituisca,
anche solo potenzialmente, una minaccia alla proprietà assolu-
ta dell’oggetto amato133. Non diversamente, il rito esprime da

130 Secondo TOSEL, Spinoza et le crépuscule de la servitude, cit., «Moîse a été l’instru-

ment d’une nécessité historique objective, celle de la régulation intra-passionelle de la


superstition, dans une conjoncture d’indépendance politique» (p. 197); tuttavia questa
definizione passa sotto silenzio il carattere di attività – per quanto limitata – che inerisce
a tale «regolazione». Ma cfr. anche ROSENTHAL, Why Spinoza chose the Hebrews, cit.
131 «L’amor di patria era dunque, presso gli Ebrei, non semplicemente amore, ma

pietà, che, insieme all’odio verso le altre nazioni, era così coltivata ed alimentata dal
culto quotidiano, da diventare natura» (Opera, III, p. 215; trad. it. p. 430).
132 Cfr. Ethica, III, XII e XIII definizione degli affetti e spiegazione, in Opera, II, p.

194 (trad. it. p. 221).


133 La regola di questo comportamento è espressa nell’Etica: «Se immaginiamo che
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 145

un lato la forza coesiva della religione, ma dall’altro è anche


l’indice del solco che divide il popolo israelitico dal resto del-
l’umanità:
il culto quotidiano, infatti, non soltanto era completamente diverso,
donde la loro [sc. degli Ebrei] particolare fisionomia e la loro completa
separazione da tutti gli altri, ma era assolutamente incompatibile con
quello degli altri popoli. Perciò da questa quotidiana riprovazione dovet-
te nascere un odio persistente, del quale nessuno potè radicarsi più pro-
fondamente negli animi: un odio, cioè, generato dalla grande devozione o
dalla pietà, e considerato pio esso stesso, del quale quindi non se ne può
dare uno più grande e più ostinato134.

L’instabilità strutturale dello Stato mosaico conduce alla crisi


che trasformerà la teocrazia in un regime monarchico. Il lin-
guaggio biblico, dominato in questo caso dall’immaginazione
superstiziosa (quella stessa che imputava il successo temporale
dello Stato a un’elezione divina), interpreta la fine del regime
teocratico affermando che gli Ebrei «incorsero nell’ira del loro
Dio»135; Spinoza invece individua le ragioni del declino in un
aspetto decisivo della costituzione originaria, cioè nell’attribu-
zione alla tribù di Levi del monopolio del ministero religioso e
dell’interpretazione dei decreti divini136. A causa dell’idolatria
nella quale erano cadute tutte le tribù – con l’eccezione appun-
to dei Leviti – che avevano adorato il vitello d’oro, Mosè è spin-

qualcuno goda di una certa cosa, che uno solo può possedere, ci sforzeremo di fare in
modo che egli non la possegga» (Ethica, III, 32, in Opera, II, p. 165; trad. it. p. 196).
Secondo A. MATHERON, Spinoza et le pouvoir, in Id., Anthropologie et politique au
XVIIe siècle (études sur Spinoza), Vrin, Paris, 1986, pp. 103-22, Spinoza, quando riflet-
te su questo bene limitato che ciascuno cerca di tenere interamente per sé, ha in mente
la proprietà terriera nella società feudale, causa di infinite lotte intestine.
134 Opera, III, p. 215 (trad. it. p. 430).
135 Ivi, p. 217 (trad. it. p. 433). Sul parallelo esistente tra il concetto di elezione e

quello di «maledizione», che Spinoza nel TTP priva di ogni aura teologica, per ripor-
tarli a una concreta processualità storica, cfr. ZAC, Spinoza et l’interpretation de l’Écritu-
re, cit., pp. 207 sgg.
136 «Il primo intento era stato di attribuire per intero il sacro ministero ai primoge-

niti, non ai Leviti (vedi Numeri 8.17); ma, dopo che tutti ad eccezione dei Leviti, ado-
rarono il vitello, i primogeniti furono ripudiati e incriminati, e al loro posto furono
eletti i Leviti (vedi Deuteronomio 10.8). E quanto più attentamente io considero questo
mutamento, tanto più sento di dover esclamare con Tacito che da allora stette a cuore a
Dio, non la loro sicurezza, ma la loro punizione» (Opera, III, p. 218; trad. it. p. 434).
146 La libertà necessaria

to a modificare l’ordinamento stabilito in precedenza, secondo


il quale «a ciascuna tribù sarebbe stato riconosciuto un eguale
diritto e prestigio»137, stravolgendo il principio egalitario della
religione ebraica; da quel momento in poi, la profezia è posta
sotto il controllo di un gruppo ristretto e, soprattutto, separato
dal resto della popolazione. La principale conseguenza di que-
sta decisione è la graduale ma inarrestabile disgregazione del
sentimento di unità e di identità nazionale che la religione con-
tribuiva a consolidare, poiché, nonostante la classe sacerdotale
sia privata di ogni potere politico, essa viene giudicata come
una casta di privilegiati: così «molti, e non solo della plebe, in-
cominciarono ad infastidirsi di questa elezione e incominciaro-
no a credere che Mosè avesse ordinato ogni cosa, non per co-
mandamento divino, ma a suo piacere [...]; perciò si presenta-
rono a lui in concitato tumulto, gridando che tutti erano ugual-
mente pii, e che illegalmente egli era stato innalzato al di sopra
di tutti»138 L’insurrezione verrà sedata da Mosè con il massacro
del gruppo dei sediziosi, ma la frattura permane, e Spinoza
chiosa: «si può dire che, a quel tempo, si spense la sedizione
più che cominciare la concordia (seditio magis desierat, quam
concordia coeperat)»139. La fine dell’uguaglianza originaria incri-
na la coesione affettiva del popolo ebraico, rendendo a lungo
andare insostenibile il mantenimento del regime teocratico:
[gli Ebrei] spesso ridotti in schiavitù, infransero del tutto il patto divi-
no e reclamarono un re mortale, sì che la reggia non fosse più un tempio,
ma un palazzo, e tutte le tribù restassero tra loro concittadine, non per
diritto divino e per rispetto al pontificato, ma per rispetto ai re140.

La trasformazione del tempio, sede di un Dio che rappre-


senta agli occhi di tutti i cittadini l’unità politico-religiosa, in
un palazzo reale, dove invece è insediato un uomo in carne e
ossa, esprime con esattezza il passaggio dalla teocrazia alla mo-

137 Ibid. (trad. it. p. 435).


138 Ivi, p. 219 (trad. it. p. 435). Questo episodio rinvia alla narrazione della ribellio-
ne della tribù di Core presente in Numeri 16. Sulla simpatia di Spinoza per Core cfr.
FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., p. 132.
139 Opera, III, p. 219 (trad. it. pp. 435-6).
140 Ibid. (trad. it. p. 436).
III. Immaginazione e democrazia: una lettura della teocrazia ebraica 147

narchia: avviene proprio quello che Mosè aveva temuto, ovvero


la sostituzione di una potenza comune, generata da un’immagi-
nazione condivisa, con il potere di un sovrano isolato nella sua
reggia, che concentra nelle sue mani lo Stato intero. Per ottene-
re questo risultato, egli conduce una lotta senza quartiere nei
confronti della stessa classe sacerdotale, che ormai è divenuta –
secondo una locuzione ormai «classica» – «uno Stato nello Sta-
to (imperium in imperio)»141, assolutamente intollerabile per
chi voglia esercitare da solo il dominio supremo. In tal modo si
avvia storicamente alla dissoluzione il rapporto costitutivo tra
religione e politica, sostituito da un uso della superstizione reli-
giosa come instrumentum tyrannidis; ma una simile conclusio-
ne negativa non impedisce al TTP di sottolineare, attraverso le
vicende della teocrazia ebraica, la necessità della democrazia
come principio politico originario, generato dalla naturale di-
sposizione dell’uomo a esprimere il proprio ingenium in una
relazione intrascendibile, sebbene non immediatamente pacifi-
cata, con gli altri individui142; una necessità a un tempo politica
e ontologica, che tiene insieme l’organizzazione del potere, il
sentimento religioso e l’infinita potenza del Deus sive Natura.

141 Ivi, p. 220 (trad. it. p. 436).


142 Per usare le parole di Breton, la conclusione del capitolo XVII è «la prova della
necessità di una democrazia; e la prova, anche, del progressivo oblio che cancellò, nel-
l’emergere autoritario dell’elemento dispotico, la libertà del patto originario, che aveva
fondato la società come pure la religione» (Spinoza. Teologia e politica, cit., p. 211).
Capitolo Quarto
DALLA TEORIA DEMOCRATICA ALLA LOTTA PER LA LIBERTÀ

1. Societas e imperium nel TTP

I primi sei capitoli del TTP, insieme al capitolo XVII riguar-


dante la teocrazia mosaica, svolgono un’indagine storico-critica
che, attraversando analiticamente il testo biblico, permette di
cogliere le peculiarità della genesi dello Stato ebraico e le carat-
teristiche che gli hanno permesso di durare e di prosperare,
nonché, infine, le cause della sua crisi, iscritte nella sua stessa
natura. Da questa analisi emerge soprattutto come il processo
costitutivo di un’organizzazione politica non sia l’esito di una
decisione razionale condivisa universalmente, ma nasca dallo
svolgersi dei meccanismi che regolano la conoscenza immagi-
nativa di una collettività, mediati dal sentimento religioso, con
la sua capacità coesiva, ma anche con la sua strutturale ambiva-
lenza. Spinoza affronta lo stesso tema dell’origine dello Stato
da un punto di vista differente al capitolo XVI, che tratta ap-
punto dei «fondamenti dello Stato (fundamenta Reipublicae)»
deducendoli dai principi universali della natura umana, e in
particolare dal diritto naturale individuale. Questo non signifi-
ca che all’interno del TTP si sviluppino due registri argomenta-
tivi paralleli, ma piuttosto è indice del tentativo spinoziano di
trovare un punto di sintesi tra il lavoro analitico dello storico –
che intrattiene un rapporto «arrischiato» con la dimensione
dell’imaginatio – e quello concettualmente più trasparente del
filosofo, entrambi fondamentali al raggiungimento dell’obietti-
vo, ad un tempo teorico e politico, che già la lettera XXX ave-
va evidenziato.
150 La libertà necessaria

Al capitolo XVI Spinoza formula dunque i principi univer-


sali della sua teoria politica, offrendo una spiegazione dettaglia-
ta della genesi della società attraverso un uso peculiare dell’im-
pianto concettuale giusnaturalistico; già prima, però, al capito-
lo V, sono presenti alcune importanti indicazioni circa il carat-
tere necessario della societas, «sulla scorta del minor numero
possibile di principi universali»:
La società è di grande utilità, anzi assolutamente necessaria, non sol-
tanto per quanto concerne la difesa dei nemici, ma anche per l’unione che
in essa si istituisce di molteplici attività (ad multarum rerum compendium
faciendum). Infatti, se gli uomini non si prestassero mutuo soccorso, man-
cherebbe loro sia il tempo sia la capacità di fare quanto è loro possibile ai
fini del proprio sostentamento e della propria conservazione1.

Si tratta di un’affermazione rafforzata dalla successiva de-


scrizione dell’esistenza di chi vive in solitudine, da cui si decu-
ce come «coloro che vivono nella barbarie senza un ordina-
mento politico (sine politia), trascorrano un’esistenza infelice e
quasi bestiale, e come d’altra parte quelle poche misere e rozze
cose che posseggono non possano procurarsele senza la mutua
cooperazione (sine mutua opera), quale che essa sia»2. Dalla
forza con cui il testo sottolinea l’aspetto inumano (paene bruta-
lem) di una vita condotta al di fuori di ogni contatto con altri
uomini risulta evidente che per Spinoza la societas (o, per usare
il termine di origine greca, la politia) non rappresenta soltanto
il tentativo dei singoli individui di trovare un sostegno esterno
alla loro esistenza materiale, ma ha piuttosto il carattere della
necessità, come se non fosse possibile definire l’esistenza uma-
na se non all’interno di una collettività. La solitudine è dunque
incompatibile con la natura umana, poiché il rapporto dell’uo-
mo con il mondo – che equivale, come è già stato rilevato nel II
capitolo, alla sua cupiditas, ovvero alla sua essenza – è necessa-
riamente mediato dalla totalità dei rapporti che egli tesse con i
suoi simili3. La societas spinoziana disegna lo spazio comune

1 Opera, III, p. 73 (trad. it. pp. 128-9).


2 Ibid.
3 Cfr. MATHERON, Individu et communauté chez Spinoza, cit., p. 282. La bibliogra-
fia riguardante la connessione tra l’ontologia e l’antropologia politica in Spinoza é assai
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 151

nel quale si sviluppano le relazioni individuali, di mutuo soste-


gno come di conflittualità, più o meno accentuata (sebbene
non di guerra totale: l’inimicizia assoluta è un caso limite che
Spinoza non prende in considerazione per la sua astrattezza:
nessun individuo può essere nemico assoluto di tutti gli altri,
può cioè esistere in una alterità radicale con il mondo che lo
circonda); essa è quindi il luogo in cui gli uomini entrano in
uno stato di dipendenza reciproca, nel duplice senso per cui
ciascuno ha bisogno degli altri per esistere, ma anche per cui
comunque tutti cercano sempre di «servirsi» degli altri, piegan-
doli ai propri desideri4.
Se è legge dell’umana natura che ciascun uomo desideri as-
sociarsi con altri, tuttavia questo non conduce immediatamente
alla costituzione di un’associazione stabile, poiché altri desideri
– i più vari e multiformi, generati dagli ingenia particolari – si
sovrappongono, trascinando gli individui nell’incertezza di una
fluctuatio animi passionale5. La III parte dell’Etica, il cui peso
nel discorso politico spinoziano è già stato rilevato, costituisce
l’implicito fondamento teorico di queste pagine; in particolare,
lo scolio della proposizione 51 avverte che «poiché ciascuno
giudica secondo il proprio affetto cosa sia buono e cosa sia cat-
vasta; dei numerosi contributi che sottolineano il nesso tra l’immanenza della potenza
divina al mondo creaturale e l’originalità della teoria spinoziana della societas, rivesto-
no un importante rilievo, oltre al già citato Individu et communauté chez Spinoza, J.H.
CARP, Die metaphysische Grundlage der spinozanischen Politik, in «Chronicon Spinoza-
num», IV, 1926, pp. 68-78, R. CAILLOIS, Métaphysique et politique chez Spinoza, in «Les
Études Philosophiques», III, 1972, pp. 319-40, MUGNIER-POLLET, La philsophie politi-
que de Spinoza, cit., capp. V (che reca il significativo titolo «L’uomo abita politicamente
la terra») e VI, NEGRI, L’anomalia selvaggia, cit., in particolare i capp. III e VII, W.
BARTUSCHAT, The Ontological Basis of Spinoza’s Theory of Politics, in Spinoza’s Political
and Theological Thought, cit., pp. 30-6; E. GIANCOTTI, Sui concetti di potere e potenza
in Spinoza, in «Filosofia Politica», IV, 1990, pp. 103-18, BALIBAR, Spinoza: from Indivi-
duality to Transindividuality, cit. Ad ogni modo, l’imprescindibilità del nesso tra onto-
logia e politica è sottolineato anche da interventi di carattere più generale, come. ad
esempio S. ROSEN, Baruch Spinoza, in Storia della filosofia politica, a cura di L. Strauss e
J. Cropsey, vol. II, Il Melangolo, Genova, 1995, pp. 219-45, e D. ANDREATTA, Baruch
Spinoza, in Il pensiero politico dell’età moderna, a cura di A. Andreatta e A.E. Baldini,
UTET, Torino, 1999, pp. 241-56.
4 Su questo passaggio il TP darà indicazioni assai più esplicite.
5 Come giustamente osserva L. MUGNIER-POLLET, Nature e société selon Spinoza,
in «Revue de Synthese», LXXIX-XC, 1978, pp. 59-68: «l’aspiration à l’union n’est pas
la constitution d’unité» (p. 61).
152 La libertà necessaria

tivo, cosa meglio e cosa peggio [...], segue che gli uomini pos-
sono variare tanto nel giudizio quanto negli affetti (homines
tam judicio, quam affectu variare posse)»6. Si tratta di una diver-
sità di giudizio che rende assai complesso il raggiungimento di
una mediazione tra i desideri e gli interessi particolari, cosicché
la societas umana è percorsa da un livello di conflittualità gene-
ralizzata: essa esprime, per usare una formula solo apprente-
mente paradossale, un grado di «socialità insocievole». Di con-
seguenza, è necessario che la legge naturale sia implementata
da quella artificiale dello Stato; infatti
se gli uomini fossero per natura costituiti in modo da non desiderare
se non ciò che la vera ragione indica, la società non avrebbe affatto biso-
gno di leggi, ma per sé sarebbe sufficiente che agli uomini fossero inse-
gnati i veri principi della vita morale perché facessero spontaneamente
con retta e schietta intenzione ciò che è veramente utile7.

Con questa ipotesi dell’irrealtà (che ricorda il desiderio


espresso da Mosè affinché tutto il popolo ebraico diventasse
profeta, e si governasse democraticamente) Spinoza non vuole
certo vagheggiare un’irrealizzabile età dell’oro, nella quale gli
uomini si accordano naturalmente, ma, al contrario, intende ri-
levare la divaricazione esistente tra le leggi che definiscono la
struttura transindividuale della singolarità – da cui deriva la ne-
cessità della societas per poter anche solo concepire l’esistenza
individuale in atto – e quello di un’associazione collettiva stabi-
le, ossia «politica». Tale iato è colmabile soltanto attraverso l’i-
stituzione di un potere coattivo, l’imperium:
nessuna società può sussistere senza un potere coattivo (nulla societas
possit subsistere absque imperio, et vi), né, di conseguenza, senza leggi,
che costringano e regolino gli appetiti e le sfrenate cupidigie degli uomi-
ni; la natura umana non tollera tuttavia la costrizione assoluta; nè, come
dice Seneca il tragico, l’impero della violenza ebbe mai lunga durata. Sol-
tanto un potere moderato si mantiene (moderata [imperia] durant)8.

Il termine imperium gioca un ruolo fondamentale nel TTP


(come anche nel TP), manifestando una densità concettuale di
6 Opera, II, pp. 178-9 (trad. it. p. 208).
7 Opera, III, p. 73 (trad. it. p. 129).
8 Ivi, p. 74 (trad. it. p. 129).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 153

cui testimonia la traduzione olandese dell’opera, apparsa circa


due decenni dopo quella latina, dove imperium viene reso di
volta in volta con «heerschappy (sovranità)», «macht (potere,
forza)», «regering (governo)», «rijk (regno)» o ancora «gebied
(dominio, giurisidzione)»9. Per restare al passo del capitolo V
qui citato, qui il significato di imperium appare inscindibilmen-
te legato a quello di societas: se, infatti, l’imperium esprime la
condizione di possibilità della societas, e quindi il suo scopo
principale è quello di permettere l’esistenza di una società sta-
bile e ordinata, allora esso deve permettere lo sviluppo di quel-
l’operam mutuam che definisce la vita sociale, altrimenti la sua
istituzione perde di significato: il potere che l’imperium espri-
me è necessariamente al servizio della stabilizzazione della so-
cietà umana, e di conseguenza è insensato parlare di una coa-
zione assoluta, che impedisca i contatti tra gli individui e lo svi-
luppo armonico dei loro ingenia 10. Perciò il fatto che, come af-
ferma Spinoza, «violenta imperia nemo continuit diu», conse-
gue necessariamente dalla costituzione naturale degli affetti
umani: un potere che domina con la violenza si fonda esclusi-
vamente sulla paura che suscita nei sudditi, di modo che essi
«fanno le cose che meno vorrebbero fare e non badano all’uti-
lità nè alla necessità di ciò che fanno, ma si preoccupano unica-
mente di non incorrere nei castighi o nella pena capitale»11; e
tuttavia la paura genera l’odio nei confronti di chi governa,
spezzando così il legame che teneva uniti gli individui di una
stessa comunità politica (non molto diversamente da quanto
accade tra il popolo ebraico e i suoi sacerdoti, quando questi
ultimi si arrogano il diritto di monopolizzare l’interpretazione
dei decreti divini). L’impossibilità dei violenta imperia non è
quindi di ordine morale, non esprime cioè la contraddizione

9 Cfr. De rechtzinnige Theologant, of Godgeleerde Staatskundige Verhandelinge,


uit het Latijn vertaalt, te Hamburg by Henricus Koenraad, 1693. Ma cfr. anche la tra-
duzione italiana di Droetto, che utilizza una diversa gamma terminologica, da «potere»
a «ordinamento politico» a «Stato».
10 Dell’imperium come forza stabilizzatrice, in grado di fare della societas una civi-

tas, parla F. AKKERMAN, Mots techniques – mots classiques dans le TTP de Spinoza, in
Spinoziana. Ricerche di terminologia filosofica, a cura di P. Todaro, Olschki, Firenze,
1998, pp. 1-22.
11 Opera, III, p. 74 (trad. it. p. 129).
154 La libertà necessaria

tra la realtà e un ipotetico dover essere, ma è un’impossibilità


strutturale, congenita alla natura umana (e conseguentemente a
quella della societas), che nessun sostegno ideologico – come
viene chiarito da Spinoza in queste pagine12 – è in grado di su-
perare, ma solo di procrastinare nella sua inevitabile instabilità.
L’unico ordinamento politico capace di garantire un’esisten-
za duratura alla società è quello che trae la propria forza dal
contributo attivo dell’intera collettività:
tutta intera la società, se è possibile, deve esercitare collegialmente il
potere (tota societas, si fieri potest, collegialiter imperium tenere debet), in
modo che ciascuno serva a se stesso e nessuno sia tenuto a servire al suo
eguale [...]. Poiché, infine, l’obbedienza consiste nell’eseguire gli ordini
in ossequio alla sola autorità del governante, ne segue che essa non avrà
luogo in una società nella quale il potere è nelle mani di tutti e le leggi so-
no sancite per comune consenso (in societate, cujus imperium penes om-
nes est, et leges ex communi consensu sanciuntur): in una simile società,
sia che aumenti o che diminuisca la somma delle leggi, il popolo rimane
ugualmente libero, in quanto non agisce secondo l’autorità altrui, ma per
suo proprio consenso13.

L’esercizio collettivo dell’imperium (la cui traduzione con


«potere» non appare in questo caso la più adeguata; sarebbe
forse meglio parlare di «sovranità», benché anche questo ter-
mine subisca, nel lessico spinoziano, delle torsioni di significato
evidenti) impedisce che la distinzione tra governanti e sudditi
si polarizzi fino a produrre una frattura insanabile; assume in-
vece un rilievo decisivo la nozione di «consenso comune»14, at-
traverso il quale ogni membro della società contribuisce alla
produzione legislativa. Il passo, inoltre, richiama alla mente
quella definizione di «uomo libero» che compare al capitolo
XVI e, in forma più concisa, al capitolo IV15, sottolineando co-
me non vi sia alcuna incompatibilità logica tra l’obbedienza alla
12 «Se pochi o uno solo detengono il potere (imperium teneat), questi possegga al-

cunché di superiore alla comune natura umana, o deve almeno sforzarsi in tutti i modi
di convincere di ciò il popolo» (ibid.; trad. it. p. 130).
13 Ibid.
14 Per un inquadramento storico del problema del consenso in Spinoza cfr. G.

SACCARO DEL BUFFA BATTISTI, Il consenso politico da Hobbes a Spinoza, in Hobbes e Spi-
noza. Scienza e politica, cit., pp. 243-79.
15 Cfr. il paragrafo 2 del III capitolo, p. 123.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 155

legge e la libertà – in questo caso non dell’individuo, bensì di


tutto il populus –, purché la legge stessa esprima la partecipa-
zione attiva dei sudditi. In tal senso, se per il singolo la difesa
della proprio spazio determinato di libertà (poiché non esiste
per un modo finito una libertà assoluta) può talvolta implicare
la necessità di sottomettere il proprio ingenium alle leggi vigen-
ti, nel caso di una collettività organizzata la libertà non può che
manifestarsi attraverso le leggi, essendo queste l’esatta misura
del grado di partecipazione e di consenso.

2. Dal contrattualismo all’imperium democraticum


L’affondo politico compiuto da Spinoza al capitolo V non de-
scrive analiticamente il modo attraverso il quale si costituiscono
la societas e l’imperium, ma semplicemente sottolinea l’insepara-
bilità logica ed empirica di questi due concetti. L’analisi è rinvia-
ta al capitolo XVI, che intende prendere in considerazione i
«Reipublicae fundamenta», ovvero quei princìpi che permetto-
no la nascita e la conservazione di una comunità politica storica-
mente data: Respublica, infatti, è termine che – come già nel sot-
totitolo dell’opera – rinvia alla concretezza esistenziale dei rap-
porti politici, saldando ancora una volta il piano della riflessione
teorica con la dimensione pratica, ed evidenziando nuovamente
la coimplicazione di filosofia e prassi nella riflessione spinoziana.
La prima parte del capitolo sviluppa una dottrina del diritto
naturale individuale, la cui originalità rispetto all’impianto con-
cettuale giusnaturalista dell’epoca, in particolare quello grozia-
no, è stata più volte messa in rilievo dagli studiosi del TTP 16 (in
realtà, più ancora di Grotius, è Thomas Hobbes a costituire il
referente implicito di questo capitolo; un Hobbes la cui opera,
come è già stato sottolineato, è ben nota nell’Olanda della se-
16 Per un approfondimento di questo tema, e in particolare per un confronto con

il giusnaturalismo di Grotius, si vedano MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de


Spinoza, cit., cap. VIII, F.J. PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, Publica-
ciones Universidad de Valladolid, Valladolid, 1989, pp. 175-87, A. MATHERON, Spinoza
et la problematique juridique de Grotius, in Id., Anthropologie et politique au XVIIe siè-
cle (études sur Spinoza), cit., pp. 81-102; specificamente interessato al confronto Spino-
za-Grotius è il saggio di J. COERT, Spinoza en Grotius, «Mededelingen vanwege het Spi-
nozahuis», Brill, Leiden, 1936.
156 La libertà necessaria

conda metà del ’600, e anzi si trova al centro di un acceso di-


battito teorico, parallelo a quello che si svolge, in ambito filoso-
fico, intorno alla dottrina cartesiana17). Questa originalità si ra-
dica sulla concezione spinoziana della natura18, che nella sua
problematica identità con Dio costituisce uno degli aspetti più
rilevanti dell’ontologia dell’Etica. Dalla critica a una concezio-
ne antropomorfica e personalistica della divinità consegue in-
fatti la piena naturalizzazione dei rapporti tra la potenza del
Deus sive Natura e il mondo creaturale. Tale processo di natu-
ralizzazione, il cui significato sul piano etico-politico era già ap-
parso con l’analisi del concetto di legge nel IV capitolo del
TTP, ricompare ora con il medesimo tratto sovversivo nei con-
fronti di ogni principio di autorità e di gerarchizzazione degli
enti: lo jus naturale definisce esclusivamente il carattere neces-
sario e determinato (cioè necessariamente finito) dell’agire de-
gli individui da cui la natura è composta:
Per diritto e istituto naturale non intendo altro che le regole di natura
di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è na-
turalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. [...] È in-
fatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tut-
to ciò che è in suo potere [...]; ma poiché la potenza universale dell’intera
natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui (nihil est
praeter potentiam omnium individuorum simul), ne segue che ciascun in-
dividuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere (ad omnia, quae
potest), ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la
sua determinata potenza19.

Il primo punto fondamentale di questo brano è la simulta-


neità tra la potentia totius naturae e la potentia individuorum
(per quanto la traduzione dell’avverbio simul con l’aggettivo
«complessivo» non la renda immediatamente percepibile); si
tratta di un’affermazione decisiva per la comprensione del ra-
gionamento spinoziano, che definisce l’assoluta identità dei
17 Cfr. in proposito C. SECRETAN, La réception de Hobbes aux Pays-Bas au XVIIe

siècle, in «Studia Spinozana», III, 1987, pp. 27-46. Gli aspetti di questo conflitto ver-
ranno analizzati nel prossimo capitolo.
18 Cfr. PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, cit., pp. 176 sgg.; è infatti

il concetto di natura – come sottolinea anche L. STRAUSS, Diritto naturale e storia [1953],
Il Melangolo, Genova, 1990, pp. 90-130 – a determinare quello di diritto naturale.
19 Opera, III, p. 189 (trad. it. p. 377).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 157

due termini della relazione, nonostante la loro collocazione su


piani differenti, determinati, nel caso dell’ «intera natura», dal-
l’infinità e dall’eternità della sua potenza in atto, e in quello «di
tutti gli individui» dalla determinatezza e dalla durata del dirit-
to-potenza. Infatti è la potenza individuale (e non il suo potere,
come sembrerebbe indicare la traduzione di «omnia quae po-
test») a costituire il fondamento ontologico dello jus: una po-
tenza che, come sottolinea Spinoza nella I parte dell’Etica,
equivale a «poter esistere (posse existere)»20, alla capacità attua-
le dell’individuo a perseverare nell’esistenza (mentre l’impoten-
tia è posse non existere, limite della potenza individuale: come
può esistere, così l’individuo può anche non esistere; ovvero, la
forza grazie alla quale un individuo naturale esiste è determina-
ta21). In tal senso, lo jus naturale uniuscujusque definisce non
tanto uno status immutabile nella costituzione dell’ente, quanto
la sua strutturale dinamicità, e conseguentemente la sua dispo-
nibilità a entrare in relazione con altri enti finiti, in una inter-
connessione che li determina reciprocamente.
Per quanto riguarda l’uomo, il diritto naturale non preesiste
al suo agire come se ne costituisse un codice originario, né per-
mette di distinguere tra azioni giuste e azioni ingiuste, secondo
un criterio morale, ma piuttosto indica la presenza di alcune re-

20 «Poter non esistere è impotenza, e al contrario poter esistere è potenza (come

di per sé noto)» (Ethica, I, 11, dimostrazione III, in Opera, II, p. 53; trad. it. p. 95). Im-
portanti indicazioni sul ruolo della potentia nell’ontologia spinoziana si trovano in G.
DELEUZE, Spinoza. Filosofia pratica [1970], Guerini, Milano 1991, cap. IV, e nei più re-
centi A. ILLUMINATI, Il teatro dell’amicizia. Metafore dell’agire politico, Manifestolibri,
Roma, 1998, pp. 92 sgg, e R. CAPORALI, La fabbrica dell’imperium. Saggio su Spinoza,
Liguori, Napoli, 2000, pp. 36 sgg.
21 Tra gli interpreti che insistono con maggiore efficacia sulla centralità del nesso

jus-potentia nella teoria spinoziana del diritto naturale vanno ricordati CAILLOIS, Mé-
taphysique et politique chez Spinoza, cit., il quale afferma che tale coppia mira a eviden-
ziare il ruolo della natura come causa della realtà singolari e, conseguentemente, come
radice di ogni loro diritto, e GIANCOTTI, Sui concetti di potere e potenza in Spinoza, cit.,
che individua nella determinazione del diritto-potere da parte della potenza naturale
un duplice effetto di «legittimazione» – certo non in senso giuridico classico – e di «li-
mitazione» dell’agire individuale. Tenta invece una mediazione la lettura di A. DEREGI-
BUS, La filosofia etico-politica di Spinoza, Pubblicazioni della Facoltà di Magistero, Tori-
no, 1963, che, se da un lato insiste sulla fondazione giuridica del pensiero politico di
Spinoza, dall’altro ne riconosce la «formulazione arazionalistica della dottrina giuridica
e politica» (p. 263).
158 La libertà necessaria

golarità nel suo comportamento, determinate dalla combina-


zione e dallo sviluppo dei principali affetti; in tal senso, l’intera
III parte dell’Etica costituisce un vero e proprio manuale dello
jus naturale hominum 22. Di conseguenza, come non è possibile
sostenere alcuna potenziale infinitezza del diritto umano, così
non è neppure concepibile un’idea personalistica di tale diritto,
che rinvii a un sostrato cui sia imputabile ogni azione, come se
essa fosse sempre l’esito di una scelta deliberata23. Ma che l’uo-
mo non agisca per libera scelta non significa che egli non possa
agire bene o male; purché tale giudizio non derivi da categorie
morali o teologiche (e «finché gli uomini si considerino viventi
secondo il dominio della natura (ex naturae imperio), non si
può parlare di peccato»24), ma semplicemente dal riconosci-
mento di ciò che gli è utile a potenziare la propria natura.
Infatti, continua Spinoza, dal momento che «tutti gli uomini
nascono ignari di ogni cosa», il loro «diritto naturale individuale
è determinato non dalla sana ragione, bensì dalla cupidigia e
dalla forza (ex cupiditate et potentia)»25: ognuno agisce cercando
di seguire un criterio di utilità dettato in alcuni dai suggerimenti
della ragione, in altri dalle passioni o, più genericamente, dalla
loro costituzione affettiva ed immaginativa. Resta il fatto che tale
diversità di comportamenti non produce alcuna gerarchia, ma
anzi sancisce l’assoluta uguaglianza di ogni diritto individuale:
22 Per un’analisi puntuale di questa parte decisiva dell’opera di Spinoza si veda P.

MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La troisième partie, PUF, Paris,1995.


23 Il tratto antipersonalistico del diritto naturale spinoziano è stato ripetutamente

criticato; cfr. ad esempio G. GONNELLA, Il diritto come potenza secondo Spinoza, in Spi-
noza nel III centenario della sua nascita, suppl. speciale alla «Rivista di Filosofia neosco-
lastica», XXV, 1934, pp. 149-80, e C. GALLICET CALVETTI, I diritti della persona umana
nel “Tractatus theologicus-politicus», in Studi di Filosofia e di Storia della Filosofia in
onore di F. Olgiati, Pubblicazioni dell’Università Cattolica, Vita e Pensiero, Milano,
1962, pp. 321-44.
24 Opera, III, p. 190 (trad. it. p. 378). L’assenza di ogni distinzione tra il piano del-

l’essere e quello del dover essere nel giusnaturalismo spinoziano è stata rilevata da J.H.
CARP, Naturrecht und Pflichtbegriff nach Spinoza, in «Chronicon Spinozanum», I, 1921,
pp. 81-90.
25 Opera, III, p. 190 (trad. it. p. 378). Anche qui la traduzione del Droetto non è

corretta, poiché il termine «cupiditas» in Spinoza indica non un aspetto deteriore della
natura umana (come certo è in italiano la «cupidigia»), bensì il «desiderio» che costi-
tuisce l’essenza stessa dell’uomo, ovvero «l’appetito con la sua consapevolezza» (Ethi-
ca, III, 9, scolio, in Opera, II, pp. 147-8; trad. it. p. 180).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 159

noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri
individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che
ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, in-
fatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di
pieno diritto, in quanto agisce nel modo in cui è determinata dalla natu-
ra, né può comportarsi altrimenti26.
L’uguaglianza tra gli uomini riposa sull’immanenza della po-
tenza divina (il simul già ricordato) al diritto naturale individua-
le; ne consegue che essa è un’uguaglianza materiale sempre in
atto; non un’uguaglianza negativa, originata da una mancanza
della natura umana, nè tanto meno un’uguaglianza ideale, basa-
ta sull’idea di una comunanza potenziale della ragione, che si
manifesta nella disposizione naturale di ognuno a ricercare la
soddisfazione dei propri desideri. Un breve raffronto con la
dottrina hobbesiana dell’uguaglianza naturale può chiarire la
posizione del TTP. Nel De Cive Hobbes afferma che, se noi
«guardiamo degli uomini adulti, e consideriamo quanto sia fra-
gile la compagine del corpo umano [...], e con quanta facilità un
uomo debolissimo possa ucciderne uno più forte, non c’è moti-
vo per cui qualcuno, fidando nelle sue forze, si creda superiore
agli altri per natura. Sono uguali coloro che possono fare cose
uguali l’uno contro l’altro (Aequales sunt, qui aequalia contra se
invicem possunt)»27. Una simile affermazione si sostiene non so-
lo su una visione antropologica marcata da un deciso pessimi-
smo, ma più in generale su una concezione del diritto naturale
irriducibile alla semplice potenza: vi è nello jus naturale hobbe-
siano – che è jus omnium ad omnia, cioè diritto potenzialmente
illimitato di ciascuno su tutte le cose; quindi un diritto che si
realizza solo parzialmente, poiché nessun individuo finito può
realmente disporre della potenza necessaria ad esercitare un di-
ritto infinito – un principio di indeterminatezza che può deriva-
re soltanto dalla sua assimilazione al libero arbitrio, più che alla
forza determinata di un conatus sese conservandi in atto28. Di
26 Opera, III, p. 189 (trad. it. p. 378).
27 De Cive, in Thomae Hobbes malmesburniensis opera, cit. vol. II, p. 162 (trad. it.
p. 83). Sulla differenza tra la dottrina spinoziana degli affetti e quella hobbesiana si sof-
ferma P. DI VONA, Aspetti di Hobbes in Spinoza, Loffredo, Napoli, 1990, p. 35.
28 Su questo punto insiste con efficacia C. LAZZERI, Droit, pouvoir et liberté. Spino-

za critique de Hobbes, PUF, Paris, 1998, pp. 115-21.


160 La libertà necessaria

contro, l’egalitarismo spinoziano si radica sull’indifferenza delle


specificità individuali rispetto alla comune appartenenza dei co-
natus singolari alla potentia Dei; per tale ragione esso non viene
contraddetto dalla grande diversità degli ingenia che sorge dal-
l’elemento passionale della natura umana, ma, al contrario, nel-
l’articolazione del desiderio umano trovano spazio, con la me-
desima legittimità, aspetti razionali e irrazionali, forze che si ar-
monizzano e impulsi che confliggono con quelli degli altri uo-
mini, senza alcuna soluzione di continuità tra affetto e ragione.
In sintesi, la trattazione del diritto naturale all’interno della ri-
flessione politica spinoziana svolge la funzione di «degiuridiciz-
zare» l’antropologia e l’interpretazione della natura, per «natu-
ralizzare» invece il diritto e la politica29.
L’affermazione di un’uguaglianza originaria e intrascendibile
di tutti gli uomini è un aspetto fondamentale della riflessione
politica spinoziana, non solo nel momento genetico della costi-
tuzione della societas, ma anche allorché si tratta di evidenziare
il limite all’esercizio di potere da parte di chi detiene l’impe-
rium30. Da qui il capitolo XVI riprende il filo del ragionamen-
to, rinviando al capitolo V per compiere un passaggio ulteriore,
che chiama in gioco la naturale tendenza umana a costituire de-
gli spazi comuni definiti da diritti non più individuali ma uni-
versali, i quali determinano l’agire di ogni uomo, al fine di rea-
lizzare il desiderio, condiviso da ciascuno, «di vivere per quan-
to può con sicurezza e senza timore»:
se consideriamo che gli uomini senza la pratica del mutuo soccorso e
senza il culto della ragione vivono necessariamente in pessime condizio-
ni, come abbiamo dimostrato nel cap. V, vedremo chiaramente che essi,

29 Così GIANCOTTI, Sui concetti di potere e potenza in Spinoza, cit., p. 112. R. MI-
SRAHI, Le droit et la liberté politique chez Spinoza, in «Mélanges de philosophie et de lit-
térature juives», I-II, 1956-57, pp. 153-69, coglie con esattezza la portata emancipato-
ria, tanto sul piano politico quanto su quello individuale, di una concezione dello jus
naturale generata dal rifiuto della scissione tra Dio e Natura.
30 Per questo M.H. HOFFHEIMER, Locke, Spinoza and the Idea of Political Equality,

in «History of Political Thought», VII, 1986, pp. 341-60, coglie solo parzialmente la
portata dell’idea di uguaglianza nella filosofia politica di Spinoza: infatti lo Stato non
solo «has the continuing function of promoting political equality and minimizing exi-
sting inequalities» (p. 348), ma è anche il risultato dell’uguaglianza naturale di tutti gli
uomini, ovvero di un comune agire volto alla preservazione del proprio essere.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 161

per vivere in sicurezza e nel miglior modo, dovettero necessariamente


unirsi (in unum conspirare) e far sì di avere collettivamente il diritto che
ciascuno per natura aveva su tutte le cose e che questo fosse determinato,
non più dalla forza e dall’istinto (ex vi et appetitu) di ciascuno, ma dal po-
tere e dalla volontà di tutti (ex omnium simul potentia, et voluntate)31.

Nonostante l’ambiguità di alcuni passaggi del brano sopra


riportato – ad esempio la giustapposizione conclusiva di due
termini come voluntas e potentia, che appartengono a due regi-
stri concettuali diversi, oppure l’introduzione di uno «jus ex
natura ad omnia» che suona molto più hobbesiano che spino-
ziano – risalta comunque la necessità di dare vita dentro la so-
cietas alla costituzione di un imperium, capace di trasformare
uno stadio di instabile cooperazione (o, come è già stato defini-
to, di «socialità insocievole») in una forma di organizzazione
delle relazioni individuali più strutturata. Spinoza evidenzia la
differenza qualitativa esistente tra la somma dei diritti-potenze
dei singoli, che sono, almeno in parte, necessariamente conflig-
genti, e la «omnium simul potentia», cioè la potenza di tutti,
nel momento in cui essa si esprime simultaneamente32, come se
si trattasse della potenza di un unico individuo; ma per rag-
giungere questo livello più avanzato di organizzazione, impen-
sabile a partire dalle caratteristiche dello stato di natura, è ne-
cessario un principio di mediazione immanente che rafforzi il
legame politico33. Tale principio è costituito dal patto sociale:
essi [sc. gli uomini] dovettero perciò fermissimamente stabilire e con-
venire (pacisci) tra loro di regolare ogni cosa secondo il solo dettame del-
la ragione, alla quale nessuno osa opporsi apertamente, per non apparire
privo di mente, e di frenare l’istinto in ciò che esso suggerisce di dannoso
agli altri, e di non fare agli altri quello che non volevano fosse fatto a sé, e
di difendere infine il diritto altrui come il proprio (jusque denique alterius
tanquam suum defendere)34.

31 Opera, III, p. 191 (trad. it. pp. 379-80).


32 La mancata traduzione di «simul» nell’edizione italiana non facilita certo la
comprensione di questo fondamentale passaggio.
33 Sulla difficoltà dell’uso del concetto di mediazione all’interno del discorso poli-

tico spinoziano cfr. P. MACHEREY, De la mediation a la constitution: description d’un


parcours speculatif, in «Cahiers Spinoza», IV, 1982-83, pp. 9-37.
34 Opera, III, p. 191 (trad. it. p. 380).
162 La libertà necessaria

Con queste parole il testo opera un mutamento prospettico


significativo, che sembra a prima vista confliggere con gli esiti
dell’analisi svolta in precedenza. In particolare, suona contrad-
dittorio il riferimento ai «dictamina rationis», ai quali ognuno
dovrebbe sottomettersi spontaneamente; infatti, da quanto il te-
sto ha finora sostenuto a proposito del diritto naturale, gli uomi-
ni sono guidati assai più spesso dagli affetti che non dalla ragio-
ne, e quindi la genesi di un’organizzazione politica sulla base di
un agire razionale rimane incomprensibile35. Spinoza sembra es-
sere consapevole di questa difficoltà, poiché sposta immediata-
mente l’accento sul versante della dinamica affettiva, dalla quale
soltanto può sorgere quella «legge universale della natura uma-
na» in grado di garantire un accordo stabile tra gli individui.
Questa legge naturale – che non è necessariamente razionale –
prevede che «nessuno trascuri ciò che giudica bene se non per
la speranza di un bene maggiore e per il timore di un maggior
danno; e che non sopporti alcun male, se non per evitare uno
maggiore o per la speranza di un maggior bene»36. Dall’intrec-
cio dei due principali affetti, spes e metus, emerge quella nozio-
ne di utile che, pur esprimendo una valutazione radicalmente
soggettiva («Dico espressamente, quello che a suo giudizio sem-
bra maggiore o minore, e non che la cosa stia necessariamente
così come egli ritiene»37) è alla base della socialità umana:
il patto non può avere alcuna forza (vim) se non in ragione dell’utilità,
tolta la quale il patto stesso viene contemporaneamente annullato e resta
distrutto. E perciò è da stolto l’esigere dagli altri fede eterna, se insieme
non si procura a far sì che dalla violazione del patto derivi al violatore più
danno che utilità, e di questo va tenuto gran conto nella costituzione del-
la società politica (in Republica instituenda)38.

35 Così non convince l’affermazione di F. HADDAD-CHAMAKH, Liberté individuelle

et paix civile d’après le Traité Thèologico-Politique de Spinoza, in Spinoza’s Political and


Theological Thought, cit., pp. 44-55, secondo cui «le pacte social signifie que prévaut
entre les hommes la puissance de la raison sur le désir» (p. 45). A insistere sul peso de-
gli affetti nell’atto della pattuizione sono invece MATHERON, Individu et communauté
selon Spinoza, cit., p. 287, e K. KISAKU, Über die Staatslehre Spinozas, in Speculum Spi-
nozanum, a cura di S. Hessing, Routledge, London, 1977, pp. 353-67.
36 Opera, III, pp. 191-2 (trad. it. p. 380).
37 Ibid.
38 Ivi, p. 192 (trad. it. p. 381). Il concetto di utile è al centro di un filone interpre-
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 163

Dalla percezione del principio di utilità – vera o immaginaria


poco importa; quel che conta è solo che l’individuo tragga da
essa una regola di comportamento – come elemento decisivo
nella fase costitutiva del patto deriva la consapevolezza che nes-
suno potrà sentirsi obbligato a rispettare la parola data, se non
dopo aver riconosciuto che tale rispetto gli arreca un vantaggio,
o lo mette al sicuro da un danno. Contro Grotius (ma anche di-
menticando le leggi di natura hobbesiane) il TTP dichiara la
non validità del principio per cui pacta sunt servanda39, neppu-
re come ideale regolativo. L’unico modo per dare effettiva sta-
bilità al patto tra individui che seguono le loro immaginazioni
assai più dei dictamina rationis sembra essere quello di neutra-
lizzare ogni possibile conflitto privando gli individui del diritto
di agire secondo il proprio ingenium; la logica del trasferimento
del diritto naturale fa così il suo ingresso nel TTP:
quanto uno trasferisce a un altro, spontaneamente o per forza, della
propria potenza (quantum unusquisque potentiae, quam habet), altrettan-
to gli cede necessariamente del proprio diritto; e colui che detiene il pie-
no potere (potestatem) di costringere tutti con la forza e di frenarli con la

tativo della filosofia politica spinoziana che vede in Spinoza un precursore dell’utilita-
rismo anglosassone; tra i principali rappresentanti di questa linea vi sono R.A. DUFF,
Spinoza’s Political and Ethical Philosophy, [1903], Kelley, New York, 1970, F. POL-
LOCK, Spinoza’s Political Doctrine, with Special Regard to his Relations to English Publi-
cists, in «Chronicon Spinozanum», I, 1921, pp. 45-57, C.E. VAUGHAN, The Social Con-
tract: Spinoza, in ID., Studies in the History of Political Philosophy before and after
Rousseau, vol. I, Russell and Russell, New York, 1960, pp. 62-129. Tuttavia, come sot-
tolinea giustamente PACCHIANI, Spinoza tra teologia e politica, cit., una simile lettura è
possibile solo se si rimuove ogni nesso tra politica e metafisica nel pensiero di Spinoza,
il che comporterebbe un suo sostanziale impoverimento (cfr. p. 33). Un’analisi della
nozione di utile più attenta all’impianto speculativo spinoziano è presente in E. GIAN-
COTTI, La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spinoza, in Id., Studi su Hobbes e Spinoza,
Bibliopolis, Napoli, 1995, pp. 181-210, e in CORSI, Politica e saggezza in Spinoza, cit.,
pp. 27-9.
39 Cfr. H. GROTIUS, De Iure belli ac pacis libri tres, in quibus ius naturale et gen-

tium, item iuris publici praecipua explicantur (1625), curavit B. J. De Kanter-Van Het-
tinga, Brill, Leiden, 1939, libro II, 11, 1 (De promissis), pp. 326-8. Sulla critica di Spi-
noza alle leggi naturali di Grotius cfr. MATHERON, Spinoza et la problematique juridique
de Grotius, cit. Ben più complessa è la posizione di Hobbes riguardo a questo tema,
come dimostra A. BIRAL, Hobbes: la società senza governo, in Il contratto sociale nella fi-
losofia politica moderna, a cura di G. Duso, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 51-108 (II
ed. 1993).
164 La libertà necessaria

minaccia della pena capitale, che tutti universalmente temono, si dice ha


il supremo diritto su tutti; diritto, che avrà soltanto finché conserverà
questa potenza (tantum...hanc potentiam) di fare quello che vuole40.

Il meccanismo della cessione è scandito dalla triade quantum


potentiae-potestas-tantum hanc potentiam, la quale definisce il
prodursi di un differenziale di forze, e conseguentemente la na-
scita di una polarizzazione del potere, che fonda la sottomissio-
ne della massa degli individui nei confronti di chi detiene il po-
tere suddetto; una sottomissione che dura esattamente per il
tempo in cui esiste il differenziale, non un attimo di più. Spino-
za sembra così essere giunto alla conclusione del suo ragiona-
mento, che dal diritto naturale degli individui doveva condurre
alla nascita del potere politico, e quindi dell’imperium; tuttavia
è evidente la problematicità di questo percorso, a partire dal-
l’apparente aporia che domina la logica pattizia, e con essa la
possibilità del trasferimento dello jus uniuscujusque. Infatti, se
tale jus coincide con la potenza di ciascun individuo, ovvero
con la sua stessa essenza, nel momento in cui essa si dispiega
nell’esistenza, nulla di ciò che lo definisce è realmente trasferi-
bile, pena la fine della stessa realtà dell’individuo. Se non si
vuole entrare in contraddizione con l’equazione spinoziana jus
= potentia, allora si deve ammettere che l’unica «parte» del di-
ritto naturale trasferibile è la sua immagine, cioè la percezione
immaginaria del diritto. Solo concependo lo jus naturale attra-
verso gli schemi della conoscenza immaginativa è possibile
considerarlo una sorta di «potere virtuale», sottomesso non a
leggi necessarie, bensì a una volontà potenzialmente onnipo-
tente (lo jus ad omnia hobbesiano), che si indirizza a un fine
piuttosto che a un altro, secondo un principio trascendente ri-
40 Opera, III, p. 193 (trad. it. p. 382). La letteratura secondaria sulla dottina spino-

ziana del contratto è pressoché sterminata; per una storia delle vicende interpretative
sono particolarmente rilevanti i contributi di A. MENZEL, Sozialvertrag bei Spinoza, in
«Zeitschrift für den privat - und öffentlichen Recht der Gegenwart», XXXIV, 1907,
pp. 451-60, di G. SOLARI, La dottrina del contratto sociale in Spinoza, in «Rivista di filo-
sofia» III, 1927, pp. 317-53, di W. ECKSTEIN, Zur Lehre vom Staatsvertrag bei Spinoza,
in Texte zur Geschichte der Spinozismus, cit., pp. 362-76, di A.C. WERNHAM, Le Con-
tract Social chez Spinoza, cit. Infine un interessante confronto tra la dinamica del patto
in Hobbes ed in Spinoza è presente in O. UENO, Spinoza et le paradoxe du contrat so-
cial de Hobbes. «Le reste», in «Cahiers Spinoza», VI, 1991, pp. 269-96.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 165

spetto alla naturalezza del desiderio umano41. Solo un diritto di


tal genere potrebbe essere alienato, nel senso che ciascun indi-
viduo potrebbe decidere volontariamente di abdicare alla sua
libertà – o a una parte di questa – a favore di un altro; ma, poi-
ché lo jus spinoziano non è definito dalla libera volontà, né es-
so si manifesta se non come desiderio in atto, la sua cessione
può essere, appunto, soltanto immaginaria.
Il fatto che il trasferimento si attui nella dimensione dell’im-
maginario non significa comunque che a esso non corrisponda-
no effetti reali: infatti, se qualcuno immagina di aver ceduto il
proprio diritto a un altro, è naturalmente portato a ritenere co-
stui più potente di lui, e quindi ad obbedirgli; anzi, proprio
nella convinzione di essere sottomessi a un potere incontrasta-
bile si esprime compiutamente l’atto del trasferimento del dirit-
to, e solo attraverso tale convinzione esso assume effettiva va-
lenza politica42. Il meccanismo giusnaturalistico della cessione
del diritto naturale è dunque valido anche all’interno della teo-
ria spinoziana, ma trae origine dalla costituzione affettiva e im-
maginativa dell’uomo, e quindi da una processualità immanen-
te al corpo collettivo, senza che si debba ipotizzare un inter-
vento normativo della ragione o di un potere altro rispetto alla
«omnium simul potentia»43. Questo slittamento interno alla lo-
gica contrattualistica, che segna il passaggio da un orizzonte
dominato dalla razionalità a una dimensione in cui prevale la
componente immaginativa e affettiva, è di importanza fonda-
mentale nell’economia del TTP, poiché permette a Spinoza di
compiere un passo decisivo nel suo progetto di risemantizza-
41 Ancora una volta TOSEL, Spinoza ou le crépuscule de la servitude, cit., coglie me-

glio di altri interpreti l’aspetto problematico di questo passaggio, senza però riuscire a
scioglierlo pienamente (cfr. pp. 279-80).
42 Anche LAZZERI, Droit, pouvoir et liberté, cit., sottolinea il peso dell’immagina-

zione e della credenza nel meccanismo del trasferimento del diritto e nella conseguente
nascita del potere (cfr. p. 223).
43 Viene così a cadere la principale critica di W. RÖD, Spinozas Lehre von der So-

cietas, in «Filosofia», XVIII, 1967, pp. 777-806, e XIX, 1968, pp. 671-98, alla teoria
politica di Spinoza, ovvero l’individuazione di una permanenza del dualismo insanabile
tra realismo e normativismo. In un certo senso, si può anche affermare, come fa DEN
UYL, Power, State and Freedom, cit., che nel pensiero di Spinoza il termine «trasferi-
mento» è una metafora; ma si tratta di una metafora che ha effetti reali, non solo de-
scrittivi (cfr. p. 15).
166 La libertà necessaria

zione del linguaggio politico44: infatti l’ambiguità del lessico


giusnaturalistico spinoziano, che sembrava determinata da
un’incertezza del ragionamento, va in realtà addebitata all’uso
consapevole di una terminologia come quella pattizia, generata
non dal rigore della ratio, bensì dall’opacità dell’imaginatio, ma
non per questo incapace – e anzi dotata di una sua evidente ef-
ficacia – di produrre e nel contempo descrivere il processo ge-
netico dell’imperium. Così rimodellato, il trasferimento dello
jus naturale ridisegna la natura dei rapporti interindividuali: è
necessario infatti che la scelta di chi deterrà il diritto-potere di
tutti gli altri sia comune, ossia che ognuno continui a credersi
intimamente obbligato nei confronti di chi detiene ed esercita
il suo diritto, affinché quest’ultimo possa conservare una po-
tenza assoluta «di fare quello che vuole». Ma poiché tale scelta
nasce dal terreno instabile degli affetti, occorre che sia messa in
atto una stabilizzazione dell’affettività collettiva che, per quan-
to risulta dai caratteri dell’esistenza passionale interindividuale,
risulta di non facile realizzazione.
L’uso del linguaggio giusnaturalistico – e in particolare del
principio della cessione del diritto naturale – risponde così a
due esigenze distinte: da un lato, quella di dedurre la genesi del
potere politico attraverso l’enunciazione teorica dei meccani-
smi che lo mettono in forma (Spinoza usa proprio il verbo for-
mari)45; dall’altro, quella di individuare i principi di tale teoria
nell’effettualità delle relazioni interindividuali, quali si danno
in un orizzonte segnato dall’affettività e dall’immaginazione
umana, affinché sia possibile recuperarne la validità pratica
«senza alcuna ripugnanza al diritto naturale»46. Si tratta di col-
mare lo iato tra il piano (teorico) della razionalità e quello (pra-

44 Anche FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., sottolinea come nel TTP

il linguaggio giusnaturalistico abbia una collocazione anomala, ma poi non approfondi-


sce il quadro problematico che questo implica.
45 Nella traduzione italiana il passo recita: «Con questo criterio una società può

essere costituita senza alcuna ripugnanza al diritto naturale» (Opera, III, p. 193; trad.
it. p. 382), tuttavia la traduzione è imprecisa: la società, infatti, non si costituisce con il
patto, ma viene da esso soltanto normata, appunto «messa in forma».
46 Ibid. In questa sottolineatura è forse possibile cogliere un accento polemico nei

confronti della dottrina hobbesiana, che verrà ripresa nella lettera L a Jelles, come si
vedrà più avanti.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 167

tico) dell’immaginazione; o, per meglio dire, di riuscire a espri-


mere il massimo di ragionevolezza possibile nei processi affetti-
vi ed immaginativi, ovvero nella potenza naturale immanente a
una collettività. In tal senso, osserva ancora Spinoza, il mecca-
nismo pattizio funziona, producendo un grado efficace di sta-
bilità affettiva, soltanto a una condizione ben precisa, nella
quale si fondono la ragione del filosofo e l’immaginazione della
massa:
a condizione, cioè, che ciascuno trasferisca tutta la propria potenza al-
la società, la quale deterrà così da sola il sommo diritto naturale su tutto,
vale a dire il supremo potere (summum imperium), a cui ciascuno, o libe-
ramente o per timore dei castighi, dovrà obbedire. Questo diritto della
società si chiama «democrazia», la quale si definisce, perciò, come l’unio-
ne di tutti gli uomini che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è
in suo potere (coetus universus hominum, qui collegialiter summum jus ad
omnia, quae potest, habet)47.

L’imperium può dunque sorgere allorché i diritti-potenze


non vengono trasferiti a uno o più individui reali, nei confronti
dei quali si produrrebbe quell’ambivalenza affettiva che, quan-
do sorse tra il popolo d’Israele e i suoi sacerdoti, minò definiti-
vamente l’unità dello Stato ebraico, bensì a un soggetto che co-
incide con l’intera collettività, ovvero alla societas tutta. Ma al-
trettanto significativo è il fatto che l’imperium così costituito
prenda il nome di «democrazia», termine con il quale Spinoza
non indica una forma particolare, bensì l’essenza stessa di
un’aggregazione politica. La specificazione successiva, che defi-
nisce la democrazia come «coetus universus», richiede un bre-
ve approfondimento filologico: coetus, infatti, è parola usata
nel linguaggio politico e religioso dell’epoca per indicare l’asso-
ciazione di una pluralità di individui, precedente qualsiasi rap-
porto di potere che le dia una forma stabile: ad esempio, tanto
l’unione da cui nasce il patto sociale, quanto quella dei fedeli in
una Chiesa. Due esempi tratti dalla letteratura olandese del
XVII secolo possono servire da chiarimento: il primo è quello
del filosofo cartesiano Lambert van Velthuysen, il quale nella
Disquisitio an principi christiano afferma che il coire è il movi-
47 Ibid.
168 La libertà necessaria

mento specifico da cui trae origine il patto sociale, in quanto


l’imperium sorge «ex spontanea multorum conventione, qui co-
ëunt, ut in civili societate vivant»48; il secondo riguarda invece
il teologo controrimostrante Voetius, il quale nella sua opera
principale, la Politica Ecclesiastica, sostiene che anche la Chie-
sa, nella sua forma visibile, nasce dal «consensus fidelium, qui
primum coëunt in Ecclesiam, eamque instituunt et consti-
tuunt»49. In entrambi i casi, quello che viene descritto è un mo-
vimento spontaneo, che non implica alcuna coazione, ma è l’e-
sito di una disposizione naturale degli individui; il che significa
che la democrazia come coetus e al tempo stesso come impe-
rium contiene e armonizza in sé l’elemento aggregante, che
preesiste ad ogni istituzionalizzazione dei rapporti interindivi-
duali, e quello coattivo del diritto naturale divenuto politico,
divenuto cioè esercizio di un potere.
La cessione dei diritti individuali alla società è dunque es-
senziale al costituirsi della democrazia: la societas precede la
comparsa dell’imperium, esprimendo, come già al capitolo V, la
condizione necessaria – benché non sufficiente, almeno nella
sua manifestazione immediata – affinché gli individui possano
condurre un’esistenza umana a tutti gli effetti, aiutandosi reci-
procamente a sviluppare le facoltà che sono proprie della loro
specifica natura. In tal senso la societas evidenzia la potenza im-
manente dell’essere umano (di tutti gli esseri umani), che si di-
spiega sul terreno, instabile ma concretamente presente, degli
affetti e dell’immaginazione; ancora più esplicitamente, essa è
un’immaginazione condivisa, certo confusa e inadeguata a pro-
durre relazioni durevoli (da cui consegue l’ulteriore necessità
dell’imperium), ma comunque indispensabile alla vita di una
collettività. Un ulteriore rinvio all’interpretazione spinoziana
della storia biblica può tornare utile: la teocrazia istituita da
Mosè, infatti, nasce dal patto che gli Ebrei stringono (o tentano

48 Lambertus van VELTHUYSEN, Disquisitio an principi christiano in ditione sua ma-

lum aliquod tolerare licitum: in qua speciatim agitur de prophanatione sabbathi, aut diei
Dominicae (ed. in olandese 1660), in Id., Opera omnia, Roterdami, Typis Reineri Leers
1680, I vol., pp. 609-92; citazione da p. 611.
49 Gijsbertus VOETIUS, Politica Ecclesiastica, 3 Partes, 4 Tomi, Amsterdam, Joannes

Waesberge 1663-1676; citazione dal tomo I, p. 15.


IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 169

di stringere) con Dio; un patto costruito nella dimensione im-


maginaria, ma non per questo privo di effetti reali, dal momen-
to che esso rinsalda i legami tra gli individui, unificando l’oriz-
zonte esistenziale dei singoli. Allo stesso modo, l’immaginazio-
ne della società nel patto sociale tiene il posto di Dio nella teo-
crazia ebraica, organizzando uno spazio affettivo comune, al
quale i singoli ingenia partecipano in qualche misura, e nel
contempo impedendo alla dimensione immaginativa collettiva
di fissarsi su un unico individuo, o su una parte della popola-
zione, spezzando l’uguaglianza naturale e impoverendo l’attivi-
tà dell’imaginatio.
Il carattere necessariamente democratico dell’imperium, che
nega ai violenta imperia ogni possibilità di durare, nasce dal-
l’impossibilità di trascendere i limiti del diritto naturale, cioè
della societas (come peraltro aveva già indicato il capitolo V).
Rispetto al modello teocratico di Mosé si dà continuità, ma an-
che evoluzione, poiché l’immaginazione della societas è meno
esposta al rischio di dare vita a un potere estraneo e trascen-
dente rispetto alla figura divina immaginata dagli Ebrei; inoltre
la società rafforza il sorgere di un rapporto di reciprocità tra gli
individui, espresso dall’avverbio «collegialiter», che indica la
modalità di esercizio del diritto civile, dando concretezza al de-
siderio di cooperazione e di mutua assistenza50. Questo co-
munque non significa che la democrazia sfugga definitivamente
al rischio di inglobare in sé meccanismi autoritari, essendo la
dimensione immaginativa sulla quale si sostiene naturalmente
instabile; senza dimenticare che la coazione propria di ogni po-
tere, anche quello democratico, richiede pur sempre un sogget-
to che lo eserciti, ovvero una «summa potestas» che, come af-
ferma il TTP,
non è soggetta ad alcuna legge, ma [...] tutti devono ad essa obbedire
in tutto: giacché questo deve essere stato tacitamente o espressamente
pattuito fra tutti, quando trasferirono nella società (eam) ogni proprio

50 Cfr. in proposito L. MUGNIER-POLLET, Expression et altérité. Remarques sur la

portée de la politique selon Spinoza, in «Annales de la Faculté des Lettres et Sciences


Humaines de Nice», I, 1967, pp. 73-83, nonché A. MENZEL, Wandlungen in der Staats-
lehre Spinozas, in Festschrift für J. Unger zum 70. Geburtstage, Cotta, Stuttgart, 1898,
pp. 3-38.
170 La libertà necessaria

potere (potentiam) di difendersi e cioè ogni proprio diritto [...]: ed essen-


dosi assoggettati ad esso [sc. all’arbitrio del sommo potere] in modo as-
soluto, costretti, come abbiamo detto, dalla necessità e persuasi dalla
stessa ragione, ne segue che, se non vogliamo essere nemici del potere co-
stituito (imperium) e agire contro la ragione che suggerisce di difenderlo
con tutte le proprie forze, siamo tenuti ad eseguire assolutamente tutti gli
ordini della suprema autorità (summae potestatis), anche nel caso che es-
sa imponga delle assurdità: la ragione, infatti, comanda di agire in modo
da scegliere tra due mali il minore51.

Non poche sono le sorprese che questo passo riserva, al


punto che le conclusioni precedenti sembrano contraddette a
più riprese: scompare la societas come soggetto del potere e
della potenza comune, sostituita dalla summa potestas (cioè da
uno o più individui reali), senza che tale passaggio trovi un’ap-
parente giustificazione52; inoltre, ritorna più volte nel testo il ri-
ferimento alla ratio come elemento essenziale della decisione
che produce il patto e il trasferimento dei diritti individuali.
Ma ancora più sorprendente è il fatto che, subito dopo, Spino-
za capovolga nuovamente la prospettiva, introducendo un ulte-
riore elemento di complicazione:
Si aggiunga che a questo rischio, di sottomettersi cioè senza riserve al-
l’arbitrio e al potere (imperio) altrui, ciascuno poteva esporsi senza timo-
re, perché, come abbiamo spiegato, questo diritto di imporre tutto ciò che
vogliono compete alle supreme autorità soltanto fino a quando esse de-
tengano effettivamente il sommo potere (tamdiu tantum competit, quam-
diu revera summam habent potestatem): perché, se perdono questo, per-
dono insieme anche il diritto illimitato d’imperio (jus omnia imperandi)53.

Il rischio di un potere irresistibile, al quale tutti devono sot-

51 Opera, III, pp. 193-4 (trad. it. pp. 382-3).


52 Infatti il pronome «eam», che il Droetto intende riferito a «società», potrebbe
essere riferito anche alla «somma potestà», come fa ad esempio la traduzione del Casel-
lato (cfr. B. SPINOZA,Trattato teologico-politico, cit., p. 107). Ad ogni modo questo è re-
lativamente poco importante, poiché poco più avanti Spinoza afferma esplicitamente:
«chiunque ha trasferito ad altri, o spontaneamente o per forza, la facoltà (potestatem)
di difendersi, ha rinunciato completamente al proprio naturale diritto e perciò ha deci-
so di obbedire assolutamente ad esso in ogni cosa; ciò che è tenuto a fare finché il re o
nobili o il popolo conservano il sommo potere che hanno ricevuto e che costituisce il
fondamento dell’avvenuta traslazione del diritto» (Opera, III, p. 195; trad. it. p. 385).
53 Ivi, p. 194 (trad it. p. 383).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 171

tomettersi, dal momento in cui hanno ceduto (o immaginato di


cedere) ogni diritto a difendersi, scompare con la stessa rapidi-
tà con cui era apparso poche righe sopra, sulla base di un’affer-
mazione apparentemente tautologica, ma in realtà decisiva per
comprendere l’intero ragionamento spinoziano: la summa pote-
stas è tale, e pertanto possiede uno «jus omnia imperandi», sol-
tanto fintantoché detiene concretamente il potere di cui è solo
in linea teorica sempre titolare54. Infatti il rapporto tra chi de-
tiene l’imperium e chi ha pattuito di obbedirgli è, nella sua na-
tura immaginaria, tutt’altro che stabile, al punto da non essere
mai in grado di fissare definitivamente in una polarizzazione di
rapporti di comando-obbedienza l’inarrestabile dinamica che
alimenta le potenze individuali. Proprio dal fatto che, come
Spinoza aveva ampiamente sottolineato, pacta non sunt servan-
da, consegue che nessuna obbligazione formale, tanto meno la
promessa di cedere degli jura per loro natura incedibili, può
conferire ad alcuno un potere che egli non è in grado di con-
servare attraverso il proprio agire determinato: in tal senso, la
valenza «naturale» del diritto – cioè la sua identità con la po-
tenza-essenza individuale – permane anche dopo la costituzio-
ne di un sistema politico55. Soltanto a partire da questo punto
fermo si può comprendere il motivo per cui Spinoza attribuisce
i diritti ceduti dai singoli individui ora all’intera societas, ora al-
la summa potestas: in realtà si tratta di due momenti distinti
dell’organizzazione politica di una collettività, poiché con la
nascita pattizia dell’imperium è la società intera a costituire il
soggetto (immaginario) del trasferimento, secondo un rapporto
di reciprocità e di collegialità, mentre la genesi del potere so-
vrano e la sottomissione a esso da parte di tutti i membri della

54 Così l’affermazione di Balibar, secondo la quale «il carattere assoluto della so-

vranità è uno stato di fatto» (Spinoza e la politica, cit., p. 52), significa esattamente che
quest’ultima viene continuamente rimodellata dai rapporti di forza realmente in campo.
55 E. GIANCOTTI, Réalisme et utopie: limites des libertés politiques et perspectives

de libération dans la philosophie politique de Spinoza, trad. it. in Studi su Hobbes e Spi-
noza, cit., pp. 135-47, individua nel pensiero politico spinoziano una matrice statica ed
una dinamica – dipendenti da due differenti concezioni ontologiche che si intersecano
nell’Etica –, le quali fondano rispettivamente l’assolutismo del potere statale e il diritto
di resistenza e di ribellione; ma, forse, questo dualismo può essere ricomposto alla luce
di quanto affermato finora.
172 La libertà necessaria

societas vanno collocate in un momento logicamente se non


temporalmente successivo, in un implicito pactum subiectionis
che fa necessariamente seguito al pactum unionis. Con questo
«secondo» patto si produce sì una nuova polarizzazione nei
rapporti individuali, che minaccia (è il rischio sopra rilevato)
l’omogeneità costituita dal primo accordo, tuttavia tale frattura
del tessuto sociale ha dei limiti ben definiti, riassunti dalla ripe-
tizione della citazione senechiana apparsa al capitolo V: «Vio-
lenta enim impera, ut ait Seneca, nemo continuit diu»56. Che il
potere della summa potestas si sclerotizzi in una sequenza di or-
dini assurdi è perciò un’ipotesi estrema, che metterebbe in pe-
ricolo la stessa forma politica, e quindi in primo luogo il potere
sovrano, piuttosto che una descrizione del normale funziona-
mento di un governo politico.
Il significato e il valore della democrazia, e in particolare il
suo radicamento nel diritto naturale e nella costituzione del-
l’uomo, che non può venire modificata dal passaggio da uno
stadio che intreccia cooperazione e conflittualità a una forma
maggiormente organizzata dell’esistenza collettiva, riemerge
anche quando Spinoza affronta il problema dell’esercizio del
potere dentro l’imperium57: «in un ordinamento democratico
(in democratico imperio) le assurdità sono meno temibili. È
quasi impossibile, infatti, che la maggior parte di un consorzio
(coetus), se questo è grande, convenga (conveniat) in un unico
assurdo»58. In realtà democrazia e ordinamento democratico
non indicano la medesima realtà, per quanto stiano in un rap-
porto di stretta connessione l’una con l’altro: se nel lessico del
TTP il termine democratia esprime il modo naturale – e di fatto
l’unico possibile – in cui la societas costituisce l’imperium
(esprimendone così tutta la potenza costituente), l’imperium
democraticum è invece una tra le diverse articolazioni interne
che la forma politica può assumere; più precisamente, è la for-

56 Opera, III, p. 194 (trad. it. p. 383).


57 Di un potere dello Stato – che crea il diritto civile – e di un potere nello Stato
parla R. LACHARRIERE, Etudes sur la théorie democratique. Spinoza, Rousseau, Hegel,
Marx, Payot, Paris, 1963, p. 13-39, pur senza riuscire a trarre tutte le conseguenze ne-
cessarie da questa utile distinzione.
58 Opera, III, p. 194 (trad. it. p. 383).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 173

ma maggiormente adeguata allo sviluppo degli aspetti positivi


dell’affettività e dell’immaginazione umana che emergono nel
patto originario:
credo di avere indicato abbastanza chiaramente i fondamenti del go-
verno democratico (imperii democratici fundamenta), del quale ho voluto
trattare di preferenza perché mi pare il più naturale e conforme alla liber-
tà che la natura consente a ciascuno. In esso, infatti, nessuno trasferisce
ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non essere
poi più consultato; ma lo deferisce alla parte maggiore dell’intera società,
di cui egli è membro59.

La minaccia di un imperium violentum è assai poco temibile


in un ordinamento democratico, dove le decisioni vengono pre-
se attraverso l’accordo di coloro che hanno sancito il patto, e
che dunque sono parte integrante della società politica. Spinoza
individua la migliore arma contro il pericolo di un dominio ar-
bitrario nella partecipazione diretta dell’intera collettività – o
della «parte maggiore» di essa – alla gestione del potere, il solo
meccanismo in grado di far emergere dalla debole razionalità
dei singoli, ma ancor di più dalla potenza dei loro affetti e delle
loro immaginazioni, i tratti di una cupiditas universale, che ar-
monizzi le diversità dei molteplici ingenia attraverso una comu-
nicazione ininterrotta tra gli individui60. Solo l’aspetto comuni-
cativo dell’affettività e dell’immaginazione permette il supera-
mento della separatezza tra gli uomini, dapprima costituendo
attraverso la societas l’imperium come democrazia, e in seguito
manifestandosi nel movimento del convenire e della consultatio
continua di ogni suddito. In sintesi, se la natura democratica di
ogni ordinamento politico è condizione necessaria affinché si
dia la possibilità di un imperium democraticum, d’altra parte
quest’ultimo esprime al massimo grado la potenza comune im-
plicata in ogni imperium, come lo stesso Spinoza chiarisce attra-
verso un esempio che riguarda la natura della libertà politica:
59 Ivi, p. 195 (trad. it. p. 384).
60 TOSEL, Spinoza ou le crépuscule de la servitude, cit., osserva opportunamente
che «avec l’État démocratique, les erreurs et les impuissances passionnelles des moeurs
cessent d’être une base limitatrice, et s’inversent en matériau et conditions de progrès»
(p. 290); ma forse sarebbe più corretto parlare, anziché di ‘impotenze passionali’, di
‘potenze affettive’ dei costumi.
174 La libertà necessaria

in un regime politico (in Republica et imperio), nel quale è legge su-


prema la salute, non del sovrano (imperantis), ma di tutto il popolo, colui
che obbedisce in tutto all’autorità non deve essere definito schiavo inutile
a se stesso, ma suddito; e libera in sommo grado è quella repubblica che
ha le sue leggi fondate sulla retta ragione, giacché in essa ciascuno può,
se vuole, essere libero61.

Libertà e ordinamento politico democratico stanno in un


rapporto di coimplicazione a due differenti livelli, perché se in
primo luogo l’esercizio collegiale del potere favorisce lo svilup-
po della razionalità complessiva del sistema, in seconda battuta
tale incremento innalza anche il livello di libertà di cui i suoi
sudditi possono godere: la Respublica diventa libera attraverso
la partecipazione di tutti i suoi membri all’attività legislativa, e
parallelamente ogni uomo trova, grazie a quelle stesse leggi che
ha contribuito a produrre, sempre maggiori possibilità per po-
tenziare il proprio conatus, e con esso la propria libertà62.
Inoltre dall’istituzione di un imperium democraticum viene
implementata non solo la libertà, ma anche l’uguaglianza, poi-
ché soltanto in questo genere di ordinamento politico «tutti
continuano ad essere uguali come erano nel precedente stato di
natura»63. L’esaltazione e la difesa dell’uguaglianza originaria è,
nell’Olanda del XVII secolo, un elemento caratterizzante tanto
la produzione teorica64, quanto la cultura e la prassi politica65,
cosicché non è strano che anche Spinoza sia particolarmente
sensibile a questo tema; tanto più che nell’orizzonte della sua
riflessione filosofica il concetto di uguaglianza assume un ruolo
di fondamentale importanza, collegando, in perfetta corrispon-
denza con il concetto di libertà, la dimensione metafisica con
61 Opera, III, pp. 194-5 (trad. it. p. 384).
62 In sintonia con questa conclusione, MISRAHI, Le droit et la liberté politique chez
Spinoza, cit., sostiene che, come la libertà prende senso dall’esistenza sociale, così que-
st’ultima prende la sua validità dalla libertà stessa (cfr. p. 163).
63 Opera, III, p. 195 (trad. it. p. 385).
64 Si veda ad esempio il De Jure Ecclesiasticorum Liber Singularis, opera pubblicata

sotto lo pseudonimo di Lucius Antistius Constans, che al III capitolo presenta il se-
guente titolo: Aequalitatem omnium hominum Naturalem status Civilis constitutione in
Privatis non mutari (citazione da p. 38; cfr. inoltre MUGNIER-POLLET, La philosophie
politique de Spinoza, cit., p. 204).
65 Su questo punto cfr. K.W. SWART, The Miracle of the Dutch Republic as seen in

the Seventeenth Century, H.K. Lewis & Co., London, 1969.


IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 175

quella politica. Il radicamento ontologico dell’uguaglianza as-


soluta – assoluta perché indipendente da qualsiasi proprietà
comune tra gli individui – dei diritti naturali permette sul pia-
no esistenziale il superamento del meccanismo immaginario di
cessione dello jus uniuscujusuque, e nel contempo costituisce il
diritto democratico come limite invalicabile all’esercizio del
potere. La coimplicazione tra il piano della singolarità e quello
della collettività, già rilevata a proposito della libertà, è rintrac-
ciabile anche in rapporto al principio egalitario, che fonda l’as-
sociazione politica e, contemporaneamente, trova in essa lo
spazio adatto per il proprio sviluppo.
Il TTP definisce così una stretta relazione tra lo spazio della
politica e i concetti di libertà e di uguaglianza naturali, i quali
assumono la forma di processi sempre in atto dentro la struttu-
ra dell’imperium, come dentro un orizzonte da assumere e, allo
stesso tempo, da attraversare. Un famoso passo del XX capito-
lo chiarisce tale posizione:
Dai fondamenti dello Stato (Reipublicae), quali li abbiamo esposti, se-
gue in modo assai evidente che il suo ultimo fine non è di dominare gli
uomini né di costringerli col timore e sottometterli al diritto altrui (alte-
rius juris facere); ma, al contrario, di liberare ciascuno dal timore, affin-
ché possa vivere, per quanto è possibile, in sicurezza, e cioé affinché pos-
sa godere nel miglior modo del proprio naturale diritto di vivere e di agi-
re senza danno né suo né degli altri. Lo scopo dello Stato, dico, non è di
convertire in bestie gli uomini dotati di ragione o di farne degli automi,
ma al contrario di far sì che la loro mente e il loro corpo possano con si-
curezza esercitare le loro funzioni, ed essi possano servirsi della libera ra-
gione e non lottino l’uno contro l’altro con odio, ira o inganno, né si fac-
ciano trascinare da sentimenti iniqui. Il vero fine dello Stato (Reipublicae)
è, dunque, la libertà66.

Il desiderio di superare la paura e le passioni che esprimono


impotenza, insieme a quello di sviluppare le proprie capacità –
in una parola, il desiderio di potenziare il proprio conatus –
spinge gli uomini a convivere in una Respublica; più che di fi-
nalità, si tratta di una tendenza immanente alla natura umana67,
66 Opera, III, pp. 240-1 (trad. it. p. 482).
67 su questo punto si esprime appropriatamente W. BARTUSCHAT, Freiheit als Ziel
des Staates, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 115-42.
176 La libertà necessaria

che rintraccia nella vita associata la possibilità del passaggio da


un’esistenza dominata dalle passioni, e quindi determinata da
un diritto debole, soggetto al potere degli eventi esterni, alla
piena autonomia del proprio jus: lo Stato (Respublica) ha come
fine la libertà in quanto è sempre un mezzo attraverso il quale
l’uomo può ottenere la propria liberazione68.
Nel concetto di democrazia sviluppato nel TTP convergono
gli esiti di una critica serrata alla concezione antropomorifca di
Dio e a una visione teleologica dell’esistenza umana (di cui
l’Appendice della I parte dell’Etica è la più esplicita testimo-
nianza) con il tentativo di costituire una nuova dimensione dei
rapporti interindividuali, fondata sul riconoscimento dell’intra-
scendibilità dell’orizzonte affettivo e immaginativo, ma anche
della potenza naturale implicata in esso, che può dar vita, sep-
pure in un quadro segnato dall’instabilità e dal rischio, a pro-
cessi di emancipazione collettiva. La natura necessariamente
democratica di ogni organizzazione politica esprime quindi da
un lato l’incomprimibilità degli ingenia singolari, che non pos-
sono mai essere ridotti a semplici automi di un’unica volontà –
e quindi la resistenza naturale a ogni tirannia69 –, dall’altro la
tendenza dinamica e progressiva dei conatus a ricercare un ac-
cordo non a partire da una razionalità formata, ma già sul pia-
no dell’immaginazione, con la costituzione di un orizzonte co-
mune. Spinoza pone dunque in primo piano l’aspetto necessa-
rio della partecipazione attiva di tutti i membri della comunità
alla costituzione del bene comune; un bene generato da una
processualità che si concretizza nella dialettica tra subditi e
summa potestas.
Ma come è possiblie dare concreto sviluppo agli esiti di que-
sta riflessione? Non va dimenticato, infatti, che il TTP è scritto
e pubblicato, nonostante i mille pericoli, con lo scopo di inter-
venire direttamente nel conflitto che attraversa l’Olanda, tra i
68 Cfr. anche P. VINCIERI, Natura umana e dominio. Machiavelli, Hobbes, Spinoza,

Longo, Ravenna, 1984, il quale sottolinea come lo Stato si configuri «solo come mezzo,
anche se necessario e sommamente utile, in quanto garantisce la libertà nella sicurezza,
per l’affermarsi dell’autentico sapere, dell’autentico amore» (p. 92).
69 Che in Spinoza la resistenza alla tirannide sia un diritto assoluto di tutti i citta-

dini e non soltanto, come pretendevano i monarcomachi, dei loro rappresentanti istitu-
zionali, è quanto afferma BOVE, La stratégie du conatus, cit., pp. 288-9.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 177

partigiani di una libertà che coincide con la sopravvivenza stes-


sa della Repubblica e quei predicatori che invece, mirando a
difendere i loro privilegi, in realtà contribuiscono alla sua lenta
distruzione; un conflitto che trova il suo campo di battaglia nel
territorio della religione, o per meglio dire di quella pluralità di
religioni che coesistono, tra molti problemi e tensioni, all’inter-
no del paese. Per Spinoza diventa quindi fondamentale riuscire
a far emergere dai risultati teorici della riflessione politica un
progetto adeguato alle circostanze contingenti che la situazione
olandese propone, dando corpo alla teoria. Solo così, infatti,
sarà possibile che la libertà manifesti compiutamente la sua in-
tima necessità.

3. Il dibattito sullo jus circa sacra in Olanda


all’epoca di Spinoza
La conclusione del capitolo XVII del TTP, che aveva indivi-
duato nella trasformazione della teocrazia in monarchia il se-
gno della decadenza dell’organizzazione politica degli Ebrei, è
interpretabile anche come un giudizio sulle vicende delle Pro-
vince Unite dei Paesi Bassi, in particolare sulla lotta tra l’aristo-
crazia mercantile cittadina, i cui membri si autodefiniscono con
il nome di regenten («governanti»; ma forse è più corretto defi-
nire questa fazione con il termine di Staasgezinden, ovvero di
coloro che parteggiano per gli Stati Generali), e la casa degli
Orange, intenzionata a ricompattare il partito filomonarchico,
grazie anche all’appoggio del clero calvinista più intransigen-
te70. Il pericolo di un uso ideologico della religione, che sosten-
ga l’alleanza tra le forze che mirano al dominio delle coscienze
e dei corpi, e non alla loro liberazione, è quindi ben presente
agli occhi di Spinoza, il quale afferma esplicitamente, in avvio
del capitolo XVIII, di voler dedurre dalla storia biblica «alcuni
principi politici»71 in grado di fronteggiare questo attacco. Spi-

70 Tra le letture che sottolineano con maggiore enfasi il carattere pamphletistico

del TTP vi è quella di T. DE VRIES, Spinoza: State, Religion, Freedom, in «Giornale cri-
tico della filosofia italiana», LVI 1977, pp. 591-611, che schiera Spinoza – forse un po’
troppo forzatamente – direttamente nelle fila del partito dei regenten.
71 TTP, cap. XVIII, titolo, in Opera, III, p. 221 (trad. it. p. 448).
178 La libertà necessaria

noza è senz’altro consapevole della distanza che intercorre tra i


fatti narrati dall’Antico Testamento e la situazione a lui con-
temporanea; una distanza determinata non solo dai secoli tra-
scorsi, ma anche dalla frattura epocale prodotta dalla religione
cristiana:
Benché lo Stato ebraico, quale l’abbiamo descritto nel capitolo prece-
dente, potesse durare in eterno, tuttavia non è oggi né possibile né consi-
gliabile ad alcuno di imitarne la struttura. Colui che volesse trasferire a
Dio il proprio diritto dovrebbe trattare di ciò espressamente con lui, co-
me fecero gli Ebrei [...]. Senonché, Dio ha rivelato per mezzo degli apo-
stoli che il suo patto non è più scritto con l’inchiostro e nemmeno sulle
tavole di pietra, bensì con lo spirito divino nel cuore dell’uomo. Una simi-
le forma di governo (imperii), perciò, potrebbe forse essere utile soltanto
per quelli che volessero vivere in solitudine, senza contatti con l’esterno, e
chiudersi in se stessi, segregandosi da tutto il resto del mondo; ma non a
coloro che hanno bisogno di mantenersi in rapporto con gli altri72.

La motivazione presentata nella parte conclusiva del brano


individua nella natura commerciale dello sviluppo economico e
sociale olandese il fattore materiale che impedisce la costituzio-
ne in terra d’Olanda di una repubblica totalmente priva di rap-
porti con gli altri paesi, come forse vorrebbero i calvinisti orto-
dossi, sulla falsariga del governo di Ginevra; ma è soprattutto
nella prima parte del brano che emerge l’impossibilità di una
riproposizione del modello teocratico dopo la venuta di Cristo,
poiché, come Spinoza aveva sottolineato fin dal I capitolo, do-
po Cristo «non abbiamo più profeti»73, né il rito religioso svol-
ge più la funzione che aveva nella religione ebraica, come sot-
tolinea un passo del capitolo V: «i riti furono abbandonati dagli
Apostoli allorché il Vangelo cominciò ad essere predicato an-
72 Ibid. Risulta perciò difficile accettare la tesi di FEUER, Spinoza and the Rise of

the Liberalism, cit., secondo la quale la Repubblica Olandese era simile a una teocrazia
«for it was maneged neither by one man, nor by a single council, nor by the popular
vote», ma manteneva una struttura confederale (p. 120); infatti il regime teocratico è
definito essenzialmente dalla centralità del sentimento religioso nel processo di costitu-
zione dell’unità politica, meccanismo del tutto assente nella Repubblica delle Province
Unite e nella stessa Olanda.
73 Opera, III, p. 16 (trad. it. p. 21). In proposto, si veda l’intero cap. XI (Opera,

III, pp. 151-8; trad. it. pp. 308-16), che mette in luce la differenza tra la predicazione
degli apostoli e quella dei profeti che li hanno preceduti. Sulla presenza del Crisitanesi-
mo nel TTP cfr. LAUX, Imagination et religion chez Spinoza, cit., pp. 245 sgg.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 179

che agli altri popoli, vincolati dal diritto di un altro Stato (qui
alterius Reipublicae jure tenebantur)»74. Il processo di universa-
lizzazione e di interiorizzazione della fede cui il cristianesimo
dà avvio sembra segnare un punto di non ritorno; tuttavia lo
stesso Spinoza riconosce a più riprese che questi elementi non
sono riusciti a «moralizzare» integralmente la storia umana75,
poiché esiste una cesura profonda tra il significato originario
del messaggio di Cristo e il modo in cui esso è stato recepito
nel corso dei secoli dalle masse e dalle stesse autorità religio-
se76: estromessi dalla porta, i riti e le cerimonie sono rientrati
dalla finestra, come segni esteriori di un’appartenenza che ha
ancora un immediato risvolto sociale77. Né, d’altra parte, po-
trebbe essere diversamente, dal momento che il TTP ha chiari-
to fin dalla Prefazione come il carattere ambivalente della reli-
gione sia determinato non dalle modalità storiche del suo dis-
piegarsi, bensì dalla natura dell’immaginazione e degli affetti
umani, nei quali il sentimento religioso è radicato.
È quindi sul principio dell’intrascendibilità dei meccanismi
affettivi che Spinoza fonda il confronto tra il conflitto teologi-
co-politico olandese e le vicende storiche della teocrazia ebrai-
ca, un confronto che si snoda attraverso la messa a fuoco di tre
momenti fondamentali del processo di decadenza della repub-
blica mosaica: in primo luogo, l’unità religiosa del popolo
ebraico viene spezzata «dopo che i pontefici, nel secondo Sta-
to, ebbero acquistata l’autorità di legiferare, di trattare negozi
civili, e dopo che, al fine di rendere perpetua tale autorità, eb-
bero usurpati i diritti sovrani, pretendendo infine il titolo di
74 Opera, III, p. 72 (trad. it. p. 127).
75 Così BALIBAR, Spinoza e la politica, cit., p. 57.
76 Si pensi allo scambio epistolare tra Spinoza e Albert Burgh, esempio lampante

di come la religione cristiana venga stravolta nella percezione di una mente immatura
(cfr. le lettere LXVII e LXXVI, in Opera, IV, pp. 280-91 e 316-24; trad. it. pp. 263-74 e
297-302). Su questo tema cfr. A. MATHERON, Le Christ e la salut des ignorants chez Spi-
noza, Aubier Montaigne, Paris, 1971, pp. 74 sgg.
77 Cfr. il cap. V: «i riti cristiani [...] non furono introdotti se non come distintivi

esteriori della Chiesa universale, e non come cose che abbiano qualche attinenza alla
beatitudine, o che rechino in se stesse alcunché di santificante. Per la qual cosa, sebbe-
ne queste cerimonie non siano state istituite per un motivo di governo (non ratione im-
perii), lo furono tuttavia in vista dell’integrità sociale (ratione tamen integrae Societa-
tis)» (Opera, III, p. 76; trad. it. p. 132).
180 La libertà necessaria

re»78: il tratto superstizioso, che trasforma la religione in stru-


mento di dominio, prende così il sopravvento; in secondo luo-
go, con la trasformazione della classe sacerdotale in gruppo di
potere, l’insegnamento profetico perde la sua funzione sociale,
poiché la comunità è ormai attraversata da fratture insanabili,
cosicché ogni ammonizione morale assume il tono di un invito
alla sedizione79; infine, l’ordinamento politico muta radicalmen-
te, passando da un regime in cui il potere era nelle mani del po-
polo a una monarchia; con questo passaggio avviene che «le
guerre civili non ebbero più fine, e si commisero battaglie tal-
mente atroci, da superare la fama di tutte le precedenti»80.
La sottolineatura di questi tre punti introduce la discussione
spinoziana intorno allo jus circa sacra, alla quale rinviava impli-
citamente anche la famosa lettera a Henry Oldenburg, poiché i
«pregiudizi dei teologi» diventano pericolosi nel momento in
cui pretendono di valere come legge, o di influenzare diretta-
mente le decisioni politiche; esattamente il tentativo che la
chiesa calvinista delle Province Unite cerca di mettere in atto,
avanzando pretese di intervento negli affari pubblici, o richie-
dendo alle autorità secolari un’attenzione particolare in difesa
della «vera fede». Più precisamente, le richieste da parte del
clero olandese nei confronti del potere secolare riguardano i
seguenti punti: 1. il monopolio dell’interpretazione delle Scrit-
ture e della legge divina universale; 2. l’elencazione e il control-
lo dei dogmi necessari alla salvezza; 3. la regolamentazione del-
le condizioni di ammissione e di esclusione nella comunità dei
fedeli; 4. la determinazione delle forme di culto e della pietà re-
ligiosa; 5. la nomina dei preti e dei capi della Chiesa e la fissa-
zione delle loro prerogative81. Benché in terra olandese, a parti-
re dall’inizio del XVII secolo, la religione riformata sia sostenu-
ta e protetta dallo Stato, e anzi sia l’unica confessione ricono-
sciuta de jure82, il suo clero continua a percepire come una mi-
78 Ivi, p. 222 (trad. it. p. 449).
79 Cfr. ivi, p. 223 (trad. it. pp. 450-1).
80 Ivi, p. 224 (trad. it. p. 451).
81 Cfr. J. LAGRÉE, Du magistère spirituel à la medicina mentis, ou du rapport entre le

jus circa sacra, le magistère spirituel et la liberté de penser chez Grotius, Hobbes, Constans,
Spinoza, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 595-621; in particolare p. 598.
82 Cfr. H.A.E. VAN GELDER, Getemperde vrijheid. Een verhandeling over de ver-
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 181

naccia incombente la sostanziale tolleranza delle istituzioni nei


confronti delle altre fedi83. Per il calvinismo, infatti, il rapporto
con il potere politico acquisisce un ruolo decisivo, in quanto
quest’ultimo ha il dovere fondamentale di difendere la religio-
ne, e anche di riportarla sulla retta via qualora cada in errore84;
ma questa teoria, che in apparenza pone la dottrina religiosa
sotto il controllo delle decisioni dei governanti, in realtà finisce
per vincolare questi ultimi ai dogmi di fede, e quindi per sub-
ordinarli indirettamente a chi possiede il monopolio dell’inter-
pretazione delle Scritture, ovvero alle autorità ecclesiastiche.
Per questo l’ortodossia calvinista verrà accusata più volte di
«collateralità», ovvero di teorizzare la compresenza sul piano
mondano dell’autorità politica e di quella ecclesiastica, e di
conseguenza di voler porre un limite al potere dello Stato senza
tuttavia avere alcuna giurisdizione in materia. In Olanda tra i
primi ad avanzare queste accuse, durante la crisi del primo de-
cennio del secolo, sarà Johan Uytenbogaert (1557-1633), che
prenderà il posto di Arminius nelle fila rimostranti, schierando-
si per una riforma del sistema ecclesiastico olandese; egli rifiuta
l’idea di una duplice sovranità concessa da Dio sia allo Stato,
sia alla Chiesa, sostenendo invece nel suo Tractaet van’t Ampt
ende Authoriteyt, eener Hooger Christelijker Overheyd in kerke-
licke saecken85 la necessità che ogni aspetto esteriore del culto
religioso venga posto sotto il controllo esclusivo dell’autorità
secolare, e imputando ai Gomaristi di essersi allontanati dalla
dottrina originaria di Calvino, per sposare invece la religione
papista86.
Intorno alla metà del XVII secolo, dopo la sconfitta religosa

houding van Kerk en Staat in de Republiek der Vereinigde Nederlanden en de vrijheid


van meninguiting in zake godsdienst, drukpers en onderwijs, gedurende de 17e eeuw,
Wolters-Noordhoff, Groningen, 1972, pp. 5 sgg.
83 Cfr. in proposito il paragrafo 1 del I capitolo.
84 Cfr. D. NOBBS, Theocracy and toleration: a study of the disputes in Dutch Calvi-

nism from 1600 to 1650, Cambridge University Press, Cambridge, 1938, pp. 1-24.
85 Den Haag, Hendirk en Dirk Boom, 1610.
86 Cfr. in proposito, oltre a NOBBS, Theocracy and toleration, cit., pp. 27-49, anche

E. CONRING, Kirche und Staat nach der Lehre der niederländischen Calvinisten in den
ersten Hälfte des 17. Jahrhunderts, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn, 1965, pp.
35-8, e A.T. VAN DEURSEN, Bavianen en Slijkgeuzen. Kerk en kerkvolk te tijde van Mau-
rits en Oldenbarnevelt, Van Wijnen, Franeker, 1991 (I ed. 1974).
182 La libertà necessaria

– col Sinodo di Dordrecht del 1618-19 – e politica – con la ca-


duta del regime di Oldenbarnevelt, dello stesso anno – della fa-
zione arminiana, la tensione che aveva percorso il clero calvini-
sta diminuisce, pur non scomparendo del tutto, nonostante la
costante preoccupazione da parte del governo di salvaguardare
l’unità e la coesione religiosa del paese87. Anche la classe sacer-
dotale è attraversata da una frattura che si sovrappone a quella
tra i due partiti politici (quello orangista e quello degli Staatsge-
zinden): manifestano infatti un’esplicita simpatia per la casa
d’Orange i calvinisti ortodossi o presijzien, guidati dal teologo
di Utrecht Gijsbertus Voetius (1589-1676), il quale combina
una fede rigorosamente puritana con lo scolasticismo aristoteli-
co di stampo althusiano; vicini al partito degli Stati sono invece
i seguaci di Johannes Cocceius (1603-1669), docente all’univer-
sità di Leiden, che nel corso degli anni armonizza la sua origi-
naria teologia scritturale e antifilosofica con un graduale ap-
prezzamento di alcuni aspetti del cartesianesimo, esprimendo
una religiosità più inclinata verso il sentimento interiore che
non verso l’istituzione ecclesiastica (il che tuttavia non porta
Cocceius a militare tra le file dei rimostranti, come invece so-
stenevano i suoi avversari)88. In realtà il panorama del calvini-
smo olandese è assai più sfaccettato, comprendendo numerose
altre posizioni non riducibili ad alcuna delle due fazioni sopra
indicate, ed è quindi plausibile che anche tra le fila del clero
Spinoza ipotizzasse di trovare dei lettori interessati.
Tornando al gruppo più conservatore, ossia quello dei «voe-
tiani» (termine entrato in uso intorno agli anni ’40), la sua po-
sizione nell’ambito della discussione sui rapporti tra potere se-
colare e potere religioso è fortemente debitrice delle tesi goma-
riste, rivitalizzate dalla richiesta di una «seconda Riforma»89,

87 Su questo punto insiste ISRAEL, The Dutch Republic, cit., p. 660.


88 Per un approfondimento di questa distinzione cfr. E.G.E. VAN DER WALL, The
Tractatus Theologico-politicus and Dutch Calvinism 1670-1700, in «Studia Spinozana»,
XI, 1995, pp. 201-26, in particolare pp. 202-6.
89 Cfr. ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp. 662 sgg. Il termine olandese di Nadere

Reformatie non deve essere confuso con il concetto di «seconda Riforma» introdotto
per indicare le ali più radicali del movimento riformato (cfr. la nota 3 del II capitolo, p.
54, nonché F.A. VAN LIEBURG, De Nadere Reformatie in Utrecht ten tijde van Voetius,
Lindenberg, Rotterdam, 1989).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 183

ovvero di un intervento deciso nella moralizzazione della so-


cietà da parte delle autorità, che nel frattempo andavano au-
mentando la loro politica di tolleranza religiosa (e, parallela-
mente, la pressione sul clero calvinista per quanto concerne la
sua sottomissione alle leggi dello Stato). Una simile richiesta
trova le sue basi teoriche nella concezione della Chiesa espres-
sa dall’opera principale di Voetius, quella Politica Ecclesiastica
pubblicata tra il 1663 ed il 1676, ma composta da una serie di
dispute scritte in massima parte negli anni precedenti90. Voe-
tius, che afferma di voler prendere in considerazione non lo
status mysticus, bensì la forma visibilis della Chiesa, ne dà la se-
guente definizione: «Ecclesia visibilis, seu instituta est societas
fidelium libere inita ad exercendam communionem sanctorum,
seu ad communicationem mutuam eorum quae ad salutem per-
tinent»91. Controbattendo le teorie papiste del cardinale Bel-
larmino sulla natura virtuale della Chiesa, rappresentata emi-
nenentemente da un solo uomo92, Voetius parla di una «multi-
tudo fidelium» che si unisce spontaneamente (e questa sponta-
neità differenzia la Chiesa dallo Stato), sebbene poi necessiti di
un organismo di governo, la definizione del quale è appunto il
compito della politica ecclesiastica. La cornice all’interno della
quale si collocano le diverse forme di esistenza collettiva trova
in questo testo una sintesi omogenea, al punto che di termini
come societas, communio e politia viene fatto un uso pressoché
sinonimico; all’interno di questa omogeneità di fondo la distin-
zione tra il ruolo dell’autorità religiosa e quello del potere civi-
le assume quindi un peso del tutto peculiare93. Sulla base del-
l’influenza del giusnaturalismo tardo-medievale e della conce-
zione pratico-empirica dell’organizzazione ecclesiastica rap-
presentata dagli esuli inglesi in Olanda William Ames e Robert

90 Cfr. in proposito il commento a quest’opera presente in M. BOUWMAN, Voetius

over het gezag der synoden, Bakker, Amsterdam, 1937. Più in generale, sula figura di
Voetius cfr. l’opera collettanea De onbekende Voetius, a cura di Joost van Oort e als.,
Kok, Kampen, 1989.
91 Politica ecclesiastica, cit., Pars I, Liber I, Tractatus I (De ecclesia instituta), cap.

