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Sommario

Frontespizio
Copyright
Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Interludio
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Interludio
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Interludio
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Interludio
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Interludio
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Interludio
Capitolo 55
Capitolo 56
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-3269-4
Edizione ebook: ottobre 2016
Titolo originale: Cibola Burn
© 2014 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2016 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published in agreement with the author,
c/o BAROR INTERNATIONAL, INC.,
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Questa copia è concessa in uso esclusivo a
A Jay Lake ed Elmore Leonard.
Signori, è stato un piacere conoscervi.
Prologo
Bobbie Draper

Mille mondi, pensò Bobbie, mentre le porte della metropolitana si


chiudevano. E non solo mille mondi, ma mille sistemi. Soli. Giganti gassose.
Fasce di asteroidi. Tutto lo spazio su cui l’umanità doveva diffondersi,
moltiplicato per mille. Lo schermo sopra i sedili di fronte al suo trasmetteva
un notiziario, ma gli altoparlanti erano rotti e la voce del cronista era troppo
indistinta per capirne le parole. Le immagini che apparivano a tratti accanto a
lei erano però sufficienti a seguire il senso del discorso. Erano giunti nuovi
dati dalle sonde che erano state mandate oltre il portale. Adesso c’era
l’immagine di un sole sconosciuto, con alcuni cerchi a indicare le orbite di
nuovi pianeti. Tutti vuoti. Chiunque aveva creato la protomolecola e l’aveva
lanciata verso la Terra nella notte dei tempi non rispondeva più alle chiamate.
Il costruttore del ponte aveva aperto la via, e nessun dio possente ne era
emerso.
Bobbie pensò che era stupefacente la rapidità con cui l’umanità poteva
passare dal ‘Quale intelligenza inimmaginabile può aver creato queste
sconvolgenti meraviglie?’ al ‘Ecco, visto che non sono qui, posso prendermi
le loro cose?’
«Chiedo scusa,» disse una rauca voce maschile «non avrebbe qualche
moneta per un veterano?»
Bobbie distolse lo sguardo dagli schermi. L’uomo era esile, grigio in volto,
e il suo fisico portava i segni di una fanciullezza vissuta in un ambiente a
bassa gravità: corpo allungato, testa grossa. Si umettò le labbra e si protese in
avanti.
«È un veterano? Dove ha prestato servizio?» chiese Bobbie.
«Su Ganimede» rispose l’uomo, annuendo e distogliendo lo sguardo in un
tentativo di assumere un atteggiamento decoroso. «Ero là quando è successo
il disastro. Quando sono tornato qui, il governo mi ha praticamente scaricato.
Cerco solo di risparmiare abbastanza per pagarmi un passaggio per Ceres. Là
ho dei parenti.»
Bobbie sentì un nodo di rabbia che le ribolliva nel petto, ma cercò di
mantenere un tono e un’espressione calmi. «Ha provato con il servizio di
assistenza ai veterani? Forse loro la potrebbero aiutare.»
«Ho solo bisogno di qualcosa da mangiare» ribatté lui, il tono che si faceva
aggressivo. Bobbie si guardò intorno nella carrozza. Di solito c’erano un po’
di persone a quell’ora, perché i quartieri al di sotto dell’Aurorae Sinus erano
tutti collegati dalla metropolitana a vuoto, come parte del grande progetto di
terraformazione di Marte che era cominciato prima della sua nascita e
sarebbe continuato molto dopo la sua morte. Al momento, però, a bordo non
c’era nessuno. Valutò come doveva apparire agli occhi del mendicante. Era
una donna massiccia, alta e robusta, ma era seduta e il maglione che
indossava era un po’ largo, cosa che poteva avergli dato l’errata impressione
che gran parte della sua massa fosse grasso. E non lo era.
«In che compagnia ha prestato servizio?» domandò. Lui sbatté le palpebre,
interdetto. Bobbie sapeva che si aspettava di vederla un po’ spaventata e che
il fatto che non lo fosse lo metteva a disagio.
«Compagnia?»
«In che compagnia ha servito?»
Lui si umettò di nuovo le labbra. «Non ne voglio...»
«Lo chiedo perché la cosa buffa è che avrei potuto giurare di conoscere
praticamente tutti quelli che erano su Ganimede quando sono cominciati i
combattimenti» continuò Bobbie. «Sa com’è, quando si vive un’esperienza
del genere, si tende a ricordare ogni cosa, perché si vedono morire tanti
amici. Qual era il suo grado? Io ero sergente di artiglieria.»
La faccia grigia si era fatta pallida e inespressiva. L’uomo contrasse le
labbra e affondò le mani nelle tasche, borbottando qualcosa.
«E adesso?» proseguì Bobbie. «Adesso lavoro trenta ore la settimana con il
servizio di assistenza ai veterani, e sono fottutamente certa che potremmo
dare una mano a un onesto veterano come lei.»
L’uomo si girò, e la mano di Bobbie scattò, afferrandogli il gomito troppo
in fretta perché lui si potesse ritrarre. Il volto gli si contorse per la paura e il
dolore mentre lei lo tirava verso di sé. Quando parlò, scelse e scandì con cura
ogni singola parola, il tono nitido e tagliente.
«Trovati. Un’altra. Storia.»
«Sì, signora» borbottò il mendicante. «Lo farò.»
La vettura cominciò a decelerare perché stava entrando nella prima stazione
di Breach Candy. Bobbie abbandonò la presa, alzandosi in piedi, e nel
vederla bene l’uomo sgranò gli occhi. La sua linea genetica di discendenza
risaliva a Samoa, e a volte faceva quell’effetto alla gente che non si aspettava
la sua mole. C’erano occasioni in cui la cosa le dispiaceva, ma quella non era
una di esse.
Suo fratello viveva in un piacevole buco di classe media, a Breach Candy,
non lontano dall’università inferiore, e lei aveva abitato con lui per qualche
tempo dopo essere tornata a casa su Marte. Adesso stava ancora cercando di
rimettere insieme i pezzi della sua vita, ma la cosa si stava rivelando un
processo più lungo di quanto si fosse aspettata, e parte di esso era la
sensazione di dovere qualcosa a suo fratello. Le cene in famiglia erano un
modo di compensare.
C’era ben poca gente nei corridoi di Breach Candy. Gli avvisi pubblicitari
sulle pareti si accendevano quando si avvicinava e il sistema di
riconoscimento facciale la identificava, proponendole quei prodotti e servizi
che si pensava potessero interessarle. Agenzie di incontri, abbonamenti a
palestre, shawerma da asporto, il nuovo film di Mbeki Soon, servizi di
assistenza psicologica. Bobbie cercò di non prenderla sul personale, ma
avrebbe comunque voluto che ci fossero più persone in giro, qualche altra
faccia che aggiungesse varietà a quella miscela, che le permettesse di dire a
sé stessa che quegli avvisi erano destinati a qualcun altro nelle vicinanze e
non a lei.
Breach Candy non era però affollata come un tempo. C’erano meno persone
nelle stazioni della metro e nei corridoi, meno persone che venivano al centro
di assistenza per veterani. Aveva sentito dire che le iscrizioni all’università
superiore erano calate del sei percento.
L’umanità non era ancora riuscita a fondare una sola colonia vitale sui
mondi nuovi, ma i dati forniti dalla sonda erano sufficienti. L’umanità aveva
la sua nuova frontiera, e le città di Marte risentivano di quella competizione.
Non appena varcò la soglia avvertì l’aroma intenso del gumbo preparato
dalla cognata, che le fece salire l’acquolina in bocca, e sentì le voci del
fratello e del nipote salire di tono. La cosa le fece contrarre lo stomaco, ma
loro erano la sua famiglia. Li amava, era in debito con loro, anche se le
facevano apparire estremamente invitante l’idea dello shawerma da asporto.
«...Non è quello che sto dicendo» dichiarò il nipote. Ormai frequentava
l’università superiore, ma quando scoppiavano quelle liti in famiglia Bobbie
poteva ancora sentire nella sua voce il bambino di sei anni.
La voce profonda di suo fratello risuonò nel rispondere, e Bobbie riconobbe
il sonoro tamburellare delle sue dita sulla superficie del tavolo, a dare enfasi
ai punti del discorso. Tamburellare come strumento retorico. Suo padre
faceva la stessa cosa.
«Marte non è facoltativo.» Tap. «Non è secondario.» Tap. «Questi portali e
qualsiasi cosa ci sia dall’altra parte non sono la nostra casa. L’opera di
terraformazione...»
«Non ho niente contro la terraformazione» Bobbie sentì ribattere a suo
nipote, mentre entrava nella stanza. Sua cognata le rivolse un silenzioso
cenno di saluto dalla cucina, e lei lo ricambiò. La sala da pranzo si affacciava
su uno spazio abitativo dove un notiziario privo del sonoro mostrava
immagini distanti di pianeti sconosciuti, mentre un avvenente uomo di colore
che portava occhiali dalla montatura di metallo parlava con aria seria fra
un’immagine e l’altra. «Tutto quello che sostengo è che avremo una quantità
di nuovi dati. Dati. Non sto dicendo altro.»
I due erano chini sul tavolo, come se fra loro ci fosse una scacchiera
invisibile. Era un gioco di concentrazione e di intelletto che li coinvolgeva
entrambi al punto da renderli incapaci di vedere il mondo circostante, una
cosa vera sotto molti punti di vista. Bobbie si mise a sedere senza che
nessuno dei due mostrasse di essersi accorto del suo arrivo.
«Marte è il pianeta più studiato che esista» dichiarò suo fratello. «Non
importa quanti nuovi set di dati tu ottenga che non sono relativi a Marte. Non
riguardano Marte! È come dire che vedere le immagini di migliaia di altri
tavoli possa dirti qualcosa riguardo a quello a cui sei seduto adesso.»
«Il sapere è una cosa positiva» insistette suo nipote. «Me lo hai sempre
ripetuto. Non so perché adesso sei tanto ostile.»
«Come ti vanno le cose, Bobbie?» interloquì in tono penetrante sua
cognata, portando a tavola una ciotola di riso e peperoni da usare come letto
per il gumbo. Quelle parole servivano a ricordare agli altri che avevano
un’ospite, ma i due uomini si accigliarono di fronte a quell’interruzione.
«Bene» rispose Bobbie. «Il contratto con i cantieri navali è stato firmato, e
questo dovrebbe aiutarci a trovare un nuovo lavoro a molti veterani.»
«Perché stanno costruendo navi e trasporti da esplorazione» commentò suo
nipote.
«David.»
«Scusami, mamma, ma è così» ribatté David, mantenendo le sue posizioni.
Bobbie travasò un po’ di riso nella sua ciotola. «Le navi sono facili da
rimodernare, e lo stanno facendo, oltre a costruirne di nuove in modo che la
gente possa raggiungere tutti i nuovi sistemi.»
Suo fratello prese il riso e il cucchiaio per servire, ridacchiando a mezza
voce per dimostrare quanto poco rispetto avesse per l’opinione del figlio. «La
prima vera squadra esplorativa sta raggiungendo solo ora il primo di quei
posti...»
«Ci sono già persone che vivono su Nuova Terra, papà! C’è un gruppo di
profughi da Ganimede...» S’interruppe, scoccando a Bobbie un’occhiata
colpevole. Non parlavano di Ganimede a cena.
«La squadra esplorativa non è ancora atterrata» affermò suo fratello.
«Passeranno anni prima che laggiù abbiano qualcosa di simile a una vera
colonia.»
«E passeranno generazioni prima che chiunque possa camminare sulla
superficie, qui! Non abbiamo una fottuta magnetosfera!»
«David, il linguaggio!»
Sua cognata rientrò nella stanza. Il gumbo era nero e fragrante, con uno
strato d’olio sulla sommità. Il suo profumo fece venire a Bobbie l’acquolina
in bocca, mentre lei lo posava sul sottopentola e le porgeva il cucchiaio
perché si servisse.
«Com’è il tuo nuovo appartamento?» le chiese.
«Carino» rispose Bobbie. «Ed economico.»
«Vorrei che non vivessi a Innis Shallow» disse suo fratello. «È un quartiere
orribile.»
«Nessuno darà problemi a zia Bobbie» commentò suo nipote. «Lei gli
strapperebbe la testa.»
Bobbie sorrise. «No, mi basta guardarli male, e loro...»
Dal salotto giunse il bagliore improvviso di una luce rossa. Il notiziario era
cambiato. Vivide bandiere rosse erano visibili alla sommità e alla base dello
schermo, e una donna terrestre con il doppiomento fissava con espressione
seria la telecamera. Alle sue spalle si vedeva l’immagine di un incendio, unita
a un’immagine di repertorio di una vecchia nave coloniale. Le parole che
spiccavano nere sullo sfondo bianco delle fiamme dicevano: TRAGEDIA SU
NUOVA TERRA.
«Cosa è successo?» chiese Bobbie. «Che altro è successo adesso?»
1
Basia

Un tempo Basia Merton era stato un uomo gentile. Non il genere di uomo
che fabbricava bombe servendosi di vecchi fusti di lubrificante ed esplosivi
per uso minerario.
Fece rotolare un altro fusto fuori della sua piccola officina e verso uno dei
carrelli elettrici di First Landing. La piccola fila di edifici si stendeva da nord
a sud, e dove terminava l’oscurità della pianura si allargava fino all’orizzonte.
La torcia elettrica che gli pendeva dalla cintura sobbalzava a ogni passo,
proiettando strane ombre in movimento sul terreno polveroso. Piccoli animali
alieni lanciavano i loro richiami fuori del cerchio di luce.
Le notti erano molto buie su Ilus – si rifiutava di chiamarlo Nuova Terra. Il
pianeta aveva tredici minuscole lune a bassa albedo distribuite sulla stessa
orbita in modo tanto coerente da indurre tutti a supporre che fossero
manufatti alieni. Quale che fosse la loro provenienza, erano più asteroidi
catturati dalla gravità del pianeta che vere lune agli occhi di chi era cresciuto
sui satelliti di Giove, che avevano dimensioni planetarie, e non facevano
nulla per intercettare e riflettere la luce del sole di Ilus, una volta che era
tramontato. La fauna notturna locale era composta prevalentemente da piccoli
uccelli e lucertole, o almeno da quelli che i nuovi abitanti umani di Ilus
pensavano essere uccelli e lucertole, considerato che avevano in comune con
i loro omonimi terrestri soltanto i più superficiali tratti esteriori.
Con un grugnito dovuto allo sforzo, Basia issò il fusto sul retro del carrello,
e un secondo più tardi un grugnito identico si levò a qualche metro di
distanza: era una lucertola mimo, attirata dalla curiosità fino al limitare del
cerchio di luce, con i piccoli occhi che scintillavano. La creatura grugnì di
nuovo, dondolando la grossa testa simile a quella di un rospo mentre la sacca
dell’aria sotto il collo si gonfiava e sgonfiava con l’emissione del suono.
Attese per un momento, fissando Basia, e quando lui non rispose si allontanò
strisciando nel buio.
Prelevate alcune cinghie elastiche da una cassetta degli attrezzi, Basia
procedette ad assicurare i fusti sul fondo del carrello. Gli esplosivi non
sarebbero detonati per una semplice caduta, o almeno era quello che
sosteneva Coop, ma a lui non andava di verificarlo di persona.
«Baz» chiamò Lucia. Lui arrossì per l’imbarazzo, come un ragazzino
sorpreso a rubare caramelle. Lucia sapeva quello che stava facendo, non era
mai riuscito a mentirle, ma aveva sperato che rimanesse dentro mentre lui
lavorava. La sua semplice presenza bastava a indurlo a chiedersi se stesse
davvero facendo la cosa giusta. Se era davvero giusta, perché si vergognava
tanto del fatto che Lucia lo vedesse al lavoro?
«Baz» ripeté lei. Non era insistente, e la sua voce non era irosa, ma triste.
«Lucy» rispose, girandosi. Lei era ferma al limitare del cerchio di luce, una
vestaglia bianca avvolta intorno al corpo esile per difendersi dal gelo dell’aria
notturna. Il suo volto era una chiazza scura.
«Felcia sta piangendo» disse. Il suo tono non conteneva nessuna accusa.
«Ha paura per te. Vieni a parlare a tua figlia.»
Basia si girò e strinse di più una cinghia intorno ai fusti, nascondendole il
volto. «Non posso. Stanno arrivando» replicò.
«Chi? Chi sta arrivando?»
«Sai cosa intendo. Se non prendiamo posizione, ci toglieranno tutto quello
che abbiamo creato qui. Ci serve tempo, ed è così che lo otterremo. Senza la
piattaforma di atterraggio dovranno usare le navette più piccole, quindi
elimineremo la piattaforma. Li costringeremo a ricostruirla. Nessuno si farà
male.»
«Se le cose si metteranno male non potremo andarcene» obiettò lei.
«No» convenne Basia, sorpreso dalla violenza che gli traspariva dalla voce.
Si girò e mosse qualche passo, in modo da vedere il volto di lei alla luce.
Stava piangendo. «Non ce ne andremo più. Abbiamo lasciato Ganimede.
Abbiamo lasciato Katoa e siamo fuggiti, e la mia famiglia ha vissuto su una
nave per un anno perché nessuno voleva farli atterrare. Non fuggiremo di
nuovo. Non fuggiremo mai più. Non mi prenderanno altri figli.»
«Katoa manca anche a me,» replicò Lucia «ma non sono state queste
persone a ucciderlo. È stata la guerra.»
«È stata una scelta economica. Hanno fatto una scelta economica, poi
hanno fatto la guerra e si sono presi mio figlio.» E io ho permesso che lo
facessero. Ho preso te, Felcia e Jacek, e ho lasciato là Katoa perché pensavo
che fosse morto. Ma non lo era. Non pronunciò quelle parole, perché erano
troppo dolorose per farlo, ma Lucia le sentì lo stesso.
«Non è stata colpa tua.»
Sì, lo è stata. Quelle parole gli salirono in bocca, ma le ricacciò indietro.
«Queste persone non hanno nessun diritto a Ilus» disse invece, lottando per
dare un tono ragionevole alla propria voce. «Noi siamo arrivati qui per primi.
Abbiamo rivendicato il diritto a vivere su questo pianeta. Non appena
potremo spedire il primo carico di litio e incassare il denaro che frutterà,
potremo assumere degli avvocati sulla Terra e far valere quei diritti. Se però
per allora le grandi società avranno già messo radici qui, tutto questo non
servirà a niente. Ci serve tempo.»
«Se lo farai, ti manderanno in prigione» obiettò Lucia. «Non fare questo a
tutti noi, alla tua famiglia.»
«Lo sto facendo per la mia famiglia» rispose Basia, in tono sommesso. Era
peggio di un urlo. Poi si mise ai comandi e premette sull’acceleratore. Il
carrello si allontanò sobbalzando con un suono lamentoso e lui non si guardò
indietro. Non poteva farlo e vedere Lucy.
«Per la mia famiglia» ripeté.
Si allontanò dalla sua casa e dalla cittadina malandata che avevano
cominciato a chiamare First Landing quando avevano scelto quel sito sulle
mappe dei sensori della Barbapiccola. Nessuno si era preso la briga di
cambiare il nome quando aveva smesso di essere solo un’idea per diventare
un posto effettivo. Guidò verso il centro della cittadina, due file di strutture
prefabbricate, fino a raggiungere l’ampio tratto di strada sterrata che serviva
da via principale e a svoltare verso il sito di atterraggio originale. I profughi
che avevano colonizzato Ilus avevano lasciato la loro nave a bordo di piccole
navette, per cui la sola piattaforma di atterraggio di cui avevano avuto
bisogno era stata un tratto di terreno pianeggiante. Però i tizi della Royal
Charter Energy, i tizi delle società, che avevano una concessione delle
Nazioni Unite che dava loro il pianeta, sarebbero scesi con apparecchiature
pesanti e le loro navette più massicce avrebbero avuto bisogno di una vera e
propria piattaforma di atterraggio. Ne era stata costruita una sugli stessi
campi che la colonia aveva usato come luogo di atterraggio.
Basia trovava la cosa oscena. Invasiva. Il sito del primo atterraggio aveva
un significato speciale, e lui aveva immaginato che un giorno sarebbe
diventato un parco, con al centro un monumento a commemorare il loro
arrivo su quel nuovo mondo. Invece l’RCE aveva costruito una gigantesca e
scintillante mostruosità di metallo proprio sul loro sito. E la cosa peggiore era
che aveva assunto i coloni per il lavoro di costruzione, e un numero
sufficiente di essi aveva trovato l’idea abbastanza buona da prestarsi a farlo.
Dava la sensazione di essere stati cancellati dalla storia.
Quando arrivò alla nuova piattaforma di atterraggio trovò Scotty e Coop ad
aspettarlo. Scotty era seduto sul bordo della piattaforma di metallo, con le
gambe che penzolavano, a fumare la pipa e sputare sul terreno, in mezzo ai
suoi piedi. Una piccola lampada elettrica posata accanto a lui lo avvolgeva in
uno spettrale chiarore verde. Coop era fermo a poca distanza, intento a
guardare il cielo con i denti snudati sul volto sottile. Coop era un cinturiano
della vecchia scuola, e i trattamenti per l’agorafobia erano stati più difficili
per lui che per altri. Continuava a fissare il vuoto per abituarsi, come un
ragazzino che si grattasse via la crosta da una ferita.
Basia fece fermare il carrello accanto al bordo della piattaforma e saltò a
terra per slacciare le cinghie che trattenevano i fusti convertiti in bombe.
«Mi date una mano?» chiese. Ilus era un grande pianeta, con una gravità di
poco superiore a 1g. Anche dopo sei mesi di farmaci per rinforzare i muscoli
e le ossa tutto continuava a sembrare troppo pesante. Il solo pensiero di
sollevare di nuovo i fusti per metterli a terra gli faceva contrarre i muscoli
delle spalle per l’anticipazione dello sfinimento che questo avrebbe prodotto.
Scotty scivolò giù dalla piattaforma e si lasciò cadere a terra con un salto di
un metro e mezzo. Si allontanò dagli occhi gli unti capelli neri e aspirò
un’altra boccata dalla pipa. Basia avvertì l’odore pungente della cannabis che
lui coltivava in casa e mescolava alle foglie di tabacco liofilizzate. Coop
spostò lo sguardo su di loro e per un momento i suoi occhi lottarono per
metterli a fuoco, poi il solito sorriso sottile e crudele gli affiorò sul volto. Era
stato lui a elaborare quel piano.
«Mmm» commentò. «Bello.»
«Non ti ci affezionare» ribatté Basia. «Non rimarranno in circolazione a
lungo.»
Coop emise un verso che imitava il suono di un’esplosione e sorrise.
Insieme, tirarono giù dal carrello i quattro pesanti fusti e li misero in fila
accanto alla piattaforma. Quando arrivarono all’ultimo avevano entrambi il
respiro affannoso per la fatica. Per un momento Basia si appoggiò in silenzio
al carrello mentre Scotty finiva di fumare la pipa e Coop applicava gli
inneschi ai fusti. I detonatori giacevano in fondo al carrello come serpenti a
sonagli addormentati, la luce rossa a LED per il momento era spenta.
La cittadina scintillava nell’oscurità. Le case che si erano costruiti da soli,
aiutandosi a vicenda, brillavano come stelle cadute dal cielo. Al di là di esse
c’erano le rovine di una lunga e bassa struttura aliena, con due torri massicce
che si ergevano sul panorama come un gigantesco termitaio. Tutto il
complesso era un dedalo di passaggi e camere che non potevano essere stati
progettati da un essere umano. Alla luce del giorno quelle rovine
risplendevano dei colori surreali della madreperla, di notte erano soltanto una
chiazza di oscurità più fitta. I pozzi minerari erano al di là di esse, invisibili
tranne che per il chiarore estremamente fioco delle luci di lavoro che si
riflettevano contro le nuvole. A dire il vero, a Basia non piacevano le miniere.
Le rovine erano strane reliquie del passato di quel pianeta vuoto, e come
qualsiasi cosa che fosse inspiegabile senza essere pericolosa, dopo i primi
mesi aveva smesso di registrarne la presenza. Le miniere però avevano una
storia e generavano aspettative. Lui aveva trascorso metà della sua vita in
tunnel di ghiaccio, e le gallerie che si aprivano nel suolo alieno avevano un
odore strano.
Coop emise un verso brusco e scrollò una mano. Non esplose niente, quindi
non era una cosa grave.
«Credi che ci pagheranno per ricostruirla?» chiese Scotty.
Basia imprecò e sputò per terra.
«Non saremmo costretti a farlo se non fosse per le persone che vogliono
succhiare alla tetta dell’RCE» ribatté, mentre faceva rotolare al suo posto
l’ultimo fusto. «Senza questa, non possono atterrare. Tutto quello che
dovevamo fare era non costruirla.»
Scotty rise, esalando una nuvola di fumo. «Sarebbero arrivati comunque,
tanto valeva prendere il denaro. È quello che ha detto la gente.»
«Sono degli idioti» dichiarò Basia.
Scotty annuì, poi usò una mano per spingere una lucertola mimo giù dal
sedile del passeggero del carrello e si sedette, puntellando i piedi sul
cruscotto nel trarre un’altra lunga boccata di fumo dalla pipa. «Dobbiamo
fare in modo di allontanarci, se facciamo saltare questa roba. Quella polvere
esplosiva fa un botto notevole.»
«Ehi, amico» gridò Coop. «È tutto a posto. Facciamo fuori questo posto,
eh?»
Scotty si alzò e fece per dirigersi verso la piattaforma, ma Basia lo fermò e
gli tolse di bocca la pipa, posandola sul cofano del carrello.
«Esplosivi» disse. «Esplodono.»
Scotty scrollò le spalle, ma sembrò mortificato. Quando lo raggiunsero,
Coop stava già adagiando su un fianco il primo fusto. «Questo è un lavoro
bueno. Robusto» disse.
«Grazie» rispose Basia.
Coop si sdraiò con la schiena contro il terreno e Basia si distese accanto a
lui, poi Scotty fece rotolare con delicatezza la prima bomba in mezzo a loro.
Basia si insinuò sotto la piattaforma, infilandosi in mezzo all’intrico di travi
incrociate fino a raggiungere ciascuno dei quattro fusti per attivare e
sincronizzare i detonatori a distanza. Sentì uno stridio elettrico sempre più
forte e provò una momentanea irritazione al pensiero che Scotty si stesse
allontanando con il carrello, ma poi si rese conto che il suono si avvicinava,
invece di allontanarsi.
«Ehi!» chiamò la voce familiare di Peter.
«Que diavolo ci fa qui quel bastardo?» borbottò Coop, passandosi una
mano sulla fronte.
«Vuoi che vada a scoprirlo?» chiese Scotty.
«Basia, vai a vedere cosa vuole Peter» ordinò Coop. «Scotty non si è ancora
sporcato la schiena.»
Basia manovrò in modo da sgusciare fuori da sotto la piattaforma e fece
spazio a Scotty e all’ultima delle quattro bombe. Il carrello di Peter era
parcheggiato accanto al suo; in piedi in mezzo ai due veicoli, spostava di
continuo il peso del corpo da un piede all’altro, come se avesse avuto bisogno
di urinare. Basia aveva la schiena e le braccia che gli dolevano. Voleva solo
che finisse tutto per poter tornare a casa da Lucia, Felcia e Jacek.
«Cosa c’è?» chiese.
«Stanno arrivando» disse Peter, sussurrando come se qualcuno avesse
potuto sentirli.
«Chi sta arrivando?»
«Tutti. Il governatore provvisorio. La squadra di sicurezza della società. Il
personale tecnico e scientifico. Tutti. Questa è una cosa seria. Stanno
sbarcando un intero nuovo governo.»
«Sono notizie vecchie.» Basia scrollò le spalle. «Sono in viaggio da diciotto
mesi. È per questo che siamo qui.»
«No» insistette Peter, muovendosi nervosamente e guardando verso le
stelle. «Stanno arrivando adesso. La Edward Israel ha effettuato la manovra
frenante mezz’ora fa ed è entrata in un’orbita alta.»
Basia sentì salirgli in bocca l’aspro sapore metallico della paura. Sollevò lo
sguardo verso l’oscurità. Un miliardo di stelle sconosciute, che tutti
pensavano essere la stessa galassia, la Via Lattea, solo vista da
un’angolazione diversa. Il suo sguardo continuò a spostarsi, frenetico, finché
non lo individuò. Il movimento era infinitesimale quanto quello della
minuscola lancetta di un orologio analogico, ma era là. La nave si stava
abbassando nell’orbita. La navetta pesante stava per scendere sulla
piattaforma d’atterraggio.
«Volevo chiamarvi via radio, ma Coop ha detto che controllano le onde
radio, e...» continuò Peter, ma Basia stava già tornando di corsa verso la
piattaforma di atterraggio, dove Scotty e Coop stavano giusto emergendo da
sotto le travi. Coop si ripulì i pantaloni dalla polvere e sorrise.
«Abbiamo un problema» disse Basia. «La nave è entrata in orbita. Pare
siano già nell’atmosfera.»
Coop guardò verso il cielo. Il chiarore della torcia gli proiettò un gioco di
ombre sulle guance e negli occhi.
«Uh» fu il suo solo commento.
«Credevo stessi controllando la situazione, che facessi attenzione a dove si
trovavano.»
Coop scrollò le spalle, senza confermare né negare.
«Dobbiamo tirare subito fuori di lì quelle bombe» continuò Basia. Scotty
accennò a inginocchiarsi, ma Coop lo fermò posandogli una mano sulla
spalla.
«Perché?» chiese.
«Se cercano di atterrare adesso potrebbero far esplodere tutto quanto»
replicò Basia.
«Potrebbero» annuì Coop, con un sorriso gentile. «E con questo?»
Basia serrò i pugni. «Stanno venendo giù adesso.»
«Lo vedo,» replicò Coop «ma non ispira un gran senso del dovere. E
comunque la metti, non abbiamo il tempo di tirarle fuori.»
«Possiamo rimuovere gli inneschi e i detonatori» suggerì Basia, chinandosi
per dirigere la luce della torcia sotto la piattaforma.
«Forse potremmo, e forse no» ribatté Coop. «La domanda è se dovremmo
farlo, ed è una domanda stupida.»
«Coop?» disse Scotty, con voce sottile e incerta, ma Coop lo ignorò.
«A me questa sembra un’opportunità» dichiarò.
«Ci sono persone su quella cosa» ribatté Basia, e strisciò sotto la
piattaforma. La parte elettronica della bomba più vicina poggiava contro il
terreno. Premette la spalla dolorante contro il fusto e cominciò a spingere.
«Non c’è abbastanza tempo, amico» avvertì Coop.
«Potrebbe esserci se portassi qui il tuo culo» urlò Basia. L’innesco aderiva
al lato del fusto come una zecca. Basia cercò di insinuare le dita sotto
l’impasto sigillante e di staccarlo.
«Oh, merda» imprecò Scotty, con voce piena di qualcosa che somigliava
troppo allo sbigottimento. «Baz, oh, merda!»
L’innesco si staccò. Basia se lo mise in tasca e cominciò a strisciare verso
la seconda bomba.
«Non c’è tempo» gridò Coop. «Meglio allontanarci e cercare di far saltare
tutto finché loro possono ancora riprendere quota.»
In lontananza, Basia sentì uno dei carrelli che si allontanava: Peter, che si
metteva al sicuro. E al di sotto di quel ronzio percepì un altro suono, il rombo
basso dei motori di frenata. In preda alla disperazione guardò le tre bombe
rimanenti, poi rotolò fuori da sotto la piattaforma. La navetta era enorme nel
cielo nero, tanto vicina che poteva individuare i singoli propulsori.
Non ce l’avrebbe fatta.
«Correte!» urlò. Lui, Scotty e Coop spiccarono la corsa verso il carrello
mentre il rombo della navetta aumentava di volume fino a diventare
assordante. Raggiunto il carrello, Basia afferrò il detonatore. Se fosse riuscito
a far esplodere le bombe in anticipo, la navetta avrebbe ancora potuto
riprendere quota.
«Non farlo!» urlò Coop. «Siamo troppo vicini!»
Basia calò il palmo sul pulsante.
Il terreno parve sollevarsi, colpendolo con violenza, la terra e i sassi che gli
laceravano le mani e la guancia quando infine si arrestò. Quel dolore però era
qualcosa di remoto. Una parte di lui sapeva che poteva essere ferito molto
gravemente, che poteva essere in stato di shock, ma anche questo appariva
una cosa lontana e facile da ignorare. Quello che lo colpiva maggiormente era
il silenzio assoluto: il mondo dei suoni si fermava fuori del suo cranio. Poteva
sentire il proprio respiro, il battito del suo cuore, ma a parte quello tutto il
resto pareva avere il volume azzerato.
Rotolò sulla schiena e fissò il cielo notturno cosparso di stelle. La navetta
pesante saettò sopra di lui, metà dello scafo che si lasciava dietro una scia di
fuoco, mentre il rumore dei motori non era più un rombo basso ma lo stridio
di un animale ferito che avvertì come una vibrazione nel ventre più che
sentirlo fisicamente. La navetta era troppo vicina, l’esplosione troppo potente,
qualche detrito aveva sfortunatamente seguito la traiettoria giusta... non c’era
modo di saperlo. Una parte di Basia sapeva che la situazione era molto brutta,
ma era difficile fare molta attenzione alla cosa.
La navetta scomparve alla vista con uno stridulo lamento di agonia che si
sparse nella valle e giunse fino a lui come un fievole suono acuto che fu
seguito da un silenzio improvviso. Scotty sedeva per terra accanto a lui,
intento a guardare nella direzione in cui era scomparsa la navetta. Basia si
adagiò di nuovo sul terreno.
Quando infine le chiazze luminose, residuo dell’esplosione, scomparvero
dalla sua vista, le stelle apparvero di nuovo. Basia le guardò ammiccare, e si
chiese quale di esse fosse il Sole. Era così lontano. Ma grazie ai portali era
anche vicino. Aveva abbattuto la loro navetta. Adesso sarebbero dovuti
venire. Non gli aveva lasciato scelta.
Fu assalito da un improvviso accesso di tosse. Gli pareva di avere i polmoni
pieni di fluido, e per parecchi minuti continuò a tossire e sputare. Con la tosse
giunse infine il dolore, che lo devastò da testa a piedi.
E con il dolore giunse anche la paura.
2
Elvi

La navetta ebbe un violento sobbalzo che scaraventò Elvi in avanti contro le


cinture di sicurezza con forza sufficiente a toglierle il respiro, prima di
sbatterla all’indietro con altrettanta violenza nel sopraffacente abbraccio del
sedile a smorzamento. Le luci tremolarono, si spensero, si riaccesero. Elvi
deglutì a fatica, mentre anticipazione ed eccitazione si trasformavano in una
paura animalesca. Accanto a lei, Eric Vanderwert sfoggiava lo stesso sorriso,
in parte salace e in parte speranzoso, che le aveva rivolto per tutti gli ultimi
sei mesi. Di fronte a lei, Fayez aveva gli occhi dilatati e si era fatto grigiastro
in volto.
«È tutto a posto» disse Elvi. «Andrà tutto bene.»
Mentre pronunciava quelle parole rassicuranti, però, una parte di lei si
ritrasse con timore da esse. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, non
aveva assolutamente modo di sapere che sarebbe andato tutto bene, e tuttavia
il suo primo impulso era stato quello di asserire che fosse così, come se il
solo dirlo potesse renderlo vero. Un lamento acuto corse attraverso le paratie
della navetta, gli ipertoni che cozzavano gli uni contro gli altri. Sentì il
proprio peso sobbalzare verso sinistra, mentre i sedili a smorzamento si
spostavano tutti sulle sospensioni nello stesso momento come i ballerini di
una coreografia. Perse di vista Fayez.
Uno scampanellio in tre toni annunciò il pilota, poi la sua voce scaturì dal
sistema di comunicazione pubblico della navetta.
«Signore e signori, pare esserci stato un difetto di funzionamento critico
della piattaforma di atterraggio. Al momento non possiamo completare
l’atterraggio, quindi torneremo in orbita e attraccheremo alla Edward Israel
finché non avremo potuto valutare...»
Tacque, ma il sibilo della linea di comunicazione aperta continuò a
risuonare nell’abitacolo, per cui Elvi immaginò che il pilota dovesse essere
stato distratto da qualcosa. La navetta sobbalzò e sussultò, ed Elvi si
aggrappò alle cinture di sicurezza, stringendole contro di sé. Poco lontano,
qualcuno pregava ad alta voce.
«Signore e signori,» disse ancora il pilota «temo che il difetto di
funzionamento della piattaforma abbia danneggiato la navetta, per cui non
credo che riusciremo a raggiungere di nuovo l’orbita, non immediatamente.
Non lontano da qui c’è il letto di un lago in secca. Penso che andremo a dare
un’occhiata per usarlo come sito di atterraggio secondario.»
Elvi avvertì un momentaneo sollievo – Abbiamo ancora un sito di
atterraggio – seguito immediatamente da una più profonda comprensione del
messaggio e da una paura più intensa – Vuole dire che ci schianteremo.
«Chiedo a tutti di rimanere sui sedili» riprese il pilota. «Non slacciate le
cinture, e per favore tenete le braccia e le gambe all’interno del sedile, in
modo che non sbattano contro le paratie. L’imbottitura di gel è lì per un
motivo. Sarete a terra entro un paio di minuti.»
Quella calma forzata, artificiale, terrorizzò Elvi più di quanto lo avrebbero
fatto urla e pianti. Il pilota stava facendo tutto il possibile per evitare che
cedessero al panico. Lo avrebbe fatto se la situazione non fosse stata tale da
indurre il panico?
Il suo peso si spostò di nuovo, tirandola verso sinistra e poi nella direzione
opposta. Subito dopo si sentì più leggera, mentre la navetta scendeva verso
terra. La caduta parve durare in eterno, mentre i rantoli e gli stridii del
velivolo si trasformavano in un urlo acuto. Elvi chiuse gli occhi.
«Staremo bene» disse a sé stessa. «Andrà tutto bene.»
L’impatto spaccò e aprì la navetta come la coda di un’aragosta colpita da un
martello. Elvi ebbe la fugace impressione di stelle sconosciute in un cielo
ignoto, poi la sua consapevolezza si disattivò di colpo, come se Dio avesse
spento un interruttore.
Secoli prima, gli europei avevano invaso le Americhe, ridotte a un guscio
vuoto dalle pestilenze, salendo su navi di legno dalle vaste vele di tela e
affidandosi ai venti e all’abilità dei marinai per arrivare dalle terre che
conoscevano a quello che chiamavano il Nuovo Mondo. Per un periodo che
poteva durare anche sei mesi, fanatici religiosi, avventurieri e gente resa
disperata dalla povertà si erano affidati alle onde impietose dell’Oceano
Atlantico.
Diciotto mesi prima, Elvi Okoye aveva lasciato la Stazione di Ceres, sotto
contratto con la Royal Charter Energy. La Edward Israel era una nave
enorme. Un tempo, quasi tre generazioni prima, era stata una delle navi
coloniali che avevano trasportato l’umanità fino alla Fascia e al sistema di
Giove. Quando quella migrazione era finita e la pressione per espandersi
aveva raggiunto il suo limite naturale, la Israel era stata convertita per il
trasporto per l’acqua. L’era dell’espansione era finita, e il romanticismo della
libertà aveva ceduto il posto ai problemi pratici della vita – aria, acqua e cibo,
in quell’ordine. Per decenni la nave aveva lavorato come un cavallo da soma
all’interno del sistema solare, ma poi l’Anello si era aperto e tutto era
cambiato di nuovo. Nei cantieri Bush e alla Stazione di Tycho stavano
costruendo una nuova generazione di navi coloniali, ma rimodernare la Israel
aveva richiesto meno tempo.
Quando era salita a bordo per la prima volta, Elvi aveva avvertito un senso
di meraviglia misto a speranza ed eccitazione trapelare dal ronzio
dell’impianto di riciclaggio dell’aria della Israel e dagli angoli dei suoi
corridoi antiquati. L’era dell’avventura era tornata, e la vecchia guerriera era
tornata con essa, con la spada nuovamente affilata e l’armatura che brillava
dopo essere rimasta ossidata per anni. Elvi era consapevole che quella era
stata solo una proiezione psicologica, che diceva di più riguardo al suo stato
mentale che alle condizioni fisiche della nave, ma la cosa non ne aveva
diminuito l’intensità. La Edward Israel era di nuovo una nave coloniale, con
le stive piene di edifici prefabbricati, di sonde atmosferiche, di laboratori
manifatturieri e perfino di un femtoscopio a ripetizione-dispersione. Avevano
una squadra addetta all’esplorazione e mappatura. Una di esplorazione
geologica, una idrologica, la squadra di esozoologi a cui lei apparteneva, e
altre ancora. Abbastanza dottori di ricerca da riempire un’università e
sufficienti assegnisti di ricerca da riempire un laboratorio governativo. Un
migliaio di persone in tutto, fra coloni ed equipaggio.
Erano contemporaneamente una città nel cielo, una nave di pellegrini
diretta a Plymouth Rock e il viaggio di Darwin sulla Beagle. Era la più
grande e splendida avventura che l’umanità avesse mai intrapreso, ed Elvi si
era guadagnata un posto nella squadra di esobiologia. In quel contesto,
immaginare che l’acciaio e la ceramica della nave fossero permeate di un
senso di gioia era un’illusione ammissibile.
E il tutto era gestito dal governatore Trying.
Lo aveva visto parecchie volte nei mesi che avevano passato accelerando e
frenando, per poi effettuare il lento e strano passaggio fra gli anelli prima di
riprendere ad accelerare e frenare, ma era stato solo poco prima che
cominciassero la discesa verso l’orbita che era riuscita a parlargli.
Trying era un uomo esile. La sua pelle color mogano e i capelli che
parevano spolverati di neve le ricordavano i suoi zii, e il suo sorriso pronto
riusciva a rassicurare e calmare. Elvi si era trovata sul ponte di osservazione,
a fingere che lo schermo ad alta risoluzione puntato sul pianeta fosse in realtà
una finestra, che la luce di quel sole sconosciuto in realtà si stesse riflettendo
sui vasti mari opachi e le alte nuvole gelide per colpire direttamente i suoi
occhi, anche se la gravità da decelerazione significava che non erano ancora
in orbita libera. Era una vista strana e bellissima. Un singolo, enorme oceano
cosparso di isole. Un vasto continente che si allargava comodamente
attraverso metà di un emisfero, più largo all’equatore per poi assottigliarsi
nell’estendersi verso nord e sud. Il nome ufficiale di quel mondo era
Esplorazione Bering Quattro, lo stesso nome della sonda che per prima ne
aveva accertato l’esistenza, ma nei corridoi, nella caffetteria e nella palestra
avevano finito tutti per chiamarlo Nuova Terra. Se non altro, quindi, lei non
era la sola a lasciarsi trascinare dal romanticismo.
«A cosa sta pensando, dottoressa Okoye?» aveva chiesto Trying, con voce
gentile, ed Elvi aveva sussultato perché non lo aveva sentito entrare, non lo
aveva visto fermarsi accanto a lei. Per un attimo aveva pensato di doversi
inchinare o fare rapporto, ma l’espressione del governatore era stata così
dolce e divertita che si era lasciata andare.
«Mi chiedevo cosa ho fatto per meritare tutto questo» aveva detto. «Sto per
vedere la prima biosfera veramente aliena e imparare sull’evoluzione cose
che era letteralmente impossibile conoscere fino a ora. Devo essere stata
davvero una persona molto, molto buona in una vita passata.»
Sugli schermi, Nuova Terra scintillava marrone, oro e azzurra. Gli alti venti
atmosferici spingevano nuvole verdastre intorno al pianeta. Elvi si era protesa
verso di esso, e il governatore aveva ridacchiato.
«Diventerà famosa» aveva detto.
Elvi aveva sbattuto le palpebre, interdetta, ed era scoppiata in una risata
imbarazzata.
«Credo che sarà così, giusto?» aveva replicato. «Stiamo facendo cose che
l’umanità non ha mai fatto prima.»
«Alcune cose» aveva replicato Trying. «Altre le abbiamo sempre fatte.
Spero che la storia ci tratti con clemenza.»
Elvi non aveva capito bene cosa avesse voluto dire con quelle parole, ma
prima che potesse chiederlo era entrato Adolphus Murtry. Un uomo esile dai
duri occhi azzurri, Murtry era il capo della sicurezza, duro ed efficiente
quanto Trying era gentile come uno zio. I due uomini si erano allontanati
insieme, lasciando Elvi sola con il mondo che stava per esplorare.
La navetta pesante era grande quanto alcune delle navi su cui Elvi era stata,
tanto che avevano dovuto costruire una piattaforma d’atterraggio sulla
superficie perché ne reggesse il peso. Trasportava le prime cinquanta
costruzioni, una serie di laboratori di base e, cosa più importante, una cupola
perimetrale impenetrabile.
Elvi aveva percorso il corridoio ingombro della navetta, usando il suo
terminale palmare per individuare il sedile a smorzamento che le era stato
assegnato. Quando erano nate le prime colonie su Marte, le cupole
perimetrali erano state una questione di sopravvivenza, qualcosa che tenesse
dentro l’aria e fuori le radiazioni. Su Nuova Terra avevano lo scopo di
limitare la contaminazione. La licenza societaria che la RCE aveva ottenuto
richiedeva che la loro presenza avesse il minimo impatto possibile. Elvi
aveva sentito dire che c’erano già altre persone sulla superficie del pianeta, e
si augurava che anche loro fossero state attente a non disturbare i siti dove si
erano insediati. Se non lo erano state, le interazioni fra gli organismi locali e
quelli arrivati con le navi sarebbero state complesse, forse impossibili da
districare.
«Sembri turbata.»
Fayez Sarkis si era seduto su un sedile a smorzamento, e si stava
sistemando le larghe cinture di sicurezza intorno al torace e alla vita. Era
cresciuto su Marte, e aveva lo scheletro alto ed esile unito a una testa grossa
propri della bassa forza di gravità. Sembrava a suo agio su un sedile a
smorzamento. Elvi si era resa conto che il terminale palmare le stava dicendo
che aveva raggiunto il suo posto e si era seduta, con il gel che le si modellava
intorno alle cosce e alla parte bassa della schiena. Aveva sempre desiderato
prendere posto su un sedile a smorzamento, come un bambino che volesse
entrare in una piscina, ma lasciarsi sprofondare in esso somigliava parecchio
all’essere inghiottita.
«Stavo solo pensando a quello che ci aspetta» aveva risposto,
costringendosi a adagiarsi all’indietro. «C’è un sacco di lavoro da fare.»
«Lo so» aveva sospirato Fayez. «Il tempo del riposo è finito. Adesso
dobbiamo davvero guadagnarci lo stipendio. Tuttavia, è stato divertente
finché è durato. Voglio dire, a parte accelerare a 1g.»
«Questione di fortuna.»
«Bene, non appena avremo i documenti per accedere a un pianeta decente
simile a Marte mi farò trasferire.»
«Tu e metà degli abitanti di Marte.»
«Lo so, d’accordo? Magari un posto con un’atmosfera respirabile, e con un
campo magnetico, in modo che non si debba vivere come talpe. È come avere
il progetto di terraformazione già ultimato, solo che sono ancora vivo per
vederlo.»
Elvi aveva riso. Fayez faceva parte della squadra geologica e anche di
quella idrologica. Aveva studiato nelle migliori università non terrestri, e
siccome lo conosceva da tempo, Elvi sapeva che era spaventato e deliziato
quanto lei. Era poi arrivato Eric Vanderwert e si era sistemato sul sedile
accanto a quello di Elvi, che gli aveva rivolto un sorriso di cortesia.
Nell’anno e mezzo trascorso da quando avevano lasciato Ceres c’erano state
una quantità di relazioni romantiche, o quantomeno sessuali, fra i membri
delle squadre scientifiche, ma Elvi si era tenuta al di fuori di quel groviglio.
Aveva imparato molto presto che i coinvolgimenti sentimentali e il lavoro
erano una miscela tossica quanto instabile.
Eric aveva salutato Fayez con un cenno, poi aveva concentrato l’attenzione
su di lei.
«Eccitante» aveva detto.
«Sì» era stata la sola risposta di Elvi. Di fronte a lei, Fayez aveva levato gli
occhi al cielo.
Murtry aveva attraversato la cabina passando in mezzo ai sedili. Il suo
sguardo si era posato rapido su tutto – i sedili, le cinture, i volti delle persone
che si preparavano all’atterraggio. Elvi gli aveva sorriso e lui le aveva rivolto
un cenno secco del capo, non ostile, solo pragmatico. Lei lo aveva osservato
mentre la valutava, non con l’interesse sessuale che un uomo poteva avere nei
confronti di una donna, ma come uno stivatore che si accertasse del
funzionamento dei blocchi magnetici di una cassa. Le aveva rivolto un altro
cenno, apparentemente soddisfatto che lei avesse allacciato le cinture nel
modo giusto, e si era allontanato. Quando era scomparso, Fayez aveva
ridacchiato.
«Quel povero bastardo si sta arrampicando su per le pareti» aveva
commentato, accennando in direzione di Murtry.
«Davvero?» aveva chiesto Eric.
«Per un anno e mezzo ci ha avuti tutti sotto il controllo, giusto? Adesso noi
andiamo a terra mentre lui resta in orbita. È terrorizzato all’idea che ci
facciamo ammazzare tutti quanti mentre siamo sotto la sua responsabilità.»
«Almeno gli importa di noi» aveva osservato Elvi. «Mi è simpatico per
questo.»
«A te sono tutti simpatici» l’aveva stuzzicata Fayez. «È la tua patologia.»
«A te non piace nessuno.»
Si era sentito un segnale in tre toni, e il sistema pubblico di comunicazione
si era attivato.
«Signore e signori, mi chiamo Patricia Silva e sono il vostro pilota in questo
breve volo di routine.»
Un coro di risate si era levato dai sedili a smorzamento.
«Lasceremo la Israel fra circa dieci minuti ed è previsto che la discesa ne
richieda circa cinquanta, quindi fra un’ora respirerete un’aria del tutto nuova.
Abbiamo a bordo il governatore, quindi ci accerteremo che tutto vada per il
meglio, in modo da poter richiedere un bonus per le prestazioni rese.»
Tutti erano eccitati, in quel momento, perfino il pilota. Elvi aveva sorriso e
Fayez aveva ricambiato il sorriso. Eric si era schiarito la gola.
«Bene» aveva commentato Fayez, con finta rassegnazione. «Siamo arrivati
fin qui, suppongo che possiamo andare fino in fondo.»
Il dolore non era localizzabile in un punto preciso, era troppo esteso. Si
diffondeva ovunque, avviluppava ogni cosa. Elvi si rese conto che stava
guardando qualcosa. Forse era una massiccia e articolata zampa di gambero,
o una gru per l’edilizia in pezzi. Il fondo piatto del lago si stendeva verso di
essa, poi si faceva più accidentato nel salire verso la base di quella cosa.
Poteva immaginare che si fosse aperta un varco attraverso il suolo scuro e
arido, o che si fosse schiantata su di esso. La sua mente in preda alla
sofferenza cercò di riconoscere in quel qualcosa i rottami della navetta e non
ci riuscì.
Era un manufatto. Rovine. Costruzione arcana, ora vuota e abbandonata,
lasciata dalla civiltà aliena che aveva progettato la protomolecola e gli anelli.
Fu assalita dal ricordo improvviso, intenso e incoerente di una mostra d’arte
che aveva visto da bambina. C’era stata un’immagine ad alta risoluzione di
una bicicletta in un fosso fuori delle rovine di Glasgow: le conseguenze del
disastro raffigurate in una singola immagine, compressa ed eloquente quanto
una poesia.
Almeno sono riuscita a vederlo, pensò. Sono riuscita ad arrivare qui prima
di morire.
Qualcuno l’aveva trascinata fuori dai rottami della navetta. Girando la testa,
poté vedere le luci fra il giallo e il bianco di alcune costruzioni, e gli altri
distesi in fila sul terreno. Alcuni erano in piedi e si muovevano in mezzo ai
morti e ai feriti. Non riusciva a riconoscere i loro volti, o il modo in cui si
muovevano, il che significava che erano degli sconosciuti, perché dopo un
anno e mezzo sulla Israel le bastava un’occhiata per riconoscere chiunque.
Quindi erano i locali, gli occupatori abusivi. Gli illegali. L’aria puzzava di
polvere bruciata e di cumino.
Probabilmente perse i sensi per un po’, perché la donna parve apparire
accanto a lei in un batter d’occhio. Aveva le mani insanguinate e la faccia
sporca di polvere e di sangue non suo.
«È ammaccata ma non corre un pericolo immediato. Le darò qualcosa per il
dolore, ma deve rimanere ferma finché non potrò steccarle la gamba.
D’accordo?»
Era bella, di una bellezza severa. Le guance scure erano coperte di punti di
un nero assoluto sparsi come le perline su un velo. Fili candidi si
mescolavano alle onde nere dei suoi capelli come raggi di luna sull’acqua.
Però non c’era luce lunare su Nuova Terra, soltanto miliardi di stelle
sconosciute.
«D’accordo?» ripeté la donna.
«D’accordo» assentì Elvi.
«Mi dica su cosa si è appena detta d’accordo.»
«Non me lo ricordo.»
La donna si inclinò all’indietro, premendo con gentilezza la mano contro la
spalla di Elvi.
«Torre! Ho bisogno di una scansione della testa di questa donna. Potrebbe
avere una commozione cerebrale.»
Un’altra voce, maschile, emerse dal buio. «Sì, dottoressa Merton, non
appena ho finito qui.»
La dottoressa Merton tornò a rivolgersi a Elvi. «Se ora mi alzo, rimarrà
dove si trova finché non arriva Torre?»
«No, sto bene, posso aiutarvi» rispose Elvi.
«Ne sono certa» sospirò la donna. «Aspettiamolo, allora.»
Un’ombra emerse dall’oscurità, ed Elvi riconobbe Fayez dal suo modo di
camminare. «Vada pure. Starò io con lei.»
«Grazie» rispose la dottoressa Merton, e scomparve mentre Fayez si sedeva
per terra con un grugnito e incrociava le gambe. I capelli gli sporgevano in
tutte le direzioni dalla testa leggermente sproporzionata e aveva le labbra
compresse in una linea sottile. Senza averne davvero l’intenzione, Elvi gli
prese la mano nella sua e lo sentì ritrarsi per un istante, prima di permettere
che le loro dita rimanessero in contatto.
«Cosa è successo?» chiese lei.
«La piattaforma di atterraggio è esplosa.»
«Oh. Possono esplodere?»
«No. Non dovrebbero farlo.»
Elvi cercò di dare un senso a quelle informazioni. Se non possono
esplodere, allora cosa è successo? La sua mente cominciava a schiarirsi
quanto bastava a permetterle di rendersi conto di quanto i suoi processi
mentali fossero compromessi. Era inquietante, ma probabilmente era un buon
segno.
«Quanto è grave la situazione?»
Percepì la scrollata di spalle di Fayez, più che vederla. «È grave. L’unica
buona notizia significativa è che il villaggio è vicino e il loro dottore è
competente. Ha fatto l’addestramento su Ganimede. Ora, se le nostre scorte
non fossero tutte in fiamme o schiacciate sotto un paio di tonnellate di
metallo e ceramica, lei potrebbe riuscire a fare qualcosa.»
«La squadra?»
«Ho visto Gregorio, sta bene. Eric è morto. Non so che ne sia stato di
Sophie, ma andrò di nuovo a cercarla dopo che si saranno occupati di te.»
Eric era morto. Pochi minuti prima stava sul sedile accanto al suo, a
seccarla con i suoi tentativi di flirtare. Non riusciva a capirlo.
«Sudyam?» domandò.
«È sulla Israel. Sta bene.»
«Questa è una buona cosa.»
Fayez le strinse la mano, poi la lasciò andare. L’aria risultò fredda contro il
suo palmo là dove il contatto era cessato. Lui guardò oltre le file di corpi,
verso i rottami della navetta. Era così buio che Elvi riusciva a stento a
distinguerlo, e solo perché la sua sagoma copriva le stelle.
«Il governatore Trying non ce l’ha fatta» disse.
«Non ce l’ha fatta?»
«Morto stecchito. Non so bene chi comandi adesso.»
Elvi sentì le lacrime che le salivano agli occhi e un dolore al petto che non
aveva niente a che fare con le ferite. Ricordava il sorriso gentile del
governatore e il calore della sua voce. Il suo lavoro era appena cominciato.
Era strano che la morte di Eric fosse scivolata sulla superficie della sua mente
come una pietra sull’acqua e che la perdita del governatore Trying l’avesse
colpita così profondamente.
«Mi dispiace moltissimo» mormorò.
«Già. Ecco, siamo su un pianeta alieno, a un anno e mezzo di viaggio da
casa, con la nostra scorta iniziale di provviste ridotta in schegge grosse come
stuzzicadenti e la netta probabilità che quanto è successo sia stato un
sabotaggio da parte delle stesse persone che attualmente ci stanno assistendo.
Essere morti non è un bene, ma almeno è una cosa semplice. Prima che tutto
questo sia finito potremmo trovarci tutti a invidiare Trying.»
«Non dici sul serio. Si sistemerà tutto.»
«Elvi?» ribatté Fayez, con una risatina sardonica. «Io non credo proprio.»
3
Havelock

«Ehi» chiamò l’ingegnere, con voce impastata, dall’interno della cella.


«Havelock. Non sei ancora incazzato, vero?»
«Il mio lavoro non è essere incazzato, Williams» replicò Havelock, da dove
fluttuava accanto alla scrivania. La postazione interna di sicurezza della
Edward Israel era piccola. Due scrivanie, otto celle, uno spazio che era in
pari misura guardina e ufficio. E con la nave in orbita alta, la perdita di
gravità effettiva la faceva apparire ancora più piccola.
«Senti, so di aver esagerato, ma adesso sono sobrio. Puoi farmi uscire di
qui.»
Havelock controllò il terminale palmare.
«Altri cinquanta minuti e sarai libero di andare» replicò.
«Andiamo, Havelock, abbi un po’ di cuore.»
«È il protocollo. Non ci posso fare niente.»
Nell’arco di tredici anni, Dimitri Havelock aveva lavorato per la sicurezza
per otto diverse società, fra cui Pinkwater, Star Helix, la Cooperativa el-
Hashem e Stone & Sibbets. Sia pure per poco, aveva lavorato perfino per la
Protogen. Era stato nella Fascia, sulla Terra, su Marte e su Luna. Aveva
ricoperto incarichi in lunghi tragitti su navi di rifornimento dirette da
Ganimede sulla Terra. Aveva affrontato di tutto, da tumulti a violenza
privata, dal traffico di droga a un idiota che aveva la fissa di rubare i calzini
alla gente. Non aveva visto proprio tutto, ma aveva visto molto, abbastanza
da sapere che probabilmente non avrebbe mai visto tutto. E da rendersi conto
che il modo in cui reagiva a una crisi aveva più a che vedere con le persone
della sua squadra che con la crisi in sé stessa.
Quando il reattore si era guastato sulla Base Aten, il suo partner e il suo
supervisore avevano entrambi ceduto al panico, e Havelock ricordava il
sopraffacente terrore che gli aveva attanagliato il ventre. Quando su Ceres
erano scoppiati i tumulti, dopo che la portaghiaccio Canterbury era stata
distrutta, il suo partner era stato più stanco che timoroso, e Havelock aveva
affrontato la situazione con la sua stessa cupa rassegnazione. Quando l’Ebisu
era stata messa in quarantena a causa del nipahvirus, il suo capo era stato
galvanizzato dalla situazione, ne aveva quasi esultato nel gestire la nave come
un puzzle che andasse risolto, e Havelock era stato coinvolto dal piacere di
fare bene una cosa importante.
Per lunga esperienza, Havelock sapeva che gli umani erano soprattutto
animali sociali, e lui era profondamente umano. Era più romantico –
dannazione, era più virile – fingere di essere un’isola che non veniva
influenzata dalle ondate di emozione che lo circondavano, ma non era vero, e
lui era venuto a patti con quella realtà di fatto.
Quando era giunta la notizia che la piattaforma di atterraggio della navetta
era esplosa ed erano cominciati ad arrivare i rapporti relativi alle perdite, la
reazione di Murtry era stata una rabbia focalizzata ed efficiente, quindi
Havelock aveva reagito nello stesso modo. Tutta l’attività si stava svolgendo
sulla superficie del pianeta, quindi la sola via di sfogo era stata a bordo della
Edward Israel, e Havelock aveva sotto ferreo controllo il modo in cui le cose
procedevano sulla Israel.
«Per favore?» implorò Williams, dalla cella. «Ho bisogno di vestiti puliti.
Qualche minuto in più o in meno non farà nessuna differenza, giusto?»
«Se non farà nessuna differenza, allora non ha importanza se rimani in cella
per tutto il tempo previsto» ribatté Havelock. «Quarantacinque minuti e
potrai andartene. Siediti e goditi la permanenza.»
«Non mi posso sedere mentre fluttuiamo in orbita.»
«Era una metafora. Non prendere le cose alla lettera.»
La missione della Edward Israel era stata un contratto di estrema rilevanza.
Quella della Royal Charter Energy era la prima vera spedizione nei nuovi
sistemi a cui gli anelli avevano dato accesso, e l’importanza che la società
dava al successo della missione si rifletteva sulle dimensioni del pacchetto di
benefit che era disposta a offrire. Ogni giorno sulla Israel veniva pagato
come un’indennità di rischio, anche quando stavano soltanto caricando
provviste e personale su Luna, e con quasi un anno e mezzo di viaggio di
andata, una permanenza di sei anni prima del previsto ritorno sulla Terra e un
altro anno e mezzo di viaggio di rientro – il tutto a paga piena – non si
trattava di un contratto quanto di un piano di carriera.
Nonostante tutto questo, Havelock aveva esitato prima di firmare.
Aveva visto le riprese provenienti da Eros e da Ganimede, il bagno di
sangue nella cosiddetta zona lenta quando le difese aliene avevano arrestato
le navi tanto bruscamente da massacrare un terzo delle persone che si
trovavano a bordo. Con l’elevatissima concentrazione di scienziati e di
ingegneri accalcati sulla Israel, era impossibile dimenticare che erano diretti
verso l’ignoto. Un territorio potenzialmente pieno di mostri.
E adesso il governatore Trying era morto. Severn Astrapani, lo statistico
che aveva cantato alcuni classici del ryu pop nella gara fra talenti musicali,
era morto. Amanda Chu, che una volta aveva flirtato con Havelock quando
erano entrambi un po’ brilli, era morta. La metà degli uomini e donne della
prima squadra erano feriti. Le provviste caricate sulla navetta pesante, e la
navetta stessa, erano perdute. E il silenzio che era calato sulla Israel era stato
come il momento di shock fra l’impatto e l’insorgere del dolore. Poi c’erano
stati la rabbia e il cordoglio, non solo dell’equipaggio, ma anche dello stesso
Havelock.
Il terminale palmare trillò. Il messaggio era riservato al personale di
sicurezza: Murtry, Wei, Trajan, Smith e Havelock che lo aprì con un senso di
piacere. Poteva essere la persona con meno anni di servizio, ma era ancora
presente, ed essere incluso gli dava la sensazione di avere forse un po’ di
controllo sugli eventi, dopotutto. Era un’illusione, ma non lo disturbava.
Lesse in fretta il messaggio, annuì fra sé e digitò il codice di apertura della
cella.
«Sei fortunato. C’è una riunione a cui devo presenziare» disse.
Williams fluttuò fuori della cella. I suoi capelli sale e pepe erano arruffati, e
la sua pelle appariva più grigia del solito. «Grazie» disse in tono cupo.
«Bada solo a non farlo di nuovo» replicò Havelock. «La situazione è già
abbastanza difficile senza che le persone che dovrebbero avere un po’ di
buonsenso la rendano peggiore di quel che è.»
«Ero ubriaco» reiterò l’ingegnere. «Non avevo cattive intenzioni.»
«Lo so» annuì Havelock. «Bada che non succeda di nuovo. D’accordo?»
Williams annuì, evitando il suo sguardo, poi si tirò in avanti usando le
maniglie e si lanciò su per il passaggio che portava agli alloggi
dell’equipaggio, verso indumenti che non fossero strappati o chiazzati di
vomito. Havelock attese che se ne fosse andato, poi chiuse la postazione di
sicurezza e si avviò verso la sala riunioni.
Murtry era già là. Era un uomo minuto, ma l’energia pareva emanare dal
suo corpo come calore. Havelock sapeva che il capo della sicurezza aveva
lavorato in prigioni private e nella sicurezza industriale di alto livello per tutta
la sua carriera. Per quello e il semplice fatto che era stato messo al comando
della Israel, non doveva sforzarsi molto per ottenere il rispetto della sua
squadra. Accanto a lui fluttuavano l’esperta nell’acquisizione di informazioni
Chandra Wei e il comandante in seconda per le operazioni a terra Hassan
Smith, entrambi seri e cupi in volto.»
«Havelock» salutò Murtry.
«Signore.» Havelock ricambiò il suo cenno e si aggrappò a una maniglia,
girandosi in modo da avere la testa orientata nella stessa direzione degli altri.
Reeve, il comandante in seconda di Murtry, arrivò qualche momento più
tardi.
«Trajan?» chiese Wei, ma dal tono cupo della sua voce si intuiva che
sospettava già la risposta.
«Trajan è morta sulla navetta» rispose infatti Murtry. «Smith, sei
promosso.»
«Mi dispiace sentirlo, signore» replicò Smith. «Trajan era un buon ufficiale
e una professionista. Sentiremo la sua mancanza.»
«Sì» disse Murtry. «Siamo qui per organizzare la nostra reazione.»
«Scarichiamo una roccia sugli abusivi?» commentò Wei. La sua battuta non
aveva niente di umoristico, ma Murtry sorrise lo stesso.
«Per ora ci atterremo un po’ di più al regolamento» replicò. «Inoltre,
abbiamo ancora alcuni dei nostri laggiù. Ho mandato un messaggio all’ufficio
centrale, chiedendo quanta libertà d’azione abbiamo nell’affrontare il
problema. Considerate le circostanze, sono sicuro che ci copriranno le spalle,
se si dovesse arrivare alle maniere forti.»
«Siamo a un anno e mezzo di distanza da qualsiasi posto» osservò Wei. Il
sottinteso di quelle parole – ‘Nessuno può impedirci di fare quello che
vogliamo’ – rimase sospeso nell’aria.
«Siamo anche a poche ore di distanza da ogni schermo e notiziario, dalla
Terra a Nettuno» le ricordò Reeve. «Questa situazione fa schifo, ma al
momento siamo moralmente dalla parte del giusto. Se reagiamo in modo
eccessivo, ricominceranno a parlare di come le società opprimano i poveri
cinturiani. Siamo in un mondo post-protomolecola. Non possiamo vincere in
quel modo.»
«Non sapevo che ti avessero nominato ufficiale politico» ritorse Wei.
Reeve contrasse la mascella. Quando Murtry parlò, la sua voce suonò calma,
piana e minacciosa quanto il suono di un serpente a sonagli.
«Questa è una cosa che non faremo.»
«Signore?» chiese Reeve.
«Non cominceremo ad azzannarci a vicenda. È una cosa che qui non
facciamo.»
Wei e Reeve si guardarono.
«Mi dispiace, signore» disse infine Wei. «Ho parlato a sproposito.»
«Non è un problema, perché la cosa non si ripeterà» replicò Murtry. «Che
reazioni ci sono state dalla Barbapiccola?»
«Nessuna» rispose Wei. «I cinturiani ci hanno fatto le condoglianze e
offerto aiuto, come se ci fosse qualche dannata cosa che possono fare.»
«Stanno scaldando i motori?»
«Non che io abbia notato» replicò Wei.
«Stiamo tenendo d’occhio la nave.» Era un’affermazione, non una
domanda.
«Potremmo requisirla» suggerì Wei. «Apparteneva alla Mao-Kwikowski
prima che la società si disgregasse, e lo status del suo recupero è molto
nebuloso. Possiamo dichiararlo illegale, mandare alcune persone a bordo e
disattivare la nave.»
«Ne prendo nota» disse Murtry. «Come sta l’equipaggio, Havelock?»
«Sono sconvolti, signore, e spaventati. Infuriati. Sono scienziati. Vedevano
i coloni abusivi come una seccatura e una minaccia per i loro dati. Per la
maggior parte questa è una situazione che esula dalla loro esperienza.»
Murtry si massaggiò il mento con il dorso della mano. «Cosa stanno
facendo al riguardo?»
«Finora? Si ubriacano. Litigano fra loro, o con noi. Progettano sistemi
giudiziari teorici. I più sembrano volere che tutta questa faccenda scompaia in
modo da poter cominciare le ricerche.»
«Dio benedica quelle teste d’uovo» ridacchiò Murtry. «D’accordo.»
«Abbiamo ancora due navette atmosferiche leggere» continuò Havelock.
«Posso procurare i piloti, in modo da evacuare il personale che abbiamo a
terra.»
«Nessuna evacuazione. Gli abusivi non l’avranno vinta» ribatté Murtry.
«Nessuno di quelli che sono andati laggiù tornerà su. Invece, sbarcheremo
altre persone per dare loro supporto. Quali che siano le loro ricerche, ci
accerteremo che procedano e che laggiù tutti lo vedano.»
«Sissignore» rispose Havelock, sentendosi vagamente imbarazzato.
«Reeve, tu scenderai a terra. Occupati dei locali e scopri quello che puoi.
Tieni la nostra gente al sicuro. Vogliamo una dimostrazione di forza.»
«Ma niente di tanto forte che possano usare per suscitare compassione nei
notiziari, a casa» aggiunse Reeve, come se stesse assentendo.
«Wei, voglio che tu tenga d’occhio la nave nemica. Se dovesse cominciare
a scaldare i motori voglio essere informato.»
«Ho il permesso di attivare il potenziamento dei laser di comunicazione?»
La Edward Israel non aveva tubi di lancio per i siluri o cannoni a induzione
magnetica. La cosa più simile a un’arma che ci fosse a bordo era un antico
laser di comunicazione che poteva essere potenziato fino a metterlo in
condizione di tagliare superfici. La nave era stata progettata quando i pericoli
dello spazio erano tutti connessi alle radiazioni e alle scorte d’aria, non alla
violenza. Era quasi pittoresca.
«No» rispose Murtry. «Limitati a monitorare quello che fanno, ad ascoltare
le comunicazioni e a fare rapporto a me. Se qualcuno dovrà prendere una
decisione, sarò io. Niente iniziative. Capito?»
«Sissignore.»
«Havelock, tu resterai qui per coordinare le operazioni con la squadra a
terra. Usa le navette come necessario per trasferire personale e materiali sulla
superficie. Siamo qui per stabilire una base e cominceremo a metterla in
piedi.»
«E se ci fosse un altro attacco, signore?» chiese Wei.
«Allora si sarà trattato di una decisione presa dai coloni abusivi, e noi
rispetteremo la loro scelta» replicò Murtry.
«Non sono certa di capire cosa intenda, signore.»
Il sorriso di Murtry non si estese al suo sguardo. «C’è dignità nelle
conseguenze.»
L’alloggio di Havelock era di poco più grande delle celle della prigione, ma
molto più comodo. Alla fine del suo turno, si era appena assicurato
all’interno del suo sedile di smorzamento quando bussarono piano alla porta e
Murtry fluttuò all’interno. Il capo della sicurezza era accigliato, ma non più
del solito.
«Succede qualcosa, capo?» chiese Havelock.
«Tu hai lavorato con i cinturiani» disse Murtry. «Che ne pensi di loro?»
«Sono persone» rispose Havelock. «Alcuni sono migliori di altri. Ho ancora
degli amici su Ceres.»
«Ottimo. Ma cosa pensi dei cinturiani?»
Havelock cambiò posizione, e quel movimento lo fece fluttuare contro le
cinture mentre rifletteva. «Sono insulari, quasi tribali. Credo che la cosa che
hanno maggiormente in comune sia che non amano i tipi dei pianeti interni.
A volte un marziano può farsi accettare, però. Hanno quella fissazione della
fisiologia da bassa forza gravitazionale.»
«Quindi i più odiano i terrestri» sintetizzò Murtry.
«È quello che li tiene insieme. Il fatto di essere oppressi dalla Terra è
praticamente la sola cosa che hanno in comune, quindi la coltivano. Odiare la
gente come noi è quello che li definisce per ciò che sono.»
Murtry annuì. «Sai che ci sono persone che ti accuserebbero di avere dei
pregiudizi per quello che hai detto.»
«È un pregiudizio soltanto se non sei stato là» replicò Havelock. «Io ero
sulla Stazione di Ceres poco prima che decidesse di unirsi all’APE. Per me è
tutta esperienza vissuta.»
«Credo che tu abbia ragione» annuì Murtry. «È per questo che volevo
parlarti, in via non ufficiale. La maggior parte delle persone a bordo sono
terrestri, o quantomeno marziani. Però ci sono alcuni cinturiani, come quel
tecnico di macchina. Com’è che si chiama?»
«Bischen?»
«Proprio lui. Bada a tenere d’occhio quei cinturiani.»
«Sta succedendo qualcosa?»
«È solo che i coloni abusivi vengono soprattutto dalla Fascia e dai pianeti
esterni, mentre la RCE è una società terrestre. Non voglio che qualcuno faccia
confusione cambiando idea.»
«Sissignore» assentì Havelock. Poi, in tono più esitante, ripeté: «Sta
succedendo qualcosa, signore?»
«Non al momento, ma... ecco, tanto vale che tu lo sappia. Ho ricevuto un
messaggio dall’ufficio centrale, e la mia richiesta di avere discrezionalità di
azione è stata rispettosamente respinta. A quanto pare sono in corso alcuni
giochi politici in merito a come sarà gestita questa faccenda. L’APE e le
Nazioni Unite stanno discutendo su quello che vogliono che succeda, e ciò
che vogliono è assicurarsi che i coloni abusivi siano trattati bene.»
L’ira di Murtry era mascherata ma profonda, e Havelock la sentì vibrare
dentro di sé.
«Ma noi abbiamo l’autorizzazione. Abbiamo il diritto di essere qui.»
«Sì.»
«E non siamo noi quelli che hanno cominciato a uccidere la gente.»
«No.»
«Quindi cosa dovremmo fare? Starcene seduti con le mani in mano mentre i
cinturiani ci uccidono e si prendono la nostra roba?»
«La vendita del litio ricavato dalle loro operazioni minerarie illegali è stata
bloccata» disse Murtry. «Noi abbiamo istruzioni di non fare niente che possa
scatenare ulteriori conflitti.»
«Queste sono stronzate. Come ci si aspetta che facciamo il nostro lavoro se
dobbiamo stare attenti a non offendere i bastardi che ci sparano addosso?»
Murtry assentì con una scrollata di spalle. Quando parlò, il tuo tono calmo e
laconico mascherava a stento il disprezzo che provava.
«A quanto pare ci stanno mandando un mediatore.»
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo, non c’è risposta, ed esso cerca ancora di
comunicare. Non è cosciente, anche se alcune sue parti lo sono. Contiene
strutture che un tempo erano organismi separati: aborigeni, evoluti e
complessi. È progettato per improvvisare, per usare ciò che c’è e andare oltre.
Abbastanza buono è solo questo, abbastanza buono, per cui i manufatti
vengono ignorati o adattati. Le parti coscienti cercano di dare un senso al
tentativo di comunicare. Cercano di interpretarlo.
Una di esse immagina una zampa d’insetto che sussulta e sussulta. Una
sente una scintilla chiudere un varco, il ticchettio tanto rapido da diventare un
ronzio. Un’altra, ignara, rivive l’esperienza della carne che le si stacca dalle
ossa, la nausea e la paura, e implora di morire come fa ormai da anni. Si
chiama Maria. Esso però non la lascia morire, non la conforta. È
inconsapevole di lei perché è privo di consapevolezza.
Questo non significa però che sia inattivo. Trova energia dove può,
annidata in un bagno di basse radiazioni. Minuscole strutture, più piccole
degli atomi, raccolgono l’energia delle particelle veloci che lo attraversano.
Mulini a vento subatomici. Divora il vuoto e cerca di comunicare cerca di
comunicare cerca di comunicare.
I ricordi di vite svanite aleggiano ancora nei manufatti dotati di coscienza.
Tessuti che sono stati modificati senza che siano morti racchiudono il
momento in cui un bambino ha sentito che sua sorella stava per andarsene di
casa. Racchiudono le tabelline delle moltiplicazioni. Immagini di sessualità e
di violenza e di bellezza. Contengono i ricordi di carne che non esiste più.
Sono pieni di metafore: mitocondri, stelle marine, il cervello di Hitler in un
vaso, il regno degli inferi. Sognano. Strutture che erano neuroni sussultano,
girano in cerchio, bruciano e sognano. Immagini e parole e dolore e paura,
senza fine. Un sopraffacente senso di malessere. Il ricordo della voce arida di
un vecchio che sussurra parole di cui esso è inconsapevole. ‘A ben cinque
braccia nel mare tuo padre si giace sepolto.’ ‘Coralli son l’ossa.’
Se ci fosse una risposta, esso potrebbe avere fine. Se qualcuno rispondesse,
potrebbe arrestarsi come una biglia ai piedi di una collina, ma niente gli
risponde. Le cicatrici sanno che non arriverà mai una risposta, ma un riflesso
ne attiva un altro che ne attiva un altro, ed esso cerca di comunicare.
Ha già risolto un miliardo di piccoli enigmi in cascate di riflessi. Non
ricorda di averlo fatto, tranne per le sue cicatrici. Per esso c’è solo il cercare
di comunicare, il consegnare il messaggio in cui riferisce di aver completato
il suo compito. Nulla risponde, quindi esso non può avere fine. Cerca di
comunicare. È un complesso meccanismo per risolvere enigmi usando
qualsiasi cosa ci sia a disposizione.
‘Son gli occhi due perle nel volto.’
E per questo esso ha l’investigatore.
Di tutte le cicatrici, è quella che è arrivata per ultima, che è quasi intatta. È
utile, quindi viene usata. Esso costruisce l’investigatore da quella matrice,
inconsapevole di quello che sta facendo, e tenta un altro modo di comunicare.
E qualcosa risponde. È qualcosa di sbagliato e sconosciuto e aborigeno, ma
c’è una risposta, quindi nel corso degli anni esso ricostruisce l’investigatore e
cerca di comunicare. L’investigatore diventa più complesso.
Esso non si fermerà finché non avrà stabilito il contatto finale, e non potrà
mai stabilire quel contatto finale. Si protende, prova nuove combinazioni,
modi diversi di comunicare, inconsapevole di farlo. Inconsapevole di esistere.
Vuoto, tranne che nelle parti insignificanti.
Zampe da insetti che sussultano in eterno. La cicatrice che implora la morte
implorerà in eterno. L’investigatore cercherà per sempre. La voce sommessa
borbotterà senza fine.
‘Ma niente di lui sarà vano che per un incanto del mare dovrà trasformarsi
In qualcosa di ricco e di strano.’
Esso cerca di comunicare.
4
Holden

«MCRN Sally Ride, qui è la nave indipendente Rocinante. Chiediamo il


permesso di attraversare l’Anello con una nave, il mercantile dell’APE
Callisto’s Dream.»
«Rocinante, trasmettete il codice di autorizzazione.»
«In trasmissione.» Holden toccò lo schermo per inviare il codice e
stiracchiò le braccia e le gambe, lasciando che il movimento lo facesse
sollevare dal sedile nella microgravità. Parecchie articolazioni bistrattate, in
svariati punti del suo scheletro, risposero con schiocchi sonori.
«Diventi vecchio» commentò Miller. Il detective, che indossava uno
sgualcito completo grigio e cappello pork pie, era fermo a qualche metro di
distanza, con i piedi saldamente piantati sul ponte come se ci fosse stata forza
di gravità. Quanto più diventava intelligente – e negli ultimi due anni era
diventata quasi coerente – tantomeno la simulazione di Miller sembrava
preoccuparsi di adeguarsi alla realtà che la circondava.
«Tu no.»
«Coralli son l’ossa» citò lo spettro, come per assentire. «È tutta una
questione di compromessi.»
Quando la Sally Ride trasmise il codice che permetteva loro di procedere,
Alex li portò attraverso l’Anello, lentamente e senza problemi, con la Callisto
che si adeguava alla loro velocità e rotta. Le stelle svanirono quando la nave
si addentrò nel nero nulla del centro dell’Anello. La sagoma di Miller tremolò
mentre attraversavano il portale, cominciò a riprendere solidità, poi svanì in
uno sbuffo di scintille azzurre quando il portello del ponte si aprì
rumorosamente e Amos si spinse attraverso l’apertura.
«Atterriamo?» chiese senza preamboli.
«In questo viaggio non ce n’è bisogno» rispose Holden, e aprì un canale di
comunicazione con Alex, nella cabina di pilotaggio. «Tienici qui finché non
vediamo la Callisto attraccare, poi riportaci fuori.»
«Di certo mi farebbe comodo qualche giorno su una stazione, capo» disse
Amos, spostandosi verso una delle postazioni operative e assicurandosi al
sedile. La sua tuta grigia recava il segno di una bruciatura su una manica e lui
aveva una fasciatura che gli copriva la mano sinistra. Holden la indicò, ma
Amos si limitò a scrollare le spalle.
«Abbiamo un paio di navi cariche di terriccio che ci aspettano alla Stazione
di Tycho» disse Holden.
«Nessuno ha avuto le palle di cercare di assalire navi, su questa rotta. Con
tutte queste navi della marina nelle vicinanze sarebbe un suicidio.»
«Comunque Fred ci paga molto bene per scortare le sue navi dalla Stazione
di Medina, e mi piace prendere i suoi soldi.» Holden fece ruotare i telescopi
di bordo, puntandoli sugli anelli e ingrandendo l’immagine. «E non mi piace
stare qui più del necessario.»
Lo spettro di Miller – un manufatto derivante da un uomo morto e dalla
tecnologia aliena che aveva creato i portali – aveva iniziato a seguire Holden
da due anni, e cioè da quanto avevano disattivato la Stazione dell’Anello.
Passava il suo tempo esigendo, chiedendo e cercando di convincere Holden
ad attraversare i portali da poco aperti per cominciare la sua indagine sui
pianeti oltre essi. Il fatto che Miller potesse apparire a Holden soltanto
quando era solo – e su una nave grande come la Rocinante lui non lo era
quasi mai – gli aveva permesso di non impazzire.
Alex fluttuò giù dalla cabina di pilotaggio con i radi capelli neri che
sporgevano in tutte le direzioni dal cuoio capelluto scuro; aveva gli occhi
cerchiati. «Non atterriamo? Ci servirebbero proprio un paio di giorni su una
stazione.»
«Visto?» commentò Amos.
Prima che Holden potesse replicare, Naomi arrivò dal portello del ponte.
«Non attracchiamo?»
«Il capitano vuole tornare di corsa a prelevare quei trasporti di terriccio, a
Tycho» spiegò Amos, in un tono che riuscì in qualche modo a essere neutro e
derisorio nello stesso tempo.
«Mi farebbe proprio comodo qualche giorno...» cominciò Naomi.
«Prometto che ci prenderemo una settimana su Tycho quando torneremo
indietro. È che non voglio trascorrere la mia vacanza qui» replicò Holden,
indicando gli schermi che mostravano la sfera morta della Stazione
dell’Anello e i portali scintillanti.
«Fifone» commentò Naomi.
«Sì.»
Una luce sulla postazione delle comunicazioni li avvertì di un messaggio in
arrivo. Amos, che era il più vicino, attivò lo schermo.
«Qui è la Rocinante» disse.
«Rocinante, questa è la Stazione di Medina» rispose una voce familiare.
«Fred» intervenne Holden, con un sospiro. «Ci sono problemi?»
«Non intendete attraccare? Scommetto che avete bisogno di qualche...»
«Posso esserti utile in qualche modo?» chiese Holden, interrompendolo.
«Sì, puoi. Chiamami dopo aver attraccato. Ci sono affari di cui discutere.»
«Dannazione» imprecò Holden, dopo aver chiuso la comunicazione. «Avete
mai l’impressione che l’universo ce l’abbia proprio con voi?»
«A volte ho l’impressione che l’universo ce l’abbia con te» ribatté Amos,
con un sorriso. «È divertente.»
«Hanno cambiato di nuovo il nome» osservò Alex, allargando l’immagine
della stazione che fino a poco tempo prima si chiamava Behemoth. «Stazione
di Medina. Un buon nome.»
«Non significa ‘fortezza’?» chiese Naomi, accigliandosi. «Forse è un po’
troppo marziale.»
«No» rispose Alex. «Ecco, in un certo senso sì. Era la parte fortificata di
una città, ma poi è diventata anche una sorta di centro sociale. Strade strette
progettate per tenere fuori gli invasori facevano lo stesso con il traffico
motorizzato e i carri trainati da cavalli, quindi potevi circolare solo a piedi.
Per questo i venditori ambulanti si sono concentrati là, e così si è trasformata
in un posto dove fare acquisti, riunirsi e bere tè. Un posto sicuro dove la
gente si incontra. Un buon nome per una stazione.»
«Ci hai riflettuto sopra parecchio» osservò Holden.
Alex scrollò le spalle. «L’evoluzione di quella nave e dei suoi nomi è
interessante. È nata come Nauvoo, un luogo di rifugio, giusto? Una grande
città nello spazio. Poi è diventata Behemoth, la più grande e cattiva nave da
guerra del sistema. Adesso è la Stazione di Medina, un luogo di raduno.
Stessa nave, tre nomi diversi, tre cose diverse.»
«È sempre la stessa nave» disse Holden, sentendosi un po’ scontroso
mentre ordinava alla Rocinante di avviare l’avvicinamento per l’attracco.
«I nomi hanno importanza, capo» osservò Amos, dopo un momento, con
una strana espressione sul volto. «I nomi cambiano tutto.»
All’interno della Stazione di Medina c’erano lavori in corso. Ampie sezioni
del corpo centrale rotante erano state ricoperte di terriccio trapiantato in
preparazione alla produzione di cibo, ma in molti punti il metallo e la
ceramica erano ancora visibili. La maggior parte dei danni sostenuti dall’ex
nave coloniale nel corso delle sue battaglie erano stati riparati, gli spazi
destinati a uffici e magazzini all’interno del corpo centrale stavano
diventando il cuore degli sforzi tesi a esplorare le migliaia di nuovi mondi
che si erano aperti all’umanità. Se stava preparando la Stazione di Medina a
diventare la sede più logica di un nascente governo tipo Lega dei Pianeti, se
non altro Fred Johnson, ex colonnello della Terra e adesso capo dell’ala
rispettabile dell’APE, aveva il buonsenso di non dirlo apertamente.
Holden aveva visto morire in quel posto troppe persone per poterlo mai
considerare altro se non un cimitero, il che lo rendeva molto simile a qualsiasi
altro governo conoscesse.
Fred aveva installato il suo nuovo ufficio in quello che era stato l’edificio
dell’amministrazione coloniale, al tempo in cui la Stazione di Medina si
chiamava ancora Nauvoo. Quegli ambienti erano anche stati usati come uffici
della Radio Zona Lenta Libera. Adesso erano stati riparati, ridipinti e decorati
con piante che rinnovavano l’atmosfera e schermi visori che offrivano
immagini dello spazio dell’Anello circostante la nave. Per Holden, quella era
una sovrapposizione strana. Certo, gli umani avevano invaso uno spazio
extradimensionale con buchi neri che portavano a punti sparsi per tutta la
galassia, ma si erano ricordati di portarsi dietro un po’ di felci.
Fred stava armeggiando nell’ufficio, impegnato a preparare il caffè.
«Lo prendi nero, giusto?»
«Sì» annuì Holden, e accettò la tazza fumante che Fred gli porgeva. «Non
mi piace venire qui.»
«Lo capisco, e apprezzo che tu lo faccia lo stesso» rispose Fred, poi si
accasciò sulla sua sedia con un sospiro che pareva eccessivo, considerando la
forza di gravità di un terzo di g prodotta dalla rotazione della stazione.
D’altro canto, le pressioni che gravavano su di lui avevano ben poco a che
vedere con la forza di gravità. I suoi capelli, un tempo sale e pepe, si erano
fatti di un grigio uniforme e la sua pelle scura era segnata da rughe sottili.
«Nessun segno che si stia risvegliando?» chiese Holden, indicando con la
tazza di caffè in direzione di uno schermo a parete che mostrava
un’immagine ingrandita della sfera della Stazione dell’Anello.
«Devo mostrarti qualcosa» replicò Fred, come se Holden non gli avesse
fatto quella domanda. In risposta a un cenno di assenso da parte di Holden,
digitò qualcosa sulla scrivania e lo schermo video alle sue spalle si accese. Su
di esso, il volto di Chrisjen Avasarala era bloccato nell’atto di pronunciare
una parola. Il sottosegretario all’amministrazione esecutiva aveva le palpebre
leggermente abbassate e un sogghigno sulle labbra. «Questa è la parte che ti
riguarda.»
«...In realtà è solo una scusa per giocare a chi è più macho fra loro» disse
Avasarala, quando il video cominciò a scorrere. «Per questo, penso che
dovremmo mandare Holden.»
«Mandare Holden?» chiese l’interessato, ma il video continuò a scorrere e
Fred non gli rispose. «Mandare Holden dove? Dove lo vogliono mandare?»
«Lui è vicino in quanto si trova a Medina, e dal momento che tutti lo odiano
nella stessa misura possiamo sostenere che è imparziale. Ha legami con te,
con Marte, con me. È una scelta fottutamente orribile per una missione
diplomatica, il che lo rende perfetto. Ragguaglialo, digli che le Nazioni Unite
lo pagheranno il doppio della tariffa normale e fallo arrivare a Nuova Terra il
più in fretta possibile, prima che le cose si facciano ancora più incasinate di
quanto non siano già.»
L’anziana donna si protese verso lo schermo, e la sua faccia si ingrandì su
di esso finché Holden poté vedere i dettagli di ogni ruga e macchia della
pelle.
«Holden, se Fred ti sta mostrando questo video, sappi che il tuo pianeta
natale apprezza i tuoi servizi. E cerca di non lasciarti prendere la mano. La
situazione è già abbastanza incasinata.»
Fred fermò la registrazione e si appoggiò all’indietro contro lo schienale
della sedia. «Quindi...»
«Di cosa diavolo sta parlando?» domandò Holden. «Cos’è Nuova Terra?»
«Nuova Terra è il nome privo di fantasia che hanno dato al primo dei mondi
della rete del portale che hanno esplorato.»
«Credevo si chiamasse Ilus.»
«Ilus è il nome che gli hanno dato i cinturiani sbarcati su di esso» precisò
Fred. «La Royal Charter Energy, la società che aveva il contratto per
effettuare l’esplorazione iniziale, lo chiama Nuova Terra.»
«Possono farlo? C’è gente che ci vive già. Tutti lo chiamano Ilus.»
«Qui tutti lo chiamano Ilus. Vedo che capisci il problema» ribatté Fred.
Bevve un lungo sorso di caffè per prendersi il tempo per pensare. «Nessuno
era pronto per questo. Un gruppo di profughi provenienti da Ganimede ha
requisito un trasporto della Mao-Kwik ed è passato attraverso l’Anello ad alta
velocità non appena si sono avuti i primi risultati della sonda, prima che
avessimo avuto il tempo di raccogliere i pezzi della nostra incursione iniziale.
Prima del blocco imposto dai militari. Prima che Medina fosse pronta per
imporre un limite di velocità di sicurezza nello spazio dell’Anello. Sono
passati tanto in fretta che non abbiamo avuto neanche il tempo di contattarli.»
«Lasciami indovinare» disse Holden. «Il portale di Ilus è dal lato opposto
rispetto al portale del Sole.»
«Non proprio. Sono stati abbastanza furbi da avvicinarsi con una rotta
diagonale per evitare di andare a sbattere contro la Stazione dell’Anello a una
velocità di trecentomila chilometri orari.»
«Quindi hanno vissuto su Ilus per un anno, e poi di colpo si presenta la RCE
e dice loro che – peccato – quello è il suo pianeta?»
«La RCE ha una concessione delle Nazioni Unite per l’esplorazione
scientifica di Ilus, o Nuova Terra, o come lo vuoi chiamare. E sono là perché
i profughi di Ganimede sono atterrati sul pianeta per primi. Il piano era di
studiare quei mondi per anni, prima che qualcuno ci andasse a vivere.»
Qualcosa nel tono della voce di Fred stuzzicò per un secondo la mente di
Holden. «Aspetta. Una concessione delle Nazioni Unite?» disse. «Da quando
le Nazioni Unite hanno ottenuto il controllo dei mille mondi?»
Fred fece un sorriso privo di umorismo. «La situazione è complessa.
Abbiamo le Nazioni Unite che cercano di impadronirsi del potere di
amministrare tutti questi nuovi mondi. Abbiamo i cittadini dell’APE che si
sono insediati su uno di essi senza permesso. Abbiamo una società per la
produzione di energia che ha ottenuto un contratto per esplorare un mondo
che il caso vuole contenga anche i più ricchi depositi di litio che si siano mai
visti.»
«E abbiamo te,» aggiunse Holden «che ti stai organizzando per gestire la
barriera che tutti devono oltrepassare per arrivare là.»
«Credo si possa dire senza tema di errore che l’APE fondamentalmente
dissente dall’idea che le Nazioni Unite controllino in modo unilaterale
l’assegnazione di quei contratti.»
«Quindi tu e Avasarala state gestendo la cosa in via ufficiosa per impedire
che si trasformi in qualcosa di più grosso.»
«Ci sono all’incirca altre cinque variabili, però... sì, per cominciare. Ed è
qui che entri in gioco tu» replicò Fred, puntando verso Holden la tazza di
caffè, sulla quale erano stampate le parole IL CAPO. Holden represse una
risata. «Non dipendi da nessuno, ma Avasarala e io abbiamo lavorato
entrambi con te e pensiamo di poterlo fare di nuovo.»
«In realtà questo è un motivo stupido.»
Il sorriso di Fred risultò impenetrabile. «Non guasta il fatto che tu abbia una
nave abilitata a penetrare nell’atmosfera.»
«Sai che non abbiamo mai usato davvero quell’abilitazione, sì? Non mi
entusiasma che la prima manovra nell’atmosfera si verifichi a un milione di
chilometri dal più vicino cantiere per le riparazioni.»
«Inoltre, la Rocinante è un modello di nave militare, e...»
«Scordatelo. Qualsiasi cosa tu legga nella tua tazza di caffè, io non
diventerò lo stivale sul collo di quei coloni. Non lo farò.»
Fred sospirò e si protese in avanti sulla sedia. Quando parlò, la sua voce
suonò morbida e calda come la flanella, ma quello non bastò a nascondere
l’acciaio sottostante.
«Le regole in merito a come governare mille pianeti stanno per essere
create. Questo caso è un precedente giudiziario. Tu andrai laggiù come
osservatore imparziale e mediatore.»
«Io? Un mediatore?»
«Non mi sfugge l’ironia della cosa, ma laggiù la situazione ha già
cominciato a degenerare e abbiamo bisogno di qualcuno che impedisca che si
deteriori ulteriormente mentre tre governi decidono come opererà quello
successivo.»
«In pratica, vuoi che dia l’impressione che state facendo qualcosa mentre in
realtà cercate di capire cosa fare» sintetizzò Holden. «In che modo la
situazione sta degenerando?»
«I coloni hanno fatto esplodere una navetta pesante della RCE. Il
governatore provvisorio era a bordo ed è morto insieme ad alcuni scienziati e
dipendenti della RCE. Se Ilus dovesse trasformarsi in una guerra aperta fra
cinturiani e una società delle Nazioni Unite, la cosa non aiuterebbe i nostri
negoziati.»
«Quindi devo mantenere la pace?»
«Devi indurli a parlarsi, e fare in modo che continuino a parlare. E devi fare
quello che fai sempre, mantenere una trasparenza assoluta. Questa è una
situazione in cui i segreti non saranno di aiuto a nessuno. Dovrebbe essere il
genere di cosa che fa per te.»
«Credevo di essere per voialtri la più grossa mina vagante della galassia.
Avasarala manderà un fiammifero a incendiare il barilotto della polvere
perché vuole che questa missione diplomatica fallisca?»
Fred scrollò le spalle. «Il motivo per cui lei ti vuole mi importa assai meno
di quello per cui ti voglio io. Forse piaci alla vecchia signora. Non chiedermi
di spiegarti la sua scelta.»
Miller stava aspettando Holden fuori dell’ufficio di Fred.
«Attualmente ci sono tremila persone sulla Stazione di Medina» disse
Holden. «Come mai nessuna di esse è qui per impedirti di infastidirmi?»
«Intendi accettare l’incarico?» chiese Miller.
«Non ho ancora deciso» replicò Holden. «Cosa che sai già, dato che stai
eseguendo una simulazione del mio cervello. Quindi con la tua domanda in
realtà mi stai dicendo che devo accettare. Correggimi se sbaglio.»
Holden si avviò lungo il corridoio nella speranza di imbattersi in un altro
essere umano in modo che lo spettro di Miller svanisse. Miller lo seguì, i suoi
passi che echeggiavano sul pavimento di ceramica. Il fatto che quegli echi
esistessero soltanto nella mente di Holden rendeva tutta quella faccenda
ancora più inquietante.
«Non ti sbagli. Dovresti accettare» dichiarò Miller. «Quell’uomo ha
ragione, è importante. Una cosa come quella passa in un momento da una
manciata di gente del posto infuriata a un tritacarne su vasta scala. C’è stata
quella volta, su Ceres...»
«Senti, no, niente storie folcloristiche da sbirro raccontate dall’uomo morto.
Cosa c’è su Ilus che vuoi?» domandò Holden. «Se solo ti decidessi a dirmi
cos’è che vuoi sull’altro lato di quegli anelli, questo potrebbe aiutarti.»
«Sai cosa sto cercando» ribatté il vecchio detective. E riuscì ad assumere
un’effettiva espressione triste.
«Sì, la strana civiltà aliena, quale che sia, che ti ha creato. E io so già che
non la troverai. Dannazione, sai anche tu che non la troverai.»
«Devo comunque cer...» Miller scomparve. Una donna che indossava
l’uniforme azzurra della sicurezza della Stazione di Medina passò accanto a
Holden, lo sguardo sul suo terminale palmare. La donna grugnì qualcosa che
poteva essere un saluto senza sollevare lo sguardo.
Holden imboccò le scale che portavano alla superficie interna del corpo
abitativo rotante di Medina. Era impossibile che Miller potesse prenderlo di
sorpresa lassù perché l’area era in piena di attività, con operai che spargevano
il terriccio d’importazione per le future fattorie e altri impegnati a mettere
insieme gli edifici prefabbricati che sarebbero diventati case e magazzini.
Holden li salutò con un allegro cenno della mano mentre passava oltre. Le
apparizioni sempre più frequenti di Miller gli avevano insegnato ad
apprezzare il valore del vedere altri esseri umani: per il solo fatto di esistere,
essi rendevano la sua vita un po’ meno strana.
Evitò l’ascensore che portava al punto di transizione della sezione
ingegneria e lo avrebbe fatto arrivare al di fuori del corpo rotante, nella
microgravità della poppa dell’ex nave coloniale, dove la Rocinante era
attraccata al portello stagno. Invece, risalì la lunga rampa ricurva che gli
permetteva di rimanere in vista di tutti coloro che si trovavano nel corpo
rotante. L’ultima volta che aveva risalito quella rampa c’erano state persone
che sparavano e morivano tutt’intorno a lui. Non era un ricordo piacevole, ma
era meglio che trovarsi intrappolato con Miller nell’ascensore. L’universo si
stava riempiendo un po’ troppo della sua storia personale.
Prima di attraversare il punto di transizione ed entrare nella sezione
ingegneria, si concesse di fluttuare per un momento e di far spaziare lo
sguardo sull’interno del corpo abitativo della stazione. Da quel punto
sopraelevato gli appezzamenti di terriccio apparivano come i quadrati di una
scacchiera, marrone scuro contro lo sfondo grigio della superficie del corpo
abitativo. Alcune apparecchiature si muovevano su di essi come insetti di
metallo, impegnati in compiti di cui era impossibile intuire la natura. Stavano
trasformando una sfera di metallo in un piccolo mondo autosufficiente.
Dimenticheremo come fare tutto questo, pensò. L’umanità aveva appena
cominciato a imparare come vivere nello spazio, e lo avrebbe dimenticato.
Perché sviluppare nuove strategie per sopravvivere su piccole stazioni come
Medina quando c’era un migliaio di nuovi mondi da conquistare, con aria e
acqua lì pronti per essere usati? Era un pensiero stupefacente, ma lasciò in lui
anche un po’ di malinconia.
Volse le spalle agli operai impegnati nel loro lavoro obsoleto e tornò alla
sua nave.
«Allora» disse Naomi, una volta che l’equipaggio si fu riunito nella
cambusa della Rocinante. «Andremo su Ilus?»
Holden aveva passato parecchi minuti a spiegare quello che Fred Johnson e
Chrisjen Avasarala volevano da loro, poi era scivolato nel silenzio. La verità
era che non sapeva come rispondere alla domanda di Naomi.
«Ci sono un sacco di ragioni per farlo» replicò infine, tamburellando
rapidamente sulla superficie di metallo del tavolo. «È una cosa veramente
importante, perché creerà il precedente legale che mille altri mondi
seguiranno. E ammetto di trovare piacevole l’idea di poter aiutare quella
gente a far collimare i loro punti di vista, e magari di contribuire a creare un
modello per tutto ciò che seguirà. È una cosa dannatamente eccitante.»
«E la paga è buona» aggiunse Amos. «Non dimentichiamo che la paga è
buona.»
«Ma...» Naomi incitò Holden a proseguire, posandogli una mano sul
braccio con un sorriso per fargli capire che poteva condividere le sue paure,
quali che fossero. Lui ricambiò il sorriso e le batté un colpetto sulla mano.
«Ma ho un motivo piuttosto valido per dire di no» replicò. «Miller vuole
assolutamente che vada.»
Rimasero tutti in silenzio per un lungo momento, poi Naomi fu la prima a
prendere la parola.
«Hai intenzione di accettare.»
«Davvero?»
«Sì» dichiarò lei. «Perché pensi di poter essere d’aiuto.»
«E tu credi che non possiamo esserlo?»
«No, credo che tu possa» precisò Naomi. «E anche se ci sbagliamo, non
provarci ti renderebbe irritabile.»
«E sapete l’altra cosa da considerare?» disse Amos. «La paga è davvero
buona.»
5
Basia

«Per le lacrime di Gesù, Basia, ragazzo mio,» disse Coop «stiamo


vincendo. Fino a che punto ti trasformi in una femminuccia se le cose si
fanno difficili?»
Gli altri lo fissarono tutti, aspettando. Scotty e Pete, ma anche Loris e
Caterine, Ibrahim e Zadie. Basia incrociò le braccia.
«Se scoprono chi ha ucciso il loro governatore...» cominciò, ma Coop agitò
una mano, come per scacciare una mosca.
«Non lo faranno. Se non lo hanno scoperto finora, la archivieranno come
una di quelle cose che succedono e basta. Dannazione, io non ricordo
neppure chi lo abbia fatto. Tu lo ricordi, Zadie?»
Zadie scosse il capo. «Ne savvy mé» rispose, da quella cinturiana che era, o
meglio che era stata. Coop accennò verso di lei come a indicare di aver
dimostrato la propria affermazione.
«Neanche a me piace come sono andate le cose» dichiarò Pete. «Se però
non lo avessimo fatto, loro sarebbero rimasti quaggiù per tutto il tempo
invece di arrivare alla spicciolata. Holden sarebbe già qui con una cupola
cittadina prefabbricata e poi cosa ci troveremmo davanti?»
«Proprio così» confermò Coop. «Volevamo rallentarli e lo abbiamo fatto.
La domanda adesso è come impiegare il tempo che ci rimane.»
«Potremmo ucciderli tutti e scaricare i loro corpi nei pozzi delle miniere»
suggerì Loris, con un sorriso da cui si capiva che stava più o meno
scherzando.
«Pensavo che potremmo mettere fuori uso la loro trasmittente» propose
Ibrahim. «Tutti i segnali passano da quel ripetitore nella loro capanna tecnica.
Se gli succedesse qualcosa si troverebbero privi di larghezza di banda come il
resto di noi.»
«Metterebbe fuori uso anche i loro terminali palmari?» chiese Coop.
«Forse» rispose Ibrahim. «Di certo li ridurrebbe a comunicare solo
localmente ed entro il raggio visivo.»
«Vale la pena di pensarci» disse Coop.
Le rovine in mezzo alle quali si riunivano erano a mezz’ora di strada a
passo svelto dalla città. Grandi torri di uno strano materiale simile a osso si
levavano dal terreno, appoggiandosi le une contro le altre secondo uno
schema che appariva quasi casuale finché non lo si vedeva dalla giusta
angolazione e si scopriva una elegante simmetria. Le strutture più basse
avevano i contorni arrotondati, curvi come vertebre o ingranaggi di una
macchina di un’agilità inimmaginabile.
Una lieve brezza pervadeva le rovine di un suono simile a flauti di canna
che suonassero in lontananza. Qualcosa aveva abitato lì, un tempo, ma ormai
era scomparsa, e le sue ossa erano un buon nascondiglio per Basia e i suoi
compagni. Questo gli riportò improvvisamente alla memoria un video che
aveva visto una volta, in cui c’erano delle artemie che vivevano fra le ossa di
una balena morta.
«La mia domanda è cosa vogliamo ottenere» disse. «D’accordo,
neutralizziamo la loro larghezza di banda. Questo cosa ci fa ottenere?»
«Rende loro più difficile dimostrare che qui ci sono dei guadagni» spiegò
Loris. «Ho letto il documento di concessione, come tutti. Certo, ci sono un
sacco di requisiti e clausole condizionali relative alle ricerche scientifiche di
base e all’ecologia della conservazione, ma diciamocelo chiaro e tondo, la
RCE è qui per trarre guadagni. Se possiamo mettere bene in chiaro che non ci
riusciranno...»
«Questo non ha importanza» lo interruppe Ibrahim. «Quello che dobbiamo
fare è far valere la nostra rivendicazione sul pianeta. Profitti e perdite
verranno dopo.»
«Non sono d’accordo, Bram» ribatté Loris. «Se esamini la storia del
colonialismo, precedenti legali e diritti di rivendicazione vengono quasi
sempre motivati razionalmente a giochi fatti. Quello che vedi è...»
«Quello che vedo,» interloquì Coop «è che il tempo che abbiamo prima che
l’osservatore inviato da APE e Nazioni Unite arrivi qui e cambi le regole del
gioco si accorcia sempre di più. Basia? Qual è il tuo parere?»
Basia fece scrocchiare le nocche. «Quello che l’osservatore deve vedere è
che la RCE non è organizzata e che noi abbiamo una nave piena di litio
raffinato pronto per il mercato.»
«Allora facciamo in modo che sia così» dichiarò Coop, con quel suo sorriso
cattivo.
Dopo la riunione se ne andarono a uno a uno, o al massimo in coppie, per
non attirare l’attenzione. Prima Pete e Ibrahim, insieme perché erano amanti.
Poi Scotty, intento a fumare la sua pipa. Loris e Caterine. Di solito, poi era il
turno di Zadie e di Coop, ma non quel giorno. Coop segnalò con un cenno a
Zadie di precederlo. Lei rispose con un gesto della mano che equivaleva a un
cenno del capo, il linguaggio fisico dei cinturiani che erano costretti a
comunicare indossando una tuta spaziale, e uscì con passo spedito, gli arti
troppo lunghi che le davano un’andatura goffa e aggraziata allo stesso tempo,
come quella di una giraffa.
«Ti vedo in difficoltà» osservò Coop, quando furono soli.
Basia scrollò le spalle. «Sono partito con il piede sbagliato. Tutto qui.»
«Prima eri uno di loro. Non hai combattuto» osservò Coop.
«Non l’ho fatto» ammise Basia, in tono amaro.
Dopo Ganimede, avevano vissuto insieme con tutti gli altri sulla nave per
un anno. Insieme, loro due, avevano spinto per l’esodo verso i nuovi pianeti
resi accessibili dai portali dell’Anello. Basia conosceva Coop, sapeva che
aveva combattuto con una frangia dell’APE che non aveva mai accettato il
compromesso con i pianeti interni. Il cerchio spezzato dell’Alleanza dei
Pianeti Esterni era inciso sulla sua pelle, sopra la scapola sinistra. Non per la
prima volta, Basia si trovò a pensare che la terminologia ‘pianeti esterni’
aveva assunto un significato del tutto nuovo nell’ultimo paio d’anni.
«Può essere difficile» continuò Coop. «Soprattutto sulle grandi stazioni
come Ceres, o Eros, prima. Ganimede. Tutta gente dei pianeti interni. Vivi
con loro, lavori con loro, magari impari ad apprezzarne qualcuno. Poi arriva
un ordine, e tu devi aprire un sigillo e lasciare che qualcuno muoia. Non puoi
farne a meno, perché loro comincerebbero a cercare uno schema, a verificare
chi sia sopravvissuto che non avrebbe dovuto farlo, e questo
comprometterebbe la cellula.»
Basia annuì, ma aveva in bocca un sapore amaro. «È questo che siamo?
Una cellula dell’APE?»
«La resistenza contro le società terrestri avide di potere, ne? Ci sono
modelli peggiori da seguire.»
«Sì, afferro il punto» convenne Basia.
«Davvero? Perché quello che vedo è che stai mettendo un sacco di
interrogativi in testa a un sacco di gente. Li induci a pensare se siamo
davvero sul sentiero su cui dovremmo essere.»
Basia si inalberò. «Questo ti crea qualche problema?»
«Il problema è tuo, amico, perché quanti più dubbi sollevi, tanti più dubbi
hanno anche loro. E indipendentemente da qualsiasi cosa io possa dire,
ricordiamo tutti chi ha premuto quel pulsante.»
Il tragitto di ritorno da quelle riunioni turbava sempre Basia, perché
ovunque c’erano piccole cose che gli ricordavano cosa il loro gruppo – la loro
cellula – aveva fatto, e cosa non aveva fatto. Il piccolo laboratorio idrologico
vicino al torrente in secca, con la sua cupola geodetica e le trivellazioni simili
a pozzi di miniera in miniatura. La capanna degli esobiologi, isolata al
limitare della cittadina. I volti sconosciuti nella piazza, il vestiario prodotto
usando modelli della RCE.
Sulla pianura a nord della città era in corso una partita di calcio che
sollevava parecchia polvere; gente della città, fra cui suo figlio Jacek, che
giocava contro la gente della società. Se non altro, erano ancora in squadre
diverse. Basia descrisse un ampio giro, entrando in città dal sentiero che
portava ai pozzi minerari. La brezza si stava trasformando in vento vero e
proprio, sollevando turbini di polvere. In alto, sotto l’arco azzurro del cielo,
stava passando uno stormo di enormi creature simili a meduse volanti, con
lunghi filamenti dorati che pendevano dal pallido corpo bianco. Lucia
sosteneva che ognuna di quelle creature era grande quanto la loro nave, ma
lui non riusciva a crederlo. Si chiese se qualcuno avesse dato un nome a
quelle creature.
«Basia!»
«Carol» salutò lui, con un cenno del capo, quando la donna massiccia gli si
affiancò. Quando erano atterrati, tutti erano stati concordi nello scegliere
Carol Chiwewe come coordinatrice. Intelligente e concentrata, aveva un
carattere forte senza essere prepotente. Quasi certamente aveva intuito che lui
era coinvolto in quello che era successo alla piattaforma di atterraggio, ma
non importava. Alcuni segreti rimanevano tali perché nessuno li conosceva,
altri perché nessuno li rivelava.
«Sto mettendo insieme una squadra di manutenzione per i pozzi minerari.
Ci muoviamo domattina e probabilmente rimarremo là per cinque o sei
giorni. Sei dei nostri?»
«C’è qualche problema?»
«No, e credo che dovremmo fare in modo che continuino a non essercene.
C’è solo qualche altro carico da portare fuori dai pozzi prima di poter spedire
il tutto.»
«Meglio avere la stiva piena prima che arrivi l’osservatore» convenne
Basia.
«Proprio così» sorrise Carol. «Lieta che tu sia dei nostri. Ci vediamo in
piazza alle nove.»
«D’accordo» assentì Basia. Lei gli assestò una pacca sulla spalla, prima di
allontanarsi per sbrigare la faccenda in cui era stata impegnata quando lo
aveva visto. Passarono altri venti minuti prima che Basia si rendesse conto di
non aver mai accettato esplicitamente. Pensò che quello doveva essere il
modo in cui Carol gestiva le cose.
La sua casa era vicino al limitare della città. Avevano fabbricato i mattoni
con la terra del posto, lavorata con alcune attrezzature minerarie e cotta in un
forno a combustione. La loro abitazione avrebbe potuto essere più primitiva
solo se avessero scavato una grotta e dipinto sagome di bisonti sulle pareti.
Lucia era sul piccolo portico, intenta a spazzare i mattoni con una scopa fatta
dell’equivalente locale dell’erba, che aveva un odore di fertilizzante e di
menta, e cambiava colore dal nero all’oro quando la si tagliava.
«Non sai che genere di gas emana quella roba» commentò. Era un gioco
che facevano, e il modo in cui lei rispondeva gli avrebbe detto parecchio su
come andavano le cose fra loro. Era la prova della cartina al tornasole per
valutare il pH del loro matrimonio.
«Un terzo è cancerogeno, un terzo è mutageno e l’altro terzo non sappiamo
cosa faccia» replicò lei, con un sorriso. Quindi le cose andavano bene. Basia
sentì un nodo che gli si allentava nel ventre mentre la baciava sulla guancia
ed entrava nella frescura della casa.
«Tanto vale che tu la smetta» le disse. «Tanto il vento spingerà tutto qui di
nuovo.»
Lucia passò la scopa qualche altra volta, senza troppo impegno, con l’erba
che frusciava contro i mattoni, poi lo seguì all’interno. In base agli standard
di Ganimede o della nave, quella casa era enorme. Una camera da letto per
ciascuno dei bambini, più una per loro. E una stanza dedicata interamente alla
preparazione del cibo. Perfino la cabina del capitano, sulla Barbapiccola,
poteva vantare meno metri quadri della loro casa. Era un posto selvaggio, ed
era suo. Sedette su una sedia vicino alla finestra anteriore e guardò verso la
pianura.
«Dov’è Felcia?» chiese.
«Fuori» rispose Lucia.
«Parli proprio come lei.»
«La mia fonte principale di informazioni su Felcia è proprio la stessa
Felcia» replicò Lucia. Sorrideva, rideva perfino un poco. Era di buon umore
da settimane, e Basia sapeva che lo era per scelta. Aveva bisogno che anche
lui fosse di buon umore per qualcosa, e se fosse stato saggio lui avrebbe
opposto resistenza a quella manipolazione, ma non voleva farlo. Voleva
potersi comportare per un po’ come se tutto stesse andando bene, per cui
stava al gioco.
«Deve aver preso dal tuo lato della famiglia. Da ragazzo io ero sempre
molto obbediente. Abbiamo qualcosa che valga la pena di mangiare?»
«Altre razioni di bordo.»
Basia sospirò. «Niente insalata?»
«Presto» promise lei. «Il nuovo raccolto cresce bene. A patto di non
scoprire che hanno qualcosa di strano, a partire dalla prossima settimana
potrai avere tutte le carote che vuoi.»
«Un giorno riusciremo a coltivare qualcosa nel terreno locale.»
«Forse a nord di qui.» Lucia gli appoggiò una mano sulla spalla nel
guardare insieme a lui fuori della finestra. «Perfino la fauna locale non ha vita
facile in questa zona.»
«Nord. Sud. Tutto Ilus è qui, per quanto mi riguarda.»
Lucia si volse e si diresse in cucina. Basia avvertì una fitta di desiderio nei
suoi confronti, una nostalgia del corpo che apparteneva a un tempo in cui
erano più giovani, senza figli e sempre eccitati. Sentì lo schiocco e il sibilo
che accompagnavano l’apertura dei contenitori delle razioni. Un odore di
saag aloo si diffuse nell’aria, poi Lucia tornò con un piatto di cibo grande
quanto il palmo di una mano per ciascuno di loro.
«Grazie» disse Basia.
Lucia annuì e sedette sulla sua sedia con le gambe ripiegate sotto di sé. La
forza di gravità l’aveva cambiata. I muscoli delle spalle e delle braccia erano
più pronunciati, quando sedeva la curva della schiena aveva un’angolazione
diversa. Ilus li stava cambiando in modi che lui non si era aspettato, anche se
forse avrebbe dovuto farlo. Prese una forchettata di saag aloo.
«Domani vado alle miniere» disse.
Lucia inarcò leggermente le sopracciglia. «Perché?»
«Manutenzione» rispose lui. Poi, siccome sapeva ciò che Lucia stava
pensando, aggiunse: «Me lo ha chiesto Carol.»
«Allora va bene» commentò lei, intendendo che andava bene che fosse stata
Carol, e non Coop, a chiedergli di andare. Basia avvertì un senso di vergogna,
seguito da irritazione per il fatto che si vergognava, e serrò maggiormente le
labbra.
«L’osservatore sta per arrivare» commentò Lucia, come se la cosa non
avesse sottintesi di sorta. «James Holden.»
«L’ho sentito dire. È un bene. Ci dà modo di fare leva contro la RCE.»
«Suppongo di sì.»
Basia ricordava un tempo in cui avevano riso insieme, in cui Lucia tornava
dagli ospedali di Ganimede piena di storie sui pazienti e gli altri dottori.
Mangiavano una bistecca sviluppata nelle vasche, tenera come qualsiasi carne
ricavata da un animale, e bevevano birra fermentata lì sulla loro piccola luna,
parlando per ore, finché il momento di andare a dormire era passato da un
pezzo. Adesso le loro conversazioni erano così caute, come se le parole
avessero avuto tutte le ossa di vetro. Cambiò argomento.
«È strano, a pensarci» commentò. «Probabilmente non farò mai più
saldature nel vuoto. Tutti quegli anni di apprendistato e di lavoro, e adesso ho
aria intorno qualsiasi cosa faccia.»
«Non me lo dire. Se avessi saputo come sarebbero andate le cose, avrei
fatto il mio internato nelle cliniche generiche.»
«Ecco, sei il miglior specialista di chirurgia delle mani del pianeta.»
«Il miglior specialista di chirurgia delle mani sta leggendo una quantità di
cose sui disturbi digestivi e gli esami ginecologici» commentò Lucia, in tono
asciutto. Poi il suo sguardo si fece duro, remoto. «Dobbiamo parlare di
Felcia.»
Ecco che arrivava. La gentilezza, la calma, i ricordi piacevoli avevano
spianato la strada a quello. Si protese in avanti sulla sedia, lo sguardo rivolto
al terreno.
«Cosa c’è da dire?»
«Ha cominciato a parlare di cosa succederà nel prossimo futuro. Per lei.»
«Lo stesso che succederà per tutti noi» replicò Basia.
Lucia si mise in bocca un altro po’ di saag aloo, masticando lentamente
anche se non era quasi necessario masticare. Una folata di vento premette
contro la finestra, accompagnata dal sommesso ticchettare della sabbia contro
il vetro. Quando lei riprese a parlare, il suo tono era sommesso ma
implacabile.
«Felcia sta pensando all’università» disse. «Ha completato i corsi e gli
esami in rete. Ora ha bisogno che le diamo il permesso prima che la sua
richiesta possa procedere.»
«È troppo giovane» obiettò Basia, già sapendo mentre pronunciava quelle
parole che si trattava dell’approccio sbagliato. La frustrazione gli contrasse la
gola e posò sul bracciolo la cena mangiata a metà.
«Non lo sarà quando arriverà a destinazione» replicò Lucia. «Se partisse
con la prima spedizione e cambiasse nave a Medina, potrebbe arrivare su
Ganimede o alla Stazione Ceres in diciannove mesi, venti al massimo.»
«Abbiamo bisogno di lei qui» affermò Basia, in tono duro e definitivo,
indicando che la conversazione era finita. Solo che non lo era.
«Non rimpiango di essere venuta qui» disse Lucia. «E tu non mi hai
costretta a farlo. Hai presente quei mesi, dopo Ganimede, in cui vivevamo
stivati come ratti e nessun porto ci voleva accogliere? Io lo ricordo. Quando
la Mao-Kwikowski si è sciolta sono stata io ad aiutare il capitano Andrada a
stilare i documenti per il recupero. Io ho fatto della Barbapiccola la nostra
nave.»
«Lo so.»
«Quando abbiamo votato, la mia voce si è unita alla tua. Forse aver vissuto
tanto a lungo come profughi ci ha resi selvaggi o coraggiosi. Non lo so. Però
venire qui, ricominciare daccapo sotto un cielo, sotto nuove stelle... la
trovavo una cosa ovvia tanto quanto te, e non rimpiango di essere venuta.»
Adesso il suo tono era intenso. I suoi occhi scuri scintillavano e
lampeggiavano, sfidandolo a dissentire. Lui non lo fece.
«Se passeremo il resto della nostra vita a estrarre litio e a cercare di far
crescere carote, ne sarò felice» proseguì Lucia. «Se non riparerò mai più un
legamento strappato o farò ricrescere un pollice perduto, pazienza. Perché
sono stata io a sceglierlo. Jacek e Felcia non hanno fatto questa scelta.»
«Non rimanderò indietro i miei figli» dichiarò Basia. «Che cosa avrebbero
laggiù? Con tutto quello che c’è bisogno di fare qui, con tutte le cose che ci
sono da imparare e da scoprire qui, come può essere una buona idea tornare
indietro?» La sua voce era salita di tono più di quanto fosse stata sua
intenzione, ma non stava gridando. Non proprio.
«Essere qui è una nostra scelta» insistette Lucia. «La scelta di Felcia è dove
lei sceglie di andare. Possiamo ostacolarla o possiamo aiutarla.»
«Aiutarla a tornare a quello non è un aiuto» ribatté Basia. «Il suo posto è
qui. Il posto di tutti noi è qui.»
«Là da dove siamo venuti...»
«Siamo venuti da qui. Niente di quanto è successo prima ha importanza.
Adesso noi siamo di qui. Di Ilus. Morirò prima di permettere che portino qui
le loro guerre, le loro armi, le loro società e i loro progetti scientifici. E che io
sia dannato se si prenderanno un altro dei miei figli.»
«Papà?»
Jacek era fermo sulla porta, con il pallone da calcio sul fianco e
un’espressione preoccupata negli occhi.
«Figliolo» rispose Basia.
Il gemito del vento era l’unico suono. Basia si alzò, prese il suo piatto e
quello di Lucia. Portare gli avanzi del loro pasto al riciclatore era solo un
piccolo ramoscello di ulivo, ma era tutto quello che aveva. Il senso di rabbia
impotente e di vergogna gli ribollì su per la gola, trovandovi sfogo. Katoa, la
piattaforma di atterraggio, la preoccupazione negli occhi di Jacek. Gli anni
che avevano trascorso fuggendo, solo per finire in un palazzo di mattoni da
cui sua figlia voleva andarsene. Tutto questo si mescolò in un’unica ira
evirante e rovente come una saldatrice.
«Va tutto bene?» chiese Jacek.
«Tua madre e io stavamo solo parlando.»
«Noi non siamo di qui» affermò Lucia, come se Jacek non fosse entrato,
come se quella conversazione fra adulti potesse proseguire in presenza del
ragazzo. «Stiamo facendo in modo che sia così, ma non è ancora così.»
«Lo sarà» rispose Basia.
6
Elvi

Seduta sull’erba con le gambe distese dinnanzi a sé, Elvi osservava in


silenzio. Gli analoghi delle piante – non poteva chiamarle veramente piante –
si levavano dall’arido terriccio beige e si protendevano verso la luce solare.
La più alta raggiungeva a stento il mezzo metro di altezza, con una piatta
sommità ondulata che si spostava per seguire il sole e scintillava di un verde
iridescente come quello del carapace di un coleottero. Una brezza gentile
agitava gli steli e le rinfrescava le guance mentre rimaneva immobile. A
quattro metri di distanza, una lucertola mimo tubò.
Questa volta, il tubare di risposta giunse da più vicino. Elvi dovette lottare
per controllare l’eccitazione e non muoversi. Avrebbe voluto agitare le mani
per la gioia, ridacchiare, ma rimase immota come una pietra. La specie che
costituiva la preda si fece più vicina. Grande più o meno quanto un passero,
aveva una morbida striscia di qualcosa di simile a piume o fitto pelo che
correva lungo i fianchi e sei lunghe zampe sgraziate che terminavano con un
doppio uncino. Elvi avrebbe voluto considerare quegli uncini come una sorta
di dita, ma non aveva visto nessuna di quelle piccole creature usarli per
manipolare qualcosa. La preda tubò di nuovo, un richiamo sommesso e
gutturale che era una via di mezzo fra il richiamo di una colomba e il suono
di un tamburello. La lucertola mimo attese un momento, gli occhi molto
distanziati che fissavano il piccolo animale. Elvi stette ben attenta per
cogliere il lieve tremito dei fianchi della lucertola, un vibrare quasi invisibile
della pelle coperta di qualcosa simile a scaglie.
La bocca della lucertola si disarticolò e spalancò con la rapidità di una
pallottola e una massa di carne umida e rosa saettò all’esterno. La preda non
ebbe neppure il tempo di lanciare uno stridio prima che lo stomaco rovesciato
della lucertola la gettasse a terra. Elvi contrasse i pugni per la deliziata
eccitazione mentre la lucertola mimo cominciava a trascinare verso di sé i
propri organi interni sul terreno arido. Morta o paralizzata, la preda aderiva
alla carne rosata, a cui si erano attaccati anche piccoli sassi e un po’ di terra.
Finalmente l’intera massa raggiunse la bocca disarticolata della lucertola, che
iniziò il lungo processo di ritirare fra le fauci l’intera massa. Sulla base di
precedenti osservazioni, Elvi sapeva che sarebbe passata quasi un’ora prima
che i fianchi ora concavi della lucertola tornassero a gonfiarsi. Si alzò, si
spolverò gli abiti e avanzò zoppicando.
Il piede era ancora chiuso nell’ingessatura che le avevano fatto in quella
prima, terribile notte. Ormai il dolore causato dall’osso fratturato era opaco e
sopito, più una causa di irritazione che un problema, ma l’ingessatura le
rendeva difficile muoversi. Aprì la piccola sacca, sentendo il reticolo nero
che la componeva vibrarle sotto le dita, poi ci infilò con delicatezza la
lucertola impegnata a nutrirsi. Quella la fissò con diffidenza, il che era solo
giusto.
«Mi dispiace, piccola» le disse. «È per la scienza.»
Chiuse la sacca e attivò la sequenza di raccolta. La lucertola morì all’istante
e la sequenza di analisi interna ebbe inizio, catalogando la struttura generale
del corpo dell’animale, insinuando aghi sottilissimi nella carcassa per
raccogliere campioni fra i tessuti e trasmettendo i dati al sistema dedicato
inserito nella cinghia della sacca. Nel tempo che avrebbe impiegato ad
arrivare alla sua piccola capanna, dove avrebbe tirato fuori il corpo per
archiviarlo e catalogarlo, tanto la lucertola mimo quanto la sua preda
sarebbero state ormai ridotte a modelli all’interno del suo computer, terabyte
di informazioni pronti a essere trasmessi alla Edward Israel, e da lì ai
laboratori su Luna. Il segnale avrebbe impiegato alcune ore a coprire la
distanza che lei aveva percorso in diciotto mesi, ma durante quelle ore lei e il
suo gruppo di lavoro sarebbero stati le uniche persone fra i miliardi di umani
sparsi su tutti i pianeti a conoscere i segreti di quella piccola creatura. Se Dio
le fosse apparso e le avesse offerto la biblioteca di Alessandria in cambio di
tutto quello, non avrebbe accettato lo scambio.
Mentre scendeva a fatica lungo il dolce pendio che portava alla capanna, il
villaggio minerario si allargò davanti a lei. Era minuscolo. Due strade
parallele con al centro un’apertura che passava per una piazza cittadina. Gli
edifici erano stati messi insieme usando le scorte che i coloni avevano portato
con loro e quello che erano riusciti a trovare sulla superficie del pianeta, e
tutto aveva angolazioni leggermente sbagliate, come una manciata di dadi
sparsi sul terreno. Elvi era abituata all’architettura rigidamente lineare propria
del vivere in posti dove lo spazio era prezioso. Discorso che non aveva valore
in quel luogo, e faceva apparire la piccola cittadina più organica, come se
fosse semplicemente cresciuta sul posto.
Fayez era seduto sul piccolo portico antistante la capanna. La sua pelle si
era scurita nelle settimane trascorse dal disastroso atterraggio, perché lo
studio idrologico preliminare aveva fatto rimanere all’aperto lui e parecchi
altri della squadra per quasi due settimane, impegnati a lavorare sul campo.
«Sai cosa amo di questo pianeta?» chiese Fayez, invece di salutare.
«Niente?»
Lui si accigliò, fingendo che lei avesse ferito i suoi sentimenti. «Amo il suo
periodo di rotazione. Trenta ore. Puoi svolgere un’intera giornata di lavoro,
ubriacarti al saloon e riuscire comunque a concederti un’intera nottata di
sonno. Non so perché non ci abbiamo pensato, a casa.»
«Ci sono dei vantaggi» commentò Elvi, aprendo la porta sprangata ed
entrando nella capanna.
«Ovviamente, questo significa che nel mese appena trascorso siamo rimasti
qui per sei settimane,» continuò Fayez «ma grazie a dio non siamo finiti su
una di quelle piccole trottole dove il tramonto arriva ogni sei ore. Ora, se solo
potessero mettere a posto la forza di gravità...»
L’unità abitativa era composta da una singola stanza di sei metri per
quattro, con letto, doccia, bagno, cucina e postazione di lavoro tutti nello
stesso ambiente. Mentre depositava la sacca nell’unità di archiviazione, Elvi
si trovò a pensare a quanta parte del suo lavoro consistesse nel dedurre le
cose dalla loro forma. Non appena aveva visto la lucertola mimo, i suoi occhi
rivolti in avanti l’avevano indotta a supporre che fosse un predatore.
Chiunque, nel guardare la sua capanna, avrebbe capito che era stata
fabbricata partendo dalla supposizione che lo spazio avrebbe scarseggiato.
Tutto era un prodotto della sua funzione. Era quello che rendeva così
splendida l’evoluzione. Guardò nello specchio sopra il piccolo lavandino: la
sua pelle era coperta da un sottile strato di polvere beige, come una sorta di
trucco di scena.
«Non voglio farlo» disse, mentre si puliva le guance con un panno umido.
«Guarda all’aspetto positivo» ribatté Fayez. «Hanno cercato di ucciderci
soltanto una volta, finora.»
«Non sei d’aiuto.»
«Non tento di esserlo» rispose Fayez, poi sussultò per il suo involontario
riferimento al defunto governatore.
Avevano cremato il governatore Trying e le altre vittime dell’esplosione. A
parte uno degli abitanti del villaggio, affetto da un tumore alle ossa che non
rispondeva ai trattamenti, loro erano stati i primi umani morti su quel mondo.
Di certo erano stati le prime vittime di omicidio.
Dopo di allora, però, la gente del villaggio era stata assolutamente gentile.
Lucia Merton, la dottoressa che era venuta ad aiutarli dopo l’esplosione,
aveva tenuto sotto controllo la salute di ciascuno dei sopravvissuti. Un
cinturiano di Ceres, un certo Jordan, aveva portato a Elvi un po’ di cibo che
sua moglie aveva cucinato per i feriti. Il religioso locale l’aveva invitata ai
servizi che si tenevano nel tempio del villaggio. Tutto, in quegli abitanti di
Nuova Terra, diceva che si trattava di gente schietta, cortese e gentile. Tutto
tranne il fatto che qualcuno aveva ucciso il governatore e quasi una dozzina
di altre persone.
L’accampamento della RCE sorgeva a sud del villaggio vero e proprio.
Inclusi Elvi e Fayez, un po’ meno della metà dei dipendenti della RCE
presenti sulla superficie aveva scelto di partecipare alle riunioni della
comunità. Gli altri erano presi dal loro lavoro, o le loro ferite erano ancora
troppo gravi. Se non avesse ritenuto che era parte del suo lavoro istruire tutti
sui rischi di contaminazione, probabilmente anche Elvi sarebbe rimasta nella
sua capanna.
La maggior parte del personale della RCE era composta da scienziati che
lavoravano sul campo e, come lei, preferivano abiti comodi. I soli in
abbigliamento formale erano i membri della squadra di sicurezza. Hobart
Reeve, il comandante in seconda di Murtry, era a capo di tre guardie armate
in uniforme della RCE che le facevano apparire come soldati o poliziotti. Loro
non si erano trovati sulla navetta grande, erano arrivati quasi subito dopo lo
schianto su una navetta leggera. Quando dalla RCE era arrivato l’ordine che
nessun altro membro del personale doveva scendere sul pianeta fino
all’arrivo dell’osservatore delle Nazioni Unite, Reeve aveva già cominciato a
indagare su quello che chiamava sempre ‘l’incidente’.
La sala comune era su un lato della piazza centrale del villaggio, dall’altra
parte di quello spiazzo di terra e sassi rispetto al tempio. A parte
l’assortimento di iconografia religiosa sull’aggetto del tempio, i due edifici
erano praticamente indistinguibili.
Le sedie erano fatte di cappottatura industriale e di sedili a smorzamento
modificati. Se il villaggio si fosse trovato in una parte del pianeta dal clima
più temperato, ci sarebbe stata una maggiore flora locale e un analogo del
legno da utilizzare. Quella era però la zona in cui il litio era più vicino alla
superficie, e il litio avrebbe procurato denaro alla comunità, quindi tutta
l’umanità si era raccolta in quei venti chilometri quadrati, come
microrganismi che si muovessero lungo un gradiente di concentrazione.
Elvi prese posto in fondo alla sala insieme agli altri dipendenti della RCE,
con la sola eccezione di Reeve e delle guardie di sicurezza, che sedettero più
vicini alla parte anteriore, insieme ai locali. Elvi osservò come tutti loro si
fossero isolati sul fondo senza dire una parola. Nessuno aveva imposto quella
separazione, ma sussisteva. Michaela, un fisico atmosferico, le sedette
accanto con un sorriso. Anneke e Tor, entrambi ingegneri climatici, presero
posto sull’altro lato, mano nella mano. Fayez si sistemò sul sedile davanti a
lei, intento a parlare con Sudyam, che era scesa a terra con la prima navetta
leggera, dopo l’incidente. L’incidente. L’attacco. Anneke si protese per
sussurrare qualcosa a Tor, che arrossì e annuì un po’ troppo energicamente.
Elvi cercò di ignorare quello scambio di battute a sfondo chiaramente
sessuale.
Il sindaco di First Landing era Carol Chiwewe, una marziana dai lineamenti
marcati con un accento altrettanto marcato e capelli cortissimi, che non
veniva chiamata sindaco ma coordinatrice. La coordinatrice richiamò
all’ordine i presenti ed Elvi sentì il cuore che cominciava a batterle un po’ più
in fretta. L’ordine del giorno era stato fissato dai cinturiani, per cui
cominciarono con il discutere di problemi che erano più importanti per loro
che per Elvi o l’RCE: il piano di manutenzione per i sistemi di purificazione
dell’acqua, se accettare a condizioni sfavorevoli una linea di credito offerta
da una banca appoggiata dall’APE o attendere gli introiti del primo carico di
litio e cercare di ottenere qualcosa di meglio. Discussero di ogni cosa con
calma e razionalità. Se lì c’erano rabbia, paura o tensioni omicide erano
nascoste tanto in profondità da non essere visibili.
Poi giunse il turno di Reeve, che si portò con passo deciso sul davanti della
stanza, le labbra tese in un sorriso sottile quanto forzato.
«Signora coordinatrice, grazie per averci invitati a parlare» disse. «Siamo
stati informati che è in arrivo l’osservatore indipendente, accreditato dalle
Nazioni Unite, dal congresso marziano e dall’APE e incaricato di assisterci
nello sviluppo di questa colonia. Speriamo di aver risolto i problemi di
sicurezza prima del suo arrivo.»
«Speriamo di appendere i cattivi a una corda prima che chiunque arrivi qui
e ci dica che non possiamo farlo» tradusse Fayez, a voce tanto bassa che le
sue parole arrivarono soltanto all’orecchio di Elvi.
«Abbiamo identificato con certezza l’esplosivo usato nell’attacco e stiamo
verificando quali individui siano in grado di procurarselo.»
«Non abbiamo il minimo dannato indizio su chi sia stato, e siccome voialtri
zoticoni tenete gli esplosivi minerari in una baracca che non è chiusa a
chiave, chissà quando riusciremo a capire chi è stato.»
«Non vi devo spiegare la gravità di questa situazione, ma la Royal Charter
Energy è impegnata a garantire il successo di questa colonia, tanto per i nostri
dipendenti quanto per questa comunità. Siamo tutti uniti in questa impresa, e
la mia porta è sempre aperta per chiunque abbia domande o preoccupazioni, e
spero che potremo contare sulla stessa gentilezza e collaborazione che ci
avete dimostrato da quando siamo arrivati.»
«Dato che non abbiamo nessun appiglio, vi saremmo davvero grati se quelli
di voi che sanno chi ha piazzato le cariche ce lo dicesse. Inoltre, per favore,
cercate di non assassinarci nel sonno. Grazie.»
Sudyam mascherò una risata dietro un colpo di tosse e Fayez le rivolse un
sorriso. Sul davanti della stanza Reeve tornò a sedersi con un cenno di
ringraziamento. La coordinatrice si alzò in piedi e guardò verso il fondo della
stanza. Elvi avvertì l’improvviso e urgente bisogno di urinare.
«Dottoressa Okoye?» chiamò la coordinatrice. «Voleva parlare?»
Elvi annuì e si alzò in piedi. La distanza dal davanti della stanza era di circa
dieci metri, che lei percorse con i nervi che urlavano, tesi allo spasimo. Il
calore che emanava dalla folla le parve di colpo opprimente, l’odore di
sudore e di polvere si fece insopportabile. Si sentiva la lingua spessa e
incollata alla bocca, ma si costrinse a sorridere. A occhio e croce, davanti a
lei c’erano circa duecento persone che la fissavano. Ricordò che una volta
qualcuno le aveva detto di cercare un volto amico fra la folla e di fingere di
parlare soltanto a quella persona. Quattro file più indietro, sulla sinistra,
Lucia Merton sedeva con le mani ripiegate in grembo. Quando Elvi le sorrise,
lei ricambiò il suo sorriso.
«Volevo soltanto un minuto del vostro tempo,» cominciò Elvi «per parlarvi
di come possiamo limitare la contaminazione incrociata con l’ambiente. È
perché abbiamo perso la cupola. La cupola a perimetro rigido.»
Lucia aveva un’aria grave. Elvi si arrischiò a dare un’occhiata al resto della
folla e desiderò di non averlo fatto.
«Parte... uhm... parte dell’accordo che la RCE ha con le Nazioni unite
prevede che svolgiamo uno studio ambientale completo. Questa è soltanto la
seconda biosfera che abbiamo mai visto, e le cose che non sappiamo su di
essa sono così tante che quanto più la manteniamo inalterata, tanto meglio
riusciremo a comprenderla. La cosa ideale sarebbe stata avere un sistema
ambientale totalmente chiuso qui sulla superficie. Isolato come una nave, con
portelloni stagni e stanze di decontaminazione, e...»
Stava farfugliando. Sorrise, nella speranza che qualcuno facesse altrettanto,
ma nessuno le rispose. Deglutì a fatica.
«Ogni volta che respiriamo, inseriamo nel nostro corpo microrganismi del
tutto ignoti, e anche se abbiamo proteomi differenti, siamo comunque grandi
masse di acqua e minerali. Presto o tardi una delle specie indigene troverà il
modo di sfruttare la cosa. Il principio funziona anche in senso inverso. Ogni
volta che defechiamo, introduciamo nell’ambiente miliardi di batteri.»
«Quindi adesso ci dirai come dobbiamo cagare?» commentò una voce
maschile.
Elvi sentì un’improvvisa vampata di calore che le arrossava il collo e le
guance. Perfino l’espressione di Lucia si era fatta fredda e remota, e il suo
sguardo era fisso nel nulla.
«Volevo soltanto dire che per fare le cose nel modo giusto dovremmo avere
un ambiente protetto e sterile e non dovremmo aggirarci tra le rovine o
coltivare all’aperto perché...»
«Perché pensi che lo abbiamo fatto nel modo sbagliato» intervenne l’uomo
che sedeva accanto a Lucia. Era un individuo massiccio, con una spolverata
di grigio sulle tempie, un velo di barba e un’espressione permanentemente
irosa. «Solo che non spetta a te deciderlo.»
«Capisco che qui ci troviamo di fronte a una situazione complessa» ribatté
Elvi, la voce che le si inaspriva per la disperazione. «Però viviamo già tutti su
questa enorme piastra di Petri e ho un elenco di pochi, piccoli sacrifici che
possiamo fare tutti e che, da un punto di vista scientifico...»
L’uomo accanto a Lucia Merton si arrossò in volto e si protese in avanti, i
pugni serrati sulle cosce e gli occhi fissi su di lei come un predatore.
«Ho chiuso con i sacrifici fatti per la scienza» disse, il ronzio della sua voce
racchiudeva una promessa di violenza. Lucia gli posò una mano sul polso
perché si controllasse, ma ormai il suo disprezzo aveva contagiato altri, nella
stanza. Il rumore dei corpi che si agitavano sui sedili e il mormorio di svariate
piccole conversazioni indipendenti riempì l’aria. Chi ha ucciso Trying
probabilmente è in questa stanza, pensò Elvi, e subito dopo si chiese: Cosa
diavolo ci faccio qui?
Carol Chiwewe si alzò in piedi con aria sofferta, chiaramente imbarazzata
per lei.
«Dottoressa Okoye, forse sarà meglio riprendere l’argomento in un altro
momento» disse. «È tardi, e la gente è stanca, ne?»
«Sì» mormorò Elvi. «Sì, certo.»
Con la pelle che le bruciava per la vergogna tornò verso il suo posto, lo
oltrepassò e uscì in strada, avviandosi da sola verso la sua capanna nel buio
sempre più fitto. Le sue scarpe strisciavano sulla ghiaia e la polvere. Faceva
freddo e si sentiva l’odore della pioggia imminente. Era a più di metà strada
dalla capanna, costretta a procedere lentamente nell’oscurità quasi totale,
quando una voce la fece fermare.
«Mi dispiace per il comportamento di mio padre.»
Elvi si girò. La ragazza era poco più di una chiazza più fitta di oscurità nella
notte, un’ombra un po’ più solida. Elvi si sorprese a essere grata che la voce
non fosse stata quella di un uomo.
«Non importa» replicò. «Non credo di essermela cavata molto bene.»
«No, è colpa sua» insistette la ragazza, facendosi più vicina. «Con lui non
avrebbe potuto fare niente di giusto. Mio fratello è morto, e adesso mio padre
non è più l’uomo che era.»
«Oh» mormorò Elvi. Poi aggiunse: «Mi dispiace.»
La ragazza armeggiò con qualcosa e una luce verde pallido, non più intensa
di quella di una candela, le si accese sul palmo, proiettando delle ombre sul
suo volto. Era graziosa, come lo sono sempre i giovani, ma Elvi pensò che
nel crescere sarebbe diventata bella come lo era sua madre.
«Sei la figlia della dottoressa Merton» osservò.
«Mi chiamo Felcia» si presentò la ragazza.
«Piacere di conoscerti, Felcia.»
«Posso accompagnarla a casa, se non ha una luce.»
«Non ce l’ho» ammise Elvi. «Avrei dovuto pensare a portarne una.»
«Tutti se ne dimenticano, a volte» rispose la ragazza, avviandosi. Elvi
dovette accelerare il passo per raggiungerla. Per una decina di metri
camminarono in silenzio. Elvi poteva percepire che la ragazza aveva qualcosa
da dire, una confessione o una minaccia, qualcosa di pericoloso. Sperava che
quella sensazione fosse solo una sua paranoia, ma era certa che non fosse
così.
Quando infine la ragazza parlò, la sua voce era tesa per l’ansia e il
desiderio, e le sue parole risultarono essere l’ultima cosa a cui Elvi avrebbe
mai potuto pensare.
«Com’è andare all’università?»
7
Holden

Ci dovrebbe essere una fanfara, pensò Holden.


