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Sommario

Frontespizio
Copyright
Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-3041-6
Edizione ebook: novembre 2015
Titolo originale: Caliban’s War
© 2012 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2015 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published in agreement with the author,
c/o BAROR INTERNATIONAL, INC.,
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Questa copia è concessa in uso esclusivo a
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A Bester e Clarke, che ci hanno portato fin qui.
Prologo

Mei
«Mei?» la chiamò la signorina Carrie. «Per favore, metti via i disegni. È
arrivata tua madre.»
Le ci volle qualche secondo per capire che cosa avesse detto la maestra,
non perché non conoscesse quelle parole – aveva quattro anni ormai, non era
più una mocciosa – ma perché non concordavano con il mondo che
conosceva. Sua madre non poteva venirla a prendere. La mamma aveva
lasciato Ganimede per andare a vivere sulla Stazione di Ceres perché, come
le aveva detto papà, aveva bisogno di un po’ di tempo per stare da sola. Poi,
con il cuore che cominciava a battere veloce, Mei pensò: è tornata.
«Mamma?»
Da dove era seduta, di fronte al cavalletto ribassato, il ginocchio della
signorina Carrie le bloccava la vista della porta del guardaroba. Le dita di
Mei erano appiccicose per i colori, rosso e blu e verde le si confondevano sui
palmi delle mani. Si sporse in avanti e cercò appoggio sulla gamba della
signorina Carrie tanto per spostarla quanto per aiutarsi ad alzarsi.
«Mei!» gridò la signorina Carrie.
Mei fissò la strisciata di pittura sui pantaloni della signorina Carrie e la
rabbia contenuta sul volto ampio e scuro della donna.
«Mi dispiace, signorina Carrie.»
«Non fa niente» disse la maestra con una voce piccata che significava
tutt’altro, in verità, ma Mei non sarebbe stata punita. «Per favore, va’ a lavarti
le mani e vieni a mettere via i disegni. Ti porterò questo giù e potrai regalarlo
a tua madre. È un cagnolino?»
«È un mostro spaziale.»
«È un bellissimo mostro spaziale. Ora, per favore, va’ a lavarti le mani,
tesoro.»
Mei annuì, si voltò e corse verso il bagno, con il grembiule che le
svolazzava intorno come uno straccio incastrato in un condotto d’aerazione.
«E non toccare le pareti!»
«Mi dispiace, signorina Carrie.»
«Non fa niente. Lo pulirai dopo che ti sarai lavata le mani.»
Mei aprì il getto d’acqua a piena potenza e i colori cangianti le
scivolarono via dalla pelle. Si asciugò le mani senza curarsi del fatto che
stesse gocciolando o meno. Aveva l’impressione che la gravità fosse
cambiata, che la attirasse verso la porta e l’anticamera invece che verso terra.
Gli altri bambini la guardavano, eccitati perché lei era eccitata, mentre puliva
via quasi del tutto le ditate dalla parete e rimetteva i vasetti di pittura nella
scatola e la scatola sullo scaffale. Si tirò via il grembiule da sopra la testa
senza nemmeno aspettare che la signorina Carrie le desse una mano e lo ficcò
nel cestino di riciclo.
La signorina Carrie era in piedi nell’anticamera in compagnia di altri due
adulti. Nessuno dei due era la sua mamma. Una era una donna che Mei non
conosceva, con il disegno del mostro spaziale tra le mani delicate e un sorriso
educato in viso. L’altro era il dottor Strickland.
«No, è stata molto buona mentre andava in bagno» stava dicendo la
signorina Carrie. «Certo che qualche piccolo incidente può capitare, di tanto
in tanto.»
«Certo» confermò la donna.
«Mei!» esclamò il dottor Strickland, chinandosi fino ad arrivare alla sua
altezza. «Come sta la mia bambina preferita?»
«Dov’è...» cominciò a dire lei, ma prima che potesse dire ‘mamma’, il
dottor Strickland la prese tra le braccia. Era più grande del suo papà, e
profumava di sale. La tirò su facendole il solletico sulla pancia, e lei rise così
forte che non riuscì più a parlare.
«Grazie mille» disse la donna.
«È stato un piacere conoscerla» replicò la signorina Carrie, stringendole
la mano. «Siamo sempre contenti di avere Mei in classe con noi.»
Il dottor Strickland continuò a fare il solletico a Mei finché la porta
pressurizzata della Montessori non si fu richiusa alle loro spalle. Poi Mei
riuscì a riprendere fiato.
«Dov’è la mamma?»
«Ci sta aspettando» disse il dottor Strickland. «Ora ti portiamo da lei.»
I nuovi corridoi di Ganimede erano ampi e lussureggianti, e i riciclatori
d’aria erano al minimo. Le fronde sottili come lame delle palme di Betel si
slanciavano esuberanti da decine di vasi idroponici. Le ampie foglie striate di
giallo e di verde dei pothos ricadevano a cascata lungo le pareti. I tentacoli
grassi, scuri e primitivi delle sansevierie spuntavano tra le altre due specie.
Innumerevoli LED a spettro solare brillavano bianchi e dorati. Papà diceva che
sulla Terra la luce del sole era proprio così, e Mei si immaginava quel pianeta
come un’immensa, intricata rete di piante e corridoi, con il sole che correva a
strisce sopra di loro nel cielo blu, dove potevi scavalcare i muri e finire chissà
dove.
Mei appoggiò la testa sulla spalla del dottor Strickland, guardando alle
sue spalle ed elencando ogni pianta mentre passavano. Sansevieria
trifasciata. Epipremnum aureum. Ogni volta che indovinava correttamente un
nome, papà le faceva un gran sorriso. Quando era da sola, le dava una
sensazione di calma in tutto il corpo.
«Ce ne sono altre?» chiese la donna. Era molto bella, ma a Mei non
piaceva la sua voce.
«No» disse il dottor Strickland. «Mei è l’ultima.»
«Chysalidocarpus lutenscens» disse Mei.
«Bene» replicò la donna. Poi di nuovo, più piano. «Bene.»
Più si avvicinavano alla superficie e più i corridoi si facevano stretti.
Quelli più vecchi sembravano più sporchi anche se in verità non c’era
nessuna sporcizia evidente. Erano, semplicemente, più consumati. I quartieri
e i laboratori vicino alla superficie erano la zona in cui avevano abitato i
nonni di Mei quando erano arrivati su Ganimede. All’epoca, non c’era ancora
niente di più profondo. L’aria lassù aveva uno strano sapore e i riciclatori
dovevano essere sempre al massimo, ronzando e scricchiolando.
I due adulti non parlavano tra di loro, ma ogni tanto il dottor Strickland si
ricordava che Mei era con loro e le faceva qualche domanda: qual era il suo
cartone animato preferito sui canali della stazione? Chi era la sua migliore
amica a scuola? Che cosa aveva mangiato a pranzo? Mei si aspettava che
cominciasse a farle le altre domande, quelle che poi faceva sempre, e aveva
già le risposte pronte.
Ti senti raschiare la gola? No.
Ti svegli sudata? No.
C’era del sangue nella tua pupù questa settimana? No.
Hai preso le medicine tutte e due le volte, tutti i giorni? Sì.
Stavolta, però, il dottor Strickland non le chiese niente di tutto ciò. I
corridoi che imboccavano si facevano sempre più vecchi e stretti finché la
donna non fu costretta a camminare dietro di loro per permettere il passaggio
di chi incrociavano in direzione opposta. La donna aveva ancora il disegno di
Mei tra le mani, arrotolato a tubo così da non far grinze sul foglio.
Il dottor Strickland si fermò di fronte a una porta priva di indicazioni,
spostò Mei sull’altra anca e tirò fuori il terminale palmare dalla tasca dei
pantaloni. Digitò qualcosa in un programma che Mei non aveva mai visto
prima e la porta si aprì, producendo un suono stridente di sblocco dalle
serrature ermetiche, come se fosse uscita da un vecchio film. Il corridoio
successivo era pieno di cianfrusaglie e vecchie scatole di metallo.
«Questo non è l’ospedale» osservò Mei.
«Questo è un ospedale speciale» replicò il dottor Strickland. «Non credo
che tu ci sia mai stata, vero?»
A Mei non sembrava affatto un ospedale. Sembrava uno di quei tunnel
abbandonati di cui ogni tanto le aveva parlato papà. Spazi in esubero di
quando Ganimede era stata creata, e che nessuno usava più se non come
deposito. Questo però aveva una specie di portellone pressurizzato alla fine,
e, quando lo attraversarono, le cose cominciarono a essere più simili a un
ospedale. Erano più pulite, perlomeno, e c’era un odore di ozono come nelle
celle di decontaminazione.
«Mei! Ciao, Mei!»
Era uno dei bambini più grandi. Sandro. Aveva quasi cinque anni. Mei lo
salutò con la mano mentre il dottor Strickland lo superava. Mei si sentì più
tranquilla sapendo che c’erano anche i bimbi grandi. Se erano lì, allora
probabilmente andava tutto bene, anche se la donna che accompagnava il
dottor Strickland non era la sua mamma. Il che le fece ricordare...
«Dov’è la mamma?»
«Andremo dalla mamma tra pochi minuti» disse il dottor Strickland.
«Abbiamo solo un paio di cosette da fare, prima.»
«No» replicò Mei. «Non mi va.»
Lui la portò dentro una stanza simile a una sala d’esami, solo che non
c’erano leoni disegnati sulle pareti e i tavoli non erano a forma d’ippopotamo
sorridente. Il dottor Strickland la posò su un tavolo chirurgico d’acciaio
inossidabile e le strofinò la testa. Mei incrociò le braccia e mise il muso.
«Voglio la mamma» disse la bimba, e fece lo stesso sbuffo impaziente
che avrebbe fatto papà.
«Va bene. Aspetta qui da brava e vado a vedere che cosa posso fare»
rispose il dottor Strickland con un sorriso. «Umea?»
«Credo che siamo pronti a partire. Sentiamo il reparto operativo,
carichiamo e lo rilasciamo.»
«Vado a notificarglielo. Tu resta qui.»
La donna annuì e il dottor Strickland uscì dalla porta. La donna abbassò
lo sguardo su Mei. Il suo bel viso non sorrideva più. A Mei non piaceva.
«Voglio il mio disegno» disse la piccola. «Non è per te. È per la mia
mamma.»
La donna guardò il disegno che teneva tra le mani come se si fosse
dimenticata che era lì. Lo srotolò.
«È il mostro spaziale di mamma» disse Mei. Questo le strappò un sorriso.
Le porse il disegno, e Mei glielo tolse di mano. Nel farlo accartocciò un po’ il
foglio, ma non le importava. Incrociò di nuovo le braccia, mise il broncio e
sbuffò.
«Ti piacciono i mostri spaziali, bambina?» chiese la donna.
«Voglio la mia mamma.»
La donna le si avvicinò. Puzzava di fiori finti e aveva le dita troppo
magre. Posò Mei a terra.
«Andiamo, bambina» disse. «Ti mostro una cosa.»
La donna si allontanò e per un istante Mei esitò. Quella donna non le
piaceva, ma stare da sola le piaceva ancora di meno. La seguì. La donna
attraversò un breve corridoio, digitò un codice di accesso su una grossa porta
di ferro simile a un portellone di vecchia concezione, e, quando quella si aprì
verso l’interno, lei l’attraversò con passo sicuro. Mei la seguì. La nuova
stanza era fredda. Alla bimba non piaceva. Lì dentro non c’era un tavolo
medico. Solo una grossa scatola di vetro come quelle in cui tenevano i pesci
all’acquario, solo che dentro era asciutta e la cosa che conteneva non era un
pesce. La donna fece segno a Mei di avvicinarsi e, quando la piccola lo fece,
bussò seccamente sul vetro.
La cosa all’interno alzò lo sguardo a quel suono. Era un uomo, ma era
nudo e la sua pelle non sembrava pelle. I suoi occhi baluginavano azzurri,
come se avesse un fuoco dentro la testa. E c’era qualcosa che non andava
nelle sue mani.
La cosa venne verso il vetro e Mei cominciò a gridare.
1

Bobbie
«Snoopy è di nuovo fuori» disse il soldato semplice Hillman. «Mi sa che
il suo ufficiale ce l’ha con lui.»
La sergente d’artiglieria del corpo dei marine di Marte Roberta Draper
attivò l’ingrandimento sul visore dell’armatura e guardò nella direzione
indicata da Hillman. A due chilometri e mezzo da lì, una squadra di quattro
marine delle Nazioni Unite era fuori dall’avamposto, illuminata da dietro
dalla gigantesca serra che stavano sorvegliando. Una serra identica
praticamente in tutto e per tutto alla cupola che la sua squadra stava
sorvegliando in quello stesso momento.
Uno dei quattro marine delle Nazioni Unite aveva delle chiazze nere sui
fianchi del casco, come se fossero le orecchie di un beagle.
«Già. Quello è proprio Snoopy» disse Bobbie. «L’hanno fatto uscire con
tutte le squadre di pattuglia, oggi. Chissà che ha combinato.»
Durante le missioni di pattugliamento attorno alle serre di Ganimede
bisognava fare quel che si poteva per tenersi occupati. Incluso mettersi a fare
congetture sulla vita dei marine dall’altra parte.
L’altra parte. Diciotto mesi prima, non c’erano state parti. I pianeti interni
erano tutti come una grande famiglia felice e vagamente disfunzionale. Poi
c’era stato Eros, e ora le due superpotenze avevano cominciato a spartirsi il
sistema solare, ma l’unica luna che nessuna delle due era disposta a cedere
era Ganimede, il granaio dell’intero sistema gioviano.
In quanto unica luna dotata di magnetosfera, era l’unico luogo in cui le
piantagioni da serra avevano la possibilità di sopravvivere nella difficile
fascia radioattiva di Giove, e anche così le cupole e gli abitanti dovevano
comunque disporre di scudi che proteggessero i civili dagli otto rem
quotidiani che scorticavano la superficie di Giove e quella della sua luna.
L’armatura di Bobbie era stata progettata per permettere a un soldato di
attraversare il cratere lasciato da una testata nucleare pochi minuti dopo
l’esplosione. Funzionava bene anche quando si trattava di impedire a Giove
di friggere i marine marziani.
Alle spalle dei soldati terrestri di pattuglia, la loro cupola brillava in un
raggio di debole luce solare catturata da giganteschi specchi orbitali. Perfino
con gli specchi, la maggior parte delle piante terrestri sarebbe morta per
mancanza di luce solare. Soltanto le versioni più pesantemente modificate,
prodotte in vitro dagli scienziati di Ganimede, potevano sperare di
sopravvivere nel filo di luce che concedevano loro gli specchi.
«Presto arriverà il tramonto» disse Bobbie, continuando a osservare i
marine terrestri all’esterno della loro piccola postazione di guardia, ben
sapendo che anche loro la stavano guardando. Insieme a Snoopy individuò
quello che chiamavano Corto perché non poteva essere molto più alto di un
metro e trenta. Si chiese quale fosse il nomignolo che le avevano affibbiato
loro. Forse la Rossa. La sua armatura aveva ancora la superficie mimetica
marziana. Non era stata su Ganimede abbastanza a lungo da farla ricoprire
con un mimetico a chiazze grigie e bianche.
Uno dopo l’altro, in cinque minuti gli specchi orbitali riflessero un ultimo
lampo di luce e si spensero mentre Ganimede passava alle spalle di Giove per
qualche ora. Il bagliore della serra alle sue spalle si fece blu attinico non
appena si attivarono le luci artificiali. Benché il livello generale
d’illuminazione non scendesse poi di molto, le ombre cambiavano il proprio
comportamento in modi strani e quasi impercettibili. Sopra di loro, il sole –
che da lì non era un disco, ma la stella più brillante in lontananza – ammiccò
mentre svaniva oltre il bordo di Giove e, per un istante soltanto, fu visibile il
tenue sistema di anelli del pianeta.
«Stanno tornando indietro» disse il caporale Travis. «Snoop è di
retroguardia. Poveraccio. Ce ne andiamo anche noi?»
Bobbie si guardò intorno, verso le monotone distese di ghiaccio di
Ganimede. Sentiva il freddo di quella luna penetrarle in corpo con tutta
l’armatura addosso.
«No.»
Gli uomini della sua squadra brontolarono ma ottemperarono al comando
mentre li guidava in un lento pattugliamento a bassa gravità intorno alla serra.
In aggiunta a Hillman e Travis, per quel giro di ronda le avevano assegnato
anche un novellino di nome Gourab. E, benché fosse nei marine da poco più
di un minuto e mezzo, anche lui brontolava tanto quanto gli altri con quella
sua parlata strascicata della Mariner Valley.
Bobbie non poteva biasimarli. Era un lavoro di facciata. Una cosa pensata
per evitare che i soldati marziani su Ganimede se ne stessero con le mani in
mano. Se la Terra avesse deciso che voleva tenersi Ganimede tutta per sé,
quattro pedine a passeggio intorno alla cupola della serra non avrebbero certo
potuto fermarla. In una situazione di stallo tanto tesa, con decine di navi da
guerra terrestri e marziane in orbita, se fossero scoppiate le ostilità, le forze
armate di terra l’avrebbero saputo soltanto quando fossero cominciate a
piovere bombe.
Alla sua sinistra, la cupola s’innalzava per quasi un chilometro: i pannelli
di vetro triangolari erano separati da scintillanti giunzioni color rame che
trasformavano l’intera struttura in una gigantesca gabbia di Faraday. Bobbie
non era mai stata all’interno di una di quelle serre. Era stata inviata da Marte
come parte di un contingente di truppe di rinforzo per i pianeti esterni ed era
stata assegnata al pattugliamento a piedi praticamente fin dal primo giorno
sul posto. Ganimede, per lei, era uno spazioporto, una piccola base marine e
l’avamposto ancor più piccolo che al momento chiamava casa.
Mentre avanzavano intorno alla cupola, Bobbie osservava il panorama
anonimo che li circondava. Ganimede non cambiava molto, a meno di eventi
catastrofici. La superficie era costituita in gran parte da roccia silicea e
ghiaccio idrico, di pochi gradi più calda dello spazio esterno. L’atmosfera era
ossigeno tanto rarefatto che sarebbe potuto passare per vuoto industriale.
Ganimede non si erodeva, né si consumava. Cambiava soltanto quando
veniva colpita da un asteroide precipitato dallo spazio, o quando l’acqua
calda dal suo nucleo liquido si spingeva a forza fino in superficie a creare
laghi di breve durata. Nessuna di queste due cose capitava spesso. A casa, su
Marte, il vento e la polvere cambiavano il panorama di ora in ora. Lì invece
era come trovarsi a ripercorrere gli stessi passi del giorno prima, di quello
precedente e di quello prima ancora. E, se anche non fosse mai tornata
indietro, quelle impronte le sarebbero sopravvissute. Intimamente, Bobbie
pensava che fosse piuttosto raccapricciante.
Un cigolio ritmico cominciò a farsi strada tra i sibili e gli scatti
normalmente attutiti dalla sua corazza potenziata. Solitamente manteneva il
visore della tuta minimizzato. Si riempiva di così tante informazioni che un
marine sapeva qualsiasi cosa tranne quello che aveva concretamente di fronte
agli occhi. Ora però lo attivò usando le palpebre e il movimento degli occhi
per arrivare fino alla pagina di diagnostica della tuta. Una spia gialla la
avvertì che l’attuatore del ginocchio sinistro era a corto di fluido idraulico.
Doveva esserci una perdita da qualche parte; minima, però, perché la tuta non
era stata in grado di individuarla.
«Ehi, ragazzi, fermiamoci un attimo» disse Bobbie. «Hilly, hai un po’ di
fluido idraulico di riserva nel tuo zaino?»
«Sì» rispose Hillman, tirandolo già fuori.
«Dammi una spruzzata sul ginocchio sinistro, per favore.»
Mentre Hillman s’inginocchiava di fronte a lei, intento a sistemarle la
tuta, Gourab e Travis cominciarono a intavolare una discussione che
sembrava vertere sullo sport. Bobbie se ne disinteressò.
«Questa tuta è decisamente datata» disse Hillman. «Dovresti davvero
cambiarla. Questo genere di incidenti capiterà sempre più spesso, sai...»
«Già, dovrei» replicò Bobbie. Ma la verità era che era più semplice a dirsi
che a farsi. Lei non aveva la stazza giusta per entrare comodamente in una
delle tute standard, e ogni volta che aveva richiesto di rinnovare la sua
vecchia corazza i marine le avevano fatto fare i salti mortali con triplo
carpiato. Con i suoi due metri abbondanti di altezza, Bobbie era di poco sopra
la media per un maschio marziano, ma, in parte grazie alla sua ascendenza
polinesiana, pesava poco più di cento chili a 1 g. Non aveva un filo di grasso,
ma i suoi muscoli sembravano ingrossarsi non appena metteva anche soltanto
un piede nella sala pesi. E, in quanto marine, si allenava tutti i giorni.
La tuta che indossava ora era la prima, in dodici anni di servizio attivo,
che le calzava a pennello. E, anche se cominciava a manifestare i segni
dell’età, era più facile cercare di mantenerla in funzione piuttosto che pregare
e supplicare per ottenerne una nuova.
Hillman stava cominciando a riporre gli attrezzi, quando la radio di
Bobbie si attivò crepitando.
«Avamposto quattro a pedina. Rispondi, pedina.»
«Ricevuto, quattro» replicò Bobbie. «Qui pedina uno. Di’ pure.»
«Pedina uno, dove siete? Siete in ritardo di mezz’ora e qui abbiamo
qualche complicazione.»
«Scusate, quattro, abbiamo avuto problemi con l’equipaggiamento» disse
Bobbie, curiosa di sapere che genere di complicazioni potessero esserci, ma
non abbastanza da chiederlo su una frequenza aperta.
«Tornate immediatamente all’avamposto. Abbiamo registrato dei colpi di
arma da fuoco all’avamposto delle Nazioni Unite. Stiamo per attivare il
protocollo di sicurezza.»
Bobbie ci mise una frazione di secondo per registrare quell’informazione.
Vide i suoi uomini che la fissavano con un misto di curiosità e paura in viso.
«Ehm... I terrestri vi stanno sparando?» chiese alla fine.
«Non ancora, ma stanno sparando. Riportate qui le chiappe.»
Hillman si rimise in piedi. Bobbie fletté il ginocchio una volta e la spia
diagnostica divenne verde. Ringraziò Hilly con un cenno del capo, poi disse:
«A passo veloce fino all’avamposto. Muoviamoci.»
Quando fu dato l’allarme generale, Bobbie e la sua squadra erano ancora
a mezzo chilometro dall’avamposto. Il visore della sua tuta si attivò da solo,
passando in modalità combattimento. Il pacchetto di sensori si mise in
funzione alla ricerca di presenze ostili e si collegò a uno dei satelliti per avere
una visione dall’alto. Bobbie sentì lo scatto dell’arma incorporata nella sua
tuta che passava in modalità d’ingaggio libero.
Se si fosse trattato di un bombardamento orbitale, ci sarebbero stati un
migliaio di allarmi diversi, ma non poté impedirsi di guardare comunque
verso il cielo. Nessun lampo né scia di missile. Nient’altro che la massa
ingombrante di Giove.
Bobbie scattò verso l’avamposto in una lunga corsa caracollante. La sua
squadra la seguì senza una parola. Una persona addestrata all’uso di una tuta
ad aumento prestazionale in corsa a bassa gravità poteva coprire rapidamente
molto terreno. L’avamposto apparve oltre la curvatura della cupola dopo
pochi secondi e, qualche altro secondo dopo, anche la causa scatenante
dell’allarme.
I marine delle Nazioni Unite stavano venendo alla carica contro
l’avamposto marziano. La guerra fredda durata un anno sembrava
improvvisamente aver preso fuoco. Da qualche parte, oltre l’abitudine al
sangue freddo e alla disciplina, Bobbie era sorpresa. Non aveva mai pensato
che questo giorno sarebbe arrivato veramente.
Il resto del suo plotone era uscito dall’avamposto ed era disposto in una
linea di fuoco rivolta verso le truppe delle Nazioni Unite. Qualcuno aveva
portato Yojimbo sul fronte, e l’esoscheletro da combattimento torreggiava
sugli altri marine dall’alto dei suoi quattro metri, come un gigante senza testa
in armatura potenziata, con il suo massiccio cannone che si muoveva lento
mentre inquadrava le truppe terrestri in avvicinamento. I soldati delle Nazioni
Unite stavano percorrendo i due chilometri e mezzo che li separavano dal
loro avamposto correndo a perdifiato.
Perché stanno tutti zitti?, si chiese Bobbie. Il silenzio del suo plotone era
inquietante.
E poi, proprio quando la sua squadra aveva raggiunto le linee di fuoco, la
tuta le inviò un messaggio di allerta di disturbo delle frequenze. La visuale
dall’alto scomparve nell’istante in cui perse il contatto con il satellite. Gli
indicatori dei parametri vitali della sua squadra e dell’equipaggiamento si
spensero come se il suo collegamento con le loro tute fosse stato troncato. Il
crepitio di sottofondo della linea aperta svanì di punto in bianco, sostituito da
un silenzio ancor più inquietante.