I, p. 12 (tomo I).
92 «Repugnant Ecclesiae institutae [...] Ecclesiae repraesentativae, ambigue et im-

proprie dictae, quae alio Papistarum termino virtuales appellari possunt» (ivi, p. 22).
93 Cfr. CONRING, Kirche und Staat, cit., p. 48.
184 La libertà necessaria

Parker94, la potestas Ecclesiarum viene definita come «non Mo-


narchica; nec etiam proprie Aristocratica aut Democratica; sed
utrique posteriori similis, hoc est, quasi Democratico-Aristo-
cratica»95. A questa definizione si aggiunge l’insistenza con cui
Voetius sottolinea come il potere del magistrato politico derivi
immediatamente da Dio, e non necessiti, come per i cattolici,
della mediazione della Chiesa; in questo modo egli intende di-
fendersi da ogni sospetto di collateralità, senza però cadere nel
larvato cesaropapismo – ossia nella subordinazione della Chie-
sa al governo temporale – di cui è invece accusata la teoria dei
rimostranti.
La distinzione tra l’autorità della Chiesa visibile e quella del-
lo Stato si fonda su una differenza di ordini: infatti la politica
ecclesiastica altro non è se non il mezzo esteriore con cui Cristo
esercita la sua sovranità, mentre, per quanto riguarda la politi-
ca secolare, Dio ha lasciato l’uomo libero di organizzare la so-
cietà secondo la propria sovranità attraverso una potestas archi-
tectonica che reca con sé un aspetto coattivo nei confronti degli
individui, essendo «non ministerialem, sed supremam [...] in
omnes subditos»96. Di conseguenza, il potere civile ha pieno
diritto di intervento sui comportamenti esteriori degli uomini,
compresi quelli dei ministri della fede, nella misura in cui co-
storo appartengono al saeculum97, ma in nessun modo può
pensare di accampare pretese sulla «potestatem ad aedificatio-
nem regni Christi ad salutem hominem absolute necessa-
riam»98. Sulla base di questa distinzione, che verrà ripetuta e
formalizzata nel corso dell’intero trattato, Voetius deduce un
elenco di comportamenti legittimi o obbligatori dell’autorità
temporale nei confronti dell’organizzazione ecclesiastica; ad
esempio, per quanto riguarda la tolleranza religiosa, occorre
evitare le due posizioni estreme rappresentate dal papismo, se-

94 Su questo punto cfr. NOBBS, Theocracy and toleration, cit., p. 173, e CONRING,

Kirche und Staat, cit., p. 51.


95 Politica Ecclesiastica, cit., Pars I, Liber I, Tractatus II (De Potestate, Politia et

Canonibus Ecclesiarum), cap. I, p. 122 (tomo I).


96 Ivi, cap. II (Disceptatur de Potestate et jure Magistratus circa Sacra), p. 131.
97 Ivi, p. 132.
98 Ivi, p. 136.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 185

condo la quale «nullius religionis libertatem, praeter unius in


Republica permittendam»99, e dall’anabattismo – termine che
identifica anche i rimostranti –, che «extrema promiscue reli-
gionis, conscientiarum, et exercitiorum libertatem defendit,
omnemque Magistratum coactivam potestatem et coercitionem
absque distinctione incessere videtur»100. La giusta posizione
intermedia prevede invece che venga tollerato esclusivamente il
pluralismo religioso delle coscienze, sul quale «nulla potestas
humana, sed sola divina imperium habet» 101, mentre, per
quanto riguarda il culto esteriore, il potere del magistrato deve
applicarsi non solo ai membri della chiesa riformata che cado-
no in errore, ma anche a tutte le sette e le conventicole che si
riuniscono «extra publica templa»102. A fianco di questa richie-
sta di protezione contro la minaccia delle eresie (tra le quali
Voetius non esita a collocare anche la dottrina arminiana), e
quindi di un intervento attivo del potere politico, sta, come esi-
genza opposta ma complementare, l’opposizione a ogni inge-
renza del magistrato nell’organizzazione e nelle decisioni del
Sinodo, cioè del principale organo di autogoverno della chiesa
riformata; l’unico controllo lecito deve limitarsi a stabilire che
esso non tratti di argomenti politici, ovvero che non entri in un
ambito che non gli è proprio103. In particolare chi governa, an-
che se può e deve sorvegliare il clero nell’adempimento delle
sue funzioni, e dispone di un diritto di approvazione sull’inve-
stitura dei singoli ministri, in nessun caso è legittimato a eserci-
tare lo jus patronatus104, cioè il diritto di eleggere i funzionari
religiosi nelle diverse chiese territoriali, diritto che Voetius defi-
nisce «injustum, malum et Ecclesiis noxium»105. Tale jus (in

99 Pars I, Liber IV, Tractatus I (De Ecclesiae Libertate, Immunitate, Dignitate),

cap. II (De libertate conscientiae, et permissione religionum in Republica), pp. 385-386


(tomo II).
100 Ibid.
101 Ivi, cap. III (Disquisitio de coscientiarum libertate aut coactione), p. 401.
102 Ivi, cap. II, p. 387.
103 Pars I, Liber I, Tractatus II, cap. IV (Quaestiones aliquot particulares de Potesta-

te Magistratus circa Sacra determinantur), p. 189 (tomo I).


104 Ivi, p. 196.
105 Pars II, Liber III, Tractatus II, cap. III (Argumenta contra Jus patronatus addu-

cuntur), p. 597 (tomo III).


186 La libertà necessaria

olandese collatierecht), originato da un diritto feudale delle au-


torità secolari che non viene abbandonato nemmeno dopo il
Sinodo di Dordrecht, cioè nel momento della massima influen-
za del clero calvinista nelle Province Unite, e che d’altronde è
giustificato materialmente dal sostegno economico che lo Stato
garantisce alla chiesa riformata106, segna il punto in cui la con-
tesa tra Stato e Chiesa in Olanda raggiunge i toni più aspri, co-
sicché nell’opposizione a esso che la Politica ecclesiastica mani-
festa, argomentandola con dovizia di particolari, si esprime il
tentativo dell’ortodossia calvinista di mantenere in vita i rap-
porti di forza sanciti all’inizio del secolo, ma ormai soggetti ad
una violenta critica da parte della classe politica liberale e dai
teorici che la ispiravano. Sull’altro versante ideologico, questo
è anche il motivo per cui gli autori vicini al partito anti-orangi-
sta e alla corrente rimostrante capovolgono il rapporto istituito
da Voetius tra una Chiesa che mantiene il monopolio della po-
litica ecclesiastica e un potere secolare che, pur vedendo rico-
nosciuta la sua origine laica, trova la sua azione subordinata al
compito assegnatogli da Dio di difendere la vera fede.
Una delle opere che influiscono maggiormente sulla forma-
zione di una differente lettura dei rapporti tra politica e religio-
ne è il De imperio Summarum Potestatum circa Sacra di Grotius,
pubblicato nel 1647, ma redatto, e probabilmente fatto circola-
re negli ambienti rimostranti, almeno trent’anni prima107, il cui
carattere sistematico doveva offrire un appoggio teorico indi-
spensabile per numerosi scritti successivi. Già nel 1613 il giuri-
sta olandese aveva pubblicato un breve pamphlet, l’Ordinum
Hollandiae ac Westfrisiae pietas108, nel quale, prendendo le dife-
se del teologo Conradus Vorstius, accusato di socinianesimo,
aveva sostenuto la necessità di tollerare le opinioni religiose di-
vergenti dall’ortodossia, qualora esse non riguardassero i dogmi
fondamentali della fede109. Nel De Imperio emerge con la massi-
106 Cfr. van GELDER, Getemperde vrijheid, cit., pp. 25-32.
107 Sulle circostanze della stesura di quest’opera cfr. l’Introduzione alla traduzione
italiana parziale Il potere dell’Autorità Sovrana in ordine alla cose sacre, a cura di L. No-
centini, Edizioni del Cerro, Pisa, 1993, pp. XLI-LII.
108 Lugduni Batavorum, Ioannes Patius, 1613 (nuova edizione critica a cura di E.

Rabbie, Brill, Leiden, 1995).


109 Sul ‘caso Vorstius’ cfr., oltre all’Introduzione sopra citata, anche F. DE MICHELIS,
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 187

ma evidenza l’intenzione di collegare in una prospettiva siste-


matica la difesa della libertà religiosa con la fondazione raziona-
le di un ordine politico universale e univoco; infatti, già a parti-
re dalla definizione iniziale delle summae potestates come «per-
sona o assemblea che governi su di un popolo e che non abbia
che Dio al di sopra di sé»110, viene sottolineata la necessità che
esse si definiscano secondo un principio unitario, se non per na-
tura, quanto meno per istituzione, poiché «ciò che è ‘sommo’,
non può essere che ‘unico’»111; in tal modo l’ipotesi di un con-
trollo da parte degli Ordines nei confronti delle decisioni sovra-
ne viene esplicitamente rifiutato. Ma quello che riguarda mag-
giormente l’orizzonte dello jus circa Sacra è l’affermazione che
l’imperium dei sommi poteri si estende «non solo in ordine alle
cose profane, ma anche a quelle sacre (non tantum ad profana,
sed ad sacra quoque)»112, secondo una prassi rintracciabile nel-
l’ordinamento di numerosi paesi riformati, soprattutto nell’In-
ghilterra anglicana. La ragione del necessario interesse nei con-
fronti della religione da parte dell’autorità politica risiede nel
fatto che quest’ultima ha come scopo non semplicemente la
conservazione della vita dei suoi sudditi, bensì, anche la loro
virtù e felicità113, e, ovviamente, «anche i suoi [sc. della religio-
ne] dogmi e le pratiche di culto non sono affatto di secondaria
importanza per gli stessi costumi e per la pubblica felicità»114. A

Le origini storiche e culturali del pensiero di Ugo Grozio, La Nuova Italia, Firenze,
1967, pp. 122 sgg.
110 «Personam aut coetum cui imperium sit in populo, solius Dei imperio subdi-

tum»» (Hug. GROTII, De Imperio Summarum Potestatum circa sacra. Commentarius po-
sthumus, editio quarta, Hagae-Comitis, ex Typographia Adriani Vlacq 1661, p. 2; trad.
it. p. 13).
111 «Quod summum est, idem nisi Unum esse non potest» (ivi, p. 5; trad. it. p. 16).

MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de Spinoza, cit., p. 203, osserva che, oltre al-
l’unità e all’indivisibilità, la summa potestas per Grotius ha anche il carattere dell’uni-
versalità, consegnatole direttamente da Dio, e che quindi neppure la chiesa, avanzando
la pretesa di una propria sovranità indipendente, può toglierle.
112 De Imperio, cit., p. 4 (trad. it. p. 14).
113 «Dunque è compito dell’Autorità Sovrana non solo garantire la pace esterna del-

la società, ma anche prendersi cura della virtù (Non ergo sola pax societatis externa pro-
posita est summis potestatibus, sed et singolorum virtus)» (ivi, pp. 9-10; trad. it. p. 19).
114 «Et dogmata et ritus haud parum ad ipsos mores publicamque foelicitatem mo-

menti habent» (ivi, p. 21; trad. it. p. 28). Su questo punto cfr. LAGRÉE, Du magistère
spirituel à la medicina mentis, cit., p. 599.
188 La libertà necessaria

seguito del riconoscimento dell’inevitabile connessione tra reli-


gione e politica, Grotius passa a precisare le modalità del rap-
porto che deve intercorrere tra i due principi, esplicandolo at-
traverso la nozione di «functio indirecta», la quale soggiace al
potere dell’autorità suprema non come logica conseguenza del
suo dispiegamento («natura et ordine»), bensì in vista del man-
tenimento di un ordinamento complessivo, sociale ed economi-
co, del paese («ex solo ordine»)115. Functiones indirectae sono la
functio Medica, la functio Philosophica, l’Agricultura, la Mercatu-
ra, e anche la religione, ovviamente soltanto per quanto riguar-
da gli aspetti esteriori del culto, poiché «il potere richiede una
materia la cui natura sia conoscibile da parte di chi detenga l’au-
torità»116. Separando in modo netto l’aspetto interiore della re-
ligione, sulla quale solo Dio può legittimamente esercitare un
potere117, dalle azioni esterne, Grotius da un lato ritaglia uno
spazio di libertà nella dimensione privata di ogni individuo
(spazio che, perlaltro, nemmeno Voetius aveva negato, almeno
in linea di principio), dall’altro – e questo è il punto più impor-
tante – procede esplicitamente sulla strada di una umanizzazio-
ne degli aspetti visibili della fede, a partire dal ruolo del pastore,
più volte paragonato a quello di un medico delle anime. Una si-
mile posizione si fonda sulla novità radicale introdotta nella reli-
gione da Cristo, che, rendendo la parola di Dio comprensibile a
tutti gli uomini, ha adempiuto al desiderio mosaico che tutto il
popolo diventasse profeta118, e ha quindi destituito di fonda-
mento l’idea che potesse darsi un’elezione particolare, concessa
direttamente da Dio a un gruppo ristretto di uomini. Così ora,
essendo chiunque in grado di comprendere il messaggio divino
115 De Imperio, cit., p. 26.
116 «Imperium requirit materiam cujus natura in imperantis notitiam cadat» (ivi, p.
44; trad. it. p. 43).
117 Infatti «solo Dio è ‘conoscitore dell’animo’ e perciò è il solo che ha il potere su-

gli animi (Solus autem Deus est cardiognostes, ac proinde solus in corda imperium obti-
net)» (ibid.). L’integrazione tra le funzioni pubbliche distinte e l’assoluta unitarietà e
univocità del potere sovrano è bene evidenziata da DE MICHELIS, Le origini storiche e
culturali, cit., pp. 155-7.
118 Cfr. De Imperio, cit., p. 106 (trad. it. p. 105); ma cfr. anche pp. 74-5 (trad. it. pp.

73-4), dove si afferma che Cristo ha inverato la ‘metafora’ veterotestamentaria della


presenza di Dio nella comunità dei fedeli. Sul ‘desiderio’ mosaico di rendere l’intero
popolo d’Israele in grado di profetizzare cfr. quanto è stato detto al III capitolo, p. 137.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 189

senza la mediazione dei predicatori, anche le summae potestates


possono indirizzare autonomamente la loro azione secondo i
principi della vera religione, e riconoscere qual è il limite insu-
perabile del loro imperium: «comandare cose vietate da Dio o
vietare cose da Dio ordinate (Deo vetita jubere; Deo jussa veta-
re)»119. Tutto quello che resta indeterminato dal diritto divino
cade, senza eccezione, sotto l’ambito dello jus civile, compresa,
come è ovvio da quanto sopra ricordato, l’attività terrena della
Chiesa e dei suoi rappresentanti: così spetta ai sommi poteri
«stabilire una norma per l’elezione dei pastori, per la convoca-
zione dei sinodi, per conservare la gerarchia tra gli stessi pasto-
ri»120, in breve, controllare l’opera del ceto sacerdotale, affinché
non si incrini quell’unità dell’imperium che deve essere sempre
preservata, ma anche per tenere sempre ferma la necessità che
la Chiesa viva nella concordia e nell’armonia121. Quest’ultima
annotazione, che compare all’inizio del capitolo VI (De modo
Imperii circa sacra exercendi), apre a un’ulteriore declinazione
dei rapporti tra politica e religione: infatti Grotius, proprio per-
ché fin dal principio aveva riconosciuto l’utilità etico-politica
delle cerimonie religiose, indica ai governanti il compito di ri-
produrre, per quanto è possibile, l’ordine della Chiesa primiti-
va, che era stata veramente istituita da Cristo, e nella quale «la
moltitudine dei credenti aveva un solo cuore e una sola anima
(multitudinis credentium erat cor et anima una)»122. La natura
perfetta della comunità originaria agisce anche qui, come negli
scritti dei collegianti – anche se, ovviamente, con una finalità
ben diversa –, da modello al quale tendere, per far riemergere il
carattere partecipativo e consensuale, in una parola democrati-
co, della religione cristiana e delle sue pratiche esteriori, poiché
«nulla sarebbe più sicuro che ristabilirle così come risulta che
siano state istituite nei primi secoli dell’età apostolica, col con-

119 De Imperio, cit., p. 49 (trad. it. p. 48).


120 «Modum praescribere electioni Pastorum, habendis Synodis, ordini inter Pasto-
res servando» (ivi, p. 62; trad. it. p. 58).
121 «Colui che detiene il potere sovrano in sacra deve in definitiva avere come fine

ultimo la concordia della Chiesa (habendam inprimis concordiae Ecclesiasticae ratio-


nem)» (ivi, p. 139; trad. it. p. 137).
122 Ibid.
190 La libertà necessaria

senso unanime delle genti e con grande fervore religioso»123.


Tale conclusione si innesta su una concezione antropologica for-
temente debitrice nei confronti dell’umanesimo erasmiano e
dell’ottimismo antipredestinazionista di stampo arminiano; una
concezione strutturalmente dinamica e immanentistica, domina-
ta da quell’appetitus societatis che autonomizza la prospettiva
storica della comunità umana124. In conclusione, l’intenzione di
Grotius di porre l’organizzazione ecclesiastica sotto il controllo
del potere temporale risponde non tanto alla volontà di secola-
rizzare integralmente lo spazio dell’agire collettivo, riducendo la
religione a momento dell’individualità, quanto piuttosto a quel-
la di ricostruire la concordia universale che caratterizzava la pri-
ma Chiesa cristiana, spezzando il monopolio della casta sacer-
dotale; cosa possibile solo se è l’istituzione politica a prendersi
cura direttamente della dimensione esteriore della fede125. Inol-
tre, se può essere vero che la posizione di Grotius tende per cer-
ti aspetti all’indifferenziazione del diritto divino e del diritto ci-
vile126, non per questo il primo viene interamente assorbito nel
secondo, con il risultato di divinizzare il diritto delle summae
potestates: rimane quindi uno spazio disponibile per una rela-
zione costitutiva tra religione e politica.
La ricezione dello scritto groziano negli ambienti umanistici
olandesi ben prima dell’anno della pubblicazione è testimonia-
ta dallo scambio epistolare tra lo stesso Grotius e Gerardus Jo-
hannes Vossius (1577-1649), pastore e docente universitario
(prima a Leiden, poi ad Amsterdam), nonché autore di un’im-

123 «Nihil esset tutius quam ea restituere quae primis post Apostolos saeculis ma-

gno populorum consensu, magnoque fructu observata apparent» (ivi, p. 145; trad. it.
p. 142). CONRING, Kirche und Staat, cit., pp. 38-41, sottolinea come per Grotius la reli-
gione rimanga un problema collettivo, che riguarda l’ordine e l’armonia della società, e
non si riduca in nessun modo alla dimensione interiore della coscienza.
124 Sull’antropologia groziana spunti interessanti sono offerti da F. TODESCAN, Le

radici teologiche del giusnaturalismo laico. Vol. I: Il problema della secolarizzazione nel
pensiero giuridico di Ugo Grozio, Giuffrè, Milano, 1983, pp. 43-77.
125 Non è quindi casuale che l’opera politica di Grotius, soprattutto nella fase gio-

vanile, appaia segnata da un’intenzione democratica, che si risolve nell’esaltazione del


governo repubblicano delle Province Unite.
126 Così LAGRÉE, Du magistère spirituel à la medicina mentis, cit., p. 602. Su questo

punto cfr. anche, della stessa autrice, La raison ardente. Religion naturelle et raison au
XVIIe siècle, Vrin, Paris, 1991, pp. 227-34.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 191

ponente Historia Pelagianismi (Leiden, 1618), che mira a sca-


gionare la teologia rimostrante dall’accusa di adesione all’eresia
pelagiana127. Già nel 1614 Vossius aveva ricevuto da Grotius
una lettera che conteneva lo schema concettuale del De Impe-
rio Summarum Potestatum circa sacra, alla quale egli risponde
attraverso uno scritto molto articolato, che verrà pubblicato
soltanto postumo, nel 1669, con il titolo Dissertatio epistolica
de Jure Magistratus in rebus ecclesiasticis128, e che aderisce in li-
nea di massima alle tesi groziane: di suo l’autore vi aggiunge
un’accurata ricostruzione esegetica dei passi delle Scritture e di
altri autori accettati dal canone riformato che sostengono la ne-
cessità di affidare la gestione della religione ai detentori del po-
tere, i quali devono «Regnum Dei in Rempublicam inducen-
dum, promovendum, curandum, conservandum»129. Vossius,
forse in modo ancora più evidente di Grotius, rappresenta il
retaggio umanistico ed erasmiano sul quale si innesta il pensie-
ro rimostrante130, e da cui discende quell’irenismo che domina
le pagine del suo scritto, portandolo a percepire i dissidi esi-
stenti in seno alla chiesa calvinista come un pericolo gravissimo
per la religione, prima ancora che per l’ordine politico. Ma si
tratta di una posizione teorica che nel corso della seconda metà
del XVII secolo andrà gradualmente spegnendosi, per lasciare
il posto a teorie ben più radicali, le quali finiscono per segnare
una cesura netta, se non con l’opera groziana – che manifesta
un’originalità tale da collocarla in una posizione di transizione –,
certamente con l’erasmismo politico. A causa dell’intensificarsi
della lotta politica all’interno delle Province Unite e dell’Olan-
da in particolare, alla quale il clero ortodosso partecipa sempre
più attivamente appoggiando la fazione orangista, si fa strada
nell’ambiente intellettuale vicino ai partigiani degli Stati Gene-
rali una tendenza sempre più marcata a considerare la Chiesa
come un’associazione parziale, alla stregua delle corporazioni,
127 Su quest’opera, e più in generale sul suo autore, cfr. C.S.M. RADEMAKER, Life

and Work of Gerardus Johannes Vossius, Van Gorcum, Assen, 1981.


128 Amsterdam, Joannem Blaeu.
129 Dissertatio epistolica, cit., p. 10.
130 Così si esprime in proposito RADEMAKER, Life and Work of Gerardus Johannes

Vossius, cit., p. 142: «Erasmus influenced his religious thought and feeling more than
Luther and Calvin».
192 La libertà necessaria

la cui minaccia nei confronti dell’unità politica è ben maggiore


dell’utilità morale che può derivare da essa. Si apre così la stra-
da per lo sviluppo di una posizione radicalmente erastiana
(presente ad esempio in opere come il Grallae, attribuito all’u-
manista Salmasius, docente all’università di Leiden, o come ne-
gli scritti di Louis De Moulin131), che finisce per rendere im-
possibile l’identificazione tra la chiesa calvinista e la «vera
Chiesa» istituita da Cristo (un’identificazione che, seppure co-
me fine a cui tendere più che come realtà effettiva, è ancora
presente in Vossius e in Grotius).
Indicativo di questo mutamento di prospettiva è lo scritto
anonimo (ma composto con ogni probabilità da Johan De Wit,
cugino del Gran Pensionario d’Olanda e quasi omonimo Johan
De Witt) intitolato Public Gebedt (Preghiera pubblica), appar-
so nel 1663132; esso si scaglia contro l’usanza di numerosi pre-
dicatori calvinisti di invocare dal pulpito delle chiese la prote-
zione divina sul principe d’Orange, come se si trattasse del le-
gittimo sovrano del paese, mentre i soli detentori della sovrani-
tà sono gli Stati Generali, ai quali soltanto deve essere rivolto
tale onore, se non si vuole compiere un delitto di «Majesteits
schenderije», cioè di lesa maestà (come peraltro avevano già ri-
conosciuto gli Stati Generali, quando nel 1625 avevano proibi-
to tale rituale133). L’importanza di quest’opera va però oltre la
dimensione polemica, poiché essa contiene anche un affondo
teorico intorno alla natura della religione che mira a distingue-
re «quello che riguarda precisamente la religione, ovvero il cul-
to interiore di Dio, e quello che invece riguarda lo Stato e la
politica»134; viene così nominata quella separazione tra la di-
mensione collettiva dell’agire politico e la dimensione indivi-
duale del sentimento religioso che il De imperio Summarum Po-
testatum circa Sacra aveva invece cercato di evitare.
Nella medesima direzione della Public Gebedt, ma con mag-
131 Su questi scritti cfr. ancora NOBBS, Theocracy and toleration, cit., pp. 213-45.
132 D.H., Public Gebedt, ofte Consideratien tegens het nominatim bidden in de pu-
blique Kerken voor particuliere persoonen, en specialijken voor den jegenwoordigen Hee-
re Prince van Oranjen, Tot Amsterdam, by Cyprianus vander Gracht.
133 Cfr. ivi, pp. 9-20.
134 «Wat eigentlijk de Religie ofte innerlijke Godtsdienst, ende wat eigentlijk de

Staat en Politie raakt» (ivi, p. 22).


IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 193

giore spessore teorico, si muove lo scritto con il quale Lambert


van Velthuysen (1622-1685)135 interviene nel dibattito sullo jus
circa sacra. Medico famoso e per un decennio sindaco di
Utrecht, van Velthuysen è tra coloro che aderiscono con entu-
siasmo alla nuova filosofia cartesiana e a quello che veniva rite-
nuto il suo pendant politico, ovvero il pensiero di Thomas
Hobbes; ma egli è anche l’autore di una confutazione del TTP
che, pur contenendo certamente alcuni gravi fraintendimenti, è
comunque indice di una personalità filosofica complessa e arti-
colata. L’opera in questione reca come titolo Het predick-Ampt
en’t Recht der Kercke (Il ministero pastorale e il diritto della
Chiesa), ed è pubblicata nel 1660136; essa prende l’avvio dall’a-
nalisi storica delle vicende occorse alla religione cristiana, per
negare innanzitutto che l’auctoritas di Cristo si sia mantenuta
incorrotta anche nei suoi successori, e che quindi dopo gli apo-
stoli – che ancora risentivano dell’influenza positiva del loro
maestro – i predicatori siano stati direttamente ispirati da Dio e
abbiano goduto del dono dell’infallibilità137. Di conseguenza,
gli uomini ricevettero da Dio altri mezzi per raggiungere la sal-
vezza: innanzitutto la parola divina scritta come «regulam ac
normam fidei»138, e inoltre l’istituzione di un ceto di Doctores
Ecclesiae che reggesse la comunità visibile dei fedeli, la quale è
però semplicemente una «societas hominum»139, priva di alcun
carisma ultraterreno. Se ai primordi della storia del cristianesi-
mo questi reggitori venivano eletti dall’intera assemblea dei fe-
deli, ciò era dovuto soprattutto a una situazione eccezionale,
determinata dalle persecuzioni, e perciò non valida come rego-
la generale; così nell’Olanda contemporanea, dove l’autorità
135 Per un approfondimento della biografia di questo autore cfr. W.N.A. KLEVER,

Verba et sententiae Spinozae, or Lambertus van Velthuysen (1622-1685) on Benedictus


de Spinoza, Holland University Press, Amsterdam-Maarsen, 1991, pp. 7-19.
136 Ne esiste anche un’edizione latina, che è l’esatta traduzione dell’originale (come

conferma anche KLEVER, Verba et sententiae Spinozae, cit., p. 83), presente negli Opera
omnia, cit., vol. I, pp. 333-372 (Munus pastorale vulgo dictum concionatorum; et jus ec-
clesiae, definitum ex regulis verbi Divini, primisque Reformationis nostrae fundamentis:
contra Sententiam quorundorum Doctorum, qui Reformationem profitentur, et potesta-
tem Pastorum plus aequo extendunt). Le citazioni sono tratte da quest’ultima.
137 Cfr. ivi, pp. 335-44.
138 Ivi, p. 345.
139 Ibid.
194 La libertà necessaria

politica è ormai convertita alla vera fede, il diritto di nominare i


predicatori deve spettare ai magistrati, che detengono il potere
supremo. Il fondamento di questa affermazione viene chiarito
successivamente, quando van Velthuysen affronta l’analisi del
rapporto esistente tra status naturalis, status civilis e status reli-
gionis (quest’ultimo inteso come l’organizzazione della gerar-
chia ecclesiastica, e non come il tempo della Rivelazione); infat-
ti, essendo lo stato naturale anteriore agli altri due, l’uomo «va-
gus et errans, et ita nullis societatis legibus constrictus, jus ha-
bet colendi Deum eo modo, quem rationi et Scripturae conve-
nire putat»140, e mantiene anche il diritto di imporre il medesi-
mo culto a tutti coloro che cadono sotto il suo potere: dappri-
ma il padre ai figli, e in seguito, con la nascita dello stato civile,
il sovrano ai sudditi. La nascita dello stato civile sancisce quin-
di, nella continuità con il diritto naturale, il potere dell’autorità
temporale sul culto religioso, come necessaria soluzione del
problema dell’ordine politico: infatti, se le cose stessero diver-
samente, «in summa semper agitur incertitudine»141. A rigor di
logica, non vi è neppure lo spazio per un diritto autonomo del-
la Chiesa (jus Ecclesiae), poiché ogni atto cade sotto la giurisdi-
zione o del diritto civile dello Stato, o di quello naturale dell’in-
dividuo142: scompare così ogni riferimento alla religione come
momento costitutivo dello spazio collettivo, che ancora nel De
Imperio Summarum Potestatum circa sacra giocava un ruolo de-
terminante; per van Velthuysen invece la possibilità di istituire
un livello di comunicazione bidirezionale – che cioè non si ri-
solva interamente nel rapporto di comando-obbedienza – tra il
suddito e il sovrano tende a scomparire, o per lo meno a risol-
versi totalmente nel momento originario della costituzione del
patto sociale.
Spetterà al De Jure Ecclesiasticorum, pubblicato nel 1665 con

140 Ivi, p. 350. La coppia ratio-Scriptura è un elemento decisivo della riflessione del

cartesiano calvinista van Velthuysen. Ad ogni modo, per un approfondimento della


teoria velthuyseniana dello status naturalis cfr. H.W. BLOM, Morality and Causality in
Politics. The Rise of Naturalism in Dutch Seventeenth-Century Political Thought, CIP,
Den Haag, 1995, pp. 111 sgg.
141 Munus pastorale, cit., p. 352.
142 Cfr. ivi, pp. 365-6.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 195

luogo di edizione ed editore falsi, sotto lo pseudonimo di Lu-


cius Constans143, trarre conclusioni ancora più radicali da que-
sti presupposti. Quest’opera, la cui paternità fu attribuita, tra
gli altri, anche a Spinoza e a van Velthuysen, segna il passaggio
da un dibattito teologico-politico che rimane pur sempre entro
i limiti della religione rivelata (non a caso sia Grotius, sia van
Velthuysen si proclamano a più riprese buoni calvinisti), a uno
in cui invece il razionalismo radicale di matrice hobbesiana do-
mina la scena144. L’avvio è dato da una descrizione dello jus na-
turale individuale che sembra risentire dell’influenza del Levia-
than: l’uguaglianza e la libertà assolute sono infatti cifra di tale
diritto145, e tuttavia entrambe possono venire cedute, allorché
gli uomini, con un atto della loro volontà (facoltà che sovrain-
tende all’agire umano),
ita, una conveniant, ut omne suum quisque in se Naturale Jus et Pote-
statem vel in omnes pro indiviso simul, vel in Aliquos ex hac multitudine,
vel etiam in unum ex his hominibus qui convenerunt, transferat146.

All’atto del convenire, che esprime un accordo ancora teori-


co, fa seguito il trasferimento vero e proprio, basato su una
promessa espressamente sancita147, con la quale viene istituito
il potere sovrano, i cui detentori prendono il nome significativo
di Prodii, ossia «vicari di Dio», veri e propri «Dei mortali», per

143 Lucius Antistius COSTANS, De Jure Ecclesiasticorum Liber Singularis, Quo doce-

tur: Quodcumque Divini Humanique Iuris Ecclesiasticis tribuitur, vel ipsi sibi tribuunt,
hoc, aut falso impieque illisi tribui, aut non aliunde, quam a suis, hoc est, ejus Reipubil-
cae sive Civitatis Prodiis, in qua sunt constituti, accepisse, Alethopoli, Caium Valerium
Pennatum 1665. Ulteriori informazioni su quest’opera si possono trovare nell’Introdu-
zione alla traduzione francese, a cura di H.W. Blom e C. Lazzeri, Centre de philosophie
politique et juridique, Université de Caen, Caen, 1991.
144 Così NOBBS, Theocracy and toleration, cit., p. 245. Cfr. inoltre P. F. MOREAU,

Spinoza et le jus circa sacra, in «Studia Spinozana», I, 1985, pp. 335-43.


145 Cfr. De Jure Ecclesiasticorum, cit., cap. II (De Origine et Progressu Juris et Pote-

statis Prodeorum: Ut appareat penes eos esse omne jus et potestatem Civitatis sive Reipu-
blicae nihilque Juris aut Potestatis penes Cives esse): «Liberum enim esse nihil aliud est,
quam sui Juris et Potestatis, nulliusque alterius subjectum Juri et Potestati esse»; «Ae-
qualem esse, naturale illud in se Jus et Potestatem habere et nulla ex parte penes alium
esse» (p. 9). Giustamente J. Lagrée sottolinea come la coppia jus-potestas si differenzi
nettamente da quella jus-potentia di matrice spinoziana.
146 De Jure Ecclesiasticorum, cit., p. 11.
147 Ibid.
196 La libertà necessaria

usare la famosa espressione hobbesiana; costoro ricevono tutto


il diritto necessario «ad hoc Civile Corpus conservando tuen-
doque»148, lasciando ai sudditi soltanto la forza per difendere
la loro vita. A questo punto, per quanto tra tutti gli individui
l’uguaglianza originaria continui a sussistere – e sia anzi raffor-
zata dalla cessione del diritto e del potere personale –, l’univer-
salismo dello jus naturale risulta incrinato dal fatto che i gover-
nanti ricevono jure publico un potere incomparabilmente mag-
giore rispetto a quello di ogni altro uomo149; e lo stesso accade
per quanto concerne la libertà individuale, alla quale rimane
soltanto lo spazio interiore della coscienza, che non può essere
oggetto di alcuna cessione150. Di questa dimensione fa parte
anche la religio interna, ossia quell’aspetto della religione che si
risolve nell’adesione intima e personale a un fede; invece tutto
ciò che riguarda l’esercizio esteriore del culto, ossia la religione
che si esercita «solo corpore», rientra interamente nel novero
dei diritti dell’autorità civile151. Similmente a quanto afferma
van Velthuysen, anche per Constans le actiones ecclesiasticae, in
quanto azioni che riguardano la corporeità, toccano la sfera in-
terindividuale, e di conseguenza quell’ambito dei diritti che
ognuno ha ceduto ai magistrati politici, e pertanto possono ve-
nire istituite esclusivamente dallo jus Prodeorum. Ne consegue
che anche il «Ministerium Ecclesiasticum», ovvero la funzione
pubblica di chi è preposto al culto e alle cerimonie religiose,
essendo «ejusdem naturae et conditionis cum caeteris Ministe-
riis publicis»152, dipende assolutamente dal potere politico, e
ogni altra ipotesi sul fondamento dei privilegi ecclesiastici cor-
risponde a un atto di impietas.
I membri del clero assumono allora la carica di funzionari di

148 Ivi, p. 16.


149 Cfr. ivi, cap. III (Aequalitatem omnium hominum status Civilis constitutione in
Privatis non mutari. Et propterea omnem Inaequalitatem, quae singolorum hominum est
in statu Civili sive Civitate, a Prodiis descendere et derivari), pp. 38-51.
150 «Ea enim natura et conditione has et caeteras Animae Facultates Deus Opt.

Max. esse voluit, ut penes unum quemque [...] permanerent, non autem transferri in
alios aut deponi potest» (ivi, p. 21). Facoltà non trasferibile per eccellenza è la ratio,
che per Constans coincide con l’anima.
151 Ivi, pp. 56-8.
152 Ivi, p. 63; ma cfr. anche p. 103.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 197

Stato, ma in un’ottica differente rispetto a quella del De impe-


rio Summarum Potestatum circa sacra, poiché secondo Con-
stans il loro spazio di azione è assai più ristretto, diventando
una sorta di appendice al potere temporale153, che i predicatori
devono sostenere e rinforzare con l’ammaestramento delle
masse popolari. Mentre in Grotius la religione conserva ancora
uno statuto autonomo rispetto al potere politico, e proprio per
tale ragione può istituire con esso una relazione di collabora-
zione e di sostegno su scala quasi paritetica, nel De Jure Eccle-
siasticorum la fede religiosa è ormai irrimediabilmente scissa in
un ambito esteriore ridotto a puro instrumentum regni, e in
uno interiore che si risolve nel sentimento individuale incomu-
nicabile; cercare di far interagire questi due piani comporta
pressoché automaticamente l’accusa di lesa maestà. È chiaro
che anche per Constans, quindi, «non esistono più profeti»,
dal momento che «nulla scientia scienti et cognoscenti Juris
aliquid aut Potestatis in alios confert, aliisque praeponit»154;
ma questo significa che la volontà di Dio si esprime solo attra-
verso la mediazione della volontà dei magistrati pubblici, co-
sicché lo jus civile, inglobando in sé quello divinum, viene ora
effettivamente «divinizzato».
A partire dagli anni ‘50, quando le vicende politiche olande-
si prendono una nuova direzione, dando vita a quello che vie-
ne definito il periodo del «governo senza stadhouder»155, la
volontà della fazione anti-orangista di mantenere uno stretto
controllo sulla gerarchia ecclesiastica prevarrà sulla resistenza
del clero: infatti la quasi totale dipendenza economica della
chiesa calvinista dallo Stato finisce per determinare la subordi-
nazione di quest’ultima al potere temporale, cosicché quella
dei predicatori diventa ormai una battaglia difensiva, condotta
per salvaguardare uno spazio sempre più minacciato dall’auto-
nomia e dalla secolarizzazione del potere156. D’altra parte, a

153 Cfr. ivi, p. 110.


154 Ivi, p. 112; come Hobbes, anche Constans nega ogni valenza politica alla cono-
scenza profetica.
155 Per un approfondimento si rimanda al I capitolo della II parte.
156 Cfr. in proposito VAN GELDER, Getemperde vrijheid, cit., pp. 44-5, nonché CON-

RING, Kirche und Staat, cit., p. 191.


198 La libertà necessaria

preoccupare maggiormente le autorità cittadine e provinciali


olandesi non è tanto l’ingerenza dell’ortodossia nelle decisioni
politiche, quanto piuttosto il sostegno esplicito che gran parte
del clero offre al partito orangista, e che si concretizza nelle
violente requisitorie contro i regenten di questa o quella città,
accusati di ateismo e di libertinismo, che i predicatori condu-
cono dai loro pulpiti, incitando la massa dei credenti alla di-
sobbedienza e alla rivolta. La religione mantiene quindi una si-
gnificativa presa ideologica sulla popolazione, il che giustifica
l’insistenza con cui gli autori sopra citati, in particolare van
Velthuysen e Constans, sottolineano il carattere minaccioso
per la sopravvivenza dello Stato di una religione fuori dal con-
trollo dell’autorità politica. Resta da comprendere quale posi-
zione assuma Spinoza – il quale peraltro fin dalle prime pagine
del suo TTP riconosce tale pericolo – in questo scontro fronta-
le, che sembra non offrire alcuna possibilità di mediazione, né
permettere alcuna terza via.

4. Libertà religiosa e democrazia


Alla fine del capitolo XVIII del TTP vengono presentate
delle argomentazioni che appaiono fortemente in sintonia con
quelle di Constans. Spinoza infatti afferma che dall’analisi della
storia ebraica è possibile concludere «quanto sia pericoloso per
la religione e per lo Stato (Reipublicae) il concedere ai ministri
del culto qualche diritto di legiferare o di trattare affari del go-
verno civile»157; e inoltre «quanto sia necessario, sia per lo Sta-
to sia per la religione, di riconoscere alla suprema potestà il di-
ritto di giudicare intorno a ciò che è lecito e illecito»158. Ma è
soprattutto il capitolo successivo, che fin dal titolo dichiara di
voler prendere in considerazione il problema dello jus circa sa-
cra159, a trarre alcune conclusioni di carattere universale, nelle
quali sembrano risuonare, ancora più delle affermazioni grozia-

157 Opera, III, p. 225 (trad. it. p. 452).


158 Ivi, p. 226 (trad. it. p. 453).
159 «Si dimostra che il diritto circa gli affari ecclesiastici appartiene interamente alle

sovrane potestà e che l’esercizio esterno del culto religioso si deve adeguare alla pace
della Repubblica, se si vuole rettamente obbedire a Dio» (ivi, p. 228; trad. it. p. 461).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 199

ne, gli accesi toni polemici del De Jure Ecclesiasticorum160: vi si


legge, ad esempio che «la religione acquista valore giuridico
(vim juris) soltanto in seguito al decreto di coloro che hanno il
diritto di imperio, e che Dio non ha alcun regno particolare so-
pra gli uomini, se non per mezzo di coloro che governano»161;
oppure che l’«esercizio della pietà e del culto esterno della reli-
gione» è tutt’altra cosa rispetto alla «pietà stessa» e al «culto
interiore di Dio», poiché questi ultimi «rientrano nell’ambito
dei diritti individuali che [...] non si possono trasferire ad
altri»162. Analogamente a van Velthuysen, Spinoza sottolinea
l’anteriorità dello stato di natura rispetto allo status religionis, e
su questo principio costruisce una precisa sequenza logico-
temporale, attraverso il passaggio dallo jus naturale uniuscujus-
que, che non conosce né il peccato né la giustizia, alla vera reli-
gio rivelata da Dio, la quale tuttavia può effettivamente imporsi
agli uomini soltanto laddove venga istituito un diritto comune;
infatti
i decreti di Dio involvono un’eterna verità e una assoluta necessità, e
[...] Dio non può essere concepito come un principe o come un legislato-
re che dà leggi. Perciò i voleri divini (divina documenta), rivelati con il lu-
me naturale o profetico, non ricevono immediatamente da Dio la forza
dei comandamenti, ma necessariamente da coloro, o mediante coloro che
hanno diritto d’imperio e di comando163.

Queste conclusioni vanno lette con particolare attenzione,


anche in relazione ad altre affermazioni presenti nel TTP; così
ad esempio, ricordando la critica alla concezione antropomorfi-
ca di Dio, presente nei primi capitoli, si dovrà escludere che qui
Spinoza intenda realizzare quella divinizzazione del diritto civi-
le che è invece all’opera nello scritto di Constans: in nessun mo-
do infatti, neppure metaforicamente, le summae potestates, per
quanto detengano un assoluto jus imperandi, possono venire

160 Non a caso Droetto, nelle note alla sua traduzione, afferma che «tra il De impe-

rio del Grozio e il Trattato di Spinoza si inserisce storicamente il Leviatano di Hobbes»


(p. 475), e MOREAU, Spinoza et le jus circa sacra, cit., dichiara che «l’argumentation et le
vocabulaire spinoziste doivent aussi beaucoup au De Jure Ecclesiasticorum» (p. 339).
161 Opera, III, p. 228 (trad. it. p. 461).
162 Ivi, p. 229 (trad. it. p. 462).
163 Ivi, p. 231 (trad. it. p. 465).
200 La libertà necessaria

paragonate a «Dei mortali». Questo comunque non toglie che


anche secondo Spinoza spetti ad esse il compito di farsi «inter-
prete della religione e della pietà»164, e che «la pietà verso la pa-
tria è la più alta che un cittadino possa esercitare»165; tuttavia,
proprio perché nell’orizzonte teorico del TTP il rapporto tra
governanti e sudditi è assai più complesso e dotato di maggiore
dinamicità rispetto alla rigidità con cui viene assunto nel De Ju-
re Ecclesiasticorum, diventa impossibile ridurre il ruolo della re-
ligione all’interno della Respublica a quello di un’ideologia fun-
zionale al disciplinamento delle anime. È invece necessario par-
tire da una prospettiva differente, che tenga insieme la natura
costitutiva e aggregante della religione – la quale permane an-
che dopo la venuta di Cristo, nonostante la perdita di una visi-
bilità immediata – con l’implicita democraticità di ogni ordina-
mento politico, il cui fine ultimo è la liberazione degli individui
che lo compongono, e non il loro assoggettamento. In quest’ot-
tica, l’«alleanza» tra religione e politica deve mirare alla costitu-
zione di una comunità umana governata dall’armonia e dalla
giustizia166, come indica l’uso nel testo di un unico termine,
quello di pietas, per definire tanto l’amore verso il prossimo
quanto quello verso l’intera collettività, ossia verso la patria: si
tratta della medesima virtù, che ingloba il piano individuale
della religiosità etica in quello collettivo di una religiosità civile,
dal quale il primo trae la propria effettività e concretezza, cosic-
ché «non si può compiere verso il prossimo alcun atto di pietà
che non si risolva in empietà, se da esso abbia a derivare un
danno per tutto lo Stato (reipublicae)»167.
In realtà, se si leggono gli ultimi capitoli del TTP con la con-
sapevolezza del percorso compiuto nelle pagine precedenti – un
percorso richiamato dall’affermazione che «la salute del popo-

164 Opera, III, p. 232 (trad. it. p. 465).


165 Ibid.
166 A tale riguardo giustamente BRETON, Spinoza. Teologia e politica, cit., afferma

che «il regno di Dio non è autenticamente regno di Dio che per la mediazione del poli-
tico» (p. 225). Su questo punto cfr. anche MUGNIER-POLLET in La philosophie politique
de Spinoza, cit., p. 206.
167 Opera, III, p. 232 (trad. it. p. 466). Si veda in proposito il saggio di L.C. RICE,

Piety and Philosophical Freedom in Spinoza, in Spinoza’s Political and Theological


Thought, cit., pp. 184-205.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 201

lo è la legge suprema, alla quale devono conformarsi tutte le al-


tre leggi»168 –, non può sfuggire il filo rosso che unifica l’opera
sotto la medesima finalità, che consiste nell’eliminazione dei
tratti antipolitici delle passioni e dell’immaginazione individua-
le, a vantaggio della «pubblica utilità» da cui tutti traggono il
loro utile; ed è anche possibile cogliere lo scarto esistente ri-
spetto alle tesi dei difensori della sovranità assoluta del potere
politico in materia religiosa. Certamente Spinoza condivide
con costoro l’obiettivo polemico, ovvero il tentativo del clero
calvinista di esercitare un controllo privo di alcuna legittima-
zione sulle decisioni politiche, usando a proprio vantaggio la
superstizione popolare: è la congiuntura che spinge quindi ad
assumere le difese del principio unitario della sovranità, al fine
di impedire che l’intero edificio statale crolli in pezzi, poiché
chi «vuole sottrarre al sommo potere questa autorità [sc. intor-
no alle cose sacre], vuole distruggere l’unità dello Stato (is im-
perium dividere studet), provocando necessariamente, come
una volta tra i re e i pontefici ebrei, controversie e discordie che
non si possono mai placare»169. Tuttavia questa difesa esprime
soltanto un programma minimale, che non esaurisce il progetto
spinoziano di produrre le condizioni atte a incermentare la po-
tenza complessiva della collettività (a partire dalla potentia ima-
ginandi), incanalandola nello sviluppo democratico dell’ordina-
mento repubblicano170. Per questo, una volta sancito il mono-
polio delle summae potestates nell’ambito della legislazione reli-
giosa, rimane da sciogliere un problema ben più complesso e
decisivo, ovvero quale debba essere il contenuto effettivo di ta-
le legislazione.
Come al capitolo XVI, dove la discussione dei principi fon-
dativi dell’imperium summarum potestatum procede attraverso
il continuo rovesciamento delle tesi assolutistiche, in modo da
rivelarne l’intrinseca contraddittorietà, anche adesso Spinoza,
dopo aver ribadito più volte la necessità che il suddito si sotto-
metta alle decisioni dei governanti in materia religiosa, introdu-
168 Opera, III, p. 232 (trad. it., p. 466).
169 Ivi, p. 235 (trad. it. p. 469).
170 Su questo punto insistono con forza tanto TOSEL, Spinoza ou le crépuscule de la

servitude, cit., pp. 314-5, quanto MOREAU, Spinoza et le jus circa sacra, cit., pp. 340-1.
202 La libertà necessaria

ce una clausola che complica il quadro:


se coloro che governano volessero seguire i propri capricci (qua juvat,
ire velint), abbiano o no il diritto sulle cose sacre, ogni cosa, sia sacra che
profana, andrebbe in rovina; ma vi andrebbe assai più rapidamente, se
uomini privati (viri privati) riuscissero sediziosamente ad usurpare il di-
ritto divino171.

Se la seconda parte del brano ribadisce la necessità di non


lasciare alcun diritto della collettività – compreso lo jus divi-
num – nelle mani di viri privati, la prima parte sottolinea la pre-
senza di una nuova minaccia potenziale per l’ordine costituito
(ma in realtà si tratta di una semplice variazione rispetto alle af-
fermazioni dei capitoli XVI e XVII), quella che i detentori del-
l’imperium governino sovvertendo i principi universali di giu-
stizia e pietà, e di conseguenza spezzino l’omogeneità del con-
senso popolare. Il passaggio dalla religione ebraica a quella cri-
stiana non elimina quindi l’esigenza che l’imperium faccia rife-
rimento a quei fondamenti che costituiscono, prima e indipen-
dentemente da esso, la societas, poiché un potere soltanto coat-
tivo e non radicato nel terreno degli affetti comuni ha inevita-
bilmente una durata breve e tormentata.
Il capitolo XIX si ferma all’enunciazione del problema: toc-
ca al capitolo XX, l’ultimo del TTP, tentare di saldare l’affer-
mazione del potere assoluto anche in materia religiosa delle
summae potestates con l’origine democratica di tale potere. Già
il titolo indica la differente prospettiva assunta, dal momento
che la finalità del capitolo è di dimostrare che «in una libera
Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e di
dire quello che pensa»172; e tuttavia la libertas e la pax Reipubli-
cae nominate nel titolo del capitolo precedente non possono
essere pensate in reciproca opposizione, ma devono trovare un
principio di accordo. Pertanto l’esatta comprensione dei rap-
porti tra il potere civile e quello ecclesiasistico rimanda alla
connessione tra diritto (naturale) individuale e diritto pubbli-
co, nella forma di una rimessa in questione del rapporto tra po-
litica e libertà, che viene appunto affrontato in queste ultime
171 Opera, III, p. 236 (trad. it. p. 470).
172 Ivi, p. 239 (trad. it. p. 480).
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 203

pagine. Il testo si apre con un’ipotesi dell’irrealtà che complica


il quadro assertorio del capitolo precedente, riprendendo le
conclusioni dei capitoli XVI e XVII:
Se fosse altrettanto facile comandare alla coscienza quanto alla lingua,
ognuno regnerebbe in piena sicurezza e nessun governo degenererebbe
nella violenza, perché ognuno vivrebbe soltanto secondo le intenzioni dei
governanti e soltanto in conformità delle loro prescrizioni giudicherebbe
del vero e del falso, del bene e del male, dell’equo e dell’iniquo. Ma que-
sto [...] non può avvenire, essendo impossibile che la coscienza soggiac-
cia assolutamente all’altrui diritto173.

Il procedere del ragionamento si sposta dalla rigidità astratta


del linguaggio giuridico alla concreta dinamica delle relazioni
di potere tra governanti e sudditi, che attraversano l’imperium
rideterminandone gli assetti istituzionali. Sulla materialità di
questi rapporti e non su altro si fonda infatti lo jus-potentia di
ogni società politica, poiché
È vero che esse [sc. le supreme autorità] possono considerare come
nemici tutti coloro che non sono d’accordo con loro assolutamente su
tutto, ma qui non discutiamo del loro diritto, bensì di ciò che è utile (nos
de ipsarum jure jam non disputamus, sed de eo, quod utile est) [...]: anzi,
poiché non possono fare ciò senza grave pericolo per lo Stato intero, pos-
siamo anche negare che esse abbiano un potere assoluto (absolutam po-
tentiam) di fare queste e simili cose, e di conseguenza nemmeno un asso-
luto diritto (absolutum jus)174.

In termini assoluti – che cioè considerano l’assolutezza del


potere a partire dalla reale possibilità del suo esercizio – vi è un
limite ben preciso al diritto dei sommi poteri, determinato dal-
le conseguenze insostenibili di un regime dispotico, ossia con-
trario alla naturale libertà della maggior parte dei sudditi175. Lo
spazio di questa libertà viene ora riformulato, riconsiderando il
significato dello sdoppiamento tra interiorità ed esteriorità pre-
sentato al capitolo precedente; più che al dualismo anima-cor-
173 Ivi, p. 239 (trad. it. p. 480).
174 Ivi, p. 240 (trad. it. p. 481).
175 In tal senso J. PREPOSIET, Libéralisme et sédition. Note sur le chapitre XX du

Tractatus Theologico-politicus, in «Giornale critico della filosofia italiana», LVI, 1977,


pp. 500-5, afferma giustamente che la libertà prima ancora che politica, manifesta una
necessità ontologica.
204 La libertà necessaria

po, come in Constans, è alla distinzione tra privato e pubblico


che Spinoza fa riferimento, separando una libertà intesa come
jus agendi ex proprio decreto da una che si manifesta come jus
ratiocinandi et judicandi: alla prima l’individuo rinuncia al mo-
mento della costituzione del patto, mentre la seconda viene
mantenuta, al punto che è lecito per ognuno «pensare e giudi-
care, e quindi anche parlare, contro il loro [sc. delle autorità
sovrane] decreto»176.
Tuttavia anche la libertà di agire, la cui rinuncia si produce
soltanto nella cornice immaginaria che struttura il diritto pub-
blico, continua ad avere un significato politico, benché al di
fuori dello spazio ordinato dell’imperium, e anzi come negazio-
ne di quest’ultimo; non a caso Spinoza concepisce il diritto alla
rivoluzione come extrema ratio di fronte all’impossibilità di un
mutamento graduale delle istituzioni, pur non essendo affatto
un sostenitore degli sconvolgimenti violenti dell’ordinamento
politico177. Ma – e questo implica un nuovo scarto nel discorso
spinoziano – anche la libera espressione delle idee può essere
sovversiva, poiché vi sono infatti opinioni
che tosto che sono poste, viene annullato il patto con cui ciascuno ri-
nunziò al diritto di comportarsi secondo il proprio arbitrio. Così, per
esempio, se qualcuno pensa che la suprema potestà non sia sovrana (sum-
mam potestatem sui juris non esse) [...], e altre cose simili, che sono in di-
retta contraddizione con il patto predetto, questi è un sovversivo, e non
tanto per il giudizio che esprime e per l’opinione che professa, quanto
piuttosto per le azioni che tali giudizi involvono (propter factum, quod ta-
lia judicia involvunt)178.

Le parole e le opinioni recuperano quella «corporeità» che


l’analisi storica del linguaggio profetico e della teocrazia ebrai-

176 Opera, III, p. 241 (trad. it. p. 483).


177 Si veda in proposito la conclusione del capitolo XVIII, dove Spinoza ricostrui-
sce con estremo realismo le vicende della rivoluzione inglese e del regicidio di Carlo I
(ivi, pp. 226-7; trad. it. pp. 454-5); cfr. inoltre E. GIANCOTTI, Libertà, democrazia, rivo-
luzione in Spinoza. Appunti per una discussione, in «Giornale critico della filosofia ita-
liana», LVI, 1977, pp. 358-69, che definisce il diritto alla rivoluzione come il vero crite-
rio regolativo del patto sociale, e PREPOSIET, Libéralisme et sédition, cit.
178 Opera, III, p. 242 (trad. it. p. 484). L’essere sui juris della summa potestas ne in-

dica semplicemente l’autonomia, cioè la maggiore potenza rispetto a quella di ogni sin-
golo cittadino, piuttosto che la sovranità in senso tradizionale.
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 205

ca aveva già evidenziato, e con essa l’intrascendibilità della di-


mensione immaginativa e affettiva; il che significa che la distin-
zione tra spazio privato e dimensione pubblica – o, per meglio
dire, tra libertà di azione e libertà di parola – esprime soltanto
l’esistenza di due diversi aspetti della relazione che intercorre
tra le summae potestates e i loro sudditi: così la permanenza di
una dimensione privata dentro lo Stato indica l’incomprimibili-
tà strutturale dei diritti del singolo, che costituiscono il princi-
pale pericolo per la sopravvivenza stessa dell’imperium; mentre
la presenza di un ambito pubblico garantisce la possibilità di
una dialettica produttiva tra chi esercita il potere e chi è tenuto
sì a obbedire, ma anche nel contempo a contribuire al bene
collettivo partecipando alla libera discussione:
se qualcuno dimostra che una legge è contraria alla sana ragione e
quindi ritiene che debba essere abrogata, e insieme sottopone questo suo
parere al giudizio della somma potestà (alle quali soltanto spetta di pro-
mulgare e abrogare le leggi), è il benemerito dello Stato né più né meno
di ogni altro ottimo cittadino (ut optimus quisque civis)179.

È alla luce di questi sviluppi del testo che bisogna cogliere


l’articolazione concreta del progetto spinoziano di legislazione
in materia religiosa. Risulta evidente, infatti, che per Spinoza
non si dà libertà individuale che non si esprima anche sul ver-
sante politico, nella forma della partecipazione collettiva alle
decisioni delle autorità o, in ultima istanza, dell’opposizione ra-
dicale a esse; per questa ragione anche la libertà in materia reli-
giosa non può ridursi alla tolleranza delle diverse scelte private,
negando quella dimensione universale che è invece essenziale
al prodursi della vera religio180. La scelta di difendere esclusiva-
mente la tolleranza privata è propria del De Jure Ecclesiastico-
rum, dove assolutismo del potere e libertà religiosa possono

179 Ivi, p. 241 (trad. it. p. 483). LAGRÉE, Du magistère spirituel à la medicina mentis,

cit., afferma in proposito che «la méthode adéquate de résolution des conflits dans
l’ordre de la pensée est la méthode de la libre discussion qui rèleve d’une logique ratio-
nelle de la compréhension, et non la méthode de l’authorité qui relève d’une logique
passionelle de la domination» (p. 615).
180 Si veda in proposito l’attenta indagine – anche dal punto di vista terminologico –

di F. MIGNINI, Spinoza: oltre l’idea di tolleranza, in La tolleranza religiosa. Indagini stori-


che e riflessioni filosofiche, a cura di M. Sina, Vita e Pensiero, Milano, 1991, pp. 163-97.
206 La libertà necessaria

trovare un accordo soltanto nella misura in cui si muovano su


due piani totalmente distinti; ma una simile distinzione non
può agire all’interno dell’orizzonte concettuale del TTP. E in
effetti il capitolo XX giunge alla conclusione che, dal momento
che «la fede osservata da ciascuno verso lo Stato (fides erga
Rempublicam), come anche verso Dio, si può riconoscere sol-
tanto dalle opere, e cioè dalla carità verso il prossimo, non v’è
dubbio che uno Stato ottimamente costituito (optima respubli-
ca) conceda a ciascuno altrettanta libertà nell’esercizio della fi-
losofia quanta abbiamo visto che gliene concede in quello della
religione»181: viene così riconosciuto il principio della libera
discussione democratica come fondamento dell’esistenza del-
l’optima Respublica182.
Ma come si dispiega, nella situazione storica olandese, la
proposta spinoziana di una nuova organizzazione della religio-
ne, in grado di svolgere quella funzione di aggregazione affetti-
va e di lotta contro le passioni individualizzanti che costituisce
l’essenza della vera religio? Così come all’epoca in cui, presso
gli Ebrei, i Leviti cercarono di impossessarsi del potere, allo
stesso modo, ora che l’unità politica è minacciata dai predica-
tori ortodossi, il sentimento religioso è esposto al rischio di
esaurirsi nella superstizione, che asservisce gli animi; per poter
tornare a essere un momento imprescindibile della crescita eti-
ca e politica di un popolo, la religione deve liberarsi dal domi-
nio di un monopolio dogmatico, quale è quello che il clero cal-
vinista impone ai suoi fedeli, e tornare alla spontaneità della
Chiesa primitiva: deve cioè tornare a essere una religione libe-
ra. Ma l’unico modo per istituire una simile religione consiste
nella concessione da parte del potere politico della piena liber-
tà religiosa: infatti soltanto l’abbandono da parte di ogni auto-
rità – religiosa come politica – della pretesa di possedere un
magistero spirituale, al quale tutti devono prestare cieca obbe-
dienza183, può favorire la nascita del libero incontro degli affet-

181 Opera, III, p. 243 (trad. it. p. 485).


182 Che in queste pagine Spinoza unifichi prassi democratica del governo e libertà
politica è quanto afferma anche GIANCOTTI, La teoria dell’assolutismo in Hobbes e Spi-
noza, cit., p. 249.
183 Che la logica complessiva del discorso spinoziano non possa condurre sempli-
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 207

ti individuali e condurli verso un accordo che ne faccia emerge-


re i tratti comuni. Il compito di chi detiene la sovranità sarà al-
lora di limitare la propria attività legislativa – e quindi il pro-
prio potere coattivo – allo stretto necessario, anche perché gli
uomini «sono così fatti, che nulla tollerano con maggiore impa-
zienza quanto il veder tacciate di criminose le opinioni che cre-
dono vere, e che sia imputato loro a delitto ciò che accende in
essi la pietà verso Dio e verso gli uomini»184. Il luogo della sal-
datura tra democrazia e libertà si dà così nella pratica universa-
le della pietas – che, va ricordato, si manifesta al suo massimo
livello come pietas erga patriam –, capace di superare gradual-
mente le differenze degli ingenia individuali, piegandole al ser-
vizio del bene comune185; pietas che è ad un tempo affettività e
ragionevolezza, sentimento individuale e cupiditas universale,
laeititia del singolo e tensione verso l’emancipazione della col-
lettività186.
Il percorso che si snoda da Grotius a Constans, lungo il qua-
le la mediazione tra religione e potere tentata dal De imperio
Summarum Potestatum circa Sacra viene gradualmente abban-
donata e sostituita da una radicale secolarizzazione dei rapporti
politici, non coinvolge anche Spinoza; il TTP sceglie una strada
diversa, che interpreta il fenomeno religioso, nella sua dimen-
sione immaginaria e simbolica, come momento costituente im-
prescindibile di una comunità umana, che prima di essere ordi-
nata politicamente è già, naturalmente, attraversata da pratiche
collettive e da processi di comunicazione e di aggregazione tra
gli individui che la compongono. In questo senso, né la solu-

cemente «à laïciser le magistère spirituel pou le remettre tout entier entre les mains de
l’Etat», bensì a pensare l’istituzione di una medicina mentis, è quanto sottolinea LA-
GRÉE, Du magistère spirituel à la medicina mentis, cit., p. 621.
184 Opera, III, p. 244 (trad. it. p. 486). ma cfr. anche p. 243 (trad. it. p. 485): «colui

che tutto pretende di stabilire per legge, finirà coll’esasperare le passioni (vitia), più
che reprimerle».
185 A tale proposito R. CAILLOIS, Libéralisme et démocratie chez Spinoza, in «Gior-

nale critico della filosofia italiana», LVI, 1977, pp. 311-8, sottolinea il fatto che il libera-
lismo di Spinoza è realistico, ossia che non si fonda su una sorta di idealismo morale,
bensì sull’utilità che la libertà di espresione ha per lo Stato.
186 Sul nesso pietas-democrazia cfr. NEGRI, Reliqua desiderantur. Congettura per

una definizione del concetto di democrazia nell’ultimo Spinoza [1985], in Id., Spinoza
cit., pp. 313-42.
208 La libertà necessaria

zione «debole» di Grotius, né tantomeno la destrutturazione di


ogni relazione prepolitica operata dagli epigoni di Hobbes in
terra d’Olanda sono accolte all’interno del progetto spinozia-
no, nel quale la strenua difesa della libertà religiosa è assunta
come unica via possibile – anche se arrischiata, perché sempre
minacciata dalla possibilità di una caduta nella superstitio – a
una religione libera (allo stesso modo in cui la libertà di opinio-
ne conduce alla liberazione dell’intera collettività). In quest’ot-
tica, la difesa di una religiosità individuale autentica e parteci-
pata si salda con il rifiuto di ogni principio d’ordine precosti-
tuito; una saldatura che, come si è visto, è ampiamente presen-
te anche nei fondamenti teorici della religione collegiante pre-
senti nelle opere di Galenus e di Klinkhamer. La negazione di
un intervento divino nel mondo, vissuta però non come impos-
sibilità di salvezza, bensì come apertura di uno spazio d’azione
arrischiata, ma «non priva di speranza»; la concezione della
Chiesa come associazione interamente terrena, che si costitui-
sce attraverso la partecipazione di tutti al rito e all’interpreta-
zione della Scrittura (la profezia universale); l’assoluta ugua-
glianza tra tutti i membri della comunità ecclesiastica, che na-
sce dall’assenza di un’investitura divina e quindi dall’equidi-
stanza di ognuno dalla verità; la centralità dell’aspetto comuni-
cativo del linguaggio per saldare i legami tra i membri della co-
munità; e, soprattutto, la fiducia nelle capacità dell’uomo – di
ogni uomo – di poter riconquistare l’amore di Dio e sperare
così nella beatitudine eterna: tutti questi elementi dell’esperien-
za collegiante, che nascono all’interno di una società olandese
liberatasi dal giogo spagnolo e in un periodo di grande espan-
sione economica, trovano una chiara eco nella riflessione politi-
ca e religiosa del TTP, dove la forza degli affetti e dell’immagi-
nazione attiva, l’intrascendibilità del diritto naturale, il caratte-
re emancipatorio della libertà e dell’uguaglianza, il rifiuto di
accettare un’esistenza ridotta e depotenziata dalla paura e dalle
minacce di un potere irresistibile alimentano il sorgere di un’i-
dea della democrazia che inerisce alla natura umana con la ne-
cessità con cui da Dio seguono «infinite cose in infiniti modi».
Soltanto lungo questa strada Spinoza, che difende la propria
libertas philosophandi, e contemporanemente incrina i pregiu-
IV. Dalla teoria democratica alla lotta per la libertà 209

dizi prodotti dall’immaginazione statica attraverso la rimessa in


movimento di quella stessa immaginazione187, può incontrare
l’aspirazione del suo popolo alla pace civile, e collaborare con
esso allo sviluppo di una potenza collettiva, in grado di vincere
la forza distruttiva delle passioni: solo così, dunque, libertà po-
litica e religiosa e necessità democratica possono saldarsi in un
percorso unitario. Quali siano le tappe di questo percorso,
spetterà al TP indicarlo.

187 Molto opportunamente M. REVAULT D’ALLONES, L’imagination du politique, in

Spinoza: Puissance et ontologie. Actes du Colloque organisé par le Collège International


de Philosophie les 13, 14, 15 mai 1993 à la Sorbonne, a cura di M. Revault d’Allones e
H. Rizk, Kimé, Paris, 1994, pp. 111-125 sottolinea come la «decostruzione» del nesso
teologico-politico tradizionale da parte del filosofo permetta di ritornare al senso origi-
nario del «religioso», alla sua funzione di «principio generatore», cioè «alla verità del-
l’immaginario in atto» (citazione da p. 116).
Capitolo Quinto
ISTITUZIONI E LOTTA POLITICA NELL’OLANDA DEL XVII SECOLO

1. Il problema della sovranità nella Repubblica


delle Province Unite
Nel secolo in cui, con la crisi dell’Impero sancita dalla guer-
ra dei Trent’anni, si rafforzano le grandi monarchie nazionali,
prima fra tutte la Francia di Luigi XIV, la Repubblica delle
Province Unite conosce un’evoluzione politica ben diversa ri-
spetto alla tendenza dominante nell’Europa occidentale, dove
matura il processo di centralizzazione del potere statale e la pa-
rallela disintegrazione del pluralismo tardo-feudale. Di contro,
sul territorio dei Paesi Bassi settentrionali si sviluppa un com-
plesso intreccio di istituzioni locali, alcune retaggio dei secoli
precedenti, altre del tutto nuove, che se a un primo sguardo of-
frono l’impressione di un disordinato sistema policentrico, di
fatto riescono a operare l’una a fianco dell’altra, quando non a
interagire proficuamente. Districarsi all’interno di questa origi-
nale mescolanza di innovazione politica e di mantenimento de-
gli istituti giuridici imperiali è assai difficile, e richiede di riper-
correre la traccia delle dinamiche storiche che hanno trasfor-
mato questo paese in una delle maggiori potenze economiche
del ’600, capace di tenere testa a nazioni di ben altra dimensio-
ne e potenza militare1.

1 PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., p. 12,
osserva che a una vastississima quantità di studi sull’assolutismo politico del XVII se-
colo non corrisponde una altrettanto cospicua letteratura intorno ai regimi repubblica-
ni della prima epoca moderna in Europa. Per quanto riguarda, più in generale, lo stu-
dio del XVII secolo come periodo critico per l’assetto politico e sociale europeo, si ve-
212 La libertà necessaria

Ancora nel 1436 gli Ordini dei Paesi Bassi avevano ottenuto
la possibilità di riunirsi in Stati Provinciali e Generali e di par-
tecipare alle decisioni politiche riguardanti il loro territorio2;
parallelamente, era rimasta in vita, a fianco della carica di go-
vernatore generale inviato dal potere imperiale, quella di stad-
houder, nata nel XIV secolo come istituzione provinciale, ma in
seguito divenuta una carica elettiva, alle dirette dipendenze
dell’imperatore; una carica affidata in numerose province ai
principi d’Orange, una delle famiglie nobili più influenti3.
Queste due istituzioni, che dunque preesistono alla nascita del-
la Repubblica delle Province Unite, svolgeranno un ruolo fon-
damentale nella rivolta e, successivamente, nella costituzione
del nuovo ordine politico. Due sono gli avvenimenti cruciali
nella storia della nascita della Repubblica, in seguito allo scop-
pio della guerra degli Ottant’Anni contro la Spagna4: l’istitu-
zione dell’Unione di Utrecht e l’Atto di Abiura (Plakkaat van
Verlatinge). L’Unione nasce il 23 gennaio 1579, quando i dele-
gati delle province di Olanda, Zelanda, Utrecht e Groningen,
seguiti dopo pochi mesi da quelli delle province di Friesland e
Gelderland, ed infine anche da Willem il Taciturno, principe
d’Orange e leader carismatico della rivolta, sottoscrivono un’al-
leanza strategica, segnando una cesura tra il loro destino e

da H.R. TREVOR-ROPER, La crisi generale del XVII secolo [1959], in ID., Protestantesi-
mo e trasformazione sociale, Laterza, Bari, 1969, pp. 87-131, nonché i saggi contenuti
nel volume La crisi generale del XVII secolo [1978], a cura di G. Parker e L.M. Smith,
ECIG, Genova, 1988.
2 Cfr. C. SECRETAN, Les privilèges berceau de la liberté. La Révolte des Pays-Bas
aux sources de la pensée politique moderne (1566-1619), Vrin, Paris, 1990, p. 16.
3 Sulle origini della carica di Stadhouder, si veda H.H. ROWEN, Neither Fish nor
Fowl: The Stadholderate in the Dutch Republic, in H.H. ROWEN e A. LOSSKI, Political
Ideas and Institutions in the Dutch Republic, University of California Press, Los Ange-
les, 1982, pp. 3-31.
4 In realtà gli storici non sono concordi nell’indicare l’inizio di tale rivolta: solo
per portare alcuni esempi, G. PARKER, The Dutch Revolt, Allen Lane, London, 1977,
parla di una prima ribellione iniziata nel 1565 e poi fallita, mentre SECRETAN, Les privi-
lèges berceau de la liberté, cit., fa iniziare la lotta per l’indipendenza dal movimento ico-
noclastico del 1566; infine PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth
Century, cit., afferma che la data tradizionale del 1568 – sulla base della quale è sorta la
denominazione di guerra degli Ottant’Anni (1568-1648) – deve essere sostituita dal-
l’anno in cui insorgono definitivamente le città olandesi, il 1572; dello stesso avviso è
ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp. 169-170.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 213

quello delle province dei Paesi Bassi meridionali5. Va sottoli-


neato come tale alleanza nasca nonostante le numerose perples-
sità – esemplare quelle della provincia dell’Overjissel, che vi
aderirà solo più tardi – non tanto per la volontà di mantenere
un legame con le regioni del sud, quanto piuttosto per la paura
di un’egemonia olandese al suo interno6: in tal senso si può ben
dire che la difesa del particolarismo è iscritta nel codice geneti-
co della Repubblica. Così l’Unione di Utrecht mantiene inalte-
rata l’autonomia politica di ciascuna provincia: è la lotta di li-
berazione a fondare l’accordo, che pertanto mira a regolamen-
tare esclusivamente una politica estera comune (e soprattutto le
modalità di conduzione e di finanziamento delle operazioni
belliche), ma lascia ad ogni singola provincia il controllo pres-
soché assoluto del proprio territorio, con l’unica eccezione del-
l’ambito religioso, dove nel 1583 il calvinismo viene proclama-
to religione di Stato7.
Per tale ragione è forse più esatto cogliere l’atto inaugurale,
almeno simbolicamente, della Repubblica delle Province Unite
dei Paesi Bassi Settentrionali nella dichiarazione di indipenden-
za – o Atto di Abiura – dal dominio spagnolo con la quale, il 26
luglio del 1581, gli Stati Generali dichiarano privo di validità
l’obbligo di obbedienza nei confronti dell’imperatore Filippo II.
Si tratta di un mutamento decisivo nel significato che i rivoltosi
danno alla loro azione, originariamente sorta dalla volontà di ri-
pristinare quelle libertà (tra le quali la libertà religiosa giocava
senz’altro un ruolo di rilievo, ma non tale da monopolizzare
l’intero quadro) che il buon diritto antico garantiva, e che inve-
ce i governatori spagnoli avevano violato, tradendo il loro stesso
monarca. Fino al 1581, e certamente per molti anche negli anni
successivi, la posizione teorica dominante presso gli insorti, ri-
costruibile attraverso i numerosi pamphlet dell’epoca8, deriva
5 Cfr. ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp. 201-2.
6 Cfr. ivi, p. 204.
7 Su questo punto cfr. S.J. FOCKEMA ANDREAE, De Nederlandse staat onder de Re-
publiek, in «Vehandelinge der Koninklijke Nederlandse Akademie van Wetenschap-
pen, Afd. Letterkunde», LXVIII, 1961, pp. 3-50, nonché PARKER,The Dutch Revolt,
cit., pp. 194-5.
8 Per un utile sguardo sulla letteratura propagandistica olandese dell’epoca cfr.
P.A.M. GEURTS, De nederlandse opstand in de pamfletten 1566-1584, Centrale Drukke-
214 La libertà necessaria

dalla tradizione costituzionale del paese, quella stessa che per-


metteva agli Ordini delle province di prendere parte alla politi-
ca attiva della regione, e che si manifestava essenzialmente nella
libertà concessa dal potere centrale alle città e ai poteri territo-
riali nel campo dell’amministrazione della giustizia secolare; una
libertà che, se da un lato costituisce il diritto positivo sul quale
si fonda il governo cittadino, dall’altro è di fatto declinabile co-
me «privilegio», ovvero come la manifestazione di un legame
contrattuale tra il sovrano e i suoi sudditi9. Tale legame veniva
assunto, sulla base dei principi della letteratura politica calvini-
sta e monarcomaca (pars pro toto l’opera di Johannes Althusius,
ma anche scritti meno sistematici, come ad esempio le Vindicae
contra Tyrannos10), come elemento decisivo di quel principio di
sovranità limitata del monarca, a partire dal quale assume legit-
timità il diritto di resistenza da parte degli organi inferiori, qua-
lora il sovrano non rispetti i termini del patto che lo vincola ai
cittadini del suo regno11. Si tratta, a ben vedere, di una conce-
zione della costruzione contrattualista del potere statale ancora
fortemente connessa con le istanze del sistema feudale, che per-
tanto esprime un momento di transizione rispetto agli sviluppi
successivi del contrattualismo moderno e della conseguente teo-
ria della sovranità assoluta12.

rij, Nijmegen, 1956, nonché E.H. KOSSMANN, A.F. MELLINK, Texts Concerning the Re-
volt of the Netherlands, Cambridge University Press, Cambridge, 1974.
9 Cfr. SECRETAN, Les privilèges berceau de la liberté, cit., p. 38. Ma si vedano an-

che le pagine che J.N. Figgis dedica alla rivolta dei Paesi Bassi in Studies of Political
Thought. From Gerson to Grotius 1414-1625, Cambridge University Press, Cambridge,
1916 (I ed. 1900), pp. 218-50.
10 Sul nesso esistente tra la riflessione althusiana e lo sviluppo delle Province Uni-

te, interpretato secondo la strategia politica della casa degli Orange, insiste il testo di F.
BORKENAU, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo. La
filosofia nel periodo della manifattura [1934], Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 126-43. Per
una lettura dell’influenza delle Vindicae sull’ideologia della rivoluzione olandese si ve-
da anche R. SAAGE, Herrschaft, Toleranz, Widerstand. Studien zur politischen Theorie
der niederländischen Revolution, Suhrkamp, Frankfurt, 1981, pp. 35-8.
11 Cfr. E.H. KOSSMANN, Bodin, Althusius en Parker, of: over de moderniteit van de

nederlandse opstand, in ID., Politieke theorie en geschiedenis, Bert Bakker, Amsterdam,


1987, pp. 93-109.
12 Cfr. in proposito G. DUSO, Il governo e l’ordine delle consociazioni: la Politica di

Althusius, in Il potere, cit., pp. 77-94, da cui risulta evidente come la teoria di Althusius
si collochi ancora in un quadro dominato dai riferimenti alla tradizione politica tardo-
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 215

Con l’Atto di Abiura la struttura bipolare di questo contrat-


tualismo entra in crisi, dal momento che uno dei due sotto-
scrittori del patto, gli Stati Generali, non riconosce più l’altro,
il re di Spagna, come legittima controparte. Pertanto sostenere,
come fanno alcuni studiosi13, che il sistema politico olandese
prodottosi in seguito alla rivolta è riconducibile al sistema pre-
cedente, con la sola differenza della rimozione del sovrano,
non fa che eludere il problema, poiché la presenza del sovrano
era un elemento fondamentale di tale organizzazione, in quan-
to necessaria all’equilibrio costituzionale del paese. Dell’im-
possibilità di un mantenimento dello staus quo ante sono inve-
ce ben coscienti gli Stati Generali, che tentano a più riprese di
colmare il vuoto creatosi, cercando un nuovo attore per il ruo-
lo precedentemente detenuto da Filippo II. Si spiegano così
– oltre che come un tentativo di trovare dei potenti alleati nella
guerra contro la Spagna – le offerte al Duca d’Anjou prima, e
al Conte di Leicester poi, di assumere il governo dei Paesi Bas-
si; in entrambi i casi risulta evidente la volontà di sostituire il
monarca spagnolo, trasformatosi in tiranno, con un principe
virtuoso (punto sul quale insistono numerosi pamphlet, in-
fluenzati dall’altra grande dottrina politica protomoderna, il
neostoicismo di Justus Lipsius14) e rispettoso dei privilegi e
delle libertà degli ordinamenti regionali; tuttavia le vicende che
fanno seguito alla chiamata di Leicester del 1586 manifestano
un graduale ma decisivo mutamento del quadro teorico, testi-
moniando della nascita di un nuovo approccio al problema
della sovranità. Già in precedenza Cornelis Pietersz. Hooft
(1547-1626), borgomastro di Amsterdam e padre dello storico
Pieter Cornelisz. Hooft, si era opposto alla concessione di un
potere sovrano tanto ad Anjou quanto al principe d’Orange,
sostenendo che con l’Unione di Utrecht la sovranità del paese
era stata conferita agli Stati Generali, e che pertanto la ricerca

medievale. Sulla modernità del pensiero politico althusiano aveva invece insistito il sag-
gio di O. von GIERKE Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche
giusntauralistiche [1880], Einaudi Torino, 1974.
13 Ad esempio PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century,

cit., p. 10.
14 Cfr. VAN GELDEREN, The Political Thought of the Dutch Revolt, cit., pp. 172-4.
216 La libertà necessaria

di un nuovo re era inutile, se non addirittura dannosa, mentre


sarebbe stato necessario sviluppare un ordinamento politico di
stampo repubblicano, capace di salvaguardare il massimo gra-
do di autonomia provinciale e cittadina15; con l’arrivo di Leice-
ster e con la sua politica fortemente accentratrice e sbilanciata
in difesa dell’ortodossia calvinista – e quindi malvista da chi,
come i rappresentanti delle città olandesi, preferiva una mag-
giore tolleranza –, si apre un contenzioso tra coloro che, come
il borgomastro di Utrecht Gerard Prouninck van Deventer, in-
dividuavano in Leicester il legittimo detentore dell’autorità su-
prema, e chi invece, come gli Stati d’Olanda, riteneva che que-
st’ultimo potesse disporre soltanto di un potere conferitogli da-
gli Stati Generali, i quali così avrebbero mantenuto la loro au-
torità originaria16. A tale proposito, assume grande rilievo l’in-
tervento scritto che il Pensionario di Gouda François Vranck,
su richiesta degli Stati d’Olanda, compone per difenderne l’au-
tonomia politica: contro le tesi di Prouninck, il quale legava la
concezione calvinista della sovranità popolare alla necessità
che essa si concretizzasse in un individuo in carne ed ossa,
Vranck nella sua Corte vertoninghe (Breve esposizione)17 difen-
de la sovranità dei singoli Stati (e in particolare di quelli d’O-
landa e di Zelanda), veri detentori dell’originario potere del
popolo, al punto da identificare il popolo stesso con quei Con-
sigli cittadini (Vroedschappen) nei quali in realtà si esprimeva la
volontà del patriziato mercantile.
A fronte di un dibattito teorico vivace e costantemente ali-
mentato su entrambi i fronti – quello dei sostenitori di un pote-
re monocratico fondato sulla dottrina politica calvinista, e quel-
lo dei nuovi difensori della sovranità degli Stati Provinciali –, le

15 Tali riflessioni, espresse in particolare in due discorsi tenuti, nel 1584, davanti al

consiglio cittadino (Vroedschap) di Amsterdam, sono raccolte nelle Memoriën en Ad-


viezen, a cura di H.A.E. VAN GELDER, Werken Historisch Genootschap, Utrecht, 1925.
16 Cfr. ancora VAN GELDEREN, The Political Thought of the Dutch Revolt, cit., pp.

200-4.
17 Il titolo completo è: Corte vertoninghe van het Recht byden Ridderschap, Eede-

len, ende Steden van Hollandt ende Westvrieslant van allen ouden tijden inden voorsch-
reuen Lande ghebruyckt, tot behoudenisse vende vryheden, gherechticheden, Privilegien
ende Loffelike ghebruycken vanden selven Lande, Tot Rotterdam By Dierck Mullem
[1587].
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 217

vicende storiche di fine secolo prendono una piega ben più


netta, sancendo la centralità politica degli Stati Generali, chia-
mati dall’urgenza del conflitto a colmare quel vuoto di potere
che l’Atto di Abiura aveva prodotto. Il ruolo della guerra come
collante dell’Unione di Utrecht è decisivo, come dimostra il
fatto che, con la sospensione del conflitto determinatasi nel
1609 con la pace di Anversa, l’Unione stessa viene messa in di-
scussione, a riprova del fatto che le sette province non ricono-
scono alcuna unità originaria; il fatto che esse continuino a rife-
rirsi l’una all’altra nei documenti ufficiali con il termine di
bondgenoten (alleate) indica il carattere piuttosto limitato del
sentimento di appartenenza a una nazione comune, sentimento
che neppure gli interessi economici, peraltro non sempre omo-
genei, sono in grado di produrre.
La situazione istituzionale che viene pertanto a delinearsi al-
l’inizio del XVII secolo, e che costituirà il fondamento materiale
al quale faranno riferimento le diverse fasi del dibattito teorico e
ideologico, definisce, sebbene in una cornice fortemente pro-
blematica, il ruolo essenziale degli Stati Generali come organo
deputato all’elaborazione di una linea politica comune: essi han-
no infatti la piena responsabilità della politica estera, e quindi
della difesa del paese, della costituzione di alleanze con altri go-
verni e delle dichiarazioni di guerra18; il che implica il compito
di organizzare l’esercito, e soprattutto di rintracciare i mezzi fi-
nanziari per la sua sussistenza attraverso la richiesta di versa-
menti da parte delle diverse province. Sulla base degli accordi
sanciti dall’Unione di Utrecht, la composizione di questa assem-
blea e i meccanismi del processo decisionale evidenziano dei
chiari limiti strutturali: le delegazioni delle sette province (Gel-
derland, Zelanda, Utrecht, Overijssel, Friesland, Groningen e
Olanda), riunite in sessione permanente a L’Aia, sono tenute a
osservare strettamente le disposizioni ricevute dagli Stati Pro-
vinciali (per quanto il controllo dipenda anche dalle qualità per-
sonali dei rappresentanti), che decidono anche la composizione
e la durata dell’incarico della loro delegazione, secondo un prin-
18 Cfr. J.H. GREVER, The Making of Foreign Policy Decisions in the United Provin-

ces, 1660-1668, PhD dissertation, University of California at Los Angeles, Los Angeles,
1973, pp. 5 sgg.
218 La libertà necessaria

cipio di rappresentanza mandataria. Si aggiunga che per ogni


genere di decisione è richiesta l’unanimità dei voti (uno per ogni
delegazione, a prescindere dal numero dei suoi componenti), e
il risultato non può che esprimere una forte limitazione del po-
tere degli Stati Generali, l’opera dei quali può essere definita un
lavoro ininterrotto di mediazione tra le diverse posizioni delle
singole province, piuttosto che una effettiva e autonoma produ-
zione di decisioni politiche19. È vero tuttavia che, nella prassi, la
procedura si discosta significativamente dai principi teorici20:
più di una volta la richiesta dell’unanimità viene abbandonata,
soprattutto in casi di stringente necessità (ad esempio quando,
nel 1618, il veto dell’Olanda è scavalcato dall’intervento di
Maurits d’Orange a fianco delle altre province21), cosicché acca-
de che quasi mai una delegazione si trovi a difendere la propria
autonomia fino al punto da mettere in pericolo l’Unione, e tutte
cerchino invece in ogni modo il compromesso con le altre pro-
vince. È questa una caratteristica di importanza capitale nel gra-
duale mutamento, rispetto alla cornice stabilita dall’Unione di
Utrecht, dei processi reali di decisione politica all’interno degli
Stati Generali, che dà luogo a una quasi sistematica infrazione
delle regole stipulate, a vantaggio di un più ampio margine di
iniziativa delle singole province e delle altre istituzioni. In un si-
mile contesto, così poco rispettoso della costituzione formale,
emergono gradualmente i due protagonisti principali della lotta
per l’egemonia politica nei Paesi Bassi del XVII secolo: la pro-
vincia d’Olanda – e, al suo interno, soprattutto la città di Am-
sterdam – e i principi d’Orange, detentori quasi in ogni provin-
cia della carica di stadhouder 22. Occorre quindi cercare di com-

19 Price paragona gli Stati Generali più a una «conference of ambassadors from

separate countries than a parliament» (Holland and the Dutch Republic in the Seven-
teenth Century, cit., p. 212).
20 Su questo scostamento insiste il saggio di J.C. BOOGMAN, The Union of Utrecht:

its Genesis and Consequences, in «Bijdragen en mededelingen betreffende de geschie-


denis der Nederlanden», XCIV, 1979, pp. 377-407 [anche in ID., Van spel en spelers,
Nijhoff, Den Haag, 1982, pp. 53-82].
21 Per la descrizione di altri casi «straordinari», cfr. GREVER, The Making of Fo-

reign Policy Decisions, cit., pp. 30-4.


22 Ovviamente vi sono altre istituzioni importanti nella Repubblica, come il Consi-

glio di Stato (Raad van State), la Camera dei Conti delle Generalità (Generaliteits-Re-
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 219

prendere la natura e le articolazioni interne di entrambi, per


mettere a fuoco il significato esatto del loro scontro.
Nonostante disponga, come tutti gli altri Stati Provinciali, di
un solo voto presso gli Stati Generali, l’Olanda esercita in realtà
un potere di gran lunga superiore a quello assegnatole formal-
mente dall’Unione di Utrecht, dal momento che è la provincia
di gran lunga più popolosa e più ricca23, che contribuisce in mi-
sura nettamente superiore rispetto alle altre alla quota di finan-
ziamento della politica estera e militare della Repubblica. Una
provincia che copre oltre la metà (per la precisione, il 57,2% nel
1612 e il 58,3% nel 163424) delle necessità finanziarie del paese
– e soprattutto che paga il salario di una grande parte dell’eser-
cito – non può non pesare in modo determinante sulle scelte po-
litiche degli Stati Generali, da un lato influenzando le decisioni
delle altre delegazioni, e dall’altro potendo contare su un diritto
di veto rafforzato dalla minaccia di sospendere l’elargizione del-
la propria quota di denaro (anche se in realtà una tale minaccia
non fu mai realizzata, se non parzialmente durante la crisi del
1618-9). Il principio dell’autonomia provinciale ha quindi come
conseguenza quella di favorire il predominio olandese nella Re-
pubblica, proprio perché l’uguaglianza formale sancita dall’U-
nione di Utrecht non è in grado di proteggere le province più
deboli dalla supremazia materiale olandese, mettendo invece
l’Olanda al riparo dalla possibilità di un’alleanza degli altri Stati
contro di lei, grazie al principio dell’unanimità nelle decisioni25.
Come nelle altre province, il governo dell’Olanda è affidato

kenkamer), gli Ammiragliati (Admiraliaten), ma la struttura burocratica di questo go-


verno centrale rimane sostanzialmente snella, soprattutto se confrontata con la crescita
delle amministrazioni negli altri Stati dell’epoca. Per una più approfondita conoscenza
delle funzioni di questi uffici, si veda FOCKEMA ANDREAE, De Nederlandse staat onder
de Republiek, cit., pp. 18-34.
23 In proposito si veda lo studio di J.A. FABER Population Changes and Economic

Development in the Netherlands: A historical survey, in «Afdeling Agrarische Geschie-


denis Bijdragen», XII, 1965, pp. 47-113, nonché il più recente J.L. VAN ZANDEN, Eco-
nomic Growth in the Golden Age: the Development of the Economy of Holland, 1500-
1650, in The Dutch Economy in the Golden Age, a cura di K. Davids e L. Noordegraaf,
NEHA, Amsterdam, 1993, pp. 5-26.
24 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., pp.