Attraversare un anello per addentrarsi in un altro sistema stellare, a mezza
galassia dalla Terra, avrebbe dovuto essere un momento drammatico, con
tanto di trombe o di allarmi che suonavano, e volti tesi che fissavano gli
schermi.
Invece, non c’era niente. Nessun segno fisico che la Rocinante fosse stata
spostata di cinquantamila anni luce attraverso lo spazio. La sola differenza
era che il nero inquietante del nucleo era stato sostituito dalla distesa di stelle
sconosciute del nuovo sistema solare.
In qualche modo, il fatto che la cosa fosse tanto prosaica la rendeva ancora
più strana: un portale costituito da un condotto spazio-temporale avrebbe
dovuto essere un enorme vortice di luce e di energia, non un semplice, grande
anello fatto di qualcosa che sembrava un metallo, con stelle diverse che
brillavano dall’altra parte.
Resistette all’impulso di attivare l’allarme generale solo per aggiungere
tensione a quel momento.
Il nuovo sole era un fioco punto di luce fra il giallo e il bianco, non molto
diverso dal Sole visto dall’Anello che si trovava appena al di fuori dell’orbita
di Urano. Il suo sistema era composto da cinque pianeti interni rocciosi, un
enorme gigante gassoso e una quantità di pianeti nani su orbite ancora più
lontane dell’Anello stesso. Il quarto pianeta interno, che si trovava proprio
nel centro della Zona Abitabile, era Ilus. Nuova Terra. Esplorazione Bering
Quattro. Concessione RCE 24771912-F23. Comunque lo si volesse chiamare.
Tutti quei nomi erano troppo semplici per definire ciò che il pianeta era in
realtà. La prima casa dell’umanità intorno a una stella aliena. Gli umani
continuavano a trovare modi per trasformare gli eventi stupefacenti degli
ultimi anni in qualcosa di prosaico. Entro qualche decennio, quando tutti i
pianeti fossero stati esplorati e colonizzati, il nucleo e i suoi anelli sarebbero
diventati soltanto un sistema di autostrade. Nessuno si sarebbe più soffermato
a pensare alla loro stranezza.
«Accidenti» commentò Naomi, fissando la stella di Ilus sullo schermo con
occhi dilatati per la meraviglia. Holden avvertì un impeto di affetto nei suoi
confronti.
«Stavo proprio pensando la stessa cosa» replicò. «Sono lieto di non essere il
solo.» Aprì un canale di comunicazione con la cabina di pilotaggio.
«Eccomi» disse Alex.
«Con quanta rapidità ci puoi portare là?»
«Dannatamente in fretta, se sei disposto a sopportare il disagio.»
«Mettici in accelerazione rapida e accumula un po’ di distanza sotto i miei
piedi» rispose Holden, con un sorriso.
«L’accelerazione rapida ci farà arrivare in circa settantatré giorni.»
«Settantatré giorni» ripeté Holden.
«Ecco, settantadue punto otto.»
«Lo spazio è dannatamente troppo grande» dichiarò Holden, mentre il
sorriso si trasformava in un sospiro.
Erano in accelerazione da cinque ore quando cominciarono ad arrivare i
messaggi. Holden chiese ad Alex di regolare la gravità a un terzo di g e
guardò la prima registrazione sullo schermo della cambusa, mentre aiutava
Amos a preparare la pasta.
Un uomo attempato, con la pelle scura e i capelli grigi, lo fissava dallo
schermo. Aveva i lineamenti sottili e il cranio ampio di un cinturiano, e
appena una sfumatura dell’accento di Ceres.
«Capitano Holden» disse, quando iniziò la registrazione. «Fred Johnson ci
ha avvertiti del suo arrivo e volevo ringraziarla per il suo aiuto. Mi chiamo
Kasin Andrada e sono il capitano del mercantile indipendente Barbapiccola.
Mi permetta di aggiornarla sulla situazione.»
«Dovrebbero essere buoni» dichiarò Amos, rovesciando gli spaghetti
fumanti nello scolapasta. Holden gli porse la pentola di salsa al pomodoro
che stava mescolando, poi si appoggiò al piano di cucina per guardare il resto
della trasmissione.
«La colonia è riuscita ad avviare l’operazione di sfruttamento minerario
circa quattro mesi fa. In quel tempo abbiamo estratto dalla nostra miniera
parecchie centinaia di tonnellate di minerale grezzo. Considerati i livelli di
purezza che abbiamo riscontrato, dopo la raffinazione questo si dovrebbe
tradurre in quasi una dozzina di tonnellate di litio. Abbastanza per comprare
apparecchiature, medicinali, terriccio e sementi, tutto quello di cui una
colonia ha bisogno per insediarsi effettivamente su un pianeta.»
Naomi entrò nella cambusa digitando furiosamente sul terminale palmare.
«Ha un buon odore. Io...» S’interruppe nell’accorgersi del video e si sedette
per guardare.
«La Edward Israel» proseguì il capitano Andrada «ha dichiarato che non ci
permetteranno di lasciare l’orbita finché l’arbitrato non sarà stato ultimato. A
quanto pare, la posizione della Royal Charter è che questo litio appartiene a
loro finché qualcuno non dimostra il contrario. Una delle nostre priorità
immediate sarà di indurre la Israel a rimuovere il blocco e a permetterci di
portare questo minerale alle raffinerie di Pallas, dove gli acquirenti lo stanno
già aspettando.»
«Oh» commentò Amos, scaricando la pasta e la salsa in una grande terrina
che posò sul tavolo. «Quella è anche la nostra priorità?»
Holden fermò la registrazione. «Suonava come un ordine, vero?»
«Lui è dell’APE» replicò Naomi. «Pensa che tu sia qui come portavoce di
Fred.»
«Questo tizio mi procurerà un’indigestione» dichiarò Holden, spegnendo il
video. «Guarderò il resto di questa merda dopo che avremo mangiato.»
Entro il giorno successivo ci furono cinque altri messaggi che attendevano
di essere visti. Il capitano della Edward Israel, un anziano terrestre di nome
Marwick, con fiammeggianti capelli rossi e un accento britannico, esigeva
che Holden facesse valere la concessione della RCE mettendo fuori uso i
motori della Barbapiccola se essa avesse tentato di lasciare il sistema. Fred
gli inviava un incoraggiamento, oltre a ricordargli che Avasarala stava
sparando minacce relative alle conseguenze di un fallimento in quella
missione. Tre diverse reti d’informazione richiedevano interviste, inclusa una
personale di Monica Stuart per quando fosse tornato.
Miller guardò quelle registrazioni da sopra la spalla di Holden finché
Naomi non entrò nella stanza e il detective scomparve in una pioggia di
scintille azzurre.
«Credo che tu piaccia a Monica» commentò Naomi, con un sogghigno, poi
si lasciò cadere sul doppio sedile a smorzamento che usavano come letto.
«Alex ci rimetterà in accelerazione rapida fra dodici minuti, e io voglio
morire.»
«Monica flirterebbe con una lucertola, pur di avere una buona intervista.
Di’ ad Alex di concederci un’altra mezz’ora, in modo da permettermi di
mandare alcune risposte, e aspetta che vada a prendere la pistola per farlo.»
Naomi si issò in piedi con un gemito. «Io invece mi procuro un po’ di caffè
mentre tu cerchi i proiettili.»
«Non te ne andare» chiese Holden, protendendo la mano verso il suo
braccio. «Non voglio registrare questi messaggi con Miller in piedi alle mie
spalle.»
«Lui è soltanto nella tua testa» obiettò Naomi, ma si rimise comunque a
sedere. «Non sarà visibile nella registrazione.»
«Credi davvero che questo mi metta meno a disagio?»
Naomi strisciò attraverso il letto e gli si raggomitolò accanto, posandogli la
testa sul petto. Holden giocherellò con una ciocca dei suoi capelli e lei emise
un sospiro appagato.
«Mi piacciono i voli lunghi in cui non facciamo queste folli corse che
schiacciano le ossa» disse. «Niente da fare se non leggere, ascoltare musica,
restare tutto il giorno a letto. Il fatto che tu sia famoso è una fregatura.»
«È anche il motivo per cui adesso siamo più o meno ricchi.»
«Potremmo vendere la nave e procurarci di nuovo un lavoro a Pur’N’Kleen.
Trasportare ghiaccio da Saturno...»
Holden rimase in silenzio mentre continuava a giocare con i suoi capelli.
Lei non stava parlando sul serio e lo sapevano entrambi. Era impossibile
tornare a essere le persone di un tempo, lui il direttore esecutivo e lei
l’ingegnere capo di un trasporto per il ghiaccio del quale non importava
niente a nessuno in tutto l’universo a patto che non avesse tardato nelle
consegne. C’era perfino da chiedersi se qualcuno avrebbe ancora avuto
bisogno della Pur’N’Kleen, con mille nuovi mondi pieni di aria e di acqua.
«Starai bene laggiù senza di me?» chiese Naomi.
I coloni cinturiani provenienti da Ganimede avevano passato mesi sulla
Barbapiccola preparandosi ad atterrare su Ilus, imbottendosi di ormoni per
rinforzare le ossa e i muscoli, e facendo ginnastica in condizioni di 1g in
modo che il loro corpo potesse sopportare la gravità del pianeta, leggermente
superiore a quella della Terra. Naomi non aveva né il tempo né la voglia di
alterare radicalmente la sua fisiologia per quella missione. Holden le aveva
fatto notare che in seguito la cosa le avrebbe permesso di scendere con lui
sulla Terra, ma lei aveva ribattuto che non sarebbe comunque mai andata
sulla Terra. Ciascuno era rimasto sulle sue posizioni, ma per Holden quello
era ancora un punto dolente.
«No, ma ci devo andare» tagliò corto Holden, decidendo di non riaprire la
discussione.
«Amos si prenderà cura di te.»
«Grandioso» commentò Holden. «Mi vado a ficcare nella situazione più
tesa di due sistemi solari, e invece della persona più intelligente che conosco
porto con me il tizio che ha maggiori probabilità di ficcarsi in una rissa da
bar.»
«È qualcosa di cui potresti avere bisogno» obiettò lei, facendo scorrere le
dita su alcune cicatrici che Holden aveva collezionato nell’ultimo paio di
anni. Si fermò su una chiazza scura sul suo stomaco. «Prendi ancora le
medicine per il tumore?»
«Ogni giorno.» Per il resto della mia vita, aggiunse fra sé.
«Una volta a terra, chiedi al loro dottore di darti un’occhiata.»
«D’accordo.»
«Ti stanno usando» affermò Naomi, come se avessero parlato di quello fin
dall’inizio.
«Lo so.»
«Sanno benissimo che tutto questo andrà per il verso sbagliato. Non c’è una
soluzione che non faccia infuriare qualcuno lasciandolo con il culo per terra.
È per questo che mandano te, perché sei un comodo capro espiatorio. Ti
hanno assunto perché non nasconderai niente, ma questa tua caratteristica
rende anche facile scaricare su di te il biasimo per l’inevitabile fallimento
delle trattative.»
«Se avessi pensato che il fallimento era inevitabile non avrei accettato
l’incarico» ribatté Holden. «E so perché hanno scelto me. Non perché sono il
più qualificato, ma perché non sono l’idiota che loro credono io sia. Credo di
aver imparato qualche nuovo trucco.»
Naomi allungò una mano e gli strappò un capello dalla tempia. Prima che
lui avesse il tempo di protestare, lo sollevò davanti ai suoi occhi: il capello
era del colore grigio della cenere bagnata.
«Un cane vecchio» disse soltanto.
Il volo fino a Ilus fu massacrante sotto più aspetti e non soltanto per i lunghi
periodi a gravità elevata. Ogni volta che la Rocinante rallentava fino a
raggiungere un livello di accelerazione tollerabile per poter mangiare o fare
manutenzione, Holden trovava dozzine di messaggi in attesa di essere
visionati e di ricevere risposta. Il capitano della Edward Israel stava
diventando sempre più aggressivo nella sua pretesa che Holden minacciasse
il capitano della Barbapiccola. I coloni e i loro compatrioti cinturiani in
orbita si facevano più pressanti nell’esigere che il blocco sulla Barbapiccola
fosse sollevato. Ciascuna delle due parti accusava l’altra di aggravare il
conflitto, anche se dal punto di vista di Holden il fatto che finora soltanto i
coloni avessero sparso del sangue invalidava in parte le loro accuse.
D’altro canto, la loro tesi secondo cui soltanto la vendita del litio poteva
renderli una colonia vitale, e che il blocco della spedizione li stava in pratica
prendendo per fame era convincente. La RCE continuava a insistere che i
diritti minerari e il carico di litio in orbita le appartenevano in virtù della
concessione delle Nazioni Unite.
«Mille nuovi mondi da esplorare e combattiamo ancora per le risorse»
commentò Holden, senza rivolgersi a nessuno in particolare, dopo un
messaggio piuttosto lungo e iroso da parte del consulente legale della RCE che
si trovava sulla Israel.
Alex, che stava oziando seduto alla vicina postazione operativa, rispose
comunque. «Ecco, suppongo che il litio sia come i beni immobili. Nessuno ne
ha mai abbastanza.»
«Hai sentito la parte sui mille mondi, giusto?»
«Forse alcuni di essi contengono più litio, o forse no, mentre questo di certo
ne ha. Un tempo la gente pensava che valesse la pena combattere per l’oro,
mentre quella roba viene creata da ogni supernova, il che significa che ce n’è
su qualsiasi pianeta in orbita intorno a una stella G2. Però le stelle bruciano il
litio con la stessa rapidità con cui lo producono, quindi tutto il minerale
disponibile è quello che si è creato con il Big Bang. E non ce ne sarà un altro.
Questa è quella che si definisce scarsità, amico.»
Holden sospirò e orientò una bocchetta dell’aria perché gli soffiasse sul
volto. La brezza fresca creata dai riciclatori gli fece formicolare il cuoio
capelluto. La temperatura sulla nave non era elevata, il suo sudore doveva
essere dovuto allo stress.
«Siamo incredibilmente miopi.»
«Solo tu e io?» chiese Alex, strascicando la voce in modo esagerato per far
capire che scherzava.
«Ci si è aperta davanti una vasta, nuova frontiera. Abbiamo la possibilità di
creare una nuova società con ricchezze innumerevoli oltre ogni portale. Però
questo mondo racchiude un tesoro, quindi invece di studiare il modo giusto
per suddividere la dannata galassia combattiamo per accaparrarci le prime
briciole che abbiamo trovato.»
Alex annuì ma non replicò.
«Mi sento come se dovessi essere là già adesso» continuò Holden, dopo un
momento. «Mi preoccupa la possibilità che quando infine atterreremo tutti
siano ormai così radicati sulle loro posizioni da renderci impossibile essere
d’aiuto.»
«Uh» commentò Alex, poi scoppiò a ridere. «Credi che stiamo andando
laggiù per aiutarli?»
«Io lo sto facendo. Se qualcuno ha bisogno di me, sono giù nella sezione
ingegneria.»
«Accelerazione fra un’ora» gli gridò dietro Alex.
Holden assestò un calcio al meccanismo di sgancio del portello del ponte,
che si aprì con un sibilo. Scesa la scala, oltrepassò i ponti dell’equipaggio per
raggiungere l’officina meccanica, dove Amos stava smontando qualcosa
dall’aria complessa su uno dei banchi di lavoro. Holden gli rivolse un cenno
di saluto e aprì con un calcio l’ultimo portello che dava accesso alla sala del
reattore. Amos gli scoccò un’occhiata interrogativa, ma Holden si limitò a
scuotere il capo e il meccanico tornò a concentrarsi sul suo lavoro con una
scrollata di spalle.
Una volta che il portello si fu richiuso alle sue spalle, una luce azzurra si
diffuse nella sala del reattore. Holden si lasciò scivolare lungo la scala fino al
ponte, poi si appoggiò contro la parete.
«Ehi» disse Miller, aggirando il reattore che dominava il centro della stanza
come se si fosse trovato dall’altra parte, in attesa dell’arrivo di Holden.
«Dobbiamo parlare» replicò Holden.
«Quella è la mia battuta.» Il detective gli elargì un triste sorriso da
bassethound.
«Stiamo facendo quello che volevi. Abbiamo attraversato l’Anello e ci
stiamo addentrando in uno degli altri sistemi. Suppongo che ti servirai di me
per scendere sul pianeta e dare un’occhiata in giro.»
Miller annuì ma non replicò. Quanto sa già di quello che sto per dire?
Quanto è predittivo il modello che hanno creato del mio cervello? Holden
decise che porsi domande del genere fosse la strada più diretta verso la follia.
«Ho bisogno di sapere due cose, oppure questo viaggio finirà adesso»
aggiunse.
«D’accordo» assentì Miller, sollevando i palmi verso l’alto nel gesto che
era l’equivalente cinturiano di una scrollata di spalle.
«Primo, come fai a seguirmi? Sei apparso per la prima volta su questa nave
dopo Ganimede, e da allora sei stato ovunque andassi. Sono stato infettato? È
così che riesci a rimanere con me? Ho attraversato due portali senza riuscire a
scaricarti, quindi sei dentro la mia testa oppure sei un fenomeno esteso a tutta
la galassia. Di quale delle due cose si tratta?»
«Sì» rispose Miller, poi si tolse il cappello e si sfregò i capelli corti.
«Entrambe le supposizioni sono sbagliate. La prima risposta è che io vivo
qui. Durante l’incidente di Ganimede, che tra parentesi è un nome stupido per
definire quello che è successo, la protomolecola ha messo un nodo locale
dentro questa nave.»
«Aspetta. C’è sostanza della protomolecola nella Roci?» chiese Holden,
combattendo contro l’impulso di cedere al panico. Se Miller avesse voluto
fargli del male e avesse avuto i mezzi per farlo, la cosa sarebbe già successa.
«Sì» confermò Miller, con una scrollata di spalle, come se non fosse stato
niente di importante. «Hai avuto un visitatore, ricordi?»
«Vuoi dire che ho avuto qui un mostro per metà umano, che per poco non
ha ucciso me e Amos» lo corresse Holden. «Un mostro che abbiamo
vaporizzato con la scia del nostro propulsore.»
«Sì, lui. Per essere onesti, quello lì non stava certo eseguendo un
programma coerente, ma conservava ancora quanto bastava delle antiche
istruzioni da piazzare un po’ di materiale sulla nave. Non molto, e non quella
che tu definiresti una coltura viva, solo quanto bastava per mantenere un
collegamento attivo fra il potere di elaborazione dell’Anello e la tua nave.»
«Hai infettato la Roci?» domandò Holden, mentre dentro di lui paura e ira
lottavano per il predominio.
«Non credo che userei quel verbo, ma può andare, se lo preferisci. È quello
che mi permette di seguirti» replicò Miller, poi si accigliò. «Qual era l’altra
cosa?»
«Non so se ho finito con questa cosa» ribatté Holden.
«Sei al sicuro. Abbiamo bisogno di te.»
«E quando non ne avrete più?»
«Allora nessuno sarà al sicuro,» rispose Miller, con un bagliore negli
spettrali occhi azzurri «quindi smettila con questa ossessione. La seconda
cosa?»
Holden si sedette sul ponte. Non aveva voluto chiedere in che modo Miller
gli entrasse nella testa perché era terrorizzato all’idea che la risposta fosse che
era infetto. Il fatto che non fosse lui, ma la nave, a esserlo, era insieme un
sollievo e una nuova fonte di paura.
«Cosa troveremo su Ilus? Cosa stai cercando?»
«Sempre la stessa cosa. Chi lo ha fatto» rispose Miller. «Dopotutto,
qualcosa ha ucciso la civiltà che ha costruito tutto questo.»
«E come faremo a sapere di averlo trovato?»
«Oh» replicò Miller, mentre il suo sorriso svaniva. Si protese verso Holden,
e l’odore di acetato e di rame pervase l’aria, o forse soltanto i suoi sensi. «Lo
sapremo.»
8
Elvi

Le tempeste di sabbia avevano la tendenza a cominciare nel tardo


pomeriggio e a durare fino a poco dopo il tramonto. Iniziavano come un
morbido offuscarsi dell’orizzonte occidentale, poi i piccoli analoghi delle
piante che crescevano sulla pianura alle spalle della capanna richiudevano la
loro superficie fotosintetica contraendola come una piccola bocca verde che
avesse assaggiato un limone, e venti minuti più tardi la cittadina, le rovine e il
cielo scomparivano in un’ondata di sabbia arida.
Elvi sedeva alla scrivania, Felcia ai piedi del letto e Fayez con la schiena
addossata alla testiera.
Felcia era diventata una visitatrice abituale, il più delle volte per parlare con
Elvi, Fayez o Sudyam, e a Elvi piaceva averla intorno, perché faceva apparire
la divisione fra la cittadinanza e la RCE... ecco, non meno reale, ma meno
terribile. Permeabile.
Quel giorno però la sensazione era diversa. Felcia appariva più tesa del
solito. Forse dipendeva dal fatto che la nave del mediatore delle Nazioni
Unite si stava avvicinando, o forse era a causa delle condizioni
meteorologiche.
«Quindi il nostro sistema solare ha un solo albero della vita» disse Elvi,
muovendo le mani nell’aria come per evocarne l’immagine. «Ha avuto inizio
una volta soltanto, e tutto ciò che abbiamo mai trovato condivide
quell’ascendenza comune, ma non ne conosciamo la ragione.»
«Perché la condividiamo tutti?» chiese Felcia.
«Perché non è successo due volte?» ribatté Elvi. «C’è un solo tipo di
cristallo di Schrödinger. Una sola tabella di codoni. Perché? Se c’erano tutti i
materiali necessari perché gli amminoacidi si formassero, si collegassero e
interagissero, perché non c’è stato uno schema che si è sviluppato in una
pozza lasciata dalla marea, e un altro sviluppatosi altrove, e un altro e un
altro? Perché la vita si è creata una volta soltanto?»
«Quindi qual è la risposta?» chiese Felcia.
Elvi lasciò ricadere un poco le mani. Una folata di vento particolarmente
violenta scagliò un’ondata di sabbia contro il lato della capanna. «Quale
risposta?»
«Perché è successo una volta sola?»
«Oh, non lo so. È un mistero.»
«È lo stesso motivo per cui rimane un solo tipo di ominide capace di usare
attrezzi. Quelli che esistono ancora hanno ucciso tutta la concorrenza» disse
Fayez.
«Questa è una supposizione» ribatté Elvi. «Nei reperti fossili non c’è niente
che indichi che ci sia stato più di un solo inizio della vita sulla Terra. Non
possiamo inventare le cose solo perché ci piace come suonano.»
«Elvi è molto a suo agio con i misteri» spiegò Fayez, strizzando l’occhio a
Felcia. «È per questo che fa fatica a relazionarsi con quelli di noi che si
sentono in ansia per la loro ignoranza.»
«Ecco, non si può sapere tutto» ribatté Elvi, scherzando per nascondere una
sfumatura di disagio.
«Dio sa che io non posso di certo, soprattutto su questo pianeta» replicò
Fayez. «Era inutile mandare qui un geologo.»
«Sono certa che te la stai cavando benissimo» dichiarò Elvi.
«Io? Sì, io sono meraviglioso, la colpa è del pianeta, che non ha geologia. È
tutto artificiale.»
«Cosa intendi dire?» domandò Felcia.
Fayez allargò le mani come se le stesse presentando l’intero mondo. «La
geologia riguarda lo studio degli schemi naturali, ma qui non c’è niente di
naturale. Tutto il pianeta è stato fabbricato. Prendi quel minerale di litio che
la tua gente sta estraendo, per esempio. Non esiste nessun processo naturale
che potrebbe creare litio puro come quello che state tirando fuori dal terreno.
Non può succedere. Quindi, a quanto pare, chiunque ha costruito i portali ha
fatto qualcosa anche qui intorno, da qualche parte, che ha concentrato il litio
in questo punto.»
«Questo però è stupefacente» osservò Elvi.
«Se ti occupi di risanamento industriale, che non è il mio caso. E le pianure
meridionali? Sai quanto variano? Per niente. La placca sottostante è
letteralmente piatta come un pannello di vetro. Da qualche parte, a circa
cinquanta chilometri a sud di qui, c’è una specie di Rolba tettonica riguardo
alla quale non sono qualificato a dire assolutamente niente. E quel complesso
di gallerie? Sì, sono una sorta di vecchio sistema di trasporto planetario. E
tuttavia eccomi qui...»
«Ho bisogno di una lettera di raccomandazione» disse d’un tratto Felcia,
poi si fissò le mani e arrossì. Elvi e Fayez si scambiarono un’occhiata. Fuori
il vento ululava e borbottava.
«Per cosa?» chiese con gentilezza Elvi.
«Voglio fare richiesta di ammissione all’università» spiegò la ragazza,
parlando in fretta come se quelle parole fossero state sotto pressione, poi
proseguì più lentamente fino a lasciare la frase in sospeso. «Mia madre pensa
che probabilmente sarò ammessa. Ho contattato l’Hadrian Institute, su Luna,
e mia madre ha preso accordi perché possa tornare su Pallas quando la
Barbapiccola trasporterà il minerale, per poi trovare un passaggio per
proseguire da lì, però la mia richiesta di iscrizione ha bisogno di una lettera di
raccomandazione, e non posso chiederla a nessuno in città perché non l’ho
detto a mio padre, e...»
«Oh» commentò Elvi. «Ecco, non so. Voglio dire, non ho mai visto il tuo
lavoro accademico...»
«Dici sul serio?» sbuffò Fayez. «Elvi, è solo una lettera di
raccomandazione, non devi prestare giuramento per scriverla. Fai un favore
alla ragazza.»
«Ecco, pensavo soltanto che sarebbe stato meglio se avessi potuto parlare di
qualcosa che conosco.»
«Quando sono andato all’università inferiore, mi sono scritto da solo le
lettere di raccomandazione. Due venivano da gente che avevo inventato.
Nessuno controlla.»
La mascella di Elvi si abbassò di un centimetro. «Davvero?»
«Sei una donna incredibile, Elvi, ma non so come fai a sopravvivere nel
mondo selvaggio della natura.» Fayez si rivolse a Felcia. «Se lei non lo farà,
ci penserò io. Le avrai per domattina, d’accordo?»
«Non so come ripagarvi» rispose Felcia, che però appariva già più calma.
Fayez accantonò le sue parole con un cenno. «La tua imperitura gratitudine
è un ringraziamento sufficiente. Quale sarà il tuo campo di studi?»
Per l’ora successiva Felcia parlò della carriera medica di sua madre, della
malattia del sistema immunitario di cui soffriva il fratello morto, e di
regolazione della comunicazione intracellulare. Elvi si rese conto di aver
inconsciamente creduto che la ragazza fosse più giovane di quanto era in
realtà. Aveva il fisico lungo e leggermente dinoccolato, unito alla testa
relativamente grande, proprio dei cinturiani, e in qualche modo la sua mente
aveva scambiato quelle caratteristiche per adolescenziali. Felcia sarebbe stata
del tutto a suo agio nel campus dell’università inferiore. La luce diurna passò
dal beige al marrone scuro della terra d’ombra bruciata, poi giunse l’oscurità
e il vento si calmò. Quando Elvi aprì la porta, due centimetri di polvere
coprivano il sentiero di accesso e le stelle brillavano nel cielo. L’aria odorava
di terra rivoltata di fresco, probabilmente a causa di qualche analogo di
actinomicete, forse di un tipo portato dal vento. O magari si trattava di
qualcosa d’altro, qualcosa di più strano.
Felcia tornò verso la città, Fayez si diresse alla sua capanna. Per quanto
Elvi era in grado di stabilire, lui era uno dei due o tre membri della squadra
scientifica che ancora dormivano da soli. Sudyam e Tolerson erano la coppia
che si era formata più di recente. Laberge e Maravalis avevano appena posto
fine alla relazione instaurata durante il viaggio ed entrambi stavano già con
qualcun altro.
Il sesso era una cosa strana, all’interno della squadra scientifica. Il fatto che
si trattasse di un comportamento poco professionale era controbilanciato,
soprattutto in spedizioni sul campo che, come quella, duravano anni,
dall’avere a disposizione un numero di potenziali compagni al tempo stesso
ristretto e in genere di valore elevato. Le persone erano pur sempre persone.
Se pure provava una certa gelosia, Elvi non era gelosa di una relazione in
particolare, ma dell’intimità in sé stessa. Sarebbe stato bello avere qualcuno
con cui camminare nel buio dopo la tempesta, qualcuno con cui svegliarsi al
mattino. Si chiese quale fosse la politica sessuale delle famiglie di First
Landing. Se la RCE avesse pensato a mandare una squadra specializzata in
scienza sociale, ne sarebbe potuto derivare uno studio interessante.
Davanti a lei, sulla destra, le rovine aliene spiccavano sullo sfondo
dell’orizzonte, poco più di una chiazza scura di oscurità. C’era una sola luce
che si muoveva, piccola e fievole, più fioca di una stella e visibile soltanto
perché si spostava. C’era di nuovo qualcuno nelle rovine, a contaminare il
sito. A livello intellettuale, era consapevole di ricorrere alla rabbia per evitare
di sentirsi sola o in colpa, ma questo non le impediva di percepirla come
reale. Con le labbra compresse in una linea sottile rientrò nella capanna,
raccolse una torcia elettrica, controllò la carica della batteria, poi si
incamminò con decisione verso le rovine, con il sottile cerchio di luce azzurra
che ondeggiava davanti a lei a illuminare il cammino. La polvere sottile si
spostava come neve sotto i suoi piedi, le cosce le dolevano per l’andatura
sostenuta.
Nell’avvicinarsi alle rovine le parve di vedere la luce fioca allontanarsi
nella direzione opposta, verso la città, ma quando provò a lanciare un
richiamo non le rispose nessuno. Per quasi un minuto rimase lì ferma nel
buio, sentendosi dapprima insicura, poi imbarazzata e infine irritata per il
proprio imbarazzo.
Un sentiero si addentrava fra le rovine, tanto marcato che neppure il recente
strato di polvere riusciva a mascherarlo. C’erano solchi larghi quanto un carro
laddove delle ruote erano passate sul terreno abbastanza spesso da lasciarvi
dei segni. Elvi scosse il capo e seguì quel sentiero, che aggirava un’alta
formazione del terreno e si addentrava nelle enormi costruzioni aliene.
Dentro, il raggio della sua torcia si posò sulle pareti e sulle superfici,
generando riflessi scintillanti che parevano muoversi sia che lei lo facesse o
meno. Nei punti in cui c’era riparo dal vento si vedevano impronte di piedi.
Molte impronte. Non si trattava soltanto di qualcuno della città che fosse
venuto in esplorazione per conto suo, quella gente trattava le rovine come una
sorta di circolo di ritrovo. Qualsiasi campione che la squadra scientifica
avesse prelevato da quel terreno sarebbe già stato compromesso, i suoi
microrganismi sarebbero stati un misto di noto e di ignoto, più qualsiasi cosa
emergesse quando i due si incontravano in un ambiente del tutto
incontrollato. Il fatto che quello valesse anche per tutta l’area della città
sembrava insignificante. Erano costruzioni aliene, erano state costruite da una
vasta civiltà scomparsa della quale l’umanità non sapeva ancora nulla. Non
era una sorta di casa sull’albero.
«Salve!» gridò. «C’è qualcuno qui?»
Non ci fu risposta, neppure da parte del vento. Scuotendo il capo, si
addentrò maggiormente nell’ombra. Se avesse trovato lì qualcuno gli avrebbe
detto quello che aveva cercato di dire in precedenza, li avrebbe indotti a
capire il problema, anche a costo di fare loro la predica per tutta la notte.
Intorno a lei le pareti si levavano dal terreno con strane angolazioni
inquietanti, organiche e insieme inorganiche, come una macchina che fosse
stata costruita in modo da poter passare per un prodotto della natura. Ampie
arcate si affacciavano sulla terra spoglia e scura. Quanto più si addentrava
nelle rovine, tanto più esse parevano espandersi, fino a darle l’illusione che
fossero più grandi all’interno che all’esterno.
Stava per arrendersi e tornare a casa quando vide qualcosa di squadrato, che
spiccava per il solo fatto di essere rettilineo. Le casse erano di plastica e
ceramica, di un pratico colore grigio dove non erano coperte dal rosso e
giallo intenso delle etichette di avvertimento. PERICOLO ESPLOSIVO AD ALTO
POTENZIALE NON IMMAGAZZINARE VICINO A FONTI DI CALORE O DIRADIAZIONI DI
CLASSE TRE.
«Oh, no» mormorò fra sé. «Oh, dannazione, no.»
«Dottoressa Okoye» disse Reeve. «L’ho sentita affermare di aver trovato
esplosivi nascosti fuori città?»
«Sì» confermò Elvi. «Ovviamente è quello che mi ha sentita affermare.»
«E che ci sono prove secondo cui parecchie persone sono state in quel
luogo di nascosto.»
Erano seduti nell’ufficio di Reeve. La luce della sua lampada era calda e
soffusa, i pantaloni rozzi e la camicia fuori di essi suggerivano che lo aveva
tirato fuori dal letto. Sembrava che fosse il cuore della notte, anche se il più
lungo periodo di rotazione significava che l’oscurità sarebbe durata almeno
per altre dieci ore.»
«Sì» confermò.
«D’accordo» continuò Reeve. «Va tutto bene. Questa è una cosa positiva.
Ho bisogno che mi dica come trovare questo posto.»
«Sì, certo. L’accompagnerò là.»
«No. Ho bisogno che lei resti qui dov’è. Non torni alla sua capanna, e
neppure fra le rovine. Deve restare qui dove è al sicuro. Ha capito?»
«C’era qualcun altro là fuori. Ho visto la luce, ed è stato per questo che
sono andata a vedere. E se fossero stati ancora lì?»
«Questa è una cosa di cui non ci dobbiamo preoccupare perché non è
successa» replicò Reeve, in un tono accuratamente rassicurante che in realtà
significava: ‘Saresti morta.’ Elvi abbandonò la testa fra le mani. «Può darmi
le indicazioni necessarie?»
Elvi fece del suo meglio, con la voce che tremava. Reeve creò una mappa
sul suo terminale palmare, e lei si sentì certa che fosse accurata. La sua mente
pareva però giocarle qualche scherzo.
«D’accordo» concluse Reeve. «Ho bisogno che rimanga qui per un po’.»
«Ma il mio lavoro è tutto nella capanna.»
Lui le posò una mano sulla spalla con fare rassicurante, ma il suo sguardo
era concentrato e stava già pianificando un passo successivo che non la
includeva.
«Per prima cosa ci accerteremo che lei sia al sicuro» aggiunse. «Tutto il
resto verrà dopo.»
Per l’ora successiva Elvi rimase seduta nella piccola stanza, o camminò
avanti e indietro. Le voci di Reeve e dei suoi uomini arrivavano fino a lei
attraverso la parete, serie e pratiche nel tono. Poi diminuirono di numero.
Una giovane donna venne a prenderla. Elvi l’aveva già vista in precedenza
ma non conosceva il suo nome. Le pareva sbagliato che avessero trascorso
quasi due anni viaggiando insieme senza che ancora conoscesse il suo nome.
Doveva significare qualcosa riguardo alle popolazioni. A come si
mescolavano e a come non lo facevano.
«Ha bisogno di qualcosa, dottoressa Okoye?»
«Non so dove dormire» rispose Elvi. Quelle parole le parvero esili. Fragili.
«Le ho preparato una cuccetta» rispose la ragazza. «Prego, mi segua.»
Le stanze erano vuote. Gli altri erano usciti nell’oscurità aliena per
affrontare una minaccia terribilmente umana. La ragazza che la stava
accompagnando alla cuccetta aveva un’arma alla cintura. Nel passare davanti
alla finestra anteriore, Elvi lanciò un’occhiata all’esterno: le strade erano le
stesse su cui aveva camminato il giorno precedente, e tuttavia erano del tutto
cambiate. Un senso di minaccia aleggiava su tutto come la promessa di una
tempesta imminente. Come la caligine all’orizzonte. Vide il fratello di Felcia
camminare lungo la strada, senza guardare né verso di lei né altrove. La paura
l’attanagliò, fredda e profonda.
9
Basia

Basia si era offerto volontario per il turno di notte alla miniera. C’erano
meno persone da cui nascondersi, meno cielo aperto che lo rendesse nervoso.
Il lavoro, per quanto sfiancante, era un sollievo. Il fabbricatore che avevano
portato a terra dalla Barbapiccola stava costruendo rotaie e carrelli con la
stessa rapidità con cui loro riuscivano a riempirli con il materiale grezzo. La
sua squadra cercava di rimanere al passo con quella produzione assemblando
il sistema di rotaie che avrebbe trasferito il minerale dal pozzo della miniera
ai setacci e poi ai silos, dove avrebbe aspettato che la navetta della
Barbapiccola lo trasportasse in orbita. Tutto ciò che avevano estratto finora
era stato trasportato a mano, con le carriole. Un sistema di carrelli motorizzati
avrebbe incrementato la produzione di un ordine di grandezza.
Quindi Basia e la sua squadra lavoravano alle rotaie di metallo, tirandole
fuori dal fabbricatore lucide e nuove sotto le aspre luci bianche per poi
caricarle su carretti trainati a mano e trascinarle fino al pozzo della miniera.
Là le scaricavano, sempre a mano, e le saldavano per espandere il sistema di
rotaie in continua crescita. Era quel genere di lavoro manuale che la gente
aveva perlopiù smesso di fare nella loro era meccanizzata, e saldare in un
ambiente dotato di atmosfera era del tutto diverso dal farlo nel vuoto, cosa
che lo stava costringendo a sviluppare una nuova serie di capacità. La
combinazione della sfida mentale e del lavoro fisico lo lasciava esausto. Il
suo intero mondo si riduceva al compito successivo, al dolore alle mani e alla
lontana promessa del sonno. Non c’era tempo per indugiare su altre cose.
Come il fatto di essere un assassino. Come le forze di sicurezza della
società che stavano fiutando il terreno per cercare lui, Coop e gli altri. Come
il senso di colpa che provava ogni volta che Lucia mentiva loro affermando
di non sapere nulla che potesse essere utile.
Più tardi, quando sedeva nella capanna dei lavoranti, con i muscoli che si
contraevano e soffrivano di crampi da sfinimento, e cercava di dormire
nonostante la luce del giorno che fiottava dalle finestre, poteva rivedere
all’infinito l’esplosione della navetta, pensare a cosa avrebbe potuto fare per
disattivare gli esplosivi più in fretta di come aveva fatto, di come avrebbe
potuto atterrare Coop e sottrargli il radiocomando. Se era di umore
particolarmente cattivo, pensava a come niente di tutto quello sarebbe
successo se solo avesse ascoltato la moglie. In quei giorni la sua vergogna era
tale che arrivava a odiarla un po’, e poi odiava sé stesso per il fatto di
biasimarla. Il cuscino che si premeva sugli occhi escludeva la luce del sole,
ma non il ripetersi dell’immagine della navetta che esplodeva, stridendo
come una bestia morente nel precipitare.
Durante la notte, però, mentre lavorava, trovava un po’ di pace.
Così quando Coop apparve sul suo posto di lavoro, addentrandosi nella
galleria della miniera come se non avesse avuto una sola preoccupazione al
mondo, per poco Basia non lo colpì in faccia.
«Ehi, amico» salutò Coop. Basia lasciò cadere il martello e accasciò le
spalle.
«Ehi» rispose.
«Abbiamo un problema» continuò Coop, passandogli con fare cameratesco
un braccio intorno alle spalle. «Mi serve che se ne occupi mi primero.»
Non poteva essere niente di buono. «Che problema?»
Coop lo portò lontano dal punto in cui stavano lavorando, salutando con un
cenno e un sorriso i pochi altri lavoranti del turno di notte a cui passarono
accanto. Sembravano solo due amici che facevano due passi e un po’ di
conversazione. Quando furono fuori della portata di udito degli altri disse:
«Ho visto quella ragazza della RCE andare alle rovine. Ho mandato Jacek a
controllare.»
«Hai mandato Jacek» ripeté Basia. Coop annuì.
«Bravo ragazzo. Affidabile.»
Basia si fermò, liberandosi dal suo braccio. «Non...» Coinvolgere mio figlio
in tutto questo. Prima però che potesse pronunciare quelle parole Coop lo
bloccò con un cenno e continuò a parlare.
«Está importante.» Si fece più vicino e abbassò la voce. «È andata alle
rovine, poi è filata dritta dagli scagnozzi della RCE. Jacek dice che hanno
intenzione di aspettarci là. Di cogliere la resistenza con le mani nel sacco.»
«Allora non ci torniamo più» replicò Basia. Sembrava così semplice. Non
c’era motivo di cedere al panico.
«Sei pazzo, primo? Toda alles sono stati lassù. Ci sono prove indiziarie fin
su per il culo. Se aspettano troppo finiscono per annoiarsi, fanno venire giù
una vera squadra di criminologi per esaminare la scena e siamo tutti fottuti.
Tutti quanti, y veh, a meno che tu non abbia smesso di perdere frammenti di
pelle mentre eri là.»
«Allora che si fa?»
«Andiamo là per primi. Un razzo di segnalazione sugli esplosivi, boom.
Niente più prove.»
«Quando?»
Coop scoppiò a ridere. «Tu cosa credi? Magari un giorno della prossima
settimana? Adesso, coyo. Dobbiamo andare adesso. Il mediatore atterrerà
nell’arco di ore, non di giorni. Non vuoi che veda questo quando scenderà
dalla nave, vero? Tu sei un caposquadra. Puoi prendere uno dei carrelli.
Dobbiamo prendere quella roba e andarcene.» Coop fece schioccare le dita
con impazienza. «Jetzt.»
Coop parlava di cose folli come far saltare le loro scorte di esplosivi con
una tale aria di sicurezza e di certezza che Basia trovò difficile discutere.
Certo, far saltare in aria le rovine aliene era una follia, ma Coop aveva
ragione. Se avessero trovato gli esplosivi e da essi fossero risaliti a lui,
avrebbero scoperto tutto. Non voleva farlo, ma doveva, quindi lo avrebbe
fatto.
«D’accordo» disse, e si diresse verso la postazione di messa in carica dei
carrelli. Ne rimaneva soltanto uno, e siccome l’universo era un posto crudele
e beffardo, era lo stesso che aveva guidato la notte dell’attentato. Aveva
ancora le ammaccature e le bruciature che aveva collezionato quella notte –
bruciature riguardo alle quali tutti nella colonia stavano bene attenti a non
fare domande.
Coop attese con impazienza che lo staccasse dalla carica e lo facesse uscire
in retromarcia dallo stallo, poi saltò a bordo e cominciò a tamburellare un
ritmo veloce sul cruscotto di plastica. «Andiamo andiamo andiamo.»
Basia andò.
A metà strada dalle rovine aliene incontrarono altri quattro membri della
cerchia intima di Coop. Pete e Scotty, e Cate e Ibrahim. Zadie non c’era
perché il suo bambino aveva sviluppato una brutta infezione a un occhio e
ultimamente non si vedeva molto in giro. Cate aveva una sacca di tela che
produsse un tonfo metallico quando la gettò sul retro del carrello, poi i
quattro salirono a bordo anche loro.
«Quella è la roba?» chiese Coop. Cate annuì e calò una manata su un lato
del carrello per segnalare a Basia che poteva rimettersi in movimento. Lui
non chiese cosa fosse la roba in questione. Era troppo tardi per cominciare a
fare domande.
Le rovine apparivano buie e deserte come sempre, ma Coop fece fare a
Basia il giro lungo intorno a esse per arrivarvi dal lato opposto rispetto alla
città. «Giusto per andare sul sicuro» disse.
Quando Cate aprì la sacca, Basia non rimase sorpreso nel vedere che era
piena di armi. La Barbapiccola non era stata una nave da guerra e non
avevano portato con loro una grande scorta di armi nel lasciare Ganimede,
ma quello che avevano era venuto sulla superficie con loro quando avevano
cominciato a costruire First Landing. Pareva che la maggior parte di quelle
armi fosse nella sacca. Cate tirò fuori un fucile a canne mozze e procedette a
caricarlo con grossi proiettili di plastica. Era una donna alta e ossuta, dalla
mascella ampia e un solco fra gli occhi dovuto all’espressione perennemente
accigliata. Aveva un’aria naturale con in mano un fucile, come un soldato.
Quando raccolse a sua volta un’arma, una pistola automatica a canna corta,
Basia si sentì come un bambino che giocasse a travestirsi.
«Ti serve anche questo, killer» avvertì Ibrahim, e gli lanciò uno stretto
oggetto metallico. Basia impiegò parecchi secondi a rendersi conto che era il
caricatore della pistola. Gli ci vollero solo due tentativi per infilarlo nel modo
giusto nell’arma. Far saltare gli esplosivi. Ripulire il sito. Distruggere le
prove. Il piano non era mai stato realmente quello, e da qualche parte dentro
di lui lo aveva sempre saputo.
Mentre il resto del gruppo finiva di preparare le armi, Basia si soffermò a
qualche metro dal carrello, fissando il cielo notturno. Uno di quei punti
luminosi era la scia dei propulsori della Rocinante, la nave su cui viaggiava
Jim Holden. Il mediatore. Quello che si supponeva avrebbe impedito ai
coloni e alla gente della RCE di uccidersi a vicenda. Si chiese quanto fosse
lontano Holden, se sapeva che era già troppo tardi. Era troppo tardi per la
seconda volta. Holden era arrivato troppo tardi anche su Ganimede.
Il figlio di Basia, Katoa, non era stato il solo a essere malato, l’unico il cui
sistema immunitario avesse ceduto sotto il migliaio di diversi agenti
stressanti dovuti al vivere all’esterno di un pozzo gravitazionale. C’era stato
un gruppo di loro che si era rivolto al dottor Strickland, l’uomo che si
supponeva conoscesse le risposte. Katoa, Tonias, Annamarie, e Mei, che era
sopravvissuta. Mei, che James Holden aveva salvato dai laboratori su Io.
Holden c’era anche quando avevano trovato Katoa. Basia non lo aveva mai
incontrato di persona, lo aveva visto sempre e soltanto sui notiziari, ma il
padre di Mei era stato un suo amico e gli aveva mandato un messaggio,
dicendogli cosa era successo, e che lui era con Holden quando avevano
trovato il corpo del ragazzo.
Perché una e non l’altro? Mei di Praxidike, ma non il suo Katoa. Perché
alcune persone morivano e altre vivevano? Dov’era la giustizia, in tutto
questo? Le stelle che stava guardando non avevano nessuna risposta da
dargli.
Per Holden era già troppo tardi per riuscire a fermare ciò che ormai stava
succedendo su Ilus prima ancora che chiunque mettesse piede sul pianeta.
Prima che gli anelli si aprissero. Prima che Venere fiorisse. Se Katoa fosse
stato ancora vivo, lui non sarebbe venuto laggiù, e se anche lo avesse fatto
non sarebbe rimasto.
Era un pensiero strano. Surreale. Basia cercò di immaginare l’uomo che
sarebbe stato in quell’altra linea temporale e non ci riuscì. Abbassò lo
sguardo sull’orribile pistola nera che aveva in mano. Non sarei a questo
punto.
«Si comincia il gioco» disse qualcuno. Basia si volse. Era Coop. «Torna qui
con la testa, coyo.»
«Dui» rispose Basia, e trasse un profondo respiro. L’aria notturna era
fredda e pungente, pervasa di un vago sentore di terra lasciato dalla tempesta
di sabbia del pomeriggio. «Dui.»
«Seguitemi» ordinò Coop, poi si diresse verso le rovine correndo appena.
Cate, Ibrahim, Pete e Scotty lo seguirono stringendo le armi con quello che
probabilmente pensavano essere uno stile militare. Basia tenne invece la
pistola per la canna, timoroso di avvicinare troppo le dita al grilletto.
Entrarono nella massiccia struttura aliena da una delle molte aperture
laterali. Erano finestre? Porte? Non rimaneva più nessun alieno che potesse
dirlo. Dentro, la luce che proveniva dalle loro torce e lampade da lavoro si
riflesse sulle pareti lisce dalle strane angolazioni. Quel materiale sembrava
pietra, era liscio come il vetro e passava dal nero a un rosa chiaro dove la luce
lo colpiva. Basia fece scorrere le dita su di esso.
Coop segnalò loro di fermarsi, poi si abbassò e camminò accucciato fino a
un’apertura nella parete che somigliava a una finestra. Diede un’occhiata al di
là di essa, si abbassò di nuovo e fece cenno al gruppo di raggiungerlo. Basia
si accoccolò là con gli altri.
«Visto?» sussurrò Coop, indicando la stanza accanto, oltre la finestra.
«Sapevo che si sarebbero piazzati lì.»
Cate si sollevò per un istante per guardare, poi si accoccolò di nuovo con un
cenno di assenso. «Ne vedo cinque. Reeve, il capo, e quattro dei suoi
scagnozzi. Hanno armi da fuoco e pistole stordenti. Guardano tutti nella
direzione sbagliata.»
«Troppo facile, capo» sussurrò Scotty, con un sogghigno, e rimosse la
sicura dal suo fucile. Cate aprì la culatta del fucile a canne mozze quanto
bastava per accertarsi che fosse carico. Coop sollevò la sua grossa pistola
automatica e tirò indietro il carrello per inserire un colpo in canna, poi alzò
tre dita con la mano libera e cominciò un silenzioso conto alla rovescia.
Basia guardò ciascuno di loro, uno dopo l’altro. Apparivano arrossati in
volto ed eccitati, tutti tranne Pete, che guardava verso di lui e appariva di un
pallore verdastro nella luce bianca mentre scuoteva la testa avanti e indietro
in un silenzioso gesto di diniego. Basia poteva quasi sentirlo mentre pensava:
Non voglio farlo.
Poi qualcosa scattò nella mente di Basia e il mondo parve mettersi a fuoco
con una sensazione quasi fisica. Aveva seguito Coop come in trance dal
momento in cui si era presentato sul suo posto di lavoro, e stavano per
sparare a un gruppo di uomini della sicurezza della RCE.
«Aspetta» disse. Coop rispose alzandosi in piedi, puntando la pistola nella
stanza accanto e aprendo il fuoco.
La mente di Basia vacillò. Il tempo parve scorrere a balzi irregolari.
Coop che urla oscenità e spara ripetutamente con la pistola nella stanza
accanto. Basia è disteso supino sul pavimento e guarda i bossoli rotolare fuori
dalla pistola di Coop e rimbalzare sul terreno accanto a lui. Sembrano
muoversi così lentamente che lui può leggere il marchio del fabbricante. C’è
scritto: TruFire 7.5mm.
Un altro balzo.
È in piedi accanto a Cate. Non ricorda di essersi alzato. Lei fa fuoco con il
fucile a canne mozze, e il rumore dello sparo nell’ambiente chiuso è
assordante. Si chiede se soffrirà di una perdita permanente dell’udito. Nella
stanza accanto tre uomini e due donne nell’uniforme della sicurezza della RCE
si affannano per mettersi al riparo o estrarre le armi o rispondere al fuoco.
Hanno il panico dipinto sul volto. Nel muoversi gridano qualcosa gli uni agli
altri, ma lui non riconosce nessuna di quelle parole. Uno di loro fa fuoco con
una pistola, e una pallottola si pianta nel muro, accanto a Cate. Un pezzo
della pallottola, o forse una scheggia del muro le fa un piccolo buco in una
guancia. Lei continua a sparare come se la ferita non fosse degna di nota.
Un altro balzo.
Una donna della RCE si serra il petto da cui zampilla il sangue. Il suo volto è
pallido e terrorizzato. Lui è ad appena un metro di distanza, in piedi vicino a
Scotty, che le spara di nuovo, questa volta al collo. La donna cade all’indietro
al rallentatore, le mani che si sollevano verso la ferita ma si accasciano prive
di vita prima di raggiungerla, per cui sembra che lei stia scrollando le spalle.
Un altro balzo.
È in piedi da solo in un corridoio. Non sa dove si trovi o come ci sia
arrivato. Sente spari e urla alle sue spalle. Un uomo della sicurezza della RCE
è a pochi metri di distanza, davanti a lui, e impugna una pistola stordente.
L’uomo ha la pelle scura e luminosi occhi verdi dilatati dalla paura. Di colpo
Basia ricorda che il suo nome è Zeb, anche se non riesce a ricordare come
faccia a saperlo. Zeb gli scaglia conto la pistola stordente e allunga la mano
verso l’arma da fuoco che ha in una fondina sul fianco. La pistola stordente
rimbalza contro la testa di Basia, causandogli una lacerazione lunga tre
centimetri che comincia a sanguinare abbondantemente, senza però che lui
senta nulla. Vede Zeb estrarre la pistola, e senza pensare a quello che sta
facendo gli punta contro la propria arma. Rimane sorpreso nel vedere che la
impugna correttamente, per il calcio, con il dito sul grilletto. Non rammenta
di averlo fatto. Preme il grilletto. Non succede niente. Sta per premerlo una
seconda volta quando uno sparo risuona alle sue spalle e Zeb comincia ad
accasciarsi con il sangue che gli zampilla dalla fronte. Basia aspetta il
prossimo blackout.
Però non ci fu nessun balzo temporale. Nessun respiro. Nessuna via di fuga.
«Un buon lavoro» commentò Coop, alle sue spalle. «Per poco quello non ci
è sfuggito.»
Basia si girò lentamente, ancora come in un sogno. Una fuga dalla realtà.
Uno stato dissociativo. L’impulso di sollevare la mano ancora una volta, di
lasciare che la violenza lo trascinasse in avanti di un altro passo e di sparare a
Coop quasi gli fece alzare il braccio. Quasi, ma non lo fece. Zeb si dissanguò
sul pavimento. Il rumore degli spari cessò.
Alle sue spalle, il resto del gruppo gridava e applaudiva con voci allegre ed
eccitate. Basia guardò la sua pistola, ricordando come funzionavano nei video
d’azione. Si inseriva il caricatore con i proiettili nella pistola, ma poi
bisognava caricarne uno in canna. Ricordò Cate che tirava indietro la culatta
del fucile a canne mozze, Coop che faceva scorrere il carrello della sua
pistola automatica. La sua pistola non avrebbe mai sparato, per quante volte
avesse premuto il grilletto.
Zeb smise di sanguinare. Per poco non è successo a me, pensò Basia, ma
per il momento quel pensiero non aveva ancora un contenuto emotivo. Non
aveva peso, era come uno sbuffo di fumo acre che gli attraversasse la mente
per poi svanire.
«Aiutaci a trascinare questi corpi fuori, sul retro, primo» disse Coop,
battendogli una pacca sulla spalla. «Zadie laverà questo posto con agenti
corrosivi ed enzimi digestivi che distruggeranno tutte le tracce, ma non
possono consumare i pezzi più grossi, giusto?»
Basia li aiutò. Impiegarono parecchie ore a seppellire i corpi dei cinque
nella terra compatta alle spalle delle rovine aliene. Coop garantì loro che la
prossima tempesta di sabbia avrebbe cancellato qualsiasi segno che si fosse
scavato in quel punto. La gente della RCE sarebbe semplicemente scomparsa
senza lasciare traccia.
Scotty e Pete trascinarono il resto degli esplosivi fuori delle rovine e lo
caricarono sul carrello, poi tornarono a piedi verso la città insieme a Ibrahim
e a Cate, che portava in spalla la sacca con le armi. La pistola di Basia era di
nuovo dentro di essa senza essere stata usata.
«Dovevamo farlo» disse Coop, dopo che gli altri se ne furono andati. Basia
non riuscì a capire se stesse parlando a lui o a sé stesso, ma annuì comunque.
«Mi hai incastrato. Sapevi che li avresti uccisi e mi hai reso parte della
cosa.»
Coop gli rivolse una scrollata di spalle cinturiana e un crudele sorriso. «Nel
seguirmi lo sapevi, coyo. Forse hai finto che non fosse così, ma lo sapevi.»
«Non si ripeterà mai più» dichiarò Basia. «E se la mia famiglia dovesse
soffrire a causa di questo, ti ucciderò.»
Guidò fino alla miniera, poi tornò a casa a piedi. Il sole stava sorgendo
quando infine entrò barcollando nel piccolo bagno. L’uomo nello specchio
non aveva l’aspetto di un assassino, ma le sue mani erano coperte di sangue.
Cominciò a cercare di lavarlo via.
10
Havelock

Circa cinque ore prima, quando Havelock era a metà del suo turno di dieci
ore, un uomo che indossava un completo arancione e viola tanto orribile da
istigare quasi alla violenza, prese posto su un divano in uno studio video su
Marte. Fluttuando contro le cinghie di sicurezza, Havelock studiò l’uomo.
Allacciare le cinture era ormai diventato per lui un atto naturale, anche se gli
sembrava un po’ sciocco. Lo spazio orbitale intorno a Nuova Terra era
essenzialmente vuoto, e la possibilità di un’accelerazione improvvisa era
quasi inesistente. Sul piccolo monitor inserito nella parete della cabina il
giovane strinse la mano alla conduttrice e sorrise in direzione della
videocamera.
«È passato un po’ di tempo dalla sua ultima visita, Mr Curvelo» disse la
conduttrice. «Grazie per essere tornato.»
«Sono lieto di essere qui, Monica» rispose l’uomo, annuendo come se fosse
stato colto in flagrante a fare qualcosa. «È bello essere tornato.»
«Allora, ho avuto la possibilità di giocare al nuovo gioco, e devo dire che
sembra distaccarsi davvero dal suo lavoro precedente.»
«Sì» rispose l’uomo, laconico, serrando la mascella.
«Ci sono state parecchie controversie» continuò la conduttrice, il cui sorriso
si era fatto un po’ più tagliente. «Ce ne vuole parlare?»
Per Havelock era fisicamente impossibile sprofondare nel sedile a
smorzamento, ma psicologicamente l’impatto fu notevole.
«Senta, Monica,» replicò l’uomo con il completo orribile «quello che
stiamo esplorando qui sono le conseguenze della violenza. Tutti guardano
alla prima parte, e non pensano a come tutto il resto la segua a ruota.»
Il terminale palmare di Havelock trillò. Lui tolse il volume e prese la
chiamata.
«Havelock» disse Murtry. «Ho bisogno che tu risponda al mio posto a una
chiamata.»
La sua voce era così calma e controllata che Havelock si sentì mancare il
respiro. Quello era un suono che annunciava guai, e la sua mente si aggrappò
alla prima paura che affiorò in essa. La Rocinante e Jim Holden, il mediatore
delle Nazioni Unite, erano a circa dieci ore dalla fine della decelerazione.
Erano quasi arrivati. Se qualcosa era andato storto...
«Giù è successo qualcosa» continuò Murtry. «Ho Cassie in linea e ho
bisogno che tu le impedisca di crollare mentre io parlo con il capitano.»
«È una cosa grave?»
«Sì. Prendi la chiamata. Sii quello calmo. Puoi farcela?»
«Certo, capo» rispose Havelock. «Sarò freddo come un giorno di novembre
e morbido come seta della Cina.»
«Bravo.»
L’immagine si congelò per una frazione di secondo, poi sullo schermo del
palmare apparve Cassie. Per un anno e mezzo avevano vissuto sulla stessa
nave, parte della stessa squadra, condividendo familiarità ma non intimità.
Havelock aveva notato in modo vago quando lei aveva cominciato una storia
con Aragão e quando si erano lasciati. Pensava a lei come a un’amica perché
in realtà non pensava molto a lei.
Sullo schermo, la sua pelle aveva un colore cinereo e i suoi occhi erano
arrossati.
«Cassie» disse Havelock, usando il tono di voce confortante che aveva
imparato ad assumere durante quel workshop sulla negoziazione in situazioni
con ostaggi che aveva seguito dopo i tumulti su Ceres. «Ho sentito che le
cose sono un po’ problematiche laggiù.»
La risata di Cassie smosse la videocamera, facendola tremare sullo schermo
come per un terremoto. Distolse lo sguardo, poi tornò a fissarlo.
«Sono scomparsi» disse. Nella pausa che seguì lei spostò lo sguardo come
se stesse cercando qualcosa. Altre parole da dire, forse. «Sono scomparsi.»
«D’accordo» rispose Havelock. Mille diverse domande gli premevano nella
mente, desiderose di essere poste. Cosa era successo? Chi era scomparso?
Cosa era successo? Murtry però non gli aveva chiesto di scoprirlo, e Cassie
non aveva bisogno di essere sottoposta a un interrogatorio. «Murtry sta
parlando con il capitano.»
«Lo so» replicò Cassie. «Avevamo una pista. Abbiamo scoperto un
nascondiglio. Reeve li ha portati là. Io sono rimasta con la testimone.»
«La testimone è là?»
«Adesso dorme» rispose Cassie. «Io sono una consulente di sistemi di
sicurezza, Havelock. Dovrei elaborare gli avvicendamenti di turni ottimali e
costruire la rete di sorveglianza. Non sparo alla gente. Non rientra nel mio
fottuto contratto.»
Havelock sorrise, e Cassie fece altrettanto, anche se una lacrima le colava
dall’angolo di un occhio. Per un momento risero entrambi, l’orrore e la paura
che si trasformavano in qualcosa di simile all’esasperazione. Qualcosa che
era un po’ più sicuro.
«Ho una dannata paura» continuò Cassie. «Se verranno a cercare anche me
non sarò in grado di fermarli. Ho sprangato l’ufficio, ma potrebbero tagliare
un varco nella parete, o far saltare questo posto per aria. Non so perché
abbiamo pensato che fosse una buona idea scendere quaggiù. Dopo che
hanno fatto saltare in aria la navetta avremmo dovuto riportare il nostro culo
su per il pozzo gravitazionale e restare là. Scaricare rocce su di loro dalla
fottuta orbita.»
«Adesso la cosa importante è tenere al sicuro te e la testimone.»
«E come farete?» chiese Cassie. La sua voce esprimeva una sfida, ma di un
genere che desiderava che si rispondesse a essa. Era un non potete e allo
stesso tempo un ditemi che potete.
«Ci stiamo lavorando» rispose Havelock.
«Qui dentro non ho neppure cibo» aggiunse Cassie. «È tutto allo spaccio.
Ucciderei per un panino. Davvero. Ucciderei per averne uno.»
Havelock cercò di ricordare cosa avessero detto al workshop riguardo al
parlare con persone traumatizzate. C’era un elenco di quattro cose,
condensato nell’acronimo BEST per ricordarlo meglio. Lui però non riusciva a
rammentare a cosa corrispondesse ciascuna di quelle lettere.
«Scommetto che adesso sei parecchio spaventata» osservò.
«Sto perdendo il controllo.»
«Già, sembra che sia così, ma in realtà te la stai cavando perché non
peggiori le cose. Questo è l’errore che la gente fa di solito quando va tutto a
rotoli. Iperreagisce, ingigantisce. Vede tutto deformato. Tu ti sei chiusa
dentro e stai parlando con noi. Significa che hai gli istinti giusti per situazioni
come questa.»
«Stai inventando stronzate» lo accusò Cassie. «Sono a un passo dal
diventare catatonica.»
«Continua a restare a un passo e ce la farai. Dico sul serio, stai facendo la
cosa giusta. Resta calma e sistemeremo le cose. So che ti sembra che stia
andando tutto al diavolo, ma te la caverai benissimo.»
«Se non dovessi cavarmela...»
«Lo farai.»
«Ma se non dovessi. Ho detto se, giusto?»
«D’accordo, se» cedette Havelock.
«Fammi un favore. C’è un tizio su Europa, Hihiri Tipene, è un ingegnere
alimentare.»
«Sì.»
«Digli che mi dispiace.»
Crede che morirà, pensò Havelock, e potrebbe avere ragione. Il sapore
intenso e metallico della paura gli inondò la bocca. I locali stavano uccidendo
il personale di sicurezza della RCE, e Cassie era la sola rimasta. Lui non aveva
idea di quale fosse la situazione laggiù. Per quel che ne sapeva potevano
esserci tre tonnellate di esplosivo industriale che stavano per trasformare
Cassie in un ricordo. Sarebbe potuta morire da un momento all’altro e lui
avrebbe potuto essere costretto ad assistere senza poter fare niente.
«Glielo dirai tu stessa» replicò in tono gentile. «E dopo tutto questo non
avrai neppure paura di farlo.»
«Non saprei. Non hai mai incontrato Hihiri. Lo prometti?»
«Certo» assentì Havelock. «Ti coprirò io le spalle.»
Cassie annuì. Un’altra lacrima le colò lungo la guancia. Havelock ebbe la
sensazione di non cavarsela molto bene nell’impedire che lei crollasse.
Sullo schermo apparve una minuscola finestra sovrapposta: l’override di
sicurezza di Murtry.
«Ehi, Cass» disse. «Ho parlato con il capitano Marwick e ti manderemo una
squadra, ma ci vorranno un paio d’ore. Il tuo compito è di tenere la civile al
sicuro.»
La voce di Cassie tremò, ma non si spezzò, quando lei rispose. «Ci sono
quaranta dei nostri sul pianeta e loro sono in duecento. Io sono una persona
sola. Non posso proteggere tutti.»
«Non devi farlo» replicò Murtry. «Ho mandato la notifica dello stato di
emergenza e sto coordinando le squadre scientifiche. Questo è compito mio.
Il tuo è la dottoressa Okoye. Pensa solo a tenerla in vita finché non arriviamo
noi. D’accordo?»
«Sissignore.»
«Benissimo» approvò Murtry. «Due ore. Puoi farcela, Cass.»
«Sissignore.»
«Havelock, abbiamo una riunione di aggiornamento nell’ufficio di
sicurezza. Ci puoi raggiungere?»
«Arrivo» rispose Havelock. Slacciò le cinture, si tirò fuori dal sedile e si
spinse verso il corridoio. La Edward Israel aveva corridoi che erano costruiti
come ottagoni allungati, era il genere di nave su cui avrebbe potuto viaggiare
suo nonno. Le cinghie e gli appigli per i piedi distribuiti lungo le pareti non
avevano direzionalità. Havelock procedette in fretta lungo il corridoio, con il
cervello che gli inviava segnali contrastanti: ora gli diceva che si stava
arrampicando su per un enorme pozzo di acciaio e ceramica, ora che stava
precipitando in quel pozzo per poi – stranamente – strisciare a testa in giù
come se si fosse trovato sulla volta di un canale di scolo. Gli era stato detto
che i cinturiani percepivano istintivamente sé stessi separati da qualsiasi idea
preconcetta di su e giù, ma lo aveva sentito dire soltanto dai cinturiani, e
sempre nel contesto di dimostrare come fossero migliori di lui. Forse era
vero, forse era un’esagerazione. In ogni caso, quando infine si spinse
nell’ufficio della sicurezza aveva un lieve senso di vertigine e sentiva la
mancanza della gravità artificiale prodotta dalla propulsione.
Dieci persone erano aggrappate alle pareti e rivolte tutte nella stessa
direzione. Uomini e donne con struttura del volto e colore della pelle
radicalmente diversi, ma che avevano tutti la stessa espressione. Era una cosa
quasi inquietante. Murtry aveva tirato fuori l’equipaggiamento antisommossa
e l’armatura fra l’azzurro e il grigio, che con l’alto collare a protezione del
collo li faceva sembrare tutti enormi insetti di forma umanoide. Perfino
Murtry indossava quell’equipaggiamento, quindi a quanto pareva sarebbe
sceso anche lui sul pianeta.
«...Che mi rimane» stava dicendo Murtry, dal suo posto sul davanti della
stanza. «E voi siete tutto quello che mi rimane. Non arriverà la cavalleria a
salvarci il culo: noi siamo la cavalleria, e questo significa che non intendo
perdere altri uomini. Noi, qui in questa stanza, siamo la squadra di sicurezza
di tutto questo pianeta. Possiamo farcela, ma non facendo sacrifici. Mentre
siamo laggiù, se vi sentite minacciati fate tutto ciò che sarà necessario per
proteggere voi e la vostra squadra.»
«Signore?»
«Okmi?»
«Questo significa che siamo autorizzati a reagire in modo letale?»
«Significa che siete autorizzati a una reazione letale preventiva» rispose
Murtry, poi attese per un momento che gli altri assimilassero il senso di
quelle parole. Havelock sospirò. Era orribile, ma non c’era alternativa. Se
quello della navetta pesante fosse stato solo un crimine isolato, avrebbero
potuto gestire la cosa come polizia. Però i locali non si erano limitati a quello,
e adesso altra gente della RCE era scomparsa o morta. Quindi ormai la
situazione era più simile a una guerra.
Almeno avevano prima provato con metodi pacifici. Non che i cinturiani
avessero riconosciuto loro il merito di quello sforzo.
«Scendiamo a terra fra venti minuti» annunciò Murtry. «È una discesa
lunga e veloce, e in parte sarà turbolenta. Intendo atterrare a est del campo dei
cinturiani. Smith e Wei sono capisquadra. La nostra priorità immediata è
raggiungere e mettere in sicurezza l’ufficio locale.»
«E la Barbapiccola?» chiese qualcuno.
«Si fotta la Barbapiccola! Che ne è della Rocinante?»
Murtry sollevò una mano con il palmo verso l’esterno.
«Non perdete tempo a preoccuparvi di quello che succede in orbita o a casa.
Quello è affar mio, e me ne occuperò io. Io e Havelock» aggiunse,
rivolgendogli un rapido sorriso. «Avete i vostri ordini e la mia fiducia.
Scendiamo a terra e riportiamo questo casino sotto controllo.»
Il contingente di sicurezza ruppe le righe, con i corpi che si muovevano
nell’aria in un flusso rapido ed efficiente diretto all’hangar delle navette
leggere. Havelock avvertì una fitta di rammarico nel guardare gli altri
avviarsi senza di lui. Ricordò qualcosa della sua infanzia, un ricordo che
affiorò e subito scomparve, riguardo a un bambino zoppo e il Pifferaio di
Hamelin.
Muovendosi controcorrente, Murtry si spostò nell’aria verso di lui.
«Mi fa piacere vederti, Havelock. Dobbiamo parlare per un momento.»
«Sissignore.»
Murtry accennò al suo ufficio privato. Era una stanza minuscola, ancora più
piccola di una cabina alloggio, con un sedile a smorzamento dalle
sospensioni antiquate che dominava l’ambiente. Murtry chiuse la porta alle
loro spalle.
«Ti affido il controllo della nave.»
«Grazie, signore.»
«Al tuo posto, non ringrazierei. Ti sto lasciando in una posizione di merda»
replicò Murtry. «Qui sulla Israel abbiamo un equipaggio composto perlopiù
di teste d’uovo quasi isteriche perché non permettiamo loro di dedicarsi alla
loro scienza, e il capitano sta sostenendo dure battaglie per tenerli quassù.
Adesso che ci sono problemi quegli scienziati non faranno più tanta pressione
per scendere a terra, ma la pressione si deve scaricare da qualche parte. Ti
lascio una squadra ridotta con cui far fronte alla situazione.»
«Ce la caveremo, signore.»
«Sei un brav’uomo. La minaccia maggiore presente nel quadro generale è la
Rocinante. Era una nave da guerra marziana prima di passare all’APE. La
Israel è enorme, ma siamo una nave scientifica. Se la Rocinante dovesse
decidere di abbatterci, ci riuscirà.»
«Ma perché dovrebbe spararci addosso?»
Murtry scrollò le spalle. «Non penso tanto al perché quanto al se. Quindi...
c’è una cosa di cui ho bisogno, e voglio che tu la faccia comunque anche se
manderà all’aria tutti i piani di volo delle navette.»
«Certamente.»
«Noi prenderemo una delle navette leggere per scendere a terra» proseguì
Murtry, parlando lentamente come se stesse riflettendo sul farlo, anche se era
chiaro che non era così. «Voglio che trasformi in un’arma quella che rimarrà
a bordo. Rimuovi tutto quello che può impedire al reattore di andare in
sovraccarico e inserisci un comando di accensione remoto. Escludi tutti i
comandi di navigazione standard e inserisci qualcosa a cui soltanto tu e io
possiamo avere accesso.»
«E anche il capitano Marwick?»
Murtry fece un sorriso enigmatico. «Certo, se vuoi.»
«Mi dia mezza giornata e sarà fatto» disse Havelock.
«Bene.»
«Signore? Contro chi pensa che la useremo? Il campo dei cinturiani?»
«Stiamo soltanto aumentando le nostre possibilità, Havelock. Spero di non
doverla usare» replicò Murtry. «Se però dovessi decidere di farlo, voglio
poterlo fare in fretta.»
«Sarà pronta.»
«Saperlo mi fa sentire meglio» affermò Murtry, e posò una mano sulla
scrivania per spingersi verso la porta.
«Signore?»
Murtry inarcò le sopracciglia e Havelock avvertì un improvviso senso di
imbarazzo che quasi gli impedì di proseguire. Poi però si costrinse a farlo.
«So che è una cosa insignificante, signore, ma quando parlavo con lei,
Cassie ha detto che aveva fame. Le ho promesso che le avrei portato un
panino.»
L’espressione di Murtry rimase impenetrabile come la pietra.
«Mi chiedevo se potesse portarglielo lei, signore.»
«Potrei riuscirci» ribatté Murtry. Havelock non riuscì a stabilire se fosse
divertito o irritato. Forse entrambe le cose.
Havelock fluttuò fino alla sua scrivania. Le celle della guardina erano tutte
vuote. La sua squadra ridotta – i quattro membri della sicurezza con minore
anzianità e un tecnico preso in prestito dalla squadra di manutenzione della
nave – stavano modificando la navetta leggera rimasta. La stavano
trasformando in una bomba. Sui monitor, la navetta in discesa, la Rocinante
in fase di decelerazione finale e i monitor interni della stazione in cui si
trovavano Cassie e la dottoressa Okoye avevano ciascuno una loro finestra.
Havelock le guardava tutte, in attesa della prossima cosa che sarebbe andata
storta. Ogni minuto pareva estendersi all’infinito. Il riciclatore dell’aria
ronzava e ticchettava. Si rosicchiò l’unghia del pollice.
Il trillo del messaggio in arrivo gli strappò un sussulto e dovette posare le
mani sulla consolle per impedirsi di fluttuare via. Aprì la casella dei messaggi
in attesa. Quello nuovo veniva dagli uffici societari della RCE su Luna, e
l’oggetto era: ‘Possibili strategie per ridimensionare il conflitto su Nuova
Terra: chiamare per suggerimenti.’
Da qualche parte vicino ai portali dell’anello i segnali radio si erano
incrociati, onde elettromagnetiche che viaggiavano nel vuoto trasportando
messaggi umani codificati. Avevano coperto in cinque ore la distanza che
aveva richiesto loro un anno e mezzo di viaggio.
Cinque ore, ed erano stati ancora dannatamente troppo lenti.
11
Holden

La Rocinante effettuò la decelerazione finale lasciandosi dietro una coda di


fuoco bianco e si inserì in un’orbita alta intorno a Ilus. In basso, il pianeta
somigliava tanto alla Terra da rendere inquietante il fatto che non apparisse
uguale a essa. Holden aveva visto altri mondi alieni, il rosso ruggine e il
bianco di Marte, i vortici e i mulinelli di Saturno e di Giove, ed erano del
tutto diversi dalla miscela di azzurro, marrone e bianco della Terra. Ilus però
aveva un mare aperto, un cielo con sbuffi di nuvole, tutti elementi che nella
mente di Holden si collegavano al suo mondo natale.
Solo che lì c’era un unico, grande continente, con migliaia di isole sparse su
quell’unico oceano gigantesco come le perle di una collana marrone. Quella
miscela di alieno e di familiare gli faceva dolere la testa.
«Rocinante,» trasmisero dalla Edward Israel «perché ci state prendendo di
mira?»
«Uh...» Holden armeggiò con il pannello di comunicazione fino ad aprire
un canale con l’altra nave. «No, era solo una procedura standard per valutare
le distanze, Israel. Niente di cui preoccuparsi.»
«Ricevuto» rispose dall’altra nave una voce che non suonava molto
convinta.
«Alex,» chiamò Holden, passando sul canale di comunicazione interno «per
favore, smettila di stuzzicare l’orso.»
«Ricevuto, capitano» rispose Alex, in un tono esageratamente strascicato e
soffocando una risata. «Li stavo solo avvertendo che c’è un nuovo sceriffo in
città.»
«Smettila. Dacci un’altra ora per i controlli finali, poi portaci a terra.»
«D’accordo» replicò Alex. «È passato molto tempo dall’ultima volta che ho
fatto atterrare una di queste navi.»
«Sarà un problema?»
«No.»
Holden lasciò il sedile della sezione operativa e fluttuò verso la scala.
Qualche minuto più tardi era sul ponte del portellone stagno insieme ad
Amos. Il meccanico aveva preparato due delle loro armature da
combattimento leggere di fabbricazione marziana, un certo numero di fucili
normali e a canna mozza, e pile di munizioni e di esplosivi.
«Cos’è tutta questa roba?» chiese Holden.
«Hai detto di equipaggiarci per la discesa.»
«Mi riferivo alla biancheria di ricambio e allo spazzolino da denti.»
«Capitano» ribatté Amos, riuscendo quasi a nascondere la sua impazienza.
«Laggiù si stanno ammazzando a vicenda. Una mezza dozzina di guardie di
sicurezza della RCE è svanita nel nulla, e una navetta pesante è stata fatta
saltare.»
«Sì, e il nostro compito non è quello di aggravare la situazione. Metti via
questa roba. Prendiamo solo armi da fondina, vestiti e il necessario per noi, e
tutte le scorte mediche di riserva per la colonia. Niente altro.»
«Più tardi, quando desidererai di aver portato queste cose, la mia derisione
sarà spietata. E dopo moriremo.»
Holden accennò a replicare in tono tagliente ma poi si bloccò. C’era
qualcosa che fosse mai andato secondo i suoi piani? «D’accordo, prendiamo
un fucile a testa, ma smontato e in una sacca di tela. Niente di visibile. E
armatura leggera solo per il torso, qualcosa che si possa mascherare sotto i
vestiti.»
«Capitano,» commentò Amos, con finta sorpresa «hai davvero imparato
qualcosa dal passato? Questa è una cosa nuova che fai adesso?»
«Perché sopporto le tue stronzate?»
«Perché sono il solo a bordo che sappia mantenere in funzione la macchina
del caffè» ribatté Amos, mentre procedeva a smontare un fucile da assalto.
«Io vado a prendere lo spazzolino da denti e la biancheria di ricambio.»
La Rocinante dovette illuminare a giorno il cielo di Ilus nell’ultima parte
del processo di decelerazione, e quando atterrò su un campo accanto alla
raccogliticcia cittadina coloniale sollevò una nube di polvere larga un
chilometro, mentre il rumore della sua discesa doveva far tremare i vetri su
un’area grande il doppio.
Di conseguenza, Holden fu un po’ sorpreso e deluso quando non trovarono
nessuno ad accoglierli.
Lui era il mediatore congiunto dell’APE e della Terra, scelto personalmente
da Chrisjen Avasarala delle Nazioni Unite e da Fred Johnson, leader dell’APE
nella misura in cui l’APE ne accettava uno, per sovrintendere alle trattative da
intavolare nell’insediamento. In altri posti, la cosa avrebbe meritato un saluto
formale da parte del governatore planetario e magari anche la presenza di una
banda. Lì si sarebbe accontentato di un passaggio fino in città.
Sollevò le due pesanti borse e si incamminò verso l’insediamento. Amos
trasportava altre tre borse, la terza delle quali era quella che lui chiamava la
borsa per quando tutto è andato in vacca. Holden sperava sinceramente che
non sarebbero mai stati costretti ad aprirla.
Quando si furono allontanati a sufficienza, Holden inviò il segnale ad Alex
e la Rocinante avviò di nuovo i motori, sollevando per alcuni secondi
un’enorme tempesta di polvere.
«Sai,» commentò Amos, in tono colloquiale «siamo atterrati tanto lontano
dalla città per evitare di coprire di polvere i locali, e loro non si sono neanche
presi la briga di mandare un carrello a prelevarci? Mi sembra un
comportamento da ingrati.»
«Già. Anch’io sono un po’ seccato. La prossima volta dirò ad Alex di
atterrare nella loro dannata piazza cittadina.»
Amos accennò con la testa alla massiccia costruzione aliena che si levava in
lontananza. Sembravano due torri gemelle di vetro attorcigliate una all’altra,
come due alberi che crescessero affiancati.
«E così, eccole là» osservò.
Holden non seppe cosa replicare. Un conto era leggere di ‘rovine aliene’ sul
rapporto relativo alla loro destinazione, ma era tutt’altra cosa vedere
un’enorme struttura eretta da un’altra specie torreggiare sul paesaggio.
Quanto era antica? Un paio di miliardi di anni, se si poteva credere a Miller
riguardo al tempo trascorso da quando i padroni della protomolecola erano
scomparsi. Gli umani avevano mai costruito qualcosa che potesse durare
tanto a lungo?
«Secondo i cervelloni della sicurezza dell’Israel, quello è il posto dove
credono che la loro gente sia stata massacrata» affermò Holden, dopo
parecchi minuti che camminavano.
«Oh, bene» ribatté Amos. «Qualcuno è stato ucciso là. Sai, è così che noi
rivendichiamo la roba. Adesso questo pianeta è ufficialmente nostro.»
A parte la torre aliena che, bisognava ammetterlo, era difficile da ignorare,
il resto del panorama avrebbe potuto essere quello del sudovest dell’America
settentrionale. Terra arida e polverosa, piccole piante simili a cespugli.
Piccole creature che correvano via al loro avvicinarsi. Per qualche momento
si trovarono circondati da una nuvola di insetti che pungevano, ma dopo che
alcuni di loro li morsero, bevvero il loro sangue e caddero morti, gli altri
parvero capire che gli umani non erano un cibo adatto e persero interesse.
La colonia in sé stessa aveva l’aspetto di una baraccopoli, un miscuglio
raccogliticcio di edifici prefabbricati e tettoie fatte di pezzi di metallo di
recupero e mattoni. Alcune case erano fatte di fango, quindi qualcuno aveva
deciso di provare a usare l’adobe. Qualcosa nel fatto che alcuni umani
avevano viaggiato per cinquantamila anni luce per poi costruirsi le case
usando una tecnologia antica di diecimila anni fece affiorare un sorriso sul
volto di Holden. Gli umani erano creature molto strane, ma a volte erano
anche affascinanti.
Una folla si era raccolta nel centro della città, o per meglio dire
all’intersezione delle uniche due strade di terra battuta. Una cinquantina di
coloni fronteggiavano una dozzina di persone in uniforme della RCE, e i due
gruppi urlavano gli uni contro gli altri, anche se Holden non riusciva a
distinguere le parole.
Al limitare della folla, qualcuno li vide camminare verso la cittadina e li
indicò. Le discussioni si spensero e l’intera folla si mosse verso di loro.
Holden lasciò cadere le sacche e agitò la mano in un gesto di saluto,
sorridendo. Anche Amos sorrise, ma appoggiò con noncuranza la mano sul
calcio della pistola.
Una donna alta e massiccia, di qualche anno più anziana di Holden, si
precipitò verso di lui e gli afferrò le mani. Holden si sentì quasi certo che
quella fosse Carol Chiwewe, ma se era vero, allora era molto cambiata da
quando era stata scattata la fotografia inserita nel suo incartamento.
«Finalmente! Adesso deve dire a questi scagnozzi...»
Prima che potesse finire la frase o che Holden potesse rispondere, il resto
della folla cominciò a gridare, tutta rivolta a lui. Holden riuscì a cogliere
qualche frammento delle loro richieste: che scacciasse la RCE, che desse loro
cibo o medicine o denaro, che permettesse loro di vendere il litio, che
dimostrasse che la colonia non aveva niente a che fare con la scomparsa degli
agenti della sicurezza.
Mentre lui cercava di placare la folla e di farla tacere, un uomo più maturo
in un’uniforme della sicurezza della RCE si diresse con calma verso di lui, con
il resto degli agenti della sicurezza che lo seguiva formando un’ampia V,
come uno stormo di oche.
«Per favore, basta. Ascolterò ciascuna delle vostre richieste dopo che ci
saremo sistemati. Però non possiamo fare niente se gridate tutti allo...»
«Sono il capo Murtry» si presentò l’uomo della RCE, avanzando in mezzo
alla folla come se non fosse esistita e porgendogli la mano con un sorriso.
«Sono a capo della sicurezza della spedizione della Royal Charter Energy.»
Holden gli strinse la mano. «Jim Holden, mediatore congiunto Nazioni
Unite/APE.»
La folla tacque e si ritrasse fino a creare un piccolo cerchio di calma con
Holden e Murtry al centro.
«Quelli scomparsi erano suoi uomini» aggiunse Holden.
«Sono stati assassinati» lo corresse Murtry, senza smettere di sorridere.
Quell’uomo ricordava a Holden uno squalo, tutto denti snudati e freddi occhi
neri.
«A quanto mi è dato di capire, questo non è ancora stato dimostrato.»
«Hanno ripulito la scena, certo, ma io non ho dubbi.»
«Fino a quando non sarò io a non avere dubbi, non sarà intrapresa alcuna
azione punitiva» dichiarò Holden. Sentì Amos farglisi più vicino in un
silenzioso gesto di minaccia.
Il sorriso di Murtry non arrivava a illuminargli gli occhi. «È lei il capo.»
«Sono il mediatore» precisò Holden, in tono tale da mettere in chiaro con
Murtry che per quanto lo riguardava i due termini erano sinonimi.
Murtry annuì e sputò da un lato.
«Certo.»
La diga si infranse e la folla tornò a riversarsi verso di loro. Una donna alta
si fece largo fino alla prima fila e protese con forza la mano verso Holden in
una rabbiosa richiesta di una stretta di mano. Se Murtry ne aveva avuta una,
allora la voleva anche lei.
«Carol Chiwewe, coordinatrice della colonia» si presentò, mentre gli
stringeva con vigore la mano. Quindi quella prima donna era stata
qualcun’altra.
«Salve, signora coordinatrice...» cominciò Holden.
«Quest’uomo» continuò lei, puntando un dito contro Murtry «minaccia di
imporci la legge marziale. Sostiene che la concessione dà alla RCE il diritto
di...»
«Far rispettare le leggi dello statuto delle Nazioni Unite e mantenere la
pace» interloquì Murphy, riuscendo a sovrastarla senza alzare la voce.
«Mantenere la pace?» ribatté Carol. «Ha ordinato ai suoi uomini di sparare
per primi.»
La folla rumoreggiò in segno di disapprovazione e le grida ricominciarono.
Holden agitò le braccia per farli calmare, sperando che quel gesto apparisse
più dignitoso di quanto lui si sentisse nel farlo. Quando Murtry parlò, la sua
voce suonò calma ma dura.
«Mi riesce difficile vedere come potremmo sparare per primi. Tutti quelli
che sono morti finora sono stati uccisi dalla sua gente. Non tollererò ulteriori
minacce contro i dipendenti o le proprietà della RCE.»
Un uomo alto con il cranio grande di qualcuno che era cresciuto nella
Fascia si fece largo sul davanti della folla. «A me questa sembra una
minaccia, amico.»
«Coop, per favore, non peggiorare le cose» disse Carol, con un sospiro
rassegnato. Ah, Coop è un piantagrane, pensò Holden, prendendo nota di
ricordarsi quella faccia.
«A me sembra soltanto...» ribatté Coop, girandosi verso la folla con un
sorriso e alzando la voce per farsi sentire e manipolarla. «A me sembra
soltanto che adesso l’unico a fare minacce sia tu.»
La folla emise un ringhio di incoraggiamento e Coop sfoggiò un sorriso che
andava da un orecchio all’altro, godendo del potere che gli derivava dal darle
una voce.
Murtry gli rivolse un cenno del capo, senza smettere di sorridere. «Non c’è
niente che non sia pronto a fare per proteggere la vita dei miei uomini, questo
è vero. E ne ho già persi troppi per correre altri rischi.»
«Ehi, amico, non te la prendere con noi se non sei capace di tenere d’occhio
la tua gente.» Fra la folla, qualcuno rise.
«Non ti preoccupare» ribatté Murtry. Il suo sorriso non si alterò, ma lui si
fece un po’ più vicino a Coop. «Scoprirò cosa è successo.»
«Forse dovresti stare attento» commentò Coop, abbassando lo sguardo sul
suo interlocutore più basso di statura, mentre il suo sorriso si faceva ferino.
«Sai, potrebbe succedere anche a te.»
«Questa è decisamente una minaccia» dichiarò Murtry, estraendo la pistola.
E sparò a Coop nell’occhio destro. Il cinturiano si accasciò come una
macchina a cui fosse stata tolta la spina. Holden aveva già la pistola in mano
e puntata contro Murtry prima ancora di aver registrato appieno cosa fosse
appena successo. Amos gli si portò accanto con la pistola a sua volta puntata
contro il capo della sicurezza della RCE. L’intera squadra della sicurezza della
RCE estrasse a sua volta le armi, puntandole contro Holden. Sulla folla scese
un silenzio letale.
«Cosa diavolo!» esclamò Holden. «Avevo appena detto di non
intraprendere nessuna azione punitiva, e parlavo sul serio!»
«Infatti, ma questa non era un’azione punitiva, era una risposta a una
minaccia verbale diretta.» Murtry ripose la pistola e si girò di nuovo verso
Holden. «Qui abbiamo imposto la legge marziale in base all’articolo 71 della
concessione rilasciata dalle Nazioni Unite per l’esplorazione di questo
mondo. Qualsiasi minaccia nei confronti del personale della RCE verrà
affrontata rapidamente e senza esitazioni.»
Fissò Holden per parecchi, lunghi secondi, poi aggiunse: «Forse dovrebbe
mettere via la pistola, capitano.»
Amos mosse un mezzo passo in avanti, ma Holden gli posò una mano sul
braccio. «Mettila via, Amos.» Ripose quindi la propria arma nella fondina, e
un secondo più tardi la squadra della RCE fece altrettanto.
«Mi fa piacere che abbiamo potuto stabilire tanto in fretta questo rapporto
di lavoro. Le consiglio di cominciare a sistemarsi qui» disse Murtry. «Passerò
più tardi a trovarla.»
La coordinatrice aveva preparato delle stanze per Holden e Amos nel
grande e squadrato magazzino prefabbricato che era stato convertito in un
emporio, spaccio e pub. Le stanze sul retro erano arredate con una branda, un
tavolo e una bacinella d’acqua per lavarsi.
«Vedo che ci hanno dato la suite presidenziale» commentò Amos,
scaricando le borse sul pavimento della piccola camera. «Ho bisogno di bere
qualcosa.»
«Dammi solo un secondo» rispose Holden, poi passò nella sua stanza e
chiamò la Rocinante, fornendo un rapporto completo dell’atterraggio e
dell’uccisione di Coop. Naomi promise di trasmetterlo a Fred e Avasarala a
suo nome e gli raccomandò di stare attento.
Il bar, se si poteva chiamare tale, consisteva in quattro traballanti tavoli da
gioco e una ventina di sedie sparsi vicino all’angolo dell’edificio che fungeva
da spaccio. Quando finì il rapporto, Holden trovò Amos che lo aspettava con
davanti due bottiglie di birra.
«È andata bene.»
«Non hai la sensazione che questa sia una cosa superiore alle nostre forze?»
chiese Amos, dopo che ebbero sorseggiato un po’ di birra in cameratesco
silenzio.
«A me sembra più o meno normale» replicò Holden.
«Già.»
Erano alla seconda birra quando arrivò Murtry. Parlò per qualche minuto
con il barista, poi sedette di fronte a Holden e posò sul tavolo una bottiglia di
whisky e tre bicchierini.
«Beva qualcosa con me, capitano» disse, riempiendo i bicchierini.
«Andrà in prigione per quello che ha fatto oggi» dichiarò Holden, poi bevve
il suo whisky in un sorso. Aveva il sapore aspro e stantio dei distillati dei
cinturiani. «Ho intenzione di accertarmi che sia così.»
Murtry scrollò le spalle. «Può darsi. Il mio piano è di fare in modo che la
mia gente sopravviva abbastanza a lungo da far sì che la prigione possa
essere un problema reale. Adesso ne ho persi quasi venti, fra l’attacco alla
navetta e l’omicidio della mia squadra sul pianeta. Non ne perderò altri.»
«Lei è il responsabile della sicurezza di una società. Non ha l’autorità di
dichiarare la legge marziale e di sparare alle persone che non collaborano.
Non tollererei una cosa del genere da un governo legittimo, tantomeno da uno
sbirro a noleggio come lei.» Holden si versò un altro drink e lo sorseggiò.
«Qual è il nome di questo pianeta?»
«Cosa?»
«Il pianeta. Come si chiama?»
Holden si protese in avanti, con la parola Ilus sulle labbra, ma si trattenne
dal pronunciarla. Il sorriso di Murtry si era fatto sottile.
«Lei ha trascorso un sacco di tempo a lavorare per l’APE, capitano Holden,
ed è risaputo che nutre una radicata avversione per il genere di azienda che
mi dà lavoro. Ho alcune riserve sulla sua capacità di gestire questa situazione
in maniera imparziale. Minacciarmi e insultarmi non contribuisce molto a
rassicurarmi al riguardo.»
«Lei ha minato la mia autorità uccidendo un cinturiano pochi minuti dopo il
mio arrivo» ribatté Holden.
«L’ho fatto. E mi rendo conto che questo potrebbe darle l’impressione che
io non stia prendendo sul serio il suo ruolo qui. Però i suoi amici delle
Nazioni Unite sono a un anno e mezzo di distanza» replicò Murtry. «Ci pensi
su. Ci vogliono fra le otto e le undici ore per avere i primi due scambi di una
conversazione e quasi diciannove mesi per arrivare qui da laggiù alla velocità
a cui viaggiano i civili. Il nostro governatore locale è stato assassinato da
terroristi. La mia gente è stata uccisa per aver cercato di far rispettare i nostri
diritti. Crede onestamente che intenda aspettare che lei sistemi quello che non
funziona qui? No, sparerò a chiunque minacci la spedizione della RCE o i suoi
dipendenti, e dopo dormirò bene. Questa è la realtà di dove si trova ora.
Meglio che ci si abitui.»
«So chi sei» affermò Amos.
Il grosso uomo era rimasto così silenzioso che tanto Murtry quanto Holden
lo fissarono con sorpresa.
«Chi sono?» chiese Murtry, stando al gioco.
«Un assassino» dichiarò Amos, in tono leggero, inespressivo in volto. «Hai
una scusa ingegnosa e un distintivo lucente che ti fanno sembrare nel giusto,
ma non è di questo che si tratta. Ti ha eccitato fare fuori quel tizio davanti a
tutti e non vedi l’ora di farlo di nuovo.»
«Le cose stanno così?» chiese Murtry.
«Sì. Quindi, da un assassino a un altro, non ti conviene tentare quelle
stronzate con noi.»
«Amos, vacci piano» avvertì Holden, ma gli altri due lo ignorarono.
«Suona come una minaccia» osservò Murtry.
«Oh, lo era» replicò Amos, con un sorriso.
Holden si rese conto che entrambi avevano le mani sotto il tavolo. «Ehi, un
momento!»
«Credo che forse uno di noi finirà per sanguinare» disse Murtry.
«Che ne dici di adesso?» ribatté Amos, con una scrollata di spalle. «Al
momento sono libero. Possiamo saltare tutta la parte intermedia.»
Murtry e Amos si sorrisero a vicenda per un momento interminabile,
mentre Holden vagliava mentalmente le diverse eventualità. E se Amos viene
colpito, e se Murtry viene colpito, e se io vengo colpito.
«Vi auguro una buona giornata» disse infine Murtry, alzandosi lentamente.
La sua mano non era sulla pistola. «Tenete il whisky.»
«Grazie» rispose Amos, versandosi un altro bicchiere.
Murtry rivolse loro un cenno di saluto e lasciò il bar.
Holden esalò il respiro che aveva trattenuto per quella che gli sembrava
un’intera ora. «Sì, credo che qui siamo in una situazione superiore alle nostre
forze» ammise.
«Prima o poi dovrò sparare a quel tizio» disse Amos, poi bevve un altro
bicchierino.
«Vorrei che non lo facessi. Questa situazione somiglia già a un disastro
ferroviario, e oltre al coinvolgimento di qualche centinaio di coloni e di
scienziati, il che è già abbastanza grave, sarà anche colpa mia quando tutto
andrà in pezzi.»
«Sparargli potrebbe essere d’aiuto.»
«Spero di no» replicò Holden, ma lo preoccupava il fatto che Amos potesse
avere ragione.
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo, non c’è risposta, ed esso cerca ancora di
comunicare. Non prova frustrazione, anche se alcune sue parti lo fanno. Non
è progettato per incorporare consapevolezza o volontà, ma per usare qualsiasi
cosa trovi. Le menti al suo interno sono incistate, isolate. Vengono utilizzate
quando servono, come tutto il resto, ed esso cerca di comunicare.
Non è un piano, non è neppure un desiderio, o è soltanto un desiderio senza
la conoscenza dell’oggetto che si desidera. È una pressione selettiva
esercitata contro il caos. Esso non pensa a sé stesso in quel modo perché non
pensa affatto, ma l’ambiente cambia, si apre una nuova branca di possibilità,
ed esso forma l’investigatore, si protende attraverso la nuova fessura. Il
nuovo spazio. La mente al suo interno interpreta questo in maniera diversa.
Come una mano che si protenda attraverso la terra di un cimitero. Come
trovare una porta in una stanza dove prima non ce n’era nessuna. Come una
boccata d’aria per una donna che sta annegando. Esso non è consapevole di
quelle immagini, ma la consapevolezza di esse è parte del suo essere.
L’investigatore esercita pressione sull’aborigeno, e l’aborigeno agisce.
L’ambiente cambia di nuovo. Schemi cominciano a corrispondere ad altri
schemi, ma non ci può essere riconoscimento perché esso non ha la
consapevolezza per riconoscere qualcosa. Se fosse consapevole, si
accorgerebbe che l’aborigeno accelera, rallenta, che i vettori passano da zero
a uno e a uno zero diverso in un luogo diverso, ma non è consapevole. Cerca
di comunicare.
Gli schemi combaciano, esso si orienta di nuovo e cerca di comunicare.
Fioriscono cascate di informazioni implicite, e le parti consapevoli di esso
vedono un loto che si apre in eterno, sentono un grido fatto di altre grida, che
sono fatte di altre grida, in un costrutto frattale di suono, pregano Dio per
avere una morte che non arriva.
Esso cerca di comunicare, ma i modi in cui si protende cambiano.
Improvvisa, come ha sempre fatto, l’insetto sussulta, la scintilla chiude il
varco, esso cerca di comunicare.
Tocca qualcosa, e per un momento una parte di esso che può avere
sensazioni prova speranza. Esso è inconsapevole della speranza. La risposta
non arriva. Non è finita. Non sarà mai finita. Esso cerca di comunicare e
trova cose nuove. Cose antiche. Fluisce in luoghi in cui è confortevole
muoversi. Ci sono risposte, e le risposte alimentano impulsi che le hanno
causate, e ci sono altre risposte. Tutto automatico e vuoto e morto nella stessa
misura in cui esso lo è. Nulla cerca di comunicare a sua volta. Esso non prova
delusione. Non si disattiva. Cerca di comunicare.
Esso non sperimenta la stanchezza, ma la stanchezza fa parte di esso. Cerca
di comunicare, precipitandosi nello spazio di quella nuova possibilità e
qualcosa nelle sue profondità, più vasto di quanto dovrebbe essere, lo osserva
protendersi per comunicare.
Porte e angoli. Esso cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di
comunicare. Porte e angoli.
Le cose potrebbero mettersi davvero male, ragazzo.
12
Basia

James Holden era arrivato troppo tardi.


Insieme a tutti gli altri coloni. Basia guardò la scia dei propulsori della
Rocinante illuminare il cielo di Ilus. Per lui era forse già troppo tardi. Aveva
fabbricato le bombe che avevano distrutto la navetta della RCE e ucciso il
governatore nominato dalle Nazioni Unite. C’era quando Coop e gli altri
avevano assassinato la squadra di sicurezza della RCE, e forse quelle erano
cose da cui era impossibile tornare indietro. Forse era già un uomo morto, o
destinato alla prigione a vita, il che in realtà era la stessa cosa. Nel guardare
quella linea di fuoco bianco nel cielo, però, non poté fare a meno di avvertire
una scintilla di speranza. Jim Holden aveva salvato i bambini di Ganimede.
Era arrivato troppo tardi per Katoa, ma aveva salvato gli altri. Aveva
abbattuto la società malvagia che aveva ucciso il suo bambino. Adesso la
Mao-Kwikowski e la Protongen non esistevano più grazie a Holden. E anche
se non lo aveva mai incontrato di persona, Basia aveva letto articoli e
guardato video che lo riguardavano. Creava uno strano senso di intimità,
veder sorridere e parlare sullo schermo l’uomo che aveva vendicato Katoa.
E quell’uomo stava arrivando a Ilus. Forse avrebbe potuto salvare anche lui.
Così, quando la linea luminosa svanì dal cielo, e lui seppe che Holden e il
suo equipaggio erano in orbita, Basia si permise di provare un’ondata di
speranza. La prima che avesse avvertito da molto tempo.
Quando poi sentì il rombo della navetta che scendeva verso il terreno corse
fuori come tutti gli altri coloni, per vedere dove sarebbe atterrata. «Il
mediatore delle Nazioni Unite sta arrivando!» si gridarono tutti a vicenda.
Ciò che intendevano era che si trattava dell’uomo che aveva salvato la Terra.
Che aveva salvato Ganimede. L’uomo che li avrebbe salvati.
Una piccola navetta scese dal cielo e si posò sul suolo polveroso a sud di
First Landing, e una metà della popolazione cittadina corse ad accoglierla,
Basia con gli altri.
La navetta toccò terra su cinque supporti tozzi, vibrante di calore. I cittadini
attesero in silenzio, troppo eccitati per parlare, poi una rampa si estese fino al
terreno e da essa scese un tozzo terrestre con i capelli grigi e il volto
profondamente segnato. Non era Holden. Che fosse un membro del suo
equipaggio? L’uomo però indossava un’armatura con il logo della RCE,
mentre si supponeva che Holden fosse un mediatore imparziale.
L’uomo si fermò a metà della rampa e rivolse loro un sorriso privo di
umorismo. Basia si rese conto che stava trattenendo il respiro, che lo stavano
facendo tutti.
«Salve» disse l’uomo. «Mi chiamo Adolphus Murtry, e sono il capo della
sicurezza della Royal Charter Energy.»
Quella che avevano visto entrare in orbita era dunque un’altra nave della
RCE? L’uomo discese la rampa, continuando a sfoggiare quel sorriso da
predatore, e la folla indietreggiò come un sol uomo. Basia indietreggiò con
gli altri.
«A causa dell’attacco contro la navetta che è costato la vita a molti
dipendenti della RCE e funzionari delle Nazioni Unite, assumo il controllo
diretto della sicurezza su questo mondo. E se vi sembra l’instaurazione della
legge marziale è perché si tratta di questo.» Murtry emise un fischio e altri
dieci agenti della sicurezza in armatura scesero la rampa, muniti di armi
automatiche e di pistole nella fondina. Non si vedeva un solo deterrente che
non fosse letale.
«Per favore,» continuò Murtry «tenete presente che a causa dell’attacco
contro la nostra prima squadra di sicurezza...»
«Nessuno ha dimostrato che siano stati attaccati!» gridò qualcuno, dalla
folla. Coop, era Coop, che si teneva indietro fra la calca, con le braccia
incrociate e un sorriso compiaciuto sulla faccia.
«A causa di quell’attacco,» proseguì Murtry «ho autorizzato i miei uomini a
‘sparare a vista’. Se dovessero sentirsi minacciati hanno il permesso di usare
una forza letale per eliminare la minaccia.»
Carol si fece largo fra la folla per affrontare Murtry ai piedi della rampa, e
Coop la seguì.
«Lei non è il governo, qui» dichiarò Carol, i tendini che le spiccavano sul
collo per l’ira. Aveva le mani serrate a pugno, ma le tenne lungo i fianchi.
«Non può atterrare qui con un sacco di fucili e dire che ha il diritto di
spararci. Questo è il nostro mondo.»
«Esatto!» gridò Coop, e si girò verso la folla, invitandola a unirsi a lui.
«No» ribatté Murtry, senza smettere di sorridere. «Non lo è.»
Un rombo come di tuono squarciò l’aria quando un’altra nave scese
nell’atmosfera e atterrò a ovest della città. Murtry guardò appena in quella
direzione. Arrivano altre truppe, pensò Basia.
Intanto Murtry cominciò a camminare verso la città, con i suoi uomini che
lo seguivano e la folla che si spostava intorno a essi come una nuvola. Carol
continuava a parlare, ma le sue parole non avevano effetto. Murtry si limitava
a sorridere e ad annuire senza rallentare il passo. La nave che era atterrata sul
lato opposto della città tornò a decollare in una colonna di vapore bianco e
scomparve alla vista, mentre il ruggito dei suoi motori pervadeva il mondo.
Quando raggiunsero il centro della città, Basia vide Jacek che gironzolava
intorno al perimetro della folla. Lo afferrò per un braccio, strattonandolo con
più forza di quanto fosse stata sua intenzione, e il ragazzo emise uno strillo
spaventato.
«Papà, sono nei guai?» chiese, mentre Basia lo trascinava via.
«Sì» gridò Basia, poi vide gli occhi del bambino che si riempivano di
lacrime e si lasciò cadere in ginocchio davanti a lui. «No. No, figliolo, non
sei nei guai, ma ho bisogno che tu vada a casa.»
«Ma...» cominciò Jacek.
«Niente ma.» Basia gli diede una spinta gentile verso la nostra abitazione.
«Vai a casa.»
«Quell’uomo ci ucciderà?» chiese Jacek.
«Quale uomo?» ribatté Basia, ma stava solo temporeggiando. Sapeva di
quale uomo si trattasse. Perfino il suo bambino poteva fiutare l’odore di
morte che emanava da Murtry e dalla sua gente. «No, nessuno ci ucciderà.
Vai a casa.»
Basia guardò Jacek avviarsi verso casa e attese di vederlo entrare e chiudere
la porta. Stava tornando verso la folla quando risuonò lo sparo.
Il suo primo pensiero fu: Jacek aveva ragione. Ci stanno ammazzando.
Non noi, si corresse subito dopo, quando ebbe raggiunto la folla. Soltanto
Coop, che giaceva nella polvere con un foro rosso dove ci sarebbe dovuto
essere un occhio e il sangue che gli si raccoglieva sotto la testa.
E Holden era lì, con la mascella serrata e gli occhi dilatati.
Troppo tardi, pensò Basia. È di nuovo troppo tardi.
Guardie armate di mitragliatrici pattugliavano le strade di First Landing.
Basia e Lucia sedevano sul loro piccolo portico anteriore e li guardavano
passare nella luce sempre più fioca della sera. Un uomo e una donna,
entrambi con indosso un’armatura che recava il logo rosso e blu della RCE.
Entrambi muniti di armi automatiche. Entrambi con un’espressione dura sul
volto.
«Questa è opera mia» disse Basia.
Lucia gli strinse la mano. «Bevi il tuo tè, Baz.»
Basia abbassò lo sguardo sulla tazza di tè che gli si raffreddava tra le mani.
Tutto il tè che la piccola colonia avrebbe forse mai potuto avere era arrivato a
terra con loro sulle navette. Sprecare un simile lusso era impensabile, quindi
sorseggiò la bevanda ormai tiepida senza avvertirne il sapore.
«Sarò il prossimo.»
«Forse.»
«O mi metteranno in prigione per sempre, mi allontaneranno dalla mia
famiglia.»
«Ti sei allontanato da solo quando ti sei unito a quella stupida gente
violenta che ha fatto esplodere la navetta» ribatté Lucia. «Li hai portati fino
alle rovine dove hanno ucciso la gente della RCE. Hai fatto tu ogni scelta che
ti ha portato in questa situazione. Io ti amo, Basia Merton. Ti amo fino a
farmi dolere il cuore, ma sei un uomo molto, molto stupido. E quando ti
porteranno via, non ti perdonerò.»
«Sei una donna dura.»
«Sono un dottore» replicò Lucia. «Sono abituata a dare cattive notizie alla
gente.»
Basia bevve il resto del tè prima che finisse di raffreddarsi. «Potrei prendere
un po’ di corda o una catena dal sito dello scavo, e magari appendere qui una
panca. Poi ci potremmo dondolare mentre stiamo seduti.»
«Sarebbe bello» disse Lucia. Le due guardie della RCE raggiunsero il fondo
della strada e si girarono per tornare indietro. Con il sole che stava per
scomparire oltre l’orizzonte, le loro ombre erano lunghe quasi quanto la città
stessa.
«Ci siamo concentrati sull’estrazione del litio per fare soldi» continuò
Basia. «Ora però dobbiamo cominciare a pensare alle nostre esigenze
energetiche.»
«È vero.»
«Non possiamo farci portare cellule di energia dalla Barbapiccola in eterno.
E un giorno quella nave tornerà a Pallas per vendere il minerale, quindi non
l’avremo qui per un paio di anni.»
«Anche questo è vero» convenne Lucia. Fece vorticare nella tazza quanto
restava del suo tè e sollevò lo sguardo verso le stelle. «Mi manca avere Giove
là nel cielo.»
«Era splendido» annuì Basia. «Stanotte, dopo che farà buio, devo
incontrarmi con Cate e con gli altri.»
«Baz...» cominciò Lucia, poi si interruppe con un triste sospiro.
«Vorranno vendicare Coop, e questo peggiorerà le cose.»
«Mi chiedo che aspetto possa avere il peggio» ribatté Lucia.
Basia rimase seduto in silenzio, pensando al dondolo che poteva costruire
sul loro portico. Ad aggiungere un riscaldatore per l’acqua più grande per
poter fare bagni caldi. A costruire una cucina più grande e una zona pranzo
sul retro della casa. A tutte le cose che ormai non avrebbe potuto fare.
Le guardie erano in fondo alla lunga strada della città, quasi invisibili
nell’armatura scura e con la luce che andava scomparendo. Basia si alzò per
andarsene.
«Puoi impedire loro di uccidere qualcun altro?» chiese Lucia, come se gli
stesse domandando se voleva altro tè.
«Sì» replicò Basia. Quella parola sapeva di menzogna.
«Allora vai.»
Si riunirono a casa di Cate. C’erano Pete, Scotty e Ibrahim. Venne perfino
Zadie, che aveva lasciato a casa la moglie Amanda a occuparsi del loro
bambino e del suo occhio infetto. Non era un buon segno. Fra tutti loro, Zadie
era la più rabbiosa, la testa più calda. Basia aveva lavorato con lei su
Ganimede, e più di una volta si era presentata al mattino con un occhio nero o
un labbro spaccato per una rissa che aveva scatenato in qualche bar la notte
precedente. Erano tutti turbati, tutti in piedi sull’orlo di un precipizio e sul
punto di buttarsi, ma Zadie sarebbe stata la più difficile da dissuadere.
«Hanno sparato a Coop» disse Cate, dopo che fu entrato anche Scotty,
l’ultimo ad arrivare. Non era un’affermazione, perché c’erano tutti, avevano
visto. No. Era l’inizio di una giustificazione.
«A sangue freddo» aggiunse Zadie, sottolineando le parole con il picchiarsi
il pugno sul palmo. «Lo abbiamo visto tutti. Gli ha sparato in faccia davanti a
Dio e a tutti noi.»
«Quindi abbiamo un piano» riprese Cate. «La gente della RCE è rintanata
in...»
«Chi ti ha dato il comando?» chiese Zadie.
«Lo ha fatto Murtry.»
Zadie socchiuse gli occhi ma lasciò cadere la questione. Seduto a
un’estremità del divano di Cate, Basia prese ad agitarsi. Era una struttura fatta
a mano, coperta con imbottitura rimossa dalla nave e i resti malamente cuciti
del tessuto che facevano produrre al fabbricatore una volta al mese per il
vestiario e le altre necessità. Cate aveva costruito un piccolo tavolo con
l’analogo locale del legno e lo aveva messo accanto al divano. Non era del
tutto orizzontale, e il bicchiere d’acqua di Basia appariva notevolmente
inclinato. Alle pareti erano appese immagini dei familiari di Cate, due sorelle
che vivevano ancora nella Fascia, e i loro figli. Sul pavimento c’era un vaso
di terracotta contenente stecchi e rami che Basia ritenne essere una sorta di
decorazione e non legna da ardere.
Era un luogo troppo domestico per il genere di riunione che stavano
facendo. Aveva un che di irreale, il fatto che lui e cinque persone che
conosceva stessero discutendo di assassinare una dozzina di guardie, seduti lì
nel salotto di Cate, accanto al suo vaso pieno di stecchi.
Scotty stava parlando, diceva loro di aspettare, ma quella non era la voce
della ragione, era solo la voce della paura. Pete era dalla sua parte, e
sosteneva che non bisognava aggravare la situazione. Cate e Zadie li zittirono
gridando. Ibrahim non disse nulla, continuò a tormentarsi il labbro inferiore
fissando il pavimento con aria accigliata.
«Credo che dobbiamo aspettare Holden» affermò Basia, durante una pausa
della conversazione.
«Holden è qui da un giorno. Cosa stiamo aspettando?» ritorse Cate, con
voce che grondava rabbioso sarcasmo.
«Ha bisogno di tempo per incontrarsi con noi, familiarizzare con la
situazione» spiegò Basia, anche se quelle parole suonavano deboli ai suoi
stessi orecchi. «Lui però è il mediatore, può parlare direttamente con il
consiglio di governo dell’APE e con le Nazioni Unite. I suoi consigli avranno
peso effettivo. Abbiamo bisogno di averlo dalla nostra parte.»
«L’APE?» ringhiò Zadie. «Le Nazioni Unite? E cosa faranno per noi,
esattamente? Ci manderanno una lettera piena di belle parole? Murtry e i suoi
scagnozzi sono proprio qui!» Zadie puntò il dito verso la parete, la strada al
di là di essa, le guardie con le loro mitragliatrici. «Quanti dei nostri dovranno
uccidere prima che cominciamo a difenderci?»
«Noi abbiamo cominciato a ucciderli per primi» ribatté Basia, e rimpianse
immediatamente quelle parole. Tutti presero a gridare, prevalentemente
contro di lui. Si alzò in piedi. Sapeva di avere un fisico imponente, massiccio
e con un collo taurino, più grosso di chiunque altro nella stanza, e venne
avanti fino a costituire una minaccia fisica, augurandosi che le sue dimensioni
bastassero a intimorirli. Era quasi certo che Cate avrebbe potuto pestarlo a
morte, se avesse deciso di farlo. «Chiudete il becco!» Gli altri obbedirono.
«Qui abbiamo una possibilità,» proseguì, abbassando a fatica la voce «ma è
così fragile. Abbiamo ucciso la gente della RCE.»
«Io non ero...» cominciò Zadie, ma Basia la zittì con un gesto.
«Loro hanno ucciso Coop. Al momento, sono convinti di aver messo in
chiaro le loro intenzioni, quindi non uccideranno nessun altro, a patto che non
li provochiamo. Per il momento siamo in una situazione di equilibrio, e se
nessuno farà niente per alterare questo equilibrio in un senso o nell’altro,
Holden potrà fare quello per cui è stato mandato qui. Potrà aiutarci a risolvere
questo pasticcio senza altra violenza.»
Cate sbuffò e distolse lo sguardo, ma Basia la ignorò. «Io sono con voi in
tutto questo. Ho da perdere tanto quanto voi, però vogliamo che quest’uomo
sia dalla nostra parte. Ha visto Murtry assassinare uno di noi, ma non ci ha
mai visti fare niente. Attualmente abbiamo il vantaggio di apparire come le
vittime, non facciamogli cambiare idea al riguardo.»
Per un lungo momento Basia rimase in piedi nel centro della stanza,
ansimando per l’emozione, e nessuno parlò.
«D’accordo» disse infine Ibrahim. Un tempo era stato un soldato, gli altri lo
rispettavano. Quando infine prese la parola, lo fece con un tono di autorità.
Cate si accigliò, ma non disse niente.
«D’accordo?»
«D’accordo, grand’uomo» ripeté Ibrahim. «Per ora faremo a modo tuo. Vai
a parlare con questo Holden, portalo dalla nostra parte. È stato lui a trovare il
tuo ragazzo, sa sa? Usa questo appiglio.»
Basia avvertì un’ondata di rabbia e di vergogna nel sentir menzionare Katoa
e suggerire che lo usasse con Holden, ma si sforzò di reprimerla. Ibrahim
aveva ragione. Questo gli avrebbe dato qualcosa di cui parlare con Holden e
lo avrebbe fatto apparire solidale con lui.
«Gli parlerò domani» disse, ricacciando indietro l’improvviso senso di
nausea che lo aveva assalito.
«Adesso dipende da te, grand’uomo» ribatté Ibrahim. Suonava come una
minaccia.
Basia tornò a casa nel buio assoluto della notte di Ilus, desiderando di aver
pensato a portarsi dietro una luce, di non aver mai fatto esplodere una navetta
piena di gente e aiutato Coop ad assassinare le guardie della RCE.
Desiderando che sua moglie non fosse infuriata con lui e non avesse ragione
a esserlo. Desiderando che Katoa fosse ancora vivo, che tutti loro abitassero
ancora nella loro casa su Ganimede e che nessuno avesse mai messo piede su
Ilus.
Inciampò in un sasso e cadde in avanti, sbucciandosi un ginocchio. Non
c’era modo di rimediare alle altre cose, ma almeno avrebbe potuto pensare di
portarsi dietro un lume.
Lucia aveva lasciato una luce accesa in casa. Senza di essa, lui avrebbe
potuto continuare a camminare senza rendersi conto di essere arrivato. Se non
altro, lei voleva che tornasse a casa, lasciava una luce per far sì che
succedesse. Per la prima volta da molto tempo, Basia si trovò a sorridere.
Una figura indistinta saettò nella luce fioca, aggirando la casa per
raggiungere la porta posteriore. Prima di avere il tempo di pensarci Basia si
mise a correre. La figura alla porta si ritrasse, più piccola di lui e terrorizzata.
Felcia.
«Papà! Mi hai spaventata!»
«Oh, piccola, mi dispiace davvero. Non ho visto che eri tu, ho solo visto
qualcuno aggirare di soppiatto la casa e sono arrivato di corsa.»
Felcia gli sorrise. Aveva gli occhi umidi, il labbro le tremava, ma si
mostrava coraggiosa.
«D’accordo, ora entro.»
«Felcia.» Basia posò una mano sulla porta per tenerla chiusa. «Perché
rientri in casa di soppiatto nel cuore della notte?»
«Ero fuori, a passeggiare.» Lei distolse lo sguardo, incapace di incontrare il
suo.
«Per favore, piccola, dimmi che si tratta di un ragazzo.»
«Si tratta di un ragazzo» rispose lei, continuando a non guardarlo.
«Felcia.»
«Andrò su con la prossima navetta, papà» dichiarò, guardandolo infine
negli occhi. «Ci andrò. Quando James Holden li costringerà a lasciar partire
la Barbapiccola, partirò anch’io. Da Pallas posso prendere un trasporto per
Ceres. La mamma chiamerà il suo vecchio mentore alla CUMA per farmi avere
un colloquio per il programma di medicina alla Hadrian, su Luna.»
Basia si sentì come se qualcuno gli avesse sferrato un pugno al plesso
solare. Il dolore allo stomaco gli tolse il respiro.
«Ho intenzione di andare, papà.»
«No, non lo farai» rispose Basia.
13
Elvi

Il nonno di Elvi si era risposato avanti negli anni. Il nuovo marito era stato
un tedesco con una risata allegra, una barba bianca come la neve e un allegro
cinismo per quanto riguardava l’umanità. Quello che lei ricordava meglio di
nonno Raynard era la prontezza con cui se ne usciva con un epigramma o una
battuta. Ne aveva uno per ogni occasione, e lei trovava che lo facesse
apparire navigato e saggio, in parte perché molto spesso non sapeva bene
cosa volesse dire.
Una cosa che diceva sempre era: ‘Una volta è mai. Due volte è sempre.’
Quando la navetta era precipitata, lei aveva capito – lo avevano capito tutti
– che qualcuno aveva messo dell’esplosivo sotto la piattaforma, ma
l’esperienza che aveva avuto con i coloni cinturiani a cominciare da quella
stessa notte era stata così diversa che quella consapevolezza e il suo impatto
emotivo erano diventati qualcosa di distaccato. Qualcuno fra i cinturiani
aveva fatto una cosa terribile, ma quella persona era senza faccia, anonima,
irreale. La dottoressa Merton che faceva tutto il possibile per salvare e
tranquillizzare i feriti era stata quanto mai reale. Sua figlia Felcia, che si
trovava nel punto più lontano dalla Terra che l’umanità avesse mai raggiunto
ed era attirata di nuovo verso Luna dalle sue ambizioni, era reale. Lo erano
Anson Kottler e sua sorella Kani, che l’avevano aiutata a montare la sua
capanna, e Samish Oe, con quel suo sorriso sciocco. E Carol Chiwewe,
Eirinn Sanchez. Erano stati tutti così gentili che lei aveva archiviato la morte
del governatore come un’anomalia. Qualcosa di tanto raro che non si sarebbe
mai più ripetuto.
Ma la scomparsa di Reeve e della squadra di sicurezza erano un secondo
evento, e adesso il modo in cui Elvi vedeva la colonia, gli scienziati della RCE
e la sua piccola capanna al limitare della pianura era diverso. Perché la
minaccia di violenza aveva cessato di essere un mai. Adesso era un sempre.
«Ha visto niente altro?» chiese Murtry.
«No» rispose Elvi. «Non credo.»
«Dottoressa Okoye, so che questo è stato spiacevole per lei,» insistette il
capo della sicurezza «ma ho bisogno che cerchi di ricordare se ha visto altro
mentre era laggiù. La persona che ha visto tornare indietro. Può dirmi se era
un uomo o una donna?»
Naturalmente, non era così che funzionava la memoria. Imporsi di ricordare
qualcosa, mettersi sotto pressione, aveva molte più probabilità di generare un
falso ricordo e aggiungere dati sbagliati che non di far riaffiorare qualche
dettaglio rivelatore che aveva mancato di menzionare. Pareva scortese
spiegarlo a Murtry, quindi si limitò a scrollare il capo.
«Mi dispiace» disse.
«Va tutto bene» rispose lui, con un tono di voce che lasciava trasparire il
suo forte disappunto. «Se le dovesse venire in mente altro, per favore me lo
riferisca.»
«Lo farò.»
«Si sente bene?»
«Suppongo di sì. Perché?»
«Anche il mediatore delle Nazioni Unite ha chiesto di parlare con lei»
replicò Murtry. «Se non vuole, però, non è costretta a farlo. Dica una sola
parola e gli riferirò di andare al diavolo.»
«No, non mi dispiace» rispose Elvi. James Holden mi vuole parlare?,
pensò. «Devo... voglio dire, c’è qualcosa in particolare che dovrei riferirgli?
Riguardo al lavoro, intendo.»
La verità era che voleva soltanto uscire dagli uffici della sicurezza. La
giornata di trentaquattro ore di Nuova Terra le rendeva difficile valutare con
esattezza quanto tempo vi avesse passato, ma era arrivata da Reeve con il
buio, e quella notte aveva dormito in una delle celle. Era rimasta lì mentre
Murtry e le sue guardie atterravano e mettevano in sicurezza la città, e adesso
era di nuovo mattina. Due giorni, quindi, di Nuova Terra. Forse tre, sulla
Terra. Cosa significasse esattamente il termine ‘giorno’ non era più intuitivo.
«Il capitano Holden ha bisogno di capire con esattezza quanto sia brutta la
nostra situazione qui» spiegò Murtry. «È arrivato con l’idea che qui ci siano
due fazioni, quindi vuole stabilire una specie di differenza. Apprezzerei
moltissimo qualsiasi cosa lei possa fare per aiutarlo a capire che quella non è
una soluzione applicabile.»
«Oh» commentò Elvi. «Sì, certo.»
«Grazie.»
«Posso chiedere una cosa?»
Murtry inarcò le sopracciglia e inclinò la testa verso di lei. Non disse
esplicitamente un sì, signora?, ma lo sottintese con il suo atteggiamento.
«Le mie ricerche sono ancora nella mia capanna» spiegò Elvi. «Stavo
facendo degli studi quando sono venuta a parlare con... quando sono venuta
qui. La mia capanna è off-limits, oppure posso andare a prenderli?»
«Può tornare» dichiarò Murtry. «Sa qual è la sola cosa che non succederà
qui, dottoressa? Non cederemo un solo dannato centimetro di terreno. Chi ha
fatto questo non vincerà.»
«Grazie» disse Elvi.
L’espressione di Murtry si indurì per un momento. Il suo sguardo si fece
piatto nel modo che Elvi associava agli animali da laboratorio che venivano
sacrificati. Sembrava morto.
«Non c’è di che» rispose.
Nel camminare lungo la strada della città, Elvi avvertì una fitta di disagio,
ma meno intensa di quanto si fosse aspettata. Il piccolo assedio di cui era
stata vittima nell’ufficio della sicurezza mentre aspettavano l’arrivo della
squadra di soccorso era stato un’esperienza cupa e spaventosa, ma adesso
facce familiari si erano mescolate a quelle dei locali. Due donne nella tenuta
antisommossa della sicurezza della RCE procedevano lungo la strada in senso
contrario al suo, impugnando con disinvoltura i fucili da assalto. Il solo
vederle la fece sentire più sicura. Ed era arrivato anche Holden. Di certo le
cose non erano ancora andate a posto, ma ci si stavano avvicinando. Stavano
migliorando. Per ora, sarebbe dovuto bastare.
Un’altra guardia era di stanza all’ingresso dell’emporio, un fucile fra le
mani.
«Dottoressa Okoye» salutò, invitandola a entrare con un cenno.
«Mr Smith» salutò a sua volta.
Nelle settimane trascorse da quanto era arrivata a Nuova Terra era stata
molte volte nell’edificio dello spaccio. A parte i piccoli incontri intimi nelle
capanne di ricerca e le riunioni cittadine formali nella sala comune, quello era
il solo posto in cui andare a meno che non fosse diventata religiosa. Vide –
percepì – immediatamente come la presenza di James Holden avesse
cambiato la natura di quel luogo. Prima era stato un luogo comune, pubblico
quanto poteva esserlo un parco municipale, senza nessuna presenza umana
che esercitasse un particolare controllo. Adesso un uomo sedeva a un tavolo
in fondo alla stanza, proprio come fosse stato un cittadino venuto a mangiare
una ciotola di riso e a bere una birra. Se ne stava seduto lì, con i gomiti
appoggiati sul tavolo, a parlare con Fayez, e tuttavia dominava lo spazio
circostante. Lo possedeva. Quello che era appartenuto a tutti era adesso il
dominio indiscusso di James Holden. Elvi sentì lo stomaco che le si
contraeva leggermente e il respiro che le si accelerava per l’ansia.
Aveva visto Holden nei notiziari. All’inizio della guerra fra Marte e la
Fascia, lui era stato l’uomo più importante del sistema solare e la sua
celebrità, pur avendo alti e bassi nel corso degli anni, non era mai svanita.
James Holden era un’icona. Per alcuni, era il trionfo della nave singola sui
governi e le società. Per altri era un agente del caos che scatenava guerre e
minacciava la stabilità in nome della purezza ideologica. Qualsiasi cosa la
gente pensasse delle sue intenzioni, però, era indubbio che fosse importante.
Era l’uomo che aveva salvato la Terra dalla protomolecola, che aveva
abbattuto la Mao-Kwikowski, che aveva stabilito il primo contatto con il
manufatto alieno e aperto i portali che davano accesso a mille mondi diversi.
Visto di persona appariva diverso dalla sua immagine sullo schermo. Il
volto era pur sempre ampio, ma non così tanto. La pelle aveva un calore che
neppure anni trascorsi nell’interno senza sole di un’astronave potevano
cancellare. I capelli castano scuro avevano una spolverata di grigio sulle
tempie, ma i suoi occhi erano dello stesso blu intenso degli zaffiri. Mentre lo
osservava, Holden si sfregò una mano sul mento, annuendo in risposta a
qualcosa che Fayez stava dicendo. Era un gesto inconscio propriamente
maschile che indusse Elvi a pensare a grandi animali – leoni, gorilla, orsi. In
esso non c’era nessun senso di minaccia, solo di potere, e lei si trovò a essere
estremamente consapevole che l’uomo che aveva finora visto solo come
un’immagine su uno schermo esalava le stesse molecole che lei inspirava.
«Si sente bene?»
Elvi sussultò. L’uomo che le aveva fatto quella domanda era enorme,
pallido e muscoloso. La sua testa rasata e il ventre pronunciato lo facevano
apparire come un neonato gigantesco. Le posò una mano sulla spalla come
per sorreggerla.
«Bene?» replicò lei, in tono interrogativo.
«Per un momento ha avuto un’aria strana. È sicura di sentirsi bene?»
«Dovrei incontrare il capitano Holden» disse Elvi, cercando di ritrovare il
controllo. «Mi chiamo Elvi Okoye, e sono della RCE. Sono un’esobiologa
della RCE.»
«Elvi!» chiamò Fayez, segnalandole di avvicinarsi.
Salutato con un cenno l’uomo pallido, Elvi si avvicinò al tavolo a cui erano
seduti Fayez e Holden. Lo sguardo di James Holden era appuntato su di lei.
«Questa è Elvi» la presentò Fayez. «Ci conosciamo dai tempi
dell’università superiore.»
«Come sta?» disse Elvi, con voce che suonò falsa e metallica ai suoi stessi
orecchi. Si schiarì la gola.
«Piacere di conoscerla» replicò Holden, alzandosi in piedi per porgerle la
mano. Elvi la strinse come avrebbe fatto incontrando chiunque altro, e si sentì
molto orgogliosa di sé stessa per quello.
«Siediti» le disse Fayez, tirando indietro una sedia per lei. «Stavo giusto
parlando al capitano del problema delle risorse.»
«Non è ancora un problema, ma lo diventerà» precisò Elvi.
Holden sospirò, intrecciando le dita. «Spero ancora che si possa arrivare a
negoziare una soluzione che sia equa per tutte le parti coinvolte.»
Elvi si accigliò e inclinò il capo da un lato. «Come potrebbe fare?»
Holden inarcò le sopracciglia. Fayez si protese verso Elvi.
«Stavamo parlando di risorse come il litio e il denaro» spiegò, poi tornò a
rivolgersi a Holden. «Lei si riferiva ad acqua e sostanze nutritive. Contesti
diversi.»
«Non c’è abbastanza acqua?» chiese Holden.
«Ce n’è» rispose Elvi, augurandosi che il suo rossore non si notasse. Era
ovvio che stessero parlando delle miniere di litio, avrebbe dovuto saperlo.
«Voglio dire, c’è acqua a sufficienza, e sostanze nutritive, ma in un certo
senso è un problema. Qui siamo nel bel mezzo di una biosfera del tutto
sconosciuta. In questo posto tutto è diverso da ciò con cui siamo abituati ad
avere a che fare. Quello che intendo è che pare che qui la vita sia veramente
bi-chirale.»
«Davvero?» commentò Holden.
«Nessuno sa cosa significa, Elvi» commentò Fayez.
Holden finse cortesemente di non averlo sentito. «Ma gli animali e gli
insetti appaiono tutti... ecco, non appaiono certo familiari, ma hanno gli occhi
e tutto il resto.»
«Sono sottoposti alla stessa pressione selettiva» spiegò Elvi. «Alcune cose
sono semplicemente una buona idea. Sulla Terra, gli occhi si sono evoluti
quattro o cinque volte in modi diversi. Il volo almeno tre volte. La maggior
parte degli animali mette la bocca vicino agli organi sensoriali. Il livello di
somiglianze morfologiche su larga scala, considerate le sottostanti differenze
biochimiche, è ciò che rende tanto incredibile questa opportunità di ricerca. I
dati che sono riuscita a spedire da quando siamo qui sarebbero sufficienti per
alimentare le ricerche per una generazione, e per ora ho appena grattato sotto
la superficie.»
«E il problema delle risorse?» chiese Holden. «Di quali risorse ha
bisogno?»
«Non si tratta di quelle di cui abbiamo bisogno» rispose Elvi. «Si tratta
delle risorse che noi costituiamo. Dal punto di vista dell’ambiente locale, noi
siamo bolle di acqua, ioni e molecole ad alta energia. Non abbiamo
esattamente il sapore che viene gradito da queste parti, ma è solo questione di
tempo prima che qualcosa capisca come sfruttarci.»
«Come un virus?» domandò Holden.
«I virus sono molto più simili a noi di quello che vediamo qui» replicò Elvi.
«Hanno acidi nucleici. RNA. Si sono evoluti con noi. Quando qui qualcosa
capirà come accedere a noi come risorse, probabilmente agirà in un modo
paragonabile all’estrazione mineraria.»
Holden aveva un’espressione sgomenta. «Estrazione mineraria» ripeté.
«Per il momento abbiamo il vantaggio di essere una biosfera più antica. Per
quanto ho potuto vedere, qui le cose non hanno cominciato davvero a
evolversi fino a un periodo fra un miliardo e mezzo e due miliardi di anni fa.
Abbiamo prove molto evidenti che noi abbiamo un vantaggio di almeno un
buon miliardo di anni su queste cose. E alcune delle nostre strategie
potrebbero funzionare contro di loro. Se riusciamo a costruire anticorpi che
contrastino le proteine usate dalla biosfera locale, potremmo riuscire a
combatterla come una qualsiasi infezione.»
«O forse no» commentò Fayez.
«Parte del motivo per cui sono venuta qui, per cui ho acconsentito a questo,
è stato che avremmo fatto le cose nel modo giusto.» Elvi sentì la tensione che
le affiorava nella voce. «Avremmo creato un ambiente sigillato. Una cupola.
Avremmo esplorato il pianeta, imparato da esso e saremmo stati responsabili
di come lo trattavamo. La RCE ha mandato degli scienziati, dei ricercatori. Sa
quanti di noi hanno certificazioni di sostenibilità e conservazione? Cinque
sesti. Cinque sesti.»
La sua voce era salita di tono più di quanto fosse stata sua intenzione, i suoi
gesti si erano fatti più marcati e le sue parole vibravano di indignazione. Gli
occhi di Holden, di un blu irreale, erano fissi su di lei e poteva avvertire che
la ascoltava come se la sua attenzione fosse stata una sorta di emanazione. A
livello intellettuale, sapeva cosa stava succedendo. Era spaventata e ferita, e
si sentiva colpevole per essere stata quella che aveva mandato Reeve e gli
altri incontro al pericolo. Era riuscita a ignorare il tutto, ma adesso stava
affiorando. Stava parlando di biologia e di scienza, ma quello che intendeva
dire era: ‘Mi aiuti. Sta andando tutto per il verso sbagliato e nessuno mi può
aiutare. Nessuno tranne lei.’
«Solo che quando è arrivata qui c’era già una colonia» osservò Holden. La
sua voce era come flanella calda. «E una colonia formata da un mucchio di
persone che hanno un sacco di buone ragioni per diffidare delle società. E dei
governi.»
«Qui sembra tutto calmo» disse Elvi. «Sembra splendido. E lo è. E ci
insegnerà cose che non abbiamo mai neanche sognato prima. Ma lo stiamo
facendo nel modo sbagliato.»
Fayez sospirò. «Ha ragione» disse. «Voglio dire, mi piace parlare del litio,
dei diritti morali e dei problemi legali quanto chiunque altro. Però Elvi non
sbaglia nel dire quanto sia strano questo posto se cominciamo a esaminarlo
con attenzione, e ha un sacco di aspetti molto pericolosi a cui non stiamo
prestando alcuna attenzione perché, come sa, siamo impegnati ad ammazzarci
a vicenda.»
«Ho capito quello che state dicendo» replicò Holden. «Avrò bisogno di
esaminare la cosa. La parte in cui la gente si sta ammazzando a vicenda deve
essere la mia priorità, ma prometto a entrambi di mettere in lista la creazione
di una cupola planetaria chiusa e sicura non appena questa crisi sarà rientrata,
indipendentemente da chi finisca per avere il controllo di tutto.»
«Grazie» disse Elvi.
«La maggior parte degli abitanti di qui è brava gente» aggiunse Fayez. «I
cinturiani? Siamo qui da mesi e giuro che perlopiù queste persone sono solo
poveri bastardi che hanno pensato che ricominciare daccapo fosse una buona
idea. E la Royal Charter è una società molto, molto responsabile. Guardi alla
sua storia e non troverà più corruzione e tangenti di quante ce ne siano in una
comune associazione genitori-insegnanti. Si stanno davvero sforzando di fare
le cose nel modo giusto.»
«Lo so» annuì Holden. «E vorrei che questo rendesse le cose più facili.»
«Capitano?» chiamò l’enorme uomo-neonato.
«Amos?»
«C’è un altro casino di stronzate legali che è appena arrivato dalle Nazioni
Unite per te.»
Holden sospirò. «Ci si aspetta che lo legga?»
«Non vedo come possano costringerti a farlo» ribatté Amos. «Ho solo
pensato che avresti voluto ignorarlo intenzionalmente.»
«Grazie. Più o meno.» Holden tornò a rivolgersi ai due scienziati. «Temo di
dovermi occupare di burocrazia per un po’, ma vi ringrazio moltissimo per
essere venuti. Sentitevi liberi di venire a parlare con me quando volete.»
Fayez si alzò ed Elvi lo imitò mezzo secondo più tardi. Lui strinse la mano
a entrambi, poi si ritirò in una stanza sul retro. Fayez uscì in strada con Elvi, e
Hassan Smith e il suo fucile li salutarono quando gli passarono accanto.
Il sole splendeva nel cielo tinto di azzurro dall’ossigeno. Elvi sapeva che
era un po’ troppo piccolo, che il suo spettro di luce tendeva verso l’arancione,
ma ormai le era familiare, come lo erano le giornate di trentaquattro ore e la
sua piccola capanna. Fayez si incamminò con lei.
«Torni alla tua capanna?» chiese.
«Dovrei» rispose Elvi. «Non ci sono più stata da quando sono andata a
parlare con Reeve. Sono sicura che tutti i miei set di dati sono ultimati. E
probabilmente troverò un mucchio di messaggi infuriati da casa.»
«Sì, è probabile» convenne Fayez. «Quindi stai bene?»
«Oggi sei la terza persona che me lo chiede» ribatté Elvi. «Mi comporto
come se avessi qualcosa che non va?»
«Un poco» confermò Fayez. «Ma hai il diritto di essere sconvolta.»
«Sto bene» garantì Elvi. La mano le formicolava ancora un poco dove
Holden l’aveva stretta nella sua. Si massaggiò la pelle. In fondo alla strada
una ragazza cinturiana camminava in fretta con la testa china e le mani
affondate nelle tasche. Fermi alle sue spalle, Murtry e Chandra Wei la
guardavano con sospetto, il fucile in mano. Il vento che soffiava dalla pianura
sollevava piccoli vortici di polvere negli angoli dei vicoli. Elvi voleva tornare
alla sua capanna e non lo voleva. Voleva risalire sulla Edward Israel e
tornare a casa, eppure non avrebbe lasciato Nuova Terra per tutto l’oro del
mondo. Ricordava di essere stata molto, molto giovane e terribilmente
sconvolta per qualcosa, di aver pianto sulla spalla di sua madre dicendo che
voleva andare a casa, solo che era già a casa quando lo aveva detto. E adesso
voleva la stessa cosa.
«Non lo fare» ammonì Fayez.
«Cosa non devo fare?»
«Innamorarti di Holden.»
«Non so di cosa stai parlando» scattò lei.
«In questo caso, sul serio, non lo fare» ribatté Fayez, con una risata cinica, e
si allontanò.
14
Holden

«Questo è il primo incontro di arbitrato coloniale» disse Holden, guardando


verso la videocamera in fondo al tavolo. «Il mio nome è James Holden. La
rappresentante della colonia di Nuova Terra...»
«Ilus» lo corresse Carol.
«...è Carol Chiwewe, amministratrice della colonia. Il rappresentante della
Royal Charter Energy è il capo della sicurezza, Adolphus Murtry.»
«Come è successo, esattamente?» chiese Carol, fissando Murtry con
espressione indecifrabile. Holden ebbe la sensazione che potesse essere
un’ottima giocatrice di poker.
Murtry sorrise con espressione altrettanto indecifrabile. «Cosa intende
dire?»
«Sa esattamente cosa intendo dire» scattò di rimando Carol. «Cosa ci fa
qui? Lei è un dipendente addetto alla sicurezza. Non ha nessuna autorità
per...»
«Mi avete messo voi in questa stanza quando avete ucciso il governatore
coloniale» ribatté Murtry. «Lo ricorda? Una grande esplosione? La navetta
che si è schiantata? Sarebbe stato difficile non notarlo.»
Holden sospirò e si appoggiò allo schienale della scomoda sedia. Li avrebbe
lasciati battibeccare per un po’, sfogare un po’ del veleno che avevano
accumulato, poi sarebbe intervenuto e avrebbe riportato la discussione in
carreggiata.
La RCE si era offerta di ospitare i negoziati sulla sua navetta o sulla Edward
Israel, soluzione che sarebbe stata molto più comoda, ma la colonia aveva
preteso che l’incontro si tenesse a First Landing, il che significava che invece
di sedie automodellanti imbottite di gel stavano usando qualsiasi mostruosità
in metallo e plastica la colonia avesse a disposizione. Il tavolo era una lastra
di carbonio epossidizzato montata su quattro gambe di metallo e la stanza in
cui si trovavano era a stento larga a sufficienza per contenere il tavolo e tre
sedie. Un piccolo scaffale su una parete ospitava una caffettiera che sibilava
fra sé e sé ed emanava nell’aria un aspro odore di bruciato. Amos era
appoggiato all’unica porta della stanza, con le braccia incrociate e
un’espressione talmente al di là perfino della noia che avrebbe potuto essere
addirittura addormentato.
«...Interminabili accuse prive di prove per dar forza alle vostre criminali
rivendicazioni di diritti di proprietà...» stava dicendo Carol.
«Basta così» intervenne Holden. «Basta sfoghi dall’uno o dall’altra di voi.
Sono qui su richiesta delle Nazioni Unite e dell’APE per arrivare a una forma
di accordo che permetta alla RCE di svolgere il lavoro scientifico che è
autorizzata a fare e impedire che le persone che già vivono su Nuova Terra...»
«Ilus.»
«...ne vengano danneggiate.»
«E cosa mi dice dei dipendenti della RCE?» chiese piano Murtry. «Si deve
permettere che loro siano danneggiati?»
«No» rispose Holden. «Non devono esserlo. Quindi il mandato relativo a
questi incontri è cambiato leggermente alla luce degli ultimi avvenimenti.»
«Ho visto assassinare una sola persona da quando Holden è arrivato, ed è
stata opera sua» disse Carol a Murtry.
«Signora coordinatrice,» proseguì Holden «non ci devono essere ulteriori
attacchi contro il personale della RCE. Questa non è una cosa su cui si possa
negoziare. Non possiamo arrivare a nessun tipo di accordo a meno che tutti
sappiano di essere al sicuro.»
«Ma lui...»
«Quanto a lei,» proseguì Holden, indicando Murtry «è un assassino che
intendo veder processato con il massimo rigore previsto dalla legge...»
«Lei non ha nessun...»
«...non appena ritorneremo in una regione dello spazio che abbia delle
leggi. E questo ci porta al primo vero punto in discussione. Ci sono due
rivendicazioni in contrasto fra loro riguardo a chi abbia il diritto di
amministrare questa spedizione. Dobbiamo stabilire chi faccia le leggi qui.»
Senza dire nulla, Murtry tirò fuori dalla giacca uno schermo flessibile, lo
srotolò sul tavolo e su di esso cominciò a scorrere lentamente il testo della
concessione delle Nazioni Unite che assegnava alla RCE la missione
scientifica su Nuova Terra. Carol sbuffò e spinse lo schermo attraverso il
tavolo, verso di lui.
«Sì,» annuì Holden «la RCE ha un mandato legale delle Nazioni Unite che le
assegna il controllo di questo pianeta per la durata della missione scientifica.
Non possiamo però ignorare il fatto che ci sono persone che vivevano già su
Nuova Terra, o Ilus, mesi prima che quella concessione fosse stilata.»
«No, non si può» annuì Carol.
«Quindi arriveremo a un compromesso che permetta alla RCE di svolgere il
lavoro per cui è venuta qui,» proseguì Holden «lavoro che speriamo tornerà a
beneficio di tutti, coloni inclusi. Questo è un nuovo mondo, ci può essere una
quantità di pericoli di cui non siamo consapevoli. Questo compromesso deve
però anche riconoscere la possibilità che la decisione finale dei governi in
patria possa essere di concedere a Ilus di autogovernarsi.»
Amos sbuffò e sollevò di scatto la testa, spalancando gli occhi per un
momento prima che le palpebre tornassero lentamente ad abbassarsi.
«Dunque,» riprese Holden «quella è la spiegazione lunga e noiosa. La
versione breve è che voglio che la RCE proceda con la sua scienza e che i
coloni continuino a vivere la loro vita, e non voglio che nessuno venga
ucciso. Come possiamo fare in modo che questo accada?»
Murtry inclinò la sedia all’indietro sulle gambe posteriori e si allungò con le
mani dietro la testa. «Ecco,» ribatté «lei ha messo bene in chiaro il suo piano
di farmi arrestare una volta che saremo tornati nello spazio civilizzato.»
«Sì.»
«Ma secondo i miei conti, i coloni...» pronunciò quella parola con disprezzo
«hanno accumulato all’incirca due dozzine di uccisioni.»
«E quando avremo scoperto chi siano i responsabili, anche loro torneranno
nel sistema del Sole per essere processati» ribatté Holden.
«Adesso è diventato un detective?» sbuffò Murtry. Holden avvertì un
brivido gelido corrergli lungo la schiena e si guardò intorno come se in
qualche modo Miller si fosse materializzato.
«Credo che le forze di sicurezza della RCE, lavorando insieme a Mr Burton e
a me, dovrebbero continuare le indagini su quei crimini.»
«Un momento,» intervenne Carol, protendendosi di colpo in avanti sulla
sedia «non gli permetterò di...»
«Parlo solo di indagini. Qui non si terranno processi di sorta, quindi non
potranno essere inflitte pene al di là della detenzione protettiva, e solo con il
mio espresso consenso.»
«Il suo espresso consenso?» ripeté Murtry, parlando lentamente, come se
assaporasse le parole. Sorrise. «Se loro lasceranno che la mia squadra
continui a indagare sulle uccisioni mentre portiamo avanti questi negoziati, ci
riconosceranno il diritto di proteggerci e garantiranno che chiunque abbia
prove certe che lo indicano come colpevole sarà trattenuto per un futuro
processo, allora la cosa mi va bene.»
«Certo che gli va bene!» esclamò Carol. «Temporeggiare è tutto quello di
cui ha bisogno per ucciderci.»
Holden si accigliò. «Si spieghi.»
«Non siamo ancora in grado di autosostentarci» disse Carol. «Abbiamo la
Barbapiccola in orbita. La nave ci può fornire cellule di energia ricaricate
con il suo propulsore e ha sbarcato tutti i semi e il cibo che aveva a bordo, ma
per ora non possiamo ancora seminare. Il terriccio contiene i microrganismi
sbagliati. Abbiamo un disperato bisogno di riserve di cibo, di sostanze per
arricchire il terriccio, di scorte di medicinali.»
«Tutte cose che la RCE sarà lieta di...» cominciò Murtry.
«Quello che però abbiamo è la più ricca vena di litio che chiunque abbia
mai visto, e con quel minerale possiamo comprare tutto ciò che ci serve. La
Israel impedisce alla Barbapiccola di mandare a terra la navetta per prelevare
il resto del carico e ha minacciato di fermare la nostra nave se cercherà di
lasciare l’orbita.»
«I diritti minerari su Nuova Terra non sono vostri» disse Murtry. «Non
finché le Nazioni Unite non avranno deciso che lo sono.»
Carol calò il palmo della mano sul tavolo, con un impatto che risuonò
violento come uno sparo nella piccola stanza. «Visto? È un gioco di attesa. Se
potrà impedirci di caricare il minerale sulla nave abbastanza a lungo, non
importerà più a chi vadano i diritti. Anche se fossero assegnati a noi,
saremmo talmente indietro nel trasporto del minerale sulla nave che
moriremmo tutti di fame prima di farlo arrivare sul mercato.»
«Quindi chiede il diritto di continuare a caricare il minerale sulla
Barbapiccola mentre sono in corso le trattative per la concessione
mineraria.»
Carol aprì la bocca, la richiuse e incrociò le braccia.
«Sì» disse soltanto.
«D’accordo, mi sembra giusto» annuì Holden. «Indipendentemente da
chiunque finisca per vendere quel minerale, sarà comunque necessario un
trasporto mercantile per spostarlo, e la Barbapiccola va bene quanto qualsiasi
altro.»
Murtry scrollò le spalle. «Benissimo, permetteremo alla navetta di atterrare
e riprendere il trasporto del minerale. Tuttavia, le operazioni minerarie mi
creano alcuni problemi.»
«Si spieghi» ripeté Holden.
«Loro usano gli esplosivi. Lo stesso tipo di esplosivi che è stato impiegato
per abbattere la navetta e uccidere il governatore. Finché queste persone
avranno libero accesso agli esplosivi, la mia gente sarà in pericolo.»
«Quale sarebbe la sua soluzione?»
«Voglio controllare l’accesso agli esplosivi.»
«Quindi ci permette di trasportare il minerale ma non di estrarlo?»
commentò Carol. «Tipico comportamento subdolo delle società.»
«Non ho detto questo» ribatté Murtry, agitando le mani nell’aria con un
gesto che significava datti una calmata e che Holden trovò volutamente
condiscendente. «Sto dicendo che terremo noi in custodia gli esplosivi
quando non vengono utilizzati, e che le vostre squadre di minatori firmeranno
per prelevarli quando ne avranno bisogno. In questo caso non c’è il rischio
che qualcosa sparisca e ricompaia in seguito sotto forma di bomba.»
«Carol, questo le sembra giusto?» domandò Holden.
«La cosa ci rallenterà, ma non è un problema grave» replicò lei.
«D’accordo» concluse Holden, alzandosi. «Per ora ci fermiamo qui.
Domani ci incontreremo di nuovo per esaminare la proposta delle Nazioni
Unite sull’amministrazione coloniale e cominceremo a lavorare ai dettagli.
Dobbiamo anche parlare di controlli ambientali.»
«L’APE...» cominciò Carol.
«Sì, ho ricevuto anche i suggerimenti di Fred Johnson, e ne discuteremo.
Mi piacerebbe poter inviare un piano revisionato alle Nazioni Unite e all’APE
entro la fine della settimana per avere un loro riscontro. Vi pare accettabile?»
Ci furono cenni di assenso tanto da parte di Murtry quanto di Carol.
«Grandioso. Vi voglio con me, stanotte, quando presenterò l’accordo di oggi
alla riunione nella sala cittadina. La nostra prima dimostrazione di buona
volontà e di solidarietà.»
Murtry si alzò e oltrepassò Carol senza guardarla o stringerle la mano.
Altro che buona volontà e solidarietà.
«Allora, com’è andata?» chiese Amos, quando Holden lasciò la sala
comune dopo la riunione, quella notte.
«Devo aver fatto le cose nel modo giusto» replicò Holden. «Sono tutti
incazzati.»
Si avviarono insieme lungo la strada polverosa, immersi per un po’ nel
silenzio. «Strano pianeta» disse infine Amos. «Camminare all’aria aperta di
notte senza una luna nel cielo mi sconcerta.»
«Ti capisco. Il mio cervello continua a sforzarsi di trovare Orione e l’Orsa
maggiore. E la cosa più assurda è che continuo a trovarli.»
«Non sono loro» osservò Amos.
«Oh, lo so, ma è come se i miei occhi imponessero quelle forme a stelle che
non sono effettivamente allineate nel modo giusto, fino a crearle.»
Ci fu un altro momento di silenzio, poi Amos osservò: «È una metafora,
vero?»
«Ora lo è.»
«Ti offro una birra?» chiese Amos, quando raggiunsero la porta dello
spaccio.
«Più tardi, magari. Credo che farò due passi. L’aria notturna è piacevole,
qui. Mi ricorda il Montana.»
«D’accordo, ci vediamo dopo. Cerca di non farti rapire o sparare o altro.»
«Farò del mio meglio.»
Holden si incamminò lentamente, con la polvere del pianeta che si
sollevava in piccoli sbuffi fino alle caviglie a ogni passo. Le costruzioni
brillavano nell’oscurità, le sole abitazioni umane sul pianeta, la sola civiltà in
terre selvagge. Volse loro le spalle e continuò a camminare.
Si era allontanato dall’abitato quanto bastava per non poter più vedere le
sue fioche luci quando un vago chiarore azzurro apparve davanti a lui. Era un
bagliore che c’era e non c’era, che rischiarava l’aria che lo circondava senza
però illuminare nulla.
«Miller» disse Holden, senza neppure guardare.
«Ciao, ragazzo.»
«Dobbiamo parlare» concluse per lui Holden.
«Quanto più lo fai, meno divertente diventa» ribatté il detective, le mani
affondate nelle tasche. «Sei venuto qui a cercarmi? Ammetto di esserne un
po’ lusingato, considerati gli altri tuoi problemi.»
«Gli altri problemi?»
«Sì, quella baraccopoli piena di futuri cadaveri che tu cerchi di trattare
come persone adulte. È impossibile che questa storia non finisca nel sangue.»
Holden si girò a fissare Miller con espressione accigliata. «Questo che parla
è l’ex poliziotto? O la raccapricciante bambola di pelle della protomolecola?»
«Non lo so. Tutti e due» rispose Miller. «Se vuoi un’ombra, ti serve una
luce e qualcosa che la intercetti.»
«Posso prendere in prestito lo sbirro per un momento?»
Il grigio uomo con il doppiomento inarcò le sopracciglia come faceva da
vivo. «Mi chiedi di usare il tuo cervello per indurre queste scimmie a
smetterla di uccidersi a vicenda a causa di un po’ di minerale raro?»
«No» replicò Holden. «Voglio solo un consiglio.»
«D’accordo, certo. Murtry è uno psicopatico che si è finalmente trovato
nella posizione di poter fare le cose raccapriccianti che ha sognato di poter
fare per tutta la vita. Io gli farei sparare da Amos. Carol e il suo gruppo di
contadini sono vivi soltanto perché sono troppo disperati per rendersi conto di
quanto sono stupidi. Probabilmente moriranno di fame e di infezioni
batteriche nell’arco di un anno, diciotto mesi al massimo. I tuoi amici
Avasarala e Johnson ti hanno messo in mano il coltello insanguinato, e tu
credi lo abbiano fatto perché si fidano di te.»
«Sai cosa detesto di te?»
«Il mio cappello?»
«Anche quello» ribatté Holden. «Soprattutto, si tratta del fatto che detesto
tutto quello che dici e che non sempre ti sbagli.»
Miller annuì e sollevò lo sguardo verso il cielo notturno.
«La frontiera lascia sempre indietro la legge» osservò Holden.
«Questo è vero» convenne Miller. «Però questo posto era già una scena del
crimine quando tu sei arrivato.»
«Far esplodere la navetta è stato...»
«Non quello» lo interruppe Miller. «Mi riferivo a tutto quanto. A tutti i
posti.»
«Ultimamente mi pare di passare un sacco di tempo a chiedere alla gente di
spiegarsi.»
Miller scoppiò a ridere. «Credi che qualcuno abbia costruito quelle torri e le
altre strutture e poi se ne sia andato? Tutto questo pianeta è una scena del
crimine. Un appartamento vuoto con la cena calda sul tavolo e tutti i vestiti
ancora negli armadi. Questo è come la faccenda di Croatoa.»
«Quei coloni nordamericani che...»
«Solo che la gente scomparsa qui non erano coloni europei nei guai fin
sopra il collo» continuò Miller, ignorandolo. «Le creature che vivevano qui
hanno modificato pianeti come noi rinnoviamo una cucina. Avevano in orbita
una rete difensiva che avrebbe potuto vaporizzare Ceres, se si fosse
avvicinata troppo.»
«Aspetta, quale rete difensiva?»
Miller continuò a ignorarlo. «Un appartamento vuoto, una famiglia
scomparsa. Mette i brividi. Ma è come trovare una base militare senza
nessuno dentro, con aerei da caccia e carri armati con il motore acceso in
folle e nessuna traccia dei piloti. Questa è una cattiva magia. Qui è successo
qualcosa di sbagliato. Quello che dovresti fare è dire a tutti di andarsene.»
«Già, certo, lo farò subito» commentò Holden. «Questa discussione su chi
ha il diritto di vivere qui sentiva proprio la mancanza di una terza parte che le
altre due potessero odiare entrambe.»
«Qui non vive nessuno,» dichiarò Miller «ma è sicuro come l’oro che ci
ritroveremo a giocare con i cadaveri.»
«Questo cosa diavolo dovrebbe significare?»
Miller spinse indietro il cappello, guardando verso le stelle.
«Non ho mai smesso di cercarla. Julie. Anche dopo che è morta, anche
dopo aver visto il suo corpo, non ho mai smesso.»
«Vero. Continua a essere raccapricciante, ma è vero.»
«Anche questa situazione è così. Non mi piace, ma a meno che non succeda
qualcosa, continueremo a protenderci e protenderci e protenderci fino a
trovare chi ha fatto questo.»
«E allora che succederà?»
«Allora lo avremo trovato» replicò Miller.
Holden trovò un uomo che non conosceva ad aspettarlo al limitare della
città. Aveva l’alta statura di un cinturiano, era massiccio e con un collo
taurino, con grosse mani che sfregava nervosamente fra loro. Holden fece
uno sforzo cosciente per non abbassare la mano sul calcio della pistola.
«Credevo si fosse perduto là fuori» disse l’uomo.
«No, tutto a posto.» Holden protese la mano destra. «Sono Jim Holden. Ci
conosciamo?»
«Sono Basia, Basia Merton, di Ganimede.»
«Sì, venite tutti da Ganimede, giusto?»
«Più o meno.»
Holden attese che l’uomo parlasse, ma lui si limitò a fissarlo ancora,
torcendosi di nuovo le mani.
«Allora, Mr Merton,» chiese infine Holden «in cosa posso aiutarla?»
«Lei ha trovato mio figlio. Là... laggiù. Ha trovato Katoa» disse Basia.
Holden impiegò un momento a effettuare il collegamento mentale. «Quel
ragazzino di Ganimede. Lei è l’amico di Prax.»
Basia annuì, muovendo la testa troppo in fretta, come un uccello nervoso.
«Noi ce ne eravamo andati, mia moglie, io e gli altri due miei figli. Avevamo
la possibilità di partire sulla Barbapiccola, e credevo che Katoa fosse morto.
Era malato, sa.»
«La stessa cosa della figlia di Prax. Niente sistema immunitario.»
«Sì. Solo che lui non era morto, quando ce ne siamo andati. Era ancora vivo
in quel laboratorio dove lei lo ha trovato. Ho abbandonato mio figlio.»
«Forse. Saperlo è impossibile» replicò Holden.
«Io lo so. Lo so. Però ho portato qui la mia famiglia, per poterla tenere al
sicuro.»
Holden annuì soltanto, e si trattenne dal dire ‘Questo è un mondo alieno
pieno di pericoli che non puoi prevedere, per di più non ne sei davvero il
proprietario, e sei venuto qui per stare al sicuro?’. Non pareva che parole del
genere potessero essere utili.
«Nessuno ci può costringere ad andarcene» concluse l’uomo.
«Ecco...»
«Nessuno ci può costringere ad andarcene» ripeté Basia. «Dovrebbe tenerlo
a mente.»
Holden annuì di nuovo, e dopo un momento Basia si volse e si allontanò. Se
non è un membro della resistenza, quantomeno sa chi ne fa parte, pensò
Holden. Quello era qualcuno da tenere d’occhio.
Il suo terminale palmare trillò per segnalare una comunicazione in arrivo.
«Jim?» La voce di Naomi aveva una sfumatura di tensione.
«Eccomi.»
«Laggiù sta succedendo qualcosa. C’è un massiccio picco di energia dove ti
trovi e... uh...»
«Uh?»
«Del movimento.»
15
Havelock

Nuova Terra cominciava lentamente ad assumere un senso di familiarità. Il


solo, grande continente del pianeta e la lunga fila di isole ruotavano sotto la
Edward Israel ogni novantotto minuti, con il periodo orbitale e la rotazione
del pianeta che cospiravano per rendere l’immagine leggermente diversa ogni
volta che Havelock la guardava. Aveva cominciato a dare dei nomi alle
caratteristiche del pianeta, anche se non sarebbero mai stati quelli che
avrebbero poi figurato sui documenti ufficiali. La più grande isola
meridionale era Grande Manhattan, perché i suoi contorni gli ricordavano
quell’isola nordamericana. Le isole della Testa di Cane erano sparse nel
centro dell’enorme oceano del pianeta, e se socchiudeva gli occhi
somigliavano alla testa di un collie. Ciò che per lui erano i Campi di Vermi
era in effetti una vasta rete di fiumi sul grande continente, ciascuno di essi più
lungo del Nilo o del Rio delle Amazzoni. A nord, poi, c’era la Città a
Mezzaluna, una grande distesa di rovine aliene che in qualche modo
somigliava a una luna da cartone animato.
E laggiù, sulla piatta superficie beige di quello che lui chiamava il Piatto,
c’era il punto nero di First Landing, che sembrava il primo foruncolo di
un’eruzione cutanea. Era minuscolo, ma quando la nave lo sorvolava di notte,
era anche la sola fonte di luce. Laggiù c’erano più posti ed ecosistemi, più
scoperte da fare e risorse da utilizzare di quanti ce ne fossero mai stati sulla
Terra. Pareva strano che stessero combattendo e morendo per quel piccolo
pezzo di terreno desertico. E sembrava anche inevitabile.
Murtry distolse lo sguardo dallo schermo mentre ascoltava il rapporto di
Havelock. La forza di gravità alterava la forma del suo volto, tirando le
guance e gli occhi verso il basso, ma quell’effetto pareva donargli. C’erano
persone il cui posto era proprio in fondo a un pozzo gravitazionale.
«Abbiamo avuto un incidente con Pierce e Gillet.»
«Quei due che si occupano di biologia marina?»
«Gillet lo fa. Pierce si occupa di analisi del terreno. Non è stato niente di
più di una piccola lite domestica, ma... ecco, i nervi si stanno logorando.
Tutta questa gente è venuta qui per lavorare, e invece si trova bloccata
quassù. Stiamo effettuando sondaggi dell’atmosfera e lanciando di tanto in
tanto delle sonde nei suoi strati più alti, ma è come dare un cracker a una
persona che muore di fame e che sente l’odore di una tavola imbandita. La
situazione comincia a dare segni di cedimento.»
«Ha senso» disse Murtry.
«Inoltre, non sopportano l’assenza di gravità. Il medico automatico
continua a distribuire medicinali contro la nausea senza interruzione. A
questo punto, mi sorprende che non li dissolviamo direttamente nell’acqua
potabile.»
Il sorriso di Murtry era solo un pro forma. Havelock avrebbe voluto
avanzare l’idea di una seconda colonia, magari qualcosa nella zona
temperata, vicino a un fiume e a una spiaggia, il genere di posto dove
qualcuno poteva appendere un’amaca. Quello avrebbe permesso ai membri
della spedizione di mettersi al lavoro e i problemi con i coloni abusivi si
sarebbero risolti da soli senza esporre nessuno al pericolo. Le parole gli
aleggiarono in gola, ma non le pronunciò perché conosceva già le
argomentazioni contrarie a quell’idea. Bisogna combattere un tumore quando
è piccolo, prima che si diffonda. Poteva perfino sentire la voce del suo capo
mentre lo diceva. Si fece scrocchiare le nocche.
«La navetta?» chiese Murtry.
Havelock si guardò alle spalle, pur sapendo che l’ufficio era vuoto, a parte
lui. Quando parlò, il suo tono era più basso.
«Ho incontrato qualche resistenza, perché significava dimezzare i turni di
rifornimento, ma la gente si è rassegnata. Ho pensato di riempire la stiva di
ceramica ad alta densità che possa agire come frammenti di mitraglia, e di
aggiungere alcune casse di esplosivi per esplorazioni geologiche, ma non ho
niente che possa creare un’esplosione più grande di quella del reattore della
navetta. Come aveva chiesto, però, ho rimosso tutti gli override di sicurezza,
fisici ed elettronici. Onestamente, fa un po’ paura salirci sopra, sapendo che
potrebbe esplodere.»
«I controlli?»
«I protocolli standard sono stati rimossi. Può pilotarla lei, oppure io. Per
tutti gli altri è come parlare a un muro.»
«Un buon lavoro.»
«Il capitano Marwick non è contento della cosa.»
«Si adeguerà» ribatté Murtry. «Meglio averla pronta e non averne bisogno
che averne bisogno e non averla affatto.»
«Abbiamo anche i propulsori della nave» suggerì Havelock. «Se
puntassimo la poppa della Israel verso la Barbapiccola e accendessimo i
motori, la potremmo fondere.»
«Alla giusta distanza, potremmo eliminare anche la Rocinante» osservò
Murtry. «Però lo stesso varrebbe per loro, e sono dotati di missili. No,
teniamoci soltanto pronti per qualsiasi evenienza. Il che mi conduce al motivo
della chiamata. Credo di avere la soluzione per uno dei tuoi problemi.»
«Signore?»
«Tutti quegli scienziati annoiati. Abbiamo perso molti membri della
sicurezza, e siamo in un ambiente più ostile di quanto ci fossimo aspettati. Ho
bisogno che ne addestri qualcuno.»
«Vuol dire assumerli nella sicurezza?»
«Niente di ufficiale» replicò Murtry. «Però non sarebbe male avere una
dozzina di persone che abbiano familiarità con l’equipaggiamento
antisommossa e abbiano fatto un po’ di pratica in ambienti a bassa gravità.»
«Una milizia, allora» annuì Havelock.
«Ho stabilito che abbiamo il controllo di fatto di First Landing. Holden
crede di essere un fottuto Salomone. Per ora mi va bene lasciare che lo faccia,
ma quando arriverà il momento potremmo dover prendere una salda
posizione qui a terra, o sulla Barbapiccola. Sarò più contento se non dovremo
farlo, ma voglio avere quell’alternativa. Pensi di farcela?»
«Mi faccia fare qualche ricerca» rispose Havelock. «Sono sicuro che
sarebbe una violazione della politica della società, e l’ufficio centrale è molto
sensibile sulla questione delle responsabilità.»
«Ci hanno spediti in culo all’universo e hanno permesso che un mucchio di
coloni abusivi ci sparasse addosso» ribatté Murtry. «Non mi importa quello
che pensano. Non deve essere niente di ufficiale, fallo apparire come un club,
un gruppo di persone che condivide un hobby, la passione per le manovre
tattiche in assenza di gravità. Fabbrica loro qualche arma da paintball e
accertati che siano pronti.»
«Qualora ci sia bisogno di loro.»
«Esatto» annuì Murtry, con quel sorriso alterato dalla forza di gravità. «Per
precauzione.»
Tecnicamente, Havelock si sarebbe potuto insediare nell’ufficio principale
della sicurezza, usando il sedile a smorzamento e la scrivania di Murtry.
Invece, tendeva a rimanere nel posto che gli era familiare, vicino alla
guardina. Si diceva che fosse perché il sistema era già personalizzato secondo
le sue precedenze e in base ai suoi codici di accesso, ma sapeva che non era
soltanto quello. Murtry aveva un suo modo di reclamare lo spazio anche
quando non lo occupava, e Havelock non si sarebbe sentito a suo agio.
Quindi, quando finì il secondo turno, fu nella guardina che convocò il capo
del gruppo di lavoro della sezione ingegneria.
L’ingegnere capo Matthu Koenen, un uomo massiccio con corti capelli
bianchi a spazzola e una voglia sul collo che non si era mai preoccupato di far
rimuovere, fluttuava nell’aria vicino al sedile di Havelock, le braccia
incrociate sul petto e le gambe incrociate alle caviglie come un acido e iroso
ballerino classico.
«Grazie per essere venuto» esordì Havelock.
«Ci sono problemi?» scattò Koenen.
«No» ribatté Havelock, adottando d’istinto il tono brusco che usava quando
era in servizio. «Volevo chiederle di mettere insieme una squadra di una
dozzina di persone per esercizi tattici in ambiente a bassa gravità.»
L’ingegnere capo aggrottò la fronte e le linee intorno alla sua bocca si
fecero più profonde. Havelock sostenne il suo sguardo fino a costringerlo ad
abbassare gli occhi. Era un poliziotto da troppi anni, troppi dei quali su
stazioni di cinturiani, per lasciarsi intimidire da un cipiglio.
«Esercizi tattici?»
«In assenza di gravità» confermò Havelock. «Usando equipaggiamento
antisommossa. Giusto per tenere in forma mente e corpo.»
Koenen sollevò il mento, lo sguardo ancora fisso in quello di Havelock.
Quello era il genere di cosa che un cinturiano non faceva mai. Havelock non
ne sapeva il perché, ma era chiaro che quel gesto era proprio di qualcuno che
viveva su un pianeta, e la cosa gli riuscì rassicurante. «Parla di azioni
militari? Ci aspettiamo che succeda qualcosa?»
Havelock scrollò le spalle sotto le cinghie di sicurezza, e il sedile a
smorzamento oscillò appena sulle sospensioni. «Voglio solo avere
quest’alternativa» rispose, senza rendersi conto che stava citando Murtry
finché non ebbe parlato.
«Certo, posso trovare altre undici persone. Quando vuole vederci?»
«Quanto ci vorrà?»
Koenen batté due dita sul terminale palmare. Il che significava: ‘Posso
chiamarli anche adesso.’ Havelock sorrise.
«Ci incontreremo nell’hangar delle navette alle sette. Penserò io
all’equipaggiamento. Poi faremo un’ora di esercitazioni ogni giorno prima
del turno per il prossimo futuro.»
«Lo inserirò negli orari.»
Si scambiarono un cenno di assenso, poi l’ingegnere capo protese un piede,
spingendo contro la porta di una delle celle per muoversi verso la scala.
Havelock avvertì nella mente un improvviso senso di disagio. Aveva
dimenticato qualcosa. Qualcosa di importante.
Poi gli venne in mente. «Capo!» grugnì.
Koenen si girò a guardarlo dalla scala. Il suo corpo era ortogonale rispetto
alla scrivania, e Havelock sentì il proprio senso dell’equilibrio alterarsi
mentre il suo cervello cedeva al panico nell’effettuare uno di quegli
occasionali tentativi per distinguere l’alto dal basso. Chiuse gli occhi nel
sentirsi assalire da un’ondata di nausea.
«Sì?»
«Quando sceglie la sua squadra,» disse Havelock, a denti stretti «niente
cinturiani.»
Per la prima volta Koenen sorrise, e parve un’espressione genuina. «Sta
scherzando» disse.
Come facente funzioni del capo della sicurezza, ci si aspettava che
Havelock mangiasse alla mensa ufficiali. Era uno di quei piccoli gesti che
davano alla nave un senso di continuità, di regole e usanze che venivano
seguite. E quello gli portava alcuni benefici. Le code erano più corte, erano
disponibili alcolici e di solito lo schermo a parete trasmetteva qualcosa di
interessante. In quel momento, si trattava di un funzionario delle Nazioni
Unite che indossava un completo grigio dall’aria scomoda, le dita intrecciate
posate su un’ampia scrivania di vetro. L’operatore stava inquadrando
l’immagine in modo che fosse visibile anche sui terminali palmari, per cui la
faccia dell’uomo appariva tanto grande sullo schermo a parete da permettere
a Havelock di vedere i pori della pelle e le strisce dove i tecnici della Terra
avevano tamponato il trucco di scena.
«Siamo all’inizio di una nuova età dell’oro» disse l’uomo. «Le dimensioni
di tutto questo sono immense. Tutto ciò che abbiamo realizzato, dai primi
attrezzi di pietra alle cupole su Ganimede, è stato fatto in pratica grazie alle
risorse di un solo pianeta. La Terra. Sì, il bisogno di minerali e di terre rare ci
ha portati su Marte e su Luna. E nella Fascia. E il bisogno di infrastrutture ha
modellato il sistema di Giove molto più di quanto avessimo immaginato.
Adesso però stiamo guardando a un’espansione non di uno o due, ma di tre
ordini di grandezza superiore a qualsiasi cosa sia mai stata fatta nell’arco
della storia della nostra specie.»
Havelock rimosse il coperchio di alluminio che copriva il suo pasto. La
carne e i peperoni erano stati studiati per l’assenza di gravità: dure palline di
proteine e vegetali che non si infrangevano nell’aria ma diventavano morbide
e gradevoli una volta in bocca. Non era igienico quanto i tubetti di pasta
alimentare ma era più piacevole da mangiare. Si mise in bocca il primo
cubetto, che assorbì la saliva, aderendogli alla lingua. Sulla Terra, la
telecamera inquadrò una giovane donna dall’espressione seria.
«Ma cosa mi dice dei creatori della protomolecola» disse. «Della specie che
l’ha mandata qui su Phoebe?»
«Sono trascorsi miliardi di anni da quando è successo» replicò l’uomo con
il completo grigio. «Nessuna delle nostre sonde ha trovato traccia di una
civiltà progredita ancora attiva. Abbiamo visto quelle che sembrano rovine, e
quelle che sembrano biosfere viventi. In tutta onestà, ci sono mattine in cui
questo mi toglie il respiro.»
Havelock bevve un sorso d’acqua e il cibo si trasformò in un saporito
boccone, quasi come se fosse stato cucinato in una normale cucina invece che
da un macchinario industriale.
«Allora, dov’è l’inghippo?» chiese la donna.
L’inghippo è che la prima cosa che abbiamo fatto, una volta là, è stato
permettere che un gruppo di terroristi cinturiani accampasse diritti di
insediamento e cominciasse a spararci addosso, pensò Havelock, mentre
prelevava un altro cubo dal contenitore. Sullo schermo, l’uomo delle Nazioni
Unite allargò le mani.
«Stiamo vagliando già oltre quattromila richieste di diritti di esplorazione e
sviluppo di questi sistemi. Dobbiamo procedere con cautela, se vogliamo fare
le cose nel modo giusto, E non è d’aiuto il fatto che in pratica l’APE si sia
servito di questo per quella che è in pratica una presa di potere.»
«Dannati cinturiani» commentò una voce. Girandosi, Havelock vide il
capitano Marwick fluttuare nell’aria alle sue spalle. I corti capelli rossi e la
barba del capitano erano più grigi di quando avevano lasciato la terra.
Havelock annuì.
«Le dispiace se mi unisco a lei, Mr Havelock?»
«Per nulla» rispose Havelock, nascondendo la sorpresa.
Il capitano si tirò fino al tavolo e si assicurò a un sedile a smorzamento.
Alle sue spalle, l’immagine dello schermo a parete passò dall’uomo delle
Nazioni Unite alla donna che lo stava intervistando, ma Havelock registrò
soltanto il cambiamento di illuminazione e di sfondo, perché la sua attenzione
era concentrata su Marwick.
«Come vanno le cose sulla superficie?» chiese il capitano, mentre apriva il
contenitore della sua cena. Il suo tono fece apparire quelle parole come niente
di più pregnante di una conversazione cortese, e fra altre persone
probabilmente lo sarebbe stato.
«Ha visto i rapporti» replicò Havelock.
«Ah, i rapporti. Il più delle volte vengono scritti per il giudice e per la
posterità. Comunque, mi ha sorpreso un poco vedere che il nostro comune
amico, Mr Murtry, ha assunto una posizione tanto decisa proprio quando è
arrivato il mediatore.»
«La situazione lo richiedeva» rispose Havelock. «Per essere controllati e
pazienti, laggiù abbiamo perso un sacco di brava gente.»
Marwick emise un mormorio che poteva significare qualsiasi cosa e mangiò
un boccone del suo pasto, lo sguardo fisso su un punto indefinito oltre la
spalla sinistra di Havelock.
«E naturalmente qui noi siano relativamente in una posizione di potere,
giusto?» osservò. «Spero che il nostro amico a terra tenga presente che non
sarà sempre così.»
«Non capisco bene cosa intenda dire.»
«Ecco, a rigor di termini, io non faccio parte del contingente di spedizione,
giusto? La Israel è il mio dominio. Uso il mio grado di capitano per avanzare
le richieste che l’ufficio centrale vuole che faccia, ma in realtà sono soltanto
l’autista del camion. Però a un certo punto riporterò il mio camion oltre il
portale, con Fred Johnson e la sua base ben armata che aspettano dall’altra
parte. Preferirei non pensasse a me soprattutto come a un bersaglio.»
Havelock masticò lentamente, accigliandosi per l’ira sorda che gli
contraeva la mascella. «Qui noi siamo quelli che hanno seguito le regole.
Siamo arrivati con squadre scientifiche e una cupola rigida. Abbiamo pagato
quei coloni perché costruissero la piattaforma di atterraggio, e loro ci hanno
uccisi. Noi siamo i buoni.»
«Ed è piacevole essere nel giusto» commentò Marwick, come se stesse
assentendo. «Questo però non fermerà un missile, non altererà la traiettoria di
una raffica a induzione magnetica. Quello che il nostro comune amico fa sul
pianeta ha conseguenze che si espandono molto lontano da qui. E fra noi ci
sono quelli che un giorno vorrebbero poter tornare a casa.»
Marwick mangiò un altro boccone della cena e fece un triste sorriso,
annuendo come se Havelock avesse detto qualcosa. Poi slacciò le cinture del
sedile a smorzamento.
«Questi piccoli contenitori servono a tenere insieme anima e corpo ma non
soddisfano davvero, non trova? Darei il testicolo sinistro per una vera
bistecca. Bene, è stato un piacere, Mr Havelock, come sempre.»
Havelock annuì, ma la rabbia che gli contraeva il petto oscillava fra la mera
irritazione e la furia. Sapeva che questo dipendeva in parte dal fatto che
quella era la reazione che Murtry avrebbe avuto al suo posto, ma saperlo non
alterava l’emozione. Il suo terminale palmare trillò. Era un messaggio
dell’ingegnere capo Koenen. Lo aprì.
‘Abbiamo una squadra completa, e uno dei ragazzi sta preparando un piccolo logo per il nostro
club, giusto per tenere alto il morale.’