Bobbie posizionò la sua squadra sul fianco destro con i segnali manuali,
poi si spostò lungo la riga alla ricerca del tenente Givens, il suo ufficiale in
comando. Individuò la sua tuta al centro esatto dei ranghi, quasi direttamente
sotto Yojimbo. Corse verso di lui e attaccò il casco a quello del tenente.
«Che cazzo sta succedendo, El Tee?» gridò.
Lui le rivolse un’occhiata irritata e urlò: «Ne so quanto lei. Non possiamo
intimare loro di arretrare per via del disturbo di frequenza, e gli avvertimenti
visivi sono stati ignorati. Prima che il contatto radio venisse interrotto, ho
ricevuto l’autorizzazione ad aprire il fuoco nel caso dovessero arrivare a
meno di mezzo chilometro dalla nostra posizione.»
Bobbie aveva un altro paio di centinaia di domande, ma le truppe delle
Nazioni Unite sarebbero arrivate al limite dei cinquecento metri di lì a pochi
secondi, per cui si affrettò a tornare indietro per fornire supporto al fianco
destro con la sua squadra. Mentre tornava in posizione, fece calcolare alla
tuta le forze in avvicinamento e le segnalò tutte come ostili. La tuta riportò
sette bersagli. Meno di un terzo delle truppe stanziate nell’avamposto delle
Nazioni Unite.
Non ha alcun senso.
Fece segnare alla sua tuta una linea a cinquecento metri di distanza sul
suo visore. Non disse ai suoi ragazzi che quello era il limite di ingaggio. Non
ce n’era bisogno. Avrebbero aperto il fuoco non appena l’avesse fatto lei,
senza bisogno di sapere perché.
I soldati delle Nazioni Unite avevano oltrepassato la linea del chilometro
e non avevano ancora sparato un colpo. Correvano in formazione sparsa, con
sei uomini davanti in una sorta di fronte sfilacciato e un settimo nelle
retrovie, a una settantina di metri più indietro. Il visore della sua tuta
selezionò la sagoma più a sinistra del gruppo nemico, scegliendo il bersaglio
più vicino a lei come da impostazione predefinita. Qualcosa però non le
tornava, così escluse il comando automatico e selezionò il bersaglio nelle
retrovie, inquadrandolo e ingrandendolo.
Quella piccola sagoma s’ingrandì di colpo nella griglia del suo mirino.
Sentì un brivido scenderle lungo la schiena e ingrandì ancora.
La cosa che inseguiva i sei marine delle Nazioni Unite non indossava
nessuna tuta ambientale. E non era, letteralmente parlando, umana. La sua
pelle era coperta di placche chitinose, come grosse scaglie nere. La sua testa
era un enorme orrore, due volte più grande di quella che sarebbe dovuta
essere e coperta di strane escrescenze.
Ma la cosa più sconvolgente erano le mani: troppo grandi per quel corpo
e troppo lunghe per quanto erano larghe. Erano mani uscite dall’incubo di un
bambino. Le mani dell’orco sotto il letto, o della strega che s’intrufolava nella
stanza dalla finestra. Si flettevano e stringevano l’aria con una costante
energia nervosa.
I soldati terrestri non stavano attaccando. Stavano battendo in ritirata.
«Sparate alla cosa che li sta inseguendo!» gridò Bobbie senza che
nessuno potesse udirla.
Prima che i soldati delle Nazioni Unite riuscissero ad arrivare alla linea di
mezzo chilometro, che avrebbe provocato l’apertura delle linee di fuoco
marziane, la cosa li raggiunse.
«Oh, merda» sussurrò Bobbie. «Merda, merda.»
Afferrò un marine delle Nazioni Unite tra le mani enormi e lo strappò in
due come fosse carta. L’armatura in titanio ceramico si dilaniò con la stessa
facilità della carne che conteneva, riversando indiscriminatamente sul
ghiaccio frammenti di tecnologia e viscere umane. I cinque soldati superstiti
presero a correre ancor più affannosamente, ma il mostro che li inseguiva
rallentava a malapena mentre continuava a uccidere.
«Sparate, sparate, sparate!» gridò Bobbie, aprendo il fuoco. Il suo
addestramento e la tecnologia della sua tuta da combattimento si
combinavano per renderla una macchina assassina a elevata efficienza. Non
appena il suo dito premette il grilletto dell’arma incorporata nella tuta, una
raffica di proiettili perforanti da due millimetri si schiantò sulla creatura alla
velocità di più di un chilometro al secondo. In meno di un secondo, aveva
sparato cinquanta colpi. La creatura era un bersaglio di taglia umana,
relativamente lento, che veniva loro incontro in linea retta. Il sistema di
puntamento di Bobbie era in grado di effettuare correzioni balistiche tali da
metterla in condizione di colpire un oggetto della taglia di una palla da
softball in movimento a velocità supersoniche. Ogni singolo proiettile che
aveva sparato addosso al mostro andò a segno.
Ma non servì.
I proiettili l’attraversarono, probabilmente senza nemmeno rallentare
prima di trapassarlo. Da ogni foro di uscita, al posto del sangue, schizzarono
fuori filamenti neri che chiazzarono la neve. Era come sparare nell’acqua. Le
ferite si richiusero quasi più rapidamente di quanto non si fossero aperte;
l’unico segno che la cosa fosse stata davvero colpita erano quelle strisciate di
fibre nere al suo passaggio.
Poi afferrò un secondo marine delle Nazioni Unite. Invece di farlo a pezzi
come aveva fatto con l’ultimo, lo fece roteare per aria e lo scaraventò con
tutta l’armatura – che in totale doveva pesare più di cinquecento chili – verso
Bobbie. Il suo visore tracciò l’arco di traiettoria del soldato delle Nazioni
Unite e la informò tempestivamente che il mostro non aveva tirato il marine
verso di lei, ma proprio su di lei. Con una traiettoria decisamente diretta. Il
che significava rapida.
Lei si tuffò da un lato alla massima velocità di movimento consentita
dalla sua tuta. Lo sventurato marine delle Nazioni Unite centrò in pieno
Hillman, che era in piedi accanto a lei, ed entrambi schizzarono via,
rimbalzando sul ghiaccio a velocità letale.
Quando Bobbie tornò a voltarsi verso il mostro, quello aveva già ucciso
altri due soldati.
L’intero plotone marziano aprì il fuoco contro di esso, incluso il
massiccio cannone di Yojimbo. I due soldati terrestri superstiti si separarono e
cominciarono a fuggire in direzioni opposte, cercando di dare alla controparte
marziana un’apertura per la linea di fuoco. La creatura fu colpita centinaia,
migliaia di volte. Si ricucì le ferite continuando a correre a piena velocità,
rallentando appena quando uno degli obici di Yojimbo le esplose accanto.
Bobbie si alzò in piedi e si unì al fuoco di sbarramento, ma non fece
alcuna differenza. La creatura si schiantò sulle linee marziane, uccidendo due
marine più rapidamente di quanto l’occhio non potesse seguirla. Yojimbo si
scansò di lato, ben più agile di quanto non sarebbe dovuta essere una
macchina della sua stazza. Bobbie immaginò che fosse Sa’id a guidarla. Il
pilota si vantava di saperle far danzare il tango, quando voleva. Anche quello
però non servì. Ancor prima che Sa’id riuscisse a puntare il cannone per un
colpo a bruciapelo, la creatura si arrampicò su un fianco, piantò le mani sul
portello e lo aprì, scardinandolo senza difficoltà. Sa’id fu strappato via
dall’imbragatura dell’abitacolo e scaraventato a sessanta metri di altezza.
Gli altri marine avevano cominciato a ritirarsi, continuando a sparare
mentre indietreggiavano. Senza la comunicazione radio, non c’era modo di
coordinare la ritirata. Bobbie si ritrovò a correre verso la cupola insieme a
tutti gli altri. Quella piccola parte distante della sua mente che non si era
lasciata sopraffare dal panico sapeva bene che la serra di vetro e metallo non
avrebbe offerto alcuna protezione contro una cosa in grado di dilaniare a metà
un uomo in armatura o di fare a pezzi un esoscheletro da nove tonnellate.
Quella parte della sua mente riconosceva la futilità della fuga, tentando di
controllare il terrore.
Quando raggiunse il portellone esterno della cupola, con lei era rimasto
soltanto un altro marine. Gourab. Da vicino, Bobbie vide la sua faccia
attraverso il vetro blindato del suo casco. Stava gridando qualcosa che lei non
riuscì a sentire. Lei fece per chinarsi in avanti e portare in contatto i loro
caschi, quando lui la spinse via sul ghiaccio. Gourab colpì i controlli di
apertura della porta con un pugno guantato di metallo, cercando di forzare un
passaggio, quando la creatura lo afferrò e tirò via il casco della sua tuta con
facilità inaudita. Gourab rimase lì per un istante, con la faccia nel vuoto,
sbattendo le palpebre e spalancando la bocca in un grido silenzioso. Poi la
creatura gli strappò via la testa con la stessa facilità del casco.
La cosa si voltò e fissò Bobbie, ancora riversa a terra.
Da così vicino, Bobbie vide che aveva gli occhi blu. Di un blu elettrico,
fluorescente. Erano bellissimi. Alzò l’arma e tenne premuto il grilletto per
mezzo secondo prima di rendersi conto che aveva finito le munizioni da un
pezzo. La creatura fissò la pistola con quella che avrebbe giurato essere
curiosità, poi la guardò negli occhi e inclinò la testa da un lato.
Ci siamo, pensò lei. Me ne vado così, e non saprò mai che cos’è stato a
farmi fuori, o perché.
Poteva sopportare di morire. Ma morire senza alcuna risposta le sembrò
terribilmente crudele.
La creatura avanzò verso di lei, poi si fermò ed ebbe un sussulto. Un
nuovo paio di arti le spuntarono dal torso e si agitarono come tentacoli. La
sua testa, già grottesca, sembrò gonfiarsi ancora. Gli occhi blu brillarono con
la stessa intensità delle luci nella cupola.
E poi esplose in una palla di fuoco che scaraventò Bobbie lontano da lì,
mandandola a sbattere su un crinale con tanta forza da far irrigidire il gel anti-
impatto della sua tuta, immobilizzandola sul posto.
Lei rimase riversa sulla schiena, scivolando nel buio dell’incoscienza. Il
cielo notturno al di sopra cominciò a riempirsi di lampi. Le navi in orbita
avevano cominciato a spararsi addosso.
Cessate il fuoco, pensò lei, spingendo quel pensiero nell’oscurità che le si
richiudeva intorno. Si stavano ritirando. Cessate il fuoco. La sua radio era
ancora fuori uso, così come la tuta. Non poté dire a nessuno che non erano
stati i marine delle Nazioni Unite ad attaccarli.
Né che era stato qualcos’altro, a farlo.
2

Holden
La macchina per il caffè era di nuovo rotta.
Di nuovo.
Jim Holden spinse il pulsante rosso di mescita ancora qualche volta, ben
sapendo che non sarebbe servito a niente ma incapace di evitarlo. Quella
massiccia, scintillante macchina automatica, progettata per preparare
abbastanza caffè da provvedere ai bisogni di un intero equipaggio marziano,
si rifiutava di mescere anche soltanto una singola tazzina. Si rifiutava di dare
segni di vita. Non si limitava a non funzionare; si rifiutava di provarci.
Holden chiuse gli occhi mentre il mal di testa da astinenza da caffeina
minacciava di assalirgli le tempie e pigiò il pulsante sul pannello a parete più
vicino per aprire la comunicazione interna generale.
«Amos» disse.
Le linee non funzionavano.
Sentendosi sempre più ridicolo, premette il tasto di apertura della linea
diverse altre volte. Niente. Aprì gli occhi e vide che tutte le spie del pannello
erano spente. Poi si voltò e notò che anche le luci del frigo e dei forni lo
erano. Non si trattava solo della macchina del caffè: l’intera cambusa era in
rivolta. Holden fissò il nome della nave, Rocinante, da poco applicato a
stencil sulla paratia della cambusa, e disse: «Bella mia, perché continui a
ferirmi quando io ti amo così tanto?»
Tirò fuori il terminale palmare e chiamò Naomi.
Finalmente, dopo qualche istante di attesa, lei rispose. «Ehm, sì?»
«La cambusa non funziona. Dov’è Amos?»
Ci fu una pausa. «Mi stai chiamando dalla cambusa? Mentre siamo
entrambi sulla stessa nave? Cos’è, ti pesa fare un passo fino al pannello di
comunicazione?»
«Non funziona nemmeno quello. Quando ho detto che ‘la cambusa non
funziona’, non era una simpatica iperbole. Intendevo dire che non c’è
letteralmente niente che funzioni, in questa cambusa. Ho chiamato te perché
tu ti porti appresso il terminale, mentre Amos non lo fa quasi mai. E anche
perché a me non dice mai su cosa lavora, mentre tu sai sempre tutto. Allora,
dov’è Amos?»
Naomi rise. Era un suono bellissimo, e non mancava mai di far sbocciare
un sorriso sul volto di Holden. «Mi ha detto che aveva intenzione di rivedere
un po’ di cablaggi.»
«Voi avete corrente, lassù? O stiamo per caso precipitando nello spazio
senza più alcun controllo, e stavate cercando di trovare un modo carino per
mettermi a conoscenza della cosa?»
Holden sentiva il picchiettio delle dita di Naomi sulla tastiera dall’altra
parte della linea. Lei canticchiava mentre lavorava.
«No» gli disse. «L’unica zona senza corrente sembrerebbe essere proprio
la cambusa. Aggiungo che Alex ci ha appena comunicato che siamo a meno
di un’ora dallo scontro con i pirati dello spazio. Vuoi salire in plancia a
combattere contro di loro?»
«Non posso combattere contro i pirati senza il mio caffè. Vado a cercare
Amos» disse Holden, poi chiuse la comunicazione e si rimise il terminale in
tasca.
Si spostò verso la scala che portava alla chiglia della nave e chiamò
l’ascensore. La nave pirata in fuga poteva sopportare un’accelerazione di 1 g
al massimo per un volo prolungato, per cui il pilota di Holden, Alex Kamal,
aveva impostato la loro velocità di crociera a 1,3 g per garantire l’intercetto.
Qualunque velocità più alta di 1 g rendeva azzardato usare le scale.
Pochi secondi dopo, il portellone del ponte si aprì e l’ascensore si fermò
ai suoi piedi con un sussurro. Holden salì e premette il pulsante della sala
macchine. L’ascensore cominciò la sua lenta discesa lungo la colonna, con i
portelloni che si aprivano e si richiudevano al suo passaggio.
Amos Burton era in officina, un ponte più su della sala macchine. Sul
banco di lavoro di fronte a sé aveva un congegno mezzo smontato,
dall’aspetto decisamente complesso, ed era intento a lavorarci sopra con un
saldatore. Indossava una tuta grigia di diverse taglie troppo piccola, che
faticava a contenere le sue ampie spalle quando si muoveva, con il vecchio
nome della nave, Tachi, ancora ricamato sul dorso.
Holden fermò l’ascensore e disse: «Amos, la cambusa non funziona.»
Amos fece un gesto impaziente con il braccio muscoloso senza smettere
di lavorare. Holden attese. Dopo un paio di secondi, Amos posò il saldatore e
si voltò.
«Già. Non funziona perché ho tolto questo piccolo bastardo da lì» disse,
indicando il congegno che era intento a saldare.
«Puoi rimetterlo a posto?»
«No. O perlomeno, non subito. Non ho finito di lavorarci.»
Holden sospirò. «Era necessario che disabilitassimo la cambusa per
aggiustare quell’affare appena prima di affrontare una banda di sanguinari
pirati dello spazio? Perché la testa comincia a farmi un gran male, e mi
piacerebbe potermi fare una bella tazza di caffè prima di... sai com’è... prima
di fare la guerra.»
«Sì, era importante» disse Amos. «Vuoi che ti spieghi perché, o preferisci
fidarti della mia parola?»
Holden annuì. Benché non sentisse la nostalgia dei suoi giorni nella
marina militare terrestre, in effetti certe volte provava qualcosa di simile per
quell’assoluto rispetto per la linea gerarchica. Sulla Rocinante, il titolo di
‘capitano’ sembrava avere contorni molto più nebulosi. Ripristinare cablaggi
era il lavoro di Amos, il quale pareva refrattario all’idea di dover informare
Holden ogni volta che lo faceva.
Holden lasciò perdere la questione.
«Va bene» disse. «Ma mi avrebbe fatto piacere essere avvertito per
tempo. Sarò irritabile, senza il mio caffè.»
Amos gli fece un gran sorriso e si calcò nuovamente il cappello sul cranio
quasi calvo.
«Diavolo, cap, per quello ci penso io» replicò, poi allungò una mano e
afferrò un grosso thermos metallico dal banco. «Ho preparato una riserva
d’emergenza prima di spegnere la cambusa.»
«Amos, mi scuso per tutte le brutte cose che stavo pensando di te fino a
un attimo fa.»
Amos fece un gesto noncurante con la mano e tornò al lavoro. «Prendilo
tu. Io mi sono già fatto una tazza.»
Holden tornò sull’ascensore e salì fino in plancia, stringendo il thermos
con entrambe le mani come se ne andasse della sua vita.
Naomi era seduta al pannello sensori e comunicazione, tenendo d’occhio
il loro progresso nell’inseguimento dei pirati in fuga. Holden vide subito che
erano molto più vicini di quanto non avesse previsto l’ultima stima ricevuta.
Si assicurò con le cinghie sul sedile da combattimento. Aprì uno sportello lì
vicino e, immaginando che si sarebbero presto trovati in bassa accelerazione
gravitazionale o in caduta libera, tirò fuori un bulbo per il suo caffè.
Mentre lo riempiva dal beccuccio del thermos, disse: «Ci stiamo
avvicinando terribilmente in fretta. Che succede?»
«La nave pirata ha rallentato parecchio rispetto alla sua accelerazione
iniziale di 1 g. Sono passati a mezzo g per un paio di minuti, poi, un minuto
fa, hanno interrotto completamente l’accelerazione. Il computer ha
individuato alcune fluttuazioni nelle emissioni dei reattori appena prima che
rallentassero, per cui credo che gli siamo stati troppo addosso.»
«Hanno mandato in avaria la nave?»
«Hanno mandato in avaria la nave.»
Holden prese un lungo sorso dal bulbo, ustionandosi la lingua nel farlo
ma senza curarsene.
«Tra quanto li intercettiamo?»
«Cinque minuti al massimo. Alex stava aspettando che salissi su e ti
allacciassi le cinture per effettuare la decelerazione finale.»
Holden picchiettò sul pannello di comunicazione generale e disse:
«Amos, allaccia le cinture. Mancano cinque minuti ai cattivoni.» Poi passò
alla linea della cabina di pilotaggio e chiese: «Alex, che si dice?»
«Credo che abbiano rotto la loro nave» rispose Alex con la sua calata
marziana da Mariner Valley.
«Mi sembra che siamo tutti concordi sulla questione» disse Holden.
«Così è più difficile darsela a gambe.»
La Mariner Valley era stata in origine colonizzata da cinesi, indiani e
texani. Alex aveva la pelle scura e i capelli corvini di un indiano. Venendo
dalla Terra, Holden aveva sempre trovato terribilmente sconcertante che un
accento texano tanto marcato provenisse da quella bocca quando il suo
cervello gli suggeriva che dovesse invece parlare con accento del Punjab.
«E a noi facilita le cose» replicò Holden, facendo avviare il pannello di
operazioni belliche. «Portaci in stazionamento relativo a diecimila chilometri.
Punterò loro addosso il mirino laser e attiverò i cannoni da difesa ravvicinata.
Apri anche i bocchettoni esterni dei missili. Non vedo perché non dovremmo
sembrare il più minacciosi possibile.»
«Ricevuto, capo» rispose Alex.
Naomi si voltò sul suo sedile e rivolse un sorriso ironico a Holden.
«Combattere contro dei pirati spaziali. Com’è romantico.»
Holden non poté impedirsi di restituirle un sorriso. Perfino con indosso
una tuta da ufficiale navale marziano di tre taglie troppo corta e cinque taglie
troppo larga in vita per la sua silhouette affusolata ed esile da cinturiana, a lui
sembrava bellissima. I suoi lunghi capelli mossi erano legati in una coda
ribelle sulla nuca. I suoi tratti erano un misto sconcertante di Asia,
Sudamerica e Africa, insolito perfino per il crogiolo di etnie della Fascia.
Holden osservò il proprio riflesso da ragazzo di campagna del Montana e i
suoi capelli castani, e, a confronto, si sentì un tipo qualunque.
«Sai quanto mi piaccia qualsiasi cosa che ti spinga a pronunciare la parola
‘romantico’» disse. «Ma temo proprio di non poter condividere il tuo
entusiasmo. Abbiamo cominciato salvando il sistema solare da una terribile
minaccia aliena. E ora... questo?»
Holden aveva conosciuto bene soltanto un poliziotto, e brevemente.
Durante la lunga, sgradevole serie di inenarrabili casini che era stata
sintetizzata nella definizione di ‘incidente di Eros’, per qualche tempo
Holden aveva fatto squadra con un uomo magro, grigio e guasto di nome
Miller. Quando si erano incontrati per la prima volta, Miller si era già
dimesso dal suo incarico ufficiale per iniziare a lavorare ossessivamente su
un caso di persona scomparsa.
Non erano mai stati propriamente amici ma, insieme, erano riusciti a
impedire che la razza umana fosse spazzata via dalla sociopatia autoindotta di
una multinazionale che aveva recuperato un’arma aliena. Arma che, durante
l’intera storia dell’umanità, era sempre stata scambiata per una delle lune di
Saturno. In quest’ottica, perlomeno, si poteva dire che la loro collaborazione
fosse stata un successo.
Holden era stato un ufficiale di navigazione per sei anni. Durante quel
periodo aveva visto morire diversi uomini, ma soltanto sullo schermo di un
radar. Su Eros invece aveva visto morire migliaia di persone, da vicino e in
modi orribili. Ne aveva uccise un paio lui stesso. La dose di radiazioni a cui
era stato esposto in quell’occasione lo costringeva ad assumere farmaci in
continuazione per fermare i tumori che continuavano a sbocciare tra i suoi
tessuti. Ma se l’era cavata comunque meglio di Miller.
Grazie a Miller, l’infezione aliena era sbarcata su Venere invece che sulla
Terra. Ma non era stata debellata. In qualunque cosa consistesse quella
confusa riprogrammazione aliena, stava continuando a prosperare sotto la
spessa coltre di nubi del pianeta, e fino a quel momento nessuno era stato in
grado di offrire un parere scientifico più articolato di: ‘Uhm... Strano.’
Salvare l’umanità era costato la vita al vecchio, stanco detective
cinturiano.
Salvare l’umanità aveva trasformato Holden in un impiegato
dell’Alleanza dei Pianeti Esterni con il compito di dare la caccia ai pirati.
Anche quando era in giornata no, doveva ammettere di aver pescato la
pagliuzza più lunga.
«Trenta secondi all’intercettazione» disse Alex.
Holden tornò a pensare al presente e chiamò la sala motori. «Sei a posto
là sotto, Amos?»
«Ci sono, capo. Pronto a ballare. Cercate di non far sparare troppo alla
mia ragazza.»
«Nessuno sparerà a nessuno, oggi» disse Holden, dopo aver chiuso il
canale di comunicazione. Naomi lo sentì e inarcò un sopracciglio con fare
interrogativo. «Naomi, apri la comunicazione. Voglio mandare un messaggio
ai nostri amici, laggiù.»
Un secondo più tardi, i controlli della linea esterna apparvero sul suo
pannello. Holden puntò un raggio stretto sulla nave pirata e attese che il
collegamento passasse sul verde. Quando si accese, disse: «Nave mercantile
non identificata, qui è il capitano James Holden della fregata missilistica
Rocinante, dell’Alleanza dei Pianeti Esterni, che vi parla. Rispondete, prego.»
Le sue cuffie restarono silenziose, tranne per il debole fruscio statico di
sottofondo.
«Sentite, ragazzi, non facciamola tanto lunga. So che sapete chi sono. So
anche che, cinque giorni fa, avete attaccato il cargo alimentare Somnambulist,
ne avete disattivato i motori e avete rubato seimila chili di proteine e tutta la
loro riserva d’aria. Il che è tutto quello che mi serve di sapere su di voi.»
Ancora silenzio statico.
«Allora, ecco la mia proposta: mi sono stancato di corrervi appresso, e
non vi permetterò di guadagnare tempo mentre sistemate la vostra nave in
avaria per portarmi ancora un po’ a spasso. Se non mi notificherete una resa
totale e incondizionata entro i prossimi sessanta secondi, vi sparerò addosso
un paio di testate al plasma ad alta intensità e ridurrò la vostra nave a un
ammasso di lamiere fuse. Dopodiché me ne tornerò a casa e dormirò come un
angioletto.»