235-6.
25 Cfr. in proposito ISRAEL, The Dutch Republic, cit., p. 277.
220 La libertà necessaria

agli Stati Provinciali, i quali costituiscono all’interno del siste-


ma costituzionale della Repubblica una specie di secondo livel-
lo decisionale; ma il loro peso politico è presente anche nel
funzionamento degli Stati Generali, poiché ciascuno degli Stati
Provinciali deve approvare il bilancio annuale dell’Unione,
nonché ogni richiesta speciale di sostegno finanziario, di modo
che le province controllano anche la politica estera, teorica-
mente di competenza degli organi istituzionali della Repubbli-
ca. Inoltre, dal momento che le delegazioni agli Stati Generali
sono tenute in linea di massima a rispettare il mandato degli
Stati Provinciali, il potere di questi ultimi si estende fino al li-
vello principale della politica repubblicana. Gli Stati d’Olanda
sono composti da diciannove membri: l’ordine dei Nobili (rid-
derschap) e i deputati delle diciotto città che, dopo la rivolta,
acquisiscono il diritto di voto (stemhebbende steden)26. Il peso
dell’aristocrazia ovviamente diminuisce in seguito all’aumento
delle città rappresentate negli Stati, ma non fino a scomparire
del tutto: in particolare, spetta sempre all’ordine nobiliare – in
genere al loro principale deputato, il raadpensionaris – aprire le
riunioni, presentando la materia del contendere e indicando
per primo la propria opinione27.
Le città28, nonostante la grande differenza di dimensione e
di peso economico esistente tra le sei maggiori (Dordrecht,
Haarlem, Delft, Leiden, Amsterdam e Gouda) e le altre, godo-
no tutte degli stessi diritti, esattamente come le diverse provin-
ce negli Stati Generali. Ma vi è anche un’altra somiglianza con
gli Stati Generali, poiché le delegazioni cittadine (anch’esse di
diversa composizione, a seconda delle leggi vigenti nelle singo-

26 Lo sviluppo storico degli Stati d’Olanda è descritto da J.W. KOOPMANS, De Sta-

ten van Holland en de Opstand. De ontwikkeling van hun functies en organisatie in de


periode 1544-1588, Hollandse Historische Reeks, Groningen, 1990.
27 Forse esagerando il peso carismatico della ridderschap, Israel afferma che essa

costitiuiva, insieme alla città di Amsterdam, la delegazione più influente degli Stati
d’Olanda (The Dutch Republic, cit., p. 279).
28 Sull’importanza sempre maggiore delle città nell’Europa e soprattutto nell’O-

landa del XVII secolo cfr. F. BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le
strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII) [1979], Torino, Einaudi, 1993 (I ed. 1982)
pp. 450 sgg.; in particolare, Braudel parla di una popolazione olandese urbana pari al
59% di quella totale nel 1627 (p. 454).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 221

le città) non hanno poteri plenipotenziari, ma sono strettamen-


te legate alle disposizioni ricevute, cosicchè, prima di ogni riu-
nione degli Stati Provinciali (che, diversamente dagli Stati Ge-
nerali, non sono in seduta permanente, per quanto i giorni di
riunione raggiungessero sempre i 200 all’anno29), a ogni città
viene consegnata l’agenda dei temi da discutere, ed essa può
così decidere la linea da seguire e metterne al corrente i suoi
rappresentanti. Inoltre, durante la discussione, ogni delegazio-
ne può tornare a riferire (ruggespraak) alla propria città gli
eventuali sviluppi della discussione, ricevendo nuove indicazio-
ni30. Questo stretto controllo da parte dei governi cittadini evi-
denzia la mancanza di una effettiva autonomia decisionale de-
gli Stati, i quali devono piuttosto essere considerati l’espressio-
ne istituzionale e unitaria dell’autorità politica e dell’indipen-
denza delle singole città. Sembra così ripresentarsi, a un livello
più basso, il medesimo rapporto esistente tra Stati Generali e
province: in entrambi i casi ogni membro dell’assemblea è lega-
to con un mandato specifico alle decisioni prese in altra sede,
né la legge prevede alcun sistema per obbligare giuridicamente
la provincia o la città che non intende piegarsi alle disposizioni
della maggioranza. E tuttavia, per motivi che dipendono più da
interessi materiali e da legami di natura diversa da quelli previ-
sti dalla costituzione formale, presso i partecipanti alle riunioni
degli Stati prevale la tendenza a ricercare una posizione comu-
ne sulle principali questioni, e quindi a privilegiare la ricerca
del compromesso piuttosto che lo scontro con le altre parti.
Le somiglianze tra la Repubblica nel suo complesso e l’O-
landa riguardano anche il funzionamento effettivo dei due si-
stemi politici e i rapporti di forze al loro interno. Infatti lo squi-
librio che lo strapotere economico olandese produce nell’Unio-
ne, si ripropone prazialmente all’interno dell’Olanda nel diva-
rio esistente tra Amsterdam e le altre città: una differenza di di-
mensioni e di produzione di ricchezza che il meccanismo istitu-
zionale degli Stati non può rappresentare, dal momento che es-
so prevede il medesimo unico voto presso gli Stati per ogni cit-
29 Cfr. KOOPMANS, De Staten van Holland en de Opstand, cit., p. 180.
30 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit.,
p. 126.
222 La libertà necessaria

tà, ma che si manifesta ugualmente al di fuori della cornice co-


stituzionale, attraverso la pressione che Amsterdam esercita
sulle città più piccole, nonché nel riconoscimento implicito da
parte degli altri membri del pericolo che può derivare da una
politica in contrasto con gli interessi della capitale economica
olandese. Due eventi storici confermano l’importanza di Am-
sterdam non solo all’interno dell’Olanda, ma anche per garan-
tire a quest’ultima la supremazia sulle altre province e la vitto-
ria nel conflitto con la casa d’Orange: nel 1618 l’opposizione
del governo di Amsterdam priva il Gran Pensionario Johan Ol-
denbarnevelt del supporto necessario a contrastare il colpo di
stato di Maurits d’Orange31, sancendo la disfatta del partito re-
pubblicano; mentre, al contrario, nel 1650 il tentativo di Wil-
lem II di impadronirsi del potere fallisce perché egli non riesce
a occupare di sorpresa la città olandese32.
Per quanto riguarda le istituzioni delle municipalità olande-
si, esse sono pressoché le stesse ovunque33. Il ruolo decisivo
spetta al Consiglio cittadino (chiamato vroedschap, raad, veerti-
gen o in altri modi), composto da un numero variabile – da se-
dici a quaranta – di consiglieri eletti a vita e sostituiti per coop-
tazione; un numero che però tende a ridursi in molte città nel
corso del secolo, segno visibile di un processo di sclerotizza-
zione delle classi dirigenti locali34. Ad Amsterdam il numero
dei Messieurs che compongono il Consiglio è relativamente
elevato (trentasei), tuttavia il loro potere è subordinato a quel-
lo dell’Oudraad (Consiglio degli anziani), che rappresenta un

31 Intorno agli ultimi giorni di Oldenbarnevelt cfr. J. DEN TEX, Le Procès d’Olden-

barnevelt (1618-1619): fut-il un meurtre judiciaire?, in «Tijdschrift voor Rechtgeschie-


denis», XXII, 1954, pp. 137-68. Dello stesso autore, esiste una monografia di ampissi-
mo respiro sulla figura dell’uomo politico olandese (Oldenbarnevelt, 5 voll., Tjeenk
Willink, Haarlem, 1960-1972).
32 Cfr. H.H. ROWEN, The Revolution that wasn’t: the Coup d’État of 1650 in Hol-

land, in Id., The Rhyme and Reason of Politics in Early Modern Europe. Collected Es-
says of Herbert H. Rowen, Kluwer, Dordrecht-Boston-London, 1992, pp. 63-81.
33 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., pp.

19-31, nonché, per Amsterdam, MÉCHOULAN, Amsterdam au temps de Spinoza, cit., pp.
43-72.
34 Su questo aspetto di degenerazione oligarchica insiste, tra gli altri, P. GEYL, The

Netherlands in the Seventeenth Century. Part Two 1648-1715, Barnes & Noble, Lon-
don-New York, 1964, pp. 199-202.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 223

numero estremamente limitato di famiglie. Tutti i membri del


patriziato urbano si riconoscono nel governo cittadino (e da
questo dipende il nome di regenten che essi assumono), ten-
dendo a costituire un numero chiuso che esclude da ogni re-
sponsabilità politica i nuovi ricchi35; non è casuale che i mag-
giori cambiamenti all’interno della classe dirigente derivino
dall’intervento autoritario dello stadhouder, carica tenuta dai
principi d’Orange, che in due momenti critici per la sopravvi-
venza dell’Unione (nel 1618 e nel 1672) attuano un wetsverzet-
ting (letteralmente, un «mutamento della legge»), ovvero una
radicale sostituzione non solo dei magistrati, ma anche dei
membri dei Consigli cittadini.
La natura della carica di stadhouder fornisce un altro esem-
pio dell’originalità del sistema politico che viene formandosi
nei Paesi Bassi dopo l’indipendenza dalla Spagna. Lo stadhou-
der (la cui traduzione approssimativa potrebbe essere «luogote-
nente»), che prima della rivolta svolgeva la funzione di rappre-
sentare la Corona nelle diverse province, dopo l’Unione di
Utrecht passa sotto il diretto controllo degli Stati, assumendo
la posizione formale di loro funzionario36; tuttavia, ancora una
volta, nella pratica il comportamento e le funzioni non corri-
spondono che parzialmente allo status giuridico, dal momento
che egli, fin dai primi anni della Repubblica, assume una posi-
zione di potere di gran lunga superiore a quella determinata
dal suo ruolo costituzionale. Questo è in parte dovuto al fatto
che, dopo Willem il Taciturno, in quasi tutte le province quella
di stadhouder diventa una sorta di carica ereditaria dei principi
35 Anche se MÉCHOULAN, Amsterdam au temps de Spinoza, cit., p. 61, cita il caso
di alcuni «uomini nuovi» giunti ad assumere cariche importanti nel governo di Amster-
dam, si tratta più di un’eccezione alla regola diffusa che di un mutamento dei costumi
durante il secolo. C. SECRETAN, La victoire des régents: argent et liberté, in Amsterdam
XVIIe siècle, cit., pp. 19-41, afferma che «les régentes ne sont pas loin d’exercer une
sorte de dictature, dictature, il va sans dire, tout à fait légitime aux yeux de ces précur-
seurs du libéralisme économique qui, dès la fin du XVIe siècle, avaient imaginé de faire
rimer ‘richesse’ avec ‘compétence’» (p. 39).
36 Questo giustificherebbe l’affermazione di H. SCHILLING, Der libertär-radikale

Republikanismus der höllandischen Regenten. Ein Beitrag zur Geschichte des politischen
Radikalismus in den frühen Neuzeit, in «Geschichte und Gesellschaft», X, 1984, pp.
498-533, secondo la quale l’ufficio dello stadhouder sarebbe un relitto prerivoluziona-
rio nella amministrazione delle province (cfr. p. 503).
224 La libertà necessaria

d’Orange37, membri di una famiglia la cui popolarità si era raf-


forzata enormemente durante la lotta per l’indipendenza; ma,
al di là dell’importanza di questa dinastia nella storia dei Paesi
Bassi, è la struttura politica dell’Unione a richiedere un potere
forte unificante, che agisca come contrappeso alle tendenze
disgregatrici prodotte dalla vasta autonomia di cui godono le
province e le città. I compiti dello stadhouder nelle diverse
province sono simili ma non identici; in Olanda, ad esempio,
egli tiene la presidenza della Corte (la suprema istanza legale,
incaricata di risolvere i conflitti giurisdizionali delle città, an-
che se con scarsi risultati), ha accesso alle riunioni degli Stati in
qualità di membro della rappresentanza nobiliare, ed è respon-
sabile del mantenimento dell’ordine pubblico, oltre che – cosa
molto importante, soprattutto dal punto di vista simbolico –
della salvaguardia della religione riformata38. Inoltre egli di-
spone della facoltà di nominare alcune importanti magistrature
cittadine, scegliendo da una lista composta dal Consiglio; un
incarico che gli concede un potere potenzialmente molto este-
so, qualora lo stadhouder si dimostri capace di influenzare con
il suo carisma i membri dei Consigli. È proprio grazie alle ca-
pacità personali (e anche allo scollamento del fronte avversa-
rio), infatti, che nel 1618 Maurits d’Orange riuscirà a risolvere
a suo favore lo scontro con Johan Oldenbarnevelt, rappresen-
tante del partito che sosteneva la sovranità esclusiva dei singoli
Stati Provinciali – in particolare di quello d’Olanda – rispetto
agli Stati Generali39.
Ma la carica di stadhouder non è l’unica a concedere un così
ampio margine di manovra al suo detentore: quasi simmetrica è
quella di raadpensionaris («Grande Pensionario»), in funzione
presso gli Stati d’Olanda. Anche quest’ultima ha una storia

37 Cfr. in proposito le tabelle presenti in ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp. 302
e 304.
38 Si vedano le pagine dedicate alle funzioni dello stadhouder da FOCKEMA AN-
DREAE, De Nederlandse staat onder de Republiek, cit., pp. 6-11, il quale sottolinea come
un particolare diritto – simile a quello dei sovrani – di cui godeva tale carica fosse quel-
lo di poter concedere la grazia ai condannati, anche se limitato a determinate circostan-
ze (cfr. p. 7).
39 Per un resoconto dettagliato dei fatti cfr. ISRAEL, The Dutch Republic, cit., pp.

433-49.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 225

particolare, essendo in origine una sorta di consulenza legale


dell’ordine nobiliare, divenuta in seguito un incarico stipendia-
to dagli Stati, e quindi giuridicamente sottoposto a essi40. I
compiti del raadpensionaris si possono suddividere in due am-
biti, riguardanti rispettivamente l’organizzazione delle riunioni
degli Stati d’Olanda e le relazioni con gli Stati Generali; nel
primo caso si tratta di organizzare l’agenda della discussione,
dare l’avvio al dibattito, riassumere di volta in volta gli inter-
venti ed infine formulare le conclusioni, redigendo formalmen-
te il contenuto della seduta41; inoltre il Pensionario è membro
del gecommitterde raden, un comitato in seduta permanente
con compiti principalmente amministrativi, di carattere legale e
finanziario, e sotto il diretto controllo delle città, ed è eletto in
tutti i principali organi istituzionali, dove ha la possibilità di
esercitare un’influenza ancora maggiore che nelle sedute degli
Stati. Oltre a questo, egli opera come una sorta di ministro de-
gli esteri della provincia – pur in assenza di un incarico istitu-
zionalmente definito –, mantenendo le relazioni con gli altri
Stati Provinciali e con gli Stati Generali: non solo partecipa alle
riunioni da una posizione di prestigio all’interno della delega-
zione olandese, ma anche e soprattutto riceve e sbriga la corri-
spondenza degli ambasciatori della Repubblica con l’Olanda,
venendo così a conoscenza prima di ogni altro degli eventi e
delle decisioni politiche dell’Unione. La somma di queste fun-
zioni, ma soprattutto l’ampio spazio operativo concesso dall’in-
determinatezza delle leggi, fanno del raadpensionaris il «natura-
le» leader politico olandese, assegnandogli nel contempo, sulla
base del peso dell’Olanda all’interno delle Province Unite, un
ruolo di rilievo anche nelle istituzioni della Repubblica, benché
egli rimanga pur sempre, dal punto di vista formale, un dipen-

40 A tale proposito H.H. ROWEN, John de Witt: The Makeshift Executive in a

«Ständestaat», in ID., The Rhyme and Reason of Politics in Early Modern Europe, cit.,
pp. 99-107, paragona il ruolo del raadpensionaris – in particolare durante il periodo di
Johan De Witt – a quello di Mazarino nella Francia di Luigi XIV, definendolo come la
posizione di un servitore il cui compito era di comandare (cfr. p.103).
41 GREVER, The Making of Foreign Policy Decisions in the United Provinces, 1660-

1668, cit., p. 113, ricorda come, durante il periodo compreso tra il 1653 ed il 1668 –
uno dei più agitati del ventennio di «governo senza stadhouder» – furono redatte
22191 pagine di risoluzioni conclusive delle sedute degli Stati d’Olanda.
226 La libertà necessaria

dente degli Stati d’Olanda, dai quali è nominato e stipendia-


to42. Quindi, tanto nel caso dello stadhouder, quanto in quello
del raadpensionaris, la regolamentazione legislativa, risultato di
continue modificazioni e stratificazioni, contribuisce, più che a
circoscrivere le loro prerogative in una cornice istituzionale sta-
bile, a valorizzarne gli aspetti procedurali, lasciando ampio spa-
zio all’iniziativa dei singoli e alla dialettica tra i diversi organi-
smi politici; così il paradosso rilevato a proposito della carica di
stadhouder, che, pur costituzionalmente alle dipendenze degli
Stati Provinciali, in situazioni eccezionali si dimostra non solo
indipendente, ma anzi superiore a essi – al punto da poterne
modificare la composizione –, si ripropone anche per quella di
raadpensionaris, che, per tutto il periodo in cui è tenuta da Jo-
han De Witt, rappresenta il centro di maggior potere nella Re-
pubblica delle Province Unite, grazie soprattutto alla sostanzia-
le libertà d’azione che permette di mediare tra i diversi interes-
si in gioco.
È evidente perciò che nella Repubblica costituitasi dall’U-
nione di Utrecht non è individuabile alcun soggetto unitario in
grado di detenere stabilmente la sovranità del paese, garanten-
do in modo definitivo l’efficacia della norma giuridica fonda-
mentale43. Di certo il principio sovrano – nel significato specifi-
co che il termine viene ad assumere a partire dalla riflessione di
Bodin, all’inizio dell’epoca moderna44 – non è localizzabile ne-
42 Sui diversi ruoli del raadpensionaris, e sulla loro diversa gestione da parte di Jo-
han De Witt, cfr. ROWEN, John de Witt: The Makeshift Executive in a «Ständestaat» cit.,
p. 103.
43 Nessuno, insomma, per usare la famosa definizione di Carl Schmitt, è in grado

di «decidere sullo stato di eccezione» (cfr. C. SCHMITT, Teologia politica. Quattro capi-
toli sulla dottrina della sovranità [1922], in ID., Le categorie del «politico», Il Mulino,
Bologna, 1972, pp. 27-86; citazione da p. 33). Intorno al problema della sovranità alla
nascita della Repubblica dei Paesi Bassi si vedano anche SAAGE Herrschaft, Toleranz,
Widerstand, cit., pp. 91-4 e 102-5, e E.H. KOSSMANN, Volksouvereiniteit aan het begin
van het nederlandse Ancien Regime, in «Bijdragen en Mededelingen betreffende de
Geschiedenis der Nederlanden», XCV, 1980, pp. 1-34.
44 Cfr. ancora SCHMITT, Teologia politica, cit., pp. 35 sgg. Inoltre per un’analisi

teorica della mutazione del concetto di sovranità all’inizio dell’età moderna, e in parti-
colare del passaggio dalla teoria calvinista a quella bodiniana e poi hobbesiana, cfr. la
voce Herrschaft in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-so-
zialen Sprache in Deutschland, a cura di O. Brunner, W. Conze e R. Koselleck, vol. III,
Klett, Stuttgart, 1982, soprattutto le pp. 23-33.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 227

gli Stati Generali, costituiti da una pluralità di membri dipen-


denti dal mandato ricevuto dalle loro province, e quindi sotto-
messi a decisioni politiche prese in altra sede; ma neppure gli
Stati Provinciali, che pure mantengono pienamente la loro au-
tonomia decisionale nell’assemblea dell’Unione, esprimono
quell’elemento originario da cui scaturisce l’ordine politico, dal
momento che il loro funzionamento si basa sull’imperatività
del mandato dei delegati cittadini. Non regge quindi la tesi,
avanzata da alcuni storici, secondo la quale la Repubblica dei
Paesi Bassi sarebbe uno Ständestaat – in cui gli Stati sono dun-
que detentori della sovranità –, con la sola anomalia della pre-
senza dell’ufficio dello stadhouder e del peso politico della casa
d’Orange45. Va invece valutata con maggiore attenzione l’ipote-
si di una sovranità collocata nei governi urbani46, per la quale
ciascuna città poteva rinsaldare, attraverso l’indipendenza poli-
tica, i fondamenti materiali della propria potenza economica;
tuttavia, se è vero che l’autonomia delle città olandesi è la diret-
ta conseguenza di quella difesa delle libertà o dei privilegi tar-
domedievali che aveva dato il via alla rivolta contro la Spagna,
d’altra parte vi sono altri attori sulla scena che giocano un ruo-
lo altrettanto importante, spesso influenzando in misura decisi-
va la politica cittadina; la qual cosa è possibile grazie alla liber-
tà che un panorama costituzionale così articolato concede a un
processo di rimodellamento continuo dei rapporti istituzionali.
Conseguentemente, da un lato si sviluppa una dialettica perma-
nente tra i diversi poteri, in rappresentanza delle forze econo-
miche e sociali che definiscono l’articolazione materiale della
Repubblica; dall’altro emerge la volontà di assorbire tale dina-
mica in un processo di costituzionalizzazione sempre in atto,

45 Cfr. ROWEN, John de Witt: The Makeshift Executive in a «Ständestaat», cit., p.

101; ma lo stesso autore si rende ben conto delle difficoltà di una simile interpretazio-
ne, sottolineando come le relazioni di potere tra gli Stati Generali e quelli Provinciali
rimanessero largamente indefinite (cfr. ibid.).
46 Cfr. SECRETAN, La victoire des régents: argent et liberté, cit.: «la constitution des

Pays-Bas revenait à établir purement et simplement le primat des souverainetés urbai-


nes» (p. 35); e PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit.:
«in a very real sense sovereignity lay not so much with the States of Holland themsel-
ves, but in effect with the governments of the voting towns collectively; although the
towns were not individually sovereign, their governments together were» (p. 12).
228 La libertà necessaria

nel tentativo di impedire che essa si trasformi in conflitto aper-


to; operazione che avrà successo nella prima metà del secolo
(eccezion fatta per lo scontro tra Oldenbarnevelt e Maurits
d’Orange nel 1618), ma che entrerà in crisi nel 1651, con la
convocazione della Grote Vergadering («Grande Assemblea»),
vera e propria costituente voluta dall’Olanda per imporre pe-
rentoriamente la propria leadership sulle altre province, san-
cendo l’inizio di quel «periodo senza stadhouder» che rappre-
senta forse il ventennio più esaltante del Secolo d’oro47. Non
bisogna comunque dimenticare come, dentro questa cornice
costituzionale «sfrangiata», e a fianco dello scontro tra il parti-
to olandese degli staatsgezinden, difensore della sovranità pro-
vinciale, e quello orangista o dei prinsgezinden («sostenitori del
principe» d’Orange)48, giochino un ruolo tutt’altro che secon-
dario le altre province, che anzi finiranno per svolgere la fun-
zione di ago della bilancia, prendendo di volta in volta le parti
dell’uno o dell’altro contendente; infatti, dal momento che lo
sviluppo economico delle sette province è tutt’altro che omo-
geneo, e anzi esistono forti differenze tra l’Olanda e il resto del
paese, con l’unica parziale eccezione della Zelanda, ovviamente
anche i gruppi dirigenti non sono tutti omologabili con quello
dei regenten delle città olandesi, essendo portatori di interessi
politici ed economici fondamentalmente differenti.
In conclusione, la peculiarità costituzionale della Repubblica
delle Province Unite è determinata dal fatto che in essa rimane
sospeso quel processo storico di produzione di un soggetto so-
vrano unitario che negli stessi anni veniva realizzandosi in altri
paesi europei: dall’Unione di Utrecht scaturisce soltanto una
decisione politica «debole», che istituisce una sorta di cornice
formale, all’interno della quale i momenti procedurali conce-
dono ai diversi attori politici un ampio margine di autonomia.

47 Questo è il giudizio di P. GEYL, The Netherlands in the Seventeenth Century.

Part Two (1648-1715), cit., pp. 19-25; invece PRICE, Holland and the Dutch Republic in
the Seventeenth Century, cit., ritiene piuttosto che la Grote Vergadering «symbolizes the
acceptance by Holland of the necessity of the Union» (p. 288).
48 In realtà entrambi i partiti – in particolare quello olandese – sono attraversati

da fazioni e contrapposizioni spesso assai violente, come sottolinea BLOM, Morality and
Causality in Politics, cit., p. 41.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 229

Non si deve però leggere questa situazione come il sintomo di


una debolezza strutturale, poiché essa esprime anche il tentativo
– più o meno consapevole, ma certo potenzialmente efficace –
di risolvere la plurivocità e la polarizzazione delle forze in cam-
po attraverso un processo ininterrotto di costituzionalizzazio-
ne. Né va dimenticato come, nel corso del secolo, l’esito di
questo tentativo permetta alla Repubblica di godere di uno svi-
luppo economico senza precedenti, che ne fa il paese più ricco
dell’intero continente49. Il «modello» applicato nei Paesi Bassi
è dunque in grado di garantire, attraverso la sua apertura costi-
tuzionale arrischiata allo svolgersi dei processi materiali, un al-
tissimo livello di competitività economica50; se infatti si consi-
derano le caratteristiche dell’amministrazione decentralizzata,
ad esempio nel campo del drenaggio fiscale o della politica mo-
netaria, risulta evidente che tale struttura politica offre le più
ampie possibilità al perseguimento degli interessi della classe
mercantile, interessi che vengono di fatto identificati con il be-
nessere della Provincia d’Olanda (e conseguentemente dell’in-
tera Repubblica) dalla gran parte degli scrittori vicini al partito
degli staatsgezinden.
A una situazione istituzionale così complessa e originale non
corrisponde, almeno nella prima metà del secolo, una adeguata
consapevolezza dei mutamenti in atto da parte dei teorici poli-
tici della Repubblica; è evidente la difficoltà, soprattutto nel-
l’ambito degli studi accademici, dove l’indagine politica è se-
gnata da un costante riferimento alla tradizione calvinista o al
neostoicismo lipsiano, di trovare un nuovo paradigma concet-
tuale capace di leggere quanto sta avvenendo sul piano costitu-
zionale. Soltanto dopo la metà del secolo, e in ambito non ac-

49 Cfr. SWART, The Miracle of the Dutch Republic as seen in the Seventeenth Cen-

tury, cit. Ma si veda anche l’interesante saggio di S. MASTELLONE, I repubblicani del Sei-
cento ed il modello politico olandese, in «Il pensiero politico», XVIII, 1985, pp. 145-63,
dove viene sottolineato il carattere paradigmatico dell’Olanda per i teorici della Re-
pubblica Napoletana.
50 Cfr. ‘T HART, Freedom and Restrictions, cit. Più in generale, sulla supremazia

commerciale delle Province Unite nel XVII secolo, cfr. J.I. ISRAEL, Dutch Primacy in
World Trade 1585-1740, Oxford University Press, Oxford, 1989, e per la situazione di
Amsterdam in particolare, V. BARBOUR, Capitalism in Amsterdam in the 17th Century
[1950], University of Michigan Press, Ann Arbor, 1963.
230 La libertà necessaria

cademico, apparirà un nuovo approccio teorico, legato indisso-


lubilmente agli slittamenti dello scontro politico e ideologico,
cui corrisponderà il tentativo di modificare radicalmente il
quadro costituzionale.

2. Lo scontro ideologico in Olanda nella seconda metà


del ’600
Il pensiero politico olandese subisce, nel corso del XVII se-
colo, una serie di trasformazioni che, se da un lato testimoniano
della grande vitalità culturale del paese, dall’altro indicano tutte
le difficoltà della teoria a restare al passo con i mutamenti isti-
tuzionali e politici. Si è già detto di come la lotta per l’indipen-
denza contro Filippo II avesse condotto, sul piano dell’elabora-
zione teorica, a un approfondimento dell’analisi del concetto di
libertà, nella duplice valenza di libertà politica e di libertà reli-
giosa51; in particolare, all’interno di un orizzonte originaria-
mente dominato dall’influenza del pensiero monarcomaco ugo-
notto e dal riferimento ripetuto al contrattualismo althusiano o
al complementare neostoicismo di Lipsius, emergono alcuni
scritti che sottolineano il nesso costitutivo esistente tra la libertà
dei cittadini e la loro virtù civica, la quale può svilupparsi sol-
tanto in assenza dell’istituzione monarchica. Paradigmatiche so-
no le anonime Considerations d’estat sur le traicté de la paix, che
accusano il governo monocratico di tendere a degenerare in ti-
rannide, propendendo per forme di imperium mixtum, che me-
scolino tratti aristocratici e democratici. Ancora più esplicita è
la propensione antimonarchica di Cornelis Pietersz. Hooft, de-
ciso sostenitore dell’autonomia provinciale e municipale – di
cui resta traccia in un famoso elogio alla città di Amsterdam –,
e conseguentemente di un regime nel quale detengano le redini
del potere i più ricchi e i migliori tra i cittadini52.
51 Cfr. van GELDEREN, The Political Thought of the Dutch Revolt, cit., pp. 260 sgg.
52 Cfr. H.A.E. VAN GELDER, De lebensbeschouwing van Cornelis Pieterszoon Hooft,
burgemeester van Amsterdam, H&S, Utrecht, 1982, pp. 133 sgg., nonché, per un inqua-
dramento più ampio, N. MOUT, Ideales Muster oder erfundene Eigenart. Republikani-
sche Theorien während der niederländischen Aufstands, in Republiken und Republikani-
smus im Europa der Frühen Neuzeit, a cura di H.G. Königsberger, Oldenburg Verlag,
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 231

Si tratta comunque di interventi che, oltre ad essere forte-


mente minoritari, appaiono legati alla contingenza dello scon-
tro politico più che alla volontà di ripensare a fondo la prospet-
tiva teorica sulla quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo si-
stema costituzionale; per scorgere i prodromi di un mutamento
della concettualità politica nelle Province Unite è necessario fa-
re riferimento all’opera giovanile di Hugo Grotius, in partico-
lare ai suoi scritti storici, nei quali compaiono i tratti fonda-
mentali di una riflessione sul significato del governo repubbli-
cano. Il riferimento è alla triade composta dal De republica
emendanda, dal Parallelon rerumpublicarum e, soprattutto, dal
De antiquitate reipublicae batavae, opere scritte tra la fine del
XVI e l’inizio del XVII secolo, ciascuna delle quali offre un
contributo rilevante alla definizione della forma politica repub-
blicana che, secondo il giurista olandese, avrebbe dovuto costi-
tuire il modello per l’organizzazione istituzionale del suo paese.
Se i primi due testi, che rimasero inediti mentre Grotius era in
vita53, non incidono in modo significativo sul dibattito dell’e-
poca, ben altra risonanza ha il De antiquitate, pubblicato nel
1610 contemporaneamente in latino e in olandese54; prenden-
do lo spunto da una ricostruzione storica degli usi del popolo
batavo, considerato l’antenato degli attuali abitanti dei Paesi
Bassi, Grotius esalta la superiorità della respublica optimatum
sulle altre forme politiche, dal momento che essa riesce a tem-
perare gli eccessi del regnum con quelli, opposti, dell’imperium
multitudinis, conservando al tempo stesso i pregi di entrambi,
ovvero la maiestas del primo e l’aequalis libertas del secondo55.

München, 1988, pp. 169-94. In generale, sui primi scritti antimonarchici nella Repub-
blica delle Province Unite cfr. anche il mio articolo Assolutismo e libertà. L’orizzonte re-
pubblicano nel pensiero politico olandese del XVII secolo, in «Filosofia Politica», XII,
1998, pp. 67-85, e la bibliografia in esso citata.
53 Per ulteriori informazioni bibliografiche sul De republica emendanda cfr. la nota

67 del capitolo III; sul Parallelon Rerurmpublicarum, di cui è stato pubblicato soltanto
il II libro, cfr. KOSSMANN, In praise of the Dutch Republic: some seventeenth-century at-
titudes, in ID., Politieke theorie en geschiedenis, cit., pp. 161-75.
54 TUCK, Philosophy and Government, cit., definisce lo scritto di Grotius come

«the first fully persuasive account of Germanic republicanism to be readily available»


(p. 165). Sul De antiquitate cfr. anche CONTI, Consociatio civitatum, cit., pp. 7-23.
55 Cfr. Liber de Antiquitate Reipublicae Batavicae, auctore Hugone Grotio, Frisici,
232 La libertà necessaria

A ben vedere, si tratta delle due caratteristiche essenziali alla


formazione di un nuovo ordinamento politico capace di ripro-
durre ex novo un principio sovrano stabilmente riconoscibile,
senza tuttavia che questo conduca alla perdita di quella libertà
in nome della quale era iniziata la rivolta. Per quanto lo scritto
groziano, più che a entrare nel merito dell’articolazione di que-
sto regime, preferisca usare il riferimento alla respublica Batavi-
ca come supporto ideologico per la rivendicazione dell’eccel-
lenza del governo aristocratico, determinando così la nascita di
quel «mito batavo» che riemergerà nei momenti più critici del-
la storia dei Paesi Bassi fino alla metà del secolo XX56, tuttavia
esso contiene un dato teorico nuovo rispetto alla produzione
pamphletistica di quegli anni, ossia lo slittamento da una con-
cezione della libertà come privilegio sancito dal patto tra il so-
vrano e i suoi sudditi, a una in cui essa si manifesta come dirit-
to naturale di un popolo a darsi autonomamente un’organizza-
zione politica; in tal senso l’aequum foedus che i Batavi strinse-
ro con i Romani, tale per cui «populus uterque sui juris
manet»57, equivale a un trattato di alleanza tra due poteri so-
vrani, piuttosto che a un patto di sottomissione. Di conseguen-
za, muta anche la valutazione della causa del conflitto tra gli
Stati Generali e il re di Spagna: Filippo II, infatti, non è colpe-
vole di aver tradito l’accordo con gli Ordini territoriali delle
Province Unite, bensì di aver voluto imporre la propria volontà
a un organismo autonomo e sovrano, erede di quella libertà
originaria che i Batavi avevano difeso per quasi duemila anni58:
«Batavi per annos plures mille septigentis [...] eadem usos re-
publica, cuius summa potestas penes Ordines fuerit»59.
La riflessione groziana apre quindi un nuovo scenario, che si
sgancia dalla consuetudine del riferimento alla tradizione mo-
narcomaca – comunque tutt’altro che esaurita, e anzi ancora in
Hollandici, Zelandici et Westfrisici advocato, Lugduni Batavorum, Officina Plantiniana
Raphelengij, 1610, pp. 3-4.
56 Una breve storia dei suoi primi passi è in I. SCHÖFFER, The Batavian Myth du-

ring the Sixteenth and Seventeenth Centuries, in Britain and the Netherlands, a cura di
J.S. Bromley e E.H. Kossmann, vol. V, Nijhoff, Den Haag, 1975, pp. 78-101.
57 De Antiquitate, p. 16.
58 Cfr. ivi, pp. 44-9.
59 Ivi, p. 52.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 233

auge negli ambienti accademici –, per indirizzarsi alla ricerca di


un diverso modo di concepire la genesi dell’ordine politico e la
sua articolazione interna, più in sintonia con i mutamenti costi-
tuzionali sopravvenuti nella Repubblica delle Province Unite.
A questa altezza si inserisce, intorno alla metà del secolo, un ul-
teriore elemento di complicazione del quadro teorico, determi-
nato dalla ricezione in terra olandese dell’opera di Thomas
Hobbes. Infatti la traduzione del De Cive prima, e del Levia-
than poi, sono accompagnate da una cospicua produzione di
scritti confutatori da un lato, e apologetici dall’altro60: sul pri-
mo versante si collocano per lo più le dissertazioni di docenti
universitari, che vedono nell’opera dell’inglese un violento sov-
vertimento dei principi naturali della politica e, con essi, della
morale e della religione; pars pro toto le Vindiciae pro lege et im-
perio61 di Gisbertus Cocquius (1630-1708), professore all’uni-
versità di Utrecht, opera nella quale Hobbes viene accomunato
al vituperato Machiavelli nell’accusa di voler sottomettere sen-
za riserve i sudditi al sovrano62. In difesa dell’opera hobbesiana
intervengono invece gli epigoni della nova philosophia cartesia-
na, sostenitori in politica del partito degli Stati: ad esempio il
già citato Lambert van Velthuysen scrive nel 1651 una Epistoli-
ca Dissertatio de Principiis Justi, et Decori, continens Apologiam
pro tractatu clarissimi Hobbaei De Cive63, cercando un punto di
convergenza tra l’antropologia hobbesiana e la dottrina cristia-
na64. In realtà, al di là dei tentativi di mediazione, la scoperta
della filosofia politica di Hobbes destruttura l’assetto concet-
tuale preesistente, operando sul piano teorico un rivolgimento
simile a quello prodotto dall’Unione di Utrecht sul versante
istituzionale, nel senso che tutte le categorie etico-politiche tra-

60 Cfr. SECRETAN, La réception de Hobbes aux Pays-Bas au XVIIe siècle, cit.


61 Il titolo completo è: Vindiciae pro Lege et Imperio: sive Dissertationes duae, qua-
rum una est de Lege in Communi, altera de Exemptione Principis a Lege, institutae potis-
simum contra tractatum Hobbi de Cive, Authore M. Gisberto Cockio, Ultrajecti, Ex Of-
ficina Jacobi a Doeyenburgh, Anno 1661.
62 Cfr. Vindiciae, cit., p. 21.
63 Amsterodami, apud Ludovicum Elzevirum, 1651 (anche in ID., Opera omnia,

Roterdami, Typis Reineri Leers 1680, 2 voll., vol. II, pp. 955-1012, dove però i riferi-
menti espliciti ad Hobbes scompaiono).
64 Cfr. in proposito BLOM, Morality and Causality in Politics, cit., pp. 108 sgg.
234 La libertà necessaria

dizionali vengono rimesse in questione. Tale esito emerge poi


con la massima evidenza negli scritti dei fratelli Johan e Pieter
De la Court (rispettivamente 1622-1660 e 1618-1685), dove
l’antifinalismo hobbesiano, assunto nella sua radicale alterità ri-
spetto all’orizzonte gerarchico di stampo aristotelico, sul quale
si radica la politica althusiana e la sua ricezione in terra olande-
se, conduce alla genesi di una riflessione politica interamente
sganciata dalla dimensione etico-religiosa65. Si apre così anche
sul versante teorico uno iato profondo tra i due partiti politici
in lotta, poiché, mentre l’intellettualità legata al partito degli
Staatsgezinden dimostra un chiaro interesse per la novità dell’o-
pera di Hobbes, di contro i teorici della fazione orangista resta-
no in massima parte legati a una rielaborazione, per quanto
non priva di originalità, dell’apparato categoriale aristotelico-
althusiano o neostoico-lipsiano.
Questa divaricazione è ovviamente indice di una frattura in-
sanabile, generata da una profonda diversità di giudizio sulle
trasformazioni in atto nelle Province Unite, non solo in relazio-
ne agli equilibri istituzionali, ma anche intorno gli interessi ma-
teriali del paese. La crisi decisiva tra i due partiti esplode nel
1650, quando lo stadhouder Willem II d’Orange, abbandonan-
do la strategia di compromesso del suo predecessore Frederik
Hendrik66, tenta di forzare a proprio vantaggio l’instabile equi-
librio esistente all’interno della Repubblica, contando sulle di-
visioni presenti tra le città olandesi; tuttavia la morte prematu-
ra, avvenuta il 6 novembre di quello stesso anno, gli impedisce
di consolidare i risultati del suo colpo di stato, aprendo la stra-
da a un capovolgimento dei rapporti di forza, a tutto vantaggio
di quella Provincia d’Olanda che Willem II aveva tentato di
porre sotto il proprio controllo. È l’inizio del periodo del «go-
verno senza stadhouder», durante il quale i regenten olandesi
65 Cfr. ad esempio H.W. BLOM, Political Science in the Golden Age. Criticism, Hi-

story and Theory in Dutch Seventeenth Century political Thought, in «Nederlands Jour-
nal of Sociology», XV, 1979, pp. 47-71.
66 Non a caso Geyl definisce Willem II, forse forzando un po’ l’interpetazione, co-

me «the exponent of the monarchical principle which was then prevailing all over the
continent: centralising and militaristic, no longer leaning on the nobility as an indipen-
dent power, but using it all the more ad an instrument and for its own more resplendent
lustre» (The Netherlands in the Seventeenth Century. Part Two (1648-1715), cit., p. 18).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 235

ottengono la piena autonomia nella gestione politica e ammini-


strativa delle loro città, e a livello nazionale emerge la figura del
raadpensionaris degli Stati d’Olanda Johan De Witt (1625-
1672). Tuttavia anche per questo periodo non è possibile parla-
re della costituzione di un blocco omogeneo, portatore di inte-
ressi comuni all’intera aristocrazia mercantile olandese: tra i
governanti delle diverse città, ma anche tra quelli di una mede-
sima vroedschap, esistono infatti differenze che, se non danno
vita a vere e proprie contrapposizioni ideologiche, sono co-
munque causa di forti rivalità e di una permanente competizio-
ne per il potere da parte delle principali famiglie cittadine67.
Questi gruppi oligarchici trovano un instabile accordo soltanto
allorché si tratta di bloccare il tentativo di un singolo individuo
di concentrare tutto il potere nelle proprie mani, come dimo-
strerà l’opposizione del patriziato di Amsterdam durante la cri-
si della fine degli anni ’60 alla politica di De Witt, divenuto lea-
der incontrastato della provincia d’Olanda. Non solo, ma la di-
stanza ideologica tra staatsgezinden e prinsgezinden viene spes-
so stemperata sul piano dell’amministrazione quotidiana, e tal-
volta anche superata per far fronte alle rivalità interne, cosicché
città importanti come Leiden ed Haarlem vengono governate,
per alcuni anni, da un ceto politico favorevole allo stadhouder.
Ad ogni modo, i membri dei governi cittadini condividono i
medesimi principi di etica sociale e gli stessi desiderata politici:
nel primo campo il valore morale del successo materiale e della
ricchezza acquisita attraverso il lavoro, nonché una moderata
tendenza al consumo e all’ostentazione della ricchezza (nono-
stante il cliché della presunta austerità olandese68), aspetti che

67 Cfr. in proposito D.J. ROORDA, Partij en factie. De oproeren van 1672 in de ste-

den van Holland en Zeeland, een krachtmeting tussen partijen en facties, Noordhof,
Groningen, 1961, e S. GROENVELD, Holland, das Haus Oranien und die anderen nord-
niederländischen Provinzen im 17. Jahrhundert. Neue Wege zur Faktionsforschung, in
«Reinische Vierteljahrsblätter», LIII, 1989, pp. 92-116, nonché, dello stesso autore,
Evidente factiën in den staet: Social-politieke verhoudingen in de 17e-eeuwse Republiek
der Vereenigde Nederlanden, Uitgeverij Verloren, Hilversum, 1990.
68 Schama si è preoccupato di smitizzare il quadro tradizionale, effetto di una rica-

duta sul piano del senso comune delle tesi weberiane sull’origine del capitalismo, che
voleva gli Olandesi i borghesi più avari d’Europa (cfr. The Embarrassament of Riches,
cit., pp. 294-328).
236 La libertà necessaria

indicano il graduale distanziamento dalla Weltanschaaung feu-


dale e la creazione di una coscienza autonoma da parte del ceto
imprenditoriale cittadino69; nel secondo campo, quello degli
ideali politici, l’amore per la pace, l’isolazionismo, e soprattutto
la grande enfasi sull’importanza della libertà per il benessere
della comunità; non è un caso che la strategia politica di De
Witt e dei suoi seguaci venga pubblicizzata sotto lo slogan di
«dottrina della Vera Libertà (Ware Vrijheid)».
Esiste quindi un chiaro nesso tra la nascita di una concezio-
ne individualistica della società, frutto dei successi in campo
economico (di cui è indice lo scritto celebrativo di Caspar Ber-
laeus, Mercator Sapiens, pronunciato ad Amsterdam nel 1632),
e la crescita, da Grotius in poi, di un interesse teorico rivolto
alla riformulazione di un concetto di libertà che, superando la
retorica della difesa dei privilegi municipali di inizio secolo, si
evolve verso una maggiore attenzione per l’iniziativa individua-
le, tanto in campo imprenditoriale quanto in quello religioso (e
per taluni scrittori anche in quello politico, con la richiesta di
una più ampia partecipazione dei cittadini al governo urbano).
In quello che può essere considerato il manifesto programmati-
co della politica dewittiana e del partito della Vera Libertà,
l’Aanwysing der heilsame politike gronden en maximen van de
Republike van Holland en West-Vriesland (Indicazione dei
principi e delle massime politiche vantaggiose per la Repubbli-
ca d’Olanda e di West-Vriesland)70, Pieter De la Court riassu-
me l’interesse principale dell’Olanda in due punti: 1) conserva-
re il regime repubblicano, che permette alle città di arricchirsi,
favorendo «la fioritura della manifattura, della pesca, della na-

69 Ad esempio K. HECKER, Gesellschaftliche Wirklichkeit und Vernunft in der Philo-

sophie Spinozas, Kommissionsverlag Buchhandlung Pustet, Regensburg, 1975, insiste in


modo eccessivo sulla distanza tra il sistema dei valori feudale e quello dei regenten, per
quanto tale distanza sia percepita anche dai commentatori dell’epoca (cfr. pp. 88-93).
70 Tot Leiden-Rotterdam By Hakkens, Anno 1669. Si tratta dell’edizione riveduta

ed ampliata dello scritto Interest van Holland, ofte gronden van Hollands-Welvaren, By
V.D.H. [DE LA COURT], Amsterdam, J.C. van der Gracht 1662, composto probabilmen-
te dal fratello Johan, ma lasciato incompiuto a causa della sua morte, avvenuta nel 1660.
Per ulteriori notizie su questi due scritti, cfr. I.W. WILDENBERG, Johan en Pieter De la
Court (1622-1660 en 1618-1685). Bibliografie en receptiegeschiedenis. Gids tot de studie
van een oeuvre, Holland University Press, Amsterdam-Maarsen, 1986, pp. 16 sgg.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 237

vigazione e del commercio (het bloeyen der Manifacturen; Visse-


rijen, Navigatie en Negotien)»71, mentre ogni regime monarchi-
co si dimostra incapace di garantire il benessere dei suoi cittadi-
ni; 2) tollerare la convivenza pacifica delle diverse confessioni
religiose, che è «il mezzo più potente per mantenere in Olanda
molti abitanti, e per attirare a vivere cittadini stranieri dai paesi
confinanti (het kragtigste middel, om in Holland veele Inwoo-
nenders te behouden, ende vremde Ingeseetenen uit de omleggen-
de Landen herwaars ten woone te trekken)»72; dove l’incremen-
to della popolazione è percepito, secondo i principi mercantili-
stici dell’epoca, come fattore produttivo di sviluppo economi-
co. I referenti polemici di questa dottrina sono, con tutta evi-
denza, la politica espansionistica del casato d’Orange, che met-
te in pericolo il pacifico sviluppo delle attività commerciali, e,
sul versante religioso, il progetto egemonico del clero calvinista
ortodosso, anch’esso pericoloso per i delicati equilibri econo-
mici. È sulla base di questi principi che, dopo la crisi del 1650,
gli esponenti più radicali del partito degli Stati mettono in di-
scussione la legittimità e, soprattutto, l’utilità della carica di
stadhouder73, ritenendola una minaccia per la stabilità politica
della Repubblica. Si tratta di un giudizio che trova un impor-
tante sostegno teorico nella dottrina grotiana dell’unità e asso-
lutezza del potere sovrano, espressa negli anni precedenti dal
De Imperio Summarum Potestatum circa sacra: «imperium...
quod summum est, idem nisi Unum esse non potest»74, da cui
consegue la necessità che unico sia il suo detentore («sed non
necesse unum natura: sufficit enim si sit unum instituto»75). E
a Grotius fa riferimento, implicito o esplicito, la gran parte de-
gli scritti che pone a tema il nesso tra libertà individuale e asso-
lutezza del potere, ad esempio l’opera di Johan De Witt dal ti-
tolo Deductie ofte Declaratie van de Staten van Hollandt ende
71 Aanwysing, cit., p. 7.
72 Ivi, p. 59.
73 Assai numerosa è la letteratura polemica nei confronti della funzione di stad-

houder durante il decennio 1650-1660, come dimostra GEYL, Het stadhouderschap in


de partij-literatur onder De Witt, in «Mededelingen der Koninklijke Nederlandsche
Akademie van Wetenschappen, Afd. Letterkunde», X, 1947, n. 2.
74 De Imperio Summarum Potestatum circa sacra, cit., p. 5.
75 Ivi, p. 3.
238 La libertà necessaria

West-Vrieslandt (Deduzione o dichiarazione degli Stati d’Olanda


e di West-Vriesland)76, composta per difendere il diritto di cia-
scuna provincia a una politica estera autonoma: De Witt parla di
una «sovranità assoluta (absolute Souveraineteyt)» e di un «pote-
re illimitato (onbepaelde Macht)» degli Stati Provinciali – in par-
ticolare di quelli d’Olanda77 –, sostenendo inoltre l’illegittimità
della pretesa di accedere per diritto di nascita alle alte cariche
dello Stato78, cui va contrapposta la piena uguaglianza di tutti i
cittadini e la loro libertà di partecipare alla gestione della cosa
pubblica. Contrapposta alla posizione della Deductie è quella di
un pamphlet anonimo, comparso alcuni anni prima, dal titolo
Het recht der souverainiteyt van Hollant (Il diritto della sovranità
d’Olanda)79, che sostiene la sovranità degli Stati Generali – e
conseguentemente il ruolo indispensabile dello stadhouder –, di-
chiarando illegittima la tesi di chi attribuisce all’Olanda un pote-
re sovrano. Ancora più netta è la posizione di un altro scritto
anonimo, apparso nel 1669, l’Apologie, tegens de algemeene, en
onbepaelde vryheyd, voor de oude Hollandsche regeeringe (Apo-
logia contro la libertà universale e illimitata del governo dell’an-
tica Olanda)80, il quale afferma, in esplicita contrapposizione ai

76 Deductie, ofte Declaratie van de Staten van Hollandt ende West-Vrieslandt; behe-

felsende een waerachtich, ende grondich bericht van de Fondamenten der Regieringe van-
de vrye vereenichde Nederlanden; ende specilick van ‘t recht competerende de respective
Staten vande geunieerde provincien yder apart, soo ten reguarde van saecken op andere
rijcken, republicquen, staten, ende landen reflectie hebbende..., In’s Gravenhage, By de
Weduve, ende Ersgename van wylen Hillebrandt Jacobsz. van Wouw, anno 1654.
77 Ivi, p. 9.
78 Cfr. ivi, p. 40.
79 Il titolo completo è: Het recht der souverainiteyt van Hollant, ende daer teghens

de wel-ghefundeerde redenen by de Heeren Staten Generael, zijn Hoocheyt, ende de Raet


van Staten, tot wederlegginge vande Hollandtsche souveriniteyt, wanneer de Unie by een
particuliere provincie is gecontravenieert, 1650. In generale, per una panoramica sulla
letteratura pamphletistica dell’epoca risulta assai utile la Bibliography of Dutch Seven-
teenth Century Political Thought. An Annotated Inventory, 1581-1710, a cura di G.O.
Van de Klashorst, H.W. Blom, E.O.G. Haitsma Mulier, Holland University Press, Am-
sterdam-Maarsen, 1986.
80 Titolo completo: Apologie, tegens de algemeene, en onbepaelde vryheyd, voor de

oude Hollandsche regeeringe, waer inne klaerlijck werd aengewesen, dat Holland van ha-
re eerste beginselen af onder het beleyd van de Hooge Overigheyt successivelijck is gere-
geert geworden by Personagien van Illustre qualiteyt, en eminente Hoogheyt, tot Middel-
burg door Karel de Vrye, Anno 1669.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 239

principi teorici della Ware Vrijheid dewittiana, che «la libertà


universale e illimitata è massimamente dannosa sia per l’autorità
che per i sudditi (Algemeene en Onbepaelde Vryheyt beyde voor
Overheyt en Onderdanen ten hoogsten schadelijck is)»81; inoltre,
rileggendo la storia olandese, l’autore capovolge le conclusioni
del De antiquitate groziano, mostrando come sia lo stadhouder, e
non gli Stati Generali e Provinciali, a rappresentare la continuità
con le istituzioni del popolo batavo82.
Questi esempi testimoniano di una radicalizzazione dello
scontro ideologico, che aumenta con la ricezione di Hobbes al-
l’interno del dibattito olandese, dal momento che essa contri-
buisce a eliminare ogni spazio di mediazione intorno al ruolo
dello stadhouder nella costituzione della Repubblica83. Le nuo-
ve posizioni ideologiche assunte dai due partiti rendono impos-
sibile il mantenimento di quell’equilibrio tra gli Stati d’Olanda
e il principe d’Orange che bene o male aveva resistito nella pri-
ma parte del secolo. Così nel 1654 Olanda e Inghilterra stipula-
no autonomamente un Atto di Esclusione, che impedisce ai
membri della famiglia d’Orange di diventare stadhouder olan-
desi: in tal modo l’Olanda intende affermare la piena sovranità
degli Stati Provinciali, e per questo sarà accusata dal partito av-
verso di aver tradito il patto federale con le altre province. A
confermare il nesso tra gli sviluppi della letteratura pamphleti-
stica e le decisioni politiche va ricordato che il sottotitolo della
Deductie di De Witt afferma proprio il diritto di ciascuno Stato
provinciale di «trattare ciascuno individualmente, di problemi
riguardanti altri imperi, repubbliche, stati e paesi»84.
Da parte loro, nel corso del secolo gli scrittori che sostengo-
no la casa d’Orange non solo ne esaltano il ruolo decisivo nella
storia delle Province Unite (come nel caso dell’Apologie sopra

81 Ivi, p. 3.
82 Cfr. ivi, pp. 12-42 e 56-79.
83 A tale proposito H.H. Rowen, nella sua prima biografia su De Witt, osserva co-

me, a partire dagli anni ’50, la discussione teorica su chi fosse il legittimo detentore del-
la sovranità nella Repubblica diviene un dialogo tra sordi (cfr. John de Witt, Grand pen-
sionary of Holland, 1625-1677, Princeton University Press, Princeton, 1978, p. 385).
Dello stesso autore si veda anche il più recente e sintetico John de Witt. Statesman of
the «True Freedom», Cambridge University Press, Cambridge, 1986.
84 Deductie, ofte Declaratie, cit.
240 La libertà necessaria

citata), ma intervengono anche nel dibattito costituzionale, ri-


vendicando la natura originaria di imperium mixtum della Re-
pubblica; ed è sulla base di questa rivendicazione, le cui radici
teoriche sono rintracciabili nella tradizione aristotelica-polibia-
na recuperata dalla riflessione politica delle Università di Lei-
den e di Utrecht85, che diventa possibile sostenere l’inelimina-
bilità della carica di stadhouder, poiché in essa è rappresentato
quell’elemento monarchico, senza il quale la struttura tripartita
dell’imperium viene a cadere. Per quanto riguarda invece la lot-
ta politica, i principi d’Orange perseguono la strategia di rom-
pere l’unità del partito avverso e di guadagnare consensi nelle
città aventi diritto di voto negli Stati Provinciali, facendo leva
sulle divisioni esistenti tra le fazioni cittadine. Un importante
sostegno a questo progetto proviene dall’ampio potere che la
carica di stadhouder offre a chi sappia gestire le relazioni infor-
mali: un potere ben rappresentato dal diritto di patronato, che
permette a un individuo capace di creare una rete di funzionari
di fiducia, e quindi di esercitare una vasta influenza all’interno
di numerose istituzioni della provincia (il che si realizza nelle
province interne, dove per lunghi periodi il principe d’Orange
controlla quasi interamente il voto dei rappresentanti agli Stati
Generali). D’altra parte questa prerogativa, proprio perché di-
pendente dalla personalità dell’individuo che detiene la carica,
viene esercitata in maniera del tutto differente dai diversi stad-
houder: ad esempio, mentre Frederik Hendrik riesce a mante-
nere salda la propria autorità attraverso un’abile tattica di com-
promessi e di parziali concessioni agli Stati Provinciali, suo fi-
glio Willem II tenta di forzare questo equilibrio, arrivando ra-
pidamente allo scontro aperto, che per la sua morte improvvisa
condurrà alla vittoria dell’Olanda e alla parziale abolizione del-
la carica di stadhouder. Un’altra importante carica tradizional-
mente nelle mani del principe d’Orange è il comando dell’eser-
cito e della flotta militare, che costituisce un evidente strumen-
to dissuasivo nei confronti delle aspirazioni autonomiste unila-
terali delle province. Anche la composizione quasi esclusiva-
85 Sul recupero della concezione dell’imperium mixtum in terra olandese nel corso

del XVII secolo cfr. E.H. KOSSMANN, Politieke theorie in het zeventiende-eeuwse Ne-
derland, Noord Hollandsche Uitgevers Maatschappij, Amsterdam, 1960, pp. 7 sgg.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 241

mente mercenaria delle milizie può essere considerata una car-


ta a favore del loro comandante, al quale soltanto esse sono te-
nute a obbedire; tuttavia si tratta di un’arma a doppio taglio,
poiché il pagamento dell’esercito è effettuato per la massima
parte dalla provincia d’Olanda, che è quindi in grado di porre
ostacoli insormontabili a imprese contrarie ai propri interessi.
Comunque le numerose vittorie ottenute sul campo di battaglia
sia da Willem il Taciturno durante la rivolta contro gli Asbur-
go, sia dai suoi successori – soprattutto Maurits e Frederik
Hendrik – nella continuazione della guerra, contribuiscono a
rafforzare il carisma dell’autorità della famiglia d’Orange, al
punto che alcuni storici hanno parlato di una scissione all’in-
terno delle Province Unite tra sovranità e autorità, tale per cui
agli Stati Generali, detentori della sovranità, si contrapporreb-
be l’autorità di tipo carismatico della famiglia d’Orange, forte-
mente sentita tra le fasce più basse della popolazione86. Questa
tesi è interessante perché individua la presenza di un legame
molto stretto tra il popolo e la famiglia d’Orange, costruito sul-
la partecipazione emotiva e sull’identificazione simbolica e
quasi mitica, al quale il partito degli Stati tenta di contrappor-
re, ma con minore efficacia, il mito repubblicano del popolo
batavo. A consolidare il carisma del principe gioca anche il fat-
tore religioso, determinato dal ruolo di difensore della vera fe-
de attribuito allo stadhouder dalla chiesa calvinista del paese.
Infatti la chiesa riformata delle Province Unite, che fin dagli
inizi della rivolta contro la Spagna cattolica aveva assunto la
funzione di rapresentare l’unità nazionale, attraverso l’alleanza
con il partito orangista fa dei principi i campioni del protestan-
tesimo ortodosso, contro l’idolatria papista come contro ogni
tendenza ereticheggiante interna; il che contribuisce a raffor-
zarne l’immagine presso il ceto urbano, in gran parte calvinista,
in opposizione alla classe dei regenten, considerata troppo tol-
lerante verso le altre professioni religiose. È significativo il pa-
ragone, espresso da un predicatore calvinista nel 1672, di Wil-
lelm III con Mosè che abbatte il vitello d’oro – raffigurante il
86 Cfr. O. MÖRKE, Souveränität und Autorität. Zur Rolle des Hofes in der Republik

der Vereinigten Niederlande in der ersten Hälfte des 17. Jahrhunderts, in «Reinische
Vierteljahrsblätter», LIII, 1989, pp. 117-39, in particolare pp. 117-8.
242 La libertà necessaria

potere di Johan De Witt87. D’altra parte le autorità olandesi, in


particolare quelle cittadine, non mancano di intervenire con
provvedimenti di sospensione nei confronti dei predicatori
troppo zelanti verso la casa degli Orange; il caso della proibi-
zione di nominare i principi nelle preghiere durante il periodo
del «governo senza stadhouder», espresso nel già citato Public
Gebedt del cugino di Johan De Witt, è un segnale del conflitto
strisciante tra le gerarchie ecclesiastiche e i regenten88, che na-
sce proprio dalla minaccia, percepita dalle autorità politiche, di
un indebolimento del loro potere da parte del clero calvinista.
Nonostante i politici repubblicani tendano a mostrare mag-
giore simpatia per l’eterodossia rimostrante, più elastica in ma-
teria di tolleranza e più disponibile a non interferire nelle deci-
sioni del potere politico, il calvinismo ortodosso mantiene co-
munque il suo bacino di fedeli nel ceto medio delle città olan-
desi89, benché nemmeno quest’ultimo costituisca un gruppo re-
ligiosamente omogeneo, per la presenza di minoranze non tra-
scurabili di mennoniti e anche di cattolici. L’ortodossia attechi-
sce presso i piccoli produttori e gli artigiani, come presso i lavo-
ratori salariati delle corporazioni, producendo la piattaforma
ideologica di un movimento popolare filo-orangista90. I motivi
di risentimento di questo ampio strato della cittadinanza nei
confronti dei regenten sono numerosi: in primo luogo l’eccessi-
va dipendenza dallo sviluppo dell’economia commerciale e fi-
nanziaria, che spesso confligge con la difesa dei privilegi corpo-
rativi, ma anche la subordinazione politica all’oligarchia muni-
cipale, che detiene pressoché tutte le leve del potere, con l’ecce-
87 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit.,
p. 188.
88 Cfr. VAN GELDER, Getemperde vrijheid, cit., pp. 35-38.
89 Il termine che definisce questa fascia sociale è quello di ghemeynte (nell’olandese
moderno gemeente, cioè «popolo»), che, seppure con diverse sfumature nei vari autori,
sembra indicare per lo più una sorta di terzo stato nascente, che si contrappone alla no-
biltà, ma anche alla classe dei regenten, detentori dell’egemonia politica ed economia;
cfr. in proposito SECRETAN, Les privilèges, berceau de la liberté, cit., p. 68. Rowen tende
invece ad ampliare ulteriormente il quadro sociologico cui farebbe riferimento il termi-
ne ghemeynte, identificandolo con la totalità della popolazione che non partecipa al go-
verno cittadino, cosiccché tutti coloro che non sono regenten ne farebbero parte (cfr.
Proto-Jacobinism in the Dutch Republic, in Id., The Rhyme and Reason, cit., pp. 205-13).
90 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., p. 77.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 243

zione della milizia civica (la schutterij), composta da membri


della classe medio-bassa. A tale proposito, va ricordato come
spesso nella letteratura dell’epoca – a partire dall’inizio del se-
colo, ad esempio nell’opera di François Vranck91 – il principio
della sovranità popolare di origine calvinista si trasformi, da af-
fermazione del carattere politico originario e inalienabile degli
Ordini medievali, nella legittimazione del monopolio del potere
da parte delle vroedschappen, e quindi dell’oligarchia dei regen-
ten, considerati i veri ed unici rappresentanti del popolo92; uno
slittamento di cui occorre tener conto per comprendere le ori-
gini del rapporto conflittuale durante l’epoca dewittiana tra il
ceto di governo e il resto della comunità cittadina. Più concre-
tamente, la tensione tra i ceti artigianali e produttivi e il parti-
ziato mercantile nasce dal fatto che gli interessi dei primi – per
quanto difficilmente omogeneizzabili nella società olandese del
’600 – sono privi di qualsiasi forma organizzata di difesa, a cau-
sa della mancanza di rappresentatività nelle istituzioni cittadine,
e della graduale ma inarrestabile perdita di importanza delle
corporazioni93; di conseguenza, il loro unico momento di coe-
sione e di visibilità politica si esprime attraverso una critica, for-
temente influenzata dallo spirito calvinista, alla corruzione mo-
rale dei ricchi mercanti al governo. Parallelamente, questa de-
bolezza istituzionale genera la tendenza a schierarsi a fianco dei
principi d’Orange, percepiti come difensori della fede riforma-
ta e quindi, indirettamente, di quell’ordine antico che garantiva
i privilegi cetuali, contro la loro sovversione prodotta dallo svi-
luppo economico del paese. La modernizzazione del sistema
produttivo olandese procede infatti di pari passo con la proleta-
rizzazione dello strato sociale medio-basso e con l’incremento
della disuguaglianza sociale, generato da una perdita di indi-
pendenza e dalla caduta dello status dei lavoratori proporziona-
91 Cfr. p. 216 di questo capitolo.
92 Su questo punto insiste I.L. LEEB, The Ideological Origins of the batavian Revo-
lution. History and Politics in the Dutch Republic 1747-1880, Nijhoff, Den Haag, 1973,
pp. 21-3.
93 Groenveld sottolinea che in proposito come i gruppi sociali più bassi non aves-

sero la forza sufficiente per costituirsi in un partito, e di conseguenza le loro proteste


disordinate potessero venire facilmente manipolate (cfr. Holland, das Haus Oranien
und die anderen nordniederländischen Provinzen im 17. Jahrhundert, cit., p. 93).
244 La libertà necessaria

le all’aumento dimensionale delle imprese; aumento che trova il


supporto finanziario proprio nel governo dei regenten94.
In conclusione, è assai difficile distinguere, nell’opposizione
dei ceti popolari al patriziato urbano, la richiesta di un allarga-
mento della partecipazione al governo delle città e delle provin-
ce dalla volontà di salvaguardare interessi corporativi irrimedia-
bilmente in crisi; distinzione resa ancora più complessa dall’ap-
poggio di questi gruppi al clero ortodosso e al partito orangista,
poiché né la chiesa calvinista, né tantomeno il principe d’Oran-
ge appaiono intenzionati a farsi portavoce delle esigenze di de-
mocraticizzazione della vita politica del paese95. Il malcontento
popolare finisce così per trasformarsi in un inconsapevole soste-
gno alla politica autoritaria orangista, grazie alla canalizzazione
del consenso prodotta dalla forza carismatica dell’alleanza tra il
clero calvinista e la fazione filo-monarchica; cosicché, nel corso
del secolo, l’aggregazione popolare attorno al principe costitui-
rà un elemento decisivo di sostegno alla sua politica96.

3. Johan De Witt (1625-1672): una politica al servizio


dell’interesse di Stato
L’egemonia politica del partito degli staatsgezinden dopo il
1650 è dunque esposta alla minaccia di una coalizione eteroge-
nea, sorta da un generalizzato rifiuto al processo di moderniz-
zazione economico e politico in atto, e rafforzata dal potente
apparato ideologico della chiesa calvinista. Di tale pericolo Jo-
han De Witt sembra essere ben consapevole, dal momento che
fonda la sua strategia politica sul mantenimento dell’equilibrio

94 Su questi mutamenti cfr. HECKER, Gesellschaftliche Wirklichkeit und Vernunft

in der Philosophie Spinozas, cit., p. 113, e L. NOORDEGRAAF, Dutch Industry in the Gol-
den Age, in The Dutch Economy in the Golden Age, cit., pp. 131-57. Un ulteriore moti-
vo di conflittualità è la grande immigrazione di lavoratori qualificati che la politica tol-
lerante degli Stati d’Olanda permette, e che ovviamente introduce una forte concorren-
zialità nel mercato del lavoro (cfr. ‘T HART, Freedom and Restrictions, cit., pp. 118-9).
95 In proposito, A. Lossky afferma che «the democratic desiderata of the civic

guards and the guilds, who aspired to have a say in the governments of the towns, alar-
med William as much as they did the oligarchic regents» (Political Ideas of William III, in
Political Ideas and Institutions in the Dutch Republic, cit., pp. 33-59; citazione da p. 49).
96 Cfr. MÖRKE, Souveränität und Autorität, cit.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 245

tra le diverse componenti sociali; infatti la capacità di persua-


sione e di mediazione tra i diversi interessi in gioco costituisce
la qualità principale di De Witt97, nonché l’unica possibilità di
cui egli dispone per trasformare la carica di raadpensionaris in
un effettivo centro di potere, capace di influenzare le decisioni
politiche tanto a livello degli Stati Provinciali, quanto a quello
degli Stati Generali.
Nonostante la fama di cartesiano, De Witt è un seguace del
pensatore francese soltanto nel campo della matematica; in am-
bito religioso egli rimane un calvinista ortodosso, anche se, per
motivi politici, si mostra uno strenuo difensore della libertà di
culto e si oppone a ogni intervento del clero nella conduzione
degli affari pubblici. Politicamente, la sua educazione si com-
pie all’Università di Leiden sotto l’insegnamento del filosofo
neostoico Marcus Zuerius Boxhornius (1612-1653), dal quale
trae importanti suggerimenti per la sua concezione dell’interes-
se di Stato98; di impronta neostoica è certamente la sua visione
della politica come esercizio di una prudentia fondata sulla vir-
tù eccezionale del singolo, che si concretizza nella capacità di
fronteggiare le situazioni più sfavorevoli attraverso una gestio-
ne spregiudicata del potere99. L’azione politica di De Witt si
sviluppa per lo più attraverso contatti informali e creazioni di
alleanze trasversali, miranti a costruire un bilanciamento tra gli
interessi delle diverse province e, all’interno dell’Olanda, tra
quelli delle varie città; in quest’ottica si spiegano il suo matri-
monio con un membro della potente famiglia dei Bickers di
Amsterdam, e l’amicizia coltivata a lungo con personaggi di ri-
lievo e di peso nelle amministrazioni municipali, come Coen-
raad van Beuningen o Johan Wolfart van Brederode; né è ca-
suale il fatto che la sua fortuna cominci a declinare proprio

97 Su questo giudizio cfr. H.H. ROWEN, John de Witt: the Makeshift Executive in a

«Ständestaat», in ID., The Ryhme and Reason, cit., pp. 99-107.


98 Sulla dottrina politica di Boxhornius cfr. WANSINK, Politieke wetenschappen,

cit., pp. 93-107.


99 Il rapporto tra Lispius e De Witt, via Boxhornius, è sottolineato da H.W.
BLOM, Èleves de Grotius. Raison d’Ètat républicaine entre naturalisme et droit de natu-
re, in Prudenza civile, bene comune, guerra giusta. Precorsi della ragion di Stato tra Sei-
cento e Settecento, Atti del Convegno internazionale (Napoli, 22-24 maggio 1996), a cu-
ra di G. Borrelli, Adarte, Napoli, 1999, pp. 11-27.
246 La libertà necessaria

quando alcuni dei suoi amici più influenti – tra i quali lo stesso
van Beuningen – smettono di sostenerlo100. La medesima stra-
tegia viene utilizzata anche per tenere sotto controllo le forze
d’opposizione, mantenendole divise e impedendo che si coaliz-
zino contro di lui; un esempio è la politica di compromesso
con la fazione orangista, che lascia a quest’ultima le principali
cariche militari, oppure l’affidamento del giovane Willem III a
un comitato di pedagoghi scelti dagli Stati d’Olanda e sotto la
direzione dello stesso De Witt, affinché gli venga impartito un
insegnamento che lo educhi al rispetto delle istituzioni repub-
blicane del paese.
Ma è soprattutto in politica estera, condotta attraverso un’a-
zione diplomatica ininterrotta, che De Witt esprime al massimo
grado le sue capacità di mediatore e di tessitore di alleanze con
gli altri Stati europei, allo scopo di salvaguardare l’indipenden-
za della Repubblica, alla cui forza economica non corrisponde-
va una potenza militare in grado di sostenere il confronto con i
principali eserciti dell’epoca. Le Province Unite vivono sotto la
minaccia costante di un’invasione da parte delle nazioni confi-
nanti: durante il ventennio che va dal 1651 al 1672, a soli tre
anni dalla fine del conflitto con la Spagna, esse devono prima
contrastare la pericolosa concorrenza dell’Inghilterra, che,
nonostante i tentativi di una soluzione pacifica dei contrasti
commerciali, darà luogo a due conflitti, nel 1652 e nel 1665;
poi sostenere la minaccia della Francia di Luigi XIV, che aveva
sostituito la Spagna come principale potenza continentale. La
strategia politica dewittiana si può riassumere nel tentativo, ri-
uscito fino al 1672, di mantenere la Repubblica ai margini dei
conflitti tra i grandi Stati, in modo da difendere, attraverso un
«pacifismo utilitarista»101, gli interessi economici olandesi e
con essi, indirettamente, quelli dei Paesi Bassi102. Perché tale
100 Cfr. ROWEN, John de Witt. Stateman of the «True Freedom», cit., p. 154.
101 Di «utilitarischer Pazifismus» parla J. BOOGMAN, Johan de Witt – Staaträson als
Praxis, in Staaträson, a cura di R. Schnur, Duncker & Humblot, Berlin, 1975 pp. 481-
96 (citazione da p. 482).
102 In realtà, se è nell’interesse olandese che la Repubblica si tenga al di fuori delle

guerre, non lo è certamente il fatto che esse cessino su tutto il territorio europeo; anzi,
il commercio olandese trae indubbio vantaggio da situazioni di conflitto diffuse nei
paesi limitrofi (cfr. in proposito BARBOUR, Capitalism in Amsterdam, cit., pp. 30-3).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 247

politica abbia successo, è necessario che gli Stati che mirano a


contrastare la potenza commerciale olandese – in particolare
l’Inghilterra e la Francia – ritengano non conveniente un inter-
vento diretto contro la Repubblica; a tale scopo De Witt pone
in atto, nell’arco di vent’anni, un valzer di alleanze e di patti di-
fensivi, anche con paesi di minor peso, come la Svezia e la Da-
nimarca, che corrispondono sul piano pratico alla massima
presente nell’Aanwysing di Pieter De la Court: «Decrescat Gal-
lus et Anglus, et ne crescat Hispanus, Dat Frankrijk en Enge-
land niet af, en Spanjen niet toeneeme»103. Il capolavoro diplo-
matico del raadpensionaris si realizza nel 1668, quando egli rie-
sce a stringere una Triplice Alleanza con l’Inghilterra e la Sve-
zia in funzione antifrancese.
Nella prassi politica dewittiana non è rintracciabile alcuna li-
nea di condotta dettata da schemi ideologici precostituiti, o da
principi di solidarietà politica o religiosa; indicativo di questo
atteggiamento è il suo motto, Ago quod ago104. Si consideri, ad
esempio, il modo in cui De Witt si rapporta al progetto di una
coalizione tra le repubbliche europee, avanzato nell’Aanwysing,
secondo cui «tutte le Repubbliche, essendo fondate sulla pace
e sul commercio, hanno il medesimo interesse dell’Olanda a
preoccuparsi soprattutto della pace e a mantenerla (Alle Repu-
bliken, op vreede en koopmanschap gefondeerd zijnde, het selve
Interest met Holland hebben, om de vreede over al te besorgen
ende te hand-haven)»105; tale idea, che in un primo momento
De Witt prende in considerazione, viene però abbandonata in
breve tempo per la sua scarsa efficacia, poiché le repubbliche
esistenti non hanno un peso politico rilevante, cosicché la so-
miglianza costituzionale o la presunta comunanza di interessi
perdono ogni valore. Né ha miglior sorte il progetto di creazio-
ne di una lega dei paesi riformati, poiché le affinità in campo
religioso passano in secondo ordine di fronte al peso di interes-

103 Aanwysing der heilsame politike gronden, cit., p. 303.


104 Cfr. H. CATON, The Politics of Progress. The Origins and Development of the
Commercial Republic, 1600-1835, University of Florida Press, Gainesville, 1987, cap. V:
John De Witt and the Dutch Commercial Republic, p. 228. Al medesimo capitolo si ri-
manda anche per un approfondimento della politica economica e finanziaria di De Witt.
105 Aanwysing der heilsame politike gronden, cit., p. 275.
248 La libertà necessaria

si materiali confliggenti, come dimostra la storia dei rapporti


con l’Inghilterra puritana di Cromwell. De Witt prende atto di
un dato ormai strutturale della politica internazionale nell’Eu-
ropa del XVII secolo, ovvero dell’impossibilità che, in un’epo-
ca in cui il potere statale rivendica la sua piena autonomia da
qualsivoglia influenza «esterna», la comunanza di fede abbia
ancora un ruolo nell’indirizzare le decisioni dei governi nazio-
nali: la ragione, o meglio l’interesse di Stato106, non può più
misurarsi sulla base di valori o di principi soltanto teorici.
Il concetto di interesse, intorno al quale ruota lo scritto di
Pieter De la Court già più volte citato, costituisce un topos della
pubblicistica olandese dell’epoca107, e gioca un ruolo decisivo
nella riflessione politica dewittiana108; esso si innesta, senza per
questo perdere di originalità, in una corrente teorica, inaugurata
nel tardo Rinascimento e consolidatasi nel XVII secolo, che in-
dividua nel principio dell’interesse la base di un nuovo paradig-
ma politico, attraverso il quale è possibile porre un freno alle
tensioni autodistruttive presenti nelle passioni umane, senza ca-
dere nell’astrattezza moralistica della costruzione di una società
utopica governata da regole prive di reale efficacia109. L’interesse
ha sempre un contenuto determinato, quando non contingente,
che emerge dall’analisi delle stesse passioni e del loro interrelar-
si, cercando di dare vita a una regolamentazione che ne salva-
guardi gli aspetti produttivi a scapito di quelli conflittuali110. In-
106 Sulla distinzione tra la dottrina della ragion di Stato e quella degli interessi degli
Stati come spartiacque tra l’epoca rinascimentale e la modernità, si veda il classico la-
voro di F. MEINECKE, L’idea della ragion di Stato nella storia moderna [1924], Sansoni,
Firenze, 1977 (I ed. 1970), pp. 124 sgg.
107 Pars pro toto, si veda il famoso scritto di Petrus VALKENIER ‘t Verwerd Europa

(L’Europa tormentata), ofte Politijke en Historiche beschryvinge der waare Fundamen-


ten en Oorsaken van de Oorloge en Revolutien in Europa, voornamentlijk in en omtrent
de Nederlanden zedert den jaare 1664, gecauseert door de gepretendeerde Universele Mo-
narchie der Franschen, ‘t Amsterdam, by Hendirk en Dirk Boom 1675, che però identi-
fica, almeno terminologicamente, ragione e interesse di Stato (cfr. ivi, p. 24). Su questo
scritto, e più in generale sulla letteratura olandese dell’interesse di Stato, cfr. BLOM,
Èleves de Grotius, cit.
108 Cfr. BOOGMAN, Johan de Witt – Staaträson als Praxis, cit., pp. 488-9.
109 Per un’analisi più approfondita, cfr. A.O. HIRSCHMAN, Le passioni e gli interes-

si. Argomenti politici a favore del capitalismo prima del suo trionfo [1977], Feltrinelli,
Milano, 1990, pp. 15-55.
110 Interessanti spunti per un approfondimento di questo tema, per quanto riferito
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 249

dividuare l’interesse di uno Stato significa cogliere l’instabile


punto di convergenza degli interessi particolari di una collettivi-
tà; nel caso delle Province Unite, esso coincide secondo De Witt
con la difesa della politica economica olandese (il che spiega
l’insistenza con cui il raadpensionaris definisce la sua azione poli-
tica come «patriottica»111, in esplicita polemica con il partito
orangista, il cui attaccamento allo Stato sarebbe solo strumenta-
le). Individuando nel perseguimento dell’interesse materiale –
per il quale De la Court usa il termine welvaren, cioè «benesse-
re, prosperità» –, il principale movente dell’agire di ogni indivi-
duo e di ogni comunità, De Witt aggancia le sorti della Repub-
blica alla fortuna economica del ceto mercantile olandese, che
costituisce la fonte principale di ricchezza, e quindi di benessere
e stabilità, dell’intero paese; tanto più che il desiderio di arric-
chirsi appartiene al novero delle «passioni calme»112, per loro
natura costanti e prevedibili. Questa connessione tra bene pub-
blico e successi economici dell’oligarchia cittadina, presente an-
che nell’opera dei fratelli De la Court, rinsalda il processo di
identificazione tra quest’ultima e le istituzioni repubblicane, ma
ha inevitabilmente delle ricadute negative sul rapporto che il
partiziato intrattiene con gli altri gruppi sociali urbani, parados-
salmente esclusi dalla gestione del potere in nome del loro stesso
interesse. Il punto debole della politica dewittiana si manifesta
proprio nella difficoltà di trovare uno stabile consenso presso le
classi inferiori, che nel giudizio dell’uomo politico olandese ap-
paiono più come elemento di disturbo e di tensione che come
potenziali alleati contro il partito avversario; ciononostante, il
numero delle rivolte nelle città olandesi durante il XVII secolo
sarà molto più basso rispetto a quello di altri paesi, né esse
avranno mai conseguenze rilevanti, tranne che nel 1672 (quando
però al popolo minuto si affiancano in numerose città i membri
della schutterij, rappresentanti dei ceti artigianali e dei piccoli

all’Inghilterra, offre il saggio di S. PINCUS Neither Machiavellian Moment nor Possessive


Individualism: Commercial Society and the Defenders or the English Commonwealth, in
«The American Historical Review», CIII, 1998, pp. 705-36.
111 Ad esempio il termine patriot ricorre molto spesso nella corrispondenza dewit-

tiana; cfr. KOSSMANN, In Praise of the Dutch Republic, cit., p. 11.


112 Cfr. in proposito HIRSCHMAN, Le passioni e gli interessi. cit., p. 51.
250 La libertà necessaria

mercanti113). A questo va aggiunto un altro aspetto della politica


di De Witt che costituisce un elemento di attrito non solo con la
popolazione, ma anche con gli altri membri della classe dei re-
genten, ovvero l’assenza di trasparenza nella conduzione degli
affari pubblici; si tratta certo di una conseguenza della concezio-
ne neostoica dell’uomo di Stato come individuo eccezionale, che
si eleva sopra la massa, ma anche dell’inevitabile comportamen-
to di chi è costretto a muoversi tra innumerevoli precauzioni e
compromessi, e che quindi fa della segretezza un’arma. E tutta-
via la mancanza di informazione circa gli atti del governo lascia
spazio alle insinuazioni di una letteratura clandestina manovrata
dalla propaganda orangista, la quale ha buon gioco nel dipinge-
re agli occhi del popolo De Witt come un dittatore e una minac-
cia permanente per la libertà faticosamente riconquistata, quan-
do non addirittura un traditore della Repubblica al soldo della
Francia114.
Le grande abilità diplomatica di De Witt, grazie alla quale
egli riesce a fronteggiare le situazioni più difficili e ad attraver-
sare indenne i grandi conflitti che sconvolgono l’Europa, si di-
mostra inadatta a fronteggiare le richieste delle masse popolari,
lasciate in balia della della loro passionalità e della superstizio-
ne, che il clero calvinista gestisce politicamente. Più che nell’i-
stintivo disprezzo verso il popolo minuto, che De Witt condivi-
de certamente sia con gli altri regenten, sia con i membri del
partito avversario, o nella presenza di un sentimento antidemo-
cratico, anch’esso comune tra i membri dell’oligarchia dirigen-
te, il limite della visione politica dewittiana consiste nel manca-
to riconoscimento del ruolo decisivo dell’elemento immaginati-
vo e comunicativo al fine della produzione del consenso: l’elita-
rismo politico ereditato dall’insegnamento neostoico finisce per
far perdere al raadpensionaris proprio quell’attenzione ai mec-
canismi concreti di mediazione passionale pure ben presenti

113 Cfr. PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., pp.
91 sgg.
114 Il difficile rapporto esistente tra De Witt e le masse popolari è messo accurata-

mente in luce da J.D.M. CORNELISSEN, Johan de Witt en de vrijheid, Janssen, Nijmegen,


1945, p. 13 (ora anche in ID., De eendracht van het land. Cultuurhistorische studies over
Nederland in de zestiende en zeventiende eeuw, Bataafsche Leeuw, Amsterdam, 1987).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 251

nella teoria dell’interesse di Stato115. Il diverso atteggiamento


mantenuto dai due partiti nei confronti delle rivolte cittadine
scoppiate nel 1672 offre un ulteriore esempio della frattura esi-
stente tra la popolazione urbana ed i regenten: se questi ultimi,
infatti, condannano i moti perché illegali e pericolosi per la Re-
pubblica, viceversa gli autori vicini agli Orange ne sottolineano
il carattere patriottico; e infatti sarà proprio il popolo a contri-
buire in maniera decisiva alla trasformazione della struttura del-
la Repubblica delle Province Unite116.

4. La crisi del 1672 nella riflessione di Spinoza


Il 24 gennaio 1671 Lambert van Velthuysen scrive a Jacob
Ostens, un collegiante di Rotterdam amico di Spinoza117, per-
ché sollecitato da quest’ultimo a esprimere un giudizio sul
TTP, da poco pubblicato. Questo giudizio è paradigmatico
della distanza esistente tra Spinoza e i seguaci della nuova
scuola filosofica cartesiana, ai quali van Velthuysen appartiene;
secondo lui, infatti, il contenuto dello scritto si riassume nel
tentativo di un’emendazione della coscienza religiosa in chiave
razionalistica (di qui il riferimento a Descartes come «maestro»
e ispiratore118), condotta tuttavia fino alle conseguenze estre-
me, e per tale ragione inaccettabile. Infatti l’autore

115 Pur forzando l’interpretazione della presunta scientificità del pensiero politico

di De Witt, Signorile sottolinea opportunamente come quest’ultimo trovasse serie diffi-


coltà nel «prendere in considerazione, fra le sue componenti, gli ondeggiamenti e le
passioni di una folla irrazionale e guidata da impulsi e superstizioni» (Politica e ragione,
cit., p. 85).
116 ISRAEL, The Dutch Republic, cit., afferma che «it was the people who made the

Prince Stadholder in July 1672, transforming the structure of power» (p. 802). Ma su
questo argomento cfr. anche GEYL, Democratische tendenties in 1672, in «Mededelin-
gen der Koninklijke Nederlandsche Akademie van Wetenschappen, Afd. Letterkun-
de», XIII, 1950, n. 11.
117 Sulla figura di Ostens si veda L. VAN BUNGE, The tragic idealist: Jacob Ostens,

in «Studia Spinozana», IV, 1988, pp. 263-79.


118 «Egli non concorda infatti con Cartesio, del quale sembra tuttavia accettare la

dottrina, nel ritenere che tutte le cose della natura, come sono diverse dalla natura e
dall’essenza di Dio, così le loro idee esistano liberamente nella mente divina» (lettera
XLII, in Opera, IV, p. 212; trad. it. cit., p. 203). Da questo passo Klever trae l’ipotesi
che van Velthuysen riconoscesse Spinoza come l’autore del TTP (cfr. Verba et senten-
tiae Spinozae, cit., pp. 21-2).
252 La libertà necessaria

si è convinto di poter procedere con maggiore successo all’esame delle


opinioni che dividono gli uomini in fazioni e in partiti, liberandosi e spo-
gliandosi di ogni pregiudizio. Di qui la sua esagerata preoccupazione di
svincolare l’animo suo da ogni superstizione; ché, per rendersene immu-
ne, piegò nell’estremo opposto, sicché per evitare il male della supersti-
zione, pare a me che si sia spogliato di ogni religione (omnem mihi vide-
tur exuisse religionem)119.

Il principio metodologico del TTP, ovvero l’abbandono di


ogni pregiudizio che metta a rischio la libertà di indagine, è ac-
cettato da van Velthuysen, che l’aveva fatto proprio nella Prefa-
zione dell’Epistolica dissertatio120; tuttavia l’esito radicale cui
l’opera di Spinoza giunge viene rifiutato, poiché esso «distrug-
ge e sovverte dalle fondamenta ogni culto e ogni religione» e
«promuove nascostamente l’ateismo», dal momento che «si
finge un tal Dio di cui gli uomini non sentono alcun timore re-
verenziale (talem Deum fingit, cujus Numinis reverentia non est
quod homines tangantur)»121. Il naturalismo spinoziano, inter-
pretato come fatalismo e libertinismo, e quindi come opposi-
zione al ritualismo religioso e nel contempo come rifiuto di un
Dio «giudice dell’universo»122, è quindi l’errata applicazione di
un giusto metodo, cosicché si comprende perché van Velthuy-
sen gli attribuisca una tesi così poco consonante con l’impianto
complessivo dell’opera, come la difesa della dottrina degli arca-
na imperii:
Tutti sono d’avviso che non sempre sia opportuno dire tutte le verità,
siano esse di ordine religioso o di pertinenza della vita civile. E chi inse-
gna che non si debbono buttar le rose ai porci, quando vi è il pericolo che
questi infieriscano contro chi le butta, è pure d’accordo nel ritenere che
non vi è obbligo di istruire il popolo (plebem) su certi capi della religione,
la cui pubblica diffusione potrebbe turbare lo Stato (Rempublicam) o la
Chiesa da fare ai cittadini e ai credenti più male che bene123.

Dalla lettera emerge l’immagine di uno Spinoza irretito dal

119 Lettera XLII, in Opera, IV, p. 207 (trad. it. p. 198).


120 Epistolica dissertatio, cit., Praefatio, p. 959. Su questo punto cfr. H.W. BLOM,
Lambert van Velthuysen et le naturalisme, in «Cahiers Spinoza», VI, 1991, pp. 203-12.
121 Lettera XLII, in Opera, IV, p. 218 (trad. it. p. 210).
122 Ivi, p. 208 (trad. it. p. 199).
123 Ivi, p. 216 (trad. it. p. 208).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 253

razionalismo cartesiano, al punto da cadere in un libertinismo


ateo che sovverte i principi della morale, raggiungendo una
forma di scetticismo le cui conseguenze sul piano politico risul-
tano intollerabili per van Velthuysen: talem Deum fingit, cujus
Numinis reverentia non est quod homines tangantur. In realtà
ciò che del TTP turba l’autore della lettera è l’assenza di un or-
dine stabile, retto da regole eterne, sulla base delle quali sia
possibile fondare il potere dei governanti e, parallelamente,
l’obbedienza dei sudditi124.
La risposta di Spinoza, anch’essa indirizzata a Ostens, è ab-
bastanza sbrigativa. Più che a contrastare le critiche, egli appa-
re interessato a proclamarsi innocente dall’accusa di ateismo,
che evidentemente ritiene infamante:
Egli [sc. van Velthuysen] incomincia col dire che poco gli importa di sa-
pere di che razza io sia e quale sia il mio tenore di vita. Ché, se l’avesse sa-
puto, non si sarebbe così facilmente convinto che io insegni l’ateismo; giac-
ché gli atei sogliono aspirare oltre misura agli onori e alle ricchezze, che io
ho sempre disprezzato, come sanno tutti quelli che mi conoscono125.

Non si tratta soltanto di trincerarsi dietro una moralità e una


purezza d’animo che saranno ampiamente riconosciute da tutti
i biografi, per quanto non preserveranno Spinoza dall’accusa di
ateismo (si pensi alla definizione di «ateo virtuoso» presente
nel Dizionario filosofico di Pierre Bayle); piuttosto, quello che a
Spinoza interessa è mettere in evidenza il nesso inscindibile esi-
stente tra comportamento immorale e falsità intellettuale: un
nesso che viene individuato, poche righe più avanti, proprio
nell’atteggiamento di van Velthuysen, il quale
non trova nella stessa virtù e nell’intelletto nulla che lo soddisfi, e vi-
vrebbe volentieri secondo l’impulso delle sue passioni, se non glielo impe-
disse il solo fatto che ha paura del castigo. Egli si astiene dunque dalle male
azioni e osserva i divini comandamenti con la medesima riluttanza di uno
schiavo e con animo titubante (ut servus, invitus, et fluctuante animo)126.

124 In tal senso Blom fa riferimento all’eclettismo filosofico di van Velthuysen, che

gli permette, sulla base dell’assunzione di principi neostoici, di costruire una dottrina
delle norme sociali fondata su principi morali eterni (cfr. Lambert van Velthuysen et le
naturalisme, cit., pp. 209-12).
125 Lettera XLIII, in Opera, IV, p. 219 (trad. it. p. 211).
126 Ivi, p. 221 (trad. it. p. 212).
254 La libertà necessaria

Se si sottovalutano i moventi secondo i quali un individuo


pensa e agisce, non assegnando alcun peso alla dimensione af-
fettiva e immaginativa nella quale si generano le opinioni, allo-
ra risulta impossibile comprendere anche il significato di questi
pensieri e azioni. Questa affermazione conduce Spinoza a rin-
viare al mittente l’accusa di ateismo: dominato dall’incertezza
passionale (fluctuante animo) e dalla paura, van Velthuysen non
è un uomo libero, perciò le sue opinioni finiscono inevitabil-
mente per convergere su una dottrina idolatrica e su un elogio
della dipendenza eteronoma nei confronti di un potere trascen-
dente, prodotto dell’immaginazione più che di un’indagine ra-
zionale. Un razionalismo che rimane a metà strada finisce infat-
ti per confondere la religione con la superstizione («Che cosa
egli intenda per religione e per superstizione, io non so. Forse
che si spoglia di ogni religione colui che afferma doversi rico-
noscere in Dio il sommo bene e doversi come tale amare con li-
bero animo?»127), e non comprende il vero significato della li-
bertà di Dio, né, conseguentemente, di quella umana. La di-
stanza tra i due pensatori è dunque rilevante, sia in ambito teo-
logico sia in quello antropologico e politico, al punto che Spi-
noza conclude che van Velthuysen «appartiene a quel genere di
uomini di cui ho detto alla fine della mia prefazione che prefe-
rirei non si interessassero affatto al mio libro, piuttosto che, in-
terpretandolo malamente come sogliono fare di tutto, riescano
fastidiosi, e, senza giovare per nulla a se stessi, siano di danno
agli altri»128.
È palese la difficoltà da parte di un rappresentante della no-
va philosophia di comprendere il significato della riflessione
teologico-politica spinoziana; una difficoltà che tuttavia per-
mette di fare luce su un problema a lungo dibattuto dalla sto-

127 Ivi, p. 220 (trad. it. pp. 211-2). Alcuni anni dopo, nel 1676, van Velthuysen ri-

formulerà in modo sistematico queste critiche in una confutazione del TTP, il Tractatus
moralis de naturali pudore et dignitate hominis.
128 Ivi, p. 224 (trad. it. p. 214). Il fatto che Spinoza e van Velthuysen continuino a

intrattenere un rapporto epistolare è segno, oltre di un riavvicinamento tra i due – nel-


la lettera LXIX Spinoza infatti afferma che il suo interlocutore è «animato soltanto dal
desiderio della verità» (cfr. Opera, IV, p. 300; trad. it. p. 285) –, anche dell’estrema dif-
ficoltà per il filosofo ebreo di trovare degli interlocutori disposti a discutere delle sue
teorie, e non a esecrarle o maledirle.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 255

riografia, ossia quello dell’ipotetica adesione di Spinoza al pro-


getto politico di De Witt. Sul piano biografico le ipotesi di al-
cuni studiosi di inizio secolo, che sostenevano una conoscenza
diretta tra i due, e la concessione di una rendita di duecento
fiorini dal raadpensionaris al filosofo, quando quest’ultimo si
era stabilito a L’Aia, sono state messe fortemente in dubbio da
indagini più recenti129. I due avvenimenti storici che dovrebbe-
ro provare questa conoscenza sarebbero la visita di Spinoza al-
l’accampamento francese di Utrecht durante l’invasione del
1672130, interpretata come una missione diplomatica della qua-
le sarebbe stato incaricato dallo stesso De Witt, e la violenta
reazione spinoziana alla notizia dell’assassinio dei fratelli De
Witt, che lo avrebbe spinto a cercare di affiggere in strada un
manifesto di condanna, recante la frase «Ultimi Barbarorum»,
se non fosse stato fermato dal suo padrone di casa131. Tuttavia
per il viaggio a Utrecht – di cui peraltro anche la data è assai
incerta – sono state avanzate ipotesi diverse, ad esempio che
fosse dettato da motivi di carattere filosofico, e non politico132;
per quanto poi riguarda il secondo avvenimento, esso in realtà
non testimonia altro se non l’avversione di Spinoza nei con-
fronti dell’irrazionalità delle sommosse popolari. Non sembra
129 All’origine di questa ipotesi della rendita sta una delle più antiche biografie in-

torno alla vita di Spinoza, quella composta dal francese Jean Maximilien Lucas (cfr. La
vie de Monsieur Benoit de Spinoza [1719], trad. it. in J.M. LUCAS e J. COLERUS, Vite di
Spinoza, a cura di R. Bordoli, Quodlibet, Macerata, 1994, p. 39); ad essa si rifà tanto
MEINSMA, Spinoza et son cercle. cit., quanto J. FREUDENTHAL, Spinoza. Leben und Leh-
re. Erster Teil: das Leben Spinozas, «Bibliotheca Spinozana», vol. V, M. Hertzberger,
Amsterdam, 1927, p. 128.
130 Questo viaggio è riportato tanto da Lucas (op. cit., pp. 40-7) quanto dall’altro

importante biografo spinoziano del XVIII secolo, Johannes Colerus (cfr. Korte, dog
waarachtige Levens-Beschryving van Benedictus de Spinoza [1705], trad. it. in J.M. LU-
CAS e J. COLERUS, Vite di Spinoza, cit., pp. 78-80).
131 Cfr. la ricostruzione dell’avvenimento in FEUER, Spinoza and the Rise of Libera-

lism, cit., pp. 138-9.