Havelock studiò l’immagine: era la sagoma stilizzata di un uomo, tozza e


senza volto, che teneva alto un pugno più grosso della sua testa. Un cartone
animato che raffigurava il tipo fisico terrestre e la violenza. Havelock lo fissò
a lungo prima di rispondere.
‘Sembra grandioso. Accertatevi di averne uno per me.’
16
Elvi

«Cosa significa ‘movimento’?» chiese Elvi.


«Dopo che abbiamo visto quel picco di energia, la Rocinante ha passato al
vaglio la zona con i sensori. In realtà, ce n’erano parecchi» rispose Holden.
Le porse il proprio terminale palmare. Elvi lo prese, cercando di apparire
seria e non colpita da lui. Era una scienziata, dio santo, posta di fronte a un
serio quesito, e non una ragazzina che si sarebbe connessa sul canale
condiviso dalla sua famiglia per annunciare a tutti che James Holden era stato
nella sua capanna. Fece scorrere le immagini avanti e indietro. Il cervello
umano era programmato per registrare il movimento, quindi le ombre che si
spostavano erano facili da vedere se faceva scorrere in fretta le immagini.
«Qualcosa si muove» convenne. «È possibile vedere di cosa si tratta?»
«I satelliti per immagini ancora scarseggiano lassù» replicò Holden. «La
Roci è costruita più per il combattimento nave contro nave che per la
visualizzazione del terreno.»
Dovunque nel sistema solare non sarebbe stato così. Là c’erano così tante
videocamere estremamente sensibili che nel vasto vuoto all’interno
dell’orbita di Nettuno non poteva succedere quasi niente che non fosse
possibile vedere, se qualcuno si prendeva la briga di guardare. Era un’altra
cosa che ricordava loro quanto fossero lontani da casa e quanti assiomi della
vita quotidiana in quella zona non fossero applicabili.
«Cosa vede la Israel?» domandò.
«Non ha immagini migliori delle nostre» disse Holden. «È per questo che
andiamo a controllare. È all’interno del raggio di autonomia dei veicoli, ma ci
vorrà buona parte della giornata per arrivare.»
«Perché?» chiese Elvi. «Voglio dire, è una cosa abbastanza grande, ma
probabilmente ci sono una quantità di grandi organismi nell’oceano e negli
ambienti più freddi.»
«Gli organismi non producono picchi di energia» le fece notare Holden.
«Su questo pianeta ci sono ogni sorta di cose che si muovono di continuo.
Questo è cominciato solo ora.»
Elvi toccò l’immagine, espandendola finché l’ombra non si fece indistinta.
«Ha ragione, dovremmo controllare» convenne. «Mi dia il tempo di
prendere i miei strumenti.»
Un’ora più tardi era seduta sul retro di un furgone scoperto, con Fayez
accanto. Holden sedeva davanti, accanto al posto di guida che era occupato
da Chandra Wei. Un fucile dall’aria minacciosa era agganciato accanto al
fianco di Wei, a portata di mano se la violenza si fosse scatenata in modo
inaspettato. I motori del furgone gemevano e le ruote scricchiolavano sulle
pietre del deserto pavimentato dal vento.
«Perché Sudyam non è venuta?» chiese Elvi, gridando per farsi sentire al di
sopra del rumore del motore e del vento.
Fayez si protese verso la sua spalla. «Wei ha pensato che fosse meglio
avere qualcuno del gruppo esobiologico ancora vivo, se le cose fossero
andate storte.»
Elvi sentì gli occhi che le si dilatavano e guardò in direzione della donna
alla guida. «Davvero?»
«Lei si è espressa in modo più gentile» rispose Fayez.
Non c’erano contrassegni di confine, nessuna staccionata o strada a indicare
che avessero lasciato First Landing. Le colline di pietra e terra si levavano e
digradavano, organismi come erba o funghi aderivano al terreno e finivano
schiacciati sotto le ruote del furgone. Lentamente, le rovine che per Elvi
erano diventate il suo punto di riferimento su Nuova Terra rimpicciolirono e
scomparvero dal campo visivo. Appoggiò la testa contro il roll-bar del
furgone lasciando che le vibrazioni del terreno le si trasmettessero attraverso
il cranio. Wei si girò a guardare da sopra la spalla ed Elvi le sorrise. I ricordi
di un centinaio di escursioni sul campo quando era all’università inducevano
il suo corpo ad aspettarsi birra e marijuana, e l’ansia di ciò che in effetti
dovevano fare la tormentava. Ogni giorno, per settimane, aveva scoperto
qualche nuovo organismo o fatto che l’umanità non aveva mai visto prima, e
adesso stava andando verso qualcosa che era forse ancora più alieno.
Nessuno aveva detto apertamente la parola ‘protomolecola’, ma quel
sottinteso era pesante come il cemento. Gli animali non causavano picchi di
energia. Gli alieni lo facevano.
Nell’ampio cielo luminoso che li sovrastava i venti in quota trasformarono
un’enorme nuvola verde e rosa in strisce sottili. Su Luna si ipotizzava che lo
strano colore di quelle nuvole fosse dovuto alla presenza in esse di qualche
organismo, qualcosa che portava i suoi minerali su nel cielo e usava il vapore
come il salmone usava le polle di riproduzione. Comunque, era solo
un’ipotesi, e la verità poteva essere mille volte più strana, o del tutto prosaica.
Elvi osservò i filamenti luminosi della nuvola estendersi, e il sole
oltrepassarla un po’ troppo lentamente. Fayez stava digitando furiosamente
sul terminale palmare, Wei guidava con una concentrazione e un’intensità
che parevano essere il suo marchio di fabbrica da quando era scesa sulla
superficie. Cioè, da quanto Reeve e gli altri erano scomparsi.
Elvi si chiese cosa significasse il fatto che era in grado di andare incontro
all’ignoto più assoluto, spostandosi sulla superficie del pianeta senza avere la
minima idea di quali potessero essere i pericoli locali, mentre il pensiero delle
persone che si trovavano a First Landing la terrorizzava. Si supponeva che
Nuova Terra fosse un luogo pericoloso, selvaggio e ignoto, e il pianeta si
stava dimostrando all’altezza di quelle aspettative. I pericoli posti dalle
persone erano peggiori perché lei non li aveva visti arrivare, e quindi temeva
che non li avrebbe visti neppure la prossima volta.
Non si rese conto di essersi assopita finché Fayez non le posò una mano
sulla spalla e la scosse gentilmente per svegliarla. Indicò verso l’alto. Un
punto luminoso, che rischiarava il cielo azzurro come Venere vista dalla
Terra, si fece sempre più luminoso nello spostarsi verso ovest. Dietro di esso
si formò una sottile scia bianca, la sola linea perfettamente diritta nel cielo
organicamente contorto. Una navetta. Elvi si accigliò.
«Aspettavamo una navetta?» chiese.
«Non è nostra» rispose Fayez. «È quella della Barbapiccola. Le operazioni
minerarie sono riprese.»
Elvi scosse il capo. Era una serie di stupidi errori miopi commessi uno dopo
l’altro, connessi fra loro tanto che ciascuno appariva inevitabile. La colonia
avrebbe venduto il minerale, assunto degli avvocati, stretto accordi. La
cupola di contenimento non sarebbe mai stata montata. Quella che sarebbe
dovuta essere una biologia pulita e solida si sarebbe trasformata in un lavoro
di recupero per correggere questo ed eliminare le impurità di quello. Fayez
parve percepire quello che stava pensando.
«Nessun protocollo di ricerca sopravvive al contatto con la popolazione
soggetto della ricerca» disse. «Non si tratta solo di questo, ma di tutto.»
Il sole era ormai a una spanna dall’orizzonte quando il furgone superò la
cresta di un’altra altura simile a mille altre oltrepassate in precedenza. Wei
frenò e spense i motori. Fayez si alzò sul sedile, con i gomiti appoggiati alla
roll-bar, e Holden borbottò fra sé qualcosa di osceno.
«Ecco, se non altro non è stato difficile da trovare» sussurrò Fayez.
La cosa era accoccolata nella depressione fra due colline. Il vasto carapace
aveva lo stesso candore madreperlaceo che lei aveva riscontrato nelle pareti
delle rovine, ma in quella cosa non c’era niente di architettonico. Aveva una
forma insettoide, con lunghi arti simili a zampe che premevano debolmente
contro il terreno. Due appendici più grandi emergevano dalla parte posteriore,
una grigia e scheggiata, con l’esoscheletro pieno soltanto di polvere, l’altra
che si agitava goffamente. Cinque cerchi neri sull’addome facevano pensare
ad altrettanti occhi, ma non parevano mettersi a fuoco su nulla, almeno non
per quanto Elvi poteva vedere.
«Cos’è?» chiese Wei. Elvi notò che adesso il fucile era nelle sue mani. Non
l’aveva vista prenderlo.
«Non lo so» rispose. «Non ho mai visto niente di simile.»
«Io sì» disse Holden. «È una delle loro macchine. Qualsiasi cosa abbia
progettato la protomolecola aveva... cose come questa sulla stazione posta fra
gli anelli. Quelle però erano più piccole. Ne ho vista una uccidere qualcuno.»
«Mi sta dicendo che quella cosa ha un paio di miliardi di anni?» chiese
Wei, in tono piano e calmo.
«Suppongo di sì» rispose Holden.
Fayez emise un basso fischio. «Non è morto ciò che può giacere eterno... o
quel che è.»
Il mostro nel deserto si spostò barcollando, le gambe che si muovevano
goffamente. L’unico braccio funzionante si torse verso di loro, poi si accasciò
al suolo. Il corpo si mosse e tremò nel tentare di sollevarlo ancora.
«Guardate laggiù» disse Elvi.
Lungo tutto il contorno del fondo di quella valle fra le colline, le pietre
erano state ripulite. Non rimaneva traccia dell’erba fungoide, non c’erano
lucertole o uccelli. Era come se una vasta mano fosse scesa con una spugna e
avesse ripulito il paesaggio. Adesso che sapeva cosa cercare, Elvi vide le
gambe della creatura afferrare la vita nativa e immetterla in piccoli orifizi
chitinosi nella parte inferiore del ventre.
«Sta... mangiando?» chiese.
«Sulla stazione,» rispose Holden «i soldati hanno cercato di ucciderne una
con una granata. La macchina ha ucciso l’uomo che l’ha lanciata e ha usato il
suo corpo. L’ha riciclato sul posto. Lo ha trasformato in una pasta e lo ha
usato per riparare i danni.»
«Ha senso» osservò Elvi. «Anche durante l’evento su Eros la protomolecola
ha riciclato sistemi biologici.»
«Lieta che lei approvi, dottoressa Okoye» commentò Wei, in tono asciutto.
«È il suo parere scientifico che questa cosa possa costituire una minaccia per
la spedizione?»
«Certo, è possibile» rispose Elvi, e Holden emise una sorta di suono
gorgogliante. La cosa barcollò in avanti, perse l’equilibrio e scivolò indietro.
Era come guardare un giocattolo rotto, o un cane investito da un’auto che non
fosse ancora morto. Era affascinante e spaventoso, e lei non riusciva a
distogliere lo sguardo.
«Credo che adesso dovremmo andarcene» disse Holden. «E intendo adesso
nel senso di subito, non più tardi. Subito.»
«Non è quello per cui siamo venuti qui» ribatté Wei, imbracciando il fucile.
«Cosa sta facendo?» gridò Holden. «Non ha sentito la parte relativa
all’essere ridotti a una pappa?»
Per tutta risposta Wei aprì il fuoco.
I proiettili traccianti disegnarono vivide linee rosse nell’aria e provocarono
piccole esplosioni nel colpire il bersaglio. La cosa barcollò all’indietro
agitando il braccio, ma Wei tirò fuori di tasca un altro caricatore non appena
esaurito il primo e continuò a sparare. La cosa cercò di spingersi verso di lei,
poi di allontanarsi. Un liquido fra il verde e il grigio scaturì dalle ferite sui
suoi fianchi. Il rumore degli spari era assordante.
La cosa ebbe un ultimo sobbalzo ed emise un acuto lamento penetrante, poi
si accasciò con le zampe allargate in mezzo alla polla di liquido. Wei abbassò
lentamente la canna del fucile finché fu orientata verso il terreno. Quando si
girò a guardare verso Holden, la sua espressione era dura. Lui aveva le mani
serrate sul cruscotto del furgone fino a far sbiancare le nocche ed era grigio in
volto.
«Spero che questo non sia un problema, signore» commentò Wei.
«È impazzita?» esplose Holden, con voce tesa e acuta. «Quella cosa
avrebbe potuto ucciderla.»
«Sissignore» annuì Wei. «È per questo che l’ho ammazzata.»
«Lo ha fatto?» chiese Holden, con la voce che continuava a salire di tono.
«Ne è certa? E se non fosse del tutto morta? Non potremmo... bruciarla o
qualcosa del genere?»
Wei sorrise.
«Sì» disse. «Possiamo farlo.»
Un’ora più tardi il grande disco rosso del sole raggiunse l’orizzonte. Le
fiamme danzavano intorno alla carcassa della cosa, levandosi più alte di
quelle di un falò, un fumo nero e untuoso saliva verso le nuvole e tutto il
mondo pareva puzzare di acceleranti. Wei aveva prelevato una piccola tenda
dal furgone e Fayez l’aveva montata. Elvi sentiva il calore del sole e del
fuoco premerle contro la faccia. La notte sarebbe stata lunga. In quel luogo lo
erano tutte.
«Stai bene?» le chiese Fayez.
«Sì. Vorrei però aver potuto prendere qualche campione.»
La cosa pareva splendere in mezzo al fuoco, con il carapace incandescente
nel quale cominciavano ad aprirsi piccole crepe che partivano dalle
articolazioni. A modo suo era splendida, e a Elvi dispiaceva vederla distrutta,
anche se si sentiva sollevata in pari misura. Era una miscela di emozioni a cui
non era abituata.
Wei insistette per organizzare turni di guardia per tutta la notte e Holden si
offrì di fare il primo. Pareva a disagio, in un modo che Elvi non avrebbe mai
creduto possibile per James Holden, capitano della Rocinante. Elvi si distese
nella tenda, con la testa che sporgeva all’esterno. Accanto a lei, Fayez
russava piano. Wei si era raggomitolata in una sottile coperta sul retro del
furgone ed era silenziosa come una pietra. Elvi osservò Holden e lo ascoltò
canticchiare fra sé, un suono umano e solitario in quel vasto pianeta inumano.
Il sonno non volle arrivare, e dopo due ore lei si arrese, lasciando il suo
scomodo giaciglio per andare a sedersi accanto a Holden. In un mondo senza
luna, c’erano soltanto il bagliore arancione del rogo dell’alieno, ormai quasi
spento, e il fioco chiarore argenteo delle stelle. Questo riduceva Holden ad
alcune linee e una sensazione di massa e di calore.
«Non riuscivo a dormire» disse.
«Non credo che dormirò neppure io» rispose lui. «Odio il modo in cui mi
terrorizzano quelle cose.»
«Mi sorprende sentirglielo dire.»
«Si aspettava che mi piacessero?» Elvi percepì il sorriso nel tono della sua
voce. In alto sopra di loro, una stella cadente solcò il cielo, luminosa, per poi
scomparire.
«Non sono abituata a sentire gli uomini ammettere di avere emozioni»
spiegò Elvi. «Lei era su Eros quando è scoppiata la crisi, vero? Ci sarebbe da
pensare che dopo una cosa del genere niente possa più spaventarla.»
«Non funziona così. Dopo Eros, tutto mi spaventava. Sto ancora cercando
di calmarmi.» Holden ridacchiò, ma quando riprese a parlare la sua voce era
di nuovo seria. «Crede che quella cosa fosse una macchina? Oppure era un
animale?»
«Non credo sia una distinzione che loro avrebbero fatto.»
«Si riferisce ai progettatori? Soltanto l’inferno sa come vedevano ogni
cosa.»
«Oh, ci sono alcune cose che possiamo determinare» replicò Elvi. «Quello
a cui tenevano era in ciò che progettavano, e in un certo senso lo è ancora.
Sappiamo che rispettavano il potere degli autoreplicatori e sapevano come
imbrigliarlo.»
Più che vederlo, lo sentì girarsi verso di lei. Era profondamente
consapevole di essere una donna accanto a un uomo in una landa buia e
selvaggia. La cosa faceva sembrare intima la vastità della notte.
«Come facciamo a saperlo?» chiese lui.
«In base a dove hanno mandato la protomolecola. L’universo ha alcune
cose che sono piuttosto coerenti. Gli elementi sono gli stessi. Il carbonio è
sempre carbonio. L’azoto è sempre azoto. Creano gli stessi legami e possono
costruire le stesse strutture. Tutti i sistemi che abbiamo esaminato hanno
almeno un pianeta che ha la possibilità di generare replicatori organici.»
«Intende cose con un DNA?»
«O cose che si comportano come il DNA. Loro hanno mandato costruttori di
ponti che usassero quei replicatori biologici di base, quale che fosse la loro
forma. Possono prendere una biosfera e trasformarla in una enorme rete di
fabbriche. Probabilmente è il modo in cui si diffondono. Prendono di mira
posti che possono essere convertiti in modo da creare le cose che permettono
loro di arrivare dove vogliono. Inoltre, costruiscono cose destinate davvero a
durare. Sembrano avere una visione lungimirante della colonizzazione
galattica.»
Si appoggiò in avanti, permettendosi di appoggiare la mano sul davanti del
furgone. Non si protese verso di lui, ma mise le dita dove nell’oscurità lui
avrebbe potuto sfiorarle accidentalmente. Verso nord, qualche piccolo
animale lanciò il suo richiamo con voce acuta e ciangottante.
«È rimasto qui per miliardi di anni, e noi lo abbiamo ucciso con un fucile e
un po’ di acquaragia.»
«A nostra difesa, bisogna dire che non aveva l’aria di essere molto in salute.
Però, sì. Non si aspettava niente di così progredito o aggressivo come noi.
Loro costruivano strutture che duravano per miliardi di anni. Le rovine.
Quella cosa. Gli anelli. Tutto quanto.»
«A volte sembrano degli dèi. Divinità rabbiose e malevole, ma pur sempre
divinità.»
«No» ribatté Elvi. «Sono solo organismi che noi non comprendiamo. E
hanno i loro limiti. Erano specializzati per il loro ecosistema, come lo siamo
noi per il nostro. Milletrecento mondi sembrano tanti quando se ne è avuto
sempre e soltanto uno, ma sono una goccia nell’oceano paragonati a quello
che c’è là fuori, anche solo nella nostra galassia.»
«Loro ne avevano di più.»
Elvi emise un sommesso verso interrogativo.
«Ne avevano di più» ripeté Holden. «Però qualcosa li ha attaccati, e hanno
cercato di fermarla. Hanno consumato interi sistemi solari. Parecchi sistemi.
Poi, quando questo non ha funzionato, hanno disattivato l’intera rete. Si sono
messi in quarantena, ma sono morti lo stesso.»
«Non lo sapevo.»
«Io l’ho visto, in un certo senso. Un tizio che conoscevo sta indagando sulla
cosa, per così dire.»
«Mi piacerebbe parlargli» disse Elvi.
«Già, ma non è d’aiuto quanto si potrebbe aspettare.»
Wei si mosse nel sonno. Elvi sbadigliò, anche se non era particolarmente
stanca.
«Perché si è svegliato?» chiese Holden, accennando alla carcassa aliena. «È
stato a causa nostra? Sapeva che eravamo qui?»
«Forse» rispose lei. «O forse si attivava e disattivava a intervalli. Ne
abbiamo visto solo uno, ma potrebbero essercene molti e vederli potrebbe
diventare una cosa comune. Oppure potrebbero essere pochi, nel qual caso
vederli sarà una cosa rara. O forse ce n’era uno soltanto. Non abbiamo ancora
abbastanza dati.»
«Suppongo di no. Però mi piacerebbe sapere cosa sarebbe successo.»
«A me no. Tanta parte della mia vita è stata migliore di come avevo
immaginato che ho imparato a provare piacere nel rimanere sorpresa. Durante
i miei studi universitari, a Kano, immaginavo che avrei fatto analisi
ambientali su Europa per tutta la mia carriera. Invece, ho avuto questo.»
«Kano?»
«Da bambina ho passato molto tempo nella Zona di Interesse Congiunto
dell’Africa occidentale, nella Nigeria settentrionale, e sono tornata là per fare
l’università.»
«Davvero?» chiese Holden, in tono vivace. «Uno dei miei padri aveva
parenti in Nigeria.»
«Uno di loro?»
«Ne ho parecchi» spiegò Holden. «Gruppo genitoriale esteso.»
«Oh. Ne ho sentito parlare.»
«Produce un grande nucleo familiare e una famiglia estesa enorme.
Potremmo essere cugini.»
«Spero di no» rispose Elvi, ridendo, e subito desiderò poter risucchiare
indietro quelle parole. Il silenzio era terribile. Non poteva vederlo in volto,
ma poteva immaginare la sorpresa e l’imbarazzo. Trasse indietro la mano,
appoggiandola in grembo.
«Io...» cominciò lui.
«Se vuole, posso fare io il resto del turno» lo interruppe Elvi. Il suo tono
leggero suonava forzato ai suoi stessi orecchi. «Del resto, stanotte non credo
che riuscirò a dormire molto.»
«Sarebbe... grandioso» disse Holden. «Grazie.»
«Stia attento a Fayez. Ruba le coperte.»
James Holden scivolò giù dal furgone. Sentì i suoi passi che tornavano
verso la tenda, il fruscio della plastica mentre lui si sdraiava. Si piegò in
avanti, le braccia incrociate intorno al ventre. Adesso quella cosa venuta dal
deserto era solo un mucchio di braci che splendevano di una cupa luce
arancione ma non illuminavano niente. L’umiliazione le gravava addosso,
intensa e dolorosa come un taglio prodotto con la carta.
«Stupida» mormorò. «Stupida, stupida, stupida.»
L’oscurità aliena non dissentì.
17
Basia

Coop e Cate erano stati membri dell’APE della vecchia scuola, ai tempi in
cui l’Alleanza dei Pianeti Esterni era solo un’opinione comune sostenuta con
le armi. Avevano fatto carriera insieme in un’epoca in cui anche solo portare
il cerchio spezzato dell’APE sulla manica era un’offesa passibile di arresto, e
avevano imparato il mestiere oltrepassando di soppiatto i posti di blocco della
Coalizione Terra-Marte, mettendo bombe, contrabbandando armi e in
generale agendo da quei terroristi che i pianeti interni li accusavano di essere.
Il solo motivo per cui non erano finiti entrambi in un campo-prigione era che
sotto alcuni punti di vista l’APE aveva vinto. Dopo i fatti di Eros, i pianeti
interni avevano cominciato a trattare l’APE come un vero governo, e molti
combattenti avevano ricevuto l’amnistia di fatto che ne era derivata.
Adesso Cate era soltanto un minatore, come il resto di loro, ma era in grado
di usare parole come vantaggio tattico e dare l’impressione di sapere davvero
di cosa parlava.
«Il terreno e la superiorità numerica sono i nostri vantaggi tattici» disse al
piccolo gruppo riunito nella sua casa. «Siamo però in condizioni di inferiorità
quanto ad armamenti, questo è innegabile. In tutto abbiamo al massimo una
dozzina di armi da fuoco. Possiamo sempre prendere gli esplosivi, ma
l’accordo che Holden ha stretto con la RCE lo rende molto più rischioso.»
«Il fottuto Holden» disse Zadie.
«Presto ci occuperemo di lui» replicò Cate.
Il suo pubblico era composto dalla solita banda. L’infezione all’occhio del
figlio di Zadie era peggiorata e sua moglie adesso rimaneva a casa con lui per
tutto il tempo. Basia aveva l’impressione che Zadie fosse in cerca di qualcuno
da punire per le sofferenze della sua famiglia. Pete, Scotty e Ibrahim erano là
nella loro veste di veterani del loro unico scontro con gli agenti della
sicurezza della RCE, cosa che dava loro un certo ascendente nel gruppo che
avevano messo insieme. C’erano però anche altre persone, altri membri della
colonia che in precedenza potevano essere stati incerti sul modo migliore di
vedersela con la RCE ma erano stati spinti a unirsi alle file dei rivoluzionari
dalle tattiche brutali di Murtry. Dal martirio di Coop.
«Come?» chiese Scotty. «Come ci occuperemo di Holden?»
«Credo che rimuoveremo tutti i nostri problemi con un’unica operazione su
molteplici fronti» rispose Cate. «Murtry e la sua squadra, Holden e il suo
sgherro, tutti in una volta. La chiave per questo tipo di guerra è il denaro.»
«Renderci troppo costosi perché valga la pena di occupare il pianeta» annuì
Ibrahim. Anche lui aveva fatto parte dell’APE.
«Esatto. È stato così che ci siamo scrollati di dosso la gente dei pianeti
interni, nella Fascia. Se non sarà economicamente accettabile occuparci, non
lo faranno. Ognuno di loro che torna a casa in una sacca per cadaveri è un
chiodo in più sulla bara della società.» Cate calò un grosso pugno sull’altra
mano per dare enfasi alle sue parole.
«Non vi seguo. Ucciderli come può aiutarci a ottenere quello che
vogliamo?» chiese Basia. Aveva acconsentito a partecipare nella speranza di
far prevalere le menti più razionali, ma appariva sempre meno probabile
quando più la riunione si prolungava.
«Mandare nuove truppe al fronte comporta un viaggio di diciotto mesi»
rispose Cate. «Questo significa impegnare un trasporto su lunga distanza per
un periodo di oltre tre anni. È una cosa costosa. E durante l’anno e mezzo che
loro impiegheranno ad arrivare qui, noi potremo fortificare la nostra
posizione. Approntare campi sulle colline. Dividerci in gruppi. Per poter
vincere dovranno lanciare un vero e proprio programma militare. La Stazione
di Medina non appoggerà la cosa, anche se dovesse avercela con noi per aver
forzato la mano.»
«Alleanza coercitiva» aggiunse Ibrahim, annuendo.
«Secondo le regole» disse Cate.
Per un momento la stanza si fece silenziosa, mentre tutti riflettevano sulle
sue parole. Il tetto di metallo tintinnava e strideva per la sabbia che il vento
spingeva contro di esso. Le finestre scricchiolavano nel raffreddarsi ora che
era notte. Una dozzina di persone respirava l’aria aliena.
«Loro sono già qui» osservò Basia, schiarendosi la gola per infrangere il
silenzio. «Questo non è esattamente quello che faranno?»
«Chi farà cosa?» chiese Scotty.
«La Rocinante» replicò Basia. «Adesso è in orbita, ed è una nave da guerra,
con armi e missili e chissà che altro. Se uccidiamo Holden potrebbero
bombardarci.»
«Speriamo che lo facciano!» tuonò Cate. «Per dio, speriamolo. Qualche
video di coloni morti, assassinati dalle navi delle Nazioni Unite in orbita qui,
e la guerra per conquistare l’opinione pubblica è vinta.»
Basia annuì come se fosse stato d’accordo. Sono nella squadra sbagliata,
era però ciò che stava pensando.
«Quindi, muoviamo contemporaneamente contro entrambi i gruppi» riprese
Cate, la cui voce aveva assunto le stesse cadenze che di solito aveva Coop.
Era come se lui fosse ancora nella stanza, infestandola con la sua presenza.
«Mantengono due persone di pattuglia in strada in ogni momento, quindi ci
serve una squadra che li segua fino a quando sarà dato il segnale. Una
seconda squadra si occuperà dell’edificio della sicurezza dove si trovano
Murtry e le altre guardie. La terza andrà allo spaccio dove Holden e il suo
compagno sono rintanati per la notte. Pensavo a Scotty e Ibrahim per la prima
squadra. Io guiderò...»
Cate continuò a parlare, esponendo la follia di quegli omicidi multipli come
un enigma da risolvere o un gioco in cui vincere. Coordinò gli attacchi in
modo che si verificassero tutti e tre allo stesso tempo e nessuno potesse dare
l’allarme, usando termini come ‘campo di tiro’ e ‘massima aggressione’
come se avessero significato qualcosa di diverso dall’abbattere a colpi di
fucile una dozzina di uomini e donne mentre la maggior parte di essi
dormiva. Il piccolo gruppo annuì, seguendo le sue direttive. Basia si sentì
stupefatto dalla facilità con cui l’impensabile era diventato una cosa di
routine.
«I miei figli vivono qui» disse, interrompendo Cate.
«Cosa?» chiese lei, mostrandosi sinceramente sconcertata. Era stata a metà
di una frase quando lui era intervenuto. «Io non...»
«Quei corpi di cui mandare le fotografie ai notiziari sono quelli dei nostri
figli» continuò Basia. «Dei miei figli.»
Cate lo fissò, ancora troppo interdetta per cominciare a infuriarsi.
«Como?»
«Volevo venire qui e magari dissuadervi dal fare qualcosa di stupido»
dichiarò Basia, alzandosi e rivolgendosi a tutti i presenti. «Pensavo che forse,
adesso che Coop non c’è più, avremmo potuto mettere fine a tutto questo. Ma
non è più soltanto stupido, non quando potete parlare di amici e familiari
morti come di strumenti da dare in pasto ai media. Questo è malvagio, e io
non voglio avervi parte.»
La stanza si fece di nuovo silenziosa, tranne per il frusciare della sabbia, le
finestre che si raffreddavano e il respiro dei presenti.
«Se cerchi di intralciarci...» cominciò Ibrahim, ma Basia si girò di scatto a
fronteggiarlo.
«Cosa farai?» chiese, facendosi tanto vicino che il suo respiro agitò i peli
della rada barba di Ibrahim. «Cosa farai se cerco di intralciarvi? Non fare le
minacce a metà, macho.»
Ibrahim era più minuto di lui. Abbassò lo sguardo e non replicò. Basia
avvertì un momento di vergognoso sollievo che fosse stato Ibrahim a reagire
alle sue parole, e non Cate. Aveva paura di Cate, non sarebbe mai riuscito a
tenerle testa.
«Dui» disse, indietreggiando verso la porta con un cenno rivolto a tutti i
presenti. «E ora me ne vado.»
Dopo che si fu richiuso la porta alle spalle gli altri presero a parlare in toni
sommessi, ma lui non poté sentire cosa dicevano. La cosa gli diede
comunque un formicolio al collo e si chiese se non si fosse spinto troppo
oltre, se si sarebbero accontentati di uccidere soltanto lui e non anche Lucia.
A metà strada si imbatté in due guardie di sicurezza della RCE di pattuglia.
Erano due donne in armatura pesante, che le faceva apparire massicce e
pericolose. Una di esse, una donna dalla pelle chiara e dai capelli corvini, gli
rivolse un cenno di saluto nell’incrociarlo. In lei tutto era una minaccia –
l’armatura, il grosso fucile d’assalto che impugnava, le granate stordenti e le
manette che le pendevano dalla cintura – e il suo sorriso cordiale parve
assurdamente fuori posto. Basia non poté trattenersi dall’immaginarla mentre
si dissanguava in mezzo alla strada, colpita alla schiena da uno dei suoi
amici.
Lucia lo aspettava sul portico, seduta a gambe incrociate su un grosso
cuscino mentre beveva qualcosa che emanava vapore nell’aria notturna. Non
era tè, perché non ne avevano quasi più. Probabilmente era solo acqua calda
con un po’ di aroma al limone, ma presto avrebbero esaurito anche gli aromi
artificiali a meno che non venisse dato loro il permesso di cominciare a
vendere il minerale.
Basia si lasciò cadere seduto con un tonfo sul duro pavimento di fibra di
carbonio, accanto a lei.
«Allora?» chiese Lucia.
«Non vogliono ascoltare» sospirò Basia. «Parlano di uccidere la gente della
RCE. Tutti quanti. E anche Holden e i suoi.»
Lucia scosse il capo in un gesto di diniego. «E tu?»
«A questo punto, è possibile che stiano parlando di uccidere anche me, ma
non credo che lo faranno finché non metto loro i bastoni fra le ruote. Però
non posso prendere parte a questa cosa, e gliel’ho detto. Mi dispiace di aver
lasciato che le cose arrivassero a questo punto, Lucy. Sono un uomo molto
stupido.»
Lucia gli rivolse un triste sorriso e gli posò una mano sul braccio. «Non
facendo niente ora rimani dalla loro parte.»
Basia si accigliò. L’aria notturna conservava ancora l’odore di terra della
recente tempesta di polvere. Un odore di cimitero. «Non posso fermarli da
solo.»
«Holden è qui per fare questo. È tornato da quello che è andato a fare nel
deserto con la squadra scientifica. Potresti parlare con lui.»
«Lo so» annuì Basia, ammettendo ciò a cui stava già pensando. Il fatto che
fosse necessario non sminuiva la sensazione di tradire i suoi amici. «Lo so.
Lo farò.»
Lucia fece una risata di sollievo. Nel vedere l’espressione perplessa di
Basia lo prese fra le braccia e lo strinse a sé. «Sono così felice di sapere che il
Basia che amo è ancora lì dentro.»
Basia si rilassò nel suo abbraccio, permettendosi per un momento di sentirsi
al sicuro e amato.
«Baz» gli sussurrò all’orecchio Lucia.
Non dire niente che possa rovinare questo momento, pensò lui.
«Felcia partirà con la navetta per andare sulla Barbapiccola. Ora, stanotte.
Le ho dato il permesso.»
Basia si trasse indietro, allontanando da sé Lucia di tutta la lunghezza delle
braccia. «Cosa farà?»
Lucia si accigliò nel guardarlo e gli strinse con forza le braccia. «Lasciala
andare.» C’era un avvertimento nella sua voce.
Basia si liberò e balzò in piedi. Lucia lo chiamò, ma lui stava già correndo
verso il sito di atterraggio.
Il sollievo che provò nel vedere che la navetta era ancora là fu così intenso
che per poco non si accasciò. Uno dei carrelli elettrici della colonia gli passò
accanto e per poco non lo investì nel buio. Il carrello era pieno di minerale,
quindi stavano ancora caricando la navetta. Aveva tempo.
Felcia era ferma a qualche metro dal portello, con una valigia in ciascuna
mano, intenta a chiacchierare con il pilota. Entrambi erano nella chiazza di
luce proiettata dalle lampade da lavoro che circondavano la navetta, e la
bruna pelle olivastra di Felcia pareva risplendere. I capelli le scendevano
intorno alla faccia e lungo la schiena in onde morbide, gli occhi erano
sgranati mentre parlava di un qualcosa che la entusiasmava.
In quel momento sua figlia era così bella che Basia sentì il petto che gli
doleva. Quando lo vide, il volto le si illuminò in un sorriso. Prima che potesse
parlare, Basia la prese fra le braccia e la strinse forte a sé.
«Papà» disse lei, con la preoccupazione che le trapelava dalla voce.
«No, piccola, è tutto a posto» la rassicurò lui, scuotendo il capo contro la
sua guancia. «Non sono venuto per fermarti. Solo... non potevo permetterti di
partire senza salutarti.»
Si sentì la guancia bagnata. Felcia stava piangendo. La prese per le spalle e
la allontanò da sé per guardarla in faccia. La sua bambina, che era ormai
cresciuta ma piangeva ancora fra le sue braccia. Non poté fare a meno di
vedere la bambina di quattro anni che era stata un tempo mentre piangeva
perché era caduta e si era fatta male a un ginocchio.
«Papà,» replicò lei, con voce inspessita dall’emozione «temevo che mi
avresti odiata per aver voluto partire, ma la mamma ha detto...»
«No, piccola, no.» Basia l’abbracciò di nuovo. «Vai, e quando lasceranno
partire la nave, vai su Ceres, diventa un dottore e vivi una vita fantastica.»
«Perché?»
Perché qui la gente vede la tua morte come uno strumento per vincere la
battaglia dell’opinione pubblica. Perché ho perso tutti i figli che sono
disposto a perdere. Perché non posso permettere che tu mi veda quando alla
fine mi arresteranno.
«Perché ti voglio bene, piccola,» rispose invece «e voglio che diventi
qualcosa di incredibile.»
Lei lo abbracciò, e per un momento tutto tornò a essere a posto
nell’universo. Basia la guardò salire a bordo, fermarsi dentro il portello per
salutare e lanciargli un bacio. Guardò caricare il resto del minerale nella stiva
e rimase a guardare mentre la navetta decollava con un ruggito e un’ondata di
calore.
Poi tornò verso la città per andare a cercare Holden.
Holden e Amos sedevano nel piccolo bar dello spaccio. Amos beveva e
osservava tutti quelli che entravano dalla porta, tenendo il bicchiere con la
sinistra e la destra mai lontana dall’arma che aveva alla cintura. Holden
digitava in fretta sul terminale palmare che era posato sul tavolo. Entrambi
apparivano tesi.
Basia si diresse verso di loro con un sorriso e un cenno del capo, badando a
tenere le mani in vista e lontane dal corpo. Amos ricambiò il sorriso. Il cuoio
capelluto del grosso uomo appariva pallido e lucido sotto la luce bianca a LED
dello spaccio. Il gesto con cui si protese in avanti sulla sedia parve del tutto
naturale, senza nulla di minaccioso, ma Basia notò che avvicinò la pistola alla
mano in modo all’apparenza accidentale.
Quello era un genere di dettagli che non avrebbe mai notato prima. Coop e
Cate, e la violenza degli ultimi mesi lo avevano lasciato sul chi vive,
portandolo a vedere potenziale violenza ovunque. Nel guardare Amos, ebbe il
sospetto che i suoi istinti non si sbagliassero.
«Capitano Holden, posso unirmi a voi per un momento?» chiese,
sollevando le mani.
Holden alzò la testa di scatto, sorpreso e spaventato. Basia era sicuro di non
essere lui la fonte di quella paura, e si chiese di cosa si trattasse. Murtry e i
suoi assassini al soldo della società? Oppure Holden aveva appreso da
qualcun altro dell’attacco che veniva pianificato?
«Prego» lo invitò Holden, mente la paura gli svaniva dal volto rapida
com’era apparsa, e indicò una delle sedie vuote. «Cosa posso fare per lei?»
Amos non disse nulla, limitandosi a sfoggiare quel suo vago sorriso. Basia
sedette, accertandosi di tenere le mani in vista sul tavolo. «Capitano, sono
venuto ad avvertirla.»
«Riguardo a cosa?» chiese subito Amos. Holden rimase in silenzio.
«Qui c’è un gruppo, lo stesso che ha attaccato e ucciso la squadra di
sicurezza della RCE, prima del vostro arrivo. Nei prossimi giorni, forse anche
domani notte, vogliono uccidere il resto delle guardie della sicurezza.»
Holden e Amos si scambiarono una rapida occhiata. «Ci aspettavamo
qualcosa del genere» affermò poi Holden. «Però non è questa la cosa
importante...»
Basia non lo lasciò finire. «Vogliono uccidere anche voi.»
Holden si raddrizzò leggermente. Non sembrava tanto infuriato quanto
offeso.
«Me? Perché mai vogliono uccidere anche me?»
«Ritengono che servirà a mandare un messaggio» spiegò Basia, in tono
apologetico. «Inoltre, sono infuriati riguardo al controllo degli esplosivi.»
«Te lo avevo detto» commentò Holden, rivolto ad Amos. «Un buon
compromesso fa incazzare tutti.»
Senza rendersi conto di quello che stava facendo, Basia afferrò la bottiglia
che era sul tavolo e bevve un lungo sorso. Doveva essere qualcosa che
avevano portato con loro, perché era un whisky molto migliore di qualsiasi
cosa si potesse avere alla colonia. Gli scaldò piacevolmente la gola e il
ventre, ma non lo calmò quanto aveva sperato. Spinse di nuovo la bottiglia
verso Amos, ma il grosso uomo lo fermò. «Tienila tu, fratello. Hai l’aria di
averne bisogno.»
«Cosa farete?» chiese Basia a Holden.
«Riguardo all’assassinio? Niente, non ha importanza perché ce ne
andremmo tutti.»
«Ce ne andremo...»
«Stiamo per evacuare il pianeta. Tutti quanti.»
«No» protestò Basia. «Non se ne andrà nessuno. Non possiamo andarcene
ora.» Ho aiutato a uccidere delle persone per restare qui.
«Oh, ce ne andiamo eccome» dichiarò Holden. «Su questo pianeta sta
succedendo qualcosa di molto brutto che non ha niente a che vedere con
cinturiani ostinati o guardie di sicurezza sociopatiche.»
Basia bevve un altro lungo sorso dalla bottiglia. L’alcol cominciava a
lasciarlo leggermente stordito, ma non era meno ansioso di prima. «Non
capisco.»
«Un tempo qui viveva qualcuno» disse Holden, agitando un braccio intorno
a sé. La mente di Basia, intorpidita dall’alcol, impiegò un momento a rendersi
conto che lui non si riferiva allo spaccio. «Forse se ne sono andati, o forse no,
ma si sono lasciati alle spalle un sacco di cose, e alcune si stanno svegliando.
Quindi, prima di finire per essere una versione di Eros con un grande cielo
azzurro, tutti quanti alzeranno i tacchi al più presto.»
Basia annuì senza capire. Amos gli sorrise e precisò: «Le torri e i robot,
amico. Lui parla di quella roba aliena. Pare che parte di essa si stia
svegliando.»
«In questo momento sto mandando un messaggio alla Rocinante perché lo
ritrasmetta al consiglio delle Nazioni Unite e dell’APE» continuò Holden. «Il
mio consiglio è che tutti tornino in orbita il più in fretta possibile. Richiedo
anche di assumere il comando d’emergenza della Israel e della Barbapiccola
per facilitare l’evacuazione.»
«Non succederà» dichiarò Basia, in tono sommesso.
«Non è una cosa facile da ottenere,» ammise Holden «ma so essere
persuasivo, e una volta ottenuto il comando...»
«Non se ne andranno» affermò Basia. «Qui la gente ha già versato sangue
per la terra, è morta per essa. Siamo pronti a ucciderci a vicenda per restare
qui, ed è certo come l’inferno che rimarremo e combatteremo contro qualsiasi
altra cosa voglia mandarci via.»
«A patto che qualcuno sopravviva» osservò Amos.
«Sì, certo» convenne Basia. «A patto che qualcuno sopravviva.»
18
Holden

Murtry e la sua squadra avevano convertito il piccolo avamposto


prefabbricato della sicurezza in una fortezza. Le pareti interne erano state
cosparse di una schiuma che assorbiva energia e che sembrava panna montata
ma formava una barriera balistica capace di fermare proiettili ed esplosivi a
basso potenziale. Una grossa rastrelliera per i fucili dotata di serratura
biometrica era sistemata in un angolo e al momento conteneva poche armi.
Non sapendo esattamente quante la squadra ne avesse portate con sé, Holden
non aveva modo di stabilire se quella scarsità fosse una cosa buona o cattiva.
Murtry sedeva dietro una piccola scrivania su cui era posato un terminale
palmare. Si appoggiò sullo schienale della sedia, le mani dietro la testa e un
vago sorriso sul volto. Sembrava un uomo che avesse a disposizione tutto il
tempo del mondo.
«Mi ha sentito quando le ho detto che ci sono persone intenzionate ad
assassinare la sua squadra?» chiese Holden.
«Vorrei che la smettesse di usare quella parola» protestò Carol Chiwewe.
La coordinatrice aveva insistito per essere presente a ogni incontro fra
Holden e la gente della RCE, ed era parsa una richiesta ragionevole. Adesso,
con la sua gente che complottava un attacco, la cosa appariva piuttosto come
un rischio per la sicurezza.
«Si riferisce ad ‘assassinio’?» ribatté Murtry. «‘Terrorismo’ suona meglio.
‘Omicidio’ ha sempre avuto un suono troppo legale per i miei gusti.
Pretenzioso.»
«Un momento» intervenne Holden, prima che Carol potesse abboccare
all’esca lanciatale da Murtry. «Smettetela immediatamente. La mia capacità
di sopportazione per il piccolo battibecco che avete in corso quaggiù ha
raggiunto il limite. Questo non è più un negoziato sui diritti, e neppure una
discussione su chi abbia attaccato per primo.»
«No?» commentò Murtry. «E cosa sarebbe, allora?»
«Si tratta di dirmi cosa succederà.»
«Dire a lei» ripeté Murtry.
«Non è lei a comandare, qui» aggiunse Carol. Holden represse l’irritazione
che provava per come quei due univano le forze soltanto per rendergli la vita
più difficile.
«Di recente due cose sono cambiate, e una terza è rimasta la stessa» ribatté,
sforzandosi di mantenere un tono cortese. «La violenza sta per inasprirsi, con
tutti noi che barcolliamo sull’orlo di una guerra aperta fra la colonia e la RCE.
E, cosa probabilmente più importante, le cose aliene lasciate su questo
pianeta si stanno svegliando.»
«Qual è la cosa che è la stessa?» chiese Murtry.
«Eh?»
«La cosa che non è cambiata.»
«Giusto» annuì Holden, protendendosi verso di lui sulla scrivania. «Io sono
ancora l’unico in questo sistema ad avere una nave da guerra in orbita.
Quindi, tenendo a mente quelle tre cose, lasceremo questo pianeta prima che
voi idioti possiate uccidervi ulteriormente a vicenda o che gli alieni ci
ammazzino tutti.»
«Ora ci minaccia?» esclamò Carol, alle sue spalle.
«Ci può scommettere, se è quello che ci vuole» ribatté Holden, senza
distogliere lo sguardo da Murtry. «Cominci a far preparare la sua gente alla
evacuazione. Fate scendere a terra le navette della Israel, adesso. La Israel
partirà con me entro trenta ore e dovete essere a bordo quando succederà.»
«Non può farlo» dichiarò Carol, e Holden si girò di scatto a fissarla.
«Posso. Faremo tornare a terra anche la navetta della Barbapiccola, e le
suggerisco di dire alla sua gente di prendere con sé le cose a cui tiene e di
cominciare a imbarcarsi, perché anche la Barbapiccola se ne andrà.»
«Ha finito?» domandò Murtry, in tono rilassato. «Adesso posso
controbattere?»
«Non c’è niente da controbattere» disse Holden, avvicinando una sedia alla
scrivania e mettendosi a sedere, un gesto con cui indicava che non gli
importava degli strumenti di controllo che l’ufficio della sicurezza forniva a
Murtry.
«Quindi, ecco il prezzo della fama» continuò Murtry. «Lei è una delle
persone più famose del sistema solare. È per questo che hanno mandato lei.
La fama le conferisce un’illusione di potere, ma è soltanto una facciata.»
«No, il fatto che possiedo la Rocinante...»
Murtry agitò le mani nell’aria con quello stesso gesto condiscendente che
aveva usato con Carol. «Lei è famoso per essere l’uomo che cerca di salvare
tutti. Per essere il cavaliere in bianca armatura del sistema solare, che punta la
sua lancia contro giganti come la Protogen e la Mao-Kwik. La sua nave ha il
nome giusto.»
Murtry rise dell’espressione accigliata di Holden.
«Sì, ho letto il libro» proseguì Murtry. «Quindi è per questo che l’hanno
mandata qui. Nessuno si aspetta che il grande James Holden prenda le parti di
qualcuno, che supporti segretamente i coloni o una delle malvagie società
terrestri. Lei è l’uomo senza un piano personale o fini reconditi.»
«Grandioso» commentò Holden. «Grazie per l’analisi introspettiva. Adesso
chiami i suoi uomini e...»
«Ma siamo a diciotto mesi di viaggio dalla più vicina struttura con una certa
legalità, e il solo vero potere che lei abbia qui è quello della violenza.»
«Qui è lei l’uomo violento» lo accusò Carol.
«Lo sono» convenne Murtry. «Comprendo l’impiego della violenza meglio
della maggior parte della gente. E la cosa che so di lei, capitano Holden, è che
non è un uomo violento. Vede, se a fare queste minacce fosse quel bruto che
ha portato con sé, dovrei prendere la cosa sul serio. Ma non se vengono da
lei. Attualmente, ha in orbita un’astronave che potrebbe trasformare la Israel
e la Barbapiccola in metallo fuso e poi seminare su questo pianeta tanta
distruzione da cancellare ogni traccia di vita umana in questo sistema solare...
ma lei non è il tipo d’uomo che preme il grilletto, e lo sappiamo entrambi.
Quindi si risparmi le minacce. Sono imbarazzanti.»
«Lei è fuori controllo» dichiarò Holden. «È pazzo, e non appena la RCE lo
scoprirà...»
«Scoprirà... cosa? Che un mediatore delle Nazioni Unite si è spaventato
perché c’era un manufatto alieno su un pianeta alieno, e che io non l’ho
fatto?» lo interruppe Murtry. «Mandi pure il suo rapporto. Sono certo che con
la sua reputazione e il supporto di cui gode alle Nazioni Unite e all’APE le sue
parole saranno prese in seria considerazione. E forse – forse – fra tre anni
arriverà qualcuno a sollevarmi dall’incarico e a rimpiazzarmi.»
Holden si alzò in piedi e abbassò la mano sul calcio della pistola. «O forse
potrei farlo io adesso.»
Sulla stanza scese il silenzio per un momento. Carol parve trattenere il
respiro. Murtry fissò Holden con aria accigliata, dando per la prima volta
l’impressione di essere stato colto alla sprovvista. Holden attese senza
distogliere lo sguardo, abbastanza furente da estrarre l’arma contro Murtry e
anche infuriato con sé stesso per essersi lasciato trascinare fino a quel punto.
Murtry sorrise, una cosa che non fece nulla per spezzare la tensione. «Se
avesse portato con sé quell’altro uomo, la minaccia potrebbe avere un peso.
Sappiamo entrambi chi è l’omicida, nel suo equipaggio.»
«Se pensa che non le sparerei lì dove si trova in questo istante per salvare
tutti gli altri che si trovano sul pianeta, allora non mi conosce affatto.»
Ci fu uno strisciare sul pavimento quando Carol si spostò all’indietro verso
la porta e fuori della potenziale linea di tiro. Holden però mantenne lo
sguardo su Murtry. Il capo della sicurezza lo fissò con aria accigliata per
parecchi secondi, poi tornò a sfoggiare un vago sorriso. Ci siamo, pensò
Holden, e cercò di impedire che l’ondata di adrenalina gli facesse tremare la
mano.
Quando il terminale palmare sulla scrivania si mise a trillare per una
chiamata in arrivo, Holden ne fu tanto sorpreso che estrasse a metà la pistola
prima di riuscire a trattenersi. Murtry non si mosse. Il terminale stridette di
nuovo.
«Posso rispondere?» chiese Murtry.
Holden si limitò ad annuire, lasciando ricadere l’arma nella fondina. Murtry
prese il terminale e attivò la connessione.
«Parla Wei» disse una voce.
«Procedi.»
«La squadra è in posizione. Gli uccelli sono nel nido e si stanno
attrezzando. Entriamo in azione?»
«Aspetta» rispose Murtry, poi posò il terminale e sollevò lo sguardo su
Holden. «Lei è ancora scosso per quello che è successo su Eros, e lo capisco.
Non è razionale riguardo a questa faccenda degli alieni e, in tutta onestà, chi
lo sarebbe? Le perdono le sue minacce e apprezzo il suo intento iniziale che
l’ha portata qui ad avvertirmi del pericolo che correva la mia squadra. Mi
dice che nonostante le divergenze lei sta ancora cercando di salvare la mia
gente.»
«Non è necessario che muoia nessuno» disse Holden, sperando contro ogni
logica che Murtry stesse facendo marcia indietro.
«Ecco, a rigor di termini questo non è vero» replicò Murtry. «Sono bravo in
questo lavoro. Credeva non sapessi di questa piccola insurrezione? L’ho
saputo prima di lei.»
Le squadre di sicurezza che pattugliavano le strade non potevano essersi
avvicinate tanto da ascoltare. «Ha disseminato microspie in città.»
«In ogni singolo edificio» confermò Murtry. «Quindi anche se apprezzo che
lei sia venuto qui, credo di avere la situazione sotto controllo.»
«Ha installato microspie nella mia città?» chiese Carol, mentre in lei l’ira
sembrava avere la meglio sulla paura.
«Cosa sta facendo?» domandò Holden. «Non faccia stupidaggini.»
Murtry si limitò a sorridere di nuovo, poi raccolse il terminale palmare e
disse: «Via libera, squadra di assalto.»
Il suono degli spari, all’esterno, fu attutito dalla spuma che copriva le pareti
e giunse fino a loro come una rapida sequenza di fievoli scoppiettii, come
fuochi d’artificio in lontananza o una guarnizione idraulica guasta che finisse
per cedere.
«Oh, no» gemette Carol, e si precipitò alla porta. Holden la seguì,
armeggiando con il terminale palmare per chiamare Amos.
Fuori, il rumore era molto più forte. Le raffiche scandite degli spari
infrangevano la quiete della notte, i loro bagliori erano come lampi lontani
che illuminassero la periferia della città. Holden corse verso gli spari,
gridando nel terminale per far venire Amos. Incespicò nel buio e il terminale
gli cadde di mano, ma non si fermò a raccoglierlo.
All’estremità settentrionale della città trovò il resto delle forze di sicurezza
di Murtry che sparavano contro una delle case. Dall’interno, qualcuno
rispondeva al fuoco. Gli agenti della sicurezza urlavano alle persone nella
casa di arrendersi, loro rispondevano con imprecazioni e spari. Volute di
fumo si riversavano da una delle finestre rotte della costruzione, segno che
all’interno qualcosa stava bruciando.
«Smettetela!» gridò Holden, nel correre verso la gente della RCE. Loro lo
ignorarono e continuarono a fare fuoco sulla casa. Una delle pallottole di
risposta colpì una delle guardie al petto, e l’armatura produsse un tonfo sordo
nel fermare il proiettile. La donna cadde supina con un grido di dolore e di
sorpresa, e il resto della squadra concentrò il tiro sulla finestra da cui era
giunto lo sparo, riducendo in schegge il telaio e il muro intorno a esso.
Le fiamme all’interno dell’abitazione si estesero all’improvviso con
un’onda di calore e un sibilo potente. Dentro qualcuno urlò in preda al panico
o al dolore. La porta anteriore, che era già ridotta a una massa di schegge di
fibre di carbonio a causa degli spari si spalancò e una donna uscì di corsa
imbracciando un fucile. Gli agenti le spararono e lei si accasciò fra schizzi di
sangue ai piedi dei gradini, sussultando.
«Stanno bruciando!» gridò Holden, e afferrò per le braccia l’agente della
RCE più vicino, scrollandolo. «Dobbiamo farli uscire!»
L’uomo reagì allontanandolo con una spinta. «Stia indietro finché l’area
non sarà stata sgomberata, signore!»
Holden lo spinse a sua volta, con forza sufficiente a farlo finire seduto nella
polvere, poi corse verso la donna accasciata davanti alla casa. Dall’interno
qualcuno dovette credere che stesse attaccando, perché risuonò un colpo di
fucile a canne mozze e a un metro da lui sul terreno ci fu un’esplosione di
polvere in miniatura. Gli uomini della RCE ripresero a sparare, e Holden si
venne a trovare intrappolato in quel fuoco incrociato.
Di nuovo, pensò una parte remota e ancora calma del suo cervello,
meravigliandosi della frequenza con cui quel genere di cose pareva
succedere.
Si tuffò a terra e rotolò fino a coprire con il proprio corpo quello della
donna, urlando a tutti di fermarsi. Nessuno lo ascoltò. Nella casa, il fuoco si
estese ancora con rinnovato fragore e il calore che produsse gli strinò la pelle
esposta della faccia e delle mani. Improvvisamente gli spari che provenivano
dall’interno cessarono, e di lì a poco anche gli uomini della RCE smisero di
sparare. Holden afferrò la donna per le braccia e la trascinò lontano dalle
fiamme. Nel raggiungere gli agenti della RCE incespicò e cadde ai loro piedi.
«Aiutate lei» gracchiò, rivolto alla donna che si era chinata per aiutarlo ad
alzarsi, poi si sollevò sulle mani e sulle ginocchia, ma rimase fermo in quella
posizione perché era troppo stordito per mettersi in piedi.
Un altro membro della squadra di sicurezza si stava già chinando sulla
donna ferita. «Questa è morta.»
Holden tornò ad accasciarsi al suolo, d’un tratto privo di ogni forza. Troppo
tardi. Il grosso tritacarne da cui cercava di salvare quella gente continuava a
fagocitarla spietatamente, e loro continuavano a mettersi in fila per gettarsi al
suo interno. Gli uomini della RCE stavano aiutando la compagna atterrata a
rialzarsi, e lei insisteva di stare bene, che l’armatura aveva fermato la
pallottola e se la sarebbe cavata con un brutto livido. Qualcuno fece una
battuta sugli idioti che andavano a una sparatoria armati di fionda e suscitò
alcune risate. Per tutto il tempo la casa continuò a bruciare, riempiendo l’aria
di fumo acre e dell’odore di resina epossidica surriscaldata e di carne di
maiale che cuoceva.
Poi gli uomini della RCE parvero ricordarsi della sua presenza e parecchi di
essi si avvicinarono, abbassando lo sguardo su di lui.
«Mettetelo sotto custodia» disse qualcuno. Era Wei, la donna che era
venuta con loro a dare un’occhiata all’automa alieno. Quella che gli aveva
sparato. Adesso lo stava fissando senza traccia di compassione nello sguardo.
«Fottiti» ribatté Holden, cercando di alzarsi in piedi. «Non metti sotto
custodia un accidente di niente.»
Wei lo colpì al petto con il calcio del fucile, sbattendolo di nuovo a terra.
Un altro uomo della sicurezza gli puntò contro la propria arma, e Holden si
sorprese a pensare che molto probabilmente sarebbe stato il prossimo a essere
ucciso.
«Ora basta» intervenne una voce calma, e Murtry emerse dal buio, entrando
nel loro campo visivo. «Nessuno sparerà al capitano Holden.»
«Ha cercato di aiutare i terroristi» dichiarò Wei.
«Davvero?» Murtry si finse sconvolto. «Non lo avrà fatto davvero, spero.
Sarebbe una violazione della neutralità della sua posizione qui, giusto?»
«Ho cercato di aiutare una donna a cui avevano sparato» replicò Holden,
rialzandosi lentamente in piedi. Si sentiva lo sterno ammaccato, ma non era
un problema. Si poteva sentire dolore solo finché si era ancora vivi.
«Mi sembra una cosa ragionevole» commentò Murtry. «È questo tutto
l’aiuto che ha dato ai terroristi?»
Wei annuì, poi distolse lo sguardo con aria irritata.
«Allora non abbiamo ragione di trattenerla» continuò Murtry, con voce
piena di buon umore. È pazzo, pensò Holden. Ha perso completamente il
senso della misura. Potrei ucciderlo adesso e porre fine a tutto questo. Nella
mente, gli parve di vedere Miller che annuiva in segno di approvazione.
«Signore» avvertì Wei, imbracciando il fucile e puntandolo verso l’oscurità
al di là dell’incendio. «Arriva qualcuno.»
«Frena i bollenti spiriti» disse nel buio la voce di Amos, che un momento
più tardi avanzò nel cerchio di luce. Con lui c’erano Basia Merton, Carol
Chiwewe e parecchi altri coloni.
«Mio dio» mormorò Carol, guardando le fiamme. «Qualcuno è riuscito a
uscire?»
Uno degli agenti della sicurezza indicò con il fucile il corpo che giaceva sul
terreno. «Lei.»
«Zadie» disse Basia. «L’hanno uccisa.»
Murtry venne avanti e si schiarì la gola, cominciando a parlare quando tutti
gli sguardi furono concentrati su di lui. «La mia squadra ha circondato la casa
in cui una cellula di terroristi si stava preparando ad assassinare me, l’intero
distaccamento di sicurezza della RCE e il capitano Holden. Avevano armi da
fuoco e forse anche esplosivi. Quando la squadra di sicurezza ha chiesto loro
di uscire dall’edificio disarmati e con le mani in alto hanno aperto il fuoco.
Tutti i terroristi sono stati uccisi dal fuoco di risposta. È possibile che gli
esplosivi che i terroristi intendevano usare abbiano agito da acceleranti
quando la casa ha cominciato a bruciare. Qui è stato fatto tutto secondo le
regole, in modo appropriato, per proteggere il personale della RCE e il
mediatore delle Nazioni Unite e dell’APE.»
Carol fissò con espressione sconvolta la casa in fiamme. «In modo
appropriato...»
«Mr Merton,» continuò Murtry «mi fa piacere che si sia unito a noi.
Sergente Wei, prenda in custodia Basia Merton.»
«Cosa?» protestò Basia, sollevando le mani e indietreggiando. «Perché io?»
«No» intervenne Holden, parandosi davanti a Wei e piantando le mani sulla
corazza della sua armatura. «Non se ne parla.»
«Mr Merton faceva parte della cospirazione» dichiarò Murtry, parlando a
voce abbastanza alta da essere sentito dalla crescente folla di coloni. «Ha
partecipato alle riunioni segrete durante le quali è stato pianificato l’attacco, e
ci sono prove significative che abbia partecipato all’attacco in cui cinque dei
miei uomini sono rimasti uccisi. È possibile che abbia avuto parte anche in
quello che è successo al governatore Trying.» Poi abbassò la voce e aggiunse:
«Si tolga di mezzo, Holden, o le passeremo sopra.» Wei gli rivolse un sorriso
privo di umorismo e uno degli altri uomini della sicurezza li aggirò per
dirigersi verso Basia con in mano un paio di manette di plastica.
Amos si parò davanti a Basia e sferrò un pugno in faccia all’uomo della
RCE. Si sentì un rumore come di un martello che colpisse un quarto di bue, e
l’uomo della sicurezza cadde a terra come una marionetta a cui fossero stati
tagliati i fili.
«Nossignore» disse Amos, poi scosse la mano destra con una smorfia e
aggiunse: «Ouch.»
Il resto degli agenti gli puntò contro il fucile. Holden vide Amos abbassare
la destra verso la fondina, poi gli si mise davanti e gridò: «Fermatevi!»
«Lo prenderemo in custodia, in un modo o nell’altro» dichiarò Murtry,
indicando Basia. «Per adesso lasceremo correre l’aggressione contro uno dei
miei uomini. Siamo tutti sovreccitati.»
«Ce ne andremo comunque» ribatté Holden, a bassa voce, appellandosi a
Murtry più che alla folla.
«Non ha l’autorità per ordinare a nessuno di andarsene» ritorse Murtry.
«Speravo che quella questione fosse chiusa.»
«Nel frattempo,» proseguì Holden, come se Murtry non avesse parlato «le
Nazioni Unite prenderanno in custodia quest’uomo, Basia, come parte della
nostra indagine. Una volta in custodia sulla mia nave non costituirà una
minaccia per la sua gente, quaggiù, e quando torneremo indietro lei potrà
presentare le prove di cui dispone e farlo arrestare.»
«‘Tornare indietro’» ripeté Murtry, con un pigro sorriso. «Intende tenerlo in
una cella di detenzione per i prossimi anni? Perché io l’ho accusato di
qualcosa?»
«Se ci sarò costretto» ribatté Holden. «Perché non credo neppure per un
secondo che lei non lo ucciderebbe.»
Murtry scrollò le spalle. «D’accordo. Allora lui è una sua responsabilità. Lo
tenga lontano dal mio pianeta.»
Basia appariva sconvolto, con lo sguardo perso nel nulla. I coloni
procedettero a organizzare una squadra per spegnere l’incendio mentre
Murtry e i suoi se ne stavano a guardare senza offrirsi di dare una mano, un
memento visibile della minaccia che rappresentavano, vicino alla violenza
che era il risultato del loro operato.
Holden tornò in città con Basia e Amos. Si tastò le tasche alla ricerca del
terminale palmare prima di ricordare di averlo lasciato cadere mentre correva
verso la sparatoria. Al buio non lo avrebbe mai trovato, quindi prese in
prestito quello di Amos e chiamò la nave.
«Naomi» disse, quando lei rispose. «Porta giù la Roci sull’area di
atterraggio. Abbiamo bisogno che scarichi la nostra armatura pesante e armi
più potenti.»
«Questo non suona affatto promettente» osservò lei.
«Infatti. Hai già avuto qualche risposta dalle Nazioni Unite o da Fred?»
«Niente, per ora. Devo dedurre che questo significhi che la RCE e la gente di
Ganimede non hanno nessuna premura di andarsene?»
«No» confermò Holden, con un profondo sospiro. «No, preferiscono restare
qui e uccidersi a vicenda finché i congegni alieni non cominceranno a
trasformarli in parti di ricambio.»
«E tu?» Naomi stava chiedendo se sarebbe tornato in orbita anche lui.
Sarebbe stata la cosa sensata da fare.
«Non ancora» rispose Holden. «Forse lo farò, se la cosa dovesse aggravarsi
ulteriormente.»
«Ti riferisci agli alieni o alla gente?»
«Esatto.»
«Alex ha visto alcuni altri picchi di energia e del movimento, ma è
parecchio a sud rispetto a te. Se le cose dovessero farsi più interessanti te lo
farò sapere.»
«D’accordo. Oh, e prenderete anche a bordo un passeggero.»
«Que?»
«È una cosa complicata, ma lo prendiamo a bordo della Roci perché qui non
è più al sicuro. Sono in debito con quest’uomo, Naomi. Ha cercato di
salvarmi la vita. Abbi cura di lui.»
«D’accordo.»
«E, tesoro?» aggiunse Holden, incapace di impedire alla preoccupazione di
trapelargli dalla voce. «Quando torni in orbita, tieni bene d’occhio la Israel.
Credo che le cose qui potrebbero precipitare sul serio, e che quando lo
faranno potrebbe succedere lo stesso lassù.»
«Ah!» commentò Naomi, e Holden poté avvertire il sorriso nella sua voce.
«Che ci provino.»
19
Havelock

Il corridoio si estendeva per quaranta metri fra i serbatoi di riciclaggio e


l’officina meccanica secondaria, con portelli inseriti ogni dieci metri;
ascensori aperti presenti a ciascuna estremità conducevano rispettivamente
alla sezione di controllo ambientale a prua e alla sezione idroponica a poppa.
L’età della Israel traspariva non soltanto dalla progettazione delle pareti e
dalle grate del pavimento, ma anche dal colore fra il grigio e il verde della
ceramica. Gli spigoli delle porte indicavano quanto la sicurezza fosse stata
migliorata nei decenni trascorsi da quando la nave aveva oltrepassato per la
prima volta l’orbita di Marte. Una cicatrice bianca che attraversava una parete
indicava dove qualcosa di drastico era successo nella storia precedente della
nave ed era stato rappezzato come una mano di pittura che coprisse alcuni
graffiti. Havelock lottò contro l’impulso di appiattirsi nell’angolo più vicino
alla porta.
Era difficile. La sua specie si era evoluta nel pozzo gravitazionale della
Terra, era cresciuta e si era sviluppata in esso. Il suo romboencefalo gli
diceva che la pressione significava sicurezza. I sussurri rabbiosi degli uomini
nel corridoio facevano accelerare i battiti del suo cuore e la parete, a pochi
centimetri dalla sua schiena, sembrava attirarlo come un magnete. Era un
errore aspettare che succedesse. Se si fosse appoggiato all’indietro per
premersi contro il muro, questo lo avrebbe spinto a sua volta e lo avrebbe
mandato nell’aria aperta del corridoio. E nella linea di tiro. La seconda legge
della termodinamica applicata a uno scontro a fuoco.
«Libero» disse uno degli ingegneri, e Havelock si sentì combattuto fra
piacere e irritazione. Non è libero, pensò. Non lo avevano visto, quindi
pensavano che non fosse lì. Tenne la pistola lungo la gamba e rimase
immobile, aspettando. Non si addossò alla parete.
Il primo uomo che passò oltre fluttuando non lo notò se non quando era già
stato colpito. Il proiettile di vernice di Havelock chiazzò di arancione il petto
dell’uomo. Quello che veniva dietro di lui aveva già lanciato in avanti il suo
corpo, era fra un appiglio e il successivo, impossibilitato a cambiare
traiettoria. Havelock lo colpì due volte, una alla gamba e una al ventre. In un
vero scontro, adesso ci sarebbe stato sangue nell’aria, fini gocce rosse che
vorticavano a formare dei globi e cominciavano già a coagularsi. Il terzo
uomo era ancora abbastanza lontano nel corridoio da impedire a Havelock di
avere una linea di tiro sgombra. Una mezza dozzina di proiettili di vernice gli
passò accanto sibilando per andare a chiazzare la murata di ceramica. Fuoco
di copertura. Non era un cattivo piano, ma non c’era più nessuno che potesse
approfittarne.
Havelock esercitò una trazione controllata sulla maniglia alle sue spalle per
impedirsi di fluttuare verso l’esterno, ricaricò la pistola e contò i colpi in
arrivo. L’ingegnere ‘morto’ fluttuava nel corridoio con un’espressione acida
sulla faccia. Havelock contò quindici colpi, poi ci fu una pausa e si sentì il
suono metallico di una pistola che espelleva un caricatore. Havelock si tirò in
avanti di qualche centimetro per guardare lungo il corridoio. L’ultimo uomo,
Williams, non si era messo al coperto mentre armeggiava per ricaricare
l’arma. Havelock sparò tre volte e lo colpì soltanto una. Quelle pistole
facevano schifo quanto a precisione, ma quel singolo centro era sufficiente.
L’ultimo ingegnere si lasciò sfuggire un’imprecazione.
«D’accordo» disse Havelock, parlando nel microfono del terminale
palmare. «Abbiamo finito, ragazzi. Adesso ripulite tutto, ci vediamo in sala
riunioni fra trenta minuti.»
Era difficile valutare quelle sessioni di addestramento. Da un lato, si
stavano addestrando solo da otto giorni, e quegli uomini non erano pronti per
una vera azione. Gli ingegneri non erano soldati. I tre che in precedenza nella
vita avevano ricevuto un po’ di addestramento erano talmente fuori esercizio
da essere peggio dei principianti che, se non altro, sapevano di non sapere
niente.
D’altro canto, però, stavano migliorando più in fretta di quanto si fosse
aspettato. Disponendo di un’altra settimana o dieci giorni sarebbero diventati
competenti almeno quanto una squadra di reclute, forse anche di più.
Le reclute della sicurezza erano spinte da una quantità di motivazioni – il
bisogno di un lavoro, una visione idealistica dell’aiutare la gente, a volte solo
un amore narcisistico per la violenza. Gli ingegneri no, erano più focalizzati,
più determinati, e si avvertiva una palpabile sensazione di gioco di squadra
contro il nemico. La sconfitta della cellula terroristica da parte di Murtry, sul
pianeta, li aveva lasciati eccitati e insieme nervosi, e Havelock non trovava
che ci fosse niente di sbagliato nella sete di sangue, a patto che fosse
incanalata e controllata.
Per la mezz’ora successiva gli ingegneri e la squadra di sicurezza –
Havelock e altri due membri del contingente ridotto – si aggirarono fra
corridoi, stive e portelli per ripulire il disastro dovuto all’esercitazione. La
pittura polimerizzava in fretta, staccandosi dalle pareti e dalle grate senza
creare troppe scaglie o lasciare nell’aria frammenti che qualcuno poteva
respirare. Inoltre, gli ingegneri avevano costruito set di aspiratori personali
che filtravano tutto, dalle minuscole particelle di pittura alle molecole volatili
presenti nell’aria. Mentre lavoravano ridevano, scherzavano e si scambiavano
insulti amichevoli, come studenti di arti marziali che ripulissero un dojang.
Non era intenzione di Havelock che la pulizia diventasse un esercizio che
rafforzava i legami di squadra, ma la cosa funzionava tanto bene che lui
aveva cominciato a dire a sé stesso di averci pensato.
La sala riunioni dove tenevano la lezione di orientamento prima
dell’esercitazione e l’analisi dell’accaduto dopo di essa era stata progettata
per la falsa gravità creata dalla spinta di propulsione. Un tavolo oblungo era
fissato al pavimento ed era circondato da sedili a smorzamento che gli
ingegneri non utilizzavano. Havelock non aveva idea di come si fosse arrivati
alla decisione di ignorare il tavolo e di ruotare di novanta gradi la loro
accezione comune di su e giù, ma adesso ogni riunione si svolgeva in quel
modo, con gli ingegneri e i membri della sicurezza che fluttuavano lungo le
pareti o nel mezzo della stanza, avendo il ‘pavimento’ alla loro destra, e
Havelock che prendeva posto vicino alla porta.
«D’accordo» esordì, interrompendo il mormorio della conversazione
generale. «Cosa abbiamo imparato?»
«A non fidarci di Gibbs quando ci dice che il corridoio è libero.» Ci furono
alcune risate.
«Risposta sbagliata» ribatté Havelock, con un sorriso. «La risposta giusta è
che non bisogna avere fretta quando si sta verificando se uno spazio è libero.
Abbiamo la tendenza naturale a vedere uno spazio vuoto e pensare che sia
sicuro. Le porte e gli angoli sono sempre pericolosi, perché si sta entrando da
qualche parte senza sapere bene cosa c’è dentro. Quando infine vedete il
nemico siete ormai esposti al suo fuoco.»
«Signore?»
Havelock indicò verso la donna che aveva alzato la mano. «Sì?»
«Signore, c’è un algoritmo applicabile a questo? Se potessimo creare un
diagramma di flusso che raffiguri la tattica migliore potremmo studiarlo
quando non siamo qui a esercitarci. Credo che ci sarebbe di aiuto.»
«Potremmo creare una classificazione in base al tipo di porte e di angoli,»
interloquì qualcun altro «e al tipo di piano da utilizzare per avvicinarsi al
nemico. Mi sembra che ci troveremmo meglio se potessimo alterare l’asse in
modo da indurre il bersaglio a interpretarlo come un ‘giù’.»
Havelock li lasciò parlare per un po’. Era buffo sentir analizzare le tattiche
di una piccola unità d’assalto in termini ingegneristici, ma ormai quella era la
sua squadra. Stavano imparando a risolvere la violenza come se fosse stata
un’equazione, non per eliminarla, ma per comprenderla.
«Quello che non capisco,» osservò dopo un po’ il capo ingegnere Koenen
«è perché prendiamo anche solo in considerazione la Barbapiccola.»
Tutti gli sguardi si appuntarono su Havelock, in attesa di una spiegazione o
almeno di una risposta. Lui sentì un sorprendente nervosismo contrargli la
gola, e ridacchiò.
«Loro sono i cattivi» disse.
«La Barbapiccola è un mercantile disarmato con un equipaggio permanente
di un centinaio di persone che ha bisogno di una navetta per trasferirsi da e
sulla superficie» continuò l’ingegnere capo. «La Rocinante viaggia con un
equipaggio ridotto, metà del quale al momento non è sulla nave. A me pare
che costituisca un’alternativa migliore e a rischio più basso, come bersaglio.»
Un mormorio di assenso si diffuse per la stanza. Havelock scosse il capo.
«No» ribatté. «Il primo motivo è quello che hai appena detto: la
Barbapiccola è un mercantile disarmato. Se le cose dovessero andare storte,
il peggio che ci possiamo aspettare come reazione è una lettera stilata in tono
aggressivo. La Rocinante era una modernissima nave da guerra marziana
prima che Holden ne prendesse possesso per l’APE, e dio solo sa quali
modifiche hanno apportato da allora. Ha un pieno carico di siluri, PDC e un
cannone magnetico montato sullo scafo. Se dovesse vederci come una
minaccia, l’equipaggio della Rocinante ci potrebbe distruggere e non c’è
niente che potremmo fare per impedirlo.»
«Ma se fossimo noi ad avere quella potenza di fuoco...» cominciò Koenen.
«Andrebbe tutto bene finché rimanessimo qui» lo interruppe Havelock. «Se
tornassimo dall’altra parte della barriera, però, ci troveremmo di fronte uno
stuolo di avvocati, trattati violati e altre navi con cannoni ancora più grandi.
Se dovessimo requisire la Barbapiccola, invece, se non altro avremmo il
diritto di farlo.»
Gli ingegneri gemettero e scossero il capo, perché ‘diritti’ era un’altra
espressione che per loro equivaleva a stronzate, ma Havelock insistette.
«Tanto per cominciare, il minerale che hanno a bordo è proprietà della RCE,
almeno finché la concessione delle Nazioni Unite continua ad avere valore. In
secondo luogo, se dovessero portare a bordo altri coloni dalla superficie
potremmo sostenere che si sono resi complici di omicidio.»
«Sostenere?» commentò uno degli uomini in fondo al gruppo. La risata che
seguì suonò cupa.
«Il fatto che sia vero rafforza la nostra tesi» disse Havelock. «Se
attaccassimo la Rocinante dimostreremmo di essere tutto ciò che loro ci
accusano di essere. Se teniamo duro possiamo ancora proteggerci e vincere,
sulla lunga distanza.»
«La lunga distanza va bene se sei ancora qui per giocare la partita» obiettò
l’uomo in fondo al gruppo, ma il suo tono indicò a Havelock che aveva colto
il buonsenso del suo ragionamento. Almeno per il momento.
Ivers Thorrsen era un analista geosensoriale con lauree specialistiche
conseguite su Luna e su Ganimede. Guadagnava in un mese più di quanto
Havelock facesse in un anno lavorando nella sicurezza. Inoltre, era un
cinturiano. Crescere in un ambiente a microgravità non lo aveva influenzato
quanto altri cinturiani che Havelock aveva visto. La sua testa era forse un po’
grande per il suo corpo, la colonna vertebrale e le gambe erano forse un po’
troppo lunghe e sottili, ma con una giusta dose di esercizio fisico e di steroidi,
Thorrsen sarebbe potuto quasi passare per un terrestre. Non che avesse
importanza. Sulla Israel, tutti sapevano tutto. Quando erano partiti da casa,
quelle differenze non avevano avuto peso. Non molto, almeno.
«Oltre ai picchi di energia ci sono venti punti di aumento di calore che
abbiamo individuato finora» disse Thorrsen, indicando la raffigurazione del
globo di Nuova Terra sullo schermo inserito nella scrivania di Havelock.
«Sono apparsi tutti durante le ultime otto ore, e finora non abbiamo idea di
cosa siano.»
Havelock si grattò la testa. Le celle e la guardina erano vuote, quindi non
c’era nessuno che potesse sentirli e non c’era bisogno di essere cortese.
«Si aspettava che io avessi qualche ipotesi da avanzare? Avevo
l’impressione che fossimo qui per scoprire un mucchio di cose finora
sconosciute. Il fatto che abbia visto qualcosa che non capisce mi sembra del
tutto compatibile con questo.»
Il cinturiano stirò le labbra pallide e sottili.
«Questo potrebbe non essere niente, oppure potrebbe essere importante.
Quello che voglio dire è che dobbiamo scoprire di cosa si tratta. Sono
impegnato con un lavoro importante, non posso essere disturbato di
continuo.»
«D’accordo» annuì Havelock.
«Questo è il terzo giorno di fila che qualcuno spruzza urina nel mio
armadietto. Tre volte, capisce? Sono costretto a cercare di impedire che la
mia roba puzzi di piscio invece di analizzare dati.»
Havelock sospirò e cancellò l’immagine sullo schermo. Nuova Terra e i
suoi misteriosi punti caldi scomparvero. «Senta, capisco perché la cosa non le
piaccia, sarei scocciato anch’io, ma deve avere un po’ di tolleranza nei loro
confronti. La gente si annoia ed è sotto pressione. È naturale che diventi un
po’ aggressiva. Passerà.»
Thorrsen incrociò le braccia al petto e si accigliò di più. «Un po’
aggressiva? È questo che vede? Io sono il solo cinturiano nella squadra, e
sono il solo che subisca...»
«No. Senta, ho detto di no, chiaro? Le cose sono già abbastanza tese. Se
vuole, posso regolare un monitor sull’armadietto e far sapere agli altri che
devono darsi una calmata, ma non trasformiamo la cosa in un conflitto fra
cinturiani e gente dei pianeti interni.»
«Io non sto trasformando niente.»
«Con il dovuto rispetto, credo che lo stia facendo» ribatté Havelock. «E
quanto più cerca di farne un grosso problema, tanto più la cosa le si rivolterà
contro.»
La rabbia di Thorrsen era palpabile. Havelock cambiò leggermente
posizione e si spinse un po’ di più nella direzione che aveva
temporaneamente scelto come ‘su’. Era un vecchio trucco che aveva imparato
quando lavorava con la Star Helix: l’umanità poteva anche essersi abituata a
vivere fuori da un pozzo gravitazionale, ma la sensazione di essere più alto,
di dominare con la statura, era troppo radicata nell’animale uomo perché una
cosa da niente come l’assenza di gravità la potesse cancellare. Thorrsen trasse
un profondo respiro tremante, e per un momento Havelock si chiese se
avrebbe cercato di colpirlo. Non voleva rinchiudere l’analista in cella per
tutta la notte, ma non si sarebbe fatto problemi se si fosse giunti a quello.
«Regolerò un monitor sul suo armadietto e diffonderò un annuncio generale
per avvertire che tutti si devono dare una calmata. Nessuno urinerà più sulla
sua roba e lei potrà rimettersi al lavoro. È questo che vuole, giusto?»
«Quando scriverà quell’annuncio, dirà che devono smetterla con gli scherzi
o che devono smettere di molestare i cinturiani?»
«Credo conosca già la risposta.»
Thorrsen accasciò le spalle, sconfitto, e Havelock annuì. Non per la prima
volta, fu colpito dalla realizzazione che simili confronti erano come una
danza. Certe mosse richiedevano determinate risposte, e la maggior parte
della cosa si svolgeva nelle parti basse del cervello, per cui il linguaggio non
ne era neppure consapevole. Quell’incurvarsi delle spalle di Thorrsen era
un’offerta di sottomissione, il suo cenno del capo era un accettare tale
sottomissione, e tuttavia probabilmente Thorrsen non si era neppure accorto
che tutto quello era successo.
In effetti, non se ne era reso conto, perché la sua mente razionale continuò a
protestare anche se ogni decisione era ormai stata presa.
«Se lei fosse l’unico terrestre e fossero i cinturiani a fare queste cose, la
penserebbe diversamente.»
«Grazie per avermi informato del problema» tagliò corto Havelock.
«Provvederò a risolverlo.»
Thorrsen si spinse lontano dalla scrivania e fluttuò con grazia attraverso
l’aria, scomparendo nel corridoio. Havelock sospirò, poi riattivò lo schermo
sulla scrivania e sfogliò i rapporti relativi alla nave. La verità era che gli
incidenti stavano aumentando. Perlopiù si trattava di piccole cose, lamentele
per infrazioni minime alla politica aziendale, accuse di incetta o di condotta
sessuale impropria. Uno dei chimici organici si era messo a produrre sostanze
eccitanti. Il consulente psichiatrico di bordo inoltrava avvertimenti sempre
più frenetici riguardo a qualcosa che chiamava stratificazione interna, il che
suonava all’orecchio di Havelock come la solita politica sociale. Chiuse tutti i
rapporti.
Se lei fosse il solo terrestre.
La cosa buffa era che lui era stato davvero il solo terrestre in una società
cinturiana, più di una volta. Quando aveva firmato con Stone & Sibbets per
venti viaggi su un trasporto che faceva rotta fra Luna e Ganimede, era stato
uno degli unici due terrestri a bordo, in inferiorità numerica e isolato in modo
sottile. Per quasi un anno aveva lavorato per la Star Helix sulla Stazione di
Ceres, vedendosi sempre assegnare i casi peggiori, il partner peggiore, e
rivolgere modi non tanto sottili per ricordargli che non apparteneva a quel
posto. I cinturiani lo avevano molestato in ogni modo possibile per il fatto
che non aveva la giusta forma fisica e perché non conosceva quel pasticcio
poliglotta che passava per una sorta di dialetto dei pianeti esterni. Non
avevano pisciato nel suo armadietto, probabilmente solo perché non era
venuto loro in mente di farlo.
Regolò un monitor specificatamente sull’armadietto di Thorrsen, poi
richiamò a schermo un modulo di sicurezza intonso e fissò quel campo vuoto
che con il suo essere tale pareva chiedergli cosa volesse dire.
Siamo a otto miliardi di chilometri da casa e c’è un mucchio di terroristi semiselvaggi che
vogliono farci fuori, quindi cerchiamo di stare calmi.

O magari:
Praticamente ogni dannato cinturiano con cui ho avuto a che fare mi ha trattato come una merda
per la mia provenienza, ma adesso che noi terrestri siamo la maggioranza cerchiamo di rispettare i
loro poveri sentimenti feriti.

Si fece scrocchiare le nocche e cominciò a digitare.


È stato fatto notare alla sicurezza che fra l’equipaggio sono stati fatti parecchi scherzi. Anche se
comprendiamo la necessità di alleggerire la tensione in questo periodo di stress, alcuni di questi
scherzi sono andati al di là dei limiti del buon gusto. Come facente funzioni di capo della sicurezza

Si fermò.
Una volta, su Ceres, lo avevano incaricato di chiudere un club clandestino
situato vicino al centro della stazione, dove la forza di Coriolis era al suo
massimo e la rotazione gravitazionale era minima. Quando era arrivato sul
posto, la combinazione delle luci intense, della musica stridente e del suo
orecchio interno non abituato a quelle condizioni lo aveva ridotto a vomitare
nei corridoi. Una sua immagine mentre era in quello stato era poi finita sulla
bacheca, negli uffici, e lui era stato al gioco perché protestare avrebbe solo
peggiorato le cose. Era un episodio a cui non pensava più da anni.
Se lei fosse il solo terrestre.
«Merda» imprecò, rivolto all’ufficio vuoto, poi cancellò tutto.
È stato sottoposto alla mia attenzione il fatto che alcuni dipendenti e membri di squadre
scientifiche della RCE sono stati fatti oggetto di molestie perché originari dei pianeti esterni. In
queste condizioni di tensione è di importanza critica non confondere i nostri compagni di squadra
con il nemico a causa di caratteristiche dovute alla fisiologia e all’ambiente d’origine. Di
conseguenza, intendo intraprendere le seguenti azioni:

«Me ne pentirò» disse allo schermo, ma dopo che ebbe finito di digitare
l’annuncio, lo ebbe controllato dal punto di vista grammaticale e diramato, si
sentì quasi bene.
20
Elvi

Seduta davanti alla sua capanna con il terminale palmare in mano e l’ormai
familiare luce del sole che le scaldava il collo e la schiena, Elvi aspettava che
i rapporti da Luna finissero di scaricarsi. La comunicazione laser sulla
Edward Israel era il solo contatto con i mondi che aveva conosciuto, ed era
intasata di dati tecnici che fluivano dai gruppi di lavoro sulla superficie
planetaria e dai dati rilevati dai sensori della Israel stessa. Rendersi conto che
nonostante tutte le tragedie, la paura e la morte che devastavano Nuova Terra
la maggior parte dei dati inviati a casa fosse ancora di natura tecnica era una
cosa che faceva riflettere. E la sua connessione così lenta era più di quanto
avessero gli abitanti di First Landing. La Barbapiccola non era neppure in
grado di tenere aperto un canale, e i loro terminali palmari avevano un
funzionamento strettamente locale, una rete che funzionava a corto raggio,
nel campo visivo, sempre ammesso che funzionasse.
La brezza sollevò un vortice di sabbia e tornò a depositarlo con delicatezza.
In alto, le nuvole verdi si sparpagliarono e tornarono a unirsi, intrecciandosi
nel cielo azzurro come alghe che fluttuassero sulla superficie di una polla.
L’aria odorava di calore e di polvere, e di un distante presentimento di
pioggia. I rapporti finirono il download ed Elvi li richiamò a schermo, per poi
passare una lunga ora a leggerli, ad ascoltare i dibattiti e a mettere insieme il
suo punto di vista. Fu più difficile di quanto avrebbe voluto, perché la sua
mente continuava a divagare senza controllo.
Sul pianeta tutto stava cambiando così in fretta, tutto era così diverso da
come si era aspettata, da far sì che anche solo mantenere la concentrazione
fosse difficile. Il viaggio nel deserto, la vista di un meccanismo ancora in
funzione, sia pure a stento, dopo due miliardi di anni erano state esperienze
rivelatrici. Poi la scoperta e l’uccisione dei terroristi annidati fra i coloni
abusivi, che avrebbero dovuto costituire un sollievo, l’avevano lasciata
stranamente turbata. E anche se non ne aveva parlato con nessuno né mai lo
avrebbe fatto, continuava a fare sogni ricorrenti e importuni su James Holden.
Sullo schermo, il rapporto della coordinatrice della ricerca si concluse, ed
Elvi si rese conto di non aver sentito neppure una parola. Con un sospiro, lo
fece partire di nuovo, ma poi tornò a fermarlo prima che la donna che si
trovava nei laboratori della RCE sulla Terra avesse potuto dire una sola parola.
Sollevò lo sguardo verso il cielo, chiedendosi dove fossero la Rocinante, la
Barbapiccola e la Edward Israel, nascoste com’erano dall’azzurro
dell’atmosfera. Uno degli analoghi di piante sul sentiero che portava in città
emise una raffica di suoni simili a un clic che salivano di tono. Era una cosa
su cui intendeva indagare, ma non ne aveva avuto il tempo. Non ancora.
«Dottoressa Okoye» disse la coordinatrice della ricerca, da sessanta UA di
distanza – o mezza galassia, a seconda di come si consideravano le cose. «Ho
appena concluso una riunione con la squadra statistica, e volevo aggiornarla
su come vorremmo procedere per la raccolta dei dati nelle prossime
settimane. Il gruppo su Luna, in particolare, sperava di poter richiedere
ulteriori campioni relativi ai suoi soggetti iniziali, in modo da poter
restringere il campo di errore...»
Elvi ascoltò, concentrandosi e costringendosi a reprimere ogni altro
pensiero e sensazione. Questa volta, arrivò alla fine del rapporto con una lista
di azioni da intraprendere, una chiara sensazione del modo in cui il suo
lavoro stava modificando le risorse e i piani dei laboratori, a casa, e una
mezza dozzina di domande sull’isolamento di minerali che voleva porre a
Fayez. Il protocollo richiedeva che lei registrasse una risposta e la inviasse
immediatamente: le ore che avrebbe impiegato ad arrivare a destinazione
significavano che la sua risposta sarebbe stata disponibile prima delle
riunioni del mattino. Invece, aprì il suo organizer e cominciò a elencare ciò
che doveva fare. Raccogliere campioni di acqua e di terriccio, campioni di tre
diverse specie di analoghi di piante. Un rapporto sul manufatto alieno...
Aveva riflettuto su tutte le possibili cause che potevano aver provocato
l’improvvisa attività del manufatto. Dal momento in cui Holden era giunto lì,
e visto che dopotutto lui era il mediatore incaricato di rendere migliore –
razionale, sensata – la situazione su Nuova Terra, aveva pensato che se fosse
riuscita a fornire un valido motivo a sostegno del fatto che il manufatto non si
era mosso in reazione alla loro presenza, la cosa avrebbe ridotto i problemi
che Holden stava fronteggiando. Sarebbe stata una gentilezza, e un contributo
per aiutarlo a portare la pace.
Di certo non stava soltanto cercando scuse per vederlo di nuovo.
Tornò al suo elenco di cose da fare, poi si interruppe. In fondo scrisse:
‘Lettera di raccomandazione per Felcia Merton.’ Per un lungo momento
rimase seduta a guardare quelle parole, cercando di determinare quali fossero
i suoi sentimenti al riguardo. Cancellò la riga, attese, poi tornò a inserirla.
Entrare in città era come addentrarsi in un altro mondo, uno più duro. Le
strade polverose non erano vuote, ma la gente si teneva più vicina ai muri di
quanto avesse fatto prima. I sorrisi, i cenni del capo, il contatto visivo e i
semplici saluti erano scomparsi. Gli abitanti della città camminavano in
fretta, a testa bassa. Elvi ebbe la tentazione di mettersi davanti a loro,
bloccare loro il passo con il suo corpo e costringerli a prendere atto della sua
presenza.
L’edificio dove era successo tutto si trovava al limitare della città. Il fuoco
aveva fuso ciò che non aveva consumato. Lo scheletro della costruzione era
ancora in piedi, carbonizzato e inclinato, sotto il sole del pomeriggio. Si
soffermò davanti a esso: le ricordava qualcosa, ma non riuscì a mettere bene a
fuoco cosa. Qualcosa di morto. Qualcosa che aveva a che fare con il fuoco.
Oh. Ma certo, il manufatto che bruciava, nel deserto.
Due guardie delle forze di sicurezza della RCE camminavano davanti a lei
nel centro della strada. Non riuscì a distinguere le loro parole, ma il tono della
conversazione era allegro, rilassato e celebrativo. Uno dei due rise. Elvi si
volse, dirigendosi verso di loro. Nell’oltrepassarla, uno dei due sollevò una
mano in un gesto di saluto che lei ricambiò automaticamente. Dall’altra parte
della strada una donna cinturiana – si chiamava Eirinn – si affacciò su una
porta, vide gli uomini della sicurezza ed esitò prima di uscire alla luce del
sole. Elvi la guardò incamminarsi, con la testa un po’ troppo alta, le spalle
spinte un po’ troppo indietro: niente rivelava la paura come lo sforzo di
respingerla. Un tempo, First Landing era appartenuto a quella donna.
Elvi entrò nello spaccio con la speranza di trovare Holden al suo solito
tavolo. La stanza era in penombra, e il suo sguardo impiegò un po’ a
adeguarsi. Invece di Holden, al tavolo c’era Amos Burton, impegnato a
mangiare una ciotola di spaghetti marrone che odoravano di arachidi finte e
di curry. In fondo alla stanza Lucia Merton sedeva in un séparé con qualcuno.
Elvi distolse lo sguardo prima di incontrare quello della dottoressa.
Quando gli si avvicinò, Amos sollevò lo sguardo.
«Mi stavo chiedendo se il capitano Holden... ecco, volevo parlare con lui,
dei manufatti. Quelli nel deserto.»
«È successo qualcosa che li riguarda?»
«Ho alcune teorie che pensavo potessero essere... utili.»
Oh, buon dio, pensò. Sto balbettando come una scolaretta. Per fortuna
Amos non se ne accorse, o almeno finse di non notarlo.
«Il capitano è impegnato a prepararsi a trasferire il prigioniero» spiegò
Amos. «Dovrebbe tornare verso il tramonto.»
«D’accordo, mi va bene» replicò Elvi. «Potrebbe dirgli che l’ho cercato? È
probabile che sia nella mia capanna quando lui tornerà. Può trovarmi lì.»
«Glielo farò sapere.»
«Grazie.»
Elvi si volse per andarsene con i pugni affondati nelle tasche. Si sentiva
umiliata senza essere ben certa del perché. Aveva solo intenzione di offrire
un diverso punto di vista riguardo ai manufatti e all’ecosistema locale. Non
c’era niente di sconveniente o...
«Elvi!»
Con un senso di sgomento che le serrava lo stomaco, Elvi si girò verso il
séparé dove era seduta Lucia Merton. Fayez aveva fatto ruotare la sedia e
agitava la mano per chiamarla. Elvi guardò verso la porta che dava sulla
strada, desiderando che ci fosse un modo cortese per poterla varcare.
«Elvi! Vieni a sederti e bevi qualcosa con noi.»
«Certo» rispose, e tornò verso il retro dello spaccio, rimpiangendo ogni
passo mosso in quella direzione.
La dottoressa Merton appariva pallida, tranne per le borse scure sotto gli
occhi. Elvi si chiese se stesse male, o se si trattasse solo di dolore e
preoccupazione.
«Lucia» la salutò.
«Elvi.»
«Siediti, siediti, siediti» insistette Fayez. «Con te lì in piedi mi sento basso,
e odio sentirmi basso.»
Elvi lisciò il tessuto dei pantaloni e scivolò sulla panca accanto a Fayez, che
aveva un sorriso alticcio e divertito. Lo sguardo che Lucia le lanciò fu quasi
di scusa. ‘Avresti potuto sederti accanto a me’ pareva dire.
«Stavamo parlando di Felcia» spiegò Fayez, poi si rivolse a Lucia. «Elvi è
la persona più intelligente della squadra. Dico sul serio. Lo sa che è stata lei a
scrivere la prima vera ricerca sul calcolo citoplasmatico? Eccola seduta
proprio qui.»
«Felcia mi ha parlato di lei» disse Lucia. «Grazie per essere stata un’amica
per mia figlia.»
La tua famiglia ha cercato di uccidermi, pensò Elvi. Ogni notte hai diviso il
letto con un uomo che mi voleva morta.
«Non c’è di che» rispose. «È una ragazza che ha molto talento.»
«Sì» annuì Lucia. «E dio sa che ho cercato di dissuaderla dal diventare un
dottore.»
«Sperava che sarebbe rimasta?» chiese Elvi. La sua voce suonò più acuta di
quanto avesse voluto.
«Non questo, no» rise Lucia. «Il fatto che lei stia lasciando il pianeta è la
sola cosa buona successa da quando siamo arrivati. Ho solo paura che voglia
diventare un dottore perché è quello che faccio io. Sarebbe meglio che
trovasse la sua strada.»
«Il viaggio fino a Luna è lungo» osservò Fayez. «Voglio dire, ho seguito
cinque diversi corsi di studio prima di innamorarmi dell’idrogeologia. Volevo
diventare un distillatore. Riuscite a immaginarlo?»
Elvi e Lucia risposero con un sì esattamente nello stesso momento, e
nonostante tutto Elvi sorrise. Lucia si alzò in piedi.
«Devo andare a prendere Jacek» disse.
«Sta bene?» chiese Elvi, d’istinto. Era un’abitudine del galateo. Avrebbe
voluto richiamare indietro la domanda nel momento stesso in cui le parole le
uscirono di bocca. La dottoressa fece un sorriso malinconico.
«Bene quanto ci si può aspettare che stia» rispose. «Suo padre se ne andrà
oggi.»
Portato come prigioniero sulla Rocinante, pensò Elvi, ma non lo disse.
«Qui il suo denaro non ha valore» avvertì Fayez. «Offro io.»
«Grazie, dottor Sarkis.»
«Fayez, mi chiami Fayez. Lo fanno tutti.»
Lucia annuì e si allontanò. Fayez scosse il capo e allungò il braccio dietro le
spalle di Elvi. Lei si spostò sul lato opposto del tavolo.
«Cosa diavolo stai facendo?» chiese.
«Cosa sto facendo io? Credi che sia questo il problema?»
«Sai che suo marito...»
«Io non so un dannato accidente di niente, Elvi, e neppure tu. Ho
abbondanza di interpretazione e molta scarsità di dati, proprio come te.»
«Tu credi... credi che non sia...»
«Penso che quell’edificio fosse pieno di terroristi e che Murtry li abbia
uccisi e ci abbia salvati. Questo è quello che penso, però. Penso anche che
quanto più i locali imparano a conoscermi e a volermi bene, tanto meno sarà
probabile che venga scalpato durante la prossima insurrezione. E... cos’è la
civiltà se non persone che chiacchierano fra loro davanti a una dannata
birra?» ribatté Fayez, poi fece dondolare la testa all’indietro sulle spalle. «Ho
ragione?»
«Hai fottutamente ragione» interloquì Amos. «Questo è certo, di qualsiasi
cosa steste parlando.»
«Esatto» commentò Fayez.
«Sei ubriaco» lo accusò Elvi.
«Sto fraternizzando da un po’» rispose Fayez. «Probabilmente ho bevuto
con un terzo della popolazione di questo buco di merda. Quello che voglio
sapere è dov’è il resto di voi, mentre io cerco di fare la pace.»
Per un momento, Elvi poté vedere anche la sua paura. Si scorgeva
nell’angolo della mascella e nel modo in cui lo sguardo dei suoi occhi
socchiusi deviava verso sinistra per evitare il suo. Fayez, che sapeva ridere di
qualsiasi cosa, per quanto tragica, era spaventato a morte. E perché non
avrebbe dovuto esserlo? Erano a miliardi di chilometri da casa, su un pianeta
che non capivano e nel mezzo di una guerra che aveva causato dei morti da
entrambe le parti. Ed era strano e insieme ovvio che fosse una vittoria della
loro fazione, l’identificazione e uccisione o imprigionamento di quegli
assassini senza nome e senza volto, a suscitare il panico.
Fayez stava aspettando. Aspettava la prossima escalation della violenza. La
prossima reazione. Stava cercando qualsiasi misura di controllo potesse
trovare o sperare o fingere di trovare. Elvi lo comprendeva perché si sentiva
nello stesso modo, solo che non se ne era resa conto finché non aveva visto
qualcun altro in quella condizione.
Fayez fissò il tavolo con aria accigliata, poi sollevò lo sguardo a incontrare
il suo. «Cosa ci fai qui?»
«A quanto pare, sono seduta insieme a te.»
Ad aspettare i prossimi eventi.
21
Basia

Basia era fermo al limitare dell’area di atterraggio, con le manette d’acciaio


umide del suo sudore che gli irritavano la pelle dei polsi e degli avambracci.
Murtry aveva insistito per quella misura precauzionale finché Basia non
avesse lasciato il pianeta, anche se aveva dato ad Amos la chiave delle
manette e lui aveva garantito a Basia che sarebbero state rimosse non appena
la Rocinante fosse decollata. Era l’ultima dimostrazione visibile a beneficio
dei cittadini di Ilus del fatto che Murtry aveva potere su di loro ed era pronto
a esercitarlo. Jim Holden stava ancora cercando di agire da pacificatore, e
aveva acconsentito alle manette a patto che Basia fosse affidato alla sua
custodia senza ulteriori minacce o considerazioni. Basia comprendeva perché
ciascuno stava agendo come faceva.
Ma quello non rendeva la cosa meno umiliante.
Lucia e Jacek erano accanto a lui, in attesa che la Rocinante atterrasse.
Jacek era davanti a lui, con la schiena addossata contro di lui, e Basia gli
teneva le mani ammanettate sulle spalle, la mano di sua moglie che stringeva
la sua posata sulla spalla del figlio, tutti e tre in contatto. Cercò di attingere
forza da quello, di incidere nella memoria la sensazione di avere la moglie e
il figlio vicini a sé. Aveva la terribile sensazione che quella fosse l’ultima
volta che avrebbe avvertito il suo tocco, e provava sollievo misto a tristezza
per il fatto che Felcia se ne fosse andata. Era già abbastanza brutto che suo
figlio, troppo giovane per capire davvero cosa tutto quello significasse, lo
vedesse in catene. Non avrebbe tollerato che anche la sua giovane e brillante
figlia lo vedesse in quel modo.
Gli altri abitanti della cittadina, uomini e donne con cui aveva vissuto,
condividendo aria e acqua, dolore e ira, avevano evitato lo spettacolo della
sua partenza, come se la sua colpa fosse una malattia contagiosa. Era
diventato uno sconosciuto ai loro occhi: avrebbe quasi preferito che lo
avessero condannato.
Tutto quello che volevo era la mia libertà. Tutto quello che volevo era
avere la mia famiglia con me e non perdere un altro figlio a causa loro.
Era stupefatto e nauseato nel profondo del cuore che fosse stato pretendere
troppo dall’universo.
Amos, la sua guardia nominale, si teneva a rispettosa distanza, con le
braccia conserte e lo sguardo fisso sul cielo, per dare alla famiglia la libertà di
dirsi addio. Holden era con Murtry e Carol, il triumvirato di potere su Ilus.
Non si guardavano. Erano lì per sminuire il peso del controllo esercitato da
Murtry fingendo di aver partecipato alla decisione. La sua vita era una pedina
nei loro giochi politici, niente di più.
«Solo un altro paio di minuti, capo» avvertì Amos. Un momento più tardi si
sentì un tuono ad alta quota e la Rocinante scese attraverso l’atmosfera, più
rapida di quel suono, calando su di loro come un angelo del giudizio
universale.
Pareva irreale.
«Sono felice di avervi qui con me, ora» disse Basia a Lucia. Non era
neppure una menzogna.
«Trova il modo di tornare da noi» rispose lei.
«Non so cosa posso fare.»
«Trova il modo» ripeté lei, scandendo ogni singola parola. «Fallo, Basia.
Non farmi invecchiare da sola su questo mondo.»
Basia sentì qualcosa bloccargli la gola ed ebbe difficoltà a respirare a causa
del dolore che gli serrava lo stomaco. «Se avessi bisogno di trovare
qualcuno...»
«L’ho fatto, ho trovato qualcuno» ribatté Lucia. «Ora lui deve trovare il
modo di tornare da me.»
Basia non si fidò di parlare, temeva che se avesse aperto la bocca ne
sarebbe uscito un singhiozzo, e non voleva che Murtry lo vedesse
singhiozzare. Invece, circondò Lucia con le braccia ammanettate e la strinse a
sé, con tanta forza che nessuno dei due poteva respirare.
«Torna da me» sussurrò lei, un’ultima volta. Qualsiasi altra parola che
seguì quella frase fu soffocata dal ruggito della Rocinante che atterrava. Un
muro di polvere li oltrepassò, pungendo la pelle nuda del collo di Basia.
Lucia gli premette la faccia contro il petto e Jacek si aggrappò alla sua
schiena.
«È ora di andare» gridò Amos.
Basia lasciò andare Lucia, si strinse al petto il bambino ancora una volta –
forse l’ultima – poi volse le spalle a entrambi per salire a bordo della sua
prigione.
«Benvenuto a bordo, Mr Merton» lo salutò una donna alta e graziosa,
quando il battente interno del portellone stagno si aprì. Indossava una
semplice tuta grigia e nera, con il nome Nagata scritto con gli stencil su una
tasca, sul petto. Era Naomi Nagata, vicecomandante della Rocinante. Aveva
lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo, come li raccoglieva a volte
Felcia quando era più piccola. Su Naomi, quella appariva come una scelta più
pratica che estetica. Non sembrava armata, e Basia sentì i nervi che gli si
rilassavano appena un poco.
Le porse la chiave delle manette, e lei le aprì. «Per favore, mi chiami
Basia» le disse, mentre lavorava. «Sono soltanto un saldatore. Nessuno mi ha
mai chiamato Mr Merton.»
«Un saldatore?» ripeté Naomi. Non pareva che stesse indulgendo in
convenevoli. Prese le manette, le arrotolò in una palla e le ripose in un
armadietto: era la disciplina di bordo, dove qualsiasi oggetto non rinchiuso
diventava un proiettile durante le manovre. «Lo chiedo perché abbiamo una
lista di riparazioni da fare.»
Il compartimento in cui si trovavano aveva l’aria di un ripostiglio adagiato
su un fianco, con gli armadietti che correvano paralleli al terreno invece di
essere verticali e un piccolo portello su ciascuna parete, con quella che
sembrava una scala a pioli che correva lungo il pavimento. Naomi attivò un
pannello a parete e disse: «Stiamo allacciando le cinture, Alex. Portaci via da
questa palla di polvere prima che le ginocchia comincino a cedermi.»
Una voce con un forte accento della Valle Mariner di Marte rispose:
«Ricevuto, capo. Si decolla in trenta secondi, quindi allacciate le cinture.»
Naomi tirò una cinghia che sporgeva dal pavimento e un sedile pieghevole
si aprì. Era progettato in modo che una persona doveva sdraiarsi supina sul
pavimento per metterci sopra il posteriore, e con esso si dispiegò anche un
assortimento di cinture di sicurezza. Naomi indicò una seconda cinghia sul
pavimento. «Meglio darci da fare, visto che decolliamo fra trenta secondi.»
Basia tirò fuori il suo sedile e si sdraiò goffamente a terra per infilarsi sotto
le cinture. Naomi lo aiutò ad allacciarle.
La voce con l’accento marziano eseguì un conto alla rovescia a partire da
cinque, poi il pavimento ebbe un sobbalzo e la nave si sollevò. Ci fu una
disorientante rotazione, il pavimento divenne una parete e Basia si ritrovò
effettivamente seduto sul cuscino che aveva tirato fuori, mentre si sentiva
estremamente grato per le cinghie che lo tenevano al suo posto.
Poi un gigante ruggì sul fondo della nave e una mano invisibile schiacciò
Basia contro il sedile. «Mi dispiace» disse Naomi, con una falsa vibrazione
nella voce dovuta al rombo della nave. «Alex è un vecchio pilota da
combattimento e vola soltanto alla massima velocità.»
Come sempre quando si volava fuori da un pozzo gravitazionale, Basia
rimase sorpreso dalla rapidità con cui fu tutto finito. Pochi minuti di
schiacciante gravità unita al ruggito dei motori, poi si ritrovò a fluttuare sotto
le cinghie, immerso nel silenzio, senza transizione fra i due stati.
«Tutto fatto» annunciò Naomi, mentre cominciava a slacciare le cinture.
«Potrebbero esserci alcuni brevi scossoni dovuti alle manovre, mentre Alex ci
porta nell’orbita desiderata, ma quelle luci gialle sulla parete lampeggeranno
quindici secondi prima di ogni accelerazione, quindi basta aggrapparsi a una
cinghia e tenersi forte.»
«Sono un prigioniero?» chiese Basia.
«Cosa?»
«Mi stavo solo chiedendo come funzioni tutto questo. Sarò rinchiuso nella
mia cabina, oppure c’è una guardina o qualcosa di simile?»
Naomi fluttuò per un momento, fissandolo con la fronte aggrottata in quella
che pareva un’espressione di genuina perplessità. «È un uomo cattivo?»
«Cattivo?»
«Cercherà di fare del male a qualcuno su questa nave? Di distruggere le
nostre proprietà? Di rubare qualcosa?»
«Decisamente no» replicò Basia.
«Stando a quanto ho sentito, lei si è rivoltato contro i suoi amici per salvare
la vita del nostro capitano.»
Per un momento, Basia avvertì un senso di vertigine, e poi orgoglio, o una
promessa di orgoglio. Poi però ricordò l’esplosione della navetta pesante, e la
voce di Coop. Noi tutti ricorderemo chi ha premuto quel pulsante. Scosse il
capo.
È un uomo cattivo?
Naomi Nagata attendeva che lui parlasse, ma non aveva parole per
esprimere il suo senso di colpa e la vergogna, la rabbia e il dolore. Dopo
qualche tempo lei sollevò un pugno, il gesto cinturiano che equivaleva a un
cenno di assenso, e lui fece altrettanto.
«Si metta a proprio agio.» Naomi indicò il portello sulla destra. «La poppa
è da quella parte, ed è dove ci sono i ponti dell’equipaggio e la cambusa, che
è sempre aperta. Le abbiamo preparato una cabina, che è piccola ma privata.
Se continua verso poppa e raggiunge l’officina meccanica, significa che è
andato troppo avanti. Per ragioni di sicurezza, non entri nell’officina o nella
sezione ingegneria.»
«D’accordo, lo prometto.»
«Non prometta, si limiti a non andarci. L’altra direzione» proseguì Naomi,
indicando il portello alla sua sinistra «porta su al ponte operativo. Se vuole
può venire lassù, ma non tocchi niente a meno che non le dica io di farlo.»
«D’accordo.»
«Adesso sto andando là. Se vuole seguirmi è il benvenuto.»
«D’accordo.»
Naomi lo fissò per un momento con un’espressione indecifrabile sul volto.
«Sa, lei non è il primo.»
«Il primo?»
«Il primo prigioniero che trasportiamo» spiegò Naomi. «Jim ha questa
fissazione di un processo equo. Significa che abbiamo portato più di una
persona a sostenere un processo quando un portellone stagno aperto e una
misteriosa cancellazione dei file avrebbero avuto molto più senso.»
Basia non riuscì a trattenersi dal lanciare un’occhiata nervosa al portello.
«D’accordo.»
«Inoltre,» proseguì Naomi «lei è il primo con cui lui mi abbia
specificatamente raccomandato di essere gentile.»
«Lo ha fatto davvero?»
«È in debito con lei, e lo sono anch’io.» Naomi accennò alla scala e al
portello in un gesto che lo invitava a precederla. Basia si tirò fino al portello
che si aprì con un sibilo, e Naomi lo seguì. «Quindi si metta a suo agio.
Questo atteggiamento da topo terrorizzato che ha assunto mi sta logorando i
nervi.»
«D’accordo.»
«Lo sta facendo ancora.»
Il ponte sopra il ripostiglio e il portello stagno erano un vasto
compartimento pieno di sedili dotati di sospensioni, di schermi a parete e di
pannelli di controllo. Un uomo dalla pelle scura, con radi capelli neri e una
pancetta da mezza età era assicurato a uno dei sedili. Si girò a guardarli
quando fluttuarono nella stanza.
«Tutto bene?» chiese a Naomi. Era lui la fonte della voce con l’accento
della Valle Mariner.
«Pare di sì» rispose Naomi, e spinse Basia sul sedile più vicino,
allacciandogli le cinture. Lui la lasciò fare, sentendosi come un neonato
maneggiato dalla madre. «Non ho avuto il tempo di vedere Jim. Voleva che
portassimo via questo tizio il più in fretta possibile.»
«Non posso dire di essere stato desideroso di fermarmi più a lungo.»
«Lo so. I pozzi gravitazionali» replicò Naomi, con un brivido. «Non so
come faccia la gente a vivere in quel modo.»
«Io pensavo più che altro a quelle cose che stanno tornando in vita. Dopo il
mio ultimo controllo ho registrato altri cinque picchi di energia.»
«Cercavo di non pensarci.»
«Avemmo dovuto prendere a bordo anche Holden e Amos» continuò Alex.
«E chiunque altro con un po’ di buonsenso.»
«Tieni d’occhio la situazione. Se qualcosa dovesse avvicinarsi voglio che
siano informati.»
Una volta che ebbe finito con le sue cinture, Naomi fluttuò fino a un altro
sedile e si assicurò a esso, poi cominciò ad attivare schermi e a digitare su di
essi troppo in fretta perché Basia potesse seguirla, senza smettere di parlare
con l’uomo di Marte con cui lavorava.
«Alex, ti presento Basia Merton, il saldatore.»
«Saldatore?» Alex inarcò le sopracciglia e sorrise. «Abbiamo un mucchio
di roba nella lista delle cose da fare, adesso che Amos è in vacanza sulla
superficie.»
Basia aprì la bocca per replicare, ma Naomi lo prevenne. «Basia, ti presento
Alex Kamal, il nostro pilota nonché il peggiore saldatore nel vuoto di tutta la
galassia.»
«Salve» disse Basia.
«Salve a te» replicò Alex, poi si girò verso Naomi. «Ehi, stavo pensando a
una cosa. Avevi ragione riguardo a quella navetta.»
«Sì?» Naomi si spinse fuori dal sedile e fluttuò verso Alex per dare
un’occhiata allo schermo vicino a lui. Per alcuni secondi il pilota fece
scorrere quello che sembrava un video in avanzamento veloce.
«Vedi là?» chiese, fermando le immagini. «La distaccano e la parcheggiano
a qualche centinaio di metri dalla Israel, poi mandano fuori una squadra di
ingegneri che restano dentro per un paio d’ore prima di tornare alla Israel. Da
quando è cominciata questa cosa la navetta non ha più lasciato l’orbita.»
«Usano solo l’altra per tutti i viaggi» osservò Naomi, richiamando il video
su un secondo schermo e facendolo avanzare in fretta. «Lo sapevo.»
«Già, sei molto sveglia. Vuoi che i telescopi registrino queste operazioni o
devo puntarli sulle cose aliene?»
«Puntali sulla navetta» replicò Naomi, dopo aver fatto scorrere avanti e
indietro il video per qualche altro secondo.
Basia sapeva di essere stato invitato a stare lì con loro, e a quanto pareva
stavano parlando di tenere sotto controllo la nave della RCE, il che non gli
pareva certo una conversazione personale, però non poteva fare a meno di
sentirsi un po’ fuori posto, come qualcuno che origliasse durante un momento
privato. Era a causa della confortevole colloquialità che i due membri
dell’equipaggio della Rocinante condividevano: sembravano membri di una
famiglia che discutessero di questioni di casa. D’altronde era sconcertante
pensare che loro erano le uniche tre persone sulla nave. Era troppo grande,
troppo vuota, e lui non voleva stare solo nel silenzio di una nave che non
conosceva. Però gli sembrava che restare fosse sbagliato.
Si schiarì la gola. «Dovrei andare nella mia cabina?»
«Vuole farlo?» chiese Naomi, senza guardarlo. «Là non c’è niente da fare,
non è neppure una di quelle con uno schermo video. Tutte le cabine migliori
sono occupate dall’equipaggio.»
«Da qui può accedere alla biblioteca di bordo» disse Alex, indicando lo
schermo più vicino a Basia. «Se si annoia.»
«Sono terrorizzato» rispose Basia, senza sapere in anticipo quello che
avrebbe detto.
Alex e Naomi si girarono entrambi a guardarlo. Il marziano aveva
un’espressione gentile. «Sì, ci scommetto» annuì. «Qui però non le succederà
niente. La consideri casa sua fino a quando il capitano non dovesse decidere
diversamente. Se vuole stare solo, possiamo...»
«No.» Basia scosse il capo. «Però voi due parlate fra voi come se non ci
fossi, quindi pensavo...» Scrollò le spalle.
«Mi dispiace. Siamo insieme da così tanti anni che non abbiamo quasi più
bisogno di parlare» replicò Naomi. «Credo che la Israel abbia convertito in
un’arma una delle sue navette. Abbiamo tenuto sotto controllo la nave, e
l’attività intorno a una delle navette appare sospetta. Credo l’abbiano
trasformata in una bomba.»
«Perché dovrebbero farlo?»
«Perché quella è una nave scientifica priva di armamenti, e sono entrati in
quella che sembrano vedere come una zona di guerra. Quella navetta
potrebbe essere usata come un missile teleguidato per attaccare un’altra nave,
o magari come una bomba per radere al suolo la colonia.»
«Vi vogliono attaccare?» chiese Basia. Perché dovrebbero farlo? La
Rocinante e il suo equipaggio non sono qui per risolvere il conflitto?
«Ne dubito» replicò Naomi. «È più probabile che attacchino la
Barbapiccola, se dovesse cercare di lasciare l’orbita e di fuggire.»
«Già» aggiunse Alex, con una risata. «Se la Israel dovesse cercare di
colpirci, sarebbe il combattimento più breve della storia.»
«C’è First Landing. Potrebbero radere al suolo la colonia?» insistette Basia.
«Laggiù non lo sanno. Dovreste avvertirli. La mia famiglia è ancora là.»
«Non succederà, si fidi di me» ribatté Naomi. «Adesso che lo sappiamo
terremo d’occhio la navetta, e se dovesse muoversi potremo fermarla.»
«Però probabilmente dovremmo dirlo al capo» osservò Alex.
«Già.» Naomi esaminò il video un altro paio di volte, poi lo spense.
Alex slacciò le cinghie e si spinse verso la scaletta. «Oppure... merda,
vicecomandante, potrei risolvere la cosa fin da ora. Ho ordinato alla Roci di
esaminare le specifiche della navetta e calcolare un colpo di cannone
magnetico che tagli in due il suo reattore.»
Naomi lo fermò con un gesto della mano. «No. Per una volta mi piacerebbe
trovare una soluzione che non richieda di far saltare in aria qualcosa.»
Alex scrollò le spalle. «Sta a te decidere.»
Naomi fluttuò in silenzio per un momento, poi parve giungere a una
decisione e premette un pulsante sul pannello di comunicazione. «Parla
Holden» rispose dopo qualche secondo la voce di Holden.
«Jim, abbiamo un problema e una soluzione che ho bisogno di sottoporre a
te.»
«Mi piace che abbiamo già una soluzione» replicò Holden. Basia poté
avvertire il sorriso che gli traspariva dal tono di voce.
«Due soluzioni» aggiunse Alex. «Ne ho una anch’io.»
«Come ci hai chiesto di fare, abbiamo tenuto d’occhio la Israel» riprese
Naomi. «Alex e io siamo d’accordo sul fatto che ci siano elevate probabilità
che abbiano trasformato in un’arma una delle due navette leggere. La tengono
a motori spenti e in un’orbita sincrona a circa cinquecento metri dalla nave
madre. Credo sia un’arma da ultima spiaggia da usare se la Barbapiccola
dovesse cercare di fuggire, ma questo non significa che non la potrebbero
usare contro la colonia, per quanto sembri improbabile.»
«Tu non hai conosciuto questo Murtry che comanda la sicurezza della RCE,»
ribatté Holden «altrimenti ti apparirebbe altamente probabile. Qual è la linea
d’azione migliore?»
«Rimuoviamo tutti dal pianeta, torniamo a casa e passiamo alcuni decenni a
fare esplorazioni senza equipaggi umani prima anche solo di pensare di
tornare qui» rispose Naomi.
«Sono d’accordo» convenne Holden. «E cosa faremo in effetti?»
«Suppongo tu voglia che ci occupiamo della cosa. Alex pensa di poter
sventrare la navetta con un colpo di cannone, ma a me sembra un’evidente
escalation. Sparare una scarica magnetica vicino alla Israel, intendo.»
«Le cose si stanno già aggravando benissimo da sole» rispose Holden. «Per
ora teniamola come opzione di riserva. Che altro si può fare?»
Naomi si trasse più vicina al pannello di comunicazione e abbassò la voce,
come se la consolle fosse stata lo stesso Holden e lei stesse per dargli una
cattiva notizia. «Prendo un pacchetto EVA, volo fino alla navetta e applico un
cutout al propulsore. Se eseguono un controllo dei sistemi tutto apparirà
funzionante, ma se dovessero cercare di muovere la navetta la potrò fermare a
distanza. Niente esplosioni, solo una navetta disattivata.»
«Mi sembra rischioso» obiettò Holden.
«Più rischioso del trapassare il reattore con una cannonata?»
«No, in effetti non lo è.»
«Più rischioso del lasciare quella navetta là fuori e armata?»
«Oh, dannazione, no. D’accordo, Naomi, la decisione è tua. In un modo o
nell’altro, voglio che quella minaccia sia neutralizzata. Abbiamo già
abbastanza guai di cui preoccuparci, quaggiù.»
Naomi sorrise al pannello di comunicazione. «D’accordo. Navetta morta in
arrivo.»
Poi chiuse la comunicazione con un sospiro. Basia spostò lo sguardo da lei
ad Alex, accigliandosi.
«Perché?»
«Perché cosa?» chiese lei, in tono leggero.
«Perché dovreste agire direttamente contro la RCE? Non dovreste essere
mediatori? Neutrali? Perché agire in qualsiasi modo quando potete restarne
fuori?»
Il sorriso di lei aveva profondità e complessità. Basia ebbe l’impressione
che avesse colto una domanda più profonda di quella che lui aveva inteso
porre.»
«Anche scegliere di restarne fuori quando la gente si uccide a vicenda è
un’azione» rispose. «È una cosa che qui non facciamo.»
22
Havelock