Il silenzio statico fu finalmente interrotto da un ragazzo che sembrava fin
troppo giovane per aver già preso la decisione di condurre un’intera vita
dedita al banditismo.
«Non puoi farlo. L’APE non è un vero governo. Legalmente non potete
farci un cazzo, per cui fareste meglio a togliervi di mezzo» disse la voce, che
sembrava essere sul punto di emettere uno squittio pubescente ad ogni parola.
«Ma davvero? È il meglio che sai fare?» replicò Holden. «Senti, lasciamo
da parte il dibattito sulla legalità e su ciò che, di fatto, costituisce una reale
autorità governativa. Guarda che cosa vi dice il radar della mia nave. Mentre
voi ve ne state in un mercantile arrabattato su cui qualcuno ha saldato alla
bell’e meglio un cannone gauss fatto in casa, io mi trovo a bordo di un
bombardiere marziano allo stato dell’arte che dispone di una potenza di fuoco
sufficiente a polverizzare una piccola luna.»
La voce dall’altra parte non rispose.
«Ragazzi, anche se proprio insistete a non volermi riconoscere come
autorità legale, possiamo perlomeno concordare sul fatto che posso farvi
saltare in aria in qualsiasi momento?»
La linea rimaneva silente.
Holden sospirò e si strofinò il naso tra gli occhi. Nonostante la caffeina, il
suo mal di testa rifiutava di andarsene. Lasciando aperto il canale di
comunicazione con la nave pirata, aprì una linea con la cabina di pilotaggio.
«Alex, fammi un buco in quel mercantile con i cannoni di difesa avanzati.
Mira al centro.»
«Aspetta!» gridò il ragazzo dall’altra nave. «Ci arrendiamo! Cristo
santo!»
Holden si stiracchiò a gravità zero, godendosi quel momento dopo tutti i
giorni passati in accelerazione, e sorrise tra sé e sé. Nessuno si farà sparare,
oggi. Proprio così.
«Naomi, dai istruzione ai nostri nuovi amici di cederti il controllo remoto
della loro nave, e riportiamoli alla Stazione di Tycho per far deliberare la
cosa ai tribunali dell’APE. Alex, una volta che avranno sistemato i loro
motori, pianificaci un viaggio di ritorno a mezzo g, comodo comodo. Io me
ne vado in infermeria alla ricerca di un’aspirina.»
Holden si slacciò le cinture del sedile e si spinse verso la scala della
plancia. Lungo il percorso, il suo terminale palmare cominciò a trillare. Era
Fred Johnson, leader designato dell’APE nonché loro mentore personale sulla
stazione manifatturiera della Tycho Corporation, che ora fungeva de facto
anche da quartier generale dell’APE.
«Ehi, Fred. Abbiamo catturato i pirati cattivoni. Te li riportiamo per il
processo.»
Sull’ampio volto scuro di Fred comparve un sorriso ironico. «Questa sì
che è una novità. Ti sei stancato di farli saltare in aria?»
«No, è solo che ho finalmente trovato qualcuno che mi ha creduto quando
gli ho detto che l’avrei fatto.»
Il sorriso di Fred si trasformò in un cipiglio. «Ascolta, Jim, non è per
questo che ti chiamavo. Ho bisogno che torni su Tycho il prima possibile. Sta
succedendo qualcosa su Ganimede...»
3

Prax
Praxidike Meng andò verso la porta del magazzino, rivolse lo sguardo
verso i campi di foglie che ondulavano dolcemente, così profondamente verdi
da sembrare quasi nere, e cedette al panico. La cupola s’inarcava sopra di lui,
più scura di quanto non sarebbe dovuta essere. La corrente delle luci di
crescita artificiale era stata tagliata, e gli specchi... non riusciva nemmeno a
pensare agli specchi.
I bagliori delle navi in combattimento parevano difetti su uno schermo di
bassa qualità: colori e movimenti che non sarebbero dovuti esserci. Il segno
che qualcosa stava andando male. Molto male. Si umettò le labbra. Doveva
pur esserci un modo. Doveva esserci un modo per salvarli.
«Prax» disse Doris. «Dobbiamo andare. Ora.»
L’ultimo ritrovato della botanica agricola a consumo ridotto, il Glycine
kenon, un tipo di germoglio di soia così pesantemente modificato da essere
considerato una nuova specie a sé, aveva rappresentato gli ultimi otto anni
della sua vita. Era il motivo per cui i suoi genitori non avevano ancora visto
la loro unica nipotina in carne e ossa. Il Glycine kenon, e un paio di altre
cosette, avevano messo fine al suo matrimonio. Vedeva gli otto differenti
filari di cloroplasti artificiali nei campi, ognuno dei quali cercava di estrarre
la maggior quantità di proteine per fotone. Gli tremavano le mani. Era sul
punto di vomitare.
«Mancano meno di cinque minuti all’impatto» disse Doris. «Dobbiamo
evacuare la serra.»
«Io non vedo niente» replicò Prax.
«Sta arrivando anche troppo in fretta. Quando apparirà, non avrai più il
tempo di vederlo. Tutti gli altri se ne sono andati. Siamo gli ultimi. Sali
sull’ascensore, ora.»
I grandi specchi orbitali erano sempre stati suoi alleati, brillando sui suoi
campi come un centinaio di pallidi soli. Non riusciva a credere che potessero
tradirlo. Era un pensiero folle. Lo specchio che precipitava verso la superficie
di Ganimede – verso la sua serra, verso i suoi germogli di soia, verso il lavoro
di una vita intera – non aveva scelto di farlo. Era una vittima del principio di
causa ed effetto, come tutto il resto.
«Io sto per andarmene» disse Doris. «Se sarai ancora qui tra quattro
minuti, sarai morto.»
«Aspetta» rispose Prax. Corse fuori sotto la cupola. S’inginocchiò al
margine del campo più vicino e affondò le mani nella fertile, nera terra.
Profumava come un buon patchouli. Affondò le dita più che poté, avvolgendo
un bulbo di radici. La fragile piantina non oppose resistenza tra le sue mani.
Doris era già sull’ascensore industriale, pronta a scendere nei tunnel
sotterranei della stazione. Prax si precipitò verso di lei. Con la pianta da
salvare, la cupola all’improvviso gli sembrava un posto terribilmente
pericoloso. Si fiondò attraverso le porte e Doris premette un dito sullo
schermo di controllo. L’ampia cabina metallica dell’ascensore sussultò, si
mosse e cominciò la sua discesa. In una situazione normale, avrebbe dovuto
trasportare attrezzature pesanti: il dissodatore meccanico, il trattore, le
tonnellate di humus ricavata dai processori di riciclo della stazione. Ora però
erano soltanto loro tre: Prax, seduto a gambe incrociate sul pavimento, la
piantina di soia che gli oscillava in grembo e Doris, che si mordeva il labbro
inferiore, intenta a fissare il suo terminale palmare. L’ascensore sembrava
troppo grande.
«Lo specchio potrebbe anche non colpire la serra» disse Prax.
«Potrebbe. Ma sono milletrecento tonnellate di vetro e metallo. L’impatto
sarà devastante.»
«La cupola potrebbe reggere.»
«No» disse lei, e Prax smise di parlarle.
La cabina ronzava e sferragliava, scendendo in profondità sotto la
superficie del ghiaccio, scivolando attraverso la rete di cunicoli che costituiva
il nucleo della stazione. L’aria puzzava di riscaldamento elettrico e
lubrificante industriale. Perfino ora, Prax non riusciva a credere che
l’avessero fatto. Non riusciva a credere che quei bastardi dei militari avessero
davvero cominciato a spararsi addosso gli uni con gli altri. Nessuno, in
nessun luogo, poteva essere tanto miope. E invece sembrava proprio che
fosse possibile.
Nei mesi scorsi, dopo che l’alleanza tra Marte e la Terra era andata in
frantumi, Prax era passato da un timore costante ed erosivo a un senso di
cauta speranza e compiacimento. Ogni giorno in cui le Nazioni Unite e i
marziani non avevano dato fuoco alle polveri, era stato un’altra piccola prova
che non sarebbe mai successo. Si era permesso di pensare che le cose fossero
molto più stabili di quanto non sembrassero. E, anche se fossero andate storte
e si fosse scatenata una guerra aperta, non sarebbe arrivata fin lì. Ganimede
era il luogo da cui proveniva il cibo. Con la sua magnetosfera, era il posto più
sicuro per le donne in gestazione, garantendo la minor incidenza di difetti di
nascita e di feti nati morti tra tutti i pianeti esterni. Era il fulcro di tutto ciò
che rendeva possibile l’espansione dell’umanità attraverso il sistema solare. Il
loro lavoro era tanto prezioso quanto fragile, e chi amministrava il potere non
avrebbe mai permesso che la guerra arrivasse fin lì.
Doris esclamò qualcosa di osceno. Prax alzò lo sguardo verso di lei, che
si passò le dita tra i sottili capelli bianchi, si voltò e sputò a terra.
«Non c’è più collegamento» disse, alzando il terminale palmare.
«L’intera rete è in blocco.»
«Chi è stato?»
«Il servizio di sicurezza, le Nazioni Unite, Marte... Come faccio a
saperlo?»
«Ma se...»
L’impatto fu come un pugno gigantesco che si schiantava sul tetto della
cabina. I freni di emergenza si attivarono con un clangore che lo scosse fin
nel midollo. Le luci si spensero e il buio li inghiottì per la durata di due battiti
rapidi come uno sfarfallio. Quattro LED alimentati a batteria si accesero, poi si
spensero quando nella cabina tornò la corrente. Il pannello di controllo
cominciò a eseguire la diagnostica di errore critico: motori che ronzavano,
molle che scattavano, l’interfaccia di gestione che scansionava le voci di
registro come un’atleta che si prepara prima della gara. Prax si alzò e
raggiunse il pannello di controllo. I sensori della colonna di risalita
riportavano un livello minimo di pressione atmosferica, in caduta. Sentì un
fremito mentre i portelloni di contenimento si richiudevano da qualche parte
sopra di loro e la pressione all’esterno riprendeva a salire. L’aria all’interno
della colonna era stata sputata fuori prima che i sistemi di emergenza
potessero intervenire sigillando il settore. La sua cupola era compromessa.
La sua cupola era andata.
Si portò una mano alla bocca, senza accorgersi che si sarebbe sporcato il
mento di terra finché non l’ebbe fatto. Una parte della sua mente si affannava
frenetica sulle cose che andavano fatte per salvaguardare il progetto –
contattare il suo manager di progetto alla RMD-Southern, ripresentare le
domande di finanziamento supplementari, recuperare il backup di tutti i dati
per ricostruire i prototipi d’innesto virali – mentre un’altra parte si era fatta
silenziosa, spaventosamente calma. L’impressione di essere diviso in due, di
essere un uomo alla disperata ricerca di soluzioni e, contemporaneamente, di
essere anche un uomo già stordito dal dolore del lutto, sembrava quella che lo
aveva accompagnato nelle ultime settimane del suo matrimonio.
Doris si voltò, con un sorriso stanco che le tirava le labbra carnose. Gli
tese la mano.
«È stato un piacere lavorare con lei, dottor Meng.»
La cabina sussultò mentre i freni di emergenza si ritraevano. Da grande
distanza giunse un altro impatto. Uno specchio, o una nave, che si
schiantavano a terra. Soldati che aprivano il fuoco in superficie. O che magari
stavano già combattendo in profondità nella stazione. Non c’era modo di
saperlo. Le strinse la mano.
«Dottoressa Bourne» le disse. «È stato un vero onore.»
Rimasero così per un lungo istante, accanto alla tomba della loro vita
passata. Doris sospirò.
«Bene» riprese. «Ora vediamo di uscire da questo inferno.»
L’asilo di Mei era in profondità nel corpo della luna, ma la stazione del
tubo era soltanto a poche centinaia di metri dalla piattaforma di carico
dell’elevatore, e per andare giù da lei non ci volevano più di dieci minuti, con
un vettore espresso. O non ce ne sarebbero voluti, se avessero potuto correre.
In tre decenni di vita su Ganimede, Prax non aveva mai notato che le stazioni
del tubo erano equipaggiate con portelloni di sicurezza.
I quattro soldati di fronte alla stazione sbarrata indossavano spesse
corazze di piastre dipinte con linee mimetiche dello stesso colore beige e
acciaio dei corridoi. Imbracciavano fucili d’assalto dalle dimensioni
intimidatorie e squadravano in cagnesco una piccola folla di una dozzina di
persone che si accalcava intorno a loro.
«Faccio parte del comitato dei trasporti» disse una donna alta e magra,
dalla pelle scura, che sottolineava ogni parola picchiettando un dito sul
pettorale corazzato di uno dei soldati. «Se non ci lasciate passare, avrete dei
guai. Guai seri.»
«Per quanto tempo sarà fuori servizio?» chiese un uomo. «Devo tornare a
casa. Per quanto tempo sarà fuori servizio?»
«Signore e signori» gridò la soldatessa più a sinistra. Aveva una voce
potente. Sovrastò il mormorio e le lamentele della folla come una maestra che
rimproverasse dei bambini irrequieti. «Questo insediamento è sottoposto a
blocco di sicurezza. Finché le operazioni militari non giungeranno a
conclusione, non sarà permesso alcuno spostamento tra i livelli, ad eccezione
del personale ufficiale.»
«Da che parte state?» gridò qualcuno. «Siete marziani? Da che parte
state?»
«Nel frattempo» proseguì la soldatessa, ignorando la domanda
«dobbiamo chiedervi di essere pazienti. Non appena sarà sicuro spostarsi, la
rete di trasporti verrà riaperta. Fino ad allora, vi chiediamo di mantenere la
calma, per la vostra sicurezza.»
Prax non sapeva che avrebbe detto qualcosa finché non sentì la sua stessa
voce. Aveva un tono supplichevole.
«Mia figlia è all’ottavo livello. C’è la sua scuola laggiù.»
«Ogni livello è in stato di blocco, signore» disse la soldatessa. «Starà
bene. Non deve far altro che pazientare.»
La donna dalla pelle scura del comitato per i trasporti incrociò le braccia.
Prax vide due uomini abbandonare la calca, allontanandosi giù per il
corridoio stretto e sporco, parlando tra loro. Nei vecchi tunnel dei livelli alti,
l’aria puzzava di riciclatori – plastica, calore e profumi artificiali. E ora anche
di paura.
«Signore e signori» gridò la soldatessa. «Per la vostra stessa incolumità,
dovete mantenere la calma e rimanere dove siete finché l’operazione militare
non si sarà risolta.»
«Qual è, esattamente, questa operazione militare?» chiese una donna
accanto a Prax, con un tono di voce esigente.
«È una situazione in rapida evoluzione» rispose la soldatessa. Prax
percepì una nota di minaccia nella sua voce. Era spaventata come chiunque
altro. Solo che aveva una pistola. Per cui non avrebbe funzionato. Doveva
trovare un’altra soluzione. Con l’unico Glycine kenon rimastogli ancora tra le
mani, Prax si allontanò dalla stazione del tubo.
Quando suo padre si era trasferito dai centri a elevata popolazione di
Europa per aiutare a costruire un laboratorio di ricerca su Ganimede, Prax
aveva otto anni. La costruzione era durata dieci anni, durante i quali Prax
aveva attraversato un’adolescenza turbolenta. Quando i suoi genitori avevano
fatto i bagagli per trasferire la famiglia, in occasione di un altro contratto, su
un asteroide in orbita eccentrica vicino a Nettuno, Prax era rimasto su
Ganimede. Aveva scelto gli studi di botanica pensando che avrebbe potuto
approfittarne per coltivare marijuana illegale e non tassata, ma aveva ben
presto scoperto che un terzo degli studenti di botanica si era iscritto con la
stessa intenzione. I quattro anni che aveva passato in cerca di un qualche
anfratto dimenticato o di tunnel abbandonati che non fossero già occupati da
esperimenti idroponici illegali gli avevano lasciato in eredità una buona
conoscenza dell’architettura di quei tunnel.
Attraversò i vecchi corridoi stretti costruiti dalla prima generazione di
coloni. Uomini e donne sedevano lungo le pareti o ai tavoli di bar e ristoranti,
con i volti impassibili, adirati o spaventati. Gli schermi informativi erano stati
impostati per trasmettere vecchi spezzoni di musica, teatro o arte astratta
invece dei soliti notiziari. Non c’era nemmeno un terminale palmare che
trillasse per l’arrivo di un messaggio o di una chiamata.
Una volta arrivato in prossimità dei condotti di aerazione centrali, Prax
trovò quel che stava cercando. Il servizio di manutenzione dei trasporti aveva
sempre qualche vecchio scooter elettrico parcheggiato in giro. Nessuno li
usava più. Visto che era un ricercatore con alto grado di anzianità, il suo
terminale palmare gli avrebbe consentito di sbloccare la schermatura a
catena. Trovò uno scooter dotato di sidecar e con le batterie cariche ancora
per metà. Erano passati parecchi anni dall’ultima volta che ne aveva guidato
uno. Mise il Glycine kenon nel sidecar, avviò la procedura diagnostica e partì,
immettendosi nel corridoio.
Le prime tre rampe erano presidiate da soldati simili a quelli che aveva
visto alla stazione del tubo. Prax non si fermò nemmeno. Alla quarta rampa,
un tunnel di approvvigionamento che portava dai magazzini in superficie fin
giù ai reattori, non trovò nessuno. Prax ci si fermò davanti, con lo scooter
silenzioso sotto di sé. Nell’aria c’era un lezzo acido e pungente che non
riusciva a identificare. A poco a poco, cominciò a notare altri dettagli: i graffi
sulle paratie, una strisciata scura lungo il pavimento. Udì uno scoppio
distante; gli ci volle il tempo di tre lunghi respiri per riconoscerlo per ciò che
era: uno sparo.
‘In rapida evoluzione’ a quanto pareva significava combattimenti nei
tunnel. Gli venne in mente l’immagine dell’aula di Mei crivellata da fori di
proiettile e fradicia del sangue dei bambini, vivida come una scena che usciva
dai suoi ricordi anziché dall’immaginazione. Il panico che aveva provato
sotto la cupola lo assalì di nuovo, cento volte più intenso.
«Mei sta bene» disse alla pianta accanto a sé. «Non si metterebbero a
combattere in un asilo. Ci sono dei bambini, lì.»
Le foglie color verde scuro stavano già cominciando ad appassire. Non
avrebbero portato una guerra in mezzo ai bambini. O tra le riserve alimentari.
O sulle fragili cupole alimentari. Le sue mani ricominciarono a tremare, ma
non al punto da non poter guidare.
La prima esplosione deflagrò proprio nel momento in cui scendeva la
rampa tra il settimo e l’ottavo livello, costeggiando il fianco di una delle
gigantesche caverne incomplete dove il ghiaccio della luna era stato lasciato
gocciolare e ghiacciarsi di nuovo, a metà strada tra un grande spazio verde e
un’opera d’arte. Ci fu un lampo, poi un impatto, e lo scooter sbandò. La
parete gli venne incontro ad alta velocità, e Prax tirò via la gamba un attimo
prima dello scontro. Udì delle voci gridare da sopra. Le truppe d’assalto
erano in armatura e comunicavano tramite radio. O, perlomeno, così sarebbe
dovuto essere. Quindi quelle persone che urlavano lassù dovevano essere
civili. Una seconda esplosione scavò nella parete della caverna, dislocando
dal soffitto una sezione di ghiaccio azzurrino delle dimensioni di un trattore
che rovinò lenta e inesorabile fino al pavimento, schiantandovisi. Prax
annaspò per mantenere lo scooter in equilibrio. Gli sembrava che il suo cuore
stesse per balzargli fuori dal petto.
Vide delle sagome corazzate sulla china superiore della rampa. Non
sapeva se si trattasse delle Nazioni Unite o di Marte. Uno di loro si voltò
verso di lui, puntando un fucile. Prax diede gas, scivolando rapido lungo la
rampa. Il brusio di armi automatiche e la puzza di fumo e materiali fusi lo
seguì.
Le porte della scuola erano chiuse. Non sapeva se fosse un bene o un
male. Fece fermare lo scooter vacillante e saltò giù. Si sentiva le gambe
deboli e instabili. Avrebbe voluto bussare delicatamente sul portellone di
acciaio, ma al primo tentativo si spaccò la pelle delle nocche.
«Aprite! C’è mia figlia lì dentro!» Sembrava un pazzo furioso, ma
qualcuno all’interno doveva averlo sentito o visto sui monitor del circuito di
sicurezza interno. I pannelli articolati della porta d’acciaio sussultarono e
cominciarono a salire. Prax si gettò a terra e strisciò all’interno.
Aveva incontrato la nuova maestra, la signorina Carrie, soltanto un paio
di volte, quando era venuto a lasciare Mei o a riprenderla. Non doveva avere
più di vent’anni, era alta ed esile come una cinturiana. Prax non ricordava che
avesse un viso tanto grigio.
L’aula, comunque, era intatta. I bambini erano in cerchio, intenti a cantare
una canzone su una formica che viaggiava attraverso il sistema solare, con
una rima per ogni corpo astrale maggiore. Non c’era né sangue, né fori di
proiettile, ma la puzza di plastica bruciata filtrava attraverso le ventole di
aerazione. Doveva portare Mei in un posto più sicuro. Ma non sapeva dove
potesse essere. Osservò il cerchio di bambini cercando di individuare il suo
volto, i suoi capelli.
«Mei non c’è, signore» disse la signorina Carrie, con voce tesa e al
contempo sfiatata. «Questa mattina è venuta a prenderla sua madre.»
Questa mattina?» ripeté Prax, ma la sua mente si agganciò a quel ‘sua
madre’. Che cosa ci faceva Nicola su Ganimede? Due giorni prima aveva
ricevuto un messaggio da parte sua riguardo al giudizio dell’affidamento dei
minori; non poteva essere venuta su Ganimede da Ceres in due giorni
soltanto...
«Dopo l’ora della merenda» precisò la maestra.
«Intende dire che è stata evacuata? Qualcuno è venuto qui e ha portato via
Mei?»
Un’altra esplosione squassò il ghiaccio. Uno dei bambini lanciò un grido
acuto, spaventato. La maestra spostò lo sguardo verso di lui, poi ancora su
Prax. Quando parlò di nuovo, la sua voce era più bassa.
«Sua madre è venuta subito dopo l’ora della merenda. Ha preso Mei con
sé. Non è stata qui per tutto il giorno.»
Prax tirò fuori il terminale palmare. La connessione era ancora inattiva,
ma sullo sfondo c’era comunque una foto del primo compleanno di Mei,
quando le cose andavano ancora bene. Una vita fa. Mostrò la foto alla
maestra e le indicò Nicola, che rideva e cullava tra le braccia quel fagottino
paffuto e deliziato che era stata Mei.
«Lei?» disse Prax. «Lei è stata qui?»
La confusione sul viso della maestra fu già sufficiente come risposta.
C’era stato un errore. Una donna – una nuova tata, un’assistente sociale o
chissà cos’altro – era venuta a prendere una bambina e le avevano dato quella
sbagliata.
«Quella tizia era sul computer» disse la maestra. «Era nel sistema. Era
registrata.»
Le luci si spensero e si riaccesero. La puzza di fumo si stava facendo più
intensa e i riciclatori d’aria ronzavano sonoramente, schioccando e friggendo
mentre risucchiavano con difficoltà i residui particolati. Un bambino di cui
Prax avrebbe dovuto sapere il nome gemette, e la maestra fece per girarsi di
riflesso verso di lui. Prax l’afferrò per un braccio e riportò la sua attenzione
su di sé.
«No. Si è sbagliata» disse. «A chi ha dato Mei?»
«Il sistema ha detto che era sua madre! Aveva un documento d’identità.
Era tutto in regola.»
Dal corridoio giunse il rumore di una raffica di spari attutiti. Fuori
qualcuno stava urlando, e anche i bambini cominciarono a gridare per lo
spavento. La maestra tirò via il braccio. Qualcosa picchiò sul portellone
d’ingresso.
«Era sulla trentina. Capelli scuri, occhi scuri. C’era un dottore con lei, era
registrata nel sistema, e Mei non ha protestato in alcun modo.»
«Hanno preso la sua medicina?» chiese Prax. «Hanno preso la sua
medicina?»
«No. Non lo so. Non credo.»
Senza volerlo, Prax diede uno scossone alla donna. Uno soltanto, ma con
forza. Se Mei non aveva con sé la sua medicina, allora aveva già saltato la
dose di mezzogiorno. Sarebbe riuscita a resistere forse fino al mattino, prima
che il suo sistema immunitario cominciasse a sfaldarsi.
«Me la mostri» disse Prax. «Mi mostri la sua foto. La donna che l’ha
portata via.»
«Non posso! Il sistema è fuori uso!» gridò la maestra. «Si stanno
ammazzando nei corridoi!»
Il cerchio di bambini si sciolse, grida su grida. La maestra stava
piangendo con le mani premute sul volto. La sua pelle aveva un colorito
quasi bluastro. Prax percepì un panico primordiale che gli attanagliava la
mente. La calma che si sentì scendere addosso non lo intaccava.