132 Cfr. ad esempio l’articolo di G. COHEN, Le séjour de Saint-Évremond e Holland

(1665-1670), in «Revue de Littérature Comparée», V, 1925, pp. 431-54 e VI, 1926, pp.
28-78 e 402-23; qui la data del viaggio viene collocata nell’estate del 1673, come d’al-
tronde in MEINSMA, Spinoza et son cercle. cit., p. 423, il che eliminerebbe ogni possibili-
tà di un’influenza da parte di Johan De Witt, che era stato assassinato l’anno preceden-
te. Di contro, FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., pp. 142-5, ritiene che tale
viaggio avesse effettivamente delle motivazioni politiche, inserendosi nel tentativo del
partito repubblicano, orfano del De Witt, di siglare la pace con la Francia.
256 La libertà necessaria

dunque esservi alcuna certezza di una conoscenza tra i due uo-


mini133; mentre è testimoniata la conoscenza, se non l’amicizia,
di Spinoza con altri importanti rappresentanti del mondo poli-
tico, come Coenraad van Beuningen, Adriaan Paets e Johannes
Hudde134, i quali però non figurano tra i principali sostenitori
della politica dewittiana, se si esclude van Beuningen, che ap-
poggia De Witt per lungo tempo, ma che infine se ne allontana,
per difendere gli interessi della sua città. L’ipotesi di una con-
vergenza tra la teoria politica di Spinoza e la dottrina della Wa-
re Vrijheid va perciò misurata, più che su indimostrabili contat-
ti personali, sul contenuto delle opere: ad esempio sul significa-
to di quella difesa della tolleranza religiosa presente nel TTP,
che richiama la politica attuata da De Witt, o ancora di più sul-
le affermazioni del capitolo XVIII, attraverso le quali Spinoza
esplicita la sua posizione all’interno del dibattito sulla sovranità
nelle Province Unite:
Per quanto concerne gli Ordini d’Olanda, questi, ch’io sappia, non
ebbero mai i re, ma i conti (comites), nei quali non fu mai trasferito il di-
ritto d’imperio (jus imperii). Infatti, i Sovrani Ordini d’Olanda […] si ri-
servarono sempre l’autorità di richiamare i conti al loro dovere e conser-
varono sempre il potere di esercitare questa loro autorità e di difendere
la libertà dei cittadini e di sottrarsi al’autorità dei conti, se questa fosse
degenerata in tirannide, e di limitarne i poteri in modo che nulla potesse-
ro decidere senza l’autorizzazione e l’approvazione degli Ordini. Donde
segue che appartenne sempre agli Ordini quel diritto della suprema mae-
stà (jus supremae majestatis) che l’ultimo conte tentò di usurpare135.

L’assonanza con le tesi groziane del De antiquitate, e più in


generale con la difesa dell’autonomia politica della provincia
d’Olanda da parte dei teorici del partito degli staatsgezinden,

133 A una simile conclusione giungono tanto FRANCÉS, Spinoza dans le pays néerlan-

dais, cit., p. 323, quanto più recentemente ROWEN, John de Witt, Grand Pensionary of
Holland (1625-1672), cit., p. 411; per una smitizzazione del rapporto Spinoza-De Witt
cfr. già N. JAPIKSE, Spinoza en De Witt, in «Bijdragen voor vaderlandsche geschiedenis
en oudheidkunde’s Gravenhage», VI, 1928, pp. 1-16.
134 Si veda in proposito FRANCÉS, Spinoza dans le pays néerlandais, cit., pp. 296-

308, per quanto la sua tesi che i rapporti tra Spinoza e questi notabili nascano più dal-
l’interesse filosofico che da una partecipazione a un comune progetto politico sia sen-
z’altro discutibile.
135 Opera, III, pp. 227-8 (trad. it. p. 455).
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 257

salta agli occhi; né potrebbe essere diversamente, considerando


anche l’obiettivo polemico del TTP, quella nefasta alleanza tra
l’ideologia religiosa del clero calvinista e il potere monarchico
che è anche il principale avversario della politica dewittiana.
Tuttavia, se è evidente che Spinoza può trovare ascolto soltanto
all’interno della classe dei regenten, e in particolare tra coloro
che sostengono il raadpensionaris136, è anche vero che la radica-
lità delle sue tesi incontra un’accoglienza fredda, quando non
esplicitamente critica (come nel caso di van Velthuysen) anche
presso gli ambienti più aperti alla nuova filosofia e alla nuova
politica137. Le accuse di ateismo, le prese di distanza più o me-
no accentuate, i numerosi fraintendimenti, sono tutti segnali
del fatto che la convergenza tra la prospettiva filosofico-politica
spinoziana e quella degli ambienti vicini a De Witt non può
che essere parziale: certamente comuni sono gli avversari, e in
parte anche la diagnosi del «male teologico», ma differente è la
terapia prescritta. Come è già stato sottolineato, il TTP indica
come obiettivo per salvaguardare la libertà della Repubblica la
realizzazione di un ordinamento politico nel quale il governo
collettivo delle passioni permetta agli individui di esprimersi
compiutamente e di sviluppare concretamente la loro natura;
ma si tratta di un percorso arrischiato, poiché deve attraversare
la dimensione immaginativa della collettività, la quale dispone
di una potenza sufficiente a esprimere un grado debole di poli-
ticità, e quindi costantemente minacciato dai pericoli della di-
sgregazione, o di un regime autoritario, fondato sul controllo
eteronomo delle passioni. La complessità dei meccanismi che
regolano l’imaginatio inibisce ogni tentativo di procedere per
scorciatoie decisionistiche, che pretendano di accelerare i pro-

136 Cfr. in proposito T. DE VRIES, Het Nederlands kenmerk van Spinoza’s staatkun-

dig denken, in De politieke filosofie van Spinoza, a cura di H. Vandenbossche e E. Wal-


varens, in «Tijdschrift voor de studie van de verlichting», VI, 1978, pp. 41-53.
137 Si vedano in proposito i diversi saggi sulla ricezione del TTP presenti negli atti

del convegno L’hérésie spinoziste, cit., o ancora: L. VAN BUNGE, On the Early Dutch Re-
ception of the Tractatus theologico-politicus, in «Studia Spinozana», V, 1989, pp. 225-51;
HUBBELING, Aperçu général de la réception de la philosophie de Spinoza en Holland au
XVIIe siècle, cit.; H.J. SIEBRAND, On the Early Reception of Spinoza’s Tractatus Theolo-
gico-politicus in the context of Cartesianism, in Spinoza’s Political and Theological
Thought, cit., pp. 214-25.
258 La libertà necessaria

cessi necessari alla costituzione e all’integrazione del corpo po-


litico: nessuna razionalità esterna è in grado di governare in
maniera assoluta la dinamica affettiva di un popolo, da cui pro-
cede l’ininterrotta rimessa in gioco dei rapporti di forza tra cit-
tadini e poteri istituzionali. Ed è proprio questo il fine ultimo
della strategia politica di De Witt, segnata da una concezione
elitaria del governo, dal quale i molti devono essere tenuti lon-
tani: la comunità dei cittadini, la ghemeynte, in balia della forza
cieca delle passioni, non conosce il suo interesse, e perciò deve
essere guidata dalla mano sicura dell’uomo politico razionale.
Una simile pratica, bloccando ogni possibilità di comunicazio-
ne tra governanti e sudditi, e lasciando quindi questi ultimi nel-
l’ignoranza e nella passività, finisce per concedere spazio alla
superstizione e al fanatismo, e conseguentemente all’odio verso
chi detiene il potere.
Il TTP, pubblicato nel 1670, precede comunque il crollo
della costruzione politica dewittiana, avvenuto due anni dopo,
quando, a seguito del fallimento dell’opera diplomatica del
raadpensionaris e dei rovesci subiti dall’esercito della Repubbli-
ca nella guerra contro la Francia, scoppiano rivolte popolari in
numerose città olandesi, che chiedono la messa al bando di nu-
merosi regenten, ritenuti prezzolati dal nemico, e culminano in-
fine nel linciaggio dei due fratelli De Witt. Sulla reazione di
Spinoza alla conclusione catastrofica della politica della Ware
Vrijheid si possono solo avanzare delle ipotesi, mancando ogni
testimonianza scritta (tra l’altro, non si possiedono lettere del
filosofo per tutto il 1672): si può immaginare lo smarrimento di
fronte alla vittoria dei theologi, per fronteggiare i quali egli ave-
va scritto e pubblicato il TTP, ma è da escludere che tale smar-
rimento si trasformi in panico, o nella volontà di fuggire dal
suo paese; infatti nel 1673 Spinoza rifiuta l’offerta di un incari-
co come professore presso l’Accademia dell’Elettore Palatino,
in nome della libertas philsophandi138. Nonostante il pericolo
che corre ogni opinione eterodossa sia aumentato – cosa di cui
138 Si vedano le lettere XLVII e XLVIII, del febbraio-marzo 1673 (Opera, IV, pp.

234-6; trad. it. pp. 221-3). Per ulteriori informazioni sulle motivazioni che spingono
Spinoza a questo rifiuto cfr. P. CRISTOFOLINI, La cattedra avvelenata, in Id., La scienza
intuitiva in Spinoza, cit., pp. 107-17.
V. Istituzioni e lotta politica nell’Olanda del XVII secolo 259

Spinoza è ben consapevole, tanto che decide di rimandare la


pubblicazione dell’Etica139 –, non per questo egli abbandona la
riflessione sui temi della politica, e anzi in numerose lettere si
impegna a chiarire i punti più controversi del TTP140 e a difen-
dersi dall’accusa di ateismo (che evidentemente considera in-
tollerabile). Inoltre a partire dal 1675, se non da prima, Spino-
za lavora al TP, la cui stesura lo occuperà fino alla morte. Ri-
spetto alle opere precedenti, il quadro categoriale di riferimen-
to è rimasto immutato, al punto che l’impianto ontologio del-
l’Etica, così come la costruzione teorica del TTP, sono richia-
mati come fonti d’ispirazione:
Nel nostro Trattato teologico-politico abbiamo parlato del diritto natu-
rale e civile, e nella nostra Etica abbiamo spiegato che cosa siano la tra-
sgressione, il merito, la giustizia, l’ingiustizia e infine la libertà umana.
Ma per evitare che i lettori di questo trattato debbano ricercare altrove le
principali nozioni su cui esso si fonda, voglio qui di nuovo esporle e dar-
ne una spiegazione dimostrativa (apodictice demonstrare constitui)141.

Evidentemente, questa dichiarazione non implica che anche


le conclusioni siano consonanti, tanto è vero che la storiografia
spinoziana ha dibattuto a lungo intorno ai rapporti che inter-
corrono tra i due trattati, giungendo a esiti molto diversi tra lo-
ro142. Senza dubbio rispetto agli anni di composizione del TTP

139 Cfr. la lettera LXVIII di Spinoza a Oldenburg, scritta nella seconda metà del

1675 (Opera, IV, p. 299; trad. it. pp. 283-4).


140 Cfr. la medesima lettera LXVIII, dove Spinoza chiede a Oldenburg di indicargli

«i luoghi del Trattato teologico-politico che hanno lasciato perplessi i dotti», al fine di
poter «corredare tale trattato di alcune note e, se è possibile, estirpare i pregiudizi che
intorno a esso sono nati» (ibid.).
141 TP, cap. II, § 1, in Opera, III, p. 276 (trad it. p. 35).
142 È stato Menzel il primo a rinunciare a un’interpretazione unitaria del pensiero

politico di Spinoza, affermando che, mentre il TTP sostiene l’eccellenza del regime de-
mocratico, il TP è invece più propenso ad attribuire tale primato all’imperium aristocra-
tico (cfr. Wandlungen in der Staatslehre Spinozas, cit.); della stessa opinione si è poi di-
chiarato FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit. Contro questa lettura già all’ini-
zio del secolo L. ADELPHE, La formation et la diffusion de la politique de Spinoza, in
«Revue de Synthese historique», XXVIII, 1914, pp. 253-80, ha avanzato fondate criti-
che, e lo stesso hanno fatto dopo di lui, tra gli altri, PREPOSIET, Spinoza et la liberté des
hommes, cit., e CORSI, Politica e saggezza in Spinoza, cit. Per altri interessanti punti di vi-
sta su questo tema si vedano almeno DEN UYL, Power, State and Freedom, cit., pp. 162-
7, BALIBAR, Spinoza e la politica, cit., pp. 63-6, e soprattutto A. MATHERON, Le problème
260 La libertà necessaria

e dell’Etica è differente lo scenario che, dopo la caduta del re-


gime di De Witt, si apre davanti agli occhi di Spinoza, e di chi
come lui ricerca le condizioni di possibilità di un’emendazione
dell’immaginario collettivo e di un ordinamento politico razio-
nale. Nuova è anche la necessità di ripensare il rapporto tra
teoria e prassi, sganciandolo da una concezione della politica
come applicazione di regole della prudenza note a priori, dal
momento che essa si è dimostrata fallimentare, stante l’impossi-
bilità della teoria di esaurire l’infinita serie delle combinazioni
prodotte dal gioco delle passioni di una moltitudine. Si tratta
di un ripensamento che intercetta il piano dell’ontologia, nella
misura in cui il nesso teoria-prassi esprime quella mediazione
costitutiva dell’essere (rilevata, su un altro versante, dal rappor-
to storia-eternità presente nel TTP) che è tutt’uno con l’«attuo-
sa potenza» della substantia, nelle sue infinite articolazioni143.
Il TP appare dunque il luogo in cui alla definizione della libertà
come origine di ogni imperium (in quanto ne determina l’impli-
cita democraticità) deve seguire la determinazione degli aspetti
pratici che svolgono questo principio sul piano della concretez-
za storica. In tal senso, esso pone all’ordine del giorno il neces-
sario processo di adeguamento della società politica ai propri
fondamenti costitutivi; o, se si vuole, le tappe di svolgimento
della potenza collettiva nelle istituzioni dello Stato.

de l’évolution de Spinoza du Traité theologico-politique au Traité politique, in Spinoza. Is-


sues and Directions. The Proceedings of the Chicago Spinoza Conference, a cura di E.
Curley e P.F. Moreau, Brill, Leiden-Kopenaghen-New York-Köln, 1990, pp. 258-70.
143 Su questo passaggio decisivo cfr. A. NEGRI, Il «Trattato politico», ovvero la fon-

dazione della democrazia moderna [1992], in ID., Spinoza, cit., pp. 296-312.
Capitolo Sesto
JURA COMMUNIA E MULTITUDO:
IL FONDAMENTO NATURALE DEL POTERE DEMOCRATICO

1. Il metodo del TP: teoria, esperienza e prassi


Dopo la morte dei fratelli De Witt e l’accoglienza critica del
TTP anche da parte degli ambienti più liberali, Spinoza abban-
dona prudenzialmente per un certo periodo l’idea di un ulte-
riore intervento nel dibattito politico, per dedicarsi al comple-
tamento dell’Etica (peraltro a buon punto già nel 1665, quando
era ormai stata conclusa la prima stesura della terza parte1) e
per difendersi dalle accuse di libertinismo e di ateismo. Nel
1674, poi, viene probabilmente a conoscenza della morte del
suo insegnante di latino Franciscus van den Enden, giustiziato
in Francia in seguito alla scoperta di una sua partecipazione a
una congiura contro il monarca2. Dalle lettere di questi anni (in
realtà a partire dal 1674, poiché per il 1672 e il 1673 si hanno
1 Cfr. la lettera XXVIII di Spinoza a Bouwmeester, in Opera, IV, pp. 162-3 (trad.
it. pp. 158-60, che però sbaglia nel riportare il numero della proposizione della III par-
te alla quale Spinoza sarebbe giunto: si tratta infatti della proposizione 80 – oltre 20
proposizioni in più rispetto alla stesura conclusiva –, e non della 8). Tale lettera pone
dei problemi alla tesi, avanzata da Negri, di una «seconda fondazione» dell’ontologia
spinoziana a partire proprio dalla III parte dell’Etica, dove verrebbe abbandonato an-
che l’ultimo residuo di neoplatonismo, ancora presente nelle prime due parti e nel TTP
(cfr. L’anomalia selvaggia, cit., pp. 176 sgg.). Si tratta di una tesi a lungo discussa, e sul-
la quale lo stesso Negri ha poi fatto alcune importanti precisazioni (cfr. ID., Democrazia
ed eternità in Spinoza [1994], in Spinoza, cit., pp. 379-89); si vedano in proposito i con-
tributi di MATHERON, «L’anomalie sauvage» de A. Negri, cit., di GIANCOTTI, Introduzio-
ne a Spinoza sovversivo, cit., pp. IX-XXXIX, e di M. WALTHER, Negri on Spinoza’s Poli-
tical and Legal Philosophy, in Spinoza. Issues and Directions, cit., pp. 286-97.
2 Su questo avvenimento insiste FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., p.
139, per sostenere anche con elementi biografici la tesi di un abbandono da parte di
Spinoza delle posizioni democratiche del TTP.
262 La libertà necessaria

ben poche indicazioni) si possono enucleare i problemi che


turbano i suoi interlocutori, sui quali egli è costretto a tornare
ripetuamente, chiarendo il significato del suo pensiero: in par-
ticolare, la relazione esistente tra Dio e il mondo creaturale3 e il
nesso tra libertà e necessità4. Solo un breve passo della lettera
L, indirizzata a Jarig Jelles, riguarda un argomento politico, ov-
vero la differenza tra la propria concezione del diritto naturale
e dello stato di natura e quella di Hobbes.
Anche gli interlocutori più vicini, sia per amicizia, sia per
consonanza filosofica, trovano grande difficoltà a comprendere
e ad accettare le tesi di Spinoza intorno alla natura di Dio e al
concetto di libertà: fautori della nuova scienza, aderenti alla fi-
losofia cartesiana, sostenitori della tolleranza religiosa faticano
ad accettare le conseguenze sul piano etico e politico dell’Etica,
temendo il disordine morale e sociale che potrebbe scaturire
allorché prendesse piede l’immagine di un Dio che, per usare
ancora le parole di van Velthuysen, sarebbe «esso stesso sog-
getto al fato in modo che non si può parlare di governo e di
provvidenza divina (neque ullus gubernationi aut providentiae
divinae locus relinquitur), né di distribuzione dei premi e delle
pene»5. Il nesso problematico tra religione e politica è ancora
al centro della discussione tra Spinoza e i suoi corrispondenti; e
tuttavia di tale argomento non fa parola il sottotitolo dell’opera
alla quale, a partire dal 1675, Spinoza si dedica pressoché inte-
ramente:
Trattato politico, nel quale si mostra quali istituzioni debbano essere
date alla società in cui vige lo stato monarchico così come a quella dove
comandano gli ottimati (ubi Imperium Monarchicum locum habent, sicut
et ea, ubi Optimi imperant) affinché non cadano nella tirannide e si man-
tengano inviolate la pace e la libertà dei cittadini6.

Anche se in una lettera del 1677 – l’ultima dell’epistolario –


Spinoza prevedeva che il TP contenesse anche una parte dedi-
3 Cfr. ad esempio le lettere LIV (Opera, IV, pp. 250-4; trad. it. pp. 232-6) e LVI
(ivi, pp. 258-62; trad. it. pp. 241-4) a Boxel, nonchè la lettera. LXXIII (ivi, pp. 306-9;
trad. it. pp. 290-2) e LXXV (ivi, pp. 311-6; trad. it. pp. 294-7) a Oldenburg.
4 Ad esempio, la lettera LVIII a Schuller (ivi, p. 265; trad. it. p. 248).
5 Lettera XLII, in Opera, IV, p. 218 (trad. it. p. 210).
6 TP, sottotitolo, in Opera, III, p. 271 (trad. it. p. 23).
VI. Jura communia e multitudo 263

cata alla democrazia, alle leggi e «alle altre questioni concer-


nenti la politica»7, questo sottotitolo descrive con esattezza il
contenuto dell’opera, rimasta incompiuta a causa della morte
del suo autore, avvenuta il 21 febbraio 16778. Se lo si confronta
con quello del TTP, salta agli occhi l’assoluta mancanza di rife-
rimenti alla pietas Reipublicae, cioè a quella dimensione religio-
sa che nel primo trattato costituiva il filo rosso del ragionamen-
to. Ora invece Spinoza sembra priviliegiare, fin dall’apertura
del I capitolo, un approccio metodologico differente, condotto
a partire da un’indagine sulla natura degli affetti umani e da
una critica serrata alle teorie filosofiche esistenti:
I filosofi pensano che gli affetti dai quali siamo combattuti (Affectus,
quibus conflictamur) siano dei vizi e che gli uomini vi cadano per loro col-
pa. Per questo solitamente ne fanno argomento di riso, di compianto o di
rampogna, e quelli che vogliono fare più mostra di santità lanciano male-
dizioni9.

È stato più volte sottolineato come questo avvio riproduca


quasi integralmente la Prefazione della III parte dell’Etica10,
che d’altra parte è alla base anche dell’analisi condotta nel TTP
sulla superstizione; all’abbandono delle tematiche teologico-
7 Lettera LXXXIV a un amico, in Opera, IV, pp. 335-6 (trad. it. pp. 312-3).
8 Droetto avanza l’ipotesi, raccogliendola dall’edizione francese curata da M.
Francés, che tale sottotitolo sia opera dei curatori degli Opera Posthuma, con lo scopo
di sottolineare la difesa del governo arisotcratico, contro la tendenza monarchica del
vincente partito degli Orange (cfr. TP, riedizione a cura di L. Chianese della traduzio-
ne e del commento di A. Droetto pubblicato nel 1958, Nuova Edizioni del Gallo, Ro-
ma, 1991, p. 1, nota 1).
9 Cap. I, § 1, in Opera, III, p. 273 (trad. it. p. 27). La altre traduzioni italiane più

recenti hanno «passioni» per affectus (cfr. la traduzione di Droetto, cit., p. 1, quella di
A. Montano, Il Tripode, Napoli, 1992, p. 47, e quella di L. Pezzillo, Laterza, Roma-Ba-
ri, 1992, p. 4), nonostante Spinoza nell’Etica distingua esplicitamente l’affectus dalla
passio (cfr. Etica III, def. III, in Opera, II, p. 139; trad. it. p. 173). Chi, oltre a Cristofo-
lini, sottolinea questa differenza, affermando giustamente che anche nel TP deve essere
mantenuto il significato originario di affectus – che può essere tanto attivo quanto pas-
sivo – è A. Dominguez nella sua traduzione spagnola (cfr. Spinoza, Tratado político.
Traduccíon, introduccíon, índice analítico y notas de A. Dominguez, Alianza Editorial,
Madrid, 1986, p. 77).
10 Cfr. soprattutto STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, cit., pp. 225, e, più in

generale, A. MATHERON, Spinoza et la décomposition de la Politique thomiste: Machiavé-


lisme et Utopie, in ID., Anthropologie et politique au XVIIe siècle (études sur Spinoza),
cit., pp. 49-79.
264 La libertà necessaria

politiche non sembra quindi corrispondere alcun mutamento


dell’impianto concettuale, quanto piuttosto uno spostamento
dallo studio dell’immaginazione religiosa a quello dell’esistenza
passionale degli individui, come se ora Spinoza volesse affron-
tare direttamente – senza la mediazione dell’ideologia – le mo-
dalità di produzione e di concatenazione degli affetti, e come
se il TP volesse dare concreta applicazione al principio del pa-
rallelismo psico-fisico enunciato nella II parte dell’Etica, secon-
do il quale «l’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che
l’ordine e la connessione delle cose»11, cosicché alla considera-
zione dello sviluppo dell’immaginazione collettiva debba ne-
cessariamente corrispondere l’attraversamento dei medesimi
meccanismi sul piano della dimensione corporea. In tal senso,
tanto l’immaginazione quanto l’affettività, che si dipanano lun-
go la stessa catena di rapporti causali, determinata dalla collo-
cazione dell’uomo all’interno dei processi naturali, esprimono
contemporaneamente l’essenza umana da due diverse prospet-
tive, e pertanto possono entrambi essere oggetto di un’osserva-
zione scientifica, indirizzata a focalizzare la potentia della mens
in un caso, e quella del corpus nell’altro.
Il TP non intende quindi rifiutare l’uso politico del senti-
mento religoso, abbandonando la distinzione istituita nel TTP
tra «religione originaria» e «religione superstiziosa», nonostan-
te più di un passaggio sembrerebbe avvalorare una simile tesi;
ad esempio al II paragrafo del I capitolo viene attaccata la posi-
zione dei Theologi, i quali «credono che i detentori del potere
sovrano (summas poestates) debbano trattare gli affari pubblici
secondo le stesse pie regole di condotta (Pietatis regulas) cui de-
ve attenersi un privato»12. Ma, per quanto la riduzione della
pietas a virtù privata introduca un elemento di complicazione,
nulla autorizza a pensare che Spinoza riconosca nella voce dei
theologi l’unica espressione della religiosità umana: ancora una
volta, solo una lettura della riflessione spinoziana sulla religione
subalterna al paradigma hobbesiano e ai meccanismi di secola-
rizzazione che esso conduce a leggere la critica all’utopismo po-

11 Etica II, 7, in Opera, II, p. 89 (trad. it. p. 127).


12 Cap. I, § 2, in Opera, III, p. 274 (trad. it. p. 29).
VI. Jura communia e multitudo 265

litico come una critica alla religione tout court 13.


Vi è anche un altro termine della citazione iniziale che si
presenta come fortemente ambiguo, ovvero quel rinvio ai phi-
losophi 14 che è stato per lo più interpretato come un attacco
agli epigoni della tradizione aristotelica, la quale godeva di
grande rilievo nelle università olandesi15, ma che potrebbe rife-
rirsi anche alla scuola neostoica, anch’essa ben presente negli
ambienti accademici16. L’etica del neostoicismo, recuperando i
principi dello stoicismo antico, mira a un rigoroso disciplina-
mento delle passioni, soltanto attenuato dalla presenza di ele-
menti della morale cristiana, che contribuiscono a sostituire
l’abstinentia con la constantia quale ideale regolativo del com-
portamento del saggio17. Uno dei tratti salienti di questa filoso-
fia, ben rilevabile nell’opera di Justus Lipsius, è un pessimismo
antropologico fortemente accentuato, probabilmente di matri-
ce calvinista, da cui consegue la necessità di una morale che
predichi la strenua resistenza alla corruzione che la corporeità
e le passioni producono nell’anima. La contrapposizione tra il
mondo degli affetti e dell’opinione da una parte, e quello della
ratio dall’altra, si fonda sulla costituzione stessa della realtà, do-
minata da un disordine che solo la strenua volontà dell’uomo
13 È sempre STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, cit., a sostenere che «the op-

position to Utopias is thus nothing other than the opposition to religion. For religion
too was rejected because it was held to have its foundation in wishing» (p. 226).
14 Sul significato di questo termine nel lessico spinoziano si vedano ancora le an-

notazioni presenti nel I capitolo, pp. 34-5.


15 Cfr. ad esempio il commento del Droetto (p. 5, nota 2). Più originale è l’inter-

pretazione di Matheron, il quale rintraccia tra gli obiettivi della critica spinoziana non
solo la filosofia tomista, ma anche quella hobbesiana, accusando anche il pensatore in-
glese di soggiacere a una prospettiva teleologica (cfr. Spinoza et la décomposition de la
Politique thomiste, cit.). Su questo punto cfr. anche TOSEL, La théorie de la pratique et
la fonction de l’opinion publique dans la philosophie politique de Spinoza, in ID., Du ma-
térialisme de Spinoza, Kimé, Paris, 1994, pp. 105-24.
16 Cfr. KOSSMANN, Politieke theorie, cit., pp. 9-10, e WANSINK, Politieke weten-

schappen, cit., pp. 64-73.


17 Cfr. in proposito M. van GELDEREN, The Machiavellian moment and the Dutch

Revolt: the rise of Neostoicism and Dutch Republicanism, in Machiavelli and Republica-
nism, a cura di G. Bock, Q. Skinner e M. Viroli, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 1990, pp. 205-23, nonché DIBON, La philosophie néerlandaise au Siècle d’Or,
cit. Per un’ampia panoramica sul ruolo del pensiero neostoico nella storia della filoso-
fia moderna, cfr. G. OESTREICH, Filosofia e costituzione dello Stato moderno [1982], Bi-
bliopolis, Napoli, 1989.
266 La libertà necessaria

può sconfiggere18; ma è evidente che una simile opposizione,


così come conduce inevitabilmente alla scissione tra le facoltà
inferiori dell’uomo e quelle superiori e quasi divine, risulta
priva di significato agli occhi di Spinoza, il quale nella già cita-
ta Prefazione della III parte dell’Etica si era espresso in modo
inequivocabile contro coloro che concepiscono «l’uomo nella
natura come un dominio all’interno di un dominio (veluti im-
perium in imperio)»19. Coerentemente, anche il TP polemizza
con i philosophi, accusandoli di credere «di fare qualcosa di
divino e di toccare il culmine della saggezza, mentre tutto quel
che sanno fare è lodare in mille modi una natura umana inesi-
stente e fustigare quella che c’è davvero»20. Le conseguenze
sul piano politico di un’antropologia come quella neostoica,
priva di ogni legame con il mondo effettivo delle passioni
umani, sono evidenti:
[i filosofi] non sanno mai elaborare una politica applicabile alla prati-
ca, ma solo finzioni chimeriche o istituzioni realizzabili in Utopia, o nel
famoso secolo d’oro dei poeti, dove peraltro non ce n’è alcun bisogno.
Siccome dunque si ritiene che, fra tutte le scienze applicate (omnium
scientiarum, quae usum habent), la teoria politica sia la più discrepante
dalla propria pratica, nessuno meno dei teorici, ovvero dei filosofi, è sti-
mato idoneo a reggere le sorti della repubblica (regendae Reipublicae)21.

In realtà la dottrina politica neostoica rivolge grande atten-


zione all’aspetto storico-critico22; più ancora di Lipsius, i suoi
18 Sul soggettivismo volontaristico del pensiero neostoico insistono, seppure da
prospettive differenti, tanto BODEI, Geometria delle passioni, cit., pp. 244 sgg., quanto
BORKENAU, La transizione dall’immagine feudale all’immagine borghese del mondo, cit.,
pp. 182-92.
19 Opera, II, p. 137 (trad. it. p. 171).
20 Cap. I, § 1, in Opera, III, p. 273 (trad. it. p. 27). Tale giudizio non può comun-

que far dimenticare che esistono anche dei punti di vicinanza tra l’etica neostoica e la
riflessione spinoziana, quanto meno per la centralità che entrambe riconoscono agli af-
fetti nell’analisi della costituzione antropologica, e alla dottrina del diritto naturale in
ambito politico. Su questo cfr. P.O. KRISTELLER, Stoic and Neoplatonic Sources of Spino-
za’s Ethics, in «History of European Ideas», V, 1984, pp. 1-15.
21 Cap. I, § 1, in Opera, III, p. 273 (trad. it. p. 27). Sulla consonanza tra questo

passaggio e il capitolo XV del Principe di Machiavelli cfr. la nota 2 del traduttore, ma


anche STRAUSS, Spinoza’s Critique of Religion, cit., pp. 225 sgg. e C. GALLICET CALVET-
TI, Spinoza lettore del Machiavelli, Vita e Pensiero, Milano, 1972, pp. 10-20.
22 Al punto che BLOM, Political Science in the Golden Age. cit., definisce il neo-

stoicismo politico come «an empiricism in search of a theory» (p. 57).


VI. Jura communia e multitudo 267

successori all’Università di Leiden – soprattutto Daniel Hein-


sius e Marcus Zuerius Boxhornius – insistono, recuperando la
lezione tacitiana, sulla centralità della storia e dell’esperienza
come fondamento di una politica guidata dalla prudentia, cioè
dall’applicazione di principi che la ragione trae dall’osservazio-
ne della realtà concreta. Tuttavia anche la teoria politica come
l’etica è viziata da un dualismo insanabile, che riguarda non
più le facoltà individuali, bensì la netta contrapposizione tra la
moltitudine soggiogata dalle passioni, e i pochi – o l’unico: tut-
ti questi pensatori sono decisi sostenitori del regime monarchi-
co – capaci di governare se stessi e, di conseguenza, anche gli
altri uomini. Così, ad esempio, i Politicorum sive civilis doctri-
nae libri sex di Lipsius si aprono con uno sprezzante giudizio
sulla multitudo, «inquietam, discordem, turbidam», che deve
essere ricondotta «sub commune quoddam Oboedentiae iu-
gum»: per questo il compito del sovrano è assai complesso, e
richiede che siano messe in pratica un numero eccezionale di
virtù23; e più avanti, al capitolo V, i caratteri universali del vul-
gus vengono così elencati: instabilità, sottomissione alle passio-
ni, mancanza di un retto giudizio, inclinazione a seguire la
maggioranza, invidia, sospettosità, credulità, e soprattutto
mancanza di cura verso la Respublica24. Non molto diversa-
mente Daniel Heinsius, in una delle sue più famose orazioni,
sostiene l’importanza dell’insegnamento della scienza etica e
politica degli antichi, per non rischiare di cadere nell’immorali-
smo machiavellico25, e infine si lascia andare a un giudizio assai
negativo sull’uomo, da cui deduce la necessità di un governo
politico affidato a un sovrano sapiente26. Il dualismo antropo-

23 Cfr. Iusti LIPSI Politicorum sive civilis doctrinae libri sex, Qui ad Principatum

maxime spectant, Lugduni Batavorum, ex officina Plantiniana, Apud Franciscum Ra-


phelengium, 1589; exortatio ad imperatorem. Sulle qualità «machiavelliche» del princi-
pe di Lipsius cfr. F. DE NAVE, Peilingen naar de oorspronkelijkheid van Justus Lipsius’
politiek denken, in «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis», XXXVIII, 1970, pp. 449-83.
24 Cfr. Politicorum sive civilis doctrinae libri sex, cit., pp. 118-20.
25 Cfr. la De civili sapientia oratio. Habita cum Secundum Aristotelis Politicorum in-

terpretari inciperet, in Danielis Heinsii Orationum editio nova, Amstelodami, Ex Offici-


na Elzeviriana 1657, pp. 226-243.
26 Cfr. ivi, p. 240: «Nullum tam perniciosum est animal quam homo, si improbita-

te ratio armetur, neque legibus et poenis, ad imaginem virtutis saltem ac justitiae flecta-
268 La libertà necessaria

logico tra passioni e ragione viene così riformulato in chiave


politica nella netta contrapposizione tra l’agire irragionevole e
mutevole delle masse e la condotta virtuosa del principe, soste-
nuta dall’opera «educatrice» del filosofo. Gli scritti politici
neostoici finiscono allora per somigliare agli specula principum
della tradizione rinascimentale, che descrivevano una tipo
ideale di monarca, le cui azioni erano costantemente volte al
bene pubblico, affinché ciascun monarca in carne ed ossa po-
tesse conformarsi a un simile modello.
La critica spinoziana alla politica dei philosophi può dunque
essere estesa alla dottrina di Lispius e dei suoi epigoni, proprio
perché in quest’ultima permane un pregiudizio moralistico che,
radicalizzando lo iato esistente tra passioni e ragione, non sfug-
ge al pericolo di costruire teorie irrealizzabili. Spinoza può
concludere che i philosophi non sono in grado di reggere una
Respublica, e che la loro teoria non ha alcun valore pratico, dal
momento che essa non riconosce il principio fondamentale di
una comunità politica, ovvero l’assoluta uguaglianza tra chi go-
verna e chi viene governato; un’ignoranza che inibisce ogni
possibile comprensione dei meccanismi che orientano non solo
l’azione di chi detiene il potere, ma più in generale la costitu-
zione complessiva di uno Stato, le sue leggi e le sue istituzioni.
All’impotenza dei philosophi Spinoza sembra contrapporre
la positiva esperienza dei politici:
Si ritiene d’altro canto che i politici tendano ad ingannare gli uomini
piuttosto che a curarne gli interessi, e che siano più astuti che saggi. In
effetti sanno per esperienza che ci saranno vizi finché ci saranno uomini.
E dunque, mentre si adoperano a prevenire l’umana perfidia – e lo fanno
con quelle arti, apprese per lunga esperienza, che solitamente praticano
gli uomini guidati dalla paura più che dalla ragione – sembrano andare
contro la religione, ed in ispecie contro i teologi27.

Nonostante la diversità dell’approccio metodologico dei poli-


tici rispetto a quello dei philosophi, vi è un punto di accordo tra
le due dottrine, dato dal riconoscimento dell’inevitabile sotto-

tur. Hoc spectavit Aristoteles, hoc intellexit Plato. Haec est causa, cur justitiam ubique
et honestum illud civibus commendent».
27 TP, cap. I, § 2, in Opera, III, p. 273 (trad. it. pp. 27-9).
VI. Jura communia e multitudo 269

missione al vizio della natura umana: «vitia fore, donec homi-


nes». Un esempio eminente di questa antropologia negativa è
costituito dall’opera di due «politici» per eccellenza, i fratelli
De la Court, che nelle Consideratien van Staat affermano a chia-
re lettere, sulla scia del De cive hobbesiano28, che «il male è
l’immagine del cuore dell’uomo, fin dalla sua infanzia, e per
questo gli uomini sono e rimangono malvagi per natura»29. Ne
consegue che, poiché nessuno può sperare di ricevere alcun be-
ne da un altro uomo, la paura, soprattutto «la paura di un male
futuro (vreeze van eenig toekomend quaad)»30, risulta la passio-
ne dominante nell’esistenza umana. Poiché tale condizione, di
cui gli uomini vengono a conoscenza attraverso l’esperienza, è
intrascendibile e universale, comune a tutti gli uomini senza al-
cuna distinzione tra sudditi o governanti – e qui la distanza con
l’utopismo dei filosofi risalta immediatamente –, essa deve esse-
re alla base di ogni strategia politica. Una simile conclusione
sembra godere nel TP di un credito maggiore rispetto alla dot-
trina precedente, almeno dal punto di vista dell’utilità immedia-
ta, dal momento che indubitabilmente «proprio i politici hanno
scritto sulle questioni politiche con risultati assai migliori che
non i filosofi. Ammaestrati dall’esperienza, essi non hanno infat-
ti insegnato mai nulla che fosse distante dalla pratica (quod ab
usu remotum esset)»31. Il riferimento all’esperienza ha inoltre
28 «Tutto questo è dimostrato più ampiamente e con maggior chiarezza da Tho-

mas Hobbes nel De Cive (Dit alles breeder en de klaarder beweezen by Th. Hobb. Elem.
Phil. de Civ.)» (Consideratien van Staat, ofte Polityke Weeg-schaal, beschreven door
V.H., ‘t Amsterdam, by Jacob Volckertrsz., 1661, p. 15. Qui come altrove le citazioni
sono tratte dalla seconda edizione, che è quella posseduta da Spinoza (cfr. il Catalogus
van de Bibliotheek der vereniging Het Spinozahuis te Rijnsburg, Brill, Leiden, 1965); ri-
spetto alla prima, questa è più ampia e meglio ordinata; inoltre vi sono alcune differen-
ze di giudizio intorno alla democrazia; su questo punto, si veda la Bibliography of
Dutch 17th Century Political Thought, cit., p. 81).
29 «Figmentum cordis hominis malum est, a pueritia ipsius, [de menschen] zijn en

blijven Boozen van Nature» (ivi., p. 18). Si veda inoltre anche l’altra opera di Johan De
la Court che Spinoza possedeva, i Politike Discoursen, dove l’affermazione che «tutti
gli uomini sono cattivi per natura (alle menschen van nature boos zijn)» compare più
volte (cfr. Politike Discoursen, handelende in Ses onderscheide boeken van Steeden, Lan-
den, Oorlogen, Kerken, Regeeringen en Zeeden, beschreven door D.C., tot Leyden by
Peter Hackius 1662; ad es. p. 349).
30 Consideratien, cit., p. 19.
31 TP, cap. I, § 2, in Opera, III, p. 274 (trad. it. p. 29).
270 La libertà necessaria

una precisa connotazione antifinalistica32, che caratterizza il cri-


terio d’indagine dei politici, i quali non pretendono di regolare
il loro intervento sulla base di un modello precostituito, e per
questo non confondono la realtà con i loro desideri, né rischia-
no di ridurre la molteplicità dei comportamenti umani a un’uni-
tà fittizia e ineffettuale. Insomma, il loro metodo si adatta mag-
giormente alla pratica, in quanto riconosce come ambito privile-
giato di ricerca il terreno delle passioni umane. L’esperienza è in
grado di offrire una quantità di indicazioni e informazioni che
nessuna speculazione astratta, per quanto approfondita, potreb-
be fornire; di questo Spinoza è assolutamente certo, e lo ribadi-
sce poche righe dopo:
l’esperienza, ne sono ben persuaso, ha già mostrato tutte le forme di
organizzazione civile (omnia Civitatum genera) concepibili perché gli uo-
mini vivano concordi, nonché i mezzi con i quali il popolo (multitudo)
debba essere diretto, ovvero contenuto entro limiti definiti; non credo
dunque che noi possiamo raggiungere a questo proposito qualche risulta-
to non discordante dall’esperienza, ovvero dalla pratica (quod ab expe-
rientia, sive praxi non abhorreat), che non sia stato ancora trovato e speri-
mentato33.

Liberando l’indagine politica dalla teleologia, il rinvio all’e-


sperienza diviene conditio sine qua non della scientificità della
ricerca, della sua aderenza al mondo reale. L’esperienza, in par-
ticolare quella forma peculiare che è la storia (e in tal senso la
riflessione sul nesso tra storia ed ermeneutica biblica presente
nel TTP è tenuta ancora presente), è il presupposto necessario
per una impostazione corretta della scienza politica e non solo,
poiché ogni processo conoscitivo che riguardi l’esistente non
può prescindere dal dato empirico34. In quest’ottica, ad esem-
pio, il riferimento alla multitudo – termine che nel corso della

32 Su questo punto cfr. H. DE DIJN, Ervaring en theorie in de staatkunde. Een

analyse van Spinoza’s «Tractatus Politicus», in «Tijdschrift voor Filosofie», XXXII,


1970, pp. 30-71.
33 TP, cap. I, § 3, in Opera, III, p. 274; (trad. it. p. 29).
34 Cfr. lo stesso TP, cap. II § 2: «Qualsiasi cosa naturale, esistente o inesistente,

può essere adeguatamente concepita. Come il principio dell’esistenza delle cose natu-
rali, neppure il loro perseverare nell’esistenza può dunque desumersi dalla loro defini-
zione» (Opera, III, p. 276; trad. it. p. 35).
VI. Jura communia e multitudo 271

trattazione assumerà un peso teorico rilevante –, privo com’è di


qualsiasi accentuazione moralistica, esprime la neutralità origi-
naria dell’osservazione empirica, che deve rispondere esclusiva-
mente a un criterio quantitativo35; e proprio il rifiuto del meto-
do «qualitativo» dei philosophi apre lo spazio per un’indagine
libera dai pregiudizi, allo stesso modo in cui la critica biblica
del TTP è condizione di possibilità di una comunicazione uni-
versale emancipata dall’ideologia.
Tuttavia il rinvio all’esperienza non può soddisfare completa-
mente le esigenze di una conoscenza scientifica, poiché essa in-
dica soltanto l’ultimo atto di un meccanismo causale che rimane
implicito, inspiegato dall’immediatezza della percezione, di mo-
do che, se l’esperienza non è mai falsa, d’altra parte non è nep-
pure mai interamente vera, non riuscendo a esprimere in forma
compiuta la verità del processo che la costituisce. Per questo i
politici, pur mantentendo nei loro insegnamenti un costante ri-
ferimento alla pratica, rimangono imprigionati in uno scettici-
smo improduttivo quando sostengono l’inevitabile corruzione e
malvagità della natura umana. Se l’approccio empiristico, al
contrario della speculazione astratta, è condizione necessaria
per la nascita di una scienza politica diretta alla pratica, tuttavia
esso non può venire assolutizzato, al punto da coincidere con
l’intero processo di ricerca, che nel dato empirico ha il suo av-
vio, ma non la sua conclusione; non a caso il TP contiene dei
passaggi nei quali l’insegnamento dell’experientia è accettato
(«abbiamo esperienze più che sufficienti per sapere come la sa-
nità mentale non sia in nostro potere più della sanità del cor-
po»36), e altri dove esso è invece confutato dal ragionamento
(«L’esperienza però sembra insegnare, al contrario, che il confe-
rimento di tutto il potere a uno solo giovi alla pace e alla con-
cordia»; e il paragrafo conclude, invece, che giova «alla causa
della schiavitù, non a quella della pace, che tutto il potere sia
trasmesso a uno solo»37). Per Spinoza non si tratta di contrap-
porre all’uomo immaginario dei philosophi un uomo reale per-
35 A tale proposito De Dijn sottolinea la natura sperimentale dell’indagine politica

spinoziana (Ervaring en theorie in de staatkunde, cit., p. 44).


36 Cap. II, § 6, in Opera, III, p. 278 (trad. it. p. 39).
37 Cap. VI, § 4 in Opera, III, p. 298 (trad. it. p. 89).
272 La libertà necessaria

ché costruito sui dati della percezione sensibile, dal momento


che anche quest’ultima rientra tra le forme di conoscenza im-
maginativa, e perciò il rischio di produrre delle costruzioni fan-
tastiche non scompare. Piuttosto, il rinvio all’esperienza va in-
teso come la ricerca di un livello dell’immaginazione capace di
evolversi verso la forma della conocscenza vera, in grado cioè
di produrre un percorso autonomo di emendazione38. La pras-
si qui va intesa in termini minimali, tali da garantire semplice-
mente la possibilità di una vita a livello elementare, che supera
appena lo stadio di totale inimicizia del bellum omnium contra
omnes. Per questo Spinoza ritiene necessario differenziare il
suo metodo anche da quello dei politici, indicandone i caratteri
fondamentali:
Nel rivolgere, dunque, la mia attenzione alla politica, non mi sono pro-
posto di scoprire soluzioni nuove o inaudite (nihil quod novum, vel inaudi-
tum est), ma soltanto di dimostrare con ragionamento certo ed esente da
dubbio quelle che meglio si accordano con la pratica (cum praxi optime
conveniunt), o di dedurle dalla stessa condizione della natura umana39.

Non ci si lasci ingannare: non si tratta affatto di «non pensa-


re» più in maniera originale, ma piuttosto di non affannarsi a
cercare nuova materia per la riflessione, traendola magari dalla
propria fantasia (l’inauditum sembra proprio rinviare a una
creazione fantasmatica) anziché dall’esperienza comune; d’altra
parte, quest’ultima deve essere oggetto di un’ulteriore elabora-
zione, affinché se ne possano estrapolare non soltanto gli ele-
menti che permettono la costruzione di una teoria «compatibi-
le con l’esperienza o con la pratica», come sarebbe quella di
ogni buon politico, ma anche quelli che con la pratica «meglio
si accordano». È necessario un metodo che colga nel dato em-
pirico l’apertura alla dimensione dell’agire, dalla quale dedurre
una politica non definita aprioristicamente da una proiezione
teleologica dei propri desideri, bensì quella politica determina-
ta che le circostanze, di volta in volta, richiedono. Affinché

38 Come afferma giustamente Tosel, l’abilità tecnica dei politici produce solo le

condizioni della sopravvivenza di una collettività, ma niente di più (cfr. Théorie de la


pratique, cit., p. 112).
39 TP, cap. I, § 4, in Opera, III, p. 274 (trad. it. p. 29).
VI. Jura communia e multitudo 273

questo avvenga, la ricerca scientifica deve essere libera: libera


soprattutto dai pregiudizi moralistici, che possono nascere an-
che dall’assenza di riflessione e dall’eccessiva fiducia nell’im-
mediatezza della percezione (ovvero, da un’immaginazione pri-
va di critica):
per studiare quanto attiene a questa scienza con la stessa libertà d’ani-
mo che ci è solita negli studi matematici, mi sono fatto regola scrupolosa
di non irridere né compiangere né deprecare le azioni umane, ma di com-
prenderle: e dunque ho considerato gli affetti umani come l’amore, l’o-
dio, l’ira, l’invidia, la presunzione, la compassione e tutti gli altri moti
dell’animo (animi commotiones) non come vizi della natura umana, ma
come proprietà che le appartengono così come alla natura dell’aria ap-
partengono il caldo, il freddo, la tempesta, il tuono e altre simili cose.
Queste, anche se ci disturbano, sono necessarie, e hanno cause determi-
nate mediante le quali tentiamo di comprenderne la natura (tametsi in-
commoda sunt, necessaria tamen sunt, certasque habent causas)40.

Il binomio libertà-necessità conduce al riconoscimento della


necessità immanente alla produzione dei sentimenti umani – si
potrebbe dire: della necessità del contingente41 –, che si inseri-
scono in un processo causale determinato; nasce così la possi-
bilità di un’indagine libera, che non subisce passivamente quel-
la stessa necessità, ma che concepisce gli affetti come «sempli-
ci» proprietà dell’essenza umana, e conseguentemente ricono-
sce l’intrascendibile appartenenza di quest’ultima alla dimen-
sione naturale. Pertanto la critica di una concezione antropo-
centrica dell’universo – che la Prefazione della III parte dell’E-
tica aveva già ampiamente sviluppato – diventa un momento
ineludibile per la costruzione di un progetto scientifico di inda-
gine sull’uomo.
Una teoria che intenda avere una ricaduta pratica deve in-
nanzitutto tenersi lontana da ogni commistione con forme di
conoscenza confusa, quale ad esempio l’experientia vaga, pro-
dotta da un’immaginazione non emendata: la teoria deve cioè
salvaguardare la propria teoreticità, la ‘purezza’ del metodo
40 Ibid. (trad. it. pp. 29-31).
41 Su questo punto si esprime appropriatamente BLOM, Spinoza précurseur de la
méthode analytique dans les sciences sociales, in «Il pensiero politico», XVIII, 1985, pp.
18-38.
274 La libertà necessaria

analitico, restando nel contempo saldamente ancorata all’espe-


rienza, dalla quale essa trae la propria forza ermeneutica, senza
pretendere di risolverne le oscurità e le aporie in una visione
trasparente e pacificata, ma cercando invece di cogliere le rego-
larità presenti nei fenomeni. La teoria di una pratica vera deve
quindi esprimere la propria necessità, ma anche il proprio limi-
te strutturale, determinato dall’impossibilità di riconoscere ogni
aspetto dell’ordine infinito delle cause naturali; il che non con-
duce inevitabilmente a un giudizio pessimistico sulle facoltà co-
noscitive dell’uomo, e a un atteggiamento scettico nei confronti
di ogni progettualità politica, quanto piuttosto all’evidenza che
la scienza dell’uomo e della società (come peraltro anche quella
naturale) ha a che fare con un sistema in continuo mutamento,
per definizione instabile. La scienza politica è quindi anche
comprensione del ruolo dello scienziato nella società, soprattut-
to dei suoi limiti, che sono tali per cui egli non può presumere
di svolgere un ruolo decisivo nel governo dei processi in atto.
Nulla è più errato di una concezione del filosofo politico come
«mente del principe», saggio e ascoltato consigliere di chi detie-
ne il potere, poiché verrebbe così rimosso, ancora una volta, il
peso decisivo degli affetti nelle decisioni degli uomini, sovrani
compresi: né l’educazione ai valori della morale tradizionale, né
le più realistiche «tecniche (artes)» dei politici possono vantare
una capacità di comprendere e rimodellare integralmente il
comportamento umano42. Soltanto abbandonando le illusioni
di onnipotenza, la scienza politica diventa uno strumento utile
a favorire il processo di emancipazione della società; infatti, già
nel momento in cui riconosce la sostanziale uguaglianza di tutti
gli individui – sovrani e filosofi inclusi –, ciascuno impegnato in
un conflitto interminabile con le proprie passioni, essa compie
un decisivo passo avanti sulla via della costituzione di un regi-
me politico nel quale la potenza del singolo cittadino venga po-
sta la servizio del benessere collettivo43, e, viceversa, quella del-
l’intera multitudo serva il benessere del singolo.
42 Cfr. WALTHER, Institution, Imagination und Freiheit bei Spinoza, cit., in partico-

lare p. 248.
43 In tal senso Tosel sostiene che il metodo spinoziano è elaborato «en référence

implicite à la démocratie» (Théorie de la pratique, cit., p. 119).


VI. Jura communia e multitudo 275

Da queste riflessioni sul metodo del TP emerge una fonda-


mentale omogeneità con il TTP, che sembra nascere dall’inten-
zione di approfondire quanto era rimasto implicito nell’analisi
dell’immaginazione religiosa, ossia l’articolazione dei meccani-
smi affettivi che regolano le relazioni interindividuali (compre-
sa la genesi della religione e del suo uso ideologico). Il progetto
che sottende la scrittura del TP ingloba quello del trattato pre-
cedente, e anzi ne radicalizza la portata innovativa dell’analisi
antropologia e delle sue conseguenze politiche; come se Spino-
za, di fronte a una situazione politica compromessa, a seguito
la crisi del 1672, potesse ormai permettersi una riflessione di
più ampio respiro.

2. La scienza delle passioni umane


nel TP e nelle Consideratien van Staat
Quali sono i principi che si accordano con la pratica, deduci-
bili dalla natura umana e utilizzabili per definire il quadro dei
meccanismi che strutturano il corpo politico? Spinoza enuncia
subito il principio fondamentale, già esposto nel TTP e nell’Eti-
ca: «homines necessario affectibus esse obnoxios»44. Da questo
principio derivano due corollari: il primo afferma che «pensare
che il popolo, o coloro che vengono delegati ai pubblici affari
(multitudinem, vel qui publicis negotiis distrahuntur), possano es-
sere indotti a vivere in base ai soli dettami della ragione, equiva-
le a sognare il secolo d’oro dei poeti, o una favola»45; il secondo
che «le cause e le fondamenta naturali dello stato (imperii cau-
sas, et fundamenta naturalia) non vanno ricercate negli insegna-
menti della ragione, ma vanno dedotte dalla comune natura, ov-
vero condizione degli uomini»46. L’esatta comprensione del si-
gnificato dei due corollari politici rinvia alla dottrina del diritto
naturale sviluppata nel II capitolo, in continuità con quella pre-
44 TP, cap. I, § 5, in Opera, III, p. 275. Cristofolini traduce: «gli uomini sono ne-

cessariamente attraversati dagli affetti» (trad. it. p. 31), sottolineando in nota che «il la-
tino obnoxius contiene la duplice valenza di ciò che nuoce e di ciò che invade, o perva-
de» (p. 241).
45 Ibid. (trad. it. p. 33).
46 Ivi, § 7, p. 276 (trad. it. p. 33).
276 La libertà necessaria

sente al capitolo XVI del TTP. Anche nell’enunciare l’intrascen-


dibilità delle passioni umane Spinoza utilizza lo stesso aggettivo,
obnoxius, presente nella Prefazione del primo trattato, dove ve-
niva evidenziato il fatto che «tutti gli uomini sono ad essa [sc. al-
la superstizione] naturalmente inclini (natura superstitioni esse
obnoxios)». Come è già stato rilevato, vi è piena corrispondenza
tra lo stato di passività del corpo, determinato dal suo assogget-
tamento alle passioni, e quello della mente, che si manifesta nel-
la degenerazione superstiziosa della vera religio47. Tale paralleli-
smo ripropone quel legame tra affezione corporea e idea di tale
affezione48, sulla base del quale il TTP aveva sostenuto la natura
intrinsecamente politica del fenomeno religioso. Analogamente,
anche il TP sottolinea la politicità del messaggio religioso, met-
tendo però l’accento sulla sua strutturale debolezza:
per quanto tutti siano persuasi che la religione, al contrario, prescrive
a ciascuno di amare il prossimo come se stesso, ossia di difendere il dirit-
to altrui al pari del proprio, questa persuasione, abbiamo mostrato, ha
poco potere sugli affetti (in affectus parum posse ostendimus)49.

L’invito cristiano all’amore sortisce qualche effetto soltanto


«dove gli uomini non esercitano alcuna relazione (ubi homines
nullem exercent commercium)», e quindi mai dove esso sarebbe
necessario a regolare i rapporti di potere, cioè «nelle piazze e
nei palazzi (in foro vel in aula)»50; questo significa che il nesso
tra religione – intesa come vera religio – e politica appare fin
dalle prime pagine del TP fortemente problematico, come se
non vi fosse più spazio per un agire politico mediato dall’ideo-

47 In realtà poiché, secondo quanto afferma la def. III della III parte dell’Etica,

per affetto si devono intendere «le affezioni del Corpo, con le quali la potenza d’agire
dello stesso Corpo è aumentata o diminuita, favorita o ostacolata e, simultaneamente,
le idee di queste affezioni» (Opera, II, p. 139; trad. it. p. 172), le passioni implicano la
passività tanto del corpo quanto della mente, anche se la causa originaria di tale passi-
vità è corporea.
48 Cfr. Etica, II, 17, in Opera, II, p. 104 (trad. it. p. 141).
49 TP, cap. I, § 5, in Opera, III, p. 275 (trad. it. p. 31). D’altronde già il V capitolo

del TTP afferma che «se gli uomini fossero per natura costituiti in modo da non desi-
derare se non ciò che la vera ragione indica, la società non avrebbe affatto bisogno di
leggi, ma per sé sarebbe sufficiente che agli uomini fossero insegnati i veri principi del-
la vita morale» (Opera, III, p. 73; trad. it. p. 129).
50 TP, cap. I, § 5, in Opera, III, p. 275 (trad. it. p. 31).
VI. Jura communia e multitudo 277

logia religiosa, ma soltanto per un dispiegamento deregolamen-


tato delle passioni, che conduce inevitabilmente a uno scontro
tra le fazioni in lotta per l’egemonia. Questo mutamento pro-
spettico potrebbe essere letto come conseguenza del crollo del
regime di De Witt e del fallimento della sua politica di tolleran-
za religiosa; un fallimento tale da generare in Spinoza una gran-
de sfiducia non solo nei confronti della strategia del partito de-
gli staatsgezinden, ma più in generale delle capacità di una col-
lettività di produrre al suo interno un accordo stabile e duratu-
ro; di qui l’accentuato pessimismo che alcuni interpreti hanno
riscontrato nelle pagine del TP51. Una conferma di questa in-
terpretazione sarebbe rintracciabile anche al paragrafo 6 di
questo I capitolo, dove si dice che «la virtù dello stato è la sicu-
rezza (imperii virtus securitas)», mentre «la libertà, ossia la for-
za d’animo è una virtù privata»52, prendendo esplicitamente le
distanze dalle conclusioni del TTP. Tuttavia, se il compito della
politica si limitasse a elaborare gli strumenti per governare la
multitudo, si riproporrebbe quel dualismo tra una massa sog-
getta alle passioni e un ristretto numero di governanti capaci di
scelte razionali, che Spinoza rifiuta con decisione.
Per fare chiarezza su questo punto controverso è necessario
seguire la trattazione dello jus naturale al capitolo II, che pren-
de l’avvio dalla seguente definizione:
A partire dunque da qui – dal fatto, cioè, che la potenza per cui le co-
se naturali esistono e operano si identifica completamente con la potenza
di Dio – ci è facile intendere che cosa sia il diritto di natura. Infatti, poi-
ché Dio ha diritto a tutto, e il diritto di Dio altro non è che la sua stessa
potenza in quanto la si considera assolutamente libera, ne consegue che
una qualsiasi cosa naturale ha dalla natura tanto diritto quanta è la sua
potenza di esistere e operare (unamquamque rem naturalem tantum juris
ex natura habere, quantum potentiae habet ad existendum, et operandum),
dal momento che la potenza di qualsiasi cosa naturale, grazie alla quale
essa esiste ed opera, non è altro che la potenza stessa di Dio, assoluta-
mente libera (quae absolute libera est)53.

51 Ad esempio FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit.


52 Opera, III, p. 275 (trad. it. p. 33). Sul significato della virtus spinoziana, in am-
bito etico e politico, cfr. GIANCOTTI, Sul concetto spinoziano di virtù, in La Ética de Spi-
noza. Fundamentos y significado, cit., pp. 319-29.
53 Cap. II, § 3, in Opera, III, pp. 276-7 (trad. it. p. 15).
278 La libertà necessaria

Spinoza giunge alle medesime conclusioni del TTP, definen-


do il diritto naturale come lo spazio concreto dell’agire indivi-
duale (in termini più adeguati all’ontologia dell’Etica, si po-
trebbe dire che è l’agire stesso a definire l’individualità54), pro-
dotto dalla coestensività di jus e potentia; l’unica differenza è
data dal rovesciamento del tragitto della potenza, dal momento
che, mentre nel trattato precedente Spinoza aveva sviluppato il
proprio ragionamento lungo una linea compositiva che andava
dalla «potenza complessiva (simul) di tutti gli individui» alla
«potenza universale dell’intera natura», ora invece discende
dalla potenza absolute libera di Dio a quella di ciascun indivi-
duo naturale. Il confronto tra i due testi chiarisce comunque il
rapporto esistente tra la sostanza e i suoi modi, poiché ciascuno
di essi ne illumina un aspetto decisivo: il capitolo XVI del TTP
evidenzia l’appartenenza della natura infinita e delle sue parti
finite al medesimo piano ontologico (per quanto l’avverbio si-
mul, come è stato sottolineato, complichi parzialmente il qua-
dro), rilevando la stringente necessità che inerisce alla produ-
zione dei modi della sostanza; invece il brano sopra citato insi-
ste sulla presenza di un elemento divino – cioè potente e pro-
duttivo, o anche, se si vuole, libero – che si esprime nel mecca-
nismo di concatenazione causale da cui traggono origine le res
naturales (il che impedisce di intendere il materialismo spino-
ziano in chiave meccanicistica55). In entrambi i casi, e nel TP

54 R. Misrahi definisce il conatus, ossia la potenza naturale dei modi, come l’insie-

me delle azioni necessarie che definiscono un individuo (Le Désir et la Réflexion dans
la philosophie de Spinoza, Gordon & Breach, Paris-London-New York, 1972, p. 21).
Dello stesso autore si veda anche il saggio più recente, Le désir, l’existence et la joie
dans la philosophie, c’est-à-dire l’éthique de Spinoza, in La Ética de Spinoza. Fundamen-
tos y significado, cit., pp. 53-64. Nello stesso volume la concezione dinamica dell’indivi-
dualità in Spinoza è messa adeguatamente in rilievo da C. FLOREZ MIGUEL, Potencia y
teoría de la acción en Spinoza, pp. 123-34. Più in generale, sul nesso tra la costituzione
ontologica del Deus sive Natura e quella dell’individuo cfr. CAPORALI, La fabbrica del-
l’imperium, cit., pp. 56 sgg.
55 Cfr. in proposito A. TOSEL, Du matérialisme de Spinoza, in Id., Du matérialisme

de Spinoza, cit., pp. 127-53, soprattutto pp. 138-9. Sul rapporto tra Spinoza e la filoso-
fia del XVIII secolo, in particolare in Francia, cfr. anche E. GIANCOTTI, Baruch Spinoza
1632-1677. La ragione la libertà l’idea di Dio e del mondo nell’epoca della borghesia e
delle nuove scienze, Editori Riuniti, Roma, 1985, pp. 144 sgg., e P. VERNIERE, Spinoza et
la pensée française avant la Révolution, 2 voll., PUF, Paris, 1981 (I ed. 1954).
VI. Jura communia e multitudo 279

con la massima chiarezza, emerge come elemento decisivo la


considerazione del carattere attivo e produttivo dello jus natu-
rale considerato assolutamente, ovvero a partire dalla radice
metafisica della Dei aeterna potentia che lo fonda.
Questa struttura dell’individualità vale ovviamente anche
per gli esseri umani, la cui potenza naturale, «ossia, il loro dirit-
to, deve definirsi sulla base non della ragione, ma di ognuno di
quegli appetiti che li determinano ad agire e con cui tendono a
conservarsi»56. Anche l’affermazione successiva conferma l’im-
pianto concettuale che salda ontologia e antropologia:
Quei desideri (cupiditates illas), che non sono originati dalla ragione,
lo ammetto senza dubbio, non sono tanto azioni, quanto passioni umane.
Ma poiché ora stiamo trattando della potenza o diritto universale della
natura, non possiamo riconoscere alcuna differenza fra i desideri ingene-
rati in noi dalla ragione e quelli causati da altro, dal momento che gli uni
e gli altri sono effetti della natura e dispiegano la forza naturale (vimque
naturalem explicant) per cui l’uomo tende a perseverare nel suo essere57.

Questa prospettiva universalistica definisce un aspetto fon-


damentale della teoria spinoziana delle passioni umane, in
quanto la passività di ogni comportamento generato da cause
esterne all’essenza individuale mantiene comunque una valenza
positiva in termini assoluti, essendo l’espressione di una forza
(vis) che attraversa le singolarità, e che evidenzia la strutturale
apertura al mondo di ogni modo finito, e dell’uomo in partico-
lare58. Per questo anche i desideri non razionali fanno parte del
conatus umano, e quindi del suo jus naturale, e pertanto devo-
no essere considerati come delle proprietà che ineriscono alla
sua natura necessariamente, e non per motivi contingenti (da
cui consegue che una liberazione da essi può avvenire soltanto
con il riconoscimento della loro necessità). Una conseguenza
56 Cap. II, § 5, in Opera, III, p. 277 (trad. it. p. 37). La III parte dell’Etica, e in

particolare lo Scolio della proposizione 9, chiarisce il nesso esistente tra conatus, appeti-
tus e cupiditas (cfr. Opera, II, pp. 147-8; trad it. p. 180).
57 Cap. II, § 5, in Opera, III, p. 277 (trad. it. p. 37).
58 Sul concetto spinoziano di vis come manifestazione della potenza naturale al-

l’interno del sistema delle relazioni intermodali, cfr. MUGNIER-POLLET, La philosophie


politique de Spinoza, cit., pp. 96 sgg., e R. MC SHEA, Spinoza on Power, in «Inquiry»,
XII, 1969, pp. 133-43, che sottolinea l’aspetto interattivo della potentia di ciascun «si-
stema-uomo».
280 La libertà necessaria

decisiva sul piano politico è che il diritto naturale di ciascun in-


dividuo si determina sempre attraverso la relazione con quello
di altri individui con cui egli si relaziona, ottenendo di volta in
volta un incremento o una diminuzione della propria potenza.
All’interno di una situazione così complessa e articolata, la
ragione umana esprime quindi solo una parte limitata delle leg-
gi che nascono dagli innumerevoli contatti tra potenze naturali
(umane e non): infatti
la natura non è regolata dalle leggi della ragione umana, che mirano
unicamente al vero utile e alla conservazione degli uomini, ma da infinite
altre, riguardanti l’eterno ordine dell’intera natura, di cui l’uomo è una
piccola parte. [Di conseguenza] quello che la ragione indica come male
non è male rispetto all’ordine e alle leggi della natura universale, ma sol-
tanto rispetto alle leggi della nostra natura59.

Rispetto al capitolo XVI del TTP, qui la cupiditas umana è


definita con maggiore coerenza nei confronti delle tesi espresse
nell’Etica, dal momento che Spinoza non concede spazio ad af-
fermazioni che rievochino il volontarismo di matrice giusnatu-
ralistica, come talvolta accadeva nel trattato precedente (dove
l’intenzione nell’uso di una simile terminologia era quella di
elaborarne una critica immanente). Al rifiuto di ogni ambiguità
linguistica si affianca inoltre un marcato disinteresse per le te-
matiche contrattualistiche nell’analisi della genesi dello stato
politico, il che sembra produrre uno scarto tra le due opere, di
cui occorrerà rendere conto.
Un altro aspetto importante della dottrina spinoziana del di-
ritto naturale – questo sì presente anche nel primo trattato – è
dato dalla critica dell’antropocentrismo, che vuole fondare una
supremazia dell’uomo, l’unico ente cui viene attribuito il libero
arbitrio, sugli altri esseri. È ancora l’avvio della III parte dell’E-
tica, attraverso la famosa critica della concezione dell’uomo co-
me «uno stato entro lo stato (imperium in imperio)»60, a per-
mettere a Spinoza di concludere, attraverso un riferimento al-
l’osservazione empirica («abbiamo esperienze più che sufficien-

59 TP, cap. II, § 8, in Opera, III, p. 279 (trad. it. p. 43). Per una lettura suggestiva

del problema del male in Spinoza cfr. DELEUZE, Spinoza. Filosofia pratica, cit., pp. 44-62.
60 TP, cap. II, § 6, in Opera, III, p. 277 (trad. it. p. 39).
VI. Jura communia e multitudo 281

ti»61), che l’impotenza umana a esercitare un potere assoluto


sulle proprie azioni è altrettanto naturale – e quindi anche divi-
na, se si riconosce l’insensatezza di concepire Dio attraverso il
modello antropomorfico sopra descritto – della capacità di se-
guire i dettami della ragione. Questa riformulazione del rappor-
to tra l’uomo e Dio trae origine dal rifiuto del concetto di vo-
lontà libera, intesa come facoltà di scegliere tra un numero in-
definito di possibilità, grazie alla propria indipendenza dalle
circostanze esterne; per Spinoza invece la libertà è
una virtù, ossia una perfezione: e dunque tutto ciò che nell’uomo è in-
dizio di impotenza non può essere posto in relazione con la sua libertà.
Perciò l’uomo non può affatto dirsi libero perché può non esistere, o per-
ché può non usare la ragione, ma solo in quanto (quatenus) ha il potere
di esistere e di operare secondo le leggi dell’umana natura62.

Più ancora che nel TTP, dove la libertà veniva definita come
facoltà di vivere «secondo il solo dettame della ragione», in
questo brano risalta l’aspetto operativo della libertà, che coinci-
de con la misura effettiva della potenza di agire, cioè di essere
causa adeguata del proprio comportamento; non a caso il verbo
posse – da cui derivano i termini potestas e potentia – in Spinoza
indica sempre una capacità in atto, mai la semplice potenziali-
tà63. L’abbandono delle categorie di infinitezza (nel senso di
«indefinitezza») e di possibilità (nel senso di «potenzialità ine-
sauribile») per definire la libertà umana permette la saldatura
tra quest’ultima e la libertà di Dio, il quale, «come esiste per la
necessità della sua natura, così, sempre per necessità della sua
natura agisce; ovvero agisce in libertà assoluta»64; coerentemen-
te, anche la libertà dell’uomo si esprime sempre nella capacità
di stare pienamente e armonicamente all’interno della necessità
del proprio essere. D’altra parte, poiché «non è nel potere (in
potestate) di ogni uomo usare sempre la ragione ed essere al più
alto livello della libertà umana»65, ne risulta una gradualità nel
61 Ivi, p. 278 (trad. it. p. 39).
62 Cap. II, § 7, in Opera, III, p. 279 (trad. it. p. 41).
63 Cfr. l’analisi prodotta al IV capitolo, p. 157, nonché il riferimento ad Etica, I,

11, dimostrazione III, presente in nota.


64 TP, cap. II, § 7, in Opera, III, p. 279 (trad. it. p. 41).
65 Ivi, § 8, p. 279 (trad. it. pp. 41-3).
282 La libertà necessaria

diritto naturale che va da un massimo di passività a un massimo


di attività, senza però che siano mai aboliti del tutto, anche nel-
le situazioni estreme, il limite della finitezza modale da un lato,
e la tensione a conservare il proprio essere dall’altro.
Ritornando al primo dei corollari politici individuati all’inizio
del paragrafo, risulta chiaro il significato dell’impossibilità di ri-
porre alcuna fiducia nella condotta razionale di tutti, o anche
solo di una parte, degli individui che costituiscono uno Stato:
uno stato (imperium) la cui salvaguardia (salus) dipenda dalle buone
intenzioni di qualcuno e i cui affari possano essere correttamente gestiti
soltanto grazie alla buona fede degli amministratori, non avrà la minima
stabilità; anzi, perché esso si possa conservare, occorre che i suoi pubblici
affari (res ejus publicae) siano organizzati in modo tale che gli ammini-
stratori, non importa se guidati dalla ragione o dagli affetti, non possano
essere indotti a comportamenti infidi e disonesti66.

Su questa esplicita professione di realismo politico si fonda


la distinzione già rilevata tra la libertas come «virtù privata» e
la securitas come «virtù dello stato». Realismo qui significa
l’abbandono di ogni illusione circa la possibilità di costruire un
ordinamento politico perfetto, in cui l’armonia tra gli individui
sia il frutto della fides che ciascuno concede naturalmente agli
altri; tale fedeltà non ha alcun fondamento nella struttura del
diritto naturale individuale (e la critica al razionalismo grozia-
no presente nel TTP è sostanzialmente ribadita), né trova spa-
zio all’interno dei meccanismi che generano l’imperium e lo
mantengono in vita. L’ordine politico sta in una relazione dia-
lettica ininterrotta con le passioni collettive, in quanto esso de-
ve garantire la sicurezza generale, e quindi frenare gli aspetti
disgreganti del mondo affettivo. Questo ordine, però, non è
deducibile da principi razionali, ma nasce proprio da quegli
stessi affetti che ha il compito di governare. Si compie così il
passaggio dal primo al secondo corollario politico dell’antropo-
logia spinoziana; infatti, poiché
gli uomini, barbari o civilizzati che siano, dappertutto instaurano co-

66 Cap. I, §§ 5 e 6, in Opera, III, p. 275 (trad. it. p. 33). Sulla sostanziale omoge-

neità della natura di governanti e governati insiste anche il § 27 del cap. VII (Opera,
III, pp. 319-20; trad. it. pp. 141-3).
VI. Jura communia e multitudo 283

muni usanze e danno forma a qualche stato di civiltà (statum aliquem ci-
vilem), le cause e le fondamenta naturali dello stato non vanno ricercate
negli insegnamenti della ragione, ma vanno dedotte dalla comune natura,
ovvero condizione, degli uomini67.

Gli affetti e non la ratio sono all’origine della genesi dello


Stato: è questa la conclusione del I capitolo, la cui affinità con
le affermazioni presenti nelle Consideratien dei fratelli De la
Court appare evidente. Tale evidenza, tuttavia, non basta a
comprendere la natura della relazione esistente tra la riflessione
politica spinoziana dopo il 1672 e l’orizzonte teorico del repub-
blicanesimo olandese della II metà del secolo, né a cogliere l’e-
satto rapporto di queste riflessioni con il progetto politico de-
wittiano (e, per quanto riguarda Spinoza, anche con il suo falli-
mento). Alcuni interpreti hanno individuato negli scritti dei De
la Court un’importante fonte d’ispirazione per il TP 68, corrobo-
rando questa tesi anche con il fatto che sia le Consideratien van
Staat, sia i Politike Discoursen erano presenti nella biblioteca
spinoziana, e sottolineando inoltre il giudizio lusinghiero pre-
sente proprio nel trattato di Spinoza nei confronti di uno dei
fratelli, definito come «autorevolissimo (prudentissimus)»69, a
testimonianza di una stima che potrebbe nascere dalla condivi-
sione del medesimo approccio metodologico alle tematiche po-
litiche. Si tratta tuttavia di comprendere fino a che punto si
spinga questa consonanza, e se essa esprima una scelta di cam-
po comune sul piano politico.
Si è già ricordata la collocazione dell’opera dei De la Court
al di fuori dell’ambito accademico, vicina piuttosto al partito

67 Ivi, § 7, pp. 275-6 (trad. it. p. 33).


68 Una simile interpretazione è presente soprattutto tra gli studiosi dei Paesi Bassi,
a partire dall’opera di KOSSMANN Politieke theorie, cit., la quale afferma che Spinoza
«De la Court’s ideeen opnam en systematiseerde (raccolse le idee di De la Court e le si-
stematizzò)», di modo che quest’ultimo è per il TP «meer dan een bron van informatie
geweest en het is noodzakelijk uiteen te zetten hoe intiem de Spinozistische politica met
die van De la Court verwant is (più che una fonte di informazioni, ed è necessario inve-
ce enunciare quanto intimamente la politica di Spinoza sia imparentata con quella di
De la Court)» (p. 50). Più recentemente, Blom ha sottolineato come Spinoza abbia con-
tinuato il programma di ricerca di De la Court, ottenendo però dei risultati che avreb-
bero meravigliato quest’ultimo (Political Science in the Golden Age, cit., p. 60).
69 Cap. VIII, § 31, in Opera, III, p. 338 (trad. it. p. 185).
284 La libertà necessaria

degli staatsgezinden, e anzi con un’accentuazione estremistica,


dettata dall’assunzione della portata innovativa di pensatori
quali Descartes ed Hobbes – senza dimenticare il recupero del
repubblicanesimo del Machiavelli dei Discorsi nei Politike Dis-
coursen, o l’uso spregiudicato dell’antropologia neostoica70; ta-
le riflessione si inserisce quindi a pieno titolo nel processo di
secolarizzazione della politica avviatosi nel XVII secolo71. Fin
dalle prime pagine, infatti, occupate dall’analisi della natura
umana, le Consideratien van Staat rivelano l’influenza del De
Cive, quando ad esempio affermano che l’egoismo è il princi-
pale movente dell’agire individuale, sia nello stato di natura, sia
in quello politico: «l’amor proprio è all’origine di tutte le azioni
umane, sia di quelle buone che di quelle malvagie»72. Anche
l’amore verso il prossimo, spiegano i Politike Discoursen, non è
che una modalità particolare dell’amore verso se stessi che cia-
scun uomo, riconoscendosi finito e mancante, riversa nei con-
fronti di coloro che sente vicini a lui, e con i quali «condivide
desideri, inclinazioni e giudizi (sinnen, geneegentheden, en oor-
deel)»73. E tuttavia per lo più l’amore di sé, dispiegandosi in as-
senza di rapporti stabili tra gli individui, spinge ognuno a cer-
care di prendere possesso dei mezzi di sussistenza, privandone
contemporaneamente gli altri, cosicché il risultato immediato
dell’agire naturale dell’uomo è che ovunque regna la paura e la
diffidenza: «homo homini lupus in statu naturali»74, secondo la
nota espressione hobbesiana. Benché l’antropologia negativa
del pensatore inglese trovi un bilanciamento nel recupero della

70 Cfr. soprattutto E.O.G. HAITSMA MULIER, The Myth of Venice and the Dutch

Republican Thought in the Seventeenth Century, Van Gorcum, Assen, 1980, pp. 127
sgg. Per uno sguardo più ampio sulla presenza di Machiavelli nel pensiero politico
olandese della seconda metà del secolo, si veda, dello stesso autore, A controversial re-
publican: Dutch views on Machiavelli in the seventeenth and eighteenth centuries, in Ma-
chiavelli and Republicanism, cit., pp. 247-63.
71 Cfr. M. VAN DER BIJL, Pieter de la Court en de politieke werkelijkheid, in Pieter

de la Court in zijn tijd (1618-1685). Aspecten van een veelzijdig publicist, a cura di
H.W. Blom e I.W. Wildenberg, Holland University Press, Amsterdam-Maarsen, 1986,
pp. 65-91.
72 «Eige liefde is de oorsprong van alle menschelike actien, ‘t zy goede, ‘t zy quaa-

de» (Consideratien van Staat, cit., p. 13).


73 Politike Discoursen, cit., p. 154.
74 Consideratien van Staat, cit., p. 14.
VI. Jura communia e multitudo 285

dottrina cartesiana delle passioni dell’anima (a testimonianza


dell’eclettismo dell’opera dei due fratelli75), tuttavia la forza de-
gli affetti è sempre sottolineata con decisione, così come la dif-
ficoltà della ragione a imporsi sugli impulsi dell’istinto, nono-
stante soltanto quest’ultima sia effettivamente in grado di rico-
noscere il vero bene: è ancora il latino, questa volta di Ovidio,
a sintetizzare il comportamento naturale dell’individuo: «video
meliora proboque, deteriora sequor»76.
L’irresistibilità delle passioni sembra talvolta coniugarsi con
uno sguardo disincantato sul destino dell’umanità: «In questo
mondo malvagio (In deze booze wereld) è chiarissimo che le
passioni generalmente sono molto più forti della ragione (de
passien gemeenlijk veel sterker zijnde als de Reeden)»77. Ma an-
cora più evidente è la tendenza, prodotta forse dall’influenza
della psicologia cartesiana, a istituire un dualismo tra la parte
fisica e quella spirituale, cosicché, mentre le passioni soggiacio-
no al determinismo della causalità meccanicistica – al punto
che gli affetti vengono trasmessi dalla madre al figlio attraverso
«la carne ed il sangue (Vleesch en Bloed)» –, invece «l’anima e
la ragione (Geest en Reeden)» dell’uomo appaiono slegate dalla
dimensione naturale e sono quasi facoltà divine, sebbene inca-
paci di produrre alcun effetto sul piano pratico78. Elementi de-
rivati da differenti impianti categoriali si affiancano dunque
nelle prime pagine delle Consideratien van Staat, senza trovare
una piena armonizzazione, e dando anzi l’impressione che agli
autori, da buoni politici, interessi di più la costruzione di un
modello statuale adatto alla situazione del loro paese, che non
75 Kossmann ipotizza che la compresenza di riferimenti all’antropologia hobbesia-

na e alla psicologia cartesiana siano dovuti rispettivamente alla diversa formazione dei
due fratelli, Johan più vicino alla radicalità di Hobbes, mentre Pieter maggiormente in-
fluenzato dagli studi medici compiuti a Leiden, di ispirazione cartesiana (cfr. Politieke
theorie, cit., p. 37).
76 Consideratien van Staat, cit., p. 18. Si tratta di una citazione presente anche nel-

l’Etica, in uno scolio della III parte in cui viene confutata la dottrina del libero arbitrio
(Etica, III, 2, scolio, in Opera, II, p. 143; trad. it. p. 176).
77 Consideratien van Staat, cit., p. 23.
78 Ivi, p. 18. W. Röd legge nell’opera dei De la Court l’indecisione tra una piena

adesione all’orizzonte naturalistico e il riemergere di una tesi sulla malvagità umana (cfr.
Van den Hoves «Politische Waage» und die Modifikation der Hobbesschen Staatsphiloso-
phie bei Spinoza, in «Journal of the History of Philosophy», VII, 1970, pp. 29-48).
286 La libertà necessaria

l’elaborazione di una teoria antropologica compiuta. Costante


è il riferimento all’usus, che determina l’approccio eclettico alle
dottrine filosofiche dell’epoca: la volontà di intervenire sulla
realtà politica delle Province Unite costituisce l’elemento dis-
criminante del metodo dei De la Court, ed esprime nel con-
tempo una concezione del rapporto tra teoria e prassi assai vi-
cina a quella spinoziana. Ma allora l’accettazione dell’impianto
hobbesiano, così come il riferimento intermittente alla dottrina
morale di Descartes, esprime soprattutto l’esigenza di prendere
le distanze da quella tradizione filosofica che sostiene le aspira-
zioni della fazione politica avversa, per sostituirla con uno
sguardo nuovo sull’universo umano: la nuova filosofia è soprat-
tutto un’arma polemica, uno strumento critico nelle mani di
chi vuole liberare il terreno dell’analisi politica da ogni deter-
minazione aprioristica.
Anche per i De la Court prendere l’avvio dal ruolo egemoni-
co delle passioni significa opporsi radicalmente a ogni idealizza-
zione della natura umana, che è sempre la copertura ideologica
di una volontà di dominio; e tuttavia, pur partendo da un’inten-
zione condivisa, tra gli autori delle Consideratien van Staat e
Spinoza vi sono notevoli differenze. La principale nasce pro-
prio dal mancato approfondimento delle implicazioni dell’an-
tropologia hobbesiana, che conduce i De la Court ad affermare
l’insuperabilità dell’orizzonte passionale: nemmeno l’uomo vir-
tuoso può considerarsi del tutto libero dalle passioni, e perciò
non ci si può fidare completamente neppure della virtù, ma an-
ch’essa, come affermano i Politike Discoursen, «deve venire im-
brigliata (moet gebreideld werden)»; così l’uomo troppo amato
per le sue qualità deve essere sempre tenuto sotto controllo,
poiché nulla garantisce che egli «non ricadrà nel vizio»79. In
questo modo, se da un lato viene stabilita in termini inequivo-
cabili l’uguaglianza originaria di tutti gli uomini, fondata ap-
punto sulla comune natura passionale («tutti gli uomini hanno
per natura il medesimo peso (van nature weegen gelijk) sul pia-
no delle passioni, dell’intelletto e della forza del corpo»80), dal-

79 Politike Discoursen, cit., pp. 85-6.


80 Consideratien van Staat, cit. p. 434.
VI. Jura communia e multitudo 287

l’altro la radice comune viene individuata nella «paura di un


male futuro (de vreeze van eenig toekomend quaad)»81, la quale
si colloca al cuore del sistema di regolamentazione affettivo che
permette il passaggio dallo stato di natura a quello politico. Da
ciò consegue un’estrema difficoltà a concepire la possibilità di
un’emendazione delle passioni collettive, che contrasta con
l’affermazione dell’originarietà del regime democratico rispetto
agli altri, così come con la tesi della naturale indisponibilità di
ciascun uomo a obbedire a un altro, dal momento che «ogni
uomo ha impresso in sé un istinto a comandare, e a non dover
essere comandato (van te regeeren, en niet geregeerd te moeten
werden)»82. Questa tensione irrisolta tra la scelta teorica di un
realismo antropologico e la volontà politica di costruire un re-
gime liberato dalla coazione attraversa tutta l’opera dei De la
Court, come dimostra un brano delle Consideratien in cui viene
evidenziato il ruolo della legge, la quale ha il compito di gover-
nare le passioni di una collettività, che una razionalità troppo
debole non è in grado di fronteggiare, in modo da comporre,
attraverso un sistema di equilibri, gli interessi privati in un uni-
co interesse generale83. La legge di uno Stato definisce quindi
l’autentica libertà (vryheid) dell’individuo:
la libertà è data dal fatto che nessuno sia obbligato a vivere in accordo
con i desideri di un altro, ma che egli viva in accordo con l’ordine e la leg-
ge (naar de zin van ordre en wet), ai quali tutti gli abitanti (Ingezetenen)
dello Stato sono ugualmente soggetti come lo sono alla ragione84.

L’ispirazione machiavelliana di questa affermazione è evi-


dente, tanto che su di essa il testo fonda la superiorità delle re-
81 Ivi, p. 19. Ma cfr. anche i Politike Discoursen, dove si dice che Dio ha istillato

nell’uomo l’istinto di sopravvivenza e con esso la «paura di una punizione (vreese van
straf)» (p. 357), che limita i desideri smodati degli individui.
82 Consideratien van Staat, cit. p. 30.
83 Blom commenta: «Personal and social well-being is served by a rational trans-

formation of the Passions. On the individual level it is a question of learning a more


prudent differentiation among behavioural alternatives through ‘experience’ and ‘dis-
cussion’; at a social level it is a question of political-social organisation of the Passions
by the means of checks and balances and placing the various private interests at the
service of the general interest» (Political Science in the Golden Age, cit., p. 51). Dello
stesso autore cfr. anche Morality and causality, cit., pp. 157 sgg.
84 Consideratien van Staat, cit., p. 256.
288 La libertà necessaria

pubbliche sui regimi monarchici; ma ancora più esplicita è la


rimessa in discussione dell’orizzonte antropologico precedente-
mente delineato, segnato dalla subalternità – almeno sul piano
pratico – della ragione all’elemento passionale; qui invece la ra-
tio gioca un ruolo decisivo nell’indicare il giusto rapporto che
si deve istituire tra libertà individuale e legge politica, un rap-
porto per cui la prima finisce per coincidere con la seconda85.
Resta indeciso, allora, se la legge deve essere intesa, hobbesia-
namente, come condizione soltanto negativa per l’espressione
della libertà individuale, o se invece quel riferimento alla ragio-
ne non indichi, come anche per Spinoza, che le leggi di una co-
munità esprimono proprio quel grado di razionalità – e quindi
di libertà in senso non residuale – che il singolo non può rag-
giungere da solo, essendo soggiogato dalle proprie passioni.
Per sciogliere questo dilemma, è necessario non soltanto rico-
noscere che la presenza hobbesiana all’interno dell’opera dei
De la Court è fondamentalmente strumentale, in quanto eserci-
ta la funzione di pars destruens dei pregiudizi teleologici, e tut-
tavia non costituisce l’architrave teorico della loro speculazio-
ne; ma bisogna anche capire, superando le incongruenze e le
contraddizioni riscontrate, in che direzioni si sviluppa il pro-
getto politico delacourtiano, una volta superato il piano della
descrizione antropologica e raggiunto quello, ben più articola-
to ed approfondito, dell’indagine sulle forme di governo (for-
men van regeeringen)86. Resta comunque indubitabile che la
trattazione del diritto naturale presente nelle Consideratien,
pur esprimendo, in analogia con quella del TP, la volontà di li-
berarsi dal razionalismo morale aristotelico, rimane tuttavia le-
gata a una concezione individualistica dell’uomo – ovvero di
un soggetto indipendente, almeno in linea di principio, rispetto
alle determinazioni esterne, e quindi teoricamente responsabile
delle proprie azioni – che blocca ogni possibile formulazione di
85 Secretan sostiene che nella riflessione dei De la Court assolutezza del potere e

libertà individuale stanno in un rapporto di implicazione reciproca, leggendo però tale


rapporto in un’ottica troppo schiacciata su Hobbes, che non ne rende pienamente l’o-
riginalità (cfr. La réception de Hobbes aux Pays-Bas au XVIIe siècle, cit., p. 36).
86 In effetti delle quasi 600 pagine di cui è composta la II edizione delle Conside-

ratien van Staat, alla discussione sulla nascita dello stato politico ne sono dedicate 22,
corrispondenti ai primi 4 capitoli.
VI. Jura communia e multitudo 289

un progetto di autoemendazione delle passioni di una colletti-


vità. In tal senso, risulta problematico attribuire alla legge di
una comunità politica (e conseguentemente alla ragione che es-
sa sostituisce) uno spazio di azione immanente rispetto al cor-
po della cittadinanza: il rischio di concepire il potere come tra-
scendente rispetto alla molteplicità degli individui che vi si as-
soggettano è quindi ancora presente.

3. Il ruolo politico degli affetti


Lo stesso procedimento utilizzato per confrontare la conce-
zione antropologica spinoziana e quella dei De la Court può es-
sere utile per cogliere le affinità e le divergenze nell’analisi della
genesi dello stato civile. Riprendendo la lettura del TP, con la
consapevolezza che la comune natura umana è determinata da-
gli affetti e non dalla ragione, e che di conseguenza essi costi-
tuiscono l’orizzonte intrascendibile di ogni teoria politica, la
prima conseguenza sul piano dei rapporti concreti tra gli indi-
vidui viene presentata al paragrafo 9 del II capitolo, dove la
struttura relazionale dello jus naturale si manifesta interamente,
anche nei suoi aspetti conflittuali:
Ne consegue inoltre che ciascuno è sotto altrui giurisdizione (alte-
rius...juris) fino a tanto che è sottoposto all’altrui potere (sub alterius pote-
state), e che in tanto è autonomo (sui juris) quando è in grado di respinge-
re ogni aggressione, di vendicare a propria discrezione un danno subito e,
in senso assoluto, può vivere a modo suo (ex suo ingenio vivere potest)87.

Il verbo sequitur fa riferimento all’affermazione già ricordata


del paragrafo precedente, secondo la quale «non è in potere di
ciascun uomo di vivere sempre secondo ragione e di trovarsi
sempre nel grado più alto dell’umana libertà»; la potestas com-
pare come elemento determinante dello jus uniuscujusque sul
piano esistenziale, e Spinoza quindi deve chiarire cosa signifi-
chi l’esercizio di questo potere:

87 Opera, III, p. 280 (trad. it. p. 43). La traduzione di Cristofolini (suffragata da

quella di Droetto) di sui juris con «autonomo» appare senz’altro più precisa delle altre
traduzioni consultate, che hanno entrambe «soggetto a se stesso» (cfr. la traduzione di
Montano, cit., p. 55, e quella di Pezzillo, cit., p. 12).
290 La libertà necessaria

Ha un altro in proprio potere (Is alterum sub potestate habet) chi lo


tiene legato, o gli ha tolto le armi e i mezzi per difendersi o scappare, o
gli ha messo paura, o lo ha talmente vincolato a sé con un beneficio, che
questi vorrà comportarsi in modo confrome a lui più che a se stesso, e vi-
vere secondo il suo parere piuttosto che secondo il proprio (ex sui animi
sententia)88.

La pretesa autonomia del singolo è illusoria, non esprimendo


quasi mai la condizione effettiva di un’esistenza; al contrario,
sono le relazioni di potere a determinare il diritto naturale, cioè
la misura della potenza dell’individuo. Inoltre l’esercizio di que-
sto potere non si riduce semplicemente all’uso brutale della for-
za, bensì implica tutti i mezzi, compresi quelli psicologici, attra-
verso i quali è possibile influenzare il comportamento umano,
facendo sorgere in un individuo degli affetti che lo spingono ad
affidarsi ciecamente alla volontà altrui89. Il riferimento critico al
sistema feudale del beneficium, che è senza dubbio presente in
questo passo90, non ne esaurisce il significato teorico, che non
può riguardare soltanto una determinata situazione storica, ma
che concerne la natura stessa delle relazioni politiche.
È soprattutto la coppia affettiva speranza-timore (spes e me-
tus, che anche in avvio del TTP gioca un ruolo fondamentale)
ad avviare i meccanismi di assoggettamento di un uomo a un
altro; infatti questi due affetti nascono nell’individuo quando
il suo diritto naturale lo conduce a relazionarsi con altri esseri
umani, cercando di imporre su di essi uno stabile dominio. Si
tratta di un processo necessario, come dimostra l’analisi dello
stato di natura presente nella III parte dell’Etica, dove Spinoza
spiega come il desiderio di assoggettare l’ingenium altrui non
sia altro che un effetto – per quanto pervertito rispetto all’in-
tenzione originaria – di quella affectuum imitatio che è al cen-
tro dell’esistenza passionale 91, dal momento che in essa si
88 Ivi, § 10, p. 280 (trad. it. pp. 43-5).
89 Balibar chiosa affermando che «ogni uomo, in particolare, afferma la sua indivi-
dualità contro altri uomini (e altri individui non umani: animali, forze fisiche, ecc.) nel
momento stesso in cui dipende da essi più o meno completamente» (Spinoza e la politi-
ca, cit., pp. 83-4).
90 Cfr. la nota alla traduzione italiana di Cristofolini, p. 43, ma anche MATHERON,

Spinoza et le pouvoir, cit.