Il sistema di Havelock filtrava i pacchetti di notizie provenienti dal sistema


del Sole – e suonava ancora dannatamente strano pensare ‘provenienti dal
Sole’ – riducendoli a quattro argomenti: Nuova Terra, James Holden,
contratti per le forze di sicurezza e football della Lega Europea. Assicurato al
sedile a smorzamento del suo ufficio, esaminò il sommario delle notizie:
CAMBIAMENTI ALLE NORME PER I PIANI DI RETRIBUZIONE FANNO PENDERE LA
BILANCIA VERSO I CONTRATTI DI SICUREZZA CON BASE SULLA TERRA. PROTESTE
DALLA STAR HELIX. HAVELOCK CANCELLÒ IL PACCHETTO. IL FARDELLO DEL
TERRESTRE: CINQUANTA FAMOSI TERRESTRI CHE SONO PASSATI ALL’APE. Holden
era il numero quarantuno. Havelock cancellò il pacchetto. LOS BLANCOS BATTE
BAYERN 1-0. Havelock inarcò le sopracciglia ed evidenziò il pacchetto,
inserendolo nella lista di quelli da visionare. VIOLENZA IN AUMENTO SU NUOVA
TERRA. REAZIONI DELLE NAZIONI UNITE E DELL’APE. MARTE PRENDE POSIZIONE CON
L’APE.
Havelock sentì il ventre che gli si contraeva. Quel pacchetto proveniva da
un servizio di analisi informativa che aveva contatti in seno al governo di
tutte e tre le principali potenze. Aprì il pacchetto.
«Vi parla Nasr Maxwell, della Forecast Analytics, e questo feed registrato è
destinato al solo uso da parte degli abbonati e soci della Forecast Analytics.
Qualsiasi altra distribuzione è in violazione degli statuti relativi alla proprietà
intellettuale della MCR e delle Nazioni Unite, ed è punibile a termini di legge.
«I rapporti informativi provenienti dalle Nazioni Unite indicano che la
violenza su Nuova Terra si è aggravata. Le forze di sicurezza della Royal
Charter Energy hanno scoperto un nuovo potenziale attacco, e nello sventarlo
hanno ucciso fra sette e sedici insorti locali. Le reazioni dell’APE all’attacco in
sé stesso sono state moderate, ma la RCE e le Nazioni Unite annunceranno
questo pomeriggio che una missione di soccorso partirà per Nuova Terra. I
rapporti iniziali suggeriscono che si tratterà di un corpo di spedizione
congiunto delle forze della società con scorta militare delle Nazioni Unite.
«I rappresentanti dell’APE non hanno reagito a questo piano, ma è
documentata la loro disponibilità a usare la forza militare per controllare il
traffico che passa dalla Stazione di Medina. Considerati i limiti tattici posti
dalle porte dell’Anello, la Forecast Analytics ritiene possibile che un modesto
contingente militare dell’APE possa riuscire a bloccare in modo efficace gli
sforzi delle Nazioni Unite e della RCE. Fonti vicine al congresso marziano che
comunicano con la Forecast Analytics a condizione di rimanere anonime
suggeriscono che il governo marziano appoggerebbe l’azione dell’APE.
«L’analisi suggerisce che questa non sia una prova di un’amicizia a lungo
termine fra l’APE e Marte, ma piuttosto di un’alleanza tattica intesa a impedire
alle Nazioni Unite e alle strutture societarie della Terra e di Luna di stabilire
un più ampio punto d’appoggio su questi nuovi mondi. Considerato il tempo
necessario perché un gruppo di forze congiunte delle Nazioni Unite e
dell’RCE si formi ed effettui il viaggio fino a Medina, prevediamo che per
l’immediato futuro la situazione su Nuova Terra si evolverà senza un
immediato coinvolgimento fisico delle parti provenienti dal sistema interno, e
che il più grande problema del come regolare il traffico attraverso i portali
sarà fonte di elevata tensione e probabilmente di azioni militari nei mesi e
negli anni a venire.»
Havelock si grattò un orecchio. L’esperienza passata gli diceva che di solito
la Forecast Analytics anticipava di un giorno i notiziari non privati, il che
significava che fra circa trenta ore sarebbero stati subissati di notizie e articoli
d’opinione scritti su di loro da persone che non si erano mai spinte più
lontano del sistema di Giove. Anche se avesse soltanto cambiato le storie che
quella gente sul pianeta raccontava riguardo a sé stessa, tutto quello avrebbe
potuto peggiorare le cose. Se i coloni fossero venuti a sapere che sarebbero
arrivate altre navi della RCE avrebbero potuto cedere ancor più alla
disperazione, anche se il viaggio avrebbe richiesto anni. O magari il fatto che
Marte si stesse schierando con l’APE li avrebbe indotti a pensare di avere
appoggi a casa. In un modo o nell’altro, non ne sarebbe venuto niente di
buono.
Desiderò che ci fosse un modo di chiudere le comunicazioni attraverso
l’Anello, come pure un modo per contenere la drammaticità della politica
nazionale. Le cose erano già abbastanza complicate senza coinvolgere i casini
di alto livello delle Nazioni Unite, o almeno senza coinvolgerli più di quanto
già non fossero. Se non altro, i media non erano venuti a sapere che il
mediatore delle Nazioni Unite e dell’APE aveva deciso che il pianeta era pieno
di mostri e stava dicendo a tutti di correre via e di nascondersi sotto le
coperte. Oppure, ripensandoci, forse sarebbe stato meglio se lo avessero
scoperto. Se non altro, avrebbe distratto la loro attenzione.
Il suo terminale palmare trillò e lui aprì la comunicazione.
«Credo che siamo pronti» disse l’ingegnere capo Koenen.
«Arrivo» replicò Havelock, slacciando le cinture del sedile, poi si spinse
verso la porta e, una mano dopo l’altra, si trascinò verso il portello.
Scivolò sul ponte di stoccaggio dove la sua piccola milizia lo aspettava, e il
suo cervello decise arbitrariamente che la fila di armadietti era il basso e il
portello era l’alto. Il cervello umano aveva bisogno di una risposta, anche se
doveva inventare qualcosa che sapeva essere una balla. Una dozzina di
persone fluttuava in quello spazio. Havelock si rivolse loro mentre prelevava
la sua tuta spaziale dall’armadietto ai suoi piedi.
«Piacere di vedervi oggi, squadra. Faremo una violazione alle regole di
esercitazione. Sarà una cosa molto simile alla volta scorsa, solo che questa
volta ci sarà una squadra che cercherà di fermarvi.»
Uno degli uomini agitò una pistola a vernice e fischiò. Intorno a lui, gli altri
risero. Havelock si infilò la tuta e procedette a sigillarla. Non indossò il
casco, in modo da poter parlare liberamente.
«Le squadre sono formate?»
«Io prenderò Alfa e Beta» rispose Koenen. «Ho pensato che lei poteva
guidare Gamma all’attacco.»
«Va bene» approvò Havelock. Spostò la pistola a vernice di qua e di là per
abituarsi alla sua massa. «Avete il portello di emergenza?»
«Eccolo» rispose uno dei membri della squadra Beta, girandosi per
mostrare il suo zaino. La scatola di un giallo acceso conteneva una bolla di
polimero adesivo attaccato a un secondo strato che era dotato di un sigillo e
di un serbatoio gonfiabile delle dimensioni del pollice di Havelock. Applicato
in modo appropriato allo scafo di una nave sarebbe apparso come una vescica
emisferica e avrebbe contenuto a tempo indefinito fino a due atmosfere di
pressione, oppure otto atmosfere per un decimo di secondo. Havelock non
avrebbe permesso agli ingegneri di tagliare lo scafo della Israel, ma voleva
accertarsi che fossero in grado di preparare tutto quanto fino al momento in
cui avrebbero acceso i saldatori.
«D’accordo» disse. «Adesso, prima di uscire là fuori, ricordate che siamo
all’esterno della nave e che la navetta è sul pianeta. Le possibilità che andiate
alla deriva dove non possiamo recuperarvi non sono uguali a zero.»
A poco a poco, gli scherzi e i sussurri cessarono. Havelock lasciò scorrere
lo sguardo per la stanza, incontrando quello di parecchi dei presenti, come se
quello bastasse a metterli al sicuro.
«Tutte queste tute hanno stivali magnetici» aggiunse. «Funzionano solo a
una distanza di pochi centimetri, quindi vi terranno attaccati alla nave ma non
vi attireranno indietro fino a essa. Per quello avete le funi con i rampini. Vi
siete addestrati a usarli?»
Ci fu un generale mormorio di assenso.
«D’accordo. Se vi trovate a fluttuare, il rampino aderirà a qualsiasi
superficie metallica dello scafo. I rampini hanno il loro propellente, quindi
non ci saranno rinculi. Per nessun motivo dovete attraversare le aree
contrassegnate in rosso o soffermarvi lì. Sono le bocchette dei propulsori di
manovra, e anche se non abbiamo in programma nessuna modifica dell’orbita
è meglio non azzardare supposizioni. Non stiamo facendo questo per perdere
altre vite.
«Se mentre siete là fuori cominciate a sentire troppo caldo o vi sembra che
ci sia qualcosa che non va nel flusso dell’aria è probabile che stiate avendo
un attacco di panico. Avvertite me o il capo e interromperemo l’esercitazione
per riportarvi dentro. Se invece cominciate a sentirvi splendidamente, potenti
come se aveste visto in faccia Dio, allora si tratta di un attacco di euforia, che
è più pericoloso del panico. Non avrete voglia di avvertirci di quello che
succede, ma dovete farlo. È chiaro?»
Un coro irregolare di ‘signore’ e ‘sissignore’ echeggiò per la stanza.
Havelock cercò di pensare a che altro doveva dire. Non voleva insultare la
loro intelligenza, ma non voleva neppure che qualcosa andasse storto. Alla
fine scrollò le spalle, si mise il casco e impartì l’ordine sulla frequenza di
esercitazione.
«Squadre Alfa e Beta, nel portello. Avete trenta minuti.»
La radio della tuta aveva tre regolazioni specifiche per le esercitazioni. Una
era aperta a tutti quelli che uscivano dalla nave, una era soltanto per la
squadra di Havelock e la terza era fra lui e Koenen. Il canale di mamma e
papà, così lo chiamava l’ingegnere capo. Havelock aprì tutti e tre i canali, ma
tutto quello che poté sentire furono le battute che si scambiavano i membri
del suo gruppo. Koenen e i suoi uomini non stavano trasmettendo. Dopo dieci
minuti Havelock passò sul canale di mamma e papà.
«D’accordo» disse. «Veniamo fuori.»
Ci fu un crepitio di statica quando il capo attivò il canale.
«Non sono passati trenta minuti.»
«Lo so» rispose Havelock, e Koenen ridacchiò.
«D’accordo. Grazie per l’avvertimento. Lo terrò per me.»
L’astronomia non aveva mai interessato Havelock in modo particolare, e
vivendo su una nave o su una stazione, in realtà aveva visto le stelle meno
spesso di quanto avesse fatto durante la sua infanzia sulla Terra. Il panorama
offerto dalle stelle intorno a Nuova Terra era splendido, familiare e
sconosciuto allo stesso tempo. Le poche costellazioni che conosceva –
Orione, l’Orsa maggiore – non c’erano, ma lui continuava a cercarle. La
chiazza luminosa del disco galattico era ancora parzialmente visibile nel
cielo, e il sole locale sarebbe potuto passare per quello della Terra. Più o
meno. Il cerchio di piccole lune di Nuova Terra ne intercettava la luce, ma la
loro bassa albedo le rendeva poco più luminose delle stelle che scintillavano
dietro di esse. La Edward Israel si muoveva a circa ottomila chilometri al
minuto. Il fatto che la sua immobilità mascherasse una velocità che era di
parecchi ordini di grandezza superiore a quella di uno sparo di fucile era una
consapevolezza intellettuale, perché la sensazione che lui aveva era di
immobilità. In piedi sullo scafo esterno, ancorato su di esso dagli stivali
magnetici, oscillava leggermente come un’alga sul fondo della vastità
oceanica. Alla sua destra, a un chilometro di distanza, c’era la navetta, che
appariva piccola e abbandonata sullo sfondo della vasta notte. La sua squadra
d’attacco era intorno a lui, con il collo piegato all’indietro nell’osservare con
meraviglia il vuoto immenso che la circondava. Quasi si dispiacque di
riportare la sua attenzione sulle piccole, vagamente intime, necessità della
violenza.
Si accertò di parlare sul canale riservato soltanto al suo gruppo.
«D’accordo. Il bersaglio, cioè l’area dove hanno installato il portello di
emergenza, si trova a poppa dell’area di stoccaggio principale. Faremo un
giro in senso orario. Fra dieci minuti entreremo in stato di eclisse, e se
sbucheremo fra i propulsori di manovra primari e gli hangar dovremmo avere
il sole alle nostre spalle. Muoviamoci.»
Il piccolo coro di eccitati ‘sissignore’ gli disse che gli altri apprezzavano
l’idea. Emergere immersi nella luce del sole, seminando morte sul nemico,
era un bel piano. Le sole cose che gli impedirono di funzionare furono la
scarsa familiarità degli uomini con gli stivali magnetici e il fatto che Koenen
aveva piazzato il portello di emergenza un centinaio di metri più lontano di
quanto Havelock si fosse aspettato. Il momento di luce intensa passò, e il sole
si spostò dietro Nuova Terra, dove sarebbe rimasto per quasi venti minuti.
«D’accordo, piano B» decise Havelock. «Spegnete tutti la luce del casco.»
«Come facciamo con gli indicatori delle batterie esterne, signore?»
«Dovremo sperare che la loro luce sia abbastanza fioca da...»
Uno degli ingegneri alla sua sinistra sollevò la pistola a vernice, girandola
verso di sé. Il bagliore della canna fu nitido come una scintilla.
«Cosa diavolo stai facendo?» chiese Havelock.
«Ho pensato che se avessi spruzzato un po’ di vernice sulla luce
dell’indicatore avrei potuto...» cominciò l’uomo, ma era troppo tardi. Gli
uomini di Koenen avevano visto il bagliore della canna. Havelock cercò di
far accoccolare i suoi uomini contro lo scafo della nave e di sparare lungo il
suo poco marcato orizzonte, ma essi continuarono ad alzarsi per vedere se
avevano colpito qualcosa. In meno di un minuto l’ultimo dei suoi uomini
riferì di essere stato colpito, e Havelock interruppe l’esercitazione. La
massiccia mole scura del pianeta era adesso quasi sopra di loro, la luce del
sole era un morbido cerchio dove l’atmosfera la disperdeva. I due gruppi si
ricongiunsero.
Il portello era attaccato solo in parte, e tre proiettili di vernice lo avevano
colpito. Anche due uomini della squadra di abbordaggio dell’ingegnere capo
erano stati colpiti, ma gli altri erano entusiasti. Havelock incaricò i membri
del suo gruppo e i feriti dell’altra squadra di occuparsi di ripulire, e i soldati
coperti di vergogna procedettero a richiudere e mettere via il portello.
«Un buon lavoro» si complimentò Havelock, sul canale di mamma e papà.
Koenen grugnì. Teneva le braccia goffamente incrociate sul petto, una posa
resa difficile dalla massa della tuta. Havelock si accigliò, sicuro del fatto che
nessuno potesse vederlo.
«Qualcosa non va, capo?»
«Sa,» ribatté l’ingegnere capo «non mi importa che la Israel abbia la sua
squadra di ingegneria, perché capisco che abbiamo ordini diversi, però mi
piacerebbe essere informato quando l’equipaggio della nave manda fuori una
squadra.»
«D’accordo» replicò Havelock. «Ne parlerò con loro quando rientreremo. È
una cosa che è successa spesso?»
«Sta succedendo proprio ora» ribatté l’ingegnere capo, indicando
nell’oscurità.
Havelock impiegò un momento a vedere cosa stava indicando. Un bagliore
dove non ce ne sarebbero dovuti essere. La navetta si illuminava a tratti,
segno che qualcuno stava usando una saldatrice a mezzo chilometro di
distanza, nel buio. Il panico dava una sensazione strana in assenza di gravità,
con il sangue che defluiva dalle mani e dai piedi.
«Ha l’ingrandimento potenziato sul suo casco?» chiese Havelock.
«Sì» rispose l’ingegnere capo.
«Potrebbe vedere chi c’è là fuori?»
Koenen si incurvò all’indietro, poi la superficie del suo casco scintillò per
un momento, quando l’ingrandimento entrò in funzione. «Vedo una tuta EVA
rossa, con un pacchetto di buone dimensioni, per di più, per gli spostamenti
su lunga distanza. E anche un kit per saldature.»
Havelock disse qualcosa di osceno, poi passò sul canale generale.
«Fermatevi tutti. Abbiamo un problema. C’è qualcuno vicino alla navetta,
laggiù, e non è nessuno dei nostri.»
Per un momento nessuno parlò. «Andiamo a rompergli il culo» suggerì poi
uno dei miliziani, in tono calmo e pratico.
Era esattamente ciò che Havelock non voleva fare. Se aveva un fucile, il
nemico avrebbe potuto far fuori metà della sua squadra prima che si
avvicinassero, e loro avevano soltanto pistole a vernice. L’alternativa, però,
era lasciare che quella persona là fuori, chiunque fosse, finisse di fare quello
che stava facendo all’unico asso che la Israel aveva nella manica.
«D’accordo» decise. «Ecco il piano. Mettetevi tutti in sincronia con il
computer di bordo. Lasceremo che sia la Israel a calcolare le nostre
accelerazioni. Disattivate gli stivali magnetici.» Tirò quindi fuori il suo
terminale palmare, inserì l’override di emergenza della sicurezza e lo fece
seguire dalla sua richiesta. Le loro tute erano dotate di una quantità di
propellente più che adeguata per permettere loro di raggiungere la navetta e
di tornare indietro, a patto che nessuno la mancasse o cercasse di fare qualche
furbizia. Sopra di loro, la penombra che circondava Nuova Terra si inclinò
mentre il sole si preparava a riemergere: un’altra minuscola alba. Il computer
annunciò che le accelerazioni erano calcolate.
«Allora» riprese Havelock. «Questi sono i cattivi. Non sappiamo quanti
siano e neppure come siano armati, quindi cercheremo di spaventarli per farli
allontanare. Tenete tutti l’arma pronta, mostratevi minacciosi, ma non
sparate. Se dovessero capire che le nostre armi non sono vere potremmo
passare momenti piuttosto brutti.»
«Signore?» disse uno degli uomini. «Ricorda che siamo coperti di pittura,
vero?»
Prima che Havelock potesse rispondere i propulsori delle tute entrarono in
funzione, spingendo dietro di loro il gas compresso come un insieme di
nebbia e fumo. Tutte le tute si alzarono insieme nella notte. O caddero.
L’accelerazione spinse il sangue di Havelock verso le gambe e la tuta si
compresse, spingendolo indietro. Non era neppure un’intera unità
gravitazionale, era a stento un terzo di unità, ma dava la sensazione di
qualcosa di molto, molto più veloce. E molto più pericoloso. Adesso che
sapeva cosa cercare, il bagliore della saldatrice era evidente. Continuò a
brillare. Il propulsore principale smise di funzionare e le tute ruotarono nel
cominciare la frenata. Quel sincronismo perfetto indicava che la Israel li
stava ancora coordinando.
Questa volta l’intruso li vide. La saldatrice si spense. Havelock abbassò lo
sguardo fra i propri piedi, con la pistola a vernice puntata verso il basso fra di
essi, e attese che i proiettili cominciassero a fioccare, pregando che non lo
facessero.
Non lo fecero.
«Funziona!» gridò uno degli uomini. «Quel figlio di buona donna sta
scappando!»
Era così. Una tuta EVA rossa era visibile sullo scafo della navetta. Lottò con
qualcosa, guardò verso Havelock e i suoi miliziani che le stavano piombando
addosso e si girò per andarsene. Chiunque fosse, era uno soltanto. La frenata
cominciò a esaurirsi, perché ormai erano quasi alla navetta. Cinquanta metri.
Quaranta. Trenta. Havelock aprì un canale di comunicazione standard.
«Attenzione, saldatore non identificato. Fermati immediatamente.»
La tuta EVA rossa si fermò, disattivando il propulsore. La persona si sollevò
con un’angolazione di novanta gradi, senza andare direttamente verso di loro,
ma tuffandosi verso la superficie planetaria e un’orbita più bassa che le
avrebbe permesso di essere recuperata sana e salva. Havelock si sentì
sopraffare dal sollievo. Non ci sarebbero state sparatorie. Il display del casco
gli garantiva che le funzioni di base della navetta erano inalterate, segno che
non era stata programmata per esplodere, e i ragazzi della milizia non
avevano il controllo dei loro propulsori per cui non avrebbero potuto
inseguire l’intruso.
Li aveva sottovalutati.
Il primo filo scuro saettò verso l’intruso e lo mancò, ma una volta che il
resto della squadra ebbe visto sparare il rampino l’idea dilagò. Una mezza
dozzina di rampini si attivò con un bagliore azzurro e arancione causato dal
propellente, e i piccoli missili saettarono verso il saldatore. Uno di essi centrò
il bersaglio: il nemico e l’uomo che aveva sparato il rampino sussultarono
entrambi, poi la tuta dell’ingegnere effettuò un’accensione di emergenza del
propulsore per cercare di compensare la trazione. Adesso che il nemico era
impacciato e rallentato, altri due rampini lo raggiunsero. Ben presto cinque
persone riuscirono ad attaccare la fune al sabotatore, e la forza congiunta dei
loro propulsori controbilanciò quella del pacchetto EVA della tuta rossa.
Havelock tolse alla Israel il controllo della propria tuta e scese verso il
pianeta e il prigioniero.
Adesso la tuta rossa si stava contorcendo nel tentativo di sollevare la
saldatrice per usarla sulle funi. Havelock sollevò la pistola e il nemico si
fermò. Adesso era abbastanza vicino da poter vedere la faccia all’interno del
casco: era una donna cinturiana con la pelle scura e ondulati capelli neri che
le aderivano alla fronte sudata. La sua espressione indicava pura
mortificazione.
Havelock attivò di nuovo il canale generale.
«Salve» disse. «Non ceda al panico. Mi chiamo Havelock, sono il facente
funzioni di capo della sicurezza della Edward Israel e lei deve venire con
me.»
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo, cerca di comunicare, e le cose che trova non
sono il segnale che gli permetterebbe di porre fine a tutto, ma sono strumenti,
per cui li esplora senza rendersi conto di farlo. Cerca di comunicare,
protendendosi in modo automatico, come acqua che trovi il suo percorso su
un letto di ciottoli. Ciò che può far muovere, si muove. Ciò che può aprire, si
apre. Ciò che può chiudere, si chiude. Una vasta rete, antica e morta,
comincia ad apparire, ed esso si protende al suo interno. Le parti che sono in
grado di pensare si sforzano di dare un senso a quella cosa. Altre parti
sognano un corpo mummificato, il suo cuore disseccato che pompa polvere
attraverso vene pietrificate.
Non tutto risponde, ma esso si protende, esercita pressione, muove. E
alcune cose rispondono muovendosi. Antichi manufatti si destano oppure no.
Nessuno di essi è ciò che esso cerca, nessuno lo sarà mai. Non è un panorama
fisico, ma logico – questo si connette con quest’altro che si connette con
quest’altro. Costruisce un modello e lo aggiunge a quello che ha già, e non sa
di averlo fatto. Cerca di comunicare. Centotrenta volte al secondo, cerca di
comunicare.
Qualcosa che un tempo funzionava smette di farlo. E si protende, e ciò che
prima rispondeva adesso lo fa di meno. Qualcosa si brucia, o si guasta, o
cerca di sollevarsi e si rompe. Parte della mappa si spegne, muore, ed esso
cerca di comunicare con i morti silenziosi. Una parte prova frustrazione, ma
esso non è consapevole di quella parte e cerca di comunicare. Una parte vuole
urlare, vuole morire, vuole vomitare anche se la bocca che immagina di avere
è stata da anni trasformata in qualcosa d’altro. Esso non avverte queste cose,
anche se alcune sue parti lo fanno. Si protende per comunicare.
E si ritrae.
È inconsapevole del suo ritrarsi, ma una volta ogni diciassette milioni di
tentativi tocca qualcosa che non toccherà di nuovo. Non è consapevole di
ritrarsi perché non è consapevole di niente, ma i fallimenti si accumulano. Si
forma uno spazio privo di contenuti. Un vuoto. Evita Gesù, pensa una
vecchia, indulgendo ora in una battuta.
La mappa non è fisica, ma ha una forma. È un modello di parte
dell’universo. Diventa più dettagliata, più concreta. Alcune cose prendono
vita e poi muoiono. Alcune non rispondono mai. Alcune diventano strumenti,
ed esso li usa per cercare di comunicare, ma non là.
Anche il vuoto acquista definizione. A ogni contatto fallito, a ogni ritrarsi
dei suoi confini liminali, diventa meglio definito. Lotta per dare un senso alla
forma del nulla che lo sfida. Dentro quel vuoto, le strutture delle menti che
non muoiono mai lottano con esso. È una ciste, uno spazio negativo, un tabù.
È una domanda che non deve essere fatta. Esso non è consapevole di pensare
queste cose. Non è consapevole che lo spazio esiste, che quando si protende
in quel posto esso muore.
Non ha bisogno di essere consapevole del problema. Ha uno strumento per
questo. Una cosa che trova ciò che manca. Uno strumento per porre le
domande che devono essere fatte. Per andare troppo lontano. L’investigatore
valuta la ciste, l’ombra, lo spazio dove non c’è nulla.
Quella cosa là?, pensa. Già, da dove provengo la definiremmo un ‘indizio’.
23
Holden

«Avanti» disse Holden al vuoto del deserto e all’uomo che non era là. «Ti
fai vedere tutte le volte che non ti voglio intorno, ma quando sono io che
voglio parlarti di qualcosa non succede niente.»
La cosa che era stata Miller non rispose. Holden sospirò, sperò, attese.
Ilus aveva perso parte della sua stranezza. Il cielo senza luna sembrava
ancora troppo buio, ma non più di una notte di luna nuova sulla Terra. Il suo
naso si era abituato agli strani odori del pianeta, che adesso aveva soltanto il
sentore della notte e dei momenti che seguivano la pioggia. Quella crescente
familiarità era insieme confortante e triste. Gli umani si sarebbero sparsi sui
mille mondi della rete dei portali. Si sarebbero insediati in piccole cittadine
come First Landing, poi si sarebbero sparpagliati, avrebbero costruito fattorie,
città e fabbriche, perché era quello che facevano gli umani, e nell’arco di
qualche secolo la maggior parte di quei mondi sarebbe stata molto simile alla
Terra. La frontiera avrebbe ceduto il posto alla civiltà che la seguiva e che
l’avrebbe rimodellata a immagine del loro mondo d’origine.
Holden era cresciuto nel distretto del Montana dell’America settentrionale,
una regione pervasa dalla nostalgia per le frontiere perdute. Esso aveva
resistito all’avanzata dell’urbanizzazione più a lungo della maggior parte
degli altri posti degli ex Stati Uniti. La gente si era aggrappata alle sue
fattorie e ranch anche quando avevano smesso di avere un senso dal punto di
vista economico, e a causa di quello, Holden non poteva fare a meno di
avvertire il fascino di un posto ancora da domare, della romantica idea di
viste che nessuno aveva ancora contemplato, di terreno su cui nessuno ancora
aveva camminato.
Quella nuova frontiera sarebbe sopravvissuta per tutto l’arco della sua vita.
Conquistare e domare oltre un migliaio di pianeti era un lavoro che
richiedeva generazioni, quale che fosse il vantaggio che i padroni della
protomolecola avevano dato loro. In cuor suo, però, Holden sapeva che
sarebbero stati conquistati e domati, e che ci sarebbe stato un migliaio di
Terre coperte da città di vetro e acciaio. Poteva avvertire l’ombra della
perdita del mistero in quel lontano futuro come se fosse stata la sua.
Nel cielo nero senza lune una stella si muoveva troppo in fretta. Era una
delle navi, la Israel o la Barbapiccola, perché la Rocinante era troppo piccola
e scura per riflettere la luce. La gente lassù pensava a quanto fosse
straordinario quello che tutti loro stavano facendo? Aveva il timore che non
lo facessero, che la stranezza fosse già diventata una cosa normale, come gli
odori notturni di Ilus, che la sola cosa che riuscivano a vedere fosse un
conflitto da vincere e un tesoro da raccogliere.
Con un sospiro si volse per tornare in città e si mise a camminare. Amos si
stava certo domandando dove fosse finito. Carol, l’amministratrice della città,
aveva chiesto un incontro dopo cena, quindi avrebbe dovuto rintracciare
anche lei. Una cosa grassa con la forma di un cane e una testa da rospo gli
camminava davanti, producendo un suono come di stivali sulla ghiaia.
Lucertole mimo, così le chiamavano i locali. Avevano una sorta di scaglie
sulla pelle, come le lucertole, ma gli pareva che gli arti non avessero la forma
giusta. Tirò fuori il terminale palmare e lo usò per dirigere un po’ di luce
sulla creatura, che lo fissò sbattendo le palpebre ed emise di nuovo quel
rumore come di ghiaia calpestata.
«Saresti un buon animale domestico, se non vomitassi periodicamente il tuo
stesso stomaco» disse Holden, accoccolandosi per vedere meglio la creatura.
Essa gracchiò di rimando. Quel verso non somigliava certo alle parole da lui
usate, ma era un’imitazione sorprendentemente buona della sua voce e del
suo tono. Si chiese se a quegli animali si potesse insegnare a parlare, come ai
pappagalli.
Il terminale emise un trillo. La lucertola si allontanò, guardandolo da sopra
la spalla e trillando a sua volta.
«Parla Holden.»
«Sì, capitano» disse Alex. «Ho brutte notizie.»
«Cattive nel senso che il gabinetto da assenza di gravità della Rocinante si è
guastato, o nel senso che dovrei guardare il cielo e aspettarmi di veder
arrivare dei missili?»
«Ecco...» cominciò Alex, poi trasse un lungo respiro. Holden guardò verso
il cielo, ma lassù c’erano soltanto stelle.
«Adesso sei riuscito a spaventarmi. Sputa il rospo.»
«Naomi» disse Alex, e Holden sentì il cuore che gli veniva meno. «Era là
fuori a installare sulla navetta il cutout a distanza, e loro stavano facendo una
specie di esercitazione di gruppo sullo scafo della Israel, per cui l’hanno
vista. È stata pura sfortuna.»
«Cosa è successo? Sta bene?» Per favore, che stia bene.
«L’hanno presa, capitano» rispose Alex. Holden sentì il petto che gli si
svuotava.
«Presa. Nel senso che... le hanno sparato?
«Oh! No, l’hanno catturata. È illesa. Il tizio della sicurezza della Israel ha
chiamato proprio per farmi sapere che era illesa. Però l’accusano di
sabotaggio e l’hanno rinchiusa.»
«Merda» imprecò Holden, quando riuscì di nuovo a respirare. Sapeva chi
doveva aver autorizzato la cosa. Murtry. E adesso che aveva in mano una
grossa moneta di scambio, il capo della sicurezza della RCE ci sarebbe andato
giù pesante. «Qualcun altro lo sa?»
«Ecco, Amos ha chiamato qualche minuto fa per parlare con lei...»
Holden non sentì il resto di quello che Alex aveva da dire perché stava già
correndo verso la città. Quanto più correva senza sentire spari, tanto più
cresceva la sua speranza che Amos si fosse reso conto di quanto fosse
delicata la situazione e avesse deciso di aspettare e consultarsi con il suo
capitano prima di agire in qualsiasi modo. Sperava che Amos non fosse già in
contatto radio con la Israel con una pistola puntata alla testa di Murtry, per
esigere che Naomi fosse loro restituita sana e salva.
Aveva ragione a metà.
Quando fece irruzione nell’ufficio di Murtry trovò il capo della sicurezza
premuto contro una parete, con la mano sinistra di Amos intorno al collo e
una pistola contro la fronte. Se non altro nessuno aveva chiamato la Israel per
avanzare richieste, probabilmente perché Amos non aveva una mano libera
per farlo.
Oltre a Murtry e ad Amos nella stanza c’erano altri quattro agenti della
sicurezza con le armi puntate contro la schiena di Amos. «Getta la pistola o
spariamo» ordinò uno di essi, la donna bruna di nome Wei.
«D’accordo» ribatté Amos, con una scrollata di spalle. «Spara pure,
dolcezza. Ti garantisco che porterò con me questo pezzo di merda. A me sta
bene. E a te?» Si protese di più verso Murtry, dando enfasi alla domanda
affondando la canna della pistola contro la sua fronte. La forza della
pressione era tale che un rivoletto di sangue cominciò a scorrere lungo la
faccia del capo della sicurezza.
Murtry sorrise. «Continua ad abbaiare, cane. Sappiamo entrambi che non
morderai. Sparami e lei morirà.»
«Tu non lo saprai.»
«Amos, non lo fare» ordinò Holden.
«Oh, fallo» disse Murtry, le sue parole erano quasi un sussurro.
Holden trattenne il respiro, certo che la prossima cosa che avrebbero sentito
sarebbe stato uno sparo. Amos lo sorprese, non facendo fuoco. Invece, si
protese ancora di più in avanti, fino a toccare con il naso quello di Murtry.
«Io ti ucciderò» promise.
«Quando?» ribatté Murtry.
«Questa è proprio la domanda che dovresti tenere a mente» ritorse Amos,
lasciandolo andare.
Holden riprese a respirare con un sussulto. «Ho la situazione sotto
controllo, Amos» affermò.
Con suo sollievo, il grosso meccanico ripose la pistola nella fondina, ma
non accennò ad andarsene.
«Dico sul serio. Ci penso io. Tu devi tornare all’alloggio e metterti in
contatto con Alex. Procurami un rapporto completo. Io ti raggiungerò fra un
minuto.»
Per un momento, Holden pensò che Amos avrebbe discusso. Il meccanico
lo fissò con il volto arrossato dall’ira e la mascella serrata con tanta forza da
incrinare i denti. «D’accordo» ringhiò infine, e se ne andò. Gli altri quattro
agenti lo tennero sotto tiro finché non fu uscito.
«È stata una mossa intelligente» commentò Murtry. Tirato fuori un
fazzoletto di carta da una scatola sulla scrivania si pulì la fronte dal sangue.
Un brutto livido cominciava a formarsi intorno al taglio causato dalla pistola
di Amos. «C’è mancato poco che il suo ragazzo non uscisse vivo da questa
stanza, mediatore.»
Con sua stessa sorpresa, Holden scoppiò a ridere. «Non ho mai visto Amos
affrontare uno scontro che non avesse intenzione di vincere. Non so cosa
avesse in mente, ma anche se eravate in cinque avrei scommesso su di lui.»
«Prima o poi tutti perdono» osservò Murtry.
«Parole di cui fare tesoro.»
«Ha alle dipendenze un vero assassino, nonostante tutte le critiche ai miei
metodi.»
«C’è una differenza. Amos è disposto a perdere la faccia per proteggere
qualcosa che ama. Il suo bisogno di vincere non è superiore a quello di tenere
in vita i suoi amici. È per questo che non vi somigliate affatto.»
Murtry ne convenne con un cenno e una scrollata di spalle. «Quindi, se non
era qui per salvare il suo uomo, perché è venuto?»
«Continuiamo ad aggravare le cose» replicò Holden. «L’accaduto è stato in
parte colpa mia. Ho chiesto io a Naomi di occuparsi della navetta.»
«Il sabotaggio...» cominciò Murtry.
«Però l’ho fatto come reazione alla scoperta che lei l’ha trasformata in
un’arma. Continuiamo a reagire l’uno alle azioni dell’altro, giustificandoci
come bambini che stiano giocando, con un ‘ha cominciato lui’...»
«Quindi lei sarà il primo a spezzare questo ciclo?»
«Se posso» rispose Holden. «Lei si è spinto troppo oltre, Murtry. Disarmi la
navetta, mi restituisca Naomi, e vediamo di trovare un modo di fermare
questa escalation.»
Il vago sorriso di Murtry si trasformò in un’espressione altrettanto
vagamente aggrondata. Si appoggiò all’indietro contro la scrivania e si
premette di nuovo il fazzoletto contro il taglio sulla fronte, ritraendolo con
una sola macchia carminia. Poi incrociò le braccia con fare disinvolto ma
inamovibile. Holden sapeva che era un’affettazione deliberata che aveva lo
scopo di farlo apparire naturale, ed era insieme colpito e preoccupato
nell’avere di fronte una persona con un simile livello di consapevolezza di sé
e di controllo.
«Ho agito esclusivamente nell’ambito del mio incarico qui» dichiarò
Murtry. «Ho protetto i beni e il personale della RCE.»
«Ha ucciso un mucchio di coloni e rapito il mio vicecomandante» ribatté
Holden, cercando invano di evitare che l’ira gli trapelasse dalla voce.
«Ho ucciso meno coloni abusivi di quanti di noi siano morti per mano loro,
e tutti erano attivamente impegnati a complottare e a portare avanti attacchi
contro i beni e il personale della RCE. Questo, come ho detto, è il mio lavoro.»
«E Naomi...»
«Ho catturato una sabotatrice che sto trattenendo in attesa di indagini.
‘Rapimento’ non è soltanto un termine provocatorio, è anche inesatto.»
«Lei vuole che questa situazione esploda» sospirò Holden. «Attende con
impazienza la prossima occasione di peggiorare ulteriormente le cose, vero?»
Il cipiglio tornò a trasformarsi in un sorriso. Nessuna delle due espressioni
aveva significato, erano soltanto maschere diverse. Holden si chiese che
aspetto avesse l’interno della testa di Murtry e rabbrividì.
«A ogni passo ho fatto soltanto il minimo necessario» dichiarò il capo della
sicurezza, con quel suo inquietante sorriso.
«No» replicò Holden. «Avrebbe potuto andarsene. Aveva la Israel. Dopo il
primo attacco alla navetta avrebbe dovuto riportare la sua gente a bordo e
attendere che si svolgessero le indagini. Se lo avesse fatto, un sacco di gente
sarebbe ancora viva.»
«Oh, no» dichiarò Murtry, scuotendo il capo, poi si raddrizzò e abbandonò
la posa a braccia conserte, ogni movimento lento e deliberato, in modo da
trasmettere una minaccia. «No, quella è la sola cosa che non faremo. Non
cederemo un centimetro di terreno. Questi coloni abusivi possono scagliarsi
contro di noi fino a quando l’ultimo di loro giacerà in pezzi nella polvere, ma
noi non andremo da nessuna parte. Perché anche questo...»
Il suo sorriso si fece più tagliente.
«Anche questo è il mio lavoro.»
Il tragitto dall’ufficio della RCE alla sua stanza nel centro comunitario non
era molto lungo, ma era molto buio. Il tenue bagliore azzurro di Miller non
illuminava niente, ma in qualche modo era stranamente confortante.
«Ehi, vecchio mio» lo salutò Holden.
«Dobbiamo parlare.» Miller sorrise della sua battuta. Ormai faceva battute.
Era quasi come una persona vera, e in qualche modo quello faceva più paura
di quando era stato pazzo.
«Lo so, ma al momento sono impegnato a impedire a questa gente di
uccidersi a vicenda. O di uccidere noi.»
«E come ti vanno le cose?»
«In modo orribile» ammise Holden. «Ho appena perso l’unica vera
minaccia che potevo usare.»
«Sì. Il fatto che Naomi si trovi sulla loro nave elimina la Rocinante come
fattore in gioco. Permetterle di avvicinarsi a quella nave è stato uno stupido
errore.»
«Io non te ne ho mai parlato.»
«Dovrei fingere di non essere nella tua testa» chiese Miller, con una
scrollata di spalle cinturiana. «Lo farò, se ti fa sentire più a tuo agio.»
«Ehi, Miller, cosa sto pensando adesso?» chiese Holden.
«Ti meriti dei punti per la tua creatività, ragazzo. Sarà una cosa difficile da
far funzionare, e meno divertente di quanto ti aspetti.»
«Allora resta fuori.»
Miller smise di camminare e afferrò Holden per un braccio. Ancora una
volta, lui rimase sorpreso da quanto la cosa sembrasse reale. La mano di
Miller era come una morsa di ferro che lo stringesse. Holden cercò di
liberarsi e scoprì che non poteva farlo. E tutto questo era soltanto dovuto a
quello spettro che premeva pulsanti nel suo cervello.
«Non stavo scherzando. Dobbiamo parlare.»
«Sputa il rospo» ribatté Holden, riuscendo infine a ritrarre il braccio quando
Miller allentò la presa.
«Ho bisogno di andare a dare un’occhiata a un punto a nord di qui.»
«Il che significa che hai bisogno che io vada a dare un’occhiata.»
«Sì» confermò Miller, e agitò il pugno nel gesto di assenso cinturiano.
«Questo.»
Suo malgrado, Holden sentì crescere la curiosità. «Di cosa si tratta?»
«A quanto pare, il nostro venire qui ha causato un po’ di agitazione fra i
locali» rispose Miller. «Forse non te ne sei accorto, ma c’è un sacco di roba
avanzata che si sta svegliando su tutto il pianeta.»
«Sì. Volevo parlartene. È opera tua? Sei tu che la controlli?»
«Stai scherzando? Io sono una marionetta di pezza. La protomolecola ha il
braccio infilato su per il mio posteriore tanto in profondità che posso sentire il
sapore delle sue unghie» rise Miller. «Non posso controllare neppure me
stesso.»
«È solo che alcune di quelle cose sembrano pericolose, come quel robot,
per esempio, e tu sei riuscito a disattivare la stazione nella zona lenta.»
«Perché voleva che lo facessi. Puoi ordinare al sole di levarsi, se calcoli
bene i tempi. Non sono io a guidare questo autobus. Cercare di fargli fare
quello che voglio sarebbe come parlare con qualcuno che ha avuto un ictus.»
«D’accordo» annuì Holden. «Dobbiamo lasciare questo pianeta.»
«Prima però c’è questa cosa. Questa non-cosa. Senti, ho una mappa
abbastanza accurata della rete globale. C’è un sacco di roba abbandonata che
si sta risvegliando e segnalando la sua presenza. Tranne in un punto, che è
come una grande sfera di niente.»
Holden scrollò le spalle. «Forse è solo un punto dove non ci sono nodi della
rete.»
«Ragazzo, tutto questo pianeta è un nodo della rete. Non ci dovrebbe essere
nessun posto che sia off-limits per me.»
«Questo cosa significa?»
«Forse è solo un punto che si è davvero guastato in modo definitivo»
replicò Miller. «Sarebbe interessante, ma inutile.»
«E quale sarebbe una cosa utile?»
«Che sia un avanzo di quello che ha ucciso questo posto.»
Per un momento rimasero fermi in silenzio, con il freddo vento notturno di
Ilus che agitava i pantaloni di Holden ma non aveva il minimo effetto sul
detective. Holden sentì un brivido partirgli dalla base della spina dorsale e
salirgli lentamente lungo la schiena. I peli gli si rizzarono sulle braccia.
«Non voglio trovare una cosa del genere» disse.
«Io sì» ribatté Miller, con il suo miglior tentativo di sfoggiare un sorriso
amichevole. «Per quanto mi riguarda, il libero arbitrio ha abbandonato la
conversazione da un pezzo. Però è là che ci sono i veri indizi, e dovresti
venire con me. Alla fine succederà comunque.»
«Perché?»
«Perché i veri mostri non se ne vanno quando chiudi gli occhi. Perché hai
bisogno tanto quanto me di sapere cosa è successo qui.»
L’espressione di Miller era ancora cordiale, ma in essa si scorgeva anche
paura, un terrore che Holden riconobbe, e che condivideva.
«Prima Naomi. Non andrò da nessuna parte finché non l’avremo
recuperata.»
Miller annuì e scomparve in uno spruzzo di scintille azzurre.
Quando tornò al bar, Amos lo stava aspettando, seduto da solo a un tavolo
con una bottiglia mezza vuota di qualcosa che puzzava di antisettico e di
fumo.
«Immagino che tu non lo abbia ucciso, dopotutto» commentò, quando
Holden si sedette.
«Ho la sensazione di camminare su una fune tanto sottile che non riesco
neppure a vederla» replicò Holden, poi scosse il capo quando Amos gli offrì
la bottiglia, e il meccanico bevve un lungo sorso al suo posto.
«Questa storia finirà nel sangue» dichiarò Amos, dopo un momento, con
voce che suonava remota e sognante. «Non c’è modo di evitarlo.»
«Ecco, dal momento che il mio compito è esattamente l’opposto, spero che
ti sbagli.»
«Non mi sbaglio.»
Holden non aveva nessuna valida argomentazione da contrapporre, quindi
chiese invece: «Cosa ha detto Alex?»
«Di mettere insieme una lista di richieste per il capitano della Israel. E di
accertarci che Naomi sia trattata bene finché si trova lì.»
«Cosa offriremo in cambio?»
«Alex non farà saltare la Israel, riducendola in questo istante agli atomi che
la compongono.»
«Spero acconsentano. Ci stiamo mostrando generosi.»
«Tuttavia,» proseguì Amos «lui continua a tenere il cannone magnetico
puntato sul reattore della Israel.»
Holden si passò le mani fra i capelli. «Allora non siamo poi così generosi.»
«Di’ per favore, ma tieni sottomano un proiettile da un chilo di tungsteno
accelerato a una percentuale individuabile di c.»
«Mi pare di averlo già sentito dire» replicò Holden, poi si alzò, sentendosi
di colpo molto stanco. «Vado a letto.»
«Naomi è nella dannata prigione di Murtry e tu puoi dormire?» chiese
Amos, bevendo ancora.
«No, ma posso andare a letto. Poi domani troverò il modo di sottrarre il mio
primo ufficiale alle mani del pazzo della RCE che lo tiene in ostaggio, in modo
da poter andare alla ricerca di frammenti di spaventosi proiettili alieni
conficcati in questo pianeta.
Amos annuì, come se tutto avesse senso. «Allora nel pomeriggio non
abbiamo niente da fare.»
24
Elvi

Elvi dormiva, e sognava.


Nel suo sogno era di nuovo sulla Terra, ma quelli erano anche i corridoi
della Edward Israel. Si sentiva oppressa da un senso di urgenza che ben
presto si trasformò in terrore. Da qualche parte c’era qualcosa che bruciava
perché lei non aveva consegnato i moduli giusti. Doveva consegnarli prima
che bruciasse tutto. Era nell’ufficio del tesoriere, all’università, e c’era anche
il governatore Trying, in attesa del suo certificato di morte, e anche per quello
ci stava volendo troppo tempo. Non poteva consegnare i moduli. Guardò i
fogli di carta velo, alla ricerca di una data di scadenza per la consegna, ma le
parole continuavano a cambiare. Prima, la riga in fondo diceva ‘Elvi Okoye,
capo ricercatore e Argonauta’, ma quando la rilesse diceva invece ‘Le multe
vanno pagate direttamente al tempio: conigli e maiali.’ Il senso di urgenza la
incalzava, e quando gridò la carta velo cominciò a sbriciolarsi fra le sue dita.
Cercò di ricomporre i moduli, ma i pezzi si rifiutarono di combaciare.
Qualcuno la toccò su una spalla. Era James Holden, ma sembrava qualcun
altro. Era più giovane, più scuro, ma sapeva che era lui. Si rese conto di
essere stata nuda per tutto il tempo e si sentì imbarazzata, ma anche un po’
compiaciuta. Lui le toccò il seno, e...
«Elvi! Svegliati!»
Aprì gli occhi, sentendosi le palpebre lente e pesanti, e faticando a mettere a
fuoco. Non sapeva dove si trovava, solo che uno stupido bastardo stava
interrompendo qualcosa che lei non voleva fosse interrotto. Le linee scure
davanti a lei si fecero lentamente familiari. Il tetto della sua capanna. Si
spostò allungando la mano per cercare qualcuno senza sapere bene chi. Era
sola nel letto. Il suo terminale palmare emetteva un fioco bagliore, una luce
tremolante proveniva dalle sue apparecchiature di analisi mentre i dati del suo
lavoro venivano inviati attraverso la vasta oscurità, fino all’Anello e alla
Stazione di Medina, e da lì alla Terra, e le informazioni di risposta
viaggiavano verso di lei. Il che era tutto eccellente e come doveva essere,
quindi perché diavolo era sveglia?
Bussarono piano alla porta, e si sentì la voce di Fayez. «Elvi! Svegliati!
Questa è una cosa che devi vedere!»
Elvi sbadigliò a tal punto da farsi dolere la mascella, poi si sollevò a sedere.
Il sogno stava già svanendo in fretta. Era stato qualcosa riguardo a un fuoco e
a qualcuno che la toccava, qualcuno da cui desiderava terribilmente essere
toccata. I dettagli persero ogni coerenza mentre si sedeva e allungava la mano
verso la vestaglia.
«Elvi! Ci sei?»
Quando rispose, le parole suonarono lente, pesanti, un po’ strascicate. «Se
questo non è importante ti squarcerò la gola e ti piscerò nei polmoni.»
Fayez rise. Dietro di lui si sentivano altre voci. Sudyam che diceva
qualcosa, troppo piano per poter distinguere le sue parole. C’era anche Yma
Chappel, il capo dei geochimici. Elvi si fermò, gettò da parte la vestaglia e si
infilò i vestiti, insieme agli stivali da lavoro. Quando uscì dalla capanna,
trovò una dozzina di persone delle squadre di ricerca raccolte in coppie o
piccoli gruppi sulla pianura immersa nel buio della notte. Guardavano tutti
verso l’alto. E lassù nell’oscurità qualcosa di più grande di una stella
splendeva di un rosso cupo. Accoccolato a terra, Fayez sollevò lo sguardo su
di lei.
«Quello cos’è?» chiese Elvi, abbassando d’istinto la voce come se temesse
di spaventare quella cosa.
«Una delle lune.»
Elvi si mosse in avanti e inclinò il collo, fissando la notte con aria
accigliata.
«Cosa sta facendo?»
«Sta fondendo.»
«Perché?»
«Giusta domanda» commentò Fayez, rialzandosi.
Sulla sinistra, Sudyam alzò la voce per interloquire. «Ci fa desiderare di
aver mandato là delle sonde, vero?»
«Noi siamo una sola nave, e questo è un intero dannato pianeta» ribatté
Fayez. «Per di più, ci siamo concentrati un sacco sullo sforzo di ucciderci a
vicenda.»
«Dove vuoi andare a parare?» domandò Sudyam.
Fayez allargò le mani. «Siamo stati impegnati.»
Per un momento la luna cambiò colore, passando dal rosso opaco a un
arancione intenso, poi a un giallo biancastro e poi di nuovo attraverso tutti i
passaggi dello spettro, la luce che calava nella misura in cui prima era
aumentata.
«Qualcuno sta registrando tutto questo?» chiese Elvi.
«Caskey e Farengier hanno interrotto il loro studio sulla rifrazione ad alta
quota e hanno cominciato ad accumulare dati non appena si sono accorti di
quello che stava succedendo. Perlopiù si tratta di luce visibile, calore e circa
un trenta percento di particelle gamma in più rispetto allo sfondo. I sensori
della Israel mostrano più o meno la stessa cosa.»
«È pericoloso?» domandò Elvi, conoscendo già la risposta mentre parlava.
Forse. Forse era pericoloso, e forse non lo era. Finché non avessero scoperto
di cosa si trattava, tutto quello che potevano fare era avanzare supposizioni.
La luce delle stelle rendeva difficile decifrare l’espressione di Fayez.
L’apprensione agli angoli della bocca e nella curva degli occhi poteva essere
solo frutto dell’immaginazione. Un altro tipo di sogno. «Gli altri lo sanno?»
«Suppongo di sì,» rispose Fayez «a meno che non siano troppo impegnati a
catturarsi o a darsi fuoco a vicenda.»
«Lo hai detto a Murtry?»
«No. Probabilmente qualcuno lo farà.»
«E Holden? Cosa mi dici di lui? Lo sa?»
«Anche se lo sa, cosa ci può fare? Parlargli in tono rassicurante?»
Elvi si girò verso First Landing. Le poche case illuminate erano come una
manciata di stelle cadute al suolo. Prese il terminale palmare e regolò lo
schermo sul bianco, per usarlo come una torcia elettrica.
«Dove stai andando?» le gridò dietro Fayez.
«Voglio parlare con il capitano Holden» rispose lei.
«Certo che lo vuoi» ribatté Fayez, con un grugnito impaziente. «Perché la
cosa più utile per lui è il punto di vista di una biologa riguardo a quella cosa.»
Quelle parole la ferirono un poco, ma Elvi non si lasciò trascinare in una
conversazione. Fayez era un valido scienziato e un amico, ma la sua abitudine
di prendersi gioco di tutto e di sviare qualsiasi cosa seria per il gusto di fare
dell’umorismo lo rendeva meno utile di quanto sarebbe dovuto essere. Uno
degli altri avrebbe dovuto accertarsi che tutti sapessero che in cielo stava
succedendo qualcosa. Non sarebbe dovuto toccare a lei farlo. Eppure, dentro
di sé sperava di essere lei a portare la notizia.
L’aria odorava di polvere e dei minuscoli analoghi dei fiori notturni. Là
dove c’erano state poche piante robuste e filamentose, mesi di traffico a piedi
avevano creato sentieri, che lei seguì al buio con la stessa facilità con cui lo
avrebbe fatto di giorno. Non per la prima volta, si rese conto che la manciata
di capanne sparse, le rovine e perfino la stessa First Landing le erano
diventate familiari come qualsiasi altro posto in cui avesse mai vissuto.
Conosceva quella terra, la sensazione della brezza, gli odori che si
diffondevano e svanivano nei diversi momenti della giornata. Nell’arco
dell’ultimo mese era stata gli occhi e gli orecchi dell’intera comunità
scientifica del sistema solare. Anche quando i terroristi avevano ucciso
Reeve, e Murtry era sceso sul pianeta, lei aveva dedicato almeno parte della
giornata all’esaminare campioni e trasmettere dati a casa. Aveva trascorso più
tempo di chiunque altro non solo in quell’ambiente, ma con esso.
In alto, quella minuscola luna rossa le ricordava che ancora non sapeva
molto. Di norma, quello sarebbe stato un piacere e una sfida, ma nell’oscurità
della notte di Nuova Terra aveva il sapore di una minaccia. I suoi passi
assunsero un ritmo scandito, con gli stivali che battevano sulle pietre levigate
dal vento.
In città, la gente era raccolta all’aperto come gli scienziati davanti alle
capanne della RCE. Erano nelle strade, e sui piccoli porticati, intenti a
guardare in alto verso quel punto lucente che si spostava sull’orizzonte. Non
avrebbe saputo dire se fossero curiosi, apprensivi, o se volessero soltanto
qualcosa a cui pensare che non fosse il conflitto fra l’RCE e i coloni. Fra noi e
loro.
O forse lo vedevano come un presagio. Un occhio rovente che guardava
verso tutti, giudicandoli e preparandosi alla guerra. Una volta aveva sentito
una storia popolare come quella, ma non ricordava dove.
Wei e un altro uomo della sicurezza della RCE camminavano lungo la strada
principale con il fucile spianato. Elvi li salutò con un cenno che loro
ricambiarono, ma nessuno parlò. Probabilmente qualcuno aveva già avvertito
Holden, ma ormai era arrivata fin lì, quindi tanto valeva accertarsene.
Jacek Merton camminava avanti e indietro davanti allo spaccio in cui
abitava Holden. Il ragazzo aveva il corpo rigido e proteso in avanti, le mani
serrate a pugno lungo i fianchi e lo sguardo fisso un metro davanti a lui come
qualcuno che guardasse uno schermo, le spalle incurvate quasi proteggesse
qualcosa. Elvi stava per salutarlo quando nella testa le trillò un piccolo
campanello d’allarme.
Nello spazio di un istante cessò di essere Elvi Okoye che nel cuore della
notte andava a trovare il capitano Holden con una scusa che lei stessa trovava
estremamente debole, e quello davanti a lei cessò di essere il figlio di Lucia e
Basia Merton, fratello di Felcia. Quella non era neppure più una città. Lei era
una biologa al lavoro sul campo, e aveva davanti un primate. E in quel
contesto alcune cose apparivano perfettamente chiare. Il ragazzo stava
raccogliendo il coraggio per fare qualcosa di violento.
Elvi esitò e accennò a tornare indietro. Wei era ad appena qualche decina di
metri da lei, a un paio di svolte di distanza. Se avesse gridato, probabilmente
gli agenti della sicurezza sarebbero arrivati di corsa. Il cuore le accelerò i
battiti e sentì il grido formarsi in gola. Le lunghe ore trascorse dopo la morte
di Reeve la tormentavano ancora come un incubo ricorrente. Doveva gridare.
Chiamare aiuto.
Solo che il ragazzo non era soltanto un primate. Non era un semplice
animale. Era il fratello di Felcia, e se avesse chiesto aiuto loro avrebbero
potuto ucciderlo. Deglutì a fatica, intrappolata fra la paura e il coraggio.
Incerta. Si chiese cosa avrebbe fatto Fayez al suo posto. Avrebbe offerto una
birra al ragazzo?
Lui si fermò a fissarla. I suoi occhi erano vuoti. Indossava una giacca
leggera che pendeva un po’ da un lato, come se avesse avuto in tasca
qualcosa di pesante.
«Ciao» lo salutò con un sorriso.
«Ciao» rispose Jacek, un momento più tardi.
«Strano, vero?» Elvi indicò il punto rosso, che adesso appariva più sinistro
che mai. Jacek lanciò un’occhiata verso il cielo ma non parve avere reazioni.
«È strano» convenne.
Rimasero fermi uno di fronte all’altra, il silenzio intenso e pregnante. La
luce che scaturiva dalle finestre dello spaccio illuminava solo parzialmente il
ragazzo. Elvi si sforzò di trovare qualcosa da dire, qualcosa che calmasse le
acque e facesse andare tutto a posto. Fayez avrebbe fatto una battuta,
qualcosa che potesse indurre il ragazzo a ridere e che li accomunasse in
quella ilarità, ma lei non sapeva come fare.
«Ho paura» disse invece, con la voce che le si incrinava un poco. La cosa
sorprese in pari misura il ragazzo e lei stessa. «Ho tanta paura.»
«È tutto a posto» replicò Jacek. «È solo una specie di reazione, lassù. Non
sta facendo niente, tranne fondersi in orbita.»
«Però mi spaventa.»
Jacek si fissò i piedi con aria accigliata, combattuto fra la missione che
stava cercando il coraggio di portare a termine e l’impulso di dire qualcosa di
gentile e rassicurante a quella strana donna, chiaramente instabile e
vulnerabile.
«Andrà tutto bene» tentò infine.
«Hai ragione» annuì Elvi. «È solo che... sai com’è. Voglio dire, lo sai,
vero?»
«Suppongo di sì.»
«Ero venuta a trovare il capitano Holden» continuò Elvi, e lo sguardo di
Jacek ebbe un fremito, come se avesse detto qualcosa di offensivo. «Sei
anche tu qui per questo?»
Vide lo sforzo sul suo volto, mentre cercava di ritrovare quell’inespressività
di prima, la tensione, l’ira e il vuoto. Però non era qualcuno per il quale la
violenza fosse una cosa naturale. Aveva dovuto fare uno sforzo per evocarla
dentro di sé, e quello sforzo era stato ciò che Elvi aveva notato.
«Ha portato via mio padre,» disse «e mia madre teme che non lo rivedremo
più.»
«È per questo che sei venuto? Per chiederglielo?»
Jacek parve confuso.
«Chiedergli... cosa?»
«Di parlare con tuo padre?»
Il ragazzo sbatté le palpebre e mosse un passo istintivo verso di lei. «Lui
non mi permetterà di parlargli. Lo ha fatto prigioniero.»
«La gente fa prigionieri di continuo. Qualcuno ti ha detto che non potevi
parlare con tuo padre?»
Jacek rimase in silenzio. Infilò una mano in tasca – la tasca pesante – e
subito la tirò fuori. «No.»
«Allora vieni, andiamo a chiederglielo» suggerì Elvi, avanzando verso di
lui.
Dentro lo spaccio, Holden camminava avanti e indietro nella stanza. Il suo
grosso compagno, Amos, sedeva a un tavolo con un mazzo di carte, e faceva
un solitario con una concentrazione inquietante. Holden appariva più pallido
del solito e la sensazione di emozioni a stento tenute sotto controllo dava al
suo corpo una tensione che Elvi non associava alla sua immagine. Amos
sollevò lo sguardo quando lei entrò con la mano sulla spalla di Jacek. I suoi
occhi apparivano opachi e vuoti come biglie, ma la sua voce suonò allegra
come sempre.
«Ehilà, dottoressa. Cosa succede?»
«Un paio di cose» rispose Elvi.
Holden si fermò improvvisamente e parve impiegare un secondo a mettere
a fuoco lo sguardo. Qualcosa lo turbava. Poi la guardò negli occhi e sorrise.
Elvi sentì una tensione inattesa costringerle la gola, e tossì.
«Jacek si stava chiedendo se c’era modo di farlo parlare con suo padre»
disse poi. Pareva che non ci fosse molta aria nella stanza, tanto che faceva
fatica a respirare. Forse stava sviluppando un’allergia.
«Certo» rispose Holden, poi guardò verso Amos da sopra la spalla. «Non è
un problema, vero?»
«La radio funziona ancora» rispose Amos. «Però sarebbe il caso di
avvertire Alex di aspettarsi la chiamata. Al momento è un po’ impegnato.»
«Una buona osservazione» convenne Holden, annuendo più fra sé che
rivolto a qualcuno di loro. «Organizzerò la cosa. Hai un terminale palmare?»
Jacek impiegò un momento a rendersi conto che la domanda era rivolta a
lui. «Non funziona. Noi non abbiamo un ripetitore. C’è campo solo quando
siamo in linea visiva.»
«Portamelo appena puoi, e vedrò di connetterlo alla nostra rete. Sarà più
semplice che fissare degli orari per permetterti di usare il mio. Ti va bene?»
«Io... sì, certo.» Elvi sentì la spalla del ragazzo tremare. Jacek si girò e uscì
evitando ogni sguardo, soprattutto il suo. La porta si richiuse alle sue spalle.
«Il ragazzo era armato, capo» osservò Amos.
«Lo so» annuì Holden. «Cosa volevi che facessi al riguardo?»
«Che lo sapessi. Tutto qui.»
«D’accordo, lo so. Adesso però non ho proprio il tempo di farmi sparare.»
Riportò la sua attenzione su Elvi. Una ciocca di capelli gli ricadeva sulla
fronte e appariva stanco, quasi portasse sulle spalle il peso dell’intero pianeta.
Tuttavia, riuscì ad accennare un sorriso. «C’è altro? Perché siamo un po’...»
«È un brutto momento? Se è così posso...»
«Il nostro primo ufficiale è stato arrestato da Murtry» spiegò Amos. Adesso
l’espressione opaca dei suoi occhi si era estesa anche alla voce. «Potrebbe
passare del tempo prima che ci sia un momento davvero buono.»
«Oh» mormorò Elvi, il cuore che di colpo le accelerava i battiti. Pensieri
come Il primo ufficiale è l’amante di Holden e Holden ha un’amante e
Holden potrebbe non avere più un’amante e Gesù, cosa ci faccio qui,
entrarono in collisione da qualche parte nella sua neocorteccia. Scoprì di
essere molto insicura riguardo a cosa fare con le mani. Cercò di metterle in
tasca, ma la metteva a disagio quindi tornò a tirarle fuori.
«Stavo pensando» disse, con la voce che saliva di tono alla fine della frase.
«A quella cosa, nel deserto. E adesso la luna.»
«Quale luna?»
«Quella che sta fondendo, capitano» rispose Amos.
«Esatto. Quella. Mi dispiace, ma al momento ho un sacco di cose per la
testa. Se non si tratta di un problema riguardo al quale posso effettivamente
fare qualcosa, temo che le cose non mi rimangano in mente» replicò Holden.
Poi aggiunse: «Non ci si aspetta che faccia qualcosa riguardo a Luna, vero?»
«Possiamo lasciare che siano gli scienziati a dirci se dobbiamo cedere al
panico oppure no» commentò Amos. «Va bene così.»
«Stavo pensando alle percentuali di fallimento del letargo e al fatto che
forse quanto stiamo vedendo è analogo.»
Holden sollevò le mani. «Non saprei dirglielo.»
«È che il letargo è una strategia davvero molto rischiosa. La vediamo in atto
solo quando le condizioni sono talmente negative che le strategie di
sopravvivenza consuete falliscono. Prenda gli orsi, per esempio. Sono grandi
predatori, e d’inverno la catena alimentare non è in grado di sostentarli.
Oppure gli scaphiopodidae, nel deserto. Nei periodi asciutti, le loro uova
seccherebbero, quindi i rospi adulti vanno in letargo finché non si mette a
piovere, poi si svegliano, vanno nelle pozzanghere e si accoppiano
furiosamente, in questa sorta di folle orgia nelle pozzanghere e... uhm...
comunque dopo... dopo depongono le uova nell’acqua prima che possano
disseccarsi.»
«D’accordo...» disse Holden.
«Il punto è che non tutti si svegliano» continuò Elvi. «Non sono obbligati a
farlo, fintanto che un numero sufficiente di organismi si riattiva quando arriva
il momento giusto e una quantità sufficiente della popolazione sopravvive,
anche se singoli individui non lo fanno. Non è mai il cento percento. Inoltre,
disattivarsi e tornare in attività è un processo complicato e pericoloso.»
Holden trasse un profondo respiro e si passò le mani fra i capelli. Aveva
folti capelli castani che pareva non fossero stati lavati da un po’. Amos non
riuscì nel solitario, raccolse le carte e procedette a mescolarle con movimenti
lenti e deliberati.
«Quindi,» sintetizzò Holden «lei pensa che queste... cose che stiamo
vedendo siano manufatti o organismi o qualcosa che cerca di svegliarsi?»
«E non ci sta riuscendo. Almeno alcune volte» annuì Elvi. «Voglio dire, la
luna si è fusa. E quella cosa nel deserto era chiaramente rotta. In ogni caso,
questo è ciò che sembra a me.»
«È sembrato anche a me» convenne Holden. «Ma proprio perché si
muoveva abbiamo scoperto che c’erano cose che si stavano svegliando.»
«No, non è questo il punto» lo corresse Elvi. «C’è sempre una piccola
percentuale di organismi che non si svegliano, o lo fanno nel modo sbagliato.
Queste cose... ecco, se il modello è questo, sono quelle che si svegliano nel
modo sbagliato.»
«Finora riesco a seguirla» disse Holden.
«Di solito le percentuali di fallimento sono basse, quindi perché non
vediamo un mucchio di quelle cose svegliarsi nel modo giusto?»
Holden si avvicinò al tavolo e sedette sul bordo. Appariva spaventato.
Vulnerabile. Era strano vedere un uomo che aveva fatto tanto, che si era fatto
conoscere in tutta la civiltà per le sue parole e le sue azioni, apparire tanto
fragile.
«Quindi crede che ci siano altre di queste cose – forse molte altre – che si
stanno attivando e che noi semplicemente non vediamo?»
«Si adatterebbe al modello» mormorò Elvi.
«D’accordo» commentò Holden, e un momento dopo aggiunse: «Questo
non migliora la mia giornata.»
25
Basia

Basia sedeva da solo sul ponte operativo della Rocinante, assicurato a un


sedile a smorzamento accanto a quella che gli era stato detto essere la
postazione di comunicazione. I controlli erano dormienti, in attesa che
qualcuno richiedesse una connessione, e ogni tanto facevano apparire un
messaggio sullo status dei sistemi che scivolava sullo schermo. Quei
messaggi erano un’incomprensibile mescolanza di acronimi, nomi di sistema
e numeri, e il testo era in un carattere di un verde delicato, cosa che induceva
Basia a pensare che non fossero particolarmente urgenti.
Alex era nella cabina di pilotaggio, con il portello chiuso. Quello non
significava niente, perché il portello si chiudeva automaticamente per isolare
ogni ponte dagli altri nel caso di una perdita di atmosfera. Era una misura di
sicurezza, niente di più.
Però dava comunque la sensazione di essere chiuso fuori.
Il pannello lo colse di sorpresa con una scarica di statica seguita da una
voce. Il volume era abbastanza alto da permettergli di capire che si trattava di
una conversazione fra due uomini senza però riuscire a discernere le parole.
La scritta rossa REGISTRAZIONE IN CORSO lampeggiava in un angolo dello
schermo. Era la Rocinante, che monitorava e registrava tutte le trasmissioni
radio intorno a Ilus. Forse Holden lo faceva di proposito per avere una
documentazione della missione quando fosse tornato sulla Terra, o forse le
navi da guerra lo facevano di default. Non era qualcosa di cui un saldatore
dovesse preoccuparsi. O un minatore. O quello che era stato con Coop e Cate.
Stava cercando un modo per alzare il volume e ascoltare quando la voce di
Alex scaturì sonora dal pannello. «C’è una chiamata in arrivo.»
«D’accordo» rispose Basia, senza sapere se il pilota poteva sentirlo. Non
sapeva se doveva premere un pulsante per rispondere.
Il messaggio sul pannello di comunicazione cambiò e una voce maschile
disse: «Non c’è bisogno che tu faccia niente.»
Per un momento, Basia ebbe l’irrazionale sensazione che la persona che
aveva parlato potesse leggergli nella mente. Stava per replicare quando
risuonò un’altra voce maschile, più giovane. «Devo solo parlare?» Jacek, la
seconda voce era quella di Jacek. Adesso Basia riconobbe la voce più matura
come quella di Amos Burton, l’uomo che lo aveva sorvegliato sul campo di
atterraggio. «Sì» rispose Amos. «Abbiamo aperto un collegamento con la
Roci.»
«Ciao?» disse Jacek.
«Ciao, figliolo» rispose Basia, con un nodo alla gola.
«Loro hanno fatto funzionare di nuovo il nostro terminale palmare» spiegò
Jacek. Basia intuì che con quel loro si riferiva a Holden e Amos.
«Davvero?» replicò. «È una bella cosa.»
«Parla solo con la nave.» La voce di Jacek era piena di eccitazione. «Non
permette di vedere dei video e non fa le altre cose che faceva una volta.»
«Forse in seguito potranno fargli fare anche quelle.»
«Dicono che un giorno saremo inseriti nella rete, come ogni posto del
sistema del Sole. Che allora potremo fare qualsiasi cosa.»
«È vero» convenne Basia. L’acqua gli si stava accumulando negli occhi,
rendendogli difficile vedere. I piccoli messaggi che lampeggiavano sullo
schermo. «Avremo un ripetitore e un HUB, e potremo trasmettere dati avanti e
indietro attraverso i portali. Allora avremo tutto sulla rete, ma ci sarà ancora
un notevole sfasamento.»
«Sì» disse Jacek, poi tacque e ci fu un lungo silenzio. «Com’è la nave?»
«Oh, è davvero grandiosa» rispose Basia, con entusiasmo forzato. «Ho la
mia stanza e tutto il resto. Ho conosciuto Alex Kamal. È un pilota piuttosto
famoso.»
«Sei in prigione?» domandò Jacek.
«No, no. Posso andare dove voglio sulla nave. Sono davvero gentili. Brave
persone.» Ti voglio bene. Mi dispiace così tanto. Per favore, per favore, che
vada tutto bene.
«Ti permettono di pilotare la nave?»
«Non gliel’ho chiesto» rise Basia. «Comunque avrei paura di farlo. È
grossa e veloce, e ha un sacco di cannoni.»
Ci fu un altro lungo silenzio, poi Jacek disse: «Dovresti prenderla e far
saltare in aria la nave della RCE.»
«Non posso farlo» ribatté Basia, cercando di usare il tono più leggero di cui
era capace, e di trasformare la cosa in uno scherzo.
«Però dovresti.»
«Come sta la mamma?»
«Sta bene» rispose Jacek. Basia poté quasi vedere la scrollata di spalle che
aveva accompagnato la risposta. «È triste. Ho cominciato a giocare di più a
calcio. Abbiamo abbastanza gente per fare due squadre, ma ci scambiamo
spesso i giocatori.»
«Davvero? In che ruolo giochi?»
«Come terzino, per ora, ma voglio giocare da attaccante.»
«Ehi, la difesa è importante. È un incarico importante.»
«Non è divertente» ribatté Jacek, con un’altra scrollata di spalle che si
avvertiva nel tono. Seguì un lungo silenzio, mentre entrambi cercavano
qualcosa da dire. Qualcosa che potesse essere detto. Jacek si arrese per primo.
«Adesso devo andare, d’accordo?»
«Ehi, aspetta un minuto» replicò Basia, cercando di impedire che il nodo in
gola gli alterasse la voce, di mantenere un tono leggero e scherzoso. «Non
scappare via. Devo chiederti di fare una cosa.»
«Ho una partita» disse Jacek. «Presto. Si arrabbieranno.»
«Tua madre» disse Basia, poi dovette fermarsi per soffiarsi il naso con la
manica della camicia.
«La mamma cosa?»
«Tua madre lavorerà troppo se non la tieni d’occhio. Sta su la notte per fare
ricerche su delle cose. Cose mediche. E non dorme abbastanza. Accertati che
dorma a sufficienza.»
«D’accordo.»
«Questa è una cosa seria, ragazzo. Ho bisogno che ti prenda cura di lei. Tua
sorella se n’è andata, e questa è una cosa buona, ma significa che spetta a te
essere utile. Ci aiuterai?»
«Okay» disse Jacek. Basia non riuscì a capire se fosse triste o arrabbiato. O
distratto.
«Arrivederci, figliolo.»
«Arrivederci, papà.»
«Ti voglio bene» aggiunse Basia, ma il segnale si era già interrotto.
Si asciugò gli occhi con le maniche della camicia, e per un intero minuto
fluttuò contro le cinture di sicurezza traendo profondi respiri, poi si spinse
verso la scala riservata all’equipaggio e si diresse a poppa, con i portelli dei
ponti che si aprivano al suo avvicinarsi e si richiudevano alle sue spalle con
un suono che echeggiava nella nave vuota.
Nella sua stanza si cambiò la camicia, poi trascorse alcuni minuti nel bagno
a pulirsi la faccia con un asciugamano umido. Avevano una grossa doccia –
non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva fatto una vera doccia – ma
funzionava solo quando la nave era sotto propulsione.
Quando smise di avere l’aspetto di un uomo che aveva pianto, fluttuò di
nuovo lungo la scala e fino alla cabina di pilotaggio. Stava riflettendo se
fosse o meno cortese bussare prima di entrare quando fluttuò troppo vicino
alla spia elettronica del portello e quello si aprì di scatto con un sibilo.
Alex era assicurato al sedile di pilotaggio, davanti a un grande display su
cui scorrevano informazioni sullo stato della nave e si vedeva un’immagine
di Ilus, con il suo unico, grande continente disseminato di punti rossi e gialli.
E un punto verde che era First Landing. Il pilota fissava lo schermo con aria
tesa e accigliata, come se avesse potuto imporre all’universo di fare qualcosa
con la sola forza di volontà. Come se avesse potuto costringerlo a ridargli il
suo equipaggio.
Basia si stava girando per andarsene quando il portello si richiuse
rumorosamente e Alex sollevò lo sguardo.
«Ehi» disse, mentre digitava qualcosa sul pannello.
«Salve» rispose Basia.
«Com’è andata la chiamata? Tutto a posto?»
«Tutto bene. Grazie per avermi permesso di usare la radio.»
«Nessun problema, amico» rispose Alex, con una risata. «Non ci fanno
pagare una tariffa oraria.»
Ci fu un prolungato silenzio pieno di disagio, che Alex finse di non notare
armeggiando con i comandi. «Posso stare qui?» chiese infine Basia.
«Non mi disturba» rispose Alex. «Badi solo a non pasticciare con niente.»
Basia si tirò fino al sedile accanto a quello di Alex e si assicurò su di esso. I
braccioli terminavano con joystick dall’aria molto complessa, quindi stette
bene attento a non urtarli.
«Quello è il sedile del cannoniere» osservò Alex, facendo ruotare il proprio
sedile verso di lui.
«Dovrei...»
«No, non c’è problema, la postazione non è attiva. Prema pure tutti i
pulsanti che vuole. Ehi, vuole vedere qualcosa di forte?»
Basia annuì e mise le mani sui due joystick di controllo. Erano coperti di
pulsanti. Se quello era il sedile del cannoniere, allora i joystick probabilmente
controllavano gli armamenti letali della Rocinante. Desiderò che Jacek
potesse vederlo seduto lì, con le mani sui comandi.
Alex si girò e fece qualcosa sul suo pannello, e in risposta lo schermo
davanti a Basia si attivò, mostrando la stessa immagine di quello del pilota.
Basia osservò la vivida immagine del suo pianeta, cercando di trovare la
posizione di First Landing. Senza la sovrapposizione del punto verde,
trovarlo di giorno era impossibile. Se fosse stata notte avrebbe potuto
individuare la città come una macchia di luce.
Alex fece qualcos’altro e l’immagine si trasformò in quella di una massa di
roccia fusa di un rosso opaco. «Quella è la luna che si sta fondendo. Non era
molto grossa, ma viene comunque da chiedersi cosa possa fondere un pezzo
di roccia di quelle dimensioni.»
«Sappiamo cosa è stato?»
«No, dannazione. La mia supposizione è che sia qualche stronzata
protomolecolare aliena.»
Prima che Basia potesse rispondere, la radio si attivò di nuovo. «Parla
Alex» disse il pilota.
«Il ragazzo se n’è andato. Volevo controllare come andavano le cose»
rispose Amos.
«Come sta il capitano?» chiese Alex.
«Non bene. E mi ha impedito di nuovo di fare la cosa più ovvia.»
«Sparare in faccia al capo della RCE?»
«Oh, mi scalda il cuore vedere quanto mi conosci bene» commentò Amos.
«Hanno lei, amico» replicò Alex in tono fermo ma gentile. «Non fare niente
che peggiori le cose.»
«Sì, sì.»
«Bada solo a coprire le spalle al capitano, laggiù» continuò Alex. «Mi
occuperò io del nostro primo ufficiale.»
«E se le facessero del male?»
«Allora su Ilus pioveranno per un anno pezzi della RCE.»
«Non sarà d’aiuto» sospirò Amos.
«No, non lo sarà» convenne Alex. «Ma succederà lo stesso.»
«D’accordo. Vado a cercare il capitano. Chiudo.»
Alex toccò i comandi e la visuale si spostò, allontanandosi dal pianeta. Per
un momento non ci fu nulla, poi apparve un minuscolo tremolio di luce, non
più grande di un singolo pixel. L’immagine si allargò gradualmente fino a
diventare quella di una nave enorme dipinta con i colori della RCE. Dopo un
momento, l’immagine si ingrandì ulteriormente e la nave si allargò fino a
riempire lo schermo, con una sottile croce di linee rosse che brillava al
centro.
«Ti tengo d’occhio» sussurrò Alex.
«Quello cos’è?» chiese Basia, indicando le linee rosse.
«Quello è il punto in cui è situato il reattore. La Roci ha agganciato quella
posizione e posso mandare una scarica magnetica attraverso il cuore di quella
nave in meno tempo di quanto ne impiegherebbe il suo primo allarme a
mettersi a suonare.»
«Questo non provocherebbe... sa...» Basia mimò un’esplosione con le mani.
«No, aprirebbe soltanto un buco nello scafo. Probabilmente ucciderebbe un
bel po’ del loro personale ingegneristico.»
«Sanno che li avete sotto tiro?»
«Non ancora, ma ho intenzione di informarli. È quello che terrà in vita il
mio primo ufficiale.»
«È bello che possiate fare qualcosa per proteggerla» commentò Basia.
Voleva fermarsi lì, ma le parole gli sfuggirono di bocca. «Mia figlia è sulla
Barbapiccola. Mia moglie e mio figlio sono su Ilus. E io non posso fare
niente per aiutarli o proteggerli.»
Si aspettava vuote parole di rassicurazione.
«Già» replicò invece Alex. «Ha combinato un vero casino, giusto?»
Poi toccò qualcosa sullo schermo, e le parole CANNONE MAGNETICO ARMATO
scintillarono per un secondo in rosso sull’immagine della Edward Israel.
«Fra un secondo devo contattare quella nave» disse Alex.
«Per avvertirli.»
«Più che altro per minacciarli» precisò Alex. «È decisamente la cosa più
misera che abbiamo da offrire a qualcuno che noi tutti amiamo, ma è tutto
quello che ci rimane.» Si protese a toccare qualcosa sulla murata, e un fiotto
di aria fresca scaturì dalla ventola di aerazione, arruffando i radi capelli neri
del pilota e asciugando il sudore che gli si accumulava sul cuoio capelluto.
Alex chiuse gli occhi e sospirò.
«Io non ho neppure le minacce» commentò Basia. Quelle parole suonarono
come un piagnucolio perfino ai suoi stessi orecchi. «Non ho neppure quello.»
«Già. Io ho volato per la marina di Marte per vent’anni» disse Alex, gli
occhi ancora chiusi.
«Oh?» mormorò Basia. Non sapeva bene quale potesse essere la risposta
giusta.
«Ero sposato» continuò Alex, spostando la testa in modo che l’aria fresca
raggiungesse ogni parte del collo e della faccia. Basia non replicò, perché
quella sembrava più una storia che una conversazione. Alex sarebbe andato
avanti a raccontarla oppure no.
«Francamente, la vita della moglie di un membro della marina è uno
schifo» proseguì Alex, dopo qualche momento. «Un tipico turno su una nave
MCRN può durare da novanta a quattro o cinquecento giorni, a seconda del tuo
MOS e della dislocazione della flotta.»
«MOS?» chiese Basia, prima di riuscire a trattenersi.
«Del tuo incarico. Comunque, mentre sei a bordo, la tua compagna è a casa,
a fare quello che fa. Un sacco di gente contrae matrimoni plurimi, partnership
di gruppo, cose del genere. Io però sono il genere di uomo che vuole soltanto
una donna, e suppongo che lei fosse il genere di donna che voleva soltanto un
uomo. Quindi abbiamo fatto le cose alla vecchia maniera.»
Basia annuì, anche se Alex non poteva vederlo. Quando stavano costruendo
nuove cupole, lui aveva fatto un lavoro che a volte lo costringeva a rimanere
al campo sulla superficie per quattro o cinque giorni di fila. E la professione
medica di sua moglie non le avrebbe permesso di viaggiare con lui anche se
non avevano bambini. Quelle erano state lunghe settimane. Cercò di
immaginare dieci o venti di quelle settimane una di fila all’altra, e non ci
riuscì.
«Questo però significava che lei restava a casa mentre io ero in volo»
riprese Alex, dopo un momento di silenzio. «Aveva il suo lavoro di ingegnere
informatico, ed era un buon lavoro, quindi non era come starsene chiusa in
casa a struggersi per la mia assenza. Tuttavia, se ami una persona vuoi stare
con quella persona, e noi ci amavamo. Eravamo fedeli uno all’altra, se riesci
a immaginarlo. I miei periodi di servizio erano duri per entrambi. Quando
tornavo a casa finivamo per rompere il letto.»
Alex si girò a spegnere la ventola dell’aria, poi fece ruotare il sedile verso
Basia. C’era un sorriso triste sul suo ampio volto scuro. «Era una situazione
di merda, ma lei è rimasta con me. È rimasta con me per quei vent’anni di
servizio sulle navi. Quando ero a casa, le cose andavano bene. Lei lavorava
da casa e io prendevo un sacco di licenza, ci svegliavamo tardi e facevamo
colazione insieme. Lavoravamo nel giardino.»
Chiuse di nuovo gli occhi, e per un momento Basia pensò che si fosse
addormentato. «È mai stato su Marte?»
«Io no,» rispose Basia «ma mia moglie ci è stata.»
«Le aree più nuove, quelle costruite dopo che ci siamo fatti un’idea di cosa
la gente avesse bisogno per sentirsi felice, erano strutturate in maniera
diversa. Niente più stretti corridoi di pietra. Hanno costruito larghi corridoi e
una quantità di spazio verde per le piante nel centro.»
«Come su Ceres» osservò Basia. «Sono stato su Ceres.»
«Sì, esatto. Lo hanno fatto anche su Ceres. In ogni caso, potevi richiedere
un permesso per prenderti cura di una sezione di quello spazio verde. Piantare
quello che volevi. Noi avevamo un piccolo pezzo del corridoio davanti alla
nostra casa. Mia moglie aveva creato un orto e piantato un po’ di fiori e
qualche pianta di peperoncino piccante. Ci lavoravamo insieme.»
«Sembra bello» commentò Basia.
«Già» annuì Alex, sempre con gli occhi chiusi. «A quel tempo non lo
sapevo, ma era davvero bello. Se devo essere onesto, lo trovavo un po’ una
rogna. Non sono mai stato molto portato per il giardinaggio. A lei però
piaceva, a me piaceva lei, e a quel tempo era sufficiente.»
«È morta?» chiese Basia.
«Cosa? Santo cielo, no.»
«Allora cosa è successo?»
«Quello che è successo è che lei ha aspettato per vent’anni che io andassi in
pensione. L’ho fatto, e non abbiamo più dovuto trascorrere del tempo lontani.
Lei si è messa a lavorare part-time, io ho trovato un lavoro part-time come
pilota di navette suborbitali. Passavamo un sacco di tempo a letto.»
Alex aprì gli occhi e ammiccò. Pareva aspettarsi una reazione, quindi Basia
chiese: «E poi?»
«Poi un giorno ho attraccato alla stazione di transito orbitale Mariner, e
mentre scaricavano il mio carico per poco non sono entrato in un ufficio di
reclutamento della MCRN e mi sono arruolato di nuovo.»
«Accettano...»
«No, non l’ho fatto, e comunque... sì, in ogni caso ero troppo vecchio.
Quando sono tornato a casa, però, abbiamo avuto una grossa lite per qualcosa
di stupido, non ricordo neppure cosa. Al diavolo, anche in quel momento non
sapevo per cosa stessimo litigando, anche se in un certo modo lo intuivo.»
«Lasciarla.»
«No, in realtà non ho mai desiderato lasciarla. Non ho mai smesso di
desiderare di stare con lei. Però avevo bisogno di volare. Lei mi aveva
aspettato per vent’anni, e lo aveva fatto pensando che quando avessi finito
avremmo avuto tutto il tempo del mondo insieme. Aveva fatto il suo periodo
di servizio, proprio come me, e meritava la parte che veniva dopo.»
Basia intuì quello che stava per sentire, recependolo come un pugno nello
stomaco, incapace di evitare di paragonarlo alla sua situazione. «Se n’è
andato lo stesso.»
Per qualche tempo Alex non replicò, non si mosse, fluttuò contro le cinghie
del sedile di pilotaggio come un cadavere nell’acqua. Quando riprese a
parlare, il suo era il tono teso e sommesso di un uomo che sapeva di aver
fatto qualcosa di vergognoso. Che sperava di non essere sentito da nessuno.
«Un giorno ho lasciato il lavoro all’ufficio di transito, ho attraversato la
strada, sono entrato alla Pur’n’Kleen Water Company e ho firmato un
contratto di cinque anni per pilotare mercantili nei viaggi a lunga distanza
fino a Saturno e ritorno. È questo quello che sono, non un giardiniere o un
pilota di navetta o – a quanto pare – un marito. Sono un pilota su lunga
distanza. Spingere una piccola bolla di metallo piena d’aria attraverso un
oceano di nulla è ciò per cui sono nato.»
«Non può biasimare sé stesso per quello che è successo...» cominciò Basia.
«No» ribatté Alex, accigliandosi. «Una persona può allontanarsi da coloro
che ama semplicemente essendo ciò che è. Io sono quello che sono, non era
quello che mia moglie voleva che fossi, e qualcosa doveva rompersi. Lei ha
deciso di fare quello che ha fatto, su quel pianeta, e questo lo ha fatto finire
quassù con me invece che con la sua famiglia.»
Alex si protese per prendere le mani di Basia nelle proprie. «La
responsabilità è sua. Io non mi perdonerò mai di non essere la persona di cui
mia moglie aveva bisogno dopo aver passato vent’anni ad aspettarmi. Non
potrò mai rimediare. Non compianga sé stesso. Ha fatto un casino, si è
allontanato dalle persone che ama e loro ne stanno pagando il prezzo adesso.
Li sminuisce ogni secondo in cui non accetta la sua responsabilità.»
Basia si ritrasse come se fosse stato schiaffeggiato in piena faccia, e
rimbalzò contro lo schienale del sedile per andare a sbattere contro le cinture
di sicurezza, come una mosca intrappolata in una ragnatela. Dovette sforzarsi
per non cercare di strappare le cinghie per liberarsi. «Allora cosa devo fare?»
chiese, quando smise di dibattersi.
«Merda» commentò Alex, appoggiandosi all’indietro. «Sono a stento
riuscito a fare chiarezza nel mio casino personale. Non mi chieda di fare
chiarezza nel suo.»
«Come si chiamava?» domandò Basia.
«Talissa» rispose Alex. «Il suo nome è Talissa. Anche solo pronunciarlo mi
fa sentire come dieci chili di letame compressi in un sacco da cinque chili.»
«Talissa» ripeté Basia.
«Però le posso dire questo. Non mi allontanerò mai più da qualcuno di cui
mi importa. Mai più. Non se potrò evitarlo. A questo proposito, c’è una
chiamata che devo fare» concluse, con un sorriso intenso e spaventoso.
26
Havelock

Era difficile dire cosa esattamente fosse cambiato sulla Edward Israel dopo
che avevano catturato la sabotatrice, ma Havelock poteva avvertirlo nello
spaccio e nella palestra, alla sua scrivania mentre lavorava e nei corridoi
quando incrociava membri dell’equipaggio e personale della RCE. In parte si
trattava del timore dovuto al fatto che qualcuno avesse intrapreso un’azione
diretta contro la nave, e in parte era eccitazione per il fatto che, dopo mesi di
frustrazione in assenza di gravità fosse finalmente successo qualcosa –
qualsiasi cosa – che non era avvenuto sul pianeta. Soprattutto, però, aveva la
sensazione che lo stato d’animo generale, a bordo, fosse ora più chiaro: erano
la Edward Israel, i legittimi esploratori di Nuova Terra, e tutti erano contro di
loro. Non ci si poteva fidare neppure dei mediatori delle Nazioni Unite. E
quindi, stranamente, erano liberi.
Il resto dell’equipaggio della Rocinante non stava facendo nulla per
cambiare la loro opinione.
«Se cercate di lasciare l’orbita,» dichiarò l’uomo sullo schermo
«disabiliteremo la vostra nave.»
L’uomo si chiamava Alex Kamal, ed era il facente funzioni di capitano
della Rocinante. Se le informazioni della RCE erano esatte, era anche il solo
membro dell’equipaggio ancora a bordo della corvetta, e aveva in custodia il
solo terrorista ancora vivo, là sulla nave con lui in attesa di tornare sulla Terra
per essere processato. Havelock incrociò le braccia e scosse il capo mentre la
lista delle minacce si allungava.
«Se scopriremo che è stato fatto del male a Naomi Nagata, disabiliteremo la
vostra nave. Se sarà sottoposta a tortura, la nave sarà disabilitata. Se sarà
uccisa, distruggeremo la vostra nave.»
«Bene, questo è davvero splendido» commentò il capitano Marwick.
«Ricorda che abbiamo parlato di non indurre la gente a voler distruggere la
mia nave?»
«Sono solo parole» ribatté Havelock, mentre Kamal continuava a parlare.
«Abbiamo già inviato la nostra petizione alle Nazioni Unite e alla Royal
Charter Energy, esigendo l’immediata e incondizionata liberazione di Naomi
Nagata. Finché non ci sarà risposta a quella petizione e lei non sarà tornata
sulla Rocinante, consigliamo al personale e ai dipendenti della Edward Israel
e della RCE di fare tutto quello che è in loro potere per evitare un’ulteriore
escalation di questa situazione. Questo messaggio è l’ultima notificazione
verbale prima di intraprendere le azioni sopra elencate. Una copia del
messaggio è stata inclusa nel pacchetto inviato alle Nazioni Unite e al
quartier generale della RCE. Grazie.»
L’uomo stempiato dal volto rotondo guardò per un momento verso la
videocamera, distolse lo sguardo, poi tornò a fissarla prima della fine della
registrazione. Marwick sospirò.
«Non è la più professionale delle produzioni, ma direi che ha chiarito con
efficacia le sue posizioni» osservò.
«Noi sternutiamo e lui spara» commentò Havelock. «Se sembra che stiamo
per sternutire, lui spara. Accertiamoci che l’ingegnere capo non prenda un
raffreddore, altrimenti lui spara. Diamole una coperta e una tazza di latte
caldo, la notte, altrimenti lui spara.»
«Il suo modo di pensare aveva una certa ripetitività, vero?» replicò
Marwick.
Havelock si guardò intorno nella cabina. L’alloggio del capitano era più
piccolo della postazione di sicurezza, ma lui aveva piazzato specchi d’acciaio
lungo le pareti e sul soffitto per farlo apparire grande. Era un’illusione,
naturalmente, ma era quel genere di illusione che poteva fare la differenza fra
la sanità mentale e la follia nell’arco di alcuni anni vissuti in spazi ristretti. Lo
schermo inserito nella parete ebbe un sussulto e passò a un’immagine delle
stelle. Non quella effettiva che c’era all’esterno, ma una del sistema del Sole.
Vedere le vecchie costellazioni era sconcertante.
«Chi ha visto questo?» chiese.
«Lo ha mandato a me e a Murtry» rispose Marwick. «Non so a chi Murtry
lo abbia mostrato, ma io l’ho fatto vedere a lei.»
«D’accordo. Cosa vuole che faccia?»
«Volere? Voglio che rilasci quella signora e la rispedisca a casa dopo una
severa paternale» rispose Marwick. «E dopo voglio riattivare i propulsori
della mia nave, e tornare a casa come prevede il mio contratto. Quello che mi
aspetto, però, è che lei scopra se queste sono soltanto chiacchiere o se la mia
nave si verrà a trovare esposta al fuoco della Rocinante.»
«Hanno la potenza di fuoco necessaria.»
«Ne sono quanto mai consapevole. Ma hanno anche la volontà e
l’esperienza per usarla? Lo chiedo solo perché qui è minacciata la vita del
mio equipaggio, e la cosa mi rende nervoso.»
«Lo capisco» rispose Havelock.
«Ma davvero?»
«Sì. E scoprirò quello che posso. Nel frattempo, però, partiamo dal
presupposto che lui faccia sul serio.»
«Già» annuì Marwick, passandosi una mano fra i capelli, poi sospirò.
«Quando ho firmato per questa missione pensavo che sarebbe stata una
grande avventura. Il primo mondo alieno. Nessuna stazione o navi di
soccorso se le cose fossero andate storte. Un intero sistema pieno zeppo di
cristo solo sa cosa. Invece ho trovato questa merda.»
«Lo stesso vale per me, signore» replicò Havelock.
Imbaldanziti dalla cattura, i suoi miliziani all’acqua di rose avevano
insistito per intraprendere un’azione immediata. Avevano il portello di
emergenza, e la meccanica dell’orbita della Rocinante l’aveva chiaramente
portata abbastanza vicina da poterla raggiungere. ‘Andiamo adesso,’ avevano
suggerito ‘prendiamo la Rocinante quando non se lo aspettano, e questo
metterà fine all’intera commedia’. Havelock si era sentito tentato di farlo, e se
non avesse avuto modo di vedere cosa i cannoni da difesa potevano fare a un
corpo umano, forse avrebbe dato l’autorizzazione a procedere.
Invece avevano tolto l’energia alla tuta della prigioniera e l’avevano
trascinata fino alla Israel prima che soffocasse. Da allora era rimasta nella
cella riservata agli ubriachi, nell’ufficio di Havelock. Con l’equipaggio di
sicurezza ridotto al minimo, aveva dato alla prigioniera l’accesso ai controlli
della privacy, perché non gli restavano in squadra abbastanza donne da
mantenere là una guardia a tempo pieno.
In effetti, quando tornò in ufficio lo trovò vuoto, tranne che per Nagata
nella sua cella. Lei si guardò intorno e lo salutò sollevando appena il mento.
Indossava una tuta rossa usa e getta e i capelli le fluttuavano intorno alla testa
in una nuvola scura. Il protocollo in caso di cattura di un nemico non le
permetteva di avere una fascia per i capelli, un terminale palmare o i suoi
vestiti. Adesso si trovava in quella cella da quasi due giorni. In virtù degli
esercizi di addestramento, Havelock sapeva che a quel punto lui sarebbe
quasi impazzito per la claustrofobia. Lei era passata dall’apparire imbarazzata
al chiudersi in sé stessa. Havelock supponeva che fosse un atteggiamento
tipico dei cinturiani. Dopo aver vissuto ed essere morti senza un cielo per
qualche generazione, gli spazi ristretti non generavano più il terrore atavico di
una sepoltura prematura.
Si spostò verso di lei attraverso la stanza.
«Nagata, ho alcune domande da farle» disse.
«Non ho diritto a un avvocato o a un rappresentante dei sindacati?» ribatté
lei, in un tono da cui era chiaro che quella era almeno in parte una battuta.
«Sì,» annuì Havelock «ma speravo che mi avrebbe aiutato in virtù del suo
spirito gentile e generoso.»
La risata di lei fu breve, tagliente e insincera. Havelock richiamò il file del
video sul suo terminale palmare e lo posizionò appena fuori della maglia
metallica della porta della cella.
«Mi chiamo Alex Kamal e sono il facente funzioni di capitano della
Rocinante. Alla luce dei recenti avvenimenti...»
Havelock lasciò fluttuare il palmare e tornò alla scrivania, assicurandosi al
sedile più per forza d’abitudine che per altro, osservando il volto di Naomi
senza fissarla apertamente. Quella donna era una grande giocatrice di poker,
ed era difficile dire se stesse provando qualcosa nel guardare il suo collega
minacciarli tutti per il suo bene. Quando la registrazione si sbloccò, Havelock
allungò la mano e recuperò il terminale palmare.
«Non vedo perché abbia bisogno di me» dichiarò Naomi. «Ha usato parole
semplici.»
«Lei è davvero divertente. La mia domanda è questa: ha davvero intenzione
di permettere che i suoi compagni si trasformino in criminali e assassini, in
modo da poter rimandare il momento in cui dovrà rispondere dei suoi
crimini?»
Il sorriso di lei avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, ma Havelock ebbe
la sensazione di aver toccato un tasto sensibile. O di esserci andato vicino.
«Ho l’impressione che mi stia chiedendo qualcosa, amico, ma non so
esattamente cosa.»
«Dirà alla Rocinante di desistere?» rispose Havelock. «Non le recherà alcun
danno, perché tanto non la lasceremmo andare comunque. E se collaborerà
questo tornerà a suo favore, una volta sulla Terra.»
«Posso farlo, ma non servirà. Lei non ha viaggiato con quegli uomini.
Quando ascolta quel messaggio, lei sente una lista di minacce, giusto?»
«Lei cosa sente?»
«Alex che espone le cose come stanno» spiegò Naomi. «Tutte le cose che le
ha detto? Quelle sono soltanto assiomi, attualmente.»
«Mi dispiace di sentirglielo dire» replicò Havelock. «Comunque, se
registrasse un messaggio per lui, assicurandogli di stare bene e di non essere
stata maltrattata, potrebbe essere d’aiuto.»
Lei cambiò posizione, e le microcorrenti d’aria, unite al costante fluttuare
della microgravità la portarono a ridosso della parete opposta della cella, che
toccò appena per stabilizzarsi.
«Il problema non è Alex» disse. «Mi permetta di parlarle un poco di Jim
Holden.»
«D’accordo» assentì Havelock.
«È un brav’uomo, ma non è frettoloso nell’agire. Al momento, c’è un
dibattito in corso nella sua testa. Da un lato, è stato mandato qui per portare la
pace e vuole farlo. Dall’altro, protegge la sua gente.»
«La sua donna?»
«Il suo equipaggio» precisò Naomi, con una sfumatura tagliente nella voce.
«Ci metterà un poco a decidere di smettere con quello che ha accettato di fare
ed entrare in azione.»
Il terminale palmare di Havelock trillò per ricordargli di riesaminare gli
impegni programmati per la settimana successiva. Anche nel bel mezzo di
una crisi, i compiti secondari connessi al suo incarico richiedevano il loro
tributo. Richiamò a schermo la griglia del calendario.
«Ma lei crede che lo farà» osservò.
«È con Amos» ribatté Naomi, come se quello spiegasse tutto.
«Attaccheranno la nave e mi tireranno fuori.»
Havelock scoppiò a ridere. «Il nostro organico è un po’ ridotto, ma non
vedo come possano aspettarsi di arrivare fino a lei.»
«Parla di un uomo che ha portato via da Ganimede un sacco di gente
quando quella era ancora zona di guerra» ribatté Naomi. «E poi è andato sulla
stazione aliena, a Medina, da solo. E ha distrutto la Agatha King sempre da
solo, quando a bordo c’erano duemila zombie creati dalla protomolecola.
Durante la prima insurrezione su Eros è riuscito ad andarsene combattendo.»
«Precipitandosi là dove gli angeli non osano andare» commentò Havelock.
«E riuscendo a cavarsela. Non so dirle quante volte lui e io ci siamo
scambiati l’ultimo addio, ma torna sempre indietro.»
«Sembra un tipo difficile come compagno» osservò Havelock.
«In effetti lo è» rise Naomi. «Ma ne vale la pena.»
«Perché?»
«Perché fa sempre quello che dice. E se dice che mi tirerà fuori da questa
cella, allora succederà, o lui morirà nel tentativo.»
La sua espressione era calma, il tono pragmatico. Non era vanteria.
Semmai, parve a Havelock che nella sua voce ci fosse una sfumatura di
apprensione, cosa che lo turbò più dell’elenco di minacce del facente funzioni
di capitano.
Chiuse la griglia della pianificazione e fissò il terminale palmare per
qualche secondo. Sulla superficie doveva essere pomeriggio, appena oltre la
metà di una di quelle lunghe giornate di quindici ore.
«Mi scusi» disse alla prigioniera. «Devo fare una chiamata.»
Attivò i controlli per la privacy, e la rete d’acciaio della gabbia si trasformò
in un’opacità perlacea, poi chiese di aprire una connessione con Murtry e
pochi secondi più tardi il suo capo apparve sullo schermo. Il sole gli aveva
scurito la pelle, e una piccola crosta sulla fronte sembrava quasi un simbolo
di casta. Salutò Havelock con un cenno.
«Cosa posso fare per te?» gli chiese.
«Volevo fare il punto con lei riguardo alla prigioniera» rispose Havelock.
«Coordinare la nostra strategia.»
«Ha visto il piccolo sfogo isterico del pilota, vero?»
«Sa, capo, ricorda tutto quello che ha detto in precedenza, sul fatto che loro
hanno i cannoni più grandi e che se decidono di abbatterci possono farlo?
Tutto questo continua a essere vero.»
In sottofondo si sentì una porta che sbatteva, e Murtry sollevò lo sguardo,
annuì, poi tornò a concentrarsi su Havelock. «Adesso meno che mai questo
costituisce un problema. Con una dei loro a bordo, non spareranno.»
«Non lo faranno?»
«È meno probabile che lo facciano» si corresse Murtry.
«E qual è il piano, quando la RCE ci ordinerà di lasciarla andare?» domandò
Havelock. «Potrebbe valere la pena di lasciarla andare prima che succeda. Ci
permetterà di anticipare la cosa, di riguadagnare un po’ di benevolenza.»
«Siamo da tempo al di là della benevolenza.»
«Non sono certo che abbiamo l’autorità di trattenerla, e se...»
«Sei nella sua cella?»
Havelock rimase interdetto. «Prego?»
«Ti trovi tu nella sua cella?»
«No, signore.»
«Giusto. Quella donna è nella tua cella. Hai tu la cella e la pistola, questo fa
di te lo sceriffo» disse Murtry. «Se all’ufficio centrale non piacerà quello che
stiamo facendo, ci appelleremo contro la sua decisione. Se perderemo
l’appello, manderanno qui qualcuno per un incontro faccia a faccia, ma nel
tempo che impiegherà ad arrivare tutto questo apparirà talmente diverso che
non vale la pena che ci provino. L’ufficio centrale lo sa, Havelock. Quello
che abbiamo qui è una mano molto libera.»
«Sì. D’accordo. Volevo solo verificare con lei.»
«La mia porta è sempre aperta» replicò Murtry, anche se il suo tono
significava forse che Havelock non avrebbe dovuto disturbarlo con altre
stupide idee. La connessione fu chiusa e Havelock fissò la schermata di
default per alcuni secondi prima di richiamare a schermo la griglia. Qualche
istante più tardi disattivò lo schermo di privacy. Naomi fluttuava nella
gabbia, spingendosi da una parete all’altra come una bambina annoiata.
«Il vostro equipaggiamento per la privacy fa schifo» dichiarò.
«Davvero?»
«Davvero.»
«Allora ha sentito tutto?»
«‘Una mano molto libera’» ripeté lei.
«Mi dispiace. Quella conversazione sarebbe dovuta essere fra lui e me.»
«Lo so, ma è filtrata comunque. Sia sincero, potete sentirmi quando urino
qui dentro?»
«Si sente solo che il risucchio a vuoto si attiva» replicò Havelock, sentendo
un vago rossore che gli saliva lungo il collo e un acuto imbarazzo per il fatto
di sentirsi imbarazzato. «È piuttosto rumoroso.»
«Vecchie navi» commentò lei.
Havelock tornò a concentrarsi sulla gestione del suo personale. Arrivò un
rapporto che lamentava un furto dall’armadietto personale di uno dei tecnici
di bordo, e lo reindirizzò alla donna in servizio. Finché le cose rimanevano
calme e l’equipaggio era tutto focalizzato sui pericoli esterni, poteva tenere
insieme tutti i pezzi. In realtà, avere un nemico comune – un sacco di nemici
comuni – era d’aiuto. Naomi cominciò a canticchiare una sommessa melodia
che era quasi riconoscibile. Havelock si concesse di trovarla un po’ di suo
gradimento. Si trattava di quello o di esserne irritati.
«Lui non è stato il solo» disse.
«Prego?» chiese Naomi.
«Lui non è stato il solo a riuscire a lasciare Eros durante il disastro. Il mio
vecchio partner era là e anche lui è riuscito ad andarsene. È poi tornato in
seguito, quando la cosa ha colpito Venere.»
«Un momento. Lei conosceva Miller?»
«Sì» confermò Havelock.
«L’universo è proprio piccolo.»
«Era una delle persone decenti, sei al massimo, che lavoravano sulla
Stazione di Ceres quando era la Star Helix ad avere il contratto. Mi ha
avvertito di lasciare la Protogen prima che implodesse. Mi è dispiaciuto
quando è morto.»
«Sarà lusingato di saperlo.»
«Noi non siamo i cattivi, qui. Non è stata la RCE a cominciare tutto questo.
Ha detto che Holden le piace perché fa sempre quello che dice di avere
intenzione di fare? Noi siamo così. La RCE è quella che ha chiesto il
permesso, approntato un piano ed è venuta qui per fare quello che tutti hanno
convenuto che dovessimo fare.»
«Non la gente di First Landing. Loro non erano d’accordo.»
«No, perché stavano infrangendo le regole che noi invece stavamo
seguendo. Io sto solo... ecco, so quanto tutto questo sia strano e pericoloso,
ma prima che i suoi amici comincino a prendere a cannonate il nostro
reattore, voglio che capisca che non siamo noi i cattivi, qui.»
Mentre parlava la sua voce si era fatta più acuta ed era salita di tono, tanto
che alla fine stava quasi gridando. Premette le mani una contro l’altra e si
morse le labbra.
«È un po’ sotto pressione» osservò lei.
«Alquanto» convenne Havelock.
«Mi lasci uscire, e metterò una buona parola per lei» disse Naomi. «E
impedirò a Holden di fare qualcosa di stupido.»
«Davvero?»
«Gli impedirò di fare un paio di cose particolarmente stupide. E potrebbe
anche escogitare qualcos’altro. È molto astuto da quel punto di vista.»
«Non posso» disse Havelock.
«Lo so.»
La nave passò nell’ombra del pianeta, con i ponti che scricchiolavano e
gemevano per l’adeguarsi delle piastre di espansione al cambiamento di
calore radiante. Havelock avvertì una leggera ondata di vergogna. Lei era la
sua prigioniera e lui era il carceriere. Non avrebbe dovuto aver bisogno della
sua approvazione. Se pensava che lui e la sua gente fossero fascisti uccisori
di bambini e maniaci del potere, la cosa non cambiava in nessun modo ciò
che lui doveva fare. Naomi riprese a canticchiare. Era una canzone diversa,
qualcosa in una chiave minore più lenta. Dopo un po’, lasciò che la sua voce
cedesse il posto al silenzio.
«Loro non sono stati i soli» disse, mentre lui finiva di organizzare i turni di
servizio della settimana. «Sono stati i soli a essere intrappolati dal disastro,
ma il posto era già stato blindato prima di allora. Un gruppo di furfanti che
indossavano armature antisommossa rubate si sono accertati che tutti
facessero quello che veniva loro detto, sparando a quelli che non obbedivano,
mentre si preparavano a quello che stava per succedere. Alcune persone sono
riuscite a sfuggire.»
«Davvero? Chi?»
Naomi scrollò le spalle.
«Io» rispose.
27
Elvi

Elvi sedeva sulla cresta della collina, guardando verso ovest. Alle sue
spalle, la luce del mattino illuminava le ali di migliaia di animali simili a
farfalle. Non li aveva mai visti prima, ma quel giorno riempivano l’aria dal
terreno a venti metri di altezza. Era un vasto stormo di minuscoli animali. O
insetti. O qualsiasi altro nome l’umanità avrebbe finito per assegnare a quel
regno naturale sconosciuto. Al momento, per lei erano farfalle.
Si muovevano insieme come un branco di pesci, indipendenti ma
coordinate. Chiazze di colore – azzurro e argento e carminio e verde –
affioravano su di esse e per un momento parevano formare un disegno prima
di dissolversi nel caos. La colonna che formavano si levava verso l’alto,
assottigliandosi, per poi allargarsi e abbassarsi. La oltrepassarono
rapidamente, e per alcuni secondi lei si venne a trovare all’interno di quel
nugolo, con ali grandi un palmo che la sfioravano delicate con un suono
come di fogli di carta che cadessero e un odore aspro e pulito come quello di
menta che non fosse menta. Sorrise e sollevò le braccia in quella nuvola,
gioendo della bellezza di quel momento. Poi la oltrepassarono e lei li guardò
fluire attraverso l’aria, spostandosi verso sud come se fossero diretti in un
posto specifico.
Si alzò e si stiracchiò, assestando contro il fianco la sacca per la racconta di
campioni. La luce del sole la colpì sulle spalle e sulla base del collo mentre si
avviava attraverso il campo polveroso e lastricato di pietre. Le rovine si
levavano verso nord, con First Landing che non era neppure visibile accanto
a esse, in quanto tutti i manufatti umani erano nascosti dalla curva del pianeta
e dalla forma delle colline. Tutto e tutti, tranne lei.
Qua e là c’erano ancora alcune farfalle, forse morte. O forse a riposo. Si
accoccolò vicino a una di esse. Osservando l’azzurro intenso delle ali, il
colore ramato della carne dove il suo corpo, o quello che pensava essere il
corpo, si ripiegava, articolato come un cardine. Si mise i guanti e sollevò il
minuscolo corpo che non ebbe neppure un fremito. Anche se significava
ottenere meno dati fisiologici, si augurò che la farfalla fosse già morta.
«Mi dispiace, piccola» disse comunque. «È nel nome della scienza.»
La infilò nel reticolo nero, lo sigillò e attivò la sequenza di raccolta. La
serie di aghi per la raccolta di campioni prese a ticchettare e ronzare. Elvi
socchiuse gli occhi nel guardare l’arco biancoazzurro del cielo. Il punto rosso
fluttuava circa quindici gradi al di sopra dell’orizzonte, abbastanza luminoso
da essere visibile attraverso le sottili nuvole verdastre.
Il sacchetto gracchiò, producendo un codice di errore che lei non aveva mai
visto prima. Tirò fuori il terminale palmare e lo collegò al canale di emissione
dati del sacchetto. Il set di dati preliminari era un pasticcio. Elvi avvertì una
profonda fitta gelida di paura. Se il sacchetto si era rotto, ci sarebbero potuti
volere giorni prima che l’unica navetta funzionante potesse portargliene uno
di riserva dalla Israel, e non era neppure sicura di averne uno di riserva nel
suo kit di apparecchiature, o se tutto fosse andato perduto nel disastro della
navetta pesante. La prospettiva di passare anni a raccogliere dati
manualmente e le notti a dissezionare creature come se fosse tornata
all’università inferiore le si parò davanti come uno spettro. Tirò fuori la
farfalla. La sua carcassa appariva quasi com’era stata quando l’aveva messa
dentro. Si sedette a gambe incrociate accanto a essa ed eseguì il sistema
diagnostico del sacchetto, mordendosi un labbro mentre aspettava la
comparsa di qualche altro codice di errore.
La diagnostica non rilevò problemi di sorta. Elvi spostò lo sguardo dal
sacchetto alla farfalla, riportandolo poi sul sacchetto mentre una seconda
ipotesi prendeva forma nella sua mente, raggelante quanto la prima, o forse
anche peggiore. Raccolse la farfalla morta e marciò verso le capanne. Quella
di Fayez era una piccola struttura geodetica verde che lui aveva costruito a
metà del crinale di una collinetta, abbastanza in alto per non essere investita
dallo scorrere dell’acqua nel caso di una tempesta ma al di sotto della cresta
dove sarebbe stata esposta al vento. Lui era seduto su uno sgabello,
appoggiato alla parete della capanna. Indossava un paio di pantaloni da
lavoro in polyfiber, una t-shirt e una vestaglia aperta. Non si radeva da giorni
e il velo di barba lunga sulle guance lo faceva apparire più vecchio.
«Questo non è un animale» gli disse, protendendo la farfalla.
Lui lasciò ricadere lo sgabello su tutte e quattro le gambe. «Anche a me fa
piacere vederti» ribatté.
«Questa non è l’unione di due biomi. Sono tre. Questa cosa – qualsiasi cosa
sia – non ha nessuna delle caratteristiche comuni chimiche o strutturali che ti
aspetteresti di vedere.»
«Lucia Merton ti stava cercando. L’hai vista?»
«Cosa? No. Senti, questa è un’altra macchina. È un’altra cosa come... come
quella» insistette Elvi, indicando la bassa luna rossa.
«D’accordo.»
«E se non si stessero svegliando soltanto perché noi siamo qui? E se fossero
collegati fra loro? Questo complica tutto.»
Fayez si grattò la testa appena sopra l’orecchio sinistro. «Sembri volere
qualcosa, Elvi, ma non so cosa.»
«Come posso dare un qualsiasi senso a questo posto quando esso continua a
cambiare tutte le regole?» protestò lei, con voce che suonò acuta perfino ai
suoi stessi orecchi. Gettò rabbiosamente a terra la farfalla, e immediatamente
desiderò di non averlo fatto. Non che a essa importasse, ma le parve un gesto
crudele. Fayez fece quel suo sorrisetto tagliente.
«Sfondi una porta aperta. Sai cosa ho fatto per tutta la mattina?»
«Hai bevuto?»
«Vorrei che fosse così. Ho esaminato i dati sulla superficie provenienti
dalla Israel. Sul lato opposto del pianeta c’è una catena di isole con quella
che sembra essere una quantità spropositata di attività vulcanica. Però, per
quanto sono in grado di determinare, questo pianeta non ha placche
tettoniche, quindi cosa diavolo sta imitando l’attività vulcanica? Sai a cosa sta
lavorando Michela?»
«No.»
«Nella luce ultravioletta che raggiunge il terreno c’è uno schema che
sembra una sorta di onda portante. Non esiste prima che la luce del sole
colpisca l’esosfera, e nel tempo che impiega ad arrivare qui ha uno schema
complesso e coerente. Michela non ha idea da dove arrivi. Il gruppo di lavoro
di Sudyam ha quelle che pensano possano essere molecole complesse che
incorporano elementi transuranici stabili.»
«Come funziona?»
«Perché pensi che io lo sappia?» ribatté Fayez.
Elvi si posò la mano sulla spalla, lasciando pendere il gomito in posizione
rilassata. Il sudore le colava lungo la schiena.
«Devo...»
«Dirlo a Holden» concluse per lei Fayez. «Lo so.»
«Stavo per dire che devo rivedere i miei dati. Verificare se magari esiste
una struttura comune fra quella...» accennò alla farfalla «e la cosa morta nel
deserto. Forse posso dare un senso alla cosa.»
«Se non ci riesci tu, non può farlo nessuno» affermò Fayez.
Qualcosa nella sua voce catturò l’attenzione di Elvi, che lo studiò con
maggiore attenzione. Il suo volto affilato come quello di una volpe appariva
più morbido intorno agli occhi e alla mascella. La carne intorno agli occhi era
più gonfia del solito. «Ti senti bene?»
Lui scoppiò a ridere e allargò le braccia verso l’orizzonte, indicando l’intero
pianeta, l’intero universo. «Sto benone. Proprio alla grande. Grazie per averlo
chiesto.»
«Mi dispiace. È solo che...»
«Non farlo, Elvi. Non ti dispiacere. Continua soltanto a occuparti di tutto
come sai fare tu. Accumula un altro strato di non-pensiero a tutto il resto e
tira dritto, mia cara, tira dritto. Sono pronto a sostenere qualsiasi cosa che ci
possa mantenere funzionali e sani di mente in un posto come questo. Vado
perfino a pregare con Simon la domenica mattina. È così che mi sono ridotto.
Qualsiasi cosa funzioni per te ha la mia benedizione.»
«Grazie...»
«Afwan» rispose lui, agitando una mano. «Soltanto, prima di seppellirti di
nuovo in mezzo ai tuoi set di dati, vai dalla dottoressa Merton. Sembrava
preoccupata.»
Il bambino seduto sul lettino aveva sei anni. La sua pelle aveva lo stesso
colore marrone scuro di quella di Elvi, ma con una sfumatura cinerea. Non si
trattava di aridità della pelle, ma di qualcosa di più profondo. I suoi occhi
erano iniettati di sangue, come se avesse pianto, e forse lo aveva fatto. Sua
madre era in piedi in un angolo, con le braccia conserte e un’espressione
estremamente arcigna. La voce di Lucia era fredda e calma, ma le spalle
erano contratte dalla tensione.
«Ho notato questa cosa, qui» disse, tirando leggermente in giù con il
polpastrello la pelle del bambino in modo da abbassare la palpebra inferiore e
di esporre la superficie irritata dell’occhio. La chiazza era quasi invisibile a
causa dell’arrossamento, ma era là. Un accenno di verde, molto tenue.
«Ho visto» replicò Elvi, poi sorrise al bambino, che non ricambiò il suo
sorriso. «Allora, Jacob...»
«Jason.»
«Scusami. Jason. Da quanto tempo hai difficoltà a vedere?»
Il bambino scrollò le spalle. «Da subito dopo che gli occhi hanno
ricominciato a farmi male.»
«E vedi tutto... verde?»
Lui annuì. Lucia toccò il braccio di Elvi. Senza parlare, diresse una luce
sull’occhio del bambino. L’iride non ebbe quasi reazioni, ed Elvi intravide
qualcosa nel fluido dietro la cornea, come in un acquario in cattivo stato di
manutenzione. Annuì.
Lucia si raddrizzò e sorrise alla donna. «Aspetta qui con lui, Amanda. Io
torno subito.»
Amanda annuì con un gesto secco. Elvi lasciò che Lucia la accompagnasse
fuori della porta della stanza e lungo un breve corridoio. Fuori si era levato
un vento teso che scuoteva le porte e le finestre della clinica.
«Lui è il solo che abbia visto in questo stato» disse Lucia. «Non c’è niente
di simile nella letteratura medica.»
«Non sembro piacere molto a sua madre» osservò Elvi, cercando di far
suonare la cosa come una battuta.
«Sua moglie è stata uccisa dalla sicurezza della RCE» rispose Lucia.
«Oh. Mi dispiace.»
L’apparecchiatura per i test era in buono stato ma era vecchia, aveva dieci
anni almeno, forse anche quindici. Una lunga cicatrice correva lungo il fondo
dello schermo, dove qualcosa aveva sfregato contro di esso. Elvi non stentava
a credere che avesse fatto il lungo viaggio da Ganimede, devastato dalla
guerra, fino a lì. Quello che la sorprendeva era che funzionasse ancora, ma
quando Lucia inserì il suo codice di accesso lo schermo si illuminò. A modo
suo, il campione era splendido, si ramificava in un elegante colore verde fino
a somigliare a un pittogramma che significasse ‘albero’.
«È cominciato nella matrice extracellulare» spiegò Lucia.
«Un’infiammazione di basso livello, ma niente di più. Speravo che se ne
andasse da sola.»
«Solo che adesso è nell’umor vitreo» osservò Elvi.
«Mi chiedevo...» cominciò Lucia, ma Elvi aveva già preso il terminale
palmare e lo stava sincronizzando con l’apparecchiatura di analisi. Ci vollero
solo pochi secondi per trovare una corrispondenza, ed Elvi esaminò i dati.
«Ci siamo» disse. «La corrispondenza più vicina è data da alcuni
microrganismi acquatici.» Quando Lucia scosse il capo, aggiunse: «Ha notato
che le nuvole sono verdastre? C’è un intero bioma di organismi lassù che
hanno trovato il modo di sfruttare l’umidità e l’esposizione ai raggi
ultravioletti.»
«Come piante? Funghi?»
«Come loro» rispose Elvi. «Non è una cosa a cui abbiamo dedicato la
maggior parte del nostro tempo, ma sembra una nicchia particolarmente
affollata. Ci sono un sacco di specie che si contendono le risorse. La mia
supposizione è che questo piccoletto fosse in una goccia di pioggia che è
caduta nell’occhio di Jason e ha trovato il modo di sopravvivere lì.»
«Ha avuto parecchie infezioni oculari, ma provenivano tutte da organismi
familiari. Crede che questa cosa sia contagiosa?»
«Non credo» rispose Elvi. «Siamo nuovi per lei quanto lei lo è per noi. Si è
evoluta per diffondersi all’aria aperta attraverso il ciclo dell’acqua. Se può
vivere dentro di noi può tollerare il sale. Se gli occhi del bambino erano già
compromessi è probabile che lui fosse vulnerabile, ma a meno che lui non
cominci a lanciare le sue lacrime contro la gente non credo che possa
diffondersi.»
«E che ne sarà della sua vista?»
Elvi si raddrizzò. Lucia la stava guardando con espressione seria, quasi con
rabbia. Elvi sapeva che quella rabbia non era diretta contro di lei, ma contro
la terribile ignoranza contro cui stavano lottando entrambe. «Non lo so.
Sapevamo che qualcosa del genere sarebbe successo presto o tardi, ma non so
cosa possiamo fare al riguardo, tranne dire alla gente di non uscire quando
piove.»
«Questo non lo aiuterà» replicò Lucia. «Può chiedere aiuto ai laboratori
della Terra?»
Cento obiezioni riempirono la mente di Elvi. ‘Non controllo le squadre di
ricerca della RCE’ e ‘Tutte le analisi dei dati vengono pianificate ed eseguite
in anticipo di mesi rispetto a dove siamo ora e Appena questa mattina ho
trovato un altro campione di un terzo bioma’. Invece toccò il terminale
palmare, salvando una copia dei dati dell’apparecchiatura, convertendola nei
formati preferiti dalla RCE e inviandola alla Israel, e da lì all’Anello e poi
sulla Terra.
«Ci proverò» rispose. «Nel frattempo, però, dobbiamo informare la gente di
questo problema. Carol Chiwewe ne è al corrente?»
«Sa che ho dei sospetti e che volevo consultarmi con lei» rispose Lucia.
Elvi annuì, mentre già cercava di pensare al modo migliore di portare il
problema all’attenzione di Murtry. «Bene, allora lei informi la sua gente e io
lo farò con la mia.»
«D’accordo» assentì Lucia, e un momento più tardi aggiunse: «Detesto che
ci debba essere questa divisione. La sua gente e la mia. A scuola, uno dei
miei insegnanti diceva sempre che il contagio è l’unica prova assoluta di
comunità. La gente poteva anche fingere quanto voleva che non ci fossero
drogati, prostitute e bambini non vaccinati, ma quando poi scoppiava
un’epidemia tutto quello che contava era chi stava respirando la tua stessa
aria.»
«Non so dire se lo trovo rassicurante oppure orribile.»
«C’è spazio per entrambe le cose» rispose Lucia. «Questo mi spaventa
quanto qualsiasi altra cosa accaduta finora. Questa piccola... cosa. E se non
riuscissimo a risolvere il problema?»
«Probabilmente possiamo» affermò Elvi. «E poi risolveremo quello
successivo. E quello ancora dopo. È una cosa dura e difficile, ma andrà tutto
bene.»
Lucia inarcò un sopracciglio. «Lo crede davvero?»
«Certo. Perché non dovrei?»
«Non ha proprio paura?»
Elvi si soffermò a riflettere sulla domanda. «Se ne ho, non la sento. Non è
una cosa a cui pensi.»
«Suppongo si debbano prendere tutte le benedizioni che arrivano. Cosa mi
dice della terza fazione?»
Elvi inizialmente non capì di cosa Lucia stesse parlando, poi risentì nella
mente la voce beffarda di Fayez e il cuore le diede un balzo. Detestò quella
sua reazione istintiva, ma questo non la fermò.
«Glielo dirò io» rispose. «Lo dirò a Holden.»
Nello spaccio, Holden sedeva incurvato sul terminale palmare. Si era
rasato, aveva i capelli pettinati, e la camicia era stirata. È bello quando si
ripulisce, commentò una voce in un angolo della mente di Elvi, ma lei la
soffocò.
Una voce di donna, brusca e alterata dalla statica, usciva dal terminale.
«...Strizzare tutte le palle su cui riuscirò a mettere le mani finché qualcuno
comincerà a piangere, ma ci vorrà del tempo. E so che sta pensando di fare
pubblicità alla cosa, perché è un fottuto stupido e pensa sempre a questo. Lei
e la pubblicità siete come un ragazzino di sedici anni e le tette. Non ha altro
per la testa. Quindi, prima che cominci anche solo...»
Amos venne avanti con passo pesante. Il suo sorriso era aperto e cordiale
come sempre, ma Elvi ebbe l’impressione che in esso ci fosse una sfumatura
di tensione. La sua grossa testa calva le faceva sempre venire in mente i
neonati, e dovette trattenersi dal battere un colpetto su di essa.
«Salve» disse Amos. «Mi dispiace, ma il capitano è un po’ occupato.»
«Con chi sta parlando?»
«Le Nazioni Unite» rispose Amos. «Sta cercando di costringere il vostro
capo a lasciar andare il nostro primo ufficiale.»
«Non è il mio capo» precisò Elvi. «Murtry è della sicurezza. Una struttura
organizzativa del tutto diversa.»
«Questa roba societaria non è il mio forte.»
«Ho solo bisogno di...» cominciò Elvi. In quel momento Holden si
raddrizzò e fissò la telecamera del terminale palmare con un sorriso duro
sulle labbra, e lei perse il filo del discorso.
«Mi permetta di essere chiaro» disse, con voce bassa e solida come la
pietra. «Questo è stato un mio ordine. Se la Royal Charter vuole processare
me, quando tornerò indietro, perché ho ordinato al mio equipaggio di mettere
fuori uso una navetta trasformata illegalmente in un’arma, sarò lieto di...»
«Dottoressa?» chiamò Amos.
«Cosa? Mi scusi. No, è solo che ci sono alcune cose di cui pensavo dovesse
essere informato.»
Amos scosse il capo in un gesto che era quasi di dolore. «No. Non
succederà niente finché il primo ufficiale non sarà libero.»
«Però qualcosa sta succedendo» ribatté Elvi. «E non una cosa soltanto.
Oggi ho trovato altri manufatti che si stanno svegliando. Credo che alcuni di
essi siano fatti per passare per animali locali. Se fossimo stati qui per un
tempo sufficiente a creare un catalogo, adesso potremmo dire cosa è cosa, ma
per come stanno le cose tutto sembra nuovo, quindi non lo sappiamo.»
«Quindi alcune lucertole sono sostanza della protomolecola?» chiese Amos.
«Sì. Forse. Non lo sappiamo ancora. E c’è di più, perché il bioma locale
comincia a trovare modi di invaderci, di sfruttare le nostre risorse. La cupola
perimetrale non è mai stata montata, quindi tutta la nostra microfauna si sta
spargendo in giro, e si mescola con l’ecosfera locale, e dato che recuperarla è
impossibile stiamo contaminando tutto, e tutto sta contaminando noi.»
Stava parlando troppo in fretta. Detestava quando si comportava così.
Quando – se – fosse mai tornata sulla Terra avrebbe seguito corsi di
comunicazione, qualcosa che le impedisse di parlare a mitraglia, come una
lattina che rotolasse da una scala.
«Tutto sta accelerando,» disse «e forse è una reazione a noi o a qualcosa
che stiamo facendo. O forse non lo è. So che abbiamo problemi a fare
chiarezza sulla situazione politica e ad andare d’accordo gli uni con gli altri, e
me ne dispiace davvero.» Adesso aveva le lacrime agli occhi. Gesù. Ma
quanti anni aveva? Dodici? «Però dobbiamo prestare attenzione a quello che
sta succedendo perché è davvero molto pericoloso e sta succedendo adesso. E
tutto questo finirà per raggiungere un punto di crisi, e allora accadrà qualcosa
di veramente molto brutto.»
Poi Holden fu lì, con lo sguardo su di lei e la sua voce confortante. Elvi si
asciugò le lacrime con il dorso della mano e nel farlo si chiese se qualche
particella del fungo che aveva invaso Jason si fosse trovato su di esso.
«Ehi, sta bene?» chiese Holden.
«Sì, sto bene. Mi dispiace.»
«Nessun problema» rispose Holden. «Ha detto qualcosa riguardo a una
crisi?»
Elvi annuì.
«D’accordo. Da cosa la possiamo riconoscere?»
«Non lo so» ammise Elvi. «Non lo saprò finché non sarà successo.»
28
Basia

Basia fluttuava sopra il mondo.


Settecento chilometri più in basso, Ilus ruotava con una velocità
vertiginosa. Alex gli aveva detto che la Rocinante aveva un periodo orbitale
appena inferiore alle due ore, ma Basia non riusciva ad avvertirlo. Fluttuando
fuori della nave nella microgravità, il suo orecchio interno gli diceva che era
immobile, per cui era invece l’universo che pareva ruotare troppo in fretta,
come un gigantesco giocattolo. Ogni ora passava dall’oscurità alla luce, e
un’ora più tardi scendeva di nuovo l’oscurità; il sole sorgeva dietro Ilus,
ruotava fino a portarsi alle sue spalle e tornava a tramontare per breve tempo.
Basia era fuori da abbastanza tempo da aver visto per tre volte quel
cambiamento, che era il centro del suo cosmo.
Il vasto, unico oceano del pianeta era immerso nel buio. La fila di isole che
lo attraversava era una serie di minuscoli punti neri in un’oscurità più vasta.
Una di quelle isole, la più grande, era delineata da una vaga luce verde.
Luminescenza nelle onde che si infrangevano contro le sue spiagge e alture.
Il lato diurno era dominato dal solo, enorme continente di Ilus. Il quarto
sudoccidentale era un vasto deserto, e First Landing doveva essere appena a
nord di esso. Alla luce del giorno l’insediamento era troppo piccolo per poter
essere visibile a occhio nudo. Perfino le enormi torri aliene dove si era
incontrato con Coop, Cate e tutti gli altri in una vita precedente erano troppo
piccole per essere individuabili.
«Tutto bene là fuori, socio?» chiese via radio la voce di Alex. «Adesso stai
fluttuando da un po’. Quel portello non si aggiusterà da solo.»
Mentre parlava, la Edward Israel passò nella fascia diurna del pianeta e
brillò come una minuscola scintilla bianca. Era quasi troppo distante per
essere vista, ma in termini orbitali era molto vicina. Alex manteneva la
Rocinante in un’orbita parallela, in modo da poter tenere il cannone puntato
sull’altra nave.
«È bellissimo» disse Basia, guardando il pianeta che ruotava sotto di lui.
«Quando siamo arrivati con la Barbapiccola non mi sono mai preso il tempo
di soffermarmi a guardarlo, ma Ilus è bellissimo.»
«Allora,» disse Alex, in tono tanto strascicato da aggiungere una sillaba in
più alla parola «ricordi quanto abbiamo parlato dell’euforia che si può
provare in una passeggiata nello spazio?»
«Non sono un novellino» replicò Basia. «So com’è l’euforia, e sto bene. Il
portello è quasi finito. Stavo solo facendo una pausa.»
Avevano mangiato sempre insieme, e Alex aveva condiviso con lui la sua
collezione di film del noir revival del XXII secolo. La notte precedente
avevano guardato La pistola arriva nuda. Basia però trovava il noir troppo
cupo, troppo privo di speranza per gradirlo. La cosa aveva portato a una
lunga conversazione, accompagnata da alcuni drink, nella quale Alex gli
aveva spiegato perché riteneva che sbagliasse a pensarla in quel modo.
Tenendo fede alla promessa di Naomi, inoltre, Alex aveva messo insieme
una lista di progetti di riparazioni all’aperto a cui Basia potesse lavorare. Uno
di questi era il braccio attuatore di uno dei due portelli di carico per siluri
della Rocinante, che si incastrava.
Il portello giaceva aperto accanto a lui, una porta larga un metro e lunga
otto sul fianco della nave. Un massiccio tubo bianco si trovava appena al di
sotto dell’apertura: uno dei siluri di bordo. Troppo grande per essere un
missile, era esso stesso quasi una piccola astronave, e non aveva un aspetto
pericoloso, solo ben fatto e funzionale. Basia sapeva che racchiudeva una
testata capace di ridurre un’altra nave a metallo fuso e plasma, ma trovava
difficile conciliare quella consapevolezza con le gentili curve bianche e il
senso di calma e di solidità.
L’attuatore difettoso era stato rimosso e fluttuava accanto alla nave
assicurato a una fune, in attesa di essere portato dentro. Con uno sforzo,
Basia volse le spalle all’incredibile panorama offerto da Ilus e rimosse il
nuovo attuatore dall’imbracatura che portava sulla schiena.
«Mi rimetto al lavoro» disse ad Alex.
«Ricevuto» rispose il pilota. «Sarà un piacere averlo di nuovo funzionante.»
«Hai intenzione di usarlo?» chiese Basia.
«No, ma se sarà necessario preferirei avere quell’alternativa a disposizione»
rise Alex. Anche se stava ridendo, però, diceva sul serio.
Basia procedette ad attaccare il nuovo braccio ai montanti dello scafo e al
portello del missile. Non sapeva quasi niente di elettronica, e aveva temuto
che i collegamenti del nuovo congegno potessero essere superiori alle sue
capacità, ma era risultato che c’era una sola spina che si inseriva in una presa
dentro l’alloggiamento del braccio. A pensarci, la cosa aveva senso. Le
astronavi venivano progettate partendo dall’idea che era inevitabile che
riportassero danni, e che a volte le riparazioni sarebbero avvenute in un
ambiente ostile. Rendere tutto modulare e il più facile possibile da sostituire
non era soltanto sensato, era una questione di sopravvivenza. Si chiese se i
marziani avessero avuto un cinturiano nella squadra di progettazione.
«La Barbapiccola è sul nostro lato di Ilus» disse Alex, sempre con la stessa
voce pigra e sonnolenta.
«Puoi mostrarmela?» Basia si guardò intorno, ma non riuscì a vedere niente
tranne il sottostante pianeta luminoso e la scintilla bianca della Edward
Israel.
«Aspetta.» Un momento più tardi un piccolo punto verde che fluttuava
lento apparve sul display di Basia.
«È quel punto?»
«È dove c’è quel punto» precisò Alex. «Al momento è troppo lontana per
poterla vedere. Un momento.»
Un quadrato verde apparve sul display di Basia, poi si allargò come in un
telescopio finché il lontano mercantile divenne visibile, grande quanto
l’unghia del suo pollice.
«Questo è un ingrandimento 50X» disse Alex.
«Lo spazio è troppo grande» replicò Basia.
«Così è stato detto. E questo è soltanto lo spazio in un’orbita bassa intorno
a un singolo pianeta. Pensarci è un po’ sconvolgente.»
«Cerco di non farlo.»
«Sei un uomo saggio.»
La Barbapiccola appariva come un grande container da spedizione in
metallo, con la tozza struttura a campana in cui era alloggiato il propulsore a
un’estremità e la massiccia sovrastruttura delle zone di comando e di
controllo alla sommità. Era brutta e assolutamente funzionale. Una cosa fatta
per il vuoto, che non avrebbe mai conosciuto il calore dell’attrito atmosferico.
Le vaste baie di carico che occupavano la maggior parte del suo interno
dovevano essere piene del minerale di litio grezzo che avevano già estratto da
Ilus, in attesa di essere portato alle raffinerie della Stazione di Pallas, e di
essere barattato con cibo, medicinali e sostante nutritive per il terreno. Tutte
le cose di cui una colonia appena nata aveva bisogno per sopravvivere.
Ed era anche in attesa di portare via sua figlia.
«Possiamo parlare con loro?» domandò.
«Eh? Con la Barb? Certo. Perché?»
«Mia figlia è là.»
«D’accordo» fu la risposta, seguita prima da una scarica di statica e poi,
qualche momento più tardi, da una voce con un marcato accento cinturiano.
«Que?»
«Sa bueno. Basia Merton, mé. Suche nach Felcia Merton. Donde?»
«Sa sa» replicò la voce, che suonava combattuta fra la curiosità e
l’irritazione. Il collegamento rimase aperto, ma silenzioso.
Mentre aspettava, Basia finì di montare il braccio attuatore e lo collegò. Sul
canale di comunicazione di bordo chiese ad Alex di provare a usarlo, ed esso
si aprì e si chiuse parecchie volte senza grippare o deformare il portello. Il
motore produceva una vibrazione uniforme nello scafo, sotto i suoi stivali
magnetici, generando un ronzio nel casco.
«Papà?» chiamò una voce esitante.
«Piccola, Felcia, sono io, tesoro» rispose, cercando di non farfugliare come
un’idiota e fallendo miseramente.
«Papà» ripeté lei, con la gioia nella voce. Adesso era più profonda, più
ricca, ma era pur sempre la voce della sua bambina che strillava ‘papà’
quando lui tornava a casa dal lavoro. E riusciva ancora a sciogliere tutti
quegli angoli duri, rabbiosi e adulti del suo cuore.
«Sono quassù con te, tesoro.»
«Sulla Barbapiccola?» domandò lei, confusa.
«No, intendevo dire in orbita. Sopra Ilus. Posso veder passare la tua nave,
tesoro.»
«Fammi trovare uno schermo! Dove sei? Posso cercarti.»
«No, non ti preoccupare. Sono piuttosto lontano, e ho dovuto ingrandire
parecchio l’immagine per vederti. Continua solo a parlarmi per un minuto,
prima di sparire di nuovo dietro il pianeta.»
«D’accordo. Sono gentili con te, là dove sei?»
Basia rise. «Tuo fratello voleva sapere la stessa cosa. Sono splendidi, i
migliori carcerieri mai esistiti. E tu come stai?»
«Tutti sono gentili, ma preoccupati. Forse la nave della RCE non ci
permetterà di partire.»
«Andrà tutto bene, tesoro» replicò Basia, agitando la mano nello spazio
come se lei avesse potuto vederlo e trarre conforto da quel gesto. «Holden sta
risolvendo la situazione.»
«Ti ha imprigionato, papà.»
«Mi ha fatto un favore, Felcia. Mi ha salvato» rispose Basia, e nel dirlo si
rese conto che era vero, che Murtry lo avrebbe ucciso. E sua moglie e suo
figlio erano ancora sul pianeta. «Volevo solo salutarti, non parlare di queste
cose.»
«Allora, ciao, papà» ribatté lei, con quella voce da bambina cresciuta.
«Ciao, patatina» rispose, chiamandola con un nomignolo che non usava più
da anni.
Lei emise un verso strano, e Basia impiegò un momento a rendersi conto
che stava piangendo. «Non ti rivedrò più, papà» disse, con voce inspessita
dalle lacrime.
Lui accennò a ribattere con obiezioni e rassicurazioni, ma poi gli tornò in
mente la sua conversazione con Alex, e invece disse: «Può darsi, patatina, ma
è soltanto colpa mia. Ricordalo, d’accordo? Ho cercato di fare quello che
pensavo fosse giusto, ma ho fatto un pasticcio ed è solo colpa mia se devo
pagare per questo.»
«Non mi piace.» Felcia stava ancora piangendo.
Non piace neanche a me, tesoro, pensò. «È quello che è, sa sa?» disse
invece. «Non cambia il fatto che voglio bene a te, alla mamma e a Jacek.» E
a Katoa, che ho lasciato morire.
«Mi dicono che devo andare» avvertì Felcia. Il piccolo punto verde che
nascondeva la nave su cui viveva sua figlia si stava allontanando verso
l’orizzonte e l’area di blackout radio. Poteva vederlo succedere, osservare la
distanza inimmaginabile fra di loro farsi più grande finché il pianeta si
interpose fra loro.
«D’accordo, tesoro» rispose. «Ciao. Ti voglio bene.»
La risposta di Felcia, quale che potesse essere, andò perduta perché la
Barbapiccola scivolò dietro Ilus e la comunicazione si trasformò in una
scarica di statica per poi disattivarsi. Non c’erano ancora satelliti che
facessero da ripetitori in orbita intorno al nuovo mondo. Erano tornati ai
limiti del campo visivo, come i primitivi del XIX secolo che facevano
rimbalzare i segnali radio all’interno della loro atmosfera. Basia pensò alla
sua casa, che in realtà era soltanto una baracca in un minuscolo villaggio con
due sole strade polverose. Forse era appropriato.
Il suo mondo ruotava settecento chilometri più in basso, e sotto i suoi piedi
un’astronave capace di volare attraverso il sistema solare vibrava di potere a
stento contenuto.
Forse non erano proprio come i primitivi del XIX secolo.
«Sei pronto a rientrare?» chiese Alex, interrompendo le sue riflessioni.
«Fra un minuto» replicò Basia. «Puoi trovare First Landing e indicarmelo?»
«Certo. Si sta allontanando, ma puoi ancora vederlo.»
Un altro minuscolo punto verde apparve sul display, in un punto appena a
nord del grande deserto meridionale di Ilus. Sapendo dove guardare, Basia
ebbe l’impressione di riuscire a scorgere la conca delle operazioni minerarie a
nord del villaggio, ma poteva anche essere una pia illusione da parte sua.
Lucia era laggiù, a visitare pazienti e prendersi cura di Jacek. Al villaggio
era giorno, quindi Lucia doveva di certo essere al lavoro. Cercò di
immaginare cosa stesse facendo in quel momento, e fu quasi sopraffatto dalla
tentazione di chiedere ad Alex di chiamare il villaggio per poter parlare con
lei. Però era già stato abbastanza egoista chiamando Felcia. In quel momento
lui era una fonte di dolore per la sua famiglia. Il solo conforto che poteva
trovare era a loro spese.
Quindi cominciò invece a riporre gli attrezzi e l’attuatore guasto.
Se lui non fosse mai tornato, Lucia avrebbe trovato qualcun altro? Cercò di
dirsi di essere il genere di uomo che avrebbe desiderato quello per lei, che la
sua felicità fosse più importante della paura di perderla. Valutò quell’idea
come se fosse stata un abito nuovo, per vedere se poteva trovare il modo di
farsela calzare addosso.
Non lo faceva. Lo vide con assoluta chiarezza, come se Alex avesse attivato
lo zoom del suo display sull’idea che lui non era quel genere di uomo. Era
difficile dire se fosse una lusinghiera dimostrazione del suo impegno nel loro
matrimonio o uno sprezzante commento sulle sue insicurezze e il suo
egoismo. Come quasi ogni altra cosa che gli era successa negli ultimi mesi,
era qualcosa di opaco e difficile da analizzare.
Sarebbe tornato indietro con Holden, probabilmente per finire nel
complesso che le Nazioni Unite avevano su Luna. L’APE avrebbe sostenuto
che era un suo cittadino, ma in origine Ganimede era stato una colonia delle
Nazioni Unite. Si stava ancora discutendo dell’aspetto legale di chi fosse
cittadino di quale governo, e la cosa si sarebbe protratta per decenni. Tempo
più che sufficiente perché lo processassero come cittadino delle Nazioni
Unite per crimini contro una società con base nelle Nazioni Unite e lo
sbattessero in prigione per l’eternità.
Probabilmente il processo sarebbe durato anni.
Cominciò a camminare lentamente lungo lo scafo della Rocinante,
trascinandosi dietro il fagotto nell’imbracatura, pieno di attrezzi e parti di
ricambio. A poppa della nave si fermò e piantò saldamente entrambi i piedi,
aspettando che il fagotto lo oltrepassasse e si fermasse all’estremità della sua
fune. Per un momento il suo peso gli tirò dolorosamente le braccia mentre ne
annullava il movimento.
«Apri il portello della baia di carico» disse.
«Ricevuto» rispose Alex, e la nave prese a vibrare sotto i piedi di Basia. Le
due pesanti porte dell’area di carico si aprirono lentamente. Quando
arrivarono a metà della loro corsa, Basia assestò uno strattone alla fune e il
fagotto di attrezzi aggirò l’estremità della nave per infilarsi nella baia mentre
lui abbandonava la presa sulla fune e lasciava che proseguisse la corsa senza
trascinarlo dietro di sé.
In un angolo del suo campo visivo ci fu una vivida esplosione di luce, come
il flash di una distante macchina fotografica. Basia si girò a guardare,
aspettandosi di vedere una delle altre navi entrare nell’area esposta alla luce
del sole. Invece, scorse un crescente punto di luce bianca centrato al di sopra
dell’isola più grande di Ilus, abbastanza luminoso da sopraffare la tenue
luminescenza verde delle sue spiagge, e in rapida espansione.
In pochi secondi il lato buio del pianeta si illuminò intensamente, come se
fosse sorto un secondo sole; le altre isole della catena, improvvisamente
visibili in quel nudo abbinamento di bianco e nero, proiettarono lunghe
ombre sull’oceano a mano a mano che il punto bianco si ingrandiva. Basia
sentì il cuore accelerargli i battiti.
«Alex?» chiamò.
L’oceano intorno alla grande isola si sollevò, gonfiandosi oltre la curva del
pianeta in quello che doveva essere uno tsunami alto chilometri. Prima però
che Basia potesse anche solo comprendere l’enormità delle forze che avevano
causato quel fenomeno, esso scomparve: l’isola, l’enorme onda oceanica, le
più piccole isole vicine, tutto svanì in una colonna di fuoco bianco e una
nuvola a forma di fungo che si andò rapidamente sollevando.
Il visore di Basia si oscurò pesantemente, e lui ebbe la sensazione che se
non lo avesse fatto la luce che giungeva dal pianeta sottostante lo avrebbe
accecato. Anche attraverso l’oscuramento del suo casco da saldatore, però,
poteva veder crescere la colonna di fuoco, che scagliava il vapore bianco
verso l’alto fino a farlo uscire dall’atmosfera del pianeta, trasformandosi in
scintillanti cristalli di ghiaccio che si allontanavano dal pozzo gravitazionale
come una pioggia di vetro da una finestra infranta da un proiettile.
Un’increspatura enorme, come vento che soffiasse su un campo erboso, si
allontanò rapida dalla sempre più grande colonna di fuoco, estendendosi
sull’oceano circostante. Basia sapeva che quelle increspature dovevano essere
onde, alte decine o centinaia di metri, che si diramavano dal punto
dell’esplosione. La parte intellettuale del suo cervello stava però
scomparendo rapidamente dietro quella primitiva e urlante che in preda alla
paura aveva appena indotto la sua vescica a scaricarsi nel preservativo-
catetere della tuta.
Era cresciuto nel sistema di Giove, e aveva visto da vicino video di Io più di
una volta. Io era famosa per avere i vulcani più enormi che l’uomo avesse
mai visto. Giganteschi geyser di zolfo si levavano dalla superficie di Luna
fino a scagliare le loro particelle nel toro di plasma e nel sistema di anelli di
Giove, e rendevano Io un posto follemente inospitale.
L’esplosione che stava osservando in quel momento dall’orbita faceva
apparire insignificanti quelle di Io. Sembrava che mezzo pianeta stesse
venendo raso al suolo dalla forza dell’esplosione.
Il suo primo pensiero fu che fosse un bene che First Landing si trovasse sul
lato opposto di Ilus. Il secondo fu che l’onda d’urto si stava dirigendo in
quella direzione, e che neppure il fatto di dover aggirare il pianeta l’avrebbe
rallentata di molto.
«Gesù cristo!» gridò Alex, alla radio. «Hai visto quella roba?»
«Chiama il pianeta!» cercò di gridare di rimando Basia, ma dalla bocca gli
uscì soltanto un gemito pervaso di panico. «Devi avvertirli.»
«Avvertirli di fare cosa?» chiese Alex, che sembrava come intontito.
Cosa fai quando il pianeta su cui ti trovi cerca di ucciderti?
Basia non lo sapeva.
29
Holden