«Avete un tunnel di evacuazione?» chiese.
«Ci hanno detto di restare qui» rispose la maestra.
«E io vi dico di evacuare» ribatté Prax, ma quello che stava pensando era:
devo trovare Mei.
4

Bobbie
La coscienza le tornò sotto forma di un violento ronzio misto a dolore.
Bobbie sbatté le palpebre una volta, cercando di schiarirsi la testa, di capire
dove fosse. Il suo campo visivo era confuso in modo esasperante. Il ronzio si
rivelò essere un allarme all’interno della sua tuta. Una serie di luci colorate le
lampeggiavano in viso mentre il visore della tuta le segnalava dati che non
riusciva a leggere. Era in pieno riavvio, e gli allarmi si attivavano uno dopo
l’altro. Lei cercò di muovere le braccia e scoprì che, benché debole, non era
né paralizzata, né immobilizzata. Il gel antishock della sua tuta era tornato
allo stato liquido.
Qualcosa si mosse oltre lo schermo fiocamente illuminato che era il suo
visore. Una testa che entrava e usciva dal suo campo visivo. Poi ci fu un
piccolo scatto quando qualcuno collegò un cavo di linea alla porta esterna
della sua tuta. Un infermiere da campo, quindi, intento a scaricare i dati sui
danni riportati.
Una voce, giovane e maschile, le parlò dagli auricolari interni della tuta.
«Siamo qui, artigliere. Siamo qui. Starai bene. Tieni duro.»
Non aveva ancora finito di pronunciare l’ultima parola, quando Bobbie
perse di nuovo i sensi.
Si svegliò su una barella che procedeva sobbalzando lungo un corridoio
bianco. Non indossava più la tuta. Bobbie temette che i tecnici sanitari da
campo non avessero perso tempo a estrarla da essa in maniera normale, e che
avessero azionato il comando prioritario di apertura di tutti i giunti e
articolazioni. Era il modo più rapido di tirare fuori un soldato ferito da un
esoscheletro corazzato di quattrocento chili, ma comportava anche la
distruzione della tuta. Bobbie sentì una fitta di rammarico per la perdita della
sua, vecchia e fedele.
Un istante dopo si ricordò che il suo intero plotone era stato fatto a pezzi
davanti ai suoi occhi e, di colpo, lo sconforto per la perdita della tuta le
sembrò futile e umiliante.
Un sobbalzo più forte degli altri le inviò una fitta lancinante lungo la
spina dorsale e la fece precipitare di nuovo nel buio dell’incoscienza.
«Sergente Draper» disse una voce.
Bobbie cercò di aprire gli occhi e scoprì che le era impossibile. Ogni
palpebra sembrava pesare mille chili, e anche soltanto provarci la lasciò
spossata. Cercò di rispondere alla voce e fu sorpresa e un po’ imbarazzata per
il biascichio incomprensibile che le sfuggì dalle labbra.
«È appena cosciente» sentì dire alla voce. Era una voce maschile,
profonda e suadente. Sembrava piena di calore e preoccupazione. Bobbie
sperò che avrebbe continuato a parlare finché non si fosse riaddormentata.
Una seconda voce, femminile e più secca, replicò: «La lasci riposare.
Cercare di risvegliarla del tutto ora è pericoloso.»
La voce gentile disse: «Non m’interessa se la ucciderà, dottore. Devo
parlare con questo soldato, e devo farlo ora. Per cui le dia quel che serve
perché possa farlo.»
Bobbie sorrise tra sé e sé, senza registrare il significato delle parole
pronunciate da quella bella voce ma soltanto il tono dolce e gentile. Era bello
avere una persona del genere che si occupava di te. Fece per riaddormentarsi,
e l’oscurità incombente le parve un’amica gradita.
Un fuoco rovente le avvampò nella spina dorsale, e Bobbie si tirò su a
sedere di scatto sul letto, più sveglia che mai. Era come andare a dose, con
quel miscuglio chimico che iniettavano ai marinai per mantenerli coscienti e
allerta durante le manovre a g elevato. Bobbie spalancò gli occhi, poi li
richiuse stringendoli forte quando la luce bianca della stanza parve quasi
incendiarle la retina.
«Spegnete le luci» mormorò, con le parole che le uscivano dalla gola
secca in un sussurro.
La luce rossastra che le filtrava attraverso le palpebre chiuse si affievolì,
ma, quando lei provò ad aprire di nuovo gli occhi, era ancora troppo forte.
Qualcuno le prese la mano e la trattenne, mettendole una tazza tra le dita.
«Riesce a tenerla?» disse la voce gentile.
Bobbie non rispose; si limitò a portarsi la tazza alle labbra e a bere
l’acqua in due avide sorsate.
«Ancora» disse, stavolta in un modo più simile alla sua vecchia voce.
Udì i rumori di qualcuno che strusciava una sedia per terra, poi dei passi
che si allontanavano da lei su un pavimento di mattonelle. Il suo breve
sguardo alla stanza le aveva fatto capire di essere all’interno di un ospedale.
Sentiva il ronzio elettrico dei macchinari medici vicino a lei, e gli odori di
antisettico e urina facevano a gara per dominare l’ambiente. Avvilita, si rese
conto che era proprio da lei che proveniva la puzza di urina. Qualcuno fece
scorrere dell’acqua da un rubinetto, poi i passi tornarono verso di lei. Le
rimisero la tazza tra le mani. Stavolta sorseggiò lentamente, permettendo
all’acqua di restarle un po’ in bocca prima di ingoiarla. Era fresca e deliziosa.
Quando ebbe finito, la voce le chiese: «Ancora?»
Lei scosse la testa.
«Magari più tardi» disse. Poi, dopo un istante, aggiunse: «Sono cieca?»
«No. Le è stata somministrata una dose di droghe nootrope e anfetamine
potenziate. Il che significa che le sue pupille sono completamente dilatate. Mi
dispiace, non ho pensato ad abbassare le luci prima del suo risveglio.»
La voce era ancora carica di gentilezza e calore. Bobbie voleva darle un
volto, per cui arrischiò uno sguardo veloce con un occhio solo. La luce non
l’ustionò come aveva fatto prima, ma era comunque fastidiosa. Il proprietario
di quella bella voce si rivelò essere un uomo molto alto e magro, in uniforme
da intelligence navale. Aveva il viso allungato e stretto, con il cranio che
sembrava premere per emergere da sotto la pelle. Le rivolse un sorriso
spaventoso che non si estese oltre l’angolo delle labbra.
«Sergente di artiglieria Roberta W. Draper, del secondo Corpo di
spedizione dei marine» le disse, e la sua voce contrastava a tal punto con il
suo aspetto che Bobbie si sentì come se stesse guardando un film doppiato da
una lingua straniera.
Dopo alcuni secondi, vedendo che l’uomo non continuava, Bobbie disse:
«Sì, signore.» Poi notò le mostrine e aggiunse: «Capitano.»
Ora riusciva ad aprire entrambi gli occhi senza dolore, ma uno strano
formicolio le risaliva lungo gli arti, rendendoli insensibili e tremuli insieme.
Resistette al bisogno di muoversi.
«Sergente Draper, sono il capitano Thorsson, e sono qui per aggiornarla
sugli eventi. Abbiamo perso il suo intero plotone. Su Ganimede c’è stata una
battaglia di due giorni tra le forze armate delle Nazioni Unite e della
Repubblica Congressuale Marziana. Secondo le stime più recenti, i danni alle
infrastrutture ammontano a più di cinque miliardi di dollari marziani, mentre
le perdite umane sfiorano le tremila unità, tra militari e personale civile.»
Fece un’altra pausa, fissandola attraverso le palpebre strette con occhi che
brillavano come quelli di un serpente. Non sapendo quale risposta si
aspettasse il capitano, Bobbie si limitò a dire: «Sì, signore.»
«Sergente Draper, perché il suo plotone ha aperto il fuoco sull’avamposto
delle Nazioni Unite della cupola quattordici, distruggendolo?»
Quella domanda era talmente insensata che la mente di Bobbie impiegò
diversi secondi nel tentativo di capire che cosa intendesse dire veramente.
«Chi vi ha dato l’ordine di aprire il fuoco, e perché?»
Non poteva certo voler chiedere perché la sua gente avesse dato inizio
alla battaglia. Non sapeva niente del mostro?
«Non sa niente del mostro?»
Il capitano Thorsson non si mosse, ma gli angoli della bocca gli si
abbassarono in un cipiglio e le sopracciglia gli si aggrottarono cupe verso il
naso.
«Mostro» disse, senza che la sua voce perdesse un filo di calore.
«Signore, una specie di mostro... mutante... qualcosa ha attaccato
l’avamposto delle Nazioni Unite. Le loro truppe sono corse verso di noi per
sfuggirgli. Non abbiamo sparato contro di loro. Qualunque... qualunque cosa
fosse quell’affare, ha ucciso loro e poi ha ucciso noi» disse nauseata,
fermandosi di tanto in tanto per deglutire e mandar via quel sapore acidulo
che aveva in bocca. «Voglio dire, tutti tranne me.»
Thorsson si accigliò per un altro istante, poi si mise una mano in tasca e
ne tirò fuori un piccolo registratore digitale. Lo spense, quindi lo posò su un
carrello accanto al letto di Bobbie.
«Sergente, le darò una seconda occasione. Finora il suo fascicolo
personale è stato esemplare. Lei è un’ottima marine. Una delle migliori che
abbiamo. Le va di ricominciare da capo?»
Prese il registratore e posò un dito sul tasto per cancellare il file,
rivolgendole un’occhiata d’intesa.
«Crede forse che stia mentendo?» disse lei. Il formicolio diffuso si
trasformò nel bisogno concreto di saltargli addosso e di spezzargli il braccio
all’altezza del gomito. «Gli abbiamo sparato tutti. Quella cosa che ha fatto
fuori i soldati delle Nazioni Unite e che ci ha attaccato sarà stata ripresa dalle
telecamere a mirino dell’intero plotone. Signore.»
Thorsson scosse la testa squadrata con l’accetta e strinse gli occhi fin
quasi a farli sparire del tutto.
«Non abbiamo nessuna trasmissione dal plotone per l’intero conflitto, e
nessun file di riscontro...»
«Qualcuno ha disturbato le frequenze» lo interruppe Bobbie. «Anch’io ho
perso la mia connessione radio quando mi sono trovata vicino al mostro.»
Thorsson continuò come se lei non avesse parlato. «E tutti i sistemi
hardware locali sono andati persi quando uno specchio orbitale è precipitato
sulla cupola. Lei era al di fuori dell’area d’impatto, ma l’onda d’urto l’ha
scaraventata via per più di un quarto di chilometro. Ci abbiamo messo un po’
per ritrovarla.»
Tutti i sistemi hardware locali sono andati persi. Una maniera asettica di
descrivere la situazione. Ogni uomo e donna appartenente al plotone di
Bobbie era stato ridotto in poltiglia e vapore quando duemila tonnellate di
specchio erano precipitate loro addosso dall’orbita stazionaria. Un monitor
cominciò a emettere un basso trillo di allarme, ma nessuno gli prestò
attenzione, e così fece anche lei.
«La mia tuta, signore. Ho sparato anche io. Il mio video dev’essere
ancora lì dentro.»
«Sì» disse Thorsson. «Abbiamo esaminato il registro video della sua tuta.
Non c’è nient’altro che rumore statico.»
Sembra un brutto film dell’orrore, pensò lei. La protagonista vede il
mostro, ma nessuno le crede. S’immaginò il secondo atto, in cui l’avrebbero
umiliata nella corte marziale, per trovare redenzione soltanto nel terzo,
quando il mostro sarebbe di nuovo uscito allo scoperto, uccidendo tutti quelli
che non credevano...
«Aspetti!» disse. «Che tipo di decompressione avete usato? La mia tuta è
un vecchio modello. Usa una versione di compressione video 5.1. Lo dica al
reparto tecnico e li faccia riprovare.»
Thorsson la fissò per qualche istante, poi estrasse il suo terminale palmare
e chiamò qualcuno.
«Fate portare la tuta da combattimento della sergente Draper nella sua
stanza. E mandateci un tecnico con equipaggiamento video.»
Mise via il terminale e rivolse a Bobbie un altro di quei suoi spaventosi
sorrisi.
«Sergente, devo ammettere che sono estremamente curioso di sapere che
cos’è che vuole mostrarmi. Se è ancora un qualche trucchetto, non farà altro
che guadagnare qualche minuto in più.»
Bobbie non replicò, ma la sua reazione all’atteggiamento di Thorsson
finalmente passò dal timore alla rabbia, e poi al fastidio. Puntò le braccia
sullo stretto lettino d’ospedale e si voltò di lato, sedendosi sul bordo e
gettando le coperte da una parte. Grazie alla sua taglia, la sua presenza fisica
da vicino solitamente o spaventava gli uomini, o li eccitava. In ogni caso, li
metteva a disagio. Si chinò un po’ verso Thorsson e fu ricompensata quando
lui indietreggiò con la sedia per mantenere le distanze.
Dall’espressione disgustata dell’uomo, Bobbie seppe che il capitano
aveva capito che cosa aveva appena fatto. Thorsson distolse lo sguardo dal
sorriso che le sbocciò in volto.
La porta della stanza si aprì ed entrarono un paio di tecnici della marina
militare, intenti a trasportare la sua tuta su un carrello. Era intatta. Non
l’avevano distrutta per tirarla fuori. Bobbie si sentì un groppo in gola e
deglutì per mandarlo giù. Non avrebbe mostrato nemmeno un singolo istante
di debolezza di fronte a questo pagliaccio di Thorsson.
Il pagliaccio puntò il dito verso uno dei due tecnici e disse: «Lei. Come si
chiama?»
Il giovane tecnico scattò in un saluto militare e rispose: «Sottufficiale di
marina assistente elettricista Singh, signore.»
«Signor Singh, la qui presente sergente Draper mi dice che la sua tuta ha
un formato di compressione differente da quello delle nuove tute, ed è questo
il motivo per cui non siete riusciti a decodificare i suoi file video. È così?»
Singh si picchiò la fronte con il palmo della mano.
«Merda. È vero» disse. «Non pensavo... Questa è una vecchia tuta
Goliath Mark III. Quando hanno messo in produzione la Mark IV hanno
completamente riscritto il firmware. Ha un sistema di immagazzinamento dati
totalmente diverso. Wow, mi sento un vero stupido...»
«Sì» lo interruppe Thorsson. «Faccia quel che va fatto per ottenere i video
memorizzati nell’esoscheletro. Prima lo farà, e meno tempo avrò per riflettere
sui ritardi causati dalla sua incompetenza.»
Singh ebbe il buonsenso di non replicare. Collegò immediatamente la tuta
a un monitor e cominciò a lavorare. Bobbie esaminò la sua corazza. Aveva un
sacco di graffi e ammaccature, ma, per il resto, sembrava integra. Le venne
una gran voglia d’indossarla e di dire a Thorsson dove poteva ficcarsi il suo
atteggiamento.
Una nuova ondata di tremiti le passò lungo le braccia e le gambe.
Qualcosa le sfarfallava nel collo, come il battito cardiaco di un piccolo
animale. Alzò una mano e se lo toccò. Erano le sue pulsazioni. Provò a dire
qualcosa, ma il tecnico fece un gesto di vittoria e diede il cinque al suo
assistente.
«Ci siamo, signore» disse Singh, e fece partire il video.
Bobbie cercò di guardarlo, ma l’immagine si fece sempre più confusa. Si
allungò, cercando di toccare il braccio di Thorsson per richiamare la sua
attenzione, ma in qualche modo mancò il bersaglio e continuò a sbilanciarsi
in avanti.
Ecco, ci risiamo, pensò. Ci fu un breve momento di vertiginosa caduta
prima del buio.
«Cazzo!» disse la voce secca. «Ve l’avevo detto che sarebbe successo,
cazzo! Questa soldatessa ha subìto traumi agli organi interni e una brutta
commozione cerebrale. Non potete pomparla a dose e mettervi a interrogarla.
È da irresponsabili. È da criminali, cazzo!»
Bobbie aprì gli occhi. Era di nuovo sul lettino. Thorsson era seduto su una
sedia accanto a lei. Ai piedi del letto c’era una donna bionda e tozza, con
indosso un camice medico e il viso rosso per la rabbia. Quando vide che
Bobbie era sveglia, la donna si spostò al suo fianco e le prese una mano.
«Sergente Draper, non si muova. È caduta, aggravando lo stato di alcune
delle sue ferite. L’abbiamo stabilizzata, ma ora ha bisogno di riposare.»
La dottoressa guardò Thorsson mentre parlava, mettendo un punto
esclamativo con gli occhi dopo ogni frase. Bobbie le rivolse un cenno di
assenso, e quel semplice gesto la fece sentire come una tazza d’acqua in
gravità variabile. Il fatto che non le facesse male probabilmente significava
che l’avevano imbottita di tutti gli antidolorifici che avevano a disposizione.
«L’assistenza della sergente Draper è stata fondamentale» disse Thorsson,
senza la benché minima traccia di un tono di scuse nella sua bella voce.
«Potrebbe averci appena salvato da una guerra aperta con la Terra. Rischiare
la propria vita per evitare che altri debbano farlo è la definizione stessa del
compito di Roberta.»
«Non mi chiami Roberta» mormorò Bobbie.
«Artigliere» disse Thorsson. «Mi dispiace per quello che è successo alla
sua squadra. Ma soprattutto mi dispiace di non averle creduto. La ringrazio
per aver risposto con professionalità. Grazie a questo abbiamo evitato
d’incorrere in un gravissimo errore.»
«Ho solo pensato che fosse uno stronzo» disse Bobbie.
«È il mio lavoro, soldato.»
Thorsson si alzò. «Si riposi. La porteremo via di qui non appena si sarà
ristabilita a sufficienza per il volo.»
«Via di qui? Tornerò su Marte?»
Thorsson non rispose. Rivolse un cenno del capo alla dottoressa e se ne
andò. La dottoressa premette un tasto su una delle macchine accanto al letto
di Bobbie e qualcosa di freddo le risalì nel braccio. Tutto si fece buio.
Gelatina. Perché negli ospedali servono sempre gelatina?
Bobbie punzecchiò svogliatamente il tremulo mucchietto verde con il
forchiaio. Finalmente si sentiva abbastanza in forma da mangiare qualcosa, e
quel cibo molliccio e traslucido che continuavano a portarle cominciava a
sembrarle sempre più insoddisfacente. Perfino la sbobba ad alto apporto di
proteine e carboidrati che stipavano sulla maggior parte delle navi della
marina militare pareva più allettante, ora. O magari una bella bistecca
coltivata in vitro ricoperta di salsa, con una porzione di couscous...
La porta della sua stanza si aprì scivolando di lato e la sua dottoressa, che
ora Bobbie sapeva chiamarsi Trisha Pichon, ma che insisteva nel farsi
chiamare da tutti ‘dottoressa Trish’, entrò accompagnata dal capitano
Thorsson e da un uomo che Bobbie non conosceva. Thorsson le rivolse il
solito sorriso inquietante; Bobbie aveva imparato che era semplicemente così
che funzionava il viso di quell’uomo: sembrava non disporre dei muscoli
necessari per sorridere normalmente. Il nuovo arrivato indossava un’uniforme
da cappellano della marina militare di affiliazione religiosa non determinata.
La dottoressa Trish fu la prima a parlare.
«Buone notizie, Bobbie. Domani la potremo dimettere. Come si sente?»
«Bene. Affamata» rispose lei, poi punzecchiò di nuovo la gelatina che
aveva nel piatto.
«In tal caso vedremo di farle avere un po’ di cibo vero» disse la
dottoressa Trish. Quindi sorrise e lasciò la stanza.
Thorsson indicò il cappellano. «Questo è il capitano Martens. Ci
accompagnerà durante il viaggio. Vi lascio da soli per fare conoscenza.»
Thorsson se ne andò prima che Bobbie potesse dire alcunché, e Martens
si accomodò sulla sedia accanto al letto. Gli porse la mano, e lei la strinse.
«Salve, sergente» disse lui. «Io...»
«Quando ho compilato il mio modulo 2790 spuntando la casella ‘niente’
come credo religioso, ero molto seria» disse Bobbie, tagliando corto.
Martens sorrise, senza offendersi per quella interruzione o per il suo
agnosticismo.
«Non sono qui come uomo di fede, sergente. Sono anche uno specialista
nell’elaborazione del lutto e, visto che ha assistito alla morte di ogni
componente della sua unità, rischiando peraltro di rimanere uccisa lei stessa,
il capitano Thorsson e la sua dottoressa hanno pensato che potesse avere
bisogno del mio aiuto.»
Bobbie fece per formulare una replica sprezzante, ma fu bloccata dal
groppo che le risalì in gola. Nascose lo sconforto bevendo un lungo sorso
d’acqua, poi disse: «Sto bene. Grazie per essere passato.»
Martens si appoggiò allo schienale della sedia senza mai smettere di
sorridere.
«Se stesse davvero bene dopo tutto quello che ha passato, sarebbe un
chiaro segno che c’è qualcosa che non va. E sta per essere coinvolta in una
situazione che comporterà un’elevata pressione emotiva e psicologica. Una
volta arrivati sulla Terra, non potrà permettersi il lusso di un crollo nervoso o
di reazioni da stress postraumatico. Abbiamo parecchio lavoro da...»
«Terra?» Bobbie pronunciò la parola come un pugno. «Aspetti un
momento. Perché mi stanno mandando sulla Terra?»
5

Avasarala
Chrisjen Avasarala, assistente del sottosegretario dell’amministrazione
esecutiva, sedeva verso la fine del tavolo. Il suo sari era arancione, l’unica
chiazza di colore in tutto quel grigioblù militare della riunione. Gli altri sette
seduti al tavolo erano i capi dei rispettivi settori delle forze armate delle
Nazioni Unite, ed erano tutti uomini. Conosceva i loro nomi, le loro carriere e
i loro profili psicologici, i loro stipendi, le loro alleanze politiche e con chi
stessero andando a letto. Sulla parete di fondo, gli assistenti personali e
impiegati dello staff erano in piedi immobili e a disagio, come timidi
adolescenti al ballo. Avasarala prese un pistacchio dalla sua borsa, ne aprì
discretamente il guscio e s’infilò il seme salato in bocca.
«Qualunque incontro con il comando marziano dovrà aspettare finché la
situazione su Ganimede non sarà ripristinata. Trattative diplomatiche ufficiali
prima di allora avrebbero come unico risultato quello di dare l’impressione
che abbiamo accettato il nuovo status quo.» A parlare era l’ammiraglio
Nguyen, il più giovane tra i presenti. Un falco. Pieno di sé, nel modo in cui
tendevano a essere i giovani uomini di successo.
Il generale Adiki-Sandoval annuì con il suo testone da toro.
«Concordo. Non dobbiamo pensare soltanto a Marte, ora. Se cominciamo
a mostrare debolezze di fronte all’Alleanza dei Pianeti Esterni, possiamo
essere certi di un’impennata delle attività terroristiche.»
Mikel Agee, del corpo diplomatico, si appoggiò allo schienale e si passò
ansiosamente la lingua sulle labbra. I suoi capelli pettinati all’indietro e il
viso emaciato lo facevano sembrare una sorta di ratto antropomorfo.
«Signori, debbo dissentire...»
«Ovviamente» disse secco il generale Nettleford. Agee lo ignorò.
«Un incontro con Marte, a questo punto, è un primo passo necessario. Se
cominciamo a mettere in campo precondizioni e ostacoli, non solo questo
processo sarà molto più lungo, ma le possibilità di rinnovate ostilità si
faranno sempre maggiori. Se riuscissimo ad allentare la pressione, a far
evaporare qualche tensione...»
L’ammiraglio Nguyen annuì con viso inespressivo. Quando parlò, lo fece
con tono casuale.
«Non avete metafore più recenti del motore a vapore, giù al dipartimento
diplomatico?»
Avasarala ridacchiò insieme agli altri. Neanche lei aveva una buona
opinione di Agee.
«Marte ha già inasprito le tensioni» disse il generale Nettleford. «A
questo punto direi che la mossa migliore sia quella di ritirare il Settimo dalla
Stazione di Ceres. Teniamoli sulla graticola. Mettiamoli alle strette, e
vediamo se i marziani hanno intenzione di tirarsi indietro su Ganimede.»
«Sta per caso pensando di spostarli sul sistema gioviano?» chiese
Nguyen. «O vuole riportarli verso Marte?»
«Riportare qualcosa verso la Terra sembra sempre molto simile a
riportarlo verso Marte» disse Nettleford.
Avasarala si schiarì la gola.
«Ci sono novità sull’attaccante iniziale?» chiese.
«I tecnici ci stanno lavorando» disse Nettleford. «Ma questo conforta la
mia posizione. Se Marte sta sperimentando nuove tecnologie su Ganimede,
non possiamo permetterci di lasciare che siano loro a dettare il ritmo.