91 Cfr. Etica, III, 27 e scolio, in Opera, II, p. 160 (trad. it. pp. 191-2). Sulla centra-
VI. Jura communia e multitudo 291

esprime la tendenza, connaturata in ogni essere vivente, a pro-


gredire nell’esistenza aumentando la propria potentia; una ten-
denza che nell’uomo produce la volontà di armonizzare il pro-
prio modo di vita con quello degli altri uomini. La difficoltà
consiste nel comprendere attraverso quale percorso il deside-
rio di dare forma a una natura universale92, nella quale il sin-
golo possa trovare a un tempo la sicurezza e lo spazio per un
agire libero, finisca invece per istituire dei rapporti di potere
che spezzano ogni possibile universalità. Già il TTP, affrontan-
do il tema della genesi del sentimento religioso, aveva indivi-
duato il carattere instabile di ogni accordo e di ogni forma di
collaborazione prodotte sul piano affettivo, e il rischio perma-
nente di una conflittualità generalizzata; le stesse conclusioni –
di cui la IV parte dell’Etica offre la base teorica – vengono ri-
prese nel TP, il quale sottolinea l’impossibilità strutturale che i
diversi ingenia individuali trovino un’immediata armonizzazio-
ne, nonostante essi cerchino e desiderino proprio questo, poi-
ché manca ancora la capacità di stabilizzare un’affettività trop-
po mutevole. L’esito inevitabile dell’appetitus societatis è di da-
re vita a rapporti di potere, dove la potestas esprime il grado
minimo di unificazione tra due individui, che si manifesta nel-
la dipendenza di uno dall’altro, rivelando così la coessenzialità
tra i meccanismi di unificazione imitativa e quelli di assogget-
tamento.
Nell’Etica Spinoza chiarisce come i rapporti di potere nasca-
no da un affetto di per sé positivo, l’Ambizione, che è «sforzo
di fare o di omettere alcunché, per il solo motivo di piacere agli
altri»93; una passione fondamentale per la politica, presente più
volte nelle pagine del TP94. Tuttavia questo desiderio, che si

lità di questa proposizione nella teoria antropologica spinoziana cfr. MATHERON, Indi-
vidu et communauté chez Spinoza, cit., pp. 153 sgg., e D.J. DEN UYL, Passion, State and
Progress: Spinoza and Mandeville on the Nature of Human Association, in «Journal of
History of Philosophy», XXV, 1987, pp. 369-95, soprattutto pp. 388 sgg.
92 Cfr. ancora MATHERON, Individu et communauté chez Spinoza, cit., p. 155.
93 Etica, III, 29, scolio, in Opera, II, p. 162 (trad. it. p. 194).
94 Cfr. ad esempio cap. VII, § 10, in Opera, III, p. 311 (trad. it. p. 121). In realtà il

passo reca il termine gloria e non ambitio, tuttavia attraverso l’Etica è possibile cogliere
lo stretto rapporto esistente tra questi due affetti; cfr. ad esempio la III parte, 39, sco-
lio: «l’ambizioso, d’altra parte, nulla desidera quanto la Gloria» (Opera, II, p. 170;
292 La libertà necessaria

manifesta attraverso l’impulso «a far sì che ognuno approvi


quel che si ama, o si ha in odio», tende naturalmente a capovol-
gersi nel suo opposto, cosicché avviene che «ognuno, per natu-
ra, desidera che gli altri vivano secondo la sua naturale tenden-
za (ex ipsius ingenio vivant)»95. L’incapacità di emanciparsi dal-
le passioni, che si sovrappongono senza sosta, dando luogo a
una incontrastabile fluctuatio animi (già segnalata nel TTP co-
me causa prossima della superstizione) inibisce la possibilità di
adattare la propria affettività a quella altrui: l’individuo sotto-
messo (obnoxius) al gioco delle passioni non riesce a entrare in
sintonia con l’altro, cosicché il suo sforzo di produrre un grado
sufficiente di omogeneità si traduce inevitabilmente nel tentati-
vo di rendere l’altro simile a sé, di appiattire il suo ingenium sul
proprio, e quindi di modellare il suo jus esercitando una conti-
nua influenza sulla sua cupiditas tramite i sentimenti della paura
e della speranza (sono infatti le affezioni dell’anima a determi-
nare la cupiditas dell’individuo, come ricorda la definizione pre-
sente alla fine della III parte dell’Etica)96. La situazione di alte-
rius juris prodotta dalla potestas non implica in alcun modo che
sia avvenuto un trasferimento del diritto da una persona a
un’altra: infatti il diritto naturale è l’espressione di una potenza
determinata di volta in volta dal confronto tra la capacità attiva
dell’individuo e la sua influenzabilità da parte del mondo ester-
no, cosicché esso si esprime quasi sempre in parte come assog-
gettamento (alterius juris), in parte come autonomia (sui juris).
In conclusione, il tentativo di imporre il proprio potere sugli
altri è una conseguenza diretta del fatto che, quanto «più gli
uomini sono combattuti dall’ira, dall’invidia o da qualche altro
affetto d’odio, tanto più sono trascinati in direzioni divergenti

trad. it. p. 201). Sul valore politico dell’ambizione cfr. anche K. HAMMACHER, Ambi-
tion and social engagement in Hobbes’ and Spinoza’s political thought, in Spinoza’s Poli-
tical and Theological Thought, cit., pp. 56-62.
95 Etica, III, 31, scolio, in Opera, II, p. 164 (trad. it. pp. 195-6).
96 Cfr. anche Etica, III, 57, dimostrazione: «La Gioia e la Tristezza sono la stessa

Cupidità, ossia l’Appetito in quanto è incrementato o diminuito, favorito o ostacolato


dalle cause esterne» (Opera, II, p. 186; trad. it. p. 215). Chi sottolinea con decisione la
critica spinoziana a una teoria del desiderio come spontaneità libera e indeterminata è
E. FERNÀNDEZ, El deseo, esencia del hombre, in La Ética de Spinoza. Fundamentos y si-
gnificado, cit., pp. 135-52.
VI. Jura communia e multitudo 293

e sono tra loro contrari»97; di modo che il meccanismo di imi-


tazione affettiva che sta alla base dell’ambizione trova estrema
difficoltà a concretizzarsi, e ogni uomo – nessuno escluso – cer-
ca di annullare la diversità intervenendo sull’ingenium altrui.
Questa reciprocità che si dispiega all’interno di una collettività
impedisce l’esistenza di relazioni di potere stabili («soltanto
finché dura il timore o la speranza»), dando vita piuttosto a
una situazione di inimicizia generalizzata, scandita dal princi-
pio per il quale il maggior nemico è «quello che più ho da te-
mere e dal quale più debbo guardarmi»98: un’inimicizia pro-
dotta dall’esigenza ambivalente di attirare gli altri a sé e, con-
temporaneamente, di non farsi attrarre da loro, con la conse-
guenza che ognuno finisce per dipendere, direttamente o indi-
rettamente, proprio da quella alterità che intendeva eliminare.
Ben lungi dall’istituire un potere unico e irresistibile, capace di
dare ordine all’esistenza di una collettività, il libero gioco delle
passioni sembra in grado di dare vita soltanto a dei micro-pote-
ri99, che producono nella rete delle relazioni interindividuali in-
numerevoli quanto instabili polarizzazioni.
Nello stato di natura nessuno subisce sempre e soltanto il
potere altrui, poiché tutti esercitano una qualche potestas sugli
altri, al limite nella forma della resistenza e del rifiuto; e, paral-
lelamente, nessuno può ritenersi al sicuro dal potere altrui, an-
che quando ritiene di diporre di una potestas assoluta. Per
questo l’esse sui juris non indica la condizione opposta e spe-
culare rispetto alla servitù dell’alterius juris, né la possibilità di
esercitare un potere garantisce in linea di principio l’autono-
mia individuale: autonomo è piuttosto chi riesce a rimanere in-
dipendente dalla volontà altrui di omologarlo a sé, non suben-
done l’influenza o la pressione, ed esprimendo in massimo
grado la propria potenza100. Infatti «godono della maggiore

97 TP, cap. II, § 14, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47). Allo stesso modo nella IV

parte dell’Etica Spinoza afferma che in quanto «gli uomini sono combattuti da affetti
che sono passioni, possono essere a vicenda contrari» (prop. 34, in Opera, II, p. 231;
trad. it. p. 253).
98 TP, cap. II, § 14, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47).
99 Il termine è coniato da MATHERON, Spinoza et le pouvoir, cit.
100 A tale proposito l’affermazione di Den Uyl, secondo la quale l’autonomia di-
294 La libertà necessaria

autonomia quelli che eccellono su tutti nella capacità razionale


(qui maxime ratione pollent), e da essa si fanno massimamente
guidare»101, di modo che piena autonomia e libertà coincido-
no, poiché libero è colui che trae dalla propria essenza – dalla
propria necessità, poiché la libertà «non toglie la necessità del-
l’azione, ma la pone (agendi necessitatem non tollit, sed
ponit)»102 – le cause da cui scaturisce ogni sua azione. Vi è co-
munque una gradualità anche nell’esse sui juris, che solo nella
forma più compiuta si identifica con l’esistenza razionale, poi-
ché un certo grado di autonomia è presente, come si è detto,
anche nella capacità di non subire passivamente l’influenza al-
trui: sui juris è anche l’individuo «fino a tanto che è in grado
di badare a se stesso sì da non subire l’oppressione altrui
(quamdiu sibi cavere potest, ne ab alio opprimatur)»103, prescin-
dendo dall’origine di tale capacità, e quindi anche dal fatto
che l’individuo abbia raggiunto o meno la piena emancipazio-
ne dalle passioni. Perciò, pur in assenza di qualsiasi corrispon-
denza tra la dimensione dell’autonomia individuale e quella
della potestas, non vi è una separatezza assoluta tra sui juris e
alterius juris, esattamente come non vi è tra razionalità e mon-
do degli affetti.
Da questa constatazione Spinoza trae uno dei principi fon-
damentali della sua riflessione sulla genesi della società politica,
ovvero la superfluità di un intervento della ratio nello sviluppo
del processo costitutivo di un ordinamento politico104. Neppu-
re quel grado minimo di razionalità rappresentato dalla volontà
di mantenere fede alla parola data viene valutato, come peral-

penderebbe dal grado di potere di cui si dispone (cfr. Power, State and Freedom, cit., p.
33), meriterebbe ulteriori precisazioni; anche perché l’uso inglese del termine power
per tradurre tanto potestas quanto potentia è inevitabilmente ambiguo.
101 TP, cap. II, § 11, in Opera, III, p. 280 (trad. it. p. 45).
102 Ibid. Per un’analisi approfondita della riflessione spinoziana sull’esse sui juris

cfr. P. CRISTOFOLINI, Esse sui juris e scienza politica, in «Studia Spinozana», I, 1985, pp.
53-71.
103 TP, cap. II, § 15, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47).
104 Den Uyl parla di una teoria evoluzionistica della genesi dello Stato, in accordo

con le tesi di Matheron e di altri interpreti (cfr. Power, State and Freedom, cit., pp. 30-1).
Tra gli interventi più recenti, chi sottolinea l’assenza di qualsivoglia ricorso alla ragione
nella teoria politica del TP è B. VERBEEK, Spinoza en het ontstaan van de staat, in «Alge-
meene Nederlandse Tijdschrift voor Wijsbegeerte», XVI, 1990, pp. 252-68.
VI. Jura communia e multitudo 295

tro era accaduto anche nel TTP, necessario al sorgere dello Sta-
to, poiché anch’esso maschererebbe artificiosamente la natura-
le mutevolezza del comportamento individuale, soggetto ai re-
pentini cambiamenti di direzione della cupiditas105. Non l’esito
statico di una decisione che si vuole eterna, bensì il movimento
di un accordo che spezza la polarizzazione dei rapporti di pote-
re, senza però trascendere i confini dello jus naturale, costitui-
sce la condizione di possibilità della nascita di una forma orga-
nizzata di convivenza:
Se due si metton d’accordo (simul conveniant) e uniscono le loro for-
ze, hanno assieme più potere (plus simul possunt), e di conseguenza più
diritto sulla natura (plus juris in naturam simul habent) che uno dei due
da solo; e quanto più numerosi saranno ad essere così stretti in alleanza
(necessitudines sic junxerint suas), tanto maggiore sarà il diritto di tutti lo-
ro assieme106.

Ancora una volta l’Etica, in particolare le pagine della II par-


te dedicate alla natura dei corpi e alla definizione di individuo
(tradizionalmente definite come la «fisica spinoziana»107), offre
il sostegno teorico per comprendere il significato delle afferma-
zioni del TP. Nella sua opera maggiore Spinoza distingue in-
nanzitutto i corpi «in ragione del movimento e della quiete, del-
la velocità e della lentezza, e non in ragione della sostanza»108,
esplicitando così il fondamento materiale dell’omogeneità tra
l’uomo e gli altri enti naturali; inoltre, subito dopo, afferma che
tutti i corpi «convengono in certe cose (Omnia corpora in qui-
busdam conveniunt)», non solo perché implicati nel medesimo
attributo, ma anche «per il fatto che essi possono muoversi ora

105 Cfr. TP, cap. II, § 12, in Opera, III, p. 280 (trad. it. p. 45).
106 Ivi, § 13, p. 281 (trad. it. p. 47).
107 Sulla concezione fisica di Spinoza la bibliografia è assai vasta, raccogliendo dei

testi ormai classici, come quello di A. RIVAUD, La physique de Spinoza, in «Chronicon


Spinozanum», IV, 1924-6, pp. 24-57, o le pagine dedicate all’argomento da GUEROULT,
Spinoza II; L’âme, cit., pp. 145-89, e interventi più recenti, tra i quali spiccano A. LE-
CRIVAIN, Spinoza et la physique cartésienne, in «Cahiers Spinoza», I, 1977, pp. 235-65 e
II, 1978, pp. 93-206, D.R. LACHTERMAN, The Physics of Spinoza’s Ethics, in Spinoza:
New Perspectives, a cura di R.W. Shanan e J.I. Biro, University of Oklahoma Press,
Norman, 1980, pp. 77-111, o in Italia MESSERI, L’epistemologia di Spinoza. Saggio sui
corpi e le menti, cit.
108 Etica, II, Lemma I dopo la prop. 13, in Opera, II, p. 97 (trad. it. p. 135).
296 La libertà necessaria

più lentamente ora più celermente»109. Il convenire dei corpi


semplici, determinato sempre da cause naturali, come ad esem-
pio la pressione del mondo esterno, avvia il processo di costitu-
zione dell’individuum:
Quando alcuni corpi di uguale o diversa grandezza sono costretti da
altri in modo tale da premersi a vicenda (a reliquis ita coërcentur, ut invi-
cem incumbant), oppure se si muovono con lo stesso o con diversi gradi
di velocità, in modo da comunicare l’uno all’altro i propri movimenti se-
condo una certa ragione (ut motus suos invicem certa quadam ratione
communicent), diremo che quei corpi sono tra loro uniti, e che tutti insie-
me compongono un solo corpo o Individuo, che si distingue dagli altri
per mezzo di questa unione dei corpi110.

I lemmi e i postulati successivi distinguono tra individui di


diversa natura, ma soprattutto riconoscono che un individuum
composto da un elevato numero di corpi – o di individua mino-
ri –, definito anche come «singolarità» (res singularis), ha una
maggiore capacità di essere affetto e di subire delle modifica-
zioni senza che la sua struttura complessiva venga compromes-
sa, ossia è in grado di resistere più adeguatamente alle pressioni
e alle trasformazioni imposte dal mondo esterno; non solo, ma
esso è anche dotato di un conatus in suo esse perseverandi più
potente di quello di ciascun individuum che concorre alla sua
composizione111. Un altro importante risultato di questo grup-
po di proposizioni è che il processo di singolarizzazione è an-
corato alla dimensione esistenziale dell’agire, e non a quella
metatemporale dell’essenza; dal punto di vista ontologico, vie-
ne così confermato quanto la trattazione dello jus naturale ave-
va già evidenziato, ovvero che il legame indissolubile tra so-
stanza e modi si costituisce attraverso la traduzione della pro-
duttività infinita della potentia Dei nell’azione causale finita e

109 Ivi, Lemma II dopo la prop. 13, p. 98 (trad. it. p. 135). L’importanza politica di

queste leggi fisiche è ben evidenziata da D. PARROCCHIA, Physique et politique chez Spi-
noza, in «Kairos», XI, 1998, pp. 59-95.
110 Ivi, definizione di individuo pp. 99-100 (tr. it. p. 137). Ma cfr. anche la defini-

zione VII: «Se più Individui concorrono in un’unica azione in modo tale che tutti in-
sieme (simul) siano causa di un unico effetto, li considero tutti in quanto tali come una
sola cosa singolare» (Opera, II, p. 85; trad. it. p. 124).
111 Cfr. MESSERI, L’epistemologia di Spinoza, cit., pp. 104-5.
VI. Jura communia e multitudo 297

determinata delle res singulares 112.


Alla luce di questi chiarimenti il processo genetico della so-
cietà politica ricostruito nel TP risulta immediatamente com-
prensibile. Due sono infatti le sue caratteristiche principali: la
naturalità e la necessità. È assolutamente naturale che due o
più corpi (umani o no, Spinoza non fa alcuna distinzione), nel-
la misura in cui convengono in ragione della loro costituzione
specifica, tendano a entrare in contatto e a unificare la loro po-
tenza, attraverso la comunicazione reciproca dei movimenti e
degli impulsi (la possibile obiezione terminologica, secondo la
quale il verbo convenire può anche significare «concludere una
convenzione», come accade ad esempio nei testi hobbesiani113,
si scontra con il fatto che nel TTP esso non compare mai quan-
do Spinoza sta trattando tematiche contrattualistiche, mentre,
come è stato già sottolineato, riveste un ruolo centrale nelle pa-
gine dell’Etica riguardanti la fisica114). Altrettanto importante
della naturalità del processo è la sua necessità, che scaturisce
dalla struttura dell’universo materiale, in base alla quale ogni
corpo subisce una pressione dall’ambiente, che spingendo i di-
versi individui minori l’uno verso l’altro (e talvolta anche l’uno
contro l’altro) agisce da catalizzatore del meccanismo di conve-
nientia. Restringendo l’osservazione alla specificità della natura
umana, questa pressione del mondo sugli individui si esprime
nel loro assoggettamento all’universo delle passioni, dal quale
può svilupparsi un movimento compositivo, allorché si produ-
ca un comune sentire (o patire): ad esempio, nel caso in cui i
motivi di timore e di speranza siano gli stessi per tutti gli uomi-
ni. Allora apparirà chiaro che le leggi della fisica – in particola-
112 Per un approfondimento analitico di questo passaggio, che ne sottolinea anche

le conseguenze sul piano etico, cfr. M. REVAULT D’ALLONNES, Spinoza: éthique du néces-
saire, éthique du singulier, in «Kairos», XI, 1998, pp. 127-40.
113 Covenant è il termine usato da Hobbes per indicare il patto sociale: «Si dice che

uno Stato è istituito, quando gli uomini di una moltitudine concordano e stipulano (do
agree, and covenant) – ciascuno singolarmente con ciascun altro – che qualunque sia
l’uomo, o l’assemblea di uomini, a cui verrà dato dalla maggioranza di incernare la per-
sona di tutti loro (cioè a dire il loro rappresentante) ognuno [...] autorizzerà tutte le
azioni e i giudizi di quell’uomo o di quell’assemblea di uomini» (Leviathan, cit., p. 159;
trad. it p. 145).
114 Cfr. in proposito MATHERON, Le problème de l’évolution de Spinoza du Traité

theologico-politique au Traité politique, cit., pp. 260-1.


298 La libertà necessaria

re della fisica dei corpi fluidi, soggetti più degli altri all’instabi-
lità e al mutamento; ovvero, per tornare all’uomo, alla fluctua-
tio animi115 – sono applicabili anche alla politica116, e che per-
tanto non occorre postulare un atto volontario per spiegare il
costituirsi di una nuova potenza e di un nuovo diritto. La me-
desima natura affettiva che produce le relazioni di potere, im-
pedendo il raggiungimento dell’autonomia individuale, può an-
che favorire una diversa declinazione dei rapporti interindivi-
duali, qualora i fattori comuni prevalgano su quelli disgreganti,
di modo che speranza e timore siano percepiti come vincoli
universalmente validi, piuttosto che come elementi di contrap-
posizione e generatori di conflittualità.
Che la fisica spinoziana agisca nel processo di risemantizza-
zione del linguaggio politico operato dal TP, è del tutto eviden-
te nella ridefinizione del concetto di jus:
il diritto umano naturale, finché è determinato dalla potenza di cia-
scuno e appartiene a ciascuno (quamdiu....uniuscujusque est), è nullo, e
poggia su un’opinione più che sulla realtà, poiché non vi è nessuna sicu-
rezza di mantenerlo. [...] Si aggiunga che è ben difficile per gli uomini so-
pravvivere e coltivare la mente senza aiuto reciproco; e perciò concludia-
mo che è ben difficile concepire il diritto di natura proprio del genere
umano se non là dove gli uomini hanno diritti comuni (vix posse concipi,
nisi ubi homines jura habent communia)117.

Con maggiore radicalità che non che al XVI capitolo del


TTP, Spinoza evidenzia la natura immaginativa dell’idea di di-
ritto individuale, contraddicendo così ogni pretesa fondativa
115 Che il modello fisico della politica sia la meccanica dei fluidi è quanto sostiene

PARROCCHIA, Physique et politique chez Spinoza, cit., pp. 91-5.


116 Un’altra prova può essere rintracciata nel fatto che il verbo coërceri, presente

nell’Etica all’interno della definizione di individuo, compare anche nello scolio II della
prop. 37 della IV parte, dove Spinoza riassume i meccanismi genetici dello Stato, affer-
mando che «nessun affetto può essere represso (coërceri potest) se non da un affetto
più forte e contrario all’affetto che deve essere represso» (Opera, II, p. 238; trad. it.
cit., p. 259). Su questo punto cfr. W.N.A. KLEVER, La gravité chez Hobbes et Spinoza,
dans la physique et dans la théorie politique, in Hobbes e Spinoza. Scienza e politica, cit.,
pp. 143-58, soprattutto pp. 156 sgg. Per un confronto delle connessioni tra fisica e an-
tropologia politica in Hobbes e Spinoza si veda P. JACOB, La politique avec la physique
à l’âge classique. Principe d’inertie et conatus: Descartes, Hobbes et Spinoza, in «Dialecti-
ques», VI, 1974, pp. 99-121.
117 Cap. II, § 15, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47).
VI. Jura communia e multitudo 299

della teoria giusnaturalistica riguardante il passaggio dallo stato


di natura alla società politica118. Nella realtà – cioè al di fuori
della conoscenza meramente opinativa che ‘crede’ nello jus
uniuscujusque – è il diritto comune che permette non solo la
realizzazione, ma anche la stessa concepibilità di un diritto del-
l’individuo; in questo modo l’antropologia spinoziana diventa
una critica di ogni antropologia119, ossia della pretesa scientifi-
cà di un discorso sull’uomo che non sia anche sempre un di-
scorso sulla natura relazionale della sua essenza, e dunque sulla
società. La definizione dell’uomo come animal sociale ritorna
allora in un contesto del tutto rinnovato rispetto a quello della
tradizione aristotelica: «se gli Scolastici per questo motivo, os-
sia perché è ben difficile per gli uomini essere autonomi nello
stato di natura, vogliono chiamare l’uomo «animale sociale»,
non ho nulla in contrario da opporre»120; ma è chiaro che il
senso che Spinoza attribuisce a questa definizione è, invece, del
tutto nuovo. Il valore degli jura communia assume un ruolo de-
cisivo, essendo la condizione di possibilità e di pensabilità dello
jus individuale, poiché soltanto grazie a essi gli uomini possono
«munirsi di mezzi per respingere ogni attacco, e vivere secondo
il loro comune sentire (vimque omnem repellere, et ex communi
omnium sententia vivere possunt)»121, e costituire così un indi-
viduo realmente autonomo (non a caso le modalità della vita
secondo gli jura communia sono sostanzialmente identiche a
quelle che definiscono l’esse sui juris).
L’introduzione degli jura communia evidenzia l’astrattezza
della contrapposizione tra uno stato di natura nel quale gli uo-
mini vivono come nemici, pur nel pieno possesso del loro dirit-
to naturale, e uno stato civile, in cui scompare l’inimicizia – per
lo meno nei suoi aspetti più minacciosi per l’esistenza umana –,
ma anche lo jus naturale si trasforma radicalmente122. Al con-
118 Più volte, nei suoi scritti, Mugnier-Pollet sottolinea come nel TP Spinoza si libe-

ri definitivamente della concezione individualistica del diritto naturale, di matrice hob-


besiana; cfr. ad esempio Nature et société selon Spinoza, cit. p. 63.
119 È la tesi condivisibile presente A. MATHERON, L’anthropologie spinoziste?, in

Id., Anthropologie et politique au XVIIe siècle, cit., pp. 17-28.


120 TP, cap. II, § 15, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47).
121 Ibid.
122 Il che non significa affatto che il diritto naturale in Spinoza scompaia, lasciando
300 La libertà necessaria

trario, l’uomo è a un tempo e per le medesime caratteristiche


naturali nemico degli altri uomini e animale sociale, poiché, an-
che quando esperisce la relazione con gli altri come lotta per il
potere, trovandosi così nel momento di massima distanza e del
più violento contrasto con gli altri individui, la struttura collet-
tiva del diritto naturale emerge prepotentemente come oriz-
zonte intrascendibile. Una quantità determinata di diritti co-
muni è presente anche dove gli uomini si combattono e cerca-
no di dominarsi vicendevolmente, e questi jura non esprimono
dei principi teorici o delle dichiarazioni di principio, bensì con-
tengono le condizioni materiali della vita umana, come ad
esempio quella di «rivendicare a sé collettivamente le terre da
abitare e coltivare»123. Anche l’esistenza di affetti comuni, che
danno slancio al movimento del convenire, costituisce una for-
ma primitiva degli jura communia, dal momento che, se il dirit-
to non è mai riducibile ad una proprietà a priori di una o più
persone, ma è processualità che esprime la cupiditas di un indi-
viduo, allora anche il diritto di una collettività non può essere
altra cosa dal desiderio di sviluppare una potenza comune, a
prescindere dal livello – razionale o passionale – dal quale il
processo prende l’avvio. A tale proposito le parole con cui Spi-
noza inizia il capitolo VI sono chiarissime:
Siccome gli uomini, si è detto, si fanno guidare dagli affetti più che
dalla ragione, anche il popolo viene indotto a naturale accordo non dalla
ragione, ma da qualche comune affetto, e vuole essere guidato come da
una sola mente (multitudinem non ex rationis ductu, sed ex communi ali-
quo affectu maturaliter convenire, et una veluti mente duci velle), vale a di-
re (come abbiamo detto all’articolo 9 del capitolo III) da una comune
speranza o paura, o desiderio di vendicare un danno comune. D’altra
parte è in tutti gli uomini la paura della solitudine, poiché in solitudine
nessuno ha la forza di difendersi e di procurarsi il necessario per vivere;
ne consegue che gli uomini per natura desiderano lo stato di civiltà, e

il campo esclusivamente a una concezione positiva del diritto, come afferma ad esem-
pio LACHARRIERE, Etudes sur la théorie democratique, cit., p. 19, ma anche, seppure con
maggiori sfumature, M. WALTHER, Spinoza und der Rechtpositivismus, in Spinoza nel
350° anniversario della sua nascita, cit., pp. 73-104.
123 TP, cap. II, § 15, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 47). Mugnier-Pollet sottolinea

l’importanza di questo passo per la determinazione della struttura degli jura communia
(La philosophie politique de Spinoza, cit., p. 121).
VI. Jura communia e multitudo 301

non può mai accadere che essi lo sciolgano del tutto124.

Si chiarisce così anche il motivo dell’impossibilità di concepi-


re un passaggio dal diritto naturale al diritto politico, dal mo-
mento che lo jus naturae è già politico, postulando un livello di
aggregazione suscettibile di svilupparsi senza soluzione di conti-
nuità in un’organizzazione stabile. La presa di distanza dalla di-
stinzione hobbesiana tra jus naturale e jus civile, segnalata nella
lettera L a Jelles, è quindi un corollario di queste conclusioni:
riguardo alla politica, la differenza tra me e Hobbes della quale mi
chiedete, consiste in questo, che io continuo a mantenere integro il dirit-
to naturale (naturale Jus sartum tectum conservo) e affermo che al sommo
potere (Supremo Magistratui) in qualunque città non compete sopra i
sudditi un diritto maggiore dall’autorità che esso ha sui sudditi stessi
(non plus in subditos juris, quam juxta mensuram potestatis, qua subditum
superat), come sempre avviene nello stato naturale125.

Anche il secondo punto di differenzianzione, il rifiuto da


parte di Spinoza di assegnare al potere sovrano un diritto asso-
luto, deriva necessariamente dall’indistinzione tra diritto natu-
rale e civile, poiché solo in quanto ognuno conserva il proprio
diritto naturale anche all’interno dello stato politico, le relazio-
ni di potere mantengono il loro carattere originariamente dina-
mico, e la possibilità che i cittadini esercitino la loro influenza
sui processi decisionali diventa concreta. Questa affermazione
costituisce il principio teorico dei capitoli dedicati all’analisi
delle forme di governo, ma essa è presente anche nel TTP, e
quindi la novità della coppia alterius juris-sui juris non indica
tanto una svolta nel pensiero politico spinoziano, quanto piut-

124 Opera, III, p. 297 (trad. it. p. 87). Al § 9 del capitolo III Spinoza aveva afferma-

to che «gli uomini sono naturalmente condotti a coalizzarsi (naturae ductu in unum
conspirare) sia a causa di un comune motivo di timore, sia per il desiderio di vendicare
un danno comunemente subito» (Opera, III, p. 288; trad. it. p. 63). Sulla naturalità del-
l’ordine comune, cfr. anche W. SACKSTEDER, Communal Orders in Spinoza, in Spinoza’s
Political and Theological Thought, cit., pp. 206-13.
125 Lettera L, del 2 giugno 1674, in Opera, IV, pp. 238-9 (trad. it. p. 225). Presso-

ché le stesse parole sono presenti anche nel TP, ad esempio al § 3 del cap. III, dove si
legge che «il diritto naturale di ciascuno (se ben si osserva) non decade nello stato di
civiltà (in statu civili). L’uomo infatti, tanto nello stato di natura quanto in quello di ci-
viltà, agisce in base alle leggi della sua natura e persegue il proprio utile» (Opera, III, p.
285; trad. it. p. 57).
302 La libertà necessaria

tosto un’«evoluzione tattica», che meglio del paradigma con-


trattualistico – per quanto interamente riformulato – riesce a
evidenziare come il cuore pulsante di ogni società politica sia il
gioco degli affetti e la naturale disposizione dell’uomo a intera-
gire con i suoi simili. È chiaro anche che non vi è contraddizio-
ne tra l’idea che il diritto naturale individuale permanga anche
nello stato civile e quella che tale diritto sia nullo e inefficace
nello stato di natura: Spinoza non intende mantenere lo jus na-
turae hobbesiano all’interno dello Stato, bensì cancellarlo dal
suo orizzonte teorico, dimostrando che il diritto dell’individuo
non può sussistere se non all’interno di un diritto comune;
questo tanto nello stato di natura, quanto nello stato civile.
Ad ogni modo, che gli uomini possano vivere solamente in
società, ovvero in presenza di diritti comuni, non significa che
essi si trovino sempre al livello più alto di sviluppo di tali dirit-
ti, e conseguentemente della loro potenza complessiva; infatti
all’interno di una cornice che li accomuna permangono le dif-
ferenze e le inimicizie prodotte dalle passioni individuali, mai
completamente eliminabili. I rapporti di potere sopravvivono a
fianco degli jura communia, e a seconda che prevalgano gli uni
o gli altri la società godrà di maggiore o minore stabilità. Tutta-
via il convenire dei corpi, spinti l’uno verso l’altro dalla pressio-
ne del mondo esterno, proprio perché permette una comunica-
zione affettiva più intensa, rinsalda il naturale meccanismo di
imitazione degli affetti e sposta il piano comune dalla passività
ad una, seppure parziale, attività126; allo stesso tempo viene ral-
lentata la trasformazione dell’imitatio affectuum in desiderio di
dominio, e di conseguenza viene limitato, se non inibito del
tutto, il conflitto generalizzato. Poiché sia il processo comuni-
cativo e costitutivo dei diritti comuni, sia la lotta per il potere e
quindi la polarizzazione degli jura uniuscujusque convivono al-
l’interno della societas, assolutizzare l’uno a scapito dell’altra
126 MATHERON, Le problème de l’évolution de Spinoza du Traité theologico-politique

au Traité politique, cit., individua nell’indignazione (indignatio) la passione che consen-


te il passaggio dalla paura all’imitazione affettiva, e che quindi fa nascere lo Stato (pp.
264-5); ma si tratta solo di un caso particolare, dal momento che anche altri affetti pos-
sono svolgere il ruolo di mediazione, ad esempio la stessa ambizione di gloria, che lo
stesso Matheron cita. Ciò che è veramente decisivo è che questi affetti vengano comu-
nicati e che a essi partecipi il maggior numero possibile di individui.
VI. Jura communia e multitudo 303

conduce al fraintendimento dell’impianto teorico spinozia-


no127. Resta il fatto che dalla percezione confusa della necessità
di istituire diritti comuni è possibile giungere a uno stadio in
cui gli uomini effettivamente «sono come guidati da un’unica
mente (una veluti mens ducuntur)»128; è questo il senso del pas-
saggio dallo stato di natura a quello civile – che è cosa ben di-
versa da quello, soltanto fittizio, dal diritto di natura al diritto
civile –, cioè a un’organizzazione più articolata dei rapporti
umani, in cui è stata raggiunta un’armonia sufficiente affinché
il diritto comune prevalga sugli aspetti disgreganti dei diritti in-
dividuali. Avviene infatti che
quanto minore è il diritto di ciascuno di loro, tanto più tutti gli altri
assieme lo superano in potenza (reliqui simul ipso potentiores suntl); os-
sia, egli non ha in realtà nessun diritto sulla natura all’infuori di quello
che gli è concesso dal diritto comune. Per il resto è tenuto a eseguire tut-
to ciò che di comune accordo gli viene comandato, ovvero (per l’articolo
4 di questo capitolo) vi è giuridicamente obbligato (jure ad id cogi)129.

Il diritto comune che nasce dal consenso è l’imperium, «che


risulta definito dalla potenza di una massa di gente (quod mul-
titudinis potentia definitur)»130, e che produce un ordine che il
127 La discussione intorno alla natura dello Stato risente spesso di un mancato ap-

profondimento di questo punto; così, ad esempio, L.C. RICE, Individual and Commu-
nity in Spinoza’s Social Psychology in Spinoza. Issues and Directions, cit., pp. 271-85 (ma
dello stesso autore, si veda anche il saggio Spinoza on Individuation, in «The Monist»,
LV, 1971, pp. 642-6), difende il carattere metaforico della definizione dello Stato come
individuo, sottolineando l’assenza di leggi proprie dello Stato, che si distinguano da
quelle proprie della psicologia sociale; tuttavia manca di cogliere la continuità esistente
tra i diversi livelli di individuazione, e l’analogia tra il convenire dei corpi semplici e
quello, più complesso, degli esseri umani; tanto più che il movimento della convenien-
tia si ritrova anche tra gli Stati, quando si uniscono in una federazione (cfr. TP, cap.
III, §§ 11-16, in Opera, III, pp. 289-91; trad. it. pp. 67-71). Su quest’ultimo punto cfr.
L. MUGNIER-POLLET, Relations internationales et état de nature selon Spinoza, in «Gior-
nale critico della filosofia italiana», LVI, 1977, pp. 489-99.
128 TP, II, § 16, in Opera, III, p. 281 (trad. it. p. 49).
129 Ivi, pp. 281-2.
130 Cap. II, § 17, in Opera, III, p. 282 (trad. it. di Droetto, cit., pp. 25-6). Si è prefe-

rita la traduzione di Droetto a quella di Cristofolini, la quale parla di un «diritto che si


definisce in base alla potenza del popolo» (p. 49), perché il concetto di popolo nel les-
sico politico moderno si costituisce sul fondo del meccanismo rappresentativo hobbe-
siano, che Spinoza invece rifiuta. In proposito cfr. G. DUSO, Rappresentanza politica e
costituzione, in ID., La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Later-
za, Roma-Bari, 1999, pp. 113-35, in particolare pp. 115-9.
304 La libertà necessaria

singolo in parte contribuisce a mantenere, in parte – nella mi-


sura in cui cerca di far valere quei diritti che non convergono
nel diritto comune – subisce. Non per questo l’imperium pro-
duce un dualismo in interiore homine, tra una tendenza a se-
guire il proprio utile personale e la coscienza di un più elevato
utile collettivo, perché in realtà ognuno, seguendo sempre ciò
che egli ritiene il suo interesse contingente, è di volta in volta
difensore del diritto comune o sottoposto coercitivamente ad
esso. Decisivo è il fatto che nell’imperium le relazioni umane si
sviluppano dentro una cornice stabile, sancita dalla maggiore
forza degli jura communia rispetto a ogni jus particolare, in
conseguenza dell’evoluzione del semplice convenire nel com-
munis consensus, grazie al quale gli individui pervengono dalla
semplice attrazione fisica e passionale all’armonizzazione del
loro agire e pensare (una veluti mens), e quindi a un consentire
che produce l’orizzonte comune entro il quale ciascuno può
condurre in modo sicuro la propria esistenza131. Il consenso è
quindi la precondizione dell’imperium, dovendo trovare
espressione in ogni legge emanata dal potere, in modo da esse-
re continuamente riconfermato, per poter valere come princi-
pio fondamentale di un’organizzazione politica132.
Proprio la rilevanza del meccanismo consensuale impone
una precisazione terminologica a proposito della traduzione di
imperium: l’uso del termine «Stato», infatti, pur essendo forse
quello meno inadatto133, deve essere accompagnato dalla con-
sapevolezza che non è possibile ridurre il discorso spinoziano
ad una variatio, per quanto complessa e originale, della rifles-
sione contrattualista sulla genesi della forma politica, quale ve-
131 PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, cit., p. 195, individua la gene-

si dello Stato nel passaggio dalla semplice comunanza materiale determinata dalle pas-
sioni all’unione delle menti degli individui; tesi corretta, a patto che non si interpreti tale
mutamento come una modificazione radicale e irreversibile del quadro complessivo.
132 Cfr. in proposito SACCARO DEL BUFFA BATTISTI, Il consenso politico da Hobbes a

Spinoza, cit., pp. 277-9.


133 Cfr. ad esempio la traduzione spagnola di Dominguez: «Este derecho que se de-

fine por el poder de la multitud, suele denominarse Estado» (Tratado politico, cit., p.
93). Di contro, tradurre imperium con «potere», come fanno sia Pezzillo, sia Montano
(cfr. le traduzioni citate, rispettivamente p. 14 e p. 58), conduce necessariamente a
fraintendere il ruolo – importante, ma non decisivo – della potestas all’interno di un’or-
ganizzazione politica.
VI. Jura communia e multitudo 305

niva sviluppandosi nel corso del XVII secolo; piuttosto, tale


traduzione può costituire lo spunto per compiere il percorso
inverso, ovvero per comprendere quale sia il significato dell’in-
tervento operato da Spinoza sul lessico politico moderno, in
particolare sulla nozione di sovranità, che costituisce con quel-
la di Stato un’endiadi inseparabile134.
Tale operazione deve inoltre tenere conto dell’interesse da
parte di Spinoza per la situazione politica olandese e per il di-
battito teorico che essa andava producendo; di qui la necessità
di riportare in primo piano la riflessione dei De la Court, di cui
è già stato evidenziato l’ambiguo legame con l’antropologia
hobbesiana. Una simile ambiguità permane anche quando le
Consideratien van Staat affrontano il tema della genesi dello sta-
to politico (politike Staat), utilizzando uno schema logico di ti-
po contrattualista: l’essenza di tale stato è data da «un patto re-
ciproco di ciascuno, contratto allo scopo di proteggersi contro
ogni violenza che venga dall’interno o dall’esterno»135. Affinché
il patto abbia effettività, è necessario che il numero dei con-
traenti sia sufficientemente grande da impedire che una piccola
minoranza possa annullare l’accordo, e, soprattutto, occorre
che venga esplicitato chi dei contraenti abbia il potere (magt) di
comandare e per quanto tempo, e chi invece debba sottomet-
tersi136. L’insostenibilità dello stato di natura, nel quale regna la
paura di ciascuno nei confronti di ogni altro, spinge dunque gli
individui a istituire un dominio stabile, affidando ai governanti
il compito della difesa comune, che implica tanto la protezione

134 P.F. MOREAU, La notion d’imperium dans le «Traité Politique», in Spinoza nel

350° anniversario della sua nascita, cit., pp. 355-66, nota come il termine imperium nel
TP sia suscettibile di tre traduzioni, a seconda della sua collocazione: «Stato», «sovra-
nità» e «governo»; dall’interrelazione di questi tre significati si deve poter cogliere la
natura specifica di questo concetto all’interno della teoria politica spinoziana. Va ricor-
dato infine che nella traduzione olandese del TP (Staatkunde, in Nagelate Schriften van
B.d.S.als Zedekunst, Staatkunde, Verbetering van’t Verstant, Brieven en Antwoorden, Uit
verschiede talen in Nederlansche gebragt, gedrukt in ‘t jaar 1677, pp. 302-403) la tradu-
zione di imperium è Heerschappy (cfr. p. 311) – termine corrispondente al tedesco
Herrschaft – che nel linguaggio politico del XVII secolo indica proprio la sovranità del-
lo Stato; cfr. in proposito i Geschichtliche Grundbegriffe, cit., vol. III, pp. 28 sgg.
135 «Een onderling verbond, van malkanderen te zullen beschermen tegen alle ge-

weld van binnen en van buiten» (Consideratien, cit., p. 20).


136 Cfr. ibid.
306 La libertà necessaria

dai pericoli esterni, quanto il controllo degli eventuali soprusi


interni, impedendo la nascita di poteri particolari (ovvero, pa-
rafrasando Spinoza, di situazioni di alterius juris).
Da questo quadro sembrerebbe che il ruolo dell’affettività
umana si esprima pressoché interamente all’atto del passaggio
allo stato civile, nel riconoscimento confuso, dettato dalla pau-
ra, che anche il governo più imperfetto è preferibile alla mise-
ria della condizione naturale. Una volta costituitosi il potere so-
vrano, quella stessa paura agisce soltanto come «memoria» del-
l’insostenibilità dello stato di natura, come elemento che inibi-
sce l’azione degli individui, rendendoli sudditi obbedienti e re-
missivi. Di fatto, anche nei Politike Discoursen si legge che, se
da un lato la legge suprema è la salus populi (che peraltro non
coincide immediatamente con la salus uniuscujusque137), tutta-
via il comportamento dei singoli è segnato dalla passività di
fronte al potere politico e alle leggi che esso emana, e anzi l’a-
more come fonte dell’obbedienza è considerato meno stabile
della paura, poiché solo con questa la volontà del sovrano do-
mina effettivamente quella dei sudditi; vale quindi il detto taci-
tiano, ripreso da Machiavelli, per cui «in multitudinem regen-
da, plus poena quam obsequium valet»138. Ne segue che dalla
natura passionale dell’uomo non può nascere alcun diritto co-
mune, ma solo il riconoscimento che un simile diritto non può
darsi, se non è imposto con la forza: il ruolo politico delle pas-
sioni si esaurisce nell’individuare l’impossibile socialità dell’uo-
mo, per il quale, in assenza di una minaccia di punizione, sa-
rebbe «non solo naturale, ma anche razionale (ook redelijk)
cercare di soddisfare le proprie voglie»139.
Ma allora la questione, rimasta sospesa alla fine dell’analisi
della natura individuale, se la legge di uno Stato esprima o me-
no il livello di razionalità sviluppato da una collettività in conti-
nuità con l’evolversi della sua dimensione affettiva, non trova
neppure a questa altezza una soluzione adeguata, anzi l’ambi-
guità sembra essere confermata dall’uso dello schema contrat-
tualista. In realtà il pensiero politico dei De la Court manifesta
137 Politike Discoursen, cit., p. 77.
138 Ivi, p. 56.
139 Ivi, p. 349.
VI. Jura communia e multitudo 307

la sua originalità e ricchezza a partire dalla trattazione delle for-


me di governo, che occupa la gran parte delle Consideratien.
Già la descrizione del miglior governo (de beste Regeering),
presente al capitolo V, introduce un importante elemento di
novità; quest’ultimo, infatti, è definito come
quello in cui la prosperità e il danno dei governanti è legato alla pro-
sperità e al danno dei sudditi; invece la forma peggiore di governo è quel-
la in cui i governanti non possono favorire il benessere dei sudditi, senza
danneggiare loro stessi, mentre, al contrario, possono danneggiare i sud-
diti, ricavandone un vantaggio140.

Rispetto alla dipendenza pressoché totale di ogni individuo


nei confronti delle autorità sovrane che l’origine pattizia dello
stato civile postulava, si apre ora una prospettiva ben diversa,
poiché la paura dei sudditi non appare sufficiente a garantire la
vita dello Stato: il movimento degli affetti complica il quadro,
la ricerca del proprio utile da parte di ognuno rilutta a consu-
marsi nella semplice legittimazione di un potere qualsiasi; in
sintesi, l’uscita dallo stato di natura non risolve definitivamente
il problema della convivenza politica. Ma questo significa che
le passioni continuano a operare politicamente all’interno di
una collettività organizzata, non soltanto nella direzione di un
rafforzamento del potere sovrano, bensì anche come possibilità
che tale potere entri in crisi – ad esempio quando l’utile dei go-
vernanti non coincide con quello del resto dei cittadini –, e che
l’unità interna si disgreghi. Il passo citato indica la necessità
per la sopravvivenza di uno Stato che gli interessi di tutti i suoi
membri – la cui natura passionale è più volte sottolineata – tro-
vino un’armonizzazione che solo un’influenza permanente, per
quanto indiretta, dei sudditi sui governanti può garantire. In tal

140 «De beste Regeering is, daar het wel en quaalik vaaren der Regeerders geschaa-

keld is aan het wel en quaalik vaaren der Onderdaanen, alsmede dat het quaadste for-
me van Regeering is, daar de Regeerders het welvaaren der Onderdaanen niet konnen
vorderen, zonder zig zelven te beschadigen, en daar zy, ter contrarie, de Onderdaanen
konnen beschaadigen en plonderen, tot haar eigen voordeel» (Consideratien van Staat,
cit., p. 23). Nell’Aanwysing Pieter De la Court dà una definizione leggermente diversa
del buon governo, sostenendo che esso è tale se «la prosperità e la sfortuna dei gover-
nanti segue o dipende (volgd op, ofte hangd van) dalla prosperità e la sfortuna dei sud-
diti» (Aanwysing, cit., p. 2).
308 La libertà necessaria

modo il testo non cancella certo la cesura tra i primi e i secon-


di, dal momento che spetta sempre ai detentori del potere la
decisione politica in ultima istanza, e quindi il compito di far
emergere la razionalità del vero interesse; tuttavia gli affetti del-
la collettività non svolgono più solamente il compito negativo
di impedire il ritorno alla condizione prepolitica, ma influisco-
no anche sulla qualità del regime politico esistente.
Resta da comprendere il motivo per cui inizialmente le Con-
sideratien assumano, per spiegare la genesi dello Stato, una
prospettiva contrattualista il cui registro teorico non si accorda
con quello dello sviluppo dell’opera; così come appare disso-
nante il riferimento all’indivisibilità del potere sovrano, an-
ch’esso presente più volte all’interno del volume141. Anche in
questo caso, come per l’adozione delle categorie antropologi-
che hobbesiane, pesa probabilmente l’intenzionalità polemica
di contrapporsi al naturalismo di marca aristotelica e all’esalta-
zione dell’imperium mixtum propria del pensiero calivnista fi-
lo-orangista; ma vi è anche un motivo più profondo che spinge
i De la Court ad affermare la necessità di un potere unico e in-
divisibile (e ovviamente stretto nelle mani degli Stati Generali);
un motivo riassunto dalla citazione di Tacito con cui si conclu-
de il VI capitolo delle Consideratien: «poiché lo Stato non ha
che un corpo, esso non può che essere governato da una sola
anima (Derwijl den Staat maar een lighaam heeft, moet zy niet
dan door eenen geest werden geregeerd)»142. Svolgendo la meta-
fora, che lo Stato abbia un solo corpo significa che l’uguaglian-
za di tutti gli uomini che lo compongono è un elemento costi-
tutivo intrascendibile, e pertanto la dialettica passionale non
può mai esprimersi come uno scontro tra due o più poteri indi-
pendenti, ma sempre e solo come movimento interno a un uni-
co soggetto sovrano, il cui compito è quello di governare nel
modo più conveniente per la collettività i conflitti che si svilup-
pano tra gli individui. D’altra parte, che il potere debba essere
tenuto da un unico soggetto non significa, come è ovvio, soste-
nere l’eccellenza della monarchia rispetto alle altre forme di go-

141 Ad esempio a p. 25 («De souveraine hooge magt nieet kan werden verdeeld»).
142 Consideratien, cit., p. 29.
VI. Jura communia e multitudo 309

verno; al contrario, proprio perché le autorità sovrane devono


governare al meglio le passioni collettive, è di gran lunga prefe-
ribile un governo allargato a un numero elevato di membri, tale
da riprodurre al suo interno la molteplicità affettiva dei sudditi.
Solo così nei processi decisionali «si manifesta una grande di-
versità di passioni, che spesso si neutralizzano a vicenda (mal-
kanderen in den toom houden)»143, e di conseguenza la ragione
ha maggiori possibilità di imporsi: la pluralità di individui au-
menta la differenza passionale, e grazie a questo incremento
della diversità è possibile annullare l’influsso passionale sul
processo decisionale.
Anche nel TP è presente un’affermazione che richiama la
necessità di fondere l’utile dei governanti e quella dei sudditi,
sostenuta nelle Consideratien; al capitolo VII, infatti, Spinoza
dichiara:
poiché la natura umana è fatta in modo tale che ciascuno è affezionato
soprattutto alla ricerca del proprio utile privato (summo cum affectu
suum privatum utile) [...] e prende le parti di un altro per quel tanto che
ritiene al tempo stesso utile a consolidare le proprie posizioni, ne conse-
gue di necessità che conviene scegliere dei consiglieri i cui affari e inte-
ressi privati dipendano dalla salvaguardia dell’interesse comune e dalla
pace di tutti (quorum privatae res, et utilitas a communi omnium salute, et
pace pendeant)144.

Una simile conclusione sembra in totale accordo con quanto


affermato dai De la Court a proposito del miglior governo; va
però notata una differenza, in apparenza piccola, ma estrema-
mente significativa: Spinoza non istituisce tanto un legame tra
l’interesse o l’utile dei governanti e quello dei governati, bensì
tra il primo e la communis omnium salus, et pax, ovvero la sal-
vezza e la pace di tutta la collettività, senza distinzioni tra chi
governa e chi è suddito. L’orizzonte di riferimento spinoziano è
perciò quel communis consensus che costituisce il fondamento
dell’imperium, e che qui assume la forma stabile della «salvezza
e della pace» universale; di contro, nelle Consideratien un simi-
le accordo preventivo, generato dagli affetti comuni, sarebbe

143 Ivi, p. 264.


144 Cap. VII, § 4, in Opera, III, p. 309 (trad. it. p. 115).
310 La libertà necessaria

impossibile, poiché non si dà, a livello passionale, nessuna pos-


sibilità di convergenza tra gli individui, ma soltanto la neutra-
lizzazione reciproca di tendenze opposte.
Non vi è dubbio che il TP e le Consideratien van Staat con-
dividano l’assunzione di un quadro teorico dominato dall’intra-
scendibilità della dimensione affettiva, che riveste in entrambi i
testi un ruolo politico decisivo; soltanto così è possibile spiega-
re l’uso «strategico» del contrattualismo giusnaturalistico da
parte dei De la Court, che funge da arma polemica contro la
tradizione, ma non da strumento di produzione di un ordine
artificiale ed immutabile. Comune è quindi la volontà di conce-
pire lo Stato come una realtà in continuo divenire, mossa dalla
tensione esistente tra le passioni dei sudditi e quelle dei gover-
nanti per i De la Court, e da una ben più complessa e articolata
dialettica delle passioni collettive per Spinoza: per entrambi,
comunque, il problema della nascita della comunità politica e
quello del suo governo coincidono, nel senso che l’esistenza
dello Stato non è mai decisa in maniera definitiva, ma sempre
rimessa in gioco dalle modalità di composizione delle passioni
(e questo è forse il senso del repubblicanesimo tanto dei primi,
quanto del secondo145). Tuttavia proprio a questa altezza emer-
ge anche una netta differenza nel valore assegnato alla dimen-
sione affettiva; infatti, se nelle Consideratien la ragione emerge
sì dall’universo passionale, ma per via negativa, grazie cioè all’
annullarsi reciproco delle passioni contrapposte, di contro nel
TP la razionalità dello Stato nasce dal potenziamento degli af-
fetti comuni a scapito di quelli individuali, e non dall’affossa-
mento indistinto della potenza affettiva146. In tal modo Spinoza
riesce a superare l’aporia di un dualismo politico, costruito su
quello etico, tra ratio e affectus, che invece compare talvolta
nell’opera delacourtiana, dietro la maschera della distinzione
145 Su questo aspetto del repubblicanesimo olandese cfr. il mio articolo Assoluti-

smo e libertà. L’orizzonte repubblicano nel pensiero politico olandese del XVII secolo, cit.
146 A tale proposito cfr. A. MATHERON, Etat et moralité selon Spinoza, in Spinoza

nel 350° anniversario della sua nascita, cit., pp. 343-54, il quale sostiene che secondo
Spinoza lo Stato non sorge per costringere gli uomini a seguire la ragione, bensì come
prodotto del gioco delle passioni umane (cfr. p. 349); solo a partire da questa osserva-
zione è possibile comprendere con esattezza il funzionamento nello Stato dell’affettivi-
tà umana.
VI. Jura communia e multitudo 311

tra governanti e sudditi.


L’imperium spinoziano manifesta allora la propria origine
democratica, generata da una potenza aggregante che proviene
da tutta la collettività, la quale rimane unita grazie esclusiva-
mente alla propria costituzione affettiva. In altri termini, lo Sta-
to nasce da nessun altro potere o diritto che non sia quello di
cui gli uomini da sempre dispongono per condurre la loro esi-
stenza: da esso soltanto, infatti, può svilupparsi la comunicazio-
ne tra gli uomini e – pur tenendo conto dei numerosi aspetti
conflittuali – la scoperta di ciò che vi è di comune (cioè di ciò
che è razionale), in un orizzonte dinamico ed espansivo: solo
dalle passioni universalmente condivise possono nascere le
buone leggi.

4. La dialettica interna all’imperium: potere sovrano,


sudditi, cittadini
Il TP è così giunto a definire la cornice dentro la quale si svi-
luppa la riflessione di Spinoza intorno al rapporto esistente tra
governanti e sudditi. Anche per lui, infatti, come per i De la
Court, vi è distinzione tra chi esercita l’imperium, cioè «chi per
comune accordo ha la cura della repubblica (curam Reipublicae
ex communi consensu habet), ovvero promulga, interpreta e
abroga le leggi, decide delle fortificazioni delle città, della guer-
ra e della pace, eccetera»147, e gli altri membri della comunità
politica, ai quali viene attribuito un duplice ruolo: «Gli uomini,
poi, li chiamiamo cittadini in quanto godono per diritto civile
di tutti i vantaggi della cittadinanza (omnibus civitatis commo-
dis gaudent), e sudditi, in quanto sono tenuti a obbedire alle
istituzioni, o leggi civili»148. Si tratta comunque di una distin-
zione che non implica alcuna separazione netta, ma che anzi
evidenzia da un lato la dipendenza di chi governa la cosa pub-
blica dal consenso di tutti, dall’altro la partecipazione al diritto
comune da parte di ogni cittadino (che è quindi irriducibile a
semplice subditus). Solo a partire da questa precisazione si

147 TP, cap. II, § 17, in Opera, III, p. 282 (trad. it. p. 49).
148 Cap. III, § 1, in Opera, III, p. 284 (trad. it. p. 55).
312 La libertà necessaria

comprendere la successiva definizione dello jus summarum po-


testatum:
il diritto dello stato, ossia del potere sovrano (imperii, seu summarum
potestatum Jus), non è altro se non il diritto stesso di natura, determinato
dalla potenza non di un singolo, ma del popolo (multitudinis), come gui-
dato da una sola mente; vale a dire che, come un singolo allo stato di na-
tura, così pure il corpo e la mente dell’intero stato hanno tanto diritto
quanta è la potenza che possono far valere149.

Spinoza ribadisce che è la potenza della moltitudine di indi-


vidui che compongono lo Stato a costituirne anche il diritto; il
potere che i governanti esercitano è dunque ricondotto alla po-
tenza di quella totalità, di cui essi sono una parte. Il termine
summae potestates scompare poi nei paragrafi successivi, sosti-
tuito in molti casi da quello di Civitas, termine che indica «l’in-
tero corpo dello Stato (imperii autem integrum corpus)»150: spet-
ta a essa, infatti, il compito di impedire ai singoli cittadini di se-
guire il loro personale ingenium, minacciando in tal caso l’unità
dell’imperium, dal momento che l’indivisibilità dello Stato coin-
cide con il suo essere naturalmente sui juris, e conseguentemen-
te con la perdita di autonomia del cittadino, che è «sotto la giu-
risdizione della cittadinanza(Civitatis juris esse)»151. Questa pre-
cisazione potrebbe suonare come la messa in mora di ogni liber-
tà individuale, ma non è che la diretta conseguenza del fatto che
la nascita degli jura communia implica la scomparsa di un diritto
dell’individuo che in realtà, come si è già detto, è una mera
astrazione. Soltanto chi ha deciso «di rispettare tutte le disposi-
zioni della cittadinanza, o per timore della sua potenza, o per
amore della tranquillità, certamente persegue a modo proprio
(ex suo ingenio) la propria sicurezza e il proprio utile»152; quindi

149 Ivi, § 2, pp. 284-5 (trad. it. p. 55).


150 Ivi, § 1, p. 284 (trad it. p. 55). L’aggettivo integrum ha in Spinoza una valenza
ben precisa, volta a esprimere il processo di aggregazione di una pluralità in un corpo
individuale più grande, il quale assume una connotazione autonoma, che è qualcosa di
più del semplice aggregato; si veda, ad esempio, l’uso della locuzione «integra multitu-
do» al cap. VII, § 5, in Opera, III p. 309 (trad. it. p. 117).
151 Ivi, § 5, p. 286 (trad. it. p. 36). Per una ricostruzione delle diverse traduzioni di

Civitas nelle più recenti edizioni del TP cfr. la traduzione di Dominguez, cit., pp. 99-100.
152 Cap. III, § 3, in Opera, III, p. 285 (trad. it. p. 57).
VI. Jura communia e multitudo 313

solo chi ha indirizzato il proprio ingenium e la propria affettivi-


tà – dominata dalla paura o dall’amore, a questo livello non ha
importanza – nella direzione indicata dalla legge, può sviluppa-
re la propria potenza e autonomia, dal momento che «nello sta-
to di civiltà tutti temono le stesse cose, e c’è per tutti un’unica
fonte di sicurezza e norma razionale di vita»153.
In quest’ottica, dominata dalla forza aggregante dell’impe-
rium, il TP discute la questione dei limiti del potere sovrano;
Spinoza riprende pressochè integralmente il ragionamento già
sviluppato nel capitolo XVI del TTP, riarticolandolo su due
punti: 1) il diritto dello Stato, essendo determinato «dalla po-
tenza del popolo (potentia multitudinis)», costituisce una
«unione degli animi [che] non sarebbe per nessuna ragione
concepibile, se la cittadinanza non fosse orientata a ricercare
soprattutto ciò che la sana ragione insegna essere utile a tutti
gli uomini»154; 2) poiché gli uomini rimangono nello stato civi-
le spinti dalla paura o dall’amore, le leggi dello Stato sono limi-
tate dall’orizzonte di questi due affetti, e non possono obbliga-
re nessuno per quanto concerne altri aspetti della sua natura,
come la facoltà di giudicare quello che è bene o male, né pos-
sono costringere a «quelle azioni dalle quali la natura umana ri-
fugge tanto da ritenerle peggiori di ogni male»155. A questo si
aggiunge una terza osservazione, secondo la quale « nel diritto
di cittadinanza non rientrano quelle cose che suscitano l’indi-
gnazione generale (quae plurimi indignantur)»156; essa apre una
nuova prospettiva di grande rilievo, poiché ora la Civitas per
così dire prende vita, mutandosi da corpo inerte in essere capa-
ce di provare dei sentimenti di paura:
La cittadinanza (Civitas) ha sicuramente dei pericoli da temere, e co-
me ciascun singolo cittadino o un uomo allo stato di natura, anche la cit-
tadinanza è tanto meno autonoma, quanto maggiori sono i motivi che ha
di temere (eo minus sui juris est, quo majorem timendi causam habet)157.

153 Ibid.
154 Ivi, § 7, p. 287 (trad. it. p. 61).
155 Ivi, § 8 (trad. it. p. 61).
156 Ivi, § 9, p. 288 (trad. it. p. 63).
157 Ibid.
314 La libertà necessaria

Il movimento degli affetti all’interno dello Stato è duplice:


da un lato il corpo politico nel suo complesso – ovvero la mol-
titudine unificata dagli jura communia – rafforza di volta in vol-
ta nei singoli quella paura o quell’amore che gli permette di
preservare la propria integrità; dall’altro, però, essa è sempre a
rischio di disgregarsi, nel caso in cui prendano il sopravvento
altri meccanismi passionali – come ad esempio l’indignatio –
dentro la Civitas, che producono aggregazioni parziali e quindi
esiziali per la sua esistenza. Proprio a causa di questa duplicità
dell’universo passionale il consenso sul quale si fonda lo Stato
non può mai essere dato per certo, ma deve venire rinsaldato di
continuo.
Il ruolo delle summae potestates riemerge in tutta la sua pro-
blematicità perché le leggi civili sono l’esito di una mediazione
ininterrotta, che mira a preservare l’animorum unio di tutti i
cittadini: spetta a esse, e a coloro che hanno il compito di met-
terle in atto, governare le dinamiche affettive che continuano
ad attraversare la comunità politica, indirizzandole verso una
loro completa armonizzazione: così l’imperium si determina
concretamente e necessariamente nella cura Reipublicae158, os-
sia nel «governo della cosa pubblica». Ma ogni governo pre-
senta inevitabilmente la distinzione tra chi lo esercita e chi lo
subisce, tra governanti e sudditi, come dato ineliminabile, che
si dà concretamente in una determinata relazione di potere: la
potestas, abbandonata e quasi dimenticata alle soglie dell’in-
gresso nello stato politico, si ripresenta al suo interno (né po-
trebbe essere altrimenti, data la continuità tra questo e lo stato
di natura). L’avvio del IV capitolo affronta questo punto:
Nel precedente capitolo abbiamo presentato il diritto del potere so-
vrano, che si definisce in base alla sua potenza (jus summarum potesta-
tum, quod earum potentia determinatur), e abbiamo visto che esso consi-
ste principalmente nel suo essere quasi la mente delo stato, dalla quale
tutti devono essere guidati; e dunque esso solo ha il diritto di decidere

158 MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de Spinoza, cit., p. 151, osserva che

il potere di una collettività – cioè l’imperium – si fonda sulla corrispondenza quantitati-


va tra la potenza pubblica e chi esercita tale potenza, cioè tra jus e cura; in realtà, come
si cercherà di mostrare, tale rapporto riposa su una dialettica più complessa, che impe-
disce di pensare i due poli come indipendenti l’uno dall’altro.
VI. Jura communia e multitudo 315

che cosa è bene o male, giusto o ingiusto, ovvero che cosa devono fare o
non fare tutti o ciascuno159.

Questa definizione non corrisponde a quella presente nel III


capitolo, che parlava di uno jus summarum potestatum determi-
nato dalla potenza della multitudo, e non semplicemente dalla
potenza del sovrano; rimane invece il riferimento a quell’ «im-
perii veluti mens» che esprime l’unione degli animi prodotta
dal consenso, parallela all’ «imperii integrum corpus», ovvero
alla Civitas. La differenza sopra rilevata merita tanto più atten-
zione in quanto le pagine successive del TP non sembrano rile-
vare alcuna contraddizione tra la prima e la seconda definizio-
ne, sviluppando una serie di deduzioni sulla base della nuova
connotazione delle summae potestates, le quali appaiono così in
grado di concentrare nelle loro mani tutta la potenza della mol-
titudine che aveva originato l’imperium. Il che significa che la
polarizzazione del corpo politico, che Spinoza intendeva evita-
re ad ogni costo, è ora invece massima, e che i cittadini, anziché
essere alterius juris nei confronti della Civitas, e quindi di un
potere universale da loro stessi costituito, lo sono nei riguardi
dei singoli individui in carne ed ossa che detengono il governo:
Poiché tutte queste faccende, nonché gli strumenti che occorrono per
la loro esecuzione, sono affari riguardanti l’intero corpo dello stato, ossia
la repubblica (ad integrum imperii corpus, hoc est...ad Rempublicam), ne
consegue che la repubblica dipende unicamente dalla direzione di chi de-
tiene la sovranità dello stato (Rempublicam ab ejus tantummodo directio-
ne pendere, qui summum habet imperium)160.

Per chiarire il senso di quello che sembra un mutamento


teorico rilevante, è necessario tornare ai primi passi della rifles-
sione spinoziana, alla relazione esistente tra diritto naturale e
diritto civile. Si è già sottolineato come gli uomini entrino natu-
ralmente nella dimensione politica, poiché il loro jus naturale è
già da sempre, almeno in parte, uno jus civile, essendo costitui-

159 Opera, III, pp. 291-2 (trad. it. p. 73).


160 Ivi, § 2, in Opera, III, p. 292 (trad. it. p. 73). L’identificazione dell’«integrum
imperii corpus» con la Respublica, anziché con la Civitas (secondo la definizione del §
1 del III capitolo), sembra più una svista di Spinoza che non uno slittamento concet-
tuale; va ricordato infatti che il TP rimase inconcluso per la morte del suo autore.
316 La libertà necessaria

to da alcuni jura communia che implicano l’esistenza di un rap-


porto sociale. Tali diritti, tuttavia, non esauriscono il diritto in-
dividuale nella sua interezza, cosicché ognuno continua, anche
nello stato civile, a vivere seguendo anche il proprio ingenium e
la propria personale inclinazione. In tal modo si stabiliscono
tra gli individui relazioni definite non dalla comune potenza,
bensì dalla contrapposizione delle potenze particolari; in una
parola relazioni di potere, che però ora assumono una connno-
tazione politica, in quanto esprimono quella parte della natura
singolare che rilutta a entrare in un rapporto sociale armonico;
da cui consegue la necessità di un intervento progressivo delle
istituzioni, allo scopo di superare questa resistenza161. Inoltre al
capitolo IV Spinoza evidenzia un aspetto della natura del pote-
re (potestas) che non compariva al II capitolo, grazie al quale è
possibile risolvere la questione decisiva del diritto sovrano:
ci si chiede di solito se il potere sovrano sia vincolato da leggi (an sum-
ma potestas legibus adstricta sit), e se, di conseguenza, possa trasgredire.
Ora, poiché i termini di legge e di trasgressioni si riferiscono abitualmen-
te non soltanto ai diritti della cittadinanza, ma anche alle regole comuni a
tutte le cose naturali, e in primo luogo alla ragione, non possiamo dire in
assoluto che la cittadinanza non sia vincolata da legge alcuna, ossia che
non possa trasgredire. La cittadinanza infatti, se non fosse vincolata ad
alcuna di quelle leggi o regole senza la quali una cittadinanza non è più
una cittadinanza, non sarebbe da considerarsi cosa naturale, ma chimera.
La cittadinanza dunque trasgredisce (Peccat) quando fa o sopporta che
sian fatte cose che possono provocare la sua rovina, e allora diciamo che
essa trasgredisce, nel senso che impiegano i filosofi e i medici quando
parlano di peccati di natura162.

La Civitas è un corpo naturale (il corpo dell’imperium), e co-


me tale soggiace alle regole della natura, né più né meno di
ogni altro individuo corporeo; questo significa che essa «pec-
ca» – termine con il quale Spinoza indica, non senza un accen-
tuazione polemica, la coimplicazione del piano morale e di
quello giuridico –, venendo meno alle sue leggi costitutive, al-

161 In tal senso giustamente Balibar afferma che «l’ ‘anima’ del corpo politico [cioè

la mente della Civitas] non è una rappresentazione, ma una pratica» (Spìnoza e la politi-
ca, cit., p. 95).
162 TP, cap. IV, § 4, in Opera, III, pp. 292-3 (trad. it. p. 75).
VI. Jura communia e multitudo 317

lorché non riesce a controllare le tensioni disgregatrici che agi-


scono al suo interno. Il riferimento conclusivo ai medici non la-
scia dubbi: la Civitas può ammalarsi, come avviene quando la
sua potenza non è più in grado di mantenere la coesione degli
individui che la costituiscono, di modo che i rapporti interni
tra le sue parti si allentano fino a decomporsi; di conseguenza
essa si espone al rischio di perdere la propria unitarietà163. La
coesione che deve essere salvaguaradata è, ovviamente, quella
definita dagli jura communia, e che, Spinoza lo dice ora per la
prima volta, coincide con l’uso della razionalità, di modo che la
Civitas «è autonoma al massimo grado (maxime sui juris) quan-
do agisce in base ai dettami della ragione»164; da questo punto
di vista, vi è quindi assoluta omogeneità tra l’individuo colletti-
vo e l’uomo naturale, la cui autonomia, lo si è visto al capitolo
II, consiste ugualmente nell’esercizio della ratio.
Stabilito che la collettività politica nel suo complesso è de-
terminata da leggi naturali, vanno tratte le conseguenze sul pia-
no delle relazioni tra le summae potestates, cioè coloro che han-
no il compito di mantenere sana la Civitas attraverso la cura
Reipublicae, e i subditi. Se si accettasse la tesi per cui ogni deci-
sione politica compete esclusivamente al potere sovrano, come
sembra sostenere Spinoza all’inizio del capitolo IV, resterebbe
incomprensibile proprio l’insistenza del riferimento alla natu-
ralità delle leggi politiche, poiché esse non potrebbero che di-
pendere dalla volontà sovrana, alla quale tutti sono assoluta-
mente sottomessi; ma a chiarire questo delicato passaggio è il
testo spinoziano, poche righe più avanti:
queste cose si potranno più chiaramente intendere considerando che,
quando diciamo che uno può decidere ciò che vuole su ciò che è sotto la
sua giurisdizione (quae sui juris est), questo potere va definito in base non
solo alla potenza dell’agente, ma anche alla disposizione del paziente (non
sola agentis potentia, sed etiam ipsius patientis aptitudine definiri debet)165.

Spinoza non solo esclude qualsiasi ipotesi di una cessione

163 Sulla malattia, fisica e morale, come processo di decomposizione dei rapporti

costitutivi di un individuo cfr. DELEUZE, Filosofia pratica, cit., pp. 46 sgg.


164 TP, cap. IV, § 4, in Opera, III, p. 293 (trad. it. p. 75).
165 Ibid. (trad. it. pp. 75-7).
318 La libertà necessaria

definitiva del proprio diritto da parte dei sudditi a chi detiene


il potere, ma afferma inoltre che ogni decisione politica origina
da una dialettica ininterrotta tra le potenze particolari che con-
tinuano a manifestarsi all’interno della polarizzazione gover-
nanti-governati166. L’aptitudo dei sudditi, infatti, non è altro
dalla loro potenza, poiché quest’ultima definisce non soltanto
l’attività dell’individuo, ma anche la sua disponibilità a essere
affetto dalla realtà esterna secondo determinate modalità; di
conseguenza, ogni relazione di potere non coincide con l’eser-
cizio di una potenza su una passività inerte, ma è l’esito di uno
scontro tra potenze di diversa intensità e direzione, tale per cui
anche chi, in ultima analisi, soggiace alla potestas altrui, parteci-
pa comunque alla definizione del risultato conclusivo. In tal
senso, se chi governa è in apparenza il detentore del potere de-
cisionale dal quale vengono emanate le leggi positive dello Sta-
to, questo non significa affatto che egli disponga di un potere
illimitato, poiché esistono delle condizioni ben precise «poste
le quali hanno luogo il rispetto e il timore dei sudditi verso la
cittadinanza, e tolte le quali scompaiono il timore, il rispetto, e
con essi la cittadinanza»167. Si tratta quindi di un processo che
coinvolge in diversa misura tutti i membri della Civitas, defi-
nendo l’effettività e il limite del potere di governo; inoltre esso
sancisce, attraverso l’universalità dei rapporti di dipendenza re-
ciproca (ognuno è, almeno in parte, alterius juris), l’assoluta
uguaglianza tra governanti e sudditi, ma un’uguaglianza non
statica, meramente formale, bensì prodotta dall’intreccio delle
potenze, dal coinvolgimento affettivo di tutti: come afferma il
capitolo VII, il volgo «non ha il senso della misura: lo ritengo-

166 DEN UYL, Power, State and Freedom, cit., p. 77, definisce l’esercizio del potere

come un continuo processo di azione e reazione tra governanti e moltitudine, afferma-


zione condivisibile solo in parte, a patto cioè di sostituire il termine «moltitudine» –
che in Spinoza indica la totalità degli individui aggregatisi nella Civitas – con quello di
«sudditi», e soprattutto di concepire in modo dinamico e interscambiabile il rapporto
di attività-passività. Sul medesimo tema cfr. anche M.J. TERPSTRA, De wending naar de
politiek (Een studie over het gebruik van de begrippen ‘potentia’ en ‘potestas’ door Spino-
za in het licht van de verhouding tussen ontologie en politieke theorie, dissertation, eigen
beheer, Nijmegen, 1990, che definisce l’aptitudo dei sudditi come una potentia passiva,
secondo la terminologia scolastica.
167 TP, cap. IV, § 4, in Opera, III, p. 293 (trad. it. p. 77).
VI. Jura communia e multitudo 319

no pericoloso se non è tenuto in soggezione (nihil...in vulgo


modicum, terrere nisi paveant)»168.
Poichè la gran parte degli uomini è dominata dalle passioni,
l’influenza dei sudditi su chi detiene il potere si esprime per lo
più negativamente, come rifiuto o come resistenza alle disposi-
zioni provenienti dall’autorità costituita169, manifestandosi so-
prattutto nella possibilità sempre incombente di rompere defi-
nitivamente l’accordo che fonda l’esistenza dello Stato: «I con-
tratti ossia le leggi (Contractus, seu leges) con le quali il popolo
(multitudo) trasferisce il proprio diritto a un solo consigilo, o a
un solo uomo, debbono senza dubbio essere violati, quando la
loro violazione è a salvaguardia dell’interesse comune (commu-
nis salutis intersit)»170. In modo ben più evidente del TTP, il
TP manifesta la sua indipendenza dal paradigma contrattuali-
stico hobbesiano, che ha nell’impossibilità del diritto di resi-
stenza uno degli elementi cardinali171, tuttavia non per questo
Spinoza intende rivolgersi alla tradizione monarcomaca, recu-
perando la costruzione pluralistica dell’imperium di Althusius,
o legittimando il carattere politico dei corpi intermedi; piutto-
sto, recependo in modo del tutto originale il mutato quadro
concettuale, egli trasforma l’irreversibilità del patto sociale nel-
la necessità di una produzione continua del consenso attivo,
fondato su basi affettive o razionali, della moltitudine dei citta-
dini. Così, ad esempio, se le leggi promulgate dalla summa po-
testas, che pure non è giuridicamente obbligata da esse, «sono

168 Cap. VII, § 27, in Opera, III, p. 320 (trad. it. p. 141); ma cfr. anche Etica, IV, 54,

scolio, in Opera, II, p. 250 (trad. it. p. 269). Un’eccellente analisi dei presupposti politi-
ci e ontologici di questa affermazione è presente in È. BALIBAR, Spinoza: la crainte des
masses, in Spinoza nel 350° anniversario della sua nascita, cit., pp. 293-320.
169 Sul diritto «eterno» dei cittadini alla resistenza cfr. BOVE, La stratégie du cona-

tus, cit., pp. 268 sgg.


170 TP, cap. IV, § 6, in Opera, III, p. 294 (trad. it. p. 79). La traduzione di contrac-

tus con il plurale «contratti» (cfr. la nota di Cristofolini, p. 242) riduce ulteriormente la
possibilità di leggere questo brano come un riferimento alla dottrina giusnaturalistica;
infatti non si tratterebbe del patto originario e fondativo, bensì di una pluralità di ac-
cordi e di contratti che definiscono nel loro insieme lo spazio istituzionale.
171 Che il potere in Hobbes sia irresistibile, poiché non esiste nessun attore politico

al di fuori del sovrano, è quanto sottolinea G. DUSO, Dal potere naturale al potere civile:
l’epoca del contratto sociale, in Il potere, cit., pp. 113-21, e, in forma più problematica,
PICCININI, Potere comune e rappresentanza in Thomas Hobbes, cit.
320 La libertà necessaria

di tale natura da non poter essere violate senza che al tempo


stesso si debilitino le energie della cittadinanza, ovvero, senza
che il comune timore dei cittadini si converta in indignazione,
con ciò stesso la cittadinanza si dissolve»172 non appena i de-
tentori del potere cessino di osservare tali leggi.
Vi è un nesso profondo che salda la potentia multitudinis
con le relazioni di potere tra governanti e sudditi che si svilup-
pano al suo interno: la potenza collettiva definisce il diritto del-
la comunità politica, determinandone l’intrascendibile – pena il
suo disfacimento – orizzonte globale; tuttavia si tratta di un di-
ritto che va inteso, sulla base di quanto sostengono anche le
leggi fisiche della II parte dell’Etica, come l’esito delle relazioni
determinate tra le realtà individuali che costituiscono questa
totalità173. Sono proprio gli spostamenti affettivi e le polarizza-
zioni della potestas dentro il corpo politico a produrre material-
mente quel processo dinamico che si identifica con il diritto
della Civitas, cioè l’imperium, di modo che l’unità politica non
può essere concepita come un principio statico – come statica
non è, d’altra parte, la costituzione degli esseri umani, né quel-
la di qualsiasi altra res singularis –, bensì come lo sviluppo di
una pluralità di forze che, nel loro interagire anche conflittuale
(di qui l’impossibiltà di interpretare in senso organicistico la
politica spinoziana, e quindi lo Stato come una totaltità inte-
grata e armonica), riescono a produrre un grado di omogeneità
sufficiente all’individuazione di uno spazio e di un interesse co-
muni. È fuori di dubbio che Spinoza, allorché delinea una si-
mile concezione dello Stato, tenga lo sguardo fisso sui processi
politici in atto nel suo paese, e in particolare sul vuoto decisio-
nale che l’Unione di Utrecht aveva prodotto, e che il confron-

172 TP, cap. IV, § 6, in Opera, III, p. 294 (trad. it. p. 79). In realtà, osserverà Spino-
za più avanti, più che ritornare allo stato di natura, cosa che nessuno desidera, alla Ci-
vitas accade che i cittadini «mutino la sua forma in un’altra, se proprio non si riesce a
sedare le contese lasciando alla cittadinanza la sua configurazione» (cap. VI, § 2, in
Opera, III, p. 297; trad. it. p. 87). Sulla peculiarità del diritto d’insurrezione si veda il
saggio di FRANCÉS La liberté politique selon Spinoza, cit., che giustamente nega l’esi-
stenza nel TP di un obbligo morale alla resistenza, ma, al tempo stesso, ne sottolinea la
funzione politica.
173 Sullo Stato come totalità politica cfr. PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de

Espinosa, cit., pp. 254-61.


VI. Jura communia e multitudo 321

to-scontro tra le molteplici istituzioni – ma anche tra i partiti, le


città, gli stessi singoli individui – cercava di colmare attraverso
una costituzionalizzazione mai conclusa174; il suo è dunque un
tentativo radicale di pensare questa incompiutezza come stru-
mento progressivo di democraticizzazione della società.
La scientificità del ‘lavoro’ sull’esperienza storica, riconosciu-
ta già in avvio del TP, aveva condotto a negare una distinzione
tra l’atto di nascita dello Stato e il suo perseverare nell’esistenza;
distinzione meramente teorica, e per questo immaginaria. Per la
medesima ragione Spinoza rifiuta di introdurre una cesura tra il
principio della sovranità e il governo della cosa pubblica, poi-
ché il detentore del potere sovrano trae la propria legittimità
esclusivamente dall’efficacia della cura Reipublicae, cioè dalla
sua abilità specifica (ovvero dalla sua potenza, o virtù) a impedi-
re l’ammalarsi del corpo politico; egli quindi è costretto a inte-
ragire di continuo con la massa dei suoi sudditi, insieme ai quali
– e non al posto dei quali – costituisce l’integrum corpus imperii.
La discontinuità su questo punto con la prospettiva contrattua-
lista hobbesiana si fa massimamente evidente nella messa a tema
del significato di multitudo175; se Hobbes definisce il passaggio
dallo stato di natura a quello civile come la messa in forma di
una moltitudine attraverso il meccanismo rappresentativo che
costituisce il potere sovrano (infatti una moltitudine «diviene
una sola persona, quando gli uomini [che la costituiscono] ven-
gono rappresentati da un solo uomo o da una sola persona, e
ciò avviene col consenso di ogni singolo appartenente alla mol-
titudine»176), di contro per Spinoza la multitudo è assolutamente
174 Si vedano le conclusioni del I paragrafo del capitolo precedente.
175 Si tratta di un termine al quale la recente storiografia spinoziana ha riservato
un’ampia riflessione, a partire dagli scritti di Negri (soprattutto L’anomalia selvaggia,
cit., e Reliqua desiderantur, cit.) e dalle critiche che gli sono state mosse, ad esempio in
E. GARULLI, La multitudo o «soggetto collettivo» in Spinoza, in Spinoza nel 350° anni-
versario della sua nascita, cit., pp. 333-42, in M. TERPSTRA, What does Spinoza mean by
«potentia multitudinis»?, Freiheit und Notwendigkeit. Ethische und politische Aspekte
bei Spinoza und in der Gschichte des (Anti-) Spinozismus, a cura di E. Balibar, H. Seidel
e M. Walther, Königshausen & Neumann,Würzburg, 1994, pp. 85-98, o, infine, in
A.M. CAMPANALE, Diritto e politica tra necessità e libertà nel pensiero di Spinoza, ETS,
Pisa,1995, soprattutto pp. 100-1.
176 Leviathan, cap. XVI, in The English Works of T.H. of Malmesbury, vol. III, cit.,

p. 151 (trad. it. p. 134).


322 La libertà necessaria

irrapresentabile, né può essere ridotta a unità, se non privando-


la della sua naturale politicità – proprio il contrario di quanto
afferma il Leviathan –, e cioè trasformandola in solitudo. In al-
meno altri due passaggi il TP dimostra come la scissione incon-
ciliabile tra sudditi e governanti distrugga ogni possibilità di
convivenza politica: il primo, al capitolo V, afferma che «una
cittadinanza la cui pace dipende dall’inerzia dei sudditi, che si
lasciano condurre come pecore per imparare soltanto a servire,
piuttosto che cittadinanza potrà chiamarsi deserto (rectius soli-
tudo, quam Civitas dici potest)»177; il secondo, al capitolo suc-
cessivo, è ancora più esplicito: «se pace si devono chiamare la
schiavitù, le barbarie e la desolazione (solitudo), non vi è per gli
uomini maggiore miseria della pace»178. Nel lessico spinoziano
la solitudo indica perciò il prevalere di quella parte del diritto
naturale individuale che rilutta ad armonizzarsi con gli jura com-
munia, spingendo il singolo a rifiutare ogni grado di politicità; si
tratta di una situazione-limite, ma anche nel contempo di una
minaccia incombente per la società politica, la quale, proprio
perché non nasce in contrapposizione netta con lo stato natura-
le, è sempre a rischio di disintegrarsi. La solitudo distrugge l’u-
niversalità dei diritti della multitudo, originati da un comporta-
mento collettivo omogeneo, che coinvolge tutti senza esclusioni,
e non semplicemente una parte della cittadinanza179.
Non per questo il TP manca di cogliere le articolazioni inter-
ne alla società politica; al contrario, proprio il riconoscimento
di una dimensione comune, radicata nell’antropologia e nel-
l’ontologia, fonda un’analisi accurata dei mutamenti che si at-
tuano all’interno dello Stato. La costituzione della multitudo
non esclude aprioristicamente la presenza del conflitto e delle
tensioni, ma piuttosto ne garantisce lo sviluppo in una dialetti-
ca che blocca la possibilità di una degenerazione nel bellum

177 TP, cap. V, § 4, in Opera, III, p. 296 (trad. it. p. 83). Si ricordi in proposito il

passo, già citato, del § 1 del VI capitolo, dove Spinoza giustifica la naturale tendenza
degli uomini ad associarsi proprio a causa della comune «solitudinis metus».
178 Ivi, § 4, p. 298 (trad. it. p. 89).
179 Per una lettura diversa cfr. SACCARO BATTISTI, Spinoza, l’utopia e le masse, cit.,

nonché ID., Democracy in Spinoza’s Unfinished Tractatus Politicus, in «Journal of the


History of Ideas», XXXVIII, 1977, pp. 623-34.
VI. Jura communia e multitudo 323

omnium contra omnes: la guerra è il negativo dell’imperium, il


segno della caduta in una dimensione antipolitica, al punto che
uno stato civile «che non abbia eliminato i motivi di rivolta,
dove vi sia un continuo pericolo di guerra, e dove infine si vio-
lano frequentemente le leggi, non differisce molto dallo stato di
natura nel quale ciascuno vive a modo proprio in gran pericolo
di vita»180. Tuttavia per Spinoza – anche in questo caso diversa-
mente da Hobbes – la società politica non è semplicemente la
negazione di uno stato di natura intollerabile, né la pace si defi-
nisce solo come assenza di guerra, poiché la conflittualità man-
tiene comunque un aspetto produttivo, che non può essere
neutralizzato, se non a spese dei diritti comuni che fondano
l’imperium. Nell’ottica di un tendenziale perfezionamento della
costituzione di uno Stato, il TP esalta i mutamenti istituzionali
e la progressività legislativa, perché grande è la differenza tra
«l’aver diritto a comandare e a governare la repubblica (jure
imperare, et Reipublicae curam habere)» e «comandare e il go-
vernare la repubblica nel migliore dei modi (optime imperare,
et Rempublicam optime gubernare)»181; vi è una gradualità della
potenza collettiva che fonda la possibilità di una transizione
verso un’organizzazione politica più razionale.
La radicalità della proposta spinoziana si misura nel con-
fronto con le Consideratien van Staat, per molti aspetti vicine
alle posizioni teoriche del TP. Il capitolo riguardante i difetti
del regime democratico (capitolo VI: Naader Consideratien
over de gebreeken der populare Regeeringe) sottolinea la grande
differenza che intercorre tra «una assemblea illegale e rivoltosa
del popolo (een onwettige oproerige vergaderinge des Volks) e
un’assemblea legale della cittadinanza intera (een wettige verga-
deringe der gemeene Borgerschap)», aggiungendo in latino che
«inter populum et multitudinem differentia permagna est»182.
La multitudo risulta, agli occhi dei De la Court, incompatibile
con la cornice istituzionale della legge, e per questa ragione es-
sa rappresenta una continua minaccia per l’ordine politico, tale
per cui risulta necessario provvedere alla sua neutralizzazione
180 Cap. V, § 2, in Opera, III, p. 295 (trad. it. p. 83).
181 Ivi, § 1, p. 295 (trad. it. p. 81).
182 Consideratien, cit., pp. 471-2.
324 La libertà necessaria

da parte del potere; una posizione ribadita dai Politike Discour-


sen, dove si dice esplicitamente che «in multitudinem regenda,
plus poena quam obsequium valet»183. Nonostante la dichiara-
zione metodologica di adesione agli aspetti concreti della natu-
ra umana, dalla quale soltanto trarre gli strumenti per giudicare
i regimi politici, i due fratelli di Leiden faticano a rintracciare
le condizioni per un passaggio graduale dall’esistenza passiona-
le della collettività a quella regolata dalle passioni, finendo per
introdurre dei meccanismi di repressione affettiva che riduco-
no la plurivocità degli affetti a un solo impulso dominante,
quello della paura. Che invece Spinoza si muova in un’altra di-
rezione, lo prova ancora una volta il TP:
a partire dal fine dello stato di civiltà, si arriva facilmente a conoscere
quale sia la situazione ottimale per qualunque tipo di stato: niente altro
che la pace e la sicurezza della vita. E pertanto lo stato migliore è quello
nel quale la vita umana trascorre nella concordia e i cui diritti si conser-
vano inviolati. È certo infatti che le rivolte, le guerre e il disprezzo delle
leggi, ossia la loro violazione, non sono da imputarsi tanto alla malvagità
dei sudditi, quanto alla cattiva situazione dello stato: gli uomini non na-
scono civili, lo diventano184.

La concordia, che definisce la pace pubblica, dipende diret-


tamente dagli jura imperii, ossia dai diritti determinati dalla po-
tentia multitudinis, i quali, a loro volta, trovano una sistematiz-
zazione nelle leggi positive dello Stato, legittimandole agli occhi
dei cittadini. Ma se, al contrario, le leggi mancano di esprimere
gli jura communia, scompare ogni possibilità che la Civitas si
mantenga in vita a lungo, poiché gli stessi individui le diventa-
no estranei, non «civili»: lo Stato si trova a essere privo della
sua materia prima, ovvero dei cittadini. La conclusione del ra-
gionamento spinoziano suona perciò inevitabile: «se perciò in
una cittadinanza più che in un’altra dominano la malvagità e si
moltiplicano le trasgressioni, la cosa ha origine sicuramente nel
fatto che questa cittadinanza non avrà sufficientemente provve-
duto alla concordia e non avrà fondato i diritti con sufficiente
183 Politike Discoursen, cit., p. 56. Il termine olandese utilizzato per indicare questa

minacciosa «grande moltitudine» è meenigte, che nei Nagelate Schriften traduce multi-
tudo (cfr. Staatkunde, cit., ad esempio pp. 312 o 362).
184 TP, cap. V, § 2, in Opera, III, p. 295 (trad. it. p. 81).
VI. Jura communia e multitudo 325

saggezza (nec jura satis prudenter instituerit), e di conseguenza


non avrà neppure ottenuto la giurisdizione assoluta propria di
una cittadinanza (neque Jus Civitatis absolutum obtinuerit)»185.
Jura instituere, dare al legame originario che i diritti rappresen-
tano una forma istituzionale, senza però rimuoverne il radica-
mento nel bene comune: ecco il fondamento di un potere asso-
luto, capace di durare e di produrre un circolo virtuoso tra il
corpo collettivo e gli individui che lo compongono: infatti, co-
me «i vizi, la dissolutezza e l’insubordinazione dei sudditi sono
da imputarsi alla cittadinanza, così, all’inverso, la loro virtù e
l’osservanza scrupolosa delle leggi sono da attribuirsi soprattut-
to alla virtù e all’assoluta giurisdizione della cittadinanza»186.
L’affermazione machiavelliana presente nei Discorsi sopra la pri-
ma decade di Tito Livio, e ripetuta dai De la Court nelle Consi-
deratien, secondo la quale «le leggi non trovano, ma fanno gli
uomini buoni»187, risuona anche nelle parole di Spinoza, che
tratteggiano una teoria evoluzionistica delle istituzioni politi-
che, mirante all’armonizzazione dei diversi ingenia, e conse-
guentemente al potenziamento delle virtù singolari188. La co-
mune natura degli uomini, intesa non astrattamente, bensì a
partire dalla materialità delle relazioni che essa produce, è il
principio catalizzatore di questa evoluzione, e quindi la condi-
zione di possibilità del progresso collettivo, cosicché è sempre
la multitudo, in un continuo processo di autodeterminazione, a
esprimere la propria potenza come potere costituente dell’im-
perium: «quando parlo di uno stato (imperium) istituito a quel
fine [sc. alla concordia dei cittadini], mi riferisco a quello che è
stato instaurato da un popolo libero (id, quod libera multitudo
instituit)»189. Ovviamente la libertà della «libera multitudo»
non coincide già fin subito con la razionalità dispiegata, ma è
piuttosto l’esito dell’interazione affettiva tra le sue componenti,
185 Ibid. (trad. it. p. 83).
186 Ivi, § 3, p. 295 (trad. it. p. 83).
187 Il passo si trova nel I libro, cap. III dell’opera machiavelliana, e a p. 140 delle

Consideratien van Staat.


188 Cfr. in proposito WALTHER, Institution, Imagination und Freiheit bei Spinoza,

cit., p. 250, il quale conduce un’analisi attenta del significato del termine institutum e
dei suoi derivati nell’opera di Spinoza.
189 TP, cap. V, § 6, in Opera, III, p. 296 (trad. it. p. 85).
326 La libertà necessaria

e per tale ragione una libera multitudo «si regge più sulla spe-
ranza che sul timore»190. Essa però rende anche possibile la
transizione a una libertà ulteriore, più stabile e sicura perché
fondata sulla ragione, secondo un percorso che istituisce una
precisa continuità e contiguità tra affettività e razionalità191.
Non contraddice questa prospettiva, che recupera la libertà
al centro della riflessione del TP, l’insistenza di Spinoza, in av-
vio dell’opera, sulla securitas come virtù politica per eccellenza,
che era sembrata introdurre una variazione significativa rispet-
to al TTP192, poiché è lo stesso concetto di virtù, che la defini-
zione VIII della IV parte dell’Etica identifica con la potentia193,
che va pensato in termini di progressività: la sicurezza costitui-
sce quindi l’inizio di un percorso verso l’optimum imperium,
quello in cui «gli uomini vivono nella concordia» e liberamen-
te, e non semplicemente al sicuro dai pericoli194. Dal capitolo
VI alla conclusione dell’opera, interrotta all’analisi dell’impe-
rium democraticum, Spinoza vuole evidenziare il percorso che
ciascun genere di governo deve compiere per far maturare al
suo interno la libertà e la virtù che scaturiscono solo dall’espli-
citazione della natura democratica – cioè collettiva e partecipa-
tiva – di ogni Stato. I suggerimenti costituzionali proposti non
vanno quindi intesi come il «lavoro a tavolino» di uno scienzia-
to della politica, che indica la soluzione esatta per ogni genere
di problema (non è questa infatti, come si è già visto, la conce-
zione spinoziana della scienza), bensì come degli interventi di-
retti a liberare le potenzialità di ogni Civitas dai vincoli delle
passioni antipolitiche degli individui195. Al superamento delle
190 Ivi, p. 296 (trad. it. p. 85).
191 Su questo punto cfr. anche Y. YOVEL, The ethics of «ratio» and the remaining
«imaginatio», in La Ética de Spinoza. Fundamentos y significado, cit., pp. 243-8.
192 Cfr. in proposito il I paragrafo di questo capitolo.
193 Cfr. Opera, II, p. 210 (trad. it. p. 235): «Per virtù e potenza intendo la stessa

cosa».
194 Su questa concezione dinamica della virtus insiste GIANCOTTI, Sul concetto spi-

noziano di virtù, cit. Sui diversi significati che il concetto di securitas ha nell’opera di
Spinoza, cfr. G. BRYKMAN, Sagesse et sécurité selon Spinoza, in «Les Études Philosophi-
ques», III, 1972, pp. 307-18.
195 Come afferma Matheron, «la civilisation ne se décrète pas, elle est le resultat

d’un développement spontané qui requiert la complicité des circonstances» (Individu


et communauté selon Spinoza, cit., p. 465).
VI. Jura communia e multitudo 327

inerzie e dei conflitti interni alla multitudo anche il filosofo, che


vive a pieno titolo all’interno di essi, deve apportare il suo con-
tributo, aprendo la propria riflessione alla contingenza storica;
nel caso di Spinoza, alla situazione delle Province Unite dei
Paesi Bassi dopo il 1672, quando la fine del governo senza
Stadhouder lascia il campo a un’alternativa: la trasformazione
dello stadhouderato in monarchia, ovvero il ripristino di una
Repubblica aristocratica, che sia però in grado di ovviare alle
deficienze del tentativo compiuto dal De Witt. Per questo mo-
tivo i capitoli VI e VII sono dedicati all’analisi della prima for-
ma di governo, l’VIII, il IX ed il X alla seconda.
Capitolo Settimo
L’EVOLUZIONE DEI REGIMI POLITICI

1. Il potere del re e la potenza della multitudo


La trattazione della migliore costituzione per un regime mo-
narchico viene introdotta al capitolo V, alla fine del quale Spi-
noza mette in guardia dal manifestare eccessiva fiducia verso il
governo di un solo uomo, dal momento che esso può facilmen-
te degenerare in tirannide, come ha dimostrato un grande par-
tigiano della libertà popolare, l’acutissimus Machiavellus1:
egli ha forse voluto mostrare quanti motivi abbia un popolo libero (li-
bera multitudo) per guardarsi dall’affidare in maniera assoluta la propria
salvaguardia a uno solo che, se non è tanto vanitoso da credere di poter
piacere a tutti, deve temere incessantemente delle insidie; ed è perciò co-
stretto a badare piuttosto a se stesso, e ad ingannare il popolo piuttosto
che curarne gli interessi (sibi potius cavere, et multitudini contra insidiari
magis, quam consulere cogitur)2.