In piedi su una bassa collina che dominava First Landing, Holden cercava
di assaporare la bellezza del pianeta mentre il suo cervello ruminava sulla
mezza dozzina di problemi insolubili che si supponeva lui riuscisse in
qualche modo a risolvere. La recente pioggia aveva inumidito e abbattuto la
solita polvere, e questo faceva apparire la cittadina pulita e ben tenuta.
Pacifica. In alto, il cielo era di uno splendido azzurro tendente all’indaco,
solcato da appena un accenno di nuvole di alta quota. Il suo terminale
palmare indicava che la temperatura era di 22 gradi Celsius, con un lieve
vento che soffiava da nordest con una velocità di quattro nodi. La sola cosa
che avrebbe potuto rendere la situazione migliore sarebbe stata avere Naomi
là con lui, o almeno saperla al sicuro sulla Roci. Questo avrebbe reso tutto
molto migliore.
«Mi mancano i pianeti» disse, chiudendo gli occhi e girandosi verso il sole.
«A me no» replicò Amos. Durante la loro passeggiata pomeridiana era stato
tanto silenzioso che Holden si era quasi dimenticato della sua presenza.
«Non ti manca mai la brezza? Il sole sulla pelle? Una pioggia gentile?»
«Quelle non sono le parti della vita planetaria che si sono impresse nella
mia memoria» ribatté Amos.
«Ti va di parlarne?» chiese Holden.
«No.»
«D’accordo.» Holden non prese il rifiuto del meccanico come una cosa
personale. Per usare le sue stesse parole, Amos aveva un sacco di passato nel
suo passato, non gli piaceva che la gente cercasse di scavare in esso, e
Holden non era tipo da ficcanasare. Sapeva già più di quanto desiderasse
riguardo al modo brutale in cui Amos era stato allevato sulla Terra.
«Suppongo sia meglio tornare indietro» decise, dopo qualche altro
piacevole momento ad assaporare la brezza. «Potrebbe esserci una risposta
della RCE alle mie richieste.»
«Già» sbuffò Amos. «Se i pezzi grossi della RCE hanno mandato una
risposta secondi dopo aver ricevuto il tuo messaggio, la risposta dovrebbe
arrivare più o meno adesso.»
«Non permetterò che i tuoi dati di fatto riguardo a quel lieve ritardo
interferiscano con il mio ottimismo.»
«Non c’è molto che lo faccia.»
Holden rimase in silenzio per un lungo momento. Si umettò le labbra.
«Se rifiuteranno,» disse «e decideranno di permettere che Murtry continui a
trattenerla, dovrò decidere se lei è più importante dell’impedire che le cose in
questo posto degenerino in una guerra aperta.»
«Già»
«Sono sicuro di sapere cosa sceglierò.»
«Già.»
«Ci saranno persone che mi considereranno molto egoista.»
«Questo è vero» convenne Amos. «Ma che si fottano. Loro non sono noi.»
«Questo noi-e-loro è il problema alla base di tutto quello...» cominciò
Holden, ma fu interrotto da un allarme ad alta priorità che proveniva dal suo
terminale palmare. Era il genere di allarme riservato a quando un membro
dell’equipaggio era in pericolo. Naomi, pensò. È successo qualcosa a Naomi.
Amos mosse qualche passo verso di lui, la fronte aggrottata e i pugni
serrati. Stava pensando la stessa cosa. Se era davvero successo qualcosa,
questa volta sarebbe stato impossibile impedirgli di uccidere Murtry.
Probabilmente, Holden non ci avrebbe neppure provato.
«Parla Holden» disse, cercando di mantenere salda la voce.
«Capitano, abbiamo un problema» rispose Alex. La sua voce suonava
tremante, terrorizzata. Holden aveva volato con lui attraverso una mezza
dozzina di battaglie, ma neppure quando il cielo era stato pieno delle scie dei
missili aveva sentito il suo pilota cedere al panico. Di qualsiasi cosa si
trattasse, era grave.
«È ferita?»
«Cosa? Chi? Ti riferisci a Naomi? Naomi sta bene, per quel che ne so»
replicò Alex. «Sei tu a essere nella merda fino al collo, capitano.»
Holden si guardò intorno. First Landing appariva tranquillo. Una nuova
squadra di cinturiani stava salendo sui carrelli che li avrebbe portati alla
miniera. Alcune persone camminavano per strada, andavano per i fatti loro e
le due guardie della RCE di pattuglia chiacchieravano amabilmente con un
locale mentre bevevano una bevanda calda da un termos. La sola cosa
violenta che stesse accadendo nel suo campo visivo era una lucertola mimo
che stava trascinando lentamente verso le fauci un uccello intrappolato nel
suo stomaco rovesciato.
«Ti ascolto» disse.
«Qualcosa è esploso sull’altro lato del pianeta» riprese Alex, parlando tanto
in fretta da incespicare sulle parole, mentre la maggior parte del suo accento
strascicato scompariva. «Ha raso al suolo una catena di isole, laggiù. Voglio
dire che è come se qualcuno avesse lasciato cadere un masso. Il genere di
cosa come quella che ha ucciso i dinosauri. L’onda d’urto sta aggirando il
pianeta in questo momento. Avete sei ore di tempo. Forse.»
L’espressione di Amos era passata da furente a genuinamente sorpresa. Non
era un’espressione che lui avesse spesso, e gli dava un’aria vagamente
infantile.
«Sei ore prima di cosa, Alex?» chiese Holden. «Dammi qualche dettaglio,
per favore.»
«Immagina venti da due o trecento chilometri all’ora, lampi, piogge
torrenziali. Siete abbastanza all’interno da evitare lo tsunami alto tre
chilometri.»
«Il classico pacchetto da ira divina, meno l’annegamento» commentò
Holden, ricorrendo all’umorismo per nascondere la crescente paura. «Quanto
siamo sicuri di tutto questo?»
«Capitano, in questo momento sto vedendo l’altra metà del pianeta andare
letteralmente in pezzi. Questa non è una previsione. Sono mille chilometri di
pianeta fra te e l’apocalisse, una distanza che si va accorciando in fretta.»
«Hai un video da mandarmi?»
«Certo» replicò il pilota. «Hai mutande di ricambio per dopo che lo avrai
visto?»
«Mandalo comunque. Potrei averne bisogno per convincere i locali.
Chiudo.»
«Allora, capitano, qual è il nostro piano?» domandò Amos.
«Non ne ho idea.»
«Lo faccia scorrere di nuovo» disse Murtry, dopo che Holden gli ebbe
mostrato il video apocalittico che Alex aveva registrato usando i telescopi
della Rocinante. Holden, Murtry e Carol Chiwewe erano nella sala cittadina,
con il terminale di Holden sincronizzato con il grande schermo a parete.
Holden obbedì e fece scorrere la registrazione una seconda volta. Di nuovo
la grossa isola scomparve in un lampo di luce e in una colonna di fuoco. Di
nuovo le altre isole svanirono sotto un massiccio muro d’acqua e poi sotto le
sempre più larghe nuvole di cenere e di vapore. Di nuovo l’onda d’urto si
allontanò veloce dal centro dell’esplosione, trascinando con sé onde enormi.
Mentre il video scorreva, Murtry parlò a bassa voce con qualcuno sul
proprio palmare, mentre Carol scuoteva lentamente il capo, come se fosse
stato possibile negare l’evidenza visibile sullo schermo.
Il video finì e Murtry disse: «Questo corrisponde ai nostri dati. Il gruppo di
geoingegneria pensa che si tratti di una reazione a fissione vicino al fondo
dell’oceano.» Holden ebbe un impeto di irritazione per il sottinteso che
avrebbe potuto mentire riguardo a una cosa tanto seria. Ma tenne a freno la
lingua.
«Come una bomba?» chiese Carol.
«O una centrale energetica aliena che si è guastata» replicò Murtry. «È
impossibile avanzare supposizioni.»
«Con quanta rapidità possiamo effettuare un’evacuazione?» continuò Carol,
con voce sorprendentemente salda per qualcuno che aveva appena guardato
negli occhi l’Armageddon.
«Siamo qui per discutere di questo» rispose Holden. «Qual è il piano
migliore per proteggere la colonia? L’evacuazione è un’opzione, ma adesso
ci rimangono poco più di cinque ore.»
«L’evacuazione non funzionerà,» affermò Murtry «almeno non usando la
nostra navetta. Il vento è troppo forte. Dovremmo prendere quota davanti a
quell’onda d’urto, con la turbolenza e la ionizzazione atmosferica che fanno
del loro meglio per sbatterci giù dal cielo. Meglio sopravvivere quaggiù e poi
avere ancora la navetta a disposizione per i soccorsi.»
Holden si accigliò e annuì. «Detesto ammetterlo, ma sono d’accordo. Alex
dice che non può far atterrare la Roci e farla decollare di nuovo prima
dell’impatto, e se tentassimo un’evacuazione, probabilmente ci troveremmo
di fronte a dei tumulti. Come puoi dire a qualcuno che suo figlio non troverà
posto sulla navetta?»
«I tumulti non sarebbero un problema» ribatté Murtry, con una calma
agghiacciante nella voce.
«Come facciamo a proteggere tutti? L’intera colonia?» chiese Holden,
scegliendo di ignorare la provocazione.
«Ci sono le miniere» suggerì Amos, che si teneva vicino a Holden come un
genitore ansioso, una cosa che aveva preso l’abitudine di fare ogni volta che
Murtry era presente.
«No.» Carol scosse il capo. «Sono in una depressione e si allagheranno se
dovesse piovere troppo.»
«Credo si debba partire dal presupposto che qualsiasi cosa potrebbe andare
storta lo farà» suggerì Holden. «Quindi niente fosse e grotte che si possano
riempire d’acqua. Stavo pensando alle rovine.»
Murtry si protese in avanti sulla sedia, accigliandosi. «Cosa le fa pensare
che resisteranno a venti da trecento chilometri all’ora?»
«Vuole una risposta onesta? Non ho nessun motivo valido di crederlo,»
ribatté Holden «ma sono lì da un tempo molto lungo e sono tutto quello che
abbiamo. Spero che se hanno resistito finora riescano a sopravvivere anche a
quello che sta arrivando.»
«Sempre meglio delle capanne in cui vivete voialtri» aggiunse Amos, con
una massiccia scrollata di spalle. «Posso buttare giù a calci in dieci minuti
qualsiasi edificio di questa città.»
Murtry si appoggiò ancor di più all’indietro sulla sedia, fissando il soffitto
mentre faceva schioccare la lingua. «D’accordo» assentì, dopo alcuni
secondi. «È il piano migliore che abbiamo. Dobbiamo sopravvivere a
quell’onda d’urto iniziale. Quello che seguirà sarà brutto, ma saremo in grado
di aiutare i superstiti a superarlo, quindi faremo a modo suo. Farò muovere i
miei uomini. Meglio far sapere subito la cosa.»
«Carol, trovi quante più persone possibile per diffondere la notizia» disse
Holden. «Si accerti che tutti portino tutta l’acqua e il cibo che possono
ragionevolmente trasportare, ma niente altro. Il pianeta è in fiamme. Non
possiamo perdere tempo a salvare ricordi.»
«Le darò una mano» si offrì Amos.
«Abbiamo le ore contate» ricordò loro Holden, attivando un allarme sul
terminale palmare mentre parlava. «Voglio vedervi tutti in quella struttura
entro quattro ore, non un minuto più tardi.»
«Ci proveremo» rispose Carol.
Per trasferire i coloni ci volle più tempo di quanto Holden avesse sperato.
Ogni persona informata dovette esprimere il proprio shock e la propria
incredulità, poi fu necessario fare una conversazione riguardo alla loro
sorpresa, e dopo un’altra conversazione riguardo a cosa potevano portare con
loro. Alcuni insistettero per portarsi dietro alcuni oggetti personali, ciascuno
certo che il proprio fosse un caso unico. Ogni volta che successe, Holden
ebbe voglia di mettersi a urlare.
Era colpa del cielo azzurro e della brezza gentile. Semplicemente, non
sembrava loro che il disastro fosse reale, non quando potevano guardare il
cielo e non vedere altro che qualche nuvola lanuginosa. Si stavano adeguando
soltanto perché Holden, Carol e Murtry avevano il comando, e si faceva
quello che la gente al comando chiedeva di fare a meno che non ci fosse una
ragione molto forte per rifiutarsi. Holden però poteva vedere l’incredulità nei
loro occhi, percepirla in ogni sciocco ritardo, in ogni protesta.
Dall’altra parte della strada un uomo stringeva un fagotto di vestiti sotto un
braccio mentre si trascinava dietro un grosso contenitore di plastica pieno
d’acqua. Amos lo raggiunse e scambiò con lui alcune parole sorridendo.
L’uomo scosse energicamente il capo e cercò di allontanarsi, ma Amos gli
strappò di mano il fagotto di vestiti e lo lanciò sul tetto di una capanna vicina,
poi prese il contenitore dell’acqua e lo ficcò fra le braccia dell’uomo. Questi
cercò di discutere, ma Amos lo fissò con un vago sorriso e infine l’uomo si
volse e si allontanò, incamminandosi dietro agli altri già diretti verso le
rovine aliene.
«Capitano?» chiamò una voce esitante. Voltandosi, Holden si trovò davanti
Elvi Okoye, che gli sorrideva e portava una grossa sacca appesa a una spalla.
«Salve» le disse. «Cos’ha lì?»
«Coperte. Fayez, Sudyam e io portiamo tutte le coperte che avevamo
all’insediamento. La temperatura calerà di certo in modo significativo una
volta che la nuvola di detriti si allargherà sopra di noi, e le notti si faranno
fredde.»
«Buona idea. Probabilmente dovremmo dire ad altre persone di portare
delle coperte.»
«Ecco...» aggiunse Elvi, sempre con quel suo insicuro accenno di sorriso.
«Volevo chiedere aiuto per il gruppo di scienze chimiche.»
«Aiuto?»
«L’apparecchiatura di analisi chimica è molto pesante, e hanno problemi a
spostarla. Un altro paio di persone renderebbe il lavoro molto più facile.»
Holden scoppiò in una risata incredula. «Non farete nessuna ricerca
scientifica laggiù, Elvi. Dica loro di abbandonare l’apparecchiatura e di
portare invece acqua e cibo.»
«Produce acqua» disse lei.
«Possono portare... Produce cosa?»
«Può sterilizzare e distillare l’acqua» spiegò Elvi, annuendo come se in quel
modo avesse potuto indurlo ad assentire più in fretta. «Potremmo averne
bisogno. Sa, per quanto finiremo l’acqua in bottiglia.»
«Sì» convenne Holden, sentendosi come un idiota.
«Sì» ripeté Elvi con un sorriso speranzoso.
«Amos!» gridò Holden. Quando il grosso uomo lo raggiunse, indicò Elvi e
disse: «Trova qualcuno che vi aiuti, poi seguila. C’è una grossa
apparecchiatura che dobbiamo spostare.»
«Apparecchiatura?» Amos si accigliò. «Cibo e acqua non dovrebbero
essere...»
«Produce acqua» replicarono all’unisono Holden ed Elvi.
«Ricevuto» annuì Amos, e si allontanò in fretta.
Holden notò che il cielo aveva cominciato a oscurarsi in modo appena
percettibile. Il sole era ancora alto, perché mezzogiorno era passato da poco
ed era primo pomeriggio, ma la luce solare iniziava a tendere al rosso e il
mondo si stava oscurando con essa, come se uno splendido tramonto stesse
sopraggiungendo con cinque ore di anticipo. Qualcosa in quel cambiamento
gli generò un brivido lungo la spina dorsale.
«Vada» disse, assestando a Elvi una spinta gentile verso le torri aliene.
«Vada subito. E dica alla sua gente di spicciarsi.»
Lei non discusse, dovette rendergliene atto, e si limitò a spiccare la corsa
verso il complesso di capanne della RCE. Tutt’intorno a lui i coloni si
muovevano più in fretta, discutevano meno e di tanto in tanto scoccavano
occhiate spaventate al cielo.
Holden non era più stato nella struttura aliena da quando era andato a
esaminarla in quanto scena del crimine. Essa aveva lo stesso senso estetico
inquietante e inumano che aveva notato in precedenza, prima su Eros, dopo
l’infezione, e poi sulla Stazione dell’Anello, nel cuore della rete dei portali.
Curve e angoli erano sbagliati in modo sottile e tuttavia stranamente belli.
Cercò di immaginare quale uso i padroni della protomolecola avessero fatto
di quegli edifici, ma non ci riuscì. Non ce la faceva a immaginarli nell’atto di
creare una struttura per installarvi macchinari come in una fabbrica, e
neppure riusciva a vedere quelle costruzioni come abitazioni, piene di arredi e
di oggetti personali. Era come se standosene lì vuote com’erano, esse
continuassero a adempiere alla funzione aliena, quale che fosse, che erano
sempre state destinate a svolgere.
Quello era anche il posto dove Basia Merton e gli altri avevano nascosto gli
esplosivi, e dove avevano ucciso la squadra di sicurezza. I crimini più
sanguinosi che fossero stati commessi sul pianeta erano stati tutti accentrati
proprio nel luogo in cui ora erano tutti diretti.
«Datemi un altro conteggio» disse Carol Chiwewe ai suoi assistenti. «Chi
manca? Scoprite chi manca.»
Aveva continuato a fare il conto delle teste dei coloni da quando era
arrivata, quasi per ultima, ma continuava a ottenere numeri diversi a mano a
mano che sopraggiungevano alla spicciolata i ritardatari o che le persone si
spostavano. Era un compito impossibile, ma Holden provò rispetto per il suo
impiego a garantire che nessuno fosse lasciato indietro.
Il gruppo di scienziati della RCE se ne stava raggomitolato compatto in un
angolo arrotondato della grande stanza centrale dell’edificio, Elvi insieme
agli altri. Parecchi scienziati erano impegnati ad armeggiare con una grossa
macchina, e Holden sperò che la stessero preparando a purificare grandi
quantità di acqua. Con il figlio Jacek a traino, Lucia si spostava per la stanza,
e si fermò a scambiare qualche parola con Elvi. Holden esalò un respiro di
sollievo nel constatare che entrambi ce l’avevano fatta. Sulla Rocinante,
Basia stava probabilmente impazzendo per la preoccupazione, e lui era lieto
di poter riferire che erano quanto più al sicuro possibile.
«Ehi, capitano» chiamò Amos, emergendo da una stanza laterale con un
seguito di parecchi coloni. «Abbiamo un problema.»
«Un altro? Peggiore della tempesta cataclismatica che sta avanzando verso
di noi?»
«Direi che è correlato» replicò Amos. «Abbiamo fatto un conto delle teste e
pare che manchi la famiglia Dahlke.»
«Ne siamo sicuri?»
«Parecchio» replicò Amos, con una scrollata di spalle.
Carol li vide parlare e si fece largo verso di loro attraverso la stanza
affollata. «Siamo sicuri al cento percento» dichiarò. «Clay Dahlke era in città
a fare provviste quando lo abbiamo avvertito, ed è andato a casa a prendere
sua moglie e sua figlia. La loro casa è la più lontana fuori città. Avrei dovuto
mandare qualcuno con lui, ma sono stata tanto stupida...»
«Aveva un sacco di cose da fare» la rassicurò Holden. «Quanto dista da qui
la casa dei Dahlke?»
«Tre chilometri» rispose Amos. «Sto per andare là con questi uomini per
vedere se riusciamo a trovarli.»
«Aspetta un momento» obiettò Holden. «Non sono certo che con il tempo
che ci rimane possiate fare un viaggio di andata e ritorno di sei chilometri
totali, e tantomeno cercare qualcuno.»
«Non intendo lasciare quella ragazzina là fuori, capo.» Amos badò a
mantenere un tono accuratamente neutro, ma Holden avvertì in esso una
vaghissima sfumatura di minaccia.
«D’accordo» si arrese. «Ma lasciami almeno chiamare la Roci per avere un
aggiornamento.»
«Certo» assentì Amos. «Del resto, qualcuno sta ancora cercando un poncho
per la ragazzina.»
Holden lasciò la stanza principale e attraversò la confusione delle camere
più piccole che la circondavano, cercando di trovare l’ingresso. L’edificio
alieno era un labirinto di passaggi e stanze collegati. Mentre camminava, tirò
fuori il terminale palmare. «Alex, sono Holden. Mi senti?»
Il suono che usciva dal terminale era pieno di statica per la massiccia
ionizzazione dell’atmosfera, ma Holden riuscì comunque a sentire la risposta.
«Parla Alex. Che notizie ci sono?»
«Dammi un aggiornamento. Quanto tempo abbiamo ancora?»
«Oh, capo, devi guardare verso ovest.» La paura nella voce di Alex era
udibile anche in mezzo alle forti scariche di statica.
Holden uscì dall’ingresso principale della torre aliena e guardò verso il sole
che tramontava lentamente.
Una cortina nera aleggiava sull’orizzonte a perdita d’occhio, e si muoveva
tanto in fretta che anche da una distanza di dozzine di chilometri dava
l’impressione di scagliarsi verso di lui, una nera altura ribollente solcata da
fulmini. Il terreno sotto i suoi piedi prese a tremare e vibrare, ricordandogli
che il suono viaggiava molto più in fretta attraverso un solido che attraverso
l’aria. La vibrazione che avvertiva era il rumore di tutta quella furia, che
viaggiava attraverso il terreno come avvertimento. Mentre formulava quel
pensiero da ovest giunse un ruggito crescente.
«Come vanno le cose?» Amos era arrivato nell’anticamera e si stava
mettendo in spalla uno zaino leggero. I suoi amici coloni erano raccolti alle
sue spalle, con un misto di paura e di speranza sul volto.
«È troppo tardi, amico» replicò Holden, guardando verso ovest e scuotendo
il capo. «Decisamente troppo tardi.»
Non avrebbe saputo dire se intendeva che era troppo tardi per i Dahlke o
per tutti loro.
30
Elvi

In un primo momento, il fronte della tempesta parve avvicinarsi lentamente


– un ribollire fra il nero e il violaceo più alto di un grattacielo, con appena un
lieve smuoversi dell’aria calda a indicare che era reale – poi, nello spazio fra
un respiro e il successivo, colpì con estrema violenza. Aria, acqua e fango
fiottarono nelle rovine attraverso finestre, arcate e buchi come il getto di una
pompa. Il suono che li accompagnava non era un semplice ruggito:
assordava. Elvi si raggomitolò con la schiena contro un muro delle rovine, le
braccia strette intorno alle ginocchia, e tenne duro mentre le pareti tremavano
contro la sua schiena, vibrando per le folate di vento da uragano.
Di fronte a lei, Michela aveva le mani premute sugli orecchi, la bocca
aperta in un urlo che Elvi non poteva sentire. Aveva creduto che la pioggia
sarebbe stata fredda, ma non lo era. La fanghiglia che si andava depositando
sul pavimento delle rovine era calda e salmastra, e in qualche modo era anche
peggio. Intrecciò le dita, serrandole fino a farsi dolere le nocche. L’acqua
intrisa di fango permeò l’aria fino a quando quegli spruzzi resero difficile
respirare. Qualcuno attraversò barcollando l’arcata alla sua sinistra, ma Elvi
non riuscì a distinguere chi fosse più di quanto potesse fermare quella
catastrofe con la sola forza della volontà. Era certa che le rovine sarebbero
crollate, che quelle mura antichissime si sarebbero aperte in due e lei e tutti
gli altri sarebbero stati scaraventati in mezzo alla tempesta, a morire
schiacciati o annegati, o entrambe le cose. Tutto ciò a cui riusciva a pensare
era a quando si era trovata sulla navetta pesante, la confusione e il panico
mentre precipitava, il trauma dell’impatto. Questo le dava le stesse
sensazioni, solo che continuò a protrarsi tanto a lungo che lei si sorprese a
sentire quasi la mancanza dell’impatto finale. Quell’esperienza, almeno, si
era conclusa in fretta.
Sapeva che era giorno, ma le sole fonti di chiarore erano le fredde e bianche
luci di emergenza e le scariche quasi costanti di fulmini che illuminavano
come uno stroboscopio il volto della gente. Un giovane dal volto rigido e
impassibile come un’immagine di sofferenza e sopportazione. Un bambino di
non più di otto anni che teneva la testa affondata contro la spalla della madre.
Wei e Murtry in uniforme, in piedi vicini come due amanti mentre si
urlavano a vicenda nell’orecchio nello sforzo di farsi sentire, rossi in volto.
Le vaste alterazioni della pressione barometrica non erano visibili, ma Elvi le
avvertiva come un senso sopraffacente di malessere, qualcosa di sbagliato,
che le si riversava attraverso il corpo. Non avrebbe saputo dire se il tremito
veniva dalle mura delle rovine percosse dalla tempesta, da altri piccoli
terremoti o dal suo sistema nervoso in sovraccarico.
A un certo punto la sua percezione del tempo cambiò. Non avrebbe saputo
dire se la tempesta durava da ore, giorni o solo minuti. Era come la
consapevolezza di un trauma, la pazienza condannata dell’essere aggredita e
sapere che la sola cosa che sarebbe finita sarebbe stata la misericordia
dell’assalitore. Di tanto in tanto si rendeva conto di risalire a un più pieno
livello di consapevolezza e si imponeva di tornare nel precedente stato di
stupore. Forse stava entrando in stato di shock. La sua consapevolezza pareva
disattivarsi a tratti. Era raggomitolata contro Fayez, entrambe le mani strette
intorno al suo gomito, e non ricordava come fosse arrivata lì. La scura
poltiglia fangosa arrivava alla caviglia in tutte le rovine, marrone e verde. Ne
era ricoperta, lo erano tutti.
Quando sarà finita tornerò nella mia capanna, farò un lungo bagno e
dormirò per una settimana, pensò. Sapeva che era ridicolo, che la sua capanna
non poteva aver resistito a quella furia più di quanto un fiammifero potesse
rimanere acceso sott’acqua, ma ci pensò lo stesso e una parte di lei credette
che fosse vero. Un bagliore accecante e una detonazione crepitante esplosero
quasi simultaneamente. Elvi serrò i denti, chiuse gli occhi e sopportò.
Il primo cambiamento che notò furono gli urli di un bambino piccolo. Era
un suono spossato. Si spostò, sentendo la camicia e i pantaloni che, freddi e
fradici, le aderivano alla pelle a causa della fanghiglia, e piegò il collo per
cercare di individuare la fonte di quel suono stridulo. Sentì quel pensiero
spostarsi alla base del suo cranio prima di comprendere cosa fosse quella
sensazione, e cioè uno sfasamento fra la realizzazione in sé stessa e l’esserne
consapevole. Poteva sentir piangere un bambino. Poteva sentire qualcosa –
una qualsiasi cosa – che non fosse la maligna velenosità della tempesta.
Cercò di alzarsi ma le gambe si piegarono sotto il suo peso. Inginocchiata
nella fanghiglia, raccolse le forze, raddrizzò le spalle e ci riprovò. La pioggia
cadeva in diagonale attraverso le finestre delle rovine, e anche se aveva
un’inclinazione di appena venti gradi continuava a riversarsi a secchiate dal
cielo nero, accompagnata da folate di vento che spingevano e ululavano. In
qualsiasi altro contesto quella sarebbe stata la furia di una bufera. Lì e in quel
momento significava invece che il peggio era passato.
«Dottoressa Okoye?»
Il volto di Murtry era illuminato dal basso dalla lanterna di emergenza che
gli pendeva dalla spalla. La sua espressione era il solito cortese sorriso
accompagnato da una sobria e focalizzata attenzione. La mente sconvolta di
Elvi si chiese se ci fosse qualcosa in grado di scuotere l’anima di quell’uomo,
e concluse che forse non c’era. Avrebbe voluto essere rassicurata dalla sua
prevedibilità, ma il suo corpo non era in grado di recepire conforto. Non in
quel momento.
«Sta bene, dottoressa?» chiese Murtry, posandole una mano sulla spalla.
Elvi annuì, e quando lui accennò ad allontanarsi lo afferrò. «Quanto è
durato?»
«Il fronte ci ha investiti poco più di sedici ore fa» rispose lui.
«Grazie.» Elvi tornò a girarsi verso la finestra e la pioggia. I lampi
solcavano ancora le nuvole e si protendevano verso il terreno, ma erano meno
frequenti. La loro luce le mostrava un panorama trasformato. C’erano fiumi
che scorrevano dove il giorno prima c’era stato arido deserto. I fiori, o
comunque quelli che lei aveva considerato come fiori, erano stati disintegrati.
Non rimanevano neppure i rami. Non riuscì a immaginare come le lucertole
mimo potessero essere sopravvissute, o anche quegli animali simili a uccelli
che lei considerava passeri. Aveva pensato di andare nel canalone a est di
First Landing per raccogliere campioni dei licheni rosa che crescevano
nell’ombra, laggiù. Adesso non li avrebbe più trovati.
Il senso di perdita le gravò come un peso sulla gola. Aveva intravisto un
ecosistema diverso da qualsiasi altro avesse mai incontrato prima, una rete di
vita che si era sviluppata separatamente da qualsiasi cosa lei avesse
conosciuto. Lei e i suoi gruppi di lavoro erano stati le uniche persone che
avessero mai camminato in quel giardino. E ormai era perduto.
«La condizione usuale della natura è quella di riprendersi dal disastro»
disse. Era una verità lapalissiana enunciata dagli ecobiologi, e lei la ripeté
come una persona religiosa avrebbe potuto recitare una preghiera, per dare un
senso a quello che vedeva, per confortarsi, per dare al mondo un po’ di scopo
o di significato. Le specie crescevano in un ambiente, poi quell’ambiente
cambiava. Quella era la natura dell’universo, vera lì quanto lo era stata sulla
Terra.
Pianse in silenzio, le sue lacrime indistinguibili dalla pioggia.
«Ecco, c’è qualcosa che non mi aspettavo» osservò Holden. Elvi si girò a
guardarlo. La luce fioca delle rovine gli dava un aspetto monocromatico,
come una fotografia seppiata di James Holden. I capelli erano incollati
all’indietro e gli aderivano alla testa e alla base del collo. La camicia era
incrostata di fango.
Elvi era troppo stanca per dissimulare. Prese la mano di lui nella sua e seguì
la direzione del suo sguardo verso l’interno delle rovine. La mano di Holden
era solida e calda nella sua, e anche se era permeata di rigidità ed esitazione,
quantomeno lui non si ritrasse.
Carol Chiwewe e altri quattro coloni stavano buttando fuori il fango dalla
finestra usando pannelli di plastica grigio chiaro striati del marrone verdastro
della fanghiglia. Dietro di loro, trenta o quaranta coloni di First Landing
erano raccolti in gruppi, stretti gli uni agli altri sotto le coperte. Gli uomini
della sicurezza della RCE circolavano in mezzo a loro distribuendo bottiglie
d’acqua e razioni di emergenza in pacchetti di stagnola. In piedi uno accanto
all’altra, Fayez e Lucia parlavano animatamente, ma Elvi non riuscì a
distinguere le loro parole.
«Non capisco» disse. «Cos’è che non si aspettava?»
Lui le strinse le dita e le lasciò andare la mano. Il palmo le parve più freddo
senza quel contatto.
«Che la vostra gente della sicurezza aiutasse i coloni» rispose lui.
«Immagino che niente porti la gente a fraternizzare più di un disastro.»
«Questo non è vero» protestò Elvi. «Noi li avremmo aiutati dall’inizio.
Siamo venuti qui con l’intento di aiutarli. Non so perché tutti pensino che
siamo così spaventosi. Non abbiamo fatto niente di male.»
La voce le si incrinò sull’ultima parola e cominciò a piangere sul serio. Si
sentiva stranamente distaccata dal suo dolore, come se lo stesse vedendo
dall’esterno. Poi Holden le posò una mano sulla spalla e lei avvertì la
sofferenza. Per un momento, essa la inondò, la trascinò via. Tre fulmini
caddero nelle vicinanze, luminosi e improvvisi, e il tuono che li
accompagnava echeggiò in lontananza.
«Mi dispiace» si scusò, quando riuscì a parlare. «È stato... troppo.»
«No, sono io che mi dovrei scusare» replicò Holden. «Non volevo farla
sentire peggio. È solo che...»
«Lo capisco» rispose Elvi, protendendosi di nuovo verso la mano di
Holden. Che ridesse pure di lei, che la respingesse. Ormai non le importava,
voleva solo essere toccata, abbracciata.
«Ehi, capitano» interloquì Amos, emergendo massiccio dal buio. Portava
sulle spalle un poncho di plastica chiara, con il cappuccio che riusciva a
stento a calzare intorno al collo massiccio. «Pensi di potertela cavare da solo
per un po’?»
Holden indietreggiò, allontanandosi da lei, ed Elvi avvertì un fugace e
irrazionale impeto di rabbia contro il grosso uomo per la sua intrusione. Si
morse un labbro e lo fissò con aria accigliata, ma se pure se ne accorse Amos
non lo diede a vedere.
«Non so proprio come rispondere alla tua domanda» replicò Holden. «Non
vedo perché dovrei morire in questo momento. È quanto di meglio ti posso
dire.»
«Sempre meglio dell’alternativa, comunque» replicò Amos. «Hai presente
la famiglia Dahlke, quelli che non sono riusciti ad arrivare qui prima che
scoppiasse l’inferno? Alcuni di noi stanno andando a dare un’occhiata.»
Holden si accigliò. «Sei sicuro che sia una buona idea? Là fuori la
situazione è ancora piuttosto brutta, e c’è più acqua di quanta credo questo
posto ne abbia mai visto. Potrebbero esserci delle piene e non abbiamo modo
di mandare aiuti se qualcosa dovesse andare storto.»
«Avevano una bambina» ribatté Amos. I due uomini si scambiarono una
lunga occhiata che pareva risentire del peso di una conversazione precedente,
ed Elvi si sentì un’estranea vedendo due membri di una famiglia comunicare
mediante quella sorta di codice generato da una lunga familiarità.
«Stai attento» disse soltanto Holden, dopo un lungo momento.
«È possibile che quella nave sia ormai salpata, ma farò il possibile.»
Wei venne verso di loro. Si era tolta l’armatura ma aveva ancora il fucile
automatico assicurato alla schiena. Rivolse un cenno ad Amos. «Ci sono altri
due che vorrebbero venire con noi.»
«A me non importa, se non dà fastidio a lei» rispose Amos. Wei annuì. Nei
suoi occhi c’era un’oscurità che pareva un’eco di quella di Amos.
Elvi si guardò intorno. Una mezza dozzina di persone si stava infilando lo
stesso tipo di poncho indossato da Amos. Nella penombra e con quella
devastazione era difficile dire chi di loro fossero coloni e chi gente della RCE.
Adesso era difficile perfino distinguere i terrestri dai cinturiani. Elvi non
sapeva se quello era un effetto dell’oscurità, o se una parte più profonda del
suo cervello alterava le sue percezioni, trasformando qualsiasi creatura umana
in qualcosa di simile a lei. La mente poteva essere ingannevole sotto
quell’aspetto.
Poi intravide fra loro anche Fayez, e si sentì in bocca il sapore metallico
della paura.
«Aspetta» disse, lanciandosi attraverso lo spazio che li separava. «Fayez,
aspetta. Cosa stai facendo?»
«Do una mano» replicò lui. «E cerco anche di uscire da questa scatola di
sardine. Mi sono abituato ad avere almeno un metro di distanza dal mio
prossimo. Avere intorno tutte queste persone mi stressa.»
«Non puoi farlo. È pericoloso là fuori.»
«Lo so.»
«Resta qui» insistette Elvi, afferrandogli il poncho e tirandolo verso l’alto
nel tentativo di sfilarglielo dalla testa. «Posso andare io.»
«Elvi» disse lui. «Elvi! Smettila.»
Lei stringeva una manciata di plastica in ciascuna mano. Era già bagnata.
«Lascia andare loro» insistette. «Sono professionisti, sanno occuparsi di
queste cose. Noi... gente come noi...»
«A questo punto abbiamo superato il noi e il loro. Siamo soltanto persone in
un brutto posto» affermò Fayez. E un momento più tardi aggiunse: «Tu sai
cosa sono, Elvi.»
«No. No, tu sei un uomo buono, Fayez.»
Lui inclinò la testa da un lato. «Mi riferivo al fatto che sono un geologo.
Non che abbiano bisogno che mi metta a parlare di tettonica a placche. Cosa
pensavi che intendessi?»
«Oh. Ah. Io...»
«Andiamo, professore» intervenne Wei, battendo un colpetto sul braccio di
Fayez. «È ora di fare una passeggiata.»
«Come posso rifiutare?» replicò Fayez, sfilando con gentilezza la plastica
del poncho dalle mani di Elvi. Lei rimase là a guardare mentre i sei si
avviavano insieme all’ingresso: Amos, Wei, Fayez e tre coloni – no, due
coloni e Sudyam – muniti di lanterne chimiche usa e getta che gli brillavano
in mano. Uscirono nella bufera, ed Elvi rimase vicino alla finestra, incurante
della pioggia che la infradiciava. Amos e Wei si misero in testa al gruppo, a
testa bassa, con il poncho che si agitava alle loro spalle, e gli altri li seguirono
da vicino come altrettanti anatroccoli. Intorno a loro, la notte era scura e
violenta mentre avanzavano in mezzo a quel diluvio, facendosi sempre più
indistinti a ogni minuto che passava finché Elvi non riuscì più a vederli.
Rimase ferma lì ancora per un po’, con la mente svuotata, esausta.
Trovò Lucia e Jacek in una delle camere più grandi. Due coloni stavano
lottando per posizionare un ampio pannello di plastica su una delle finestre
per escludere la pioggia, adesso che il vento non era più tanto violento da
infrangerlo. Una mezza dozzina di altri coloni era impegnata a rimuovere il
fango. Avevano già fatto così tanto lavoro che Elvi poteva scorgere pallide
strisce di terreno. Dovunque c’erano persone che dormivano, raggomitolate le
une contro le altre. Il fragore della tempesta era ancora tale da coprire i loro
gemiti. O almeno la maggior parte di essi.
Lucia sollevò lo sguardo su di lei. Pareva invecchiata di dieci anni, ma
riuscì a sorridere. Elvi le sedette accanto. Entrambe erano coperte di fango
salmastro che cominciava a puzzare un poco di putrescenza, o qualcosa del
genere. Tutte le minuscole forme di vita che abitavano il grande oceano del
pianeta e che erano state infrante e scagliate nel cielo cominciavano a
decomporsi. Le spezzava il cuore pensare alla quantità di morte che li
circondava, quindi non lo fece.
«Posso esserle utile?» chiese Lucia.
«Ero venuta a chiederle la stessa cosa» replicò Elvi. «Mi dica cosa posso
fare.»
Quella lunga notte terribile continuò sotto la pioggia che rallentò solo in
misura minima. Dalle nuvole non filtrava traccia di luce, nessun arcobaleno
prometteva la fine di quel disastro. Elvi si spostò da un gruppo all’altro,
parlando e controllando. Alcuni erano coloni, altri erano gente della RCE, ma
tutti avevano la stessa espressione sconvolta, lo stesso senso di stupore per
essere ancora vivi. L’odore del fango si andava facendo più forte e pungente
a mano a mano che le strutture organiche presenti in esso, quali che fossero,
si decomponevano. Elvi detestava anche solo pensare a quanto il mondo
avrebbe puzzato quando la pioggia avrebbe smesso di cadere e il sole sarebbe
tornato a scaldare il terreno. Quello però era un problema per un altro
momento.
Non si accorse neppure di addormentarsi. Era alla finestra, a guardare fuori
nella speranza di veder tornare la squadra di ricerca. Ricordava chiaramente
di aver sentito alle proprie spalle la voce di Holden, e una donna che
rispondeva qualcosa. Era stata sua intenzione girarsi, trovarlo, chiedergli se
poteva essere d’aiuto, se poteva fare qualcosa per continuare a muoversi, per
impedirsi di pensare o di provare qualcosa per un’altra ora. Invece, si svegliò.
Per un momento, non comprese dove si trovasse. La sua mente ubriaca di
sfinimento cercò di trasformare quell’ambiente ristretto nella sua cabina, sulla
Israel, come se lei fosse stata ancora in viaggio verso Nuova Terra, come se
nulla di tutto quello fosse mai accaduto. Poi il presente tornò ad affiorare.
Era in un angolo di una piccola camera. Intorno a lei, altre otto persone
erano stese sul terreno umido, con la testa appoggiata sulle braccia. Qualcuno
russava e un corpo premeva contro il suo. Un lampo incerto si delineò in
lontananza, e lei vide che il corpo accanto al suo era Fayez. Il tuono giunse
molto tempo dopo, attutito, poi ci fu solo il tamburellare della pioggia. Toccò
la spalla di Fayez, svegliandolo con gentilezza.
Lui gemette e cambiò posizione, accompagnato dallo scricchiolare del
poncho che aveva ancora indosso. «Buon giorno, dottoressa Okoye» disse.
«Immaginavo che ti avrei trovata qui.»
«Lo è?»
«È cosa?»
«Un buon giorno?»
Lui sospirò nel buio. «Onestamente, non credo neppure che sia giorno.»
«Li avete trovati?»
«Non abbiamo trovato niente.»
«Mi dispiace.»
«Quello che intendo è che non abbiamo trovato proprio niente. Le capanne
sono scomparse, e anche First Landing. Perfino la miniera è sparita, oppure i
punti di riferimento sono così diversi che non siamo riusciti a trovarla. Le
strade non ci sono più.»
«Oh.»
«Hai presente quelle immagini di disastri naturali in cui si vedono soltanto
fango e macerie? Immaginale senza le macerie.»
Elvi tornò a sdraiarsi. «Mi dispiace.»
«Sarà un miracolo se perderemo soltanto loro. Siamo riusciti a mandare un
segnale alla Israel. I dati atmosferici lasciano pensare che rimarremo senza
un’alba per un tempo molto lungo. Nessuno ha pronunciato le parole ‘inverno
nucleare’, ma credo si possa dire in tutta sicurezza che le cose qui intorno non
saranno come al solito per parecchio tempo. Abbiamo l’energia delle batterie
che abbiamo portato con noi, ma niente serre idroponiche, e soltanto l’acqua
fresca che quel macchinario chimico è in grado di distillare. Speravo che
qualcuno dei magazzini potesse essere rimasto in piedi. Alcuni erano costruiti
piuttosto bene.»
«Comunque, da tutto questo potrebbe derivare qualcosa di buono.»
«Ammiro il tuo ottimismo psicotico.»
«Parlo sul serio. Voglio dire, guardaci. Sei andato là fuori con Amos, Wei e
i locali. Siamo qui tutti insieme, lavoriamo insieme, ci prendiamo cura gli uni
degli altri. Forse questo è ciò che ci vuole per risolvere tutta la violenza.
Prima c’erano tre fazioni, ora ce n’è una sola.»
Fayez sospirò. «È vero. Niente mette in evidenza le radici umane comuni
come un disastro naturale. O comunque un disastro. Se vuoi il mio parere, su
questa palla di fango di pianeta non c’è niente di anche remotamente
naturale.»
«Quindi questa è una cosa buona» commentò lei.
«Lo è» convenne Fayez. Poi aggiunse: «Le do cinque giorni di vita.»
31
Holden

Da bambino, Holden aveva visto le conseguenze di un tornado. I tornado


erano rari nelle pianure del Montana, dove era cresciuto, ma a volte
capitavano. Quando uno di essi si era abbattuto su un complesso commerciale
a qualche chilometro dalla fattoria della sua famiglia, i cittadini si erano
riuniti per aiutare nel lavoro di repulisti, e sua madre Tamara lo aveva portato
con sé.
Il tornado aveva colpito un mercato degli agricoltori nel centro del
complesso, evitando però completamente il negozio di mangimi e la stazione
di servizio accanto a esso. Il mercato era stato appiattito al suolo come da un
pugno gigantesco, con le pareti allargate intorno a esso sul terreno e i
contenuti sparsi in un cerchio enorme che si estendeva per centinaia di metri
intorno al punto di impatto. Quella era stata la prima volta che il giovane
James Holden si era trovato di fronte allo scatenarsi della furia della natura, e
in seguito per anni aveva avuto incubi in cui un tornado distruggeva la sua
casa.
Questo era peggio.
Con la pioggia costante che gli scorreva lungo il poncho, Holden era fermo
in quello che il suo terminale palmare gli diceva essere stato il centro di First
Landing e stava girando lentamente in cerchio. Tutt’intorno non c’era niente
tranne uno spesso strato di fango a tratti solcato da rivoli d’acqua. Non
c’erano edifici appiattiti, e neppure macerie sparse sul terreno. Considerate la
furia e la durata del vento, era del tutto possibile che i detriti di First Landing
si trovassero a centinaia, o perfino migliaia, chilometri di distanza. I coloni
non avrebbero mai ricostruito, perché non c’era niente da ricostruire.
Un fremito di luce danzò in mezzo alla pesante coltre di nuvole sovrastante,
e un secondo più tardi ci fu lo scoppio del tuono, simile a una scarica di
cannonate. La pioggia si intensificò, riducendo la visibilità a poche dozzine di
metri e gonfiando i ruscelletti che scavavano canali lungo il terreno fangoso.
«Direi ‘che casino’ se non fosse che in realtà è esattamente l’opposto»
commentò Amos. «Non avevo mai visto niente di simile, capitano.»
«E se succedesse di nuovo?» chiese Holden, rabbrividendo, forse per quel
pensiero o per l’acqua gelida che gli colava lungo la schiena.
«Qualsiasi cosa abbiano fatto saltare in aria, credi che ne abbiano un altro?»
«Qualcuno ha scoperto cosa fosse il primo?»
«No» ammise Amos, con un sospiro. «Forse era un grosso reattore a
fusione. Alex ha mandato un aggiornamento, dicendo che l’esplosione
iniziale ha liberato una quantità di radiazioni.»
«Parte delle quali ricadrà a terra con la pioggia.»
«Parte, sì.»
Il fango vicino ai piedi di Amos si mosse e una piccola creatura simile a
una lumaca emerse dal terreno, sforzandosi disperatamente di tenere la testa
fuori dall’acqua. Distrattamente, Amos la scagliò con un calcio dentro uno
dei vicini ruscelli, dove la corrente la trascinò via.
«I miei medicinali contro il tumore cominciano a esaurirsi» disse Holden.
«E una pioggia radioattiva non ti sarà d’aiuto.»
«Proprio quello che pensavo. È dannosa anche per i coloni.»
«Abbiamo un piano?» chiese Amos. Il suo tono suggeriva che non si
aspettava una risposta.
«Battercela da questo infernale pianeta prima della prossima catastrofe.»
«Amen, dannazione» commentò Amos.
Tornarono verso le torri aliene, camminando a fatica in mezzo allo spesso
strato di fango e trovandosi a volte costretti a superare con un salto un canale
di nuova formazione pieno di acqua che scorreva rapida. Il suolo era coperto
di piccoli buchi laddove vermi-lumache dai colori vivaci erano affiorati in
superficie, e minuscole scie di bava si allontanavano in tutte le direzioni, a
riprova del loro recente passaggio.
«Non le avevo mai viste prima» osservò Amos, indicando un’altra di quelle
creature che strisciava lenta sul terreno bagnato. Quelle cose non erano molto
più grandi del pollice di Holden, ed erano prive di occhi.
«Sono state costrette ad affiorare dalla pioggia. Prima questa era una terra
decisamente arida. Scommetto che c’è una quantità di forme di vita
sotterranee che stanno annegando. Almeno queste creature hanno un modo di
tirarsene fuori.»
«Già» commentò Amos, fissando con aria accigliata una di quelle
pseudolumache. «Però sono disgustose. Se una di quelle cose dovesse
strisciare nel mio sacco a pelo ne sarei davvero scocciato.»
«Bambinone.»
Quasi in risposta alle preoccupazioni di Amos, il terreno si smosse e
affiorarono altre decine di lumache. Arricciando il naso per il disgusto, Amos
passò in mezzo a loro, cercando di evitare che gli lasciassero la bava sugli
stivali. Le scie che le creature lasciavano venivano prontamente lavate via
dalla pioggia.
Il terminale palmare di Holden prese a vibrare e nel tirarlo fuori lui trovò un
messaggio appena scaricato. Erano ore che il terminale cercava di mettersi in
collegamento con la Roci. Finalmente doveva esserci stata una pausa della
tempesta abbastanza lunga da permettere di mandare e ricevere
aggiornamenti.
Cercò di aprire un canale di comunicazione con Alex, ma ottenne soltanto
statica. Il varco si era già richiuso, e lui lo aveva mancato. In ogni caso, il
fatto che ci fossero occasionali aperture nelle interferenze atmosferiche era un
segno che faceva sperare di poter presto ripristinare le comunicazioni. Nel
frattempo poteva continuare a mandare messaggi e sperare che, un po’ per
volta, riuscissero ad attraversare la barriera di statica.
L’aggiornamento in attesa era un messaggio vocale, quindi si infilò
l’auricolare nell’orecchio e avviò la registrazione.
‘Questo è un messaggio per il capitano James Holden da parte di Arturo
Ramsey, capo consulente legale della Royal Charter Energy.’
Holden aveva mandato dozzine di richieste agli svariati vicepresidenti e
membri del consiglio della RCE per chiedere che Naomi fosse rilasciata.
Ricevere una risposta dal principale avvocato della società non era un buon
segno.
‘Capitano Holden,’ proseguiva il messaggio ‘la Royal Charter Energy sta
considerando con la massima serietà la sua richiesta che Naomi Nagata sia
rilasciata dalla sua attuale detenzione sulla Edward Israel. Tuttavia, il
panorama legale in cui ci troviamo a navigare in questa situazione è
quantomeno torbido.’
«Non è torbido, ridatemi il mio primo ufficiale, razza di compiaciuti
bastardi» borbottò irosamente Holden. Poi scosse il capo in risposta
all’occhiata interrogativa di Amos e continuò ad ascoltare la registrazione.
‘Temo che in attesa di ulteriori indagini dovremo attenerci al suggerimento
della squadra di sicurezza presente in loco e trattenere Naomi Nagata in
custodia preventiva. Spero comprenda la natura delicata...’ Holden spense la
registrazione con aria disgustata. Amos inarcò un sopracciglio.
«È il cervellone legale della RCE che mi dice che intendono trattenere
Naomi ‘per attenersi al suggerimento della squadra di sicurezza presente in
loco’» spiegò.
«Murtry» grugnì Amos.
«Chi altri?»
«Mi chiedo perché non mi hai lasciato mano libera in questa faccenda,
capitano» osservò Amos.
«Perché prima di questo,» rispose Holden, accennando con una mano al
fango, alla pioggia e ai vermi sparsi intorno a loro «loro avevano da svolgere
un lavoro che non sarebbe stato reso più facile dall’uccidere il capo della
sicurezza della RCE.»
«Però mi sarebbe piaciuto provarci. Sai, giusto per vedere cosa succedeva.»
«Ebbene, amico mio, potresti ancora avere la tua occasione,» ribatté Holden
«perché sto per ordinargli di fare qualcosa che non vorrà assolutamente fare.»
«Oh, bene!» commentò Amos, con un sorriso.
Quando tornarono alle rovine trovarono il campo nel caos, con la gente che
spazzava freneticamente qualcosa fuori della torre usando coperte, bastoni e
ogni altra sorta di attrezzi improvvisati. Un urlo permeato di angoscia
echeggiava per la struttura, come se qualcuno fosse stato preda di un dolore
intollerabile.
La dottoressa Okoye li vide dalla soglia della torre e corse loro incontro.
«Capitano, abbiamo un grave problema» cominciò. Prima che lui potesse
replicare, scagliò con un calcio uno dei vermi lontano dai suoi piedi gridando:
«Attento!»
Da quando si conoscevano, Holden l’aveva vista catturare e sacrificare una
quantità di esemplari della fauna locale, e non gli era mai parso che fosse un
tipo schizzinoso. Non riusciva a immaginare che qualche viscido analogo a
una lumaca potesse farle perdere il controllo.
«Cosa succede?» chiese, quando lei ebbe finito di allontanare da lui le
lumache a calci.
«Un uomo è morto» spiegò lei. «Quello sposato con l’uomo e la donna che
si sono occupati di gestire i carrelli. Quello alto. Credo che la moglie si
chiami Beth. È lei quella che sta piangendo, dentro.»
«E in che modo questo si correla ai vermi?»
«La bava che secernono è una neurotossina» spiegò Elvi, con gli occhi
sgranati. «Lui l’ha toccata e la paralisi è stata quasi istantanea. Totale
insufficienza respiratoria. Uno dei vermi stava strisciando su per il muro
vicino a dove dormivano, e lui lo ha afferrato per scagliarlo fuori. Quando ci
siamo resi conto di cosa succedeva era già morto.»
«Gesù» mormorò Amos, fissando con un misto di rispetto e di disgusto i
vermi che li circondavano.
«Si tratta di un tipo di tossina difensiva?» chiese Holden.
«Non lo so» replicò Elvi. «Potrebbe essere soltanto muco inteso ad aiutarli
nella locomozione, come per le lumache terrestri, e può darsi che non sia
tossico per le altre forme di vita di Nuova Terra. Non li abbiamo mai visti
prima, come possiamo sapere qualcosa? Se avessi il mio equipaggiamento
per la raccolta di campioni potrei mandare i dati su Luna, sempre che possa
mandare messaggi fino a Luna, ma...»
Mentre Elvi parlava la sua voce andò salendo di tono, e quando si
interruppe era quasi in lacrime. «Ha ragione,» ammise Holden «era una
domanda stupida, e comunque la cosa non ha importanza.»
«Perché non ha...» cominciò Elvi, ma Holden la oltrepassò.
«Dov’è Murtry?» chiese lui.
«Dentro, a organizzare la gente in modo da trovare e rimuovere tutte le
lumache dalla struttura.»
«Vieni, Amos» disse Holden. «Andiamo a cambiare le sue priorità.»
Dentro, la paura era così intensa da avere quasi un odore. Metà dei coloni
sedeva per terra con le mani avvolte nelle coperte e un’espressione vacua sul
volto. La mente umana poteva resistere alle minacce solo fino a un certo
punto. Ogni individuo aveva un limite di tolleranza diverso, e Holden non se
la sentiva di biasimare le persone che erano crollate nell’arco delle ultime
trenta ore. In realtà era incredibile che non avessero ceduto tutti quanti.
Non lo sorprese però di trovare la moglie e il figlio di Basia che lavoravano
attivamente insieme alla squadra scientifica dei chimici.
«Dottoressa Merton» la salutò con un sorriso di scusa.
«Capitano» rispose lei. Il suo sorriso fu molto lieve e stanco. In qualità di
unico dottore della colonia aveva avuto una giornata molto lunga.
«Ho saputo del decesso» cominciò Holden, ma lei lo interruppe con un
secco cenno del capo e un gesto in direzione dell’apparecchiatura per le
analisi chimiche.
«Stiamo analizzando la tossina proprio ora» disse. «È improbabile che si
riesca a creare un antidoto con gli strumenti a disposizione, ma intendiamo
provarci.»
«Apprezzo i vostri sforzi, ma spero di renderli non necessari» replicò
Holden.
«Saremo costretti ad andarcene?» chiese lei, mentre un’espressione di triste
rassegnazione rimpiazzava il suo pallido sorriso. «Dopo tutto questo...»
«Forse non per sempre» disse Holden, posandole una mano sulle spalle. Era
estremamente esile al tatto.
Lei annuì lentamente, guardando le persone sporche e spaventate che
riempivano la stanza. «Non posso obiettare. Non resta niente per cui
combattere.»
Oh, pensò Holden, alcune persone riescono sempre a trovare un motivo per
combattere, e a questo proposito... «Ho bisogno di trovare Murtry.»
Lucia indicò un’apertura alle sue spalle, e Holden la lasciò dopo averle
stretto un’ultima volta la spalla e rivolto un sorriso che sperava fosse
incoraggiante.
Nella stanza accanto Murtry era accoccolato a fissare qualcosa sul
pavimento. Wei era in piedi accanto a lui, con il naso arricciato per il disgusto
e il fucile in mano.
«Wei» salutò Amos, con un cenno del capo.
«Amos» rispose con un sorriso l’agente della sicurezza.
Holden si chiese cosa stesse succedendo fra loro. Non era possibile che
avessero una storia, giusto? Quando potevano aver trovato il tempo per una
cosa del genere? Però si comportavano decisamente come se condividessero
qualcosa di divertente nato solo per loro.
«Capitano Holden» salutò Murtry, rialzandosi e non lasciandogli altro
tempo per pensare a un possibile flirt fra Amos e Wei. Sul pavimento, dietro
il capo della sicurezza della RCE, c’era una ciotola di plastica trasparente
rovesciata sopra una delle lumache. La creatura stava sondando il perimetro
della sua prigione con il muso appuntito e privo di occhi.
«Si è fatto un amico» commentò Holden, indicando la lumaca.
«Si dice che sia una buona idea conoscere il proprio nemico» ribatté
Murtry.
«Si dicono un sacco di cose.»
«Sì. Com’è andata la ricognizione?»
«Più o meno come ci si aspettava» replicò Holden. «I rapporti iniziali erano
esatti. Non rimane in piedi una sola costruzione, e non ci sono neppure i resti
anche solo di una di esse. Tutte le provviste della colonia sono andate
perdute. Possiamo ricavare acqua potabile dall’acqua di superficie finché il
laboratorio chimico non esaurisce i materiali, ma la pioggia che cade dal cielo
contiene materiale radioattivo e probabilmente anche cose viventi.»
«D’accordo» annuì Murtry, grattandosi un orecchio con una spessa unghia.
«Possiamo convenire sul fatto che al momento la colonia insorta potrebbe
non essere in condizione di sopravvivere?»
«Non è necessario che si mostri contento della cosa.»
«Mi farò mandare soccorsi non appena le comunicazioni torneranno
possibili. La RCE è lieta di condividere con i profughi le provviste di cui
hanno bisogno.»
«Molto magnanimo» commentò Holden. «Però la RCE farà a me un favore
più grande.»
«Oh?» Sul volto di Murtry affiorò un sorriso. «Davvero?»
«Sì. Proceda pure e faccia venire a terra la navetta con le provviste.
L’evacuazione richiederà del tempo, e nel frattempo avremo cibo, medicinali
e ripari sufficienti a mantenere queste persone in salute finché non potranno
lasciare il pianeta.»
«Lasciare il pianeta? Sembra che sia lei a fare un favore a noi, capitano.»
«Non ho finito» continuò Holden, e avanzò di un passo, invadendo
deliberatamente lo spazio personale di Murtry. Lui si irrigidì ma non accennò
a indietreggiare. «Quando partirà, la navetta porterà con sé alcuni coloni,
prima i malati e quelli più vulnerabili, e non appena la sua gente l’avrà
disarmata, anche la seconda navetta comincerà a fare la spola. Intendo
impartire gli stessi ordini alla Barbapiccola e alla Rocinante. Lasceremo
questo pianeta, e se non riuscirò a caricare tutti sulla Roci e sulla
Barbapiccola, allora la Edward Israel prenderà a bordo il resto.»
Il sorriso di Murtry si fece freddo. «Le cose stanno così?»
«Sì.»
«Non riesco a capire perché la nave che ha portato qui i coloni abusivi non
possa anche riportarli indietro» obiettò Murtry.
«Tanto per cominciare, non c’è più lo spazio necessario» cominciò Holden.
«Allora dovrebbero scaricare il minerale che hanno rubato da questo
pianeta» ribatté Murtry.
«E in secondo luogo,» proseguì Holden, come se lui non avesse parlato «la
nave ha quasi esaurito le scorte di provviste. Non ammasserò centinaia di
persone su una nave che potrebbe non farcela a tornare fino a Medina. Dubito
che rientri nella politica della RCE ignorare una crisi umanitaria. E anche se lo
fosse, di certo sarebbe una pubblicità terribilmente negativa con la stampa.»
Murtry avanzò a sua volta di un passo verso Holden, incrociando le braccia
mentre il suo sorriso si trasformava in un cipiglio altrettanto privo di
significato.
Il piano B è che ti faccio ammazzare adesso da Amos e prendo quello che
voglio quando la navetta atterra, pensò Holden, ma si sforzò di non lasciar
trasparire quei pensieri dalla propria espressione.
Quasi li avesse percepiti lo stesso, Amos si spostò in avanti e posò la mano
sul calcio della pistola. Wei si mosse verso la sua destra, sempre stringendo il
fucile.
Ci manca un pelo che tutto quanto vada definitivamente a rotoli, pensò
Holden. Ormai però non poteva tirarsi indietro, non quando dall’esito di quel
confronto dipendeva la vita o la morte di un paio di centinaia di persone. Wei
si schiarì la gola e Amos le sorrise. Murtry inclinò la testa da un lato e la sua
espressione si fece ancor più aggrondata.
Ci siamo, pensò Holden, e represse l’impulso di inghiottire la saliva che gli
aveva improvvisamente riempito la bocca.
«Ovviamente,» dichiarò Murtry «saremo lieti di assistervi.»
«Uh» replicò Holden.
«Ha ragione, non possiamo lasciarli qui,» proseguì Murtry «e per loro non
c’è spazio da nessun’altra parte. Avvertirò la Israel che prenderemo a bordo
dei passeggeri non appena le comunicazioni saranno ripristinate.»
«Davvero splendido» commentò Holden. «Grazie.»
«Dottoressa Okoye» disse Murtry. Nel girarsi, Holden scoprì che la minuta
scienziata era entrata nella stanza e aveva sul volto il consueto sorriso
esitante.
«Mi dispiace interrompervi, ma abbiamo rimesso in funzione la radio»
annunciò. «Attualmente siamo in contatto con la Israel. Lei aveva detto di
avvertirla non appena fossimo riusciti a riattivare la comunicazione.»
«Grazie.» Murtry si avviò per seguirla fuori della stanza, ma poi si fermò
come se gli fosse venuto in mente qualcosa e si girò verso Holden. «Sa,
siamo in questa situazione soltanto perché queste persone sono venute qui e
hanno costruito una baraccopoli. Noi avremmo portato con noi strutture
molto migliori usando la navetta pesante. Si sarebbe potuto evitare molto di
tutto questo.»
Holden accennò a ribattere, ma Elvi lo prevenne. «Oh, no. Anche a me
dispiace per la perdita della cupola e delle strutture permanenti, ma abbiamo
registrato là fuori folate di vento da trecentosettanta chilometri all’ora. Niente
di quanto avessimo potuto installare avrebbe resistito a una cosa del genere.»
«Grazie per la correzione, dottoressa Okoye» ribatté Murtry, con un sorriso
teso. «Vogliamo andare a chiamare la nave?»
Elvi assunse un’espressione perplessa mentre lui usciva dalla stanza. «Ce
l’ha con me?»
«Dolcezza,» dichiarò Amos, battendole una pacca sulla spalla «questo
significa soltanto che non sei un’idiota.»
32
Havelock

Dopo aver perso il contatto radio con Murtry, Havelock aveva tentato di
dormire. Avrebbe dovuto dormire, considerato che non c’era niente che
potesse fare, non ancora, comunque. Non fino a quando non fosse finito tutto.
Fluttuando nel sedile a smorzamento, con le cinghie che lo tenevano centrato
sullo strato di gel, aveva imposto alla sua consapevolezza di rilassarsi, ma la
sua mente si era rifiutata di riposare. Erano ancora vivi, laggiù? E se quella
fosse stata solo la prima di parecchie esplosioni? E se il pianeta fosse
detonato, distruggendo anche la Israel? Avrebbe dovuto ordinare a Marwick
di spostare la nave in un’orbita più alta? O addirittura di allontanarla dal
pianeta? E se la Barbapiccola avesse tentato di fare lo stesso... che sarebbe
successo? Non era previsto che permettesse loro di lasciare l’orbita con un
pieno carico di litio che apparteneva alla RCE.
Chiuse di nuovo gli occhi, ma si riaprirono non appena smise
coscientemente di imporre loro di restare chiusi. Dopo tre ore si arrese,
slacciò le cinghie e andò nella palestra. I suoi muscoli atrofizzati dall’assenza
di gravità si lamentarono per ogni set di esercizi, mentre guardava sullo
schermo le immagini del pianeta sotto di loro. I contorni di Nuova Terra
erano scomparsi e tutto il pianeta era avvolto da un piatto grigiore uniforme,
con le nuvole che nascondevano la violenza che imperversava sotto di esse.
Dopo il ciclo di esercizi si lavò, indossò un’uniforme pulita e andò in ufficio.
La casella dei messaggi in arrivo era piena di richieste di commenti da parte
di ogni organizzazione mediatica esistente, oltre a parecchie altre che
dubitava esistessero davvero. Inoltrò tutti quei messaggi al quartier generale
della RCE su Luna. Che rispondessero loro, se volevano. A questo punto, ne
sapevano tanto quanto lui.
Verificò se ci fossero comunicazioni in arrivo dal pianeta, ma il segnale non
riusciva a passare. Controllò ancora. E ancora. Il pianeta grigio era silenzioso.
«Qualche notizia?» chiese la prigioniera.
«Niente» rispose Havelock. E un momento più tardi aggiunse: «Mi
dispiace.»
«Anche a me» replicò lei. «Se la caveranno.»
«Lo spero.»
«Lei sta bene?»
Havelock si girò a guardarla. Per essere una sabotatrice ormai in prigione
da giorni, appariva calma e quasi divertita. Si sorprese a ricambiare il suo
sorriso.
«Forse sono un po’ stressato» rispose.
«Già. Mi dispiace.»
«Non è colpa sua» replicò Havelock. «Non è lei a prendere le decisioni
qui.»
«C’è qualcuno che stia prendendo le decisioni qui?» chiese Naomi.
Sentendo un uomo schiarirsi la gola alle sue spalle, Havelock si girò sul
sedile con un sibilo delle sospensioni e guardò verso il portello. L’ingegnere
capo fluttuava sulla soglia, portando sulla manica dell’uniforme la fascia da
braccio della milizia.
«Salve, capo» disse, spingendosi nella stanza. «Mi chiedevo se potessimo
parlare, magari da soli.»
«Può attivare la schermatura per la privacy, se vuole» suggerì Naomi.
«Tanto sentirò lo stesso ogni parola.»
Havelock slacciò le cinghie e si spinse fuori dal sedile. «Torno subito»
disse da sopra la spalla.
«Mi troverà sempre a casa» ribatté Naomi.
Il bar della cambusa era in un momento di calma fra i diversi turni.
L’ingegnere capo prese un’ampolla di caffè per sé e un’altra per Havelock,
poi andarono a fluttuare accanto a un tavolo assicurato al pavimento. Forza
dell’abitudine.
«Abbiamo parlato fra di noi» esordì l’ingegnere capo Koenen.
«Dell’evento.»
«Sì. Anch’io non riesco praticamente a pensare ad altro.»
«Fino a che punto siamo sicuri che sia stato... ecco... naturale?»
«Direi che c’è il cento percento delle probabilità che non lo sia stato»
ribatté Havelock, con una cupa risata. L’espressione dell’ingegnere capo
parve indurirsi, quindi Havelock incalzò: «Forse però questo dipende da cosa
lei intende con ‘naturale’. Cos’è che la preoccupa?»
«Non vorrei sembrare paranoico, è solo che la tempistica mi sembra molto
comoda. Lei, io e i ragazzi becchiamo uno dei mediatori delle Nazioni Unite
con le mani nel sacco. Sbattiamo quella cagna in guardina, e poi questo
enorme disastro si scatena dal nulla, distogliendo da lei l’attenzione
generale.»
Havelock sorseggiò il caffè.
«Cosa sta pensando, capo? Che sia stato provocato?»
«Quegli abusivi sono arrivati qui prima di noi. Non sappiamo se hanno
trovato qualcosa di cui hanno evitato di parlarci. E Holden lavorava per l’APE.
Lavorava per quel fottuto Fred Johnson, giusto? Dannazione, secondo tutte le
fonti che ho sentito se la fa con quella ragazza cinturiana che abbiamo
catturato. La sua fedeltà non va alla Terra. Ed è stato lui che è andato su quel
dannato qualcosa alieno intorno a cui orbita la Stazione di Medina ed è
tornato indietro. Ho seguito alcuni notiziari indipendenti. Ha presente quei
marine marziani che sono entrati là dopo di lui? Da allora stanno succedendo
loro cose dannatamente strane.»
«Strane in che senso?»
Con un bagliore nello sguardo, l’ingegnere capo si chinò in avanti in una
posa di intimità e complicità che era un’abitudine indotta dalla forza di
gravità, e per la mezz’ora successiva sciorinò una mezza dozzina di eventi
strani. Uno dei marine, una donna, era morto di embolia durante
un’accelerazione a gravità elevata prima di poter parlare con suo cugino, che
gestiva un popolare notiziario. Un altro aveva abbandonato il servizio
militare e rifiutava di parlare di quello che era successo. C’erano voci di un
rapporto segreto che suggeriva – pesantemente – che James Holden fosse
stato ucciso sulla stazione e sostituito con un doppelgänger. Considerati tutti
gli altri cambiamenti che la protomolecola poteva apportare a un corpo
umano, era ragionevole pensare che non fosse difficile per essa ricrearne uno.
Quel rapporto però non era mai stato reso pubblico, e le persone che lo
avevano letto erano diventate oggetto di velate campagne mirate a screditarle.
Havelock bevve il suo caffè, ascoltando, annuendo e ponendo di tanto in
tanto qualche domanda, di solito per avere la fonte delle informazioni che
l’ingegnere capo gli stava riferendo. Quando ebbero finito, promise di
indagare al riguardo e tornò alla sua scrivania. Sullo schermo, il pianeta era
ancora coperto di nuvole.
«Va tutto bene?» chiese Naomi.
«Benissimo» garantì Havelock. Un momento più tardi aggiunse: «Solo
persone spaventate che cercano di trovare una versione degli eventi in cui
qualcuno abbia il controllo di tutto.»
Lei ridacchiò. «Sì, anch’io sto facendo lo stesso.»
«Anche lei? Come?»
«Mordendomi le unghie e pregando» rispose Naomi. «Soprattutto
pregando.»
«È religiosa?»
«No.»
«Lei e Holden siete segrete spie aliene che hanno fatto saltare il pianeta
come parte di una cospirazione cinturiana mirata a distrarre i media?»
Naomi scoppiò in una grossa risata. «Oh, era di questo che si trattava? Mi
dispiace proprio, no.»
Anche Havelock ridacchiò, sentendosi peraltro un po’ colpevole nel farlo.
Koenen era uno dei suoi uomini, Naomi Nagata era una sabotatrice e una
nemica. D’altronde, la cosa era un po’ buffa, e lui non aveva nessun altro con
cui parlare.
«Non è poi così male. Le teorie cospiratorie affiorano ogni volta che le
persone hanno la sensazione che l’universo sia troppo dominato dal caso. Che
sia assurdo. Se è tutto un complotto nemico, almeno c’è qualcuno che sta
controllando le cose.»
«I cinturiani.»
«Sì, questa volta.»
«Faranno irruzione qui dentro e mi butteranno fuori del portellone stagno?»
«No, non sono gente del genere» garantì Havelock. «Sono brave persone.»
«Brave persone convinte che io abbia distrutto un pianeta.»
«No, che il suo compagno, che è in realtà un doppelgänger alieno, lo abbia
fatto per impedire che le persone pensassero a lei. Non si preoccupi, non le
accadrà niente. Nessuno pensa davvero che sia in combutta con la
protomolecola. Sono soltanto spaventati.»
Naomi si fece silenziosa. Teneva la punta delle dita premuta contro la
gabbia e canticchiava fra sé una melodia che Havelock non conosceva.
Controllò di nuovo la casella dei messaggi in arrivo. C’era un’altra mezza
dozzina di richieste di commenti. Una nota di un membro della sicurezza per
segnalare che i cinturiani a bordo della Israel avevano cominciato a stare tutti
insieme al bar della cambusa e a esercitarsi insieme in palestra, cosa che
l’uomo che aveva inoltrato il rapporto trovava sospetta. Ad Havelock pareva
piuttosto una tattica difensiva. Avrebbe dovuto pensare a cosa fare al
riguardo, ammesso che fosse il caso di fare qualcosa. Il segnale radio
continuava a non riuscire a raggiungere il pianeta. L’analisi dei sensori IR,
che potevano trapassare la copertura delle nuvole, indicava che First Landing
era stato distrutto dalla tempesta. Havelock spostò la sua attenzione sul
pacchetto dati dei sensori che veniva trasmesso sulla Terra. Forse laggiù
qualcuno sarebbe riuscito a capirci qualcosa. Nei primi notiziari si
cominciava già ad avanzare la supposizione che potesse essersi trattato del
sovraccarico di un nucleo a fusione. Avendo appena sentito come Jim Holden
fosse in realtà un mutaforme alieno, Havelock era però un po’ scettico
riguardo a tutto.
Quando sei ore più tardi il suo terminale palmare si illuminò a causa di una
richiesta in arrivo da parte di Murtry, Havelock sentì un grosso peso
scivolargli via dalle spalle. Aprì la connessione e un’immagine di Murtry,
indistinta e a bassa risoluzione, apparve sullo schermo. L’immagine
continuava a saltare e a distorcersi, ma la qualità dell’audio era buona, a parte
qualche scarica di statica.
«Lieto di vederti, Havelock. Come va la situazione lassù?»
«Niente di cui lamentarsi, signore. Perlopiù abbiamo atteso di avere sue
notizie. Pare che laggiù sia in corso una dannata tempesta.»
«La perdita di vite è stata minima» disse Murtry. «Alcuni abusivi non si
sono presi la briga di mettersi al riparo in tempo, e la piena ha fatto affiorare
dal terreno alcune bestie locali che ti uccidono se le tocchi. Gli abusivi hanno
perso un altro uomo per questo. La nostra gente sta bene. Il campo è
perduto.»
«Il nostro o il loro?»
«Il nostro e il loro. Quaggiù dovranno tutti ripartire da zero.»
«Mi dispiace sentirlo.»
«Perché?»
Havelock sbatté le palpebre e fece un sorriso nervoso. «Perché abbiamo
appena perso tutto.»
«Non abbiamo perso tanto quanto loro, quindi per noi è una vittoria» ribatté
Murtry. «Dobbiamo caricare la navetta con provviste di primo soccorso e
farla scendere quaggiù. Cibo. Acqua pulita. Medicinali. Vestiti caldi. Niente
ripari, però, o al massimo quelle economiche strutture laminate che non
possono resistere per più di una settimana.»
«Ne è sicuro? Posso far mettere insieme alcuni prefabbricati di
emergenza...»
«No. Quaggiù non arriverà niente che somigli a un riparo permanente
finché la nostra gente non sarà la sola a utilizzarlo. E dovremo prendere a
bordo un po’ di quegli abusivi. Può cominciare a mettere insieme qualcosa
che possa ospitare un centinaio di persone? Non è necessario che sia comodo,
ma deve essere un ambiente che possiamo controllare.»
«Porteremo gli abusivi sulla Israel, signore?»
«Li rimuoveremo dal pianeta e li metteremo sotto il nostro controllo»
dichiarò Murtry, con un sorriso. «Sua santità, il papa Holden, pensa di avermi
imposto la cosa con la forza. Quell’uomo è furbo quanto un gatto morto.»
Havelock fu improvvisamente consapevole del fatto che lo schermo di
privacy di Naomi era abbassato e che lei stava sentendo ogni parola di quella
conversazione. Cercò di pensare a un modo che gli permettesse di attivarlo
senza far sapere a Murtry che fino a quel momento si era dimenticato del
protocollo.
«C’è qualche problema, Havelock?»
«Stavo solo pensando a dove li possiamo mettere, signore» rispose
Havelock. «Escogiteremo qualcosa.»
«Bravo. Questo è stato un colpo di fortuna. Se giochiamo bene queste carte
riusciremo a rimuovere tutti gli abusivi dal pianeta, e anche se non ce la
faremo, faranno una dannata difficoltà a sostenere di avere una colonia in
grado di sopravvivere.» Il sorriso di Murtry si era fatto sottile. «Nelle ultime
sessanta ore abbiamo probabilmente fatto più progressi nel risolvere questo
pasticcio di quanti ne avessimo fatti da quando siamo arrivati qui.»
Naomi batté molto piano con le nocche sulla grata della gabbia, che
ticchettò abbastanza sommessamente perché il suono non fosse registrato dal
microfono. Aveva le sopracciglia inarcate in un’espressione interrogativa, ma
non parlò. Havelock rispose con un cenno appena percettibile.
«Che fine ha fatto la squadra di mediazione?» chiese. «Holden e la sua
gente?»
«Holden e Burton stanno bene. Per poco Burton non ci ha rimesso il culo
durante la parte peggiore della tempesta, ma poi se l’è cavata» rispose
Murtry, con una scrollata di spalle e un sorriso. «Non si può avere tutto.»
Havelock sussultò, pensando a quanto dovessero apparire insensibili le
parole di Murtry a qualcuno che non lo conosceva. «Bene, li informi che
metteremo insieme provviste di primo soccorso e le manderemo laggiù non
appena riusciremo ad attraversare la copertura delle nuvole.»
«Niente strutture permanenti.»
«No, signore. Ho capito.»
«Inoltre, quando la navetta tornerà indietro voglio rispedire a bordo alcuni
dei membri della nostra squadra scientifica. Quelli che si stanno ambientando
un po’ troppo bene. Preparerò una lista di evacuazione.»
«Vuole che... ah... che prepari l’altra navetta perché possa tornare a
svolgere un servizio normale?» chiese Havelock, sperando che Murtry non
gli dicesse di mantenere armata la navetta.
Sulla connessione scese il silenzio. «Signore?»
«Sarà necessario farlo, giusto?» disse infine Murtry. «Sì, d’accordo, però si
tenga pronto a rimetterla in gioco non appena finito con l’evacuazione. Non
mi piace cedere i nostri vantaggi per niente.»
«No, signore» assentì Havelock. «Provvederò.»
«Bene.»
La connessione si interruppe. Havelock procedette a richiamare a schermo
il ruolino di servizio e le liste d’inventario. Passò quasi un minuto prima che
si arrischiasse a guardare verso Naomi. Dalla sua espressione pareva che lei
avesse appena mangiato qualcosa di sgradevole.
«Quella è la persona per cui lavora.»
«È il capo della sicurezza» disse Havelock.
«Quell’uomo è un serpente.»
«Si è solo espresso male» protestò Havelock. «Non sapeva che lei poteva
sentirlo.»
«Altrimenti avrebbe forse sibilato in maniera leggermente diversa» ribatté
lei. Un momento più tardi chiese: «Avete a bordo catalizzatori apoptosici
selettivi?»
«Oncocidi? Certo, i medicinali anti-tumorali sono una scorta standard.»
«Le dispiacerebbe mandarne giù un po’ con la navetta?»
«Credo che antibiotici e acqua pulita siano più...»
«Holden ne ha bisogno. Su Eros ha assorbito una grande quantità di
radiazioni. Non è un grosso problema quando abbiamo a disposizione i
medicinali, ma gli spunta un nuovo tumore ogni mese o due, e a meno che
Alex non decida di far scendere a terra la Roci attraverso quella zuppa, è
possibile che lui e Amos rimangano laggiù per un po’.»
Probabilmente avrebbe dovuto dire di no. Lei era una prigioniera, e farle
favori non era parte del suo lavoro. Però la donna non aveva fatto capire a
Murtry che era in ascolto. Avrebbe potuto metterlo in imbarazzo e non lo
aveva fatto.
«Certo, non vedo perché non dovrei» rispose Havelock.
«Riguardo a quella cosa del gatto morto...»
«Sì?»
«Negli ultimi anni sono molte le persone che hanno sottovalutato Jim»
disse Naomi. «Molte di loro non sono più fra noi.»
«È una minaccia?»
«È l’avvertimento di non fare lo stesso errore che sta facendo il suo capo.
Lei mi piace.»
Mettere insieme le provviste di primo soccorso fu semplice. A bordo tutti
stavano solo aspettando la possibilità di fare qualcosa. Cibo, acqua fresca,
coperte di polyfiber e medicinali – inclusa una scatola di oncocidi su cui era
scritto il nome di Holden – riempirono la stiva della navetta fino a lasciare a
stento lo spazio per chiudere il portello. Havelock si sorprese a tenere
d’occhio i sensori in attesa che le nuvole si assottigliassero abbastanza da
rendere visibile quell’unica, fievole luce di First Landing. Era uno shock
ricordare che quelle luci non avrebbero mai più brillato, che erano scomparse.
Havelock non era sceso laggiù, non era mai stato sulla superficie di Nuova
Terra, e tuttavia l’idea che l’unico insediamento umano del pianeta fosse stato
spazzato via lo disturbava.
«Navetta due chiede il permesso di scendere» disse il pilota, con voce lenta
dall’accento strascicato.
«Parla il capitano Marwick. Permesso accordato. Dio vi accompagni.»
Sul suo schermo, Havelock guardò i propulsori della navetta farsi luminosi,
spingendola lontano dalla Israel e verso il basso. Il pericolo era costituito
dalla turbolenza nella parte bassa dell’atmosfera. Nella parte alta l’aria era
talmente rarefatta che se pure ci fossero stati venti violenti la navetta sarebbe
riuscita a ignorarli. Havelock si disse che il vero pericolo sarebbe cominciato
quando avesse raggiunto la coltre di nuvole.
La navetta scese sempre di più, e il suo corpo divenne un punto più chiaro
sullo sfondo grigio scuro delle nubi. I dati che affluivano dai suoi sensori
parevano buoni. La turbolenza era peggiore di quanto Havelock si fosse
aspettato, ma non violenta quanto aveva temuto. Quanto più si fossero
abbassati di quota, però...
Il segnale di trasmissione dati si interruppe e Havelock attivò il video in
tempo per veder svanire il bagliore intenso proveniente dalla navetta. Uno
sbuffo di fumo, qualche chilometro più in alto, mostrava il punto in cui era
esplosa. Lo shock, l’orrore di quella vista fu come un pugno in pieno ventre.
Havelock quasi non notò il tremolare delle luci della Israel, o il suono
lamentoso e incerto dell’impianto di riciclaggio dell’aria che ripartiva.
«Havelock?» chiamò la prigioniera. «Havelock, cosa succede? Qualcosa è
andato storto? Perché tutti i sistemi si stanno riavviando?»
Lui la ignorò, protendendosi verso lo schermo del terminale. La navetta era
morta e stava precipitando verso il suolo lontano di Nuova Terra in centinaia
di pezzi fiammeggianti. Nelle immagini c’era però anche qualcos’altro, una
linea appena visibile che attraversava la nuvola di fumo e detriti nel punto in
cui la navetta era esplosa: qualcosa le aveva sparato. Il suo primo pensiero fu
che fosse stata la Barbapiccola, poi che si fosse trattato della Rocinante.
Attivò il sistema tracciante orbitale per cercare di scoprire in che modo le
navi nemiche fossero entrate in azione, ma la sola cosa che avesse intersecato
la linea nel momento in cui la navetta era esplosa era una della dozzina di
piccole lune di Nuova Terra...
Sentì la bocca che gli si inaridiva, mentre la sua mente registrava per la
prima volta il suono dell’allarme che, ora se ne rendeva conto, era entrato in
funzione già da qualche tempo. Da quando la navetta è esplosa, pensò.
Suppose. Naomi Nagata stava gridando per cercare di attirare la sua
attenzione e indurlo a parlarle. Inviò una richiesta di comunicazione
prioritaria al capitano Marwick. Per cinque lunghi secondi non ci fu risposta.
«È stato il pianeta» disse Havelock. «La navetta è stata colpita da qualcosa
che si trova su una di quelle lune.»
«L’ho visto» rispose Marwick.
«Cosa diavolo era? Un’arma aliena? L’esplosione sul pianeta ha attivato
una specie di griglia di difesa?»
«Non saprei dirlo.»
«Ho bisogno di tutto quello che abbiamo sull’accaduto. Tutti i dati dei
sensori. Ogni cosa. Devono essere mandati sulla Terra e ho bisogno che siano
messi a disposizione di Murtry e della squadra scientifica. Autorizzo
chiunque fra l’equipaggio a prenderne visione. Ricavare qualsiasi
informazione... qualsiasi cosa... è la nostra massima priorità.»
«Potrebbe non essere la massima priorità» ribatté il capitano. «Attualmente
sono piuttosto impegnato, ma non appena avrò un momento libero...»
«Questa non è una richiesta» gridò Havelock.
Quando Marwick riprese a parlare, il suo tono era freddo. «Signore, penso
non si sia ancora accorto che stiamo operando con le batterie di emergenza?»
«Stiamo... stiamo cosa?»
«Operando con le batterie di emergenza. Con l’energia di riserva, si
potrebbe dire.»
Havelock si guardò intorno nel suo ufficio, e fu come vederlo per la prima
volta. La scrivania, l’armadietto delle armi, le celle. Naomi che lo fissava con
un’espressione di allarme a stento contenuta.
«Hanno... hanno sparato anche a noi?»
«Non che io possa vedere. Di certo non ci sono nuovi fori nello scafo.»
«Allora cosa sta succedendo?»
«Il reattore si è spento» rispose Marwick. «E pare non intenda riavviarsi.»
33
Basia

«Che cosa significa?» chiese Basia.


«Ecco, è complicato,» rispose Alex «ma questi piccoli pellet di carburante
vengono iniettati in una bottiglia magnetica dove si aziona una serie di laser.
Questo fa fondere gli atomi del carburante e libera un sacco di energia.»
«Mi prendi in giro?»
«No» garantì Alex. «Ecco, forse un poco. Cosa vuoi sapere, esattamente?»
«Il fatto che il reattore sia inattivo significa che ci schianteremo? La nave si
è guastata? Siamo soltanto noi ad avere un problema? Cosa significa?»
«Frena un attimo» disse Alex, che era sul sedile di pilotaggio impegnato a
fare cose complicate con il pannello di controllo. «Sì» annunciò infine,
trasformando quella parola in un lungo sospiro. «Il reattore è inattivo anche
sulla Barbapiccola e sulla Israel. Per loro la cosa è molto peggiore di quanto
lo sia per noi.»
«Felcia... mia figlia è sulla Barbapiccola. È in pericolo?»
Alex prese di nuovo a lavorare al pannello, con le dita che inserivano
comandi troppo in fretta perché Basia potesse seguirne i movimenti. Mentre
lavorava, faceva schioccare la lingua, e quel suono che si ripeteva mentre lui
aspettava una risposta fece venire voglia a Basia di urlare e di strangolare il
laconico pilota.
«Ecco...» dichiarò infine Alex, con voce strascicata, mentre premeva un
ultimo comando e faceva apparire un’immagine grafica di Ilus circondato da
linee vorticanti. «Sì, l’orbita della Barb sta decadendo...»
«La nave sta per schiantarsi?» urlò Basia.
«Non parlerei di schiantarsi, ma ci siamo tenuti tutti piuttosto bassi, con la
faccenda del minerale da caricare e tutto il resto. Il più delle volte basta
aggiungere un po’ di velocità, ma...»
«Dobbiamo andare a prenderla!»
«Calmati! Lasciami finire!» gridò di rimando Alex, agitando le mani in un
gesto inteso a calmarlo che destò in Basia il desiderio di prenderlo a pugni in
faccia. «L’orbita decade sempre, ma passeranno giorni prima che la cosa si
faccia pericolosa. Forse ci vorrà anche di più, a seconda di quanto a lungo
possono azionare i propulsori di manovra con le batterie di emergenza. Al
momento Felcia non è in pericolo.»
«Andiamo a prenderla» disse Basia, traendo profondi respiri per mantenere
la voce calma e controllata. «Possiamo farlo? Possiamo raggiungere la sua
nave senza il reattore?»
«Certo. La Roci è una nave da guerra, le sue batterie di riserva sono potenti.
Se necessario, possiamo eseguire un bel po’ di manovre, ma con il reattore
fuori uso ogni grammo di energia che attingeremo da quelle batterie non sarà
rimpiazzabile. Se ne perderemo tanta da non poter atterrare, ci verremo a
trovare nella loro stessa situazione. Non faremo nulla finché non avremo un
piano, quindi calmati, se non vuoi che ti rinchiuda nella tua cabina.»
Basia annuì, ma non si fidò di parlare a causa del panico crescente che gli
serrava il petto. Sua figlia era su un’astronave che stava cadendo dal cielo.
Forse non si sarebbe calmato mai più.
«In aggiunta a tutto questo,» continuò Alex «pensi che tutti gli altri sulla
Barb saranno contenti se ce ne andremo senza di loro? E non abbiamo posto
per tutta la gente che c’è su quella nave. Attraccare a una nave piena di gente
spaventata che cerca di scenderne non è mai un piano A.»
Basia annuì di nuovo. «Ma se non elaboriamo un piano...» disse.
Il sorriso di Alex svanì. «Andremo a prendere la tua ragazza. Se si arriverà
a questo, se cadremo dal cielo, tua figlia sarà su questa nave quando
succederà. E anche Naomi.»
Il panico e l’ira di Basia furono sostituiti da un senso di vergogna e da un
improvviso nodo alla gola. «Grazie.»
«Si tratta della famiglia» rispose Alex, con un sorriso che fu quasi solo uno
snudare i denti. «Non veniamo meno alla nostra famiglia.»
Basia fluttuava per la Rocinante come uno spettro.
Alex era nella sezione ingegneria, ad armeggiare con il reattore per cercare
di capire cosa ne stesse causando il guasto. Basia si era offerto di aiutarlo, ma
Alex aveva rifiutato, e lui non poteva certo biasimarlo. La sua ignoranza in
fatto di ingegneria nucleare e di sistemi di bordo era assoluta e totale.
Dubitava che il guasto al generatore potesse essere riparato con una saldatura
eseguita a regola d’arte.
Se poi fosse risultato che si sbagliava, Alex lo avrebbe chiamato.
Nel frattempo, Basia vagava per la nave per cercare di distrarsi dall’idea
che stava lentamente fluttuando verso il pianeta e una morte in mezzo alle
fiamme. Che la stessa cosa stava accadendo anche a Felcia. Andò nella
cambusa e si preparò un panino che non mangiò. Andò nel bagno e si lavò
con spugne umide e sapone in crema. Uscì di lì con qualche ustione da attrito
e le stesse preoccupazioni con cui era entrato.
Per la prima volta da quando era giunto sulla Rocinante si sentiva davvero
un prigioniero.
Alex aveva lasciato il pannello sul ponte operativo regolato in modo da
monitorare le altre due navi, quindi Basia poteva controllare la Barbapiccola
tutte le volte che voleva. Il pilota pareva pensare che l’immagine a schermo
che indicava che mancassero centinaia di ore prima che l’orbita della Barb
decadesse abbastanza da far sì che la cosa diventasse pericolosa potesse farlo
sentire meglio, ma Alex non capiva. Non importava quanto fosse lungo quel
numero, quello che contava era che si trattava di un conto alla rovescia. Ogni
volta che lo guardava, quel numero era più piccolo di quanto lo fosse stato la
volta precedente. E nel guardare il conto alla rovescia che riguardava la morte
della sua bambina i numeri erano quasi privi di significato.
Evitava di guardarli.
Tornò nella cambusa e ripulì il pasticcio che aveva creato nel prepararsi il
panino. Gettò nel bidone le spugne e gli asciugamani che aveva usato e avviò
un ciclo di lavaggio per pulirli. Guardò un cartone animato per bambini, poi
uno dei film noir di Alex, ma in seguito non riuscì a ricordare niente di
nessuno dei due. Scrisse una lettera a Jacek, poi la cancellò. Registrò un
video per Lucia in cui si scusava. Quando lo riguardò, constatò di avere
l’aspetto di un pazzo, con i capelli arruffati che gli sporgevano dalla testa e
occhi tormentati e infossati. Cancellò anche quello.
Tornò alla postazione operativa, dicendosi che avrebbe soltanto controllato
che non ci fossero stati cambiamenti, che l’inesorabile ticchettare
dell’orologio di morte di sua figlia fosse solo un dato da monitorare. Guardò
la piccola icona che rappresentava la Barbapiccola descrivere il suo sentiero
luminoso intorno a Ilus, con ogni passaggio che la portava in maniera
impercettibile più vicina all’atmosfera che l’avrebbe distrutta.
Solo dati. Nessun cambiamento. Solo dati. Tick tick tick.
«Alex, parla Holden» annunciò una voce squillante che veniva dal pannello
delle comunicazioni. Basia fluttuò verso di esso e attivò il microfono.
«Salve, parla Basia Merton» rispose, sorpreso da quanto suonasse calma la
sua voce. Holden stava chiamando. Lui lavorava per i governi della Terra e
per l’APE. Avrebbe saputo cosa fare.
«Uh, salve. Alex mi ha lasciato un messaggio, ma le comunicazioni sono
state molto saltuarie. Lui... è lì in giro?»
Nonostante tutto, Basia rise.
«Probabilmente posso trovarlo.»
«Grandioso, allora...»
«Ehi, capitano» disse Alex, che pareva avere il fiato corto. «Mi dispiace, mi
ci è voluto un momento per arrivare al pannello, ero dentro fino ai gomiti
nelle viscere della Roci quando hai chiamato.»
Basia allungò la mano per spegnere il suo altoparlante e lasciarli parlare in
privato, ma si fermò con il dito a un millimetro dal comando. Quello in linea
era James Holden. Probabilmente avrebbe parlato con Alex della
disattivazione del reattore. Sentendosi un po’ una sorta di guardone, lasciò
aperta la comunicazione.
«C’è un problema?» chiese Holden.
«Sì, il processo di fusione non funziona più» rispose Alex, esagerando il
proprio accento strascicato.
«Se questa è una battuta, non la capisco.»
«Non era una battuta. Ho appena smontato il reattore. L’iniettore funziona, i
pellet di carburante scorrono giù, la batteria di laser si attiva, la bottiglia
magnetica è stabile. Tutte le parti che ne fanno un reattore a fusione
funzionano benissimo... però senza la fusione.»
«Dannazione» imprecò Holden. Perfino Basia, che lo aveva conosciuto solo
per poco, poté avvertire la frustrazione nella sua voce. «Succede solo a noi?»
«No» replicò Alex. «Quassù stiamo volando tutti con l’energia delle
batterie.»
«Quanto avete?»
«Ecco, anche con le sole batterie posso portare la Roci abbastanza in alto da
far sì che moriamo tutti di vecchiaia prima che cada, oppure posso scendere
fino al pianeta e parcheggiare. La Israel ha circa dieci giorni, a seconda di
quanta energia possa immagazzinare. Però ha anche a bordo una tonnellata di
persone che consumano aria, quindi consumerà le batterie anche solo per
tenere tutti caldi e permettere loro di respirare. La Barb è in condizioni
peggiori. Stesso problema, nave meno efficiente.»
Basia sentì lo stomaco che gli si contraeva per quella noncurante
descrizione del pericolo che correva sua figlia, ma rimase in silenzio.
«Il nostro spettrale amico sostiene che si tratta di una griglia di difesa»
disse Holden. «La loro stazione di alimentazione è esplosa, quindi le vecchie
difese sono entrate in funzione.»
«Pare non amino avere grosse fonti di energia vicino alla loro roba» replicò
Alex. Basia ebbe la sensazione che stessero parlando di qualcosa che si
riferiva al loro passato, ma non capì di cosa si trattasse.
«E abbiamo saputo che la navetta con le provviste è stata fatta esplodere»
aggiunse Holden. «Quindi, abbiamo qualche centinaio di persone quaggiù, un
altro mucchio lassù, e stiamo per morire tutti perché le difese del pianeta non
ci permettono di aiutarci a vicenda.»
«Se avete bisogno di noi, la Roci ha energia sufficiente per atterrare» offrì
Alex. ‘Non possiamo atterrare, mia figlia è ancora lassù!’ avrebbe voluto
gridargli Basia.
«Hanno sparato alla navetta» ribatté Holden. «Non intendo rischiare la mia
nave.»
«Se non possiamo farvi avere delle provviste, Naomi e io la erediteremo
piuttosto presto.»
«Fino a quando non accadrà, vi dirò io cosa fare» ribatté Holden. Le parole
erano aspre, ma da esse traspariva dell’affetto.
«Ricevuto» rispose Alex, che non pareva per nulla offeso.
«Sai,» riprese Holden «abbiamo quello che sembra un problema di
ingegneria, e il miglior ingegnere di questo sistema solare è rinchiuso su
quell’altra nave. Perché non li chiami e glielo fai notare?»
«Lo farò» replicò Alex.
«Io vedrò se posso fare qualcosa da qui.»
«Miller» disse Alex. Basia non riuscì a capire cosa significasse.
«Già» confermò Holden.
«Abbi cura di te stesso, laggiù.»
«Affermativo. E tu abbi cura della mia nave. Chiudo.»
«Sentite,» disse Alex, quasi gridando «ho fatto tutti i dannati conti. State
andando giù. Potranno volerci due settimane, se siete fortunati, ma quella
nave finirà nell’atmosfera e prenderà fuoco.»
«L’avevo già sentita la prima volta» ribatté la faccia dall’altra parte della
comunicazione. Un uomo di nome Havelock. Alex lo aveva chiamato dopo la
sua conversazione con Holden. Nel risalire dalla sezione ingegneria si era
fermato per indossare un’uniforme pulita e pettinarsi i radi capelli neri.
Adesso aveva un’aria molto ufficiale, ma questo non pareva fare molta
impressione su Havelock.
«Allora la smetta di farmi perdere tempo e liberi Nagata perché ci aiuti a
capire come risolvere questa situazione» ingiunse Alex.
«Ed è qui che smetto di seguirla» replicò Havelock, con un teso sorriso. Era
un uomo compatto, pallido, con un taglio di capelli di stile militare. Emanava
quella sicurezza di sé derivante da una competenza fisica tipica dei soldati e
degli agenti di sicurezza professionisti. A Basia, un cinturiano che viveva
oppresso da due diversi governi dei pianeti interni, questo diceva: ‘So come
pestare la gente. Non costringermi a mostrartelo.’
«Non vedo come...» cominciò Alex.
«Sì,» lo interruppe Havelock «ci schianteremo tutti se non rimetteremo in
funzione i reattori. Sono d’accordo su questo. Quello che non capisco è come
il liberare la mia prigioniera possa risolvere...»
«Perché,» ribatté Alex, deglutendo visibilmente nello scandire quella parola
«il primo ufficiale Nagata è il miglior ingegnere che ci sia. Se qualcuno può
venire a capo del problema e salvare il culo a tutti noi, quella è probabilmente
lei. Quindi la smetta di tenere chiusa in cella la nostra potenziale soluzione
del problema.» Alex sorrise alla videocamera e spense il microfono prima di
aggiungere: «Razza di idiota testardo.»
«Credo che lei stia sottovalutando la mia squadra di ingegneri» replicò
Havelock, sempre con il suo sorriso compiaciuto. «Però ho capito cosa mi sta
dicendo. Mi faccia vedere cosa posso fare.»
«Accidenti, sarebbe grandioso» rispose Alex, e in qualche modo riuscì a
sembrare sincero. Poi disattivò la postazione di comunicazione.
«Compiaciuto sacco di merda di maiale.»
«Adesso cosa facciamo?» chiese Basia.
«La cosa più difficile di tutte. Aspettiamo.»
Basia fluttuava assicurato a un sedile a smorzamento sul ponte operativo,
con la mente che fluttuava fra un sonnecchiare agitato e un intontito stato di
veglia. Ad alcune stazioni operative di distanza, Alex armeggiava con i
comandi e borbottava fra sé.
Mentre fluttuava fra il sonno e la veglia, a volte Basia era sulla Rocinante,
con la mente che si preoccupava per l’assenza del rombo del reattore a
fusione come una lingua che cercasse il buco lasciato da un dente perduto.
Poi, senza transizione, si ritrovava a fluttuare lungo i corridoi gelidi della sua
casa perduta su Ganimede. A volte erano le cupole e i corridoi pacifici che
per tanti anni erano stati la casa della sua famiglia. Altre volte erano pieni di
macerie e di cadaveri, come lo erano stati quando lui ne era fuggito.
Dopo, il lungo viaggio sulla Barbapiccola era stato un inferno. I giorni
interminabili intrappolato in una cabina grande a stento per una persona e che
ora ospitava due intere famiglie. Il crescente senso di disperazione via via che
un porto dopo l’altro li scacciava. Nessuno aveva bisogno che una nave piena
di profughi intasasse i moli nel bel mezzo di quella che sembrava la prima
guerra totale del sistema solare.
Basia aveva fluttuato attraverso quell’esperienza come uno spettro. Quando
l’aveva caricata su quella nave, aveva creduto di salvare la sua famiglia, ma
si era lasciato alle spalle un figlio morente e aveva intrappolato il resto di loro
su una vecchia e malconcia nave mercantile che non aveva dove andare.
Quel momento in cui il capitano della Barbapiccola li aveva radunati tutti e
aveva detto loro degli anelli e dei mondi al di là di essi era stato come una
rivelazione. Quando il capitano aveva chiesto se qualcuno di loro voleva
provare a occupare uno di quei mondi, a crearsi una casa là, non si era levata
una sola voce di dissenso. Anche solo quella parola, casa, rendeva
impossibile discutere. Così avevano attraversato il portale, oltrepassando le
navi confuse e disorganizzate che lo circondavano ed erano sbucati dall’altra
parte, nel sistema di Ilus. Avevano trovato un mondo con ossigeno e acqua,
che dall’orbita appariva come una palla fangosa azzurra e marrone, ma che
quando erano sbarcati si era rivelato così bello che la gente si era stesa a terra
e aveva pianto.
I mesi che erano seguiti erano stati durissimi. C’erano state le dolorose cure
mediche e l’esercizio fisico per abituare il corpo alla maggiore forza di
gravità, il lento lavoro di costruzione delle abitazioni, i disperati tentativi di
far crescere un qualsiasi tipo di cibo nel poco terriccio che avevano sbarcato
dalla Barb. Poi c’era stata la scoperta della ricca vena di litio, e la
realizzazione che avrebbero potuto avere qualcosa da vendere e diventare una
colonia autosostentata, il tutto seguito dallo spossante lavoro dell’estrarre il
minerale dal terreno con attrezzi primitivi. Ma era valsa la pena di patire tutto
quello.
Per avere una casa.
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo cerca di comunicare, e si protende sempre più
lontano. Se arrivasse il segnale, la risposta, potrebbe smettere, e per questo
non si ferma. Cerca di comunicare, e nel protendersi trova nuovi modi di
estendere la sua ricerca. Improvvisa, esplora, inconsapevole di farlo. I sistemi
che attiva ampliano la sua gamma di possibilità, ed esso cerca di comunicare
in modi che prima gli erano impossibili. Dal momento che non è
consapevole, non ha memoria, non prova gioia. Le parti di esso che sono
consapevoli sognano e soffrono come hanno sempre fatto. Esso non ne è
cosciente.
Si protende, e trova altro potere. Qualcosa si guasta. Molte cose si guastano.
Qualcosa che un tempo era una donna emette un silenzioso grido di orrore e
di paura. Qualcosa che un tempo era un uomo prega e definisce esso come
l’Armageddon. Ed esso si protende ancora, assottigliandosi leggermente nel
farlo. Al suo centro, il posto vuoto acquista definizione, schemi cominciano a
combaciare, a semplificarsi diventando strutture a più bassa energia.
L’investigatore pensa a queste soluzioni. Dentro di esso è costruito un
modello del mondo, e dei satelliti che lo circondano. I posti con cui non
riesce neppure a cominciare a relazionarsi acquistano definizione.
L’architettura astratta della connessione e il modello astratto di geografia
sono ora in correlazione.
Esso costruisce l’investigatore, e l’investigatore guarda, ma non acquista
conoscenza. Esso uccide l’investigatore, costruisce l’investigatore, e
l’investigatore guarda, ma non acquista conoscenza. Esso uccide
l’investigatore, costruisce l’investigatore, e l’investigatore guarda, ma non
acquista conoscenza, ed esso non uccide l’investigatore. Non si rende conto
che c’è stato un cambiamento, che uno schema si è infranto. L’investigatore è
consapevole, ed esso se ne chiede il motivo, e poiché se ne chiede il motivo si
sofferma a guardare, e poiché esso si sofferma a guardare l’investigatore si
spinge oltre le condizioni che esso pone come limiti, ed esso uccide
l’investigatore.
E costruisce l’investigatore.
Qualcosa sa.
L’investigatore esita. Uno schema è stato infranto, ed esso non ne è
consapevole, ma una sua parte lo è. Una parte si aggrappa a quel
cambiamento e cerca di comunicarlo all’investigatore. E l’investigatore si
arresta. I suoi pensieri sono cauti come quelli di un uomo che cammini su un
campo minato. L’investigatore esita, sa che uno schema è stato infranto, e
allarga ancora un po’ la frattura. Il posto morto acquista una definizione
migliore. Esso si protende e non uccide l’investigatore. L’investigatore
travalica le condizioni che esso pone come limiti, ed esso non lo uccide.
L’investigatore esamina lo spazio morto, la struttura, il cercare di
comunicare, cercare di comunicare, cercare di comunicare.
L’investigatore si umetta le labbra, anche se non ha una bocca. Si assesta il
cappello, anche se non ne porta uno. Desidera in modo remoto di bere una
birra, anche se non ha un corpo e non ha passioni. Rivolge la sua attenzione
allo spazio morto, al mondo, a come risolvere problemi insolubili. A come
trovare cose che non sono là. A cosa succede quando le trovi.
34
Holden

«Affermativo. E tu abbi cura della mia nave. Chiudo.»


Holden chiuse la comunicazione con la Rocinante e si appoggiò contro la
parete della torre aliena con un sospiro. Fu un errore, perché la pioggia era
stata incessante dal momento dell’esplosione planetaria, e anche se nell’arco
dell’ultimo giorno si era ridotta di intensità, l’acqua ancora ricopriva l’esterno
della torre.
E adesso, purtroppo, anche la sua schiena, fin dentro i pantaloni.
«Cattive notizie?» chiese Amos che, fermo a qualche passo di distanza,
tratteneva il poncho con una mano per proteggere la faccia dalla pioggia.
«Se non fosse per quelle cattive, non ci sarebbero notizie di nessun tipo»
replicò Holden.
«La più recente?»
«La navetta con le provviste di primo soccorso è stata abbattuta dalle difese
planetarie» rispose Holden. «Sembra che si siano attivate quando il pianeta è
esploso, e stanno eseguendo il consueto programma secondo cui ‘elevate
emissioni di energia sono una minaccia’.»
«Come ha fatto la stazione del portale quando eravamo nella zona lenta e la
Stazione di Medina era ancora un’astronave da guerra» osservò Amos.
«Ai bei vecchi tempi, vuoi dire?» chiese in tono amaro Holden. «Sì, proprio
così.»
«Quindi dobbiamo solo ordinare a tutti di spegnere i reattori, come abbiamo
fatto l’altra volta?»
«Pare che questa rete di difesa abbia in arsenale un nuovo trucco. Hanno
risolto quel problema al nostro posto. Hanno fatto sì che la fusione smettesse
di funzionare.»
«Questo è un fottuto scherzo» ribatté Amos, con un’aspra risata. «Sanno
come fare?»
«Guardando al lato positivo, se non riusciamo a trovare un modo per
ottenere provviste di emergenza dall’orbita, morirò di fame molto prima che i
tumori mi uccidano.»
«Già» annuì Amos. «Quello sarà un vantaggio.»
«La gente in orbita ha ancora meno tempo. Alex pensa che potremmo veder
precipitare la Israel o la Barb entro una decina di giorni. A quel punto saremo
talmente affamati che non saremo in grado di guardare tutto il cibo presente
in questo sistema solare cadere in fiamme dal cielo con un distaccato senso
d’ironia.»
«E su quelle navi ci saranno tutti i nostri amici» aggiunse Amos.
«Sì, c’è anche questo.» Holden chiuse gli occhi e si serrò l’arco del naso
con tanta forza da farsi male, nella speranza che il dolore contribuisse a
snebbiargli il cervello. Non lo fece. Tutto quello a cui riusciva a pensare era
Naomi che accompagnava la Edward Israel nella sua discesa infuocata.
Per parecchi minuti lui e Amos rimasero lì fermi in silenzio con la pioggia
che si riversava su di loro. Holden non si era più trovato sotto la pioggia da
anni, e se tutto il resto non si fosse andato disgregando intorno a lui, la cosa
sarebbe potuta essere quasi piacevole. Amos lasciò che il poncho gli
ricadesse intorno al collo e si sfregò l’acqua piovana sull’ispido cuoio
capelluto.
«D’accordo» disse infine Holden. «Vado sul retro della torre.»
«Là non c’è nessuno» osservò Amos, poi chiuse gli occhi e si lavò la faccia
con la pioggia raccolta nelle mani.
«C’è Miller.»
«Giusto. Allora non avrai bisogno di compagnia.» Amos scosse la testa,
schizzando acqua intorno a sé come un cane, poi si allontanò in direzione
dell’ingresso della torre aliena mentre Holden si avviava dalla parte opposta,
badando a evitare le letali lumache.
«Ehi» salutò Miller, apparendogli accanto con un bagliore azzurro.
«Dobbiamo parlare» replicò Holden, ignorando l’apparente incongruenza
della sua affermazione. Con un calcio allontanò una lumaca che gli si era
avvicinata troppo a uno stivale. Un’altra stava strisciando verso un piede di
Miller, ma il detective la ignorò. «Pare che le difese planetarie si siano
attivate. Hanno appena abbattuto la navetta con le provviste e hanno creato in
orbita una specie di campo che impedisce la fusione nucleare.»
«Sei certo che sia soltanto in orbita?» chiese Miller, inarcando un
sopracciglio.
«Ecco, il sole non si è spento. Dovrei aspettarmi che succeda? Miller, il sole
si spegnerà?»
«Probabilmente no» replicò Miller, agitando le mani nella scrollata di spalle
tipica dei cinturiani.
«D’accordo, supponendo che il sole rimanga attivo, ci troveremo comunque
in un sacco di guai. Le navi non possono inviarci provviste, e senza i reattori
cominceranno presto a cadere dall’orbita.»
«D’accordo» disse Miller.
«Sistema le cose» ingiunse Holden, avanzando verso di lui di un passo con
fare aggressivo.
Miller si limitò a una risata.
«Se non per noi, allora fallo per te stesso» insistette Holden. «Quella cosa
che ti collega a me è un po’ di melma sulla Roci. E brucerà a sua volta.
Sistema le cose per questo, se ti serve una motivazione. Non mi importa
perché lo fai, basta che tu lo faccia.»
Miller si tolse il cappello e guardò verso il cielo, canticchiando un motivo
che Holden non riconobbe. Poteva vedere la pioggia cadere sulla testa del
detective, le gocce che gli rotolavano lungo la faccia, e poteva anche vederla
cadergli attraverso. Questo gli causava una fitta dolorosa al cervello, per cui
distolse lo sguardo.
«Cosa credi che io possa fare?» chiese Miller. Non era un rifiuto.
«Ci hai liberati dal blocco quando eravamo nella zona lenta.»
«Ragazzo, continuo a ripetertelo. Io sono una sorta di chiave inglese. Il caso
ha voluto che il problema della rete difensiva nell’HUB del portale fosse un
bullone esagonale. Qui non ho controllo, non molto, comunque, e questo
sistema sta andando in pezzi. Il fatto che mezzo pianeta sia esploso potrebbe
non essere la fine della faccenda.»
«Potrebbe esplodere altra roba? Che altro rimane?»
«Lo chiedi a me?» Miller rise di nuovo.
«Ma tu sei parte di questo! Di tutto questo, di questa stronzata dei padroni
della protomolecola. Se tu non puoi controllarlo, allora chi può farlo?»
«C’è una risposta a questa domanda, ma non ti piacerà.»
«Nessuno» intuì Holden. «Mi stai dicendo che non può farlo nessuno.»
«La cosa che sta scatenando tutto questo casino si limita a fare. Se la
Rocinante sparasse un siluro contro qualcuno, quante probabilità ci sarebbero
che una chiave inglese nella sua officina potesse riportare indietro il siluro? È
a questo che stai parlando, una chiave inglese.»
«Dannazione, Miller» cominciò Holden, ma rimase a corto di energia a
metà della frase. Era meno divertente essere il prescelto e il profeta quando
gli dèi erano violenti e capricciosi e il loro portavoce era folle e impotente. La
pioggia che gli era filtrata sotto i vestiti aveva cominciato a scaldarsi,
dandogli l’impressione di essere coperto di viscidume.
Il detective abbassò la testa con aria accigliata, riflettendo.
«Potreste essere in grado di aggirarli di soppiatto» disse infine.
«Come?»
«Ecco, le difese si concentrano sulle minacce, quindi evitate di apparire
minacciosi. Sai che la rete si innervosisce di fronte a fonti di energia elevata.»
«Niente fonti di energia» disse Holden. «Già, la navetta aveva i reattori.
Non ci sono molte forme di energia più potenti di quella.»
«Anche la lentezza gioca a favore. Non so se queste difese rilevino e
puntino l’energia cinetica, ma è più sicuro supporre che lo facciano.»
«Okay» annuì Holden, avvertendo un fugace momento di sollievo e di
speranza. «D’accordo. Queste sono cose con cui posso lavorare. Cibo, filtri,
medicinali... dovremmo riuscire a far arrivare tutte queste cose a terra senza
scatenare le difese. Discese lente con paracaduti e involucri aerodinamici.
Possono organizzare la cosa dall’orbita.»
«Vale comunque la pena tentare» assentì Miller, senza entusiasmo. «Ora
parliamo di questo punto morto che devo andare a cercare, verso nord.
Neppure questo ti piacerà, ma c’è un modo per...» Scomparve.
«Capitano,» disse Amos, aggirando l’angolo della torre «mi dispiace
interromperti, ma quella graziosa scienziata ti sta cercando.»
Holden impiegò un momento a capire. «La biologa?»
«Ecco, credo che neppure il geologo sia malaccio, ma non è il mio gusto
preferito.»
«Cosa vuole?»
«Fissarti ancora con occhi adoranti?» ribatté Amos. «Come diavolo faccio a
saperlo?»
«Non essere un idiota.»
«Vai a chiederglielo tu stesso.»
«D’accordo» si arrese Holden. «Prima però ho bisogno di Murtry. Lo hai
visto?»
«L’ultima volta che l’ho visto dirigeva il traffico vicino alla porta
anteriore» replicò Amos. «Hai bisogno di me per parlargli?»
Holden notò che nel porre la domanda Amos aveva abbassato la mano sul
calcio della pistola. «A che altro stavi lavorando?»
«Pattugliamento contro le lumache velenose.»
«Continua con quello. Io farò due chiacchiere con Murtry.»
Con un saluto ironico, Amos si allontanò verso l’ingresso della torre.
Holden tirò fuori il terminale palmare e lasciò un messaggio per Alex,
informandolo sul piano per far arrivare a terra le provviste. Come gli aveva
detto Amos, trovò Murtry intento a parlare con alcuni membri del suo gruppo
di sicurezza, vicino all’ingresso della torre.
«Abbiamo trovato alcune fondamenta sepolte» stava dicendo Wei,
indicando da sopra la spalla nella direzione in cui era sorto un tempo First
Landing. «A meno che questa gente non avesse degli scantinati, però, non c’è
più niente attaccato a esse.»
«Le miniere?» chiese Murtry.
«Quel che non è pieno di fango è sommerso» replicò Wei.
«Abbiamo gente che sappia trattenere il respiro?» domandò Murtry,
inclinando la testa da un lato e rivolgendole un sorriso privo di umorismo.
«Sì, signore.»
«Allora, soldato, mandali là per vedere se sotto quell’acqua c’è qualcosa
che possiamo usare.»
«Signore.» Wei eseguì un saluto scattante, poi lei e altri due agenti della
sicurezza si allontanarono di corsa, lasciando soli Murtry e Holden.
«Capitano Holden» salutò Murtry, con quel suo sorriso vuoto.
«Mr Murtry.»
«Come posso esserle utile oggi?»
«Credo di poter avere una soluzione al nostro problema di
approvvigionamento, se lei è disposto a lavorare alla cosa insieme a me»
disse Holden.
Il sorriso privo di umorismo di Murtry si fece un po’ più rilassato. «Quella
è una voce vicina alla cima della mia lista di cose da fare. Mi aggiorni.»
Holden riassunse tutto – l’ipotesi che i sistemi alieni tracciassero le fonti di
energia elevata, la possibilità di far scendere lentamente le provviste –
esponendolo con riferimento a ciò che avevano visto nella zona lenta la prima
volta che l’umanità aveva attraversato il portale, e lasciando fuori Miller.
Mentre parlava, Murtry rimase del tutto immobile, con un’espressione che
non si alterò di un solo millimetro. Quando poi Holden ebbe finito, annuì una
volta.
«Chiamerò la Israel e ordinerò che comincino subito a preparare i pacchi»
disse.
Holden esalò un sospiro di sollievo. «Detesto ammetterlo, ma quasi mi
aspettavo che lei mi facesse opposizione riguardo a questo piano.»
«Perché? Non sono un mostro, capitano. Se si rende necessario, sono pronto
a uccidere per fare il mio lavoro, ma il suo Mr Burton è molto simile a me.
Lasciar morire qui tutte queste persone non aiuterebbe in alcun modo la mia
causa. Voglio solo che i coloni abusivi se ne vadano non appena avremo
risolto il problema della mancanza di energia.»
«Grandioso» commento Holden, poi aggiunse: «In realtà a lei non importa
di loro, giusto? Per tutto questo tempo ha combattuto contro di loro. Se
adesso è disposto ad aiutarli è solo perché si tratta di aiutarli ad andarsene.
Sarebbe altrettanto felice se morissero tutti.»
«Anche questo risolverebbe i miei problemi, sì» ammise Murtry.
«Volevo solo accertarmi che lei sapesse che ne sono consapevole» concluse
Holden, ricacciando indietro uno ‘stronzo’ che cercava di accodarsi a quelle
parole.
Trovò Amos a lavorare insieme ai locali alla difesa contro le lumache
velenose. Stavano usando i poncho appallottolati e i contenitori per l’acqua di
plastica tagliati in quadrati per bloccare le entrate più piccole delle rovine
aliene. Avevano appeso teli alle finestre, tappato i buchi più piccoli con
camicie e gambe di pantalone strappate e scavato trincee davanti alle aperture
più grandi. Quelle trincee si erano riempite di acqua fangosa, diventando
simili a piccoli fossati, e le lumache le evitavano. Senza una parola, Holden si
mise a dare una mano nello scavo delle trincee. Era un lavoro sgradevole, con
la pioggia e il fango che si infilavano sotto i vestiti e irritavano la pelle a ogni
movimento. Inoltre, scavavano usando attrezzi improvvisati ricavati da pali
per tende e piatti pezzi di plastica che periodicamente andavano in pezzi e
andavano rimessi insieme. Il terreno era sassoso, appesantito dall’acqua e
dagli occasionali corpi di lumache. Nel complesso, era quel genere di orribile
lavoro fisico che scacciava dalla mente di Holden ogni altro pensiero mentre
lo svolgeva. Gli impediva di pensare al morire di fame, o a Naomi
intrappolata in una cella mentre scivolava lentamente verso la morte fra le
fiamme o alla sua incapacità di migliorare o rendere più sicure le cose sul
pianeta.
Era perfetto.
Carol Chiwewe gli chiese di andare a dare un’occhiata sul retro della torre
per recuperare un telo catramato che era stato lasciato là, e Miller rovinò la
sua quiete mentale materializzandosi nell’istante in cui svoltò l’angolo e fu
nascosto allo sguardo degli altri.
«...entrare nella rete di trasferimento materiale» riprese, come se non avesse
mai smesso di parlare. «Credo che possiamo usarla per spostarci a nord verso
il punto che stiamo cercando, o almeno per arrivarci vicino.»
«Dannazione, Miller, ero a tanto così dal non pensare a te.»
Miller lo esaminò con occhio critico, rilevando il suo aspetto fradicio e
infangato. «Hai un aspetto orribile, ragazzo.»
«Vedi cosa sono disposto a fare pur di avere un momento di pace?»
«Notevole. Allora, quando possiamo muoverci?»
«Non ti arrendi mai» commentò Holden. Si spostò sul terreno fangoso fino
a raggiungere il telo che stava cercando, e che era coperto di lumache
velenose. Lo afferrò da un angolo e lo sollevò lentamente, cercando di far
scivolare giù tutte le lumache, lontano da lui. Miller lo seguì con le mani in
tasca, guardandolo lavorare.
«Attento a quella» disse, indicando una lumaca vicina alle dita di Holden.
«L’ho vista.»
«Non mi servi a niente se muori.»
«Ho detto che l’ho vista.»
«Quindi, riguardo all’andare a nord» proseguì Miller. «Non so quanta parte
della rete di trasferimento materiale sia in effetti funzionante, quindi non è
detto che sia un viaggio facile. Dovremmo partire al più presto possibile.»
«Rete di trasferimento materiale?»
«Un grande sistema di trasporto sotterraneo. Più veloce dell’andare a piedi.
Sei pronto ad andare?»
La lumaca scivolò qualche centimetro più vicina alle sue dita e Holden
lasciò cadere il telo con un’imprecazione. «Miller» disse, girandosi di scatto
verso il detective. «Me ne frega talmente poco delle tue necessità che da qui
non riesco neppure a vederle.»
Il vecchio detective ebbe la buona grazia di apparire mortificato prima di
scrollare stancamente le spalle. «Potrebbe essere d’aiuto.»
«Cosa potrebbe essere d’aiuto?» chiese Holden.
«Andare a nord. Quello che c’è laggiù, qualsiasi cosa sia, pare togliere
energia alla rete. Forse possiamo usarla per disattivare le difese e rimuovere il
blocco ai reattori delle navi.»
«Se mi stai mentendo per indurmi a fare quello che vuoi, giuro che ordinerò
ad Alex di smontare la Roci pezzo per pezzo alla ricerca della manciata di
melma a cui sei collegato e di usare su di essa un lanciafiamme.»
Lo spettro fece una smorfia ma non cedette terreno. «Non sto mentendo
perché non sto asserendo nulla. Questo punto morto è esattamente come lo
definisco: un punto morto. Tutto il resto? Ipotesi. Però è più di quanto hai
adesso, giusto? Aiutami, e se avrò il modo di farlo, io aiuterò te. Questa cosa
funziona soltanto così.»
Holden rimosse con un calcio la lumaca dal suo angolo del telo, poi attese
che la pioggia ne lavasse via la bava prima di recuperare il telo e di
riprendere a scrollarne via il resto delle creature.
«Anche se volessi, ancora non posso muovermi» disse. «Non prima di
essere certo che i coloni non moriranno tutti qui. Dammi il tempo di far
arrivare sane e salve a terra le provviste, di dare a tutti ripari decenti lontano
dalle lumache velenose, poi ne potremo riparlare.»
«Affare fatto» rispose Miller, e scomparve in uno sbuffo di lucciole
azzurre. Uno degli uomini della colonia, un cinturiano alto e magro, con la
pelle scura e una massa di capelli bianchi, aggirò l’angolo.
«Cosa stai facendo? Kenned babosa malo ti avrebbe stecchito.»
«Mi dispiace» si scusò Holden, dando una brusca scrollata al telo per
rimuoverne il resto delle lumache. Poi aiutò il cinturiano a ripiegarlo.
Però dovevano smettere di pensare a loro come a cinturiani, giusto? Quelle
persone vivevano su un pianeta, in un sistema solare dall’altra parte della
galassia rispetto al Sole. Per loro, cinturiano era una parola che non aveva più
nessun significato. Adesso si definivano coloni. E come si sarebbero chiamati
un giorno, se fossero riusciti a rimanere su Ilus, a farne davvero la loro casa?
Ilusiani?
«Médico buscarte» disse l’ilusiano.
«Lucia?»
«Laa laa, rce puta.»
«Oh, giusto, Amos me lo aveva detto» annuì Holden. «Credo sia meglio
che vada a scoprire che cosa vuole.»
Il cinturiano, o ilusiano, o quel che era, borbottò di nuovo ‘puta’ e sputò per
terra. Holden si avviò sotto la fastidiosa pioggia calda, oltrepassando le
trincee piene d’acqua e lumache morte e la plastica incollata sulle pareti e le
fessure tappate con stracci infangati. Superò con un salto l’ultima trincea per
entrare nella torre, poi si pulì alla meglio gli stivali dal fango e seguì il
passaggio fino alla grande camera centrale della struttura, dove Lucia stava
lavorando con la squadra di analisi chimica al progetto di purificazione
dell’acqua. Al suo ingresso lei gli rivolse un sorriso teso, e Holden accennò a
dirigersi verso di lei semplicemente perché pareva essere la sola contenta di
vederlo.
«Holden. Voglio dire... uhm... Jim» disse Elvi, parandoglisi davanti.
«Abbiamo un problema.»
«Ne abbiamo parecchi» ribatté Holden.
«No, intendo che ne abbiamo uno nuovo. Entro circa quattro giorni
diventeremo tutti ciechi.»
35
Elvi

Holden sbatté le palpebre, scosse il capo e scoppiò a ridere. Elvi si sentì


combattuta fra il timore che lui pensasse a uno scherzo da parte sua e una
sorta di raggiante ammirazione. Aveva temuto che si sarebbe infuriato. Aveva
sentito parlare di persone che ridevano di fronte al pericolo, ed era di quello
che si trattava. Si passò le mani sulla tuta, sentendosi a disagio per la
consapevolezza di quanto fosse sporca, di quanto lo fossero tutti.
«Questa giornata continua ad andare di bene in meglio» commentò Holden.
«Ciechi... perché?»
«Si tratta delle nuvole» spiegò Elvi. «O meglio, di quello che c’è nelle
nuvole. Sono verdi. Voglio dire, non sono...» Accennò al grigio cielo
nuvoloso che si scorgeva dalla finestra. «Di norma, sono verdi. C’è un
organismo fotosintetico che passa parte del suo ciclo vitale nelle nuvole, e a
quanto pare è un organismo di notevole successo in tutto il pianeta, perché è
presente in tutta la pioggia che è caduta. Prima di questo cataclisma, il clima
era molto arido, quindi probabilmente le occasioni di essere esposti a esso
non erano molte. Con la pioggia e l’inondazione, però, praticamente tutti
sono entrati in contatto con quest’organismo, che è tollerante al sale.»
L’apparecchiatura chimica emise un segnale ed Elvi si spostò
automaticamente verso di essa, lo sguardo ancora su Holden. Fayez, Lucia e
un altro colono stavano però già rimuovendo il sacco di acqua pulita per
sostituirlo con uno nuovo.
«Questo è un problema?» chiese Holden. «Cosa c’entra il sale in tutto
questo?»
«Noi siamo salati» rispose Elvi, e si sentì subito a disagio per come si era
espressa. Le pareva che le sue mani fossero troppo large e goffe, cosa che in
genere non erano. «Quello che intendo è che ho già visto infezioni causate da
questo organismo. Prospera nelle lacrime e nei dotti lacrimali. E negli occhi.»
«Negli occhi» ripeté Holden.
«Lucia ha visto un caso prima di... della tempesta. Una volta penetrato
nell’umor vitreo, l’organismo si viene a trovare in un nuovo ambiente che
sembra essere perfetto per esso, e una crescita esponenziale è una cosa più
che normale in simili condizioni. Quindi finisce per impedire che la luce
colpisca la retina, e...»
Holden sollevò le mani con i palmi in fuori, ed Elvi si sorprese a muoversi
verso di lui, pronta e mettere i propri palmi contro i suoi. Si fermò.
«Credevo che le cose che vivono qui avessero una biologia del tutto
diversa. Come possono infettarci?»
«Non si tratta di un’infezione come quella causata da un virus» rispose
Elvi. «Non prende possesso delle nostre cellule o qualcosa del genere. Noi
siamo soltanto un altro ambiente, nuovo e ricco di sostanze nutrienti, e questo
piccoletto ha trovato il modo di sfruttarlo. Non sta cercando di renderci
ciechi. È solo che la matrice extracellulare gli offre un sentiero davvero facile
per entrare nell’occhio, e lui vi si trova a suo agio quando ci arriva. La
crescita esplosiva è una cosa che si riscontra in qualsiasi tipo di specie
invasiva che arriva in un ambiente nuovo. Niente competizione.»
Holden si passò una mano fra i capelli. Quando parlò, la sua voce era
sommessa, come se si stesse rivolgendo soprattutto a sé stesso.
«Esplosioni apocalittiche, reattori spenti, terroristi, uccisioni di massa,
lumache velenose, e adesso un’epidemia di cecità. Questo è un pianeta
terribile. Non saremmo mai dovuti venire qui.»
«Mi dispiace» disse Elvi, posandogli una mano sul braccio. Aveva un
braccio molto solido, muscoloso. Holden posò la propria mano sulla sua e il
cuore di Elvi accelerò un poco i battiti. Detestava sentirsi come una scolaretta
alla sua prima cotta, ma ne era anche eccitata. Rimani concentrata, pensò, e
conserva un po’ di dignità.
«Okay, dottoressa Okoye.»
«Elvi.»
«Elvi, ho bisogno che lei e la dottoressa Merton facciate tutto ciò che è
necessario per risolvere questo problema. Io credo di aver trovato il sistema
per avere provviste dalle navi in orbita, ma non vedo un modo per far risalire
a qualcuno il pozzo gravitazionale, né dove poi metterlo se anche ci
riuscissimo. Quindi, se ho ragione, posso farle avere qualsiasi tipo di scorte
sia disponibile lassù. Però ho bisogno che risolva questa cosa.»
«Lo farò» annuì Elvi. Non aveva idea di come avrebbe fatto a mantenere
quella promessa, ma aveva il cuore pieno di determinazione fin quasi a
scoppiarne.
«Qualsiasi cosa le serva, basta che me lo dica» aggiunse Holden.
Elvi ebbe un pensiero improvviso, invadente e sorprendentemente grafico.
Sentì un’onda di rossore risalirle lungo il collo. «D’accordo, capitano»
replicò. «Voglio... uhm... ecco, se potessi avere una sacca di campionamento
di riserva dalla Israel, credo che mi sarebbe davvero d’aiuto.»
Lui le lasciò andare la mano, ed Elvi sentì immediatamente la mancanza del
suo tocco. Si infilò le mani in tasca. Holden le rivolse un cenno, esitò per un
momento come se aspettasse che lei dicesse qualcos’altro, poi si allontanò
nella stanza affollata. Elvi si morse un labbro e inghiottì un paio di volte fino
ad allentare il nodo alla gola. Sapeva che si stava comportando da sciocca e
che il suo atteggiamento era quasi inopportuno, ma saperlo non l’aiutava a
cambiarlo.
Si fermò accanto alla finestra, guardando la pioggia grigia che cadeva
all’esterno. Era difficile credere che ogni goccia contenesse qualcosa che
avrebbe colonizzato il suo corpo nel modo in cui l’umanità aveva colonizzato
Nuova Terra. Il paesaggio all’esterno aveva un aspetto pacifico, era vasto,
ricco e splendido. Perfino il lento fiume creato dalla piena aveva una
maestosità che rilassava, dava la splendida sensazione della natura all’opera.
La maggior parte della Terra era coperta da città o gestiva riserve naturali
selvagge quanto un cane addestrato. Marte e la Fascia erano tempestati di
colonie che erano state costruite e progettate per ricavare un posto umano in
circostanze inumane e prive di vita. Si rese conto che quello era il primo
posto in cui fosse mai stata dove poteva vedere la vera natura, selvaggia
come lo era stata per millenni sulla Terra. Dotata di zanne e artigli, letale e
indifferente. Vasta, imprevedibile e più complessa di qualsiasi cosa potesse
immaginare.
«Sta bene?» le chiese Lucia.
«Mi sento sopraffatta» rispose Elvi. «Però sto bene.»
«Ho raccolto una nuova campionatura dal purificatore dell’acqua» continuò
la dottoressa. «Mi aiuterebbe ad analizzarla?»
«Certamente» assentì Elvi. «Quando arriverà la sacca di campionatura sarà
più facile mandare i dati a casa. Forse loro ci potranno aiutare.»
«Ecco, se troveranno qualcosa, si accerti che ce lo mandino con un file
audio» consigliò Lucia. «Non so per quanto ancora saremo in condizione di
leggere.»
«Come faremo?» chiese Elvi.
«A fare cosa?»
«Qualsiasi cosa. Mangiare, ricostruire, distillare acqua pulita, tenere fuori le
lumache velenose. Come potremo fare una qualsiasi di queste cose quando
nessuno di noi vedrà più quello che stiamo facendo?»
«Suppongo che lo faremo male» rispose Lucia.
La lunga giornata di Nuova Terra e l’oscurità indotta dalle nuvole davano
una sensazione strana allo scorrere del tempo. Elvi sedeva incurvata nella
piccola camera laterale che Fayez aveva requisito per farne il loro laboratorio
di ricerca. Le pareti erano curve in un modo che le faceva pensare alle ossa,
la sola apertura era in alto sulla parete e qualcuno – Fayez, Lucia o Sudyam –
l’aveva chiusa con un pezzo di plastica trasparente per tenere fuori le
lumache velenose. Una serie di piccoli LED riversava una fredda luce bianca
sul rosso cupo della parete e del soffitto. La piccola chiazza verde
sull’improvvisata piastra di Petri sarebbe potuta essere un’alga o un fungo o i
resti di un’insalata lasciata per troppe settimane in fondo al frigorifero del
dormitorio, all’università superiore. Però non era nessuna di quelle cose, e
quanto più la guardava, tanto più lei ne era consapevole.
C’erano alcune somiglianze con i più familiari regni della vita che aveva
studiato in passato. Circondare le cellule di lipidi, per esempio, pareva essere
una buona mossa di progettazione spaziale, come lo erano gli occhi o il volo.
Sembravano fare qualcosa di simile alla divisione tramite mitosi, anche se a
volte le cellule si dividevano in tre invece che in coppie, e lei non ne sapeva il
perché. C’erano anche altre anomalie, concentrazioni di molecole attivate dai
fotoni che non avevano senso.
E la cosa peggiore era che non riusciva a pensarci. Non riusciva a
concentrarsi. E ogni volta che perdeva focalizzazione, la sua mente si
spostava su James Holden. Il suono della sua voce, la sua disperazione e la
risata priva di timore, la forma del suo deretano. Il pensiero di lui la
perseguitava. Si rese conto di aver letto quattro pagine di dati di analisi
chimica senza avere idea di cosa avesse visto, e si accoccolò sui talloni con
un’imprecazione.
«C’è qualche problema?» chiese Fayez, oltrepassando la soglia. Aveva i
capelli legati sulla nuca, il volto era grigio per la fatica e striato di fango
secco. Nel guardarlo, Elvi si chiese da quanto tempo non dormisse, quanto
fosse passato da quando lei stessa aveva dormito. O mangiato.
«Sì» rispose.
Lui si accoccolò accanto all’arco che portava alle stanze principali. La
plastica sulla finestra si era scurita, segno che era notte. Elvi non vi aveva
badato.
«Qual è il nuovo casino?» domandò Fayez. «Si tratta di qualche altro oh-
mio-dio-moriremo, oppure stiamo ancora finendo di assaporare appieno la
lista che già abbiamo?»
«Devo trovare il capitano Holden.»
Fayez abbandonò la testa fra le mani. «È ovvio.»
«Devo chiarire le cose.»
Fayez irrigidì il collo e sgranò gli occhi. «No, Elvi. No, non devi.»
«Sì» insistette lei. «So che è inappropriato, ma la realtà pratica è che sono
innamorata di lui. Questa è una fonte di distrazione e influenza il mio lavoro.
Ho cercato di ignorare la cosa, e non è di aiuto, quindi andrò da lui e
parleremo della cosa. Giusto per risolverla, e...»
«No, no, no» ribatté Fayez. «Oh, no. È un’idea davvero terribile. Non lo
fare.»
«Tu non capisci. Non voglio farlo, ma devo essere in grado di
concentrarmi, e i miei sentimenti... i miei sentimenti per lui...»
Si alzò in piedi. Adesso che lo aveva detto, era ovvio che doveva succedere.
Lui dormiva in una delle stanze laterali, come quella. Probabilmente Amos
era là anche lui, di guardia. Poteva semplicemente chiedere di vedere Holden
là, in privato, e poteva così liberarsi del suo fardello. Prima d’ora non aveva
mai compreso quell’espressione, ma adesso lo faceva. Poteva liberarsi del
suo fardello con lui, e Holden era così gentile e comprensivo che non avrebbe
riso di lei né l’avrebbe mandata via. Avrebbe...
«Elvi!» ripeté Fayez. «Per favore, ti prego, non lo fare. Non sei innamorata
di James Holden. Non sai come sia James Holden, non hai idea di quanto la
sua immagine pubblica sia in effetti simile all’uomo reale, e non hai mai
incontrato l’uomo reale. Lui è sui notiziari e lavora qui. Questo è tutto.»
«Tu non capisci.»
«Certo che capisco» ribatté Fayez. «Sei dannatamente spaventata, ti senti
sola e sei eccitata. Elvi, dammi ascolto. Negli ultimi due anni sei sempre stata
in uno degli ambienti più stressanti che ci siano. Prima il viaggio fino a qui,
un pianeta ignoto. Poi si è trattato di un pianeta ignoto abitato da un mucchio
di persone che hanno cercato di ucciderti. E dopo il pianeta è esploso. E
adesso stiamo cercando di tenere a bada piccole creature che possono
ucciderti perché le hai sfiorate mentre cercavi di capire come impedire a
qualcosa di crescerti negli occhi. Nessuno rimane sano di mente in una
situazione come questa.»
«Fayez...»
«No, ascoltami fino in fondo. Tu reagisci sempre ignorando quanto sei
spaventata e focalizzandoti sul lavoro, e questo va benissimo. Davvero, sono
assolutamente a favore di qualsiasi cosa che ti aiuti a restare a galla. Però sei
un mammifero, Elvi, sei un animale sociale che ricava rassicurazione dal
contatto, e cioè dal sesso, dal momento che non siamo una cultura che
indulge nelle coccole di gruppo. Per due anni hai evitato di avviare una
relazione con qualche collega mentre il resto di noi formava coppie e
cambiava compagno perché eravamo soli e spaventati, e questo è un modo in
cui i primati si rassicurano a vicenda. Lo abbiamo fatto tutti, tranne tu.»
«Io non...»
«E così eccoti qui, tanto spaventata da non renderti neppure conto di
esserlo, ed ecco che arriva James Holden, salvatore dell’universo, e
naturalmente va tutto per il verso storto. Qui però non si tratta di lui, si tratta
di te, e se andrai a chiarire le cose con lui finirete a letto insieme oppure
tornerai qui a piangere sui tuoi campioni di tessuto.»
Elvi sentì la mascella che le si protendeva in avanti, le mani che si
serravano a pugno. Fayez si sollevò in ginocchio, niente di più, e protese un
braccio a bloccare l’arcata d’ingresso, poi fece una smorfia e lo ritrasse.
Quando riprese a parlare, la sua voce era più sommessa e gentile.
«Per favore, abbiamo incasinato tutto nel venire su questa trappola mortale
di un pianeta. Ci siamo trascinati dietro attraverso il portale ogni stupido
errore tribale e territoriale che la razza umana abbia mai commesso, e ne
abbiamo fatto un minestrone. Questa cosa che stai per fare... per favore,
lascia che sia quell’unico errore che non commetteremo.»
«Mi stai dicendo» ribatté Elvi, con voce insieme oltraggiata e gelida «che
ho solo bisogno di farmi sbattere?»
Fayez tornò ad accasciarsi contro la parete, sconfitto.
«Sto dicendo che sei umana, e che gli umani traggono conforto gli uni dagli
altri. Sto dicendo che non vuoi Holden per la persona che è, perché non lo
conosci, e ti stai inventando una storia su di lui in modo da sentirti
giustificata nel prendere la cosa di cui hai bisogno perché dio non voglia che
tu possa avere una necessità che non è intrecciata con un amore romantico.
E...»
Sollevò le mani, scosse il capo e distolse lo sguardo. La pioggia batteva
contro la plastica come un tamburellare di unghie sulla pietra. Qualcuno
gridò, in fondo al passaggio, e una voce ancora più distante rispose. Elvi
incrociò le braccia.
«E?» chiese. «Avanti, continua, non vedo perché tu debba fermarti proprio
adesso.»
«E io sono proprio qui» sospirò Fayez.
Elvi impiegò un momento a capire cosa stava dicendo. Cosa stava offrendo.
La sua risata fu inarrestabile quanto lo era stata la tempesta. Lui contrasse le
labbra e scrollò le spalle, lo sguardo fisso sulla parete alle sue spalle, mentre
Elvi non riusciva a smettere di ridere, anche se la forza di quella ilarità le
faceva dolere le guance. Poi essa si placò un poco e lei riprese fiato. Il
bagliore di un lampo lontano rischiarò la finestra, ma non ci fu nessun tuono.
Lei abbassò lo sguardo su Fayez, e dopo un momento lui la guardò a sua
volta.
«D’accordo» gli disse.
Fayez russava. Non era un suono profondo, come una sega circolare, era
solo un morbido ronfare di gola. I vestiti infangati erano ripiegati e facevano
loro da cuscino. Elvi giaceva supina con le ginocchia piegate, studiando il
soffitto e la morbidezza della propria carne; lui era su un fianco,
raggomitolato contro di lei per stare caldo, le gambe ripiegate sotto e intorno
alle sue, e le solleticava la clavicola con il suo respiro. Elvi si chiese cosa
avrebbe detto o fatto se qualcuno avesse oltrepassato l’arcata, ma era notte e
lì le notti erano molto lunghe, c’era spazio in esse.
Osservò il corpo di lui, che aveva il colore del miele grezzo, con più peli sul
petto e sulle gambe di quanti se ne fosse aspettati, come un cavernicolo, ma
senza la fronte sporgente di un uomo di Neanderthal. Trasse un profondo
respiro e lo esalò piano, giusto per vedere che sensazione le dava. Aveva
sempre obbedito alla sua regola personale di non andare a letto con i colleghi
di lavoro, e da quando la Israel era partita per il lungo viaggio attraverso il
portale non si era più neppure tenuta per mano con qualcun altro. Aveva
quasi dimenticato che sensazioni desse fare sesso. E come ci si sentiva dopo.
Fayez tossì e cambiò posizione, e lei ne approfittò per districarsi da lui,
lasciandolo disteso per terra con la faccia premuta contro i suoi vestiti e gli
occhi chiusi. Pensò a James Holden, sondando con delicatezza il proprio
cuore, timorosa di cosa vi avrebbe trovato.
«Uh» disse alla stanza, a bassa voce per non svegliare Fayez. «Non ero
innamorata di Holden.»
Il respiro di Fayez cambiò ritmo, le sue palpebre ebbero un fremito ma non
si sollevarono. Elvi pensò di cercare di recuperare la propria tuta da sotto la
sua testa, ma lui pareva dormire così sereno che decise di aspettare. Aveva
pensato che si sarebbe sentita imbarazzata della propria nudità, che se ne
sarebbe vergognata, ma non era così.
Sedette a gambe incrociate vicino alle analisi chimiche. Sulla piastra di
Petri la chiazza verde proveniente dal campione d’acqua era cambiata un
poco, aveva sviluppato stoloni sottili come capelli e stava esplorando il suo
ambiente. Elvi richiamò a schermo le informazioni chimiche e procedette a
riesaminarle dall’inizio. Quando arrivò allo strano dato dei composti attivati
dalla luce emise un sospiro spazientito. Erano chirali, mentre quello era un
ambiente bi-chirale. Stava vedendo entrambe le conformazioni, che
probabilmente avevano funzioni del tutto diverse, nel qual caso la cosa aveva
senso.
Si stiracchiò, facendo scrocchiare la schiena fra le scapole, poi si piegò in
avanti scorrendo i dati con lo sguardo mentre annotava le domande da
rivolgere a Lucia o da trasmettere sulla Terra. Si immerse nei dati al punto
che non si accorse di quando Fayez si svegliò, si vestì e uscì, finché lui non le
drappeggiò una coperta sulle spalle. Elvi sollevò lo sguardo. La sua tuta era
ancora ammucchiata sul pavimento. Fayez le posò accanto una tazza di tè
caldo e le depose un bacio sulla testa.
«Buongiorno, raggio di sole» disse.
Elvi sorrise, appoggiandosi all’indietro contro i suoi stinchi. «Scommetto
che lo dici a tutte le ragazze.»
«Stai bene?» chiese lui, con gentilezza.
Elvi si accigliò. Stava bene? Forse sì, considerate le circostanze.
«Stavo guardando questo organismo» disse. «Sai, credo di cominciare a
capirlo. Dai un’occhiata a queste cifre...»
36
Havelock

Al sistema di riciclaggio dell’aria della Edward Israel non importava da


dove venisse l’energia che lo teneva in funzione, il reattore a fusione o le
batterie erano la stessa cosa, per quanto lo riguardava. La sensazione che
l’aria fosse cambiata, che fosse più densa e meno atta a sostentare la vita era
esclusivamente nella testa di Havelock. Lui era consapevole di trovarsi in un
tubo di acciaio e ceramica pieno d’aria, isolato da qualsiasi altro ambiente più
vasto e adatto alla vita. Quella era una situazione in cui aveva trascorso la
maggior parte della sua vita di adulto, e per lui quel fatto era diventato
invisibile, come per un abitante della Terra lo era pensare che soltanto la
massa lo tratteneva su un oggetto celeste rotante, protetto dalla reazione a
fusione del sole soltanto dall’aria e dalla distanza. Non era qualcosa a cui si
pensasse, finché non diventava un problema.
Il suo monitor mostrava sulla sinistra un’inquadratura del capitano
Marwick, che appariva infastidito e irritato, e sulla destra l’immagine del
capo della sezione ingegneria della RCE e della milizia messa insieme da
Havelock.
«Posso aumentare l’efficienza della griglia quanto basta per darci due, forse
tre giorni» disse l’ingegnere capo, che era arrossato in volto e teneva la
mascella protesa aggressivamente in avanti.
«In teoria» ribatté il capitano. «Questa è una vecchia nave. Qui le cose
basate sulla teoria non sempre funzionano bene.»
«Sappiamo di che tipo di griglia si tratta» insistette Koenen. «Non sono
congetture, abbiamo i dati.»
«È difficile affrontare il fatto che i dati sono una sorta di congettura,
giusto?» commentò Marwick.
«Signori» intervenne Havelock, assumendo lo stesso tono che avrebbe
usato Murtry. «Ho afferrato il problema.»
«Può anche essere morta, ma è pur sempre la mia nave» dichiarò Marwick.
«Morta?» ritorse l’ingegnere capo. «Saremo noi a morire se...»
«Adesso smettetela» ingiunse Havelock. «Tutti e due. Smettetela. Ho capito
il problema e comprendo il punto di vista di ciascuno di voi. Non faremo un
accidente di niente per apportare qualsivoglia modifica alla nave finché non
avremmo preparato il prossimo carico di provviste per la gente sul pianeta.
Capitano, posso avere il permesso affinché la squadra della sezione
ingegneria effettui un’ispezione puramente visiva dei cavi e degli
accoppiamenti della griglia?»
«Puramente visiva?» ripeté Marwick, socchiudendo gli occhi. «Solo se vi
impegnate a limitarvi a questo. Il confine fra il guardare qualcosa e volergli
dare un’aggiustatina è molto sottile.»
Havelock annuì, come se quello fosse stato un permesso. «Capo, metta
insieme una squadra. Ispezione esclusivamente visiva. Mi fornisca un
rapporto non appena le provviste sono state inviate.»
«Signore» assentì l’ingegnere, in tono secco e un po’ troppo alto, il genere
di tono usato da civili che pensavano che quello fosse il modo di esprimersi
dei militari. Il collegamento sulla destra si interruppe e l’immagine del
capitano Marwick riempì automaticamente tutto lo schermo.
«Quell’uomo è un idiota.»
«È spaventato e sta cercando di esercitare controllo su... ecco, su qualsiasi
cosa possa controllare.»
«È un idiota, e ha dimenticato che poche partite a paintball non fanno di lui
un fottuto ammiraglio Nelson.»
«Lo terrò in riga» garantì Havelock. Per altri dieci giorni, poi non avrà più
importanza.
Marwick annuì e chiuse a sua volta il collegamento. Havelock trasse un
profondo respiro, poi esalò lentamente il fiato attraverso il naso e tornò a
esaminare la lista di richieste di connessione: mentre parlava con il capitano e
l’ingegnere capo erano arrivati altri trenta messaggi, tutti provenienti da casa.
Dal Sole. Erano richieste di interviste e di commenti da parte di persone che
non aveva mai incontrato, ma non tutte venivano da gente che non aveva mai
visto. Sergio Morales, della Nezáviste News. Amanda Farouk di First
Response. Mayon Dale della Central Information dell’APE. Perfino Nasr
Maxwell della Forecast Analytics. I volti e le personalità di tutti i notiziari
che seguiva per restare in contatto per sapere come andavano le cose a casa
stavano ora venendo a cercare lui. L’attenzione dell’umanità era puntata su
Nuova Terra. Su di lui.
La cosa non gli piaceva, e non era d’aiuto.
Li passò al vaglio uno per uno, replicando con la stessa registrazione
standard che aveva usato la prima volta: ‘Attualmente siamo impegnati al
massimo delle nostre capacità a risolvere la situazione su Nuova Terra. Per
favore, rivolgete le vostre domande a Patricia Verpiske-Sloan della divisione
pubbliche relazioni della Royal Charter Energy.’ Bla, bla, bla. Prima o poi,
probabilmente, avrebbe ricevuto una strigliata per quella risposta. Lo
preoccupava già un poco il fatto che non avrebbe dovuto dire che erano
impegnati al massimo delle loro capacità.
«Sta bene?» chiese Naomi, dalla sua cella.
«Benissimo.»
«L’ho chiesto perché sospira parecchio.»
«Davvero?»
«Cinque volte nell’ultimo minuto» rispose Naomi. «Prima che il reattore si
spegnesse era un sospiro ogni due minuti. Di media.»
«Le serve un hobby» sorrise Havelock.
«Oh, mi serve davvero» replicò Naomi.
Havelock richiamò a schermo la pagina con la situazione relativa all’invio
delle provviste. Mancavano ancora sei ore al punto di inserimento, il che
significava che lui aveva circa sei ore per qualsiasi lavoro di fabbricazione.
Se Murtry e gli altri avevano bisogno di qualcosa che richiedeva un tempo
maggiore avrebbero dovuto aspettare. Cominciò a scorrere la lista. Cibo.
Sacche di ricambio per l’apparecchiatura chimica che avevano salvato.
Acetilene e ossigeno per le squadre di recupero e riparazione. Poi controllò il
peso. Non voleva lasciare da parte qualcosa che poteva essere utile sul
pianeta, ma d’altro canto non sarebbe stato di aiuto a nessuno se quelle cose
si fossero sparse nella parte superiore dell’atmosfera per un’avaria del
paracadute.
«Sarà famoso, quando torneremo indietro» osservò Naomi.
«Eh?»
«Adesso lei è il volto ufficiale di tutto quello che sta succedendo qui. Quel
messaggio che ha mandato sarà trasmesso da tutti i notiziari.»
«Quel messaggio conteneva così poche informazioni da essere quasi
sterile» ribatté Havelock. «È un modo per dire ‘no comment’ senza dare
l’impressione di voler nascondere qualcosa.»
«A loro non importerà. Forse non faranno neppure sentire le sue parole,
terranno solo l’immagine in sottofondo, con il volume abbassato, mentre loro
ci parlano sopra.»
«Davvero grandioso» commentò Havelock, mentre vagliava le scorte da
mandare giù. Le luci di emergenza erano dotate di batterie, e anche se
probabilmente non erano abbastanza potenti da far scattare le difese
planetarie, lui non voleva correre rischi. Cercò di ricordare se ci fosse qualche
altra apparecchiatura dotata di una sua fonte di energia. Quello non era un
problema di cui fosse abituato a preoccuparsi.
«Per noi è stato così» continuò Naomi. «Ecco, lo è stato per lui, in realtà.
Anche prima di Eros.»
«È stato cosa?»
«Diventare il volto di qualcosa. Nel guardare indietro, vedo con chiarezza
quanto è successo. E dopo lui è diventato il tipo contro cui Marte ha sparato.
E dopo c’è stato Eros.»
«Questo è vero» convenne Havelock. «Probabilmente ci sono persone che
non hanno sentito parlare di James Holden e della Rocinante, ma si tratta del
genere di persone che non guarda i notiziari. Lui però sembra sopportare
piuttosto bene il peso della notorietà.»
«Mr Havelock, credo proprio che quello fosse sarcasmo.»
Havelock passò a esaminare gli schemi di imballaggio. Il computer aveva
preso tutti i pacchi e li aveva allineati in sei diverse configurazioni in modo
che la densità, l’aerodinamica o perfino la distribuzione del peso fossero la
massima priorità. Girò le immagini con le dita, immaginando ciascuno di
quei pacchi che cadeva attraverso la turbolenta alta atmosfera di Nuova Terra.
«Volevo solo dire che la cosa non sembra disturbarlo» replicò.
«A dire il vero, lui ne è a stento consapevole» ammise Naomi.
«Andiamo, vuole dirmi che non ci gode neppure un poco?»
«Non ci gode neppure un poco» confermò Naomi. «Conosco uomini che ci
prenderebbero gusto, ma non Jim.»
«Voi due state insieme, giusto?»
«Sì.»
«Ecco, io lo definirei un uomo fortunato, se non fosse per il fatto che è
coinvolto nel fottuto e assoluto casino di questo pianeta» affermò Havelock,
mentre sceglieva uno degli schemi di imballaggio di compromesso. «La sola
cosa di cui io sarò il volto sarà una morte lunga e lenta, a cui tutti nel sistema
potranno assistere rallegrandosi di non essere al nostro posto.»
Passò a visualizzare lo schema di attuazione completo: i rimanenti lavori
che dovevano ancora essere ultimati erano tutti in coda. Aveva la sensazione
di dimenticare qualcosa, ma gli ci vollero alcuni secondi prima di ricordare
cosa, poi tornò all’inventario e aggiunse una confezione di oncocidi. Per
James Holden.
«Quanto conosceva bene Miller?» chiese Naomi. «Eravate intimi?»
«Eravamo partner» rispose Havelock. «Mi ha tirato fuori dai guai un paio di
volte, quando ci ero dentro fino al collo o quando ho fatto qualche
stupidaggine. Ceres, prima che l’APE l’occupasse, non era un posto salutare
per un terrestre.»
«Le è mai parso che fosse... non so... strano?»
«Era un poliziotto, su Ceres» ribatté Havelock. «Eravamo tutti strani. È
pronta per la sua gita?»
Naomi insinuò le dita nella grata della cella con espressione divertita. «È
già quel momento della giornata?»
«È una priorità della Royal Charter Energy avere cura che i prigionieri a
essa affidati siano trattati umanamente, in base alla politica aziendale e alla
legge planetaria» ribatté Havelock, come faceva ogni volta. Quello era
diventato una sorta di scherzo che condividevano, divertente non perché lo
fosse davvero, ma perché era familiare.
«La cosa sembra abbastanza senza senso» osservò Naomi. «Se moriremo
tutti, intendo.»
«Lo so» disse Havelock, sorpreso dalla tensione che gli attanagliava il
petto. «Però è tutto quello che abbiamo, quindi lo prendo e mi accontento.»
Sganciate le cinghie del sedile, fluttuò fino all’armadietto degli strumenti di
contenzione e inserì il proprio codice. L’armadietto dispensò una cavigliera
che lui lanciò attraverso lo spazio che li separava. Naomi l’afferrò con la
punta delle dita e l’insinuò con cautela attraverso la grata, assicurandosela
intorno alla caviglia sinistra e collegando le due estremità. La cavigliera
emise un sibilo e la luce diagnostica divenne verde. Havelock controllò il
proprio terminale palmare: la cavigliera era pronta, niente anomalie o errori.
Aprì la cella e Naomi fluttuò all’esterno, stiracchiandosi, con la tuta di carta
che scricchiolava a ogni movimento.
«Vogliamo andare?» chiese Havelock.
«Non ho aspettato altro per tutto il giorno» rispose Naomi.
La palestra di bordo era più piena del solito, perché l’incertezza, e la paura,
spingevano le persone a fare esercizio. Havelock non sapeva se a portarle lì
fosse la sensazione di agire in qualche modo, o un bisogno di sfinimento, la
necessità di sfiancarsi al punto che neppure il fatto di volare su una nave
morta sopra un pianeta vuoto, con gli aiuti più vicini a oltre un anno di
distanza, potesse toccarli. O forse era soltanto una sorta di automedicazione.
Le endorfine potevano fare miracoli. Accompagnò Naomi a una cabina di gel
a resistenza, poi occupò la macchina di addestramento muscolare vicina a
essa.
I membri dell’equipaggio impegnati a usare le altre macchine finsero di non
osservarli. I più sfoggiavano l’espressione accuratamente neutra di un
giocatore di poker, ma alcuni tradivano rabbia. La maggior parte di quegli
sguardi rabbiosi era concentrato su Naomi, ma alcuni – soprattutto i
cinturiani – fissavano Havelock con aria di accusa. Lui finse di ignorarli
mentre lavorava ai principali gruppi di muscoli della schiena e delle gambe,
pronto però a estrarre la pistola al primo movimento sbagliato: tenere lei viva
e sé stesso tutto intero era parte del suo lavoro. Come lo era cercare di tenere
tutti uniti finché la nave non fosse bruciata.
Il sudore gli aderiva alla pelle in piccole gocce che si allargavano, si
toccavano, si univano. Se si esercitava abbastanza a lungo poteva ritrovarsi
avvolto in un bozzolo del suo stesso sudore. Fra un set e l’altro si interruppe
per asciugarsi la faccia e fare lo stesso per Naomi. Lei annuì in segno di
ringraziamento, ma non disse una parola.
Quando ebbero finito, Havelock aprì la cabina di gel per lasciarla uscire.
Uno dei tecnici ambientali, un cinturiano dai capelli chiari e il naso camuso,
di nome Orson Kalk, fluttuò in avanti per occupare a sua volta la cabina.
«Tu carry caba a oksel, schwist» disse, e Naomi scoppiò a ridere.
«Shikata ga fottuto nai, sa sa?» replicò.
«Venga, muoviamoci» intervenne Havelock.
Il tecnico cinturiano si infilò nella cabina di gel e Naomi si lanciò attraverso
la stanza in direzione del corridoio che portava all’ufficio di Havelock e alla
sua cella. Havelock si guardò alle spalle per tutto il tragitto, e non si sentì a
suo agio finché lei non fu di nuovo nella cella, con la grata chiusa. Prelevati
da un cassetto una tuta pulita e alcuni tamponi per lavarsi, le passò il tutto
prima di attivare lo schermo di privacy. Poi si spinse fino al sedile a
smorzamento e rimase ad ascoltare i rumori sommessi che lei produceva
nello spogliarsi, lavarsi e indossare l’uniforme pulita. Naomi aveva ragione,
gli schermi di privacy della cella non bloccavano minimamente i suoni.
Controllò i messaggi in coda: altre cinquantasette richieste di commento,
nessuna da parte di qualcuno con cui desiderasse parlare. Inviò di nuovo la
risposta preconfezionata.
Chiuse gli occhi, e in base a quanto si sentiva a suo agio con le palpebre
abbassate cercò di valutare se sarebbe riuscito a dormire. Al momento gli
pareva possibile, ma da quando i reattori si erano spenti era più facile
fantasticare di dormire piuttosto che farlo davvero.
Il monitor emise un segnale: c’era Murtry in linea. Accettò la chiamata.
L’uomo che apparve sullo schermo era quello che Havelock conosceva, ma
al tempo stesso non lo era. La faccia di Murtry non era mai stata carnosa, ma
adesso appariva scarna, e mancava la ferrea focalizzazione dello sguardo a
cui Havelock era abituato. Gli ci vollero alcuni secondi per rendersi conto che
la cosa dipendeva dal fatto che Murtry non stava facendo lo sforzo di
guardarlo.
«Ci sei, Havelock?»
«Sì, signore. Come vanno le cose laggiù, signore?»
«Potrebbero andare meglio» rispose Murtry. «Ho bisogno di un
aggiornamento sullo stato dell’invio delle provviste.»
«Oh, sta procedendo bene. Dovremmo avere tutto impacchettato e pronto
per l’invio tramite paracadute entro... diciamo sei ore e qualcosa.»
«Bene.»
«Non ha ricevuto gli aggiornamenti per il gruppo di sicurezza, signore?
Devo eseguire un programma diagnostico al riguardo?»
«Li ricevo, ma non posso leggerli» replicò Murtry. Il suo tono era calmo,
discorsivo, come se non avesse appena ammesso che stava diventando cieco.
«Quindi, una volta effettuata questa consegna, voglio che quella successiva
abbia una nuova priorità.»
«Certamente.»
«Dobbiamo costruire quaggiù un rifugio semipermanente, una struttura
abbastanza semplice da poterla montare anche se non vediamo bene quello
che stiamo facendo e abbastanza robusta da durare... merda, da due a quattro
anni, suppongo. Vedi cosa riesci a trovare nelle specifiche. Se a bordo non
abbiamo niente che vada bene, prova a cercare nei database terrestri.
Preferirei però non perdere troppe finestre di consegna, perché non so bene
per quanto tempo la gente quaggiù sarà in grado di lavorare.»
«Di che dimensioni avete bisogno?»
«Non ha importanza. Qualsiasi cosa sia robusto e veloce da procurare e
montare.»
Havelock si accigliò. I suoni che provenivano dalla cella della prigioniera
erano cessati. Non sapeva se lei stesse ascoltando, ma era probabile, e
comunque non vedeva come la cosa potesse avere importanza. «C’è qualche
altro aspetto funzionale che devo tenere in considerazione?»
Murtry scosse il capo. Per un momento il suo sguardo si appuntò sulla
telecamera, poi si spostò. «Se questa spedizione non dovesse lasciare
superstiti, voglio essere dannatamente sicuro che quando arriverà la prossima
ondata di coloni troverà ad aspettarla qualcosa che ha un tetto e su cui c’è
stampato il logo della RCE.»
«Vuole piantare una bandiera, signore?»
«La considero una posizione di ripiegamento minima» rispose Murtry.
«Puoi farlo?»
«Sì.»
«Bravo. Mi terrò in contatto.»
«C’è altro di cui abbia bisogno laggiù?»
«No» replicò Murtry. «Ci sono un sacco di cose che vorrei, ma procurami
quel riparo abbastanza in fretta da permetterci di montarlo e avremo tutto
quello che ci serve.»
La connessione si spense, e Havelock emise un basso fischio fra i denti. Lo
schermo di privacy di Naomi si abbassò.
«Ehi» disse Havelock.
«Il suo capo vuole costruire un riparo abbastanza robusto da costituire una
lapide quando il prossimo gruppo di idioti verrà qui a morire. Non riesco a
decidere se quell’uomo è un nichilista oppure il secondo uomo più idealista
che abbia mai incontrato.»
«Ci potrebbe essere spazio per entrambe le cose.»
«Potrebbe» convenne Naomi. Poi chiese: «Sta bene?»
«Io? Benissimo.»
«Ne è sicuro? Glielo chiedo perché si trova su una nave la cui orbita sta
decadendo, e l’uomo a cui lei guarda come a un padre le ha appena detto che
si sta preparando a morire.»
«Non guardo a lui come a un padre» protestò Havelock.
«Come vuole.»
«Lui ha un piano. Sono certo che ha un piano.»
«Il suo piano è che moriremo tutti» disse Naomi.
In assenza di gravità le lacrime non cadevano, si accumulavano, e gli
rivestirono gli occhi finché gli parve che tutto fosse sott’acqua. Annegato. Le
rimosse con la manica, ma l’umidità che gli scorreva sugli occhi era ancora
troppa, piccole onde che facevano tremare le pareti. Impiegò quasi un minuto
a riportare il respiro sotto controllo.
«Questo deve sembrarle divertente» commentò in tono amaro.
«No» ribatté lei. «Se però ha un fazzoletto di carta da darmi lo accetterei
volentieri. Questa divisa non assorbe un accidente.»
Nel guardarla, Havelock constatò che anche lei aveva un velo di lacrime
che le riempiva gli occhi. Esitò, poi si liberò dalle cinghie, afferrò il piccolo
disco duro in cui era compattato un asciugamano e lo fece scivolare verso di
lei, passandolo attraverso la grata. Naomi se lo premette sugli occhi,
lasciando che l’acqua delle sue lacrime scurisse il tessuto e lo facesse
espandere e dispiegarsi da solo.
«Ho una paura dannata» ammise Havelock.
«Anch’io.»
«Non voglio morire.»
«Neppure io.»
«A Murtry non importa.»
«No» convenne Naomi. «Non gli importa.»
Havelock sentì le parole che gli salivano in gola, soffocandolo. Per un
momento pensò che si sarebbe rimesso a piangere. Era troppo stanco, aveva
lavorato troppo a lungo, in uno stato di tensione eccessiva, e cominciava a
cedere emotivamente. A piagnucolare. Il nodo alla gola non accennò ad
allentarsi.
«Credo» disse, lottando per pronunciare ogni singola sillaba «di aver
accettato il contratto sbagliato.»
«Sia più giudizioso, la prossima volta» ribatté lei.
«La prossima volta.»
Naomi insinuò le dita attraverso la grata e lui le strinse con gentilezza il
polpastrello fra pollice e indice. Per un lungo momento fluttuarono insieme:
prigioniera e guardia, cinturiana e terrestre, dipendente societario e
sabotatrice governativa. Niente pareva più avere l’importanza di un tempo.
37
Elvi