Dobbiamo immettere sullo scacchiere una minaccia tutta nostra.»
«Si tratta della protomolecola, allora?» chiese Agee. «Voglio dire, si
tratta di quello che c’era su Eros, qualsiasi cosa fosse, quando la stazione è
andata a rotoli?»
«Ci stiamo lavorando» replicò Nettleford, mangiandosi un po’ le parole.
«Ci sono somiglianze, grosso modo, ma ci sono anche alcune differenze di
base. Non si è diffusa così come ha fatto su Eros. Ganimede non sta
cambiando come è cambiata la popolazione di Eros. Dalle immagini che ci
sono giunte dal satellite, sembra che la cosa si sia diretta verso il territorio
marziano e che si sia autodistrutta, o che sia stata abbattuta da chi la
manovrava. Se è in qualche maniera collegata alla protomolecola di Eros, è
stata perfezionata.»
«Per cui Marte ha ottenuto un campione e ne ha fatto un’arma» disse
l’ammiraglio Souther. Non parlava molto. Avasarala si dimenticava sempre
di quanto fosse acuta la sua voce.
«È una possibilità» commentò Nettleford. «Una possibilità molto
concreta.»
«Sentite» disse Nguyen con un sorrisino compiaciuto, come un bambino
che sapesse che stava per ottenere quel che voleva. «So che abbiamo deciso
di accantonare l’idea di un attacco preventivo, ma dobbiamo parlare di quelli
che sono i limiti di una risposta immediata. Se questa fosse una prova
generale per arrivare a qualcosa di più grosso, restare in attesa potrebbe
essere deleterio quanto gettarsi fuori da un portellone pressurizzato.»
«Dovremmo accettare l’incontro con Marte» disse Avasarala.
In sala calò il silenzio. Il viso di Nguyen si rabbuiò.
«È davvero...» disse lui, ma non finì la frase. Avasarala osservò gli
uomini guardarsi l’un l’altro. Prese un altro pistacchio dalla borsetta, ne
mangiò il seme e buttò via i pezzi di guscio. Agee cercava di non mostrarsi
compiaciuto. Avasarala avrebbe dovuto scoprire chi era stato a manovrare le
cose affinché fosse lui a rappresentare la delegazione diplomatica. Era una
pessima scelta.
«La sicurezza sarà un problema» disse Nettleford. «Non permetteremo a
nessuna delle loro navi di penetrare il nostro perimetro effettivo di difesa.»
«Be’, non possiamo andare alle loro condizioni. Se dobbiamo farlo, sarà
meglio averli qui, dove abbiamo il controllo del territorio.»
«Potremmo farli stazionare a distanza di sicurezza e inviare loro delle
navette di collegamento?»
«Non accetteranno mai.»
«E va bene. Cerchiamo di scoprire che cosa potrebbero accettare.»
Avasarala si alzò in silenzio e si diresse verso la porta. Il suo assistente
personale, un ragazzo europeo di nome Soren Cottwald, si staccò dalla parete
di fondo e la seguì. I generali fecero finta di non notare la sua uscita, o forse
erano talmente invischiati nel nuovo groviglio di problemi che aveva appena
creato loro che non la notarono per davvero. Ad ogni modo, Avasarala era
certa che fossero felici di non averla tra i piedi, tanto quanto lei era felice di
andarsene da lì.
I corridoi del complesso delle Nazioni Unite dell’Aia erano ampi e puliti,
decorati in uno stile morbido che rendeva ogni cosa simile a un diorama
museale delle colonie portoghesi degli anni Quaranta del XX secolo.
Avasarala si fermò di fronte a un’unità di riciclo organico e cominciò a
svuotare la borsetta dai gusci.
«Che cos’abbiamo, ora?» chiese.
«Un debriefing con il signor Errinwright.»
«E dopo?»
«Meeston Gravis, sulla questione afgana.»
«Cancellalo.»
«Che cosa devo dirgli?»
Avasarala si ripulì le mani battendole sopra il contenitore dei rifiuti, poi si
voltò e si avviò a passo svelto verso l’area centrale e gli ascensori.
«Fanculo Gravis» esclamò. «Digli che gli afgani si sono opposti al
dominio esterno da prima che i miei antenati cacciassero gli inglesi a pedate.
Non appena troverò un modo per cambiare lo stato dei fatti, glielo farò
sapere.»
«Sì, signora.»
«Ho anche bisogno di un rapporto aggiornato su Venere. L’ultimo
disponibile. E non ho tempo di prendere un’altra laurea per leggerlo; per cui,
se non è scritto in maniera chiara e concisa, licenzia il figlio di puttana che
l’ha redatto e trovami qualcuno che sappia scrivere.»
«Sì, signora.»
L’ascensore che saliva dall’atrio centrale e dalla zona delle sale riunioni
fin negli uffici scintillava come un diamante filato incastonato nell’acciaio,
ed era abbastanza grande da ospitare un tavolo con quattro persone per cena.
La macchina li riconobbe mentre entravano al suo interno e cominciò la sua
cauta ascesa attraverso i livelli. Fuori dalle finestre dell’area pubblica, la
Binnenhof sembrò affondare e l’enorme formicaio di edifici che costituivano
l’Aia si estendeva in ogni direzione sotto un perfetto cielo blu. Era primavera,
e la neve che aveva ricoperto la città dal mese di dicembre era finalmente
svanita. I piccioni risalivano sciamando dalle strade, molto più in basso. Sul
pianeta c’erano trenta miliardi di abitanti, ma non sarebbero mai riusciti a
togliere spazio ai piccioni.
«Sono tutti uomini del cazzo» esclamò.
«Come dice?» chiese Soren.
«I generali. Sono tutti uomini del cazzo.»
«Pensavo che Souther fosse l’unico a...»
«Non intendevo dire che amassero il cazzo. Intendo dire che sono tutti
uomini. Uomini del cazzo. Da quanto tempo non c’è una donna a capo delle
forze armate? Da prima che arrivassi io. E così ci ritroviamo con un altro
esempio di quel che succede alle politiche diplomatiche quando nella stanza
dei bottoni c’è troppo testosterone. A proposito: contatta Annette Rabbir, del
reparto infrastrutture. Non mi fido di Nguyen. Se comincia a esserci del
traffico tra lui e qualunque altro membro dell’assemblea generale, voglio
esserne al corrente.»
Soren si schiarì la gola.
«Mi scusi, signora. Mi ha appena dato istruzioni di spiare l’operato
dell’ammiraglio Nguyen?»
«No. Ho solo fatto richiesta di un controllo approfondito su tutto il
traffico di rete, e non m’importa un cazzo di qualsiasi risultato estraneo
all’ufficio di Nguyen.»
«Ovviamente. Mi scusi.»
L’ascensore salì oltre le finestre, oltre il panorama della città, fin nella
buia colonna dei livelli in cui si trovavano gli uffici privati. Avasarala si
scrocchiò le nocche.
«Comunque sia, per precauzione» disse «fallo di tua spontanea
iniziativa.»
«Sì, signora. Pensavo anch’io di fare così.»
A quanti conoscevano Avasarala soltanto di fama, il suo ufficio sarebbe
sembrato ingannevolmente dimesso. Si trovava sul lato est dell’edificio, dove
di solito cominciavano la loro carriera i funzionari di rango inferiore. Aveva
una finestra che dava sulla città, ma non un angolo. Lo schermo che occupava
la maggior parte della parete a sud veniva tenuto spento quando non era usato
attivamente, lasciandolo di un nero opaco. Le altre pareti erano pannellature
in bambù rigato. La moquette era corta e di tipo industriale, con motivi
decorativi utili a nascondere eventuali macchie. Le uniche decorazioni erano
un tempietto con una scultura del Gautama Buddha dietro la scrivania e un
vaso di cristallo intagliato con dentro i fiori che suo marito, Arjun, le inviava
ogni giovedì. Quel posto odorava di boccioli freschi e vecchio fumo di pipa,
anche se Avasarala non aveva mai fumato lì dentro e non conosceva nessuno
che l’avesse fatto. Si avvicinò alla finestra. Sotto di lei, la città si allargava in
una distesa di cemento e pietra antica.
Venere ardeva nel cielo che si andava rabbuiando.
Nei dodici anni in cui era rimasta a quella stessa scrivania, in quella
stanza, tutto era cambiato. Un tempo l’alleanza tra la Terra e il suo recente
fratello era stata una realtà solida e incrollabile. La Fascia aveva
rappresentato un fastidio e un porto sicuro per cellule di rinnegati e
piantagrane il cui destino oscillava tra la morte per avaria e una corte di
giustizia. L’umanità era stata sola, nell’universo.
E poi c’era stata la scoperta segreta che Phoebe, la peculiare luna di
Saturno, era un’arma aliena, lanciata contro la Terra quando la vita sul
pianeta era ancora poco più che un’idea interessante avvolta da un doppio
foglietto fosfolipidico. Le cose non sarebbero mai potute essere le stesse,
dopo quel momento.
Eppure erano rimaste le stesse. Certo, la Terra e Marte non sapevano bene
se definirsi alleati permanenti o nemici mortali. Certo, l’APE, l’Hezbollah del
vuoto spaziale, stava diventando un autentico soggetto politico tra i pianeti
esterni. E certo, la cosa che avrebbe dovuto rimodellare la biosfera primitiva
della Terra era invece stata dirottata come un asteroide maligno tra le nubi di
Venere e aveva cominciato a fare chissà che cosa.
Eppure la primavera era comunque giunta. Il ciclo elettorale continuava
indisturbato. La stella della sera illuminava ancora i cieli imporporati di viola,
brillando più intensamente di qualunque città della Terra.
In altri giorni, Avasarala trovava questi pensieri rassicuranti.
«Signor Errinwright» disse Soren.
Avasarala si voltò verso lo schermo spento sulla parete nel momento in
cui si accendeva. Sadavir Errinwright aveva la pelle più scura di lei, con un
viso tondo e morbido. Sarebbe stato perfettamente in contesto ovunque nel
Punjab, ma dalla sua voce traspariva la fresca, analitica ironia britannica.
Indossava un abito scuro e una cravatta stretta. Ovunque si trovasse, alle sue
spalle era pieno giorno. Il collegamento video continuava a vacillare,
cercando invano di bilanciare quella luce con l’oscurità, rendendolo ora
un’ombra in un ufficio governativo, ora un uomo circondato da un’aureola di
luce accecante.
«Mi auguro che la sua riunione sia andata bene.»
«È andata bene» disse lei. «Stiamo procedendo con il summit marziano.
Si stanno occupando dei dettagli riguardanti la sicurezza.»
«Si sono dichiarati d’accordo?»
«Una volta che gli ho detto che lo erano, sì. I marziani invieranno i loro
uomini più importanti per un incontro con i rappresentanti ufficiali delle
Nazioni Unite per porgere personalmente le loro scuse e discutere di come
normalizzare le relazioni e restituire Ganimede e bla bla bla. Va bene?»
Errinwright si grattò il mento.
«Non sono sicuro che la nostra controparte su Marte la veda allo stesso
modo» disse.
«Possono sempre protestare. Emaneremo notiziari ambigui e
minacceremo di cancellare l’incontro fino all’ultimo minuto. Questo genere
di sceneggiate ad alta tensione sono meravigliose. Più che meravigliose:
distraggono. Basta che il pupazzo non si metta a parlare di Venere o Eros.»
Errinwright trasalì impercettibilmente.
«Per favore, potrebbe evitare di riferirsi al segretario generale come a ‘il
pupazzo’?»
«Perché no? Lui sa che lo faccio. Glielo dico in faccia, e non sembra
importargli.»
«Crede che scherzi.»
«Perché è un fottuto pupazzo. Non dobbiamo permettergli di parlare di
Venere.»
«E i video?»
Era una buona domanda. Qualunque cosa avesse attaccato Ganimede,
aveva cominciato nella zona presidiata dalle Nazioni Unite. A sentire le voci
di corridoio, di cui non era bene fidarsi, Marte disponeva delle riprese dalla
telecamera di un marine solitario. Avasarala aveva sette minuti di video ad
alta definizione da quaranta telecamere differenti in cui quella cosa
massacrava i migliori uomini che la Terra aveva sul posto. Anche se fossero
riusciti a convincere i marziani a tacere quei fatti, sarebbero stati comunque
difficili da insabbiare.
«Mi dia tempo fino al summit» disse Avasarala. «Mi permetta di vedere
che cosa dicono e come lo dicono. Dopo, saprò come agire. Se dovesse
trattarsi di un’arma marziana, ce lo faranno capire da quello che porteranno al
tavolo.»
«Capisco» disse piano Errinwright. Il che significava che non
comprendeva.
«Signore, con tutto il rispetto,» disse lei «per il momento la cosa deve
rimanere una questione tra la Terra e Marte.»
«Alta tensione tra le due maggiori potenze militari del sistema... È questo
che vogliamo? Qual è il suo punto di vista?»
«Michael-Jon de Uturbé mi ha inviato una segnalazione riguardante un
aumento dell’attività su Venere nello stesso istante in cui è iniziata la
sparatoria su Ganimede. Non si è trattato di un picco cospicuo, e tuttavia c’è
stato. Il fatto che Venere mostri segni di irrequietezza quando succede
qualcosa che sembra essere dannatamente simile a una manifestazione della
protomolecola su Ganimede è un problema serio.»
Avasarala lasciò che il concetto penetrasse a fondo per un momento
prima di proseguire. Gli occhi di Errinwright si spostarono come se stesse
leggendo qualcosa nell’aria. Era sua abitudine farlo allorché rifletteva su
qualcosa.
«Abbiamo già usato la politica delle dimostrazioni di forza» disse lei. «E
siamo sopravvissuti. È un metodo misurabile. Ho un fascicolo di novecento
pagine di analisi e piani d’emergenza per un eventuale conflitto con Marte,
inclusi quattordici scenari differenti su quello che dovremmo fare se avessero
inaspettatamente sviluppato una nuova tecnologia. Vuole sapere del fascicolo
con i piani d’emergenza se arriva qualcosa da Venere? È lungo tre pagine, e
comincia con ‘Fase uno: Trovare Dio’.»
Errinwright rimase perfettamente serio. Avasarala poteva sentire Soren
alle sue spalle, un silenzio diverso e più ansioso di quello che solitamente si
portava appresso. Lei aveva appena esposto apertamente le proprie paure.
«Abbiamo tre possibili alternative» disse piano. «La prima: è stato Marte
a fare quella cosa. Sarebbe semplicemente guerra. Possiamo gestirla. La
seconda: è stato qualcun altro. Ipotesi spiacevole e pericolosa ma pur sempre
risolvibile. La terza: si è fatta da sola. In tal caso, non abbiamo niente.»
«Ha intenzione di aggiungere qualche pagina al suo fascicolo ridotto?»
disse Errinwright. Dal tono sembrava disinvolto. Non lo era.
«No, signore. Cercherò di scoprire quale delle tre alternative abbiamo
davanti. Se è una delle prime due, risolverò il problema.»
«E se fosse la terza?»
«Darò le dimissioni» disse lei. «Lascerò che metta qualche altro idiota al
mio posto.»
Errinwright la conosceva abbastanza bene da percepire lo scherzo nel suo
tono di voce. Sorrise e si pizzicò distrattamente la cravatta. Era un suo tic.
Era nervoso e preoccupato quanto lei. Nessuno che non lo conoscesse
l’avrebbe mai detto.
«Stiamo camminando su un filo. Non possiamo permettere che il conflitto
su Ganimede si faccia troppo acceso.»
«Farò in modo che rimanga marginale» rispose Avasarala. «Nessuno dà
inizio a una guerra senza il mio permesso.»
«Forse intendeva dire senza che il segretario generale emani il decreto
esecutivo e l’assemblea generale ne ratifichi la decisione.»
«Sarò io a dirgli quando può farlo» disse lei. «Ma gli dia pure le ultime
notizie. Sentirsele riferire da una vecchia nonnetta come me gli fa
rimpicciolire il pisello.»
«Be’, questo di certo sarebbe inaccettabile. Mi faccia sapere che cosa
riesce a scoprire. Parlerò con lo staff che si occupa di redigere i discorsi e mi
assicurerò che il testo del suo annuncio non sia sopra le righe.»
«E chiunque faccia trapelare il video dell’attacco ne risponderà
direttamente a me» aggiunse lei.
«Chiunque lo faccia trapelare è colpevole di tradimento: sarà giudicato da
un tribunale regolare e spedito a vita nella colonia penale lunare.»
«Può andar bene.»
«Mi dia notizie, Chrisjen. Siamo in un frangente difficile. Meno sorprese
avremo, e meglio sarà.»
«Sì, signore» disse lei. Il collegamento si chiuse. Lo schermo si spense.
Avasarala vedeva il suo riflesso come una macchia arancione sormontata dal
grigio dei suoi capelli. Soren era una chiazza confusa di cachi e bianco.
«Vuoi altro lavoro?»
«No, signora.»
«E allora fuori dalle palle.»
«Sì, signora.»
Avasarala udì i passi dell’uomo allontanarsi alle sue spalle.
«Soren!»
«Signora?»
«Portami la lista di tutti coloro che hanno testimoniato all’udienza per
l’incidente su Eros. E fa’ analizzare le loro testimonianze dagli analisti di
neuropsichiatria, se non è già stato fatto.»
«Desidera le trascrizioni?»
«Sì, anche quelle.»
«Gliele farò avere il prima possibile.»
La porta si richiuse dietro di lui, e Avasarala sprofondò nella poltrona. Le
dolevano i piedi, e il presentimento di un’emicrania in agguato da quella
mattina si stava facendo avanti, schiarendosi la gola. Il Buddha sorrideva
placido e lei ridacchiò, come se condividesse con lui una battuta intima.
Avrebbe voluto tornarsene a casa, sedersi sotto il portico e ascoltare Arjun
che studiava pianoforte.
E invece...
Usò il suo terminale palmare piuttosto che il sistema dell’ufficio per
chiamare Arjun. Era un impulso superstizioso che la spingeva a cercare di
tenere le due cose separate, anche in modi talmente insignificanti. Lui rispose
subito. Il suo viso era spigoloso, con la barba tagliata corta e ormai quasi
completamente bianca. L’allegria nei suoi occhi era sempre presente, anche
quando piangeva. Le bastò guardarlo in viso per sentire qualcosa rilassarsi
nel suo petto.
«Oggi farò tardi» avvertì, rammaricandosi immediatamente del tono
pragmatico. Arjun annuì.
«Sono sconvolto oltre ogni dire» replicò lui. Perfino il sarcasmo di
quell’uomo riusciva a risultare gentile. «È pesante la maschera, oggi?»
La maschera, la chiamava. Come se la persona che era Avasarala quando
affrontava il mondo fosse stata finta, e quella che parlava con lui o che
giocava a dipingere con le loro nipotine fosse quella vera. Lei pensava che si
sbagliasse, ma quell’immagine era talmente confortante che l’aveva sempre
assecondato.
«Molto pesante, oggi. Che cosa stai combinando, amore?»
«Sto rileggendo le bozze della tesi di Kukurri. C’è da lavorarci su.»
«Sei in ufficio?»
«Sì.»
«Dovresti andare in giardino» disse lei.
«Perché vorresti esserci anche tu? Possiamo andarci insieme quando torni
a casa.»
Lei sospirò.
«Potrei tornare molto tardi» disse.
«Svegliami, e ci andiamo.»
Lei toccò lo schermo e lui sorrise come se avesse sentito la carezza.
Avasarala interruppe la connessione. Per abitudine non si salutavano mai. Era
soltanto uno dei mille piccoli idiomi personali che si erano sviluppati in tanti
decenni di matrimonio.
Avasarala si voltò verso il sistema della sua scrivania e aprì il file di
analisi tattica della battaglia su Ganimede, i profili redatti dai servizi segreti
sulle figure militari marziane di spicco e l’agenda principale per il summit,
già compilata per metà dai generali nel poco tempo che era passato dalla
riunione. Avasarala prese un pistacchio dalla borsetta, ne spaccò il guscio e si
lasciò sommergere dalle informazioni che aveva davanti, danzandoci
attraverso con la mente. Nella finestra alle sue spalle, altre stelle si
sforzavano di apparire oltre l’inquinamento luminoso dell’Aia, ma Venere era
sempre la più brillante di tutte.
6

Holden
Holden sognava di lunghi corridoi serpeggianti pieni di orrori semiumani,
quando un forte ronzio lo svegliò nella sua cabina buia come la pece.
Armeggiò un po’ con le inusuali cinture della branda prima di riuscire a
sganciarsi e a fluttuare libero in quella microgravità. Il pannello a parete
ronzò di nuovo. Holden si spinse via dal letto e premette il pulsante di
accensione delle luci. La cabina era piuttosto spartana: un sedile di
accelerazione vecchio di settant’anni sopra un armadietto di effetti personali
incastrati addosso a una paratia, un bagno con lavandino in un angolo e,
dall’altra parte della brandina, un pannello a parete con su inciso il nome
Somnambulist.
Il pannello ronzò una terza volta. Holden premette finalmente il tasto di
risposta e disse: «Dove siamo, Naomi?»
«Siamo in decelerazione finale per entrare in orbita alta. Non ci crederai,
ma ci stanno facendo accodare.»
«Accodare nel senso di metterci in fila?»
«Già» replicò Naomi. «Credo che stiano salendo a bordo di tutte le navi
che atterrano su Ganimede.»
Merda.
«Merda. Che fazione è?»
«Ha importanza?»
«Be’» disse Holden. «La Terra ce l’ha con me per aver rubato un paio di
migliaia delle loro testate nucleari e averle consegnate all’APE. Marte soltanto
perché ho rubato loro una nave. Immagino che le due cose abbiano un peso
diverso.»
Naomi rise. «Ti rinchiuderebbero lo stesso a vita.»
«Sarò io a essere pedante, allora.»
«Il gruppo a cui ci stiamo accodando sembra essere di navi delle Nazioni
Unite, ma accanto a quelle c’è anche una fregata marziana che pare osservare
lo svolgimento delle operazioni.»
Holden mormorò una silenziosa preghiera di ringraziamento agli dèi per
aver permesso che Fred Johnson, su Tycho, lo convincesse a prendere la
Somnambulist, appena riparata, per andare su Ganimede, piuttosto che
provare ad atterrare lì con la Rocinante. Quella nave cargo era il vascello
meno sospetto di tutta la flotta dell’APE, in quel momento. Era molto meno
probabile che attirasse l’attenzione rispetto alla loro nave da guerra marziana
rubata. Avevano lasciato la Roci parcheggiata a un milione di chilometri da
Giove, in un punto dove nessuno sarebbe andato a curiosare. Alex aveva
spento completamente la nave, tranne per i riciclatori d’aria e i sensori
passivi; probabilmente ora se ne stava accoccolato nella sua cabina con una
stufetta portatile e un sacco di coperte, in attesa di una loro chiamata.
«Okay, vengo su. Invia un raggio stretto ad Alex e mettilo al corrente
della situazione. Se ci arrestano, deve riportare la Roci su Tycho.»
Holden aprì l’armadietto sotto la brandina e tirò fuori una tuta verde che
gli calzava male, con la scritta Somnambulist stampata a stencil sulla schiena
e il nome Philips sul taschino. Secondo i registri della nave, forniti dai maghi
informatici della Tycho, Holden era un membro di prima classe, Walter
Philips, meccanico e attrezzista generale sul cargo alimentare Somnambulist.
Era anche terzo in comando di un equipaggio composto da tre membri.
Considerando la sua reputazione all’interno del sistema solare, era stato
ritenuto più prudente non assegnargli alcun compito sulla nave che gli
avrebbe richiesto di interagire con qualsiasi interlocutore in posizione di
autorità.
Si sciacquò nel minuscolo lavandino della cabina – niente acqua, in
realtà, soltanto un sistema di salviette umide e spugne insaponate –
grattandosi infelicemente la barba incolta che si era fatto crescere come parte
del travestimento. Non aveva mai provato a farla crescere prima di allora, ed
era indispettito per aver scoperto che gli veniva su in chiazze irregolari e
arruffate. Anche Amos si era lasciato crescere la barba, per solidarietà, e ora
aveva una rigogliosa criniera da leone, che il meccanico stava pensando di
tenere tanto gli stava bene.
Holden infilò la salvietta usata nella sua unità di riciclo, si diede una
spinta verso il portello e risalì la scala di servizio fino in plancia.
Non che fosse un granché, come plancia. La Somnambulist aveva quasi
cent’anni, ed era decisamente arrivata alla fine del suo ciclo vitale. Se non
avessero avuto bisogno di una nave da sacrificare per questa missione, gli
uomini di Fred si sarebbero probabilmente limitati a scaricare quella vecchia
carcassa. Tanto per cominciare, il suo recente incontro con dei pirati l’aveva
lasciata mezza morta. Ma aveva passato gli ultimi vent’anni della sua vita
coprendo la tratta Ganimede-Ceres per il trasporto alimentare, e figurava nei
registri come una visitatrice regolare della luna di Giove, una nave che era
plausibile vedere arrivare con una scorta alimentare di emergenza. Fred
pensava che, con il suo storico di attracchi regolarmente scanditi su
Ganimede, era plausibile che la lasciassero passare oltre eventuali dogane o
blocchi senza dedicarle nemmeno una seconda occhiata.