È facilmente individuabile un riferimento diretto agli avveni-


menti olandesi del 1672, al moto popolare che aveva condotto
alla caduta del regime repubblicano, innalzando il giovane Wil-
lem III al ruolo di «salvatore della patria»; un riferimento pre-
sente anche al capitolo VII, dove Spinoza sottolinea come sia
un segno di ignoranza «quel che fanno [sc. la multitudo] spes-
1 Sulla lettura del pensiero machiavelliano come momento fondativo di una tradi-
zione repubblicana si veda il classico lavoro di J.G.A. POCOCK Il momento machiavel-
liano [1975], Il Mulino, Bologna,1980. Sul rapporto Spinoza-Machiavelli, oltre al già
citato GALLICET CALVETTI Spinoza lettore del Machiavelli, alcuni interessanti spunti de-
rivano dal saggio di A. RAVÀ, Un contributo agli studi spinoziani: Spinoza e Machiavelli
[1930], in ID., Studi su Spinoza e Fichte, Giuffrè, Milano, 1958, pp. 91-113.
2 Cap. V, § 7, in Opera, III, p. 297 (trad. it. p. 85).
330 La libertà necessaria

so, di eleggere un re in vista della guerra»3; pensando con tutta


probabilità al conflitto nato a seguito dell’invasione francese: a
chi riteneva di poter ritornare in possesso della propria indi-
pendenza delegando la difesa dello Stato al principe d’Orange,
il TP ricorda che libertà dei cittadini e governo di uno solo dif-
ficilmente vanno d’accordo, nonostante l’apparenza4. La pace
del monarca è infatti spesso paragonabile a quella dell’impe-
rium Turcarum, ovvero a quell’assenza di guerra che è sinonimo
soltanto di schiavitù e di miseria, e che quindi non può garanti-
re in alcun modo la pace e la libertà dei sudditi, ma soltanto il
loro isolamento in una insostenibile solitudo (di contro, un elo-
gio della solitude è presente nell’opera di Montaigne, il quale,
alla fine del secolo XVI, dà un contributo prezioso alla nascita
della scienza politica moderna proprio attraverso la spoliticiz-
zazione dell’agire individuale5).
Anche nelle Consideratien van Staat il regime turco viene
portato come esempio di tirannia violentissima6; tale giudizio,
che peraltro è un topos della letteratura repubblicana, non deri-
va, come avviene in altri scritti, dalla natura corrotta della reli-
gione islamica che ne costituirebbe il fondamento ideologico,
bensì esprime il carattere strutturalmente tirannico di ogni mo-
narchia, rappresentata eminentemente da quella turca: ogni re-
gime monocratico, a prescindere dalle latitudini nelle quali es-
so nasce, è sempre una «goddelooze Politijke», cioè una «poli-
tica senza Dio»7. Spinoza potrebbe sottoscrivere le conclusioni
dei De la Court, che individuano nel potere tirannico l’arca-
num di ogni monarchia (evidenziando anche a questa altezza
una netta distanza da Hobbes, il quale dichiara l’impossibilità
3 Cap. VII, § 5, in Opera, III, p. 310 (trad. it. p. 117).
4 «L’esperienza però sembra insegnare, al contrario, che il conferimento di tutto
il potere a uno solo giovi alla pace e alla concordia» (cap. VI, § 4, in Opera, III, p. 298;
trad. it. p. 89).
5 Sul ruolo di Montaigne come «preparatore» della filosofia politica hobbesiana
cfr. A.M. BATTISTA, Nuove riflessioni su «Montaigne politico», in ID., Politica e morale
nella Francia dell’età moderna, a cura di A.M. Lazzarino Del Grosso, Name, Genova,
1998, pp. 249-91.
6 Alla discussione di questo governo è dedicato tutto il secondo capitolo; cfr.
Consideratien, cit., pp. 137-85.
7 Ivi, p. 184. Su questo carattere paradigmatico della monarchia turca cfr. anche i
Politike Discoursen, cit., p. 378.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 331

teorica, prima ancora che pratica, di un governo tirannico8);


tuttavia il TP non si limita a confermare la sua scelta di campo
repubblicana, ma intende comprendere scientificamente le
cause per cui imperia di tal fatta non solo si siano avvicendati
nella storia, ma siano ancora presenti in gran parte d’Europa.
Si tratta quindi di capire la necessità che conduce gli Stati ad
assumere la forma di governo regio, poiché solo così l’afferma-
zione di un’incompatibilità strutturale tra la libertà della multi-
tudo e il governo monarchico si completa nel riconoscimento
che il governo di un solo individuo manifesta una condizione
di insufficiente equilibrio affettivo all’interno della Civitas, che
impedisce una più ampia partecipazione alla vita politica. Nes-
suno, infatti,
cede volontariamente lo stato a un altro, come dice Sallustio nella pri-
ma orazione a Cesare. È quindi evidente che un popolo compatto (multi-
tudo interga) non trasferirebbe mai il proprio diritto a pochi o ad uno so-
lo se potesse mettersi d’accordo al suo interno e potesse evitare che le
controversie frequenti nei grandi consigli degenerino in sedizioni. E dun-
que il popolo trasferisce liberamente a un re soltanto ciò che non può as-
solutamente tenere in proprio potere, ossia la facoltà di dirimere le con-
troversie e la rapidità delle decisioni9.

Già il capitolo XVII del TTP aveva colto l’origine della mo-
nocrazia mosaica nella dipendenza del popolo ebraico dalla di-
mensione passiva dell’immaginazione, che bloccava il tentativo
di costituire uno spazio collettivo di partecipazione politica;
analogamente, ora il dominio delle passioni impedisce l’accor-
do spontaneo tra gli individui, favorendo di conseguenza la so-
luzione regia, cioè il trasferimento a un singolo del potere. Co-
me sostengono anche i De la Court nelle Consideratien van
Staat, la protezione dai nemici, la soluzione delle contese e la
capacità di decidere con rapidità ed efficacia sono le principali

8 Nel De cive Hobbes riduce il problema della tirannia a una questione di nomi-
nazione: «Allo stesso monarca viene dato il nome di re in segno di onore, e di tiranno
in segno di disprezzo» (De cive, in Thomae Hobbes Malmesburiensis opera philosophica,
cit., vol. II, cap. VII, p. 237; trad. it. p. 146).
9 TP, cap. VII, § 5, in Opera, III, p. 309 (trad. it. p. 117). Per un confronto tra l’a-
nalisi del governo monarchico nei due trattati spinoziani cfr. PEÑA ECHEVERRIA, La fi-
losofía política de Espinosa, cit., pp. 281-3.
332 La libertà necessaria

qualità di un regime monarchico10; tuttavia Spinoza va oltre


un’elencazione dei pregi e dei difetti, per affrontare la questio-
ne dell’origine ideologica della monarchia. La ricostruzione
della genesi dell’imperium monarchicum trova un primo impor-
tantissimo corollario nel riconoscimento che anche in esso è
sempre la potentia multitudinis, e non quella di un singolo indi-
viduo, a costituire il fondamento naturale, cioè il diritto origi-
nario; per tale ragione Spinoza ritiene opportuno chiarire subi-
to un equivoco tradizionale, riguardante la distribuzione del
potere e l’esercizio effettivo del governo:
Si sbagliano proprio di grosso quelli che credono possibile per uno
solo ottenere la giurisdizione suprema sulla cittadinanza (summum Civi-
tatis jus), poiché il diritto si determina unicamente in base alla potenza,
come abbiamo mostrato nel capitolo II: la potenza di un solo uomo non
è assolutamente in grado di sostenere tutto quel peso. Succede così che
chi è stato eletto re dal popolo va a cercarsi dei comandanti, dei consi-
glieri, degli amici, cui affidare la salvaguardia propria e di tutti, e così
mentre si crede che lo stato sia una monarchia assoluta, di fatto è un’ari-
stocrazia, non manifesta, ma occulta, dunque pessima11.

La denuncia di questo pericoloso errore si snoda attraverso


due passaggi. Il primo conduce allo smascheramento dell’appa-
rato ideologico che legittima il potere monarchico, conferendo
al re delle qualità straordinarie che lo elevano al di sopra delle
masse; Spinoza al capitolo VII avverte che i sovrani «non sono
dei ma uomini, e spesso si lasciano rapire dal canto delle Sire-
ne. Se dunque tutto dipendesse dall’incostante volontà di uno
solo, non ci sarebbe niente di stabile»12. A questa altezza l’ac-
cordo tra il TP e le Consideratien van Staat è pressoché totale,
poiché anche l’opera dei De la Court afferma che gli ipotetici
vantaggi di una monarchia non si riscontrano nella realtà, es-
sendo basati su un errore di fondo, ossia che i re siano guidati
dalla ragione e non dalle passioni, mentre è vero proprio il con-
trario, cioè che «gli uomini in generale, e soprattutto i re, se-
guono sempre o per lo più le loro voglie e le loro passioni»13.
10 Cfr. Consideratien, cit., pp. 37-9.
11 Cap. VI, § 5, in Opera, III, p. 298 (trad. it. p. 91).
12 Cap. VII, § 1, in Opera, III, p. 308 (trad. it. p. 111).
13 «De menschen in het generaal altijds of meest, en boven alle de Monarchen,
VII. L’evoluzione dei regimi politici 333

Ma Spinoza compie un passo ulteriore rispetto alla riflessione


dei De la Court, non fermandosi alla contrapposizione tra il re-
gime monarchico e le altre forme di governo, bensì cercando an-
che di cogliere la possibilità del suo superamento; infatti il gran-
de «vizio» della monarchia consiste nel fatto che essa nasconde
ai sudditi il funzionamento dei meccanismi di potere, rendendo
invisibili i soggetti che detengono effettivamente, e non solo for-
malmente, l’imperium, cioè quella congrega di Imperatores, Con-
siliarios, amicos, i quali influenzano in modo decisivo le scelte
politiche del sovrano. La monarchia pura – quella in cui un solo
uomo governa nel pieno della propria autonomia – è una realtà
immaginaria, poiché nella pratica nessun singolo individuo, per
quanto abile, può reggere unicamente sulle sue spalle il peso
del governo di un paese, e quindi il re deve sempre ricorrere a
una molteplicità di consiglieri, istituendo un regime aristocrati-
co di fatto. Ma tale regime rimane «latente», invisibile ai più,
impedendo lo sviluppo di una corretta dialettica tra la potestas
dei governanti e l’aptitudo dei governati, e privando così questi
ultimi della possibilità di operare un controllo sulle decisioni
dei primi. Di conseguenza la monarchia tende a trasformarsi in
tirannide – anche se si tratta della tirannia di una minoranza, e
non di un solo individuo –, ovvero in un inganno strutturale,
che finisce per coinvolgere tutti i membri della Civitas, com-
preso lo stesso monarca, il più delle volte anch’egli abbagliato
dall’immagine della propria presunta onnipotenza14.
Il limite di ogni imperium monarchicum consiste perciò nel
fatto che in esso l’emancipazione politica della multitudo è
ostacolata dalla fissazione dell’immaginazione collettiva sulla fi-
gura del sovrano come detentore assoluto del potere, figura ab-
bacinante che impedisce ai cittadini di vedere come realmente
si producano le decisioni politiche nel loro paese. Tuttavia nel
haare lusten ende passien volgen» (Consideratien, cit., p. 43). Affermazioni simili si tro-
vano anche nei Politike Discoursen, cit., soprattutto pp. 357-63. È evidente altresì l’i-
spirazione machiavelliana di questa tesi; basti pensare al titolo del capitolo 58 del I li-
bro dei Discorsi: «La moltitudine è più savia e più costante che uno principe».
14 Sul giudizio spinoziano della monarchia come regime trompe-l’oeil, e quindi

strutturalmente barocco, insiste F. HADDAD-CHAMAKH, Philosophie systématique et


Système de Philosophie politique chez Spinoza, Publications de l’Université de Tunis,
Tunis, 1980, p. 323.
334 La libertà necessaria

TP tale regime non costituisce soltanto il principale obiettivo


polemico di chi intende difendere la costituzione repubblicana
delle Province Unite, come accade nell’opera dei De la Court,
poiché l’analisi spinoziana intende soprattutto concentrarsi su-
gli aspetti peculiari che, all’interno di ogni monarchia, impedi-
scono il progredire della coscienza civica. Il più eclatante di tali
aspetti è la frattura inconciliabile che si crea tra il monarca e i
suoi sudditi, nella quale si insinua una paura reciproca, e con
essa i presupposti per il disgregarsi del tessuto sociale; infatti
colui al quale è stata conferita l’intera giurisdizione sullo stato (totum
imperii jus) avrà sempre più paura dei cittadini che dei nemici, e quindi
concentrerà i suoi sforzi nello stare in guardia, non curando gli interessi
dei cittadini, ma tramando contro di loro (subditis non consulere, sed insi-
diari conabitur)15.

È chiaro che Spinoza non teme tanto, in questo caso, un’ec-


cessiva concentrazione di potere nelle mani del monarca, bensì
proprio la latenza di tale potere, assorbito dalla frattura che si
apre tra lo jus Civitatis e lo jus regis, e che permette ai consi-
glieri e ai confidenti della corona di operare nell’ombra, privi
di alcun controllo; di conseguenza, accade che
un re è tanto meno autonomo (eo minus sui Juris), e la condizione dei
sudditi è tanto più miserevole, quanto più la giurisdizione sulla cittadi-
nanza gli è trasmessa in forma assoluta (quo magis absolute Civitatis Jus in
eundem transfertur). Ed è dunque necessario, per dare effettiva stabilità a
uno stato monarchico, gettare solide fondamenta su cui costruirlo, dalle
quali venga sicurezza per il monarca e pace per il popolo16.

Se il potere assoluto del re, che non è in grado di sostenere


la responsabilità del governo di uno Stato – e per questo il so-
vrano è «minus sui juris» proprio quando sembrerebbe essere
in possesso dell’intero diritto pubblico –, è soltanto immagina-
rio, ne consegue che l’unico modo di salvaguardare l’istituzione

15 TP, cap. VI, § 6, in Opera, III, p. 299 (trad. it. p. 91). Su questo punto cfr. anche

le Consideratien van Staat, dove si dice che i re «diventano gelosi di ogni potere dei lo-
ro sudditi (zy werden jaaloers, oover alle magt hunner Onderdanen)» (p. 95), e da que-
sto nasce in loro una terribile paura di esere spodestati, che li spinge ad agire contro il
loro popolo anzichè per il suo bene.
16 TP, cap. VI, § 8, in Opera, III, p. 299 (trad. it. p. 93).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 335

monarchica è che lo jus Civitatis, cioè l’imperium, non sia con-


segnato interamente nelle mani del sovrano, bensì venga tenuto
per la gran parte in quelle dei cittadini; il che può avvenire an-
che mantenendo il ruolo rappresentativo della corona, e quindi
senza rivoluzionare la forma costituzionale. Diversamente dalla
posizione intransigente dei politici del partito repubblicano,
Spinoza conduce il proprio progetto di emancipazione attra-
versando realisticamente i regimi politici, ciascuno dei quali
corrisponde a un determinato grado dello sviluppo della poten-
tia multitudinis, poiché soltanto dalla percezione esatta della
contingenza politica è possibile cogliere la necessità immanente
che regola i processi di trasformazione di un organismo politi-
co: ancora una volta, il tentativo spinoziano è di raggiungere, a
partire dalla consapevolezza dell’ineliminabilità dei tratti im-
maginativi dell’esistenza umana, il più alto livello possibile del-
la potenza collettiva, senza cadere nel rischio dell’utopia, ma ri-
fiutando anche di rimanere ancorato a una gestione rassegnata
dell’esistente.
Un passo del VII capitolo del TP indica proprio come il ri-
conoscimento dell’intrascendibilità della dimensione immagi-
nativa permetta l’emergenza della naturale democraticità di
ogni aggregazione politica:
la volontà del re coincide con il diritto civile, e il re con la cittadinanza
(rex ipsa Civitas); dunque alla morte del re è la cittadinanza che in qual-
che modo muore, lo stato di civiltà ritorna allo stato di natura, e di conse-
guenza il potere sovrano ritorna naturalmente al popolo (ad multitudi-
nem naturaliter redit), il quale pertanto può istituire nuove leggi e abro-
gare le vecchie. [...] Potremmo ancora dedurre tutto ciò dal fatto che lo
scettro, ossia il diritto del re, è in realtà la volontà del popolo stesso, o
della sua parte più importante; o anche dal fatto che uomini dotati di ra-
gione non cedono mai il proprio diritto sino al punto da cessare di essere
uomini e di lasciarsi trattare come pecore17.

Spinoza dapprima accetta il punto di vista dell’imaginatio,


condiviso dalla gran parte dei sudditi di una monarchia, i quali
vedono nel re l’incarnazione del potere comune, e nella sua vo-
lontà la rappresentazione dell’unità dello Stato; ma la conclu-

17 Cap. VII, § 25, in Opera, III, pp. 318-9 (trad. it. p. 139).
336 La libertà necessaria

sione smaschera il tratto fittizio di tale immagine, svelando co-


me l’origine dello jus regis sia nella multitudinis voluntas. La
volontà popolare, ritrovata al fondo del diritto del monarca, si
salda con quel «diritto di civiltà (jus Civile)» che sembrava in-
vece identificarsi integralmente con la volontà regia: ne conse-
gue che il sovrano in realtà gioca esclusivamente il ruolo di me-
diatore tra il diritto collettivo – dal quale nasce la Civitas – e la
volontà dei cittadini, che non ha ancora raggiunto un grado di
coesione sufficiente per produrre immediatamente da sé il di-
ritto pubblico18. Questo non significa che la monarchia possa
trasformarsi in un regime democratico soltanto per mezzo di
alchimie costituzionali calate dall’alto, ma solo che la democra-
ticità implicita dell’imperium monarchicum si esplica attraverso
la trasparenza delle leggi che si affiancano all’autorità del re,
circoscrivendola e controllandone l’effettività, e impedendo lo
sprofondamento del governo nei meandri oscuri della politica
di corte. Perciò, se occorre «per dare effettiva stabilità a uno
stato monarchico, gettare solide fondamenta su cui costruirlo»,
queste ultime risiedono nell’istituzione di princìpi indipendenti
dalle decisioni del monarca; tanto più che «non è in contrasto
con la pratica l’istituire un diritto così stabile che nemmeno il
re possa abrogarlo»19. In tal senso, la definizione, usata da al-
cuni studiosi, dell’ottimo governo regio come «democrazia ma-
scherata»20 (che richiama quella di «aristocrazia nascosta», usa-
ta per indicare il regime monarchico assolutista) può indurre a
una valutazione non corretta del pensiero spinoziano, dal mo-
mento che ogni forma di mascheramento tende ad assumere,
18 In proposito MC SHEA, The Political Philosophy of Spinoza, cit., p. 116, afferma

che nell’ottima costituzione monarchica di Spinoza il re non è che un manichino, simil-


mente a quanto accade nella monarchia inglese del XIX secolo; in realtà il ruolo rap-
presentativo del monarca, se da un lato non implica affatto un potere assoluto, dall’al-
tro è comunque imprescindibile, essendo richiesto dalle condizioni storiche che defini-
scono la natura complessiva dell’imperium.
19 TP, cap. VII, § 1, in Opera, III, p. 307 (trad. it. p.111).
20 Cfr. ad esempio MATHERON, Individu et communauté, cit., p. 479; tuttavia nel-

l’opera di Matheron questa definizione sembra riguardare più i meccanismi concreti di


produzione della decisione politica (che, come si sa, non possono che essere democra-
tici) che non la forma delle istituzioni. A tale proposito, anche PREPOSIET, Spinoza et la
liberté des hommes, cit., p. 249, definisce la monarchia una democrazia popolare inco-
ronata.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 337

agli occhi di Spinoza, una valenza negativa.


La garanzia comune della multitudinis pax e della Monar-
chae securitas non può quindi riposare sull’assolutizzazione del-
la volontà del sovrano, né tanto meno sul suo preteso carattere
originario e creatore del diritto pubblico. Su queste conclusio-
ni, d’altra parte, sembra convergere anche l’analisi dei De la
Court, che definiscono la libertà di uno Stato in base alla pre-
senza di leggi, alle quali sono sottomessi tutti gli abitanti, com-
presi i detentori del potere: Stati così ordinati prendono il no-
me di Repubbliche, e costituiscono la migliore forma di orga-
nizzazione politica possibile21. Spinoza però non si limita a
contrapporre astrattamente il dominio della legge a quello della
volontà di un singolo o di pochi, bensì scava nei meccanismi di
produzione del consenso, dal momento che, se «l’assetto giuri-
dico dello stato, ossia la pubblica libertà (si imperii jura, sive li-
bertas publica), poggiasse soltanto sul fragile sostegno delle leg-
gi (invalido legum auxilio), non soltanto non vi sarebbe per i
cittadini alcuna sicurezza di ottenerla, come abbiamo mostrato
all’articolo 3 del precedente capitolo, ma essa sarebbe anche
esiziale»22. Infatti gli jura communia, che costituiscono a un
tempo lo scheletro dello Stato e la condizione di possibilità del-
l’emancipazione individuale, nascono dalla dimensione affetti-
va di una moltitudine, né è possibile tradurli in una legislazione
formale senza tenere conto della loro effettività, frutto del livel-
lo di maturazione dell’immaginazione e degli affetti della col-
lettività. Allo stesso modo, più che le leggi, è l’«indignazione
della maggior parte del popolo armato (indignatione maximae
partis armatae multitudinis)»23, e quindi lo sfogo passionale che
si traduce in insurrezione violenta, a garantire la persistenza di
un livello incomprimibile di libertà. A partire da queste consi-
derazioni Spinoza passa allora ad analizzare le modalità atte a
creare un equilibrio tra il potere del sovrano e la potenza dei
cittadini.

21 Cfr. Consideratien, cit., p. 256.


22 TP, cap. VII, § 2, in Opera, III, p. 308 (trad. it. p. 113).
23 Ibid.
338 La libertà necessaria

2. L’optima monarchia come democrazia imperfetta


Proprio perché l’insurrezione armata della cittadinanza co-
stituisce la principale garanzia del rispetto degli imperii jura (e
della corrispettiva libertas publica), il primo pilastro sul quale
fondare la stabilità di un regime monarchico è l’esercito (mili-
tia), che «deve essere formato esclusivamete dai cittadini, nes-
suno eccettuato e da nessun altro. Tutti siano dunque tenuti ad
essere armati, e nessuno sia accolto nel novero dei cittadini se
non dopo che si sia addestrato nelle esercitazioni militari»24. La
milizia popolare è condizione imprescindibile affinché i cittadi-
ni «rimangano autonomi (sui juris maneant) per quanto lo con-
sente lo stato di civiltà, ovvero l’equità», dal momento che la
potenza del re «si regge sul numero dei soldati, e soprattutto
sul loro valore e sulla loro fedeltà»25. Spinoza sottolinea il dop-
pio legame esistente tra la partecipazione alla milizia e alla Civi-
tas, dal momento che non soltanto al cittadino spetta la difesa
dello Stato, ma proprio il diritto di cittadinanza si fonda sull’a-
dempimento degli obblighi militari e sull’esplicita disponibilità
a difendere la Civitas, secondo uno dei più noti topoi repubbli-
cani26. Ancora una volta, il TP ribadisce che non esistono dirit-
ti – né individuali, né comuni – dove non vi siano anche prati-
che determinate, del singolo come della collettività, che li so-
stengano; infatti
la più alta ricompensa per il servizio militare è la libertà. In effetti nel-
lo stato di natura ciascuno si sforza più che può di difendersi avendo per
unico scopo la libertà, e non si aspetta altra ricompensa al valore nel
combattimento, se non l’essere autonomo; ora nello stato di civiltà i citta-
dini tutti nel loro insieme (omnes simul cives) sono da considerarsi alla
stregua di un uomo allo stato di natura (ac homo in statu naturali), e dun-
que, allorché tutti prestano serivio militare per tale stato di civiltà, bada-

24 Cap. VI, § 10, in Opera, III, pp. 299-300 (trad. it. p. 93). Che per Spinoza le ar-

mi garantiscano la libertà dei cittadini, non solo contro il nemico esterno, ma anche
contro la tirannide interna, è ben rilevato da W.N.A. KLEVER, Krijgsmacht en defensie
in Spinoza’s politieke theorie, in «Transaktie», XIX, 1990, pp. 150-66.
25 TP, cap. VII, § 12, in Opera, III, p. 312 (trad. it. p. 123). Cfr. anche ivi, § 17: «Un

uomo armato è infatti più autonomo (sui juris) di uno inerme» (p. 314; trad. it. p. 129).
26 La consonanza tra le affermazioni di Spinoza e i Discorsi di Machiavelli è sot-

tolineata da HAITSMA-MULIER, The Myth of Venice and Dutch Republican Thought,


cit., p. 183.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 339

no a se stessi e per se stessi lavorano27.

Questo è anche il motivo fondamentale per cui bisogna asso-


lutamente evitare l’uso di milizie mercenarie, «per cui la guerra
è un affare di mercato, e che mettono tutte le loro forze nelle li-
ti e nelle sedizioni»28; ma vi è anche una ragione di carattere
più pragmatico, fondata sull’analisi delle passioni umane, in
particolare sulla forza dell’avarizia, dal momento che «non è
possibile [...] reclutare milizie mercenarie senza grandi spese, e
i cittadini mal sopportano imposizioni fiscali per il sostenta-
mento di un esercito in ozio»29. Non è difficile cogliere un pre-
ciso riferimento alle numerose rimostranze che gli Stati d’Olan-
da, principali contribuenti alla paga dell’esercito delle Province
Unite, muovevano agli Stati Generali per diminuire il numero
delle milizie; né va dimenticato che la crisi del 1650, dalla quale
prese avvio la breve fortuna di Johan De Witt, era nata proprio
dal licenziamento da parte dell’Olanda delle truppe alloggiate
sul suo territorio. Vi è infine una terza motivazione per il rifiu-
to di un esercito mercenario, data dal fatto che esso introdur-
rebbe nello Stato un elemento estraneo, e quindi una minaccia
per la coesione interna, non solo perché le truppe mercenarie
hanno un interesse divergente rispetto a quello della gran parte
della popolazione, desiderando suscitare la guerra, piuttosto
che cercare la pace, ma anche perché esse «sogliono disprezza-
re la massa dei cittadini come del tutto inferiore a loro nella ca-
pacità di sostenere un assedio o di combattere in campo aper-
to»30; in tal modo si insinua nel corpo politico una lacerazione
del legame affettivo, che nuoce gravemente alla solidarietà cit-
tadina. Per gli stessi motivi Spinoza si dice contrario anche alla
formazione di un esercito cittadino professionale, dal momento
che, se
venisse assegnata all’esercito una certa parte dei cittadini, e fosse per-
ciò necessario fissare per decreto il loro stipendio, di necessità il re dareb-
be loro un riconoscimento al disopra degli altri (come abbiamo mostrato

27 TP, cap. VII, § 22, in Opera, III, p. 316 (trad. it. p. 133).
28 Ivi, § 12, p. 313 (trad. it. p. 123).
29 Ivi, § 17, pp. 314-5 (trad. it. p. 129).
30 Ivi, § 28, p. 320 (trad. it. p. 105).
340 La libertà necessaria

all’articolo 12 di questo capitolo): questo toccherebbe a uomini che cono-


scono soltanto le arti della guerra, che in tempo di pace si corrompono
nell’ozio e nel lusso [...]. Pertanto possiamo affermare che uno stato mo-
narchico di tal fatta sarebbe in realtà uno stato di guerra, dove solo i mili-
tari godono della libertà, mentre tutti gli altri sono ridotti a servitù31.

L’importanza che il TP dà all’organizzazione militare di una


monarchia si comprende ricordando le vicende delle Province
Unite nel 1672, quando proprio la formazione mercenaria del-
l’esercito aveva contribuito in misura decisiva alla disastrosa
sconfitta contro la Francia, e quindi anche al crollo del potere
di De Witt. Più in generale, la debolezza dell’armata mercena-
ria della Repubblica emergeva soprattutto nei periodi di crisi
interna, quando non vi era accordo tra lo stadhouder, che dete-
neva il titolo di comandante in capo, e la provincia d’Olanda,
che contribuiva per la gran parte al pagamento degli stipendi;
non è casuale che anche i Politike Discoursen affrontino il pro-
blema delle truppe mercenarie, rilevando, similmente a quanto
sostiene Spinoza, il sostanziale disinteresse di queste truppe
per la salvaguardia della patria e della libertà, e concludendo
che «è meglio utilizzare nella guerra i propri sudditi piuttosto
che truppe straniere»32. Il testo dei De la Court non parla però
di «cittadini», bensì appunto di «sudditi (Onderdanen)», man-
cando di evidenziare il legame tra la difesa del proprio Stato e
l’appartenenza a una comune cittadinanza; e nell’Aanwysing
der heilsame politike gronden Pieter De la Court sostiene che
solo i ricchi abitanti delle città olandesi devono esercitarsi nel-
l’uso delle armi, poiché il danno per la perdita della libertà ri-
cade quasi totalmente su di loro; i cittadini poveri, invece, non
hanno alcun obbligo del genere33. Ma vi è un altro aspetto che
gioca, anche dopo i fatti del1672, un ruolo fondamentale nella
vita politica olandese, al quale Spinoza dedica la propria atten-

31 Ivi, § 22, p. 317 (trad. it. p. 135). KLEVER, Krijgsmacht en defensie in Spinoza’s

politieke theorie, cit., p. 160, sostiene che qui Spinoza pensa alla degenerazione dell’e-
sercito imperiale romano al tempo di Claudio e di Nerone, subendo una forte influen-
za dalla lettura dell’opera di Tacito.
32 «Het is beter sijn eigen Onderdanen, als vremde Krijgs-linden, in den Oorlog te

gebruiken» (Politike Discoursen, cit., XVIII Disc., p. 243).


33 Cfr. Aanwysing, cit., pp. 377-8.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 341

zione: si tratta dell’influenza che esercita sulle masse il coman-


dante della milizia, qualora sia capace di «ottenere la gloria mi-
litare» al punto da «innalzare la propria rinomanza al disopra
di quella del re»34. Che Willem III d’Orange fosse riuscito a
trarre il massimo vantaggio dal ruolo di Capitano Generale, e
che questo comportasse un grave rischio per la libertà dei citta-
dini, era ben evidente agli occhi di Spinoza; per questo egli
conclude sostenendo la necessità di una limitazione temporale
(«per il periodo massimo di un anno») per la carica di coman-
dante delle forze armate.
Se la leva di popolo risponde all’esigenza di rafforzare l’uni-
tà della Civitas, invece nella conduzione normale degli affari
politici è necessaria una larga decentralizzazione del potere, la
cui motivazione è comunque la medesima che spinge alla costi-
tuzione della milizia popolare, ovvero la necessità di mantenere
per quanto è possibile il controllo della cosa pubblica nelle ma-
ni della multitudo. In tal senso occorre prendere una serie di
provvedimenti – che vanno dalla fortificazione delle città alla
creazione di consigli municipali e alla divisione della popola-
zione in famiglie – in grado di rafforzare le istituzioni territoria-
li e la loro autonomia dal potere centrale. Ad esempio, la co-
struzione di cinte murarie fortificate in ogni città è uno stru-
mento di difesa della libertà degli abitanti (come peraltro affer-
ma anche Pieter De la Court nell’Aanwysing35), poiché è in-
dubbio « che i cittadini sono tanto più potenti, e dunque più
autonomi (magis sui juris), quanto più grandi e più fortificate
sono le loro città: quanto più è protetto il luogo in cui si trova-
no, tanto meglio possono tutelare la propria libertà, e dunque
meno hanno da temere da nemici esterni e interni»36; ma, allo
stesso tempo, le mura sono anche il mezzo per delimitare visi-
bilmente l’appartenenza alla municipalità, affinché sia chiaro
che i cittadini «residenti entro le mura o nel contado, godano

34 TP, cap. VII, § 17, in Opera, III, p. 315 (trad. it. p. 129). Anche i Politike Disco-

ursen mettono in guardia contro il rischio che il comandante unico delle forze militari
possa diventare un tiranno, costituendo così un grave pericolo «per la conservazione
della libertà (van de conservatie der Vryheid)» (XI Disc., p. 222).
35 Cfr. Aanwysing, cit., cap. XV, p. 376.
36 TP, cap. VII, § 16, in Opera, III, p. 314 (trad. it. p. 127).
342 La libertà necessaria

del medesimo diritto di cittadinanza»37. Ogni città è inoltre go-


vernata da un consiglio, i cui membri sono eletti annualmente
tra gli esponenti delle famiglie che abitano la città; quale sia
l’autonomia di tali istituzioni Spinoza non dice, ma afferma co-
munque che esse vanno subordinate al consiglio nazionale del
sovrano38.
Nel modello costituzionale delineato dal TP le città rappre-
sentano, come avviene in Olanda, gli elementi primari della
struttura dell’imperium; la loro organizzazione interna, poi, si
basa sulla suddivisione della popolazione in nuclei familiari:
«gli abitanti di tutte le città e della campagna, ossia tutti i citta-
dini, vanno divisi in famiglie che si distinguano per il nome e
per qualche contrassegno; tutti i nati da qualcuna di queste fa-
miglie siano annoverati tra i cittadini»39. La familia è dunque
l’unità molecolare, biologica e politica a un tempo, dell’ordina-
mento cittadino40: in questa scelta è coglibile l’eco della cen-
tralità dei grandi clan parentali nella lotta per il potere all’in-
terno delle città olandesi, come se Spinoza volesse istituziona-
lizzare una prassi consolidata nel suo paese, allo scopo di favo-
rire l’allargamento della partecipazione al governo cittadino
(che, come si è già visto, nella Repubblica tendeva a ridursi a
in un potere di tipo oligarchico). A sostegno di questa inter-
pretazione possono essere portati i motivi che giustificano l’e-
sclusione di alcune categorie di individui dalla struttura origi-
naria della Civitas: infatti il diritto di cittadinanza va concesso
«con l’eccezione tuttavia di quanti siano macchiati di qualche
delitto, nonché dei muti, dei pazzi e dei domestici che vivono
di lavoro servile»41, e inoltre dei minorenni, cioè di coloro che
non hanno ancora prestato servizio militare; si tratta degli stes-
si gruppi che vengono privati della cittadinanza nell’imperium

37 Cap. VI, § 9, p. 299 (trad. it. p. 93).


38 Cfr. ivi, § 30, p. 305 (trad. it. p. 105).
39 Ivi, § 11, p. 300 (trad. it. p. 95).
40 Circa la possibile connessione tra Spinoza e Althusius per quanto riguarda il

ruolo della famiglia nell’imperium cfr. le diverse tesi di MUGNIER-POLLET, La philoso-


phie politique de Spinoza, cit., pp. 228-9, e di HAITSMA-MULIER, The Myth of Venice and
Dutch Republican Thought, cit., p. 189; il primo propenso a cogliere alcune somiglian-
ze, il secondo molto meno.
41 TP, cap. VI, § 11, in Opera, III, p. 300 (trad. it. p. 95).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 343

democraticum (a parte le donne, che qui non vengono nomina-


te42), a riprova di una sostanziale continuità tra le diverse for-
me di governo, fondata sull’identica origine del potere e sul-
l’impossibilità di prescindere, in qualsiasi situazione, dai mec-
canismi affettivi che producono il communis consensus della
multitudo.
Un altro aspetto importante per la creazione dell’unità na-
zionale, a fianco della leva popolare, è costituito dalla proprietà
pubblica del suolo: «I campi, tutto il suolo e, nei limiti del pos-
sibile, anche le case, siano sotto la giurisdizione pubblica, ossia
di chi esercita la giurisdizione sopra la cittadinanza (nempe
ejus, qui Jus Civitatis habet), e che dà questi beni in locazione
per un canone annuo ai cittadini, sia urbani che campagnoli; e
all’infuori di questo tributo in tempo di pace siano tutti liberi,
ossia esenti da imposizioni fiscali»43. Come nella teocrazia
ebraica del TTP, dove la terra era distribuita equamente, ma
non poteva essere alienata, anche nella monarchia del TP la ri-
partizione del territorio offre la base materiale all’uguaglianza
tra i cittadini, vincolandoli al diritto comune e alla difesa della
libertà: «il suolo con quanto vi è annesso deve avere per i citta-
dini tanto valore, quanto grande è la necessità di insediarvisi e
di tutelare il diritto comune, ossia la libertà»44. La conseguenza
principale della proprietà pubblica del suolo è l’annullamento
di ogni rapporto feudale45, che procede di pari passo con una
decisa diminuzione delle dimensioni e del potere della classe
nobiliare: «nessuno potrà fregiarsi di nobiltà se non i suoi [sc.

42 Cfr. cap. XI, § 3, in Opera, III, p. 359 (trad. it. p. 237). Saccaro Battisti conclu-

de che «le categorie giudicate inamissibili alla vita politica sono all’incirca le stesse in
tutti i regimi» (Democracy in Spinoza’s Unfinished Tractatus Politicus, cit., p. 628).
43 TP, cap. VI, § 12, in Opera, III, p. 300 (trad. it. p. 95).
44 Cap. VII, § 19, in Opera, III, p. 315 (trad. it. p. 131).
45 FEUER, Spinoza and the Rise of Liberalism, cit., pp. 47 sgg., sostiene che Spinoza,

influenzato dall’egalitarismo radicale dei mennoniti, sia favorevole alla soppressione


della proprietà privata; ma è più convincente l’interpretazione di Matheron, il quale
parla invece di un passo nella direzione della universalizzazione dell’economia mercan-
tile (cfr. Individu et communauté chez Spinoza, cit., p. 474), dando un giusto rililevo al
peso dei meccanismi economici all’interno del pensiero spinoziano. Per un’analisi, di
carattere teorico più che storiografico, sulle possibili connessioni tra la riflessione antro-
pologico-politica di Spinoza e i principi dell’economia classica si veda M.A. KEYZER,
Conatus, Freedom and the Market, in «Studia Spinozana», VIII, 1992, pp. 121-49.
344 La libertà necessaria

del re] discendenti»46, e anzi un aumento numerico dell’aristo-


crazia è da considerarsi un grave pericolo per lo Stato. Infatti
gli uomini
che non hanno niente da fare (qui otio abundant) si dedicano [...] per
lo più a progetti criminosi; ne consegue che i re siano indotti a far la
guerra soprattutto a causa dei nobili, poiché per dei re circondati da una
ressa di nobili la guerra è fonte di sicurezza e di quiete più della pace47.

Coniugando l’assenza di un lavoro con l’immoralità, e ne-


gando risolutamente che la guerra possa costituire un valore o
comunque essere di qualche utilità per la vita dei cittadini, Spi-
noza oppone un netto rifiuto al codice etico medievale; ancora
una volta, quindi, emerge nella riflessione spinoziana la consa-
pevolezza dei mutamenti culturali e materiali del suo tempo, e
il riconoscimento di trovarsi di fronte a un passaggio epocale
per la storia dell’Europa, oltre che delle Province Unite48.
Dalla riduzione del peso politico dell’aristocrazia all’interno
del regime monarchico nascono le regole per la composizione
del consiglio del sovrano: «i consiglieri del re, a lui vicini o se-
condi per importanza, devono essere molti ed eleggibili esclu-
sivamente tra i cittadini: tre o quattro per ciascuna famiglia, o
cinque se le famiglie non saranno più di seicento, i quali assie-
me conteranno per un solo membro del consiglio, non a vita,
ma per tre, o quattro o cinque anni»49. Il meccanismo elettivo
è molto simile a quello di numerose magistrature – e talvolta
anche dei membri delle vroedschappen – delle città olandesi: il
re, come in quei casi lo stadhouder, dispone di un diritto di pa-
tronato, ossia può scegliere i propri consiglieri da una lista di
candidati presentata da ciascuna familia. Tale scelta deve esse-
re compiuta annualmente e non può rinnovare il consiglio se

46 TP, cap. VI, § 13, in Opera, III, p. 300 (trad. it. p. 95).
47 Cap. VII, § 20, in Opera, III, p. 316 (trad. it. pp. 131-3).
48 Sul rapporto tra Spinoza e la modernità cfr. A. SCHÄFER, Spinoza. Philosoph des

europäischen Bürgentums, Arno Spitz Verlag, Berlin, 1989, che evidenzia soprattutto
quegli aspetti della razionalità politica spinoziana intepretabili come anticipazioni del-
l’Aufklärung. Una lettura più articolata e attenta alla complessità di questo rapporto è
in M. WALTHER, Spinoza als Kritiker der Neuzeit?, in «Philosophische Rundschau»,
XXVIII, 1981, pp. 274-300.
49 TP, cap. VI, § 15, in Opera, III, pp. 300-1 (trad. it. pp. 95-7).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 345

non in misura parziale, affinché esso resti sempre composto in


parti equilibrate da nuovi consiglieri e da consiglieri più
esperti50; in questo modo, anche se Spinoza non lo afferma
esplicitamente, viene eliminata anche la possibilità di un wet-
sverzetting legale da parte del sovrano, cioè di un cambiamento
radicale del consiglio qualora il re non ne approvi la condotta.
D’altra parte l’elevato numero dei consiglieri, l’uguale dignità e
potere di cui essi dispongono e la brevità del loro mandato co-
stituiscono una garanzia anche per il monarca contro il perico-
lo di venire detronizzato, come chiarisce il capitolo VII: «se i
consiglieri sono troppi per potersi trovare tutti d’accordo nel
compiere un unico delitto, e sono tutti eguali tra loro, e non
possono rimanere in quelle funzioni oltre un quadriennio, allo-
ra non possono in alcun modo preoccupare il re, a meno che
egli non tenti di togliere loro la libertà, offendendo così del pa-
ri tutti i cittadini»51. Il principio di uguaglianza diviene così
non solo il sostegno e la salvaguardia della libertà della Civitas,
ma anche il motore dei meccanismi concreti di governo52, co-
me si può comprendere anche da altre due caratteristiche del
consiglio: la presenza al suo interno di tutte le classi dei cittadi-
ni, e la possibilità per i suoi membri di consultare anche gli al-
tri componenti delle loro familiae (una variazione del principio
di ruggespraak che funzionava presso gli Stati d’Olanda). Per
quanto riguarda il primo punto, esso fa in modo che vengano
rappresentati nel consiglio gli interessi di tutte le componenti
della popolazione, e che quindi le decisioni politiche non
escludano a priori nessun gruppo sociale, poiché «se ne sarà
eletta una quota [sc.: dei membri del consiglio] da ciascuna ca-
tegoria o classe dei cittadini (ex unoquoque civium genere, sive
classe), la delibera che nel consiglio avrà riscosso la maggioran-
za dei voti sarà quella utile alla maggioranza dei sudditi»53. Il
TP prende così le distanze dai De la Court, che nei Politike

50 Cfr. ivi, § 16, p. 301 (trad. it. p. 97).


51 Cap. VII, § 14, in Opera, III, p. 314 trad. it. p. 127).
52 HADDAD-CHAMAKH, Philosophie systématique, cit., p. 357, sottolinea la presen-

za ripetuta del termine aequales nel VII capitolo del TP, evidenziando i diversi generi
di uguaglianza – politica, economica, sociale – che Spinoza considera.
53 TP, cap. VII, § 4, in Opera, III, p. 309 (trad. it. p. 115).
346 La libertà necessaria

Discoursen affermano che il consiglio di una città di media


grandezza deve essere composto da non meno di duecento in-
dividui, in carica per un solo anno, ma soprattutto scelti «solo
tra i cittadini più ricchi (nog uit de rijkste Borgers)»54, perché
altrimenti il desiderio di arricchirsi potrebbe introdurre un in-
teresse privato nel governo della cosa pubblica; e poco più
avanti si legge che «in tutte le Repubbliche ben ordinate il go-
verno deve essere un fardello pesante, di cui bisogna farsi cari-
co per il bene della patria, anche a costo di trascurare gli inte-
ressi della propria famiglia»55. Nell’ottica dei due ideologi del-
la fazione dewittiana la classe dei cittadini benestanti è porta-
trice degli interessi generali, a partire dalla convinzione che la
ricchezza di una città, anche se concentrata nelle mani di po-
chi, finisca per essere di giovamento a tutti56. Per quanto poi
riguarda la consultazione dei cittadini non appartenenti al con-
siglio57 da parte dei consiglieri, essa da un lato rafforza il peso
delle famiglie come nucleo originario dell’organizzazione poli-
tica del paese, dall’altro allarga ulteriormente la partecipazione
dei cittadini, affinché le leggi promulgate siano il frutto di un
processo consultivo allargato anche al di fuori del consiglio cit-
tadino.
In generale, è sempre l’analisi delle «passioni comuni degli
uomini (hominum communes affectus)» a indirizzare le scelte di
Spinoza per la composizione del consiglio cittadino: pars pro
toto, l’ambizione e la speranza di poter diventare consigliere af-
fievolisce l’invidia dei cittadini nei confronti di chi detiene la
carica, e conseguentemente «tutti [...] difenderanno questo

54 Politike Discoursen, cit., p. 13.


55 «In alle wel-gestelde Republiken de Regeering moet zijn een lastig pak, datmen
ten wel-stand des Vaderlands, en met verminderinge van sijn eige familiare saken, be-
hoorde op sig te laden» (ibid).
56 Cfr. ivi, p. 22: se gli abitanti della città, e soprattutto i più ricchi, «hanno la li-

bertà di guadagnare il più possibile (vryheid hebben, om het meesten te winnen)», ne ri-
sulta un vantaggio per tutti, dal momento che «i poveri possono molto facilmente, anzi
devono essere affiancati ai ricchi, come i servi ai padroni; infatti in verità i poveri di-
pendono dai ricchi (de armer aan de rijker, ende de dieners aan de meesters zeer ligtelik
konnen, en behoorden te werden gekoppelt. Want de armen warelik van de rijke Ingesee-
tenen dependeeren)».
57 Cfr. TP, cap. VI, § 25, in Opera, III, pp. 303-4 (trad. it. p. 103).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 347

consiglio quanto potranno»58. I vari accorgimenti costituzionali


agiscono così come elementi catalizzatori di un’emendazione
delle passioni (in questo caso l’invidia) attraverso l’incremento
degli affetti positivi (l’ambitio e la spes), manifestando il nucleo
vitale del progetto politico del TP.
Il consiglio del re ha dei compiti specifici, che vengono de-
scritti con precisione: innanzitutto quello di «difendere le leggi
fondamentali dello stato (imperii fundamentalia jura defendere)
e dare orientamenti sulle cose da fare (consilia de rebus agendis
dare), così che il re sappia quali decisioni prendere per il bene
pubblico; non sia dunque consentito al re di prendere decisio-
ne alcuna senza avere prima sentito il parere del consiglio»59;
in secondo luogo, quello di «promulgare gli ordini o decreti
del re, provvedere alla esecuzione di quanto è stato deciso ri-
guardo alla repubblica, e prendersi cura di tutta l’amministra-
zione dello stato (totiusque administrationis imperii curam habe-
re) facendo le veci del re»60; infine al consiglio pertiene «anche
l’ educazione dei figli del re, nonché la loro tutela se il re muo-
re lasciando un successore neonato o bambino»61. Se per que-
st’ultima prerogativa è evidente il riferimento al caso del giova-
ne Willem III, mantenuto sotto tutela da Johan De Witt, più
difficile è rintracciare un parallelo con il rapporto, mai formal-
mente definito, tra i membri degli Stati Generali d’Olanda e lo
stadhouder, anche quando, proprio con Willem III, quest’ulti-
ma carica divenne assimilabile a quella di un monarca62. Ad
ogni modo, è chiaro che i compiti del consiglio circoscrivono
l’autorità del sovrano, riconducendola entro i limiti della po-
tenza naturale – cioè del diritto – che un singolo individuo è in
grado di esprimere, come si deduce anche da questo passaggio
testuale:

58 Cap. VII, § 10, in Opera, III, pp. 311-2 (trad. it. p. 121).
59 Cap. VI, § 17, in Opera, III, p. 301 (trad. it. p. 97).
60 Ivi, § 18, p. 302 (trad. it. p. 99).
61 Ivi § 20, p. 302 (trad. it. p. 99).
62 Cfr. FOCKEMA ANDREAE, De Nederlandse staat onder de Republiek, cit., p. 6; ma

PRICE, Holland and the Dutch Republic in the Seventeenth Century, cit., pp. 257-8, af-
ferma che il potere ‘regio’ di Willem III in realtà durò per breve tempo, poiché gli inte-
ressi dell’Olanda tornarono ad avere un peso determinante nella conduzione politica
del paese.
348 La libertà necessaria

siccome la salvaguardia del popolo è la legge suprema (populi salus su-


prema lex), ossia il supremo diritto del re, ne consegue che il diritto del re
consiste nello scegliere tra le mozioni espresse dal consiglio, e non decre-
tare o sentenziare nulla che vada contro gli orientamenti del consiglio
nella sua totalità63.
L’identità tra la salus populi e la legge dello Stato definisce lo
jus Regis come il momento conclusivo di un processo che si
svolge quasi interamente all’interno del consiglio: dalla genesi
degli imperii fundamentalia jura, ossia da quando gli affetti di
una collettività si mutano nei diritti fondamentali di una Civitas,
ai consilia de rebus agendis, che radicano la produzione legislati-
va nel bene comune, fino all’administrationis imperii curam,
ogni aspetto della gestione della cosa pubblica passa attraverso
l’attività consiliare, la quale definisce i limiti dell’azione del so-
vrano, impedendo che la salvezza della Civitas dipenda esclusi-
vamente dalla volontà di quest’ultimo e dalla sua predisposizio-
ne naturale. Infine il consiglio ha il compito di costituire una
sorta di cuscinetto di protezione attorno al monarca, isolandolo
dal resto del mondo, con un duplice scopo: in primo luogo, di
impedirgli di condurre la politica estera in prima persona, trat-
tando segretamente con le potenze straniere64; in secondo luo-
go, di conservare, neutralizzandone però gli effetti negativi,
quell’aura di sacralità del potere regio che rappresenta, nell’im-
maginazione popolare, l’unità della nazione. Questa doppia
funzione del consiglio è chiarita attraverso una similitudine:
I cittadini non devono poter accedere al re, se non attraverso il consi-
glio, cui vanno indirizzate tutte le petizioni e le suppliche rivolte al re.
Anche gli ambasciatori degli altri paesi avranno il permesso di parlare al
re solo attraverso la mediazione del consiglio; e le lettere inviate al re da
altri luoghi gli devono essere trasmesse dal consiglio: in senso assoluto, il
re va considerato come la mente della cittadinanza (veluti Civitatis mens),
e il consiglio come i sensi esterni della mente, ossia come il corpo della
cittadinanza (mentis sensus externi, ceu Civitatis corpus) tramite il quale la
mente si forma il quadro della situazione e mette in atto quanto giudica
essere per sé il meglio65.

63 TP, cap. VII, § 5, in Opera, III, p. 310 (trad. it. p. 117).


64 Si ricordi, in proposito, che anche Johan De Witt era un grande sostenitore del-
la politica segreta, e che su di essa basava gran parte del proprio potere.
65 Cap. VI, § 19, in Opera, III, p. 302 (trad it. p. 99). MUGNIER-POLLET, La philo-
VII. L’evoluzione dei regimi politici 349

In linea con la sua antropologia, Spinoza nega ogni supre-


mazia della mente sul corpo, sottolineando invece l’importanza
delle facoltà percettive e dell’elemento corporeo nella produ-
zione della conoscenza immaginativa; viene così confermata la
centralità del momento comunicativo per lo sviluppo della po-
tenza individuale, si tratti di un singolo uomo o di un individuo
più complesso come è appunto la Civitas. Sul piano politico,
questo conduce l’autore del TP a prendere le distanze dalla
dottrina degli arcana imperii, che costituisce il pendant necessa-
rio della teoria della ragion di Stato66, ed è una tematica ben
presente nell’opera di Lipsius e nella riflessione neostoica olan-
dese; inoltre Spinoza possiede una copia dei De Arcanis Re-
rumpublicarum libri sex di Arnoldus Clapmarius, un autore
ampiamente discusso in terra olandese, sia sul versante orangi-
sta, sia su quello repubblicano67. Clapmarius definisce gli jura
imperii come una «potestatem absolutam atque extremum jus
omnium earum rerum, quae ad maiestatem Regni, et Reipubli-
cae pertinent, vel belli titulo, vel subditorum patientia acquisi-
tum»68; tali jura vengono poi riconosciuti come i «fundamenta
hujus doctrina» degli arcana 69. Per Clapmarius e i suoi epigoni,
l’agire «segreto» del sovrano è dunque legittimato da una fon-
dazione del potere sul diritto di guerra o, in alternativa, sulla
passività assoluta dei sudditi (subditorum patientia), che sono
pertanto esclusi da ogni forma di partecipazione al governo. È
sophie politique de Spinoza, cit., p. 230, dice che il consiglio detiene il monopolio del-
l’informazione.
66 Cfr. in proposito M. STOLLEIS, Stato e ragion di stato nella prima età moderna

[1990], Il Mulino, Bologna, 1998, in particolare il cap. II: «Arcana imperii» e «ratio sta-
tus» (pp. 31-68).
67 ARN. CLAPMARII, De Arcanis Rerumpublicarum libri sex, illustrati Ioan. Corvino

I.C., accessit Chr. Besoldi De eadem materia discursus. Nec non Arnoldi Clapmarii et
Aliorum conclusiones de iure publico, Amsterodami, Apud Ludovicum Elzevirum 1641.
Un primo confronto tra Spinoza e Clapmarius è in C. GEBHARDT, Spinoza gegen Clap-
marius, in «Chronicon Spinozanum», III, 1923, pp. 344-7; più recentemente, è stato
soprattutto Blom a occuparsi di questo tema, e più in generale della presenza di una
teoria della ragione di stato in ambito repubblicano: cfr. Morality and Causality, cit.,
pp. 162 sgg., Èleves de Grotius, cit., e The Republican Mirror. The Dutch Idea of Euro-
pe, in The Idea of Europe, a cura di A. Padgen, Washington, in corso di stampa (ringra-
zio il Dr. Blom per avermi messo a disposizione il manoscritto).
68 De Arcanis Rerumpublicarum libri sex, cit., p. 22.
69 Ivi, p. 21.
350 La libertà necessaria

evidente come tale esclusione non possa che derivare da una


concezione antropologica, prima ancora che politica, che vede
una distinzione incolmabile tra la natura di chi governa e quel-
la di chi obbedisce, secondo un principio già individuato nella
dottrina politica neostoica; quanto al fatto che Clapmarius po-
ne dei limiti di carattere morale all’esercizio del potere sovra-
no, questo non fa che confermare l’incontrollabilità di tale po-
tere da parte di chi ne è assoggettato, e ne subisce passivamen-
te gli effetti. La distanza tra questa prospettiva teorica e quella
di Spinoza è già stata segnalata più volte, e può essere riassunta
dall’opposizione tra la multitudinis potentia, che nel TP fonda
lo jus imperii spinoziano, e la subditorum patientia richiesta in-
vece da Clapmarius, per sostenere la validità etico-politica della
sua dottrina; tuttavia Spinoza non si limita a riconoscere questa
differenza inconciliabile, bensì ne ricostruisce le cause, a parti-
re dai pregiudizi intorno alla natura umana che la dottrina de-
gli arcana imperii subisce inconsapevolmente:
Non fa infine meraviglia che la plebe non conosca verità né giudizio,
dal momento che i principali affari di stato vengono trattati alle sue spal-
le, ed essa può trarre delle congetture solo da pochi elementi che non si
son potuti nascondere. La sospensione del giudizio è una virtù rara. Dun-
que pretendere di fare ogni cosa all’insaputa dei cittadini, e al tempo stes-
so che essi non formulino giudizi malevoli né diano sinistre intepretazioni
di tutto, è il massimo della stoltezza (summa est inscitia). Se la plebe fosse
in grado di controllare se stessa e di sospendere il giudizio sulle cose poco
conosciute, oppure di giudicare correttamente sulla base di pochi ele-
menti noti, allora essa sarebbe degna di governare, piuttosto che di essere
governata. Ma, come abbiamo detto, la natura è uguale in tutti: il domi-
nio fa insuperbire tutti; tutti sono terribili se non sono intimoriti, e dap-
pertutto la verità è calpestata da quelli che se ne sentono offesi o danneg-
giati, specialmente quando domina uno solo, o pochi, che non guardano
al diritto o alla conoscenza del vero, ma alla consistenza delle ricchezze70.

Il punto di vista dei sostenitori degli arcana imperii è capo-


volto: la plebe non è tenuta all’oscuro perché incapace di giudi-
care, ma al contrario essa è incapace di giudicare perché le ven-
gono nascosti i praecipua imperii negotia, perché viene intenzio-
nalmente privata degli elementi necessari a produrre un giudi-
70 TP, cap. VII, § 27, in Opera, III, p. 320 (trad. it. pp. 141-3).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 351

zio corretto su una situazione determinata71; il testo spinoziano


mette alla berlina l’ipocrisia di quei governanti che non ricono-
scono al popolo alcuna capacità politica – e così facendo auto-
legittimano la loro posizione di dominio –, mentre in realtà so-
no loro stessi a impedirne lo sviluppo, privando i sudditi dei
mezzi necessari ad acquisire una conoscenza esatta delle circo-
stanze. A questo inganno va opposta la difesa, condotta al capi-
tolo VII, di un regime in cui le deliberazioni «non possono ri-
manere segrete», poiché «è molto meglio lasciare scoperti agli
stranieri i progetti onesti dello stato, che tener nascosti ai citta-
dini i loschi intrighi dei tiranni (prava tyrannorum arcana)»72;
infatti «non si potrà mai affidare a qualcuno la repubblica in
forma assoluta e ottenere al tempo stesso la libertà; è dunque
da stolti voler evitare un piccolo danno con uno enorme. È la
solita tiritera di quelli che vogliono avere il dominio assoluto
dello stato: è nell’interesse esclusivo della cittadinanza che i
suoi affari siano trattati in segreto, eccetera: quanto più questi
propositi sono avanzati con la maschera dell’utilità, tanto più è
feroce la schiavitù nella quale vanno a sfociare»73.
L’enorme differenza tra una Civitas retta da un consiglio nel
quale siano presenti gli interessi di tutte le categorie dei cittadi-
ni, e una governata dispoticamente dalla volontà senza freni del
sovrano, emerge dal modo in cui viene condotta la politica
estera, e dal ruolo giocato dalle imprese belliche. Infatti, men-
tre è indubbio che «la maggioranza di questo consiglio non sa-
rà mai animata dal gusto di fare la guerra, ma da grande amore
e volontà di pace»74, invece il monarca assoluto, o perché spin-
to dall’aristocrazia, o per un suo personale desiderio di gloria,

71 Il significato del termine plebs nel TP è analizzato in SACCARO BATTISTI, Spino-

za, l’utopia e le masse, cit., che sottolinea il diverso uso rispetto al TTP: nella seconda
opera spinoziana, infatti, «la plebe assume precisi connotati di natura socio-politica: di
conseguenza le caratteristiche negativa che nella prima opera le vengono attribuite dal
punto di vista antropologico, nel Trattato politico si rivelano chiaramente come effetti
indotti dalla situazione sociale e dal potere politico» (p. 77).
72 Cap. VII, § 29, in Opera, III, pp. 320-1 (trad. it. p. 143).
73 Ibid. Secondo F. ZOURABICHVILI, Spinoza, le vulgus et la psychologie sociale, in

«Studia Spinozana», VIII, 1992, pp. 151-69, qui Spinoza anticipa, seppure in forma
embrionale, le teorie tardo-ottocentesche sull’opinione pubblica.
74 TP, cap. VII, § 7, in Opera, III, pp. 310-1 (trad. it. p. 119).
352 La libertà necessaria

cercherà sempre di condurre una politica espansionistica, e di


accendere il conflitto con altri paesi. Dall’atteggiamento strut-
turalmente bellicoso dei governi regi discende una condizione
penosa per i loro sudditi, paragonabile alla schiavitù; di contro,
laddove il regime monarchico venga temperato dalla presenza
di un consiglio che partecipa alle decisioni politiche, nasce una
certa somiglianza con l’imperium democraticum, il cui valore
«emerge assai di più in pace che in guerra»75; di conseguenza,
la ricerca di uno stato di non belligeranza e di coesistenza paci-
fica è chiaro indizio del livello di democraticità di uno Stato.
Ovviamente Spinoza non esclude utopicamente la possibilità
che un popolo debba sapersi difendere dalle aggressioni, e le-
gittima quindi il conflitto a scopo difensivo; ma ribadisce che,
in ogni caso, la guerra non va fatta «se non a scopo di pace; af-
finché al termine cessino le azioni armate»76, e che le città con-
quistate devono poter essere riscattate dal nemico. La concor-
danza con il repubblicanesimo pacifico praticato da Johan De
Witt e teorizzato dai De la Court è significativa: Spinoza avreb-
be senz’altro sottoscritto l’affermazione presente nell’Aanwy-
sing di Pieter De la Court, secondo la quale, in contrapposizio-
ne con le tesi della fazione orangista, il benessere dell’Olanda
dipende interamente dalla pace e dalla libertà, e dal rifiuto di
ogni guerra di conquista77.
L’attenzione alla situazione della Repubblica delle Province
Unite, e dell’Olanda in particolare, e al dibattito ideologico in
atto, si fa più esplicita quando il TP passa ad analizzare la strut-
tura economica dell’imperium monarchicum. Il capitolo VI ri-
conosce come sia della massima utilità allo sviluppo del paese e
al benessere dei cittadini non l’ampliamento del territorio sta-
tale, che comporterebbe lo scontro militare con i paesi confi-
nanti, bensì l’incremento costante della popolazione78, sicura
75 Ivi, § 5 p. 310 (trad. it. p. 117).
76 Cap. VI, § 35, in Opera, III, p. 306 (trad. it. p. 107).
77 Cfr. Aanwysing, cit., pp. 236-7 e 242-3. Che i regimi monarchici tendano natu-

ralmente a scatenare delle guerre, che svolgono anche la funzione di consolidare il loro
potere sui sudditi, è affermato anche nelle Consideratien van Staat, cit., p. 108.
78 Cfr. TP, cap. VI, § 32, in Opera, III, p. 305 (trad. it. p. 107): «vanno escogitati i

mezzi attraverso i quali si possa più facilmente aumentare il numero dei cittadini e si
abbia un grande afflusso umano».
VII. L’evoluzione dei regimi politici 353

garanzia di sviluppo; per questo deve essere possibile ottenere


il diritto di cittadinanza per i figli degli stranieri nati e cresciuti
nel paese, o anche per gli stessi adulti79. Se una politica mirante
ad aumentare il numero degli abitanti di una città, concedendo
la cittadinanza e la piena libertà di commercio agli stranieri
(«de vremdeling en tot sig te trekken door de burgerschap, en
alle vryheid van handeling, als aan de Inboorlingen te vergun-
nen»), è sostenuta anche nei Politike Discoursen 80, Spinoza si
spinge fino a sostenere una proposta ancora più radicale, ovve-
ro di istituire una legge che impedisca ai cittadini di entrare in
possesso di beni immobili, poiché in tal modo si introdurrebbe
nello Stato una disparità di ricchezza tra i cittadini, mentre è so-
lo l’uguaglianza delle risorse materiali a incrementare l’esercizio
del commercio e, conseguentemente, la ricchezza collettiva81.
L’attività commerciale costituisce la principale fonte dell’utile
per gli abitanti dello Stato, allo stesso modo in cui, nell’VIII ca-
pitolo dell’Aanwysing il commercio, insieme alla pesca, alla
manifattura e alla navigazione, offre il principale mezzo di sus-
sistenza dell’Olanda82. Riconoscendo il ruolo decisivo per la
soddisfazione dei bisogni materiali dei meccanismi economici
della società mercantile, Spinoza non può evitare di discutere il
ruolo che svolge, all’interno di questa società, la moneta, massi-
mo rappresentante del carattere dinamico del nuovo sistema
economico, che spezza la staticità – e la strutturale ineguaglian-
za che ne deriva – dell’economia terriera feudale, contribuendo
anche a eliminarne le conseguenze sul piano politico: gerar-
chizzazione dei ruoli, mancanza di comunicazione e di coope-
razione tra gli individui, alto grado potenziale di conflittualità
interna. La centralità del denaro stabilisce uno stretto legame
tra i cittadini, poiché evidenzia simbolicamente la connessione
esistente tra il benessere del singolo e la dimensione universale

79 Cfr. ibid.
80 Politike Discoursen, cit., p. 49.
81 Cfr. TP, cap. VII, § 8, in Opera, III, p. 311 (trad. it. pp. 119-21).
82 Cfr. Aanwysing, cit., p. 35. Per uno sguardo interessante circa il nesso tra la ri-

flessione spinoziana e le teorie mercantiliste si veda H.W. BLOM, Spinoza et les proble-
mes d’une théorie de la société commerçante, in «Studia Spinozana», IV, 1988, pp. 281-
301, e DEN UYL, Passion, State and Progress, cit.
354 La libertà necessaria

dell’attività commerciale83. Spinoza ripresenta anche sul piano


economico il ruolo decisivo della comunicazione interindivi-
duale – tanto immaginativa, quanto materiale – nel processo di
incremento della potenza comune, in quanto il denaro può di-
ventare un catalizzatore di meccanismi affettvi che, pur nascen-
do dall’egoismo, si evolvono verso una dimensione collaborati-
va; ma perché questo avvenga è necessario che esso mantenga
la funzione di mediatore universale e di strumento di scambio,
e non diventi invece mezzo di accumulazione (e quindi un sur-
rogato della proprietà terriera), facendosi in tal modo strumen-
to di dominio. È la IV parte dell’Etica a chiarire il pensiero spi-
noziano, criticando l’eccessivo valore attribuito al denaro dal
senso comune:
Ma in verità il denaro ha offerto il compendio di tutte le cose, onde è
avvenuto che la sua immagine occupa di solito in sommo grado la Mente
del volgo; poiché difficilmente possono immaginare una qualche specie
di Gioia se non in concomitanza dell’idea dei soldi come causa. Capitolo
XXIX. Ma questo vizio è proprio soltanto di coloro i quali cercano i soldi
non per indigenza o per le loro necessità, ma perché hanno appreso le ar-
ti del lucro delle quali sono pomposamente fieri. D’altra parte, nutrono il
corpo secondo la consuetudine; ma con parsimonia, poiché credono di
perdere tanto dei propri beni quanto investono nella conservazione del
proprio Corpo84.

Il valore del denaro è dunque duplice, come l’immagine che


suscita negli individui: da un lato esso esercita un ruolo decisi-
vo nel dinamizzare la società, attraverso la sua circolazione
continua che mette in contatto nello scambio compratori e ven-
ditori, offrendo a ognuno di loro la possibilità di partecipare
del progresso economico collettivo, e di goderne dei frutti; ma
proprio per questa sua onnipresenza, il denaro tende ad appa-
rire come omnium rerum compendium, ossia come valore in sé,
83 Su questo punto insiste H. MÉCHOULAN, Pouvoir et argent chez Spinoza, in

«Lias», VI, 1979, pp. 175-88; inoltre Haddad-Chamakh afferma che Spinoza coglie l’a-
spetto egalitario dell’attività concorrenziale propria del commercio (Philosophie systé-
matique, cit., p. 349). Per alcuni spunti interessanti sul rapporto tra Spinoza e l’econo-
mia politica si veda infine HIRSCHMAN, Le passioni e gli interessi, cit., p. 59, e soprattut-
to LAZZERI, Droit, pouvoir et liberté, cit., pp. 370-5.
84 Etica, IV, Appendice, capp. XXVIII e XXIX, in Opera, II, pp. 274-5 (trad. it.

p. 288).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 355

facendo nascere nel volgo il desiderio di trattenerlo e di accu-


mularlo.
L’attenzione alla complessità delle relazioni affettive che agi-
scono all’interno del regime monarchico, e l’elaborazione di
meccanismi costituzionali in grado di indirizzarle verso il po-
tenziamento dei diritti della moltitudine, non possono trascura-
re l’ambito della religione, benché essa non abbia la medesima
importanza che ha invece nel TTP. Il TP insiste sulla pervasivi-
tà dell’ideologia al servizio dei gruppi di dominio, che sembra
ridurre la religione a instrumentum regni, attraverso il quale chi
detiene il potere cerca di sottomettere psicologicamente, oltre
che materialmente, i propri sudditi85. Per tale ragione Spinoza
discute esclusivamente del significato puntuale che il sentimen-
to religioso assume all’interno di ogni regime, senza tentare di
riformulare una teoria universale del significato politico della
religione (e anzi rifacendosi, laddove è necessario, ai risultati
del precedente trattato). Per quanto concerne il regime monar-
chico, al fine di evitare che il re eserciti una sorta di monopolio
religioso, esiziale per lo sviluppo della partecipazione politica
dei cittadini, vanno poste alcune precise limitazioni:
Quanto alla religione, non devono essere costruiti templi a spese delle
città, né vanno promulgate leggi sulle opinioni, a meno che queste non
siano sediziose e tali da sovvertire le fondamenta civili (fundamenta Civi-
tatis). Dunque coloro ai quali è concesso di professare pubblicamente
una religione, costruiranno, se vorranno, il tempio a loro spese86.

Ripetendo una delle affermazioni conclusive del TTP, Spi-


noza dichiara che «nessuno può trasferire ad altri il diritto del-
la religione, ossia del culto di Dio»87, e che pertanto il sovrano
non ha alcun dovere nei confronti di una fede religiosa nazio-
nale che di fatto non esiste. Su queste affermazioni pesano sen-
za dubbio gli avvenimenti storici di quegli anni, la consapevo-
lezza dell’importante ruolo giocato dal sostegno della chiesa
calvinista a Willem III nello scontro con De Witt, insomma il
timore, anch’esso già espresso negli ultimi due capitoli dell’o-

85 Il § 27 del VII capitolo è paradigmatico di questa sviluppo dell’analisi del TP.


86 Cap. VI, § 40, in Opera, III, p. 307 (trad. it. p. 109).
87 Cap. VII, § 26, in Opera, III, p. 319 (trad. it. p. 139).
356 La libertà necessaria

pera pubblicata nel 167088, che la religio da vincolo universale


si trasformi in un laccio che stringe le coscienze, asservendole
alla volontà dei predicatori89; tanto più che la funzione unifica-
trice dell’immaginazione collettiva è offerta dal potere simboli-
co della corona, a sostegno del quale, come si è visto, Spinoza
ha già elaborato numerosi meccanismi istituzionali. A confron-
to con questa scelta di tolleranza assoluta, la posizione espressa
dai De la Court nei Politike Discoursen è senz’altro meno radi-
cale. Il IV libro dell’opera, dedicato ai problemi legati al rap-
porto tra Chiesa e Stato (Discoursen over Kerkelike-saaken),
evidenzia il ruolo politico della religione pubblica, che contri-
buisce in maniera decisiva a consolidare l’obbedienza dei sud-
diti nei confronti dei loro governanti: infatti «le pene, le pro-
messe, l’onore e la riconoscenza per la protezione di cui godo-
no, senza la religione, che produce la paura della punizione di-
vina per la disubbidienza dopo questa vita, non sarebbero suf-
ficienti per sottomettere in maniera duratura gli uomini ai loro
doveri nei confronti dell’autorità e dei loro simili»90. La funzio-
ne della religione è espressa dall’effetto di deterrenza che la
paura dell’aldilà esercita sugli istinti antipolitici; nessun ricono-
scimento del carattere aggregante del sentimento religioso, ma
piuttosto la tradizionale riproposizione della sua valenza re-
pressiva, che trova una limitazione soltanto nel realismo politi-
co dei De la Court, consapevoli della quasi impossibilità di ri-
produrre l’unità di fede dove, come in Olanda, essa sia ormai
da tempo scomparsa, senza minacciare ancora più gravemente
l’ordine politico. Soltanto in questo caso, ossia come ripiego ra-
gionevole, viene presentata l’opzione spinoziana di «lasciare la
libertà di coscienza per tutti quei sudditi che, nella misura in
cui è loro possibile e per quanto essi sono tenuti, vogliono ob-
bedire all’autorità»91. Perciò, pur partendo da una posizione
88 «Ma è superfluo ripetere qui cose di cui abbiamo ampiamente parlato nei due

ultimi capitoli del Trattato teologico-politico» (ibid).


89 Si confronti in proposito le conclusioni del IV capitolo, pp. 198-209.
90 «Deese straffen, beloften, eer en dankbaarheid, voor genoote protectie, soude

sonder Gods-dienst, die oover ongehoorsaamheid na dit leven, voor Gods straf doed
vreesen, niet genoegsam zijn, om de menschen in gedurige pligten tegen haare Over-
heid, en haar Eeven-naasten, te ondehouden» (Politike Discoursen, cit., p. 288).
91 «Vryheid voor de conscientie, en ‘t gewissen te laaten, aan alle de Onderdaa-
VII. L’evoluzione dei regimi politici 357

teorica meno originale di quella spinoziana, i De la Court giun-


gono a conclusioni simili, come confermano anche le Conside-
ratien van Staat, che negano ai regimi monarchici, dove « lo
stato della religione è insicuro» a causa della natura passionale
e incostante del monarca92, la possibilità di utilizzare la religio-
ne come instrumentum regni.
A conclusione del VII capitolo, Spinoza trae dalla storia la
conferma della validità dei suoi interventi costituzionali, volti a
limitare il potere regio attraverso la redistribuzione ai cittadini
di quelle funzioni politiche che possono essere sottratte al so-
vrano senza mettere in crisi il sistema. In realtà, dietro la narra-
zione delle vicende del regno d’Aragona93, la cui costituzione
ebbe un valore emblematico per molti oppositori del principio
monarchico94, si può cogliere la preoccupazione per le vicende
delle Province Unite dopo il 1672, e la paura che il popolo
olandese perdesse la libertà per la quale aveva lottato contro
l’Impero; di qui l’affermazione conclusiva che
il popolo (multitudinem) può conservare sotto un re una libertà abba-
stanza ampia, purché faccia in modo che la potenza del re sia determina-
ta dalla sola potenza del popolo stesso e sia salvaguardata dal presidio
stesso del popolo (ipsius multitudinis potentia determinetur, et ipsius mul-
titudinis praesidio servetur)95.

Ma il problema non scompare, anzi si accresce, se solo si ri-


corda come poche pagine prima, al paragrafo 26, veniva detto
che solo una libera multitudo avrebbe potuto istituire un regi-
me monarchico in grado di controllare l’operato del sovrano96;

nen, die haar, in ‘t geene haar mogelik is, en daar sy toe gehouden zijn, souden willen
gehoorsamen» (ivi, p. 295).
92 «De stand der Religie is onder Monarchen onzeeker» (Consideratien, cit., p. 89).
93 Cfr. cap. VII, § 30, in Opera, III, pp. 321-3 (trad. it. pp. 143-9). Secondo Droet-

to, Spinoza trae il racconto dall’opera dello scrittore spagnolo Antonio Perez, del quale
egli possiede Las obras y relacionez (Ginevra 1644). Per un’analisi dell’influenza di que-
sto autore sul filosofo di Amsterdam cfr. H. MÉCHOULAN, Spinoza, lecteur d’Antonio
Pérez, in «Ethnopsychologie», XXIX, 1974, pp. 289-301.
94 Secondo MÉCHOULAN, Spinoza, lecteur d’Antonio Pérez, cit., p. 294, è il francese

François Hotman nel suo Franco-Gallia a usare per primo il riferimento alla storia del
regno d’Aragona come modello politico.
95 TP, cap. VII, § 31, in Opera, III, p. 323 (trad. it. p. 149).
96 Cfr. ivi, § 26: «io qui prendo in considerazione quello stato monarchico che è
358 La libertà necessaria

le due affermazioni generano una sorta di circolo vizioso, nel


quale la libertà di una collettività è al tempo stesso condizione
di possibilità perché tale libertà si dia. Tuttavia, se non si vuole
restare irretiti da una contraddizione soltanto apparente, oc-
corre richiamare alla memoria il carattere dinamico e progressi-
vo del concetto spinoziano di libertas, che già nel TTP era ap-
parso decisivo per comprendere la specificità della proposta
politica spinoziana: la libertà appare allora come un processo,
che sposta di continuo i limiti della liberazione individuale e
collettiva, e mai come principio immutabile, fissato una volta
per tutte dal diritto, naturale o positivo che sia. Pertanto una
collettività libera è tale nella misura in cui si libera continua-
mente, emancipandosi da un’impotenza che si manifesta nelle
tensioni che la attraversano e nei limiti del potere che la gover-
na; in tal senso, anche per il TP la libertà è a un tempo il fonda-
mento e il fine della Respublica, l’essenza di quell’individuo
collettivo che costituisce l’imperium. L’analisi delle diverse for-
me di imperium assume allora una valenza irriducibile alla con-
trapposizione ideologica nei confronti di questo o quel regime,
come accade invece per i partigiani della ware vrijheid, tra i
quali vanno annoverati i fratelli De la Court; per questi ultimi
l’odio nei confronti della monarchia è tale che nei Politike Dis-
coursen si dice che anche «il miglior regime monarchico non è
per i suoi sudditi tanto buono come il governo repubblicano
più oligarchico»97. Ma, per quanto dettata dalla violenza dello
scontro politico in atto nella Repubblica delle Province Unite,
una tale chiusura nei riguardi della monarchia subisce i mecca-
nismi dell’immaginazione piuttosto che comprenderli e gover-
narli, poiché non coglie le motivazioni che conducono gli indi-
vidui a perdere l’esercizio della propria libertà, assoggettandosi
al volere di un solo uomo (che in realtà non potrà mai, proprio
perché di un solo uomo si tratta, realizzare la propria volontà).
Non comprendendo i meccanismi, radicati nella dimensione
affettiva della multitudo, che determinano la genesi del regime

istituito da un popolo libero (quod a libera multitudine instituitur) il solo che può gio-
varsi di questi principi » (p. 319; trad. it. p. 139).
97 «De beste Monarchale Regeering, is den Onderdaanen soo goed niet, als de ge-

ringste Republikse Regeering» (Politike Discoursen, cit., p. 377).


VII. L’evoluzione dei regimi politici 359

monarchico, non è possibile neppure individuare le modalità di


un intervento politico che favorisca la partecipazione dei citta-
dini alle decisioni, e quindi la limitazione del potere regio. In
questa prospettiva, il TP può uscire dal dilemma, che si confi-
gura storicamente in Olanda dopo la crisi del 1672, se appog-
giare il progetto politico di tipo monarchico dello stadhouder o
se operare per il ritorno della Repubblica, dal momento che la
scelta di campo repubblicana di Spinoza implica anche il rico-
noscimento realistico dell’intrascendibilità dei limiti attuali del-
la potentia multitudinis; si tratterà quindi di intervenire per in-
crementare la capacità collettiva di organizzare la propria po-
tenza in modo che essa si esprima compiutamente nel governo
del paese. Non è la presenza di un re che può inficiare tale pro-
getto, bensì soltanto il fatto che egli possa disporre dell’impe-
rium absolutum: solo questo esito, infatti, sarebbe «decisamen-
te pericoloso per il principe, decisamente odioso verso i suddi-
ti, e contrario alle istituzioni divine e umane, come mostrano
esempi innumerevoli»98.

3. Patrizi e plebei nel regime aristocratico


Con l’avvio del capitolo VIII, dedicato all’imperium aristo-
craticum, si apre uno scenario a tal punto rinnovato da sembra-
re quasi che Spinoza abbia modificato i principi della sua rifles-
sione politica. In particolare, il ruolo della multitudo nella co-
stituzione dell’imperium sembra essere del tutto differente ri-
spetto alle pagine precedenti; basta leggere il paragrafo 3, dove
si dice che «la potenza di uno stato (imperii potentia), una volta
delegata a un consiglio abbastanza numeroso, non ritorna mai
al popolo (numquam ad multitudinem redit), a differenza di
quel che accade nello stato monarchico»99. Altrettanto sor-
prendente è l’affermazione presente al paragrafo 4, per cui
l’imperium aristocraticum, che «ha per legge in senso assoluto
ogni volontà del consiglio, deve essere considerato assoluto
senza riserve (debet omnino ut absolutum considerari), e di con-

98 TP, cap. VII, § 14, in Opera, III, p. 314 (trad. it. p. 127).
99 Cap. VIII, § 3, in Opera, III, p. 325 (trad. it. p. 155).
360 La libertà necessaria

seguenza la difesa dei suoi principi fondamentali deve dipende-


re unicamente dalla volontà e dal giudizio del consiglio, e non
dalla vigilanza del popolo (non autem multitudinis vigilan-
tia)»100. L’impressione è che emerga una nuova determinazione
del carattere della multitudo, non più fondamento unitario del-
l’imperii potentia, ma ora semplice «parte» dello Stato che, per
quanto numericamente significativa, rimane tuttavia estranea
alla gestione della cosa pubblica, e anzi interamente dipenden-
te da chi la governa; così quella scissione tra governanti e sud-
diti, al cui superamento Spinoza aveva dedicato i capitoli VI e
VII, si ripresenta ora sotto una nuova luce, come garanzia del-
l’assolutezza del governo aristocratico.
Si tratta allora di comprendere se, nel passaggio dall’analisi
del regime monarchico a quella del regime aristocratico, anche
il concetto di absolutum imperium non subisca una profonda
trasformazione. A tale proposito va ricordato che la (presunta)
assolutezza del potere regio, determinata dal monopolio della
decisione politica nelle mani del sovrano, costituisce il princi-
pale ostacolo allo sviluppo della potenza collettiva, e di conse-
guenza deve venire limitata e bilanciata da altri poteri istituzio-
nali. Tuttavia anche all’interno della monarchia ideale permane
un certo grado di instabilità, poiché il sovrano dispone pur
sempre di quell’auctoritas che l’immaginazione popolare gli ri-
conosce, e che egli può usare per spezzare l’equilibrio di poteri
a suo vantaggio: il pericolo di una degenerazione in tirannide,
per di più sostenuta dal favore popolare, resta una possibilità
sempre aperta e mai del tutto eliminabile, dal momento che si
fonda sul grado di sviluppo dell’ingenium e della potenza della
multitudo. Un simile rischio sembra invece minore in un’aristo-
crazia, la cui superiorità rispetto al regime monarchico riposa
sulla maggiore maturità affettiva della popolazione, di cui testi-
monia l’avvenuta spersonalizzazione del potere (posto che l’i-
dentificazione dello Stato con il sovrano è l’esito dell’immagi-
nazione passiva che attanaglia ancora la popolazione). Occorre
partire da questa distinzione per comprendere il mutamento
del significato del concetto di absolutum, riferito all’imperium;

100 Ivi, § 4, p. 325 (trad. it. p. 155).


VII. L’evoluzione dei regimi politici 361

perché ciò sia possibile è bene, però, evidenziare gli aspetti


fondamentali del regime aristocratico, iniziando dalla definizio-
ne presente all’inizio del capitolo VIII:
Lo stato aristocratico, abbiamo detto, è quello che è governato non da
uno solo, ma da alcuni, selezionati entro il popolo (quidam ex multitudine
selecti tenent), che d’ora in poi chiameremo patrizi. Dico espressamente,
governato da alcuni selezionati [in corsivo nel testo]. Questa è infatti la
differenza principale tra questo stato e il democratico: nello stato aristo-
cratico la facoltà di governare dipende dalla sola elezione (in Imperio Ari-
stocratico gubernandi jus a sola electione pendet), mentre nel democratico
dipende da un certo qual diritto innato, o acquisito per fortuna101.

L’originalità di questa definizione è stata spesso sottolineata


dagli studiosi102: essa rompe con la tradizione della filosofia po-
litica che, da Platone in poi, utilizzava il criterio numerico per
distinguere le varie forme di governo, mentre Spinoza afferma
esplicitamente che «anche qualora l’intero popolo di uno stato
(imperii alicujus integra multitudo) venisse ammesso nel numero
dei patrizi – purché quel diritto non fosse ereditario né si tra-
smettesse ad altri per qualche legge comune – lo stato rimarreb-
be pur sempre aristocratico»103. Per tale ragione la multitudo in
un regime aristocratico può essere definita come il serbatoio da
cui vengono selezionati per cooptazione i membri del patriziato,
ai quali soltanto spetta di occuparsi attivamente del governo
della cosa pubblica104. Se il rapporto numerico tra governanti e
sudditi non è decisivo per determinare la natura dell’imperium,
esso riveste però una notevole importanza all’interno di un’ari-
stocrazia, in particolare come deterrente nei confronti della ten-
denza degenerativa in oligarchia; perciò Spinoza calcola i patrizi
non devono essere meno del 2% dell’intera popolazione, se si
vuole ottenere che il potere rimanga nelle mani di «uomini di

101 TP, cap. VIII, § 1, in Opera, III, p. 323 (trad. it. pp. 151).
102 Cfr. ad esempio HADDAD-CHAMAKH, Philosophie systématique, cit., p. 366, che
definisce la differenza tra aristocrazia e democrazia a partire dalla partecipazione egali-
taria o inegalitaria al potere.
103 Cap. VIII, § 1, in Opera, III, p. 323 (trad. it. p. 151).
104 Cfr. ivi, § 2, p. 324 (trad. it. p. 153), ma anche § 14, p. 330 (trad. it. p. 167). La

definizione della multitudo come serbatoio dell’aristocrazia è in MUGNIER-POLLET, La


philosophie politique de Spinoza, cit., p. 233.
362 La libertà necessaria

valore eccellente (animi virtute excellentes)»105. Diversamente


rispetto alle pagine dedicate alla monarchia, dove l’insistenza
sulla comune natura degli uomini, e quindi sulla sostanziale
uguaglianza tra i re e i loro sudditi, metteva in crisi l’immagine
del monarca virtuoso, ora invece la virtus di chi detiene il gover-
no è, se non postulata, certamente ricercata attraverso le moda-
lità di selezione della classe dominante, la quale deve essere
composta da individui obbligati a preoccuparsi maggiormente
del bene pubblico che non dei loro interessi personali106.
La corretta dimensione del consiglio dei partizi è alla base
dell’eccellenza dei suoi membri, al punto che diviene possibile
parlare di imperium absolutum, o che quanto meno «si avvicina
al massimo all’assoluto. Posto infatti che si dia uno stato asso-
luto, esso è in realtà quello che è governato dal popolo tutto in-
tero (quod integra multitudo tenet)»107. Il carattere di assolutez-
za, che nel regime monarchico costituiva la fonte di maggior
pericolo, assume ora una valenza positiva, in quanto viene visto
in continuità, e non in contrapposizione, con il governo da par-
te dell’intera collettività; rimane tuttavia oscuro il nesso che in-
tercorre tra questa affermazione e le già citate prese di posizio-
ne circa la necessità di tenere radicalmente separati i nobili dal
resto della Civitas. Né sembra offrire alcun chiarimento quanto
dice il paragrafo 4 circa i rapporti tra imperantes e multitudo:
la ragione per la quale, in pratica, questo stato non è assoluto, non
può trovarsi se non nel fatto che il popolo fa paura ai governanti (multi-
tudo imperantibus formidolosa est), e perciò mantiene una certa libertà la
quale, pur non essendo sancita legalmente, è comunque rivendicata e sal-
vaguardata (tacite tamen sibi vindicat, obtinetque)108.

Qui il limite all’assolutezza del governo viene rintracciato


nella libertà dei sudditi, da intendersi come lo spazio d’azione
che resta al di fuori dal comando del potere politico; una liber-

105 Cap. VIII, § 2, in Opera, III, p. 324 (trad. it. p. 153).


106 Ad esempio, al § 16 del cap. VIII Spinoza afferma che chi tra i patrizi non par-
tecipa alle riunioni del consiglio per motivi non giustificabili, debba essere punito con
una multa salata, altrimenti «i più anteporrebbero la cura degli interessi privati all’am-
ministrazione dei pubblici» (p. 331; trad. it. pp. 167-9).
107 Ivi, § 3, p. 325 (trad. it. p. 155).
108 Ivi, § 4, pp. 335-6 (trad. it. pp. 155-7).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 363

tà tutta negativa, che ricorda assai più la definizione hobbesia-


na – e l’ombra di Hobbes appare anche in altri passaggi, ad
esempio quando, poche righe prima, il testo dice che «questo
stato aristocratico [...] non ritorna mai (come si è ora mostrato)
sotto il controllo del popolo»109 – che non i risultati della rifles-
sione del TP. Vi è comunque un aspetto inequivocabilmente
spinoziano nel brano sopra citato, ed è il riferimento alla paura
come «arma» nelle mani della moltitudine per limitare il potere
di chi governa; si tratta di un chiaro indizio del fatto che nessu-
na neutralizzazione della valenza politica delle masse è ancora
avvenuta, e che esse, di conseguenza, non hanno cessato di gio-
care un ruolo costitutivo nel processo di produzione della deci-
sione politica. Ma allora bisogna capire in che misura questo
avviene, e come sia possibile aumentarne l’intensità; certo è
che, rispetto all’analisi dell’imperium monarchicum, ora i para-
metri con cui giudicare della bontà del regime sono radical-
mente mutati, mentre resta identico il principio fondamentale
di ogni possibile valutazione, ovvero il ruolo imprescindibile
della potentia multitudinis, il grado di maturazione affettiva
raggiunto dalla collettività. Così, se in un regime monarchico i
sudditi sono per lo più individui sottomessi a un’immagine tra-
scendente dell’auctoritas, in quello aristocratico invece l’inge-
nium collettivo è meno dominato dalla passività dell’imaginatio
(anche se non si può mai parlare di superamenti definitivi, dal
momento che ogni situazione è il frutto di una serie di compo-
nenti materiali e culturali, che produce un equilibrio mai com-
pletamente stabilizzato), benché non sia ancora capace di so-
stenere la partecipazione diretta di tutti alla gestione della cosa
pubblica: la potenza della moltitudine in un’aristocrazia è an-
cora debole, e si esprime negativamente, nella forma della resi-
stenza e della minaccia nei confronti di chi effettivamente go-
verna. Come osserva Spinoza, nella pratica (in praxi) l’impe-
rium aristocraticum non può raggiungere la piena assolutezza
non perché la libertà dei sudditi vi si opponga – questo è un ef-
fetto, piuttosto che la causa –, bensì perché esso è ancora solca-
to da momenti di tensione, di rifiuto e di opposizione al potere,

109 Ibid.
364 La libertà necessaria

piuttosto che di fattiva collaborazione.


D’altra parte, la stessa configurazione politica della multitu-
do appare problematica; non è casuale il fatto che in questo ca-
pitolo non compaia mai il termine cives, ma sempre quello di
subditi, o addirittura quello di peregrini: «tutti, ad eccezione
dei patrizi, sono stranieri (peregrini)»110. Ambigua è altresì la
struttura del diritto di cittadinanza, come si evince dalla rico-
struzione della genesi dello Stato aristocratico:
Sono infatti ben persuaso che la maggior parte degli stati aristocratici
sono stati in precedenza democratici, ossia che un popolo (multitudo) al-
la ricerca di un nuovo territorio, una volta che l’ebbe trovato e coltivato,
deve aver mantenuta intatta l’eguaglianza dei diritti politici (imperandi
aequale jus integra retinuit), poiché nessuno cede spontaneamente ad altri
la sovranità dello stato. Ma, sebbene ciascuno di loro consideri giusto
avere nei confronti di un altro gli stessi diritti che quest’altro ha verso di
lui, ritiene tuttavia ingiusto che gli stranieri immigrati [peregrini] abbiano
diritti uguali a loro [...]. Gli stessi stranieri non contestano ciò, poiché es-
si non vengono per governare, ma per curare i propri privati interessi, e
si ritengono soddisfatti se soltanto vien loro concesso di trattare i loro af-
fari privati liberamente111.

L’aristocrazia spinoziana ha ben poco a che vedere con le


istituzioni feudali, ma piuttosto nasce dal desiderio comune di
accrescere i propri beni attraverso l’attività privata: un’aristo-
crazia figlia quindi del prevalere delle istanze commerciali,
esattamente come quella olandese (e prima ancora quella vene-
ziana e genovese)112. Decisivo è il ruolo del desiderio di accu-
mulare ricchezza, tanto che Spinoza considera l’avaritia come il
collante dello Stato aristocratico, affermando che se tale affetto
«sarà incrementato dall’ambizione, i più si impegnerebbero ad
accrescere onorevolmente le proprie sostanze per essere innal-

110 Ivi, § 10, p. 328 (trad. it. p. 163).


111 Ivi, § 12, p. 329 (trad. it. pp. 163-5).
112 PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, cit., pp. 301 sgg., sottolinea

come questo regime sia particolarmente adatto a un paese di piccole dimensioni, la cui
attività è basata sul commercio: in una parola, alle aspirazioni della borghesia olandese.
D’altra parte BLOM, Spinoza et les problemes d’une théorie de la société commerçante,
cit., p. 288, ricorda che proprio il gran numero di rifugiati da altri paesi per motivi reli-
giosi aveva contribuito all’egemonia economica di Amsterdam (e tra costoro vi era an-
che la famiglia di Spinoza).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 365

zati alle cariche pubbliche, e per evitare il disonore estremo»113.


Il possesso di denaro diviene il segnale distintivo della classe
dominante; i patrizi vanno quindi scelti tra i cittadini più ric-
chi, e chi di loro dimostri di non saper gestire il proprio patri-
monio personale deve essere escluso dall’aristocrazia114, come
se la virtus dei governanti coincidesse con l’abilità nel curare gli
affari economici (propri e della collettività). Contrapponendosi
sia all’ideale dirigistico di stampo mercantilistico, sia alla per-
manenza di istituzioni economiche premoderne – pars pro toto
le corporazioni, considerate un limite al dispiegarsi del potere
dell’aristocrazia, ma anche allo sviluppo materiale del paese115 –,
Spinoza sostiene il ruolo decisivo dell’iniziativa individuale, ri-
velando un’adesione di fondo alle dottrine più radicali dei par-
tigiani della ware vrijheid; basti ricordare in proposito le pagine
dedicate dai De la Court al rilevamento della dannosità delle
gilde per il benessere dell’Olanda116, che nei Politike Discour-
sen si spingono fino ad avanzare un parallelo tra governo del
popolo minuto (Gemeente) e governo delle corporazioni (Gil-
den), entrambi causa di «molte rivolte, discordie e guerre civili
(veele oproepen, tweedragt, en burgerlike Oorlogen)»117. Questo
però non esclude anche alcune importanti differenze, che
emergono soprattutto quando si tratta di cogliere gli aspetti ne-
gativi del sistema. Nelle Consideratien van Staat, ad esempio, si
legge che «in generale le due passioni più forti, la brama di ric-
chezza e di onori, nei governi democratici si sviluppano così
tanto, essendo l’una collegata all’altra, perché esse producono
più uomini saggi e virtuosi che in ogni altra forma di gover-
no»118; tuttavia il numero di individui che, per sfortuna o inca-

113 TP, cap. X, § 6, in Opera, III, p. 356 (trad. it. pp. 227-9). Per un’analisi di que-

sto ruolo politico dell’avartia cfr. MATHERON, Individu et communauté chez Spinoza,
cit., pp. 508-9.
114 Cfr. TP, cap. VIII, § 47, in Opera, III, p. 346 (trad. it. p. 201).
115 Ivi, § 5, p. 326 (trad. it. p. 157).
116 Ad esempio, nell’Aanwysing un intero capitolo è dedicato a dimostrare che «le

compagnie chiuse e le gilde sono molto dannose per l’Olanda (De belostene Compagnie
en Gildens, voor Holland seer schaadelijk zijn)» (cap. VII, pp. 71-7). Sul ruolo delle gil-
de nelle città olandesi si veda quanto già detto nel V capitolo, pp. 243-4.
117 Politike Discoursen, cit., p. 383.
118 «Die twee generale en kragtigste passien van geld en eer-gierigheid, in pop. re-
366 La libertà necessaria

pacità, rimane povero è ben maggiore di chi si emancipa dalla


povertà, con la conseguenza che ogni democrazia rischia che,
«essendo governata dalla maggioranza, sia presumibilmente
retta anche da uomini incapaci ed ignoranti»119. Non solo que-
sta preoccupazione – che pure non impedirà ai De la Court di
sostenere l’apertura in senso democratico dei governi aristocra-
tici – è assente nel TP, ma al suo posto emerge una preoccupa-
zione contraria, riguardante le conseguenze tendenzialmente
disgregatrici che il nesso tra desiderio di accumulazione, inte-
grazione sociale e ambizione politica può produrre. Nella rico-
struzione storica dell’imperium aristocraticum, Spinoza indivi-
dua perciò un rischio ben preciso:
la popolazione aumenta a seguito dell’affluenza degli stranieri, i quali
a poco a poco assimilano i costumi di quella gente, sinché infine non so-
no riconoscibili per alcun’altra differenza all’infuori soltanto di non avere
il diritto di accesso alle cariche; e, mentre il loro numero quotidianamen-
te cresce, quello dei cittadini al contrario, per molti motivi, diminuisce
[...]; e così, a poco a poco lo stato si riduce alla mercè di pochi e infine di
uno solo, imposto da una fazione120.