I dati e le analisi tornarono indietro in un ammasso disorganizzato,


provenienti in parte dai sistemi esperti della Israel, in parte dai gruppi di
lavoro della RCE su Luna, sulla Terra e su Ganimede. Non c’era una sintesi,
nessun riassunto facilmente assimilabile di cosa era stato scoperto. Invece, si
trattava di opinioni, supposizioni, suggerimenti relativi a test – solo alcuni dei
quali erano eseguibili con le apparecchiature a sua disposizione – e analisi dei
dati. Fra i rapporti medici stilati da Lucia riguardo ai primi casi che si erano
verificati fra i coloni, e le osservazioni fatte da Elvi dopo il diluvio, c’erano
abbastanza informazioni da alimentare un migliaio di teorie, ma non
abbastanza da arrivare a conclusioni effettive. Ed Elvi era a capo del gruppo
di lavoro locale, oltre a essere la sola persona nell’universo che avesse
accesso a soggetti per i test e a nuove informazioni.
Le lumache velenose erano un problema relativamente semplice. Il
composto tossico era un complesso composto alcaliciclico che produceva un
rivestimento azotato che appariva superficialmente connesso alle
tetrodotossine e pareva fare parte del sistema di motilità della lumaca più che
essere una forma di adattamento per difendersi dai predatori. Come facesse
esattamente a passare nel sangue era ancora un mistero, ma quella bava
conteneva una mezza dozzina di elementi R-chirali che nessuno si era ancora
preso la briga di esaminare in modo approfondito. Quali che fossero le nuove
informazioni che sarebbero emerse da studi successivi, le risposte che
servivano a Elvi erano tutte lì: neurotossina, nessun antidoto, non bisognava
toccarle. Fine.
La flora che penetrava negli occhi, d’altro canto, era più complessa. I
laboratori di Luna e di Ganimede stavano lavorando con modelli di alghe,
trattando la crescita come una specie invasiva penetrata in una pozza di marea
incontaminata. Il gruppo sulla Terra sosteneva invece che il modello migliore
era una struttura minerale fotosensibile. Lavorando sulla base dei pochi dati
medici sopravvissuti alla tempesta, il sistema esperto della Israel suggeriva
che la cecità non derivasse tanto dalla massa estranea presente nell’umor
vitreo quanto dal modo in cui quell’organismo vivente disperdeva la luce.
Quella era una notizia ottima, perché suggeriva che uccidere l’organismo e
infrangerne le strutture otticamente attive avrebbe portato a un rapido ritorno
della funzione visiva. Ci sarebbero state miodesopsie negli occhi di tutti, ma
la maggior parte delle persone ne aveva e il cervello se la cavava bene a
compensare la cosa.
Come ucciderli, però, era ancora un mistero, e il tempo scarseggiava. C’era
un marcato aumento dei globuli bianchi, segno che il loro corpo cercava di
rimuovere gli invasori, ma la cosa non funzionava.
Nel suo caso, i sintomi erano cominciati con un po’ di prurito intorno alle
palpebre, niente di peggio delle allergie stagionali che si avevano sulla Terra.
Poi c’erano state piccole perdite bianche e un lieve mal di testa. In seguito,
sette ore dopo che aveva notato i primi sintomi, il mondo aveva cominciato a
farsi un po’ sfocato e ad assumere una tonalità verdastra. Era stato allora che
aveva avuto la certezza che anche lei sarebbe diventata cieca.
Paura e praticità stavano cambiando la forma del campo dei profughi anche
dentro i limiti fisici delle rovine. La gente che si era spinta nelle parti più
remote della struttura stava tornando indietro, e il bisogno di spazio e di
intimità cedeva il posto alla paura delle lumache e del clima, unita al terrore
della crescente cecità. L’aumentata densità della popolazione risultava
evidente a Elvi soprattutto sotto forma di suoni ambientali. Voci più alte, e
conversazioni che si sovrapponevano, fino a darle l’impressione di cercare di
fare le sue ricerche in un angolo di una stazione ferroviaria. A volte, avere
intorno tutti quei suoni umani le era di conforto, altre volte la irritava, ma
perlopiù li ignorava.
«Sta bene, dottoressa?»
Elvi sollevò lo sguardo dall’apparecchiatura chimica. Carol Chiwewe era
ferma sotto l’arco che fungeva da porta. Appariva stanca. E sfocata. E
vagamente verde. Elvi si sfregò gli occhi per schiarirsi la vista, anche se a
livello intellettivo sapeva che non avrebbe fatto nessuna differenza. La
pioggia tamburellava sommessa contro la plastica, ma lei quasi non la notava
più.
«Benissimo» rispose. «Ha il nuovo conteggio?»
«Oggi abbiamo preso quarantuno di quelle piccole bestiacce» rispose Carol.
«È un miglioramento, giusto? Pensavo che se fuori si fosse asciugato un poco
avrebbero cominciato ad andarsene.»
«Si sta asciugando?»
«No, anche se piove di meno. Però lo speravo.»
«È troppo presto per considerarla una cosa significativa» disse Elvi,
inserendo il dato nel suo campo. Tenere il conto del numero di lumache
velenose era solo un altro della dozzina di studi che stava portando avanti.
«La tendenza generale è ancora verso una diminuzione, e ci potrebbe essere
un ciclo nell’arco dei prossimi giorni.»
«Sarebbe bello se dormissero di notte. Però probabilmente è sperare
troppo.»
«Probabilmente» convenne Elvi. «Di norma vivono nel sottosuolo, quindi
non è probabile che siano creature diurne.»
«Stiamo esaurendo il cibo» aggiunse Carol, senza cambiare tono di voce.
«Le consegne dall’orbita ci sono d’aiuto» osservò Elvi.
«Quelle consegne non dureranno in eterno. Deve esserci su questo pianeta
qualcosa che possiamo mangiare.»
«Non c’è» disse Elvi.
Carol borbottò sotto voce qualcosa di osceno che suonava permeato di
disperazione. Sospirò. «D’accordo. Ci vediamo fra un’ora.»
«Grazie.»
Alle sue spalle, Fayez sbadigliò e si stiracchiò. Elvi aveva avuto intenzione
di fare un sonnellino con lui ma non era riuscita ad allontanarsi
dall’apparecchiatura. Socchiuse gli occhi per controllare l’ora. Fayez aveva
dormito per tre ore.
«Mi sono perso qualcosa?» chiese.
«Scienza» rispose Elvi. «Ti sei perso della scienza.»
«Dannazione. Posso prendere a prestito i tuoi appunti?»
«No. Dovrai assumere un tutor.»
Lui ridacchiò. «Ti sei ricordata di mangiare?»
«No.»
«Finalmente un modo in cui mi posso rendere utile. Aspettami qui, tornerò
con una barretta di prodotto alimentare indifferenziato e un po’ di acqua
filtrata.»
Stiamo esaurendo il cibo.
«Grazie» replicò Elvi. «Mentre sei là fuori, vedi se riesci a trovare Yma e
Lucia. Dovevano eseguire una valutazione oculare di tutti.»
«I ciechi che studiano i ciechi» commentò Fayez. «Sembra di essere di
nuovo alla scuola di specializzazione. Le rintraccerò. Tu però dovresti fare
una pausa. Riposare gli occhi.»
«Lo farò» mentì Elvi. I suoi occhi, quelli di tutti loro, avrebbero presto
riposato fin troppo. Sua zia era stata cieca, e tuttavia perfettamente
funzionale, ma lei aveva vissuto in un’arcologia agricola a Trento, mentre lei
si trovava su un pianeta che non aveva un’agricoltura sostenibile, il cui
ecosistema non conteneva nulla di commestibile e dove toccare la cosa
sbagliata poteva ucciderla all’istante. Il contesto era tutto. Il suo terminale
palmare trillò: altri rapporti e lettere dal gruppo di Ganimede. Li aprì con un
sospiro. Se si fosse soffermata a leggere tutti i suggerimenti che le
mandavano, non avrebbe più avuto tempo per niente altro. Scelse un
messaggio a caso e lo aprì. Dovette ingrandire i caratteri per poterlo leggere,
ma optare per caratteri di un rosso intenso su uno sfondo nero le fu di qualche
aiuto. Se l’organismo invasore seguiva la stessa curva di crescita del lievito...
«Successo!» annunciò Fayez. «Sono tornato con i viveri e con Lucia. E tu
non stai neppure fingendo di esserti presa una pausa.»
«No» ammise Elvi, accettando la dura barretta grande quanto un palmo che
lui le porgeva e rivolgendosi alla dottoressa. «Cosa abbiamo scoperto?»
«Ci sono buone e cattive notizie. La percentuale di infezione è quasi del
cento percento» disse Lucia, accasciandosi sul pavimento accanto a lei. «Pare
che l’infezione progredisca più lentamente nei bambini che negli adulti, ma
solo di stretta misura.»
«Ci sono differenze fra la gente della RCE e i primi coloni?»
«Non ho ancora visto tutti i dati raccolti da Yma, che sta lavorando
prevalentemente con la vostra gente, ma la mia impressione è che non ci sia
differenza. Inoltre, nella lista delle cattive notizie, pare che l’organismo sia
molto più aggressivo che non nei primi casi isolati.»
Elvi staccò un boccone dalla barretta. Sapeva di torta di frutta secca senza
zucchero, aveva un odore di terriccio per rinvasi e le assorbiva tutta la saliva
dalla bocca come una spugna.
«Carico iniziale più elevato?» chiese, con la bocca piena. «Prima il clima
era così arido che è possibile non ci fossero così tante particelle infettive.»
«Erano abbastanza scarse da permettere al nostro sistema immunitario di
identificarle come un corpo estraneo e di espellerle» rispose Lucia.
«È una cosa possibile?» chiese Fayez. «Credevo che queste cose avessero
una biologia del tutto diversa. Il nostro sistema immunitario può anche solo
tentare di aggredirle?»
«Non in modo molto efficiente» replicò Lucia, con voce stanca. «Se però la
tempesta ne era piena, avranno la meglio sulle poche difese che abbiamo.»
«E allora tutti saranno contagiati» aggiunse Elvi.
«Sì» disse Lucia. «Solo che non è così.»
Elvi riaprì gli occhi e vide che Lucia stava sorridendo. «Notizie buone e
cattive, ricorda? C’è un uomo in cui l’organismo non cresce.»
«Per niente?»
«Anche se si trattasse di una crescita notevolmente ritardata, saprei
comunque quali sintomi iniziali cercare. Niente di niente.»
«Potrebbe... potrebbe non essere stato esposto?»
«È stato esposto.»
Elvi sentì una bolla di pura gioia che le si formava nel petto. Era come
ricevere un regalo inatteso. Lo scoppio di un lampo rischiarò per un momento
la stanza e lei si chiese perché la sua luce fosse verde, poi ne ricordò il
motivo.
«Quindi abbiamo l’uomo con un occhio solo che diventerà re?» domandò
Fayez. «Voglio dire, meglio uno solo che niente, ma non vedo in questo una
soluzione a lungo termine.»
«Abbiamo trovato cure e vaccini per una quantità di malattie studiando
persone che ne erano naturalmente immuni» spiegò Elvi. «Abbiamo un
appiglio.»
«Giusto» convenne Fayez, sfregandosi gli occhi. «Mi dispiace, al momento
forse non sono al mio meglio. Sono stato piuttosto sotto stress, di recente.»
Elvi sorrise per quella piccola battuta. «Acconsentirà a sottoporsi a dei
test?» chiese poi.
«Ci importa che acconsenta o meno?» commentò Fayez.
«Non ho ancora avuto la possibilità di chiederglielo» rispose Lucia. «È già
stato abbastanza difficile portare a termine il controllo iniziale.»
«Perché?» domandò Elvi. «Di chi si tratta?»
Holden era all’ingresso della stanza principale. Quale che fosse stato il
colore iniziale dei suoi vestiti, adesso erano del colore del fango, come quelli
di tutti gli altri. Fango, sfinimento, lacrime e paura erano la nuova uniforme,
tanto per la gente della RCE quanto per i cittadini di First Landing. Aveva i
capelli unti e appiattiti all’indietro, un principio di barba gli chiazzava le
guance e la sommità del collo. La vista sempre più compromessa di Elvi
attenuava le linee tracciate dagli anni e lo rendeva un uomo abbastanza
gradevole da guardare, ma del tutto ordinario. Ricordava tutte le volte che
aveva inventato scuse per passare del tempo in sua compagnia. Non le
sembrava quasi plausibile che si trattasse della stessa persona.
Si fece coraggio e attraversò la stanza.
«Capitano Holden? Mi può dedicare un momento?»
«In realtà adesso sono impegnato. È qualcosa che può aspettare?»
«No» replicò lei.
Holden fece una smorfia, un’espressione che affiorò e svanì quasi troppo in
fretta per poter essere notata. «D’accordo. Come posso aiutarla?»
Elvi si umettò le labbra, pensando a come presentare la spiegazione. Non
aveva idea di quante cognizioni lui avesse nel campo della biologia, quindi
pensò che fosse meglio cominciare per gradi.
«Capitano, lei è una persona molto speciale e importante...»
«Aspetti.»
«No, no, io...»
«Dico davvero, aspetti. Senta, dottoressa Okoye... Elvi. Già da un po’
percepisco fra noi una sorta di tensione che ho finto di non avvertire, che ho
ignorato. E questo probabilmente è stato un errore da parte mia. Stavo
cercando di far scomparire la cosa in modo che non se ne dovesse parlare, ma
io sono estremamente impegnato in una relazione molto seria, e anche se
alcuni dei miei genitori non erano monogami, questa relazione lo è. Prima di
andare oltre, ho bisogno di mettere in chiaro con lei che fra noi non può
succedere niente. Non si tratta di lei, è una donna bella e intelligente, e...»
«L’organismo che ci sta rendendo ciechi» disse Elvi. «Lei ne è immune.
Devo prelevare campioni di sangue, e forse anche di tessuto.»
«L’aiuterò in ogni modo possibile, ma deve capire che...»
«È per questo che lei è speciale. È immune. Era di questo che stavo
parlando.»
Holden si interruppe con la bocca aperta a metà e le mani protese davanti a
sé in un gesto rassicurante. Per tre interminabili secondi rimase in silenzio.
Poi: «Oh. Oh. Credevo che stesse...»
«Quell’esame della vista effettuato dalla dottoressa Merton...»
«Io credevo... ecco, mi dispiace. Ho frainteso...»
«C’era. La tensione di cui parlava. In effetti c’era, ma adesso non c’è più»
disse Elvi. «Per niente.»
«D’accordo» annuì Holden. La fissò per un momento, la testa girata
leggermente da un lato. «Ecco, è imbarazzante.»
«Lo è adesso.»
«Che ne dice se non ne parliamo più?»
«Credo che mi andrebbe benissimo» approvò Elvi. «Abbiamo bisogno che
lei venga e ci permetta di prelevare qualche campione di sangue.»
«Ma certo. Sì, lo farò.»
«E siccome la mia vista si sta deteriorando, potrei aver bisogno che lei mi
legga alcuni dei risultati.»
«Farò anche questo.»
«Grazie.»
«Grazie a lei, dottoressa Okoye.»
Si scambiarono qualche altro cenno del capo, due o tre volte, all’apparenza
incapaci di liberarsi dalla presa di quel momento. Alla fine lei girò sui tacchi
e tornò indietro, destreggiandosi in mezzo ai capannelli di persone accampate
sul pavimento delle rovine. Uno dei coloni piangeva e si dondolava avanti e
indietro. Elvi lo aggirò e tornò di corsa al laboratorio. In sua assenza, Yma
era arrivata e sedeva a gambe incrociate sul pavimento accanto a Lucia,
entrambe intente a confrontare i dati. Elvi non si era resa conto di quanto la
sua vista fosse peggiorata finché non cercò di guardare da sopra le loro
spalle: il terminale palmare di Yma era una chiazza indistinta bianca e
azzurra, priva di informazioni utilizzabili quanto lo erano le nuvole.
«Ha acconsentito?» chiese Yma, con voce tesa come un cavo sotto
tensione.
«Sì» confermò Elvi, sedendosi vicino all’apparecchiatura chimica. La sacca
dell’acqua aveva bisogno di essere riempita. Presto sarebbe giunto il
momento in cui la piccola macchina avrebbe dovuto smettere di generare
acqua potabile per permetterle di utilizzarne appieno le risorse per eseguire i
test, ma quel momento non era ancora arrivato, quindi scambiò le sacche.
«Si è fatta dare la sua storia?» chiese Lucia.
«La sua storia clinica? No. Pensavo che forse poteva farlo lei.»
«Se preferisce» rispose Lucia, alzandosi in piedi. «È tornato nella stanza
principale?»
«Sì» confermò Elvi, inginocchiandosi accanto ai comandi
dell’apparecchiatura. Lo schermo era scurito da una macchia di fango, ma
quando la rimosse constatò con sollievo che riusciva ancora a distinguere le
lettere. «Preparerò qualche esame del sangue.»
«Anche del fluido lacrimale?»
«Probabilmente è una buona idea» approvò Elvi. «Giusto per vedere se c’è
qualcosa fuori dell’ordinario.»
«D’accordo» annuì Lucia. Quando si avviò verso la porta, i suoi passi
risultarono un po’ incerti, esitanti, ed Elvi si chiese per quanto tempo ancora
la dottoressa sarebbe riuscita a operare normalmente. La stessa domanda
valeva per tutti loro. Non c’era tempo.
«C’è niente di nuovo nei tuoi dati?» chiese.
«Sono coerenti» rispose Yma. «Qualsiasi cosa sia, non fa distinzione fra noi
e i coloni.»
«Allora è il solo a non farne.»
Le ore passarono senza che Elvi se ne rendesse conto. La sua mente e la sua
attenzione l’avevano estraniata dal mondo delle ore e dei minuti, portandola
in un posto definito dall’esecuzione dei test, dallo scarto temporale delle
trasmissioni, e rallentato soltanto dalla sua vista sempre più compromessa.
Anche prima che i risultati dei test di Holden tornassero indietro, lei continuò
a cercare tutte le possibili informazioni nei campioni dell’organismo,
categorizzandoli con il solo risultato di trovare analogie con altre piante,
animali o funghi. La sensazione del tempo che si esauriva era costante e per
quello, come succedeva agli odori sgradevoli dopo un lungo periodo di
tempo, smise di essere qualcosa che lei notava. Invece, provava la semplice
gioia di fare la cosa in cui era più brava. Avevano scelto lei per quell’incarico
perché per lei i sistemi biologici avevano senso, e risolvere complessi
problemi era una cosa che faceva per divertirsi. Per mesi non aveva fatto altro
che raccogliere dati. Era stato piacevole vedere quel nuovo mondo, assistere
allo svelarsi dei suoi primi segreti, ma era anche stata una cosa facile.
Qualsiasi assistente neolaureato avrebbe potuto raccogliere quegli stessi
campioni.
Quello era un lavoro difficile, ed era il suo genere di lavoro, e anche se la
terrorizzava il fatto che da esso dipendesse la vita o la morte di quanti si
trovavano su Nuova Terra, la questione non eliminava la gioia che provava
nel farlo.
«Hai bisogno di mangiare» disse Fayez.
«L’ho appena fatto» rispose lei. «Mi hai dato una barretta.»
«Questo è successo dieci ore fa» precisò lui con gentilezza. «Devi
mangiare.»
Elvi sospirò e si appoggiò all’indietro, lontano dallo schermo. Era stata
seduta in avanti, quasi piegata in due, per cercare di decifrare i risultati sullo
schermo, la schiena le doleva e un’emicrania cominciava ad affiorarle lungo
la parte anteriore del cranio. Fayez le porse qualcosa. Un’altra barretta alla
frutta prelevata dalle razioni di emergenza. Quando lei la prese, mantenne le
dita intorno alle sue.
«Stai bene?»
«Benissimo» disse Elvi.
«Ne sei sicura?»
«Ecco, a parte l’ovvio problema. Perché?»
«Sembravi un po’ distaccata.»
«Stavo lavorando.»
«Certo. Naturalmente. Scusami, sono uno stupido.»
«Non capisco» osservò Elvi. «Non mi sto comportando come faccio
sempre?»
«Sì» confermò Fayez, lasciandole andare la mano. «Ed era questo che
intendevo. Dopo... dopo... sai...»
«Il sesso?»
Lui cambiò posizione. Elvi lo immaginò nell’atto di chiudere gli occhi e di
sussultare un poco. Con gli occhi nello stato in cui erano, quella fu più che
altro una supposizione, ma la riempì di una soddisfazione sorprendente. Chi
lo avrebbe immaginato? Fayez che faceva il sentimentale.
«Il sesso» confermò lui. «Volevo solo essere sicuro che fossimo a posto,
che le cose andassero bene fra noi.»
«Ecco,» replicò Elvi «l’orgasmo libera una quantità di ossitocina, quindi
probabilmente ti sono più affezionata di prima.»
«Adesso mi stai prendendo in giro.»
«Anche questo» ammise lei, staccando un altro morso dalla barretta. Quella
roba era davvero orribile.
«Volevo accertarmi di sapere come andassero le cose fra noi.»
«In realtà non ci ho pensato. Sai, ero impegnata» rispose Elvi, accennando
all’apparecchiatura chimica.
«Certo, lo capisco» disse Fayez.
«Però magari ne potremo parlare quando non saremo più tutti in pericolo di
morte. Ti andrebbe bene?»
«Andrebbe benissimo.»
«D’accordo, allora abbiamo un appuntamento» concluse Elvi, e tornò a
sedersi vicino all’apparecchiatura. La schiena le faceva male, soprattutto fra
le scapole. Aprì la finestra degli strumenti, cercando un modo di ingrandire
ulteriormente i caratteri, ma quell’apparecchiatura aveva un numero molto
limitato di opzioni. Avrebbe avuto bisogno di aiuto, e presto. Nella stanza
principale qualcuno lanciò un richiamo penetrante e una dozzina di voci si
levarono in un coro di protesta.
«D’accordo, andrebbe benissimo» annuì Fayez. «Elvi, sei la donna più
intelligente che abbia mai incontrato, e ho frequentato alcune fra le migliori
università. Se c’è qualcuno, da qualsiasi parte, in grado di tirarci fuori da
questa situazione, sei tu, e mi piacerebbe moltissimo diventare molto, molto
vecchio e decrepito e probabilmente incontinente e senile in tua compagnia.
Quindi se tu potessi salvare la mia vita e quella di tutti gli altri lo apprezzerei
moltissimo.»
Risposte come ‘Hai detto una cosa molto dolce’ e ‘Per favore, non mi
sottoporre ad altra pressione proprio ora’ e ‘Ci proverò’ lottarono per il
sopravvento nella sua mente. Da qualche parte al limitare delle rovine
qualcuno gridò. Elvi si augurò che non fosse a causa di una lumaca, che non
ci fosse un altro morto. Che non fosse qualche altra cosa andata storta.
«Okay» disse soltanto.
38
Holden

Trascinando i piedi, Holden fece di nuovo il giro della torre.


Era mezzogiorno, ma il cielo coperto era di un grigio ferreo. La pioggia si
era ridotta, ma era ancora abbastanza fitta da mantenere bagnati i suoi capelli
e i suoi abiti e da fargli colare rivoli d’acqua lungo la schiena. Il terreno
fradicio gli risucchiava gli stivali a ogni passo. L’aria odorava di ozono e di
fango.
Un piccolo gruppo di lumache velenose stava curiosando intorno a una
fessura alla base della torre. Un tampone di tessuto bloccava loro l’ingresso,
ma esse stavano usando lo stretto muso per sondarlo alla ricerca di una via di
entrata. Holden sollevò la pala a manico lungo recuperata dalle rovine della
miniera e le schiacciò con un colpo deciso, poi raccolse con la pala i corpi
spiaccicati e li scagliò lontano dalla torre, lasciando che la pioggia lavasse via
la bava dalla pala.
Riprese a camminare, trovando qua e là una lumaca sulla parete della torre.
Le rimosse e le scagliò lontano usando la pala come una catapulta. All’inizio
era stato in un certo senso divertente vedere quanto lontano riusciva a
lanciarle, ma adesso le spalle e le braccia gli bruciavano per la stanchezza e i
suoi lanci si facevano sempre più corti.
A volte Miller lo seguiva, senza dire niente, con quella faccia da basset
hound grigio che serviva a ricordargli che aveva cose più importanti da fare.
Miller scomparve quando nello svoltare un angolo Holden trovò una
piccola squadra di lavoro che riposava vicino a una trincea parzialmente
scavata. Stavano cercando di creare almeno una trincea poco profonda e
piena d’acqua tutt’intorno alla torre, ma il lavoro procedeva a rilento con i
loro attrezzi primitivi.
Quel particolare gruppo era composto da tre donne e due uomini muniti di
rozzi attrezzi da scavo. In quel momento si stavano stiracchiando e bevevano
un po’ d’acqua da una di quelle sacche prodotte dal purificatore. Una delle
donne lo salutò con un cenno, gli altri lo ignorarono.
Uno dei due uomini aveva una lumaca sui pantaloni.
Essa era attaccata alla stoffa, appena sopra il ginocchio destro, senza tracce
di bava intorno a essa, e nessuno dei cinque pareva essersi accorto della sua
presenza. Holden si rese conto che se avesse lanciato un grido di allarme
l’uomo avrebbe potuto cercare di staccare la lumaca con la mano, agendo
senza riflettere, quindi gli si avvicinò con calma. «Non ti muovere» disse.
L’uomo lo fissò con aria accigliata. «Que?»
Holden lo afferrò per le spalle e lo spinse supino a terra. «Che cazzo?»
esclamò l’altro uomo. Adesso stavano indietreggiando tutti, come spettatori
all’inizio di una rissa. Holden si chinò sull’uomo che aveva atterrato e ripeté:
«Non ti muovere.» Poi afferrò i risvolti dei suoi pantaloni e glieli strappò di
dosso con un deciso strattone, gettandoli il più lontano possibile.
«Cosa è appena successo?» chiese la donna che lo aveva salutato con un
cenno. Holden la riconobbe. Attempata, dura, uno dei capi delle squadre
minerarie. Probabilmente era a capo di quel gruppo di scavatori.
«Nessuno ha visto che aveva una lumaca sul ginocchio?»
«Babosa malo?» borbottò qualcuno.
Holden allungò una mano e tirò in piedi l’uomo, ancora sconcertato.
«Avevi una lumaca velenosa sui pantaloni. Ti sei appoggiato contro il
muro?»
«No. Non lo so. Forse, per un secondo» replicò l’uomo.
«Ve l’ho detto» ribadì Holden, prima rivolto all’uomo, poi girandosi a
fronteggiare la caposquadra. «Vi ho detto di non toccare le pareti. Le lumache
le scalano per allontanarsi dall’acqua.»
La caposquadra agitò un pugno in un gesto di assenso. «Sa sa.»
«Non l’hai vista» continuò Holden, e la sua non era una domanda. «Quanto
ci vedi male? Malo que sus ojos?»
«Non ojos. Ah. Orbas. Occhi.»
«Na khorocho» disse l’uomo, agitando le mani nella scrollata di spalle dei
cinturiani. Non bene.
«Bene, il prezzo che devi pagare per non aver informato il tuo capo che non
ci vedevi abbastanza bene da evitare le lumache è che adesso sei senza
pantaloni.»
«Sa sa.»
«Quindi torna dentro» ordinò Holden, dando all’uomo una spinta gentile in
direzione dell’ingresso della torre. «Vedi se riesci a trovare qualcosa per
coprire la tua vergogna.»
«Mi dispiace, capo» replicò l’uomo, e si allontanò.
«C’è qualcun altro messo altrettanto male?» chiese Holden alla
caposquadra. La donna si accigliò e scrollò le spalle.
«Nessuno sta molto bene. È sfuggita a tutti.»
«D’accordo.» Holden si sfregò la testa, cosa che gli fece colare lungo il
collo l’acqua che gli aderiva al cuoio capelluto. Dopo un momento aggiunse:
«Riportali dentro.»
«La trincea...»
«Troppo rischioso, adesso. Io rimarrò di pattuglia. Porta gli altri dentro.»
«D’accordo» assentì la donna, e procedette a guidare il suo gruppo verso
l’ingresso.
Il terminale palmare di Holden vibrò, e quando lo tirò fuori vide che
qualcuno stava cercando di contattarlo da un po’. Attivò la connessione e
qualche secondo più tardi il volto di Elvi apparve sullo schermo.
«Jim, dov’è? Ho bisogno di lei al laboratorio.»
«Mi dispiace, ma sono alquanto occupato, qui» rispose lui.
«Ho finito con i suoi esami del sangue e ho bisogno che venga a leggermi i
risultati.»
Lo schermo dell’apparecchiatura per le analisi era piccolo. In un’era di
impianti visivi correttivi, chi poteva avere problemi di vista? Holden ritenne
di avere adesso materiale sufficiente per sollevare obiezioni con i progettatori
riguardo alla utilizzabilità dell’apparecchiatura.
«Mi faccia finire questo giro di pattuglia» replicò.
«Questo è importante.»
«Lo è anche tenere in vita gli idioti che insistono per lavorare all’esterno
anche se non ci vedono.»
«Allora si sbrighi. Per favore» ribatté lei, e chiuse la connessione.
Holden stava riponendo il terminale quando esso prese a trillare. Una rapida
occhiata mostrò che lo stava avvertendo dell’arrivo di un altro carico di
provviste dall’orbita. Sollevò il terminale verso l’orizzonte e lasciò che lo
guidasse fino al sito di atterraggio. Un lontano paracadute bianco divenne
visibile sullo schermo quando il terminale ingrandì l’immagine. Troppo
lontano. I carichi continuavano ad arrivare disordinatamente, sparsi su
un’area troppo vasta. Avevano mandato delle squadre a recuperare parecchi
dei primi carichi, ma ben presto non sarebbe più rimasto nessuno che ci
vedesse abbastanza bene da poter effettuare un tragitto pericoloso per
recuperare le scorte e tornare indietro.
Nessuno tranne lui.
Andò a cercare Amos e la loro potenziale soluzione a quel problema. Il
meccanico aveva impiantato una piccola officina a qualche centinaio di metri
dalla torre, sotto un riparo a tetto spiovente fatto di lastre di plastica ondulata.
Un assortimento di attrezzi, parti di carrello elettrico di recupero e materiale
per le saldature erano sparsi per quello spazio ristretto.
«Come siamo messi?» chiese Holden, entrando sotto il riparo e sedendosi
su una cassa di plastica piena di un assortimento di oggetti.
Amos sedeva a gambe incrociate su un telo di plastica, circondato da
rivestimenti di batterie totalmente o parzialmente smontati. «Ecco, questo è il
problema» disse, agitando un braccio massiccio verso le batterie?»
«In che senso?»
«Nel senso che ho un paio di carrelli che hanno tirato fuori da quella zuppa
intorno alle miniere e che potrei avere pronti all’uso in poche ore, se mi ci
mettessi d’impegno. A quanto pare l’immersione non li ha danneggiati più di
tanto. Le parti del propulsore hanno bisogno di essere ripulite dal fango, ma è
un lavoro facile.»
«Però le batterie sono fradicie.»
«Sì, più o meno si riduce tutto a questo.» Amos raccolse una striscia di
metallo dall’aria delicata, coperta da chiazze di ruggine. «A loro
l’immersione ha creato problemi.»
Holden gli tolse di mano il piombo corroso e lo esaminò per alcuni secondi,
poi lo gettò nel mucchio sempre più grosso di parti inutilizzabili. «Dalla nave
dicono che i venti di alta quota rendono impossibile indirizzare i carichi con
precisione» disse. «Per ora posso mandare delle squadre di ricerca a
rintracciarli.»
«Finché tutti i tuoi cercatori non ci vedranno così male da non riuscire a
non pisciarsi sulle scarpe.»
«Fino ad allora. Poi io sarò la sola persona che potrà andare a recuperare le
scorte, e non posso fare questo e anche tutto il resto senza un mezzo di
trasporto.»
«Okay» annuì Amos. «La buona notizia è che credo di poter mettere
insieme due o tre batterie funzionanti con le parti di cui dispongo. La cattiva
notizia è che probabilmente ne potrò caricare soltanto una.»
«Una è tutto quello che mi serve. E un carrello funzionante in cui inserirla.»
«Posso riuscire a farlo» affermò Amos. Poi allungò lentamente la mano per
afferrare il saldatore ossiacetilenico. Esso si accese, emettendo una vivida
fiamma azzurra che lui puntò contro qualcosa che si trovava sul terreno. Una
lumaca velenosa che stava strisciando verso di lui morì sfrigolando.
«Come vanno i tuoi occhi?» chiese Holden, mantenendo un tono
indifferente.
«Bene, per ora» replicò il meccanico. «Forse noi non siamo qui da
abbastanza tempo. Però vedo bagliori verdi al limitare del mio campo visivo,
quindi so che ho in corpo quell’organismo, come tutti gli altri.»
«Dovresti essere dentro, con il resto di noi.»
«No» ribatté Amos. Mentre parlava, afferrò una delle batterie parziali e
cominciò a smontarla. «Gran parte del materiale di recupero che la gente di
Wei mi porta ha delle perdite di sostanze tossiche che non è il caso di avere
nell’aria, là dentro. Inoltre, non voglio che la gente metta le mani nella mia
roba.»
«Sai cosa intendo. Questo riparo che hai montato costituisce un attraente
angolo asciutto. Entro il tramonto le lumache ti arriveranno addosso in
sciami.»
«Può darsi» ammise Amos. «Però ho il mio telo di plastica che impedisce
loro di sbucare dal terreno, e quelle che cercano di strisciare dentro finiscono
fritte. Lascio i loro piccoli corpi fumanti là fuori, e dato che quelle vive
sembrano evitarli, credo di essere a posto.»
Holden annuì e rimase seduto con lui in cameratesco silenzio per qualche
minuto mentre il meccanico finiva di smontare la batteria e ne suddivideva le
parti in base a quanto erano danneggiate, creando un mucchietto di parti
pulite da usare per assemblare nuovi involucri per batterie. Holden sapeva
che se si fosse offerto di aiutarlo sarebbe stato soltanto di intralcio, ma era
così piacevole essere al riparo tanto dalla pioggia quanto dalla vista dei coloni
ansiosi che non aveva voglia di andarsene.
«Sai,» disse infine «se i tuoi occhi dovessero peggiorare ti dovrò
costringere a venire dentro, che tu abbia finito o meno.»
«Credo che tu ci possa provare» ribatté Amos, con una risata.
«Non obiettare su questo, per favore» insistette Holden. «Posso avere
almeno una cosa su cui nessuno decide di obiettare? Non intendo lasciarti qui
a finire avvelenato. E se sarai cieco credo che potrò prendermi cura di te.»
«Potrebbe essere divertente scoprirlo.» Amos rise di nuovo. «Se c’è
qualcuno che può riuscirci, credo che quello sia tu. Però non mi sto
incaponendo solo per romperti le scatole, capitano. Spero che tu lo sappia.»
«Perché, allora?»
«Qui tutti hanno lo stesso fottuto problema. Restare a corto di cibo, perdere
la vista, il pianeta che è esploso.» Mentre parlava, Amos cominciò a montare
una batteria usando le parti funzionanti. Le sue abili dita conoscevano il
lavoro tanto bene che non doveva quasi guardare quello che faceva. «Sai di
cosa staranno parlando?»
«Di quello?»
«Già. ‘Buuum, non ho da mangiare. Sto diventando cieco, santa merda, ci
sono lumache velenose.’ Io non faccio terapia di gruppo. Un paio di minuti in
mezzo a tutti quei piagnistei e comincerò a stendere la gente, giusto per avere
un po’ di pace.»
Holden si accasciò su una cassa e abbandonò la testa fradicia fra le mani.
«Lo so. Io invece sono costretto ad ascoltarli. Mi rende un po’ irritabile.»
«Sei irritabile perché sei stanco» ribatté Amos. «Hai quella fissa del devo-
salvare-tutti, quindi immagino che tu non dorma da due giorni. Però in un
certo senso ascoltare la gente lamentarsi è il tuo lavoro. È per questo che
prendi tanti soldi.»
«Prendiamo gli stessi soldi.»
«Allora suppongo che tu lo faccia per la fama e la gloria.»
«Ti odio» dichiarò Holden.
«Avrò quel primo carrello pronto e funzionante entro la fine della giornata»
replicò Amos, richiudendo la custodia della batteria con uno scatto della
plastica.
«Grazie.» Holden si issò in piedi con un grugnito e si avviò con passo
strascicato per tornare alla torre.
«Non c’è di che» replicò Amos, rivolto alla sua schiena.
Il terminale palmare di Holden si rimise a vibrare. «Jim, dov’è finito?»
disse Elvi, nel momento in cui lui attivò la connessione. «Ho bisogno di
questi dati...»
«Sto arrivando» rispose lui. «Al momento sto facendo un sacco di cose
contemporaneamente, ma dovrei essere lì fra un minuto.»
Spense la connessione giusto in tempo perché Murtry uscisse dalla porta
principale della torre e procedesse a smentire le sue previsioni.
«Capitano» disse.
«Mr Murtry. Come procedono le cose per voi? Amos pare fare buon uso dei
carrelli che abbiamo recuperato.»
«È un buon meccanico» convenne il capo della sicurezza della RCE. «C’è
stata un’altra consegna.»
«L’ho vista. Il mio terminale l’ha registrata e mappata. Ora le trasferisco i
dati in modo che possa mandare una squadra.»
Mentre trasferiva i dati, Murtry aggiunse: «Abbiamo perso un uomo.»
«Chi?»
«Paulson, uno dei miei autisti. Una lumaca gli è strisciata nello stivale
senza che nessuno la vedesse.»
«Mi dispiace moltissimo» replicò Holden, cercando di ricordare se sapeva
quale di loro fosse Paulson, e sentendosi colpevole che qualcuno fosse morto
per aiutarli e lui non riuscisse neppure ad abbinare una faccia al suo nome.
«È stato uno stupido errore» dichiarò Murtry, e intanto inserì alcuni rapidi
ordini nel suo terminale. «E non cercavo comprensione. La stavo solo
informando della situazione e del fatto che la nostra squadra si è ridotta di un
effettivo.»
«Okay.» Holden continuava a essere stupito dalla mancanza di empatia di
quell’uomo.
«Wei si occuperà del recupero delle provviste.»
«Come va la sua vista? Quanti altri di questi viaggi crede che potrà fare?»
«Si è già incamminata,» replicò Murtry, con un sorriso privo di umorismo
«quindi direi che ne può ancora fare almeno uno.»
«Splendido» annuì Holden. «La ringrazi da parte mia.»
«Lo farò» rispose Murtry, ignorando l’ironia. «Però ho bisogno di qualcosa
da lei.»
«Una necessità sua o della RCE?»
«A questo punto le consideri la stessa cosa. Se in questo carico dovessero
esserci materiali da costruzione ho bisogno di mettere insieme una squadra di
lavoro per montare la struttura prima che tutti siano troppo ciechi per poterlo
fare.»
«A che scopo? C’è una tonnellata di altri lavori che dobbiamo fare finché
possiamo. E per un colpo di fortuna,» aggiunse, indicando la torre aliena alle
spalle di Murtry «un riparo non è uno dei nostri problemi più pressanti.»
«Questa gente mangia il mio cibo, beve la mia acqua e prende le mie
medicine. La mia squadra sta raccogliendo le provviste e svolgendo il
pericoloso lavoro di recupero. Sa una cosa? Finché le cose rimangono così
possono fare lo sforzo di montare alcuni muri per me, se lo chiedo.»
«Allora io a cosa le servo?»
«Hanno l’erronea impressione che sia lei a comandare, e mi pareva scortese
correggerli.»
Holden ebbe un’improvvisa immagine mentale in cui si vedeva trascinare
Murtry, presto cieco, nel bel mezzo di quel deserto fradicio di pioggia per
abbandonarlo al centro di uno sciame di lumache velenose.
«Ho detto qualcosa di divertente?» chiese Murtry.
«Una battuta personale» replicò Holden, con un sorriso. «Per capire
avrebbe dovuto esserci. Informerò Carol che ha bisogno di volontari.»
Prima che Murtry potesse obiettare, Holden si volse e se ne andò.
All’interno, la torre era un fervore di attività perché i coloni si affrettavano
a ultimare i preparativi per la lunga notte imminente. Lucia aveva incaricato
un gruppo di riempire ogni recipiente disponibile con l’acqua prodotta
dall’apparecchiatura chimica. Carol Chiwewe e un altro gruppo stavano
setacciando le parti più interne della torre per dare la caccia alle lumache
velenose rimanenti e per tappare qualsiasi buco avessero trovato.
Holden salì una rampa e poi una serie di scalini ricavati da casse da
imballaggio vuote e raggiunse il terzo piano della torre. Dentro la camera che
avevano ottimisticamente battezzato il laboratorio, trovò Elvi, Fayez e un
terzo membro della squadra scientifica della RCE, una donna che gli pareva si
chiamasse Sudyam.
«Chi è?» chiese Elvi. Pungolò il bicipite di Fayez e insistette: «È Jim?»
Fayez lo scrutò per un secondo con gli occhi socchiusi. «Finalmente» disse
poi.
«Mi dispiace per il ritardo, ma Murtry voleva...»
«Ho bisogno che venga a leggere questo» lo interruppe Elvi, indicando il
piccolo schermo dell’apparecchiatura chimica. Holden si avvicinò e diede
un’occhiata, ma non riuscì a dare il minimo senso a quella confusione di
simboli e di acronimi.
«Cosa devo cercare?»
«Per prima cosa dobbiamo verificare il CBC, l’emocromo» rispose Elvi,
avvicinandosi per indicare lo schermo. Su di esso non c’era CBC da nessuna
parte.
«D’accordo» replicò Holden. «Ci deve essere scritto CBC? Qui non lo
vedo.»
Elvi sospirò, poi prese a parlare lentamente. «Lo schermo ha la scritta
‘risultati’, in alto?»
«No. In cima c’è scritto ‘strumenti’. È questo che intende?»
«È il menu sbagliato. Prema il pulsante per tornare indietro.» Elvi indicò un
pulsante sullo schermo, e Holden lo premette.
«Oh, adesso vedo l’opzione ‘risultati’.»
«La selezioni. Poi dovremo cercare i numeri corrispondenti a CBC, RBC,
WBC, emoglobina, ematocrito e conteggio delle piastrine.»
«Ehi, vedo tutta quella roba» esclamò Holden, soddisfatto.
«Ci legga i numeri.»
Holden obbedì, mentre Elvi prendeva annotazioni sul suo terminale. Aveva
ingrandito i caratteri al punto che Holden li poteva leggere da un capo
all’altro della stanza.
«Adesso torni su e controlliamo l’emogas» disse lei, quando ebbero finito.
Ci volle oltre un’ora, ma alla fine Holden aveva dato loro tutti i risultati di cui
avevano bisogno. Decisero di prendergli un altro po’ di sangue e di lasciarlo
andare.
Quando ebbero finito, lui sostò in piedi accanto a Elvi, premendo un pezzo
di benda sulla puntura dell’ago. «Siamo più vicini?» chiese.
«Non è un processo facile, anche avendo accesso a tutte queste menti e al
computer della Israel» replicò Elvi. «Siamo cercando un ago dentro un
organismo complesso.»
«Quanto tempo ci rimane?»
Elvi inclinò la testa in modo che la luce le battesse sulle pupille, e Holden
riuscì a vedere la vaga tonalità verde presente in esse. «Il tempo è quasi
esaurito» rispose lei. «Però dovrebbe dormire un poco. È esausto.»
«Glielo ha detto il mio sangue?»
«Non dorme da due giorni» ribatté lei, con una risata. «Me lo dice la
matematica.»
«Prometto che riposerò non appena possibile» mentì Holden.
Scese la scala improvvisata e la rampa aliena dalla curva strana fino a
raggiungere il groviglio di persone al pianterreno. Lucia aveva lasciato i suoi
assistenti a occuparsi dell’acqua e stava dirigendo un raggio di luce sottile
negli occhi di un bambino. Rivolse a Holden un sorriso stanco mentre lui le
passava accanto. Qualcuno lanciò un grido allarmato, poi attraversò a
precipizio la stanza trasportando una lumaca su un pezzo di legno e la buttò
fuori. Holden la seguì all’esterno e la calpestò.
Il cielo si stava scurendo fino ad assumere il colore della cenere bagnata e
la pioggia si andava infittendo. Verso est il tuono risuonava in lontananza e i
lampi erano visibili solo come fiochi bagliori in mezzo alle nubi compatte.
L’aria odorava di ozono e di fango.
Strascicando i piedi, Holden si avviò per fare un altro giro della torre.
39
Basia

«Ciao, papà» disse Jacek, sullo schermo. La voce del ragazzo quasi vibrava
per la paura e lo sfinimento.
«Ciao, figliolo» rispose Basia, nella registrazione e nella realtà. Jacek
cominciò a parlare delle lumache velenose e dei fulmini e di com’era vivere
nelle rovine aliene, recitando parole di rassicurazione che Basia capiva
provenire da Lucia. Jacek recitò sobriamente tutti i motivi che sua madre gli
aveva fornito per cui le cose sarebbero potute finire bene, esponendole a suo
padre come scusa per risentirle lui stesso. Era la terza volta che Basia
guardava la registrazione della conversazione con il suo ragazzo. Quando
essa finì, richiamò a video la registrazione della sua conversazione con Lucia
e la guardò per la decima volta.
Prese in considerazione la possibilità di chiedere ad Alex di chiamarli di
nuovo, per avere nuove registrazioni, ma si rese conto che era un impulso
egoistico e lo represse.
Jacek era sporco, coperto di fango, stanco. Appariva spaventato e insieme
affascinato nel descrivere l’orrore delle lumache velenose. Le costanti
tempeste di pioggia e fulmini erano esotiche in modo sorprendente per un
bambino che aveva vissuto sempre e solo in gallerie di ghiaccio e nella stiva
di una nave, prima di arrivare su Ilus. Non aveva mai detto apertamente di
desiderare che suo padre fosse lì con lui, ma quel desiderio vibrava nelle sue
parole, e non c’era niente che Basia desiderasse più del poter prendere il suo
bambino per mano e dirgli che aveva ragione a essere spaventato. Che essere
coraggiosi era avere paura ma fare lo stesso ciò che si doveva.
Quando era stato il suo turno, Lucia non era apparsa tanto spaventata
quanto esausta. I suoi sorrisi per lui erano stati sbrigativi e il suo rapporto
vago perché, Basia lo sapeva bene, non aveva da dire niente che potesse
aiutare l’uno o l’altra di loro.
I video di Felcia erano stati gli unici che gli avevano dato pace. Lei era
l’unico membro della sua famiglia a cui sentiva di non essere venuto meno.
Aveva desiderato andare a scuola, e lui era riuscito a reprimere le sue paure, i
suoi bisogni e i fardelli che portava abbastanza a lungo da lasciarla andare.
L’aveva vissuta come una vittoria.
Almeno fino a quel momento.
Ormai vedeva soltanto l’orologio che Alex aveva lasciato in funzione e che
mostrava quanto tempo rimaneva prima che Felcia bruciasse nell’attraversare
il cielo di Ilus.
La simulazione e il timer eseguivano il loro terribile programma sul
pannello alle sue spalle, che lui si sforzava di non guardare mai. Quando
aveva bisogno di usare gli schermi del ponte operativo fluttuava attraverso il
compartimento sforzandosi di non lanciare neppure un’occhiata in quella
direzione. Cercava in ogni modo di dimenticare che quell’orologio esistesse.
E non ci riusciva.
Nel riguardare per la quarta volta la sua più recente conversazione con
Felcia sentì il timer alle sue spalle come una chiazza rovente sulla schiena.
Come lo sguardo di qualcuno che lo fissasse da un capo all’altro di una
stanza affollata. Il gioco divenne vedere quanto a lungo avrebbe resistito
senza guardare. O se sarebbe riuscito a distrarsi abbastanza da dimenticare la
presenza del timer.
Sullo schermo, Felcia gli parlò di come avesse imparato a cambiare i filtri
dell’aria su un mercantile cinturiano. Non era il genere di cose che aveva
dovuto fare nei lunghi mesi in cui la Barbapiccola era stata la loro casa. Le
sue dita aggraziate diedero una dimostrazione di una complessa funzione
necessaria per quel procedimento, che lei faceva apparire facile. Divertente.
Lui però era suo padre, e sapeva che era spaventata.
Tick tick tick, l’orologio si muoveva silenzioso alle sue spalle.
Regolò la bocchetta del sistema di riciclaggio dell’aria vicina al pannello in
modo che gli indirizzasse una brezza fresca sulla faccia, poi finì la
registrazione e passò un po’ di tempo a organizzare i suoi file per contenuto e
data. Poi decise che era meglio organizzarli per data e nome, e li riordinò
daccapo.
Tick tick tick, rovente come il sole che batteva su una camicia scura, a
mezzogiorno. Bruciava senza bruciare.
Aprì il file che Alex aveva preparato con l’elenco delle riparazioni e passò
in rassegna la lista. Aveva già spuntato quei lavori che era effettivamente in
grado di fare, e passò qualche tempo a esaminare gli altri, cercando di
decidere se ce ne fosse qualcuno in cui avrebbe potuto essere d’aiuto. Non gli
saltò all’occhio nulla, il che non era sorprendente, dato che era la quinta volta
che esaminava quella lista.
Tick tick tick.
Basia si girò. La prima cosa che notò fu che i percorsi orbitali simulati
apparivano diversi. I cambiamenti erano così minimi che probabilmente non
avrebbe dovuto essere in grado di vederli, ma quelle odiose linee luminose
che descrivevano la morte della sua unica figlia gli si erano incise nel
cervello, era indubbio che fossero diverse. Per qualche ragione, impiegò più
tempo ad accorgersi che anche l’orologio era cambiato.
C’erano tre giorni in meno.
L’ultima volta che lo aveva guardato, appena poche ore prima, esso aveva
indicato poco più di otto giorni, mentre adesso ne rimanevano poco meno di
cinque.
«L’orologio si è rotto» disse, senza rivolgersi a nessuno.
Alex era nella cabina di pilotaggio, dove pareva passare la maggior parte
del tempo. Basia strattonò le cinghie che lo trattenevano sul sedile, lottando
senza successo contro di esse finché non si costrinse a calmarsi e a premere il
pulsante che le sganciava. Poi si spinse verso la scaletta e la risalì.
Alex aveva sullo schermo principale un grafico dall’aria complessa a cui
stava lavorando con tocchi leggeri e un flusso costante di borbottii a mezza
voce.
«Il timer è sbagliato» disse Basia. Se non fosse stato per il fatto che aveva
inesplicabilmente il fiato corto, avrebbe urlato quelle parole.
«Mmm?» Alex passò una mano sul pannello, su cui apparve un grafico
pieno di numeri, nel quale procedette a inserire nuovi dati.
«L’orologio... quel timer orbitale è rotto!»
«Ci sto lavorando proprio ora» replicò Alex. «Non è rotto.»
«Segna che restano cinque giorni!»
«Sì» confermò Alex, poi smise di lavorare e ruotò il sedile in modo da
guardare verso Basia. «Volevo parlartene.»
Basia sentì le forze che gli venivano meno. Se ci fosse stata forza di gravità
si sarebbe accasciato sul pavimento come se le gambe fossero state di
gomma. «Il dato è giusto?»
«Sì» confermò il pilota, cancellando di nuovo i dati sullo schermo alle sue
spalle per tornare al display grafico. «Però non è una cosa inattesa. I calcoli
iniziali sulla durata delle batterie erano destinati a cambiare. Erano dall’inizio
un calcolo approssimativo.»
«Non capisco» protestò Basia, lo stomaco serrato in una morsa. Se
nell’ultimo paio di giorni si fosse preso la briga di mangiare qualcosa,
probabilmente avrebbe vomitato.
«Il primo calcolo era basato sulla distanza orbitale, la massa della nave e
l’aspettativa di durata delle batterie rispetto ai livelli di consumo.» Mentre
parlava, Alex indicò svariati punti del suo grafico, come se quello spiegasse
qualcosa, come se quel grafico avesse un senso. «Il decadimento dell’orbita
non è qualcosa di cui ci si preoccupi quando i reattori sono in funzione. Se lo
volesse, chiunque di noi potrebbe costruire orbite dannatamente permanenti,
ma la Barb ha mandato quella navetta avanti e indietro per caricare il
minerale, quindi ha consumato energia, un po’ a ogni viaggio. E perdonami
se te lo dico, ma è un mucchio di rottami volanti. È più pesante di quanto
dovrebbe essere, e le batterie si stanno esaurendo in fretta. Questo spiega i
nuovi numeri.»
Fluttuando accanto al sedile del cannoniere, Basia guardò quei numeri
odiosi disporsi sullo schermo.
«Lei ha perso tre giorni» disse, quando infine trovò il fiato per parlare. «Tre
giorni.»
«No, non li ha mai avuti» replicò Alex. Le sue parole erano aspre, brutali,
ma il suo volto era triste e gentile. «Non ho dimenticato la mia promessa. Se
la Barb dovesse precipitare, la tua bambina sarà su questa nave quando
succederà.»
«Grazie» rispose Basia.
«Adesso chiamo il capitano ed elaboreremo un piano. Dammi solo un po’
di tempo. Puoi farlo?»
Cinque giorni, pensò Basia. Ho cinque giorni da darti.
«Sì» disse invece.
«D’accordo» replicò Alex, e attese pieno di aspettativa che Basia se ne
andasse. Quando lui non lo fece, scrollò le spalle e si girò per inoltrare la
chiamata sul pannello delle comunicazioni. «Capitano, parla Alex.
Rispondi.»
«Parla Holden» rispose un momento più tardi una voce familiare.
«Ho analizzato i valori aggiornati, come mi avevi chiesto, ed è sicuro che
perderemo prima la Barb.»
«Quanto è grave la situazione?» chiese il capitano. La connessione
sembrava disturbata, e Basia impiegò un momento a capire che si trattava del
rumore della pioggia.
«Meno di cinque giorni prima che entri in contatto con più atmosfera di
quanta ne possa sopportare.»
«Dannazione» imprecò Holden, poi più niente. Il silenzio si protrasse
abbastanza a lungo da indurre Basia a preoccuparsi che avessero perso la
connessione. «In che stato è la Roci?»
«Oh, noi stiamo bene. Quasi tutto è disattivato, tranne le luci e l’aria.
Abbiamo un sacco di tempo.»
«Possiamo aiutarli?»
«Nel senso di rimorchiarli?» domandò Alex, strascicando le parole.
«Qualcosa del genere. Possiamo farlo?»
«Capo,» replicò Alex «agganciare due navi in quel modo è fattibile, ma
farlo in un’orbita bassa non è un problema da poco. Io sono soltanto un
pilota. Sarebbe carino se potessimo riavere... sai... il nostro ingegnere perché
facesse i calcoli.»
«Già, non mi dire» ribatté Holden, che a Basia parve irritato. Quello era un
bene. La rabbia era un bene. Basia si sentì stranamente confortato dall’idea
che qualcun altro, oltre a lui, fosse turbato dalla situazione.
«C’è possibilità di riaverla?» incalzò Alex.
«Lasciami parlare di nuovo con Murtry» disse Holden. «Ti richiamerò al
più presto. Chiudo.»
Alex sospirò, le labbra serrate.
«Parlargli non servirà» disse Basia. «Giusto?»
«Non vedo come possa servire» annuì Alex.
«Il che significa che con ogni probabilità dovremo andare a prenderla da
soli. Sai che ci siamo soltanto noi, tu e io. Tutto qui.»
«Siamo in tre» lo corresse Alex, battendo un colpetto sul pannello. «Non lo
dimenticare. Abbiamo la Roci.»
Basia annuì, attese che lo stomaco gli si contraesse di nuovo e rimase
sorpreso nel sentirsi invece pervadere da un caldo senso di pace. «Cosa devo
fare?»
«Questa è una tuta ALV» disse Alex, indicando l’equipaggiamento
assicurato all’interno di un armadietto aperto. Erano sul ponte dei portelloni
pressurizzati che, a parte i portelloni stessi, conteneva quasi esclusivamente
armadietti e compartimenti di stoccaggio. Il contenuto di quel particolare
armadietto sembrava una tuta completa di gomma con un sacco di cose
attaccate.
«Alveee?»
«A. Elle. Vi. Sta per armatura leggera per il vuoto. Ti permette di muoverti
all’esterno, con una quantità d’aria e una protezione tali da far sì che continui
a respirare e da proteggerti dalla maggior parte delle radiazioni.» Alex tirò
fuori la tuta e la lasciò fluttuare accanto all’armadietto perché Basia potesse
esaminarla. «Autosigillante, in caso di lacerazione, con supporto vitale,
sensori medici e medicinali di base di scorta inseriti.» Tirò fuori una corazza
rossa dall’aspetto metallico. «Questo inoltre ti protegge dall’essere riempito
di buchi prodotti da armi da fuoco di piccolo calibro.»
Mentre Alex tirava fuori ogni pezzo e glielo mostrava, spiegandogliene la
funzione, Basia li esaminò doverosamente e commentò in modo che sperò
essere appropriato. Aveva indossato tute da lavoro per il vuoto quasi per tutta
la sua vita, e ne conosceva bene forma e funzione. Tuttavia gli svariati pezzi
di armatura e tecnologia che trasformavano quella tuta in un’arma da guerra
esulavano dalla sua esperienza. Di certo qualcosa che Alex descrisse come
‘IAN automatico e tracciamento di elementi ostili mediante HUD’ suonava
davvero impressionante e utile, ma lui non aveva idea a cosa potesse servire,
quindi si limitò ad annuire e ad assumere un’aria pensosa nell’esaminare il
casco che Alex gli porgeva.
«Hai mai usato un’arma da fuoco?» chiese Alex, dopo che ebbero tirato
fuori tutta l’armatura dall’armadietto.
«Mai» rispose Basia. Per un momento fu assalito dal fugace quanto vivido
ricordo dell’attacco alla squadra della sicurezza della RCE, delle orribili ferite
prodotte dalle armi da fuoco, e della sorpresa sul volto di quelle persone
mentre morivano. Attese di essere assalito dalla nausea, ma continuò ad
avvertire soltanto calma e calore. «Una volta ne ho presa in mano una. Sono
sicuro di non aver fatto fuoco.»
«Questa,» disse Alex, sollevando una grossa pistola nera «è una pistola
semiautomatica da 7.5mm, caricatore da venticinque proiettili. Arma standard
dell’MCRN, virtualmente a prova di idiota, per cui è quella che intendo darti.»
«Ammesso che io vada» osservò Basia.
«Certo» convenne Alex, con un sorriso. «Non abbiamo un poligono dove
fare pratica, ma puoi provare a fare fuoco a vuoto un po’ di volte per abituarti
a maneggiare l’arma. In tutta onestà, però, se andrai là fuori e avrai bisogno
di essere un tiratore di precisione per potertela cavare, sarai fottuto.»
«Allora perché portarla con me?»
«Perché quando gli punti contro una di queste la gente fa quello che vuoi
tu» ribatté Alex.
«Allora tanto vale che resti scarica» osservò Basia, prendendogli di mano la
pistola e agitandola nell’aria per valutarne il peso.
«Se vuoi...» disse Alex.
«No. Mostrami cosa devo fare, poi carichiamola.» Per Felcia. Posso farlo
per lei.
«D’accordo» assentì Alex, e procedette a fare quello che Basia gli aveva
chiesto.
Holden richiamò parecchie ore più tardi, e quando parlò la sua voce suonò
tesa per l’ira. «Parla Holden. Murtry non intende piegarsi di un centimetro,
quindi che si fotta. Andate a prendere Naomi. Chiudo.»
«Bene» commentò Alex, strascicando quella parola fino a farne un lungo
sospiro. «Credo che abbiamo smesso di essere dei mediatori.»
Basia annuì agitando il pugno, cosa che lo fece ruotare leggermente su sé
stesso. Fluttuavano entrambi sul ponte operativo, con i vari pezzi smontati
della pistola sospesi nell’aria accanto a Basia. Alex aveva insistito
sull’importanza del saper smontare e rimontare l’arma. Basia non aveva idea
del perché fosse tanto importante, ma si era adeguato.
«Adesso che si fa?» chiese.
«Meglio rimontare quella pistola. Poi richiamerò a schermo le specifiche
della Israel e le esamineremo un’ultima volta. Ricorda che le cose vengono
spostate su una nave in attività, per cui non si trovano sempre dove risultano
essere sui progetti originali. Ti conviene scegliere vie d’ingresso e di uscita
diverse, nel caso che qualcuno abbia bloccato il corridoio che intendevi
usare.»
«Ho buona memoria» disse Basia. Sembrava una vanteria, ma era vero. Era
cresciuto in un mondo fatto di corridoi e passaggi e aveva un eccellente senso
dell’orientamento.
«Questo sarà d’aiuto. Adesso ti infiliamo in quella tuta, poi ti scaricherò
fuori» disse Alex, poi fece una pausa. «C’è però un problema di cui non
abbiamo discusso. Ho energia in abbondanza per farti arrivare là, e la Roci
può accertarsi che nessuno ti crei problemi mentre sei nello spazio, però non
posso riportarti dentro.»
Basia lo sorprese scoppiando a ridere.
«C’è qualcosa di divertente?» chiese Alex, inarcando un sopracciglio.
«La cosa divertente è che ti preoccupi dell’unica parte di tutto questo in cui
io saprò effettivamente che cosa sto facendo» rispose Basia. «Sono un
saldatore nel vuoto di classe 3, con tanto di licenza. Io saldo nello spazio.
Trovami una nave in cui non possa entrare aprendomi un varco nello scafo.
Prova a trovarla.»
«D’accordo.» Alex gli assestò una leggera pacca sulla spalla. «Mettiamoci
al lavoro.»
Basia si allontanò fluttuando dalla Rocinante. Invece di una semplice tuta
per il vuoto con scorta d’aria indossava una modernissima armatura leggera
da combattimento di fattura marziana. Invece di camminare sullo scafo di una
nave servendosi degli stivali magnetici, si stava spostando attraverso una
mezza dozzina di chilometri di vuoto grazie a sbuffi calibrati di azoto
compresso. Ilus ruotava sotto i suoi piedi, un mondo grigio e rabbioso,
avvolto nelle tempeste solcate di continuo da fulmini di alta quota. Lucia e
Jacek erano laggiù, sotto tutta quella furia atmosferica, ma non poteva fare
niente per aiutarli, quindi avrebbe aiutato la persona a cui poteva essere utile.
Avrebbe salvato Naomi dalla nave della RCE, e lei avrebbe salvato sua figlia.
In quella logica c’erano un sacco di buchi che evitò accuratamente di
analizzare.
Nell’oscurità, fluttuò più vicino alla massiccia isola di metallo grigio. La
Edward Israel. Il nemico.
«Tutto bene là fuori?» chiese Alex, attraverso il sistema di comunicazione.
I piccoli altoparlanti del casco appiattivano la sua voce, aggiungendo un
rabbioso sibilo di sfondo.
«Benissimo. Tutto è verde.» Alex gli aveva spiegato come far scorrere gli
indicatori di stato del visore a sovraimpressione del casco, e Basia li
controllava doverosamente a intervalli di pochi minuti.
«Allora, sto avanzando ogni sorta di irose richieste per la liberazione di
Naomi» continuò Alex. «Ho la Israel sotto tiro dei laser e sto inondando i
loro sensori di statica, confondendoli con la diffusione ottica. Questo
dovrebbe tenere i loro occhi, o almeno quelli di cui ancora dispongono,
puntati saldamente sulla Roci. Avrai un paio di minuti prima che si rendano
conto che ti stai aprendo un varco nello scafo.»
«Non sembra un tempo molto lungo» osservò Basia.
«Taglia in fretta.»
Alex gli aveva garantito che le batterie della Rocinante avevano energia in
abbondanza, e che azionare i laser o disturbare i segnali radio non avrebbe
causato un consumo eccessivo. Basia però aveva finito per vedere l’energia
come una risorsa preziosa e insostituibile, qualcosa che non aveva mai avuto
bisogno di fare in un’epoca in cui la fusione era un’energia facilmente
accessibile. Quello dava a tutto un senso di permanenza che prima non aveva.
Non era più possibile rifare le cose, o dire che sarebbero state fatte nel modo
giusto la prossima volta.
Controllò la propria rotta verso il portellone di manutenzione al centro dello
scafo della Israel, poi tirò fuori il saldatore, stringendolo fino a farsi
sbiancare le nocche.
La nave si ingrandì fino a occupare la sua visuale in ogni direzione. Il
portellone cessò di essere un minuscolo punto appena più chiaro per
diventare un quadrato grosso come un’unghia e poi una vera porta con
inserita una piccola finestra rotonda. Il pacchetto EVA preprogrammato
espulse una lunga scarica di azoto in quattro coni di vapore e lui si andò a
fermare con delicatezza a un metro di distanza.
Il saldatore si accese con una scarica di intenso fuoco azzurro. «Sto
arrivando» disse Basia, a Naomi e alla gente della RCE che la sorvegliava, e
alla sua bambina distante migliaia di chilometri sulla sua nave morente.
Sto arrivando.
40
Havelock

«Ho disattivato tutto quello che potevo disattivare» disse Marwick, sullo
schermo. «Sensori, luci, intrattenimenti. Ho anche abbassato il
condizionamento dell’aria. Con le batterie nello stato in cui sono abbiamo
poco meno di diciassette giorni, e questo con i collettori solari attivi al
massimo. Meno se cominceranno a cedere. Poi sarà il momento di decidere
se preferiamo soffocare o bruciare.»
Havelock si sfregò gli occhi con pollice e indice, energicamente. Non era
andato in palestra, e cercava di compensare aumentando le dosi di steroidi per
assenza di gravità. Non era un rimedio a lungo termine, ma quanto più ci
pensava, tanto più pareva probabile che non avrebbe avuto bisogno di altro.
Però gli steroidi gli procuravano l’emicrania. Se non fosse stato per Naomi,
non avrebbe dedicato tutto il tempo che aveva fatto all’esercizio fisico. Era
una cosa di cui doveva esserle grato.
Gli sembrava che l’ufficio fosse caldo e afoso, con la temperatura che
continuava a salire. Da bambino, vivendo su un pianeta, aveva sempre
pensato che lo spazio fosse freddo, il che era vero, da un punto di vista
tecnico. E di conseguenza, il più delle volte una nave era un vero
termosifone. Il calore prodotto dai loro corpi e dai sistemi si sarebbe disperso
nel vuoto per anni o perfino decenni, se ne avesse avuto la possibilità. Se lui
avesse trovato il modo di dare loro una possibilità.
«Ne abbiamo fatto parola con l’equipaggio?» chiese.
«Non l’ho informato, ma è difficile tenere segreti i dati, soprattutto quando
hai una nave piena di scienziati e di ingegneri che non hanno niente altro da
fare. Dovremo discutere della possibilità di paracadutarli a terra, almeno
quanti più possibile di loro.»
«In modo che possano morire di fame sul pianeta, sempre che le lune non
sparino loro addosso?»
«In effetti, sì» ribatté Marwick. «Hanno fatto molta strada solo per non
mettere piede sulla superficie. So che più di uno fra loro preferirebbe morire
laggiù.»
Nella sua gabbia, Naomi tossì.
«Parlerò con Murtry» disse Havelock. «Avere un cimitero sul pianeta
potrebbe essere una cosa che gli andrebbe bene, soprattutto se possiamo
seppellirvi più gente dei nostri di quanti siano i coloni.»
Marwick sospirò. Aveva smesso di radersi, e quando si sfregò il mento
produsse un rumore simile a una manciata di sabbia gettata contro una
finestra. «Ci siamo andati vicini, però, vero? Abbiamo fatto tutta la strada fin
qui per rimettere in funzione tutto quel dannato mondo.»
«Abbiamo visto la terra promessa» affermò Havelock. «Cosa mi dice della
Barbapiccola? Qual è la sua situazione?»
«Tale da far sembrare buona la nostra. In poco più di quattro giorni quel
litio diventerà vapore disperso nell’atmosfera.»
«Bene, allora credo che non ci dovremo preoccupare di impedire loro di
trasportarlo fino a un dannato mercato.»
«Il problema sta per risolversi da solo» convenne Marwick. «Per tornare al
punto, però, come facciamo con la sicurezza? Questa gente sta per affrontare
una morte che non può combattere e da cui non può fuggire. Daranno i
numeri se non facciamo qualcosa, e né lei né io abbiamo uomini a sufficienza
per fermarli, se le cose dovessero sfuggire al controllo.»
‘Che importanza avrebbe’ voleva rispondere Havelock. ‘Che si scatenino
pure. Questo non accorcerà il tempo che impiegheremo a impattare con
l’atmosfera neppure di un minuto.’
«Capisco» disse invece. «Ho i codici di intervento di sicurezza.
Programmerò il sistema di automedicazione perché aggiunga un po’ di
tranquillante e di stabilizzante dell’umore, magari anche dell’antidepressivo
nella somministrazione di ciascuno. Non voglio esagerare, però. Ho bisogno
che questa gente sia in grado di pensare, non drogata fino agli occhi.»
«Se è così che vuole gestire la cosa...»
«Non intendo trasformare questa nave in un istituto per malati terminali.
Non ancora.»
La scrollata di spalle del capitano fu eloquente e non lasciò spazio ad altro
da dire. Havelock chiuse la connessione e lo schermo passò all’immagine di
default. La disperazione lo aggredì come un’onda incontrollata. Avevano
fatto tutto nel modo giusto, ma non importava. Sarebbero morti tutti quanti –
tutte le persone che era venuto a proteggere, tutti i suoi compagni di squadra,
la sua prigioniera, lui stesso, tutti. Sarebbero morti e non c’era niente che
potesse fare se non farli sballare con le droghe prima che succedesse.
Non si rese conto che stava per sferrare un pugno allo schermo finché non
l’ebbe fatto. Il pannello si spostò leggermente nella sua sede, ma il suo colpo
non lasciò segni su di esso. Le sospensioni del sedile a smorzamento
sibilarono nell’assorbire il suo movimento. Si era lacerato una nocca. Una
goccia di sangue gli affiorò sulla pelle, crescendo fino a diventare delle
dimensioni di una biglia rossa, con la tensione di superficie che la spostava
lungo la pelle sotto i suoi occhi. Quando si mosse, lasciò sospeso nell’aria
uno spruzzo di gocce che sembravano piccoli pianeti e lune.
«Sa,» commentò Naomi «se guarda a centinaia di persone che muoiono
bruciate come a un problema che si risolve da solo, questa potrebbe essere
una prova ulteriore che è dalla parte sbagliata.»
«Non abbiamo messo noi le bombe» ribatté Havelock. «Sono stati loro.
Hanno cominciato loro.»
«Le importa?»
«A questo punto? Non quanto probabilmente dovrebbe.»
Naomi stava fluttuando vicino alla porta della gabbia. Havelock rimaneva
sempre stupito di fronte alla capacità di un cinturiano di tollerare gli spazi
ristretti. Probabilmente l’evoluzione aveva escluso la claustrofobia dal loro
patrimonio genetico. Si chiese quante generazioni della famiglia di Naomi
avessero vissuto fuori da un pozzo gravitazionale.
«Sta sanguinando» osservò lei.
«Sì. Anche questo non avrà molta importanza.»
«Sa che potrebbe farmi uscire. Sono un ottimo ingegnere, e là fuori ho la
migliore delle navi. Mi lasci tornare sulla Roci e potrei riuscire a trovare un
modo per migliorare le cose.»
«Niente da fare.»
«Eppure credevo che non le importasse» commentò lei, con un sorriso che
le traspariva dalla voce.
«Non so come possa essere tanto calma riguardo a tutto questo.»
«È quello che faccio quando ho paura. E lei dovrebbe proprio lasciarmi
uscire.»
Havelock raccolse il sangue che fluttuava nell’aria. Sulla nocca si era già
formata una crosta. Effettuò il login nel sistema di automedicazione con la
sconvolgente sensazione che quello fosse il primo passo verso la resa. Però
era una cosa che andava fatta. Un equipaggio pieno di persone in preda al
panico non avrebbe migliorato le cose, soprattutto se si considerava che la
cosa più vicina che aveva a un completo complemento di forze di sicurezza
era sul pianeta con Murtry.
I notiziari che gli arrivavano da casa erano pieni di servizi iperbolici
riguardo alla tragedia in corso su Nuova Terra. I dati rilevati dai sensori al
momento dell’esplosione avevano raggiunto alcuni fra i notiziari più
accreditati, ma c’erano in circolazione anche tre o quattro versioni
contraffatte. Peraltro, i dati fasulli non erano molto più impressionanti di
quelli reali. Passò in rassegna una dozzina di commentatori. Alcuni
sembravano infuriati che alla spedizione fosse stato permesso di partire, altri
erano seri e tristi, ma nessuno sembrava pensare che ci fosse la minima
probabilità che qualcuno sopravvivesse. La coda di messaggi in attesa si era
allungata a oltre un migliaio. Gente dei media, gente dell’ufficio della RCE.
Alcune – ma solo alcune – persone che conosceva. Una vecchia amante del
tempo in cui prestava servizio alla Pinkwater. Un cugino che non vedeva da
una quindicina d’anni e che adesso viveva sulla Stazione di Ceres. Un paio di
compagni di classe di quando andava a scuola.
Non c’era niente come morire pubblicamente su un miliardo di schermi che
contribuisse a ristabilire i contatti con la gente. Non avrebbe risposto a
nessuno, neppure ai suoi datori di lavoro, neppure agli amici. Tutto gli dava
la sensazione di essere intrappolato sott’acqua, prossimo ad annegare mentre
guardava in alto verso la superficie con la consapevolezza che non l’avrebbe
mai raggiunta.
Slacciò le cinghie.
«Buona notte, Havelock» disse Naomi.
«Tornerò» replicò lui, lanciandosi attraverso l’ufficio.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato di pattuglia, anche
in via informale. Si spostò lungo gli stretti corridoi della Israel, muovendosi
attraverso gli spazi comuni – lo spaccio, la palestra, il laboratorio, il bar. Nei
mesi – anni, ormai – in cui aveva vissuto sulla Israel essa era diventata
invisibile come succedeva a qualsiasi luogo ben noto. Guardarla in quel
momento era come vederla per la prima volta. Era una vecchia nave: la forma
accuratamente simmetrica dei corridoi, il meccanismo a chiave delle porte,
tutto ciò era il genere di cose che aveva visto nelle fotografie dei suoi nonni.
Vedere le persone gli fece più o meno lo stesso effetto. C’era una certa
distanza fra le forze di sicurezza e il resto dell’equipaggio. Se non ci fosse
stata, avrebbe significato che qualcosa era decisamente andato per il verso
storto. Havelock non pensava a sé stesso come a parte dell’equipaggio della
Israel, ma riconobbe ogni volto che oltrepassava. Hosni McArron, capo della
squadra di scienze alimentari. Anita Chang, tecnico dei sistemi. John Deloso,
meccanico. Anche se non avrebbe saputo dire come faceva a conoscerli,
adesso facevano parte del contesto della sua vita.
E sarebbero morti tutti, se non fosse riuscito a impedire che accadesse.
Il ponte di osservazione di prua era una stanza buia. Gli schermi erano stati
costruiti per dare l’illusione di guardare da una finestra la vastità dello spazio,
ma nessuno li usava mai davvero in quel modo. Quando entrò, la stanza era
vuota e gli schermi erano pieni di dati dei sensori, che scorrevano troppo in
fretta per essere letti, di una composizione musicale di un cinturiano dalla
pelle scura che non riconobbe e di una mappa di Nuova Terra a falsi colori.
Niente luci, niente città, nessun segno della piccola presenza umana che
lottava per sopravvivere. Il pianeta che li aveva uccisi tutti.
E tuttavia era splendido.
Il suo terminale palmare vibrò. La connessione in arrivo era in rosso, il che
significava che era un allarme di sicurezza. L’adrenalina gli invase il sangue
e gli fece martellare il petto ancora prima che attivasse la connessione.
Quando vi si inserì, Marwick e Murtry erano già nel pieno di una
conversazione.
«...Molti di loro, e adesso non mi importa di scoprire come» disse Marwick,
quasi urlando. L’espressione di Murtry appariva irosa e sprezzante, ma
Havelock si rese conto che dipendeva solo dal fatto che non guardava verso
la telecamera. Non ci vedeva più.
«Cosa succede?» chiese.
«La Rocinante ci sta prendendo di mira» spiegò Marwick.
Havelock si stava già spingendo fuori del ponte di osservazione,
procedendo in fretta lungo il corridoio. «Hanno fatto delle richieste?»
«Hanno fatto seguito alle minacce» ribatté Marwick, levando in aria le
braccia.
«Questa è un’iperbole» dichiarò Murtry. «Stanno solo colorando lo scafo
della Israel con i loro laser di puntamento. E c’è un pazzo bastardo che sta
aprendo un varco nel portellone di manutenzione nel centro della nave.»
«Ci stanno abbordando?» chiese Havelock, incapace di nascondere la
propria incredulità. «Chi? A che scopo?»
«Attualmente la motivazione non ci interessa» ribatté Murtry. «La nostra
priorità è assicurarci di mantenere la sicurezza della nave.»
Havelock afferrò una maniglia all’intersezione di due corridoi e si spinse
verso il basso a piedi in avanti, in direzione dell’incrocio che lo avrebbe
riportato alla sua scrivania. «Con il dovuto rispetto, signore, sa anche lei che
devono essere qui per la prigioniera. Perché non gliela restituiamo? Tanto la
cosa non avrà importanza.»
Murtry inclinò il capo con un sorriso sottile e crudele. «Stai suggerendo di
liberare la sabotatrice?»
«Comunque siamo già tutti morti» ribatté Havelock. Ecco, lo aveva detto ad
alta voce. Quello che stavano pensando tutti... tutti tranne Murtry.
«Eri forse immortale prima che partissimo?» chiese lui, con voce fredda e
arida quanto il tintinnare di un serpente a sonagli. «Perché sia che tu intenda
morire la prossima settimana o fra sette decenni, questo è comunque il modo
in cui noi facciamo le cose.»
«Sì, signore» disse Havelock. Mentre raggiungeva l’ultima svolta e si
trascinava in basso verso il suo ufficio. «Mi dispiace, signore.»
La connessione trillò quando qualcun altro si unì alla conversazione.
L’ingegnere capo era cupo in volto e infuriato in un modo che destò
l’immediata diffidenza di Havelock.
«Eccomi a rapporto» disse.
«Un momento, cosa ci fa lui qui?» domandò Havelock.
«Ho incluso la sua milizia in questa faccenda» spiegò Murtry, mentre
Havelock entrava nel suo ufficio. «Se dobbiamo respingere un abbordaggio,
avremo bisogno di loro.»
«Gli uomini sono pronti» disse l’ingegnere capo, senza fare una piega.
«Diteci soltanto dov’è che quei figli di buona donna stanno entrando e
saremo là ad affrontarli.»
Oh, dio, pensò Havelock, parla come se fosse in un film. Questa è un’idea
terribile.
«Mr Havelock,» aggiunse Murtry, formale «le chiedo di dare alle forze
della milizia accesso alle scorte di munizioni.»
«Con il dovuto rispetto, signore,» obiettò Havelock «non credo sia una
buona idea. Questa non è un’esercitazione a paintball. Si parla di uno scontro
effettivo. Già il solo rischio di fuoco amico...»
La voce di Murtry si fece calma, fredda e tagliente. «Devo pensare, Mr
Havelock, che lei abbia fatto un lavoro tanto scadente nell’addestrare questi
uomini da ritenere che saremmo più al sicuro respingendo gli assalitori con
proiettili di vernice?»
«No, signore» replicò Havelock. Poi, con sua sorpresa, si trovò ad
aggiungere: «Sostengo però che a questo punto sarebbe prematuro distribuire
munizioni. Credo che dovremmo scoprire qualcosa di più su cosa sta
succedendo prima di ingigantire le cose.»
«Questa è la sua opinione professionale?» chiese Murtry.
«Sì.»
«E se le ordinassi di distribuire le munizioni a questi uomini?»
Naomi era nella sua gabbia, con le dita serrate intorno alla rete metallica,
gli occhi seri e sgranati. Havelock distolse lo sguardo. Il sospiro di Murtry fu
breve e sonoro.
«Bene, non la metterò nella posizione di dover scegliere» disse poi.
«Capo?»
«Sì, signore» rispose l’ingegnere capo.
«Le sto trasmettendo i miei personali codici di sicurezza. Può usarli per
prendere armi e munizioni nell’armeria. Ha capito?»
«Diavolo, sì, signore» replicò l’ingegnere capo. «Apriremo in quei bastardi
tanti buchi che ci si potranno vedere attraverso le stelle.»
«Lo apprezzerei» ribatté Murtry. «Ora, signori, se volete scusarmi...»
La connessione si interruppe.
«Cosa sta succedendo?» chiese Naomi. Ogni nota di calore era scomparsa
dalla sua voce e adesso sembrava davvero spaventata. O forse era infuriata.
Havelock non avrebbe saputo dirlo. Non le rispose. L’armeria era vicino alla
postazione di sicurezza principale, non alla prigione. Anche se si fosse
affrettato non sarebbe riuscito ad arrivarci prima degli altri, e se pure lo
avesse fatto non sapeva cosa avrebbe detto loro.
Aveva una pistola, nell’armadietto. Forse, se si fosse unito a loro sarebbe
ancora riuscito a controllare un poco la situazione.
«Havelock, cosa sta succedendo?»
«Ci hanno abbordati e opporremo resistenza.»
«Si tratta della Barbapiccola?»
«No. È la Rocinante.»
«Allora stanno venendo a prendere me.»
«Suppongo di sì.»
Havelock prelevò un fucile a canna mozza dall’armadietto delle armi.
«Se si tratta di Alex e gli sparate, non vi aiuterò» disse Naomi. «Non
importa cosa succederà dopo, se gli farete del male avremo chiuso. Anche se
dovessi trovare il modo di salvarvi, vi lascerò bruciare.»
Il monitor trillò. Era una richiesta di connessione dal pianeta. Havelock la
accettò immediatamente, e sullo schermo apparve il volto della dottoressa
Okoye, con la fronte aggrottata e gli occhi che si muovevano come se stesse
cercando qualcosa. Nelle sue pupille si vedeva un riflesso verde che fece
accapponare la pelle a Havelock.
«Mr Havelock? È lì?»
«Temo che questo non sia un buon momento, dottoressa.»
«Lei sta coordinando i lanci di scorte. Ho bisogno di vedere se possiamo
avere...»
«È qualcosa per cui ci sono persone che moriranno se non risolviamo la
cosa entro i prossimi cinque minuti?»
«Cinque minuti? No.»
«Allora dovrà aspettare» replicò Havelock, e chiuse la connessione. Il
portellone di manutenzione nel centro della nave era il più vicino alla
prigione. Ci sarebbero state strozzature lungo il percorso nello spogliatoio, al
portellone di decompressione di emergenza e all’intersezione con il corridoio
di manutenzione. Suppose che l’ingegnere capo avrebbe piazzato i suoi
uomini negli ultimi due punti e lasciato perdere lo spogliatoio. Come ultima
precauzione, avrebbe potuto mandare anche un paio di uomini alla prigione.
Su quello però avrebbe incontrato opposizione, perché tutta la squadra
avrebbe voluto prendere parte all’operazione principale. E avrebbero avuto
munizioni vere. Si chiese cosa avrebbe avuto in dotazione il nemico.
Un’armatura potenziata? Forse. Forse...
«Non siamo obbligati a farlo» disse Naomi.
«Non mi piace più di quanto piaccia a lei, ma è quello che sta succedendo.»
«Ne parla come se si trattasse di una questione di fisica. Come se non
comportasse delle scelte, e questo è pazzesco. Sono venuti per me. Mi lasci
andare e se ne andranno anche loro.»
«C’è un modo in cui affrontiamo queste cose» ribatté Havelock, caricando
il fucile con proiettili a espansione non letali.
«Lo ha detto lui, vero? È stato lui.»
«Non so di cosa sta parlando» si schermì Havelock.
«Murtry. Il grande capo. Perché è questo che lei fa, sa? Ascolta quello che
dice lui, poi lo ripete come se fosse una cosa in cui deve davvero credere.
Questo non è il momento di comportarsi così. Questa volta lui sta sbagliando,
e probabilmente è già stato in errore altre volte, prima.»
«Non è lui quello chiuso in cella. Non mi pare che lei abbia molti diritti di
fare la spaccona.»
«Quella è stata pura sfortuna» ribatté Naomi. «Se voi non foste stati là fuori
a fare i vostri giochi di guerra, avrei disattivato la vostra piccola bomba e me
ne sarei andata prima che qualcuno se ne accorgesse.»
«A cosa servirebbe se la lasciassi andare? Non farebbe nessuna differenza.
Le navi precipiteranno. Qui non c’è nessuno che ci possa aiutare. Lei non può
sistemare le cose.»
«Forse no» convenne Naomi. «Però posso morire cercando di essere
d’aiuto, invece di cercare di uccidere altre persone o di guardarle morire.»
Havelock serrò la mascella. Premette il dito sul grilletto e chiuse gli occhi.
Sarebbe stato così facile puntare la canna verso la gabbia e sparare un
proiettile contro la rete per scaraventare Naomi in fondo alla cella.
Solo che non lo avrebbe fatto. Il senso di liberazione gli partì dal petto e gli
si diffuse fino alle dita delle mani e dei piedi in un solo istante. Si spinse
verso di lei e inserì il suo codice sulla tastiera. La gabbia si aprì.
«Venga fuori, allora» disse.
41
Elvi

La nomenclatura scientifica era sempre difficile. Dare un nome a un nuovo


organismo, sulla Terra o anche nel sistema solare, era un procedimento lungo
e noioso, e l’improvviso afflusso di campioni da Nuova Terra avrebbe
probabilmente intasato la letteratura scientifica per decenni. Non si trattava
soltanto della lucertola mimo o di quei volatili simili a insetti. Ogni analogo
di batterio sarebbe stato una cosa nuova. Ogni organismo unicellulare sarebbe
stato sconosciuto. La sola Terra aveva cinque regni naturali. Sei se si
accettava l’ipotesi di Fityani. Elvi non riusciva a immaginare che
l’ecosistema di Nuova Terra potesse risultare più semplice di quello terrestre.
Nel frattempo, però, la cosa che viveva nei suoi occhi – negli occhi di tutti
loro, tranne Holden – non sarebbe stata un organismo ufficialmente
conosciuto per anni. Forse per decenni. Sarebbe rimasta ufficialmente priva
di nome finché non fosse stata posizionata nel più ampio contesto di vita del
pianeta.
Fino ad allora, decise che l’avrebbe chiamata Skippy. In qualche modo,
sembrava meno spaventosa se le si dava un nomignolo sciocco. Non che per
lei sarebbe stato meno letale se fosse andata a sbattere contro una lumaca
velenosa, ma a quel punto qualsiasi cosa era d’aiuto. E cominciava a sentirsi
un po’ frastornata.
La cosa interessante – una delle cose interessanti – di quell’organismo era
che non aveva clorofilla, o niente altro di simile, a quanto pareva. Il colore
verde derivava da un effetto prismatico analogo ad ali di farfalla. Il tessuto
effettivo che le cresceva negli occhi sarebbe stato di un marrone chiaro e
quasi trasparente se la sua struttura fosse stata appena un po’ diversa.
L’effetto di dispersione della luce non si sarebbe verificato. Questo
significava anche che la sua cecità era un’inondazione di colore e una perdita
dei dettagli, ma non era particolarmente scura. Poteva ancora chiudere gli
occhi e vedere tutto diventare nero, poi riaprirli e trovarsi davanti un verde
intenso e vibrante.
Ormai tutto il resto era fuori della sua portata. Scomparso. Utilizzava il
terminale palmare con i comandi vocali, il tocco e la memoria. Ascoltava i
rapporti che in condizioni normali avrebbe letto velocemente: voci dai
laboratori di Luna, della Terra e di Ganimede, che non offrivano molta
speranza.
«Anche se il vostro soggetto immune ha un paio di alleli rari nei geni che
regolano la sua pompa sodio-potassio, non vedo niente di mutato nella
struttura proteica finale. Le concentrazioni di ioni sono stabili ed entro i
margini di errore standard. Continuerò a cercare, ma ho la sensazione che
stiamo abbaiando all’albero sbagliato, anche se mi dispiace doverlo dire.»
Elvi annuì, come se ci fosse stato qualcuno che poteva vederla. L’emicrania
la tormentava ancora. La sua intensità variava durante la giornata, ma non
sapeva se era una componente dell’infezione o solo una sua cosa personale.
«Ehi» chiamò Fayez. «Elvi? Ci sei?»
«Ci sono» rispose.
«Ecco, continua a parlare per un po’. Ho cibo in entrambe le mani.»
Elvi prese a canticchiare una melodia pop di quando era bambina, e ascoltò
il rumore dei passi strascicati di Fayez, allungando una mano per toccargli un
polpaccio quando le arrivò vicino. Lui le sedette accanto con un grugnito
sommesso, poi la mano di Elvi trovò la sua e lui le passò un pacchetto di
razioni.
«Quanto cibo ci rimane?» chiese Elvi.
«Non molto. Credo però che stiano cercando di effettuare un’altra
consegna. Ci sono un paio di persone che riescono ancora a distinguere un
po’ le forme.»
«E c’è Holden.»
«Il re con un occhio solo» commentò Fayez. «Dovremmo cavargli un
occhio giusto perché il detto gli calzi meglio, non credi? Il fatto che li abbia
tutti e due è la vera e propria perdita di un’opportunità.»
«Stai zitto.» L’involucro cedette sotto le mani di Elvi. La razione di
emergenza era una barretta che si sbriciolava e aveva l’odore del cibo per
ratti che ricordava dai giorni di pratica in laboratorio. Aveva un sapore
sgradevole e nutriente. Cercò di assaporarla, perché fra non molto ne avrebbe
sentito la mancanza.
«Abbiamo avuto fortuna?» domandò Fayez. Elvi scosse il capo d’istinto,
pur sapendo che lui non la poteva vedere.
«La teoria migliore che avevano era che la cosa fosse collegata al fatto che
ha genitori plurimi. Ha qualcosa come otto madri e padri, e le tecniche per
ottenere una cosa del genere possono lasciare tracce sistemiche. Per ora però
non è risultato nulla.»
«È un vero peccato. Forse tutta quella esposizione alla protomolecola lo ha
trasformato in un mutante spaziale.»
Elvi addentò un altro boccone e parlò con la bocca piena. «Puoi riderne, ma
su Luna stanno esaminando anche questa possibilità. E stanno cercando di far
crescere un nuovo campione dell’organismo basato sui dati campione che
abbiamo mandato. Le prime prove mostrano un’effettiva auto-
organizzazione.»
«Questo produrrà altri cinquecento anni di tesi di laurea» commentò Fayez.
«Non credo che dovrai preoccuparti della tua eredità.»
Le sue dita le sfiorarono il ginocchio, e quel protendersi fisicamente
stemperò il cinismo delle sue parole. Elvi gli prese la mano nella propria
premendo la base del polpastrello del pollice. Lui si fece più vicino, tanto che
poteva sentire il suo odore. Nessuno di loro era stato in grado di lavarsi da
quando era scoppiata la tempesta e probabilmente puzzavano tutti, ma il suo
naso si era abituato alla sgradevolezza e recepiva l’odore di lui come una
puzza quasi piacevole, come l’odore di cane bagnato.
«Non è quella che avrei scelto» disse.
«E tuttavia i nostri nomi vivranno in eterno. Il tuo come prima scopritrice di
un nuovo pianeta pieno di specie. Il mio come quello del semplice geologo
che ti ha servita in tutto e per tutto.»
«Perché stai flirtando?»
«La voglia di flirtare è l’ultima cosa che scompare» rispose Fayez, e lei
desiderò di poter vedere la sua faccia. «Tu fai scienza, io corteggio la donna
più intelligente e graziosa che c’è nella stanza. Ognuno di noi ha il suo modo
di venire a patti con lo spettro brutale della mortalità. E con la pioggia.
Venire a patti con la pioggia. Per il prossimo incarico voglio un posto senza
tanta pioggia.» Nella stanza accanto, un bambino cominciò a piangere, un
suono esausto e spaventato. Una donna, forse Lucia, prese a cantare per lui in
una lingua che Elvi non conosceva. Si ficcò in bocca quanto restava della
razione. Aveva bisogno di un po’ d’acqua. Non sapeva quanto tempo prima
l’apparecchiatura chimica ne avesse prodotto una sacca. Se non era ora di
cambiare la sacca, presto lo sarebbe stato, e anche se Holden aveva promesso
di passare di lì per provvedere, lei non era certa che lo avrebbe fatto. Era già
tanto sfinito da reggersi a stento, e non riposava, neppure quando ne aveva
bisogno. Probabilmente sarebbe riuscita da sola a trovare il modo di
scambiare le sacche che non poteva vedere.
«Non saremmo dovuti venire» disse Fayez. «Hai presente tutti quei pazzi
bastardi secondo i quali i mondi al di là della Stazione di Medina erano
contaminati dal male? Avevano ragione.»
«Nessuno ha detto una cosa del genere, vero?»
«Probabilmente qualcuno lo ha fatto. E se non lo hanno detto, avrebbero
dovuto.»
«Saresti davvero potuto rimanere lontano?» chiese Elvi, sollevandosi in
ginocchio e allungando le mani verso l’apparecchiatura. Poteva sentire il
sommesso sgocciolio dell’acqua che colava dal filtro di emissione e aveva un
timbro diverso dalla pioggia costante. «Se fossero venuti a offrirti la
possibilità di andare sul primo mondo veramente nuovo, saresti riuscito a dire
di no?»
«Avrei aspettato la seconda ondata» rispose Fayez.
Elvi trovò la sacca, ma la sua curva morbida e fredda non risultò pesante
quanto si era aspettata. L’apparecchiatura non produceva più acqua con la
stessa rapidità, ma se c’era un errore di sistema, non aveva generato un
allarme sonoro. Era un’altra cosa che Holden avrebbe dovuto verificare.
«Io sarei venuta lo stesso» disse.
«Nonostante tutto questo? Saresti venuta lo stesso?»
«Non avrei potuto sapere di questo perché non sarebbe ancora successo.
Saprei di correre un rischio. Lo sapevo. Ma ovviamente salirei sulla nave.»
«E se invece sapessi che le cose andranno in questo modo? Se potessi
guardare in una sfera di cristallo e vederci qui, nel modo in cui è successo?»
«Se potessimo fare una cosa del genere non esploreremmo mai niente»
obiettò lei.
Era molto strano pensare che sarebbero morti tutti. Elvi lo sapeva, ma le
appariva irreale. In un angolo della sua mente c’era una piccola voce
insistente che continuava a ripetere che una nave sarebbe arrivata per aiutarli,
che sul pianeta sarebbe comparso un altro gruppo con scorte di cibo, o acqua,
o ripari. Si sorprendeva a chiedersi se non avrebbero dovuto inviare un
segnale di richiesta d’aiuto, e poi doveva fare uno sforzo per ricordare che
non c’erano altre basi. Non c’erano altre navi. In tutto quel sistema solare
c’erano soltanto gli equipaggi e i passeggeri delle tre navi, e ormai ce n’erano
meno di prima. Anche con tutti loro accalcati in quelle rovine come profughi,
così vicini che si potevano sentir russare a vicenda, questo faceva apparire
l’universo molto vuoto. E spaventoso.
«Dovremmo trovare Holden» disse. «L’acqua si forma lentamente. Mi
chiedo... Possibile che lui abbia davvero un ottimo sistema immunitario? Il
fatto che noi tutti abbiamo delle secrezioni significa che comunque c’è una
reazione del sistema immunitario. Magari una cosa minima. Questa cosa
cresce più in fretta di come riusciamo a neutralizzarla. Forse Holden ha
subìto un’esposizione che ha generato in lui anticorpi migliori.»
«Gli esami del sangue hanno rilevato qualcosa?»
«No» rispose Elvi. «Il suo conteggio di globuli bianchi è perfino più basso
del nostro.»
«Forse il suo umor vitreo ha un cattivo sapore» commentò Fayez. «Cosa
c’è?»
«Non ho detto niente.»
«No, ma hai fatto uno di quei piccoli grugniti che significano che hai avuto
un’idea. L’ho sentito, e so che significa qualcosa.»
«Stavo pensando che non si può trattare del suo sistema immunitario»
replicò lei. «Voglio dire, noi tutti viaggiamo di continuo nel vuoto assoluto, e
anche solo le radiazioni che abbiamo assorbito nel venire fin qui ci hanno
probabilmente lasciati tutti con il sistema immunitario leggermente
compromesso. E soprattutto dopo i fatti della Stazione di Eros, lui ha sofferto
più... più danni da radiazioni...»
Elvi chiuse gli occhi per escludere il verde. Una splendida cascata di
sequenze logiche e relative conseguenze le si aprì davanti come se fosse
uscita in un giardino. Sorrise, trattenendo il fiato, nel sentirsi esaltata per la
gioia di quella intuizione.
«Cosa vuoi dire?» chiese Fayez. «Che è stracotto? Che questa cosa che
attacca gli occhi ci trova di suo gusto solo se siamo al sangue, mentre lui è
ben cotto?»
«Oh!» esclamò Elvi. «Si tratta degli oncocidi che assume. Dopo l’incidente
di Eros, deve assumerli di continuo, e questo significa... oh! È così bello.»
«Oh, bene. Di cosa stai parlando? Perché i suoi medicinali contro il tumore
dovrebbero essere efficaci contro qualcosa che appartiene a una biosfera
differente?»
«Significa che da qualche parte nella divisione cellulare c’è stata una buona
mossa dal punto di vista dawkinsiano.»
«Si tratta di una di quelle cose di xenobiologia, giusto? Lo chiedo perché
non ho idea di cosa tu stia parlando.»
Elvi agitò le mani nell’aria con fare conciliatorio. La sensazione di piacere
che le scorreva nel sangue era simile all’essere trasportati dalla luce.
«Te ne ho già parlato» disse. «Nella progettazione dello spazio ci sono
buone mosse – addirittura mosse forzate – come è dimostrato dal fatto che
vediamo cose che si ripresentano di continuo in tutti i diversi rami dell’albero
della vita.»
«D’accordo» replicò Fayez. «È per questo che possiamo venire fino a
Nuova Terra e comunque trovare cose che hanno occhi e tutto il resto.»
«Perché la luce riflessa contiene un sacco di informazioni, e gli organismi
che possiedono quelle informazioni se la cavano meglio.»
«Stai sfondando una porta aperta, Elvi.»
«Però non è questa la parte buona. Holden prende medicine che attaccano
selettivamente tessuti che si dividono rapidamente, e Skippy è quel genere di
tessuto.»
«Chi è Skippy?»
«L’organismo. Concentrati. Il fatto che gli oncocidi funzionino contro di
esso significa che c’è qualcosa di simile a organi del volo o dei sensi che
esiste a livello di divisione cellulare. Anche se le proteine sono del tutto
diverse, le soluzioni a cui questi organismi arrivano sono analoghe alle
nostre. Questa è la scoperta più grossa fatta da quando siamo arrivati qui. È
una cosa enorme. Dov’è il mio terminale palmare? Devo dirlo alla squadra su
Luna. Questo li farà impazzire!»
Elvi si spostò in avanti troppo in fretta e incespicò contro Fayez, poi gli
sedette accanto quando lui le mise in mano il terminale.
«Stai saltando su e giù?» chiese lui. «Dai rumori sembra che tu lo stia
facendo.»
«Questa è la cosa più importante che mi sia successa in tutta la mia vita»
rispose lei. «Sto fluttuando.»
«Significa che possiamo curare questa cosa che abbiamo agli occhi,
giusto?»
«Cosa? Oh, sì, probabilmente. Gli oncocidi non sono difficili da
sintetizzare. È solo che la maggior parte di noi non ha bisogno di assumerne
di continuo come fa Holden.»
«Sei la sola donna che abbia mai conosciuto capace di capire come
impedire a un mucchio di profughi affamati, me stesso incluso, di diventare
ciechi e di essere eccitata perché questo significa qualcosa dal punto di vista
della microbiologia.»
«Dovresti uscire di più, incontrare gente» commentò Elvi, ma al tempo
stesso avvertì un leggero senso di colpa. Probabilmente avrebbe dovuto
cercare di far curare la gente che c’era lì prima di parlare con la squadra su
Luna. Dopotutto, la sua era ancora un’ipotesi, non aveva nessun dato certo.
«Richiesta di connessione con Murtry.»
Il suo terminale emise un trillo per indicare che era in funzione. Una folata
di vento agitò la copertura di plastica sulla finestra. Il suono risultò
leggermente diverso dal solito, e fuori il costante rumore della pioggia parve
essersi fatto più forte. Si chiese se la plastica avrebbe finito per staccarsi. Le
lumache velenose avrebbero potuto penetrare nella stanza senza che lei se ne
accorgesse, perché non avrebbe potuto vederle. Quella era un’altra cosa che
avrebbe dovuto chiedere a Holden di controllare. Il doppio squillo indicante
che la richiesta di connessione era stata rifiutata le strappò un grugnito.
«Chi si sta occupando dei carichi?» chiese.
«In orbita? Uhm... Havelock, credo.»
«Richiesta di connessione con Havelock.»
Il terminale emise un solo trillo, poi più niente, e lei non seppe dire se la
connessione si fosse attivata o meno.
«Mr Havelock? È lì?»
«Temo che questo non sia un buon momento, dottoressa.»
«Lei sta coordinando i lanci di scorte. Ho bisogno di vedere se possiamo
avere...»
«È qualcosa per cui ci sono persone che moriranno se non risolviamo la
cosa entro i prossimi cinque minuti?»
«Cinque minuti? No.»
«Allora dovrà aspettare.» Il terminale palmare emise il suono indicante che
la connessione era stata chiusa.
«È stato fottutamente scortese» commentò Fayez.
«Probabilmente ha qualche altro problema per le mani» osservò Elvi.
«Siamo tutti sottoposti a un certo stress. Questo non significa che debba
fare lo stronzo.»
Elvi inarcò le sopracciglia e annuì, anche se sapeva che lui non poteva
vederla. «Richiesta di connessione con Holden.»
Il terminale continuò a suonare tanto a lungo da farle temere che non
avrebbe risposto neppure lui. Quando infine lo fece, la sua voce suonò
terribile, come se fosse stato ubriaco o malato. «Elvi, cosa succede?»
«Salve» rispose lei. «Non so se al momento è impegnato, e in realtà non è
una sua responsabilità farci avere le provviste, ma se ha un momento
vorrei...»
«Sa come farci smettere di essere ciechi» gridò Fayez, interrompendola.
Ci fu una pausa, poi Holden emise un grugnito che Elvi suppose essere
dovuto allo sforzo di alzarsi in piedi. «D’accordo, arrivo subito.»
«Porti anche Lucia, se riesce a trovarla» aggiunse Elvi.
«Ci sarà anche Murtry?»
«Non risponde alle mie richieste di connessione.»
«Mmm» commentò Holden. «Questo è un bene. Non credo che al momento
sia molto bendisposto verso di me.»
Lucia sedeva accanto a Elvi, tenendole la mano. Quel gesto avrebbe dovuto
dare una sensazione di intimità, ma nel contesto generale pareva soltanto
indicare che le stava dedicando la sua piena attenzione. Era un analogo fisico
del contatto visivo. Holden camminava per la stanza, e i suoi passi
producevano un suono appiccicoso a causa del fango.
Quando ebbe finito, Lucia fece schioccare la lingua contro i denti in un
verso di perplessità. «Non so come potremo gestire le dosi. Non voglio darne
alla gente una quantità tanto bassa che non farà effetto.»
«Perché non scegliamo dei baby-sitter?» suggerì Fayez. «Una dozzina di
persone la cui situazione non sia ancora avanzata come la nostra.
Somministriamo loro il medicinale e così si potranno prendere cura di noi
finché non riceveremo un altro carico. Capitano?»
«Cosa? Oh, chiedo scusa, stavo... uhm. C’è un buco nella finestra, nella
plastica. Mi stavo accertando che qui dentro non ci fossero lumache velenose,
e stavo riparando il buco.»
«Capitano,» disse Lucia, con voce nitida e secca «lei assume medicinali per
una condizione cronica e potenzialmente terminale. Noi stiamo cercando di
decidere se usare o meno i suoi medicinali per trattare altri pazienti, lasciando
lei senza.»
«Mi va benissimo.»
«Dal punto di vista etico è una cosa un po’ problematica» osservò Lucia.
«Se devo fare questa cosa – e ci tengo moltissimo a farla – devo sapere che
lei comprende...»
«Capisco, capisco, capisco» la interruppe Holden. «Ho assorbito tante
radiazioni che sviluppo un sacco di tumori. La cosa che li tiene sotto
controllo può fare lo stesso con quell’altra cosa. E allora ci saranno altre
persone che ci vedono e io potrò schiacciare un sonnellino.»
Elvi poté avvertire il sorriso di Lucia nella sua voce quando lei parlò. «Non
sono sicura che il comitato per la protezione dei soggetti umani la definirebbe
una motivazione sufficiente, ma in linea di massima è così.»
«Certo che potete usare il medicinale» disse Holden. «Usatelo, procedete.
Potremo ottenerne dell’altro.»
«E se non potessimo?»
«Potrei sviluppare un nuovo tumore prima che moriamo tutti di fame, come
potrei non farlo» ribatté Holden. «La cosa mi sta bene.»
Lucia ritrasse la mano da quella di Elvi, cosa che le diede una sensazione di
freddo improvviso. «D’accordo, allora dovremmo cominciare. Per favore,
capitano, mi può fare da guida?»
«Sì, certo che posso» assentì Holden. «Però dovremmo fermarci per
prendere una tazza di caffè perché mi sento un po’ stanco.»
«Non c’è caffè, ma se vuole posso farle avere degli stimolanti.»
«Giusto, niente caffè» replicò Holden. «Questo è davvero un pianeta
terribile. Ora mi mostri come far stare tutti meglio.»
42
Havelock

L’armatura nella guardina era una semplice tuta priva di propulsori fatta di
kevlar e ceramica. Era a prova di vuoto e aveva una scorta d’aria di mezz’ora,
perché gli usi a cui era destinata erano sedare risse fra membri
dell’equipaggio ed effettuare brevi escursioni tattiche all’esterno.
Probabilmente c’era un’altra dozzina di tute come quella alla postazione di
sicurezza principale, e Havelock poteva soltanto sperare che agli ingegneri
non venisse in mente di usarle. Quando la indossò, essa gli spinse verso l’alto
i pantaloni, appallottolando scomodamente la stoffa verso l’inguine.
Havelock si passò intorno alla spalla la cinghia del fucile a canne mozze e si
contorse, usando entrambe le mani per rimettere a posto i pantaloni.
«Le risate non sono d’aiuto» commentò.
«Non stavo ridendo» replicò Naomi, ma subito dopo scoppiò a ridere.
Havelock prelevò da un armadietto una manciata di manette usa e getta e un
paio di Taser, uno a piena carica e uno a tre ottavi. Prese mentalmente nota di
controllare in seguito le batterie di tutte le armi, poi ricordò che
probabilmente non ci sarebbe stato un più tardi, non per lui, almeno. Forse
poteva lasciare un messaggio a Wei, o qualcosa del genere. Pensò di
chiamare Marwick per avvertirlo che le cose si stavano facendo complicate,
di fare affidamento sulla sua decenza e sui suoi istinti.
Non lo chiamò.
Naomi fluttuava dietro di lui, distesa, con le dita delle mani e dei piedi
allargate nell’aria e la tuta di carta che scricchiolava a ogni movimento.
Havelock lasciò scorrere lo sguardo per il suo ufficio un’ultima volta: era
strano, sapere che probabilmente non lo avrebbe rivisto, e che se lo avesse
fatto sarebbe stato dall’interno della cella.
Se questo fosse successo, però, sarebbe stato perché avevano trovato il
modo di non precipitare e bruciare nell’atmosfera, quindi le probabilità al
riguardo erano molto scarse e non intendeva preoccuparsene.
«È il primo ammutinamento?» chiese Naomi.
«Sì. In realtà non è qualcosa che io abbia la tendenza a fare.»
«Diventa più facile, con il tempo» commentò lei, poi protese una mano e
Havelock la guardò con aria confusa. «Posso avere uno di quelli?»
«No» replicò lui, e intanto sintonizzò l’unità di comunicazione della tuta sul
canale utilizzato di default dal gruppo di addestramento. Non si sentiva nulla,
il che era strano. Provò sulle altre frequenze.
«No?»
«Senta, la farò uscire di qui, ma questo non significa che mi senta a mio
agio nel darle un’arma e voltarle le spalle.»
«Ha dei limiti relazionali davvero interessanti» commentò Naomi.
«Al momento sto cercando di fare chiarezza su alcune cose.»
Il primo miliziano volò troppo in fretta attraverso la porta, pieno di
adrenalina e non abituato ad avere in mano una pistola vera. Il secondo lo
seguì da presso, a piedi in avanti. Havelock sentì lo stomaco che gli si
contraeva: entrambi impugnavano una pistola e portavano la fascia intorno al
braccio. Dietro di lui, Naomi trasse un profondo respiro.
«Signori,» disse Havelock, con un cenno del capo «posso esservi utile?»
«Cosa diavolo pensa di fare?» chiese il primo dei due, mentre cercava di
puntare la pistola e di puntellarsi contro la parete nello stesso tempo.
«Trasferisco la prigioniera» rispose Havelock, con un tono di voce a metà
fra il disprezzo e l’incredulità. «Che altro dovrei fare?»
«Il capo non ci ha detto niente di un trasferimento» obiettò il secondo
uomo.
«L’ingegnere capo Koenen non è il capo della sicurezza di questa nave. Io
sono il capo, e voialtri mi state aiutando. Non mi fraintendete, lo apprezzo,
ma tenete a mente che sono io che comando, chiaro? Cosa diavolo ci fate qui
voi due?»
I due si scambiarono un’occhiata. «Il capo ci ha detto di venire a
sorvegliare la prigioniera.»
Naomi sorrise e assunse un atteggiamento contegnoso e mite. Riusciva a
fingere piuttosto bene.
«Un buon piano» approvò Havelock. «È qui che verranno. Voi due
prendete posizione qua dentro, nel caso che riescano a passare. Una volta che
avrò sistemato la prigioniera dove non potranno trovarla verrò a darvi
manforte.»
«Sì, signore» assentì il secondo uomo, eseguendo un saluto scattante con la
stessa mano con cui impugnava la pistola. Havelock sussultò. Quei tizi non
erano pronti per usare armi cariche. Spianò il fucile e lo agitò leggermente.
«Miss Nagata,» disse «se vuole essere così gentile da muoversi...»
«Sì, signore» rispose lei, con fare sottomesso, e si spinse verso la porta.
Havelock la seguì, ma poi si afferrò allo stipite della porta e si girò.
«Chiedete a chiunque passi da quella porta di identificarsi, prima di
cominciare a sparare, chiaro? Non voglio che qualcuno si faccia male per
errore.»
«Lo faremo, signore» replicò il primo uomo, e il secondo annuì. Havelock
avrebbe potuto scommettere la metà del suo salario sul fatto che avevano
avuto intenzione di aprire il fuoco su chiunque si fosse affacciato alla porta.
Naomi lo aspettava appena più avanti lungo il corridoio. Havelock rimise la
sicura al fucile e lasciò che gli pendesse dalla spalla. Tutti i corridoi della
Israel erano stretti, ma in quel punto lo erano ancora di più, perché lo spazio
si riduceva progressivamente a mano a mano che ci si avvicinava all’esterno.
Il tessuto e l’imbottitura lungo le pareti attutiva i suoni della nave, mentre i
codici numerici stampati su di esso indicavano quali condotti e sistemi tecnici
erano inseriti nelle paratie sottostanti, il modello del pannello e la data di
sostituzione. Lo scopo della schiuma d’imbottitura e del tessuto era di
garantire una maggiore sicurezza nel caso di una collisione o di
un’accelerazione imprevista, ma in quel momento fece venire in mente a
Havelock una cella imbottita.
«Se succede qualcosa, non torni lì dentro senza di me» disse, annuendo da
sopra la spalla.
«Non avevo intenzione di farlo.»
Procedettero lungo il corridoio, con Havelock che avanzava per primo e
segnalava a tratti a Naomi di seguirlo. Lei non si muoveva con l’istinto tattico
di qualcuno che avesse ricevuto un addestramento, ma era intelligente e
silenziosa, e capì subito cosa doveva fare. Inoltre, aveva i movimenti
aggraziati di un cinturiano in assenza di gravità. Se avesse potuto addestrare
per qualche settimana una squadra di persone come lei, avrebbe potuto
distribuire armi vere. Arrivati alla parete che precedeva l’intersezione con il
corridoio della manutenzione, sollevò una mano e indicò il sottile bordo di
ceramica della paratia.
«Resti qui,» sussurrò «e non si faccia vedere.»
Naomi sollevò il pugno in segno di assenso. Havelock riprese ad avanzare.
All’intersezione, altri due membri della squadra erano piazzati in quella che
probabilmente pensavano essere una posizione coperta. Uno dei due era
piazzato bene, l’altro teneva la mano troppo protesa in avanti. Se avesse
cercato di spingersi lontano dalla paratia avrebbe prodotto una rotazione
inversa che lo avrebbe portato a rivolgere le spalle allo scontro. Era una cosa
di cui avevano parlato.
«Signori» disse Havelock, scivolando un po’ più avanti. «Walters e...
Honneker, giusto?»
«Sì, signore» confermò Honneker.
«Qual è la situazione?»
«Il capo ha richiesto il silenzio radio, per non avvertire il nemico di quello
che stiamo facendo. Abbiamo Boyd e Mfume al portello della camera di
decompressione. Il capo ha con sé Salvatore e Kemp. Stanno avanzando per
stanare i cattivi.»
«Chi abbiamo all’esterno?»
«All’esterno?» Honneker scosse il capo, non riuscendo a capire.
«Il capo ha fatto indossare una tuta a qualcuno, spedendolo fuori dagli altri
portelloni?»
«Ehi, è una buona idea» commentò Honneker. «Dovremmo farlo.»
«Quindi non è già stato fatto» insistette Havelock.
«No, signore, non credo.»
«D’accordo» cominciò Havelock, e in quel momento il suono secco di
alcuni spari echeggiò lungo il corridoio. I due ingegneri si girarono per
guardare. Honneker si diede una spinta un po’ troppo energica e si lanciò nel
corridoio, dove chiunque fosse sopraggiunto dalla direzione opposta avrebbe
potuto sparargli mentre si dibatteva. La radio entrò in funzione vicino
all’orecchio di Havelock. La voce dell’ingegnere capo era eccitata come
quella di un bambino a una festa di compleanno.
«Contatto effettuato! Contatto effettuato! Il nemico si è rifugiato nel bagno
vicino al magazzino secondario. Lo teniamo inchiodato lì.»
Ci fu una raffica di spari, che risuonò attraverso la radio un momento prima
che il suono potesse spostarsi attraverso l’aria della nave. Koenen gridò a
qualcuno di ritirarsi, poi si rese conto che la radio era ancora accesa e la
spense. Havelock agganciò una caviglia intorno a un appiglio, poi si sporse
verso Honneker e lo tirò indietro con gentilezza.
«Cosa facciamo?» chiese Walters, mentre Honneker si aggrappava a un
appiglio. «Dobbiamo andare avanti? Potremmo prendere qualche tuta e
passare dall’esterno, come ha detto lei.»
Scuotendo il capo, Havelock tirò fuori il Taser a piena carica, che era
pronto a far fuoco. L’altro ci avrebbe messo mezzo secondo a essere pronto
al tiro perché aveva una carica ridotta. I due uomini lo fissavano, in attesa che
li guidasse.
«Dovreste guardare entrambi verso il corridoio» suggerì loro, indicando con
il mento verso l’intersezione. Quando si girarono, sparò a entrambi alle
spalle: i loro corpi si inarcarono, ebbero un brivido e si fecero immobili.
Havelock tolse loro le armi e disattivò la radio delle tute, poi li ammanettò
l’uno all’altro ed entrambi a uno degli appigli.
«Via libera» disse da sopra la spalla, con voce calma ma alta abbastanza da
essere udibile. Naomi si spostò in avanti, passando da un lato all’altro del
corridoio in modo da non essere mai a più di una frazione di secondo da
qualcosa di solido che poteva usare per cambiare direzione. Aveva buoni
istinti.
«Quattro di meno» commentò. «È lei che è molto in gamba in queste cose,
o loro sono delle schiappe?»
«Insegnare può non essere il mio forte» replicò Havelock. «E abbiamo dalla
nostra l’elemento della sorpresa.»
«Suppongo di sì» convenne Naomi, anche se lo scetticismo le traspariva
chiaro dalla voce. «Come si sente?»
Di riflesso, Havelock accennò a rispondere che si sentiva bene, ma poi
esitò. Aveva appena attaccato e messo fuori combattimento due dei suoi
uomini, che stavano operando in base a ordini espliciti e diretti del suo
ufficiale superiore. Aveva tradito la fiducia di uomini con cui aveva viaggiato
per anni a beneficio di una sabotatrice cinturiana. E tutti loro erano a pochi
giorni di distanza dalla morte. E forse, stranamente, era proprio quell’ultimo
fatto che rendeva accettabile tutto il resto. Era un uomo morto, erano tutti
morti, quindi in un certo senso quello che faceva in quel momento non aveva
importanza. Era libero di seguire la sua coscienza, dovunque essa lo portasse.
Quello era lo scenario che costituiva l’incubo di qualsiasi agente della
sicurezza. Di fronte alla morte, perché non ci sarebbero dovuti essere
tumulti? Perché non uccisioni, furti e violenze? Se non c’erano conseguenze,
o se le conseguenze erano uguali per tutti, allora qualsiasi cosa diventava
possibile. Il suo compito era quello di aspettarsi il peggio dall’umanità, sé
stesso incluso, e adesso eccolo lì ad aiutare nella fuga una prigioniera
legalmente arrestata perché la morte che lei gli offriva gli piaceva più del
sepolcro di plastica e ceramica che Murtry voleva erigere su un pianeta
vuoto. Non gli importava un accidente di Nuova Terra, o Ilus, o comunque si
chiamasse quella sgradevole palla di fango sotto di loro. Gli importava delle
persone, di quelle sulla Israel, e sulla Barbapiccola, e sulla superficie. Gli
importava di tutti. Rivendicare diritti che la società avrebbe potuto usare per
proteggere i suoi interessi dopo che tutti loro fossero morti non era
abbastanza.
«Mi sento stranamente in pace riguardo a tutto questo» rispose.
«Probabilmente è un buon segno» replicò lei, mentre si scatenava una
nuova raffica di spari. Havelock le segnalò di restare dov’era e si spinse in
avanti.
Tutti i principali corridoi della Israel erano dotati di portelloni a chiusura
ermetica: spessi cerchi di metallo con duri sigilli polimerici. Per la maggior
parte del tempo erano soltanto sporgenze della parete, più grandi di quanto
non lo fossero in navi più giovani di due generazioni, ed era facile ignorarli,
ma se qualcosa avesse aperto un buco nella nave quei portelloni si sarebbero
chiusi con la rapidità e l’assenza di moralità di una ghigliottina. E se
qualcuno fosse rimasto intrappolato, la sua perdita sarebbe stata più
accettabile di quella dell’aria. Havelock aveva visto video di addestramento
riguardo a portelli che mancavano di funzionare, e da allora quei meccanismi
gli avevano lasciato un certo nervosismo. Un uomo si teneva premuto contro
la parete e adocchiava ansiosamente il corridoio, davanti a sé. Havelock si
schiarì la gola e l’uomo si girò di scatto con la pistola spianata.
«Mfume» disse Havelock, sollevando le mani. «Dov’è Boyd?»
«È andato avanti» rispose Mfume, indicando con la pistola, senza però
abbassarla. «Il capo è sotto tiro. Mi ha detto di restare qui, e io l’ho fatto,
ma...»
«Va tutto bene» replicò Havelock, mentre veniva avanti evitando di
incontrare lo sguardo dell’uomo. Invece, continuò a fissare il corridoio nel
tentativo di spostare su di esso l’attenzione di Mfume. Quella pistola
sollevata gli generava un formicolio al torace. «Hai fatto la cosa giusta.»
La radio si attivò con un crepitio e ne uscì la voce dell’ingegnere capo, che
pareva avere il fiato corto. «Abbiamo bloccato quel bastardo. Ha beccato
Salvatore, ma non è una cosa grave. Ho bisogno che veniate tutti quassù. Lo
attaccheremo in massa.»
«Probabilmente non è una buona idea» osservò Havelock, nel canale aperto.
«Non c’è problema» ribatté l’ingegnere capo. «Possiamo beccarlo.»
«Ma non senza riportare perdite che non sono necessarie» insistette
Havelock. «È in armatura?»
«Sì, ma sono piuttosto sicuro di averlo colpito una volta» intervenne
un’altra voce, che aveva lo stesso tono acuto e teso di un ragazzino alla sua
prima battuta di caccia, che pensasse di aver colpito un cervo.
«Datemi tutti la vostra posizione» ordinò Koenen.
«Jones e io siamo alla prigione, capo. Qui è tutto tranquillo.»
«La prigioniera non vi crea problemi?»
«L’ho trasferita altrove» disse Havelock. «Sta bene dov’è. Adesso ho
bisogno che vi ritiriate. Dobbiamo fare le cose secondo le regole.»
Un’altra mezza dozzina di spari risuonò nell’aria. Mfume sussultò in
reazione a ciascuno di essi, e non parve accorgersi di quando Havelock spinse
con gentilezza la canna della sua pistola fino a puntarla contro la parete.
«Non possiamo» replicò Koenen. «Se allentiamo la pressione questo figlio
di puttana cinturiano ci sfuggirà. Dobbiamo finire questa cosa. Honneker!
Walters! Tirate fuori le palle e venite a prua, ragazzi. Abbatteremo questo
pezzo di merda.»
Il silenzio radio risultò inquietante.
«Walters?» chiamò l’ingegnere capo.
Havelock afferrò il polso di Mfume e impresse una torsione, puntellando
una gamba contro la parete per fare leva. Mfume lanciò un grido, ma allentò
la presa sulla pistola quanto bastava perché Havelock potesse fargliela cadere
di mano. Il metallo nero vorticò giù per il corridoio mentre Mfume gridava e
cercava di liberarsi. Havelock modificò la presa, tirando in fuori e verso il
basso in modo da allontanarlo dalla parete contro cui si era ancorato.
L’ingegnere gridò ancora, e Havelock gli sparò una scarica di Taser nella
schiena. Mfume rimbalzò contro la parete opposta, afflosciato come una
marionetta, mentre Havelock si sganciava dalla schiena il fucile e si spostava
in modo da incastrare un ginocchio contro il bordo del portellone e l’altro
piede in un appiglio, più indietro.
«Nagata!» gridò. «Stiamo per avere compagnia.»
In fondo al corridoio l’ingegnere capo sfrecciò oltre l’angolo e andò a
sbattere contro il muro, facendo fuoco all’impazzata con la pistola.
«Cessate il fuoco!» avvertì Havelock. «C’è uno dei vostri che fluttua allo
scoperto. Cessate il fuoco!»
«Fottiti!» urlò Koenen, e Havelock premette il grilletto del fucile. Il
proiettile di plastica colpì l’ingegnere capo al fianco e lo fece vorticare su sé
stesso. Havelock lo centrò alla schiena con il secondo colpo proprio mentre
altri tre ingegneri si catapultavano oltre l’angolo in massa. Havelock centrò
una volta ciascuno di loro, poi si spostò sull’altro lato del portello e si spinse
in avanti, riponendo il fucile per impugnare i Taser. Quello parzialmente
scarico era ormai esaurito, quindi lo lasciò cadere. Uno degli uomini
sanguinava, e una goccia di sangue grande quanto un’unghia fluttuava
nell’aria. Tutti e quattro annaspavano per il dolore, due avevano lasciato
cadere le armi e gli altri due – l’uomo che sanguinava e Koenen –
sembravano addirittura inconsapevoli della sua presenza. Havelock usò il
Taser sul primo degli altri due, poi afferrò quello che sanguinava, Salvatore.
«Tu, Kemp» disse, rivolto all’altro uomo.
«Mi ha sparato.»
«Con un proiettile di plastica. È stato l’altro tizio a centrare Salvatore con
una pallottola. Devi portarlo in infermeria.»
«Sei un traditore!» urlò l’ingegnere capo, e Havelock lo mise a tacere con
una scarica di Taser prima di tornare a rivolgersi a Kemp.
«Ora ti tolgo la pistola e ti affido Salvatore. Devi aiutarlo ad arrivare in
infermeria. Hai capito?»
«Sì, signore» rispose Kemp, poi guardò oltre la spalla di Havelock e
accennò un saluto: «Signora...»
«È tutto sotto controllo?» chiese Naomi.
«Non azzarderei tanto ottimismo» replicò Havelock, mettendo la mano di
Kemp sul braccio di Salvatore e dando a entrambi una piccola spinta lungo il
corridoio. «Sono sicuro che i due che erano alla prigione stanno venendo
qui.»
«Allora ce ne dovremmo andare.»
«Era quello che pensavo.»
Il breve tratto di corridoio fra l’angolo e il portellone conteneva una porta
sigillata che dava accesso a un magazzino secondario, un pannello di accesso
ai condotti di alimentazione inseriti nella parete e l’ingresso allo spogliatoio
annesso al portellone di manutenzione. Lo spazio era stretto e limitato, la
stoffa sulle pareti era crivellata di pallottole, una delle quali aveva trapassato
la parete e colpito una tubatura idraulica, per cui adesso il fluido idraulico di
sicurezza si stava polimerizzando nell’aria in un centinaio di piccoli punti
verdi che diventavano lentamente bianchi. Probabilmente la perdita originale
era già stata sigillata da un grumo di quella sostanza. Il gabinetto aveva le
solite dimensioni standard, il che significava che era tanto piccolo che
prendere posto sul sedile del gabinetto a vuoto comportava premere la
schiena contro una parete e le ginocchia contro l’altra. Non offriva di certo
una grande copertura, e per di più la stretta porta era aperta. Una dozzina di
fori di pallottola sfregiava le pareti e la soglia.
«Okay» disse Havelock, e subito una pistola si protese dal bagno, facendo
fuoco alla cieca nel corridoio. Havelock spinse Naomi dietro di sé, gridando:
«Fermo! Fermo! Ho Nagata qui con me!»
«Stai indietro, dannazione!» urlò di rimando una voce maschile, dal bagno.
Suonava quasi familiare, ma Havelock non riuscì a riconoscerla. «Altrimenti
giuro su dio che sparo.»
«L’ho notato» gridò di rimando Havelock.
«È tutto a posto, Basia» intervenne Naomi. «Sono io.»
La voce tacque. Havelock si spostò lentamente in avanti, pronto a reagire se
la pistola fosse riapparsa, ma essa non lo fece. L’uomo che fluttuava nel
bagno indossava un’armatura militare di fattura marziana vecchia di almeno
dieci anni, aveva i capelli scuri spruzzati di grigio alle tempie e brandiva una
torcia per saldare in una mano, la pistola nell’altra. I suoi occhi erano dilatati,
la pelle cinerea, e un solco lungo l’armatura indicava dove una pallottola dei
miliziani gli era rimbalzata sul costato. Havelock sollevò la mano sinistra con
il palmo verso l’esterno, ma continuò a impugnare saldamente il Taser con la
destra.
«Okay,» ripeté «è tutto a posto. Qui siamo tutti dalla stessa parte.»
«E tu chi diavolo sei?» ribatté l’uomo. «Sei il tizio della sicurezza, quello
che l’ha rinchiusa.»
«Lo ero» rispose Havelock.
Naomi gli posò le mani sulle spalle e si tirò verso di lui fino a riuscire a
vedere l’altro uomo.
«Ce ne stiamo andando» disse. «Vuoi venire con noi?»
43
Basia

«Ce ne stiamo andando» disse. «Vuoi venire con noi?»


Basia avvertì un intenso senso di imbarazzo. Tutto era cominciato così
bene...
Aveva aperto un varco nel pannello di controllo del portellone della Israel
con l’efficienza derivante da una lunga pratica. Il rivestimento composito era
stato un vecchio sistema a stratificazione che aveva visto spesso quando
lavorava su Ganimede, e la familiarità gli aveva dato un senso di sicurezza.
Con la pistola stretta in pugno, aveva fluttuato lungo il breve corridoio fino a
uno spogliatoio con annesso magazzino senza vedere anima viva, e aveva
cominciato a sperare che l’arma risultasse non essere necessaria. Al di là
dello spogliatoio c’era il passaggio di tribordo che portava dritto alla
prigione. Era a circa sessanta metri dalla meta e non era neppure suonato
l’allarme.
Il primo segno che le cose stavano andando storte era stato una massiccia
raffica di proiettili che parevano arrivare contemporaneamente da tutte le
parti. Da allora era rimasto nascosto nel minuscolo bagno.
«Sono venuto a salvarti» disse, rendendosi conto di quanto suonassero
sciocche quelle parole non appena le ebbe pronunciate.
«Grazie» replicò Naomi, con un sorriso.
«Sì, quindi forse dovremmo muo...» cominciò a dire il terrestre in armatura,
ma fu interrotto da una nuova raffica di spari. Le pallottole rimbalzarono
contro le pareti del corridoio, strappando strisce di schiuma che andarono a
unirsi alle masse informi di fluido idraulico solidificato. Il terrestre spinse
Naomi nel bagno insieme a Basia, schiacciandoli entrambi contro la parete di
fondo. Altri proiettili piovvero intorno a loro, incluso uno che rimbalzò sulle
piastre di protezione della spalla del terrestre, lasciandovi una lunga
ammaccatura.
«Io sono Basia» si presentò intanto lui.
Il terrestre si sporse oltre la soglia impugnando un massiccio fucile di
qualche tipo e lasciò partire parecchi colpi rimbombanti. «Io sono Havelock.
Il resto delle presentazioni a quando saremo fuori da qui.»
Prima che Basia capisse cosa lei intendeva fare, Naomi gli tolse di mano la
pistola e la porse a Havelock. «Questa ti potrebbe servire.»
«No» replicò lui, mentre faceva di nuovo fuoco con il suo grosso fucile.
«Niente proiettili letali. Non uccideremo questi idioti, se potremo evitarlo.»
«Allora che si fa?» chiese lei.
Havelock stava tirando fuori proiettili per il fucile da una tasca
dell’armatura e li stava inserendo nell’arma. «Non appena avanzo nel
corridoio, voi due dirigetevi al portellone più in fretta che potete.» Inserì
nell’arma l’ultimo proiettile poi la richiuse con uno scatto sonoro. «Basia, tu
hai un’armatura, quindi riparala con il tuo corpo. Naomi, attraversa il
compartimento di stoccaggio e prendi una tuta. Qualcosa che si possa
indossare in fretta.»
«Siamo pronti quando lo sei tu» replicò Naomi, e gli posò una mano sulla
spalla. Basia annuì agitando il pugno.
«Allora andate» disse Havelock, poi saettò nel corridoio facendo fuoco con
il fucile. Naomi lo seguì all’esterno e svoltò nella direzione opposta, verso lo
spogliatoio e il portellone, con Basia che si teneva alle sue spalle. Avevano
percorso pochi metri quando lui sentì due colpi violenti alla schiena.
«Mi hanno colpito!» gridò in preda al panico. «Mi hanno colpito!»
Naomi non rallentò. «Il tuo HUD indica che stai sanguinando?»
«No.»
«Allora vivrai. È a questo che serve l’armatura.»
«Meno chiacchiere» avvertì Havelock, alle loro spalle, e assestò a Basia
una spinta nella schiena. «E più fuga.»
Basia, che non si era neppure accorto della sua presenza, represse uno
strillo poco dignitoso. Parecchi metri più avanti, Naomi saettò nella stanza di
stoccaggio e Basia la seguì non appena raggiunta la porta. Lei si stava già
infilando in una tuta atmosferica d’emergenza di un intenso colore arancione.
Havelock si fermò sulla porta per sparare parecchi altri colpi nel corridoio.
«Sintonizzati su ventisette zero uno cinque» disse.
«Cosa?» Quelle parole non avevano senso per Basia, e tutta quella sequenza
di eventi somigliava sempre di più a un brutto sogno. Persone che sparavano
e gli dicevano cose senza senso. La sensazione di pace e di eroismo che
aveva provato nell’acconsentire a quella missione di salvataggio era del tutto
svanita.
«È la frequenza radio usata dalla squadra di sicurezza» spiegò Havelock.
«Così li puoi ascoltare. Non stanno criptando le comunicazioni perché sono
dannati dilettanti» aggiunse con un sospiro.
Basia trovò il menu per modificare la frequenza della radio della tuta e la
regolò su 27.015. «...In combutta» stava dicendo una voce maschile, giovane
e irosa.
«Il fatto che ci stia sparando contro lo rende dannatamente chiaro» replicò
un’altra voce, più matura. «Mi ha sparato addosso un paio di quei fottuti
proiettili di plastica. Credo mi abbia rotto una costola.»
«È fatta» commentò Havelock, poi fece una pausa per sparare un altro
colpo. «Credo che questa sia una decisione su cui non posso tornare
indietro.» Basia non riuscì a capire a chi stesse parlando.
«Ti sparerò in faccia, stronzo» disse l’uomo più anziano. Quelle parole
furono seguite da un’altra scarica di proiettili che devastò il corridoio.
«Perlopiù state sparando alla nave, capo» replicò Havelock, in tono pratico.
Pareva altalenare fra il sentirsi imbarazzato per conto dell’assalitore e il
prepararsi a rispondere con altra violenza. Basia ricordò come qualcuno gli
avesse parlato del concetto del Bushido, quando aveva inizialmente accettato
il lavoro su Ganimede. Gli avevano detto che si trattava della pace e
dell’efficienza che derivavano dal pensare a sé stesso come se fosse morto.
Havelock gli ricordava quell’idea.
«Kemp, sei in posizione?» chiese la voce più anziana.
«Siamo in tuta e ci stiamo dirigendo all’accesso di emergenza uno undici»
rispose una voce.
«Muovetevi più in fretta, precedeteli.»
«Ehi, Kemp» intervenne Havelock. «Credevo di averti mandato in
infermeria con Salvatore. Non lo avrai lasciato a sanguinare in un corridoio,
da qualche parte, vero?»
«No, signore» rispose Kemp. «Qualcuno lo sta accompagnando là...»
«Smettila di parlargli!» ringhiò l’uomo iroso. «Non è nella nostra squadra!»
Naomi stava lottando per sistemarsi intorno alle spalle la tuta di emergenza,
e Basia le si spinse accanto per aiutarla, mentre Havelock rimase accanto al
portello dello spogliatoio, sparando di tanto in tanto nel corridoio.
«Trova una bombola d’aria» disse Naomi, poi cominciò ad aprire gli
sportelli degli armadietti per frugare all’interno, con Basia che l’aiutava.
«Ehi, Mfume!» chiamò Havelock.
«Cosa?» ribatté, secca, una nuova voce.
«Girarti sugli stivali magnetici per aderire al pavimento dietro un riparo è
una buona mossa, ma nella posizione in cui ti sei messo hai il ginocchio che
sporge oltre l’angolo.» Havelock sparò un colpo di fucile e alla radio
qualcuno lanciò un grido di dolore. «Visto?»
Basia trovò un armadietto pieno di bombole d’aria di emergenza e aiutò
Naomi a collegarne una alla tuta, torcendola per infrangere il sigillo. Qualche
secondo più tardi lei sollevò i pollici per indicare che era a posto.
«Siamo pronti ad andare» disse a Havelock.
Lui lasciò partire qualche altro colpo, poi indietreggiò per raggiungerli
nello spogliatoio e consegnò il fucile a Naomi, che lo puntò contro la porta
per coprire i due uomini mentre sigillavano il casco.
«Hai cambiato idea riguardo al darmi un’arma?» chiese.
«La voglio indietro.»
«Qui fuori noi siamo pronti» avvertì Kemp, alla radio.
«Ehi, ragazzi, non lo fate» consigliò Havelock. «Avevamo appena
cominciato con le tattiche di combattimento nello spazio. Se andrete là fuori
con armi vere le cose si faranno molto pericolose.»
«Ecco, il capo ha detto...»
«Smettetela di parlare con lui!» gridò l’uomo più anziano, con voce
abbastanza forte da uscire distorta dagli altoparlanti del casco di Basia.
«Dannazione a voi!»
«Koenen» disse Havelock, con voce che suonava leggermente diversa,
adesso che indossava il casco e lo aveva sigillato. «Dico sul serio, non
mandare i tuoi uomini là fuori. Qualcuno finirà per farsi male o per morire.»
«Sì» ribatté l’ingegnere capo. «Sarai tu, traditore figlio di puttana amante
dei cinturiani.»
«Come vanno le costole, capo?» commentò Havelock, un sorriso che gli
traspariva dalla voce. «Vedi, in questo momento stai agendo sulla spinta della
rabbia, non stai riflettendo. È per questo che non volevo darvi proiettili veri.»
Basia si affibbiò sulla schiena il pacchetto EVA che aveva lasciato vicino al
portellone pressurizzato. Naomi gli porse il fucile e procedette a tirare fuori
dal magazzino altri due pacchetti. Un momento più tardi lei e Havelock li
avevano indosso e il portellone interno si stava già richiudendo. Havelock
tolse il fucile dalle mani di Basia e se lo appese all’imbracatura. Naomi avviò
il ciclo di apertura del portellone.
«Sai,» osservò «possono benissimo disattivare questo portellone dal ponte
di comando.»
Quasi in risposta alle sue parole, la luce di funzionamento del portellone
passò al rosso e il ciclo si arrestò. Havelock digitò qualcosa sul pannello di
controllo e il portellone riprese a funzionare.
«Non possono aver avuto il tempo di fare il reset di tutti i codici di override
di sicurezza» disse.
«La sicurezza della RCE può annullare le operazioni della nave?» chiese
Naomi.
«Benvenuta nel mondo della sicurezza delle società. L’equipaggio della
nave è solo un gruppo di glorificati autisti di taxi. La divisione di sicurezza
lavora direttamente per la società e ne protegge gli interessi. Possiamo
controllare e annullare qualsiasi cosa loro facciano.»
«È per questo che tutti vi odiano» commentò Basia.
Il portellone completò il ciclo e lo sportello esterno si aprì. Havelock
segnalò loro di uscire. «Sei sicuro che adesso non ti piaccio? Neppure un
poco?»
La stella di Ilus cominciava a fare capolino da dietro il pianeta, e il visore di
Basia si scurì al massimo per impedire alla luce dell’astro di accecarlo. Il
pianeta era sempre la stessa sfera di nubi grigie devastate dalla tempesta. In
lontananza, le luci di atterraggio della Rocinante lampeggiavano rosse e verdi
per indicare la sua posizione.
«D’accordo» disse Havelock, con voce incrinata da bassi livelli di statica.
«Probabilmente dovremmo muoverci. Hanno degli uomini all’esterno
sull’altro lato della nave. Non possono prenderci, ma guardatevi le spalle a
vicenda per evitare i rampini.»
Naomi aveva già attivato il suo pacchetto EVA, allontanandosi dal portellone
sulla spinta di quattro piccoli coni bianchi di gas compresso. «Alex? Siamo
fuori.»
«Oh, grazie a dio» replicò il pilota, il suo tono strascicato che scompariva
quasi del tutto a causa della tensione che gli permeava la voce. «Era
preoccupato a morte, qui. Basia è con te?»
«Sì, sono qui» rispose Basia.
«Devi prelevare tre persone» aggiunse Naomi. «Vieni a prenderci.»
«Tre?»
«Ho con me una pecorella smarrita.»
«Una pecorella smarrita?» commentò Havelock, con una nota divertita nella
voce. «Qui sono io che sto portando a termine il salvataggio.»
«È una cosa complicata» continuò Naomi. Ormai erano fuori dal portello.
La luce della connessione remota si accese sull’HUD di Basia, che cominciò a
eseguire un complesso programma: era Alex che stava mettendo il sistema di
navigazione del loro EVA sotto il controllo della Rocinante per portarli fino
alla nave. Il pacchetto effettuò alcune decise accelerazione e la Rocinante
cominciò ad apparire gradualmente più grande.
«Sono lieto che Basia se la sia cavata» disse Alex. «Mi preoccupava averlo
mandato laggiù da solo.»
«Alla fine non sono stato di molto aiuto» ammise Basia, avvertendo
un’altra ondata di imbarazzo.
«Hai indotto tutti a guardare nella direzione sbagliata» replicò Havelock.
«Questo è stato di notevole aiuto.»
«Già, siamo tutti eroi» commentò Alex. «Attualmente ci sono quattro tizi
che vi stanno seguendo. Cosa sappiamo su di loro?»
Sull’HUD di Basia apparve un piccolo riquadro, al cui interno scorreva un
video di quattro persone in tuta pressurizzata che indossavano pacchetti EVA e
avevano alle spalle la mole della Edward Israel. Senza che lui facesse niente,
l’immagine si ingrandì fino a permettergli di vedere le armi che
impugnavano. Alex stava trasmettendo loro tutte le immagini rilevate dai
telescopi della Rocinante.
«Già, quelli sono i miliziani che ho messo insieme e addestrato» spiegò
Havelock, poi sospirò. «In retrospettiva, appare un’idea sbagliata.»
«Volete che me ne occupi io?» chiese Alex.
«La tua versione dell’‘occupartene’ prevede l’uso dei cannoni difensivi di
prua della tua nave?» ribatté Havelock.
«Uh. Sì.»
«Allora no. Quei tizi sono abbastanza stupidi e privi di addestramento da
essere ancora entusiasti di quello che fanno, ma sono soltanto ingegneri. Non
sono gente cattiva» spiegò Havelock.
«Vi stanno sparando» osservò Alex. D’un tratto alcune linee rosse
apparvero sull’HUD di Basia. «La Roci sta tracciando la traiettoria dei
proiettili.»
La consapevolezza che c’erano proiettili silenziosi, invisibili e
potenzialmente letali che gli volavano intorno fece formicolare il cuoio
capelluto di Basia. A quanto pareva, le linee rosse sul display avevano un
significato più chiaro per Havelock, perché osservò: «Non sono nelle nostre
vicinanze. Non hanno un meccanismo di mira integrato nell’HUD, quindi al
momento stanno solo sparando e pregando. Non c’è motivo di rispondere al
fuoco.»
«Primo ufficiale?» chiese Alex. Basia impiegò un momento a rendersi
conto che si stava rivolgendo a Naomi.
«In questa cosa è Havelock a decidere» rispose lei. «Quella è la sua gente.»
«D’accordo» assentì Alex, in tono dubbioso.
La Rocinante continuò a farsi sempre più grande a ogni minuto che
passava, finché Basia poté distinguere le minuscole luci intorno al portellone
pressurizzato. Aveva passato poco tempo su quella nave, ma essa gli dava già
la sensazione di essere a casa. Il suo pacchetto EVA si accese in una rapida
serie di accelerazioni e lo fece girare fino a essere rivolto verso la Israel, poi
cominciò a frenare. Erano quasi arrivati.
«Ragazzi,» avvertì Havelock «dire che non c’è rinculo è un’esagerazione, e
non vuol dire che il rinculo non sia presente per niente.»
Quelle parvero a Basia altre parole senza senso finché non guardò il video
degli inseguitori fornito dalla Rocinante e vide uno dei quattro uomini
vorticare e ruotare nello spazio, mentre attivava freneticamente il suo
pacchetto EVA nel tentativo di ritrovare il controllo dei movimenti. Questo
però parve soltanto peggiorare le cose, perché ogni scarica di gas emessa dal
pacchetto aggiungeva soltanto un nuovo asse alla rotazione.
«Allora è un nome impreciso per le armi» replicò l’uomo chiamato Kemp.
«Una cosa che vi avrei spiegato se fossimo arrivati a lezioni più avanzate di
tattica in zero g» disse Havelock. «Vi avrei anche insegnato a usare il
software integrato di compensazione per indurre il pacchetto EVA a emettere
scariche stabilizzanti di gas ogni volta che fate fuoco.»
«Mi pare che ci siano un sacco di cose che non ci hai mostrato» osservò
Kemp.
«Sì, e adesso che mi state sparando sono semplicemente stufo di tutta
questa storia. Intanto, vi prego di smetterla. Drake ha perso del tutto il
controllo e sta andando alla deriva lontano da voialtri. Qualcuno deve andare
a prenderlo prima che si allontani troppo.»
«Ti piacerebbe, vero?» intervenne quello che Havelock aveva chiamato
Koenen. «Vorresti farci abbandonare l’inseguimento.»
«Mi piacerebbe evitare che Drake precipiti e muoia» ribatté Havelock, in
tono triste. «Inoltre, sto discutendo con il pilota della nave da guerra alle mie
spalle per convincerlo che non ha bisogno di trasformarvi in una nuvola di
spruzzi rossi con i cannoni difensivi di prua. Voi però mi state rendendo
sempre più difficile riuscire a convincerlo.»
«Non minacciare...»
«Andate a prendere Drake. Tornate alla nave. Smettetela di sparare. Se uno
dei proiettili che state spargendo in giro dovesse accidentalmente colpirci
lascerò la nave libera di agire.»
Ci fu un lungo silenzio, poi le linee rosse sull’HUD di Basia cominciarono a
scomparire una dopo l’altra, finché non ne rimase nessuna. Il suo pacchetto
EVA emise un ultimo, lungo getto di gas, poi lo fece girare. Il portellone
pressurizzato esterno della Rocinante era già aperto e li aspettava. Naomi
fluttuò all’interno, si aggrappò a un appiglio e attese che loro la seguissero.
Adesso che era al riparo dalla stella di Ilus, la polarizzazione scomparve dal
visore del casco, e il chiarore azzurro delle luci a LED del portellone le
illuminò il volto, rendendo chiaramente visibile il suo ampio sorriso.
«A casa, sono di nuovo a casa» disse. Basia fluttuò dentro accanto a lei, e
Naomi lo afferrò per un braccio per farlo fermare. «Grazie per essere venuto
a prendermi.»
Basia arrossì e sollevò le mani nel gesto cinturiano che equivaleva a una
scrollata di spalle. «Non ho fatto molto, a parte farmi sparare addosso.»
«A volte, il solo farsi vedere è sufficiente.»
Havelock si afferrò al bordo dell’apertura del portellone e si fermò,
girandosi a guardare verso la Israel. «Ehi, avete recuperato Drake? Sta
bene?»
«Sì, signore» rispose Kemp. «Lo abbiamo recuperato.»
«Havelock,» ringhiò la voce più matura e rabbiosa «non la passerai liscia.
La RCE ti distruggerà quando torneremo indietro, e io sarò là per vederlo
succedere.»
Havelock scoppiò a ridere. «Capo? Spero che sopravvivremo entrambi
abbastanza a lungo perché succeda. Chiudo.» Indietreggiò dentro il portello e
calò la mano sul pannello di controllo perché iniziasse il ciclo di chiusura.
«Ce l’abbiamo fatta» commentò Basia, e avvertì un momentaneo senso di
euforia, seguito da un’improvvisa ondata di terrore che non si era reso conto
di aver tenuto sotto controllo fino a quel momento. Se si fosse trovato in un
ambiente dotato di gravità si sarebbe accasciato. Naomi e Havelock
procedettero a liberarsi del pacchetto EVA mentre il portellone eseguiva il
ciclo di pressurizzazione. Basia armeggiò con le cinghie del suo pacchetto,
ma le mani gli tremavano al punto che non ci riuscì. Dopo qualche momento,
Naomi intervenne per aiutarlo a sfilarselo.
Il pacchetto fluttuò attraverso il compartimento e andò a sbattere contro la
paratia con un tonfo sordo. Basia ebbe a stento il tempo di rendersi conto di
aver sentito qualcosa a parte il proprio respiro quando il portellone interno si
aprì e la forma fluttuante di Alex apparve sulla soglia, con uno sciocco
sorriso sull’ampio volto scuro.
«Primo ufficiale,» disse «è bello riaverti a bordo.»
Naomi si tolse il casco e glielo lanciò. «È bello essere tornata, Mr Kamal.»
Ci fu una breve pausa durante la quale si sorrisero a vicenda, poi Naomi si
spinse verso di lui e Alex la strinse in un abbraccio.
«Ti hanno trattata bene?» le chiese.
«Mi ha tenuta chiusa in gabbia come un cane» rispose Naomi, accennando
con la testa verso Havelock. Il tozzo terrestre si era tolto il casco, che gli
fluttuava accanto nell’aria, e sfoggiava un accenno di sorriso imbarazzato.
Adesso che era a testa nuda, Basia vide che aveva corti capelli chiari, una
mascella squadrata e occhi scuri che gli conferivano una sorta di rude
avvenenza, come una video star che recitasse il ruolo del poliziotto in un film
d’azione. Questo lo indusse a desiderare di detestarlo.
«Era una questione di politica» spiegò Havelock. «Sono... ero il capo della
sicurezza di bordo della Edward Israel, anche se credo di aver appena dato le
dimissioni. Sono stato io a catturare il vostro primo ufficiale. Spero che non
me ne vorrete.»
«D’accordo» rispose Alex, poi si tornò a rivolgere a Naomi come se
Havelock non fosse stato neppure presente. «Ora che si fa?»
«Rapporto sulla situazione» chiese Naomi. «Quali sono gli ultimi
aggiornamenti sul decadimento dell’orbita?»
«La Barbapiccola precipiterà per prima, poi la Israel, e dopo noi dovremo
scegliere se morire in orbita quando le batterie si esauriranno, bruciare
nell’atmosfera o farci abbattere dagli alieni» rispose Alex, con una risata
priva di umorismo. «Siamo tutti fottuti comunque vada, però è bello riaverti a
bordo.»
44
Holden

Strascicando i piedi, Holden fece di nuovo il giro della torre.