A quanto sembrava, era stato troppo ottimista.
Quando Holden arrivò in plancia, Naomi era assicurata al sedile di una
delle stazioni operative. Indossava una tuta verde simile alla sua, benché il
nome sul taschino recitasse Estancia. Lei gli rivolse un sorriso, poi gli fece
segno di avvicinarsi per guardare lo schermo.
«Quello è il gruppo di navi intente a controllare tutti i carichi in transito
prima dell’atterraggio.»
«Accidenti» esclamò Holden, ingrandendo l’immagine telescopica per
vedere meglio gli scafi e i segni identificativi. «Sembrano proprio navi delle
Nazioni Unite.» Qualcosa di più piccolo si mosse nell’inquadratura da una
delle navi delle Nazioni Unite alla nave cargo che si trovava all’inizio della
fila. «E quello sembrerebbe uno scafo d’imbarco.»
«Be’, è un bene che tu non ti sia fatto barba e capelli per un mese» disse
Naomi, tiracchiandogli una ciocca. «Con quel cespuglio che ti ritrovi in testa
e quell’orribile barba, non ti riconoscerebbero nemmeno le tue stesse madri.»
«Speriamo che non abbiano reclutato le mie madri, allora» rispose
Holden, cercando di assumere lo stesso tono noncurante di lei. «Avverto
Amos che stanno arrivando.»
Holden, Naomi e Amos aspettavano che il gruppo di visitatori finisse di
caricare la camera stagna nel breve corridoio pieno di armadietti appena fuori
dal portellone pressurizzato interno. Naomi era alta e severa, con indosso la
sua uniforme da capitano appena lavata e gli stivali magnetici. Il capitano
Estancia aveva guidato la Somnambulist per dieci anni prima dell’attacco
pirata che le era costato la vita. Holden pensò che Naomi fosse una sostituta
passabilmente maestosa.
Alle spalle della cinturiana, Amos indossava una tuta con l’adesivo da
capo meccanico e una smorfia annoiata. Perfino nella microgravità della loro
orbita corrente intorno a Ganimede riusciva a adottare una postura
stancamente stravaccata. Holden fece del suo meglio per imitare il suo
contegno e l’espressione vagamente adirata.
La camera stagna finì il suo ciclo di compressione e il portellone interno
si aprì scivolando silenziosamente sulle sue guide. Sei marine in assetto da
combattimento e un sottotenente in tuta ambientale entrarono facendo
risuonare i loro stivali magnetici sul ponte. Il sottotenente diede una rapida
occhiata all’equipaggio e confrontò quel che vedeva con qualcosa che aveva
sul suo terminale palmare. Sembrava annoiato quanto Amos. Holden
immaginò che quel povero sottotenente fosse stato incastrato con il compito
avvilente di controllare tutte le navi in entrata e che probabilmente non
vedesse l’ora di sbrigarsi a finire, tanto quanto loro non vedevano l’ora di
andarsene da lì.
«Rowena Estancia, capitano e proprietaria di maggioranza della nave
cargo battente bandiera ceresiana Weeping Somnambulist.»
Non era una domanda, ma Naomi rispose: «Sì, signore.»
«Bel nome, mi piace» disse il sottotenente senza nemmeno alzare gli
occhi dal terminale.
«Come dice?»
«Il nome della nave. È insolito. Giuro che, se mi fanno salire a bordo di
un’altra nave con il nome di un qualche ragazzino o di una donna che si sono
lasciati alle spalle dopo un magico fine settimana su Titano, comincerò a
multare la gente per mancanza di creatività.»
Holden sentì nascere una tensione alla base della spina dorsale, che si
fece strada fino alla nuca. Quel sottotenente poteva anche essere stufo del
compito che gli avevano assegnato, ma era sveglio e perspicace, e glielo stava
facendo sapere senza riserve.
«Be’, questa nave prende il nome dai tre mesi lacrimevoli che ho passato
su Titano dopo essere stata lasciata dal mio lui» disse Naomi con un
sogghigno. «Probabilmente è stato meglio così, a ben pensarci. Avevo
pensato di darle il nome del mio pesce rosso.»
La testa del sottotenente scattò su per la sorpresa; poi cominciò a ridere.
«Grazie, capitano. Questa è la prima risata che mi faccio oggi. Tutti gli altri
se la fanno sotto quando ci vedono arrivare, e questi sei pezzi di carne» disse,
facendo un gesto verso i marine alle sue spalle «si sono fatti rimuovere
chimicamente ogni senso dell’umorismo.»
Holden scoccò un’occhiata verso Amos. Non ci starà mica provando con
lei? Mi sa che ci sta provando. Il cipiglio di Amos avrebbe potuto significare
qualsiasi cosa.
Il sottotenente picchiettò qualcosa sul suo terminale e disse: «Proteine,
integratori, purificatori idrici e antibiotici. Posso dare un’occhiata veloce al
carico?»
«Sì, signore» rispose Naomi, con un gesto verso la stiva. «Da questa
parte.»
Si allontanò, seguita a ruota dall’ufficiale e da due marine. Gli altri
quattro si misero in posizione di allerta accanto al portellone. Amos diede di
gomito a Holden per attirare la sua attenzione, poi disse: «Come ve la
passate, oggi, ragazzi?»
I marine lo ignorarono.
«Stavo giusto dicendo al mio amico, qui, gli stavo dicendo: ‘Scommetto
che quelle tute a lattina da fighetto che indossano quei ragazzi stringono da
morire all’inforcatura.’»
Holden chiuse gli occhi e cominciò a inviare messaggi telepatici ad Amos
per fargli chiudere la bocca. Non funzionò.
«Voglio dire, vi mettono tutta quella robetta supertecnologica in ogni
pizzo, e poi l’unica cosa che non potete fare è darvi una grattata alle palle. O
magari, dio non voglia, vi tocca spostare di lato l’attrezzatura per dar loro un
po’ di spazio vitale.»
Holden aprì gli occhi. I marine stavano tutti fissando Amos, ora, ma non
si erano mossi e non avevano detto una parola. Holden si spostò verso
l’angolo della stanza e cercò di sparire nella parete. Nessuno lo degnò
nemmeno di un’occhiata.
«E insomma» continuò Amos, con la voce carica di amichevole
buonumore. «Mi sono fatto una mia teoria, e speravo che voi ragazzi poteste
darmi una mano.»
Il marine più vicino fece mezzo passo avanti, ma non successe altro.
«La mia teoria» riprese Amos «è che, per evitare direttamente il
problema, non fanno altro che tagliarvi tutte quelle parti che potrebbero
incastrarsi nelle vostre tute. In più, così facendo, c’è il beneficio aggiuntivo di
ridurvi la tentazione di coccolarvi l’un l’altro durante quelle lunghe, fredde
notti passate a bordo.»
Il marine avanzò di un altro passo e Amos fece immediatamente
altrettanto per ridurre ancora di più la distanza tra loro. Con il naso tanto
vicino alla visiera dell’elmo del marine da appannargli il vetro con l’alito, il
meccanico disse: «Allora, dimmi la verità, Joe: l’esterno di queste tute è
anatomicamente corretto, dico bene?»
Ci fu un lungo silenzio teso, rotto soltanto quando qualcuno si schiarì la
gola dal portellone e il sottotenente tornò nel corridoio d’ingresso. «C’è
qualche problema, qui?»
Amos sorrise e fece un passo indietro.
«Niente affatto. Sto solo conoscendo meglio gli ottimi uomini e donne
che contribuisco a pagare con i dollari delle mie tasse.»
«Sergente?» disse il sottotenente.
«No, signore. Nessun problema.»
Il sottotenente si voltò e strinse la mano di Naomi.
«Capitano Estancia, è stato un piacere. I nostri addetti vi trasmetteranno a
breve via radio il permesso di atterrare. Sono certo che la gente di Ganimede
sarà grata di ricevere le scorte che trasportate.»
«Sono contenta di poter dare una mano» rispose Naomi, rivolgendo al
giovane ufficiale un sorriso smagliante.
Quando le truppe delle Nazioni Unite furono uscite dalla camera di
compressione e se ne furono andate a bordo della loro navetta, Naomi si
lasciò sfuggire un lungo sospiro e cominciò a massaggiarsi le guance.
«Se avessi dovuto sorridere per un altro secondo, credo che mi si sarebbe
spaccata la faccia.»
Holden afferrò Amos per la manica.
«Ma che cazzo...?» disse a denti stretti. «Che cazzo ti è preso?»
«Che cosa è successo?» chiese Naomi.
«Amos, qui, ha fatto tutto quello che poteva per far incazzare quei marine
mentre tu non c’eri. Sono sorpreso che non gli abbiano sparato, e che mezzo
secondo dopo non abbiano fatto fuori anche me.»
Amos abbassò lo sguardo sulla mano di Holden, che gli stringeva il
braccio, ma non fece niente per liberarsi dalla presa.
«Cap, sei un tipo a posto, ma come trafficante fai davvero schifo.»
«Che cosa è successo?» ripeté Naomi.
«Il capitano, qui, era talmente nervoso che perfino io ho cominciato a
pensare che avesse qualcosa da nascondere. Per cui ho attirato l’attenzione
dei marine finché non sei tornata» rispose Amos. «Ah, e non possono spararti
a meno che non li tocchi o che non estrai un’arma. Un tempo facevi parte
della Marina delle Nazioni Unite. Dovresti ricordarti le regole, no?»
«Quindi...» fece per dire Holden.
«Quindi» lo interruppe Amos «se il sottotenente dovesse chiedere loro di
noi, avranno una storia da raccontare su quello stronzo del meccanico che li
ha tirati per la giacchetta, e non sul tipo nervoso con la barba a chiazze che
continuava a cercare di nascondersi in un angolino.»
«Merda» esclamò Holden.
«Sei un buon capitano, e mi farei guardare le spalle da te in qualsiasi
combattimento. Ma come criminale fai schifo. Non sai comportarti come
nessun altro se non te stesso.»
«Che ne dici di tornare a fare il capitano?» osservò Naomi. «È davvero un
lavoro del cavolo.»
«Torre di controllo di Ganimede, qui è la Somnambulist. Ripetiamo la
richiesta di assegnazione di un punto di attracco» disse Naomi. «Abbiamo
ricevuto l’autorizzazione ad atterrare dalla pattuglia di controllo delle Nazioni
Unite, e sono già tre ore che ci state facendo attendere in orbita stazionaria.»
Naomi spense il microfono e aggiunse: «Stronzi.»
La voce che le rispose era differente da quella a cui avevano richiesto il
permesso di attracco nelle ultime ore. Era una voce più anziana e meno
annoiata.
«Scusate per l’attesa, Somnambulist, vi inseriremo in lista di attracco non
appena possibile. Ma abbiamo effettuato lanci a ripetizione nelle ultime dieci
ore, e abbiamo ancora una dozzina di navi da far salpare prima di poter far
atterrare qualcuno.»
Holden accese il suo microfono e disse: «Stiamo parlando con il
supervisore?»
«Sì, signore. Supervisore capo Sam Snelling, se per caso voleste prendere
appunti per un formulario di protesta. Snelling, con due elle.»
«No, no» replicò Holden. «Nessuna protesta. Stavamo guardando le navi
in uscita dal porto. Si tratta forse di navi di rifugiati? Considerando il
tonnellaggio che abbiamo visto lasciare i moli, sembra quasi che mezza luna
se ne stia andando via.»
«No. Abbiamo alcune navi passeggeri e da crociera che stanno portando
via un po’ di gente, ma la maggior parte di quelle in uscita in questo
momento sono cargo alimentari.»
«Cargo alimentari?»
«Solitamente spediamo fuori circa centomila tonnellate di cibo al giorno,
e gli scontri hanno tenuto fermi parecchi di questi carichi. Ora che il blocco
navale sta permettendo il passaggio del personale, si sono messi in viaggio
per effettuare le consegne previste.»
«Aspetti un momento» disse Holden. «Io me ne sto qui ad aspettare di
atterrare con delle riserve alimentari d’emergenza per la gente che sta
morendo di fame su Ganimede, mentre voi spedite centinaia di migliaia di
tonnellate di cibo fuori dalla luna?»
«Quasi mezzo milione di tonnellate, se contiamo le riserve di scorta»
precisò Sam. «Ma i proprietari di questo cibo non siamo noi. La maggior
parte della produzione alimentare su Ganimede è di proprietà di
multinazionali che non hanno il proprio quartier generale in loco. Ci sono un
sacco di soldi in ballo, con quelle spedizioni. C’è stata gente che ha perso una
fortuna, per ogni giorno in cui quei carichi sono rimasti a terra qui da noi.»
«Io...» fece per dire Holden. Poi dopo una pausa, concluse:
«Somnambulist, chiudo.»
Voltò il sedile per guardare Naomi. Lei aveva in viso un’espressione che
gli fece capire che era arrabbiata quanto lui.
Amos, che si gingillava vicino al pannello di controllo dei motori, intento
a sbocconcellare una mela che aveva sgraffignato dalle loro stesse riserve
alimentari, disse: «Com’è che questa storia ti sorprende, capitano?»
Un’ora più tardi, ricevettero il permesso di atterrare.
Vista dall’orbita bassa e durante il periplo di discesa, la superficie di
Ganimede non sembrava molto differente dal solito. Perfino nelle migliori
condizioni, la luna gioviana era una desolata distesa di grigia roccia silicea e
ghiacci poco meno grigi del resto, punteggiata ovunque da crateri e laghi
congelati all’istante. Aveva l’aspetto di un campo di battaglia già da molto
tempo prima che gli antenati dell’umanità cominciassero a strisciare sul suolo
terrestre per la prima volta.
Eppure gli umani, con la loro grande creatività e operosità nel campo
della distruzione, avevano trovato il modo di lasciare un segno. Holden
individuò i resti quasi scheletrici di un cacciatorpediniere sparpagliati lungo il
paesaggio alla fine di una lunga cicatrice nera. L’onda d’urto del suo impatto
con il terreno aveva fatto collassare le cupole più piccole per una decina di
chilometri di distanza. Piccole navi di soccorso fluttuavano tutto intorno al
cadavere, meno impegnate nella ricerca di superstiti che in quella di brandelli
di informazioni e tecnologie che potessero essere sopravvissute allo schianto
e che non ci si poteva permettere di lasciar cadere in mani nemiche.
Il peggior danno direttamente visibile era la perdita di una delle
gigantesche serre a cupola. Le cupole agricole erano immense strutture di
acciaio e vetro, contenenti ettari di terreno attentamente coltivato e raccolti
meticolosamente cresciuti e curati. Vedere una di queste cupole schiacciate
sotto il metallo ritorto di ciò che sembrava essere l’impianto di uno specchio
orbitale precipitato a terra era sconvolgente e demoralizzante. Le cupole
sfamavano i pianeti esterni con i loro raccolti di specie appositamente
coltivate e create in vitro. Al loro interno si sviluppava la scienza agraria più
avanzata in tutta la storia dell’umanità. E gli specchi orbitali erano meraviglie
di ingegneria che aiutavano a rendere possibile tutto questo. Far schiantare
uno specchio su una cupola, distruggendo entrambi, colpì Holden come
qualcosa di ancor più stupidamente miope che cacare nelle proprie riserve
idriche per negare l’accesso all’acqua ai propri nemici.
Quando la Somnambulist posò finalmente le stanche membra sulla
piattaforma di atterraggio assegnata, Holden aveva già perso ogni pazienza
nei confronti della stupidità umana.
E quindi, ovviamente, la stupidità umana non si fece attendere.
L’ispettore doganale li stava aspettando all’esterno, quando uscirono dal
portellone pressurizzato. Era un uomo magro come uno stecco, con un viso
bellissimo e la testa calva come un uovo. Era accompagnato da due uomini
con indosso delle uniformi generiche da guardie e dei taser nelle fondine
allacciate alle loro cinture.
«Salve, sono il signor Vedas. Sono l’ispettore doganale del molo undici,
dalla piattaforma A14 fino ad A22. Favorisca il suo manifesto di carico, per
favore.»
Naomi, di nuovo nei panni del capitano, si fece avanti e disse: «Il
manifesto è stato già trasmesso al vostro ufficio prima dell’attracco. Non...»
Holden vide che Vedas non disponeva di alcun terminale d’ispezione di
carico ufficiale, e che le guardie che erano con lui non indossavano le
uniformi dell’autorità portuale di Ganimede. Avvertì il formicolio di
premonizione che accompagnava un qualche imbroglio di bassa lega in corso
d’opera. Si fece avanti e scansò Naomi.
«Capitano, lasci che me ne occupi io.»
L’ispettore doganale Vedas lo squadrò dall’alto in basso e disse: «Lei chi
sarebbe?»
«Può chiamarmi signor Non-mi-bevo-le-tue-cazzate.»
Vedas si accigliò e le due guardie si avvicinarono. Holden rivolse loro un
sorriso, poi allungò una mano dietro la schiena e tirò fuori una grossa pistola
da sotto il mantello. La tenne lungo il fianco, puntata verso terra, ma gli altri
uomini si fecero comunque indietro. Vedas sbiancò.
«Lo conosco, questo trucchetto» fece Holden. «Tu ci chiedi di dare
un’occhiata al nostro manifesto; poi ci dici quale merce abbiamo
erroneamente incluso. E, mentre ritrasmettiamo al tuo ufficio il nostro
manifesto emendato di fresco, tu e i tuoi scagnozzi vi prendete la merce
irregolare e la vendete in quello che immagino essere un florido mercato nero
di generi alimentari e medicinali.»
«Sono un amministratore legalmente appuntato della Stazione di
Ganimede» squittì Vedas. «Pensa forse di poter fare il bullo con me, con
quella pistola? La farò arrestare dalla sicurezza portuale e farò requisire
l’intera nave, se crede...»
«No, non ho intenzione di fare il prepotente con te» rispose Holden. «Ma
ne ho fin sopra i capelli degli idioti che cercano di approfittarsi delle miserie
altrui, e farò in modo di alleviare il mio nervosismo lasciando che il mio
grosso amico, Amos, qui presente, ti spacchi la faccia per aver tentato di
rubare cibo e medicine destinati ai rifugiati di guerra.»
«Non si tratta di fare i prepotenti. È più una sorta di allentamento dello
stress» intervenne Amos con tono amabile.
Holden annuì verso di lui.
«Quanto ti fa arrabbiare il fatto che questo tizio cerchi di derubare i
rifugiati, Amos?»
«Mi fa incazzare parecchio, capitano.»
Holden si picchiettò la coscia con la canna della pistola.
«La pistola serve soltanto ad assicurarmi che le tue ‘guardie portuali’, qui,
non interferiscano finché Amos non abbia completamente alleviato il suo
problema di gestione della rabbia.»
Il signor Vedas, ispettore doganale del molo undici, dalla piattaforma
A14 fino ad A22, si voltò e se la diede a gambe levate come se ne andasse
della sua stessa vita, seguito dappresso dai suoi sbirri a noleggio.
«Ti è piaciuto, vero?» disse Naomi. La sua espressione era strana, come
se lo stesse soppesando, e il suo tono di voce era in quel territorio neutro tra
l’accusa e il dato di fatto.
Holden rinfoderò la pistola.
«Vediamo di scoprire che diavolo è successo qui.»
7

Prax
Il centro di sicurezza era al terzo livello sotterraneo. Le pareti rifinite e il
generatore di corrente indipendente sembravano un lusso, se paragonati alle
superfici di ghiaccio grezzo degli altri luoghi all’interno della stazione, ma di
fatto si trattava di segnali realmente importanti. Proprio come alcune piante
mettevano in guardia dalla loro velenosità attraverso un fogliame dai colori
sgargianti, il centro di sicurezza dichiarava la sua inespugnabilità. Non
bastava che fosse impossibile scavare attraverso il ghiaccio per far
sgattaiolare un amico o un amante fuori dalle celle di detenzione. Tutti quanti
dovevano sapere che era impossibile, anche soltanto con un’occhiata, o
altrimenti qualcuno avrebbe tentato di farlo.
In tutti i suoi anni su Ganimede, Prax era stato in quel posto una volta
soltanto, e come testimone. Come un uomo che era lì per aiutare la legge, e
non per chiedere un aiuto a essa. In quell’ultima settimana però vi era tornato
dodici volte, mettendosi in linea nella lunga, disperata fila di attesa, irrequieto
e quasi sopraffatto dall’opprimente sensazione di dover essere altrove, a fare
qualcosa, anche se non sapeva esattamente che cosa.
«Mi dispiace, dottor Meng» disse la donna dal microfono dietro il vetro
spesso tre centimetri del bancone informativo. Sembrava stanca. Più che
stanca, e perfino più che esausta. Traumatizzata. Morta. «Niente, neanche
oggi.»
«Non c’è nessuno con cui possa parlare? Dev’esserci un modo per...»
«Mi dispiace» disse lei, e i suoi occhi si spostarono alle spalle di Prax,
verso il disperato successivo, verso l’ennesima persona spaventata e sporca
per i giorni passati senza lavarsi che non sarebbe riuscita ad aiutare. Prax uscì
dal centro digrignando i denti con rabbia impotente. La fila era lunga due ore;
uomini, donne e bambini in piedi, chini o seduti. Alcuni di loro piangevano.
Una giovane donna con gli occhi cerchiati di rosso fumava una sigaretta di
marijuana; l’odore delle foglie bruciate sovrastava quello dei corpi affollati, e
il fumo saliva torcendosi oltre il cartello VIETATO FUMARE sulla parete.
Nessuno protestava. Tutte quelle persone avevano l’aspetto tormentato dei
rifugiati, anche quelli che in quel posto ci erano nati.
Nei giorni immediatamente successivi alla fine degli scontri, i militari
marziani e terrestri si erano ritirati dietro le rispettive linee. Il paniere dei
pianeti esterni si era ritrovato ridotto a una landa desolata tra le due fazioni, e
ogni singola intelligenza strategica presente sulla stazione era impegnata in
un unico compito: andarsene da lì.
All’inizio i moli erano rimasti attanagliati da un blocco navale da parte
delle due forze militari in conflitto, ma, ben presto, queste ultime avevano
lasciato la superficie, preferendo la sicurezza delle proprie navi, e l’ondata di
panico e terrore all’interno della stazione non aveva più potuto essere
contenuta. Le poche navi passeggeri che avevano ricevuto il permesso di
allontanarsi erano zeppe di gente che cercava di andarsene da qualsiasi altra
parte. Le tariffe per un biglietto avevano ridotto sul lastrico gente che aveva
lavorato per anni in alcuni dei ruoli meglio retribuiti della comunità
scientifica al di fuori della Terra. Ai più poveri non rimaneva altro che
svignarsela a bordo di droni cargo, piccole imbarcazioni o perfino tute
spaziali assicurate a telai modificati e sparate nello spazio aperto, verso
Europa, con la speranza di essere salvati. Il panico li spingeva da un rischio
all’altro, finché non fossero finiti da qualche altra parte o nella tomba. Vicino
alle stazioni di sicurezza, vicino ai moli, perfino vicino ai cordoni militari
abbandonati delle Nazioni Unite e di Marte, i corridoi erano zeppi di gente
che si aggrappava disperatamente a qualsiasi cosa in cui intravedesse una
possibile salvezza.
Prax desiderò essere con loro.
Invece, il suo mondo era caduto in una sorta di routine. Si svegliava nelle
sue stanze, perché la sera rientrava sempre a casa per essere lì qualora Mei
fosse tornata. Mangiava qualunque cosa avesse sottomano. Negli ultimi due
giorni non era rimasto più niente tra le sue scorte personali, ma alcune delle
piante ornamentali lungo i viali erano commestibili. E comunque non aveva
fame.
Poi controllava le consegne dei cadaveri.
Durante la prima settimana, l’ospedale aveva mantenuto un canale video
a rotazione con i corpi recuperati dei morti, per facilitarne l’identificazione.
Dopo i primi giorni, Prax era dovuto andare a controllare di persona. Cercava
una bambina, per cui non doveva guardare la grande maggioranza dei
cadaveri, ma quelli che vedeva lo tormentavano. Per due volte aveva trovato
un corpo talmente mutilato che avrebbe potuto anche essere Mei, ma il primo
aveva un marchio di nascita sulla nuca e le unghie dei piedi del secondo non
avevano la forma giusta. Quelle due bambine morte erano la tragedia di
qualcun altro.
Una volta assicuratosi che Mei non fosse sulla lista dei morti, Prax
andava a caccia. La prima sera in cui sua figlia era sparita, aveva preso il suo
terminale e aveva redatto delle liste. Gente da contattare che deteneva il
potere ufficiale: la sicurezza, i suoi dottori, gli eserciti in guerra. Gente da
contattare che avrebbe potuto avere qualche informazione: gli altri genitori
della scuola, gli altri genitori nel gruppo di supporto medico, sua madre. Posti
da controllare: la casa della sua migliore amica, i parchi pubblici che
preferiva, il negozio di dolci con il sorbetto al lime che chiedeva sempre.