La graduale integrazione degli stranieri nella società che li


ospita si blocca di fronte all’impossibilità di accedere alle cari-
che politiche, e questo limite segna la crisi del regime aristocra-
tico, minacciato dall’incapacità di rinnovare la propria classe
dirigente, facendo fruttare le potenzialità offerte dallo sviluppo
sociale. È questo per Spinoza il pericolo principale che un’ari-
stocrazia deve fronteggiare, un pericolo nato dagli stessi pro-
cessi che l’hanno generata; perciò la spinta all’arricchimento
deve essere accompagnata dalla concessione di diritti politici,
che sostengano come un’impalcatura l’ampliamento delle liber-
tà individuali, trasformandole nella partecipazione diretta alla
gestione della cosa pubblica. Se ciò non avviene, accade che la
componente dei membri al governo tenderà a concentrarsi, fi-

geeringen zoo kragtig opgewerkt, en aan een gekoppelt zijnde, aldaar meer wijse Man-
nen, en deugdsame menschen ter weereld-brengen, als in eenige andere Regeereinge»
(Consideratien, cit., p. 451).
119 «Een populare Staat, werdende geregeerd van het meestendeel, ook warelik ge-

regeerd werd van domme en oonweetende menschen» (ivi, p. 453).


120 TP, cap. VIII, § 12, in Opera, III, p. 329 (trad. it. p. 165).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 367

no a scomparire in una monarchia; inoltre i sudditi non-cittadi-


ni, privati di ogni mezzo per collaborare attivamente al gover-
no, finiranno per esprimere la loro potenza solo negativamente,
come «multitudo formidolosa» che incombe minacciosa su chi
detiene il potere.
Eliminare la paura che la massa degli eslcusi121 incute ai pa-
trizi deve essere il compito di una buona costituzione aristocra-
tica; a tale scopo è necessario innanzitutto che la multitudo
«non ottenga altra libertà all’infuori di quella che necessaria-
mente gli spetta in base alla costituzione dello stato (ex ipsius
imperii constitutione); essa dunque deve appartenere di diritto
non tanto al popolo, quanto all’intero stato (non tam multitudi-
nis, quam totius imperii jus sit), che i soli ottimati rivendicano a
sé e custodiscono»122. La divaricazione tra il diritto della multi-
tudo e quello dell’imperium introduce un elemento di novità ri-
spetto ai precedenti capitoli del TP, ribadito due paragrafi do-
po, quando il testo riconosce la necessità che le basi del regime
aristocratico «siano unicamente fondate sulla volontà e sulla po-
tenza di questo supremo consiglio, in modo tale che il consiglio
stesso sia, per quanto possibile, autonomo (sui juris) e non espo-
sto ad alcun pericolo da parte del popolo»123. Per neutralizzare
la pressione popolare i patrizi devono accentrare tutto il potere
nelle loro mani, utilizzando eventualmente la cooptazione come
valvola di sfogo del malessere della popolazione: solo così saran-
no eliminati «senza dubbio tutti i motivi di sedizione» e la for-
ma dello stato si accorderà «con i dettami della ragione»124.
Mantenere il popolo – che non a caso Spinoza definisce non
più solo con il termine «multitudo», ma anche con quello di
«plebs», a sottolinearne i connotati della passività e dell’inade-
guatezza politica125 – il più possibile lontano da ogni responsa-

121 G. SACCARO BATTISTI, Sistemi politici del passato e del futuro nell’opera di Spino-

za, in «Giornale critico della filosofia italiana», LVI, 1977, pp. 506-49, afferma che la
multitudo dei sudditi nell’aristocrazia corrisponde ai cives della monarchia; tale corri-
spondenza ha tuttavia una valenza solo numerica, poiché i primi non dispongono dei
diritti politici dei quali invece godono i cittadini di un regno.
122 TP, cap. VIII, § 5, in Opera, III, p. 326 (trad. it. p. 157).
123 Ivi, § 7, p. 326 (trad. it. p. 157).
124 Ibid. (trad. it. p. 159).
125 Cfr. ad esempio il cap. VIII, § 44: «sono le due cose, che abbiamo messe al pri-
368 La libertà necessaria

bilità politica e, di contro, coinvolgere nel governo tutta la clas-


se dei patrizi, in modo da impedire che esso si tramuti in un’o-
ligarchia, sono i due principi costituzionali sui quali punta Spi-
noza per dare stabilità a questa forma di imperium. Anche in
questo caso vi è una certa consonanza tra il TP e le Considera-
tien van Staat, dove la migliore costituzione aristocratica viene
definita come quella che tende a far partecipare alla conduzio-
ne della cosa pubblica tutti i cittadini «che si presume abbiano
abbastanza potere e conoscenza per occuparsi del loro proprio
interesse»126: in una parola, tutti i cittadini benestanti del pae-
se. Tuttavia nell’opera dei De la Court manca la consapevolez-
za della minaccia che incombe sul governo dei migliori a causa
dell’esclusione del resto della popolazione dai pubblici uffici,
come se fosse scontato che la moltitudine, benché dominata
dalle passioni, possieda comunque un grado sufficiente di ra-
zionalità per riconoscere che il regime aristocratico è il migliore
possibile anche per chi resta fuori dalla politica attiva. Senz’al-
tro più realistico è il giudizio di Spinoza, che riconosce nel de-
siderio degli esclusi di ottenere i diritti politici un grave perico-
lo per la stabilità dello Stato. Perciò il resto dei capitoli VIII e
IX è dedicato al duplice compito di individuare il miglior siste-
ma per opporsi alla minaccia della multitudo, e nel contempo
di suscitare negli aristocratici la passione per governare.

4. La natura espansiva dell’aristocrazia


Il primo strumento per mantenere la distinzione tra gover-

mo posto nel gettare le fondamenta di questo tipo di stato, ossia che la plebe sia tenuta
al difuori dei consigli; e che non possa votare (ut plebs tam a consiliis, quam a suffragiis
ferendis arceretur)» (Opera, III, p. 344; trad. it. p. 199). In proposito è corretta l’affer-
mazione di SACCARO BATTISTI, Spinoza, l’utopia e le masse, cit., per cui, rispetto alla
plebe, «la multitudo ha una dignità ed un peso socio-politico più elevato, comprenden-
do anche nel suo seno persone direttamente coinvolte negli affari pubblici o grupppi
più potenti» (p. 89); tuttavia il fondamento di questa tesi è nel fatto che la multitudo si
colloca su un diverso registro concettuale rispetto alla plebs, assumendo una configura-
zione che non è soltanto descrittiva, bensì tout court politica.
126 «De beste regeering onder menschen bedenkelik, te sullen werden gevonden by

een Vergaaderinge, bestaande uit alle de Ingeseetenen des Lands, die gepresumeerd
konnen werden magts ende kennisse genoeg te hebben, om hun eigen welvaaren te
versorgen» (Consideratien, cit., p. 564).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 369

nanti e governati consiste, molto semplicemente, nella fortifica-


zione della capitale dello Stato127, un mezzo valido soprattutto
per quell’aristocrazia nella quale i patrizi «appartengono ad
una sola città» (il caso che Spinoza analizza per primo, per poi
passare al modello federale, che è quello esistente nel suo
paese128). In secondo luogo deve essere superata la divisione
della popolazione in famiglie, propria del regime monarchico,
dal momento che tale organizzazione è funzionale al recluta-
mento politico di individui provenienti da tutte le classi della
multitudo, e quindi va nella direzione contraria rispetto alle fi-
nalità dell’imperium aristocraticum, che mirano a privare la
grande massa degli abitanti di ogni visibiltà politica. La stessa
intenzione è presente nell’organizzazione dell’esercito, a pro-
posito del quale il TP afferma che
dato che in questo tipo di stato non è da perseguirsi l’eguaglianza tra
tutti, ma soltanto tra i patrizi, e dato soprattutto che la potenza dei patri-
zi è maggiore di quella della plebe, non è certo di pertinenza delle leggi
ossia del diritto fondamentale dello stato lo stabilire che esso [sc. l’eserci-
to] sia formato di soli cittadini (ex ullis aliis, quam subditis). Ma è di pri-
maria necessità che non sia accolto tra i patrizi chi non abbia una buona
istruzione nell’arte militare129.

Gli strumenti istituzionali concepiti nella monarchia in fun-


zione dell’integrazione politica della cittadinanza diventano ora
monopolio della classe aristocratica, dal momento che l’ugua-
glianza va salvaguardata soltanto all’interno di essa; per questo
l’abilità militare è condizione necessaria affinché si possa essere
scelti tra i patrizi (che, pertanto, non possono eccellere solo nel-
le capacità mercantili, ma devono anche saper difendere i loro
possessi, e con questi l’intero paese), allo stesso modo in cui nel
regime monarchico l’aver prestato servizio nell’esercito era indi-
spensabile per entrare nel novero dei cittadini. Ad ogni modo,
per quanto sia meno pericoloso che in una monarchia disporre

127 Cfr. TP, cap. VIII, § 8, in Opera, III, p. 327 (trad. it. p. 159).
128 Cfr. ivi, § 3, p. 324 (trad. it. pp. 153-5).
129 Ivi, § 9, p. 327 (trad. it. p. 159). La traduzione italiana ha «cittadini» per subdi-

ti, mascherando così l’effettiva condizione politica di non nobili – che sono, appunto,
subditi, e non cives – in un’aristocrazia. Su questo paragrafo cfr. anche KLEVER, Krijg-
smacht en defensie in Spinoza’s politieke theorie, cit., pp. 161-4.
370 La libertà necessaria

di mercenari, Spinoza sostiene che «è tuttavia dissennato pre-


tendere, come fanno alcuni, di estromettere i cittadini [ancora
subditi] dall’esercito»130, essendo questi ultimi più motivati dei
mercenari a difendere la loro terra e le loro case; ma questo rap-
presenta un ulteriore segnale della contraddizione esistente tra
la forma costituzionale aristocratica che viene delineandosi e la
pretesa di fondo di escludere integralmente dal godimento dei
diritti di cittadinanza politica la moltitudine dei sudditi, poiché
gli interessi materiali esistenti – quali appunto emergono dalla
volontà dei sudditi di difendere il loro paese e le loro proprietà
– costituiscono, lo si voglia o meno, un vero e proprio legame,
fondato su una comunanza affettiva, tra i nobili ed il resto della
popolazione. Dell’esigenza di una maggiore partecipazione da
parte dei subditi alla cosa pubblica Spinoza sembra rendersi
conto anche quando afferma che i comandanti dell’esercito non
devono essere scelti solo tra i patrizi, poiché in tal modo si to-
glierebbe agli altri ogni speranza di ottenere una ricompensa o
un avanzamento sociale131; l’esercito diventa, in certo qual mo-
do, il banco di prova di un possibile processo di integrazione
della multitudo nella Civitas, che avvenga senza mutare i fonda-
menti costituzionali dell’imperium.
Un’attenta lettura merita anche il paragrafo successivo, dove
viene preso in esame il ruolo della proprietà immobile. Si tratta
di un aspetto estremamente delicato, poiché sarebbe assai ri-
schioso affiancare la privazione del diritto di cittadinanza politi-
ca con il divieto di possedere privatamente la terra: «infatti i
sudditi, non avendo alcun ruolo nello stato (qui nullam in impe-
rio partem habent), potrebbero nei momenti avversi, se fosse lo-
ro consentito di portare dove vogliono i beni di loro possesso,
abbandonare in massa la città. Perciò i campi e i fondi di que-
sto tipo di stato non vanno affittati, ma venduti»132. La proprie-
tà privata è qui permessa per la stessa ragione per cui è invece
proibita nelle monarchia, ossia per rafforzare la coesione inter-
na; nel regime aristocratico, infatti, essa funziona come un «sur-
rogato» dei diritti politici, dai quali i sudditi sono esclusi. Ri-
130 Cap. VIII, § 9, in Opera, III, p. 327 (trad. it. p. 159).
131 Cfr. ibid.
132 Ivi, § 10, p. 328 (trad. it. p. 163).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 371

considerando dunque le soluzioni proposte dal TP per l’orga-


nizzazione dell’esercito e la gestione della proprietà terriera, si
comprende come il progetto spinoziano di tenere la multitudo
separata dall’esercizio dell’imperium debba trovare un bilancia-
mento nell’incremento del benessere economico – di qui l’in-
troduzione della proprietà privata –, o nel soddisfacimento di
esigenze che riguardano il versante affettivo, quali l’aspirazione
alla gloria e agli onori in campo militare, in grado di promuove-
re l’avanzamento sociale. Sul piano della ricerca della migliore
costituzione aristocratica, tutto questo indica la necessità di
compensare la privazione della possibilità di esprimere la pro-
pria potenza direttamente nella gestione della cosa pubblica
con un ampliamento proporzionale dell’indipendenza economi-
ca e con un potenziamento adeguato della vita affettiva; non si
tratta semplicemente della concessione di una maggiore libertà
privata per i singoli individui, bensì della produzione di stru-
menti atti a rendere tutti i sudditi più autonomi (sui juris), e nel
contempo a legarli più strettamente al destino del regime politi-
co in cui vivono. Seppure implicitamente, il TP riconosce così
che la potenza collettiva della multitudo è comunque e inelimi-
nabilmente il principio su cui si radica ogni imperium.
A questo punto Spinoza avvia la seconda fase del suo pro-
getto costituzionale, volta al coinvolgimento attivo di tutti i
membri del partiziato alla cura della cosa pubblica. A tale sco-
po occorre instaurare dentro la classe degli ottimati un regime
integralmente democratico, la cui principale istituzione deve
essere il Consiglio Supremo (supremum Concilium), che è com-
posto da tutti i patrizi. Particolare rilevanza ha il corretto rap-
porto che deve sussistere tra costoro e il resto della popolazio-
ne, dal momento che «si deve cercare il modo per impedire che
lo stato finisca a poco a poco nelle mani di una minoranza, e
anzi per far sì che il numero dei consiglieri aumenti in ragione
dell’incremento dello stato medesimo»133, affinché «la potenza
dei patrizi, ovvero del consiglio, sia maggiore di quella del po-
polo (multitudinis), ma in modo tale che il popolo non abbia a
soffrirne alcun danno (sed ita, ut nihil inde multitudo detrimenti

133 Ivi, § 11, p. 328 (trad. it. p. 163).


372 La libertà necessaria

patiatur)»134. Che il pericolo di una diminuzione del numero


dei patrizi fosse percepito come un problema non da poco per
i governi delle municipalità olandesi è confermato dai De la
Court, che nelle Consideratien van Staat individuano tra i gran-
di difetti del regime aristocratico il rischio che esso si trasformi
in una Dominatio Paucorum, cioè che «i membri dell’assemblea
sovrana siano così pochi che, ottenendo anche solo sette o otto
voti, ci si può verosimilmente immaginare di poter far passare
una risoluzione secondo il proprio tornaconto immediato»135;
un rischio che, continua il testo, è ben presente nelle città d’O-
landa, le quali «si sono a tal punto ingrandite e a tal punto è
aumentato il numero degli abitanti, senza che i Consigli siano
stati ampliati, ma, al contrario, e contro ogni buona politica, in
alcune città si sono rimpiccioliti, cosicchè la sproporzione tra
governanti e sudditi è divenuta molto maggiore; e c’è da teme-
re che [...] questo governo di pochi uomini non potrà sostener-
si a lungo»136. Quando affronta il problema della giusta pro-
porzione numerica tra patrizi e popolo, Spinoza ha dunque
ben presente la situazione storica del suo paese, che già altri
autori avevano percepito come potenzialmente distruttiva; ma,
allorché sostiene la necessità di mantenere come rapporto mi-
nimo tra aristocrazia e multitudo quello di uno a cinquanta (os-
sia il 2%)137, egli esprime anche un’esigenza ulteriore rispetto a
quella di frenare il processo di oligarchizzazione del governo,

134 Ivi, p. 329 (trad. it. p. 163).


135 «De Leeden der souveraine vergaderinge zoo wenig zijn, datment, met zeven
ofte acht stemmen te winne, zig waarschijnelik kan inbeelden, een resolutie naar zijn
eige zinnelikheid te zullen konnen uytwerken» (Consideratien, cit., p. 290).
136 «Zoo zeer zijn vergroot, en in menschen oneindelik toegenomen, zonder dat de

Raaden zijn vermeerderd; jae ter contrarie teegen alle goede politie in verschiede Stee-
den zijn verminderd, zoo is die disproportie tusschen Regeerders en onderdaanen veel
grooter geworden; en is te vreden dat die [...] Heersching van wenig menschen niet zal
konnen werden lang gedragen» (ivi, p. 291).
137 HAITSMA-MULIER, The Myth of Venice and Dutch Republican Thought, cit., p.

187, individua nell’istituzione di questa proporzione un indebolimento dell’idea tradi-


zionale di aristocrazia, a ulteriore conferma della consonanza tra la riflessione spinozia-
na e quella dei De la Court, sulla base della comune adesione all’ideologia repubblica-
na olandese. Non a caso il rapporto di uno a cinquanta (o al massimo di uno a cento) è
considerato anche nei Politike Discoursen come ottimale per il buon funzionamento
della Repubblica (cfr. Politike Discoursen, cit., p. 381).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 373

cioè quella di favorire l’incremento di tale percentuale, per


mezzo di una cooptazione che non si limiti alle famiglie patri-
zie, ma che allarghi il campo su cui operare la selezione. Ri-
mangono esclusi dalla possibilità di venire integrati nel patri-
ziato solo coloro che non sono nati nel paese e che non ne par-
lano la lingua, quelli che hanno dei precedenti con la giustizia
(infames) e infine i servi (qui serviunt) o coloro che vivono di
un lavoro servile (servili aliquo officio vitam sustentant), nonché
i giovani che non hanno compiuto i trent’anni138.
I compiti del Consiglio Supremo sono quelli propri dell’or-
gano costituzionale che «esercita un diritto sovrano (qui supre-
mum jus habet)», ovvero «di promulgare e di abrogare le leggi,
e di eleggere i colleghi patrizi e tutti i funzionari dello stato»139.
Tali officia non possono essere delegati ad alcuno, pena la per-
dita del potere, «poiché uno che abbia anche per un solo gior-
no il potere di promulgare e di abrogare le leggi, può cambiare
completamente la forma dello stato»140. Il potere legislativo
spetta dunque al Consiglio nella sua globalità, e quindi a tutti i
membri del patriziato, né è possibile delegarlo a una parte del-
l’aristocrazia, poiché in tal modo entrerebbe in crisi la struttura
stessa dell’imperium, venendo a mancare la partecipazione uni-
versale ed egalitaria di tutti i nobili al governo. Il paragrafo
continua affermando che il Consiglio può, «conservando il
proprio diritto sovrano (retento supremo suo jure), affidare
temporaneamente ad altri, secondo norme stabilite, l’ammini-
strazione degli affari ordinari dello stato (quotidiana imperii ne-
gotia)»141: nasce così la carica di funzionaro pubblico, al servi-
zio dell’imperium, che comunque resta nettamente distinta dal
compito di legiferare, proprio di tutto il patriziato. Diverso è
invece il caso in cui al Consiglio venga preposto «un reggente o
principe, o a vita, come i Veneziani, o per un tempo convenuto,
come i Genovesi», poiché in tal mdo viene istituito un differen-
zale di potere all’interno del Consiglio stesso: «è davvero fuor

138 Cfr. TP, cap. VIII, §§ 14 e 15, in Opera, III, p. 330 (trad. it. p. 167). Sull’esclu-

sione dai diritti politici di queste categorie cfr. la nota 42 di questo capitolo.
139 Ivi, § 17, p. 331 (trad. it. p. 169).
140 Ibid.
141 Ibid.
374 La libertà necessaria

di dubbio che a questo modo ci si avvicina allo stato monarchi-


co e, per quanto possiamo congetturare dalle loro [sc. dei Ve-
neziani e dei Genovesi] storie, all’origine di questo sta il fatto
che prima della costituzione di tali consigli essi erano sottomes-
si a un capo, o a un doge, o a un re»142. In questa critica è certo
leggibile un esplicito rifiuto della tradizionale dottrina dell’ec-
cellenza dell’imperium mixtum, comune tra i sostenitori del
principe d’Orange (un’opposizione ancora più decisa di quella
presente nelle Consideratien van Staat, dove tra le forme di go-
verno misto la costituzione di Venezia era comunque lodata
per la sua stabilità143); ma, soprattutto, Spinoza si oppone a
ogni ipotesi di elezione di un capo a vita, quindi in primo luo-
go alla legittimità della carica di stadhouder, che costituisce una
forma mascherata di monarchia, ma forse anche alla politica
accentratrice di Johan De Witt, la quale reca con sé i difetti
propri di ogni gestione personalistica del potere.
Dalla storia cosituzionale di Venezia, appresa soprattutto at-
traverso al lettura delle Consideratien van Staat, Spinoza trae
comunque anche delle indicazioni positive: ad esempio, per
quanto riguarda l’elezione dei «funzionari dello stato (imperii
ministri)»144, che introduce inevitabilmente delle differenze –
per quanto non decisive – all’interno della classe di governo, il
miglior modo per salvaguardare a un tempo l’uguaglianza so-
stanziale di tutti i patrizi e per accelerare le pratiche consiste
nel metodo veneziano di trarre a sorte alcuni membri del Con-
siglio che debbano proporre delle nomine, le quali verranno
poi approvate dal resto del Consiglio segretamente tramite bal-
lottaggio, cioè attraverso la deposizione di palline (calculi) in
un’urna145. Tuttavia Spinoza è consapevole che nessun accorgi-
mento formale è sufficiente a mantenere l’uguaglianza e la coe-
sione nel Consiglio, e anzi neppure le leggi possono garantire
142 Ivi, § 18 (trad. it. p. 169).
143 Cfr. Consideratien, cit., pp. 316-49 (V libro: «Il governo aristocratico: la Repub-
blica di Venezia»), e inoltre p. 372 (libro VI: «Il governo misto»). Per un’analisi com-
parativa delle istituzioni politiche di Venezia e di Amsterdam cfr. P. BURKE, Venezia e
Amsterdam. Una storia comparata delle élite del XVII secolo, [1974], Transeuropa, An-
cona-Bologna, 1988.
144 TP, cap. VIII, § 27, in Opera, III, p. 334 (trad. it. p. 177).
145 Cfr. ibid.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 375

che i patrizi costituiscano «come un solo corpo governato da


un’unica mente (unum veluti corpus, quod una regitur mente)»,
e non piuttosto «un accozzaglia di massa informe (coetus...inor-
dinatae multitudinis)»146; nuovamente il termine multitudo – in
questo caso però una moltitudine «disordinata», ben altra cosa
rispetto all’integra multitudo che detiene il governo in una de-
mocrazia – indica un elemento di disturbo al corretto funziona-
mento della cosa pubblica, e perfino una minaccia potenziale al
Consiglio. Per evitare che quest’ultimo, anziché progredire nel-
l’unità e nell’armonia, si disgreghi sotto la spinta degli interessi
particolari, le leggi da sole non sono sufficienti, dal momento
che i «loro garanti (vindices) sono quelli stessi che le possono
trasgredire»147, ma occorre un’ulteriore forma di controllo. La
soluzione proposta da Spinoza non è originale, trovando un
precedente sia nell’istituzione dell’eforato in Althusius sia, sto-
ricamente, nel ruolo degli Zindicatori a Genova o degli Inquisi-
tori di Stato a Venezia:
nulla potrà essere più utile alla salvaguardia comune dell’istituire un
altro consiglio, subordinato a questo consiglio supremo, composto da pa-
trizi il cui unico compito consista nel controllare che le leggi dello stato
concernenti il consiglio e i funzionari dello stato rimangano inviolate: essi
dunque avranno il potere di convocare in giudizio e di condannare in ba-
se alle leggi stabilite qualunque funzionario dello stato reo di aver tra-
sgredito le leggi concernenti il suo ministero; questi da ora in poi li chia-
meremo Sindaci (Syndicos)148.

Spinoza non intende riprodurre lo schema dualistico althu-


siano, che vede nell’eforato un organo di rappresentanza del
popolo, posto di fronte al Sommo Magistrato per contenerne
l’azione entro i limiti determinati del suo ufficio149; infatti il
Consiglio Supremo detiene interamente e senza limiti esterni lo

146 Ivi, § 19, p. 331 (trad. it. p. 169). La traduzione italiana esagera, rispetto al testo

spinoziano, i tratti negativi dell’inordinata multitudo.


147 Ibid. (trad. it. p. 171).
148 Ivi, § 20, p. 332 (tr. it. p. 171).
149 Cfr. Johannes ALTHUSIUS, Politica metodice digesta atque exemplis sacris et profa-

nis illustrata, (Herborn 1603), ristampa anastatica della III edizione (1614), Scientia,
Aalen, 1981, cap. XVIII (De ephoris, eorumque officio, pp. 273-322); tr. it. parziale a
cura di D. Neri, Guida, Napoli, 1980, pp. 47-60.
376 La libertà necessaria

jus imperii, né i Sindaci possono costituire una sorta di contro-


potere esterno a esso. Pertanto tale controllo, se non vuole
mettere in pericolo l’assolutezza del principio sovrano, deve
nascere come un’articolazione interna e immanente di mecca-
nismi atti a bilanciare le spinte disgreganti e a produrre una
condotta razionale dell’imperium stesso. Si capisce allora l’af-
fermazione per cui «questi sindaci stanno rispetto ai patrizi co-
me la totalità dei patrizi sta al popolo»150, in quanto essi costi-
tuiscono, attraverso la funzione di controllori della legalità dei
comportamenti degli ottimati, il più forte collante del Consi-
glio, quindi in un certo senso il cuore stesso dell’imperium, la
radice della sua assolutezza. Questo è anche il motivo per cui
Spinoza si sofferma a descrivere lungamente le modalità di se-
lezione del consiglio dei Sindaci e le sue caratteristiche: elezio-
ne a vita dei membri, ma solo dopo il sessantesimo anno d’età,
solita proporzione di uno a cinquanta nei confronti del numero
complessivo dei patrizi, un contingente di forza pubblica a dis-
posizione, nonché un complicato sistema di emolumenti, tale
che «essi non possano amministrare la repubblica disonesta-
mente senza proprio grave danno»151, un sistema di votazione
per ballottaggio, e infine una serie di onori che li pongono al di
sopra degli altri patrizi, rendendoli anche maggiormente visibi-
li152. La ricerca di meccanismi legislativi adatti a coniugare l’in-
teresse personale dei Sindaci con quello pubblico si fa estrema-
mente sofisticata, e perfino ridondante, soprattutto nei con-
fronti di altre funzioni, analizzate assai meno dettagliatamente;
ma proprio questa insistenza quasi maniacale manifesta per
contrasto la debolezza strutturale del regime aristocratico, ori-
ginata dalla tendenza della classe nobiliare a ripiegare su se
stessa: la mancanza di un rinnovamento del corpo dirigente tra-
sforma l’aristocrazia in oligarchia, ponendola così al di fuori
della legge, poiché vengono a mancare le condizioni materiali
per un funzionamento adeguato del Consiglio. La netta distin-
zione tra cittadini (il patriziato) e sudditi (il resto della popola-
150 TP, cap. VIII, § 22, in Opera, III, p. 332 (trad. it. p. 171).
151 Ivi, § 24, p. 332 (trad. it. p. 173)
152 Alla descrizione dei compiti dei Sindaci Spinoza dedica ben 8 paragrafi; cfr. ivi,

§§ 21-28, pp. 332-5 (trad. it. pp. 171-9).


VII. L’evoluzione dei regimi politici 377

zione), che per Spinoza è la principale garanzia della stabilità


dell’imperium, si muta nella contrapposizione tra aristocrazia e
multitudo, che, introducendo un’inimicizia radicale, spezza l’u-
nità della Civitas.
Nonostante le evidenti difficoltà che emergono a ogni tenta-
tivo di rafforzare l’assolutezza del potere aristocratico, il TP
continua nella sua opera costituzionale, passando a descrivere
una nuova istituzione, il Senato. Si tratta di un’assemblea mino-
re, composta da circa un dodicesimo dei patrizi, i quali per ve-
nire eletti devono aver compiuto il cinquantesimo anno d’età;
la carica ha la durata di un anno, in modo che «i patrizi abbia-
no tutti pari opportunità di accesso all’ordine senatorio»153,
non diversamente da quanto accade in una monarchia, dove
ciascun cittadino nutre la speranza di entrare nel consiglio del
re. Ancora una volta, un affetto positivo – in questo caso l’am-
bizione di gloria – serve ad equilibrarne uno negativo – cioè
l’invidia nei confronti di chi detiene una carica ambita – che
potrebbe produrre tensioni all’interno del patriziato. Le fun-
zioni del Senato vengono così specificate:
trattare gli affari pubblici (publica negotia agere), ossia, per esempio,
di promulgare le leggi dello stato, di disporre secondo le leggi le fortifica-
zioni urbane, conferire i titoli all’esercito, imporre i tributi ai sudditi e al-
locarli, rispondere agli ambasciatori stranieri e decidere dove mandare
ambasciatori154.

La distinzione tra i compiti del Senato e quelli del Consiglio


Supremo è stata interpretata da alcuni studiosi come una forma
originaria del principio della divisione dei poteri: il Senato
svolgerebbe quindi la funzione di organo esecutivo, mentre il
potere legislativo spetterebbe all’assemblea di tutti i patrizi155.

153 Ivi, § 30, p. 336 (trad. it. p. 181).


154 Ivi, § 29, p. 335 (trad. it. p. 179).
155 Così ad esempio HADDAD-CHAMAKH, Philosophie systématique, cit., pp. 375 e

379; ma si veda anche MATHERON, Individu et communauté chez Spinoza, cit., pp. 484-
5. Di contro HAITSMA-MULIER, The Myth of Venice and Dutch Republican Thought, cit.,
p. 196, sottolinea come un’assemblea delle dimensioni del Consiglio Supremo non pos-
sa costituire l’organo legislativo ‘normale’, ma debba piuttosto limitarsi alle leggi costi-
tuzionali e a indicazioni di carattere generale, oltre che a decidere nei casi eccezionali
– prerogativa sovrana per eccellenza –, come ad esempio della guerra e della pace.
378 La libertà necessaria

Quel che è certo è che per Spinoza occorre soddisfare entram-


bi i principi fondamentali di ogni imperium, ovvero il massimo
ampliamento della consultazione, che è condizione necessaria
affinché si pervenga a decisioni razionali, e la rapidità decisio-
nale, che sembra poter nascere solo limitando la partecipazione
politica. A questa duplice esigenza rispondono le due principa-
li istituzioni del regime aristocratico: il Consiglio Supremo,
composto da tutti i patrizi, che deve elaborare le linee direttive
della conduzione politica, e il Senato, che invece deve sbrigare
gli affari quotidiani con la massima solerzia, pur senza uscire
dall’ambito dei principi generali sanciti dall’assemblea legislati-
va (in realtà il numero dei senatori sarebbe troppo elevato per
un processo decisionale rapido, cosicché Spinoza prevede una
rotazione durante l’anno dei suoi membri divisi in quattro o sei
ordini156). In tal modo, più che istituire il controllo reciproco e
la reciproca indipendenza degli organi politici, princípi che co-
stituiscono il fondamento teorico della divisione dei poteri157,
Spinoza cerca di armonizzare un criterio quantitativo di tipo
democratico, mirante a rafforzare l’uguaglianza tra i membri
dell’aristocrazia, con uno qualitativo, in grado di tradurre in
decisioni concrete la razionalità che emerge dalla discussione
generale. Si spiega così anche la creazione di un’altra figura
istituzionale, quello dei Consoli, ai quali spetta di organizzare
l’attività senatoriale. Il potere che tale carica mette a disposizio-
ne di chi la ottiene giustifica l’attenzione da parte di Spinoza a
evitare ogni possibilità di corruzione, e soprattutto ad assogget-
tare il loro ruolo a una procedura molto scrupolosa, privandolo
di ogni discrezionalità158. Il parallelismo con la funzione del
raadpensionaris negli Stati d’Olanda, la cui genericità aveva
aperto la strada al dominio personale di Johan De Witt, risalta

156 Cfr. TP, cap. VIII, § 34, in Opera, III, p. 338 (trad. it. pp. 185-7). Sulla volontà

di Spinoza di coniugare rappresentatività ed efficacia cfr. PEÑA ECHEVERRIA, La filoso-


fía política de Espinosa, cit., p. 310.
157 A questo proposito cfr. W. SACKSTEDER, Spinoza on Democracy, in Spinoza. Es-

says in interpretation, a cura di M. Mandelbaum e E. Freeman, Open Court, La Salle


(Illinois), 1975, pp. 117-38, che individua nella descrizione spinoziana degli organi po-
litici dell’aristocrazia un sistema di checks and balances, le cui linee teoriche sono rin-
tracciabili anche nella Costituzione degli Stati Uniti d’America (cfr. nota 5, pp. 137-8).
158 Cfr. TP, cap. VIII, §§ 34-6, in Opera, III, pp. 338-40 (trad. it. pp. 185-91).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 379

immediatamente agli occhi.


Resta da considerare l’organizzazione del potere giuridico,
che deve essere completamente differente da quella esistente in
una monarchia; infatti
non si addice ai principi costitutivi di questo tipo di stato che si tenga
conto delle discendenze, ossia delle famiglie. Inoltre dei giudici eletti tra
i soli patrizi, per timore dei patrizi loro successori, potrebbero sì astener-
si dall’emettere contro qualcuno di loro un’ingiusta sentenza, e forse non
oserebbero neppure punirli meritatamente, ma non avrebbero ritegno
alcuno nei confronti dei plebei e saccheggerebbero di continuo quelli
ricchi159.

Si ripropone il pericolo che la distinzione tra plebeii e patri-


cii produca una spaccatura insanabile, a causa dell’eccessivo
potere di questi ultimi e dell’assenza di un’adeguata difesa per i
primi, al punto che il rispetto dei diritti individuali finisce per
essere determinato dall’appartenenza a una o all’altra classe.
D’altra parte, nonostante Spinoza riconosca la minaccia impli-
cita nella provenienza esclusiva dei giudici dal patriziato, tale
soluzione sembra essere obbligata, se non si vuole stravolgere il
fondamento del regime aristocratico, in base al quale ogni po-
tere deve restare nelle mani dell’aristocrazia. L’unico modo per
evitare la nascita di un conflitto interno consiste nel moltiplica-
re le forme di controllo dell’elezione e dell’azione dei giudici
stessi; per questo il TP sottolinea nuovamente l’importanza del
ruolo dei Sindaci, i quali devono controllare che le sentenze dei
giudici siano emesse «nell’osservanza delle procedure e senza
parzialità (servato ordine, et absque partium studio)»160, e so-
prattutto devono istituire un tribunale d’appello al quale pos-
sano ricorrere i plebei, per i quali dovrà essere «garanzia suffi-
ciente la facoltà ad essi accordata di appellarsi ai sindaci ai qua-
li, come ho detto, la legge dà facoltà di indagare, giudicare e
decidere»161. In tal modo si crea una forma di solidarietà tra il
consiglio degli anziani e la multitudo dei non aristocratici, tale
per cui «i sindaci non potranno evitare l’ostilità (odium) di

159 Ivi, § 37, pp. 340-1 (trad. it. p. 191).


160 Ivi, § 40, p. 342 (trad. it. p. 195).
161 Ivi, § 41, p. 343 (trad. it. p. 195).
380 La libertà necessaria

molti patrizi, e [...] viceversa saranno sempre molto ben visti


dalla plebe, della quale si sforzeranno più che potranno di con-
quistare l’applauso»162. Questo legame di interessi, ancora una
volta prodottosi sul piano affettivo piuttosto che su quello ra-
zionale, se da un lato intacca la coesione interna alla classe dei
nobili, contravvenendo al principio della necessaria unità del
patriziato, dall’altro tuttavia ha un’importanza decisiva per il
mantenimento dell’equilibrio tra le classi; come se, nonostante
tutte le affermazioni precedenti, Spinoza si rendesse conto del
fatto che il rapporto tra governanti e popolazione è in realtà
quello fondamentale per la sopravvivenza dello Stato.
Non è dunque casuale che, poco più avanti, emerga un altro
aspetto in cui i membri della plebs giocano un ruolo estrema-
mente importante e delicato per l’equilibrio interno dell’impe-
rium:
I segretari di ognuno dei consigli, e gli altri funzionari affini, non
avendo diritto di voto, vanno scelti tra la plebe. Ma avendo essi, per la
continua pratica amministrativa, grandissima competenza sulle questioni
da affrontare, accade spesso che ci si affidi al loro parere più di quanto
non sia il caso, e che le sorti dell’intero stato intero dipendano soprattut-
to dalle loro direttive: la cosa è stata esiziale per gli Olandesi163.

Questo brano ha un preciso riferimento polemico all’interno


delle vicende olandesi, ovvero l’uso strumentale delle cariche
pubbliche da parte di Johan De Witt, il quale, per aumentare il
proprio potere personale a scapito delle altre famiglie dei re-
genten, non aveva esitato a concedere a elementi della plebe
delle responsabilità politiche, contravvenendo al principio per
cui la multitudo deve essere esclusa dal governo della cosa pub-
blica, pena la nascita tra i patrizi di un «grave risentimento
(multa...invidia)»164 (ed è noto che proprio l’invidia rappresen-
ta una delle minacce maggiori all’unità del Consiglio Supremo
e quindi alla coesione complessiva della classe di governo).
L’accusa del TP al raadpensionaris è di aver voluto trasformare
il sistema politico olandese in una ‘monarchia mascherata’, pri-

162 Ibid.
163 Ivi, § 44, p. 344 (trad. it. pp. 197-9).
164 TP, cap. VIII, § 44, in Opera, III, p. 344 (trad. it. p. 199).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 381

va cioè di ogni trasparenza165, esasperando a tale scopo la con-


trapposizione tra regenten e sudditi, anziché cercare di raggiun-
gere un equilibrio fra i due gruppi. Tuttavia sarebbe errato at-
tribuire tutta la responsabilità del fallimento del progetto della
«repubblica senza stadhouder» a un singolo individuo e alla sua
ambizione di gloria personale; questa è infatti soltanto una
componente di un problema più ampio, che riguarda la totalità
della cittadinanza e la solidità delle basi dell’imperium, come ri-
conosce implicitamente lo stesso Spinoza:
la difesa della libertà di uno stato che abbia delle fondamenta poco
solide non è mai esente da pericoli, e i patrizi, per sottrarvisi, scelgono tra
i plebei dei funzionari ambiziosi di gloria, che poi al mutare del vento
vengono immolati come vittime sacrificali per placare le ire di coloro che
tramano contro la libertà. Ma là dove le fondamenta della libertà sono
ben salde, sono i patrizi stessi a reclamare per sé la gloria della sua difesa,
e s’impegnano a far sì che la saggezza nell’affrontare le cose dipenda sol-
tanto dal loro orientamento166.

Se talvolta la libertà di una collettività finisce per dipendere


dalle decisioni di un unico uomo, questo accade, più che per
l’eccezionale abilità di quell’individuo – che comunque non è
mai tale da superare la potentia multitudinis –, per la mancanza
di firma fundamenta dell’imperium, ovvero di un sistema costi-
tuzionale capace di esprimere adeguatamente nelle leggi la po-
tenza costituente della cittadinanza. Spinoza ribadisce che le
«solide basi» del regime aristocratico si trovano nei due princi-
pi più volte sottolineati, l’esclusione della plebs dal governo e la
centralità dei Consoli nella gestione dei lavori del Senato; la lo-
ro funzione non è però semplicemente quella di formalizzare in
procedure determinate i gradi del processo decisionale, quanto
piuttosto di incrementare lo sviluppo di affetti positivi – in par-
ticolare la gloria, cioè il desiderio di partecipare attivamente al
governo – nei cittadini. Le istituzioni giocano quindi un ruolo
formativo, poiché rafforzano lo sviluppo della virtù civica167, a
165 Si ricordi come, similmente, Spinoza individui tra i maggiori rischi dell’impe-

rium monarchicum la tendenza a trasformarsi in un’«aristocrazia nascosta» (cfr. il par. 1,


pp. 337).
166 TP, cap. VIII, § 44, in Opera, III, p. 344 (trad. it. p. 199).
167 Chi insiste sull’importanza della virtus come elemento integratore delle istitu-
382 La libertà necessaria

scapito delle passioni individualizzanti.


Tuttavia l’opera di consolidamento affettivo non può limitar-
si ai membri dell’aristocrazia, pena la nascita di una cesura in-
colmabile all’interno di quegli jura communia che riguardano
necessariamente l’intera popolazione; sebbene quindi il gover-
no della cosa pubblica rimanga interamente nelle mani dei pa-
trizi, sarà comunque necessario affiancarlo e sostenerlo attra-
verso la produzione di più profondi legami tra governanti e
sudditi, sia all’interno delle istituzioni, sia al di fuori di esse, in
modo da costruire la massima uniformità possibile nelle condi-
zioni materiali di tutti gli abitanti, affinché ognuno continui a
desiderare di vivere in questo regime. Altri due esempi testimo-
niano del tentativo di affiancare al principio della netta distin-
zione tra patrizi e plebei alcuni interventi legislativi miranti a
generare una solidarietà affettiva tra i due gruppi: in primo luo-
go l’organizzazione fiscale, che tocca l’interesse concreto degli
abitanti; in secondo luogo la religione, che concerne invece l’a-
spetto ideologico. Per quanto riguarda la politica fiscale, Spi-
noza dichiara di preferire il prelievo indiretto, condotto attra-
verso l’imposizione di dazi (vectigalia) sulle merci in transito,
che i commercianti devono pagare all’erario168. Dello stesso av-
viso circa la necessità di tassare le merci che giungono sul terri-
torio olandese, senza fare distinzione se il commerciante è stra-
niero o meno, è Pieter De la Court, il quale nell’Aanwysing si
oppone a ogni politica protezionistica, che sarebbe deleteria in
primo luogo per l’Olanda, e avanza un progetto di doppia tas-
sazione, da applicarsi sia sul commercio, sia sulla persona fisica
di tutti gli abitanti; in realtà, per questa secondo livello fiscale,
sorgono immediatamente enormi difficoltà, che spingono De la
Court a esentare dal prelievo gli individui meno controllabili
– cioè i più potenti –, e a privilegiare quelli che procurano la
maggior ricchezza al paese – quindi i più benestanti169. Invece
nei Politike Discoursen viene sottolineata la preferibilità delle

zioni politiche, sottolineando gli aspetti originali della riflessione spinoziana, è F.J. PE-
ÑA ECHEVERRIA, Virtudes cívicas y democracia en Espinosa, in La Ética de Spinoza. Fun-
damentos y significado, cit., pp. 427-35.
168 Cfr. TP, cap. IX, § 8, in Opera, III, p. 350 (trad. it. p. 213).
169 Cfr. Aanwysing, cit., cap. XXIV, in particolare pp. 106-8.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 383

imposte sui consumi (Imposten en Accijsen op de Consump-


tien), dal momento che questi ultimi sono per lo più diretti
«non alla necessità, bensì al piacere ed al lusso»170, rispetto alla
tassazione diretta (Schattingen) e al dazio doganale (Tollen):
dopo una lunga premessa antropologica che esalta il naturale
desiderio dell’uomo di arricchirsi, il testo conclude che, essen-
do «impossibile proteggere il paese, tassando esclusivamente i
ricchi»171, si devono realisticamente tassare i consumi, in modo
da colpire tutte le classi senza distinzione172.
Spinoza non abbraccia l’ideologia plutocratica dei De la Co-
urt, che tende a far coincidere l’interesse comune con quello
delle classi più abbienti, e anzi dichiara fermamente che i patri-
zi e i senatori, qualora esercitino il commercio, non devono in
alcun modo essere esentati dai pagamenti. Il denaro accumula-
to servirà poi in larga parte a pagare gli alti stipendi previsti per
gli stessi i senatori e per i Sindaci, cosicché costoro, venendo ri-
compensati in proporzione alla fortuna economica del paese,
saranno maggiormente legati alla sua prosperità, e cercheranno
di evitare il più possibile guerre non necessarie173. La pesantez-
za di questo prelievo fiscale è quindi pienamente giustificata, a
differenza di quanto accade nelle monarchie, dove le tasse ser-
vono a pagare le spese di corte e a finanziare guerre dannose
per l’interesse dei cittadini; tanto più che «i re e i loro funzio-
nari non condividono con i sudditi gli oneri dello stato, come
invece accade in questo caso; infatti i patrizi, che sono sempre
scelti tra i più ricchi, sostengono la parte maggiore delle spese
della repubblica»174. Allontanandosi dalle tesi di Pieter De la
Court, Spinoza riconosce così l’importanza di una politica fi-
scale egalitaria, al fine di evitare che sorga del malanimo tra la
popolazione nei confronti di chi la governa: l’uguale sottomis-
sione di tutti gli abitanti alle medesime regole, nonché la tra-
sparenza della gestione del denaro (infatti «i costi dello stato

170 «Niet ter nood, maar uit vermaakt en pragt» (Politike Discoursen, cit., p. 14).
171 «Het is onmogelijk het land te beschermen, met de rijken alleen te belasten»
(ivi, p. 157).
172 Cfr. ivi, pp. 157-8.
173 Cfr. TP, cap. VIII, § 31, in Opera, III, pp. 336-8 (trad. it. pp. 181-3).
174 Ivi, p. 337 (tr. it. p. 183).
384 La libertà necessaria

monarchico sono determinati non tanto dalle spese regali,


quanto dalle attività segrete (ex ejusdem arcanis oriuntur)»175
diventa uno strumento di libertà, poiché ognuno può control-
lare che in tal modo si difenda l’utile comune. L’analisi del si-
stema fiscale è l’occasione per sottolineare, ancora una volta, la
grande differenza tra una Civitas libera, dove, per usare la fa-
mosa definizione del XVI capitolo del TTP, i subditi obbeden-
do all’autorità non ne vengono oppressi, perché seguono i det-
tami della ragione, e una in cui invece regna la schiavitù, pro-
pria dei governi monarchici (ma sarebbe meglio dire tirannici)
che, seguendo una politica aggressiva e militaresca, fanno esat-
tamente il contrario di ciò che sarebbe bene per i suoi cittadini.
A tale proposito il riferimento all’opera dell’ «autorevolissimo
olandese Van Hove (prudentissimus Belga V. H.)»176, cioè dei
soliti De la Court (Van den Hove è infatti la versione in lingua
olandese del loro cognome) sottolinea l’adesione da parte di
Spinoza all’ideologia pacifista del repubblicanesimo olandese,
in opposizione sia al repubblicanesimo inglese di martice puri-
tana, sia al mercantilismo proprio delle monarchie assolute177.
L’ultimo argomento trattato riguarda l’organizzazione del
culto in un regime aristocratico; Spinoza si ricollega esplicita-
mente al TTP, aggiungendo però una novità fondamentale:
tutti i patrizi devono essere della stessa religione, la più semplice e la
più universale (sumplicissimae scilicet, et maxime Catholicae), quale l’ab-
biamo descritta nel Trattato medesimo. La prima preoccupazione è infat-
ti che i patrizi non si dividano in sètte, sostenendo gli uni questa, gli altri
quest’altra, e poi che non tentino, presi da superstizione, di privare i sud-
diti della libertà di dire quello che pensano178.

La libertà di culto rimane un punto fermo, alla quale non si


contrappone l’esigenza di una religione comune a tutti i patrizi,
dotata del massimo grado di universalità179, e capace pertanto

175 Ibid.
176 Ivi, p. 338 (trad. it. p. 185).
177 Sull’esistenza di due tradizioni differenti del repubblicanesimo moderno insiste

M. GEUNA, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinui-


tà concettuali, in «Filosofia politica», XII, 1998, pp. 101-32.
178 TP, cap. VIII, § 46, in Opera, III, p. 345 (trad. it. p. 201).
179 Il riferimento è chiaramente ai dogmi di quel credo minimum elencati al capito-
VII. L’evoluzione dei regimi politici 385

di suscitare negli individui una profonda tolleranza verso le al-


tre religioni, di modo che l’esistenza di un’unica fede per tutti i
membri dell’aristocrazia non limita, ma anzi rafforza la libertà
di tutti gli altri «dicendi ea, quae sentiunt». Ma vi è anche un
altro motivo che spinge Spinoza ad auspicare l’unità religiosa,
forse ancora più importante perché legato alla preservazione
dell’unità politica all’interno dell’aristocrazia: infatti la fede co-
mune non solo garantisce il pluralismo, ma, istituendo una sor-
ta di religione civile, simile a quella del popolo ebraico, raffor-
za il sentimento di solidarietà tra gli ottimati. Si capisce allora
perché all’universalità dei dogmi corrisponda necessariamente
una particolare attenzione agli aspetti esteriori del culto, ad
esempio alla costruzione dei templi per la religione di stato (la
patriae Religio), che devono eccellere per sfarzo e maestosità ri-
spetto alle chiese della altre confessioni; e si comprende altresì
il monopolio che spetta alla nobiltà nell’esercizio del culto
(«soltanto i patrizi possano battezzare, consacrare il matrimo-
nio, imporre le mani e in senso generale siano riconosciuti co-
me sacerdoti dei templi, garanti e interpreti della religione del-
la patria»180). Pur senza voler prevaricare le altre fedi, Spinoza
concepisce la religione dell’aristocrazia, proprio per la sua na-
tura universale, come il collante tra i membri dell’imperium,
compresa dunque la popolazione non nobile, e per tale ragione
egli ripropone a questa altezza gli stessi strumenti individuati
nel TTP per indurre gli animi all’obbedienza, operando sulla
dimensione immaginativa, e per preservare di conseguenza la
pace e la concordia interna181.
La differenza tra la prospettiva spinoziana sul ruolo dell’i-
deologia religiosa e quella presente nei Politike Discoursen, già

lo XIV del TTP, dove si legge che «alla fede cattolica, ossia universale (ad fidem catho-
licam, sive universalem), non appartengono dogmi intorno ai quali possa nascere tra gli
uomini onesti qualche controversia» (Opera, III, p. 177; trad. it. p. 348).
180 TP, cap. VIII, § 46, in Opera, III, p. 345 trad. it. p. 201).
181 Cfr. FRANCÉS, La liberté politique selon Spinoza, cit., p. 333, che sottolinea l’im-

portanza politica della consegna dei riti religiosi nelle mani dell’aristocrazia, afferman-
do che in queste pagine Spinoza traccia le linee direttive della migliore organizzazione
religiosa possibile; diversa è invece la lettura di HADDAD-CHAMAKH, Philosophie systé-
matique, cit., p. 391, la quale addebita piuttosto alla strutturale fragilità dell’imperium
aristocraticum l’eccessiva complessità della trattazione spinoziana intorno alla religione.
386 La libertà necessaria

rilevata durante la discussione intorno all’imperium monarchi-


cum, riappare prepotentemente; se anche nell’opera dei De la
Court il valore politico della religione è evidente, tuttavia la sua
rilevanza è interamente negativa, in quanto essa agisce esclusi-
vamente come katechon, forza che trattiene le passioni antipoli-
tiche degli individui per mezzo della paura della punizione di-
vina. Di contro il TP, in consonanza con il TTP e con i presup-
posti antropologici dell’Etica, non rinuncia a pensare alla possi-
bilità di una transizione immanente degli affetti verso la razio-
nalità, all’interno della quale la religione riveste un ruolo cen-
trale. Per questo nell’imperium aristocraticum l’indifferenza del
potere politico nei confronti del pluralismo religioso, che in un
regime monarchico appare la situazione ideale, cede il passo a
un intervento pubblico – per quanto non coercitivo, e quindi
sempre rispettoso della libertà di coscienza – mirante a costrui-
re una fede comune compatibile con gli ingenia dei singoli, ma
in grado anche di segnare l’avvio di un processo di partecipa-
zione, e quindi di democratizzazione, della vita collettiva182.

5. Dopo il 1672: una democratizzazione possibile


Con l’analisi delle istituzioni religiose si conclude (in realtà
restano alcuni brevi accenni all’abbigliamento e al comporta-
mento dei partizi, e un’accalorata difesa della libertà di insegna-
mento nelle pubbliche università183) la trattazione dei fonda-
menti del regime aristocratico in una sola città. Ma l’attenzione
alla realtà politica nella quale vive impone a Spinoza di prende-
re in considerazione anche quella particolare forma di aristocra-
zia che nasce dalla federazione di più città, dove il potere politi-
co è disperso in una pluralità di centri, e tutti i municipi «godo-
no del diritto di cittadinanza [civitatis jus]»184. Questo modello
pone un problema nuovo, per la necessità di mediare tra le li-
182 Nel saggio Spinoza: la pratique et la politique, in «Nouvelle Critique», CX, 1978,

pp. 61-8, J.M. Gabaude afferma che più uno Stato tende ad essere democratico, più es-
so trae vantaggio dal subordinare al potere politico la religione; affermazione che rico-
nosce implicitamente il peso decisivo della religione nella costituzione dell’imperium
democraticum.
183 Cfr. TP, cap. VIII, §§ 47 e 49, in Opera, III, pp. 345-6 (trad. it. pp. 201-3).
184 Cap. IX, § 2, in Opera, III, p. 346 (trad. it. p. 205).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 387

bertà cittadine e l’unità dell’imperium; infatti, affinché la poten-


za di ogni città, che «costituisce una gran parte della potenza
dello stato»185, non comprometta l’unità politica, è necessario
che vengano rafforzate le istituzioni centrali dell’imperium, ov-
vero il Senato e il foro – di cui si parlerà più avanti –, lasciando
comunque che ogni città resti per quanto è possibile sui juris186.
Attraverso la considerazione in parallelo dei rapporti esistenti
tra l’imperium da un lato e, dall’altro, il singolo cittadino o la
città federata, Spinoza cerca di dare forma costituzionale a un
corretto equilibrio tra autonomia dell’elemento singolare – che
deve restare sui juris, ma solo quantum fieri potest, poiché non
può esservi piena autonomia per chi partecipa di un diritto co-
mune – e carattere unitario della potenza collettiva, la quale
rende sì i suoi membri – individui o città che siano – alterius ju-
ris, ma solo in relazione al diritto della società alla quale an-
ch’essi appartengono. La principale differenza tra il municipio e
il cittadino consiste nel fatto che per il primo è impossibile scio-
gliere interamente il suo jus in quello dell’imperium – come in-
vece accade per i singoli individui, la cui potenza nei confronti
di quella dello Stato è pressoché nulla –, e da questo deriva la
necessità di alcuni accorgimenti costituzionali, che differenziano
un’aristocrazia federale da una centralizzata. In primo luogo, il
numero dei patrizi in ciascuna città deve essere proporzionale
alla sua dimensione, e la medesima proporzione deve sussistere
tra la suddivisione della spesa publica e la ricchezza di ciascuna
città187; in secondo luogo, il Consiglio Supremo perde la sua
centralità, a favore di una maggiore rilevanza del Senato da un
lato, e dei Consigli cittadini dall’altro. In particolare, il Senato
assumerà su di sé la totalità dell’attività legislativa, fatta esclusio-
ne per gli interventi di modifica costituzionale188, mentre i Con-
sigli municipali manterranno «il potere sovrano (summam...po-
testatem) di erigere le fortificazioni, di ampliare la cinta muraria,
di imporre i dazi, di promulgare e abrogare le leggi, e in senso
generale di fare tutte quelle cose che giudicano necessarie alla
185 Ivi, § 4, p. 347 (trad. it. p. 207).
186 Cfr. ivi, p. 348 (trad. it. p. 207).
187 Cfr. ivi, §§ 5 e 8, pp. 348-50 (trad. it. pp. 209 e 213).
188 Cfr. ivi, § 6, p. 348 (trad. it. pp. 209-11).
388 La libertà necessaria

manutenzione e allo sviluppo della loro città»189.


Spinoza insiste sulla superiorità di questo sistema decentrato
sulla base, ancora una volta, delle caratteristiche proprie del-
l’affettività umana:
i patrizi di ciascuna città, per l’avidità che è propria degli uomini (mo-
re humanae cupidinis), cercheranno di conservare e, se è possibile, di au-
mentare il proprio diritto tanto nella città, quanto nel senato; e dunque
tenteranno, per quanto possibile, di tirare il popolo dalla propria parte
(multitudinem ad se trahere), e quindi di gestire lo stato con l’offrire be-
nefici piuttosto che con l’intimorire; e cercheranno di aumentare il pro-
prio numero, poiché quanti più saranno, tanti più senatori eleggeranno
dal proprio consiglio (per l’articolo 6 di questo capitolo), e di conseguen-
za (per lo stesso articolo) avranno più diritto nello stato190.

Queste affermazioni non modificano il quadro delineato nel


capitolo precedente, poiché il principio ispiratore del nuovo
Stato rimane la necessità di istituire tra multitudo e patricii del-
le relazioni ispirate alla reciproca fiducia e benevolenza, anzi-
ché sul timore e sull’incomprensione; si aggiunga ora che la no-
biltà cittadina, interessata a incrementare la propria influenza
all’interno del Senato, che è il principale organo legislativo, è
avvantaggiata dall’aumento numerico dei propri membri, e per
questo favorisce l’incremento della popolazione e garantisce il
mantenimento della proporzione ottimale del 2% tra patrizi e
plebei. Spinoza rintraccia quindi nella parcellizzazione e nel
decentramento del governo un aspetto di forza dell’imperium,
e non una sua debolezza, sottolineando come la federazione
permetta una maggiore coesione tra i cittadini, e glissando sulla
ipotetica minaccia per l’unità politica che essa comporterebbe.
Infatti eventuali momenti conflittuali nella dialettica tra le città
e il potere centrale, che tenderebbero a dilatare i tempi delle
decisioni, costituiscono un pericolo irrilevante rispetto agli ef-
fetti positivi, e in particolare all’aumento della partecipazione
collettiva ai processi costituenti:
poiché se è vero che, mentre i Romani deliberano Sagunto cade, è vero
d’altro canto che, laddove pochi decidono tutto sotto i propri impulsi

189 Ivi, § 5, p. 348 (trad. it. p. 209).


190 Ivi, § 14, pp. 351-2 (trad. it. p. 217).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 389

passionali (ex solo suo affectu), cadono la libertà e il bene comune: troppo
limitati sono gli ingegni umani, perché possano capire tutto subito; ma
consultandosi, ascoltando, discutendo, si aguzzano, e a forza di tentare
tutte le vie finiscono per trovare la soluzione cercata, da tutti condivisa191.

Per Spinoza il limite del dominio oligarchico non consiste


tanto nel fatto che chi governa sia trascinato dalle passioni, co-
me sembra indicare la traduzione citata, quanto piuttosto nel
fatto che troppo pochi sono gli affetti in gioco perché si possa
produrre, dal loro interrelarsi (consulendo, audiendo et dispu-
tando), un esito virtuoso, cioè razionale. Una simile conclusio-
ne può essere letta in riferimento alla situazione politica olan-
dese, e in particolare alla fine violenta dell’egemonia di Johan
De Witt nel 1672; essa sembra invitare a interpretare la tragica
vicenda con uno sguardo nuovo, che non si limiti a imputare
alla peculiare struttura politica dell’Olanda l’assenza di un cen-
tro decisionale forte, in grado di resistere tanto agli attacchi
delle potenze straniere, quanto alle minacce interne da parte di
Willem III. Da questa consapevolezza Spinoza trae lo spunto
per una riflessione che investe l’intero capitolo X, dedicato alle
cause della decadenza dei governi aristocratici, ma implicita-
mente inteso a rispondere a una questione più determinata, os-
sia comprendere quali motivi abbiano condotto il partito dei
regenten alla perdita del controllo della situazione politica,
mettendo a rischio l’indipendenza del proprio paese192. L’im-
portanza di questa nuova tematica è sottolineata dalla chiamata
in causa dell’«acutissimo scrittore fiorentino» Niccolò Machia-
velli, già riconosciuto come strenuo difensore della libertà re-
pubblicana, il quale, nel III capitolo del I libro dei Discorsi so-
pra la prima deca di Tito Livio, afferma che
allo stato, come al corpo umano, ‘incessantemente si aggiunge qualco-

191 Ibid.
192 MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de Spinoza, cit., p. 236, sostiene che
Spinoza sovrastima i fatti del 1672, dal momento che anche dopo l’assassinio di De
Witt l’aristocrazia olandese seppe mantenere in vita i suoi interessi fondamentali. Tale
giudizio, tuttavia, manca di rilevare come la fine del regime senza stadhouder segni l’av-
vio di un processo, lento ma irreversibile, di decadenza della classe dei regenten; ma, so-
prattutto, esso prescinde dal valore che Spinoza assegna, in teoria come nella pratica, al
regime aristocratico nel processo di democraticizzazione della vita politica di un paese.
390 La libertà necessaria

sa, che di quando in quando ha bisogno d’esser curato’; è dunque neces-


sario, dice, che di quando in quando accada per gli stati qualcosa da ‘ri-
durgli verso e’ principi suoi’193.

Il significato che Spinoza attribuisce a questa affermazione


può essere ricostruito sulla base della descrizione della genesi
dell’aristocrazia sviluppata nel capitolo precedente. L’imperium
aristocraticum nasce infatti dall’evoluzione di un regime demo-
cratico originario che in un certo momento, sotto la pressione
di una forte immigrazione, decide di difendere gli interessi del-
le famiglie più antiche sospendendo la concessione della citta-
dinanza ai nuovi arrivati, e provocando così quella distinzione
tra patriziato e multitudo che costituisce l’essenza dell’impe-
rium aristocraticum (e anche, in un certo senso, il suo limite
strutturale)194. Ma questo significa che il principium al quale
occorre di tempo in tempo ritornare equivale al fondamento
sul quale l’imperium si regge, ovvero ai dettami costituzionali
che permettono il mantenimento dell’equilibrio interno tra le
diverse classi della popolazione, e che, continua Spinoza, pos-
sono essere salvaguardati «vel consilio, et prudentia legum, aut
viri eximiae virtutis»195. Anche qui il riferimento ai Discorsi è
quasi letterale, dal momento che Machiavelli afferma che «que-
sta riduzione verso il principio, parlando delle republiche, si fa
o per accidente estrinseco, o per prudenza intrinseca»; e che
tale prudenza «conviene che nasca o da una legge, la quale
spesso rivegga il conto agli uomini che sono in quel corpo; o
veramente da un uomo buono che nasca fra loro, il quale con i
suoi esempli e con le sue opere virtuose faccia il medesimo ef-
fetto che l’ordine»196. Spinoza scarta la soluzione di conferire

193 TP, cap. X, § 1, in Opera, III, p. 353 (trad. it. p. 221). L’esatto titolo del capitolo

dei Discorsi in cui si trova la citazione di Spinoza (e che la traduzione di Cristofolini ri-
porta in originale) dice: «A volere che una setta o una republica viva lungamente, è ne-
cessario ritirarla spesso verso il suo principio» (cfr. Niccolò MACHIAVELLI, Tutte le ope-
re, Firenze, Sansoni, 1971, p. 195). Sulla ricezione di Machiavelli in Olanda cfr. VAN
GELDEREN, The Machiavellian moment and the Dutch Revolt, cit., e HAITSMA MULIER,
A controversial republican: Dutch views on Machiavelli in the seventeenth and eigh-
teenth centuries, cit.
194 Cfr. TP, cap. VIII, § 12, in Opera, III, p. 323 (trad. it. pp. 163-5).
195 Cap. X, § 1, in Opera, III, p. 353.
196 Discorsi, cit., p. 195, riportati nella trad. it. del TP, p. 221.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 391

lo jus imperii a un singolo individuo, che diventerebbe detento-


re di una dictatoria potestas absoluta, dal momento che, essen-
do questo «in senso assoluto, un potere regio, lo stato può, non
senza grave pericolo per la repubblica, trasformarsi a un certo
punto in monarchico»197. Per evitare simili forme di ibridazio-
ne dello Stato (va ricordato il netto rifiuto da parte di Spinoza
del principio dell’eccellenza dell’imperium mixtum), il TP con-
sidera con maggior favore l’ipotesi dell’istituzione di un organo
di controllo permanente come il Consiglio dei Sindaci; ma è so-
prattutto la motivazione che merita di essere segnalata, ossia
che quella perpetua spada del dittatore sia nelle mani non di una perso-
na fisica, ma di una persona civile, i cui membri siano più di quanti possa-
no suddividere tra di loro lo stato (per gli articoli 1 e 2 del capitolo VIII) o
prendere qualche accordo scellerato (in scelere aliquo convenire)198.

La presenza della coppia persona naturalis-persona civilis,


che compare nel TP per la prima e unica volta in questo para-
grafo, rinvia al ruolo ben più rilevante che essa assume all’in-
terno dell’opera di Thomas Hobbes. Il rimando non è soltanto
al celebre capitolo XVI del Leviahtan 199, bensì anche al De Ci-
ve, dove Hobbes afferma che, quando più volontà si sottomet-
tono a quella di un solo uomo o di un consiglio, si crea un’u-
nione che prende il nome di «Stato, o società civile, e anche
persona civile. Infatti, essendo unica la volontà di tutti, deve es-
sere considerata come una persona unica, distinta e riconosciu-
ta con un solo nome, da tutti gli individui particolari, poiché ha
i suoi diritti e sue proprietà. [...] Dunque lo Stato (per definir-
lo) è una persona unica, la cui volontà, per i patti di molti uo-
mini, va ritenuta come la volontà di tutti costoro (Civitas ergo...
est persona una, cujus voluntas, ex pactis plurimum hominum,
pro voluntate habenda est ipsorum omnium)»200. Risalta, in que-
sta definizione come nel testo che la precede, la funzione unifi-

197 Cap. X, § 1, in Opera, III, p. 354 (trad. it. p. 223).


198 Ivi, § 2, p. 354 (trad. it. p. 225).
199 Cfr. Leviathan, cap. XVI: «‘Persone, autori’ e cose impersonate», in The En-

glish Works of T.H. of Malmesbury, cit., p. 147 (trad. it. p. 131).


200 De Cive, cap. V, § 9, in Thomae Hobbes Malmesburniensis Opera Philosophica,

cit., p. 214 (trad. it. p. 127).


392 La libertà necessaria

catrice svolta dalla personalità dello Stato, la quale conferisce


una forma stabile alla pluralità delle volontà singolari, che di
conseguenza si sottomettono alla loro stessa volontà, ovvero a
quella volontà unica che esse considerano come propria201.
Il concetto hobbesiano di persona è funzionale alla costruzio-
ne teorica dell’unità politica a partire dalla molteplicità naturale
dei suoi membri, ed esclude nel contempo la possibilità che si
diano altre modalità di unificazione della moltitudine202; ma
Spinoza, nel passo del TP, sembra affermare esattamente il con-
trario, ovvero che una persona civilis è composta da parti che
non possono mai raggiungere un’unità definitiva, e che anzi,
proprio per la loro irriducibile molteplicità, devono continua-
mente ricercare dei punti di accordo, a partire dai contenuti del-
le loro decisioni. Inconcepibile per Spinoza non è che la multi-
tudo possa raggiungere un grado di uniformità, per quanto in-
stabile, senza rinunciare alla propria struttura plurale, ma piut-
tosto che possa darsi una forma capace di imporsi in maniera
definitiva sulle dinamiche affettive che attraversano la multitudo
stessa. A ulteriore conferma della distanza su questo punto tra i
due pensatori, valgano le affermazioni del TP che sottolineano i
limiti della funzione dei Sindaci: «questa autorità dei sindaci po-
trà giovare soltanto a conservare intatta la forma dello stato, e
dunque a vietare le infrazioni delle leggi e ad impedire che si
possa ricavare guadagno da attività criminose; ma non potrà in
alcun modo evitare l’infiltrarsi di vizi che non si possono proibi-
re per legge, come quelli in cui cadono gli uomini che non han-
no niente da fare, e che non di rado provocano la rovina di uno
stato»203. E il paragrafo seguente ribadisce questa posizione teo-
rica, affermando che nessuna legge può esercitare il pieno con-
trollo sulle passioni umane, come prova il fallimento di ogni ten-
tativo di moderare i costumi licenziosi di una popolazione attra-
verso l’introduzione delle leggi suntuarie (leges sumptuariae)204.

201 Per quanto riguarda la trattazione del medesimo tema nel Leviathan, cfr. il rife-
rimento presente alla nota 179 del capitolo VI.
202 Cfr. De Cive, cap. V, § 9, p. 214 (trad. it. p. 127): «Né l’unità in una moltitudine

si può intendere in altro modo».


203 TP, cap. X, § 4, in Opera, III, p. 355 (trad. it. p. 227).
204 Cfr. ivi, § 5, p. 355 (trad. it. p. 227).
VII. L’evoluzione dei regimi politici 393

Il potere è quindi irrapresentabile in una forma unitaria e priva


di articolazioni, e tuttavia né il sistema costituzionale più aperto
e plurale, capace di assorbire le dinamiche interne alla cittadi-
nanza, né la legislazione più attenta alla salvaguardia della mora-
le comune, sembrano in grado di conferire stabilità assoluta a
una Civitas, poiché i motivi che la conducono alla disgregazione
risiedono soprattutto nella dimensione affettiva della collettività.
Ma allora questo significa che non le leggi, bensì i diritti, ovvero
gli jura communia, sono l’anima dello Stato: «Anima enim impe-
rii jura sunt», e soltanto da loro dipende la sua salvezza. Ma tali
diritti (e non, come reca la traduzione italiana, tali «leggi»)
non possono stare salde [saldi] se non sono difese [difesi] dalla ragio-
ne e dal comune affetto degli uomini; altrimenti, se possono contare sola-
mente sull’aiuto della ragione, sono fragili e si abbattono facilmente205.

Mantenere inviolati, e anzi potenziare questi jura communia,


senza ricorrere a mezzi che non si adattino alla natura umana,
pretendendo dagli individui una sottomissione cieca, o all’op-
posto una piena razionalità, è il nucleo fondamentale del pro-
getto politico del TP, dal momento che né l’obbedienza dei cit-
tadini è prodotta integralmente dal potere dei governanti, né la
loro disposizione etica discende dalla razionalità delle leggi, ma
entrambe sono piuttosto l’esito di un complesso sistema di re-
lazioni affettive che possono sorgere solo gradualmente all’in-
terno della collettività organizzata. Per questo ai vizi di un po-
polo si deve rispondere intervenendo allo stesso livello passio-
nale da cui essi nascono, imponendo cioè delle regole «per cui
si possa ottenere non che i più si impegnino a vivere saggia-
mente (il che è impossibile), ma che siano guidati da quegli af-
fetti dai quali deriva maggior vantaggio per la repubblica»206. Il
legislatore dovrà essere ispirato non da una razionalità astratta,
ma dall’esatta conoscenza di uno dei principi fondamentali del-
la IV parte dell’Etica, quello per cui un «affetto non può né es-
sere ostacolato, né essere tolto se non per mezzo di un affetto
contrario e più forte dell’affetto da reprimere»207. Il che signifi-
205 Ivi, § 9, p. 357 (trad. it. p. 231; miei gli interventi tra parentesi quadra).
206 Ivi, § 6, p. 356 (trad. it. p. 227).
207 Etica, IV, 7, in Opera, II, p. 214 (trad. it. p. 238).
394 La libertà necessaria

ca che la ratio dispone di un potere sulle passioni solo nella mi-


sura in cui è in grado di produrre degli effetti sul medesimo
piano affettivo. Pertanto, affinché le leggi siano osservate, biso-
gnerà che il governo si relazioni ai cittadini
in modo tale da dar loro l’impressione non di essere guidati, bensì di
vivere a modo proprio e secondo le proprie libere scelte (ex suo ingenio,
et libero suo decreto): così che la loro condotta sia regolata soltanto dall’a-
more per la libertà, dal desiderio di aumentare le proprie sostanze e dalla
speranza di essere innalzati alle cariche dello stato208.

Amor, studium, spes: affetti positivi, radicati nella concretez-


za dell’esistenza materiale degli individui, ma anche capaci di
esprimere nuove forme di libertà, in quanto contribuiscono a
sintonizzare l’intera collettività su interessi comuni e sostengo-
no la solidarietà interna alla moltitudine.
Per queste ragioni, il principium dell’aristocrazia al quale oc-
corre machiavellianamente tornare per rifondare l’imperium do-
vrà essere cercato nell’uguaglianza naturale esistente tra patricii
e multitudo, e non nella loro differenziazione, poiché solo que-
sta uguaglianza è riconoscimento a un tempo dell’identità pas-
sionale e della necessità di una sempre più profonda coesione
tra tutti gli individui dell’imperium. È vero, d’altra parte, che
l’aristocrazia deve fare continuamente i conti con il suo limite,
in particolare quando esso si concretizza nella paura che la mul-
titudo infonde ai governanti: sono le passioni antipolitiche che
ostacolano lo sviluppo degli jura communia, alle quali la classe
patrizia tende naturalmente a rispondere producendo nei sud-
diti una paura identica e contraria209. Ma per non lasciare che
proprio la paura, la quale trasforma le città e le repubbliche in
deserti della politica (basti ricordare la solitudo del regime tur-
co) domini la scena, è necessario creare le condizioni, materiali
prima ancora che legislative, affinché la distanza tra patrizi e
plebei diminuisca gradualmente; per questa ragione l’aristocra-

208 TP, cap. X, § 8, in Opera, III, p. 356 (trad. it. pp. 229-31).
209 A tale proposito, MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de Spinoza, cit.,
p. 235, osserva giustamente che, nonostante la sua apparente solidità, l’aristocrazia è un
regime dell’ansietà, essendo soggetta a molteplici paure: paura della plebe, della viola-
zione della legge, del predominio di un gruppo e di un’oligarchia, della corruzione.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 395

zia ideale garantirà la più ampia possibilità per i sudditi di arric-


chirsi, ossia di esaudire lo studium rei augendae, nonché, per co-
loro che ricchi sono già, la massima apertura alle cariche pub-
bliche, attraverso la cooptazione nel patriziato210, e con questo
il soddisfacimento della spes imperii honores adipiscendi. Ancora
amor, studium, spes, creano dunque la barriera che impedisce
alla metus di egemonizzare l’esistenza politica di uno Stato.
Intervenendo adeguatamente sul grado di sviluppo delle
passioni della multitudo è possibile impedire che l’imperium
aristocraticum degeneri per cause interne nella tirannide oligar-
chica; ma Spinoza sottolinea anche che non è altrettanto facile
difendersi sempre dalle pressioni esterne, e che gli imperii jura,
«per quanto siano difesi dalla ragione e dal comune affetto de-
gli uomini, possono in certi casi venire affossati»211. Il riferi-
mento alle vicende delle Province Unite sembra evidente: se ne
dedurrebbe che non un’errata conduzione politica, bensì una
causa esterna e incontrollabile come la volontà di potenza di
Luigi XIV, che spinse la Francia ad invadere il territorio della
Repubblica, è alla base del fallimento del progetto dewittiano.
In realtà, se nel 1672 la situazione è tale da non permettere al-
cuna via di scampo, i motivi vanno cercati non solo negli equi-
libri internazionali sfavorevoli, ma anche nella struttura costitu-
zionale che il popolo olandese si è dato fin da quando ha otte-
nuto la libertà. A tale proposito, la conclusione del capitolo IX
offre un quadro esplicito:
se qualcuno mi obietta che questo stato degli Olandesi non è durato a
lungo senza un conte o un visconte che ne facesse le veci, la risposta è
che gli Olandesi per ottenere la libertà hanno ritenuto sufficiente togliere
di mezzo il conte e tagliare la testa allo stato, senza pensare a riformarlo:
lasciarono anzi tutte le membra nella disposizione che avevano prima, co-
sì da far rimanere una contea d’Olanda senza il conte, come un corpo
senza testa e uno stato senza nome. Non fa dunque meraviglia che la
maggioranza dei sudditi non sapesse in quali mani fosse il potere sovrano
dello stato (penes quos summa esset imperii potestas). E sebbene non fos-
se questa la situazione, tuttavia coloro i quali avevano effettivamente il
governo, erano troppo pochi per poter dirigere il popolo (ut multitudi-

210 Cfr. TP, cap. X, § 7, in Opera, III, p. 356 (trad. it. p. 229).
211 Ivi, § 10, p. 172 (trad. it. pp. 231-3).
396 La libertà necessaria

nem regere) e dominare degli avversari potenti212.

Il vero limite della repubblica aristocratica olandese, che vie-


ne addirittura esasperato durante il periodo del «governo senza
stadhouder», è che essa non è mai stata una vera aristocrazia,
non essendo riuscita a scardinare i principi costitutivi della mo-
narchia, ma avendone solo modificato la facciata. Per questo lo
Stato d’Olanda è piuttosto oligarchico che aristocratico, nel
senso che, in una situazione di confusione istituzionale, la clas-
se nobiliare si è richiusa in se stessa, bloccando quell’osmosi
della multitudo nella classe dirigente che è garanzia della so-
pravvivenza dell’imperium. Inoltre Spinoza sostiene la necessità
di rendere pienamente visibile il soggetto detentore del potere
sovrano, al fine di non lasciare che i meccanismi decisionali re-
stino ignoti ai cittadini: è evidente, ancorché non pronunciato
esplicitamente, il giudizio negativo sul modo in cui Johan De
Witt aveva condotto la propria politica, giocandola sul control-
lo dell’informazione e su una gestione non trasparente del go-
verno. Ma è altrettanto riconoscibile la differenza rispetto alle
posizioni teoriche dei De la Court, i quali rivendicano la sovra-
nità degli Stati d’Olanda per contrapporla polemicamente alle
istanze filomonarchice della fazione orangista, mentre Spinoza
insiste soprattutto sulla necessità di superare il livello del con-
flitto ideologico per riorganizzare un processo costituente al-
l’interno delle Province Unite, che rimetta in moto i meccani-
smi virtuosi della potenza materiale del paese.
Ma allora, fino a che punto la soluzione teorica prospettata
dai De la Court nelle Consideratien van Staat può accordarsi
con quella del TP? L’opera dei due fratelli si conclude soste-
nendo che «un’aristocrazia, che si avvicina il più possibile ad
un governo popolare, è senz’altro la migliore forma di gover-
no»213, perché riesce a unire la migliore qualità del regime ari-
stocratico, che cioè «si presume che tutti i suoi membri abbia-
no abbastanza intelletto e congnizioni (verstands ende kennisse)
per perseguire il bene del paese»214, con quella della democra-

212 Cap. IX, § 14, p. 352 (trad. it. pp. 217-9).


213 Consideratien, cit., p. 563.
214 Ibid.
VII. L’evoluzione dei regimi politici 397

zia, che è l’unico Stato in cui «il bene della collettività è vera-
mente la legge suprema (de Opperste Wet)», dal momento che
l’interesse dei governanti e quello dei sudditi coincidono215;
inoltre essa elimina i due grandi difetti di questi regimi, rispet-
tivamente l’incertezza intorno al fatto che i patrizi siano real-
mente spinti a cercare il bene della nazione, e non il proprio, e
dall’altra parte l’assenza nella maggior parte dei cittadini di una
conoscenza sufficiente a ricercare il proprio vantaggio216. Le
Consideratien van Staat giungono quindi alla seguente defini-
zione: il miglior governo concepibile per gli uomini potrà esse-
re trovato in «un’assemblea, composta da tutti gli abitanti del
paese, dei quali si possa ritenere che abbiano sufficiente potere
e conoscenza (magt ende kennisse) per occuparsi del loro pro-
prio bene»217. Ora, la consonanza con la riflessione spinoziana
è solo parziale; infatti, se è senz’altro vero che anche per Spino-
za esiste un nesso tra il miglior regime aristocratico e l’inseri-
mento in esso di principi democratici, tanto sul piano dell’or-
ganizzazione istituzionale (nel senso che i patrizi debbono reg-
gere democraticamente lo Stato), quanto su quello dell’allarga-
mento della classe degli ottimati, d’altra parte il suo principale
interesse consiste nello spezzare quella separazione tra gover-
nanti e sudditi che l’opera dei De la Court mantiene, nonostan-
te la mascheri con una distinzione di abilità e di doti individua-
li. In breve, a questi ultimi manca totalmente – e ne è un’indi-
cazione esplicita il giudizio fortemente negativo nei confronti
della multitudo – quella concezione dinamica delle relazioni
politiche che costituisce di contro il nucleo portante del TP, in
base alla quale l’aristocrazia viene concepita non come il mi-
glior governo in sé, bensì come la migliore forma di governo di
transizione verso la democrazia, in grado cioè di creare – o di
premettere che si creino – le condizioni ottimali perché sorga
quel «governo del tutto assoluto (omnino absolutum imperium)
che si chiama democratico».

215 Ivi, p. 564.


216 Ibid.
217 Ibid.
Capitolo Ottavo
LA DEMOCRAZIA SUB SPECIE AETERNITATIS

1. L’assolutezza dell’imperium democraticum

La conclusione del capitolo precedente ha rivelato come il


giudizio di Spinoza intorno ai regimi aristocratici sia legato alla
loro potenza di evolversi verso la democrazia. Questo però non
spinge l’autore del TP a indulgere a ipotesi irrealistiche, che
esprimono più i desideri del teorico che non le possibilità con-
crete di un’evoluzione politica, come ha dimostrato l’analisi
della situazione della repubblica olandese dopo il 1672 e il fal-
limento del progetto dewittiano: a tale proposito, infatti, il te-
sto non fa che constatare la necessità di una stabilizzazione del
potere, condizione imprescindibile affinché una società possa
gradualmente incrementare la partecipazione dei cittadini al
governo del paese. L’ultimo capitolo del TP, rimasto incompiu-
to, affronta invece la natura dell’imperium democraticum, con-
siderata indipendentemente dalle altre forme di Stato. Il tenta-
tivo di dare conto del contenuto di queste pagine è reso diffi-
coltoso dalla scarsità di informazioni presenti; si può tuttavia
cercare di comprendere il complesso dei fattori che determina-
no l’assolutezza del potere democratico, e conseguentemente la
sua eccellenza. È ormai appurato che per Spinoza è democrati-
ca l’essenza stessa del processo costituente di ogni imperium,
ovvero la potenza che lo sostiene e lo fa progredire: la demo-
crazia è così il cuore pulsante di ogni relazione politica. Ma
questo aspetto, per quanto fondamentale, non dà alcuna indi-
cazione a proposito della forma specifica dell’imperium demo-
craticum come associazione politica più evoluta: non sono cioè
400 La libertà necessaria

evidenti gli aspetti costituzionali in grado di esprimere con la


massima adeguatezza la natura implicitamente democratica
della potenza di una collettività. In altri termini il TP, almeno
fino al capitolo XI, non ha ancora individuato la costituzione
adatta a definire la forma di un potere che si presenta struttu-
ralmente come potere costituente1.
Con ogni evidenza, il carattere integralmente assoluto dello
Stato democratico («omnino absolutum imperium») è da in-
tendersi in stretta relazione con il meccanismo affettivo che
presiede alla genesi dell’associazione politica, ovvero con quel-
la dinamica delle potenze dei singoli individui all’interno di
uno spazio comune, nel quale si produce la convenientia dei
desideri e l’ordine dell’agire politico. Per questo l’assolutezza
del potere non è più definita in opposizione alla libertà dei
sudditi, come nei casi, seppure ben diversi tra loro, della mo-
narchia e dell’aristocrazia, ma essa fa corpo con tale libertà, es-
sendo tutt’uno con quest’ultima. Vi è dunque una profonda
consonanza tra la definizione della democrazia come coetus
universus, presente al cap. XVI del TTP, e quella del TP2: se in-
fatti il primo trattato sottolinea il carattere universale della par-
tecipazione al governo da parte della cittadinanza, allo stesso
modo anche nel secondo è escluso che la libertà dei cittadini di
una democrazia possa esprimersi al di fuori di un immediato
coinvolgimento dell’intera collettività nei processi decisionali3.
L’assolutezza dell’imperium democraticum attinge a un signi-
ficato nuovo rispetto al suo uso nei capitoli precedenti, esito di
un’operazione critica che attraversa la trattazione degli altri re-
1 Per la definizione della democrazia spinoziana come «potere costituente» cfr.
A. NEGRI, Democrazia ed eternità in Spinoza [1994], in Id., Spinoza, cit., pp. 379-89.
2 Cfr. quanto sostiene PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, cit., p.
323. Su questo tema, comunque, il dibattito storiografico è ancora aperto, come dimo-
stra, ad esempio, il recente saggio di R. PROKHOVNIK, From Democracy to Aristocracy:
Spinoza, Reason and Politics, in «History of European Ideas», XXIII, 1997, pp. 105-15.
3 In tal senso, la concezione spinoziana della libertà politica nulla ha a che sparti-
re con i principi della teoria liberale, nonostante la letteratura secondaria, soprattutto
in ambito anglo-sassone, abbia spesso avanzato tale parallelo (cfr. tra gli altri G.M. MA-
RE, Liberal Politics and Moral Excellence in Spinoza’s Philosophy, in «Journal of the Hi-
story of Philosophy», XX, 1982, pp. 129-50, o DEN UYL, Power, State and Freedom,
cit.; o ancora il dibattio tra I. Berlin e D. West sul concetto di libertà in Spinoza, appar-
so in «Political Studies», XLI, 1993, pp. 284-98).
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 401

gimi politici, chiarendone gli aspetti impliciti e rivelandone le


contraddizioni immanenti. Così, il valore che il TP attribuisce
all’aggettivo absolutum nell’ambito dell’analisi dello Stato mo-
narchico è chiaramente negativo, poiché esso indica, in sinto-
nia con il giudizio di altri teorici repubblicani olandesi (in pri-
mis i De la Court), la natura minacciosa per la libertà dei citta-
dini di un potere i cui meccanismi di funzionamento restano
oscuri ai più, tanto è vero che nell’optima monarchia il potere
del sovrano non è affatto assoluto, e anzi il controllo da parte
dei sudditi sulle sue decisioni, e addirittura la loro partecipa-
zione al processo decisionale, è garantito costituzionalmente.
Ma già passando alle pagine riguardanti l’imperium aristocrati-
cum si incontra una risemantizzazione del concetto di assolu-
tezza, che qui assume una connotazione positiva, al punto che
il fatto che l’imperium aristocraticum sia «molto vicino all’asso-
luto» ne definisce la peculiarità più considerevole, a partire
dalla quale diviene possibile progettarne la trasformazione in
una democrazia compiuta. Questo mutamento semantico non
va attribuito soltanto al cambiamento prospettico che si dà nel
passaggio da un potere monocratico a uno più articolato, quan-
to piuttosto, ancora una volta, a quella «politica del linguag-
gio» che gli scritti spinoziani perseguono con coerenza, al fine
di non spezzare il tenue legame esistente tra il linguaggio del-
l’immaginazione e quello della ragione, cogliendo nello spazio
che si apre tra i diversi significati il filo di una continuità che
permetta un livello anche minimo di comunicazione.
Spinoza opera così una critica dall’interno alla concezione
«volgare» del principio assolutista, per rovesciarne il significato
a partire dall’esatta comprensione dei suoi presupposti (una
comprensione filosofica che manca ai De la Court, troppo legati
alla dimensione ideologica – necessaria ma non sufficiente – del-
la politica). Egli può così svelare la natura fittizia dell’assoluti-
smo monarchico, la quale dipende dal fatto che il potere di un
singolo individuo non può mai, per sua stessa costituzione, esse-
re veramente assoluto, cioè indipendente dai condizionamenti
esterni e libero dai vincoli personali, talvolta neppure ricono-
sciuti, e proprio per questo ancora più stretti. Di conseguenza,
qualsiasi tentativo di istituire una monarchia assoluta si trasfor-
402 La libertà necessaria

ma inevitabilmente in un fallimento, e anzi finisce per coincide-


re con la genesi di un potere dittatoriale, nel quale il legame po-
litico trova il suo punto di massima impotenza, dimostrandosi
incapace di dare consistenza a quegli jura communia che defini-
scono l’orizzonte di una collettività ordinata: non la multitudo,
bensì la solitudo di tutti gli individui ne è dunque la cifra. L’op-
posizione di Spinoza all’assolutismo monarchico è determinata
da una concezione della natura umana contrapposta rispetto al
modello antropologico cartesiano che prevede il dominio asso-
luto della mente sul corpo4: il nesso assolutismo-volontarismo,
che in Descartes legittima il potere del sovrano, viene ricondot-
to a un ens imaginationis, immagine statica e gerarchizzante del-
la potenza umana – tanto della mente quanto del corpo –, che
attribuisce alla mens umana una «absoluta, sive libera voluntas»,
e che la II parte dell’Etica smaschera, riconducendone l’origine
alla processualità infinita della serie causale naturale:
Nella Mente non vi è alcuna volontà assoluta ossia libera; ma la Mente
è determinata a volere questo o quello da una causa, che è anch’essa de-
terminata da un’altra, e questa a sua volta da un’altra, e così all’infinito5.

Fino a qui giunge la critica serrata al paradigma assolutistico


e alle sue radici filosofiche; ma nel progetto spinoziano è pre-
sente anche il tentativo di recuperare la potentia imaginandi al-
l’interno di un processo che trasformi gradualmente il significa-
to dell’assolutezza del potere. Tale operazione è resa possibile
dal significato che il termine «absolutum» viene ad assumere
nell’Etica, in particolare nella I parte, dove esso acquista un
ruolo fondamentale all’interno dell’ontologia spinoziana. Pars
pro toto, nella definizione VI Dio viene indicato come «l’ente
assolutamente infinito (absolute infinitum), ossia la sostanza
che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’e-
terna ed infinita essenza»6: l’assolutezza dell’infinità divina ne

4 Su questo punto cfr. E. FERNÀNDEZ, Freie Notwendigkeit und «absolutum impe-


rium», in Freiheit und Notwendigkeit, cit., pp. 71-84.
5 Etica, II, 48, in Opera, II, p. 129 (trad. it. p. 162); ma si veda anche Etica, III, 2,
scolio. Inoltre cfr. anche l’analisi dell’imaginatio condotta nel cap. II di questo volume.
6 Opera, II, p. 45 (trad. it. p. 87). Sul nesso tra assolutezza e costituzione in Spi-
noza è fondamentale DELEUZE, Spinoza et le probleme de l’expression, cit., pp. 59-71;
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 403

definisce la piena immanenza nei confronti delle innumerevoli


manifestazioni del reale. Sulla base di questa connotazione po-
sitiva, ontologiamente determinata, il TP passa all’analisi del-
l’imperium aristocraticum, che «ad absolutum maxime accedit»;
si produce in tal modo un capovolgimento semantico, tale per
cui ora il carattere assoluto del potere non rappresenta più la
maschera sclerotizzata di un dominio che istituisce la separa-
tezza e la conflittualità tra gli uomini, e che deve essere neutra-
lizzato con un’accorta prassi costituzionale, ma piuttosto espri-
me una dimensione articolata e potente di un’assolutezza sem-
pre in fieri, emergente dal carattere progressivo della costitu-
zione aristocratica, che trova il suo necessario luogo di realizza-
zione nell’imperium democraticum. Alla luce della connessione
tra aristocrazia e democrazia, e più in generale della dinamica
processuale che attraversa l’orizzonte politico spinoziano, è
forse possibile tentare un’interpretazione delle scarne indica-
zioni di caratterere costituzionale presenti nei quattro paragrafi
dell’XI capitolo del TP. Tale operazione deve avviarsi dalla
consapevolezza del fatto che la costituzione democratica mani-
festa la piena realizzazione della natura di ogni società politica.
Infatti è vero che in ogni forma di imperium è presente, seppu-
re a differenti registri qualitativi, la tendenza spontanea della
multitudo a partecipare al governo della cosa pubblica, tuttavia
essa è comunque sempre contrastata da meccanismi che, pur
immanendo alla multitudo stessa, derivano dai suoi tratti pas-
sionali ed impolitici – l’impotenza coessenziale a una potenza
finita. Di contro, il potere democratico indica il più ampio di-
spiegamento possibile della potenza collettiva, diventando l’e-
spressione di una pratica finalmente adeguata alla struttura del-
la sostanza divina, di cui la multitudo è modo determinato.
L’assolutezza della democrazia si manifesta già nel meccani-
smo che regola il diritto di cittadinanza – e quindi di partecipa-
zione alla vita pubblica –, definito non dalla volontà di uno o
più individui, bensì dalla legge:
coloro i quali, infatti, sono nati da genitori cittadini o nel suolo patrio,

inoltre per un’analisi della coimplicazione di metafisica e politica nel pensiero spinozia-
no cfr. NEGRI, Reliqua desiderantur, cit., soprattutto pp. 61 sgg.
404 La libertà necessaria

o che siano benemeriti della repubblica, o che rientrino in altri casi in cui
la legge impone di conferire il diritto di cittadinanza (jus civis): tutti que-
sti, dico, hanno diritto a rivendicare il voto nel consiglio supremo e l’ac-
cesso alle cariche dello stato, che non può esser loro rifiutato, se non per
delitto o per infamia7.

Avviene così il superamento di quell’orizzonte ‘moralistico’


che ancora permane al fondo dell’aristocrazia, dove rimane in-
superata la presupposizione di una maggiore capacità dei patri-
zi rispetto al resto della popolazione nel governare il paese. In
democrazia, invece, l’aquisizione di una definizione legale dello
jus civis, e conseguentemente dello jus suffragii, permette di so-
stituire la finzione di una volontà libera di una parte dei mem-
bri dello Stato («nello stato aristocratico dipende dalla sola vo-
lontà e dalla libera elezione del consiglio supremo il fatto che
questo o quello divenga patrizio, cosicché nessuno ha per ere-
dità il diritto al voto e l’accesso alle cariche dello stato»8) con la
razionalità della legge, che comunque non va intesa come una
norma trascendente rispetto alla concretezza delle relazioni in-
terindividuali che si intrecciano nella società, bensì come l’esito
dello sviluppo e della stabilizzazione di quegli jura communia
che fin dai primi capitoli erano stati collocati al cuore del pro-
cesso costituente. Spinoza precisa la differenza tra il governo
aristocratico e quello democratico con queste parole, che rico-
noscono esplicitamente la superiorità, tanto teorica quanto pra-
tica, del secondo sul primo:
sebbene così gli stati di questo tipo, in cui sono destinati a governare
non i migliori ma quelli che hanno la fortuna di essere ricchi o di essere
nati prima, sembra esser da meno dello stato aristocratico, tuttavia se
guardiamo alla pratica, ovvero alla comune condizione umana, il risultato
sarà pari. Per i patrizi infatti i migliori saranno sempre i ricchi, o i loro
più stretti congiunti, o gli amici. Certamente se i patrizi fossero così fatti
da eleggere i colleghi patrizi con l’animo sgombro da affetti e sotto l’im-
pulso dello zelo per la pubblica salvaguardia, nessuno stato reggerebbe al
confronto con l’aristocratico. Ma l’esperienza ha mostrato a più e più ri-
prese che le cose stanno ben diversamente, specialmente nelle oligarchie,
dove l’arbitrio dei patrizi, in mancanza di concorrenti, è sciolto da qual-

7 TP, cap. XI, § 1, in Opera, III, p. 358 (trad. it. p. 235).


8 Ibid.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 405

siasi vincolo legale (Patriciorum voluntas [...] maxime lege soluta est)9.