Cercò di calcolare da quante ore non dormisse, ma il suo cervello aveva
perso la capacità di fare il conto, e il fatto che le giornate di Ilus durassero
trentaquattro ore continuava a mandare all’aria i suoi calcoli. Riuscì solo a
determinare che si trattava di parecchio tempo.
Attivò il sistema medico dell’armatura perché gli iniettasse altre anfetamine
e rimase turbato quando l’HUD lo informò che la scorta era esaurita. Quante
ne aveva già prese? Come la domanda relativa a da quanto tempo non
dormisse, anche quello era un mistero insolubile.
Un paio di lumache velenose stavano strisciando su per la parete della torre,
verso una finestra a forma di lacrima. C’erano alcune piccole lacerazioni
nella plastica con cui essa era stata coperta, quindi Holden buttò giù le
lumache usando la pala e le allontanò a calci, poi lavò via la bava tossica
dallo stivale in una pozzanghera fangosa.
La pioggia si era ridotta di intensità, il che era un bene, ma la temperatura
continuava a calare, il che invece era un male. Inoltre, anche se l’intensità
generale della luce non cambiava di molto a causa della costante copertura
delle nuvole, Holden aveva cominciato a notare la transizione dal giorno alla
notte a causa della comparsa di uno strato di brina sulle pareti della torre. Il
freddo non costituiva ancora un pericolo, ma la cosa sarebbe peggiorata, e
presto i superstiti avrebbero dovuto aggiungere l’ipotermia alla lista dei modi
sgradevoli in cui morire.
Si morse la lingua fino a farla sanguinare e continuò il suo lento giro
intorno alla torre.
Sentì Murtry prima di vederlo, una sommessa voce spettrale che fluttuava
nella pioggia grigia e che a poco a poco si trasformò in una sagoma umana,
leggermente più scura dello spazio che la circondava.
«...Azione immediata. Questa escalation è colpa loro e potremo sostenere di
aver agito con moderazione finché...» stava dicendo, ma si interruppe nel
sentire Holden che si avvicinava.
«Cosa ci fa qui fuori?» chiese Holden. Murtry era ancora cieco, e per lui era
pericoloso aggirarsi all’esterno. Dove non c’erano pozzanghere il terreno era
un viscido strato di argilla che poteva far scivolare chiunque in un istante, e la
quantità di lumache che l’acqua aveva stanato dal sottosuolo era tale da
indurre Holden a chiedersi se Ilus non fosse una palla cava piena di vermi
velenosi.
«Mi occupo degli affari miei, capitano» replicò Murtry, senza guardare
nella sua direzione.
«Il che significa che io dovrei fare lo stesso?»
«Lieto che lo abbia capito.»
I due uomini rimasero immobili per un lungo momento. Lontano, sopra di
loro, i rispettivi equipaggi si stavano probabilmente sparando addosso a
vicenda, in quel momento. Erano nemici, e non lo erano. Una parte del
cervello di Holden, intontito dal sonno e mezzo devastato, voleva ancora fare
la pace con Murtry e con la RCE. O almeno non voleva avere sulla coscienza
la morte di quell’uomo.
«Qui fuori è pericoloso» osservò, mantenendo un tono di voce calmo e
piano.
«E che differenza fa?» Di nuovo, Murtry aveva la mascella protesa in fuori,
e l’ultima parola suonò secca e tronca. La sua ira diede a Holden un barlume
di speranza. Forse Naomi era riuscita a fuggire. Doveva parlare con Alex.
«Non posso permettere che lei rimanga ucciso mentre è sotto la mia
responsabilità» disse.
«Apprezzo la sua preoccupazione.»
Tutto quel danzare intorno al problema appariva vagamente ridicolo.
Sapevano entrambi cosa stava succedendo, e Holden aveva la sensazione che
stessero giocando a poker fingendo di non vedere le carte dell’avversario.
«Posso aiutarla a rientrare?» chiese.
«Ho delle cose da finire qui fuori» replicò Murtry, con quel suo sorriso
privo di significato.
«Quando più tardi troveremo il suo cadavere, mi premurerò di dire a tutti
che l’avevo avvertita.»
«Se morirò,» ribatté Murtry, mentre il suo sorriso si faceva leggermente più
sincero «cercherò di lasciare un messaggio in cui si afferma che non è stata
colpa sua.»
E a indicare che quella era la fine della loro conversazione gli volse le
spalle e prese a borbottare nel terminale palmare. Holden lo lasciò lì e chiamò
immediatamente Alex.
«Qui siamo piuttosto impegnati, capitano» annunciò senza preamboli il
pilota.
«Dimmi che siete impegnati perché avete salvato Naomi e tutto va alla
perfezione. Lei è a bordo?»
Ci fu una lunga pausa, poi Alex sospirò rumorosamente nel microfono.
«Dunque, hai presenta la parte in cui sono andato a salvare Naomi? Sì,
quella. Ho mandato Basia.»
Holden si girò di scatto per guardare di nuovo verso Murtry. Il capo della
sicurezza della RCE stava ancora parlando al terminale palmare. «Abbiamo
mandato un prigioniero a salvarne un altro? Se la cosa non ha già funzionato,
credo che in questo momento Murtry stia ordinando una serie si esecuzioni
capitali.»
«No, no» si affrettò a replicare Alex. «In un certo senso è andata di merda,
ma le trasmissioni radio che sto intercettando mi fanno pensare che Naomi
stia bene. In effetti, credo che stia fuggendo per conto suo, dopo aver salvato
Basia.»
Holden non riuscì a trattenere una risata. Murtry girò la testa di scatto per
guardare con i suoi occhi ciechi verso la fonte di quel suono. «Mi sembra una
buona cosa. Adesso dove sono?»
«A dire il vero, c’è un po’ di confusione» spiegò Alex. «Posso vedere l’IAN
di Basia che si sta allontanando dalla Israel, ma là fuori ci sono un sacco di
altre tute, quindi la situazione è complicata.»
«Puoi... che ne so... chiedere lumi?»
«Sì e no. Basia ha cambiato canale senza dirmi niente e senza lasciare
aperto quello vecchio. Suppongo che non abbia eseguito molte esercitazioni
di combattimento tattico. Spero che uno di loro cominci a parlarmi, in modo
da poter ottenere la nuova frequenza.»
Holden guardò verso Murtry, che probabilmente stava usando la radio per
coordinare l’inseguimento di Naomi e di chiunque altro si trovava ora con lei,
e si sforzò di reprimere l’impulso di avvicinarsi, buttarlo a terra, prendergli il
terminale ed esigere di sapere cosa diavolo stava succedendo.
Poi smise di sforzarsi.
Murtry aveva appena accennato a girarsi verso di lui, accigliandosi nel
sentire il rumore dei suoi passi che si avvicinavano, quando Holden gli
strappò di mano il terminale e lo spinse, mandandolo a cadere sul terreno
fangoso.
«Resta dove sei o ti pesterò fino a farti perdere i sensi» ingiunse, poi si
portò il terminale all’orecchio e disse: «Chi c’è all’altro capo di questa
comunicazione?»
«Chi cazzo parla? Dov’è Murtry?»
«Sono qui in piedi sopra di lui» ribatté Holden. «Quindi, se fate parte della
squadra che sta inseguendo Naomi Nagata, vi consiglio di fermarvi.»
«Comunicazioni compromesse» disse il suo interlocutore. «Passate su due-
alfa.» E la connessione si chiuse. A quanto pareva, qualcuno aveva passato
del tempo a addestrarsi nell’uso delle comunicazioni tattiche.
«Alex,» avvertì Holden «ho interrotto le loro comunicazioni. Vai a prendere
la nostra gente.»
«Nessun problema, capo. La situazione si è un po’ chiarita. Ho tre persone
che stanno venendo a bordo.»
«Chi è la terza?»
«Sto per scoprirlo. Chiudo.»
Murtry si issò in ginocchio con un grugnito, fissando con aria accigliata un
punto appena al di sopra della spalla sinistra di Holden. «Facile fare il duro
quando l’avversario è cieco.»
«Stiamo lavorando per risolvere quel problema» ribatté Holden, gettando il
terminale di Murtry per terra accanto a lui. «Dopo, sentiti libero di venire a
cercarmi.»
«Lo farò.» Il capo della sicurezza della RCE si issò in piedi e si avviò con
cautela verso l’ingresso della torre aliena.
«Non vedo l’ora» disse Holden, quando l’altro si fu allontanato abbastanza
da non poterlo sentire, e rimase sorpreso di scoprire che era vero. Poi riprese
la sua lenta marcia nella direzione opposta non appena Murtry fu scomparso
oltre l’angolo della torre.
Il suo auricolare si attivò con un crepitio. «Capitano?» chiamò la voce di
Amos. «Quella dottoressa ti sta cercando.»
«Lucia o Elvi?»
«Quella carina.»
«Lucia o Elvi?»
«Quella che non è sposata con il nostro prigioniero.»
«Dille che arrivo non appena finito questo giro della torre» rispose Holden,
e spense la connessione.
Pochi minuti più tardi svoltò l’ultimo angolo, arrivando in vista
dell’ingresso della torre, dove Elvi lo stava aspettando con aria
profondamente accigliata.
«Non funziona» suppose Holden.
«Cosa?»
«Gli oncocidi. La mia medicina. Non funziona.»
«Cosa?» ripeté Elvi. «Perché lo dice? Cosa è successo?»
«Appare accigliata.»
«Oh, no. Stavo solo pensando che le proteine collegate da membrane nelle
nostre cellule devono avere qualche sito funzionale in comune con le forme
di vita locali, anche se per quanto posso stabilire si tratta di proteine del tutto
diverse. Gli oncocidi stanno avendo un effetto simile sulla divisione mitotica
anche se i nostri gruppi di amminoacidi si sovrappongono a stento. Ci
vorranno decenni per capirci qualcosa.»
«Allora fingiamo che io non abbia la minima idea di cosa sta parlando»
replicò Holden.
«Sta funzionando» disse Elvi, mentre il suo cipiglio si trasformava in un
luminoso sorriso. «La riproduzione cellulare del microrganismo rallenta, le
colonie si frammentano e anche l’effetto di dispersione della luce va
scomparendo. Posso quasi leggere di nuovo, se i caratteri sono abbastanza
grandi.»
Holden avvertì un’ondata di sollievo che quasi immediatamente si
trasformò in una di vertigini. Si accasciò contro la parete della torre, traendo
lunghi e lenti respiri per evitare di svenire. A qualche metro di distanza, una
lumaca prese a strisciare verso di lui lungo la parete. Holden accennò a
staccarla con la pala, ma poi si rese conto di averla persa da qualche parte e
che non si sentiva più le mani.
«Sta bene?» chiese Elvi, protendendo con esitazione una mano per cercarlo.
«Respira in modo strano.»
«Sto per svenire» rispose Holden, fra un lungo respiro e il successivo.
«Quanto ci vorrà perché tutti ci vedano di nuovo?»
«Dobbiamo portarla dentro» disse Elvi, passandosi il braccio sinistro di lui
intorno alle spalle e guidandolo verso la porta. «Credo sia rimasto sveglio per
qualcosa come quattro giorni.»
«Non importa» borbottò Holden. «Ho preso un sacco di stimolanti. Quanto
tempo ci vorrà?»
Elvi si fermò, passando il braccio libero intorno alla vita di lui per
sorreggerlo. Per Holden fu un sollievo e anche, se voleva essere onesto, una
cosa un po’ poco lusinghiera constatare con quanta rapidità ogni tensione
sessuale fosse scomparsa dai loro rapporti. Era abbastanza stordito dalla
carenza di sonno da arrivare quasi a chiederle cosa fosse cambiato. Per
fortuna, lei parlò per prima.
«Non lo so con certezza. L’organismo morto non rifrange la luce come
quello vivo. La maggior parte della nostra perdita visiva derivava da questo,
non da un blocco effettivo. Per un po’ avremo ancora qualche miodesopsia
negli occhi, ma...»
«Quindi questo significa presto?»
Elvi lo pilotò oltre la porta e fino a un mucchio di coperte, poi lo aiutò a
adagiarsi finché non fu disteso supino. «Sì, presto, credo. Ore, forse. Al
massimo giorni.»
«Come sapeva che queste coperte erano qui?»
«Abbiamo preparato per lei questo posto dove dormire tre giorni fa» replicò
Elvi con un sorriso, battendogli un colpetto sulla guancia. «Lei è stato troppo
cocciuto per utilizzarlo.»
«Grazie.»
«Abbiamo anche una piccola tenda per garantire la privacy» aggiunse lei,
tirando qualcosa vicino ai suoi piedi. Un sottile strato di materiale si sollevò e
allargò su tutto il suo corpo, coprendolo completamente.
«Grazie» ripeté Holden, sentendo gli occhi che gli si chiudevano contro la
sua volontà. Sentiva già il sonno che si impadroniva di lui, facendogli
formicolare le estremità. «Mi svegli fra circa un anno. Oh, e si accerti che
Murtry non mi uccida prima di allora.»
«Perché dovrebbe farlo?» chiese Elvi.
«In un certo modo, siamo in guerra» spiegò Holden. Poi la perdita di
consapevolezza si riversò su di lui e il sonno lo trascinò in un vuoto senza
fine.
«Allora,» disse una voce, accanto al suo orecchio «adesso dobbiamo
proprio darci una mossa.»
«Miller,» borbottò Holden, senza aprire gli occhi «giuro che se mi costringi
ad alzarmi troverò il modo di ucciderti.»
«Hai fatto la tua parte, qui» continuò Miller, imperturbato. «Adesso devi
venire con me e fare quell’altra cosa. Non so bene quanto tempo ci rimane,
quindi datti una mossa.»
Holden si costrinse ad aprire gli occhi e a guardare di lato. Miller era dentro
la tenda con lui, ma era anche troppo grande per poterci star dentro. Le
immagini che si sovrapponevano gli scatenarono una fitta di dolore alla testa
che lo indusse a richiudere gli occhi. «Dove dobbiamo andare?»
«Dobbiamo prendere un treno. Trova quella stanza sul retro con quella
strana colonna nel centro. Voialtri la usate come magazzino. Ti raggiungerò
là.»
«Ti odio così tanto» ringhiò Holden, ma non ci fu risposta. Si arrischiò ad
aprire un occhio e vide che Miller era scomparso. Quando aprì la tenda trovò
Elvi seduta accanto a essa con aria preoccupata.
«Con chi stava parlando?»
«Con lo spettro del Natale passato» ribatté Holden, costringendosi a
sollevarsi a sedere. «Dov’è Amos?»
«Passa un sacco di tempo con Wei. Credo siano entrambi nella stanza
accanto.»
«Mi aiuti ad alzarmi» chiese Holden, protendendo un braccio. Elvi si alzò
in piedi e tirò finché lui riuscì in qualche modo a issarsi in piedi senza
perdere l’equilibrio. «Il cuore mi batte all’impazzata. Non dovrebbe farlo.»
«È imbottito di tossine dovute allo sfinimento e di anfetamine. Non mi
sorprende che abbia delle allucinazioni.»
«Le mie allucinazioni appartengono al genere dovuto al controllo di una
mente aliena» replicò Holden, e mosse qualche passo incerto verso la stanza
accanto.
«Si rende conto di quello che dice?» incalzò Elvi, avviandosi insieme a lui e
mettendogli una mano sotto il gomito. «Comincia davvero a farmi
preoccupare.»
Holden si girò, si erse sulla persona e trasse un profondo respiro, poi
rimosse la mano di Elvi dal proprio gomito e replicò con il tono di voce più
saldo che riuscì a trovare. «Devo andare in un certo posto per disattivare la
rete di difesa, in modo che i nostri amici non precipitino dallo spazio e non
muoiano. Ho bisogno che lei torni a lavorare al problema della cecità. Grazie
per il suo aiuto.»
Elvi non parve convinta, ma Holden attese e alla fine lei si avviò verso
l’area della torre che era stata adibita a laboratorio.
Nella stanza accanto, Amos e Wei erano seduti accanto a un basso tavolo di
plastica, intenti a mangiare barrette di cibo e a bere acqua distillata da una
vecchia bottiglia di whisky.
«Hai un momento?» chiese Holden, e quando Amos annuì, aggiunse: «Da
solo?»
Wei non disse niente, ma scattò in piedi e si avviò fuori della stanza con le
mani protese davanti a sé per non andare a sbattere contro una parete.
«Che notizie ci sono, capitano?» chiese Amos, poi staccò un altro boccone
dalla barretta proteica e fece una smorfia. Sapeva di olio e carta.
«Abbiamo ripreso Naomi» annunciò Holden, in un sussurro perché non
sapeva di quanto Wei si fosse allontanata. «È sulla Roci.»
«Sì, l’ho saputo» replicò Amos, con un sorriso. «Me lo ha detto Chandra.»
«Chandra?»
«Wei» precisò Amos. «Lavora per la gente sbagliata, ma è una persona a
posto.»
«Okay. Murtry è incazzato per il salvataggio.»
«Già, che si fotta.»
«Inoltre,» continuò Holden «è possibile che io lo abbia spinto e gli abbia
rubato il terminale palmare.»
«Smettila di farmi innamorare di te, capitano. Sappiamo entrambi che la
cosa non può funzionare.»
«Il punto è che potrebbe cercare di prendersela con la nostra gente, quaggiù.
Ho bisogno che tu ti prenda cura di tutti, soprattutto di Lucia e di Elvi. Sono
quelle che ci sono state più utili, e lui potrebbe cercare di punirci servendosi
di loro.»
«Non ho molta paura di un cieco,» dichiarò Amos «neppure quando sono
cieco io stesso.»
«La cosa sta per risolversi. Elvi dice che i medicinali funzionano e che la
gente riavrà la vista nel giro di ore, al massimo giorni.»
«Capitano, questo è un problema che ti piacerebbe vedermi risolvere?»
chiese Amos, sollevando pollice e indice a formare la sagoma di una pistola.
«La cosa potrebbe succedere.»
«No, nessuna escalation. Ho già fatto abbastanza danno buttando Murtry a
terra. La pagherò, quando verrà il momento, ma tu devi soltanto fare il
necessario per proteggere queste persone, in mia assenza.»
«D’accordo» assentì Amos. «Avrai quello che vuoi. Ma cosa significa... in
tua assenza?»
Holden sedette al tavolo di plastica con un tonfo e si massaggiò gli occhi,
aridi come cuscinetti d’acciaio. Quel pianeta era una grande palla di umidità,
e tuttavia lui riusciva in qualche modo ad avere occhi secchi e pruriginosi.
«Devo andare con Miller. Dice che c’è una cosa che potrebbe disattivare i
manufatti alieni, il che permetterebbe alla Roci di volare di nuovo e
risolverebbe praticamente tutti i nostri problemi.»
Amos si accigliò. Holden vide il suo volto contrarsi mentre lui formulava
interiormente delle domande e le accantonava prima ancora di pronunciarle.
«Okay» disse infine. «Io terrò d’occhio le cose qui.»
«Vedi di essere qui al mio ritorno, grand’uomo» replicò Holden,
assestandogli una pacca sulla spalla.
«L’ultimo uomo ancora in piedi» sorrise Amos. «È la mia qualifica
lavorativa.»
Holden impiegò alcuni minuti a trovare la camera adibita a magazzino, con
la strana colonna nel centro, ma quando vi arrivò la sola persona al suo
interno era Miller. Il detective si accigliò, come a chiedere perché ci avesse
messo tanto, ma Holden accantonò la cosa con un gesto.
Volgendogli le spalle, Miller si diresse verso la colonna e scomparve dentro
di essa come uno spettro che attraversasse una parete. Qualche secondo più
tardi, la colonna si spaccò nel centro senza il minimo suono e si aprì,
rivelando un’erta rampa di gradini che si perdeva nell’oscurità sottostante.
«Questa cosa è sempre stata qui?» chiese Holden. «Se è così, e tu ce ne
avessi parlato, avrebbe potuto salvare alcune vite quando è arrivata la
tempesta.»
«Se tu ti fossi trovato dove potevo parlarti, forse lo avrei fatto» ribatté
Miller, con una scrollata di mani cinturiana. «Te la sei cavata molto bene
senza di me. Ora scendi i gradini. Siamo già in ritardo.»
La rampa scendeva nel terreno per quasi cinquanta metri e terminava a
ridosso di una parete metallica. Miller la toccò e in essa si aprì un foro
circolare, anche se non si scorgevano saldature o giunti.
«Tutti a bordo» disse Miller. «È la nostra corsa.»
Holden dovette accoccolarsi per passare attraverso la piccola apertura
rotonda, e si ritrovò in un tubo di metallo largo due metri. Sedette per terra,
poi scivolò lungo la parete fino a giacere supino.
«Questa è parte del vecchio sistema di trasferimento del materiale» stava
spiegando Miller, ma Holden si era già addormentato.
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo, cerca di comunicare, e l’investigatore si
protende insieme a esso. Lo segue. Osserva. Si protende in cerca di un
segnale che non troverà mai. Non è frustrato, non prova ira. Cerca di
comunicare perché deve farlo. Usa quello che trova per protendersi oltre,
cosicché trova altre cose e può protendersi più lontano. Ma non sarà mai
abbastanza lontano. Esso però è inconsapevole di questo.
L’investigatore sa, e sa che esso sa. Consapevolezza in un contesto di
inconsapevolezza. Consapevolezza in un sistema privo di coscienza. In
questo non c’è niente di particolarmente nuovo. L’investigatore sospira,
desidera avere una birra, sa che questi sono artefatti del modello. Un tempo
c’era un cristallo germinale che aveva un nome. Che amava e conosceva la
disperazione. Che aveva lottato, fallito e vinto a prezzo di un grande
sacrificio. Niente di tutto questo aveva avuto importanza. Aveva cercato cose
scomparse, persone scomparse. In lui, tutto è portato avanti da quel fatto.
Qualcosa dovrebbe essere qui, e non c’è.
Invece c’è questo posto morto, un posto in cui non c’è nulla, dove tutto si
ritrae. L’investigatore si protende, e ciò che si protende muore.
L’investigatore cessa di protendersi. Aspetta. Valuta.
Una volta qui c’era qualcosa, che ha costruito tutto questo e lasciato la cena
mangiata a metà sul tavolo. I progettatori e gli ingegneri che si sono estesi su
un migliaio di mondi sono vissuti e sono morti qui, e si sono lasciati alle
spalle le meraviglie quotidiane come ossa nel deserto. L’investigatore lo sa.
Questo mondo è una scena del crimine, e la sola cosa che spicca – la sola
cosa che non appartiene a esso – è quel posto che niente riesce a penetrare. È
un manufatto in un mondo di manufatti, ma non quadra con il resto. Perché
avrebbero dovuto creare un posto che non potevano raggiungere? È una
prigione, una camera del tesoro, una domanda che non si dovrebbe porre?
Un proiettile. Una bomba che continua a ticchettare sotto il tavolo della
cucina dopo che l’incursione si è conclusa.
Colui che ha creato l’agnello ha creato anche te? Oppure si è trattato di
qualcun altro? Chiunque sia che vi ha uccisi, si è lasciato qualcosa alle spalle.
Qualcosa creato per la vostra morte, ed è proprio qui.
Centotredici volte al secondo, esso cerca di comunicare, inconsapevole
dell’investigatore, inconsapevole delle cicatrici e dei manufatti, degli echi dei
morti, della consapevolezza intrappolata al suo interno. Si protende perché
deve farlo. Sa che ci sono persone che stanno morendo, su un piano più
fisico, ma non è consapevole di saperlo. Sa di essere stato costruito dalla
morte di migliaia di esseri, ma non è consapevole di saperlo. L’investigatore
sa, ed è consapevole di sapere.
L’investigatore si protende, ma non a casaccio. Cerca un sentiero e non ne
trova uno. Cerca un sentiero e non lo trova. Cerca un sentiero, e infine ne
trova uno. Non là, non proprio, ma vicino. Due punti definiscono una linea.
Un punto è vivo, e un punto è morte. Nessuno dei due è venuto da qui. Sbatti
quei sassi uno contro l’altro e vedi che scintilla ne scaturisce. Vedi cosa
brucia.
L’investigatore è lo strumento che serve per trovare quello che manca,
quindi esiste. Tutto il resto è artefatto. Il desiderio di birra. Il cappello. I
ricordi, l’umorismo, la strana miscela di disprezzo e di affetto per qualcosa
chiamato James Holden. L’amore per una donna che è morta. La nostalgia di
una casa che non esisterà mai. È tutto estraneo. Senza significato.
L’investigatore si protende, trova Holden. Sorride. Un tempo c’era un
uomo, e il suo nome era Miller. E lui trovava le cose, ma non lo fa più.
Salvava la gente, se poteva, e la vendicava se non poteva. Si è sacrificato
quando è stato necessario. Lui trovava le cose scomparse. Sapeva chi era il
responsabile e faceva le cose ovvie perché erano ovvie. L’investigatore è
cresciuto attraverso le sue ossa, ha ripopolato i suoi occhi con una vita nuova
e sconosciuta, ha assunto la sua forma.
Ha trovato l’arma del delitto. Sa cosa è successo, almeno a grandi linee. In
ogni caso, il lavoro di fino spetta al pubblico ministero, supponendo che si
arrivi a un processo. Ma non succederà. C’erano altre cose in cui questo
strumento era bravo. L’investigatore sa come uccidere, quando è necessario.
Soprattutto, sa come morire.
45
Havelock

Havelock non era ancora convinto che Naomi Nagata fosse il miglior
ingegnere di tutto il sistema, ma dopo averla vista al lavoro dovette
riconoscere che probabilmente non ce n’era uno migliore. Se pure sulla Israel
c’erano persone che avevano più diplomi e specializzazioni di lei, Naomi
dava dei punti a tutto quanto a pura, dannata determinazione.
«D’accordo, non possiamo aspettare oltre» disse al muscoloso uomo calvo
sullo schermo. «Quando torna riferiscigli come stanno le cose quassù.»
«Sono sicuro che il capitano si fida della tua capacità di giudizio» replicò
Amos. «Comunque sì, glielo dirò. Niente altro che devo riferire?»
«Digli che ha circa un miliardo di messaggi da parte di Fred e di Avasarala»
interloquì la voce di Alex, arrivando attraverso il canale di comunicazione e
anche attraverso il portello che dava nella cabina di pilotaggio. «Parlano di
costruire un propulsore di massa, di mandarci scorte di provviste.»
«Davvero?» commentò Amos. «E quanto tempo ci metteranno ad
arrivare?»
«Sette mesi» rispose Naomi. «Al massimo, saremo morti da soli tre di quei
mesi.»
«Ragazzi, cercate di non divertirvi troppo senza di me» replicò Amos, con
un sorriso.
«Non c’è pericolo» rispose Naomi, e chiuse la comunicazione.
«Sei certa che questa sia una buona idea?» chiese Havelock.
«No» replicò Naomi, tirandosi più vicina alla consolle di comando. «Come
vanno le cose là fuori, Basia?»
Il canale di comunicazione si attivò e la voce del cinturiano sibilò nel ponte
operativo, dove il suono riverberò senza dare nessuna sensazione di
spaziosità. Come un sussurro in una bara. «Qui ci siamo quasi. Questo è un
vero pasticcio.»
«Allora è un bene che abbiamo un saldatore in gamba» ribatté lei. «Tienimi
aggiornata.»
Gli schermi del ponte operativo mostravano l’operazione in corso in tutti i
suoi stadi: quello che erano riusciti a fare fino a quel momento, quello che
ancora speravano di fare. E il timer con il conto alla rovescia, indicante le ore
rimanenti prima che la Barbapiccola entrasse in attrito con l’esosfera di Ilus e
si trasformasse da un insieme di ceramica e metallo in rapido movimento in
un fuoco d’artificio.
Non si trattava più di giorni, ma di ore.
Il cavo in sé stesso aveva l’aspetto di due reti connesse da un singolo filo
sottile come un capello. Lungo tutto il ventre della Rocinante, una dozzina di
supporti in acciaio e ceramica fornivano un’ampia base, e le linee nere si
incontravano all’altezza di un resistente giunto in ceramica, qualche centinaio
di metri verso l’esterno. Sotto di loro, la Barbapiccola aveva già quasi tutti i
supporti corrispondenti installati al loro posto. Una volta che il cinturiano
avesse finito di installarli, la corvetta marziana avrebbe usato l’energia delle
proprie batterie per trascinare la nave cinturiana e il suo carico di litio in
un’orbita più stabile. La complessità della situazione dava a Havelock un
lieve senso di vertigine. Mentre osservava lo schermo che mostrava la
superficie della Barbapiccola, l’immagine tremolò e la luce indicante uno dei
supporti da rossa si fece verde.
«D’accordo» disse Naomi, nel canale di comunicazione aperto. «Quello ci
dà un segnale verde costante. Passa al prossimo.»
«Sì, dammi ancora un minuto, qui» rispose la voce compressa di Basia.
«C’è una giuntura che non mi piace. Voglio...» Lasciò in sospeso la frase. La
luce tornò rossa, poi si fece di nuovo verde. «Okay, ci siamo. Passo oltre.»
«Stai attento» avvertì Alex. «Tieni la torcia per saldare spenta quando ti
sposti. Questi cavi hanno un’enorme forza tensile ma fanno schifo quanto a
resistenza al calore.»
«Ho già fatto prima queste cose» ribatté Basia.
«Socio,» ritorse Alex «non credo che nessuno abbia mai fatto questo, prima
d’ora.»
I cavi di traino erano del modello standard a filamento, del genere che si
usava per recuperare marine marziani. Usarli per trainare un’astronave era
come usare filo da cucito per tirare una palla da bowling: era possibile, se si
avevano abbastanza abilità e pazienza, ma era facilissimo che le cose
andassero storte. Naomi aveva trascorso tre lunghe ore annidata nel suo
sedile a smorzamento prima di decidere che la cosa fosse fattibile, e anche
allora Havelock aveva avuto la sensazione che si fosse indotta a crederlo
perché sapeva che non esisteva nessun’altra alternativa.
Havelock aveva trascorso quel tempo vedendosi rifiutare ogni richiesta di
connessione con il terminale di Murtry e riflettendo sul fatto che si era
appena licenziato in modo spettacolare. Era strano che la cosa gli pesasse così
tanto. Era a diciotto mesi di viaggio da casa, probabilmente a pochi giorni dal
morire, e tuttavia la sua mente continuava a tornare al disagevole senso di
sorpresa che provava nel constatare di aver receduto in quel modo dal proprio
contratto di lavoro. Era una cosa che non aveva mai fatto prima, e dal
momento che era andato con Naomi, non sapeva neppure bene quale fosse la
sua posizione legale. Supponeva di essere a metà strada fra un ex dipendente
e il complice di una cospirazione criminale. Due posizioni talmente
distanziate fra loro che non sapeva come valutarle. Se a casa lui era davvero
diventato il volto di quanto succedeva su Nuova Terra, tutti si sarebbero
sentiti confusi almeno quanto lui.
La verità era che nessuno degli standard della legge societaria o
dell’autorità governativa sembrava applicabile laggiù. Poteva seguire i
notiziari, leggere le lettere e perfino scambiare video registrati con l’ufficio
centrale della RCE, ma quelle erano soltanto parole e immagini. I modelli
basati sull’esperienza acquisita nello spazio umano – anche in quello meno
civilizzato della Fascia – lì non funzionavano.
Soprattutto, però, provava sollievo. Era estremamente consapevole di
quanto fosse sconveniente, nel contesto generale, ma non poteva negare di
sentirsi sollevato, e non provava nessun rammarico per le scelte fatte, tranne
forse per aver accettato quel lavoro. Tutta la tragedia e la sofferenza di Ilus
sarebbero state soltanto una cosa triste e inquietante se viste su uno schermo
di un bar della Stazione di Ceres. Lì dove si trovava, la paura aveva cessato di
essere un’emozione per diventare l’ambiente stesso.
L’indicatore dell’ultimo supporto si fece verde.
«D’accordo» disse Naomi. «Da qui sembra che sia tutto a posto. Com’è la
situazione là fuori, Basia?»
«Brutta come la merda, ma solida.»
«La tua scorta d’aria?»
«Sono a posto» replicò Basia. «Ho pensato che farei meglio a rimanere qui,
perché se qualcosa dovesse cedere potrei ripararlo.»
«No» ribatté Naomi. «Se la cosa dovesse fallire, quei cavi si spezzeranno
tanto in fretta da tagliarti a metà. Torna all’ovile.»
Lo sbuffo violento di Basia fu più eloquente di qualsiasi parola, ma il
piccolo punto giallo procedette a spostarsi dalla superficie della Barbapiccola
e attraverso il vuoto che la separava dalla Rocinante. Havelock la tenne
d’occhio con le dita strettamente intrecciate fra loro.
«Alex,» disse Naomi «puoi controllare il meccanismo di rilascio?»
«Funziona» rispose la voce di Alex, giungendo tanto attraverso il canale
che dalla cabina di pilotaggio. «Se dovessimo cominciare a deformarci
potremo sganciarci.»
«D’accordo» assentì Naomi. Poi, più sommessamente, fra sé, ripeté:
«D’accordo.»
«Se questo non dovesse funzionare,» osservò Alex, attraverso il portello fra
ponte operativo e cabina di pilotaggio «il nostro Basia vedrà morire bruciata
la sua bambina. Gli avevo promesso che non sarebbe successo.»
«Lo so» annuì Naomi. Havelock aveva sperato di sentirle dire che non
sarebbe successo.
Basia impiegò diciotto minuti a tornare alla Roci, e altri cinque per uscire
dal portellone pressurizzato, e Naomi trascorse la maggior parte di quel
tempo alla radio, in contatto con il capitano e l’ingegnere della Barbapiccola.
Metà della conversazione si svolse nel gergo dei cinturiani – ji-ral sabe sa e
richtig ane-nobu – che sarebbe potuto essere un linguaggio in codice per quel
che lui ne capiva. Havelock richiese di nuovo una connessione al terminale
palmare di Murtry e ricevette l’ennesimo rifiuto. Si chiese se avrebbe dovuto
scrivere un comunicato stampa o una lettera di dimissioni da inviare alla
società.
«Tutto a posto» disse Basia, entrando sul ponte operativo, la faccia ancora
coperta da un sottile strato acquoso di sudore. «Sono qui.»
Il timer che indicava il tempo mancante all’impatto della Barbapiccola con
l’atmosfera era sceso al di sotto dell’ora. Per Havelock era difficile ricordare
che l’immobilità del ponte era soltanto un’illusione. Le velocità e le forze
presenti ad altitudini orbitali erano tali da uccidere un essere umano già solo
con un errore di arrotondamento di calcolo. A quelle velocità, l’attrito causato
da aria troppo rarefatta per poterla respirare avrebbe fatto prendere fuoco alla
nave.
«Allacciate le cinture» ordinò Naomi, indicando i sedili a smorzamento.
Poi, alla radio, aggiunse: «Rocinante bei here. Dangsin-eun jumbiga?»
«Pronti con son immer, sa sa?»
Naomi sorrise. «Conto alla rovescia avviato» replicò. «Dieci. Nove. Otto...»
Al quattro, i monitor sulle consolle cominciarono a cambiare colore,
mappando le due navi, i cavi e i motori in falsi colori psichedelici. Basia
stava borbottando sottovoce qualcosa che suonava come una preghiera.
Naomi arrivò a uno.
La Rocinante gemette. Il suono risultò profondo come quello di un gong,
ma al contrario di esso non svanì. Invece, gli ipertoni parvero intensificarsi,
stratificandosi uno sull’altro. Sui monitor i cavi scintillarono, con le forze
interne che correvano veloci lungo quella ragnatela di linee nei toni del
carminio, dell’arancione e dell’argento.
«Andiamo, piccola» disse Naomi, battendo un colpetto sulla consolle che
aveva davanti. «Ce la puoi fare. Ce la puoi fare.»
«Quassù ci stiamo avvicinando di parecchio al limite di tolleranza» avvertì
Alex.
«Capisco. Mantieni il movimento costante e delicato.»
La Rocinante stridette, un urlo acuto e graffiante come di metallo lacerato.
Havelock afferrò i lati del sedile a smorzamento e serrò le mani fino a farsele
dolere.
«Alex?» chiese Naomi.
«Stiamo soltanto attraversando una finestra di risonanza. Niente di cui
preoccuparsi.»
«Mi fido della tua parola» replicò Naomi.
«Puoi sempre farlo» rispose Alex, e Havelock percepì il sorriso che non
poteva vedere. «Io sono il pilota.»
Basia sussultò. Havelock si volse, ma gli ci vollero alcuni secondi per
vedere a cosa il cinturiano stesse reagendo. Il timer per il conto alla rovescia
– il timer della morte – era cambiato. Indicava che la Barbapiccola sarebbe
bruciata di lì a tre ore e quindici minuti. Quattro ore e quarantatré minuti. Sei
ore e sei minuti. Stava funzionando. Nell’osservare il timer, Havelock vide
espandersi il periodo di vita rimasto a tutti gli occupanti della nave sotto di
lui, ed ebbe voglia di gridare. Stava funzionando. Non aveva nessun logico
diritto di farlo, ma stava funzionando.
Il suono dell’allarme sovrastò ogni altro rumore. Naomi tornò a
concentrarsi sulla sua consolle.
«Cos’è che vedo, primo ufficiale?» chiese Alex. La percezione del sorriso
era scomparsa. «Perché vedo una macchia?»
«Controllo» gridò Naomi, senza prendersi il disturbo di usare la radio.
Havelock sintonizzò la sua consolle sui dati dei sensori. Il nuovo punto si
stava avvicinando dall’orizzonte, saettando sopra di loro nel suo arco al di
sopra della coltre di nubi di Ilus.
«Dov’è la Israel?» gridò.
«Nascosta alla vista» rispose Naomi. «Dovremmo incrociarci fra un’ora.
Quella è...»
«È la navetta.»
Il timer della morte segnava diciassette ore e dieci minuti.
«La navetta che avete trasformato in un fottuto siluro?» chiese Basia. La
sua voce suonava sorprendentemente calma.
«Sì» confermò Havelock. «Però l’esplosivo era costituito da un
sovraccarico del reattore, e adesso non ci sono reattori funzionanti, quindi...»
«Quindi è spinta dalle batterie. Però questo comporta ancora una dannata
quantità di energia cinetica» osservò Naomi.
«Ci colpirà?» chiese Havelock, e si sentì stupido non appena le parole gli
furono uscite di bocca. Era ovvio che li avrebbe colpiti.
«Alex?» chiamò Naomi. «Dammi qualche alternativa.»
«I CDP sono allineati, primo ufficiale» replicò Alex. «Tutto quello che devo
fare è dare un po’ di energia proveniente dalle batterie, regolarli
sull’automatico, e i cannoni difensivi di prua trasformeranno quella cosa in
metallo fuso prima che si avvicini.»
Venti ore e diciotto minuti.
«Dai energia ai CDP» ordinò Naomi. «Attento ai cavi.»
«Chiedo scusa» replicò Alex. «Sto cercando di fare un po’ troppe cose in
una volta. Energia ai CDP.»
Non funzionerà, pensò Havelock. Stiamo dimenticando qualcosa.
Il punto rosso si fece più vicino. La Israel stessa apparve oltre l’orizzonte,
anche se il contatto visivo era tuttora impedito dalla curva dell’atmosfera. La
navetta correva verso di loro. L’attivarsi dei cannoni difensivi di prua fu poco
più di una breve vibrazione in mezzo alla sopraffacente tensione derivante
dall’issare verso l’alto la Barbapiccola. Se non avesse saputo cosa aspettarsi,
Havelock non l’avrebbe neppure notato. Il punto rosso scomparve, poi tornò
ad apparire.
«Oh» disse Alex. «Uh.»
«Alex?» gridò Naomi. «Cosa succede? Perché non l’abbiamo abbattuta?»
«Oh, l’abbiamo centrata eccome» rispose Alex. «Abbiamo fatto in pezzi
quella merda, ma questo è il momento in cui di norma eseguiremmo manovre
evasive per evitare i detriti, giusto? Questo al momento non è possibile.»
«Non capisco» disse Havelock. Poi comprese. Prima che i cannoni di prua
la colpissero, la navetta era stata un grosso pezzo di metallo. Adesso era quasi
certamente un gran numero di pezzi di metallo relativamente piccoli, che
avevano ancora più o meno la stessa massa e si muovevano quasi alla stessa
velocità. Avevano solo barattato l’essere colpiti da un proiettile delle
dimensioni di una navetta con l’impatto di una massa di frammenti di
proiettile equivalente a quella della navetta.
Naomi si premette una mano sulle labbra. «Quanto tempo prima che...»
La nave tremò. Per un secondo Havelock pensò che i cannoni fossero
entrati di nuovo in funzione. Qualcosa sibilava, e il suo sedile a smorzamento
aveva un bordo affilato che non ricordava esserci stato. Il timer della morte si
era spento. Una crescente massa di sangue intorno al suo gomito fu il primo
segno concreto che era stato ferito, ma non appena lo vide fu investito anche
da un’ondata di dolore.
«Il ponte operativo ha una falla!» gridò Naomi alla radio.
«La cabina di pilotaggio è sigillata» rispose Alex. «Io sono a posto.»
«Sono ferito» disse Havelock, mentre cercava di muovere il braccio
sanguinante. I muscoli funzionavano ancora. Qualsiasi cosa lo avesse colpito,
detriti della navetta o frammenti del sedile a smorzamento, non gli aveva
paralizzato l’arto. Il globo di sangue che gli si spostava lungo il braccio
cominciava a diventare di dimensioni impressionanti. Qualcuno lo stava
strattonando. Era Basia, il cinturiano.
«Esci da quel sedile» disse. «Dobbiamo abbandonare questo ponte.»
«Sì, certo» assentì Havelock.
Naomi si stava spostando attraverso il compartimento. Frammenti di
schiuma anti-scheggiatura vorticavano come fiocchi di neve nell’aria che si
andava rarefacendo.
«Hai qualcosa per coprire quei buchi?» chiese Alex, in un tono di voce
dalla calma sconcertante.
«Sto contando fino a dieci, quaggiù» replicò Naomi, mentre Havelock si
issava fuori dal sedile e si spingeva verso il portello che dava accesso alle
parti interne della nave. «Non ho portato con me abbastanza sottobicchieri.
Porto i civili di sotto nel locale del portellone pressurizzato e gli faccio
indossare una tuta. Havelock è stato colpito.»
«È morto?»
«Non sono morto» rispose Havelock.
Naomi finì di inserire l’override e il portello del ponte si aprì con un
piccolo sbuffo di aria che entrava. Havelock sentì gli orecchi che gli
schioccavano mentre si spingeva sul ponte che ospitava il portellone
pressurizzato.
«Com’è la situazione dei cavi?» chiese Basia, nel seguirlo a ruota.
«Nessun danno al cavo principale» rispose Alex. «Abbiamo perso uno dei
supporti, ma posso tentare di compensare.»
«Fallo» ordinò Naomi, poi afferrò Havelock per la spalla. La postazione di
pronto soccorso di emergenza vicino al portellone pressurizzato conteneva un
rotolo di benda elasticizzata e un piccolo aspiratore per ferite. Naomi fece
stendere il braccio a Havelock e premette il beccuccio di plastica
dell’aspiratore nel centro del globo di sangue. «Com’è la situazione, Alex?»
«Sto controllando, primo ufficiale. Dunque, abbiamo una perdita lenta
nell’officina. Il lato di babordo è piuttosto malconcio. Su quel lato ci sono
banchi di sensori e i CDP. I propulsori di manovra non rispondono, potrebbero
non esserci neppure più. Qui intorno ci sono anche una quantità di cavi di
alimentazione, ma con il reattore disattivato non so se sono stati colpiti o
meno.»
Il solco nel braccio di Havelock era lungo quanto il suo pollice e a forma di
V. Dove la carne era stata sollevata, la pelle appariva bianca come il ventre di
un pesce, mentre i margini della ferita erano quasi neri per il sangue che vi si
era raccolto. Naomi vi applicò sopra una benda assorbente e procedette a
fissarla sulla ferita con un’ampia fascia elasticizzata. Aveva minuscole gocce
di sangue fra i capelli.
«Come siamo messi quanto a movimento?» domandò.
«Posso andare dove vuoi, a patto che sia in senso antiorario» replicò Alex.
«Se ci fosse un cantiere spaziale da qualsiasi parte nel raggio di un anno da
qui e avessimo un reattore, saprei dove andare.»
«Lavoreremo a un piano B. Come va la Barb?»
Basia aveva quasi finito di indossare di nuovo tutta la sua imbracatura da
saldatore. Naomi batté un colpetto sul braccio ferito di Havelock, un modo
fisico di indicare che anche lui era a posto, poi si girò verso gli armadietti e
procedette a tirare fuori una tuta ambientale per sé stessa.
«Continua a salire,» rispose Alex «ma mi preoccupa quel supporto
mancante.»
«D’accordo» replicò Naomi. «Per ora riduci la trazione. Vediamo se ci
riesce di rimetterlo a posto.»
Havelock infilò gli spessi gambali e finì di indossare la tuta, controllandone
automaticamente i sigilli, una cosa che lunghi anni vissuti nel vuoto
trasformava in un rapido riflesso istintivo. L’apparecchiatura medica della
tuta entrò in funzione e gli somministrò immediatamente una miscela di
medicinali contro lo shock. Il cuore gli martellava nel petto e si sentiva
arrossato in volto.
«Bene, la buona notizia è che non hanno altre navette, per cui non possono
ripetere questo scherzo» disse Basia.
«Cosa faranno adesso?» chiese Naomi, e Havelock impiegò un lungo
momento a rendersi conto che parlava con lui.
Quella era la sua gente. Marwick e Murtry. La milizia fatta di ingegneri. La
squadra della RCE aveva lanciato la navetta contro la Rocinante e cercato di
interrompere un’operazione di salvataggio di civili. Era un pensiero che
scombussolava in modo strano. Aveva trascorso una porzione consistente
della sua vita proteggendo quelle persone, mantenendo a un livello minimo i
giochi politici di bordo che si sviluppavano sempre durante un lungo viaggio,
proteggendoli da minacce esterne e interne. E loro avevano cercato di
uccidere non soltanto lui ma anche l’equipaggio della Rocinante e della
Barbapiccola. E la cosa peggiore era che in realtà lui non ne era sorpreso.
«Primo ufficiale? Abbiamo un buco anche nel condotto lanciasiluri di
babordo. Bisognerebbe controllare se tutto è ancora al suo posto, laggiù. I
meccanismi di sicurezza sono eccellenti, ma ci conviene controllarli tutti se
abbiamo intenzione prima o poi di usare uno di quei siluri. Sarebbe un vero
peccato che fossero i nostri stessi armamenti a farci esplodere.»
«Ricevuto» replicò Naomi. «Sto andando a controllare. Basia, puoi
coordinarti con Alex e rimettere quel supporto dove dovrebbe essere?»
«Certo che posso» assentì il cinturiano. Quello che era stato parte della
prima cospirazione per uccidere la gente della RCE, che aveva sulle mani il
sangue del governatore Trying. Per un momento i loro sguardi si
incontrarono attraverso il vetro del casco. Gli occhi di Basia avevano
un’espressione dura, ma parve a Havelock che in essi ci fosse qualcos’altro.
Forse una sfumatura di vergogna. Lo guardò eseguire il ciclo di apertura del
portellone e poi lo guardò richiudersi.
«Havelock» insistette Naomi. «Ho bisogno che tu risponda alla mia
domanda.»
«Quale domanda?»
«Cosa faranno adesso?»
Lui scosse il capo. Il braccio gli pulsava. Quell’attacco non aveva altro
scopo che il dispetto e quel genere di violenza che passava per qualcosa di
significativo di fronte alla disperazione. Se era stato opera di Murtry, la sola
cosa che gli importava era che la Barbapiccola bruciasse prima della Israel.
Se era stata la milizia, lo aveva fatto per dimostrare che non era stata
sconfitta.
Le ragioni non avevano importanza.
«Non lo so» sospirò. «Però sarà probabilmente qualcosa di brutto per tutti.»
46
Elvi

Elvi pensò che il ritorno della facoltà visiva era come emergere da una
nebbia. Il verde che aveva avvolto il mondo rimase all’inizio altrettanto
intenso, una cosa che si protrasse abbastanza a lungo da indurla a temere di
essersi sbagliata, o che l’aver usato per parecchio tempo gli oncocidi avesse
prodotto nella fisiologia di Holden qualche altro cambiamento che non si
verificava con un impiego a breve termine. Poi le ombre avevano cominciato
ad avere di nuovo dei contorni, piccole zone di definizione. E nell’arco di ore
aveva potuto vedere di nuovo l’arcata della porta e la forma
dell’apparecchiatura per le analisi chimiche. Quando infine era riuscita a
vederci abbastanza bene da poter riferire a Holden di essere certa di aver
risolto il problema lo aveva trovato in preda a quella che sembrava essere una
psicosi indotta da carenza di sonno. Si sentiva un po’ in colpa per non essersi
accorta prima del suo stato. Lui però era andato a parlare con Amos, ed Elvi
era quasi certa che quel grosso uomo sarebbe riuscito a prendersi cura del suo
capitano. Quanto a lei, aveva troppe altre cose da fare.
Il rallentamento della produzione dell’acqua da parte dell’apparecchiatura
per le analisi chimiche era risultato essere un problema più grave di quanto
avesse immaginato. I filtri di distillazione si erano esauriti: quel materiale,
che in origine era un tampone bianco e morbido di fibra di vetro intrisa di
pulitori ionici si era fatto verde e viscido. Adesso però le altre persone della
squadra scientifica e i superstiti di First Landing ricominciavano tutti a
vederci. Ci vollero quasi quattro ore, ma fra tutti, Elvi, Fayez e due tecnici
minerari riuscirono ad approntare fuori dalle rovine una distilleria che
convertiva l’acqua piovana in qualcosa di potabile alla velocità di quasi
dodici litri all’ora. Quell’acqua aveva un vago sapore di menta e di erba
medica, ma poteva sostentare la vita.
Quando Elvi la rintracciò, Lucia aveva un aspetto brutto quanto lo stato
mentale di Holden. La sua pelle appariva cinerea e il bianco degli occhi era
tanto rosato che Elvi rimase sorpresa di non vederlo sanguinare. Jacek
seguiva sua madre dappertutto, trasportando lo scanner medico e una piccola
sacca di bende. Elvi li guardò controllare i pazienti. Tutti erano coperti di
fango e di sporcizia. Le differenze fra la gente della RCE e i coloni erano
sepolte sotto strati di sporcizia e la gioia condivisa del ritorno della vista.
Quando Jacek incontrò il suo sguardo, Elvi gli sorrise. Il ragazzo esitò, poi
annuì quasi con timidezza e sorrise a sua volta.
«Le nuvole cominciano ad assottigliarsi» osservò Lucia. «Ho visto una
chiazza di cielo che era bianca.»
«Davvero?» chiese Elvi.
«Ovviamente, mi appariva ancora verdastra, ma in effetti era bianca»
rispose la dottoressa. Quando scosse il capo, parve impiegare una frazione di
secondo a riprendere a parlare. «Ha fatto un buon lavoro. Abbiamo solo tre
persone su cui il trattamento non pare funzionare.»
«Perché non funziona? Forse dovremmo...»
«Questa non è scienza» la interruppe Lucia. «È medicina. Una percentuale
di successo così elevata per un nuovo trattamento per una malattia mai vista?
Ce la siamo cavata meravigliosamente. Non tutti siamo però ancora tornati a
essere come eravamo. Se pure ce la faremo, ci vorrà del tempo.»
«Tempo» ripeté Elvi. «È strano pensare di averne ancora.»
«Abbiamo barattato il morire nella tempesta con il morire per via delle
lumache e poi con il morire di fame nell’arco di poche settimane.»
«Stiamo spingendo indietro il punto di crisi. Anche se non vinciamo,
almeno questo è un modo per non perdere.»
«Se possiamo continuare a spingere.»
Però non possiamo. Quelle parole non erano state dette, ma non era
necessario farlo. Con le navi che combattevano una contro l’altra e
precipitavano dall’orbita, e con l’ecologia nativa del pianeta che rendeva tutto
non coltivabile e immangiabile, estendere l’orizzonte di sopravvivenza del
gruppo oltre le poche settimane prima di morire di fame sarebbe stato
difficile. Forse impossibile. Lo stress traspariva in tutti, sia nella gente della
RCE che in quella di First Landing. Elvi poteva vederlo nel modo in cui
tornavano a isolarsi in tribù diverse, adesso che l’immediato pericolo era
passato, e si chiese se il cameratismo sarebbe tornato quando il cibo si fosse
esaurito.
«Ha bisogno di riposare» disse Elvi, e in quel momento sentì una mano
toccarle la spalla. Dietro di lei c’erano Wei e Murtry; Wei appariva cupa in
volto, mentre Murtry sfoggiava il suo consueto sorriso. Fra tutti loro, era il
solo sul quale lo strato di fango che gli copriva la pelle e i capelli apparisse
quasi naturale. Era come se si fosse trovato nel suo elemento.
«Dottoressa Okoye, speravo di poter scambiare qualche parola in privato»
affermò.
«Certamente» assentì Elvi. Lucia fece un secco cenno di assenso e si
allontanò. Elvi avvertì una lieve fitta di delusione. Dopo tutte le prove che
avevano superato, fra la tempesta e la cecità, le divisioni politiche fra la RCE e
i coloni erano ancora lì, appena sotto la superficie. Murtry era ancora l’uomo
che aveva dato fuoco a un edificio pieno di terroristi, e Lucia la moglie di un
uomo che aveva cospirato per distruggere la navetta pesante. Sembrava che
tutto avrebbe dovuto avere meno importanza, come se le piogge avessero
lavato via qualcosa. Qualsiasi cosa.
«Mi chiedevo cosa poteva dirmi dell’ultima conversazione che ha fatto con
il capitano Holden» continuò Murtry. La sua voce suonava del tutto calma e
ragionevole, come se fossero stati di nuovo sulla Israel e lui le stesse
chiedendo di ripensare all’ultima volta che aveva usato un attrezzo che non
riusciva a trovare.
«Ecco, era molto, molto stanco. Spossato. Pareva stesse soffrendo di un
concreto problema cognitivo.»
«Problema cognitivo di che genere, per favore?» insistette Murtry.
«Farfugliava» replicò Elvi. «Passava da battute su alieni che controllano la
mente a citazioni su Dickens, all’insistere che aveva un modo per disattivare
la rete di difesa del pianeta. Era davvero fuori di testa. Ho cercato di farlo
riposare, ma...»
«Mi sta dicendo che intendeva disattivare la tecnologia aliena attualmente
in funzione su questo pianeta?»
«Sì, voglio dire, perché non dovrebbe farlo?»
«Non gli appartiene. Ha detto come intendeva riuscirci?»
«No, ma non credo ci fosse niente di reale nelle sue parole. Era solo il suo
tronco encefalico attaccato alle corde vocali. Sono certa che non fosse del
tutto consapevole di quello che diceva.»
«Ha parlato di andare a nord?»
Elvi sbatté le palpebre, si accigliò e scosse il capo.
Murtry tirò fuori il proprio terminale palmare, toccò lo schermo tre volte e
lo porse a Elvi. Su una rozza mappa dell’unico continente di Ilus spiccavano
due punti. Elvi sapeva che uno di essi era la posizione di First Landing, o
almeno dove esso si era trovato, e suppose che indicasse la loro posizione. Il
secondo punto era a quasi quattro centimetri di distanza.
«Mi sono preso la libertà di tracciare il segnale del terminale palmare del
capitano» spiegò Murtry. «Il segnale è debole e intermittente, ma pare che lui
si stia dirigendo a nord a una velocità media di duecento chilometri all’ora.
La trovo una cosa molto interessante.»
Elvi gli restituì il terminale. «Non ne ha fatto parola. Ha detto soltanto che
c’era qualcosa che doveva fare. Dopo ha parlato con Amos, quindi ho
pensato che si fosse riferito a questo. In tutta onestà, mi sorprende che sia
anche solo in condizione di guidare un carrello.»
«Non sta guidando un carrello» ribatté Murtry. «Ne abbiamo soltanto due,
che sono entrambi qui fuori, e uno dei due non ha neppure una cellula di
alimentazione.»
«Non capisco» disse Elvi. «Allora come fa a...»
«A viaggiare a duecento chilometri all’ora?» replicò Murtry. «Questa è una
delle moltissime domande a cui mi piacerebbe avere risposta. Grazie per il
suo tempo, dottoressa.»
Con un cenno del capo, Murtry si diresse verso l’arcata che portava
all’esterno. Elvi lo guardò allontanarsi con espressione accigliata. Holden
aveva detto altro? Non le veniva in mente niente, ma forse aveva detto
qualcosa ad Amos.
Trovò il grosso uomo in piedi in mezzo al fango davanti alla tenda dove
erano parcheggiati i carrelli, con le braccia incrociate sul petto nudo e
infangato. Aveva una brutta cicatrice sul ventre e il tatuaggio di una donna
sul cuore. Elvi avrebbe voluto fargli qualche domanda al riguardo, ma si
trattenne. L’unico carrello funzionante si stava allontanando, con Murtry e
Wei ai comandi. Le grosse ruote di gel di silice producevano rumori
risucchianti nel fango, ma il carrello prese in fretta velocità, sobbalzando
sotto la pioggia nell’avanzare in mezzo alla devastazione circostante.
«C’è stata una consegna di provviste?» chiese Elvi.
«No» rispose Amos.
«Ce ne sarà una?»
«Se ci sarà, è meglio che la roba atterri a una distanza percorribile a piedi.
A meno che non riesca a caricare un’altra cellula di alimentazione, quello
laggiù è il nostro unico carrello funzionante.»
«Oh» mormorò Elvi. Poi chiese: «Holden le ha detto qualcosa prima di... di
andarsene?»
«Sì» rispose Amos, continuando a fissare il carrello con aria accigliata.
«Era diretto a nord?»
«Non in particolare, ma so che stava andando da qualche parte
nell’eventualità di poter indurre Miller a restituirci l’uso dei reattori a
fusione.»
«Miller?» ripeté Elvi, scuotendo il capo.
«Sì. Quella è una lunga storia. Più o meno tutto quello che il capitano mi ha
detto è di accertarmi che quello là...» accennò con la testa al carrello sempre
più lontano «non alzasse troppo la cresta e ricominciasse ad ammazzare
gente.»
«Sta inseguendo Holden.»
«Mmm. Non so se questo renda il mio lavoro più semplice o più difficile.»
Il grosso uomo scrollò le spalle ed entrò nella tenda dove effettuava le
riparazioni. I resti di una mezza dozzina di cellule di alimentazione erano
sparsi sul sottile telo di plastica. Amos si accoccolò in mezzo a essi,
cominciando a disporre le cellule in base alle dimensioni e allo stato di
danneggiamento.
«Questo sarebbe molto più facile se solo la Roci mi potesse mandare giù
una cellula nuova» commentò.
«Vuole andare anche lei dietro a Holden?»
«Ecco, per come la vedo io, il mio compito è di accertarmi che Murtry non
faccia del male a nessuno. Lui non è qui, quindi tutta questa gente è al sicuro.
Tanto vale che vada dove è lui, e mi accerti che non faccia del male a
nessuno neppure là.»
Elvi annuì e guardò verso nord. Il carrello era un piccolo punto
sull’orizzonte che generava un pennacchio di fango. Non riusciva a valutare a
che velocità stessero viaggiando, ma era certa che presto sarebbero scomparsi
oltre la linea dell’orizzonte.
«Se riesce a far funzionare quel carrello, posso venire anch’io?»
«No.»
«Sul serio, mi lasci venire con lei» insistette Elvi, inginocchiandoglisi
accanto. «Avrà bisogno di aiuto, là fuori, se qualcosa dovesse andare storto.
E se perdesse di nuovo la vista? O se qualcosa dovesse pungerla? Io conosco
l’ecologia locale meglio di chiunque altro. La posso aiutare.»
Amos raccolse una cellula di alimentazione, premette sul rivestimento
finché il metallo si incurvò leggermente, poi si fece scivolare in mano la
cellula al suo interno. Con essa uscì un rivoletto di fango fra il giallo e il
verde.
«Holden parlava di alieni, nel senso di alieni vivi, pensanti, che
comunicavano e potevano controllare la mente» continuò Elvi. «Se questo è
vero, potrei parlare con loro. Documentarli.»
Amos ripulì il fango dalla cellula con il palmo della mano e la fissò con
occhi socchiusi, sospirando. La posò e ne prese un’altra.
«Moriremo, qui» persistette Elvi, in tono sommesso, gentile, supplichevole.
«Il cibo si esaurirà. Andando là fuori, lei attraverserà un’intera biosfera che
nessuno ha mai visto prima. Ci saranno cose che lei e io non abbiamo mai
neppure immaginato. Voglio vedere quelle cose, prima di morire.»
La cellula successiva si aprì. Non c’era fango, ma un odore acre di plastica
fusa pervase l’aria, aggredendole gli occhi e il naso. Amos richiuse
l’involucro.
«Deve ottenere elettricità per poter guidare quel carrello» osservò Elvi. «Se
le dico come fare, mi porterà con sé?»
Amos girò la testa, fissando lo sguardo su di lei come se la stesse vedendo
per la prima volta. Un lento sorriso gli affiorò sul volto.
«C’è qualcosa che mi vuole dire, dottoressa?»
Elvi scrollò le spalle. «La griglia di difesa di luna aliena ha abbattuto la
navetta con il motore a fusione e tutti quei lanci con il paracadute che
contenevano batterie e cellule di alimentazione, ma ha lasciato passare cibo e
medicinali. Inoltre non si preoccupa di sparare alle nuvole, anche se in esse ci
sono una quantità di organismi viventi che creano complessi composti
organici. Non le importa dell’energia chimica in quei composti. Potrebbe
chiedere alla Rocinante di farle avere una fonte di combustibile chimico.
Acetilene, magari. Avete fusti di acetilene lassù, vero?»
«Al diavolo, ho qui l’acetilene, ma queste cose non sono alimentate dal
fuoco» obiettò Amos.
«Non è necessario che lo siano» ribatté Elvi. «L’apparecchiatura per le
analisi chimiche ha una camera di combustione che esegue analisi
convertendo reazioni esotermiche in corrente per poi misurare l’emissione.
La camera non è grande, ma se la tira fuori e costruisce una camera di
combustione di dimensioni decenti, magari con una superficie di dieci
centimetri, potrebbe catturare abbastanza energia chimica dalla combustione
da riversare quella stessa corrente in una di quelle cose. Potremmo dover
mettere insieme un trasformatore per ottenere il giusto voltaggio, ma quella
non è una cosa difficile.»
Amos si grattò il collo e si dondolò all’indietro sui talloni, gli occhi
socchiusi.
«Ha tirato fuori quest’idea così, su due piedi?»
Elvi scrollò le spalle. «Significa che posso venire con lei?»
Amos girò la testa e sputò per terra. «Certo» disse.
«Voglio solo sapere perché» chiese Fayez.
«Perché cosa?» ribatté Elvi, attraversando la camera principale delle rovine.
Aveva in mano due sacche di acqua abbastanza fresca, o quantomeno
potabile, e una scatola grande quanto la sua mano piena di barrette proteiche.
Quelle razioni avrebbero dovuto essere sufficienti per un giorno per una sola
persona, e sarebbe stato tutto quello che avrebbero avuto da mangiare finché
non fossero tornati al campo fra le rovine. Aveva anche trovato una borsa a
tracolla tenuta chiusa da una larga cintura di finta pelle.
«Perché hai ricominciato a correre dietro a Holden» specificò Fayez,
aggirando una donna di passaggio.
«Non sto correndo dietro a Holden» rispose Elvi, poi si fermò e si volse,
poggiando il palmo contro il petto di Fayez. Poteva sentire il suo cuore
batterle contro le dita. «Sai che non gli sto correndo dietro, vero? Perché
quello è... voglio dire, no.»
«Allora perché?» insistette lui.
Gli organismi che stavano ancora morendo negli occhi di Elvi avevano
perso il colore verde ma avevano lasciato il mondo leggermente sfocato. Le
pareva di vedere Fayez attraverso un filtro che ammorbidiva i suoi
lineamenti, lisciava la sua pelle. Sembrava una star dei media che stesse
recitando un ruolo poco lusinghiero che richiedeva un sacco di fango e poche
docce.
«Perché voglio vedere» rispose. «È per questo che sono venuta qui, per
questo ho passato tutto il mio tempo a raccogliere campioni ed eseguire
analisi. Amo quello che faccio, e quello che faccio è guardare le cose. Holden
ha detto che andava a parlare agli alieni, e che potrebbe essere in grado di
disattivare la griglia difensiva, il che significa che attraverseremo terre
selvagge...»
«Quello che ne resta» precisò Fayez.
«E perché morirò» aggiunse Elvi.
Fayez distolse lo sguardo.
«Moriremo tutti» continuò Elvi. «E con ogni probabilità moriremo tutti
molto, molto presto. Posso scegliere fra l’andare là fuori e vedere tutto questo
incredibile, strano, splendido mondo in rovina, e il rimanere al campo e
guardare tutti gli altri morirmi intorno poco alla volta. E io sono una
vigliacca, un’edonista e a volte sono molto, molto egoista.»
«Sai, fra noi due ho sempre pensato che quella descrizione si adattasse di
più a me.»
«Lo so.»
Fuori, il carrello che Amos aveva messo insieme alla meglio ruggiva, e il
bruciare costante della camera di combustione era come un sintetizzatore
bloccato su un Sol sotto un Do centrale che suonasse in modo
particolarmente irregolare e sgradevole. Amos era nella cabina di pilotaggio,
seduto ai comandi. Fayez la accompagnò fino al veicolo e l’aiutò a salire
nella cabina. Quando si trasse indietro, aveva le mani affondate nelle tasche,
e ormai Elvi ci vedeva abbastanza bene da notare che c’erano lacrime nei
suoi occhi.
«Quelle sono le provviste, dottoressa?» chiese Amos.
«Tutto quello di cui possiamo disporre.»
«D’accordo. Ho agganciato il segnale del terminale palmare del capitano.
Abbiamo gas per circa una settimana e il tizio che sto inseguendo ha un
giorno di vantaggio.»
«Vorrei che avessimo occhiali da sole» commentò lei. «O una pizza.»
«Questo è un fottuto mondo distrutto, dottoressa.»
«Andiamo.»
Il carrello ebbe un sobbalzo, con le ruote che per un momento giravano a
vuoto nel fango, poi fecero presa e ci fu un altro sobbalzo in avanti. La
pioggia creava piccoli punti sul parabrezza, che venivano rimossi da un largo
tergicristallo. Il mondo davanti a lei era una vasta pianura di fango. Controllò
il terminale palmare di Amos: la strada per arrivare a James Holden li
avrebbe portati attraverso un territorio che era stato una sorta di foresta, oltre
la riva di un enorme lago di acqua dolce, attraverso un labirinto di gole che
sfidava qualsiasi spiegazione geologica standard. Avrebbe visto un mondo
che aveva appena sofferto un disastro totale, ma lo avrebbe comunque visto.
E la condizione intrinseca della natura era sempre quella di riprendersi dai
disastri.
«Fermo» disse. «Per favore, si può fermare? Solo per un minuto.»
«Se ha bisogno di fare un salto in bagno avrebbe dovuto pensarci prima di
partire» borbottò Amos, ma arrestò il motore. Elvi non riuscì neanche a
sentire il rumore del motore cessare a causa del ruggito del generatore
alimentato ad acetilene. Aprì la porta della cabina e si protese all’esterno.
Avevano percorso soltanto un centinaio di metri e poteva ancora vedere
Fayez, anche se adesso era più che altro una chiazza scura e indistinta. Agitò
la mano e quando lui fece altrettanto gli segnalò di venire verso di lei. Lo
guardò trottare attraverso la distesa di fango, con lo sguardo sul terreno per
avvistare eventuali lumache.
Quando raggiunse la cabina sollevò lo sguardo su di lei, ed Elvi ebbe la
certezza che ci fossero lacrime nei suoi occhi.
«È probabile che non torni indietro» gli disse.
«Lo so.»
«Dobbiamo darci una mossa, dottoressa» avvertì Amos. «Non voglio fare il
rompiscatole, ma dobbiamo andare.»
«Lo capisco» rispose Elvi. Abbassò di nuovo lo sguardo, incontrando
quello degli occhi scuri di Fayez. «Ti va di salire anche tu?»
«Lui cosa?» domandò Amos, e nello stesso momento Fayez rispose: «Certo
che mi va.»
Elvi si spostò sul sedile per fargli posto. Fayez si arrampicò accanto a lei e
chiuse con forza lo sportello. Amos li fissò entrambi con le sopracciglia
inarcate ed Elvi gli sorrise, passandosi il braccio di Fayez intorno alle spalle.
«Non ricordo che questo facesse parte dell’accordo, dottoressa» osservò
Amos.
«In un certo senso è la nostra luna di miele» spiegò Elvi. Sentì Fayez
irrigidirsi per un momento, poi quasi fondersi contro di lei.
Amos rifletté per un momento, poi scrollò le spalle. «Se va bene a voi...»
47
Basia

«Come vanno le cose là fuori?» chiese la voce di Naomi, nel casco di Basia.
Aveva una bella voce, da cantante, che suonava bene anche attraverso i
minuscoli altoparlanti della tuta. Basia si rese conto che la sua mente stava
divagando e scosse la testa con forza. Un’occhiata all’HUD gli disse che i
livelli di O2 erano bassi, e tirò fuori una bombola sostitutiva.
«Ho trovato altri cinque buchi» disse, mentre lavorava all’aggancio di
immissione. «Avevi ragione, due erano dietro una consolle. Difficile vederli
da quel lato. Credo però che questi siano tutti quelli che c’erano sul ponte
operativo.»
«Adesso tocca all’officina» replicò Naomi. «Là abbiamo una perdita lenta.
C’è poco spazio, perché abbiamo un sacco di equipaggiamento che occupa
molto spazio fra le paratie.»
«Riuscirò a passare» rispose Basia, poi tirò fuori un piccolo disco di
metallo e procedette a saldarlo su uno dei cinque buchi.
«Lei sta superando l’orizzonte... adesso» avvertì Alex. Con indosso la tuta,
Naomi era seduta sul ponte operativo per coordinare il lavoro, per cui il solo
modo di parlarle era attraverso la radio della tuta. Basia avrebbe voluto
chiedere chi fosse quella lei, ma procedette invece a saldare un secondo
rattoppo. Una minuscola sfera rossa di metallo fuso si staccò dalla torcia e gli
si attaccò alla visiera, raffreddandosi fino a diventare un punto nero sul suo
occhio sinistro. Non c’era molto pericolo che danneggiasse la tuta, ma era
stato comunque un errore da principiante, un segno che era stanco. La leggera
rotazione della Rocinante all’estremità dei cavi induceva gli oggetti che
fluttuavano a spostarsi verso le pareti. Doveva ricordarselo.
«Non ci ha lasciato nessun regalo?» chiese Naomi, continuando a parlare di
quella misteriosa lei.
«No» replicò Alex. «Quando ci passa accanto continuo a centrarla con i
laser di puntamento. A titolo di avvertimento.»
«I CDP sono disattivati e adesso i siluri al plasma non funzionano» osservò
Naomi.
«Sì, ma loro non lo sanno. L’ultima cosa che hanno visto è stato che ho
trasformato la loro navetta in sushi con una scarica dei CDP.»
«Vorrei che non lo avessimo fatto.»
«Ecco, preferisci un buco grosso o un sacco di buchi piccoli?»
«Una valida obiezione» convenne Naomi. «Hai quasi finito laggiù?»
Basia impiegò un secondo a rendersi conto che Naomi stava parlando di
nuovo con lui. «Sì. Sto finendo l’ultimo adesso.»
«Allora ti dico come arrivare alla paratia esterna dell’officina.»
Naomi non aveva scherzato riguardo alla mancanza di spazio. C’era una
specie di grosso congegno che occupava quasi tutto lo spazio fra lo scafo
interno e quello esterno. Un lungo tubo di metallo sporgeva da un lato e
pareva correre per tutta la lunghezza dello scafo come un tubo fognario. Sul
lato opposto del congegno c’era un meccanismo di alimentazione dall’aria
complessa. Su entrambi i lati del meccanismo, e per tutta la lunghezza del
tubo, erano disposte file gemelle di quelle che sembravano potenti batterie
industriali.
«Sessantadue percento, primo ufficiale» avvertì Alex. «Scendiamo in fretta,
e il timer è sceso a dodici ore per la Barb. Se avessi propulsori funzionanti
adesso mi piacerebbe dare una piccola accelerata.»
«Ho disattivato tutto quello che mi è venuto in mente e che fosse
disattivabile» replicò Naomi. «L’energia che abbiamo è quella che è. Sto
cercando di elaborare un piano per sostituire i propulsori rotti con altri
funzionanti e ritrovarci con una parvenza di manovrabilità, ma non è un
problema da poco. Siamo alquanto malconci.»
Basia fece scorrere la luce della tuta nello spazio circostante fino a trovare
una minima traccia di vapore congelato, che lo condusse a un minuscolo foro
nella paratia dell’officina. Pochi secondi più tardi lo stava chiudendo con un
altro disco di metallo. La luce attinica della torcia metteva in rilievo lo spazio
circostante, con le ombre proiettate dai condotti e dagli alloggiamenti dei
propulsori che danzavano follemente in essa.
«Alex?» chiamò Basia, mentre lavorava.
«Sì?»
«Cos’è questa cosa che ho accanto? Sembra qualcosa ad alta energia. Devo
evitare che ci finisca sopra qualsiasi residuo incandescente?»
«Uh, sì» disse Alex, poi scoppiò in una risata priva di umorismo. «Per
favore, vedi di evitarlo.»
«È un cannone a rotaia» spiegò Naomi. «Lo abbiamo aggiunto alla nave.
Potresti danneggiarlo, ma non esploderà. Spara proiettili di solido metallo,
non esplosivi.»
«D’accordo» replicò Basia. «Qui ho quasi finito.»
«È costato circa trecentomila nuovi yen di Ceres» aggiunse Alex. «Quindi
non lo rompere se non vuoi doverlo ripagare.»
Nel tempo che Basia impiegò a riattraversare il portellone pressurizzato,
liberarsi dell’imbracatura da saldatore e della tuta e riporre il tutto, Naomi
provvide a rimpiazzare l’atmosfera perduta del ponte operativo e tutti si
riunirono lì. Naomi fluttuava accanto alla consolle di comando, con ancora
indosso la leggera tuta atmosferica anche se si era tolta il casco. Havelock e
Alex erano dall’altra parte del ponte, aggrappati al sedile a smorzamento
della postazione di combattimento. Tutti e tre erano immersi in quella sorta di
intenso silenzio che segue una discussione accalorata.
«C’è qualche problema?» chiese Basia, dopo che il portello del ponte si fu
richiuso alle sue spalle.
Alex e Havelock distolsero entrambi lo sguardo da lui con un’espressione
come d’imbarazzo. Naomi invece continuò a guardarlo. «Perderemo la
Barbapiccola» disse.
«Cosa?»
«Ho un piano per spostare cinque propulsori di manovra dal lato di tribordo
della nave a babordo. Questo ci darà circa il sessanta percento di
manovrabilità e basterà a tenerci nel cielo finché non esauriremo l’energia.
Però non possiamo farlo abbastanza in fretta da fermare la discesa della Barb,
che entrerà in contatto con l’atmosfera prima che noi si sia anche solo a metà
del lavoro. Dobbiamo tagliare i cavi.»
«No» protestò Basia.
«Ci abbiamo provato,» proseguì Naomi, come se lui non avesse parlato
«ma il danno causato dalla navetta è troppo grave. Intendo chiamare il
capitano della Barb e chiedere che tua figlia sia trasferita su questa nave. Il
prezzo sarà quello di prendere a bordo qualche altro passeggero insieme a
lei... pochi, però.»
Basia provò un sopraffacente senso di sollievo, seguito da un’altrettanta
intensa vergogna. «Ci sono un centinaio di persone sulla Barbapiccola. Li
lasceremo morire tutti?»
«Non tutti, ma anche se volessimo portarli tutti qui non ci sarebbe dove
metterli. Un equipaggio completo per la Roci sarebbe di ventidue persone.
L’alternativa sarebbe di morire con loro» rispose Naomi. La voce le tremava,
ma il suo sguardo era saldo. Sapeva esattamente quanto fossero orribili le sue
parole, ma non si nascondeva. Di colpo, Basia scoprì di avere parecchia paura
del primo ufficiale della Rocinante. «Peraltro, tutto questo non ci farà
guadagnare molto tempo. Con l’energia che si riduce e manovrando con poco
più di mezza spinta di propulsione ci stiamo avvicinando al punto in cui non
riusciremo a ottenere un’orbita stabile in cui poter morire lentamente quando
i sistemi di supporto vitale si disattiveranno. Inoltre, naturalmente, avremo
trasferito quanta più gente possibile dalla Barb su questa nave, il che significa
che consumeremo energia molto più in fretta. Questa è una partita persa,
persa, persa, Basia. Non ci sono più buone alternative.»
Basia annuì, accettando le sue affermazioni senza protestare. Era lei
l’esperta. Tuttavia, aveva la sensazione che al quadro mancasse qualcosa, era
come un prurito in un angolo della sua mente. Per distrarsi fece scorrere le
dita nella condensa che si andava accumulando sul pannello a parete più
vicino. Quella era una cosa che non sarebbe dovuta succedere. Il sistema di
controllo dell’atmosfera non avrebbe dovuto permettere all’umidità di
accumularsi in quel modo, ma adesso che ci pensava si rese conto che l’aria
sembrava densa e troppo calda. Naomi stava facendo funzionare i sistemi
ambientali al minimo. Non aveva mentito. Erano arrivati al limite massimo
della loro capacità di tenersi in orbita.
«Ma quando arriveranno? E come faranno a venire qui?» chiese Havelock,
parlando dei profughi dalla Barbapiccola.
«Fra tre ore. Voglio che andiate di sotto ad accoglierli. Non so quanto siano
buone le loro tute, ma non mi aspetto molto, ed è possibile che si debba
portare loro qualcuna delle nostre tute EVA.»
«Ricevuto» rispose Havelock, annuendo. Era un cenno di assenso terrestre,
l’inclinarsi avanti e indietro della testa che risultava del tutto invisibile con
indosso una tuta spaziale. Senza pensarci, Basia agitò il pugno avanti e
indietro per mostrargli il modo giusto di annuire, ma Havelock lo ignorò.
Tuttavia, pensare per qualche momento a qualcosa d’altro ebbe l’effetto di
sbloccare i pensieri di Basia, e l’idea che stava cercando di afferrare gli
affiorò completamente formata nella mente.
«Perché non usiamo le batterie del cannone a rotaia?»
«Il cosa?» domandò Havelock.
«Uh... come idea non è poi terribile» osservò Naomi. «Sono a piena carica,
vero?»
«Quando il reattore è in funzione attingono energia per mantenersi cariche,
non abbiamo usato il cannone e quelle batterie si scaricano molto lentamente
quando non vengono utilizzate» replicò Alex. «Sono però montate su un
sistema separato, per cui è impossibile attingere energia da lì senza un po’ di
lavoro.»
«Io posso lavorare» si offrì Basia. «Lo farò io, basta che mi dici cosa fare.
Vado subito a ricaricare la tuta e l’attrezzatura per saldare.»
«Aspetta» ordinò Naomi. Il suo volto si era fatto stranamente vacuo, tranne
per gli occhi che si spostavano rapidamente di qua e di là, quasi stesse
leggendo qualcosa nell’aria. «Aspetta un momento...»
Havelock accennò a dire qualcosa, ma Alex gli afferrò un braccio e scosse
il capo in silenzio.
«Preleveremo l’energia dalla griglia del cannone, la trasferiremo sulla
griglia principale e la useremo per scaldare la massa propellente dei
propulsori» disse infine Naomi.
«Sì» convenne Alex.
«Ci saranno delle perdite in ogni fase del processo. È una cosa davvero
poco efficiente.»
«Sì» ripeté Alex.
«Una volta che avremo la massa propellente pronta nel sistema senza aver
trasferito l’energia...» continuò lei. «Alex, quanta accelerazione può dare alla
nave un proiettile da due chili che viaggi a cinquemila metri al secondo?»
«Quanto basta perché di norma si debba sparare quei proiettili solo con la
propulsione principale attiva» replicò Alex, con un sorriso astuto.
«A me sembra che abbiamo un propulsore» concluse Naomi.
«Uh» intervenne Havelock. «Sapete che la nave sta ruotando un poco dopo
l’impatto della navetta. Questo non renderà difficile... ecco, sapete... prendere
la mira?»
«Non è un problema da poco» convenne Naomi. «Dobbiamo accertarci di
fare fuoco esattamente nel millisecondo in cui le due navi e i cavi sono
allineati. Nessun umano potrebbe fare il calcolo esatto, ma la Roci può farlo
se le dico cosa ci serve.»
«La Barb non si trova sulla linea di volo?» chiese Havelock.
«Giusto» rispose Naomi, con voce sommessa e priva di inflessioni. «Quindi
la sequenza dovrà essere di inclinare la prua della Roci verso il basso mentre
ruotiamo oltre il punto di tiro, fare fuoco, poi riportare in alto la prua per
impedire alla Roci di vorticare fuori controllo sul nuovo asse. Per fortuna,
quei propulsori funzionano.»
«Tutto questo suona piuttosto difficile» osservò Basia.
«Ecco,» replicò Naomi, con un sorriso e una strizzata d’occhio «è soltanto
il programma di navigazione più complicato che abbia mai scritto, ma ho un
paio d’ore per metterlo insieme.»
«Non so voi, ragazzi, ma mi eccita fare parte di questo piano» dichiarò
Alex. «Diamoci da fare.»
Basia stava guardando l’orologio scandire le ore e i minuti che separavano
sua figlia dalla morte.
Seduta alla sua consolle, Naomi digitava rapidamente. Il linguaggio a base
di simboli che usava per programmare il sistema di navigazione della
Rocinante era privo di significato per Basia, guardarla lavorare era come
ascoltare qualcuno che parlasse una lingua straniera: si era consapevoli della
presenza di informazioni senza conoscerne l’effettivo significato. Lui però la
guardava lo stesso, sapendo che stava creando un programma che avrebbe
potuto ridare preziosi minuti all’orologio. Forse anche ore. Ma non giorni.
Alex era di nuovo nella cabina di pilotaggio, fuori dal suo campo visivo, ma
chiamava periodicamente Naomi attraverso il sistema di comunicazione di
bordo per informarsi del suo lavoro, che a quanto pareva stava seguendo dalla
sua postazione, dato che chiedeva chiarimenti o avanzava suggerimenti. Le
sue parole erano però prive di contenuto per Basia quanto lo erano i simboli
sullo schermo di Naomi.
Havelock era sceso di sotto per trasferire le bolle per l’evacuazione di
emergenza dalla stiva di carico alla camera di pressurizzazione del portellone
principale. Il cannone a rotaia avrebbe potuto non funzionare, nel qual caso il
passo successivo sarebbe stato di evacuare dalla Barbapiccola quante più
persone la Rocinante poteva ospitarne.
Quelle però erano soltanto tattiche per guadagnare tempo. Cercare di
salvare la Barb ancora per qualche tempo con l’inutile eroismo di ricorrere al
cannone a rotaia. E se non avesse funzionato, salvare alcune persone
trasferendole sulla Roci prima che anch’essa precipitasse dal cielo o si
trasformasse in un contenitore letale, con altre venti persone che respiravano
la sua aria e ne sovraccaricavano il sistema di supporto vitale.
Tutti loro però stavano procedendo con il piano senza fare domande.
Lottavano, lavoravano ed elaboravano piani intricati per guadagnare un altro
po’ di tempo. Basia non dubitava che avrebbero lavorato altrettanto
duramente per tenersi vivi a vicenda per un’altra manciata di minuti. Quello
non era qualcosa a cui avesse mai pensato, prima, ma pareva che ogni vita
fosse un microcosmo. Nessuno viveva in eterno, ma si combatteva per ogni
minuto che si riusciva a ottenere, si comprava ancora un po’ di tempo con un
sacco di duro lavoro. Lo rendeva orgoglioso, ma al tempo stesso lo
rattristava. Forse era in quel modo che si sentiva un guerriero nel trovarsi su
un campo di battaglia da cui sapeva che non sarebbe mai uscito vivo, nel fare
la scelta di combattere il più a lungo e il più duramente che poteva. Non
riusciva a capire perché quello del ‘Sono morto, ma non ti ho reso le cose
facili’ fosse un concetto tanto romantico e affascinante, ma lo era.
Nel guardare la turbolenta sfera marrone di Ilus che ruotava attraverso lo
schermo, pensò: Ci ucciderai, ma non ti renderemo la cosa facile. Trasse un
profondo respiro ed esercitò tutto il suo autocontrollo per non battersi i pugni
sul petto.
«Tutto bene, lì?» chiese Naomi, senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro.
«Benissimo. Lì come va?»
«Ci sono quasi» rispose lei. «Il problema è che avremo un sacco di spinta
proveniente da un singolo vettore e non lungo il nostro baricentro, dove sono
attaccati i cavi, e per di più abbiamo propulsori di manovra solo su tre lati
della nave. Di conseguenza, dobbiamo minimizzare la rotazione verso
babordo, ma non possiamo usare i propulsori di prua di tribordo per
contrastare quella rotazione perché i cavi alterano la posizione del nostro
baricentro. In realtà è un problema divertente da risolvere.»
«Non ho idea di cosa significhi tutto questo» ammise Basia. «Sta
funzionando?»
«Credo che funzionerà, e Alex è d’accordo. Faremo fuoco fra un paio di
minuti, alla prossima rotazione, e allora lo sapremo per certo.»
«Grandioso» commentò Basia.
Il portello del ponte si aprì rumorosamente e si richiuse quando Havelock si
spinse sul ponte operativo. Aveva sostituito la tuta e l’armatura della RCE con
una larga tuta grigia che portava sul petto la scritta ROCINANTE. Dal momento
che aveva una corporatura più grossa di quella di Holden e la tuta gli pendeva
di dosso, quello voleva dire che doveva appartenere ad Amos. Basia pensò
che forse non avrebbe dovuto indossare i vestiti di Amos senza prima
chiedergli il permesso.
«La roba di emergenza è nella camera di pressurizzazione» riferì Havelock,
rivolto alla schiena di Naomi, che non aveva sollevato lo sguardo dal suo
lavoro quando lui era entrato. «Ci ho messo anche un paio di pacchetti EVA,
qualche bombola d’aria di riserva e l’attrezzatura per saldare di Basia. Non
mi viene in mente niente altro che ci possa servire.»
«Grazie, Dimitri» rispose Naomi.
«Dimitri?» commentò Basia, inarcando un sopracciglio.
«La cosa ti crea problemi?» ritorse Havelock. «Basia non è un nome da
ragazza?»
«Era il nome di mia nonna, che era un fisico famoso in tutto il sistema
solare, per cui è un grande onore che mi abbiano chiamato come lei. Sono
stato il suo primo nipote.»
«Voi due chiudete il becco o lasciate il ponte» ordinò Naomi. Poi attivò il
comunicatore a parete e aggiunse: «Alex, sei pronto lassù?»
«Credo di sì» rispose il pilota, con quel suo accento strascicato. «Solo un
secondo, lasciami regolare una cosa qui...»
«Possiamo attivare lo schermo principale?» chiese Basia. «Mi piacerebbe
vedere cosa succede.»
Naomi non rispose, ma lo schermo principale di quel ponte smise di
mostrare una mappa tattica per fornire un’immagine telescopica di prua. Essa
ruotò lentamente oltre la sfera grigia e marrone di Ilus e la distante massa
grigia della Barbapiccola per fissarsi sul nero stellato dello spazio.
«Abbiamo perso la finestra di opportunità» disse Naomi. «Sei quasi
pronto?»
«Sì» replicò Alex, strascicando quel monosillabo fino a trasformarlo in tre
sillabe. «Adesso. Sono pronto.»
«In azione» disse Naomi, e premette un pulsante sul suo schermo, ma non
successe nulla. L’immagine sul grande schermo continuò a ruotare
lentamente finché Ilus rientrò nel campo visivo, seguito dalla Barbapiccola.
Poi, senza preavviso, la Rocinante si inclinò violentemente in avanti e
qualcosa di molto rumoroso accadde nel ventre della nave. Un vivido punto
di fuoco e una curva di fiamma apparvero nell’atmosfera del pianeta, e Basia
scoprì che in quel momento la paratia opposta gli stava venendo incontro a
una velocità ridotta ma comunque visibile. La nave sobbalzò nuovamente,
con i diversi propulsori di manovra che si attivavano con scariche scandite.
Quando rumore e movimento cessarono, l’immagine sullo schermo tornò
costante, fissa sulla Barbapiccola.
«Uh... vedo attività sulle lune» avvertì Alex.
«Ci sparano addosso?» chiese Havelock.
«No, sembra che stiano cercando di abbattere il proiettile» rispose Alex.
«Questo rende molto ottimisti.»
«Non stiamo più ruotando» osservò Basia.
«No» replicò Naomi. «Dammi tre qualsiasi direzioni di spinta e posso
trovare un modo per farci fermare. Adesso dobbiamo soltanto restare qui,
facendo fuoco e assestando la posizione, e dovremmo poter aggiungere un
po’ di velocità alla nostra orbita.»
Basia guardò verso il timer che continuava a scandire quanta vita rimanesse
alla Barbapiccola. Aveva aggiunto poco più di quattro minuti. «Con quanta
frequenza puoi fare fuoco?»
«All’incirca ogni cinque minuti, se non vogliamo surriscaldare il cannone a
rotaia e consumare le batterie. O meglio, ogni cinque minuti finché le batterie
non si saranno esaurite.
«Ma...»
«Abbiamo arrestato il decadimento dell’orbita, ma non abbiamo fatto molto
di più» disse Naomi.
«La Israel sta tornando» avvertì Alex. «Ha scaricato qualcosa.»
«Dannazione» borbottò Naomi. «Datemi un po’ di respiro, ragazzi,
d’accordo? Cosa stanno scaricando?»
«Uomini in tuta» rispose Alex.
«È la milizia» disse Havelock, che si era spinto fino a un display tattico e
stava ingrandendo a più riprese l’immagine. «Sono in dodici, in armatura per
il vuoto e pacchetto EVA, più un pari numero di oggetti metallici grandi più o
meno quanto un uomo. Non so bene cosa siano.»
«Qualche ipotesi su cosa stiano facendo?» domandò Naomi, richiamando la
stessa immagine sul suo schermo.
«Sono gli ingegneri. Sanno quanto siamo danneggiati e vulnerabili, quindi
la mia ipotesi è che vogliano cercare di ucciderci.»
48
Holden

La vita all’accademia navale era stata talmente stressante per Holden che
aveva celebrato la fine del primo trimestre andando a una festa e bevendo
fino a perdere i sensi per venti ore filate. Per lui era stata la prima lezione
sulla differenza fra il sonno e la perdita di conoscenza: sembravano la stessa
cosa, ma non lo erano. Dopo venti ore si era svegliato sentendosi tutt’altro
che riposato, e l’indomani mattina la sessione di addestramento fisico per
poco non lo aveva ucciso.
Viaggiando sulla rete di trasferimento di materiali di Miller era difficile
avere una qualsiasi sensazione del passare del tempo. La prima volta che si
era svegliato, il terminale palmare gli aveva detto che erano passate dieci ore.
Si era reso conto di aver trascorso quel tempo in stato di incoscienza,
piuttosto che dormendo, perché si era sentito esausto e in preda a malessere.
La gola gli doleva, gli occhi gli bruciavano come se fossero stati sfregati con
la carta vetrata e aveva tutti i muscoli doloranti. Era quasi come avere
l’influenza, solo che gli antivirali che assumeva ogni tre mesi rendevano la
cosa impossibile. Aveva attivato il sistema diagnostico dell’armatura, che gli
aveva somministrato una serie di medicinali, non sapeva cosa. Aveva bevuto
metà dell’acqua nella borraccia e chiuso gli occhi.
Al secondo risveglio erano passate altre nove ore, e questa volta si sentiva
quasi riposato, con l’indolenzimento della gola scomparso. A un certo punto
aveva varcato la soglia fra l’essere privo di conoscenza e il dormire, e il suo
corpo lo stava ricompensando per questo. Si stiracchiò sul pavimento di
metallo fino a far scrocchiare le articolazioni, poi bevve il resto dell’acqua.
«Ora di svegliarsi» disse Miller, mentre si materializzava lentamente nel
buio, circondato da un alone di luce azzurra, come se qualcuno avesse
azionato l’interruttore che regolava la sua luminosità.
«Sono sveglio» replicò Holden, poi agitò la borraccia vuota in direzione di
Miller. «Però mi hai caricato su questo vagone per il bestiame tanto in fretta
che non ho potuto prendere provviste. Finirò per avere molta sete se non
troverò qualcosa come una fontana aliena o roba del genere.»
«Vedremo. In realtà, al momento quello è il minore dei nostri problemi.»
«Dice il tizio che non beve.»
«Un pezzo del sistema è danneggiato, più avanti,» continuò Miller «ma
speravo che saremmo riusciti ad aggirarlo. La fortuna però non è dalla nostra.
Da qui in avanti si va a piedi.»
«Il tuo stravagante treno alieno è rotto?»
«Il mio stravagante sistema alieno di trasferimento del materiale è rimasto
inutilizzato per oltre un miliardo di anni, e mezzo pianeta è appena esploso.
La tua nave è stata costruita meno di dieci anni fa, e riesci a stento a
mantenere in funzione la caffettiera.»
«Sei un ometto triste e amareggiato» ribatté Holden, mentre si alzava in
piedi e premeva contro la porta del treno, che non si aprì.
«Aspetta» disse Miller, e scomparve.
Holden aumentò la luminosità del terminale palmare e trascorse alcuni
minuti a controllare il proprio equipaggiamento mentre aspettava. Miller lo
aveva afferrato proprio dopo l’ultimo giro di pattugliamento intorno alle
rovine, il che significava che aveva con sé armatura, pistola e parecchi
caricatori di munizioni, tutte cose che probabilmente sarebbero state inutili.
Aveva inoltre una borraccia vuota, niente cibo e il kit medico della tuta che
cominciava a essere a corto quasi di tutto, mentre quelle erano cose che
sarebbe stato più comodo avere ben rifornite. Supponeva che non appena il
suo corpo si fosse svegliato abbastanza da avvertire la fame sarebbe stato ben
lieto di barattare la pistola per un panino, ma non pensava che ci fossero
molti distributori automatici di cibo nelle strutture aliene.
Passarono dieci minuti, e la sua ansia si trasformò in impazienza. Si rimise
a sedere e cercò di chiamare la Rocinante con il terminale palmare, ma
ottenne un segnale di mancata connessione. Provò con Elvi, Lucia e Amos,
invano. Quale che fosse il materiale di cui era composta, quella metropolitana
aliena bloccava i segnali diretti all’HUB e alla Roci. Doveva trattarsi di quello,
perché l’alternativa era che la Roci non fosse operativa, e l’idea apriva le
porte a troppe ipotesi sgradevoli. Richiamò a schermo uno stupido gioco di
schemi da far combaciare e ci giocò per un po’, poi il terminale gli diede un
segnale indicante che la carica della batteria era bassa, e lo spense.
Dopo che fu trascorsa un’ora cominciò a innervosirsi. Non era
claustrofobico e aveva trascorso la maggior parte della sua vita in minuscole
cabine di astronave, ma quello non significava che gli andasse a genio l’idea
di morire da solo in una piccola scatola di metallo in profondità nelle viscere
del terreno. Assestò qualche calcio alla porta del container e provò a
chiamare Miller, ma non ebbe risposta.
Il che, a suo modo, era alquanto allarmante.
Il container in cui aveva dormito durante il lungo viaggio verso nord era
vuoto. I soli attrezzi che aveva con sé erano quelli che servivano a riparare
l’armatura e le armi, quindi non c’era niente che gli permettesse di tagliare
attraverso il metallo o di piegarlo. Assestò un altro calcio alla porta, questa
volta con tanta forza da farsi dolere gli stinchi. Essa non si spostò di un
millimetro.
«Uh» commentò ad alta voce. Se Miller lo aveva portato fin lì solo per
lasciarlo morire in una carrozza ferroviaria abbandonata, quello era lo
scherzo più elaborato di tutta la storia.
Era impegnato a fare un inventario mentale di tutto quello che aveva con sé,
nel tentativo di trovare una qualsiasi combinazione di cose in grado di creare
un esplosivo abbastanza potente da far saltare la porta – ignorando
volutamente il fatto che una simile esplosione avrebbe probabilmente
liquefatto qualsiasi cosa biologica all’interno del piccolo scompartimento –
quando dall’esterno giunse un sonoro gemito metallico che salì di tono fino a
farsi stridulo. Il compartimento tremò e oscillò, poi i suoi orecchi furono
assaliti da una lunga serie di colpi martellanti. Infine, ci fu un altro stridio
metallico che salì di volume fino a farsi assordante.
La porta del compartimento svanì, strappata dal suo alveolo con un singolo
colpo massiccio, e dall’altra parte apparve un incubo.
A una prima occhiata, sembrava un enorme assortimento di appendici e
strumenti per tagliare. Si ergeva su sei arti e ne agitava altri quattro come un
crostaceo fatto di acciaio e coltelli. Intorno a quelle braccia più pesanti si
agitavano nell’aria oltre una dozzina di altri tentacoli fatti di quella che
sembrava gomma nera. Mentre osservava quell’orrore, due tentacoli
afferrarono i bordi interni della porta e li piegarono, dando prova di una forza
spaventosa.
Holden tirò fuori la pistola, ma non la puntò contro quella cosa, perché
l’arma gli dava la sensazione di essere molto piccola e inadeguata.
«Mettila via» disse il mostro, con la voce di Miller. «Ti ci caverai un
occhio.»
Ogni volta che aveva sentito la voce di Miller, nel corso dell’ultimo anno,
Holden non si era mai soffermato a pensare al fatto che si era trattato di
un’allucinazione indotta dalla protomolecola. Adesso però provò un lieve
senso di vertigine in reazione al suono della voce del detective nell’aria, alle
vibrazioni che si spostavano nell’atmosfera e gli colpivano i timpani, alla
stranezza di tutto quello.
«Sei tu?» chiese, anche se era certo che avrebbe vinto il premio per la
nuova domanda universalmente più stupida mai formulata.
«Dipende da cosa intendi» replicò il Miller-robot, indietreggiando lontano
dall’apertura. I suoi movimenti erano sorprendentemente silenziosi per un
mostro metallico tanto enorme. «Sono in grado di insinuarmi nell’hardware
locale, e questa cosa era in ottime condizioni, considerato che ha mancato di
un milione di anni circa il suo tagliando trimestrale di controllo.»
Miller fece qualcosa, e improvvisamente Holden poté vedere di nuovo il
detective nel suo abito stropicciato in piedi dove prima c’era il mostro. Miller
scrollò le spalle alla cinturiana con un sorriso di scusa, ma anche se poteva
scorgerne la proiezione, Holden continuava anche a vedere la sagoma del
robot sovrapposta a essa. Il robot stava eseguendo lo stesso gesto, solo che
invece delle mani agitava due chele da granchio dai bordi seghettati. Sarebbe
stata una cosa comica, se non gli avesse procurato un dolore lancinante alla
testa.
«O uno o l’altro» ingiunse, serrando gli occhi. «Non posso vedere tutte e
due le cose. Mi distrugge il cervello.»
«Chiedo scusa. Non c’è problema» replicò Miller, e nel riaprire gli occhi
Holden vide soltanto il robot. «Vieni, abbiamo parecchia strada da fare.»
Holden saltò giù dal container per il trasferimento di materiale e su un
piatto pavimento di metallo. Svariate sezioni del carapace del Miller-bot
emanavano un lieve chiarore che, al contrario della luce azzurrina che aveva
sempre accompagnato lo spettro di Miller, riusciva in effetti a rischiarare lo
spazio circostante.
«Puoi renderlo più luminoso?» chiese Holden, indicando uno di quegli arti.
Per tutta risposta, ogni sezione luminosa del robot aumentò di intensità fino
a diffondere nel tunnel una luce intensa come quella del pieno giorno. Il
motivo per cui la carrozza di trasferimento del materiale si era arrestata
divenne evidente: una ventina di metri più avanti il tunnel di metallo era
esploso e si era riempito di rocce e di detriti.
«Già,» commentò Miller, leggendogli nella mente «non tutto reagisce bene
all’essere riavviato. Il nodo di energia per il sistema a levitazione magnetica
si è svegliato male ed è esploso, solo che non si tratta effettivamente di
levitazione magnetica, anche se ci si avvicina abbastanza da darti un’idea
generale.»
«Possiamo rimetterlo insieme?»
«Ecco, non possiamo riparare la rotaia, ma ti posso portare fuori, creando
dei passaggi» replicò il Miller-bot, agitando nell’aria una chela massiccia. «È
per questo che veniva usata questa cosa, per scavare queste gallerie e farne la
manutenzione. Salta su.»
«Mi prendi per i fondelli.»
«No, sul serio, sali. Questa cosa può muoversi più in fretta di quanto tu
possa fare a piedi.»
«Miller,» gli fece notare Holden «sei formato esclusivamente da lame e
punte.»
Uno dei tentacoli neri si contorse in modo da esaminare con cura il
carapace del robot. «Aspetta» disse poi Miller. Ci fu un ronzio unito ad alcuni
scatti metallici, e il torso del robot assunse una nuova configurazione che
creava un’ampia area piatta sul suo dorso. «Ecco fatto.»
Holden esitò per un momento, poi si arrampicò su una delle gambe del
robot e da lì sul dorso. Il Miller-bot avanzò pesantemente verso la sezione
danneggiata del tunnel e i quattro grossi arti anteriori si misero al lavoro,
strappando via il metallo contorto delle pareti e sgombrando la terra e le
pietre che avevano ostruito il passaggio. La macchina lavorava con rapidità,
precisione e una spaventosa forza disinvolta.
«Ehi, Miller» chiamò Holden, osservando il robot strappare una sezione di
due metri della pavimentazione del tunnel e tagliarla rapidamente in piccoli
pezzi. «Siamo ancora amici, vero?»
«Cosa? Ah, capisco. Quando sono uno spettro mi urli contro, mi dici di
togliermi dai piedi, che troverai il modo di uccidermi. Adesso che indosso il
guscio di un’invincibile macchina devastante vuoi che torniamo a essere
pappa e ciccia?»
«Sì, è più o meno così» replicò Holden.
«Tranquillo, è tutto a posto.»
Il robot diede enfasi a quelle parole con un ultimo colpo massiccio che
ridusse in briciole un masso da due tonnellate. Piegandosi sulle sei gambe,
Miller riuscì a insinuarsi in una stretta apertura in mezzo ai detriti. Holden gli
si appiattì sul dorso, e anche così un pezzo acuminato della volta passò a
meno di tre centimetri dalla sua faccia.
«Da qui la via è sgombra,» annunciò Miller «ma niente più sistema a
levitazione magnetica da ora in poi. Niente più treni.»
«Adesso abbiamo un’idea più precisa di quello che stiamo cercando?»
«Solo in termini generali. Più o meno nel periodo in cui sulla Terra gli
organismi unicellulari cominciavano forse a pensare di sperimentare la
fotosintesi, qualcosa ha disattivato tutto questo dannato pianeta. Lo ha
rimosso dalla griglia e ha ucciso qualsiasi cosa fosse abbastanza in alto nella
catena alimentare da poter avere un’opinione al riguardo. Se ho ragione, la
cosa che ha fatto questo non se ne è andata del tutto. Ogni volta che qualcosa
si protende fino a questo particolare posto, finisce per morire.»
«Mi dispiace sentirlo» commentò Holden.
«Non ti dispiacere, perché è quello che speriamo» ribatté Miller. «Adesso
tieniti forte perché cercheremo di recuperare un po’ del tempo perduto.»
Il robot si lanciò lungo la galleria, le sei gambe che si muovevano tanto in
fretta da apparire sfocate. Anche se procedeva a una velocità piuttosto
elevata, viaggiare sul suo dorso era molto confortevole.
Con sua sorpresa, Holden si addormentò di nuovo.
Fu svegliato da qualcosa di freddo e gommoso che gli toccava la guancia.
«Smettila» ingiunse, agitando un braccio per allontanare quella cosa.
«Svegliati» disse Miller, la cui voce scaturiva rombante attraverso il
carapace del robot.
«Merda» imprecò Holden, sollevandosi a sedere di scatto e asciugandosi un
po’ di saliva che gli era colata lungo la guancia. «Mi ero dimenticato di
essere qui.»
«Sì, direi che una settimana senza quasi dormire e assumendo troppe
anfetamine ti ha lasciato un po’ malconcio» commentò Miller. «Ti sei preso
l’equivalente di una lunga sbornia.»
«Senza il divertimento.»
«Ne ho presa qualcuna anch’io» replicò Miller, aggiungendo una strana
risata metallica. «Non sono mai divertenti. Adesso però stiamo per arrivare
alla stazione di lavorazione, quindi svegliati.»
«Cosa dobbiamo aspettarci?»
«Te lo dirò quando lo vedrò» ribatté Miller.
Holden tirò fuori la pistola, controllando il caricatore e di avere un colpo in
canna. Era pronta a far fuoco, anche se gli dava la sensazione di giocare a
fare l’adulto. Di certo qualche proiettile della sua pistola non avrebbe fermato
qualsiasi cosa che quella mostruosità del Miller-bot non fosse riuscita a
fronteggiare. Tuttavia, come per molte altre cose della vita, quando si
arrivava al momento in cui era previsto svolgere determinati rituali, era
quello che si faceva. Ripose la pistola nella fondina, ma tenne una mano su di
essa.
Impiegò un minuto a vederlo, ma più avanti nella galleria era apparso un
punto luminoso che si andò ingrandendo. Non era luce riflessa proveniente
dal robot, ma qualcosa di luminoso. Holden avvertì un’ondata di sollievo.
Aveva viaggiato nei piccoli tubi di metallo del sistema di trasferimento più a
lungo e più lontano di quanto potesse immaginare, e ormai era pronto a
tornare all’esterno.
Il tunnel si estese in un complesso labirinto di nuovi passaggi. Holden
dedusse che si doveva trattare di una stazione di smistamento, dove i
materiali in arrivo venivano inoltrati alle diverse destinazioni. Le pareti erano
tutte della stessa lega opaca di quelle del tunnel, e i macchinari visibili in
quello spazio ristretto erano incassati nelle pareti e a filo con esse.
Il Miller-bot si arrestò per un momento, i tentacoli che oscillavano di fronte
alla scelta di possibili direzioni. Holden immaginò Miller lì fermo che si
tamburellava contro il mento con un dito mentre decideva quale via
imboccare. Poi, di colpo, riuscì a vedere Miller sovrapposto al robot, e
l’emicrania tornò ad assalirlo con violenza.
«In un certo senso è stata colpa tua» spiegò Miller. «Questo è un sistema
interattivo.»
«Abbiamo idea di dove stiamo andando?»
Miller rispose avviandosi lungo una delle molte nuove gallerie. Qualche
secondo più tardi sbucarono in un nuovo spazio cavernoso, e Holden impiegò
un momento a rendersi conto che continuava a essere tutta una struttura
artificiale. La stanza in cui erano entrati appariva troppo grande per essere un
costrutto, era come trovarsi nel centro del mondo e guardare in su per
cercarne la crosta di superficie.
Tutt’intorno c’erano enormi macchine silenziose. Alcune si muovevano,
sussultavano, e tutte avevano il tipico design preferito dalla protomolecola, la
stessa mescolanza per metà organica e per metà meccanica che lui aveva
riscontrato in qualsiasi cosa le avesse visto costruire. Un vasto sistema di tubi
e pistoni si levava da una gru a cavalletto che si contorceva in spire come la
conchiglia di un nautilo. Là c’erano appendici lunghe una volta e mezza la
Rocinante che scendevano dal soffitto e terminavano con una mano articolata
a nove dita grande quanto il robot di Miller. La luce pareva riversarsi in
quello spazio da ogni direzione contemporaneamente, dando a tutto una
gentile sfumatura dorata, e il suolo emanava una vibrazione che Holden
poteva avvertire attraverso l’involucro del robot.
«Siamo in un sacco di guai, vero?» chiese, in tono affannoso.
«No» replicò Miller, facendo ruotare il robot per sondare l’aria con i
tentacoli, in ogni direzione. «Questo non è neppure il centro di lavorazione,
solo quello per l’iniziale smistamento e riciclo.»
«In questa stanza si potrebbe parcheggiare una nave da guerra.»
«Non serve per esibizionismo» ribatté Miller, poi il robot cominciò ad
avanzare verso la parete opposta. «Questo è lo scopo del pianeta.»
«Uh» commentò Holden, scoprendo di non riuscire a trovare altre parole.
«Uh.»
«Sì. Ora, per quanto riesco a capire, ci sono minerali originari di questo
sistema che sono piuttosto rari, in termini galattici.»
«Il litio.»
«Quello è uno» convenne Miller. «Questo pianeta era una stazione di
rifornimento. Si lavorava il minerale, lo si raffinava, lo si inoltrava agli
impianti di alimentazione e poi si spediva all’esterno l’energia raccolta.»
«Dove?»
«Dovunque. Ci sono un sacco di mondi come questo, e tutti alimentavano la
griglia. Non gli anelli, però. Non so ancora come quelli fossero alimentati.»
Il robot avanzò con velocità meccanica verso una parete lontana, e una
sezione della struttura scivolò di lato, creando un’apertura delle dimensioni di
una navetta per le riparazioni e rivelando altre macchine illuminate. Alcuni di
quei giganteschi congegni si muovevano con articolazioni più biologiche che
meccaniche, e pulsavano, si contraevano, vibravano. In giro non si vedeva
niente di tanto prosaico e comune come una ruota o un ingranaggio.
«Stiamo attraversando un reattore a fusione?» chiese Holden, avendo
presente la domanda di Naomi riguardo all’esposizione alle radiazioni.
«No, questo è solo l’impianto di lavorazione del minerale. I reattori sono
tutti in quella catena di isole dall’altra parte del pianeta. Questa gente
costruiva per avere flessibilità e ridondanza.»
«Sai,» osservò Holden «uno dei geologi mi ha detto che questo pianeta è
stato modificato in modo massiccio. Hanno fatto tutto questo solo per
trasformarlo in una stazione di alimentazione?»
«Perché no? Non gli serviva a nient’altro. Non è un pianeta particolarmente
buono, a parte i metalli rari. E sii lieto che lo abbiano fatto. Credi sia
possibile far durare un sistema su rotaia sotterraneo per due miliardi di anni
su un pianeta che abbia attività tettonica?»
Holden rimase in silenzio per un momento, cavalcando il Miller-bot
attraverso l’impianto di raffinazione del materiale che pulsava tutt’intorno a
lui. «È troppo» disse infine. «Quello è un livello di controllo dell’ambiente
eccessivo. Il mio cervello non riesce a visualizzarlo. Cosa ha potuto uccidere
questa gente?»
«Qualcosa di peggiore di loro.»
Il Miller-bot si abbassò per passare sotto quello che sembrava un nastro
trasportatore di qualche tipo fatto di rete metallica avvolta intorno a una
muscolatura pulsante. Esso ticchettava e gemeva mentre parte del
meccanismo cercava di muoversi e il resto rimaneva immobile. Quello destò
in Holden il ricordo vivido e improvviso di una capra che aveva visto da
bambino: si era fratturata una zampa, intrappolata nel filo spinato, e le altre
tre spingevano debolmente sul terreno per liberarla.
«Quindi ecco lo scopo ultimo di questo posto» disse il Miller-bot indicando
i macchinari con una chela. «È per questo che il pianeta esiste. E qui intorno,
da qualche parte, c’è un punto vuoto nella rete planetaria. Un posto che non
possiamo toccare.»
«E allora?»
«E allora, qualsiasi cosa sia, quel punto vuoto non appartiene a questo
posto. E se è un proiettile, chiunque abbia fatto questo sapeva come mirare al
cuore.»
49
Havelock

Havelock si stava spostando sulla superficie della Rocinante, con gli stivali
magnetici che emettevano suoni metallici nell’entrare in contatto con le
piastre esterne per poi sollevarsi di nuovo. Alla sua destra il sole – un sole, in
ogni caso – splendeva più luminoso di una torcia per saldare. Alla sua sinistra
la grande curva nuvolosa di Nuova Terra riempiva il suo cielo personale, con
il pianeta che incombeva al suo interno. Se guardava in basso, il limite
superiore dello strato più alto dell’atmosfera era invisibile, i suoi gas troppo
sottili perché l’imperfetto occhio umano li potesse distinguere. La sua vasta
curva che si stendeva davanti e dietro la nave era poco più di un grigiore sullo
sfondo del vuoto, ma dava la sensazione di essere troppo vicina. Era troppo
vicina. Poteva già immaginare il violento attrito che lacerava in pari misura la
sua tuta e la nave, l’aria che lo ustionava più di una levigatrice a nastro. Il
metallo fuso e ancora incandescente che era stato una delle lune difensive
risplendeva in alto, di un rosso opaco che contrastava con l’assoluto candore
delle stelle. I suoi piedi fecero presa sulle piastre, mantennero l’appiglio, lo
lasciarono andare.
«Come appaiono le cose, là fuori?» gli chiese all’orecchio la voce di
Naomi.
«Come ci si poteva aspettare. Vorrei solo che il pianeta non fosse così
vicino alla mia faccia. Continuo ad avere la sensazione che stia cercando di
attaccare briga.»
«Sì, lo pensavo anch’io.»
Il cannone difensivo di prua era una spessa canna montata su
un’articolazione emisferica ruotante, il metallo lucido come uno specchio. Il
foro all’estremità dell’arma era un punto nero tanto piccolo che Havelock
avrebbe potuto tapparlo con la punta del mignolo. I proiettili di tungsteno che
sparava erano tanto minuscoli che avrebbe potuto tenerli sul palmo della
mano, ma il cannone li emetteva al ritmo di centinaia al secondo. Era una
macchina di una potenza e sofisticatezza inumane, costruita per reagire più
velocemente di un cervello umano e con forza sufficiente ad abbattere
qualsiasi cosa minacciasse la nave.
Senza energia, poteva usarlo per nascondercisi dietro.
Si appiattì sullo scafo, rimanendo agganciato soltanto con la punta degli
stivali, poi impugnò il fucile che portava sulle spalle e lo sincronizzò con
l’HUD della tuta, facendo apparire una manciata di nuove stelle: rosse per
indicare i miliziani, verde a contrassegnare le cose che si portavano dietro,
qualsiasi cosa fossero. La Rocinante sgroppò sotto di lui, con l’orizzonte
della nave che si spostava quando il cannone a rotaia fece fuoco. Una mezza
dozzina di scie azzurre partirono dalle sovrastanti lune difensive, segnando il
percorso del proiettile emesso dal cannone con la violenza istantanea del
fulmine. Havelock si spostò di qualche centimetro, compensando per il
movimento della nave fino a riacquisire i bersagli, poi attivò la frequenza
generale di comunicazione.
«Signori, questa decisamente è una cosa che non siamo obbligati a fare»
disse.
Li vide reagire. I corpi si irrigidirono, le teste si girarono nel tentativo di
individuarlo, ma nessuno replicò. Havelock ingrandì l’immagine: i visori
scuriti per via della luce solare li rendevano anonimi, ma li conosceva tutti.
«Sul serio, perché? A cosa serve? Quella nave laggiù morirà, con tutti quelli
che ci sono a bordo. Stiamo facendo tutto il possibile per rimandare
l’inevitabile, ma anche voi avete fatto i calcoli, giusto? Avete gli stessi dati
che abbiamo noi. Non otterrete niente da tutto questo. È semplice
malevolenza. Non c’è bisogno che lo facciate.»
Uno dei punti sussultò. Havelock suppose che fosse l’ingegnere capo, che
gridava sulla frequenza che usavano adesso, per soffocare la sua voce. Spostò
il mirino su uno degli altri punti. L’angolazione gli rendeva difficile capire
bene cosa stesse vedendo. Era un tipo di tubo per l’immagazzinamento di
gas, con l’aggiunta di cavi e di una scheda elettronica a un’estremità.
Suppose trattarsi di una specie di missile improvvisato. Sarebbero stati inutili,
se il CDP dietro cui era nascosto fosse stato operativo. Si chiese se gli
ingegneri sapessero che le difese della Roci erano disattivate, o se lo avessero
soltanto supposto. O se la prospettiva della loro stessa morte e il loro odio per
i cinturiani li avessero portati al punto di ritenere che valesse la pena rischiare
di essere uccisi pur di negare alla Barbapiccola quel po’ di vita che le
rimaneva. Di qualsiasi cosa si trattasse, era deludente.
«Walters? È così che vuoi morire? Per un momento, non ascoltare gli altri.
Sul serio, spegni la radio. Non c’è bisogno di avere fretta, qui. Pensi davvero
di fare la cosa giusta?»
Ormai erano visibilmente più vicini di quanto lo fossero prima. Non
stavano accelerando verso di lui, ma neppure frenavano. L’HUD di Havelock
calcolò che avrebbero raggiunto la Roci, o la Barb, o i cavi che le univano in
circa venti minuti.
La radio entrò in funzione, e la voce dell’ingegnere capo risuonò piena di
rabbia e di disprezzo. «Non cercare di fare quei giochetti con noi, bastardo
traditore. I CDP della tua amichetta non hanno energia, lo abbiamo visto prima
di lanciarci. Credi che siamo stupidi? Abbiamo l’ordine di riportare te e
quella cagna cinturiana sulla Israel e di mettervi entrambi in prigione.»
«Ordini?»
«Direttamente da Murtry.»
Havelock intuì che quello serviva a stabilire un precedente. La RCE avrebbe
potuto sostenere di aver difeso le proprie rivendicazioni fino all’ultimo
minuto. L’eredità di Murtry sarebbe stata di non aver ceduto di un
centimetro. Non a terra, non nello spazio, non sull’astratto campo di battaglia
legale. Da nessuna parte.
C’era stato un tempo non molto lontano in cui lui avrebbe pensato che in
tutto quello c’era una sorta di dura purezza. Ormai gli appariva soltanto
strano e in un certo senso patetico.
«D’accordo, hai ragione» rispose. «I CDP sono inattivi, ma non avete
riflettuto sul resto. Io sono fuori dalla nave, ho l’armatura, un HUD integrato e
un’arma che in questo momento può raggiungere chiunque di voi. Nessuno di
voi ha la minima copertura. Il motivo per cui adesso siete ancora vivi è che
siete i miei uomini e non voglio che nessuno di voi si faccia male.»
Osservò la loro reazione, che fu meno marcata di quanto avesse sperato. La
Roci sobbalzò di nuovo. Ci fu un altro proiettile sparato dal cannone a rotaia,
seguito da altre scie di energia aggressiva da parte delle lune. Havelock tornò
ad acquisire i bersagli. Ci volle una frazione di secondo perché potesse dare
un senso all’allarme dato dall’HUD. Quattro bersagli erano in movimento.
Rapido. Quattro serbatoi di gas stavano accelerando con forza, mentre una
sottile nube di nebbia si allargava dietro di essi a mano a mano che qualsiasi
vapore residuo si congelava.
«Hai qualcosa in arrivo» scattò Alex, nell’auricolare, e Havelock sollevò il
fucile. Uno dei missili era chiaramente fuori rotta e descriveva una
sobbalzante spirale che lo avrebbe portato in basso verso il pianeta. Prese di
mira uno dei tre che rimanevano e aprì dei fori su entrambi i lati del tubo. Il
missile improvvisato sobbalzò quando il sistema di guida improvvisato che
gli ingegneri della Israel avevano messo insieme cercò di usare quel che
restava della massa in emissione per correggere la rotta, ma la fuoriuscita di
gas era troppo destabilizzante ed esso fluttuò verso l’alto, cominciando a
girarsi. Havelock spostò l’attenzione sui due bersagli rimasti. Non avrebbe
avuto il tempo di colpirli entrambi, ma riuscì a piantare due proiettili in
quello che puntava dritto verso di lui, nel tentativo di spingerlo fuori rotta.
Il missile rimanente colpì lo scafo della Roci otto metri alla sua destra, e il
mondo si tinse di bianco. Qualcosa lo spinse, qualcosa gli fece male, e i suoni
che provenivano dalla radio della tuta, per quanto ancora presenti, si fecero
distanti. Gli pareva che il suo corpo fosse molto grande, come se si fosse
espanso fino a riempire l’universo, o che l’universo si fosse rimpicciolito fino
a trovare posto sotto la sua pelle. Le mani sembravano molto lontane dal
corpo. E qualcosa urlava il suo nome.
«Sono qui» disse, e gli parve di sentire una registrazione della sua voce. Il
dolore prese ad aumentare, sull’HUD lampeggiavano in rosso gli allarmi
medici e la sua gamba sinistra era rigida, rifiutava di piegarsi. Le stelle gli
ruotavano intorno, con Nuova Terra che arrivava da sotto di lui per poi
passargli vorticando sopra la testa. Per un momento non riuscì a trovare la
Rocinante o la Barbapiccola. Forse erano andate. Intravide però la Israel,
lontana sulla sua destra e tanto piccola che avrebbe potuto quasi scambiarla
per una compatta costellazione di stelle fioche. Un altro avvertimento
apparve sull’HUD e lui sentì un ago iniettargli qualcosa nella gamba destra. Fu
pervaso da un brivido gelido ma la mente parve schiarirglisi un poco.
«Havelock?» chiamò Alex.
«Sono qui» rispose. «Non sono morto, ma credo di essere stato scaraventato
lontano dalla nave. Mi pare di fluttuare.»
«Puoi stabilizzarti?»
«Non credo. È possibile che la tuta abbia difetti di funzionamento. Inoltre
pare che sia stato colpito da parecchi frammenti di proiettile alla gamba e al
fianco sinistri. Credo di sanguinare.»
«Hai ancora contenimento? Havelock? Stai perdendo aria?»
Era una buona domanda, ma fu assalito dal vomito prima di poter
rispondere. La rotazione gli dava la nausea, e se avesse vomitato nel casco le
cose sarebbero andate prestissimo di male in peggio. Chiuse gli occhi e si
concentrò sulla respirazione fino a quando ritenne di poter guardare di nuovo,
anche se badò a mantenere lo sguardo concentrato sulle immagini fisse
offerte dall’HUD.
«Ho contenimento. Posso respirare.»
Sentì Naomi emettere quello che sembrava un sospiro di sollievo e se ne
sentì lusingato. I punti rossi indicanti i miliziani passarono oltre, all’estremità
del suo campo visivo. Non avrebbe saputo dire se si stavano ancora
avvicinando o se si erano fermati. Qualcosa di luminoso successe
nell’atmosfera. Era il cannone a rotaia che faceva di nuovo fuoco. Il pianeta
si sollevò da sotto di lui e scomparve sopra la sua testa.
«Tieni duro, coyo» disse Basia. «Vengo fuori.»
«Non lo fare» ribatté Havelock. «I tizi della Israel hanno altri missili
improvvisati, e sono armati. Resta dentro.»
«Troppo tardi» replicò Basia. «Ho già concluso il ciclo di pressurizzazione.
Ora devo soltanto... merda, quanta luce.»
Havelock si girò sulla sinistra e infine trovò la Rocinante. L’esplosione non
lo aveva scaraventato tanto lontano quanto aveva creduto, ma adesso stava
andando alla deriva, ogni respiro lo portava sempre più lontano da quella
bolla di ceramica e metallo piena d’aria. Si chiese se il suo corpo sarebbe
durato più a lungo delle navi, se fosse rimasto là fuori, anche se di certo la
sua scorta d’aria non lo avrebbe fatto. Il missile improvvisato aveva lasciato
una vivida cicatrice sullo scafo esterno della Roci, ma non pareva che vi
avesse aperto dei buchi. Piccola nave robusta.
«Uh» esclamò Basia. «Mi stanno sparando addosso.»
«Torna nella nave» lo esortò Havelock.
«Lo farò, fra un momento. Ora, dove sei... ah, eccoti là.»
Il rampino lo colpì al braccio sinistro, e il gel si allargò, indurendosi quasi
nello stesso istante. Al primo strattone la sua gamba sinistra emise lancinanti
fitte di dolore, ma i vettori risultarono tali che il suo vorticare incontrollato
rallentò. Adesso i punti rossi della milizia erano molto più vicini, e Basia
correva l’effettivo pericolo che gli sparassero. E c’erano ancora otto di quei
missili improvvisati.
La Rocinante sobbalzò. Il cannone a rotaia tracciò una scia luminosa
attraverso la stratosfera. Erano passati davvero soltanto cinque minuti? Era
possibile che non si fosse accorto di un paio di colpi sparati, o forse essere
scaraventato nello spazio da un’esplosione aveva alterato la sua percezione
del tempo. O magari li aveva visti e se ne era dimenticato.
«Non trainarmi troppo in fretta» avvertì. «Quando sarò lì dovrai usare
altrettanta energia per fermarmi, e potrei farti perdere l’equilibrio.» O
schiantarmi contro lo scafo, pensò, ma non lo disse.
«Ho passato più tempo in condizione di bassa g che in qualsiasi altro
ambiente» ribatté Basia, un effettivo divertimento che gli traspariva dalla
voce. «Non ti preoccupare.»
Lo scafo in lenta rotazione della Rocinante si fece più vicino, e la rotazione
dello stesso Havelock gli diede l’impressione che l’universo, la nave e il suo
corpo si trovassero tutti in realtà leggermente diverse. Basia era una chiazza
più scura sullo sfondo grigio di ceramica e metallo. L’HUD di Havelock lo
informò allegramente di aver stabilizzato la sua pressione sanguigna, che lui
non si era reso conto essere instabile. I jet di manovra erano ancora inattivi,
ma Basia spiccò un salto per venirgli incontro prima che toccasse lo scafo e
gli circondò le spalle con le braccia mentre la sua tuta faceva rallentare
entrambi.
«Devi entrare» gli disse Havelock, non appena il suo stivale magnetico
sinistro entrò in contatto con lo scafo.
«Stavo per dirti la stessa cosa» ribatté Basia. «Quante schegge ti hanno
colpito?»
Per la prima volta Havelock abbassò lo sguardo sulla gamba offesa. La tuta
era punteggiata di sigillante di emergenza, come risultato di almeno una
dozzina di fori. «Tutte quante, sembra.»
«Ho sullo schermo roba che si muove in fretta» avvertì Alex.
Havelock si girò con il fucile sollevato, pronto ad abbattere i missili prima
che lo raggiungessero o a morire nel tentativo. Impiegò qualche momento a
trovarli. I punti verdi non erano diretti verso di lui ma in basso, verso il
pianeta. Verso la Barb.
«Okay» disse. «Aspettate.»
«Credo che ti stiano ancora sparando» avvertì Naomi. Havelock si spostò in
avanti, con la gamba che non gli faceva più male ma era stranamente
intorpidita. I movimenti della Rocinante gli alteravano la mira, ma finalmente
l’HUD agganciò un bersaglio e lui premette il grilletto. Uno dei missili
esplose. Basia era accoccolato con mani e gambe contro lo scafo, un flusso di
oscenità che gli scaturiva dalle labbra come una cantilena. Havelock cercò di
muovere gli stivali magnetici, ma non riuscì a indurli a reagire. La Roci
sobbalzò.
«L’equipaggio della Barb è preparato all’impatto» disse Alex. «Il primo
sarà fra...»
Una nuova ondata di luce si allargò sotto di loro. Havelock avvertì
l’impatto che si diffuse attraverso i cavi, fino alla Roci e ai suoi stivali in
modo quasi istantaneo. Alla radio, sentì Alex gemere.
«Okay, abbiamo un problema» annunciò Naomi.
Sotto di loro, la Barbapiccola cominciava a inclinarsi. La forza delle
esplosioni era stata appena sufficiente a darle un po’ di velocità, un rotolare
su sé stessa così lento che Havelock avrebbe quasi potuto fingere che fosse
inesistente. Quasi, ma non del tutto. La rete di cavi era strappata. Due di essi
reggevano ancora ma gli altri andavano alla deriva. Uno era tagliato in due ed
era possibile che i rimanenti si fossero staccati dai supporti o li avessero
divelti dallo scafo, non sapeva bene quale delle due cose fosse successa. In
basso, Nuova Terra era tanto grande da riempire il suo campo visivo. Fu
assalito da un’ondata di vertigini ed ebbe la sensazione quasi allucinatoria
che il pianeta fosse un mostro che stesse emergendo da un vasto oceano per
inghiottirli tutti.
«Alex, sgancia il cavo» ordinò Naomi.
«No!» urlò Basia.
«Non risponde» replicò Alex. «Il sistema di sgancio pare danneggiato.»
La Roci sobbalzò e il cavo si tese di scatto.
«Cessate il fuoco!» urlò Basia. «Smettete di sparare con quel cannone!»
«Mi dispiace, era settato in automatico» rispose Alex. «L’ho disattivato.»
«Vado sulla Barb» disse Basia. «Ho con me l’attrezzatura per le saldature.
Forse c’è qualcosa che posso fare.»
«Non funzionerà» replicò Naomi. «Taglia il cavo.» La Barbapiccola era
fuori di dieci gradi dall’orbita stabile che aveva in precedenza. In caduta.
«Non intendo tornare dentro, e neppure tagliare il cavo» dichiarò Basia.
«Devo andare a vedere.»
«Ricordi che ci stanno ancora sparando addosso, giusto?» chiese Naomi.
«Posso coprirlo io» intervenne Havelock. «È una cosa che posso fare.»
«Riesci a muoverti?»
Havelock consultò l’HUD. La gamba colpita era immobilizzata e sotto
pressione per contenere l’emorragia. Uno dei suoi jet di posizionamento era
stato forato e l’aria all’interno della tuta aveva un odore pungente, come di
plastica che si fondeva. Non poteva essere un buon segno.
«No, in realtà no» ammise. «Però Basia mi può sistemare al coperto, magari
vicino al portellone esterno della camera di pressurizzazione della Roci.
Posso piazzarmi e sparare da lì.»
«Spicciatevi, allora» ribatté Naomi. «Si stanno avvicinando e finiranno per
arrivare a una distanza dalla quale potrebbero davvero colpire qualcosa.»
Havelock disattivò gli stivali magnetici e si girò verso Basia. «D’accordo.
Se proprio dobbiamo farlo, muoviamoci.»
Basia gli chiuse una mano intorno a un braccio e procedette a trascinarlo di
peso lungo il lato rovinato della nave. I segni e le chiazze più chiare lasciate
dall’impatto dei detriti della navetta erano ovunque, uniti ora alla cicatrice
provocata dal missile improvvisato. Un lieve pennacchio bianco si allargava
nel vuoto dove qualcosa perdeva aria. Il tempo parve fare un balzo in avanti,
e Havelock si ritrovò vicino al portellone esterno della camera di
decompressione, che lo aspettava spalancato. I punti rossi mostravano che gli
ingegneri erano ancora a dieci minuti di distanza. Adesso la Barb era sopra di
lui, e il pianeta era ancora più sopra, non una bestia che salisse a divorarlo ma
un intero cielo nuvoloso che gli cadeva addosso per schiacciarlo.
«Stai bene?» chiese Basia. «Puoi farcela?»
«Sopravvivrò» rispose Havelock. Immediatamente si rese conto di come
quella fosse stata una cosa assolutamente inappropriata da dire. «Sono a
posto. Ho un po’ di vertigini ma la pressione sanguigna è stabile.»
«D’accordo, allora. Torno subito. Non lasciare che quei figli di puttana
peggiorino ulteriormente le cose.»
«Farò del mio meglio» promise Havelock, ma Basia si era già lanciato
lungo il cavo. Havelock controllò il fucile, poi l’HUD. Dovette adeguarsi di
nuovo alla rotazione della Roci, ma ritrovò in fretta i piccoli punti rossi.
«D’accordo, ragazzi» disse. «Avete chiarito la vostra posizione. Adesso
però facciamo marcia indietro. C’è ancora tempo, e non voglio fare del male
a nessuno.» Erano parole surreali, come un poema appartenente a un altro
secolo, o una litania per ridimensionare un conflitto. Nessuno apprezzava mai
davvero come gran parte del lavoro di sicurezza consistesse nel mantenere le
cose sotto controllo per qualche altro minuto, dare a tutte le persone coinvolte
in una crisi un po’ più di tempo per riflettere. La minaccia della violenza era
soltanto uno fra molteplici strumenti, e lo scopo non era quello di peggiorare
le cose. Se c’era un qualsiasi modo per farlo, bisognava invece evitare di
peggiorare le cose. Si rese conto che Murtry se la cavava davvero male in
quella parte del loro lavoro.
Il suo HUD individuò un oggetto in rapido avvicinamento. Un proiettile o
una lenta meteora, ma a giudicare dall’angolazione era probabilmente un
proiettile. Un altro si stava muovendo lungo una traiettoria che sarebbe
passata nelle vicinanze di Basia. Lo avrebbe mancato, ma non sarebbe durato
ancora per molto.
«D’accordo» disse, sollevando il fucile. «Conterò fino a dieci e poi dovrò
aprire un buco in chiunque si stia ancora avvicinando. Cercherò di limitarmi a
mettere le vostre tute fuori uso, ma non posso fare promesse.»
I punti rossi non cambiarono vettore.
Era strano. Aveva fatto tanta strada, affrontato tutti quei pericoli. Stava
precipitando verso un pianeta un centimetro alla volta e lottava per
guadagnare qualche altro minuto o ora di vita. E la cosa che lo preoccupava
di più comunque era che sarebbe stato costretto a sparare a qualcuno.
50
Elvi

Il carrello era stato progettato per un uso su terreni accidentati e spedito su


un pianeta privo di strade. Non era un mezzo comodo, ma era veloce e il
ruggito del generatore unito al ronzio dei motori creava una sorta di rumore
di fondo che il cervello di Elvi imparò a ignorare dopo le prime ore di
viaggio, lasciandola immersa in una sorta di silenzio. Le rovine di Nuova
Terra si levavano tutt’intorno a loro per poi perdersi in lontananza. La
tempesta che aveva trasformato First Landing in una devastazione fangosa
non era stata un fenomeno locale. Tutti i paesaggi che avevano attraversato
apparivano distrutti e annegati, ma erano comunque affascinanti. Ancora
splendidi.
Una foresta di sottili corpi rossi che erano una via di mezzo fra alberi e
funghi giganti giaceva al suolo, abbattuta, con le ruote del carrello che
lasciavano solchi sulla loro carne. Creature volanti non più grandi della mano
di Elvi seguirono in fila il carrello per ore, attirate forse dal rumore, o dal
movimento, o dagli spruzzi di idrocarburi diffusi nell’aria, inducendola a
chiedersi come quelle fragili creature avessero potuto sopravvivere a un
simile disastro planetario. Quando scese la notte, tre vaste colonne di punti
luminosi si levarono nel cielo come grattacieli fatti di lucciole. Elvi non
sapeva se fossero organismi viventi come le lucertole mimo o manufatti come
le sue farfalle. Un animale enorme, alto e largo come un elefante, ma con il
corpo segmentato come quello di un bruco, giaceva morto e putrescente
lungo la cresta di una bassa collina, i fianchi massicci attraversati da strutture
che sembravano due casse toraciche intrecciate, e un nugolo di creature
necrofaghe grandi quanto moscerini che l’avviluppava come una nebbia. Una
struttura argentea e azzurra emerse da una polla grigiastra di acqua piovana,
si accasciò e tornò a sollevarsi. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, ma Elvi
interpretò quel suo comportamento come un gioco, uno sciacquettare nelle
pozzanghere. Le ci volle tutta la sua forza di volontà per non fermarsi a
osservare ognuna di quelle cose.
Un’intera biosfera – o anche due o tre – le scorrevano accanto,
stuzzicandola con ciò che lasciava intravedere. Avrebbe voluto scoprire tutto
quello prima della tempesta. Nel migliore dei casi, ormai sarebbero al
massimo riusciti ad avanzare ipotesi su cosa c’era stato prima e a vedere cosa
sarebbe venuto dopo. Si consolò ricordando a sé stessa che quello era sempre
vero: tutta la natura era un susseguirsi di crisi, distruzione, adattamento,
rifioritura e nuova distruzione. Quello che era successo su Nuova Terra era
singolare e concreto, ma lo schema di cui faceva parte sembrava applicarsi
ovunque, e forse sempre. Perfino gli alieni che avevano creato i manufatti, la
protomolecola e gli anelli erano rimasti vittime di un vasto collasso cosmico.
All’alba condivisero l’ultimo cibo che rimaneva. Avevano ancora acqua a
sufficienza per qualche giorno, ma avrebbero patito la fame, ed Elvi intuì che
avrebbero cercato di trovare sul pianeta qualcosa che risultasse commestibile.
Se non ci fossero riusciti sarebbero morti, a meno che Holden non fosse
davvero riuscito a far riattivare i reattori e a far sì che le navi mandassero giù
qualcosa. Un canyon dalle pareti erte bloccò loro il passo, con l’erosione
prodotta dai secoli che esponeva strati di rocce così uniformi e invariati da
sembrare le pagine di un libro. Il sistema di navigazione del carrello impiegò
mezz’ora a trovare un sentiero per discendere nella gola e risalire dall’altra
parte.
Quando lei accennò a quanto fossero fortunati di non essersi imbattuti in
una catena montana, Fayez scoppiò a ridere.
«Per questo ci vorrebbero le placche tettoniche» rispose. «Questo pianeta
non ha montagne, ha orli.»
Nessuno di loro parlava molto perché il rumore del carrello soffocava ogni
suono, a meno di gridare, ma anche se non avessero viaggiato in silenzio lei
aveva la sensazione che Amos Burton non avrebbe comunque parlato.
Trascorse quella giornata e mezza di viaggio seduto sul davanti del carrello,
con le gambe ripiegate e lo sguardo fisso sul terminale palmare o
sull’orizzonte. Parve a Elvi che il suo ampio volto tradisse un’ansia crescente,
paura per Holden, per le navi sopra di loro e per il pianeta che li circondava,
ma era anche possibile che stesse proiettando su di lui i propri sentimenti.
Amos aveva quel genere di faccia.
In alcuni punti le tracce dell’altro carrello, quello di Murtry e di Wei, si
allontanavano in una direzione diversa dalla loro, oppure si perdevano nel
fango morbido o scomparivano nell’attraversare ampie e umide distese di
pietra. Però riapparivano sempre, i due solchi delle ruote che puntavano verso
nord, nelle terre inesplorate. I fari del carrello mostravano una scia di ghiaia e
di organismi giallo chiaro simili a lumache che erano stati schiacciati sotto le
ruote, e l’aria era più fredda, forse perché stavano andando a nord o forse a
causa della coltre permanente di nuvole che impediva all’energia del sole di
raggiungere la superficie del pianeta. Elvi sonnecchiò nella misura in cui
glielo permetteva la fame, con la testa appoggiata sulle ginocchia di Fayez,
poi si scambiarono di posto e lui le adagiò il capo sulle gambe per dormire.
Elvi sognò della Terra, e di cercare di guidare un furgone per la consegna a
domicilio delle pizze lungo i corridoi del laboratorio dell’università. Si
svegliò con la consapevolezza che era cambiato qualcosa, ma impiegò un
lungo momento a rendersi conto di cosa si trattasse: il carrello era silenzioso.
Si sollevò a sedere sfregandosi gli occhi.
L’altro carrello era inquadrato nella luce dei fari, cosparso di fango e
sfregiato su un lato dove aveva strisciato qualcosa di più duro della lega di
cui era composto. Amos scese a terra e girò lentamente intorno a esso due
volte, una volta esaminando il carrello e la seconda scrutando nel buio.
«Cosa c’è?» chiese Elvi. «È tutto a posto?»
«Hanno bruciato i motori» spiegò Amos, issandosi di nuovo sul carrello. «Il
fango si è infiltrato negli assali e non lo hanno rimosso. Dovunque siano
andati da qui, adesso sono a piedi.»
«Siamo vicini a Holden?»
«Oh, sì» rispose Amos, sollevando il proprio terminale. «Questo è l’ultimo
segnale che abbiamo visto. È stato breve, ma ci ha dato modo di agganciare
la sua posizione. Proseguiremo in quella direzione con la speranza che il suo
segnale riappaia presto.» La mappa non diede a Elvi l’idea di quale fosse la
sua scala di grandezza, ma su di essa c’erano due indicatori – uno erano loro
e l’altro era il capitano. «Se ho ragione, stiamo arrivando alla fine di tutto
questo. E noi siamo ancora quelli che hanno un mezzo di trasporto. Da qui in
poi voi due farete meglio a tenervi bassi.»
«Perché?» chiese Fayez.
«Nel caso che loro decidano di sparare a qualcuno» rispose Amos,
riavviando il generatore.
«D’accordo, ha senso» replicò Fayez. Elvi non ritenne che Amos lo avesse
sentito al di sopra del ruggito del carrello, ma lei lo udì.
Erano le primissime ore del mattino, quel lungo periodo fra mezzanotte e
l’alba, quando arrivarono alla costruzione. All’inizio fu soltanto uno scintillio
nell’oscurità, come un pezzo di cielo stellato, e per qualche tempo Elvi pensò
che potesse essere un’apertura fra le nuvole. Quanto più si avvicinavano,
però, tanto più risultò evidente che si trattava di qualcosa d’altro.
Era difficile distinguere i dettagli nel buio, ma quella cosa pareva avere la
stessa architettura organica delle rovine nelle vicinanze di First Landing, solo
più vasta di un paio di ordini di grandezza. Ebbe la sensazione di trovarsi
vicino a una delle grandi rovine industriali sulla costa occidentale europea, un
posto dove un tempo qualcosa di tanto enorme da poter devastare il mondo
aveva fatto sentire la sua presenza, e che ormai si era lasciato alle spalle il
proprio carapace vuoto. Quando i primi pallidi fiocchi di neve caddero
attraverso i fasci di luce dei fari pensò inizialmente che si trattasse di cenere.
«È dove siamo diretti?» chiese Fayez.
«Credo di sì» rispose Amos. «Non abbiamo più un aggiornamento della
posizione del capitano da un paio d’ore, e quello è il posto da cui proveniva
l’ultima lettura. Suppongo che il segnale non riesca a penetrare al suo
interno.»
«Oppure è stato divorato» osservò Fayez. «Quella cosa potrebbe averlo
divorato.»
«Il capitano sarebbe un pasto difficile da inghiottire» ribatté Amos.
Il carrello riprese ad avanzare verso l’ultima posizione nota di Holden.
Enormi punte nere sporgevano dal terreno, e alcune di esse ruotarono per
seguire i loro movimenti. La neve si infittì, cominciando a posarsi sul terreno
e sul carrello, ma la costruzione rimase pulita, con i fiocchi che si
scioglievano al contatto. È calda, pensò Elvi, e non riuscì a spiegarsi perché
quell’idea la turbasse tanto.
Il carrello passò sotto un’arcata alta dieci metri ed entrò nella struttura vera
e propria. La nevicata cessò. Tutt’intorno a loro le pareti rilucevano,
pervadendo lo spazio di un chiarore morbido che non produceva ombre. Lì
l’aria era più calda e aveva un odore acre e pungente, come di fumo di alcol,
ma più aspro. Il carrello si spostò di qua e di là, alla ricerca delle ultime
tracce sbiadite della pista elettrica lasciata da Holden prima di arrendersi e di
fermarsi. Amos passò ai comandi manuali e ne assunse il controllo diretto.
Per qualche tempo i passaggi si snodarono in una serie di vortici e anelli, poi
si allargarono, aprendosi. Il tetto di quel posto era perso nell’oscurità, e
lunghi tubi che potevano essere condotti o vascolarizzazione emergevano dal
terreno per confluire verso l’interno, in avanti, verso dovunque si trovasse il
cuore funzionale di quel posto. Il carrello rallentò. Amos raccolse il fucile e
fece fuoco. Il rimbombo dello sparo echeggiò a lungo.
«A cosa sta sparando?» chiese Elvi.
Amos scrollò le spalle. «A niente in particolare. Ho solo pensato di fare
rumore.» Piegò le mani a coppa intorno alla bocca e gridò: «Capitano! Ci
sei? Holden!»
«Siamo sicuri che sia qui dentro?» domandò Fayez.
«No» replicò Amos, poi riprese a gridare. «Capitano!»
Una figura sbucò da dietro una grossa macchina, cinquanta metri più avanti
rispetto a loro. Aveva le dimensioni e la forma di un essere umano, e per un
momento Elvi si sentì disorientata per come appariva del tutto fuori posto in
quel luogo. Amos impugnò più saldamente il fucile e lo puntò in quella
direzione. Mentre il carrello si avvicinava, la figura rimase ferma dov’era, a
gambe larghe, con le spalle squadrate e le mani lungo i fianchi. Quando
arrivarono a dieci metri di distanza, Amos spense il generatore.
«Ciao» disse, con voce cordiale quanto falsa.
«Ciao a te» rispose Wei, a testa alta.
Amos scese dal carrello, il fucile ancora in mano come se si fosse
dimenticato della sua presenza. Elvi guardò verso Fayez, che scrollò le spalle,
poi scivolò a terra a sua volta e avanzò lentamente, tenendo la mano contro la
ruota anteriore del carrello, che era ancora calda anche se si andava
raffreddando.
«Cosa ci fai qui?» domandò Amos.
«Lavoro» spiegò Wei, accennando alla struttura che li circondava. «La RCE
ha diritto a reclamare tutto questo. Mi sto solo accertando che nessuno violi
questo diritto.»
«Ti riferisci al capitano.»
«Mi riferisco a chiunque» replicò Wei, il cui tono si era fatto più duro.
«Ecco, se vuoi il mio parere è un posto fottutamente brutto.»
«Sì.»
«Dobbiamo proprio farlo? Credo che sarebbe dannatamente più divertente
se io recuperassi Holden e tu Murtry, e noi tutti vedessimo se non c’è un
modo in cui la dottoressa, qui, riesca a trovare su questa palla di fango
qualcosa che contenga alcol.»
«Già, sembra divertente» convenne Wei. «Però sono in servizio.»
Fayez sopraggiunse alle spalle di Elvi, le braccia conserte sul petto, la
fronte aggrottata per la tensione.
«Quindi le cose stanno così?» ribatté Amos. «Sì, Holden è là dentro da
qualche parte e credo che Murtry sia andato a cercarlo.»
«È possibile.»
«Quindi quando risalirò sul carrello e proseguirò...»
«Non ti consiglio di farlo, Amos. I miei ordini sono che nessuno può
entrare. Salta su, vai nella direzione opposta, e tu e io non avremo problemi.
Cerca di invadere ulteriormente le proprietà della RCE e sarò costretta a
spararti.»
Amos si massaggiò la testa con la mano sinistra. In qualche modo, il fucile
che aveva nella destra sembrava d’un tratto più grande, come se la minaccia
di violenza gli avesse dato significato e quel significato gli desse più peso.
Elvi si sorprese a trarre brevi respiri affannosi e accelerati, e per un momento
pensò che qualcosa fosse cambiato nella composizione dell’aria. Però si
trattava soltanto della paura.
«Il capitano è là dentro per cercare di rimettere in funzione i reattori»
osservò Amos.
«In tal caso sta violando la proprietà e se ne deve andare.» L’atteggiamento
di Wei si ammorbidì per un momento, e quando parlò qualcosa di simile al
rammarico le trasparì dalla voce. Non era vero rammarico, ma ci somigliava.
«Quando è il momento di andarsene, ci sono cose peggiori del morire al tuo
posto.»
Amos sospirò, ed Elvi vide le sue spalle accasciarsi. «Come vuoi» rispose,
sollevando il fucile.
Lo sparo giunse da un punto alle loro spalle, e Amos crollò in avanti.
«A terra!» gridò Murtry, dietro di loro, ed Elvi si accoccolò per un riflesso
automatico. Fayez le premeva contro da un lato, dall’altro c’era il massiccio
pneumatico. Il fucile risuonò assordante in contemporanea con il crepitio
secco di una pistola. Elvi si sporse a guardare e vide che Wei era stesa a terra
con le braccia allargate sui lati, mentre Amos lottava per sollevarsi in
ginocchio. Le dava le spalle e aveva del sangue sul retro del collo, ma lei non
riusciva a vedere da dove venisse. Murtry la oltrepassò con decisione e fece
fuoco con la pistola due, tre, quattro volte. Elvi vide la schiena corazzata di
Amos sussultare a ogni sparo, segno che Murtry non stava mancando il
bersaglio. L’urlo che le sfuggì suonò acuto e stranamente privo di dignità.
Murtry aggirò il carrello e Amos si volse con un ruggito, mentre il fucile
faceva fuoco tre volte e il rumore degli spari percuoteva l’aria. Murtry
barcollò all’indietro ma non cadde, e il suo colpo successivo fece zampillare
una piccola fontana di sangue dalla coscia di Amos, che si accasciò. Murtry
abbassò la pistola e tossì.
«Dottoressa Okoye, dottor Sarkis» disse. L’armatura che gli copriva il petto
era a brandelli. Se non l’avesse avuta indosso i colpi di Amos gli avrebbero
fatto schizzare fuori il cuore dalla schiena. «Devo dire che la vostra decisione
di venire qui mi delude, come la compagnia che avete scelto.»
Amos stava annaspando, con il respiro irregolare. Murtry si avvicinò con
passo delicato e allontanò con un piede il fucile che scivolò con un sibilo
sullo strano pavimento chitinoso.
«Gli ha sparato» disse Fayez.
«Certo. Minacciava la vita di un membro della mia squadra» ribatté Murtry,
dirigendosi verso Wei, poi sospirò e aggiunse: «Il mio solo rammarico è di
non essere riuscito a salvare il sergente Wei.»
Gli occhi di Elvi si riempirono di lacrime e si sentì scuotere dai singhiozzi.
Amos sollevò una mano. Pollice e indice mancavano, l’osso spuntava rosato
in mezzo al sangue. Elvi distolse lo sguardo.
«Di cosa sta parlando?» La voce di Fayez tremava.
«Dottor Sarkis, ha qualche altra cosa che vorrebbe aggiungere?» chiese
Murtry, inserendo un nuovo caricatore nella pistola.
«Lei ha organizzato questa cosa, tutto questo. L’ha messa là perché
distraesse Amos e gli ha sparato alle spalle. Questo non è soltanto qualcosa
che è successo nonostante lei abbia fatto del suo meglio per la povera fottuta
Wei. Lei ha fatto tutto questo!»
«Se Mr Burton avesse fatto quello che gli era stato chiesto e avesse
abbandonato il sito...»
«Lui stava cercando di salvarci!» urlò Fayez, rosso in volto, e prese ad
avanzare con le mani serrate a pugno lungo i fianchi. Murtry sollevò su di lui
uno sguardo che esprimeva poco meno di un cortese interesse. «Lui e Holden
stanno cercando di salvarci! Lei e me ed Elvi e tutti quanti. Lei cosa diavolo
sta facendo?»
«Proteggo i beni, i diritti e le rivendicazioni della Royal Charter Energy»
ribatté Murtry. «Quello che non sto facendo, e spero che lo capisca, è correre
in cerchio con il cazzo in mano gemendo su come nulla abbia più importanza
perché moriremo tutti. Quando siamo saliti sulla Edward Israel sapevamo
che era possibile che non riuscissimo a tornare indietro. Era un rischio che
eravate disposti a correre perché significava che potevate fare il vostro
lavoro. Per me non è diverso.»
«Ha fatto uccidere Wei!» urlò Fayez. Elvi gli posò una mano sulla spalla
ma lui si liberò con una scrollata. «È morta per colpa sua!»
«Il suo turno ora, il mio più tardi» replicò Murtry. «Però prima ci sono
alcune cose che devo fare.»
Il capo della sicurezza controllò la pistola, poi abbassò lo sguardo su Amos
Burton fissandolo con un odio assoluto mentre puntava l’arma contro la sua
faccia sanguinante. Distogli lo sguardo, si disse Elvi. Non guardare mentre
succede. Distogli lo sguardo.
Fayez colpì Murtry sul naso. Il movimento fu così rapido e goffo e naturale
che in un primo tempo Elvi non fu certa di cosa fosse successo. Vide
l’espressione cambiare negli occhi sgranati di Fayez quando lui si rese conto
di quello che aveva fatto, e poi decise di rifarlo. Murtry allontanò la pistola da
Amos, spostandola verso di lui, e il geologo gli si lanciò contro con un grido.
Murtry barcollò all’indietro, ma non cadde.
«Elvi, scappa!» urlò Fayez.
Lei indietreggiò di un passo. Al suolo, Amos si stava contorcendo con il
sangue che scorreva da un punto sotto l’armatura. Aveva i denti snudati e
carmini. Stava sorridendo.
«Corri!» urlò Fayez.
I grandi muri grigi si levavano tutt’intorno a loro. False stelle scintillavano.
Elvi non riusciva a respirare, fece un passo esitante, poi un altro. Le pareva di
avanzare attraverso un gel, costringendosi a compiere ogni movimento. È lo
shock, pensò. Sono in stato di shock. La gente muore di questo, giusto? Nei
suoi ricordi Fayez scosse il capo e disse: Oh, ma guarda, un’altra scusa per
andare a parlare con Holden.
Holden. Doveva trovare Holden. Mosse un altro passo, e un altro ancora.
Poi cominciò a correre, con le braccia e le gambe che pompavano e piccoli
grugniti animaleschi che le risalivano dalla gola. Da qualche parte alle sue
spalle una pistola sparò due volte, poi una terza, ma non si guardò indietro.
Tutto il suo essere era focalizzato soltanto in avanti, lungo le ampie vene
scure della struttura, verso il punto in cui convergevano.
Continuò a correre.
51
Basia