Luoghi in cui qualcuno potesse andare a comprare una bambina rapita per
sesso: una lista di bar e di bordelli presa da un file in cache dalla directory
della stazione. La directory aggiornata doveva essere sul sistema, ma era
ancora in blocco. Ogni giorno, Prax aveva spuntato più voci possibile dalle
liste e, quando finiva di spuntare, ricominciava da capo.
E la lista era diventata una tabella di marcia. Si recava dalle forze di
sicurezza un giorno sì e uno no, alternandole a chiunque fosse disposto a
parlargli tra le forze marziane e quelle delle Nazioni Unite negli altri giorni.
La mattina batteva i parchi, dopo aver controllato i cadaveri all’ospedale. La
migliore amica di Mei e la sua famiglia erano fuggiti da Ganimede, per cui
non c’era niente da controllare su quel fronte. Il negozio di dolci era stato
bruciato durante una rivolta. Trovare i suoi dottori era il compito più
difficoltoso. La dottoressa Astrigan, la sua pediatra, aveva emesso tutti i versi
di preoccupazione adeguati e gli aveva promesso che l’avrebbe contattato se
avesse saputo qualcosa; poi, quando Prax era tornato da lei tre giorni dopo, la
dottoressa non si ricordava nemmeno di avergli parlato. Il chirurgo che le
aveva drenato l’ascesso lungo la spina dorsale quando le avevano
diagnosticato il morbo non l’aveva vista. Il dottor Strickland, del gruppo di
supporto e mantenimento, era disperso. L’infermiera Abuakár era morta.
Le altre famiglie del gruppo di supporto avevano i propri drammi a cui
pensare. Mei non era l’unica bambina a essere scomparsa. Katoa Merton.
Gabby Solyuz. Sandro Ventisiete. Prax vedeva la paura e la disperazione che
gridavano in fondo alla sua mente rispecchiarsi nei volti degli altri genitori.
Quelle visite erano più dure che dover guardare i cadaveri. Rendevano la
paura difficile da dimenticare.
Prax la nascondeva lo stesso.
Basia Merton – PapiKatoa, come lo chiamava Mei – era un uomo dal
collo largo che profumava sempre di menta. Sua moglie era magra come una
matita, con un sorriso più simile a un tic nervoso. La loro casa era composta
da sei stanze vicino al complesso di trattamento delle acque, cinque livelli
sotto la superficie, decorata con pareti di seta filata e bambù. Quando Basia
aprì la porta, non sorrise né lo salutò; si limitò a voltarsi e a tornare in casa,
lasciando la porta aperta. Prax lo seguì.
Una volta seduti al tavolo, Basia versò a Prax un bicchiere di latte
miracolosamente ancora fresco. Era la quinta volta che Prax veniva lì da
quando Mei era scomparsa.
«Nessun segno, quindi?» disse Basia. Non era veramente una domanda.
«Nessuna novità» replicò Prax. «Questa, almeno, è una certezza.»
Dal retro della casa, la voce di una bambina si levò in un grido
oltraggiato, seguita da quella di un bimbo più piccolo. Basia non si voltò
neppure.
«Niente nemmeno qui. Mi dispiace.»
Il latte aveva un sapore delizioso, dolce, ricco e delicato. Prax riusciva
quasi a sentire le calorie e le sostanze nutritive che venivano assorbite dalle
mucose della sua bocca. Gli venne in mente la possibilità che stesse
tecnicamente morendo di fame.
«C’è ancora speranza» disse Prax.
Basia sbuffò come se quelle parole fossero state un pugno nello stomaco.
Aveva le labbra serrate e fissava il tavolo di fronte a sé. Le grida dal retro si
placarono in un basso piagnucolio infantile.
«Ce ne andiamo» disse Basia. «Mio cugino lavora su Luna per la
Magellan Biotech. Stanno inviando delle navi con dei rifornimenti di
soccorso e, quando scaricheranno le scorte mediche, ci sarà abbastanza spazio
per farci salire a bordo. È già tutto organizzato.»
Prax posò il bicchiere di latte sul tavolo. Le stanze intorno a loro
sembrarono farsi silenziose, ma sapeva che era soltanto un’impressione.
Percepì uno strano senso di costrizione sbocciargli in gola, fin nel petto. Il
suo viso si fece di cera. Ebbe l’improvviso ricordo, fisico, di sua moglie che
gli annunciava di aver compilato i documenti per il divorzio. Tradito. Si
sentiva tradito.
«...dopo, ancora qualche giorno» stava dicendo Basia. Aveva continuato a
parlare, ma Prax non l’aveva nemmeno sentito.
«Ma che ne sarà di Katoa?» riuscì a dire Prax, nonostante l’ispessimento
che sentiva in gola. «È qui, da qualche parte.»
Basia alzò lo sguardo per un istante e poi lo distolse, rapido come un
batter d’ali.
«Non c’è. Se n’è andato, fratello. Il ragazzo aveva un deserto al posto del
sistema immunitario. Lo sai anche tu. Senza i farmaci, cominciava a sentirsi
terribilmente male dopo tre, massimo quattro giorni. Devo prendermi cura dei
due bambini che mi sono rimasti.»
Prax annuì. Il suo corpo rispondeva suo malgrado. Si sentiva come se un
volano si fosse sganciato, da qualche parte, in fondo alla sua testa. La grana
del tavolo di bambù gli parve innaturalmente nitida. L’odore del ghiaccio si
dissolse. Il sapore del latte si fece acido sulla sua lingua.
«Non puoi saperlo con certezza» disse, cercando di mantenere un tono
delicato. Non gli riuscì molto bene.
«Posso eccome.»
«Chiunque... chiunque sia stato a prendere Mei e Katoa... non gli
servirebbero, da morti. Lo sapevano. Dovevano sapere che avevano bisogno
di farmaci. Per cui, l’unica cosa sensata è che li abbiano portati in un posto
dove potevano trovarne.»
«Non li ha presi nessuno, fratello. Si sono smarriti. È successo qualcosa.»
«La maestra di Mei ha detto...»
«La maestra di Mei era fuori di sé per la paura. Tutto il suo mondo
consisteva nell’assicurarsi che i mocciosetti non si sputassero troppo addosso
l’un l’altro, ed ecco che scoppia un conflitto armato appena fuori dalla sua
porta. Chi diavolo può sapere che cosa ha visto?»
«Ha detto di aver visto la madre di Mei e un dottore. Ha detto che un
dottore...»
«E poi, andiamo... ‘Non gli servirebbero, da morti’? Questa stazione è
piena di cadaveri fino al collo, e non vedo nessuno che possa servire a
qualcosa. È una guerra. Quegli stronzi hanno scatenato un conflitto.» Le
lacrime gli riempivano gli occhi grandi e scuri, ora, e la sua voce era carica di
dolore. Ma non c’era volontà di lottare. «La gente muore, in una guerra. I
bambini muoiono. Devi... ah, merda. Devi andare avanti.»
«Non puoi saperlo» disse Prax. Non puoi sapere se sono morti. E, finché
non lo sai per certo, li stai abbandonando.»
Basia abbassò gli occhi a terra. La sua pelle si stava arrossando. Scosse la
testa, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso.
«Non puoi andare» insisté Prax. «Devi restare, per continuare a cercarlo.»
«Basta così» replicò Basia. «Non permetterti di gridarmi contro in casa
mia.»
«Sono i nostri figli, e non ti è permesso di abbandonarli così! Che razza di
padre sei? Voglio dire, Cristo...»
Basia si sporgeva in avanti, ora, chino sul tavolo. Alle sue spalle, una
ragazzina sul punto di diventare donna li fissò dal corridoio con gli occhi
sgranati. Prax sentì una certezza salirgli dentro.
«Rimarrai qui» disse.
Il silenzio durò tre battiti. Quattro. Cinque.
«È già tutto organizzato» replicò Basia.
Prax lo colpì. Non l’aveva previsto, non aveva avuto intenzione di farlo.
Il suo braccio prese slancio dalla spalla, e il pugno chiuso si scagliò di sua
spontanea volontà. Le nocche si piantarono nella carne della guancia di
Basia, facendogli scattare la testa da un lato e mandandolo all’indietro,
barcollante. L’omone gli si scagliò addosso attraverso la stanza. Il primo
pugno colpì Prax appena sotto la clavicola, spingendolo all’indietro, poi un
altro al costato, e un altro ancora. Prax sentì la sedia scivolargli da sotto il
corpo e si ritrovò a cadere lentamente nella bassa gravità di Ganimede,
incapace di ritrovare l’equilibrio. Prax scalciò alla cieca. Sentì il suo piede
che colpiva qualcosa, ma non seppe dire se fosse il tavolo o Basia.
Rovinò a terra, e il piede di Basia gli calò come un martello sul plesso
solare. Il mondo esplose di luce e dolore. Da qualche parte, molto lontano,
una donna stava gridando. Non riusciva a distinguere le parole. Poi,
lentamente, cominciò a capire.
Non sta bene. Anche lui ha perso un bambino. Non sta bene.
Prax rotolò via e si sforzò di rimettersi in ginocchio. C’era del sangue sul
suo mento, ed era piuttosto sicuro che fosse il suo. Nessun altro sanguinava,
nella stanza. Basia era accanto al tavolo, con le mani strette a pugno, le narici
dilatate e il respiro affannato. Sua figlia gli si era parata di fronte,
frapponendosi tra il padre infuriato e Prax. Di lei non vedeva altro che il
sedere, la coda di cavallo e le mani, aperte e stese verso il padre nel gesto
universale per dire ‘fermo’. Gli stava salvando la vita.
«Meglio se te ne vai, fratello» disse Basia.
«Va bene» rispose Prax.
Si rialzò lentamente e barcollò verso la porta, respirando ancora con
difficoltà. Uscì dalla casa.
Il segreto del collasso botanico dei sistemi chiusi era il seguente: non è a
ciò che si rompe che bisogna fare attenzione, ma all’effetto a cascata. La
prima volta che aveva perso un intero raccolto di Glycine kenon, era stato per
colpa di un fungo che non era minimamente dannoso per i germogli di soia.
Le spore dovevano essere giunte insieme a un carico di coccinelle. Il fungo si
era radicato nel sistema idroponico, assorbendo allegramente sostanze
nutritive che non gli erano destinate e alterando il pH. Questo a sua volta
aveva indebolito i batteri che Prax aveva impiegato per calibrare l’azoto, al
punto da renderli vulnerabili a un batteriofago che altrimenti non sarebbe mai
stato in grado di danneggiarli. L’equilibrio dell’azoto nel sistema era andato a
farsi benedire e, quando finalmente erano riusciti a ripristinare la popolazione
iniziale di batteri, i germogli di soia erano ormai ingialliti, flosci e
irrecuperabili.
Era quella la metafora che usava quando pensava a Mei e al suo sistema
immunitario. Il problema all’origine era minimo: un allele mutante produceva
una proteina che ripiegava a sinistra invece che a destra. Una differenza di
qualche coppia di basi. Ma quella proteina catalizzava un passaggio critico
nella trasduzione del segnale alle cellule T. Mei poteva anche avere tutte le
parti del sistema immunitario pronte a combattere un agente patogeno ma,
senza due dosi al giorno di un catalizzatore artificiale, l’allarme non sarebbe
mai partito. La chiamavano immunosenescenza precoce di Myers-Skelton, e i
primi studi non erano ancora stati in grado di stabilire se fosse più comune al
di fuori del pozzo gravitazionale terrestre per via di un effetto sconosciuto
della bassa gravità o semplicemente perché gli alti livelli di radiazioni
aumentavano in maniera generale l’incidenza delle mutazioni genetiche. Non
aveva importanza. Comunque ci fosse arrivata, Mei aveva sviluppato una
grave infezione spinale quando aveva quattro mesi. Se fossero stati in
qualunque altro luogo dei pianeti esterni, ne sarebbe morta. Ma tutti venivano
su Ganimede per i mesi di gestazione, per cui tutti i centri di ricerca per la
salute infantile erano lì. Quando il dottor Strickland l’aveva visitata, aveva
immediatamente capito con cosa aveva a che fare, e aveva tenuto a bada
l’effetto a cascata.
Prax s’incamminò per i corridoi verso casa. La sua mascella si stava
gonfiando. Non si ricordava di essere stato colpito alla mascella, ma si stava
gonfiando e gli faceva male. Le costole gli dolevano sulla parte sinistra del
costato, e sentiva una fitta se respirava troppo forte, per cui mantenne un
respiro leggero. Passò da uno dei parchi per raccogliere qualche foglia per
cena. Si fermò di fronte a un grosso cespuglio di pothos. Le ampie foglie a
forma di picche avevano un aspetto strano: avevano ancora un colore verde
ma erano troppo spesse, con una sfumatura dorata. Qualcuno aveva messo
dell’acqua distillata nella riserva idroponica, invece della soluzione con
additivi minerali di cui avevano bisogno i sistemi idroponici a lunga stabilità.
Sarebbero riusciti a cavarsela per un’altra settimana ancora. Forse due. Poi le
piante riciclatrici d’ossigeno avrebbero cominciato a morire e, quando fosse
successo, l’effetto a cascata sarebbe stato ormai in fase troppo avanzata per
poter essere fermato. Se non erano capaci di somministrare l’acqua giusta alle
piante, Prax non riusciva a immaginare come potessero essere in grado di
attivare tutti i riciclatori meccanici d’aria. Qualcuno avrebbe dovuto fare
qualcosa per risolvere il problema.
Qualcun altro.
Nelle sue stanze, la sua piantina superstite di Glycine kenon tendeva le
foglie verso la luce. Senza pensarci, Prax affondò le dita nel terreno,
esaminandolo. Il profumo complesso di quel terriccio ben bilanciato era come
incenso. La piantina se la stava cavando piuttosto bene, tutto sommato. Prax
guardò l’ora sul suo terminale. Erano passate tre ore da quando era tornato a
casa. La sua mascella era andata oltre il dolore, in una sorta di sofferenza
costantemente riscoperta.
Senza la sua medicina, la flora batterica del sistema digestivo di Mei
avrebbe cominciato a crescere a dismisura. I batteri benefici che risiedevano
nella sua bocca e nella sua gola le si sarebbero rivoltati contro. Dopo due
settimane, poteva darsi che non fosse ancora morta. Ma, anche nel migliore
dei casi, sarebbe stata talmente male al punto che rimetterla in sesto sarebbe
stato problematico.
Era una guerra. I bambini morivano, in guerra. Era un effetto a cascata.
Prax tossì e la fitta di dolore fu tremenda. Meglio che riflettere, comunque.
Doveva andare. Uscire da lì. Ganimede stava morendo tutto intorno a lui.
Non sarebbe riuscito ad aiutare Mei in alcun modo. Era andata. La sua
bambina era andata.
Piangere faceva ancor più male che tossire.
Più che dormire, perse conoscenza. Allorché si svegliò, la sua mascella
era talmente gonfia da scattare quando apriva troppo la bocca. Le costole
sembravano stare un po’ meglio. Si sedette sull’orlo del letto, con la testa tra
le mani.
Sarebbe andato al porto. Sarebbe andato da Basia, si sarebbe scusato e gli
avrebbe chiesto di partire con loro. Sarebbe uscito dal sistema gioviano.
Sarebbe andato da qualche altra parte per ricominciare, senza il suo passato.
Senza il suo matrimonio fallito e il suo lavoro andato in fumo. Senza Mei.
Si cambiò, infilandosi una camicia leggermente meno sporca di quella
che aveva indosso. Si sciacquò le ascelle con un panno umido. Si pettinò i
capelli all’indietro. Aveva fallito. Non aveva senso insistere. Doveva
accettare quella perdita e andare avanti. Forse un giorno ci sarebbe riuscito.
Controllò il suo terminale palmare. L’agenda di quel giorno prevedeva un
controllo alla conta dei cadaveri marziana, un giro di ricognizione nei parchi,
una visita alla dottoressa Astrigan e poi una lista di cinque bordelli in cui non
era ancora stato, dove avrebbe potuto indagare sui piaceri illeciti della
pedofilia, sperando di non farsi accoltellare da qualche malvivente perbene e
con una coscienza civile. Anche i malviventi avevano bambini. E alcuni
probabilmente li amavano. Con un sospiro, inserì: ‘Mineralizzare acqua
parchi.’ Doveva trovare qualcuno che disponesse dei codici di accesso agli
impianti. Forse la sicurezza avrebbe potuto aiutarlo almeno in quello.
E forse, lungo il percorso, avrebbe ritrovato Mei.
C’era ancora una speranza.
8

Bobbie
La Harman Dae-Jung era una corazzata della stessa classe della
Donnager, lunga mezzo chilometro e con un quarto di milione di tonnellate
di peso a secco. La sua baia di attracco interna era abbastanza spaziosa da
ospitare quattro navi scorta di classe fregata oltre a una varietà di shuttle
leggeri e veicoli di riparazione. Al momento, però, conteneva soltanto due
navi: il grosso, quasi opulento shuttle che aveva trasportato gli ambasciatori
marziani e i funzionari di Stato per il volo verso la Terra, e quello della
marina più piccolo e funzionale su cui aveva viaggiato Bobbie per arrivare da
Ganimede.
Bobbie stava usando lo spazio vuoto per fare jogging.
Il capitano della Dae-Jung stava ricevendo pressioni da parte dei
diplomatici a bordo affinché giungessero sulla Terra il prima possibile, per
cui la nave procedeva con un’accelerazione quasi costante di 1 g. E, mentre la
cosa era un fastidio per la maggior parte dei civili marziani, a Bobbie andava
a genio. I reparti speciali si addestravano solitamente in condizioni di g
elevato, e si sottoponevano a lunghi allenamenti di resistenza a un g almeno
una volta al mese. Nessuno aveva mai detto che era per prepararli
all’eventualità di dover combattere una guerra. Non ce n’era bisogno.
La sua recente assegnazione su Ganimede non le aveva permesso di
dedicarsi ad alcun esercizio ad alto g, e il lungo viaggio verso la Terra
sembrava un’ottima occasione per rimettersi in forma. L’ultima cosa che
avrebbe voluto era apparire debole ai nativi.
«Qualunque cosa tu sappia fare, posso farla meglio» canticchiava in un
falsetto affannato tra sé e sé, mentre correva. «Posso fare qualsiasi cosa
meglio di te.»
Diede una rapida occhiata al suo orologio da polso: due ore. Al ritmo
rilassato che aveva mantenuto fino a quel momento, doveva aver fatto una
ventina di chilometri. Forse avrebbe potuto tirare fino a trenta? La
propaganda marziana avrebbe voluto farle credere che metà della gente sulla
Terra non aveva nemmeno un lavoro, che vivevano di sussidi governativi e
spendevano le loro magre risorse economiche in droghe e locali con
stimolanti artificiali. Probabilmente, però, alcuni di loro erano comunque in
grado di correre per trenta chilometri. Avrebbe scommesso che Snoopy e la
sua squadra di marine fossero in grado di farlo, dal modo in cui scappavano
da...
«Qualunque cosa tu sappia fare, posso farla meglio» continuò a
canticchiare, poi si concentrò soltanto sul rumore delle sue scarpe che
calpestavano il ponte metallico sotto di sé.
Non vide il furiere che faceva il suo ingresso nella baia di attracco e,
quando quello la chiamò, Bobbie si voltò sorpresa e incespicò, cadendo a
terra e proteggendosi con la mano sinistra appena prima di spaccarsi la testa
sul ponte. Sentì qualcosa schioccare nel polso e il ginocchio destro picchiò
dolorosamente sul pavimento mentre rotolava per assorbire l’impatto.
Rimase prona per qualche secondo, muovendo polso e ginocchio per
controllare che non ci fosse alcun danno serio. Le facevano male entrambi,
ma nessuna delle due articolazioni sembrava cedere. Niente di rotto, quindi.
Era appena uscita dall’ospedale, e già andava cercando nuovi modi per
rompersi un’altra volta. Il furiere corse verso di lei e le si accovacciò accanto.
«Cristo, marine, hai fatto una bella caduta!» esclamò il ragazzo. «Una
bella caduta davvero!»
Le toccò il ginocchio destro, dove un livido stava già cominciando ad
annerire la pelle nuda appena sotto i suoi pantaloncini da ginnastica, poi
sembrò rendersi conto di quello che stava facendo e tirò via la mano di scatto.
«Sergente Draper, si richiede la sua presenza per una riunione nella sala
conferenze G alle quattordici e cinquanta» disse, con tono appena stridulo
mentre riportava il messaggio che gli avevano affidato. «Come mai non ha il
suo terminale con sé? Hanno avuto difficoltà a rintracciarla.»
Bobbie si rimise in piedi, esaminando cautamente il ginocchio per
verificare che reggesse bene il suo peso.
«Ti sei appena risposto da solo, ragazzo.»
Bobbie arrivò alla sala conferenze con cinque minuti di anticipo, con
indosso l’uniforme rossa e cachi perfettamente stirata e rovinata soltanto dalla
polsiera bianca che il medico di bordo le aveva dato per quella che si era
rivelata essere una lieve slogatura. Un marine in completo da battaglia e
armato di fucile d’assalto le aprì la porta e le rivolse un sorriso mentre
entrava nella sala. Era un bel sorriso, pieno di denti bianchi e regolari, sotto
un paio d’occhi a mandorla tanto scuri da essere quasi neri.
Bobbie glielo restituì e diede un’occhiata al nome sulla sua tuta. Caporale
Matsuke. Non si sapeva mai chi potevi incontrare nella cambusa o in sala
pesi. Farsi un amico o due non poteva certo far male.
Fu attirata nella sala da qualcuno che la chiamava per nome.
«Sergente Draper» ripeté il capitano Thorsson, facendo un cenno
impaziente verso una sedia al tavolo da conferenza.
«Signore» replicò Bobbie, scattando in un saluto militare prima di
occupare il suo posto. Fu sorpresa dall’esiguo numero di persone presenti
nella sala. C’erano soltanto Thorsson, dei servizi segreti, e due civili che non
conosceva.
«Artigliere, stiamo ripassando alcuni dettagli presenti nel suo rapporto;
un suo contributo sarebbe apprezzato.»
Bobbie attese che le venissero presentati i due civili al tavolo, ma, quando
fu chiaro che Thorsson non l’avrebbe fatto, si limitò a dire: «Sì, signore. Farò
quel che posso per aiutare.»
Il primo civile, una donna dai capelli rossi e dall’aspetto severo con
indosso un abito estremamente costoso, disse: «Stiamo cercando di creare
una sequenza temporale migliore degli eventi che hanno preceduto l’attacco.
Può mostrarci dove vi trovavate, lei e la sua squadra di fuoco, quando avete
ricevuto il messaggio radio in cui vi si chiedeva di tornare all’avamposto?»
Bobbie mostrò loro il punto, poi rievocò passo dopo passo tutti gli eventi
di quella giornata. Guardando la mappa che avevano portato al tavolo, si rese
conto per la prima volta di quanto fosse stata sbalzata lontano sulla superficie
ghiacciata della luna dall’impatto dello specchio orbitale. A quanto pareva,
era stata questione di pochi centimetri tra l’essere scagliata via e l’essere
ridotta in poltiglia come il resto del suo plotone...
«Sergente» disse Thorsson. Il suo tono di voce le fece capire che l’aveva
già detto un altro paio di volte.
«Le chiedo scusa, signore. Guardare queste immagini mi ha distratto. Non
succederà più.»
Thorsson annuì, ma con una strana espressione che Bobbie non riuscì a
interpretare.
«Quello che stiamo cercando di stabilire è il punto preciso in cui è stata
inserita l’Anomalia, prima dell’attacco» disse l’altro civile, un uomo
grassoccio con radi capelli castani.
L’Anomalia, la chiamavano ora. Si riusciva a percepire come mettevano
una maiuscola a quella parola, nel pronunciarla. Anomalia, come un qualcosa
che capita, semplicemente. Uno strano evento casuale. Perché ognuno aveva
ancora paura di chiamarla per ciò che era: l’Arma.
«Dunque,» disse il tipo grassoccio «basandoci sul tempo in cui lei è
rimasta in contatto radio e sulle informazioni riguardanti la perdita di segnale
radio delle altre installazioni attorno all’area interessata, siamo in grado di
stabilire con precisione che la fonte del segnale di disturbo è l’Anomalia
stessa.»
«Aspettate un momento» disse Bobbie, scuotendo la testa. «Che cosa?
Quel mostro non può aver disturbato le nostre radio. Non disponeva di alcuna
tecnologia. Non indossava nemmeno una maledettissima tuta spaziale per
respirare! Come poteva avere con sé la strumentazione necessaria al disturbo
delle frequenze?»
Thorsson le picchiettò paternamente la mano, un gesto che non fece altro
che irritare Bobbie ancora di più, piuttosto che calmarla.
«I dati non mentono, sergente. La zona del black-out radio si è spostata. E
nel mezzo c’era sempre la... cosa. L’Anomalia» riprese Thorsson, poi si voltò
per parlare con il tipo grassoccio e la rossa.