La volontà sovrana del regime oligarchico, nella quale sono


radicalizzate le caratteristiche antidemocratiche – e quindi anti-
politiche – ancora presenti nell’aristocrazia, non solo è del tut-
to svincolata dall’universalismo della legge civile, ma è anche
strutturalmente dipendente dalla passionalità che governa l’agi-
re degli individui, cosicché la sua assolutezza è più vicina alla
finzione monarchica che non alla potenza costituente della de-
mocrazia, e rischia ad ogni momento di trascinare l’imperium
in uno stato di conflitto generalizzato10. Una simile volontà,
che mira a «liberarsi» dagli jura communia, per restare poi suc-
cube delle passioni incomponibili dei singoli, è l’esatto opposto
della libertà che inerisce ad un’esistenza sui juris, la quale non
può sussistere se non all’interno di una convenientia tra i diver-
si conatus, che si sviluppa attraverso una dialettica serrata ma
regolamentata all’interno dell’orizzonte comune degli affetti
collettivi. Ma vi è anche un altro significato dell’esse sui juris,
più circoscritto, al quale Spinoza fa riferimento per determina-
re con maggiore precisione le caratteristiche del diritto di citta-
dinanza e del diritto di voto in democrazia:
assolutamente tutti coloro i quali sono soggetti alle sole leggi della pa-
tria, e dunque sono autonomi (sui juris sunt) e vivono onestamente, han-
no il diritto di voto nel consiglio supremo e la facoltà di accedere agli in-
carichi di stato. Dico espressamente ‘sono soggetti alle sole leggi della pa-
tria’ per escludere gli stranieri censiti come cittadini di un altro stato. Ho
detto poi ‘che, oltre ad essere soggetti alle leggi della patria, sono autono-
mi’, per escludere le donne e i servi in quanto sono sotto la potestà dei
mariti e dei padroni, ed anche i figli naturali e adottivi, in quanto sotto la
potestà dei genitori e dei tutori11.

Gli individui privati della possibilità di partecipare alle ele-

9 Ivi, § 2, p. 359 (trad. it. pp. 235-7).


10 Cfr. MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de Spinoza, cit., p. 238, dove
emerge chiaramente come, mentre la parzialità della cittadinanza aristocratica mantie-
ne lo Stato sotto la minaccia continua di una ribellione da parte dei non cittadini, inve-
ce la designazione legale del cittadino, propria di una democrazia, elimini definitiva-
mente tali rischi.
11 TP, cap. XI, § 3, in Opera, III, p. 359 (trad. it. p. 237).
406 La libertà necessaria

zioni del consiglio supremo (che sono gli stessi esclusi anche
negli altri Stati) sono riconducibili a una sola categoria, com-
prendente tutti coloro che non godono di quel grado minimo
di indipendenza che costituisce il fondamento materiale neces-
sario affinché possano sorgere in loro degli affetti politici. I
motivi possono essere differenti, e riguardano sia la costituzio-
ne naturale, sia quella sociale: la giovane età, o l’inclinazione a
condurre un’esistenza priva di regole (il non saper vivere «one-
stamente»), o ancora, come nel caso delle donne, una debolez-
za costitutiva (e qui Spinoza paga un tributo all’ideologia do-
minante dell’epoca12); dall’altra, la dipendenza economica da
un altro uomo, che relega l’individuo sotto il potere del suo
‘padrone’. In questo caso l’esse sui juris non significa la potenza
di vivere secondo ragione, come invece nella definizione pre-
sente al II capitolo, ma indica piuttosto la presenza di condi-
zioni determinate (dalla natura, dallo status sociale, ecc.) che
permettono agli individui di evolversi in direzione di un’esi-
stenza razionale; Spinoza non dimentica quindi la continuità
tra il mondo degli affetti e quello della ratio, che anche all’in-
terno dell’imperium democraticum gioca un’importante funzio-
ne aggregante.
L’ultimo capitolo del TP si interrompe al paragrafo 4, che
difende la tesi dell’inferiorità naturale della donna rispetto al-
l’uomo, senza che venga presa in considerazione alcuna delle
caratteristiche istituzionali della democrazia. Si potrebbe tenta-
re di ricostruire tali caratteristiche estrapolandole, con oppor-
tune modificazioni, da quelle della monarchia e dell’aristocra-
zia13; tuttavia una simile operazione, ancorché fortemente pro-
blematica, non è necessaria per comprendere il senso profondo
e il valore che Spinoza attribuisce allo Stato democratico. Inol-
tre c’è una motivazione di ordine teorico che rende difficile
precisare l’articolazione di una costituzione democratica, e che
nasce proprio dall’assolutezza dell’imperium democraticum, nel

12 Su questo punto si veda A. MATHERON, Femmes et serviteurs dans la démocratie

de Spinoza, in Id. Anthropologie et politique au XVIIe siècle (études sur Spinoza), cit.,
pp. 189-208.
13 Tale tentativo è stato effettivamente compiuto da MATHERON, Individu et com-

munauté chez Spinoza, cit., pp. 497-502.


VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 407

quale il potere immane alla collettività dei cittadini, producen-


do la piena identità tra l’imperium e la societas: è la società, cioè
la multitudo, con la sua composizione plurale e articolata, a di-
sporre di una potenza assoluta, capace di assorbire le tensioni
interne annullando la polarità governanti-sudditi e, contempo-
raneamente, di fronteggiare le minacce provenienti dall’ester-
no. Infatti l’essenza della democrazia, il suo specifico conatus,
consiste nel graduale scioglimento dell’aspetto coattivo della
legge, in quanto l’elemento universalistico degli jura communia
cancella l’eteronomia delle legislazioni positive dei regimi non
democratici14. Il TP esplicita così la propria continuità con la
definizione di suddito presente al capitolo XVI del TTP, dove
si parla proprio del suddito di una democrazia, nella quale «è
legge suprema la salute, non del sovrano ma di tutto il popo-
lo»; a quella definizione, secondo cui «suddito è colui che fa
per ordine della suprema autorità ciò che è utile alla comunità,
e quindi anche a lui stesso»15, va ora aggiunta la consapevolez-
za che in democrazia la summa potestas che detiene il potere
coincide con la totalità dei cittadini: la dicotomia subditus-civis
si risolve nell’assorbimento del primo all’interno del secondo,
proprio perché scompare la rigida ripartizione tra governanti e
governati.
La novità della democrazia rispetto agli altri imperia consiste
allora nell’impossibilità di disegnare a priori la mappa sulla
quale si distribuisce il potere, e di conseguenza di definirne in
modo inequivocabile la forma costituzionale, poiché quest’ulti-
ma muta con il mutare degli equilibri interni ai rapporti sociali
e con il prodursi di sempre nuovi jura communia. La natura as-
soluta del potere democratico è data quindi dalla sua plasticità,
che è espressione sul piano antropologico dell’infinità della so-
stanza, dal momento che il continuo e inarrestabile rimodella-
mento delle istituzioni sulla base della progressività delle dina-
miche affettive (coincidente con il divenire sui juris dei cittadi-

14 Alla medesima conclusione giungeva anche la già citata definizione del capitolo

VIII, § 3: posto «che si dia uno stato assoluto, esso è in realtà quello che è governato dal
popolo tutto intero (quod integra multitudo tenet)» (Opera, III, p. 325; trad. it. p. 155).
15 TTP, cap. XVI, in Opera, III, p. 195 (trad. it. p. 384). Su questo passaggio cfr.

anche le riflessioni presenti al cap. IV, pp. 173-5.


408 La libertà necessaria

ni) aderisce pienamente al movimento di produzione dei modi


finiti da parte del Deus sive Natura; un movimento che dà luo-
go a una molteplicità innumerabile di res singulares, come af-
ferma la proposizione 28 della I parte dell’Etica:
Ogni cosa singolare, ossia qualunque cosa che è finita e ha una deter-
minata esistenza, non può esistere né essere determinata ad agire se non
sia determinata ad esistere e ad agire da un’altra causa che è anche finita
e ha una determinata esistenza: e anche questa causa non può a sua volta
esistere né essere determinata ad agire se non sia determinata ad esistere
e ad agire da un’altra causa che è anch’essa finita e ha una determinata
esistenza, e così all’infinito16.

All’interno di questa infinita concatenazione causale si pro-


ducono, come è ovvio, anche le relazioni tra gli individui mem-
bri di una democrazia, che hanno la caratteristica fondamenta-
le di saper cogliere nella potenza finita di ogni singolo elemen-
to l’aspetto utile, e anzi necessario, al funzionamento dell’intera
comunità politica. Per tale ragione in democrazia si raggiunge
il dispiegamento al più alto grado della potenza divina per
un’aggregazione determinata di uomini, in quanto essa non
comporta né la riduzione dei singoli a un universale astratto
che preesiste ad essi, né una ‘tirannia della maggioranza’ sul re-
sto dei cittadini17, bensì è il processo interminabile di armoniz-
zazione degli aspetti incomprimibili di ogni individualità con le
altre, nell’orizzonte comune di quegli affetti-diritti naturalmen-
te condivisi18. Questo significa che in un imperium democrati-

16 Opera, II, p. 69 (trad. it. pp. 108-9).


17 Di contro, un autore considerato tra i padri del liberalismo politico come John
Locke vede proprio nel principio di maggioranza il fondamento dell’unità di una comu-
nità politica, la quale «ha il potere di agire come un unico corpo», che si muoverà «là
dove la forza maggiore lo porta, che è il consenso della maggioranza» (J. LOCKE, Two
Treatises of Government [1690], a cura di P. Laslett, Cambridge University Press, Cam-
bridge, 1988; Second Treatise, cap. VIII, § 96, pp. 331-2; trad. it. a cura di L. Pareyson,
UTET, Torino, 1960, p. 312). Su questo punto cfr. M. MERLO, Potere naturale, proprietà
e potere politico in John Locke, in Il potere, cit., pp. 157-76, soprattutto, pp. 162-3.
18 Con tutte le precauzioni che vanno prese nel caso in cui si confrontino le rifles-

sioni di autori appartenenti a epoche storiche differenti, occorre comunque sottolinea-


re il fatto, chiaramente deducibile da quanto detto finora, che in nessun modo la teoria
democratica spinoziana può venire posta in una qualche linea di continuità con la dot-
trina rousseauiana della volonté générale. Sul rapporto Spinoza-Rousseau si vedano, tra
gli altri, W. ECKSTEIN, Rousseau and Spinoza: Their Political Theories and their Concep-
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 409

cum la legge dello Stato, spinozianamente intesa, non conduce


alla giuridicizzazione integrale dei rapporti interindividuali, e
quindi alla loro dislocazione su un piano di trascendenza, ma
piuttosto conferma l’avvenuta razionalizzazione di un processo
collettivo, nel quale ogni aspetto particolaristico prodotto dal
versante passivo dell’immaginazione è stato cancellato: l’esito è
un universalismo maturato attraverso il movimento immanente
della societas, senza soluzione di continuità nei confronti del
progredire della vita affettiva e immaginativa dell’intera multi-
tudo. La ratio presente nella legge non introduce alcun elemen-
to ulteriore rispetto al carattere naturale delle relazioni interu-
mane, poiché non si tratta di un intervento mirante a neutraliz-
zare i tratti impolitici e minacciosi delle passioni individuali,
bensì di un’evoluzione e di un potenziamento di quegli affetti
unificanti – degli jura communia –, che si rafforzano certamen-
te grazie all’istituzione di meccanismi coattivi, ma non sono
creati da questi ultimi. Su questa dinamica interna alla vita di
una collettività e al suo sviluppo verso un livello ottimale di ra-
gionevolezza, che le leggi stabilizzano ma non istituiscono, si
fonda la possibilità di un superamento, altrimenti mai ipotizza-
bile, degli aspetti di dominio impliciti in ogni ordinamento sta-
tale, nella direzione di una diversa organizzazione dei rapporti
tra gli individui di una medesima collettività: l’essenza della lex
in Spinoza, come si manifesta in special modo nell’imperium
democraticum, indica quindi la direzione che questo processo
di liberazione può assumere.

2. La democrazia come emendazione permanente


delle istituzioni: Spinoza tra Ulrik Huber e Franciscus
van den Enden
La rideclinazione del concetto di lex all’interno del TP assu-
me una valenza ancora più rilevante se confrontata con altre

tion of Ethical Freedom, in «Journal of History of Ideas», V, 1944, pp. 259-91; M.


FRANCÉS, Les réminiscences Spinozistes dans le ‘Contract social’ de Rousseau, in «Revue
philosophique de la France e de l’Etranger», I, 1951, pp. 61-84; ZAC, Rapports de la re-
ligion et de la politique chez Spinoza et J. J. Rousseau, cit.; D.J. DEN UYL, A note on Spi-
noza’s view of democracy, in Id., Power, State and Freedom, cit., pp. 162-8.
410 La libertà necessaria

opere politiche e giuridiche, che si affacciano sulla scena olan-


dese dopo la crisi del regime dewittiano, come ad esempio il De
jure civitatis del giurista frisone Ulrik Huber (1636-1694), ap-
parso per la prima volta proprio nel 167219, e che alcuni com-
mentatori hanno ritenuto fortemente influenzato dalla lettura
degli scritti di Spinoza20. In questo scritto Huber intende recu-
perare, sulla base della riflessione groziana, una diversa confi-
gurazione dei rapporti tra diritto e politica – ovvero tra ambito
del diritto e ambito dell’utile collettivo –, in esplicita polemica
con la riduzione del primo alla seconda compiuta da Bodin e
dai politici (tra i quali vengono implicitamente considerati an-
che i De la Court), al fine di ridefinire il concetto di sovranità
(summa potestas). Lo scopo finale è quello di determinare un
nuovo orizzonte teorico che non cancelli l’originarietà dello
jus 21, ma che ricodifichi il potere politico sulla base della cen-
tralità non del sovrano – centralità che facilmente si prestava ad
una riproposizione della dottrina degli arcana imperii –, bensì
su quella del diritto e del potere dello Stato, inteso come ordi-
namento normativo di un determinato territorio. Secondo Hu-
ber, mentre l’agire politico è regolamentato dalla prudentia, sol-
tanto il diritto pubblico è passibile di una trattazione scientifica
che, prendendo l’avvio dall’analisi del diritto naturale, si evolve
nella costruzione di un sistema che fonde insieme il rigore del-
l’astrattezza logica e l’attenzione alle concrete manifestazioni
storiche. Si può comprendere allora come il tentativo huberia-
19 De jure civitatis libri tres rudimentum juris publici universalis exhibentes, Frane-

ker, Johannes Wellens 1672, cui seguirono una seconda edizione nel 1684, e una terza
nel 1694. Per un approfondimento intorno alle vicende biografiche di Huber e alla sto-
ria delle sue opere si veda il lavoro di T.J. VEEN, Recht en nut. Studien over en naar aan-
leiding van Ulrik Huber (1636-1694), Tjeenk Willink, Zwolle, 1976. Le citazioni pro-
vengono dalla III edizione, quella del 1694.
20 Pars pro toto KOSSMANN, Politieke theorie in het zeventiende-eeuwse Nederland,

cit., pp. 101-2. In realtà, come sottolinea T.J. VEEN, De beste staat: een quaestio politica
bij Huber en Spinoza, in «Bijdragen en Mededelingen betreffende de geschiedenis der
Nederlanden», LXXXVIII, 1973, pp. 38-51, solo nella III edizione del De jure civitatis
appare un riferimento esplicito alla dottrina spinoziana del diritto naturale.
21 Cfr. su questo punto F. LOMONACO, Lex regia. Diritto, filologia e fides historica

nella cultura politico-filosofica dell’Olanda di fine Seicento, Guida, Napoli, 1990, pp.
127-86, il quale afferma che le leges fundamentales per Huber «segnano i limiti del di-
ritto sovrano, essendo esse non un’emananzione della summa potestas, bensì il presup-
posto giuridico della sua esistenza» (p. 180).
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 411

no di rifondare la riflessione politica in Olanda dopo il 1672


prenda le distanze dall’ideologia che sosteneva la politica de-
wittiana, accusata di totale mancanza di rigore metodologico:
più in generale, è l’intero approccio hobbesiano alla materia
politica a essere messo in discussione, nella sua pretesa di valere
come conoscenza certa e apodittica, che tuttavia dimentica le
giuste attenzioni dovute al mondo storico delle istituzioni poli-
tiche e giuridiche, a partire dallo jus publicum romano22.
Anche senza approfondire la critica di Huber alla dottrina
hobbesiana del diritto naturale e della sovranità – che egli co-
munque non rifiuta in toto, ma che piuttosto cerca di inserire
nella più recente tradizione speculativa del suo paese, iniziata
da Grotius: un Hobbes che dunque non è, come per i De la Co-
urt, strumento diretto di battaglia politica, ma che deve bilan-
ciare il peso della tradizione althusiana in terra nederlandese –,
risulta comunque chiaro che la riflessione huberiana può avere
dei punti di contatto con quella condotta da Spinoza: in parti-
colare, proprio sulla base di una maggiore attenzione alle rela-
zioni concrete tra gli individui, Huber individua un nesso tra
assolutismo e potere reale del sovrano che lo avvicina alla posi-
zione del filosofo di Amsterdam23. Così la definizione dell’asso-
lutismo politico costruita non sulla teoria, bensì sulla concretez-
za dei rapporti di potere tra sovrano e sudditi, conduce Huber
a considerare il regime aristocratico di gran lunga preferibile al-
la monarchia, soprattutto se – come in Spinoza e nei De la Co-
urt – si tratta di un’aristocrazia ampia e dinamica, dove la costi-
tuzione formale apre a ogni cittadino la possibilità di entrare a
far parte della classe dei governanti: «sceglieremo non qualsivo-
glia aristocrazia, bensì quella costituita in modo che nessuno
che appartenga al popolo non possa, in un tempo e in un luogo
deciso dall’ordine della legge, aggregarsi al numero dei gove-
ranti (nemo sit ex populo, qui non in tempore et in loco secun-
dum ordinem Legis, Imperantium numero aggregari possit)»24.

22 KOSSMANN, Politieke theorie in het zeventiende-eeuwse Nederland, cit., pp. 84

sgg., sottolinea l’opposizione di Huber al razionalismo hobbesiano, che egli riteneva


applicabile esclusivamente alla situazione inglese.
23 Cfr. VEEN, De beste staat, cit., p. 45.
24 De jure civitatis, Libro I, sezione VII, cap. I, p. 199 (traduzione mia).
412 La libertà necessaria

La partecipazione del maggior numero possibile dei cittadini al


governo ne fonda dunque l’assolutezza, in sintonia con quanto
affermano le pagine del TP; tuttavia nel capitolo dedicato alle
diverse forme di organizzazione politica (De tribus Reipublicae
formis), il De jure civitatis sottolinea come il prevalere di un ti-
po di governo su un altro sia una diretta conseguenza di circo-
stanze contingenti, che dipendono dallo sviluppo storico della
regione: Huber quindi privilegia l’osservazione puntuale e im-
mediata rispetto al tentativo di fondare una prassi costituente
dotata di una intrinseca necessità. All’origine di questa disposi-
zione sta un’antropologia del tutto differente rispetto a quella
spinoziana, che separa l’originaria tendenza alla giustizia del-
l’uomo25 dal naturale desiderio utilitaristico di una vita felice
in una comunità pacificata: la separazione di questi due campi
– speculare a quella che si dà in ambito scientifico tra scienza
del diritto e teoria politica – fonda così una dottrina della natu-
ra umana esplicitamente individualistica, che rifiuta ogni ipote-
si di una gerarchia oggettiva delle forme di governo, e conse-
guentemente anche l’idea della superiorità assoluta del regime
democratico sulle altre forme di potere.
In conclusione, Huber dà la sua preferenza a un regime poli-
tico che lasci aperta la possibilità di un’osmosi continua tra
sudditi e governanti, sulla base della convinzione che non esista
alcuna scienza politica definitiva, ma soltanto un tentativo inin-
terrotto di adeguare le istituzioni alla contingenza storica26, te-
nendo comunque per stabilita ab aeterno l’universalità dei di-
ritti naturali dell’individuo, che quindi nessun potere può revo-
care; diversamente, per Spinoza è necessario istituire una con-
nessione progressiva tra politica e diritti, tale da cancellare la
differenza tra chi comanda e chi obbedisce, e in questa opera-
zione si concretizza il concetto spinoziano di democrazia. Pro-
prio il carattere progressivo del regime democratico, che è tut-
t’uno con l’emergere sul piano della prassi di governo dell’es-
senza democratica della politica, impedisce la possibilità di in-
dividuare in maniera definitiva il sistema costituzionale proprio

25 Cfr. ivi, Libro I, sezione I, cap. III, pp. 11 sgg.


26 Cfr. VEEN, De beste staat, cit., p. 51.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 413

dell’imperium democraticum, ovvero in grado di definire univo-


camente la forma delle istituzioni di una democrazia. In tal sen-
so, la concezione dell’optimum imperium di Huber viene assor-
bita e superata da Spinoza in un progetto di maggior portata
universalistica, che trasforma l’attenzione alla dimensione con-
creta delle relazioni politiche in uno strumento di emancipazio-
ne collettiva, dal momento che la possibilità di una riforma
continua dei rapporti di potere all’interno dell’imperium demo-
craticum è necessaria al mantenimento del communis consensus,
e, conseguentemente, allo sviluppo sempre più ampio della
partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni.
Una simile concezione della prassi politica come riforma per-
manente delle istituzioni è presente nella riflessione di uno dei
maestri del giovane Spinoza, quel Franciscus van den Enden
(1602-1674) alla scuola del quale il filosofo ebreo aveva studia-
to il latino27. Costui, oltre agli studi di cultura classica e di filo-
sofia e alla passione per il teatro, manifesta nel corso della sua
vita anche un attivo interesse per le vicende politiche dell’epo-
ca, al punto da trovarsi implicato, dopo il trasferimento in
Francia nel 1670, in una congiura contro Luigi XIV organizzata
dal signore di Latréaumont, in seguito alla quale egli verrà arre-
stato, torturato e infine impiccato nella Piazza della Bastiglia, il
6 dicembre 1674. Van den Enden è stato recentemente ricono-
sciuto come l’autore di due trattati politici, pubblicati anonimi:
il Korte Vehael van Nieuw-Nederlants Gelegentheit (Breve trat-
tato sulle opportunità dei Nuovi Paesi Bassi, 1662), e le Vrye
Politijke Stellingen (Libere proposizioni politiche, 1665)28. So-

27 Sulla vita di van den Enden, si veda J. MEININGER e G. VAN SUCHTELEN, Liever

met werken, als met woorden. De levenreis van doctor Franciscus van den Enden, leer-
meester van Spinoza, complotteur tegen Lodewijk de Veertiende, Heureka, Weesp, 1980,
e inoltre l’Introduzione di Klever alla riedizione dell’opera di van den Enden Vrije Poli-
tijke Stellingen, Wereldbibliotheek, Amsterdam, 1992.
28 I due titoli completi sono: Kort Verhael van Nieuw-Nederlandts Gelegentheit,

Deughden, Natierlijke Vorrechten, en byzondere bequaemheidt ter bevolkingh: Mitsgaders


eenige Requesten, Vertoogen, Deductien, enz. ten dien einden door eenige Liefhebbers ten
verschiede tijden omtrent ‘t laest van’t Jaer 1661, Gedrukt in ‘t Jaer 1662; Vrye Politijke
Stellingen en Consideratien van Staat, Gedaen na der ware Christenens Even gelijke
vryheits gronden; strekkende tot een rechtschape, en ware verbeeteringh van Staat, en
Kerk. Alles Kort, en beknopt, onder verbeteringh, voorgestelt. door een liefhebber van alle
414 La libertà necessaria

prattutto quest’ultimo è uno scritto ambizioso, che intende ri-


costruire i caratteri essenziali dell’associazione politica a partire
dall’analisi della natura umana, in particolare delle passioni.
Anche per van den Enden, come per Spinoza, non vi è soluzio-
ne di continuità nel passaggio dallo stato prepolitico a quello
politico, al punto che nessun individuo, istituendo una società
con altri simili, può abbandonare o costringere costoro ad ab-
bandonare gli aspetti caratterizzanti l’esistenza precedente: «La
libertà naturale strettamente egalitaria deve essere indotta e ri-
conosciuta a ogni uomo e membro di una comunità di uomi-
ni»29. Libertà e uguaglianza di tutti i cittadini sono dunque il
fondamento di quel bene comune (‘t Gemeene-beste) che costi-
tuisce il presupposto di ogni associazione umana; ma, continua
il testo, tra le diverse forme di regime politico solo la democra-
zia o «governo popolare (Volxs Regeringh)» può garantire sta-
bilmente i principi basilari della vita collettiva, poiché essa sol-
tanto è in grado di istituire un «governo libero, l’unico che per
sua natura permette un perpetuo miglioramento e che è suffi-
ciente a se stesso»30. Al di là dei numerosi passi e definizioni
presenti nel testo che manifestano un’esplicita consonanza con
quelle presenti nel TP 31, l’autore insiste soprattutto sulla capa-
cità della democrazia di sviluppare una pratica di autoemenda-
zione permanente, in grado di vincere la staticità delle istituzio-
ni tradizionali e di trasformarsi, attraverso l’opera legislativa
continua del corpo collettivo, con il mutare delle circostanze,
tanto interne quanto esterne, poiché, machiavellianamente, «la

der Welbevoeghde Borgeren Even gelijke Vryheit, en die, ten gemeene beste, Meest Van
Zaken Houdt, Amsterdam 1665. Per una ricostruzione delle vicende relative alla scoper-
ta di queste due opere cfr. l’Introduzione a Vrije Politijke Stellingen, cit., pp. 32 sgg.
29 «De Natuirlijke even gelijke vryheit, moet dan, aan ieder mensch, en Lidt eener

Vergaderingh van menschen, op ‘t klaerst geinduceert, en bekent gemaekt werden»


(Vrye Politijke Stellingen, cit., p. 142; traduzione mia, come anche nelle citazioni suc-
cessive).
30 «Een vrye regeeringh, die uit haer Natuur de ghedurighe verbeeteringh toelaet,

en in sich sluit» (ivi, p. 162).


31 Ad esempio l’immagine della democrazia come «un’assemblea degli uomini ben

qualificati (een vergaderingh van wel bevoegde mannen)» (ivi, p. 179), che secondo Kle-
ver corrisponderebbe al sui juris spinoziano. In proposito cfr. ancora W.N.A. KLEVER,
L’exigence d’une reformation permanente, ou la critique de Spinoza et Van den Enden a
la politique hollandaise, testo di un seminario tenuto a Napoli, 4-5 Maggio 1993, p. 12.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 415

natura di tutte le cose umane è tale che nessuna può esistere né


essere concepita al di fuori della necessità del mutamento»32.
Anche per van den Enden, dunque, la democrazia assume un
rilievo qualitativamente diverso rispetto agli altri imperia, per-
ché essa non si incarna in alcuna costituzione formale definita,
bensì si esprime integralmente solo nel «giudizio del popolo
(het oordeel van ‘t volk)», dal momento che «il popolo intero
preso nel suo insieme vuole, e non può non volere, in piena sin-
cerità il bene comune»33. Le Vrye Politijke Stellingen non nu-
trono alcuna ingenua illusione circa la presenza ab origine di un
principio razionale che permetta l’accordo immediato tra tutti
gli individui, e il volk citato in queste pagine non è altro che il
luogo in cui si intreccia una pluralità di comportamenti passio-
nali; ma proprio a causa dell’universale assoggettamento degli
uomini alle passioni van den Enden è spinto a considerare la
partecipazione attiva di tutti i cittadini come la sola condizione
di possibilità per il raggiungimento del bene comune.
Questa breve digressione sull’opera politica del maestro di
latino di Spinoza torna utile per almeno due motivi: innanzitut-
to perché essa evidenzia ancora una volta lo stretto legame esi-
stente tra il TP e quella corrente eterodossa del pensiero politi-
co moderno che è rappresentata dal repubblicanesimo olande-
se, espresso non soltanto dagli scritti dei De la Court, ma an-
che, e in forme ancora più radicali, dall’opera di van den En-
den: tanto Spinoza quanto l’autore delle Vrye Politijke Stellin-
gen individuano infatti nell’instaurazione di un regime demo-
cratico – o, più realisticamente, nella democratizzazione gra-
duale dell’aristocrazia federale – la sola possibilità per far supe-
rare alla Repubblica delle Province Unite la crisi del 1672, sal-
vandola dal pericolo di cadere sotto il dominio illiberale del
partito orangista. Ma vi è anche un secondo motivo per consi-
derare con interesse l’opera politica di van den Enden, cioè il

32 «De Natuur aller menschelijke zaken zodanigh heeft; dat’er geen dingh buiten
nootzakelijke veranderingh, kan werden gestelt, noch begreepen» (Vrye Politijke Stel-
lingen, cit., p. 223). Il riferimento a Machiavelli viene esplicitato in una nota, poche ri-
ghe più avanti.
33 «Het geheele volk te zamen genomen, en wil, noch kan niet anders willen, als

suiverlijk ‘t gemeene-best» (ivi, p. 173).


416 La libertà necessaria

fatto che essa evidenzia il legame teorico esistente tra la rifles-


sione spinoziana sull’imperium democraticum e la concezione
della politica avanzata, oltre un secolo prima, da Niccolò Ma-
chiavelli; in entrambi i pensatori, infatti, l’agire politico di una
collettività trae la sua assolutezza in primo luogo dalla mancan-
za di condizionamenti esterni, ma soprattutto dalla potenza che
immane a essa, poiché l’intera collettività ha il compito di ripor-
tare continuamente l’imperium al suo principio – per usare le
parole del cap. X del TP 34 – o, per meglio dire, di costituire
sempre ex novo le condizioni della convivenza, le leggi, i costu-
mi, i rapporti materiali tra le singolarità che compongono la
multitudo, senza tuttavia annullare mai la loro complessità na-
turale, che le rende irriducibili a un modello definito una volta
per tutte35.
A questa altezza è possibile compiere un ulteriore passo, per
cogliere pienamente il valore del nesso che collega la riflessione
politica spinoziana con l’osservazione attenta della società olan-
dese, e rilevare così la natura eminentemente pratica del TP –
nel significato che tale termine riceve da Spinoza36. Non vi è al-
cun dubbio che Spinoza riconosca il potenziale di liberazione
presente nella società olandese, a partire dal settore economico
per passare all’universo religioso o a quello filosofico; un poten-
ziale la cui necessità è inscritta nell’ontologia spinoziana, che
vede nel Deus sive Natura il principio dinamico di un’infinita
produttività, identificabile con la perfezione stessa della realtà
(avendo ben presente, tuttavia, che tale identità non implica
una raggiunta stabilità, nella quale la «cosa perfetta» manifesta
definitivamente il suo compimento, ma che al contrario la per-
fezione di ogni individuo naturale è data dal suo compiersi infi-
nitamente, dalla sua attiva partecipazione al prodursi intermi-
nabile della realtà stessa37). Il tentativo di innestare il piano sto-
34 Cfr. TP, cap. X, § 1, in Opera, III, p. 353 (trad. it. p. 221).
35 Con le parole di Revault d’Allonnes, «Spinoza pense donc une logique de la
constitution – une logique de la relation – qui intègre à la fois la dimension du ‘com-
mun’ et celle de l’extériorité ou de l’altérité» (Spinoza: éthique du nécessaire, éthique du
singulier, cit., pp. 135-6).
36 Cfr. TP, cap. I, § 4 in Opera, III, pp. 274-5 (trad. it. pp. 29-31), e inoltre il I pa-

ragrafo del II capitolo di questo volume.


37 In un intervento dal titolo Perfezione e realtà, in Jacques Lacau: la psicoanalisi,
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 417

rico e politico su quello ontologico produce l’emergenza della


democrazia come conatus della multitudo, tendenza naturale di
una collettività ad intraprendere un percorso comune di libera-
zione: per questo nella democrazia la libertà diviene necessaria,
in quanto implicata nell’essenza stessa della vita di un popolo.
Così nel dinamismo istituzionale proprio dell’imperium demo-
craticum si esprime quella progressiva congruenza di necessità e
libertà che Spinoza individua come asse portante della sua filo-
sofia: la libertà necessaria che immane alla politica democratica
diviene il punto d’avvio per costruire nella prassi concreta di
una popolazione quella necessità libera che è la cifra della po-
tenza infinita di Dio. Le definizioni iniziali dell’Etica sostengo-
no questa prospettiva; infatti libera è «quella cosa che esiste in
virtù della sola necessità della sua natura (ex sola suae naturae
necessitate existit) e che è determinata ad agire soltanto da se
stessa»38; inoltre, «solo Dio è causa libera. Solo Dio, infatti, esi-
ste per la sola necessità della sua natura»39; di conseguenza, l’a-
gire veramente libero è posto «non nel libero arbitrio, ma nella
libera necessità»40. E libertà, necessità e assolutezza, nella loro
strutturale coimplicazione, sono i termini che Spinoza impiega
anche all’inizio del TP, quando tratteggia gli aspetti essenziali
della sua antropologia politica, fondandola sulla natura divina:
l’uomo non può affatto dirsi libero perché può non esistere, o perché
può non usare la ragione, ma solo in quanto ha il potere di esistere e di
operare secondo le leggi della natura umana. Quanto più libero noi con-
sideriamo l’uomo, tanto meno possiamo attribuirgli il potere di non usare
la ragione e di preferire il male al bene. E così Dio, che esiste, intende e
opera in assoluta libertà, esiste, intende e opera anche necessariamente,
cioè secondo la necessità della sua natura41.

l’ermeneutica, il reale, a cura di A. Brandalise e S. Failli, Unipress, Padova, 1996, pp.


105-15, A. Brandalise afferma giustamente che per Spinoza «la realtà coincidente con
la perfezione non ha nulla a che vedere con il compiuto come già avvenuto. Dire che
perfezione e realtà coincidono significa sottrarre il reale allo statuto del passato, alla
rappresentazione di ‘ciò che c’è già’» (p. 112).
38 Etica I, def. VII, in Opera, II, p. 46 (trad. it. p. 89).
39 Etica I, 17, corol. II, in Opera, II, p. 61 (trad. it. p. 102).
40 «Vides igitur me libertatem non in libero decreto; sed in libera necessitate po-

nere» (lettera LVIII a G.H. Schuller, in Opera, IV, p. 265; trad. it. p. 248).
41 TP, cap. II, § 7, in Opera, III, p. 279 (trad. it. p. 41). Su questo fondamentale
418 La libertà necessaria

In conclusione, nel TP l’imperium democraticum, pur collo-


cato all’interno di una progressione delle forme di regime poli-
tico che lo incatena all’analisi storica, apre tuttavia a una di-
mensione ulteriore, che prendendo l’avvio dalla natura implici-
tamente democratica di ogni collettività umana, tende a supe-
rare l’orizzonte puntuale del potere, connessa inevitabilmente
alla struttura dell’imperium, in direzione della costituzione di
una nuova modalità di manifestazione delle relazioni interindi-
viduali: l’essere omnino absolutum proprio della democrazia in-
dica a un tempo la forma più compiuta dell’esistenza politica di
una multitudo e il superamento degli aspetti di passività che a
tale esistenza ineriscono.

3. Dalla libertà necessaria alla necessità libera


Spinoza è esplicito nel sostenere che non è la durata a defini-
re la bontà di una costituzione politica, come riconosce un pas-
so del TP già citato:
L’esperienza però sembra insegnare, al contrario, che il conferimento
di tutto il potere a uno solo giovi alla pace e alla concordia. Nessuno sta-
to ha resistito così a lungo senza mutamenti degni di nota, come quello
dei Turchi; e di contro, non ve ne sono stati di meno durevoli di quelli
popolari, o democratici, e dove si manifestassero tanti movimenti sedizio-
si. Ma se pace si devono chiamare la schiavitù, la barbarie e la desolazio-
ne, non vi è per gli uomini maggiore miseria della pace42.

Solo la pace che consiste «nell’unione, ossia nella concordia


degli animi»43 può determinare il criterio per giudicare della
bontà di un imperium, dal momento che è la qualità delle rela-
zioni che gli individui stringono tra loro, e non il loro prolun-
gamento temporale – magari attraverso un irrigidimento dei
ruoli e dei rapporti di subordinazione – a determinare la diffe-
renza tra i vari imperia. La dimensione della politica è quindi
inseparabile da un progetto di sviluppo qualitativo dell’esisten-
za umana, che trova la sua realizzazione in una democrazia

passaggio, che evidenzia la connessione tra ontologia e politica nel pensiero spinozia-
no, cfr. ancora FERNANDEZ, Freie Notwendigkeit und «absolutum imperium», cit.
42 TP, cap. VI, § 4, in Opera, III, p. 298 (trad. it. p. 89).
43 Ibid. (trad. it. p. 91).
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 419

compiuta; in tal senso, la stabilità e la perseveranza nel tempo


di un optimum imperium è piuttosto la conseguenza che non la
causa della sua costituzione. Ma se la dimensione temporale
non offre un valido sistema di distinzione tra i regimi politici,
questo significa che l’eccellenza della democrazia va misurata
su un altro piano, ossia sulla possibilità che essa offre ai cittta-
dini di raggiungere quella dimensione dell’eternità, che, per
usare le parole dell’Etica, è «la stessa esistenza, in quanto la si
concepisce seguire necessariamente (necessario sequi) dalla sola
definizione della cosa eterna»44. Il problema conclusivo che
non solo il TP, ma più in generale l’intera riflessione spinoziana
sulla politica pone, riguarda quindi le condizioni di possibilità
di una politica dell’eternità: di un progetto filosofico-politico
che, pur senza rinnegare la prospettiva storica – e anzi assu-
mendola come referente essenziale –, e intendendo muoversi
nell’ottica di una liberazione collettiva, e non semplicemente
individuale, si ponga l’obiettivo di trovare una saldatura tra la
finitezza dell’esistenza umana e l’eterna necessità della sostanza
infinita45.
Un simile progetto incontra un’iniziale difficoltà nell’appa-
rente contraddizione tra l’anti-elitarismo della politica, che
emergere dalle pagine del TP, e di contro l’immagine di un ari-
stocraticismo soteriologico presente soprattutto nell’ultima
parte dell’Etica46. Per scioglierla, e trovare così l’aggancio pro-
fondo tra le istanze universalistiche della politica democratica e
44 Etica I, def. VIII, in Opera, II, p. 46 (trad. it. p. 88). La spiegazione prosegue af-

fermando che tale esistenza «non si può spiegare mediante la durata o il tempo, anche
nel caso che la durata sia concepita mancante del principio e della fine». In generale,
sul concetto di eternità in Spinoza cfr. il recente lavoro di C. JAQUET, Sub specie aeter-
nitatis. Étude des concepts de temps, durée et éternité chez Spinoza, Kimé, Paris, 1997, e
la bibliografia in esso contenuta.
45 In Democrazia ed eternità, cit., Negri formula la domanda in questi termini: è

possibile per la politica «identificare un terreno sul quale l’eternità non sia il riflesso
trascendentale che garantisce, attraverso la divina potestas, il concetto, ma qualifica
l’ambito stesso nel quale si afferma la potenza della democrazia?» (p. 383).
46 Un esempio significativo è dato dalla prop. 70 della IV parte, dove Spinoza af-

ferma: «L’uomo libero, che vive tra gli ignoranti (inter ignaros), si sforza, per quanto
può, di rifiutare i loro benefici» (Opera, II, p. 262; trad. it. cit., p. 280). Sul problema
sopra indicato cfr. MATHERON, Le Christ e le salut des ignorants chez Spinoza, cit., so-
prattutto pp. 149-208 e 226-48, nonché B. ROUSSET, La perspective finale de l’Éthique
et le problème de la cohérence du spinozisme, Vrin, Paris, 1968, pp. 210-21.
420 La libertà necessaria

quelle individualistiche dell’etica, è possibile tentare la via di


una declinazione dell’eternità spinoziana come utopia, ovvero
come trascendimento assoluto della storicità: lo Stato democra-
tico assumerebbe così il compito infinito – nel senso di intermi-
nabile – di costruire una sorta di comunità metapolitica, che si
colloca al di là di ogni coinvolgimento con l’universo della du-
rata e della corporeità. Una simile soluzione, tuttavia, finisce
per produrre uno sdoppiamento della figura filosofica di Spi-
noza, tra un pensatore materialista, pienamente coinvolto nei
tumultuosi mutamenti del XVII secolo, e uno mistico, ancora
legato alle utopie rinascimentali: il primo autore dei due Tratta-
ti, il secondo invece dell’Etica. Tanto più pericoloso è utilizzare
il concetto di utopia per definire il progetto politico spinozia-
no, in quanto ciò significherebbe andare nella direzione oppo-
sta rispetto alle indicazioni metodologiche che lo stesso Spino-
za offre all’inizio del suo secondo trattato, e che costituiscono
una critica radicale delle teorie utopiche dei philosophi, che so-
no condannate senza appello, in quanto derivano direttamente
e in maniera acritica da una visione teleologica della realtà, che
sia nell’Etica, sia nei Trattati, è considerata un prodotto della
conoscenza di I grado (si veda ad esempio la Prefazione della
IV parte dell’Etica, dove Spinoza afferma che «la causa che si
dice finale non è, dunque, altro che lo stesso umano appetito
(nihil est praeter ipsum humanum appetitum), in quanto lo si
considera come principio o causa primaria di una certa co-
sa»47). La difficoltà di pensare la connessione tra il piano della
durata e quello dell’eternità – connessione dalla quale dipende,
sul versante dell’etica, la possibilità di un’emancipazione com-
pleta della multitudo, in grado di condurre ogni individuo che
ne fa parte a realizzare integralmente la potenza della sua cupi-
ditas – si manifesta così nella tentazione di assumere una pro-
47 Opera, II, p. 207 (trad. it. p. 232). Il testo continua con un esempio rivelatore:

«quando diciamo che l’abitare è stata la causa finale di questa o quella casa, non inten-
diamo in verità altro che l’uomo, poiché ha immaginato le comodità della vita domesti-
ca, ha avuto l’appetito di costruire una casa (homo ex eo, quod vitae domesticae commo-
da imaginatus est, appetitum habuit aedificandi domum)» (ibid.); ancora una volta, quin-
di, viene ribadito come l’essenza dell’individuo, ossia la sua cupiditas, si costituisca at-
traverso il nesso indissolubile con l’affettività e l’immaginazione, secondo la I Defini-
zione degli Affetti.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 421

spettiva di tipo escatologico, che è quanto mai lontana dalle co-


ordinate del pensiero spinoziano.
Per superare questo problema alcuni studiosi hanno rintrac-
ciato nell’opera di Spinoza una distinzione implicita tra un’uto-
pia dell’immaginazione ed un’utopia della ragione: la prima sa-
rebbe l’oggetto specifico della critica del I capitolo del TP,
mentre la seconda indicherebbe invece la strada verso la costi-
tuzione di una comunità di liberi, senza interrompere la conti-
nuità con la tensione analitica del realismo politico48. Tuttavia
una simile interpretazione si offre ad almeno due rilievi critici:
in primo luogo, la netta separazione tra la dimensione razionale
e quella immaginativa contrasta con il principio dell’assoluta
univocità della potentia naturae, cuore pulsante del progetto fi-
losofico spinoziano, che permea il conatus sese conservandi del-
l’uomo, unificandone le diverse facoltà nella prospettiva di un
continuo potenziamento del proprio essere; dall’altro lato, l’i-
dentificazione dell’aspetto utopico della politica spinoziana
con la compiuta razionalizzazione della società finisce per offri-
re una lettura debole di tale processo, che non è in grado di ri-
definire ex novo – cioè al di fuori dei vincoli della potestas – le
categorie che strutturano i rapporti interindividuali all’interno
di una collettività49.
Al fine di inquadrare il significato del processo di liberazio-
ne istituito dalla democrazia nell’ottica complessiva della rifles-
sione filosofica spinoziana – tenendo pertanto lo sguardo ben
fisso sul nesso esistente tra ontologia e teoria etico-politica –, e
quindi di comprendere la radicalità delle trasformazioni cui es-
so dà adito, che non possono limitarsi al piano della modellisti-
48 Sulla possibilità di rintracciare una «utopia della ragione» nel pensiero politico

spinoziano si esprimono tanto PEÑA ECHEVERRIA, La filosofía política de Espinosa, cit.,


pp. 422-3 – dove comunque è presente la consapevolezza dell’ambiguità di tale defini-
zione –, quanto L. MACHADO DE ABREU in Spinoza – L’utopie de la raison, in «Bullettin
de l’Association des Amis de Spinoza», XXVII, 1992 (e, più ampiamente, nella mono-
grafia Spinoza – a utopia de razão, Vega, Lisboa, 1993).
49 Una simile critica è presente, ad esempio, nel saggio di R. MISRAHI La rigueur et

l’utopie dans la philosophie politique de Spinoza, in De politieke filosofie van Spinoza,


cit., pp. 167-81, che insiste giustamente sull’identità posta dallo stesso Spinoza di realtà
e perfezione (cfr. Etica, II, def. VI Opera, II, p. 85; trad. it. p. 124: «Per realitatem, et
perfectionem, idem intelligo»), anche se manca un’interrogazione radicale circa il signi-
ficato che il concetto di realitas viene ad assumere in questa prospettiva.
422 La libertà necessaria

ca costituzionale, bensì devono raggiungere ciascun singolo in-


dividuo, modificandone gli aspetti esistenziali della cupiditas, è
necessario pensare la relazione tra eternità e storia secondo
modalità differenti da quelle proprie del pensiero utopico50.
Occorre riprendere il filo del discorso dalle osservazioni con-
clusive del I paragrafo di questo capitolo, che avevano eviden-
ziato come la democrazia compiuta esprima il superamento
dell’elemento coattivo presente nella lex in un sistema di jura
communia (quegli stessi che definiscono la società politica nel
momento della sua genesi), al quale ogni cittadino aderisce
pienamente. Se dunque la democrazia è, come si è tentato di
chiarire nel corso di tutto il volume, il fondamento di ogni im-
perium, dal momento che quest’ultimo dipende dalla potentia
multitudinis e dalle articolazioni che si producono al suo inter-
no, allora è proprio la dimensione intrascendibile della poten-
za collettiva a ‘desiderare’ la scomparsa di ogni residuo di se-
paratezza tra gli individui, presente fintantoché esiste una par-
te della cittadinanza che detiene il potere, e un’altra che lo
subisce. In democrazia l’emendazione degli affetti della collet-
tività raggiunge un punto di non ritorno, poiché essa produce
il massimo livello di comunicazione tra il maggior numero pos-
sibile dei cittadini, attraverso la partecipazione di tutti al go-
verno e la capacità di autoriforma permanente delle istituzioni.
In tal modo il bene comune emerge dalla sintesi delle peculia-
rità dei singoli, senza però che i diversi ingenia vengano com-
pressi in principi genericamente universali, e pertanto inevita-
bilmente percepiti come estranei; piuttosto, le leggi democrati-
che sono generate dal riconoscimento della struttura relaziona-
le di ogni individualità, la quale ha ormai superato la dimensio-
ne di autoreferenzialità propria di un conatus dominato dalla
cattiva immaginazione51.

50 Si tratta di una prospettiva ben presente nel dibattito storiografico, come dimo-

stra l’attenzione suscitata dal tentativo di Negri di definire la politica spinoziana come
una «politica della disutopia» (cfr. L’anomalia selvaggia, cit., pp. 253-9); tale tentativo è
stato oggetto di un intervento al congresso internazionale Freiheit und Notwendigkeit.
Die Gegenwart Spinozas im ethiscen und politischen Diskurs der Neuzeit (Lipsia, 24-26
Settembre 1992), di K.D. EICHLER, Spinoza und sozialistische Utopien: Bloch und Negri.
51 S. ZAC, Société et communion chez Spinoza, in «Revue de metaphysique et de
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 423

Il cittadino di una democrazia è dunque libero al massimo


grado, in quanto non solo le istituzioni che lo governano mira-
no al suo utile, ed egli partecipa in assoluta autonomia al loro
prodursi, ma è la sua stessa natura ad avere raggiunto una di-
mensione attiva e consapevole. All’uomo libero – o, se si vuole,
al cittadino di una democrazia matura – sono dedicate le ulti-
me proposizioni della IV parte dell’Etica, che ne evidenziano i
principali attributi: egli «non pensa a nulla meno che alla mor-
te, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vi-
ta»52; non ragiona attraverso le categorie di bene e male, che
sono mere finzioni dell’immaginazione53, «non fa nulla con in-
ganno, ma agisce sempre con lealtà»54, e, soprattutto:
L’uomo che è guidato dalla ragione è più libero nello Stato, dove vive
secondo un decreto comune, che nella solitudine, dove obbedisce soltan-
to a se stesso (magis in civitate, ubi ex communi decreto vivit, quam in so-
litudine, ubi sibi soli obtemperat, liber est)55.

Spinoza riprende un’affermazione che scaturisce diretta-


mente dalla sua metafisica, e che attraversa anche i due trattati:
non vi è libertà nel condurre un’esistenza isolata (in solitudine),
dove l’uomo, per quanto guidato dalla ragione, deve comun-
que obbedire ai bisogni e alle necessità dalle quali la sua vita
solitaria lo costringe a dipendere. Di contro, solo la vita in so-
cietà permette all’uomo razionale, che partecipa direttamente
alla produzione delle leggi che regolano la condotta di tutti i
cittadini, di non essere sottomesso ad alcun potere eteronomo,
e addirittura di ampliare i limiti della propria finitezza corpo-

morale», LXV, 1958, pp. 263-82, osserva giustamente che, se in Spinoza non vi è alcu-
na connotazione positiva del concetto di soggettività, di contro quello di individualità
gioca un ruolo centrale, soprattutto nella riflessione etico-politica.
52 Etica, IV, 67, in Opera, II, p. 261 (trad. it. p. 278).
53 Etica, IV, 68, in Opera, II, p. 261 (trad. it. p. 278).
54 Etica, IV, 72, in Opera, II, p. 264 (trad. it. p. 281).
55 Etica, IV, 73 in Opera, II, p. 264 (trad. it. p. 282). L’importanza di questa serie

di proposizioni è messa in rilievo nel numero IC (1994) della «Revue de métaphisique


et de morale» riservato alla IV parte dell’Etica spinoziana; cfr. in particolare gli articoli
di P. TEMKINE, Le modèle de l’homme libre, pp. 437-48, e di L. PEZZILLO, Rôle et func-
tion des valeurs à l’origine des sociétés, pp. 449-58, benché, soprattutto nel caso del se-
condo contributo, l’interpretazione del rapporto tra affetti e ragione diverga da quella
proposta in questo volume.
424 La libertà necessaria

rea grazie alla superiore organizzazione di una collettività poli-


tica nel raggiungimento dell’utile comune. All’interno di una
comunità organizzata, di una Respublica ordinata, ciascun sin-
golo gode di un’autonomia che ha le sue radici nella materialità
dei rapporti interindividuali; ma dentro la potenza emancipa-
trice dell’esistenza politica sussistono anche le condizioni per
raggiungere un livello più alto dell’humana libertas, che consi-
ste nella realizzazione di una tendenza assolutamente naturale:
quella di comunicare la propria libertà agli altri, contribuendo
così alla loro liberazione. Chi è in grado di sviluppare compiu-
tamente il proprio ingenium in vista del conseguimento del
«vero utile», sa bene che in natura «non si dà nulla di singolare
che per l’uomo sia più utile dell’uomo che vive secondo la gui-
da della ragione»56, e quindi comprende la necessità di accom-
pagnarsi con altri individui che, come lui, seguano nella loro
condotta di vita i dettami della ragione. Per questo l’uomo libe-
ro agisce come elemento catalizzatore all’interno di quel pro-
cesso di liberazione collettiva che costituisce la vita di una de-
mocrazia, operando al fine di un oltrepassamento dell’orizzon-
te politico in senso proprio, in particolare della dimensione
normativa che ne costituisce la struttura profonda, per stabilire
invece una relazione più libera e partecipata tra gli uomini. In
tal senso, la ragione non solo spinge ad impegnarsi politica-
mente, ma invita anche a superare la dimensione del vincolo
statuale57.
Più ancora che nelle istituzioni, l’uomo razionale agisce di-
rettamente nel mondo degli affetti, per dare un fondamento
più consistente alla pace e alla concordia tra gli uomini. Non
sono tanto le leggi positive a regolamentare il suo intervento,
quanto la consapevolezza di una più intima connessione tra sé
e gli altri membri della Respublica; in tal senso, Spinoza espri-
me ancora una volta, benché con un ampio grado di autono-
mia, la sua adesione di fondo all’orizzonte teorico repubblica-
no, che concepisce la dimensione pubblica come uno spazio in-
tersoggettivo le cui dinamiche originarie precedono e attraver-
56 Etica, IV, 35, corol. I, in Opera, II, p. 233 (trad. it. p. 254).
57 Cfr. su questo punto MATHERON, Individu et communauté selon Spinoza, cit.,
p. 539.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 425

sano la loro formalizzazione statuale58. L’individuo razionale


opera dunque su un piano parallelo rispetto all’assetto norma-
tivo dell’imperium, affinché anche gli ultimi residui di eterono-
mia presenti nella legislazione scompaiano: questo livello d’a-
zione è quello della pietas. La pietas – che, va ricordato, è pre-
sente fin dal sottotitolo del TTP, dove la libertas philosophandi
diviene condizione necessaria perché permangano la «pietà e la
pace dello Stato (Reipublicae)» – è definita nell’Etica come «la
Cupidità (Cupiditas) di far bene che nasce dal fatto che viviamo
secondo la guida della ragione»59, ponendosi allo stesso tempo
in continuità e in opposizione con l’Ambitio, affetto politico
per eccellenza. In entrambi i casi all’origine vi è l’appetito na-
turale di ciascun uomo a operare affinché «gli altri vivano se-
condo il suo modo di sentire (ex ipsius ingenio vivant)»60, ma
solo quando questa cupiditas sorge dalla ragione si può parlare
di azione dettata dalla pietà, e non di passione, come nel caso
dell’ambizione61. Ne consegue che, praticando la pietas, l’uomo
non solo contribuisce allo sviluppo degli affetti che regolano
l’esistenza di una società politica, ma produce anche un rinno-
vamento radicale delle modalità di relazione umana, poiché
ogni elemento passionale – strutturalmente inadeguato a espri-
mere compiutamente l’ingenium individuale – tende a trasfor-
marsi nella comunicazione esclusiva della potenza, ovvero della
virtù e della gioia: si manifesta così quel «desiderio senza ecces-
so» che può nascere soltanto dalla ragione62, pur senza con-
trapporsi, ma anzi esprimendo integralmente la dimensione af-
fettiva dell’esistenza.
58 Cfr. il saggio di P. PETIT, Il repubblicanesimo [1997], Feltrinelli, Milano, 2000.

Più in generale, una riflessione sul concetto di repubblicanesimo è offerta da M. VIROLI,


Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari, 1999.
59 Etica, IV, 37, scolio I, in Opera, II, p. 236 (trad. it. p. 257).
60 Etica, V, 4, scolio, in Opera, II, p. 283 (trad. it. p. 296).
61 Cfr. ibid.
62 Cfr. Etica, IV, 61: «La cupidità che nasce da ragione non può avere eccesso»

(Opera, II, p. 256; trad. it. p. 274). Prendendo lo spunto da questa proposizione Negri
opera un interessante tentativo di riconsiderare nelle pagine conclusive dell’Etica quel
dualismo tra politica e ascesi che nell’Anomalia selvaggia aveva invece giudicato insu-
perabile (cfr. Democrazia ed eternità in Spinoza, cit.). Più in generale, sulla potenza del-
la ragione cfr. il recente Spinoza: puissance et impuissance de la raison, a cura di C. Laz-
zeri, PUF, Paris, 1999 (interventi di C. Lazzeri, F. Mignini, C. Ramond, P. Macherey).
426 La libertà necessaria

La pietas recupera i tratti emancipatori di quella religione


originaria che, producendo un primo livello di armonizzazione
tra i diversi ingenia, fonda la possibilità di uno sviluppo demo-
cratico della società umana. Il sentimento religioso riemerge al-
lorché l’imperium sembra destinato a essere superato, e il pote-
re coattivo delle leggi si scioglie in un nuovo rapporto tra gli
uomini, e tra gli uomini e il Deus sive Natura: un rapporto che
elimina ogni residuo di superstizione originato dal versante im-
potente dell’immaginazione e dalla dismisura del desiderio
umano, come già l’avvio del TTP aveva indicato. Oltre la di-
mensione della politica, ma nel contempo, essendone l’elemen-
to fondante, profondamente radicata in essa, la religio rinasce
purificata dai suoi aspetti ideologici e dai limiti di un’affettività
ripiegata passivamente su se stessa, ora diventata semplicemen-
te amor erga Deum, il quale «deve occupare al massimo la Men-
te»63, riorganizzando le modalità di incontro tra gli esseri uma-
ni. Così, ad esempio,
questo amore verso Dio non può essere inquinato né da un affetto di
Invidia, né da un affetto di Gelosia; ma è tanto più alimentato, quanto
più numerosi sono gli uomini che immaginiamo essere uniti a Dio con lo
stesso vincolo di amore64.

In questa proposizione si manifesta la dimensione interindi-


viduale dell’amor erga Deum 65, che riprende le ampie dimo-
strazioni del TTP intorno alla natura comunicativa della reli-
gione, la quale esprime a ogni livello sia il desiderio dell’uomo
di congiungersi a Dio, sia quello di istituire, attraverso la figura
del divino, un più stretto legame con gli altri uomini66. È per
questa ragione che la religione può tradursi tanto nell’atteggia-
mento idolatrico e irrimediabilmente condannato all’infelicità
di chi affida al culto di un’immagine la salvezza della sua ani-
ma, quanto nella pratica dell’amore e nella fruizione piena del-

63 Etica, V, 16, in Opera, II, p. 290 (trad. it. p. 302).


64 Etica, V, 20, in Opera, II, p. 292 (trad. it. p. 303).
65 Cfr. P. MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La cinquième partie,

PUF, Paris, 1994, p. 101.


66 Sulla natura del legame religioso cfr. il dibattito citato tra A. Tosel e H. Laux

presente negli «Studia Spinozana», XI, 1995.


VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 427

l’esistenza. Nell’amor erga Deum l’idea adeguata di Dio prede-


termina lo spazio nel quale si produce l’esperienza della poten-
za degli affetti come pienezza del singolo e della comunità, e
conseguentemente apre alla dimensione collettiva della beatitu-
dine, che Spinoza, riprendendo la terminologia della tradizione
ebraico-cristiana, chiama gloria67.
Questo amore, che è ugualmente rivolto a Dio e agli uomini
per mezzo di Dio – cosicché per Spinoza i due comandamenti di
Cristo, «ama il Signore tuo Dio» e «ama il prossimo tuo come te
stesso» di fatto coincidono –, permette la transizione dal piano
della temporalità a quello dell’eternità, ovvero alla fruizione pie-
na dell’esistenza. Si tratta però di un passaggio che non può
spezzare l’integrale univocità della natura umana, ma che si
esprime piuttosto nella compenetrazione della dimensione affet-
tiva e di quella razionale: la beatitudine del singolo, come la glo-
ria dei molti, non può essere concepita né tantomeno praticata
come trascendenza rispetto alla corporeità e alla facoltà immagi-
nativa; al contrario, il corpo e soprattutto l’imaginatio manten-
gono la loro rilevanza all’interno dell’intero processo, se è vero,
come afferma Spinoza, che l’amor erga Deum «è tanto più ali-
mentato, quanto più numerosi sono gli uomini che immaginia-
mo (imaginamur) essere uniti con lo stesso vincolo di Amore»68.
Tuttavia l’ultima parte dell’Etica mantiene alcune ambiguità
a proposito del nesso tra l’immaginazione e la conoscenza in-
tuitiva che si manifesta al termine del processo di emendazione
dell’intelletto: ad esempio, vi si legge che «lo sforzo, ossia la
Cupidità di conoscere le cose con il terzo genere di conoscenza
non può nascere dal primo, bensì dal secondo genere di cono-
scenza»69; ma anche, poche pagine prima, che «però, sentiamo
e sperimentiamo di essere eterni (At nihilominus sentimus, ex-

67 Cfr. Etica, V, 36, scolio: «Comprendiamo chiaramente in che cosa consiste la

nostra salvezza, ossia beatitudine, ossia Libertà, e cioè nel costante e eterno Amore ver-
so Dio, ossia nell’Amore di Dio verso gli uomini. E precisamente questo Amore, ossia
beatitudine nei Sacri codici si chiama Gloria, e non immeritatamente» (Opera, II, p.
303; trad. it. pp. 312-3). Su questo scolio cfr. P.F. MOREAU, Métaphysique de la glorie.
Le scolie de la proposition 36 et le ‘tournant’ du livre V, in «Revue philosophique de la
France et del’Etranger», CXIX, 1994, pp. 55-64.
68 Etica, V, 20, in Opera, II, p. 292 (trad. it. p. 303).
69 Etica, V, 28, in Opera, II, p. 297 (trad. it. p. 308).
428 La libertà necessaria

perimurque, nos aeternos esse)»70, e che pertanto la dimensione


corporea non può venire interamente esclusa da tale processo.
In realtà, solo recuperando ancora una volta i risultati dell’in-
dagine intorno alla natura della conoscenza immaginativa di-
venta possibile eliminare ogni dubbio; occorre infatti ricordare
che l’immaginazione non si riduce alla produzione di rappre-
sentazioni illusorie, bensì è anche sempre potentia imaginandi,
e che in essa si radica la grande forza morale dei profeti, come
la capacità di presentire gli stati d’animo dei propri simili e, so-
prattutto, di accordarsi affettivamente con essi71. E al carattere
attivo dell’immaginazione fanno continuamente riferimento le
prime 20 proposizioni della V parte dell’Etica, nelle quali Spi-
noza indica la strada lungo la quale procede l’emancipazione
dell’uomo dalle passioni72. Il primo gradino di questo percorso
è dato dalla consapevolezza che «l’affetto verso una cosa che
immaginiamo semplicemente, e non come necessaria né come
possibile o contingente, pari essendo le altre circostanze, è il
più grande di tutti»73. Il simpliciter imaginari esprime l’intima
connessione tra l’imaginatio e gli affetti, ma contemporanea-
mente incorre nell’errore di ritenere la cosa immaginata come
libera, cioè indipendente dall’atto di immaginarla: infatti «im-
maginare una certa cosa come libera non può essere altro che
immaginarla semplicemente»74. La (presunta) libertà della cosa
limita dunque quella dell’immaginazione; è necessario pertanto
compiere un passo ulteriore, affinché all’atto di immaginare si
accompagni il riconoscimento della necessità delle cose stesse,
della loro iscrizione nella libera necessitas divina. Solo così la
potenza di immaginare sempre nuove cose e con sempre mag-
giore energia non si subordina al mondo oggettuale, rischiando
di tradursi nella costruzione di pregiudizi insuperabili75, ma al

70 Etica, V, 23, scolio, in Opera, II, p. 296 (tr. it. p. 307).


71 Il riferimento è alle pagine del II capitolo dedicate all’imaginatio prophetica.
72 Cfr. in proposito MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La cinquième

partie, cit., pp. 67-71.


73 Etica, V, 5, in Opera, II, p. 284 (trad. it. p. 296).
74 Ivi, dimostrazione.
75 Che non sia l’immaginazione presa in se stessa a produrre la distorsione dei giu-

dizi moralisitici, e che anzi la conoscenza immaginativa – e degli affetti che ad essa cor-
rispondono – possa offrire l’avvio per una teoria generale della natura è quanto sostie-
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 429

contrario conduce a un parallelo potenziamento degli affetti,


che ora «nascono o sono suscitati da ragione»76, e che pertanto
esprimono un grado più elevato della potenza individuale.
Nel passaggio dal «semplice immaginare» all’ «immaginare
necessariamente» – che significa anche: esprimere consapevol-
mente la piena necessità dell’attività immaginativa – sono con-
tenuti in nuce i tratti della conoscenza intuitiva, si dà cioè la co-
implicazione di temporalità ed eternità, come presenza neces-
saria dell’ «attuosa potenza» divina nella vita dell’uomo (o, se si
vuole, come implicazione altrettanto necessaria dell’esistenza di
ciascun modo finito nell’infinita ed eterna essenza di Dio)77:
non si può ‘diventare’ eterni se, in qualche modo, non lo si è
già da sempre, e se non lo si sperimenta, seppure in maniera
confusa, nella finitezza dell’esistenza quotidiana78. Fare espe-
rienza della propria costitutiva eternità non significa – o non si-
gnifica soltanto – immaginarsi immortali, ossia ritenere che la
propria mente sopravviva indefinitamente alla morte del corpo:
in tal caso, infatti, sarebbe ancora una volta la cattiva imagina-
tio a prevalere, e con essa un’interpretazione dell’eternità come
durata illimitata79, la qual cosa, come si è visto, ha tanto poco
senso per gli uomini quanto ne ha per gli Stati. L’esperienza
della propria aeternitas – o, se si vuole, di se stessi sub specie ae-
ternitatis – è piuttosto intensiva che estensiva: non nasce dal
trascendimento della dimensione esistenziale, ma piuttosto da
una più profonda conoscenza e da una più attiva partecipazio-

ne G. ALBIAC, El orden imaginario o la politica de la metafisica espinosiana, in Hobbes e


Spinoza. Scienza e politica, cit., pp. 355-97.
76 Etica, V, 7, in Opera, II, p. 285 (trad. it. p. 297).
77 Sulla necessità della natura eterna dei modi finiti insiste JAQUET, Sub specie ae-

ternitatis, cit., pp. 90-3. Dall’analisi di Jaquet emerge altresì il carattere universale del-
l’eternità, ovvero la sua condivisione da parte di tutti gli uomini, nessuno escluso (cfr.
p. 95: «L’éternité humaine fait donc partie des notions communes universelles et n’est
pas l’apanage de certains esprits seulement»).
78 Al punto che P.F. Moreau afferma che «le sentiment de la finitude est la condi-

tion du sentiment de l’éternité et, même, en un sens, il est le sentiment de l’éternité»


(Spinoza. L’expérience et l’éternité, cit., p. 544).
79 «Se poniamo mente alla comune opinione degli uomini, vedremo che essi sono

certamente consapevoli dell’eternità della loro Mente; ma che la confondono con la


durata e la attribuisono all’immaginazione, ossia alla memoria, che essi credono riman-
ga dopo la morte» (Etica, V, 34, scolio, in Opera, II, pp. 301-2; trad. it. p. 312).
430 La libertà necessaria

ne al prodursi infinito e necessario della sostanza; non è un ca-


so, infatti, che
chi ha un corpo capace (aptum) di molte cose, ha una Mente la cui
massima parte è eterna80.

Si potrebbe dire, allora, che il sentimento di eternità nasce


dal coinvolgimento affettivo, e quasi materiale (l’aptitudo parti-
colarmente sviluppata del corpo), alla vita della totalità, senza
tuttavia che venga annullata la consapevolezza razionale della
propria finitezza, e quindi della propria esatta collocazione al-
l’interno del processo di dispiegamento della potenza naturale.
Una simile esperienza costituisce il fondamento della beati-
tudine, che è pratica ininterrotta della pietas e della vera religio,
senza alcuno scopo ulteriore se non la realizzazione della pro-
pria essenza al più alto grado possibile. Infatti, raggiunta la
consapevolezza di essere eterni, scompare anche ogni tentazio-
ne a concepire la virtù come strumento per attingere a un bene
ulteriore, e sorge di contro il desiderio di godere della virtù co-
me di un bene in sé: «La beatitudine non è premio della virtù,
ma la virtù stessa; né godiamo di essa perché teniamo a freno le
libidini; ma al contrario, poiché godiamo di essa, possiamo te-
nere a freno le libidini»81. Ancora una volta, è nella dimensione
intrascendibile del presente che si vive la propria eternità, go-
dendo dei suoi doni; quindi nella normalità della vita quotidia-
na e delle sue relazioni, che tuttavia assumono in quest’ottica
una ben più ampia valorizzazione82. È il caso, ad esempio, delle
relazioni amicali, che costituiscono un aspetto importante del
mondo degli affetti umani, dal momento che per gli uomini «è
anzitutto utile stringere relazioni e legarsi con quei vincoli che

80 Etica, V, 39, in Opera, II, p. 304 (trad. it. p. 314).


81 Etica, V, 42, in Opera, II, p. 307 (trad. it. p. 317). È appena il caso di ricordare
come per Spinoza virtù e potenza si identifichino, cosicché è il pieno sviluppo di que-
st’ultima (possumus) a cancellare dall’orizzonte individuale la presenza delle passioni.
82 Giustamente quindi P. MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La quar-

tième partie, PUF, Paris,1997, sottolinea come l’etica di Spinoza, quale si delinea nelle
ultime proposizioni della IV parte dell’Etica, sia un «éthique au quotidien, qui résulte
d’un compromis entre les impulsions de l’affectivité et les enseignements de la raison»
(p. 414); un compromesso che espone l’uomo nella sua interezza alla dimensione del-
l’eternità, cioè della piena fruizione della propria esistenza.
VIII. La democrazia sub specie aeternitatis 431

sono adatti a fare di tutti un’unità e, in assoluto, a fare ciò che


serve a consolidare le amicizie (quae firmandis amicitiis inser-
viunt)»83. L’amicizia, all’interno dell’Etica, è un sentimento che
si rintraccia a tutti gli stadi dello sviluppo della natura umana:
vi è infatti amicizia tra gli individui dominati dalle passioni,
benché si tratti di una relazione esclusiva, e per questo ossessi-
va e instabile84; vi è poi un affetto di amicizia attraverso il quale
«l’uomo libero cercherà di unire a sé gli altri uomini»85, e quin-
di intervenire direttamente sui processi di integrazione affettiva
della comunità alla quale appartengono; infine, esiste un’amici-
zia che lega insieme gli uomini liberi:
Solo gli uomini liberi sono l’uno all’altro utilitissimi, e si uniscono l’u-
no all’altro con il più forte vincolo (maxima necessitudine) di amicizia
(per la Prop. 35 di questa parte e il suo Coroll. 1), e si sforzano con pari
desiderio di amore di farsi del bene a vicenda (per la Prop. 37 di questa
parte)86.

Se nei primi due significati i rapporti amicali definiscono


uno spazio di possibile mediazione tra l’agire passionale e quel-
lo determinato dalla ragione, contribuendo così alla graduale
stabilizzazione della società umana in un corpo politico, invece
l’amicizia degli uomini liberi, pur continuando a sussistere al-
l’interno dello Stato, indica una dimensione ulteriore, un lega-
me fraterno che scaturisce dalla maxima necessitas della natura
umana; una necessità che è la compiuta realizzazione della po-

83 Etica, IV, capitolo XII, in Opera, II, p. 260 (trad. it. p. 285). Non è difficile indi-

viduare un riferimento autobiografico in queste parole, mirante a sottolineare il valore


più che simbolico o semplicemente privato dell’amicizia all’interno del circolo spino-
ziano. Su questo punto si esprime bene MUGNIER-POLLET, La philosophie politique de
Spinoza, cit., p. 260.
84 Cfr. Etica, III, 35, in Opera, II, p. 160 (trad. it. p. 197): «Se qualcuno immagina

che la cosa amata leghi a sé un altro con un vincolo di Amicizia pari o più forte di quel-
lo con il quale egli stesso da solo ne godeva, sarà affetto da Odio verso la stessa cosa
amata e da invidia verso l’altro».
85 Etica, IV, 70, dimostrazione, in Opera, II, p. 263 (trad. it. p. 280).
86 Etica, IV, 71, dimostrazione, in Opera, II, p. 263 (trad. it. p. 281). Su questa

proposizione cfr. ancora MACHEREY, Introduction à l’Ethique de Spinoza. La quartième


partie, cit., pp. 409-10. Più in generale, sul concetto spinoziano di amicizia, e sui suoi
possibili contatti con la tradizione aristotelico-averroistica, si veda ILLUMINATI, Il teatro
dell’amicizia, cit., pp. 116-22, e P.F. MOREAU, Et. IV: les propositions 70 et 71, in «Re-
vue de métaphysique et de morale», IC, 1994, pp. 459-74.
432 La libertà necessaria

tenza individuale, ma anche l’esito di quel processo di libera-


zione avviatosi con la costituzione di un imperium prima, e di
una democrazia compiuta poi (non a caso, l’ultima proposizio-
ne di questa parte è proprio quella che sottolinea la priorità eti-
ca della civitas sulla solitudo). E tuttavia la dimensione politica
appare ormai svuotata del suo significato, come se nel «deside-
rio di amore» che coinvolge gli uomini liberi la Respublica, cioè
il piano del bene comune, guadagni l’autonomia nei confronti
di ogni potere; forse anche di quello democratico87. Il terreno
conquistato dalla libertà degli uomini è saldo, ma è anche aper-
to, espansivo, non circoscrivibile da alcun ordinamento statua-
le, né determinabile da alcuna legge positiva: «Omnia, inquie-
bat, amicorum sunt communia: Sapientes sunt Deorum amici,
et Deorum sunt omnia: Ergo Sapientium sunt omnia»88.

87 Non molto diversamente TOSEL, Histoire et éternité (in ID., Du matérialisme de

Spinoza, cit., pp. 37-77) afferma che si tratta di una politica che «a pour horizon le rap-
port de composition des corps humains hors des relations de domination coercitive im-
posées par des intérêts dominants encore passionels» (p. 73). Sull’ulteriorità della re-
spublica rispetto allo Stato alcuni spunti interessanti sono offerti da P.F. MOREAU, La
necesssaria incompiutezza della repubblica: contratti, interessi, passioni, intervento al
Convegno internazionale Il cittadino introvabile, Venezia, 28-30 Gennaio 1999.
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436 La libertà necessaria

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Indice dei nomi

ADELPHE L., 9 passim, 259n VAN DER BIJL M., 284n


AKKERMAN F., 36n, 153n BIRAL A., 163n
ALBIAC G., 23n, 429n BLAIR R.G., 94n
ALQUIÉ F., 102n B LOM H.W., 10 passim, 30n, 194n,
ALTHUSIUS J., 214, 319, 375 228n, 233n, 234n, 245n, 248n,
AMES W., 67, 183 252n, 253n, 266n, 273n, 283n,
ANDREATTA D., 151n 284n, 286n, 349n, 353n, 364n
ANJOU, DUCA DI, 215 BODEI R., 102n, 266n
ARISTOTELE, 35n BODIN J., 266, 410
ARMINIUS, 57, 60 BONGER H., 57n
BONOLA G., 48n
BAINTON R. H., 25n BOOGMAN J.C., 218n, 246n, 248n
BALIBAR È., 12 passim, 43n, 50n, 95n, BORDOLI R., 47n, 48n, 49n
120n, 138n, 143n, 151n, 171n, BOREEL A., 60, 76
179n, 259n, 290n BORKENAU F., 214n, 266n
BALLING P., 60-61, 66-70, 76 passim, BOSS G., 110n
79-80, 91 BOSTRENGHI D., 34n, 84n, 90n, 91n,
BARBOUR V., 229n, 246n 93n, 99n
BARLAEUS C., 30, 236 BOTS H., 28n
BARTUSCHAT W., 151n, 175n BOUWMAN M., 183n
BATTISTA A.M., 330 B OVE L., 85n, 90n, 97n, 99n, 129n,
BAYLE P., 9, 253 130n, 136n, 176n, 319n
BELAIEF G., 121n, 123n BOXEL H., 35, 93n
BELLARMINO R., 183 BOXHORNIUS M.Z., 245, 267
BENNET J., 99n BRANDALISE A., 417n
BENUSSAN G., 47n BRAUDEL F., 220n
VAN DER BERG J., 72n BREDENBURG J., 88
VAN BERKEL A., 30 VAN BREDERODE J.W., 245
BERLIN I., 400n BRETON S., 45n, 83n, 84n, 130n, 136n,
BERTRAM B.C., 125 147n, 200n
BERTRAND M., 90n, 91n, 92n, 93n, 97n, BROWN N.O., 84n, 108n
101n BRYKMAN G., 112n, 326n
VA N B E U N I N G E N C., 245-246, 256 VAN B UNGE L., 60n, 61n, 75n, 251n,
passim 257n
BIDERMAN S., 107n BURGH A., 179n
472 La libertà necessaria

BURKE P., 374n DE LA COURT J., 11, 19, 269, 283, 286-
289, 305-306, 309-311, 323, 325,
CAILLOIS R., 151n, 157n, 207n 330-331, 334, 337, 340, 352, 356-
CALVINO G., 54, 181 358, 365-366, 368, 372, 383-384,
CAMPANALE A.M., 321n 386, 396-397, 401 passim, 410, 411,
C AMPOS B ORALEVI L., 106n, 107n, 415
126n, 127n, 132n DE LA COURT P., 11, 19, 236, 247-249,
CAPORALI R., 157n, 278n 331, 334, 337, 340-341, 352, 356-
CARP J.H., 151n, 158n 358, 365-366, 368, 372, 382-384,
CASELLATO S., 39n, 40n, 170n 386, 396-397, 401, 410, 411, 415
CASTELLION S., 59 passim, 78n, 79n, DELEUZE G., 98n, 157n, 280n, 317n,
125 402n
CATON H., 247n DE MICHELIS F., 58n, 126n, 186n, 188n
CHAMLA M., 38n, 44n, 46n, 88n, 108n, DE MOULIN L., 192
118n, 143n DEN TEX J., 222n
CHIANESE L., 263n DEN UYL D., 121n, 165n, 291n, 294n,
CLAPMARIUS A., 349-350 318n, 400n, 409n
COCCEIUS J., 182 DEREGIBUS A., 157n
COCQUIUS G., 233 DESCARTES R., 13, 29 passim, 49n, 62,
COERT J., 155n 69, 93, 251, 284, 286, 402
COHEN G., 255n VAN DEURSEN A.T., 181n
COLERUS J., 255n DE VRIES T., 177n, 257n
CONRING E., 181n, 183n, 190n, 197n DE WIT J., 192
CONSTANS L.A., 174n, 195-199, 204, DE WITT J., 192, 226, 235-239, 242,
207 244-250, 255-258, 260-261, 277,
CONTI V., 125n, 126n, 231n 339-340, 347, 352, 355, 374, 378,
COORNHERT D.V., 27, 56-57, 57n, 59 380, 389, 396
passim DIBON P., 31n, 265n
CORNELISSEN J.D.M., 250n VAN DIJK J., 80
CORSI M., 83n, 163n, 259n DINI A., 29n
CRISTO, 56, 59, 65, 68, 71-73, 76-78, DI VONA P., 159n
178-179, 184, 188-189, 192-193, DOMINGUEZ A., 263n, 304n, 312n
200 DONNER H., 81n
CRISTOFOLINI P., 23n, 90n, 98n, 101n, DREITZEL H., 25n
103n, 258n, 263n, 275n, 289n, DROETTO A., 21n, 29n, 40n, 158n
290n, 303n, 319n DUFF R.A., 163n
CROMWELL O., 248 DUSO G., 87n, 88n, 214n, 303n, 319n
C UNAEUS P., 106-107, 126-127, 129,
131, 133-134, 137, 139, 140-142 ECKSTEIN W., 164n, 408n
CURLEY E., 21n, 89n EFFINGER A.,
CURZIO RUFO Q., 40 EICHLER K.D., 422n
VAN DEN ENDEN F., 31, 62, 261, 409,
DA COSTA U., 22, 23 413-415
DE ANGELIS E., 33n EPISCOPIUS, 60
DEBORIN M., 27n ERASMO DA ROTTERDAM, 27
DE BREEN D., 60, 71 EVENHUIS R.B., 28n
DE CLERCQ B.J., 111
DE DEUGD C., 36n, 90n FABER J.A., 219n
DE DIJN H., 270n, 271n FERNÀNDEZ E., 292n, 402n, 418n
Indice dei nomi 473

F EUER L.S., 92n, 105n, 118n, 142n, GROENVELD S., 235n


146n, 166n, 178n, 255n, 259n, GROTIUS H., 10 passim, 57, 63, 125,
261n, 277n, 343n 155, 163, 186, 188, 192, 195, 197,
FIGGIS J.N., 214n 207, 208, 231, 236, 411
FILIPPO II D’ASBURGO, 213, 215, 230, GUEROULT M., 93n, 97n, 114n, 295n
232
FIRPO M., 25n, 26n H ADDAD -C HAMAKH F., 98n, 162n,
FIX A.C., 56n, 59n, 60n, 67n, 70n, 77n, 345n, 354n, 361n, 377n, 385n
78n H AITSMA M ULIER E.O.G., 9 passim,
FLAVIO G., 125, 131, 133 284n, 338, 342n, 372n, 377n, 390n
FLOREZ MIGUEL C., 278n HAMMACKER K., 292n
FOCKEMA ANDEREAE S.J., 213n, 219n, HARRINGTON J.,
224n, 347n HARRIS E.E., 110n
FORCE J.E., 44n HECKER K., 236n, 244n
FRANCÉS M., 30n, 31n, 62n, 81n, 113n, HEGEL G.W.F., 24n
256n, 263n, 320n, 385n, 409n HENSIUS D., 267
FRANCK S., 56 HIRSCH P., 89n
F REDERIK H ENDRIK D ’O RANGE , 234, HIRSCHMAN A.O., 248n, 249n, 354n
240-241 HOBBES T., 10, 29-30, 40n, 62, 86-88,
FREUDENTHAL J., 255n 155, 159, 193, 208, 233-234, 239,
262, 284, 301, 321, 323, 330, 354,
GABAUDE J.M., 286n 363, 391
GALENUS A., 72, 76-80, 88, 208 HOFFHEIMER M.H., 160n
GALLI C., 86n HOFMAN M., 56
G ALLICET C ALVETTI C., 40n, 83n, HOOFT C.P., 215, 230
158n, 266n, 329n, HOOFT P.C., 215
GARULLI E., 321n HUBBELING H.G., 61n, 257n
GASTALDI U., 55n HUBER U., 409-412
GEBHARDT C., 9passim, 23n, 67n, 349n HUDDE J., 256
GEHLHAAR S., 84n HUIZINGA J., 28
VAN G E LDE R H.A.E., 180n, 186n, HUTTON S., 21
197n, 230n, 242n HYLKEMA C.B., 31n, 81n
VAN GELDER R., 30n
VAN G ELDEREN M., 26n, 57n, 105n, ILLUMINATI A., 157n, 431n
215n, 216n, 230n, 265n, 390n I SRAEL J.I., 26n, 182n, 213n, 219n,
GEUNA M., 384n 220n, 224n, 229n, 251n
GEURTS P.A.M., 213n
GEYL P., 222n, 228n, 234n, 237n, 251n JACOB P., 298n
G IANCOTTI E., 23n, 29n, 37n, 151n, JELLES J., 67n, 76, 262, 301
157n, 160n, 163n, 171n, 204n, JAPIKSE N., 256n
206n, 261n, 277n, 278n, 326n JAQUET C., 419n
VON GIERKE O., 215n JAUME L., 86n
GILLY C., 79n JONES R.M., 57
GIORGINI G., 86n JONGENEELEN G.H., 62n, 66n
GIOSUÈ, 137, 139 JORIS D., 56
GONNELLA G., 158
GREVER J.H., 217n, 218n, 225n KAPLAN Y., 88n
GROEN J.J., 108n, KASHER A., 107n
GROENHUIS G., 106n KEYZER M.A., 343n
474 La libertà necessaria

KISAKU K., 162n 95n, 97n, 114n, 122n, 158n, 161n,


K LEVER W.N.A., 67n, 68n, 69n, 426n, 428n, 430n, 431n
193n251n, 298n, 338n, 340n, 369n, MACHIAVELLI N., 233, 284, 306, 329,
413n, 414n 389, 390, 390n, 416
KLINKHAMER L., 72-75, 78, 89, 208 MAIMONIDE M., 48-49, 84
KNOX R.A., 70n MALAMUD B., 9
VAN DER KODDE G., 59 MALET A., 129n, 142n
KOERBAGH A., 30, 61-67, 70 MARE G.M., 400n
KOERBAGH J., 62, 70 MASTELLONE S., 229n
KOLAKOWSKI L., 54 MATHERON A., 46n, 89n, 131n, 136n,
KOOPMANS J.W., 220n, 221n 145n, 150n, 155n, 162n, 163n,
KOSSMANN E.H., 9 passim, 106n, 214n, 179n, 259n, 261n, 263n, 265n,
226n, 231n, 240n, 249n, 265n, 290n, 291n, 292n, 293n, 294n,
283n, 285n, 410n, 411n 297n, 299n, 302n, 310n, 326n,
KRAHN C., 56n 336n, 356n, 377n, 406n, 419n,
KRISTELLER P.O., 266n 424n
KÜHLER W.J., 56n, 57n M AURITS D ’O RANGE , 218, 222, 224,
228, 241
LACHARRIERE R., 172n, 300n MC SHEA R., 129n, 143n, 279n, 336n
LACHTERMAN D.R., 295n MÉCHOULAN H., 26n, 28n, 30n, 107n
L AGRÉE J., 49n, 122n, 180n, 187n, MEIHUIZEN H.W., 76n
190n, 195n, 205n, 207n MEIJER W., 9, 89n
LANKHORST O.S., 28n MEINECKE F., 248n
LAPLANCHE F., 105n, 125n MEININGER J., 413n
LAUX H., 84n, 90n, 109n, 117n, 178n, M EINSMA K.O., 30n, 31n, 62n, 67n,
426n 81n, 255n
LAZZERI C., 159n, 165n, 354n, 425n MELI F., 55n
LECRIVAIN A., 295n MELLINK A.F., 214n
LEEB I.L., 243n MENZEL A., 9 passim, 89n, 164n, 169n,
LEIBNIZ G.W., 16 259n
LEICESTER, CONTE DI, 215-216 MERLO M., 408n
LEVI DELLA TORRE S., 112n MESSERI M., 99n, 295n, 296n
LIEBESCHÜTZ H., 143n MEYER L., 30 passim, 47-49, 51, 72
VAN LIEBURG F.A., 182n MIEGGE M., 70n, 71n
LIGOTA C.R., 125n MIGNINI F., 33n, 38n, 39n, 90n, 96n,
LINDEBOOM J., 57n 205n
LIPSIUS J., 215, 230, 265, 266-268, 349 MISRAHI R., 160n, 174n, 278n, 421n
LOCKE J., 408n MÖRKE O., 241n, 244n
LOMONACO F., 410n MONTAIGNE M., 330
LOPES-PEGNA U., 34n MONTANO A., 263n, 289n, 304n
LOSSKI A., 212n MOREAU P.F., 30n, 34n, 36n, 38n, 40n,
LOURDAUX W., 56n 42n, 43n, 44n, 46n, 49n, 51n, 111n,
LUCAS J.M., 255n 119n, 201n, 305n, 427n, 429n,
LUIGI XIV, 246, 395 431n, 432
LUIGI XVI, 211 MOSÈ, 65, 111, 117, 124, 126, 128-132
LUTERO M., 54 MOUT N., 230n
M UGNIER -P OLLET L., 116n, 136n,
MACHADO DE ABREU L., 421n 151n, 155n, 169n, 174n, 187n,
MACHEREY P., 12 passim, 13, 24n, 49n, 200n, 279n, 299n, 300n, 303n,
Indice dei nomi 475

314n, 342n, 348n, 361n, 389n, PROUNINCK VAN DEVENTER G., 400n
394n, 405n, 431n
MÜNTZER T., 54 RADEMAKER C.S.M., 191
RAVÀ A., 329n
DE NAVE F., 267n RAZUMOWSKI J.P., 124n
NEGRI A., 12 passim, 27n, 90n, 140n, REMBRANDT, 106
151n, 207n, 260n, 261n, 400n, REVAH I.S., 107n
403n, 419n, 422n, 425n REVAULT D’ALLONNES M., 209n, 297n,
VAN NIMWEGEN E., 59n 416n
NOBBS D., 181n, 184n, 195n RICE L.C., 200n, 303n
NOORDEGRAAF L., 244n RIVAUD A., 295n
RÖD W., 165n, 285n
OESTREICH G., 265n ROLDANUS C.W., 90n
OLDENBARNEVELT J., 182, 222, 224, 228 ROORDA D.J., 235n
OLDENBURG H., 16, 21, 23, 25, 29, 32, ROSEN S., 151n
37, 51, 52, 72, 180 ROSENTHAL M.A., 137n, 144n
OROBIO DE CASTRO I., 88 ROUSSET B., 419n
OSIER J.P., 23, 43n, 46n ROWEN H.H., 9 passim, 212n, 222n,
OSTENS J., 251, 253 225n, 226n, 227n, 239n, 242n,
OVIDIO, 46, 285 245n, 246n, 256n

PACCHIANI C., 116n, 163n SAAGE R., 214n, 226n


PAETS A., 256 S ACCARO DEL B UFFA B ATTISTI G.,
PARKER G., 212 154n, 304n, 322n, 343n, 351n,
PARKER R., 183-184, 213n 367n, 368n
PARROCCHIA D., 296n, 298n SACKSTEDER W., 40n, 301n, 378n
PASTINE D., 44n SALMASIUS, 192
P EÑA E CHEVERRIA F.J., 155n, 156n, SAN PAOLO, 74
304n, 320n, 331n, 364n, 378n, SANCHEZ ESTOP J.D., 91n, 93n
382n, 400n, 421n SCHAMA S., 106n, 235n
PENTZOPOULOU-VALALAS T., 45n SCHÄFER A., 344n
PETIT P., 425n SCHILLING H., 223n
PEZZILLO L., 263n, 304n, 423n SCHMITT C., 86n, 226n
PICCININI M., 87n, 88n, 319n SCHNEIDER W., 60n
PINCUS S., 249n SCHÖFFER I., 232n
PINES S., 84n VON SCHWENCKFELD K., 56, 60
PINTACUDA DE MICHELIS F., vedi DE SCRIBANO E., 39n, 58n
MICHELIS F. SECRETAN C., 156n, 212n, 214n, 223n,
PLATONE, 35n, 361 227n, 233n, 242n, 288n
POCOCK J.G.A., 142n, 329n SENECA, 172
POLLOCK F., 9, 163n SERRARIUS P., 71 passim, 72, 80
PONTANUS I., 74 SIEBRAND H.J., 63n, 65n, 67n, 257n
POPKIN R.H., 23n, 43n, 44n, 70n SIGNORILE C., 206n, 251n
PREPOSIET J., 25n, 124n, 203n, 204n, SIGONIUS C., 125
259n, 336n SILVANO G., 126
P RICE J.L., 27n, 211n, 215n, 219n, SIMMONS M., 56
221n, 227n, 228n, 242n, 250n, VAN SLEE J.C., 57n, 59n, 60n
347n SMITH S.B., 47n, 107n
PROKHOVNIK R., SOCINO F., 55n, 58
476 La libertà necessaria

SOCRATE, 35 VERBEEK B., 294n


SOLARI G., 164n VERNIÈRE P., 278n
SPRUYT D., 76 VINCIERI P., 176n
STOLLEIS M., 349n VIROLI M., 425n
S TRAUSS L., 35n, 47n, 86n, 87n, 88, VISENTIN S., 79n, 120n, 230n
88n, 110n, 156n, 263n, 265n, 266 VOETIUS G., 168, 182-186, 188
VAN SUCHTELEN G., 413n VONDEL, 106
SWART K.W., 174n, 229n VORSTIUS C., 186
VOSSIUS G. J., 190-192
TACITO, 308 VRANCK F., 216, 243
VAN DER TAK W.G., 67n
TAZBIR J., 26n VAN DER WALL E.G.E., 72n, 82n
TEMKINE P., 423n WALTHER M., 39n, 43n, 48n, 51n,
TERPSTRA M.J., 318n, 321n 114n, 131n, 261n, 274n, 300n,
THALHEIMER A., 27n 325n, 344n
‘T HART M., 27n, 229n, 244n WALZER M., 71n
THIJSSEN-SCHOUTE C., 31n WANSINK H., 107n, 245n, 265n
TODESCAN F., 190n WEILER J., 125n
TOMMASO D’AQUINO, 143 WERNHAM C., 108n, 164n
TOSEL A., 12 passim, 34n, 35n, 79n, WEST D., 400n
81n, 84n, 91n, 144n, 165n, 173n, WILDENBERG I.W., 236n
201n, 265n, 272n, 274n, 278n, W ILLEM IL TACITURNO D ’O RANGE ,
426n, 432n 212, 223, 341
TREVOR-ROPER H.R., 212n WILLEM II D’ORANGE, 222, 234, 240
TRIGANO S., 88n WILLEM III D’ORANGE, 241, 246, 329,
TROELTSCH E., 54n, 59n 341, 347, 355, 389
TUCK R., 126n, 231n WILLIAMS G.H., 54n, 55n
WILSON C., 28n
UENO O., 164n
UYTENBOGAERT J., 181 YODER J.H., 55n
YOVEL Y., 23n, 44n, 107n, 108n, 326n
VALCKENIER P., 248n
VANDENBOSSCHE H., 62n, 63n Z AC S., 41n, 50n, 84n, 94n, 124n,
VAUGHAN C.E., 163n 130n, 136n, 145n, 409n, 422n
VAZ DIAS A.M., 67n VAN ZANDEN J.L., 219n
VEEN T.J., 410n, 411n, 412n ZARKA Y.C., 44n, 86n
VAN V ELTHUYSEN L., 167, 193-196, ZILVERBERG S.B.J., 60n
233, 251-254, 257, 262 ZOURABICHVILI F., 351n
Indice del volume

Introduzione 9

Capitolo Primo
LE CIRCOSTANZE DELLA COMPOSIZIONE
DEL TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO

1. La filosofia minacciata 21
2. L’intervento sulla realtà 32
3. Superstizione e religione 37

Capitolo Secondo
LINGUAGGIO, PROFEZIA E IMMAGINAZIONE

1. Spinoza e i «cristiani senza Chiesa» 53


2. Critica del linguaggio, politica e religione: Koer-
bagh e Balling 61
3. Libera profezia e visibilità della Chiesa: l’espe-
rienza dei collegianti 70
4. Profezia, conoscenza naturale e immaginazione
nel TTP 79
5. La potentia imaginandi nell’Etica 90

Capitolo Terzo
IMMAGINAZIONE E DEMOCRAZIA:
UNA LETTURA DELLA TEOCRAZIA EBRAICA

1. La critica storica nel TTP 105


2. La desacralizzazione del racconto biblico 110
3. Religione e democrazia nella teocrazia ebraica 125
478 La libertà necessaria

Capitolo Quarto
DALLA TEORIA DEMOCRATICA
ALLA LOTTA PER LA LIBERTÀ

1. Societas e imperium nel TTP 149


2. Dal contrattualismo all’imperium democraticum 155
3. Il dibattito sullo jus circa sacra in Olanda all’epo-
ca di Spinoza 177
4. Libertà religiosa e democrazia 198

Capitolo Quinto
ISTITUZIONI E LOTTA POLITICA
NELL’OLANDA DEL XVII SECOLO

1. Il problema della sovranità nella Repubblica del-


le Province Unite 211
2. Lo scontro ideologico in Olanda nella seconda
metà del ’600 230
3. Johan De Witt (1625-1672): una politica al servi-
zio dell’interesse di Stato 244
4. La crisi del 1672 nella riflessione di Spinoza 251

Capitolo Sesto
JURA COMMUNIA E MULTITUDO:
IL FONDAMENTO NATURALE DEL POTERE
DEMOCRATICO

1. Il metodo del TP: teoria, esperienza e prassi 261


2. La scienza delle passioni umane nel TP e nelle
Consideratien van Staat 275
3. Il ruolo politico degli affetti 289
4. La dialettica interna all’imperium: potere sovra-
no, sudditi, cittadini 311

Capitolo Settimo
L’EVOLUZIONE DEI REGIMI POLITICI

1. Il potere del re e la potenza della multitudo 329


2. L’optima monarchia come democrazia imperfetta 338
3. Patrizi e plebei nel regime aristocratico 359
4. La natura espansiva dell’aristocrazia 368
5. Dopo il 1672: una democratizzazione possibile 386
Indice del volume 479

Capitolo Ottavo
LA DEMOCRAZIA SUB SPECIE AETERNITATIS

1. L’assolutezza dell’imperium democraticum 399


2. La democrazia come emendazione permanente
delle istituzioni: Spinoza tra Ulrik Huber e Fran-
ciscus van den Enden 409
3. Dalla libertà necessaria alla necessità libera 418

Bibliografia 433
1. Opere di Spinoza 433
2. Autori citati 434
3. Letteratura 440

Indice dei nomi 471


Finito di stampare nel gennaio 2001
in Pisa dalle
EDIZIONI ETS

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