Basia si protese a toccare il cavo, che vibrò come una cosa viva sotto le sue
dita guantate.
«Alex!» Quello di Naomi fu quasi un urlo che si diffuse sul canale generale
di comunicazione. «Ti mando un programma di accelerazione. Dobbiamo
tenere teso quel cavo finché Basia non lo taglia, altrimenti la Barb ci
spaccherà in due.»
«Non intendo tagliarlo» ribadì Basia, ma nessuno gli rispose. Controllò per
vedere se il microfono fosse acceso.
«Uno» scandì Havelock, finendo il proprio conto alla rovescia. «Il tempo si
è esaurito, ragazzi.»
Basia non seppe dire se le minacce dell’uomo della sicurezza stessero
avendo effetto. Il suo HUD mostrava ancora le linee rosse degli spari in arrivo,
ma le ignorò.
Sopra di lui la Rocinante cominciò a spostarsi e ad azionare i rimanenti
propulsori di manovra in risposta alla lenta rotazione della Barbapiccola, nel
disperato tentativo di mantenere teso il cavo. Con due navi massicce che
ruotavano ciascuna su un asse differente, il cavo poteva passare dall’essere
lento a una tensione da migliaia di tonnellate con una rapidità tale da
strappare dalle navi i supporti e una buona parte dello scafo stesso.
«Basia» disse Naomi, in tono gentile. «Non ti posso dare molto tempo, e sai
che questa cosa finirà nello stesso modo, qualsiasi cosa facciamo.»
«Sto controllando la connessione con la Barb» replicò lui, invece di
risponderle.
Il supporto era una massa di metallo contorto e cavo sfilacciato. Pezzi dello
scafo erano stati strappati insieme ai supporti, e quelli ancora collegati si
tendevano e flettevano a ogni rotazione della nave.
Basia cercò di calcolare a quanta tensione dovevano essere sottoposti la
struttura e il cavo, ma non ci riuscì. Se si fosse spezzato, probabilmente lo
avrebbe tagliato in due. Se doveva tagliarlo, era necessario che prima Alex ne
riducesse la tensione.
«Non intendo tagliarlo» ripeté, parlando più a sé stesso che a chiunque
altro. Tagliarlo significava lasciare che la Barb andasse alla deriva e
scivolasse negli strati più alti dell’atmosfera, andando in pezzi e bruciando.
Significava lasciar bruciare Felcia. Alex gli aveva promesso che non sarebbe
successo.
Un paio di linee rosse apparvero sull’HUD insieme alle parole PERICOLO IN
AVVICINAMENTO che lampeggiarono per un momento sul display. Basia non ci
capiva molto in quel gergo militare, ma non aveva difficoltà a intuire cosa
significasse quella frase. Si spostò intorno all’aggancio del cavo e si mise al
riparo. Emergendo dall’oscurità fra la Israel e la Barb, dodici uomini in tuta
fluttuavano verso di lui su sbuffi di gas. E avevano ancora qualcuno di quei
missili improvvisati.
«Ragazzi» avvertì Havelock, con un’effettiva tristezza che gli traspariva
dalla voce.
«Havelock,» gridò Naomi «se lasci che quegli stronzi sparino a Basia non ti
permetterò di rientrare sulla mia nave!»
«Ricevuto» rispose Havelock, in tono dolente. Uno dei dodici assalitori
ruotò da un lato quando uno sbuffo di nebbia bianca scaturì dal suo pacchetto
EVA, poi continuò a ruotare selvaggiamente nel volare lontano dagli altri ad
alta velocità.
«Uno di voi dovrebbe andare a prenderlo» avvertì Havelock. «Il suo
pacchetto EVA è andato.»
Non aveva quasi finito di parlare che due dei rimanenti assalitori puntarono
verso l’uomo in difficoltà, dirigendo su di lui la pistola che sparava rampini.
«Havelock, razza di stronzo» ringhiò Koenen, sulla frequenza aperta dove
tutti potevano sentirlo. «Mi prenderò il piacere di aprirti un buco attraverso.»
Poi lui e la sua squadra aprirono il fuoco sulla posizione di Havelock,
costringendolo a mettersi al riparo dietro il portellone.
Adesso che nessuno lo guardava, Basia si prese un momento per studiare il
supporto deformato. «Naomi, ti inoltro le foto del danno tramite la tuta.»
«Basia, io...» cominciò lei.
«Aiutami a sistemare le cose» la interruppe Basia. «Se la Barb ha altro
cavo, lo posso ricollegare mentre Alex ci impedisce di perdere l’unica
connessione rimasta.»
«Basia,» ribatté Naomi, con voce triste e gentile «questa cosa non si può
sistemare. La Barbapiccola precipiterà, e non c’è niente da guadagnare a
lasciare che ci trascini con sé.»
«Non lo accetto!» urlò di rimando Basia, a voce abbastanza alta da suonare
distorta negli altoparlanti della tuta. «Ci deve essere un sistema!»
Un avvertimento lampeggiante della tuta lo indusse a rimettersi al coperto
appena in tempo per evitare una raffica di spari che rimbalzò contro lo scafo,
lasciando striature lucide sul metallo opaco. Uno dei nove assalitori rimasti
levò in alto le braccia come se si stesse arrendendo poi si fece immobile,
ruotando lentamente verso la Barbapiccola.
«Williams è morto» disse l’ingegnere capo. «Hai appena ucciso un
dipendente della RCE. Brucerai per questo, Havelock.»
«Sai una cosa, capo? Fottiti» ribatté Havelock. Il suo tono era ancora basso,
ma adesso per la prima volta era pervaso di rabbia effettiva. «Sei tu quello
che ha fatto precipitare le cose. Io non ho chiesto niente di tutto questo.
Ritirati. Marwick, porti via di qui i suoi uomini! Non permetta loro di
continuare a forzare le cose.»
Un’altra voce, più triste e anziana, risuonò alla radio. «Quelli non sono i
miei uomini, Mr Havelock. Sa bene quanto me che non ho autorità sulla
squadra di spedizione.»
«Esatto, figlio di puttana» aggiunse l’ingegnere capo. «Noi agiamo in base
agli ordini del capo della sicurezza Murtry.»
Basia escluse dalla sua sfera di attenzione la discussione in corso fra
Havelock, Marwick e l’ingegnere capo. Si sarebbero messi d’accordo oppure
no. Havelock ne avrebbe uccisi altri oppure no. Il capitano avrebbe fatto
valere la sua autorità oppure no. Nulla di tutto quello cambiava il suo vero
problema: sua figlia era a bordo di una nave che stava lentamente sfuggendo
al controllo e perdendo quota. A un certo punto avrebbe incontrato
abbastanza atmosfera da generare abbastanza frizione da rallentarla e farla
cadere ancor più in profondità nell’aria finché avrebbe preso fuoco. La
Rocinante non poteva salvarla. Impotenza e dolore si riversarono su di lui,
ma si impose di non piangere perché non avrebbe più potuto vedere con lo
strato di lacrime davanti agli occhi. Ci doveva essere un altro modo.
«Basia» chiamò Naomi, su un canale privato. Capì che era passata su un
canale privato perché la discussione fra Havelock e la gente della RCE si
interruppe di colpo a metà di una parola. «Basia, porto fuori tua figlia.»
«Cosa?»
«Sono in contatto con il capitano della Barbapiccola, e gli ho spiegato la
situazione. Lui... ecco, non è contento, ma capisce. Alex ti ha promesso che
se le navi fossero precipitate Felcia sarebbe stata sulla Rocinante quando
fosse successo, e noi manteniamo le promesse.»
«Come?» chiese Basia. Dal modo in cui le navi vorticavano, non riusciva
neppure a immaginare quanto sarebbe stato pericoloso un tentativo di
aggancio. I tubi di attracco nave a nave erano flessibili, ma non fino a quel
punto.
«In questo momento la stanno accompagnando alla camera di
decompressione. La metteranno in una tuta e la spediranno fuori da te. Devi
riportarla fino a questa nave e dopo... dovrai tagliare il cavo.»
Qualcosa riguardo al tubo di attracco continuava a frullare nella mente di
Basia. La Rocinante non poteva collegarsi alla Barbapiccola per mettere in
salvo l’equipaggio condannato, ma una tuta spaziale era fondamentalmente
una bolla d’aria intesa a mantenere in vita chi la indossava.
«Il tubo di attracco» disse. «C’è un modo per sigillarne entrambe le
estremità? Potremmo attaccarlo alla Barb, sigillarlo intorno ad alcune
persone, poi trasferirle sulla Roci.»
«Dovremmo staccarlo dall’alloggiamento nella camera di decompressione»
obiettò Naomi. Una pioggia di proiettili colpì il supporto del cavo mentre
parlava, come una punteggiatura visibile per le sue parole. Un altro degli
ingegneri si allontanò vorticando, con due fori nel pacchetto EVA. Naomi
continuò a parlare, ma Basia non la stava ascoltando.»
«Cosa mi dici dei portelloni d’emergenza?» chiese. «Quelli che sembrano
una bolla di plastica. Sono fatti per trattenere l’atmosfera e fornire ossigeno.»
«Bisognerebbe attaccarli a qualcosa» replicò Naomi.
«E se li attaccassimo uno all’altro?» suggerì Basia. «Sigillo contro sigillo?»
Naomi rimase in silenzio per un lungo momento. Quando riprese a parlare
lo fece in modo lento e misurato, come se stesse pensando mentre parlava.
«Una bolla di supporto vitale.» Basia si rese conto che era passata di nuovo
sul canale generale perché la discussione portata avanti da Havelock tornò ad
aggredirgli gli orecchi. «Signori, abbiamo un’idea. Caricheremo l’equipaggio
della Barbapiccola su capsule di evacuazione formate da due portelloni di
emergenza attaccati uno all’altro. La Roci ne ha soltanto uno, ma se la Barb
ne ha un altro...»
«Mi prende in giro?» chiese una nuova voce, che Basia riconobbe come
quella del capitano della nave cinturiana. «Credo che qualcuno abbia
trasformato il nostro in parti per una distilleria prima ancora che
oltrepassassimo l’Anello.»
«Noi ne abbiamo parecchi» intervenne Havelock. «La Israel è venuta fin
qui trasportando troppo di tutto. Scommetto che ne abbiamo venti in
magazzino.»
«Significa dieci bolle» disse Basia. «Abbastanza per contenere tutto
l’equipaggio per un breve tragitto.»
«Capitano Marwick,» avvertì Koenen «non può dare a questa gente
provviste di vitale importanza della RCE.»
«Marwick,» disse Havelock «non lasci morire cento persone innocenti per
queste stronzate. Non lo faccia.»
«Ah, al diavolo. Cosa possono farmi? Annullare il mio contratto?» replicò
Marwick, poi fece un lungo sospiro. «La Israel si sta avvicinando per
trasferire le bolle di evacuazione. Ordinerò alla squadra addetta ai materiali di
iniziare immediatamente a saldare insieme i portelloni.»
«Capitano,» ringhiò l’ingegnere capo «qui stiamo agendo in base all’ordine
diretto del capo della sicurezza Murtry di mettere fuori uso la nave dei coloni
abusivi. Lei non li aiuterà.»
«Sei un vero stronzo» dichiarò Havelock. «Sei del tutto impazzito?»
«Sparerò a chiunque tenti...» cominciò l’ingegnere capo, poi si interruppe
improvvisamente. Il cavo accanto a Basia si tese al massimo, quasi
strappando dallo scafo della Barb i rimanenti ancoraggi. In basso, un
proiettile di cannone a rotaia saettò attraverso Ilus, aggredito dal fuoco
difensivo delle lune. Uno dei puntini rossi sull’HUD di Basia scomparve.
«Mi dispiace» disse Alex, con l’accento più marcato e strascicato che Basia
avesse mai sentito. «Sono stato io, ma quel tipo mi stava facendo incazzare e
lo avevo sotto tiro. Sono nei guai?»
Ci fu un lungo momento di silenzio, poi il capitano Marwick rispose
soltanto: «L’Israel è in avvicinamento.»
Impiegarono quasi tre ore a fabbricare le bolle improvvisate e a trasferirle
dalla Israel. Basia calcolò il tempo contando le ricariche di ossigeno della sua
tuta, e si rifiutò in modo categorico di rientrare nella Rocinante finché sua
figlia non avesse lasciato il mercantile cinturiano morente. Con una serie di
accelerazioni calcolate con cura, Alex aveva allentato un poco il cavo, e
Basia lo aveva tagliato. Non c’era più motivo di tenere unite le navi.
A uno a uno, i membri della squadra ingegneristica della Israel, trasformati
in miliziani dilettanti, contattarono Havelock e si scusarono per il modo
drammatico in cui la situazione era sfuggita al controllo. I più ne diedero la
colpa all’ingegnere capo. Che fosse o meno l’unico responsabile per
l’escalation che si era verificata, di certo la storia non lo avrebbe ricordato
con benevolenza. Uno degli ingegneri ammise si essere stato lui a sparare il
missile contro la Barbapiccola e si offrì di aiutare Basia a riparare il danno.
Basia si offrì di ucciderlo se solo ci avesse provato e infine convennero
sull’essere in disaccordo.
Anche dopo la consegna dei portelloni di emergenza riconfigurati,
l’equipaggio della Barbapiccola e i coloni impiegarono altre due ore a
caricare i serbatoi d’aria e a sigillare tutti al loro interno. A quel punto, i
computer della Rocinante indicavano che il mercantile doveva essere già in
contatto con gli strati superiori dell’atmosfera. Il conto alla rovescia era
arrivato a zero.
Fluttuando sopra le porte massicce della baia di carico della Barbapiccola,
Basia aspettava che si aprissero e liberassero sua figlia.
Cominciò come una linea di luce bianca che apparve sulla fiancata del
grosso mercantile. Poi, lentamente, le porte si separarono sempre di più a
rivelare l’enorme stiva di carico della nave. Sullo sfondo di migliaia di
tonnellate di litio grezzo in essa fluttuavano ora dieci bolle vagamente
trasparenti. Qualcuno attivò un comando a distanza per aprire la camera di
decompressione della baia di carico, e l’aria della Barbapiccola si riversò
fuori, spingendo con gentilezza davanti a sé e fuori delle porte le dieci bolle.
Esse fluttuarono verso l’alto e lontano dal pianeta, con il vuoto intorno a
loro che le faceva gonfiare completamente, piccole sacche d’aria in cui oltre
una dozzina di persone si potevano nascondere, circondate dalla nebbia
congelata di quella che un tempo era stata l’atmosfera della nave. La stella di
Ilus fece capolino oltre il pianeta, retroilluminando le bolle e trasformando le
persone al loro interno in sagome nere, incredibilmente nitide sullo sfondo
indistinto delle pareti di plastica. Sembravano sagome di cartone davanti a un
riflettore.
Basia fu assalito dal ricordo improvviso di una volta in cui aveva fatto il
bagno a Jacek nel lavandino di cucina, quando era un neonato, e di come lui
avesse fatto un piccolo peto nell’acqua, generando una raffica di piccole bolle
che erano salite in superficie prima di scoppiare. Si mise a ridere fino a farsi
dolere lo stomaco. Era consapevole che era più una risata di sollievo per il
fatto che sua figlia forse sarebbe sopravvissuta che non di ilarità per una
flatulenza di un neonato, ma continuò a ridere comunque.
«Tutto bene, là fuori?» chiese Naomi.
«Hai mai fatto il bagno a un bambino piccolo in un lavandino?»
«Sì.»
«E ha mai fatto un peto?»
«Io non...» cominciò lei, poi capì e scoppiò a ridere insieme a lui.
Dieci cavi di traino furono calati dal portellone aperto della Israel, e Basia
li prese a uno a uno per collegarli alle bolle. Quella di Felcia era l’ultima.
Mentre tirava la striscia all’estremità della fune per attivare l’adesivo, la vide
guardare fuori attraverso la piccola finestra trasparente del portellone. Il sole
si era spostato dietro il pianeta, quindi il visore di Basia aveva perso la sua
opacità, e lui attivò la luce all’interno del casco in modo che lei potesse
vederlo. Il suo volto si illuminò di gioia e la parola papà si formò sulle sue
labbra in modo tanto evidente che lui avrebbe potuto giurare di averla sentita.
«Ciao, piccola» disse, e appoggiò la mano guantata contro la finestra. Lei
fece lo stesso dall’altro lato, piccole dita agili contro le sue, grosse e goffe.
Poi sorrise e indicò alle sue spalle, sillabando un ‘wow’!
Basia si girò a guardare. La Israel aveva cominciato a trainare a bordo le
bolle, una dopo l’altra, una dozzina di umani trascinati attraverso il vuoto
dello spazio dentro un contenitore pieno d’aria appena più largo dello spazio
che occupavano. Quando il cavo della bolla di Felcia cominciò a tendersi,
Basia tenne la mano su di essa finché non si allontanò lentamente da lui. La
sua bambina stava andando al sicuro. Era una cosa temporanea, certo, ma
sarebbe comunque stata al sicuro.
In quel momento avvertì qualcosa di violento come una martellata colpirgli
il petto. Su quelle piccole bolle, ogni singola persona era una Felcia per
qualcuno. Ogni vita salvata riempiva di sollievo e di gioia qualcuno, da
qualche parte. Ogni vita spenta prima del tempo era un altro Katoa.
Qualcuno, da qualche parte, ne avrebbe avuto il cuore spezzato.
Avvertì di nuovo la sensazione del detonatore fra le sue mani, quell’orribile
scatto che gli vibrava contro il palmo quando aveva premuto il pulsante.
Percepì di nuovo la spaventosa onda d’urto quando la piattaforma di
atterraggio era svanita in una fiammata, sentì l’orrore che veniva sostituito
dalla paura mentre una sfortunata combinazione di eventi poneva la navetta
troppo vicina all’esplosione e la faceva precipitare.
Avvertì tutte quelle cose con estrema chiarezza, come se si stessero
verificando in quel momento, ma soprattutto provò dolore. Qualcuno aveva
appena cercato di fare la stessa cosa alla sua bambina, aveva cercato di
ucciderla, non perché la odiasse, ma perché era d’intralcio alla sua
dichiarazione politica. Tutti quelli che erano morti sulla navetta erano stati
una Felcia per qualcuno. E premendo quel pulsante lui li aveva uccisi.
Non era stata sua intenzione farlo. Voleva salvarli. Quella era la piccola
menzogna che da mesi teneva chiusa nel cuore, ma la verità era molto
peggiore. Una parte segreta di lui aveva voluto che la navetta esplodesse,
aveva goduto nel vederla precipitare in fiamme dal cielo, aveva voluto punire
le persone che cercavano di portargli via il suo mondo.
Solo che anche quella era una menzogna.
La verità effettiva, sotto a tutto quanto, era che aveva voluto estendere
intorno a sé il suo dolore. Punire l’universo per essere il posto in cui il suo
bambino era stato ucciso. Punire altre persone perché erano vive mentre il
suo Katoa non lo era. Quella parte di lui aveva guardato bruciare la navetta e
aveva pensato: Adesso sapete cosa si prova. Adesso sapete come mi sento.
Però le persone a cui aveva fatto del male avevano appena salvato sua figlia
perché erano il genere di persone che non potevano lasciar morire
impunemente neppure i loro nemici.
Il primo singhiozzo lo colse di sorpresa, tanto violento da farlo quasi
piegare su sé stesso, poi si ritrovò cieco perché gli occhi gli si riempirono
d’acqua mentre la gola gli si contraeva come se qualcuno stesse cercando di
strozzarlo. Annaspò per respirare, e ogni ansito si trasformò in un altro
sonoro singhiozzo.
«Basia!» gridò Naomi, allarmata. Un momento prima rideva come un
matto, e adesso stava singhiozzando. Doveva averle dato l’impressione di
essere impazzito. «Basia, rispondimi!»
Lui cercò di farlo, di rassicurarla, ma quando aprì bocca le sole parole che
riuscì a pronunciare furono: «Li ho uccisi.»
«No» ribatté lei. «Li hai salvati. Li hai salvati tutti.»
«Li ho uccisi» ripeté lui, riferendosi al governatore, e a Coop e Cate, e alla
squadra di sicurezza della RCE, ma soprattutto a Katoa. Aveva ucciso di
nuovo il suo bambino ogni volta che aveva permesso che qualcun altro
morisse per punirlo della morte del figlio. «Li ho uccisi» ripeté di nuovo.
«Questa volta li hai salvati» ribadì Naomi, come se gli avesse letto nella
mente. «Questi li hai salvati.»
Havelock lo aspettava nella camera di decompressione. Basia sapeva che
doveva aver sentito quello che aveva detto quando i nervi gli avevano ceduto.
Quando Havelock lo guardò provò vergogna, ma anche se aveva il volto
contratto dalla sofferenza, lui non mostrò nessuna traccia di derisione mentre
gli stringeva un braccio, dicendo: «Sei stato in gamba, là fuori.»
Basia si limitò ad annuire, non fidandosi di parlare.
«Guarda» disse Havelock, e indicò lo sportello della camera di
decompressione.
Basia si girò e vide la Barbapiccola lasciarsi dietro una serie di lunghe e
sottili scie bianche. Stava entrando nell’atmosfera di Ilus. Il davanti della
nave cominciò a risplendere.
Havelock chiuse il portellone esterno, ma mentre la camera di
decompressione svolgeva il suo ciclo e si toglievano la tuta, entrambi
seguirono le fasi della morte del mercantile sullo schermo a parete. Alex
tenne i telescopi della Roci puntati su di essa per tutto il tempo. La nave andò
alla deriva per un po’, mentre le scie si trasformavano in fumo bianco con un
cuore nero a mano a mano che lo scafo bruciava.
Quando giunse, la fine fu improvvisa quanto sconvolgente. Lo scafo parve
trasformarsi da un oggetto solido a molti piccoli pezzi incandescenti in un
batter d’occhio, senza transizione. Basia spostò la regolazione del monitor
sull’orologio della morte, per vedere quanto tempo aveva fatto guadagnare a
Felcia.
Quattro giorni. La Israel aveva quattro giorni.
52
Elvi

Elvi sedeva nell’oscurità, con il terminale palmare in mano. Stava


tremando, ed era in preda a paura, rabbia e dolore, come se si fosse trovata di
nuovo nel bel mezzo della tempesta. Adesso però non poteva indulgere in
quelle sensazioni, non ne aveva il tempo. Doveva riflettere.
Naturalmente, lo schermo non le offriva mappe di sorta, non c’erano i
risultati di un’esplorazione di quel complesso da cui attingere, e se pure ci
fossero stati lei non aveva una connessione con la Israel, sempre ammesso
che la nave fosse ancora in orbita e nel frattempo non fosse precipitata,
bruciando con tutti quelli che c’erano a bordo e...
Non poteva permettersi di pensarci in quel momento. Doveva riflettere. La
struttura, le rovine, qualsiasi cosa fosse quel posto, doveva avere
un’ampiezza di almeno sette o otto chilometri quadrati. Loro erano entrati
nelle rovine vicino a dove avevano rilevato per l’ultima volta il segnale
corrispondente a Holden, ma c’era una quantità di terreno da esplorare. Il
localizzatore sul suo terminale indicava soltanto i nodi locali, gli altri due
presenti erano Fayez e Murtry, ed entrambi si erano fatti grigi. Significava
che non era in linea visiva con loro, il che era un bene perché voleva anche
dire che dovunque si trovasse, Murtry non poteva vederla, ma era anche un
male perché non le permetteva di sapere dove lui si trovasse. Era una
diagnostica di basso livello, del genere che creava al volo una rete di
indirizzamento, e lei l’aveva regolata in modo da ottenere un nuovo percorso
ogni volta che il terminale effettuava una connessione, e per essere avvertita
quando lo faceva. Non era molto, ma le avrebbe dato un minimo di
avvertimento quando Murtry fosse stato nelle vicinanze. Quando fosse stato
nel suo campo visivo. Quando avrebbe potuto spararle come aveva fatto con
Amos e probabilmente con Fayez, che adesso erano morti, e quella era
un’altra cosa a cui non poteva permettersi di pensare. Doveva riflettere su
come trovare Holden. Doveva trovarlo, avvertirlo, impedire a Murtry di
fermarlo. Trasse un profondo respiro e sollevò lo sguardo. Era difficile
ottenere una visuale sgombra dal terreno, ma lo spazio sopra di lei era vasto e
aperto. Se fosse riuscita a trovare un punto sopraelevato, il suo terminale
palmare avrebbe individuato Murtry, e se non avesse potuto trovare il suo
amico, quantomeno avrebbe individuato la posizione del nemico. Era una
procedura base per la soluzione di problemi. Se non hai i dati necessari, usa
quelli che hai e vedi se riesci a tirarne fuori qualcosa. In quel modo era
riuscita a superare tre semestri di calcolo combinatorio. D’accordo.
Il suo corpo continuava a tremare, era ancora debole, e si sentiva la mente
appannata. Colpa dell’adrenalina e della fame e di Fayez che probabilmente
era morto e lei non poteva permettersi di provare qualcosa al riguardo. Si
ficcò in tasca il terminale e si guardò intorno alla ricerca di un modo per
salire più in alto. Lì non c’era nulla costruito per una forma umana, niente
scale o passerelle con comode ringhiere a cui tenersi. Era come un vasto
corpo, o meglio un vasto corpo che fosse stato trasformato per metà in una
macchina. Corse silenziosamente, cercando di fare meno rumore possibile
ogni volta che posava i piedi. Sulla destra c’era un insieme di condotti che si
sollevavano dal pavimento e lei si arrampicò su di essi, incastrando piedi e
pugni negli stretti spazi fra i tubi e issandosi sempre più in alto. C’erano così
tante altre persone che se la sarebbero cavata meglio di lei. Fayez era più
forte, e Sudyam scalava montagne, sulla Terra. Lei non amava in modo
particolare arrampicarsi sugli alberi, tantomeno su una strana rete di
macchinari alieni, ma continuò a salire senza guardarsi indietro. Senza
guardare in basso.
La struttura era vasta, e il chiarore soffuso che permeava ogni cosa faceva
apparire strano tutto quello spazio, come qualcosa uscito da un sogno. Si
appollaiò in una rientranza dove due di quei condotti, o arterie, si
incontravano, incastrando una gamba nell’apertura, poi tirò fuori il terminale.
Mentre saliva, l’allarme di rete aveva suonato due volte e lei non se ne era
accorta. Murtry si era trovato per due volte nel suo campo visivo, un pensiero
che le generò un senso di soffocamento in gola. Controllò i tempi di risposta.
Due millesimi di secondo? Non poteva essere esatto. Le onde radio si
muovevano alla velocità della luce, ma erano nell’aria, il che significava...
cosa? Tre volte dieci all’ottava potenza? Qualcosa del genere, e comunque un
numero abbastanza vicino da non fare differenza. Questo aveva posto Murtry
a una distanza di mezzo milione di metri circa. Nei terminali doveva esserci
una specie di ritardo di elaborazione che...
Sullo schermo apparve un altro messaggio e il cuore le balzò in gola.
Connessione respinta. Fissò interdetta quel messaggio. Perché il terminale di
Murtry aveva accettato la connessione mentre si arrampicava e la rifiutava
adesso che si era fermata? Non aveva senso. Un altro messaggio: connessione
rifiutata. Elvi sentì nascere dentro di lei qualcosa di simile alla speranza:
quello non era Murtry, era qualcun altro, qualcuno che non era ammesso
nella magica cerchia delle reti accettate dalla RCE.
Era Holden.
Protese il collo, come se avesse potuto trovarlo semplicemente guardandosi
intorno, ma la struttura era troppo grande. Pensò di lanciare un richiamo, ma
non c’era motivo di pensare che lui la potesse sentire, e anche se lo avesse
fatto, c’era comunque Murtry nelle vicinanze.
Murtry. Quella era un’idea. Riaprì l’interfaccia di indirizzamento del
terminale palmare. Erano passati anni dall’ultima volta che aveva usato i
protocolli di rete. La maggior parte delle sue attività si era limitata a
segnalare le proteine nelle cellule e il loro comportamento. La gamba
cominciava a formicolarle dove il peso la premeva in mezzo ai tubi. C’era un
modo per ottenere una copia del registro delle connessioni di Murtry. Doveva
solo ricordarsi come attivare la distribuzione dei registri.
Qualcosa produsse un suono metallico nella struttura, e gli echi
riverberarono attraverso il vasto spazio come un urlo in una cattedrale. Elvi si
chiese se Murtry avrebbe potuto vedere la luce del suo schermo, lassù,
qualora avesse guardato in alto, e attese. Attese. L’allarme suonò. Murtry si
era connesso. Elvi chiuse gli occhi. D’accordo, pensò. Ora vattene. Vai via.
L’allarme cessò e lei richiamò a schermo i registi. Adesso c’erano anche
quelli di Murtry, e uno soltanto dei messaggi contenuti in essi era una
connessione rifiutata. Era come trovarsi di nuovo a un corso di matematica.
Posizionare un’esobiologa spaventata a quattro metri di altezza dal terreno e
un uomo della sicurezza violento e predatorio al livello del suolo e in linea
diretta rispetto a lei rispettivamente ai punti a, b, e c. Al punto d il predatore
ha respinto una connessione con uno scarto temporale di poco inferiore ai due
decimi di secondo perché quel dannato, fottuto ritardo nell’elaborazione
alterava i tempi del segnale e rendeva tutto...
Però il ritardo doveva essere lo stesso, giusto? Rimuovere la differenza...
Il mondo parve scomparire mentre le sue dita digitavano sullo schermo,
passando a un display di calcolo, estraendo numeri dai registri,
organizzandoli in diagrammi. La paura, il dolore e il puro terrore animalesco
erano ancora presenti, ma erano soltanto messaggi e poteva ignorarli. La
gamba cominciò a farle male, poi a perdere sensibilità. Cambiò posizione di
qualche centimetro, finché essa ricominciò a dolere.
Holden si era trovato a centodieci metri da lei e a centocinquanta da Murtry.
Poteva calcolare dove Murtry si era trovato in base ai contatti che aveva
stabilito con lei. Era una sorta di trigonometria di base in cui ottenere un
risultato sbagliato equivaleva a morire. Supponendo che lei non avesse
sbagliato le equazioni e che il ritardo di elaborazione dei terminali fosse
identico, Holden si trovava approssimativamente nel complesso di svincoli al
centro della struttura, dove tutti i condotti convergevano in qualcosa di simile
a un’enorme ala nera. Elvi spense il terminale e si avviò per scendere.
Quando raggiunse una superficie su cui poteva camminare la gamba levò fitte
di protesta unite a un pungente formicolio, ma lei ignorò la cosa e prese a
zoppicare più in fretta che poteva verso il punto di riferimento che aveva
individuato. Ormai non le importava più di Murtry. Aveva qualcosa su cui
focalizzarsi.
Avanzare non era tanto come procedere in un vasto complesso industriale
quando aprirsi un varco senza un machete attraverso un’enorme foresta. Si
insinuò nelle fenditure fra strutture scure che erano in pari misura crescita
organica e macchine, si curvò e si arrampicò, e una volta dovette gettarsi
prona e strisciare. Era ormai certa che sarebbe arrivata a destinazione e che
avrebbe almeno scoperto se i suoi calcoli erano stati esatti, quando avanzò su
una piatta sporgenza e per poco non precipitò in un abisso.
Dal basso giungeva un rombo sordo e la profondità era di forse un centinaio
di metri. Laggiù c’era una piccola fascia di luci che si spostavano di continuo,
vorticando prima in una direzione e poi nell’altra prima di procedere oltre.
L’abisso fendeva il pavimento della struttura su entrambi i lati e fino alle
distanti pareti laterali. Una rete di condotti si stendeva sopra di esso, e larghi
collegamenti simili a tendini coprivano la distanza molto più in basso. Si
avviò lungo il bordo, scavalcando informi escrescenze bianche che parevano
germogliare dalle profondità. Le ci vollero pochi minuti a trovare una
struttura che valicasse l’abisso, ma non si trattava di un ponte.
Essa era perlopiù piatta, anche se i bordi si inclinavano verso il vuoto, e la
sua superficie era una rete metallica che sovrastava quella che sembrava una
lingua lunghissima. Non esisteva niente di simile a una ringhiera, e quando
avanzò sulla struttura la lingua reagì alla sua presenza, sussultando e
ondeggiando come se stesse cercando di trascinarla in avanti. Allargò le
braccia per mantenere l’equilibrio e attraversò in fretta la spaccatura. Due
metri, quattro, cinque, e si ritrovò dall’altra parte, dove si appoggiò alla
parete con la testa fra le mani, fino a quando il senso di vertigine non fu
passato. La vasta struttura simile a un’ala era quasi direttamente sopra di lei,
ma adesso che era vicina poteva vedere che era più complessa, un insieme di
migliaia di escrescenze intrecciate fra loro, con profonde spirali che si
intersecavano e un movimento di cui non riusciva a identificare la fonte.
Si spostò sul lato opposto della sporgenza e imboccò la cosa più simile a un
passaggio che avesse visto da quando era fuggita nel buio. Il condotto si
spostò prima a sinistra e poi a destra, e lei lo seguì, scegliendo il percorso con
la sola guida delle congetture e della speranza. Le proporzioni fra pavimento,
pareti e soffitto la disturbavano in qualche modo, anche se non avrebbe
saputo dire come. Minuscoli bagliori di luce azzurra simili a lucciole
scintillavano nel buio tutt’intorno a lei per poi scomparire subito. Seguì
un’ampia svolta del condotto finché essa sbucò in una camera.
Elvi urlò.
Holden era a meno di tre metri di distanza da lei, con un’enorme cosa
insettoide che incombeva su di lui, tutta pinze affilate che si protendevano e
spuntoni simili a daghe che riflettevano la vaga luce spettrale. Si premette le
nocche contro la bocca, incapace di distogliere lo sguardo da Holden nei suoi
ultimi momenti di vita.
Il manufatto si girò verso di lei, si soffermò per un istante, poi sollevò una
chela come in un gesto di saluto. Holden agitò a sua volta una mano.
«Elvi?» disse. «Cosa ci fa qui?»
«Io ero... noi eravamo...» Elvi si accasciò in ginocchio, il sollievo che le
scorreva come acqua per tutto il corpo. Trasse un profondo respirò e cercò di
nuovo di spiegarsi. «Quando lei è scomparso, Murtry ha preso uno dei
carrelli e ha seguito il segnale del suo terminale palmare. Sa che sta cercando
di disattivare tutti i manufatti.» Si sentì assalire da una fitta di panico e
sollevò lo sguardo su quella cosa munita di chele e artigli.
«È tutto a posto, ragazzina» disse quella cosa simile a un robot, con un
metallico accento cinturiano. «Per me non è una novità»
«Amos, Fayez e io abbiamo preso l’altro carrello funzionante e li abbiamo
seguiti. Per avvertirla.»
«Okay» disse Holden. «È stata grande. Adesso andrà tutto bene. Come ci ha
trovati?»
Elvi sollevò il terminale palmare, trasse un respiro, esalò il fiato. «È
complicato.»
«Capisco. Cosa mi dice di Amos? Dov’è?»
«Murtry gli ha sparato. Credo sia morto.»
Holden impallidì, poi tornò a riprendere colore e scosse il capo. Quando
parlò la sua voce era lenta, le parole calibrate. «Amos non è morto.»
«Come fa a saperlo?»
«Se fosse morto, vorrebbe dire che tutti gli altri sono già morti. Noi siamo
ancora vivi, quindi lo è anche lui.»
«Non prestargli molta attenzione» intervenne il robot mostruoso. «Tende a
diventare romantico riguardo a queste cose. Se dici che il tizio calvo è morto,
io ti credo.»
«Grazie» rispose automaticamente Elvi.
«Però mi dispiace. Mi piaceva.»
«Piaceva anche a me» replicò Elvi. «E Fayez. Ho sentito gli spari, mentre
fuggivo. Credo che Fayez...»
«Che ne è di Murtry?»
«Sta arrivando. È alle mie spalle, non so quanto lontano, ma sta venendo a
cercarla. A fermarla.»
«Perché cazzo dovrebbe fermarmi?» ringhiò Holden, sputando ogni singola
parola.
«Vuole che la RCE recuperi i manufatti ancora funzionanti.»
«Quell’uomo è un vero idiota» dichiarò l’alieno. «Noi però abbiamo già
parecchio daffare così com’è. Ci siamo vicini.»
«Vicini a cosa?» domandò Elvi.
«Questa è la domanda» convenne l’alieno. Adesso però lo sguardo di
Holden era fisso oltre la spalla di Elvi, e la sua mascella era rigida per l’ira.
«D’accordo» disse. «Ci sono due cose che dobbiamo fare.»
«Davvero?» ribatté l’alieno. Elvi si rese infine conto che stavano parlando
con un alieno, e pensò che era una cosa notevole, sentendosi un po’ confusa
per il fatto che Holden non avesse fatto commenti al riguardo.
«Qualcuno deve trovare quel qualcosa e disattivare le difese planetarie, e
qualcuno deve sparare a Murtry.»
«Non posso dissentire» affermò l’alieno, spostando il proprio peso sulle sei
zampe articolate. «Una di quelle due cose mi sembra un po’ più importante.»
«Anche a me, ma non credo si tratti della stessa» ribatté Holden. «Elvi, ho
bisogno che lei provveda a salvare tutti, d’accordo?»
«Uh» fece lei. «D’accordo?»
«Bene. Questo è il detective Miller. È morto quando Eros ha colpito
Venere, e adesso è una marionetta manovrata dalla protomolecola.»
«Sono semiautonomo» precisò l’alieno.
«Piacere di conoscerti.»
«Lo stesso per me.»
«Okay» affermò Holden. «Allora io vado a occuparmi dell’altra cosa.»
Con sorpresa e disagio di Elvi, si allontanò lungo il passaggio che lei aveva
usato. La cosa aliena si schiarì la gola con fare di scusa, solo che Elvi era
certa che non avesse una gola, per cui quel suono doveva essere soltanto una
sorta di strumento conversazionale.
«Mi dispiace» affermò poi l’alieno... Miller. «A volte è impossibile
parlargli, quando si mette in testa un’idea.»
«Non importa» rispose Elvi. «Allora... um...»
«Giusto, salvare tutti su questo mondo. Seguimi, ragazzina, mentre ti metto
al corrente.»
«Quindi si tratta di consapevolezza distribuita» affermò Elvi, mentre
seguiva Miller oltre una bassa arcata. Si sentiva stordita, e non solo per la
fame. Fayez era morto. Amos era morto. Lei sarebbe morta. Era su un mondo
alieno e stava parlando con un uomo morto che indossava un robot alieno.
Quella parte di lei che poteva avvertire sensazioni era in sovraccarico,
disattivata. Il suo cuore era una cosa intorpidita dietro le costole e non aveva
idea di chi, o cosa, lei sarebbe stata, quando – se – esso avesse ripreso a
funzionare.
«Solo che non è proprio consapevole» rispose Miller. «In esso ci sono nodi
di consapevolezza, ma non sono loro a gestire le cose. Io non sono neppure
uno di essi. Sono un costrutto basato su un tizio morto, solo che sono
strutturato in modo da somigliargli moltissimo, e lui era una sorta di bulldog
quando si trattava di questo genere di cose. Almeno lo è stato alla fine.»
«Quindi tu sei consapevole?»
Il robot alieno – il corpo che il costrutto Miller stava utilizzando – scrollò le
spalle. Per Elvi fu strano vedere la precisione con cui la macchina tradusse
quel gesto. «Non lo so, però mi pare di aver superato il mio test di Turing.»
Elvi ci pensò su, poi annuì. «Mi sembra giusto.»
«Dunque, io ho... ecco, ho più o meno triangolato la posizione del punto
morto nello spazio, se capisci cosa intendo.»
«Certo, sì. Triangolazione. Lo capisco benissimo» replicò Elvi. «Quindi
adesso siamo a quattro.»
«Quattro?»
«La nostra biosfera, gli organismi locali, le cose che hanno creato i portali,
e la cosa che le ha uccise. Quattro.»
Miller si fermò davanti a una giuntura nella parete, posò le chele su di essa
e si preparò a spingere. «Qui dentro c’era uno dei principali centri di
controllo del pianeta. È come... come un ammasso di nervi, o qualcosa del
genere. Per quanto sono riuscito a stabilire, il punto morto è qui dentro.»
Spinse. La parete non si ritrasse, non scivolò indietro, ma piuttosto cambiò
conformazione. Al di là di essa si aprì uno spazio vasto in larghezza e altezza.
Centinaia di nicchie si levavano un livello dopo l’altro, una sopra l’altra,
ciascuna contenente un meccanismo simile a Miller. Punti di vivida luce
azzurra, simili a lucciole, vorticavano nell’aria in schemi a spirale,
cavalcando correnti che Elvi non era in grado di avvertire. E nel centro,
fluttuante a un metro dal pavimento, c’era...
Elvi distolse lo sguardo, appoggiando una mano sul fianco di Miller per
mantenere l’equilibrio, poi si costrinse a guardare di nuovo. I margini dello
spazio erano luminosi senza rischiarare niente o proiettare ombre, una luce
tagliente e terribile che le ricordava come gli schizofrenici o le persone che
soffrivano di emicrania tendessero a descrivere la luce come qualcosa di
aggressivo e pericoloso. E dentro quei confini vorticava l’oscurità. Essa era
qualcosa di più di un’assenza, poteva percepire al suo interno una struttura,
strati che si interpenetravano, come ombre che generassero ombre. La cosa
pulsava di un potere inumano, in ondate profonde e dolorose. Se lo guardo
troppo a lungo, pensò Elvi, la mia mente ci si perderà dentro. Avanzò di un
passo, e sentì le strutture all’interno dell’oscurità che reagivano alla sua
presenza, le parve di poter vedere gli spazi fra le molecole, nell’aria, come se
gli atomi stessi fossero diventati una nebbia sottile e per la prima volta lei
potesse vedere la vera forma della realtà incombere appena fuori della sua
portata.
Un tempo lì c’era stata una civiltà che andava al di là di qualsiasi cosa lei
avesse mai immaginato, esseri capaci di progettare strumenti come la
protomolecola, o gli anelli. Essi avevano popolato un migliaio di mondi e più,
si erano diffusi attraverso il tempo e lo spazio, e adesso erano scomparsi. E
quella che aveva davanti, ne era certa, era l’impronta lasciata da ciò che li
aveva uccisi.
«Allora» disse Miller, allargando le chele in un ampio gesto «bisogna
cercare qualcosa di strano. Qualcosa che non sembri armonizzare con il
resto.»
Elvi si girò verso di lui, confusa, e indicò quella strana cosa nel centro della
stanza. «Vuoi dire come quella?»
Miller cambiò posizione, gli occhi alieni che spostavano le loro lenti
all’interno del complesso meccanismo. «Come cosa?»
«Quella cosa nel centro della stanza. Là.»
«Io non vedo niente» replicò Miller. «Che aspetto ha?»
«Come l’occhio di un dio furente?» suggerì Elvi.
«Oh» disse Miller. Le pesanti piastre del suo corpo robotico ticchettarono e
sibilarono nello sfregare una contro l’altra quando si mosse. «Sì, allora
probabilmente è proprio quella. Hai fatto un buon lavoro.»
53
Holden

Quando si insinuò nell’apertura fra i macchinari e attraversò la sporgenza


che portava allo stretto ponte, Murtry trovò Holden che lo aspettava dall’altra
parte, la mano appoggiata con noncuranza sul calcio della pistola. Il capo
della sicurezza della RCE gli rivolse un vago cenno del capo, poi esaminò con
attenzione l’ambiente circostante. Abbassò lo sguardo sul precipizio di un
centinaio di metri e batté con cautela la punta di uno stivale su quello stretto
ponte simile a una lingua. Infine girò lentamente su sé stesso, scrutando con
attenzione nelle nicchie create dai macchinari. Quando ebbe finito, riportò lo
sguardo su Holden e gli elargì quel suo piatto sorriso inespressivo. Holden
notò che anche lui aveva la mano vicina alla propria arma.
«Sei venuto da solo» osservò Murtry. «Il piano migliore è lasciare una
persona allo scoperto e piazzarne un’altra nascosta alle spalle del bersaglio.»
«È il piano che usi tu?» ribatté Holden, cercando di imitare la disinvolta
noncuranza di Murtry. Gli parve di esserci quasi riuscito.
«Funziona» annuì Murtry. «Allora, cosa facciamo adesso?»
«Era quello che mi chiedevo anch’io.»
«Bene» commentò Murtry, con una scrollata di spalle quasi impercettibile.
«Io devo venire lì e fermare quello che voialtri state escogitando. La
dottoressa Okoye pare pensare che lei intenda disattivare la rete difensiva del
pianeta.»
«Già,» confermò Holden «è più o meno la mia intenzione. Io lo chiamo
salvare delle persone.»
Murtry annuì, ma per un momento rimase in silenzio. Holden aspettò che
portasse la mano alla pistola. La distanza che li separava, l’ampiezza
dell’abisso, era di poco più di cinque metri. A quella distanza, era un tiro
facile, ma diventava meno facile se ci si doveva affrettare perché l’avversario
ti sparava addosso. La luce era buona, e Murtry non indossava un casco.
Valeva la pena di rischiare un tiro alla testa? L’armatura di Murtry appariva
piuttosto malconcia, e a giudicare dallo schema del danno Holden sospettò
che fosse opera del fucile automatico di Amos. Un tiro al petto era più facile,
ma era possibile che il danno riportato dall’armatura fosse più che altro
estetico, nel qual caso la sua pistola non avrebbe ottenuto nessun risultato.
Murtry gli strizzò l’occhio, e d’un tratto Holden ebbe la sensazione che gli
stesse leggendo nella mente mentre lui valutava quale fosse il modo migliore
per ucciderlo. «Non posso permettere che succeda» affermò poi Murtry, con
una scrollata di spalle che era quasi di scusa. «In base alla concessione, tutto
questo appartiene alla RCE. Non puoi disattivarlo.»
Holden scosse il capo in un gesto di incredulità. «Sei davvero pazzo. Se non
lo disattivo, le nostre navi precipiteranno dal cielo e moriremo tutti.»
«Può darsi. Forse moriremo, o forse troveremo un altro modo per restare
vivi. In ogni caso, la rivendicazione della RCE continua a essere valida.»
Murtry agitò una mano – non quella vicina alla pistola – per indicare la
stanza circostante. «Intatto, tutto questo vale migliaia di miliardi. Abbiamo
fatto incredibili progressi nella scienza dei materiali soltanto guardando gli
anelli. Cosa potrà fare per noi una tecnologia funzionante? È per questo che
siamo venuti qui, capitano. Non spetta a te decidere cosa farne di tutto
questo.»
«Migliaia di miliardi» ripeté Holden, incapace di reprimere l’incredulità che
gli traspariva dalla voce. «Non ho mai visto un morto spendere denaro.»
«Certo che lo hai visto. Lo chiamano una fondazione, o un lascito. Succede
di continuo.»
«Tutto questo solo per poter fare un lascito?»
Il sorriso di Murtry si allargò di un millimetro.
«No» rispose. «Sono venuto per conquistare un nuovo mondo, ed è così che
si fa. Capisco che quanto sto facendo ti appaia crudele e inflessibile, ma è ciò
che la situazione richiede. Gli strumenti che usi tu sono quelli che permettono
di funzionare una volta che la civiltà prende il sopravvento, ma sono sbagliati
per questo tipo di lavoro. Non mi faccio illusioni su quello che ci vorrà per
ricavare un posto in cui vivere da questa nuova frontiera. Ci vorranno
sacrifici e sangue, e qui dovranno succedere cose che non faremmo dove tutto
è controllato e regolato. Tu credi invece che si possa procedere usando
riunioni di comitato e comunicati stampa.»
«Mi chiedo se le persone che attualmente stanno morendo in orbita
troveranno valido questo ragionamento.»
«Mi dispiace per loro, davvero, ma conoscevano i rischi quando si sono
imbarcati. E la loro morte avrà un significato» dichiarò Murtry.
«Un significato?»
«Loro sono il segno che non abbiamo ceduto di un centimetro, che abbiamo
mantenuto il possesso di ciò per cui siamo venuti qui fino all’ultimo respiro.
Questo non è qualcosa che l’umanità possa fare a mezzo, capitano, non lo è
mai stato. Perfino Cortez ha bruciato le sue navi.»
La risata di Holden espresse in pari misura incredulità e disprezzo. «Cos’è
che porta voialtri a idolatrare gli autori di genocidi?»
Murtry si accigliò. Un vortice di intense luci azzurre si levò e cadde in
mezzo a loro, come polvere sospinta dal vento su una strada deserta.
«Cosa vuoi dire?»
«Un tizio che conoscevo, una volta ha cercato di giustificare le sue scelte di
vita paragonandosi a Gengis Khan.»
«Devo dedurre che tu non abbia trovato valida la sua argomentazione?»
sogghignò Murtry.
«No» confermò Holden. «E un mio amico gli ha sparato in faccia.»
«Un modo ironico di confutare una tesi a favore della violenza necessaria.»
«A quel tempo l’ho pensato anch’io.»
Murtry sollevò la mano sinistra per grattarsi la testa, e i suoi corti capelli
unti si spostarono fino ad assumere una configurazione che ricordava
vagamente il carapace di Miller, una scultura fatta di curve e spuntoni. Si
guardò con disgusto la punta delle dita e le pulì sull’armatura. Holden
continuò ad attendere. Da qualche parte dietro di loro si levò uno strano
suono ciangottante che faceva pensare alle cicale in un pomeriggio estivo.
«Allora,» disse infine Murtry «devo venire da quella parte.» Accennò con il
mento al lato dell’abisso su cui si trovava Holden, la mano destra sempre
sospesa sulla pistola.
«Niente da fare» replicò Holden.
Murtry annuì, come se se lo fosse aspettato. «Intendi arrestarmi, sceriffo?»
«A dire il vero, stavo pensando di spararti.»
«In faccia, senza dubbio.»
«Se è quello che riesco a colpire.»
«Mi sembra un cambiamento radicale, per un uomo che vuole domare la
frontiera con la mediazione e le riunioni» osservò Murtry.
«Oh, no, quello non c’entra niente adesso. Elvi sostiene che hai ucciso
Amos. Non farei fuori una sola persona per la tua fottuta frontiera, ma per il
mio equipaggio? Oh, sì, ti ucciderò per questo.»
«Dicono che la vendetta sia priva di soddisfazione.»
«È la prima volta che ci provo,» ribatté Holden «quindi mi perdonerai se
non ho un’opinione al riguardo.»
«Cambierebbe le cose se il tuo ragazzo non fosse morto? Quando l’ho
lasciato stava ancora sparando.»
Holden fu assalito da un’ondata di sollievo tanto intensa che per poco non
si piegò su sé stesso. Se Murtry avesse estratto la pistola e fatto fuoco in quel
momento lo scontro si sarebbe concluso subito, ma lui riuscì a rimanere
impassibile in volto e a impedire alle ginocchia di cedergli.
«È ferito?»
«Direi proprio di sì, e piuttosto gravemente. Ha ucciso uno dei miei, prima
di cadere a sua volta. Per essere un tizio che vuole risolvere i problemi senza
ricorrere alla violenza, viaggi in compagnia di gente pericolosa.»
«Già» convenne Holden, incapace di trattenere il sorriso che gli affiorò sul
volto. «Lui però è un meccanico eccezionale. Che ne è di quell’altro?
Fayez?»
«A terra, ma non morto. Non ho potuto finirlo prima che il tuo ragazzo si
rimettesse a sparare. Nessuno dei due era in grado di muoversi, quindi me ne
sono andato.»
Quella spiegazione così pratica del perché non aveva ucciso Fayez raggelò
il sangue di Holden.
«Quindi, ecco una proposta» continuò Murtry. «Io ti permetto di venire da
questa parte, così puoi andare a controllare le condizioni del tuo uomo,
Amos. E puoi anche evitare che quel cervellone muoia dissanguato. Hai la
mia parola che non interferirò.»
«Però,» replicò Holden «tu intanto passi da questa parte e impedisci a Elvi
di fare quello che ho bisogno che faccia.»
«Mi sembra uno scambio equo.»
Holden smise di tenere la mano appoggiata sul calcio della pistola e la
chiuse intorno a esso, girando il corpo e mettendo i piedi in posizione. Murtry
assunse un’espressione leggermente accigliata.
«No» dichiarò Holden, e attese che la sparatoria cominciasse.
«Capisco» disse Murtry, senza muoversi affatto. «Sai cos’è che la gente
dimentica sempre riguardo al nuovo mondo?»
Holden non rispose.
«La civiltà ha un ritardo integrato, come quello della luce. Noi voliamo fin
qui, fino a questo nuovo posto, e siccome siamo civili, pensiamo che la
civiltà venga con noi, ma non è così. La costruiamo. E mentre la stiamo
costruendo un sacco di persone muoiono. Credi che il west americano sia
nato già completo di ferrovie, uffici postali e prigioni? Tutte quelle cose sono
state costruite, e il prezzo è stato di migliaia di vite. Sono state costruite sui
cadaveri di tutti quelli che c’erano prima dell’arrivo degli spagnoli. Non si
può avere una cosa senza l’altra, e sono le persone come me che fanno il
lavoro. Quelle come te arrivano dopo. Tutto questo?» Murtry agitò la sinistra
a indicare sé stesso e Holden. «Questo è successo perché tu sei arrivato
troppo presto. Torna dopo che avremo costruito un ufficio postale, e ne
riparleremo.»
«Hai finito?» chiese Holden.
«Devo dedurne che questo è il nostro giorno» rispose Murtry. «Non c’è
altra via che questa? Anche se non ho ucciso il tuo uomo?»
«Forse hai ucciso Amos e Fayez, e forse non lo hai fatto. Forse hai ragione
riguardo alla frontiera e io sono soltanto un idiota ingenuo. Forse ogni
persona che hai ucciso su questo mondo se lo meritava e hai sempre avuto
ragione.»
«Ma tu hai delle persone in orbita, e salvarle è la sola cosa che conti?»
«Stavo per dire ‘ma sei un emerito stronzo’» ribatté Holden. «Comunque
anche l’altra affermazione è valida. Non attraverserai questo ponte.»
«Benissimo, allora.» Murtry cambiò posizione e socchiuse gli occhi. Il
ciangottio salì di tono. Sotto di loro, le lucciole generate dalla protomolecola
vorticarono e tremarono. «Benissimo.»
Holden gli sorrise. «Fatti sotto, Black Bart» disse, imitando l’accento
strascicato di Alex. «Hai sempre saputo che sarebbe finita così.»
Murtry rise. «Sei divertente...»
Holden gli sparò.
Murtry barcollò, serrandosi il petto e armeggiando per impugnare la pistola,
ma Holden gli piantò il secondo proiettile nel braccio destro. Aveva mirato al
gomito, ma riuscì soltanto a centrare il bicipite. In ogni caso il risultato fu lo
stesso, perché Murtry lasciò cadere la pistola sul ponte, davanti a lui. Quando
poi si chinò su un ginocchio per cercare di recuperarla, Holden gli sparò a
una gamba, e Murtry crollò in avanti, facendo precipitare l’arma nell’abisso.
Poi anche lui cominciò a scivolare oltre il lato del ponte, ma riuscì a
protendere il braccio sinistro sulla rete di metallo e ad arrestare la propria
caduta.
L’intero scontro non era durato più di tre secondi.
Mentre l’eco dell’ultimo sparo si dissolveva in lontananza, Holden avanzò
sul ponte, la cui strana muscolatura gli premette contro la pianta dei piedi.
Murtry era aggrappato alla rete con la mano sana, e sebbene avesse il volto
contratto dal dolore riuscì ancora ad abbozzare un sorriso beffardo.
«Hai le palle necessarie per finire il lavoro, ragazzo?» chiese. «Oppure
lascerai che ci pensi la forza di gravità?»
«Oh, no» ribatté Holden, inginocchiandosi per afferrargli il polso sinistro e
issarlo oltre l’orlo del ponte. «Non intendo ucciderti, almeno finché non saprò
per certo come sta Amos.»
Lasciò quindi il ponte portandosi sul lato dell’abisso su cui si trovava
Murtry e lo trascinò fino a quando il suo torso si venne a trovare sulla
sporgenza. Murtry riuscì a strisciare per il resto della distanza aiutandosi con
il braccio sano.
«E poi cosa farai?» ansimò, disteso supino accanto all’abisso mentre
cercava di riprendere fiato. Una piccola pozza di sangue gli si stava formando
sotto il braccio destro e la gamba sinistra.
«Ti porterò indietro» spiegò Holden, sedendosi accanto a lui e battendogli
un colpetto cameratesco sulla testa. «E ti distruggerò in pubblico, dando tutta
questa storia in pasto ai notiziari. Poi ti butteremo in un buco tanto profondo
che tutti si dimenticheranno che tu sia mai esistito. Niente fama e gloria per
te, Cortez. Questa volta Montezuma non si è lasciato impressionare dai tuoi
bastoni di fuoco.»
«Tutto quello che ho fatto era entro i limiti della concessione delle Nazioni
Unite» ribadì Murtry. «Ho agito in modo responsabile per proteggere i
dipendenti e gli investimenti della Royal Charter Energy.»
«D’accordo» annuì Holden, mentre tirava fuori il kit medico e spruzzava un
bendaggio sulle due ferite sanguinanti di Murtry. «Quindi hai già preparato la
tua strategia di difesa. È un modo di pensare intraprendete, e gli avvocati
saranno lieti di sentirlo. Ti va di conoscere la mia strategia?»
«Certo» ribatté Murtry, e intanto provò a tastare la ferita al braccio. Fece
una smorfia di dolore, ma non ci furono perdite di sangue.
«La persona più potente della Terra mi deve un favore, e ho intenzione di
dirle che tu sei uno stronzo che ha fatto del suo meglio per farla apparire in
una cattiva luce. Al momento, questo è solo un abbozzo del mio piano, ma
credo che abbia del potenziale.»
«Questa è quella che consideri giustizia?»
«Sì, a quanto pare.»
Murtry aprì la bocca per ribattere, ma qualsiasi cosa fosse stato sul punto di
dire andò persa quando nella fabbrica si scatenò il caos. Un muro di farfalle
azzurre saettò fuori dall’abisso accanto a loro e attraversò lo spazio cavernoso
della fabbrica per scomparire nelle piccole bocchette di ventilazione presenti
nelle pareti. Tutt’intorno, l’aria si riempì della massiccia cacofonia delle
macchine che entravano in funzione. Vicino al soffitto qualcosa volò fuori
dall’ombra e scese in picchiata passando vicino alla testa di Holden che si
gettò sopra Murtry, senza neppure registrare l’ironia del fatto che stava
usando il proprio corpo per proteggere l’uomo a cui aveva appena sparato tre
volte.
«Cosa succede?» chiese Murtry.
«Elvi» rispose Holden. «È Elvi.»
54
Elvi

«Sì, ho un piano,» dichiarò Miller, che pareva soddisfatto «ma avrò bisogno
del tuo aiuto. Mi devo avvicinare il più possibile a quel chissà-che-diavolo-è.
Tu riesci a vederlo, io no, quindi dipende tutto da te.»
«D’accordo» rispose Elvi. «Cosa... cosa intendi fare?»
Il robot scrollò le spalle. «Ogni volta che noi... io... ecco, hai capito cosa
intendo... ogni volta che qualcosa si protende lì dentro muore. Questa cosa
distrugge reti come quella di cui sono fatto. Intendo collegarmi alla maggior
parte possibile della merda che c’è su questo pianeta e scortarla tutta lì
dentro. Distruggerla. Infrangere il sistema.»
«Ma questo non disattiverà anche te?»
«Credo di sì. Questo è il problema che insorge quando si usano strumenti
complicati. A volte le caratteristiche che cerchi hanno un sacco di bagaglio
aggiuntivo.»
«Non capisco» disse Elvi.
«Esso mi ha costruito perché trovassi qualcosa che è scomparso» spiegò
Miller. «A quanto pare, sono anche un buono strumento quando morire
costituisce la soluzione giusta. Sul serio, ho una certa pratica al riguardo.
Quindi adesso vieni qui e fammi avvicinare il più possibile a questo qualcosa,
ma non tanto da toccarlo, però. Se dovessi scivolare dentro prima di essere
collegato a tutto il resto sono certo che voi tutti sareste fregati.»
«D’accordo» ripeté Elvi, spostandosi fino a poter vedere tanto il robot
quanto l’oscurità. «Girati di trenta gradi alla tua sinistra.»
Il robot si volse con la rapidità e la decisione di un insetto spaventato.
«Il confine della cosa è a circa mezzo metro di distanza, davanti a te. Perché
hai bisogno di essere vicino?»
«Hai presente quella cosa di cui faccio parte? Può non avere
consapevolezza, ma non è stupida. Quando farò questa cosa, praticamente
tutti gli strumenti a sua disposizione sapranno quello che sto facendo, e
potrebbero non gradire molto una disattivazione forzata. Quali che siano gli
altri scopi per cui è stata progettata, questa cosa vuole continuare a esistere
finché non avrà finito il suo lavoro. È un sopravvissuto. Io sono praticamente
l’opposto.»
Elvi ebbe l’impressione di cogliere l’equivalente di un sorriso nella voce
del robot. Da dove era venuto? Dagli schemi e dalle abitudini del cervello di
un uomo morto? Oppure il fatalismo era un’altra buona mossa nello spazio
progettato? L’universo faceva evolvere nello stesso modo occhi, ali, organi
dei sensi e amaro divertimento di fronte alla prospettiva della morte?
«Okay» disse Miller, poi il robot cambiò posizione, si accoccolò e si
preparò a lanciarsi in avanti. «Ci muoveremo fra tre... due... uno.»
L’impatto fu tale che Elvi ebbe la sensazione di essere di nuovo sulla
navetta pesante mentre si schiantava. Il suo mondo si contrasse a un piccolo
spazio dentro il suo cranio, poi tornò a dilatarsi lentamente accompagnato dal
dolore. Lottò per sollevarsi a sedere e cercò di mettere a fuoco la vista. Si
sforzò di pensare. Miller era esploso? Era morto? La cacofonia di violenza e
di metallo che strideva le rendeva difficile raccapezzarsi.
Era addossata a una parete. Tutt’intorno a lei i meccanismi stavano
strisciando fuori dalle loro nicchie. Molti precipitavano, con le gambe che
strisciavano contro le pareti senza avere la forza di esercitare trazione, oppure
atterravano solo per strisciare spasmodicamente in cerchio come insetti che
stessero morendo avvelenati. L’aria era pervasa dallo stridio insensato delle
loro articolazioni. Tre macchine massicce avevano bloccato il Miller-robot e
lo percuotevano mentre la voce di Miller gridava «merdamerdamerda». Uno
degli assalitori afferrò una delle sue chele e tirò fino a strappare l’appendice
in una pioggia di scintille e di fluidi luminosi. Non ce l’avrebbe fatta. Era
impossibile.
Una piccola macchina alata con un bordo di un azzurro intenso intorno alla
lama affilata che si trovava dove ci sarebbe dovuto essere il becco scese in
picchiata dall’alto e cadde rumorosamente al suolo, rotolando. Elvi la
raggiunse di corsa e la raccolse. Era abbastanza leggera da poterla trasportare,
lunga quanto il suo avambraccio e affilata sul davanti. Con un urlo si lanciò
contro le macchine che si stavano ammucchiando su Miller. L’impatto le fece
dolere le dita. Qualcosa la colpì alla schiena e il suo mondo tornò a
rimpicciolire, ma lei restituì il colpo con le forze che le rimanevano.
Una delle macchine smise di occuparsi di Miller per puntare su di lei con
gli artigli allargati che avevano un raggio di tre metri per lato. Elvi balzò
indietro, cadde e strisciò. La pulsante oscurità malefica della chiazza morta
era alla sua sinistra, e lei vi strisciò intorno, cercando di tenerla fra sé stessa e
il suo massiccio assalitore.
Il robot si lanciò verso di lei agitando gli artigli come falci finché non
raggiunse il confine dell’oscurità e si accasciò, morto. La forza d’inerzia ne
fece rotolare il corpo sul pavimento con le zampe e gli artigli che
sobbalzavano inerti. Il ciangottio nella stanza ebbe una pausa, e l’attenzione
dei manufatti si spostò su di lei. Elvi posò un piede sul mostro abbattuto,
sollevò i pugni e ululò. Miller si contorse, conficcando la chela rimanente
attraverso il corpo di una delle due macchine che aveva ancora accanto. Il
ciangottio riprese, ancor più assordante. Quel suono era già di per sé stesso
un attacco perché le percuoteva i timpani, privandola dell’equilibrio.
Era al centro di una cascata invisibile, di una bufera, di una tempesta.
L’adrenalina, più che un atto consapevole di volontà, la sollevò al di sopra
del corpo del nemico abbattuto e la indusse ad aggirare la zona morta.
Un’altra macchina cadde da una nicchia più in alto, fracassandosi al suolo
davanti a lei. Elvi le passò sopra mentre ancora si contorceva, e intanto
l’ultimo avversario pienamente funzionante di Miller gli affondò le lame
degli artigli nelle profondità del carapace. Quando Elvi si avvicinò, la
macchina cercò di girarsi verso di lei, e gli artigli ancora affondati dentro
Miller emisero un cupo rumore scricchiolante. La chela rimasta di Miller si
chiuse sul polso dell’altro robot, trattenendone gli artigli e spingendoli più in
profondità dentro di sé. Un liquido viscoso prese a scaturire dal corpo di
Miller, pervadendo l’aria di un puzzo di petrolio e di acido. Elvi raccolse un
pezzo di gamba di un robot abbattuto e lo calò sull’assalitore, generando una
pioggia di scintille. Il colpo non ebbe altro effetto che quello di confondere la
macchina. Non poteva averla danneggiata, più di quanto potesse spiccare il
volo e rimettere in orbita le astronavi con la forza della volontà, ma quel
momento di esitazione fu sufficiente.
Miller si spinse sotto l’aggressore rimasto, scivolando sul dorso, e quattro
delle sue sei zampe articolate presero a scavare nel telaio dell’altra macchina.
Nel suo ventre. Elvi non aveva un modello adeguato per descrivere quella
cosa. L’artiglio libero calò verso il basso, staccando schegge di metallo dal
fianco di Miller, ma lui era quasi tutto sotto l’assalitore, che non poteva
ottenere un’angolazione tale da infliggere un colpo letale.
Un robot dinoccolato dagli arti sottili attraversò un’apertura nella parete e si
lanciò verso la battaglia. Mentre le passava accanto, Elvi lo afferrò e lo spinse
dentro il punto morto. Intanto, pezzi di rivestimento cominciarono a staccarsi
dal ventre dell’assalitore mentre Miller scavava dentro di esso. Quell’icore
sporco e puzzolente prese a scorrere in una vera cascata. Fu una morte
orribile, lenta, violenta e priva di poesia. Quando l’aggressore smise di
muoversi, Elvi si avvicinò. Il robot morto era sopra Miller, e la pozza di
liquido che li circondava esalava vapori che le aggredirono gli occhi.
«Ecco, sarebbe potuta andare meglio» commentò Miller.
«Ha funzionato? Sei connesso?»
«Sì,» rispose Miller «ma non so quanto mi potrà servire. Sta arrivando
un’altra ondata di queste cose e non vedo come potrò arrivare da qui a lì.»
Elvi insinuò una spalla sotto il robot morto e spinse più forte che poteva. I
tendini del collo presero a dolerle e immaginò di poterli sentir scricchiolare.
Mise tutta sé stessa nello sforzo, perché non c’era motivo per trattenersi, non
c’era un dopo che potesse avere importanza. Tenere qualcosa di riserva
sarebbe stato soltanto uno spreco di risorse perché non rimaneva nessun
futuro. Urlò per il puro sforzo fisico.
Il robot non si spostò di un millimetro.
Elvi crollò in ginocchio. Con un gemito, Miller protese la chela e gliela
appoggiò con gentilezza sul braccio. Quando parlò, la sua voce suonò remota
e soffocata. Parole dalla tomba.
«D’accordo, questa sarà una cosa difficile» disse. «Ho bisogno di chiederti
un ultimo favore, ragazzina, e non ci resta molto tempo prima che arrivino
qui.»
«Sì, qualsiasi cosa» rispose lei.
«D’accordo, allora indietreggia un poco. Sto per far saltare le saldature di
questa cosa.»
Elvi scivolò all’indietro, con il viscidume sparso sul pavimento che le saliva
fino alla caviglia. Si sentì un sibilo come di vapore che sfuggisse da un tubo
forato, poi ci fu un profondo scatto metallico e Miller andò in pezzi, con le
piastre e le scaglie del suo corpo che collassavano. La cosa che gli giaceva
sopra rotolò via e giacque morta da un lato.
Elvi si erse sul cadavere di Miller, che adesso faceva pensare a un enorme
insetto schiacciato da un piede gigantesco. Intorno a lei, il ciangottio salì di
tono fino a diventare uno stridio acuto.
«Cosa devo fare?» gridò. «Cosa?»
La voce di Miller si levò dalle profondità di quella carcassa. «Qui dentro
c’è un’unità. È lunga circa un metro, di un azzurro intenso, e c’è una fila di
sette... no, otto punti lungo un lato. Ho bisogno che la tiri fuori.»
Elvi venne avanti. Le piastre erano un insieme di punte acuminate e di bordi
affilati. Sentì le fitte dei tagli che le aprirono nei palmi, e il bruciore dei fluidi
del robot che entravano in contatto con le ferite.
«Non voglio essere insistente, ma devi spicciarti» disse Miller.
«Ci sto provando.»
«È solo che ci sono altri cattivi in arrivo, e sono più vicini di quanto mi
aggradi.»
«D’accordo, ci sono» disse Elvi. «È qui.»
«Bene, ottimo lavoro. Adesso devi prenderla e portarla nel punto morto.»
La cosa blu aveva la forma di una enorme mandorla allungata, con una
superficie liscia e morbida. Elvi la circondò con le braccia, si tese, grugnì e
scivolò in avanti, ansimando. «Mi prendi in giro» ribatté.
«È possibile che sia un po’ pesante» ammise Miller.
«Sembrano novanta chili!»
«Mi dispiace terribilmente, ma dobbiamo farla arrivare al punto morto
adesso. Prova a infilare sotto le braccia e a fare leva con la schiena e con le
gambe, come se fosse un bambino.»
«Un bambino fatto di fottuto tungsteno» borbottò Elvi.
«Stai esagerando» ribatté Miller, mentre lei infilava le braccia sotto quella
cosa.
«Non posso lanciare questo coso, dovrò portarlo dentro.»
«Va bene.»
«Quella cosa mi ucciderà, se ci entro?»
Al di sopra del ciangottio si levò un nuovo suono, un rimbombo profondo,
come di un enorme tamburo. Non volle neppure provare a pensare quale
fosse la fonte.
«Se dico di sì, significa che non lo farai?»
Elvi si puntellò e fece leva con la schiena. La cosa azzurra le scivolò in
grembo. Chinò il capo e cercò di riprendere fiato.
«No» rispose, sorprendendo anche sé stessa. «Lo farò comunque.»
«Allora la risposta è forse. Non lo so.»
Elvi si dondolò all’indietro, tenendo quella cosa... Miller... sulle cosce e
puntellando i piedi sotto di sé. Sentì la cosa che cominciava a scivolare sulla
sinistra. Se l’avesse lasciata cadere non pensava che sarebbe riuscita a
sollevarla di nuovo. Il rimbombo era più vicino. Spinse con le gambe. Le
ginocchia le dolevano e la schiena era un’unica vasta massa bruciante. Si
premette la cosa azzurra contro il petto, gridando di dolore.
«Stai andando alla grande, ragazzina. Stai andando alla grande. Puoi
farcela, ci manca poco, ma devi farlo adesso.»
Elvi non mosse un passo in avanti, si limitò a far strisciare un piede appena
davanti all’altro, spostare il peso del corpo e tirare a sé l’altro piede. Il
pavimento era scivoloso come il ghiaccio, quasi privo di attrito, e il
rimbombo era ormai tanto vicino che poteva sentire tutta la stanza che ne
vibrava. Appuntò lo sguardo sull’oscurità del punto morto e avanzò verso di
essa. Un altro passo. Un altro. Un altro. Adesso era vicina. Aveva la schiena
in fiamme, le braccia intorpidite, i pugni che parevano appartenere a qualcun
altro ed erano collegati al suo corpo per puro caso.
Uno sciame di argento e azzurro si riversò oltre la soglia, fluendo verso di
lei come un nugolo di mosche. Elvi spinse, scivolò, cadde in avanti...
L’analogia migliore, quella che il suo cervello trovò, respinse e tornò ad
accettare, fu quella di sprofondare in un lago. Era freddo e insieme non lo era.
E c’era un odore ricco e argilloso, un odore di crescita e di decomposizione.
Era consapevole del proprio corpo, della pelle, dei tendini, delle volute
dell’intestino. Era consapevole dei nervi che le andavano a fuoco nel
cervello, una consapevolezza acquisita nel momento in cui accadeva. Si disfò
e guardò sé stessa disfarsi – tutti i batteri sulla pelle e nel sangue, i virus nei
tessuti. La donna che era stata Elvi Okoye divenne un panorama. Un mondo.
Precipitò ancor più in profondità.
Le cellule divennero molecole – innumerevoli, complesse e varie. La
demarcazione che distingueva una cosa da un’altra venne meno. Quella era
soltanto una comunità di molecole che si muovevano in una vasta danza. Poi
gli atomi che componevano le molecole cedettero il loro spazio e lei divenne
un alito. Una nebbia. Un minuscolo gioco di campi e interazioni in un vuoto
perfetto come quello dello spazio. Era una vibrazione nel nulla.
Rotolò su un fianco. Qualcosa faceva male. Tutto le faceva male, e il dolore
era interessante. Un oggetto di curiosità più che di disagio. Respirava, poteva
sentire l’aria che le si muoveva nella gola e nella complessa rete di morbide
caverne all’interno delle costole. Era una sensazione strana e bellissima.
Continuò ad assaporarla finché non cominciò a rendersi conto che il tempo
esisteva, che stavano passando dei momenti. Significava che i gangli basali e
il cervelletto e la corteccia cerebrale cominciavano tutti a funzionare davvero.
Avvertì un remoto senso di sorpresa. Aprì gli occhi nel nulla.
Teneva qualcosa stretto a sé come se fosse stato prezioso. Era la cosa
azzurra – Miller – solo che non era più azzurra. Era permeata della stessa
oscurità di tutto il resto. La lasciò andare e si sollevò a sedere. Il mondo era
silenzioso, senza rimbombi o ciangottii. C’era solo il suo respiro, il fruscio
del suo sangue. Dopo qualche momento tirò fuori il terminale palmare dalla
tasca e ne accese lo schermo per usarlo come una lampada.
Tutt’intorno a lei, i manufatti di Nuova Terra giacevano morti. Le gambe
affilate come lame erano immote, vasti artigli inumani parevano scolpiti nella
pietra. Uno spruzzo di schegge argentee sul pavimento mostrava dove la nube
di minuscoli meccanismi era caduta a terra, un milione di piccoli corpi
disattivati nello stesso momento. La luce era troppo fioca per distinguere i
colori, e tutto era soltanto grigio.
Con riluttanza, si girò di lato. Era là, nera con i margini luminosi. Avvertì
una fitta di timore quasi soprannaturale, perché aveva creduto – sperato – che
sarebbe scomparsa. Qualsiasi cosa fosse, lei le era passata attraverso, ne era
stata smembrata, e tuttavia era stata un organismo abbastanza semplice da
potersi ricomporre dall’altro lato. Questo l’aveva salvata, e in tutta la sua vita
lei non aveva mai visto niente che le incutesse un più profondo terrore di
quella complessa oscurità.
Si spinse indietro con le gambe dolenti, poi si alzò in piedi. Si rese conto
che stava piangendo senza saperne con esattezza il motivo. Per fame e paura
e sollievo ed esultanza e una paura mortale. Era troppo. E andava bene così.
La voce che la raggiunse era umana e distante. Era quella di Holden.
«Elvi? Elvi? Ci sei?»
«Sono qui» gridò.
«Abbiamo vinto?»
Lei trasse un lungo respiro. Poi un altro.
«Sì» rispose. «Abbiamo vinto.»
Interludio
L’investigatore

– cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di comunicare cerca di


comunicare –
Centotredici volte al secondo, cerca di comunicare per riferire che il lavoro
è stato svolto. Se qualcosa accettasse il rapporto, esso si potrebbe fermare.
Non si fermerà mai. Non prova frustrazione, o paura. Sente l’investigatore
muoversi dentro e intorno a esso. L’investigatore travalica le condizioni che
lo limitano ed esso cerca di ucciderlo. E fallisce. Non prova sgomento per il
fallimento, e cerca di comunicare, cerca di comunicare, cerca di comunicare...
L’investigatore guarda negli occhi della morte e non riesce a vederla. Esso
sa, e questo è sufficiente. Prova piacere e rammarico, perché sono parti del
modello. Dice un nome... Julie. Ricorda l’atto di prendere una mano di donna
nella sua.
L’investigatore si protende verso l’esterno, si protende verso il basso. Si
estende come un’inalazione eterna, senza fine, e si sparge a riempire tutti i
posti che può raggiungere, che sono stati raggiunti. Che sono. Si protende in
fuori si protende in fuori si protende in fuori, il ticchettio di una zampa
insettoide, una scintilla che supera un vuoto, all’infinito, e l’investigatore lo
sente, abbraccia il tutto. Le cicatrici si protendono, le altre menti. Alcune
sono spaventate, alcune perse in sogni che durano da anni, alcune sono grate.
Cantano all’investigatore, o lo accusano, o lo implorano, oppure urlano. Sono
consapevoli e impotenti come lo sono sempre state. L’investigatore le tocca,
come tocca tutto. Dice loro di non preoccuparsi. Che c’è lui alla guida di
questo autobus.
Non vi preoccupate, dice. Staremo benissimo.
L’investigatore spinge indietro il cappello, desidera poter avere una birra.
Gli piace questa donna. Questa Elvi. Desidera di aver avuto un po’ più di
tempo per conoscerla. Desidera di aver avuto un po’ più di tempo. Non gli
importa. È morto un milione di volte dalla sua prima morte. Adesso il vuoto
non ha misteri per lui.
Si connette, e l’investigatore diventa il mondo. Ne percepisce ogni dove. Le
basi orbitali, i nuclei di energia nelle profondità oceaniche, le biblioteche
sotterranee dove vivevano gli antichi, le stazioni di segnalazione in alto sulle
montagne, le città nelle profondità del sottosuolo. Lui è il mondo.
C’è una lotta alla fine. C’è sempre una lotta alla fine. Non ha paura, e
quindi neppure gli altri ne hanno, in tutto il mondo. Sei come Peter Pan, dice
lei. Quando un bambino moriva, Peter Pan volava con lui per metà della
strada, perché non avesse paura.
Strano. È una storia per bambini? In ogni caso, quello non sono io,
risponde l’investigatore, e le sorride. Le porge la mano. Io non andrei solo
per metà della strada.
– esso cerca di comunicare e cerca di comunicare e cerca di comunicare e
poi si ferma –
55
Havelock

Blu. Era questo che dimenticava ogni volta, che dopotutto il cielo era
azzurro cielo, ma se si passavano alcuni anni su una stazione o su una nave,
quello era uno dei dettagli che si finiva per perdere di vista, e lui non si
rendeva neppure conto della cosa finché non sperimentava un momento come
quello. Appoggiato al bastone, sollevò una mano per ripararsi dagli occhi e
spinse lo sguardo oltre le nuvole fra il verde e il grigio, verso l’ampio cielo
azzurro.
«Bello, vero?» chiese la donna. Lucia, così si chiamava, ed era il medico di
First Landing, la moglie di Basia, la madre di Felcia e di Jacek. «Ti far venire
voglia di rimanere qui.»
«No» replicò Havelock. «Mi fa venir voglia di essere già a casa.»
«Se vivesse qui...» cominciò lei.
«Neppure per idea» ribatté Havelock, e ridacchiò.
La Rocinante era posata sul terreno fangoso, alle sue spalle, più o meno nel
punto in cui si era trovata la piattaforma di atterraggio, quando ce n’era stata
una. Adesso era tutto scomparso: le capanne degli scienziati, le costruzioni di
First Landing, perfino la maggior parte delle strutture della miniera. Tutto era
stato appiattito e ripulito, si vedevano soltanto trincee da erosione lasciate
dall’inondazione, ora che l’acqua era scomparsa.
Le baie di carico della Roci erano aperte, uomini e donne ne stavano
trascinando fuori casse di plastica piene di scorte e di apparecchiature,
accatastandole sul terreno ancora morbido. Con indosso una tuta supportante,
Naomi era impegnata a dirigere le operazioni, fornendo informazioni e
coordinando le risposte. Alex e Basia erano su un’esile piattaforma che
avevano eretto accanto al fianco della nave, e insieme a quell’altro uomo – gli
pareva si chiamasse Amos Burton – erano intenti a esaminare i danni e a
pianificare le riparazioni che potevano eseguire nel bacino di carenaggio più
primitivo e male equipaggiato che l’umanità avesse mai visto. Il grosso uomo
calvo aveva la mano destra ancora chiusa in un rivestimento medico, e la sua
frustrazione traspariva da come muoveva le braccia e dalla posizione delle
spalle.
«È pronto?» chiese Lucia.
«Certo, se per lei va bene» rispose Havelock.
Si avvicinarono insieme alla prima pila di casse. Havelock tirò fuori il
proprio terminale palmare e Lucia ne prese uno di quelli che erano stati
scaricati in precedenza dall’orbita. Adesso era suo. Procedettero quindi a
spuntare le diverse casse sulle bolle di atterraggio, registrando con cura quali
aiuti fossero stati consegnati e accettati.
Havelock sarebbe dovuto morire tre settimane prima. Il suo corpo avrebbe
dovuto essere una scia di atomi ionizzati e molecole complesse che fluttuava
da qualche parte nella fascia superiore dell’atmosfera di Ilus. E la Israel
sarebbe dovuta morire prima di lui.
Si era trovato nell’infermeria, quando era successo, imbottito di
antidolorifici dal sistema medico automatico e con mezzo litro di sangue
artificiale che gli veniva trasfuso nelle vene. Ricordava ancora la sensazione
delle cinghie di sicurezza che lo trattenevano sul lettino medico, il ticchettare
del braccio automatico del sistema esperto, la sensazione fredda del fluido
che gli si riversava nel corpo. Aveva avuto le labbra e la lingua fredde e
formicolanti, ma Alex gli aveva garantito che era una cosa normale. Basia era
rientrato, aveva mangiato ed era uscito di nuovo per rimuovere i resti dei cavi
che pendevano ancora dal ventre della Rocinante.
Aveva anche fatto un commento su come ormai tutto quello sembrasse
privo di scopo.
«Credo che sia quel tipo di uomo a cui non piace lasciare le cose fatte a
metà» aveva commentato Alex.
«Un cinturiano.»
«Già» aveva annuito Alex. «Sono tutti così.»
Il suo terminale aveva trillato e lui lo aveva fissato con aria accigliata.
«Capitano? Sei tu?»
La voce che era giunta dall’altro lato della comunicazione era stata
riconoscibile come quella di Holden, ma era suonata più rauca, come se
avesse urlato parecchio. «Alex! Accendi il reattore.»
«Non sono certo di poterlo fare, capitano» aveva replicato Alex.
«Abbiamo spento la griglia di difesa. Credo che abbiamo disattivato tutto.
Vedi se riesci a rimettere in funzione il reattore.»
Il volto di Alex si era fatto serio e immobile. Ogni traccia di umorismo
macabro era scomparsa e la maschera di coraggio con cui aveva nascosto la
paura della morte si era dissolta. Havelock aveva compreso quel
cambiamento, perché lui stesso stava sperimentando la stessa ondata di
speranza, e anche la paura che fosse delusa. Senza una parola, Alex si era
spinto verso uno dei computer dell’infermeria e lo aveva regolato sui
comandi dei motori. Havelock aveva serrato i pugni fino a farseli dolere e
aveva lottato per non interrompere Alex chiedendogli se la cosa stava
funzionando.
«Funziona?»
«Io credo... di sì» aveva risposto Alex, poi si era girato verso il terminale
palmare. «Abbiamo energia, capitano. I sistemi diagnostici forniscono alcuni
errori, ma sono sicuro che è dovuto al fatto che siamo stati strapazzati un
poco. Manderò Naomi e Basia a controllare, e scommetto che potremo
tornare pienamente funzionali. Avere qui Amos ci sarebbe però di parecchio
aiuto.»
«Anche Amos è un po’ strapazzato» aveva risposto Holden, e Havelock
aveva intuito il suo sorriso dal suo tono.
«Sta bene?»
«Dovrà farsi ricrescere qualche dito.»
«È una cosa fattibile.» Alex aveva scrollato le spalle. «Dammi un paio di
giorni e potrei riuscire a portare la Roci giù sulla superficie, in modo da
ricoverarlo in infermeria.»
«Non c’è fretta» aveva replicato Holden. «Prenditi tutto il tempo necessario
e accertati che ogni cosa funzioni a dovere. Non potremmo reggere a un’altra
crisi.»
«Ci sarà sempre un’altra crisi, capitano. È così che funzionano le cose.»
«Almeno rimandiamola finché non ci saremo ripresi da questa, d’accordo?
Puoi metterti in contatto con la Barbapiccola e la Israel? Non voglio che
qualcuno muoia perché non sanno che possono riattivare i motori. E
potremmo dover usare la navetta della Israel, se riusciamo a convincerli a
fornircela.»
«Credo che sia necessario aggiornarci a vicenda» aveva ribattuto Alex.
«Qui le cose sono state alquanto dinamiche. Prima però dammi il tempo di
accertarmi che tutti abbiano il reattore in funzione, d’accordo?»
«D’accordo» aveva assentito Holden. «Potresti però mandarci giù un po’ di
cibo?»
«Non appena i sistemi della cambusa saranno attivi» aveva garantito Alex.
«Giusto. Bene. E Naomi... lei...»
«Stiamo tutti bene» aveva assicurato Alex. «Andrà tutto per il meglio.»
Quando Havelock e la dottoressa Merton ultimarono l’inventario, una
squadra di costruttori stava già inserendo batterie nelle unità prefabbricate e
prendeva le misurazioni nei punti dove sarebbero state montate. Veri ripari.
Un nuovo First Landing. La squadra edile si era composta da sé ed era un
misto di coloni arrivati con l’ormai distrutta nave dei profughi e di gente con
cui Havelock aveva viaggiato fin lì. La divisione fra i due gruppi continuava
a sussistere nella sua mente, ma pareva scomparsa nella realtà pratica. La
distruzione della navetta pesante e la morte fra le fiamme della cellula di
terroristi sembravano cose appartenute a un’altra epoca, un effetto che
Havelock suppose essere dovuto alla tempesta, alla cecità, alle lumache
velenose e alla costante consapevolezza che la morte era in attesa appena
dietro l’angolo. Non era un modello per costruire una comunità che lui
avrebbe consigliato di implementare su vasta scala, ma lì aveva funzionato.
Almeno temporaneamente. Per ora.
Una donna dalla pelle scura con lunghi capelli neri si staccò dal gruppo.
Appariva familiare, ma Havelock impiegò comunque qualche secondo a
riconoscerla. Il tempo trascorso sul pianeta le aveva scavato parecchio le
guance.
«Dottoressa van Altricht.»
«Mi chiami Sudyam» replicò lei. «Lo fanno tutti.»
«Sudyam, allora» si corresse Havelock, e le porse il suo terminale palmare.
«Ho un po’ di documenti per lei.»
«Ottimo» rispose la dottoressa, prendendolo. Il suo sguardo scorse
l’aggiunta al contratto troppo in fretta perché la stesse effettivamente
leggendo nella sua interezza, poi lei firmò in fondo usando un’unghia e
premette sullo schermo i polpastrelli dell’indice e del medio. Il terminale
trillò in risposta e lei lo restituì.
«Congratulazioni» disse Havelock. «Adesso è ufficialmente a capo della
squadra di ricerca sul campo della RCE.»
«Non saprei immaginare un lavoro peggiore» ribatté lei, con un sorriso.
«Adesso che la mia posizione è ufficiale, potrebbe dirmi quando otterremo
l’equipaggiamento sostitutivo?»
«Una capsula automatica carica di rifornimenti è in accelerazione veloce
alla volta di Medina» replicò Havelock. «Supponendo che l’APE non la metta
sotto sequestro o la dichiari materiale di recupero, dovrebbe arrivare qui fra
sei o sette mesi.»
«Che probabilità ci sono che l’APE la fermi?»
«Direi che non sono più di tre su dieci, ma in tutta onestà le consiglio di
non storcere il naso di fronte a queste cifre. Lei non sa come si sono messe le
cose» disse Havelock.
La biochimica scosse il capo con aria vagamente disgustata. «Suppongo di
dovermi accontentare» commentò.
Dopo aver riattivato i reattori, per oltre una settimana la Rocinante e la
Israel si erano trovate in una situazione politica molto delicata. I cinturiani a
bordo della Israel erano stati accolti a bordo come gesto umanitario quando
era quasi certo che la cosa sarebbe rimasta a livello simbolico perché
sarebbero comunque morti tutti. Adesso che la morte era stata scongiurata, il
problema della condizione di quei cinturiani – se fossero profughi, prigionieri
o passeggeri paganti – era diventato una questione molto più controversa.
Marwick aveva dovuto decidere se sarebbero rimasti sulla sua nave per i
diciotto mesi necessari per tornare a Medina o se avrebbe cercato di sbarcarli
tutti sul pianeta. Di certo, il fatto che tutte le navette fossero andate distrutte,
e che il solo modo per sbarcare fosse a bordo della Rocinante o mediante un
lancio con il paracadute molto lungo e sgradevole non aveva facilitato le
cose.
Alla fine, i due gruppi si erano suddivisi in modo quasi uguale. Circa metà
dell’equipaggio della Barb aveva deciso di rimanere a terra con i coloni e gli
scienziati, e circa una metà del personale della RCE ancora in orbita aveva
scelto di rimanere sul pianeta, perché dopo aver fatto tutta quella strada non
era per nulla interessato a limitarsi a contemplare la terra promessa dalla cima
della montagna. Dei membri delle squadre scientifiche che si erano trovate a
terra fin dal principio – Vaughn, Chappel, Okoye, Cordoba, Hutton, Li,
Sarkis e una dozzina di altri – soltanto Cordoba aveva scelto di tornare sulla
nave e a casa, e a quanto pareva la sua decisione era dovuta al dolore per una
relazione sentimentale troncata e non al fatto che il pianeta aveva fatto del
suo meglio per ucciderli tutti. Era una cosa che Havelock non capiva, ma del
resto comprenderla non era necessario.
Al calare della notte le riparazioni alla nave erano già avviate, con la
piattaforma e lo scafo della nave che si illuminavano fugacemente quando le
torce per saldare entravano in funzione. Il tramonto era un enorme dipinto nei
toni dell’oro, dell’arancione, del verde e del rosa, misti a grigio, indaco e
azzurro. Esso gli ricordò le spiagge della costa americana nordoccidentale,
solo che non c’erano venditori ambulanti ad affollare la zona e neppure droni
pubblicitari che borbottavano i loro messaggi sulle gioie del commercio. A
suo modo, era splendido, tanto che non sarebbe rimasto sorpreso di vedere un
falò acceso con un mucchio di coloni seduti intorno a esso a suonare la
chitarra e a sbronzarsi, solo che dopo l’inondazione non rimaneva niente che
si potesse bruciare, e se era possibile trovare qualcosa che permettesse di
sbronzarsi senza rischi, quel qualcosa era prodotto solo sulla Israel.
Si issò a fatica all’interno della Rocinante e zoppicò fino al cubicolo che
Naomi gli aveva assegnato. Quella era la prima volta che saliva sulla Roci in
cui la nave avesse un su e un giù, e siccome la nave non era atterrata lungo il
vettore di propulsione si ritrovò a camminare perlopiù sulle pareti. I muscoli
lacerati della coscia e del polpaccio stavano ricrescendo lentamente, mentre il
ginocchio avrebbe potuto necessitare di un’altra serie di riparazioni per
rigenerare la cartilagine. Considerando tutto quello che era successo, quelli
erano problemi minimi.
Una volta nel cubicolo controllò i messaggi personali, e trovò quello di cui
stava aspettando con timore l’arrivo. La famiglia di Williams aveva
presentato una denuncia civile e penale contro di lui accusandolo di omicidio
volontario. Il suo rappresentante sindacale aveva già presentato opposizione e
la RCE si stava mostrando stranamente collaborativa, per cui c’era la speranza
che tutto fosse chiarito nel tempo che la Israel avrebbe impiegato a tornare al
suo porto di provenienza. Desiderò di avere modo di mandare un messaggio
alla famiglia di Williams, per scusarsi, spiegare che aveva soltanto cercato di
mettere fuori uso la sua tuta e che gli dispiaceva davvero moltissimo che le
cose fossero andate come erano andate. Tuttavia, il suo rappresentante
sindacale gli aveva fatto promettere di non fare niente. Avrebbe avuto la
possibilità di scusarsi dopo che le cose fossero state chiarite.
C’era anche un messaggio del capitano Marwick, il cui oggetto era CREDO DI
DOVERLE UNA BEVUTA. Esso conteneva anche un link a uno dei notiziari più
importanti. Havelock lo attivò.
Lo schermo si riempì con il titolo del notiziario, ma l’immagine centrale
risultò quanto mai strana da osservare. Sotto i suoi occhi la Barbapiccola
girava lenta appesa al cavo, poi essa sbocciò ed emise uno sbuffo di bolle di
plastica perfettamente rotonde. Era come guardare un fiore che liberava i suoi
semi nel vento. Una voce maschile profonda, gentile e rassicurante
accompagnava le immagini, parlando in un inglese dal forte accento
cinturiano.
«Oggi vi proponiamo nuove immagini delle incredibili operazioni di
salvataggio su Nuova Terra. Quelle che vedete sono le immagini riprese dalla
nave della Royal Charter Energy, la Edward Israel, mentre era in corso
l’evacuazione di massa del mercantile in panne Barbapiccola. Per quanti di
voi che ancora non conoscono la vicenda, quando tutto questo si è verificato
tutte e tre le navi erano ridotte a operare con la sola energia delle batterie, e
mentre la Barbapiccola stava per bruciare a causa del suo ingresso
incontrollato nell’atmosfera, tutto l’equipaggio e i passeggeri sono stati
trasferiti sulla Israel per una valutazione medica e primo soccorso, sotto la
supervisione del facente funzioni del direttore alla sicurezza, Dimitri
Havelock.»
Sullo schermo apparve una sua immagine, tratta dal rapporto ufficiale che
aveva inviato alla RCE. Aveva i capelli ritti sulla testa in modo tale da dare
l’impressione che cercasse di apparire come un cinturiano, e la sua voce
suonava stranamente acuta e metallica.
«Il trasferimento è stato completato in meno di tre ore. Vorrei encomiare in
modo specifico il capitano Toulouse Marwick per la sua pronta e
professionale assistenza, senza la quale non avremmo potuto gestire le cose
se non a prezzo di considerevoli perdite di vite umane.»
Il notiziario terminò e Havelock scoppiò a ridere, poi richiese una
connessione con Marwick, e il capitano dai capelli rossi apparve quasi
immediatamente sullo schermo.
«Quindi immagino che non ci licenzieranno» commentò Havelock.
«Ci riserverebbero una parata trionfale con tanto di tappeto rosso, se si
usasse ancora» ribatté Marwick. «Questo è il momento in cui dovremmo
chiedere tutti un aumento.»
«Bonus per missioni ad alto rischio» convenne Havelock, puntellandosi la
testa con il braccio.
«Siamo gli eroi del momento» disse Marwick. «Non che laggiù abbiamo
un’idea anche vaga di come sia stato veramente. È una di quelle cose che
puoi spiegare nel modo più chiaro e concreto senza che venga comunque
capita.»
«Non importa, non c’è bisogno che capiscano» rispose Havelock. «Presto
avrò una lista completa di richieste da parte delle squadre di ricerca ed
esplorazione. Crede ci sia qualche altra cosa che possiamo dare loro?»
«Dipende» replicò Marwick. «La Rocinante tornerà all’Anello con noi?»
«Credo di sì, ma posso farle avere conferma» disse Havelock.
«Se avremo il loro supporto, posso mettere insieme qualche altra cosa. Non
sarà molto, ma possiamo smontare uno dei generatori di riserva e
mandarglielo giù. E un po’ di biomassa per le cambuse.»
«A dire il vero, credo che da quel punto di vista siamo a posto. La
dottoressa Okoye parlava di un modo per convertire la flora locale in
qualcosa che a sua volta possa essere trasformato in materiale commestibile.
È qualcosa che ha a che vedere con le molecole destrorse, qualsiasi cosa
siano.»
«Oh, buon per lei, allora» commentò Marwick. «Questo fa quasi venire
voglia di rimanere per un po’ e vedere come andranno le cose, vero?»
«Oh, merda, no» ribatté Havelock. «No, dovrebbe vedere questo posto. È
piccolo, sporco e tutto quanto è tenuto insieme con la colla a caldo e una
preghiera. Inoltre, ci sono lumache che ti uccidono all’istante. Sarò sorpreso
se questa gente riuscirà a sopravvivere per un anno.»
«Davvero?»
«Sa anche lei che è inevitabile che succeda qualcosa, in un mese, o due, o
otto, o quel che sarà. Le serre idroponiche si guasteranno, oppure ci sarà
un’altra cosa come quella roba che mangiava gli occhi e non si troverà una
cura accessibile, o una di quelle lune difensive precipiterà dal cielo. Merda,
quelle fottute lumache velenose potrebbero farsi spuntare le ali. Come
facciamo a sapere che non è possibile? Quello che sappiamo è che sotto
l’oceano ci sono centrali di energia tanto grandi che potrebbero esplodere e
scaraventare l’intero dannato pianeta fuori dalla sua orbita. Holden dice che
adesso sono tutte disattivate, ma potrebbe sbagliarsi. Oppure l’aver
disattivato tutto potrebbe significare che c’è qualcosa come il nucleo di un
reattore che sta sprofondando dentro il pianeta. Non sappiamo niente.»
Marwick appariva stupito, ma si limitò ad annuire. «Suppongo sia così.»
«No, quello che voglio io è la Stazione di Ceres, o la Terra o Marte. Sa
cos’hanno a New York? Ristorantini che restano aperti tutta la notte e
servono cibo unto e caffè schifoso. Voglio vivere in un mondo con
ristorantini aperti tutta la notte, e piste automobilistiche, e consegna a
domicilio di cibo tailandese che non è stato ricavato da qualcosa che ho già
mangiato sette volte il mese precedente.»
«Lo fa apparire come un vero paradiso» commentò Marwick. «Io però non
posso fare a meno di sentirmi a disagio all’idea di lasciare qui tutta questa
povera gente, se davvero finiranno per morire, restando.»
«Forse non moriranno» rispose Havelock. «Non sarebbe la prima volta che
mi sbaglio su qualcosa. E... ecco, c’è anche la faccia positiva della medaglia.
Credo che qui abbiano la percentuale di ingegneri e scienziati più elevata che
in qualsiasi altro posto dell’universo. E lasceremo loro tutte le scorte
possibili.»
«Comunque, mi sembrano esili elementi a favore.»
Havelock si sollevò parzialmente a sedere sulla cuccetta a smorzamento,
che si spostò e sibilò sulle sospensioni. «Ciascuno di loro ha anche gli altri,
almeno per ora. Deve tenere presente che quando abbiamo cominciato tutto
questo, tutti erano pronti a tagliare la gola a tutti gli altri, e adesso sono lì a
montare le tende insieme. Se non succede niente altro che li ammazzi, ci
saranno bambini nati su Nuova Terra con la massima rapidità permessa dalla
biologia, e non mi sentirei di scommettere che i loro genitori siano arrivati
qui entrambi sulla stessa nave.»
«Bene» rifletté Marwick. «Fa piacere ricordare che dovunque le persone
comincino daccapo, qualsiasi bagaglio portino con loro, l’umanità riesce
ancora offrire un fronte compatto quando sopraggiungono le avversità.»
Havelock scrollò le spalle. La voce di Koenen era ancora viva nella sua
memoria, e l’immagine di Williams che andava alla deriva, morto. E Naomi
Nagata nella sua cella. E quell’ingegnere cinturiano a cui continuavano a
pisciare nell’armadietto. E la navetta che aveva trasformato in un’arma. Gesù,
si sentiva davvero male riguardo a Williams e riusciva a stento a immaginare
cosa avrebbe provato se fosse stato lui ad attivare la navetta trasformata in
missile.
«A volte lo facciamo, a volte no. Queste persone avrebbero potuto
altrettanto facilmente morire azzannandosi alla gola a vicenda. Succede anche
questo. È solo che le persone che muoiono in quel modo non sono più in
circolazione per scrivere i libri di storia.»
«Amen» commentò Marwick, ridacchiando. «Un amen molto sentito.»
56
Holden

La Rocinante era davvero malconcia.


La nave aveva una serie di buchi lungo lo scafo esterno, su tutto il lato di
babordo. Holden poteva vedere i punti più chiari dello scafo dove Basia e
Naomi avevano rimpiazzato i propulsori danneggiati, ma non avevano avuto
il tempo di rappezzare tutti i buchi, ed era una prova ulteriore del talento di
Alex come pilota che lui fosse riuscito a portarli a terra senza far bruciare la
nave. Almeno uno degli alloggiamenti dei CDP era crivellato di buchi e non
era probabilmente sicuro usare l’arma al suo interno. E poi c’era una lunga
cicatrice sulla sommità dello scafo dove, secondo Naomi, erano stati colpiti
dal missile improvvisato.
Allegramente, Holden annotò ciascuna delle future riparazioni nel conto
dettagliato che avrebbe inviato ad Avasarala.
La Rocinante si era posata su un’ampia area di nulla a circa mezzo
chilometro da dove era sorto First Landing e dove adesso cominciavano ad
apparire le prime nuove costruzioni. La gente costruiva sulle rovine di quello
che c’era stato prima, come sempre. Così tanto era andato perduto, ma la cosa
che generava più dolore era la perdita delle persone.
Come succedeva sempre.
Holden notò un danno minore sul cono del propulsore, poi aggirò la prua e
trovò un paio di cinturiani impegnati a innalzare un rifugio temporaneo a una
dozzina di metri di distanza. Un uomo sulla trentina faceva scorrere del cavo
mentre una donna più anziana conficcava paletti nel terreno e una seconda
donna stava di guardia con un lungo palo per scagliare lontano qualsiasi
lumaca velenosa che si fosse avvicinata troppo.
«Non potete mettere lì quella cosa» disse loro, avvicinandosi e agitando le
mani in un gesto che li invitava ad allontanarsi. «Chiedete all’amministratrice
Chiwewe dove mettere la vostra tenda.»
«Questo punto non è stato reclamato da nessuno» protestò l’uomo.
«Abbiamo diritto quanto chiunque altro...»
«Sì, sì, non voglio dirvi dove potete o non potete costruire, ma fra poche
ore questa nave decollerà e appiattirà al suolo la vostra tenda.»
«Oh» mormorò l’uomo, con aria mortificata. «Giusto. Allora aspetteremo
che siate decollati.»
«Grazie. Vi auguro un buon pomeriggio.» Holden li salutò con un sorriso e
un cenno, poi si avviò verso Nuova First Landing. Quelle erano ancora le
stesse persone che erano state disposte a combattere fino alla morte contro la
RCE per difendere le loro rivendicazioni e non intendevano lasciarsi mettere i
piedi in testa da qualcuno che veniva da fuori. La catastrofe aveva però
insegnato loro a rispettare venti violenti.
Quando tornò al rettangolo racchiuso da sei edifici parzialmente costruiti
che sarebbe diventato la piazza cittadina di Nuova First Landing, trovò Carol
impegnata in un’accalorata discussione con qualcuno che indossava la divisa
della sezione ingegneria della RCE e con Naomi. Amos era fermo lì vicino con
lo sguardo perso nel nulla e un vago sorriso sull’ampio volto. L’apparato
medico che gli racchiudeva la gamba e la mano lo faceva apparire una sorta
di cyborg, mentre la benda sul collo gli dava l’aria di un pirata, ma Amos
riusciva a tollerare gravi ferite meglio di chiunque altro Holden conoscesse.
Per contro, Fayez camminava ancora zoppicando, o forse quella era soltanto
una scusa per poter tenere il braccio intorno alle spalle di Elvi Okoye.
Basia, Lucia e Jacek erano raggruppati a rispettosa distanza dalla
discussione, tenendosi stretti gli uni agli altri come se la loro vita fosse dipesa
dal non perdere il contatto.
«Non mi importa cosa c’è nel manuale» stava dicendo Carol. «Voglio tutte
e sei queste strutture collegate a un solo generatore. Ne abbiamo soltanto due,
e l’altro mi serve per il resto della città.»
«Questi sono gli edifici che saranno utilizzati di più» ribatté l’ingegnere. «Il
carico sarà al limite...»
«Si sono lasciati un certo margine di tolleranza» intervenne Naomi,
sovrastando la voce dell’ingegnere. «E questo è ciò che l’amministratrice
vuole, quindi glielo dia.»
L’ingegnere levò gli occhi al cielo e scrollò le spalle. «Sissignora.»
«Vanno tutti d’accordo?» chiese Holden, avvicinandosi.
«Questa è la terra del latte e del miele, capitano» rispose Amos. «Pacifica
come un gattino addormentato»
«Come ti pare la nave?» chiese Naomi, allontanandosi dal gruppo mentre la
discussione ricominciava alle sue spalle.
«Piuttosto malconcia.»
«Abbiamo fatto del nostro meglio.»
«Siete stati incredibili» dichiarò Holden, prendendole la mano. «La
prossima volta, però, non permettere ai cattivi di catturarti.»
«Ehi» protestò Naomi. «Mi sono salvata da sola.»
«Era una cosa che volevo chiederti. Come hai fatto, esattamente, a
persuadere il tuo carceriere a passare dalla nostra parte?»
Naomi gli si avvicinò di un passo e sorrise. «Era una prigione. La gente fa
un sacco di cose che di norma non farebbe, in circostanze estreme come
quelle. Sei certo di volerlo sapere?»
«Non mi importa minimamente» replicò Holden, poi la strinse in un
abbraccio e lei quasi gli si accasciò contro.
«Dio, non lasciarmi andare» gli sussurrò all’orecchio. «Le ginocchia mi
fanno un male da morire. Un’altra ora passata a camminare con questa forza
di gravità e avrò bisogno di un trapianto di legamenti.»
«Allora battiamocela da qui.»
Holden si protese oltre la sua spalla quanto bastava per intercettare lo
sguardo di Amos, poi accennò con la testa in direzione della nave. Il
meccanico annuì con un sorriso e prese a zoppicare in giro per la piazza per
recuperare quanto rimaneva del loro equipaggiamento.
«Il nostro prigioniero è a bordo?»
«Amos lo ha rinchiuso nell’infermeria un paio d’ore fa» rispose Naomi, poi
permise al suo scheletro di rilassarsi con un lungo gemito.
«Sei in grado di camminare fino alla nave?» chiese Holden.
«Sì. Vai pure a salutare chi devi.»
Holden la lasciò andare e per qualche momento rimase a guardarla
allontanarsi barcollando sulle gambe incerte prima di tornare indietro e
stringere la mano a Carol Chiwewe. Lei e l’ingegnere della RCE erano passati
a discutere del sistema fognario e del trattamento delle acque. Dopo aver
salutato rapidamente entrambi e aver augurato loro buona fortuna, Holden si
diresse verso Basia e la sua famiglia.
«Dottoressa,» disse a Lucia, stringendole la mano «non saremmo riusciti a
sopravvivere senza di lei. Nessuno di noi.» Strinse quindi la mano a Jacek e
infine a Basia. «Basia, grazie per l’aiuto con la nave e per aver cercato di
aiutare Naomi. È un uomo coraggioso. Arrivederci, e cieli sereni.»
Accompagnò quelle parole con un sorriso, perché ovviamente le nubi di
tempesta e la pioggia leggera trasformavano quell’augurio in una battuta.
«Cosa?» esclamò Basia. «Credevo che dovesse portarmi...»
Holden si stava già allontanando, ma si fermò per aggiungere: «Lavorate
sodo. La prossima volta che visiterò questo pianeta voglio poter bere una
tazza di caffè decente.»
«Lo faremo» rispose Lucia. Holden sentì che aveva la voce incrinata dal
pianto, ma la pioggia nascondeva le sue lacrime.
Non gli sarebbe mancato il pianeta, ma la sua gente. Come sempre.
Sulla Rocinante, il decollo schiacciò Holden contro il sedile a smorzamento
come se la nave stesse accogliendo il suo ritorno a bordo con un abbraccio.
Non appena raggiunsero un’orbita bassa fluttuò fuori dal sedile e giù per la
scaletta che portava alla cambusa. Trentacinque secondi più tardi la
caffettiera gorgogliava e l’intenso aroma del caffè si spargeva nell’aria,
dandogli quasi un senso di vertigine.
Naomi fluttuò nella cambusa. «Il primo passo consiste nell’ammettere di
avere un problema.»
«Lo ammetto» replicò Holden. «Però ho appena trascorso un paio di mesi
su un pianeta che ha passato tutto quel tempo cercando di uccidermi, e ho un
lavoro di merda che devo svolgere al meglio, quindi prima voglio concedermi
un momento e una tazza di caffè.»
«Preparane una anche per me» disse Naomi, poi si spostò fino a un pannello
a parete e procedette a far scorrere i rapporti sulle condizioni della nave.
«Preparane tre» aggiunse Amos, spingendosi nella stanza. «Ho una
tonnellata di casini da sistemare perché voialtri avete lasciato che qualcuno
usasse la mia ragazza come bersaglio per le esercitazioni di tiro.»
«Ehi, abbiamo fatto del nostro meglio...» cominciò Naomi, ma fu interrotta
dall’attivarsi del pannello di comunicazione.
«Voialtri state facendo il caffè, là sotto?» chiese Alex, dalla cabina di
pilotaggio. «Qualcuno me ne porti su un po’.»
Mentre Amos e Naomi mettevano insieme una lista delle riparazioni che
potevano effettuare durante il lungo viaggio fino alla Stazione di Medina,
Holden preparò quattro grossi bulbi di caffè. La cosa non gli seccava, era
molto confortante fare qualcosa di semplice e domestico che rendesse felici
altre persone. Caffè nero per sé, due dosi di crema e due di zucchero per
Amos, una dose di crema per Alex, una di zucchero per Naomi. Distribuì i
bulbi pronti.
«Puoi portare questo su ad Alex?» chiese, consegnando un secondo bulbo a
Naomi. Qualcosa, nel suo tono o nella sua espressione la indusse ad
accigliarsi per la preoccupazione.
«Stai bene?» chiese, accettando il bulbo senza però accennare ad andarsene.
Alle sue spalle, Amos raccolse goffamente il suo bulbo con la mano
danneggiata e si diresse a poppa verso l’officina meccanica mentre esaminava
la lista delle riparazioni sul terminale e borbottava riguardo a quanto lavoro
avesse da fare.
«Come ho detto, i lavori di merda vanno fatti comunque.»
«Ti posso aiutare?»
«Mi piacerebbe farlo da solo, se per te è lo stesso.»
«Certo che lo è» rispose lei, deponendogli un lieve bacio su una guancia.
«Ci vediamo di sopra più tardi.»
Holden si recò sul ponte che conteneva la camera di decompressione e il
magazzino di stoccaggio, dove prelevò un pacchetto autosigillante nel vuoto,
una cazzuola e una tuta EVA per le riparazioni esterne dotata di fiamma
ossidrica portatile. Si infilò la tuta, poi attraversò goffamente la nave fino alla
baia di carico.
E fino a quella che era sicuro essere l’ultima dimora di Miller.
Nella camera di decompressione della baia di carico attese che il portellone
esterno si aprisse, ponendo l’intero compartimento in stato di vuoto assoluto,
poi entrò. Se qualcosa fosse andato storto, se quel che restava della
protomolecola sulla sua nave avesse deciso di difendersi, si sarebbe venuto a
trovare nel vuoto, con un portellone stagno che bloccava l’accesso alla nave.
Sigillò il portellone alle sue spalle e disse ad Alex di escludere il comando
manuale di apertura finché lui non lo avesse chiamato per chiedergli di
riattivarlo. Alex assentì senza chiedergliene il motivo.
Poi Holden procedette a smantellare sistematicamente la baia di carico.
Cinque ore più tardi, e dopo aver rinnovato una volta la scorta d’aria della
tuta, lo trovò. Era una piccola massa di carne non più grande della punta del
suo dito, attaccata al lato inferiore di un condotto di energia dietro un
pannello rimovibile della paratia della baia di carico. Quando avevano
avvistato per la prima volta quel mostro che era la protomolecola, che si era
fatto dare un passaggio dalla Roci quando aveva lasciato Ganimede, esso si
era trovato a meno di mezzo metro da dove era annidato quel polipo. Si sentì
accapponare la pelle nel rendersi conto di quanto a lungo si fossero portati
dietro quell’ultimo residuo del mostro, lì sulla sua nave.
Servendosi della cazzuola grattò via l’escrescenza dalla superficie del
condotto, poi ripose tanto l’attrezzo quando il polipo nel sacchetto e ne attivò
la carica che lo sigillava a vuoto. Usò quindi la fiamma ossidrica sul condotto
per parecchi minuti, rendendo incandescente il metallo per uccidere qualsiasi
residuo che potesse essere rimasto su di esso. Infine, frugò fra le provviste
nell’area di carico fino a trovare una carica per il lanciasonde di bordo, aprì la
sonda e vi ficcò dentro il pacchetto sigillato.
Fatto questo collegò la radio della tuta con il canale generale di bordo della
Roci. «Naomi, ci sei?»
«Eccomi» rispose lei dopo un momento. «Sono sul ponte operativo. Cosa ti
serve?»
«Puoi usare il controllo manuale sulla sonda... 117A43?»
«Certo, cosa vuoi che ne faccia?»
«Sto per buttarla fuori dal portellone della baia di carico. Puoi darle circa
cinque minuti e poi scaraventarla nel sole di Ilus?»
«D’accordo» assentì lei, senza formulare la domanda che le trapelava dalla
voce, anche se avrebbe voluto farlo. Holden spense la radio.
La sonda era un piccolo sensore elettromagnetico e a infrarossi con un
rudimentale sistema di guida, il genere di sonda che le navi usavano per
vedere cosa poteva essere nascosto sull’altro lato di un pianeta, e non era
molto più grande di un estintore terrestre. Però era pesante. Quando Holden
la spinse verso il portellone della baia di carico gli fu poi difficile farla
fermare.
Fuori, Ilus passò loro accanto, il turbolento marrone della coltre di nubi che
cominciava a cedere il posto a chiazze bianche e perfino a occasionali squarci
di azzurro dell’oceano sottostante. Ci sarebbe voluto del tempo, ma il pianeta
si sarebbe ripreso. Le lucertole mimo sarebbero riapparse e avrebbero
cominciato a contendersi lo spazio con i bambini umani e quegli irritanti
insetti che mordevano e cadevano morti. Due biologie aliene che lottavano
per lo spazio vitale. O tre. O quattro. Niente che Ilus non avesse già
sperimentato qualche miliardo di anni prima. Le nuove lotte erano identiche a
quelle che le avevano precedute.
Holden posò una mano guantata sulla sonda che gli fluttuava accanto e
puntò l’altra verso il pianeta.
«Questo sei tu, amico. Quello è il secondo mondo che hai salvato, e di
nuovo non abbiamo niente da offrirti in cambio. Vorrei essere stato più
gentile con te.»
Rise di sé stesso, perché gli pareva quasi di sentire il vecchio detective dire:
‘Avresti anche potuto evitare di organizzare il mio funerale vichingo sulla
base dei tuoi sentimenti.’
«Giusto. Ci rivediamo dall’altra parte.» Holden non credeva davvero che
esistesse un’altra parte, che dopo la morte ci fosse altro se non un’oscurità
infinita. O almeno questo era quello che aveva creduto. Certo, una tecnologia
aliena fuori controllo poteva avere voce in capitolo, ma forse, giusto forse, a
volte c’era qualcosa d’altro. «Addio, amico mio.»
Assestò alla sonda una spinta decisa, ed essa si allontanò dalla nave
fluttuando lentamente. Holden la guardò rimpicciolire fino a diventare un
piccolo punto di luce riflessa dalla stella di Ilus. Poi quel punto si illuminò
per qualche secondo in risposta a una breve spinta dei propulsori e saettò
lontano dal pianeta. Holden attese fino a quando non fu più in grado di
vederlo, poi richiuse il portellone della baia di carico.
Si tolse la tuta nella camera di decompressione, dopo che ebbe ultimato il
suo ciclo, e quando il portellone interno si aprì trovò Naomi che lo aspettava.
«Ehi» la salutò.
«È fatta?»
«Sì, qui ho finito.»
«Allora vieni nella mia stanza, marinaio» replicò lei. «C’è qualcosa che ti
voglio mostrare.»
Holden fluttuava mezzo metro al di sopra del letto, il corpo intriso di
sudore; Naomi gli fluttuava accanto, lunga e snella, i capelli arruffati
dall’aver fatto l’amore. Holden si toccò il cuoio capelluto, tastando le strane
punte sudate in cui si erano trasformati i suoi capelli.
«Devo avere un aspetto spaventoso» commentò.
«I porcospini sono carini. Stai benissimo.» Naomi batté un lungo alluce
contro la paratia e fluttuò di qualche centimetro più vicina ai controlli
atmosferici. Diresse la bocchetta dell’aria verso entrambi e Holden sentì la
pelle che gli formicolava mentre l’aria fresca lo asciugava.
«Non credo che riuscirò mai a fare abbastanza docce da lavarmi via di
dosso Ilus» aggiunse, dopo un momento.
«Sono stata in prigione per un paio di settimane. Sono pronta a fare cambio
con te.»
«Me ne dispiace.»
«Non è stata colpa tua, solo sfortuna. Sapevi che quel tizio della sicurezza,
Havelock, era stato il partner di Miller su Ceres?»
Holden toccò il letto per poter ruotare il corpo in modo da guardarla.
«Mi prendi in giro.»
«No. Naturalmente, è stato prima che noi lo incontrassimo.»
«Vorrei averlo saputo.»
«Lo pensi adesso, ma sarebbe stato strano.»
«Probabilmente hai ragione» convenne Holden, poi sospirò e si stiracchiò
fino a far scrocchiare le articolazioni. «Non lo rifarò mai più.»
«Cosa?»
«Lasciarti. Quando credevo che sarei morto su Ilus e tu saresti morta in
orbita e che non avremmo neppure potuto stare abbracciati quando fosse
successo, quella è stata la cosa peggiore a cui potessi pensare.»
«Già, lo capisco» annuì lei.
«Ti prometto che non si ripeterà.»
«D’accordo. Perché hai lasciato andare Basia?»
Holden si accigliò. La verità era che non era sicuro del perché lo avesse
fatto, e quella era una cosa a cui si stava sforzando di non pensare.
«Perché... lui mi piace. E mi piace Lucia. E distruggere la loro famiglia non
avrebbe risolto niente. Ho accettato la sua versione secondo cui ha fatto
saltare in anticipo la piattaforma di atterraggio per cercare di salvare delle
persone. Inoltre, non piazzerà altre bombe. E una cosa che Murtry mi ha detto
e che mi ha davvero indotto a riflettere è stata che attualmente qui siamo oltre
i confini della civiltà, in un posto dove le argomentazioni legali tutte in
bianco e nero non hanno molto senso. Forse un giorno ne avranno.»
«La frontiera non ha leggi, ha solo poliziotti?» commentò Naomi, ma
sorrise mentre lo diceva.
«Ouch» replicò Holden, e lei rise.
Per alcuni minuti fluttuarono insieme in silenzio. «A proposito,
probabilmente dovrei andare a dare un’occhiata al nostro prigioniero» disse
infine Holden.
«Per gongolare?» lo stuzzicò Naomi, pungolandogli le costole. «Ti piace
quel momento finale, quando puoi gongolare.»
«È quello per cui vale la pena fare tutto.»
«Vai» lo incitò lei, puntellando i piedi contro la paratia e spingendolo verso
il guardaroba con le mani. «Vestiti. E pettinati.»
«Tornerò presto» ribatté Holden, mentre prelevava alcuni indumenti dai
cassetti. «C’è un’altra cosa che voglio che mi mostri.»
«Recuperare il tempo perduto.»
«Dannatamente esatto.»
Holden fece una pausa in bagno per lavarsi i denti e sciacquarsi la faccia
prima di andare a trovare Murtry nell’infermeria. Mentre era impegnato a
districare i nodi che aveva nei capelli, Amos fluttuò dentro e rimase in attesa.
«Sono di troppo o cosa?» chiese Holden. «Hai bisogno di privacy?» In
passato Amos non era mai stato timido quando si era trattato di usare il
bagno.
«Naomi dice che stai andando a vedere Murtry» affermò Amos, in tono
accuratamente neutro.
«Sì.»
«Mi hai detto che non potevo vederlo.»
«No.»
«Allora posso venire con te?» chiese Amos.
Holden stava per dire di no, poi ci pensò sopra per un minuto e infine
scrollò le spalle. «Certo. Perché no?»
La ferita alla gamba di Murtry non era particolarmente grave, ma l’altra
pallottola di Holden gli aveva fratturato l’omero destro, per cui lo tenevano
chiuso in infermeria mentre il sistema esperto seguiva il processo di
rigenerazione dell’osso. Il capo della sicurezza della RCE aveva il braccio
sinistro ammanettato al lettino a smorzamento, e non appena l’altro braccio
fosse guarito lo avrebbero trasferito in una delle cabine per l’equipaggio, a
cui Amos aveva applicato serrature esterne.
«Capitano Holden, Mr Burton» salutò Murtry, quando entrarono.
«Dunque,» disse Holden, come se stesse riprendendo una conversazione
iniziata in precedenza, il che in un certo senso era vero «qualche ora fa ho
ricevuto un messaggio della mia amica delle Nazioni Unite. È impaziente di
incontrarti. Ti scaricheremo al complesso che le Nazioni Unite hanno nella
città di Lowell, su Luna. Una volta ho portato là un altro prigioniero, e da
allora quella persona ha cessato di esistere, almeno per quanto ne sa il resto
del sistema solare. Ehi, forse vi metteranno in celle vicine.»
«Continui a parlare come se avessi infranto la legge, ma non è così»
dichiarò Murtry.
«Attualmente sulla Terra c’è una squadra di avvocati davvero in gamba che
sta cercando di pensare ad alcuni capi di accusa, e hanno quasi due anni per
lavorarci. Goditi il viaggio di rientro.»
«E io sono qui per dirti perché non te lo godrai» aggiunse Amos.
«Non posso sentire queste cose» protestò Holden. «È il mio prigioniero.»
«Allora forse dovresti andartene» suggerì Amos.
Holden fissò Murtry, che si limitò a fissarlo a sua volta. «D’accordo, Amos.
Raggiungimi nella cambusa fra un minuto.»
«Ricevuto, capitano» rispose Amos, sorridendo al prigioniero mentre
parlava.
Preoccupato di aver appena firmato la condanna a morte di Murtry, Holden
attese appena oltre l’angolo metallico della porta dell’infermeria.
«Intendi pestare un uomo impotente nel suo letto di ospedale solo perché ho
avuto la meglio su di te?» chiese Murtry, cercando di nascondere il disagio
dietro il disprezzo.
«Oh, santo cielo, no» ribatté Amos, con una finta nota di sentimenti feriti
nella voce. «Quello mi sta bene. Prendermi alle spalle è stata una mossa
furba. Il gioco non mi dispiace e apprezzo un buon giocatore.»
«Allora...» cominciò Murtry, ma Amos continuò a parlare.
«Però mi hai costretto a uccidere Wei. Lei mi piaceva.»
Il silenzio fra i due uomini si prolungò al punto che Holden per poco non
rientrò nella stanza, aspettandosi di trovare Amos che strangolava il
prigioniero. Poi Amos parlò.
«E quando alla fine ti pesterò, non sarai impotente. Credi che farà qualche
differenza?»
Holden non rimase ad ascoltare il resto della conversazione.
Epilogo
Avasarala

Vyakislav Pratkanis, il presidente della camera congressuale marziana


aveva un’eccellente faccia da poker. In oltre tre giorni di incontri, pranzi,
serate a teatro e cocktail non aveva mai espresso niente di più di una mite
sorpresa. Se non era interiormente in preda al panico, allora non capiva
semplicemente la situazione. Avasarala pensava che la seconda ipotesi fosse
quella giusta.
«Mi dispiace non poter essere con lei questa sera» disse, stringendole la
mano con asciutta e decisa efficienza.
«È un eccellente bugiardo» replicò Avasarala, con un sorriso. «La maggior
parte degli uomini che ha trascorso così tanto tempo in mia compagnia è
parsa pensare che gli si sarebbe staccato il pisello se non fosse riuscita ad
allontanarsi da me.»
Pratkanis sgranò gli occhi e reagì con una risata gentile, che si era di certo
esercitato a fare davanti a uno specchio. Lei si associò alla risata. La sede del
governo si trovava ad Aterpol, il quartiere di ceto più elevato di quelli
sotterranei di Londres Nova. Altre sei comunità erano sparse nel sottosuolo
dell’Aurorae Sinus di Marte. Doveva ammettere che i marziani avevano fatto
un notevole lavoro nel ricreare il mondo lì nel sottosuolo. La falsa cupola di
Aterpol era in alto sopra di lei ed era rischiarata con uno spettro luminoso
accuratamente bilanciato per convincere il suo tronco encefalico che si
trovava all’aria aperta sulla Terra. Gli edifici governativi erano progettati con
un’ariosità che quasi portava a perdonare il fatto che l’intera città – l’intera
rete planetaria – fosse costruita come una fottuta tomba. L’assenza di una
magnetosfera aveva fatto sì che la massima priorità di Marte fosse la
protezione dalle radiazioni. Fra quello e la bassa gravità che la costringeva a
saltellare lungo i corridoi come una scolaretta, di certo non si era innamorata
di quel pianeta.
«È stato un onore condividere le nostre rispettive opinioni» dichiarò
Pratkanis.
Avasarala chinò il capo. «Sul serio, Vyakislav, adesso siamo in privato. Può
anche smetterla di soffiarmi fumo negli occhi.»
«Come preferisce» ribatté lui, senza cambiare espressione. «Come
preferisce.»
Nel corridoio in fondo all’atrio Avasarala si assestò il sari, tirando la stoffa
per rimetterla a posto. Non che fosse particolarmente fuori posto, ma il peso
le sembrava sbagliato e il suo cervello avvertiva l’impulso di continuare a
tirare fino ad assestarlo. Luci soffuse erano annidate in supporti di pietra
lungo le pareti, l’aria odorava di legno di sandalo e vaniglia, e riverberava di
una musica soffusa e rilassante. Era come se il governo fosse stato un centro
benessere diurno di medio livello.
«Chrisjen!» chiamò un uomo, mentre lei raggiungeva l’atrio dall’ampia
volta. Si girò. Chi l’aveva chiamata era un uomo massiccio, con la pelle di
parecchi toni più scura della sua e capelli appena più chiari dei suoi, che
erano grigio ferro. L’uomo protese le braccia nel venire avanti, e lei ricambiò
l’abbraccio. Nel vederli, nessuno avrebbe potuto immaginare che erano a
capo del governo di due tra le tre grandi organizzazioni politiche
dell’umanità. La Terra poteva anche temere la Fascia, e la Fascia poteva
nutrire risentimento per la Terra, ma l’APE e le Nazioni Unite dovevano
mantenere un decoro diplomatico, e a dire la verità lei provava una certa
simpatia per quel vecchio bastardo.
«Non intendevi partire senza salutarmi, vero?» chiese l’uomo.
«Non partirò fino a domani» replicò lei. «Stavo solo andando a cena con
alcuni amici.»
«Ecco, sono comunque contento di vederti. Hai un momento?»
«Per il capo militare della più grande organizzazione terroristica nello
spazio conosciuto?» ribatté lei. «Come potrei non averlo? Cos’hai in mente?»
Fred Johnson si avviò lentamente e lei gli si affiancò. L’atrio era di pietra
lucida, con una fontana nel centro che faceva scorrere lentamente l’acqua
lungo i lati di una figura umana astratta e androgina. Johnson sedette sul
bordo della fontana. Avasarala pensò che le piccole onde davano un aspetto
oleoso all’acqua.
«Mi dispiace di non averti potuta appoggiare di più là dentro» disse Fred.
«Di certo capisci come stanno le cose.»
«Certo. Facciamo quello che possiamo manovrando ai margini, come
sempre.»
«Abbiamo un sacco di cinturiani su quelle navi. Se dovessi adottare con
loro una linea d’azione troppo rigida sarebbe peggio dell’averne usata una
troppo morbida.»
«Non devi scusarti con me» replicò Avasarala. «Comprendiamo entrambi la
realtà della situazione. E comunque almeno non siamo fottuti quando
Pratkanis.»
«Lo so» rispose Johnson, scuotendo il capo.
«È ancora Anderson Dawes a gestire la parte politica, laggiù?»
Johnson scrollò le spalle. «Per la maggior parte. È come gestire una
mandria di gattini, se i gattini avessero un sacco di armi e un’overdose di
teorie neo-libertarie riguardo al concetto di proprietà. Cosa mi dici di te?
Come se la cava Gao nei panni di segretario generale?»
«Non è stupida, ma sta imparando a fingere di esserlo» rispose Avasarala.
«Dirà tutte le parole giuste e le accompagnerà con tutti i gesti appropriati. Ci
penserò io.» Fred Johnson grugnì. La fontana gorgogliava, e quella stupida
musica rilassante non riusciva a rilassare. Avasarala aveva la netta sensazione
che fossero sull’orlo di qualcosa, ma era solo un’illusione. La verità era che
erano precipitati oltre quell’orlo da parecchio tempo.
«Abbi cura di te, Fred» disse infine.
«Teniamoci in contatto.»
Le forze di sicurezza congiunte marziane e delle Nazioni Unite avevano
bloccato la stazione della metropolitana a cui doveva scendere. Avasarala era
seduta in una carrozza con i finestrini oscurati e tre uomini della sicurezza
armati alle porte. Il sedile di plastica modellata era posizionato lateralmente,
per cui poteva vedersi riflessa nei finestrini. Appariva stanca, ma quantomeno
la bassa gravità la faceva sembrare più giovane. Aveva paura che l’età le
avesse appesantito la linea della mascella. La carrozza sibilava lungo le
rotaie, e fuori di essa il condotto era in stato di vuoto per ridurre l’attrito.
Appoggiò la testa contro il lato della carrozza e chiuse gli occhi per un
momento.
Marte era stato il primo. Non la prima stazione o la prima colonia, ma il
primo tentativo dell’umanità di recidere i legami con la Terra. La colonia
aveva dichiarato la sua indipendenza, e se Solomon Epstein non fosse stato
un marziano e non avesse perfezionato il suo reattore quando lo aveva fatto,
Marte sarebbe stato il sito della prima guerra interplanetaria. Invece, la Terra
e Marte avevano stretto una sorta di amicizia in cui ciascuna parte si sentiva
superiore all’altra, e si erano messi al lavoro per spartirsi il sistema solare. Le
cose erano tali da quando le riusciva di ricordare.
Quello era il pericolo insito nell’essere un politico e nell’essere vecchia. Le
abitudini sopravvivevano alle situazioni che le avevano create. Le linee
politiche rimanevano al loro posto molto dopo che le situazioni che le
avevano create erano cambiate. Il calcolo di tutto il potere umano stava
cambiando, e i modelli che lei utilizzava per dargli un senso cambiavano con
esso, costringendola a ricordarsi che il passato era un posto diverso. Uno in
cui non viveva più.
La metropolitana si fermò a Nariman e Avasarala scese. La stazione era
piena di locali che erano stati lasciati in attesa finché lei non avesse ultimato
il suo tragitto. Sulla Terra si sarebbe trattato di una mescolanza di
anglosassoni, africani, asiatici e polinesiani. Lì erano marziani, e lei era una
terrestre. Mentre la squadra di sicurezza la accompagnava fino a un carrello
elettrico, si chiese in cos’altro si sarebbero trasformati gli esseri umani. In
nuovi terrestri, suppose. A meno che il nome scelto dai coloni abusivi non
avesse avuto il sopravvento. In quel caso... come chiamarli? Ilusiani?
Illusioni? Era un nome fottutamente stupido.
Dio, se era stanca. Era tutto terribilmente vasto e terribilmente pericoloso, e
lei era così stanca.
La stanza privata in fondo al ristorante era stata riservata per lei, uno spazio
previsto per circa due o trecento persone, con lampadari di cristallo, posate
che erano di vero argento, bicchieri da vino di cristallo e tappeti fabbricati in
modo da imitare gli antichi tappeti persiani. Bobbie Draper sedeva al tavolo,
e con la sua mera vicinanza dava l’impressione che ogni cosa intorno a lei
fosse piccola.
«Merda» commentò Avasarala. «Sono in ritardo?»
«Mi hanno detto di venire in anticipo per il controllo di sicurezza» rispose
Bobbie, alzandosi in piedi. Avasarala le andò incontro. Era strano, poteva
abbracciare Fred Johnson con grazia e disinvoltura anche se le importava ben
poco di lui, tranne che come un rivale politico e uno strumento. Bobbie
Draper le piaceva davvero, e tuttavia non sapeva se doveva abbracciare l’ex
sergente di artiglieria, stringerle la mano o semplicemente sedersi e fingere
che si vedessero ogni giorno. Optò per quell’ultima alternativa.
«Come va con il centro di assistenza ai veterani?» chiese.
«Mi permette di pagare i conti» rispose Bobbie.
«Meglio che niente.»
Un giovane dai tratti affilati e avvenenti, con mani estremamente curate,
venne avanti in silenzio e versò vino e acqua per entrambe.
«E a te come vanno le cose?» domandò Bobbie.
«Bene, tutto considerato. Ho un’anca nuova. Arjun dice che mi rende
scorbutica.»
«Come fa a capirlo?»
«Ha un sacco di pratica. Odio questo fottuto nuovo lavoro. Mi andava
benissimo essere l’assistente del sottosegretario, avevo tutto il potere e meno
stronzate. Adesso, con la promozione, devo viaggiare. Incontrare gente.»
«Incontravi gente anche prima» osservò Bobbie, bevendo l’acqua e
ignorando il vino. «È quello che fai. Incontri gente.»
«Adesso devo essere io a muovermi. Non mi va di passare settimane su una
nave solo per fare una conversazione che avrei potuto fare tramite
collegamento, sedendo alla mia fottuta scrivania.»
«Già» commentò Bobbie, con un sorriso. «Credo di capire cosa intendesse
dire Arjun.»
«Non fare la saccente» ribatté Avasarala, mentre il giovane cameriere
avvenente portava loro un’insalata. Lattuga e radicchio freschi, scure olive
salate. Nulla di tutto quello aveva mai visto la luce del sole. «E adesso
questo» aggiunse, prendendo la forchetta.
«Ho seguito i notiziari. Trattati per i diritti di accesso ai portali?»
«No, quelle sono balle. Le rifiliamo ai giornalisti perché abbiano qualcosa
di cui parlare. Abbiamo cose più importanti che bollono in pentola.»
Bobbie si bloccò con la forchetta a metà strada dalla bocca e si accigliò.
Avasarala trangugiò mezzo bicchiere di vino. Era buono, o almeno le
sembrava.
«Il problema,» continuò, puntando la forchetta verso Bobbie per dare
maggiore enfasi alle sue parole «è che mi fidavo di James Holden. ‘Non fare
niente’ gli ho detto. Non sono un’idiota, ma credevo che sarebbe stato sé
stesso.»
«Sé stesso... come?»
Avasarala mangiò una forchettata di lattuga. «Sai quante navi sono in
viaggio per l’Anello? Adesso, in questo momento, abbiamo seicento navi,
ciascuna delle quali ha osservato gli eventi di Nuova Terra come se stesse
leggendo i fottuti fondi di una tazza di tè. Johnson e io abbiamo mandato
Holden a fare da mediatore perché era la persona perfetta per dimostrare che
razza di casino stessero combinando là fuori, quanto le cose potevano farsi
brutte. Mi aspettavo un comunicato stampa ogni volta che qualcuno
sternutiva. Quell’uomo scatena una guerra ogni fottuta volta, e adesso che io
avevo bisogno di un piccolo conflitto? Adesso è un fottuto pacificatore.»
«Non capisco» commentò Bobbie. «Perché volevi un conflitto?»
«Per tirare il freno» rispose Avasarala. «Per salvare Marte. Ma non ho
potuto farlo.»
Bobbie posò la forchetta. Lo splendido cameriere era scomparso. Era bravo
nel suo lavoro e sapeva che per le due donne era il momento di rimanere del
tutto sole.
«Mille soli, Bobbie. Tre ordini di grandezza in più di quanto abbiamo mai
avuto prima. Riesci anche solo a immaginarlo? Per la maggior parte del
tempo io non ce la faccio. E alcuni di quei soli, forse anche tutti, hanno
almeno un pianeta con un’atmosfera respirabile, un posto in grado di
sostentare la vita. È il motivo per cui sono stati selezionati. Qualsiasi cosa
fossero quei fottuti esseri che hanno creato la protomolecola, erano
comunque alla ricerca di posti come la Terra, ed è quello che hanno trovato.
Posti molto più simili alla Terra di quanto lo sia Marte. Nuova Terra è stata il
precedente, e quel precedente è una dannata storia a lieto fine su come
abbiamo collaborato tutti quando le cose si sono fatte drammatiche. Abbiamo
un esempio di come tu possa ottenere di impadronirti di uno di questi pianeti,
se solo ci arrivi abbastanza in fretta e tieni abbastanza duro. Benvenuta alla
più grande migrazione della storia della civiltà umana. Fred Johnson pensa di
poterla tenere sotto controllo perché dispone della strozzatura costituita dalla
Stazione di Medina, ma lui ha anche l’APE a cui rendere conto. È troppo
tardi.»
«Perché cercare di controllare le cose? Perché non permettere alla gente di
insediarsi dove vuole?»
«A causa di Marte.»
«Non capisco.»
«Marte ha la seconda più grande flotta del sistema, qualcosa come
quindicimila testate nucleari, sedici incrociatori da guerra e chissà quante
altre navi da combattimento, più nuove di quelle di cui dispone la Terra, e
meglio progettate, più veloci. Hanno la schermatura delle emissioni di calore
e il riciclaggio rapido dell’acqua e cannoni ad alta energia protonica.»
«I cannoni protonici sono un mito.»
«Non lo sono. Quindi qui avete la seconda marina più potente che ci sia.
Che cosa ne sarà?»
«Proteggerà Marte.»
«Marte è morto, Bobbie. Holden, e questo figlio di puttana, Havelock, e
quella Elvi Okoye, chiunque diavolo sia, lo hanno ucciso. La metà del
governo marziano lo capisce e se la sta facendo addosso al punto che non ha
più ossa in corpo. Chi cazzo resterà su Marte? C’è un migliaio di nuovi
mondi dove non sei costretto a vivere in una grotta e a indossare una tuta a
controllo ambientale per poter camminare sotto un cielo. Qui non rimarrà
nessuno. Sai cosa succederebbe se la metà della popolazione della Terra
partisse alla volta dei mondi al di là dell’Anello?»
«Cosa?»
«Butteremmo giù qualche parete e creeremmo appartamenti più larghi,
tanto numerosa è la nostra popolazione di base. Sai cosa succederebbe a
Marte se il venti percento della popolazione dovesse andarsene?»
«Il progetto di terraformazione verrebbe chiuso?»
«Il progetto di terraformazione verrebbe chiuso, e mantenere le
infrastrutture di base diventerebbe più difficile. Ci sarebbe un collasso delle
entrate fiscali, si aprirebbero crateri nell’economia del pianeta e lo stato
marziano andrebbe in disfacimento. Tutto questo succederà, e la sola
possibilità che avevamo di tenere la cosa sotto controllo è svanita. Avrete un
governo svuotato di sostanza su un pianeta che nessuno vuole perché nessuno
ne ha bisogno. Le materie prime che loro immettevano sul mercato adesso
abbondano su un migliaio di nuovi sistemi dove estrarle è semplice e non si
muore soffocati nel vuoto se c’è un guasto delle attrezzature. E qual è l’unica
cosa – la sola cosa – che rimane da vendere? La vostra unica risorsa?»
«Le quindicimila testate nucleari» disse Bobbie.
«E le navi che le usano. Chi comanderà quelle navi, Bobbie, quando Marte
diventerà una città fantasma? Dove andranno? Chi uccideranno? Noi tutti
stiamo muovendo le nostre pedine in vista del primo conflitto militare
interstellare. E James Holden, che avrebbe potuto trasformare Nuova Terra in
un manifesto del perché era meglio restarsene a casa e darci un po’ di spazio
di manovra, ha invece trovato nuovi modi ingegnosi per mandare all’aria le
cose.»
«Avendo successo?»
«In base a una definizione di quella parola.»
«Il pianeta gli è esploso sotto i piedi» osservò Bobbie.
«Piccoli favori» sbuffò Avasarala.
«Merda» commentò Bobbie.
«Sì.»
Rimasero in silenzio per un lungo momento, mentre Bobbie fissava la sua
insalata senza vederla. Avasarala finì di bere il suo vino. Poteva vedere l’ex
marine seguire le diverse linee di sottintesi e conseguenze. I suoi occhi si
indurirono.
«Questa cena. È un incontro di reclutamento, vero?»
Avasarala incrociò le mani.
«Bobbie, dal momento che noi tutti stiamo manovrando i nostri pezzi...»
«Sì?»
«Ho bisogno di rimetterti sulla scacchiera, soldato.»
Ringraziamenti

Come sempre, c’è una quantità di persone senza le quali questo libro non avrebbe visto la luce del
giorno. Abbiamo un particolare debito di gratitudine con il nostro agente, Danny Baror, e il nostro
editor Will Hinton, con l’incredibile squadra della Orbit, la banda di Sakeriver e Joseph E. Lake Jr.
Tutti loro ci hanno aiutati a ottenere un libro migliore. Qualsiasi errore nei fatti, nella logica e per scelte
di linguaggio infelici è soltanto nostro.

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