Bobbie si appoggiò allo schienale della sedia, sentendo l’energia che si
spostava lontano da lei nella stanza, come se fosse stata una ragazza senza
accompagnatore al ballo della scuola. Ma, visto che Thorsson non l’aveva
congedata, non poteva nemmeno andarsene da lì.
La rossa disse: «Secondo i dati che abbiamo sulla perdita di segnale radio,
l’inserzione sarebbe qui» indicò un punto sulla mappa «e il percorso verso
l’avamposto delle Nazioni Unite è lungo questo crinale.»
«Che cosa c’è in quel punto?» disse Thorsson aggrottando le sopracciglia.
Il tipo grassoccio tirò fuori una mappa diversa dalla prima e vi si chinò
sopra per qualche istante.
«Sembrano essere dei vecchi tunnel di servizio per il sistema idrico della
cupola. Qui dice che sono in disuso da decenni.»
«Ecco» intervenne Thorsson. «Il genere di tunnel che qualcuno potrebbe
usare per trasportare qualcosa di pericoloso che dovrebbe essere mantenuto
segreto.»
«Già» confermò la rossa. «Può darsi che la stessero consegnando
all’avamposto dei marine e che sia loro sfuggita di mano. I marine se la sono
data a gambe quando hanno visto che era fuori controllo.»
Bobbie rise in modo sprezzante prima di riuscire a impedirsi di farlo.
«Ha qualcosa da aggiungere, sergente Draper?» chiese Thorsson.
Thorsson la fissava con il suo sorriso enigmatico, ma Bobbie aveva
lavorato con lui abbastanza a lungo da sapere che ciò che gli dava più fastidio
erano le stronzate. Se intervenivi, voleva essere sicuro che avessi qualcosa di
veramente utile da dire. I due civili la stavano fissando sorpresi, come se
fosse stata uno scarafaggio che si fosse improvvisamente alzato in piedi su
due zampe e avesse cominciato a parlare.
Lei scosse la testa.
«Quando ero una matricola, sapete qual era la seconda cosa più
pericolosa di tutto il sistema solare dopo un marine marziano, per il mio
sergente?»
I civili continuarono a fissarla, ma Thorsson mimò le parole con le labbra
insieme a lei mentre Bobbie le pronunciava.
«Un marine delle Nazioni Unite.»
Il tipo grassoccio e la rossa si scambiarono un’occhiata e quest’ultima
roteò gli occhi per entrambi. Ma Thorsson disse: «Quindi non crede che i
soldati delle Nazioni Unite stessero fuggendo da qualcosa che gli era sfuggito
di mano.»
«Non c’è nemmeno una cazzo di possibilità che sia così, signore.»
«E allora ci dia il suo punto di vista sulla faccenda.»
«Quell’avamposto delle Nazioni Unite era presidiato da un intero plotone
di marine. Con la stessa potenza di fuoco del nostro avamposto. Allorché
hanno cominciato a fuggire, erano rimasti in sei. Sei. Hanno combattuto quasi
fino all’ultimo uomo. Quando sono corsi verso di noi, non stavano cercando
la ritirata. Stavano venendo da noi perché li aiutassimo a continuare il
combattimento.»
Il tipo grassoccio raccolse da terra una borsa a tracolla di cuoio e
cominciò a rovistarci dentro. La rossa lo guardò fare, come se quello che
stava facendo fosse molto più interessante di qualsiasi cosa Bobbie avesse da
dire.
«Se quell’affare fosse stato un qualche progetto segreto delle Nazioni
Unite che quei marine avevano ricevuto il compito di consegnare o
proteggere, non sarebbero venuti da noi. Sarebbero morti tentando di portare
a termine gli ordini piuttosto che abbandonare la propria missione. È quello
che avremmo fatto anche noi.»
«Grazie» rispose Thorsson.
«Voglio dire, non era nemmeno la nostra battaglia, e abbiamo combattuto
fino all’ultimo marine per fermare quella cosa. Credete che i marine delle
Nazioni Unite sarebbero stati da meno?»
«Grazie, sergente» ripeté Thorsson, più forte. «Tendo a concordare con
lei, ma dobbiamo esplorare tutte le possibilità. I suoi commenti saranno presi
in considerazione.»
Il tipo grassoccio finalmente trovò quel che stava cercando. Una
scatoletta di plastica piena di mentine. Ne prese una, poi la porse alla rossa
perché si servisse. Un odore dolciastro di menta riempì l’aria. Con la bocca
piena, il tipo grassoccio disse: «Sì, grazie, sergente. Credo che qui possiamo
andare avanti senza rubarle altro tempo.»
Bobbie si alzò, fece un altro saluto all’indirizzo di Thorsson e uscì dalla
sala. Sentiva il cuore che le batteva veloce. La mascella le doleva nel punto in
cui digrignava i denti.
I civili non capivano. Nessuno capiva.
Quando il capitano Martens si presentò nella baia di carico, Bobbie aveva
appena finito di smontare l’alloggiamento per l’arma da fuoco sul braccio
destro della sua tuta da combattimento. Rimosse il mitragliatore a tre canne
dal supporto e lo posò sul pavimento accanto alle altre due dozzine di
componenti che aveva già allentato. Vicino ai pezzi smontati c’era una lattina
di detergente per armi e una boccetta di lubrificante, insieme alle varie
bacchette e spazzole che usava per pulire i ferri del mestiere.
Martens attese finché non ebbe posato l’arma sul tappetino, poi si sedette
sul pavimento accanto a lei. Bobbie attaccò una spazzola d’acciaio in fondo a
una delle bacchette, la bagnò nel detergente e cominciò a passarla attraverso
la mitragliatrice, una canna per volta. Martens rimase a osservarla.
Dopo qualche minuto, Bobbie sostituì la spazzola con un panno e ripulì
dalle canne il detergente rimasto. Poi usò un panno nuovo intinto nel
lubrificante per oliarle. Quando cominciò ad applicare il lubrificante alla
complessa rete d’ingranaggi che componeva il meccanismo della
mitragliatrice e il sistema di ricarica delle munizioni, Martens finalmente
parlò.
«Sa...» disse «Thorsson fa parte dei servizi segreti della marina fin
dall’inizio della sua carriera. È andato dritto alla scuola di addestramento
ufficiali, primo della sua classe in accademia, e primo in comando di flotta.
Non ha mai fatto nient’altro se non essere un secchione dei piani alti.
L’ultima volta che ha sparato con un’arma è stato durante le sue sei settimane
di addestramento sul campo, vent’anni fa. Non ha mai guidato una squadra
d’assalto. Non ha mai fatto parte di un plotone da combattimento.»
«Una storia affascinante» rispose Bobbie, posando il lubrificante e
alzandosi in piedi per riassemblare l’arma. «Apprezzo moltissimo il fatto che
abbia voluto condividerla con me.»
«Perciò,» continuò Martens, senza perdere un colpo «quanto casino pensa
di poter fare prima che Thorsson cominci a chiedermi se magari non è
rimasta un po’ stordita da una qualche psicosi postraumatica?»
Bobbie lasciò cadere la chiave inglese che aveva in mano, ma la recuperò
con l’altra mano prima che potesse toccare terra.
«È una visita ufficiale? Perché, se non lo è, può anche andarsene a...»
«Io, invece? Non sono un secchione» riprese Martens. «Sono un marine.
Mi sono fatto dieci anni di servizio sul campo prima che mi venisse offerto di
entrare nella scuola ufficiali. Ho preso due lauree, in psicologia e teologia.»
Bobbie sentì un prurito sulla punta del naso e si grattò senza pensarci.
L’improvviso odore di lubrificante le fece capire che si era appena spalmata il
viso d’olio. Martens osservò il suo gesto, ma non smise di parlare. Lei cercò
di affogare le sue parole rimettendo insieme l’arma nel modo più rumoroso
possibile.
«Ho fatto addestramenti sul campo, esercitazioni di combattimento
ravvicinato, ho partecipato a giochi di guerra» disse lui, alzando un po’ la
voce. «Lo sapeva che ero una matricola nello stesso campo in cui suo padre
era sergente maggiore? Il sergente maggiore Draper era un grand’uomo. Per
noi matricole era come un dio.»
Bobbie alzò la testa di scatto e strinse gli occhi. C’era qualcosa, in quello
strizzacervelli che si comportava come se avesse conosciuto suo padre, che le
sembrava sporco.
«Dico davvero. E, se fosse stato qui ora, le direbbe di starmi ad
ascoltare.»
«Fanculo» replicò Bobbie. S’immaginò suo padre che trasaliva di fronte
all’uso di quel turpiloquio per nascondere la paura. «Lei non sa un cazzo.»
«Quello che so è che, quando una sergente d’artiglieria con il suo livello
di addestramento e preparazione bellica viene quasi messo fuori uso da un
furiere poco più che adolescente, qualcosa sta andando maledettamente
storto.»
Bobbie scagliò la chiave inglese a terra, rovesciando la boccetta di
lubrificante, che cominciò a diffondersi sul tappetino come una chiazza di
sangue.
«Sono caduta, cazzo! Eravamo a pieno g, e sono semplicemente...
caduta.»
«E che mi dice dell’incontro di oggi? Mettersi a gridare in faccia a due
analisti civili dei servizi segreti che i marine preferirebbero morire che
fallire...»
«Non ho gridato» precisò Bobbie, senza la certezza che fosse davvero
così. Il suo ricordo della riunione si era fatto confuso, una volta uscita dalla
sala.
«Quante volte ha sparato con quell’arma, da quando l’ha pulita ieri?»
«Come?» chiese Bobbie, sentendosi nauseata senza sapere bene perché.
«Per quel che importa, quante volte l’ha usata da quando l’ha pulita il
giorno prima? O quello prima ancora?»
«La smetta» replicò Bobbie, agitando mollemente una mano verso
Martens e cercando un punto in cui potersi sedere.
«Ha mai usato quell’arma da quando è salita a bordo della Dae-Jung?
Perché posso dirle che l’ha pulita ogni singolo giorno in cui è stata a bordo, e
in diverse occasioni l’ha pulita due volte nella stessa giornata.»
«No, io...» disse Bobbie, sedendosi finalmente con un tonfo su una cassa
di munizioni. Non ricordava di aver pulito l’arma prima di allora. «Non lo
sapevo.»
«Questo è disordine da stress postraumatico, Bobbie. Non è una
debolezza, o un qualche tipo di falla morale. È quel che accade quando si
attraversa un’esperienza terribile. In questo momento non è in grado di
accettare ciò che è successo a lei e ai suoi uomini su Ganimede, e per questo
sta agendo in maniera irrazionale» spiegò Martens, poi si spostò e venne ad
accovacciarsi di fronte a lei. Per un istante Bobbie temette che avrebbe
tentato di prenderle la mano perché, se l’avesse fatto, l’avrebbe colpito.
Ma non lo fece.
«Lei prova vergogna,» riprese lui «ma non c’è niente di cui vergognarsi.
È stata addestrata per essere forte, competente e pronta a tutto. Le hanno
insegnato che, se si limita a fare quel che le viene detto e tiene a mente
l’addestramento, è in grado di affrontare qualsiasi minaccia. Ma, soprattutto,
le hanno insegnato che le persone più importanti del mondo sono quelle che
le stanno accanto nella linea di fuoco.»
Bobbie sentì un fremito nella guancia appena sotto l’occhio e si strofinò
quel punto con tanta forza da far esplodere le stelle nel suo campo visivo.
«E poi vi siete imbattuti in qualcosa a cui l’addestramento non poteva
prepararvi in alcun modo, e contro cui non avevate difese. E ha perso i suoi
compagni di squadra e amici.»
Bobbie fece per replicare e si rese conto che stava trattenendo il fiato, per
cui, invece di parlare, esalò forte. Martens non si interruppe.
«Abbiamo bisogno di lei, Roberta. Abbiamo bisogno che torni con noi.
Non sono mai stato dove è lei ora, ma conosco un sacco di gente che ci è
passata, e so come aiutarla. Se me lo lascerà fare. Se vorrà parlare con me.
Non posso cambiare le cose. Non posso curarla. Ma posso farla stare
meglio.»
«Non mi chiami Roberta» replicò Bobbie, così piano che riusciva a
malapena a sentirsi.
Fece qualche respiro corto, cercando di schiarirsi le idee e di non andare
in iperventilazione. Gli odori della stiva le si riversarono addosso. L’odore di
plastica e metallo della sua tuta. Quelli pungenti e contrastanti di lubrificante
per armi e fluidi idraulici, vecchi e consumati, affondati nel metallo
nonostante tutto l’impegno che potessero mettere i mozzi nello spazzolare il
ponte. Il pensiero di migliaia di marinai e marine che attraversavano quello
stesso spazio, intenti a lavorare per il proprio equipaggio e alla pulizia di
quelle stesse paratie, la riportò al presente.
Si spostò verso la mitragliatrice riassemblata e la tolse dal tappetino
prima che la pozza d’olio lubrificante potesse toccarla.
«No, capitano. Parlare con lei non è ciò che mi farà stare meglio.»
«E che cosa la farebbe stare meglio, sergente?»
«Quella cosa che ha ucciso i miei amici, e ha dato inizio a questa guerra...
Qualcuno ha messo quella cosa su Ganimede» disse lei, rimettendo la
mitragliatrice nell’alloggiamento con un forte scatto metallico. Diede un giro
alla tripla canna con un movimento della mano, e quella continuò a girare con
il sibilo veloce e oleoso tipico dei supporti di alta qualità. «Scoprirò chi è
stato. E lo ucciderò.»
9

Avasarala
Il rapporto era lungo più di tre pagine, ma Soren era riuscito a trovare
qualcuno che aveva le palle di ammettere di non sapere quando non sapeva.
Su Venere stavano accadendo strane cose, più strane di quanto Avasarala
avesse saputo o immaginato. Una rete di filamenti aveva quasi inglobato il
pianeta in una serie di esagoni larghi cinquanta chilometri e, a parte il fatto
che sembravano trasportare acqua super riscaldata e corrente elettrica,
nessuna sapeva di che si trattasse. La gravità del pianeta era aumentata del tre
percento. Turbini accoppiati di benzene e idrocarburi complessi spazzavano i
crateri d’impatto come atleti di nuoto sincronizzato nei punti in cui i resti
della Stazione di Eros si erano schiantati sulla superficie del pianeta. Le
migliori menti scientifiche del sistema rimanevano a bocca aperta di fronte a
quei dati, e il motivo per cui nessuno aveva ancora ceduto al panico era che
nessuno era concorde sul motivo per cui fosse opportuno cedere al panico.
Da una parte, la metamorfosi venusiana era il più grandioso fenomeno
scientifico mai osservato. Qualunque cosa stesse accadendo, era tutto in piena
vista. Non esistevano accordi di non divulgazione o di non competizione di
cui preoccuparsi. Chiunque disponesse di uno scanner sufficientemente
sensibile poteva osservare attraverso le nubi di acido solforico tutto quello
che stava succedendo laggiù. Le analisi erano riservate, i risultati degli studi
di settore protetti, ma i dati grezzi erano in orbita intorno al sole, a
disposizione di tutti.
Soltanto che, fino a quel momento, erano come una manica di lucertole
intente a guardare la Coppa del mondo. Detta in altra maniera, non sapevano
bene che cos’era che avevano sotto gli occhi.
Ma i dati erano chiari. L’attacco su Ganimede e il picco di energia spesa
su Venere avevano avuto luogo esattamente nello stesso momento. E nessuno
sapeva dire perché.
«Be’, questa roba non vale un cazzo» esclamò.
Avasarala richiuse il suo terminale palmare e guardò fuori dalla finestra.
Intorno a loro, il bar mormorava piano, come nei migliori ristoranti, solo
senza la fastidiosa necessità di dover pagare per ogni cosa. I tavoli erano di
legno vero, attentamente disposti affinché tutti godessero della vista e
nessuno potesse essere origliato a meno che non lo desiderasse
espressamente. Quel giorno pioveva. Anche se le gocce non avessero
picchiettato sulle finestre, rendendo indistinti città e cielo, Avasarala
l’avrebbe capito comunque per via dell’odore. Il suo pranzo – sagaloo
freddo, e qualcosa che si supponeva fosse pollo tandoori – era rimasto sul
tavolo, intatto. Soren era ancora seduto di fronte a lei, con un’espressione
educata e attenta come quella di un golden retriever.
«Non ci sono dati che corroborino l’idea di un lancio» disse Soren.
«Qualsiasi cosa sia su Venere, sarebbe dovuta arrivare su Ganimede, e non
c’è alcuna traccia di un’attività del genere.»
«Qualsiasi cosa si trovi su Venere crede che l’inerzia sia un optional e che
la gravità non sia una costante. Ignoriamo a cosa potrebbe somigliare un
lancio. Per quanto ne sappiamo noi, potrebbero anche arrivare a piedi su
Giove.»
Il ragazzo annuì, ammettendo che aveva ragione.
«A che punto siamo con Marte?»
«Hanno acconsentito a incontrarci qui. Le loro navi sono già in viaggio
con la delegazione diplomatica, inclusa la testimone.»
«La marine? Draper?»
«Sì, signora. L’ammiraglio Nguyen è incaricato della scorta.»
«Sta facendo il bravo?»
«Finora sì.»
«Molto bene. Che altro c’è da fare, ora?» chiese Avasarala.
«Jules-Pierre Mao la sta aspettando nel suo ufficio, signora.»
«Fammi avere un dossier su di lui. Qualsiasi cosa possa sembrarti
rilevante.»
Soren sbatté le palpebre. Un lampo illuminò le nuvole dall’interno.
«Ho inviato il rapporto...»
Lei sentì una fitta di fastidio che era per metà di imbarazzo. Aveva
dimenticato che il rapporto sull’uomo in questione era nella sua pila di
documenti. Insieme a quello c’erano anche altri trenta documenti, e la notte
prima aveva dormito male, disturbata da sogni in cui Arjun era morto
inaspettatamente. Da quando suo figlio era morto in un incidente di sci,
Avasarala aveva cominciato ad avere incubi in cui rimaneva vedova; la sua
mente fondeva gli unici due uomini che avesse mai amato.
Aveva previsto di ripassare quelle informazioni prima di colazione. Se
n’era dimenticata. Ma non l’avrebbe ammesso di fronte a quel moccioso
europeo soltanto perché era intelligente, competente, e faceva tutto ciò che lei
gli ordinava.
«So che cosa c’è nel rapporto. So tutto» disse, alzandosi in piedi. «Questo
è un test. Ti sto chiedendo che cosa ti sembra rilevante di quest’uomo.»
Si allontanò, spostandosi con deliberata rapidità verso le porte di quercia
intarsiate, costringendo Soren ad affrettarsi per rimanere al passo.
«È socio di maggioranza della Mao-Kwikowski Mercantile» disse Soren,
con voce abbastanza bassa da raggiungere soltanto lei prima di spegnersi.
«Prima dell’incidente, erano uno dei maggiori fornitori della Protogen.
Equipaggiamento medico, sale per le radiazioni, infrastrutture di sorveglianza
e codifica... Quasi tutto ciò che la Protogen aveva messo su Eros o aveva
usato per costruire la sua stazione ombra proveniva da un magazzino della
Mao-Kwik, trasportato su un cargo della Mao-Kwik.»
«E come mai è ancora a piede libero?» chiese lei, proseguendo a passo
svelto oltre le porte e lungo il corridoio successivo.
«Non ci sono prove che la Mao-Kwik fosse al corrente di come veniva
usato l’equipaggiamento fornito» rispose Soren. «Dopo che la Protogen è
stata smascherata, la Mao-Kwik è stata uno dei primi soggetti a fornire
informazioni utili al comitato investigativo. Se la compagnia – e, quando dico
‘la compagnia’, intendo dire ‘lui’ – non avesse consegnato un terabyte di
corrispondenza riservata, Gutmansdottir e Kolp avrebbero potuto non essere
incriminati.»
Un uomo dai capelli grigi e un ampio naso andino che camminava lungo
il corridoio in senso contrario alzò gli occhi dal suo terminale palmare e le
rivolse un cenno di saluto col capo mentre si avvicinavano.
«Victor» disse Avasarala. «Mi dispiace per Annette.»
«I dottori dicono che starà bene» rispose l’andino. «Le dirò che hai
chiesto di lei.»
«Dille che le raccomando di uscire da quel dannato letto prima che suo
marito cominci a farsi venire qualche idea maliziosa» replicò lei, e l’andino
rise mentre li superava. «Magari l’ha fatto per ottenere uno sconto di pena.
Cooperazione in cambio di clemenza.»
«È una delle possibili interpretazioni. Ma quasi tutti hanno dato per
scontato che si trattasse di una vendetta personale per ciò che è accaduto a
sua figlia.»
«Era su Eros» disse Avasarala.
«Era Eros» precisò Soren mentre salivano in ascensore. «La ragazza era
l’agente infettante. Gli scienziati pensano che la protomolecola abbia
costruito la propria architettura usando il suo corpo e il suo cervello come
modello.»
Le porte dell’ascensore si chiusero; la macchina sapeva già chi erano e
dove dovevano andare. La cabina cominciò dolcemente la sua discesa mentre
le sopracciglia di Avasarala s’inarcavano.
«Quindi, quando hanno cominciato a negoziare con quella cosa...»
«Stavano parlando con ciò che rimaneva della figlia di Jules-Pierre Mao»
disse Soren. «O meglio, pensano che sia andata così.»
Avasarala fece un fischio basso.
«Ho superato il test, signora?» chiese Soren, mantenendo un’espressione
neutra e impassibile in volto, tranne per un bagliore in fondo agli occhi che le
diceva che lui sapeva di esser stato menato per il naso. Suo malgrado,
Avasarala sorrise.
«A nessuno piacciono i saputelli» rispose. L’ascensore si fermò; le porte
si aprirono.
Jules-Pierre Mao sedeva alla scrivania di Avasarala; irradiava un’aura di
calma tranquillità, con una minima sfumatura di divertimento. Avasarala lo
studiò rapidamente con lo sguardo, acquisendo i dettagli: un abito di sartoria
a cavallo tra il beige e il grigio, capelli che andavano diradando senza che
fosse stata effettuata nessuna terapia medica, occhi di un azzurro
sorprendente che probabilmente aveva fin dalla nascita. Indossava la sua età
come a voler dichiarare che la lotta ai segni del tempo e della mortalità era
per lui di scarso interesse. Vent’anni prima doveva essere stato
irresistibilmente bello. Ora era bello e pieno di dignità e, a un primo impatto,
per impulso istintivo, Avasarala provò il desiderio di farsi piacere
quell’uomo.
«Signor Mao» disse, con un cenno del capo. «Mi scuso per averla fatta
attendere.»
«Ho già lavorato con il governo, prima d’ora» rispose lui. Aveva un
accento europeo che avrebbe fatto sciogliere chiunque. «Capisco
perfettamente i vostri impegni. Che cosa posso fare per lei,
vicesottosegretario?»
Avasarala si sedette alla sua scrivania. Il Buddha sorrideva beato dalla sua
alcova nella parete. La pioggia velava le finestre, e le ombre davano quasi
l’impressione che Mao stesse piangendo. Avasarala giunse i polpastrelli delle
mani di fronte a sé.
«Gradisce del tè?»
«No, grazie» replicò Mao.
«Soren! Portami del tè.»
«Sì, signora» disse il ragazzo.
«Soren.»
«Signora?»
«Fa’ con calma.»
«Certamente, signora.»
La porta si richiuse alle sue spalle. Il sorriso di Mao sembrava stanco.
«Avrei forse dovuto portare con me i miei avvocati?»
«Quei bastardi ficcanaso? No» disse lei. «I processi sono finiti. Non ho
intenzione di riaprire alcuna disputa legale. Ho del lavoro concreto da
sbrigare.»
«Una cosa che rispetto» osservò Mao.
«Ho un problema» disse Avasarala. «E non so quale sia.»
«E crede che io lo sappia?»
«È possibile. Ho studiato parecchie di quelle stramaledette udienze. La
maggior parte delle volte, non sono altro che un balletto per pararsi il culo. Se
la pura e semplice verità fosse mai uscita fuori in una di quelle occasioni,
sarebbe stato soltanto perché qualcuno ha fatto qualche cazzata.»
Gli occhi azzurri di Mao si strinsero. Il sorriso si fece meno caloroso.
«Intende forse dire che i miei dirigenti e io siamo stati meno che
collaborativi? Ho fatto incarcerare uomini molto potenti, per voi,
vicesottosegretario. Ho bruciato molti ponti.»
La voce di un tuono minaccioso mormorò in lontananza. La pioggia
raddoppiò il suo furioso tamburellare sui vetri. Avasarala incrociò le braccia.
«È vero. Ma questo non fa di lei un idiota. Ci sono pur sempre
determinate cose che si dicono sotto giuramento, e altre cose attorno alle
quali si continua a girare. Questa stanza non è sotto controllo. La nostra
conversazione è confidenziale. Ho bisogno di sapere tutto ciò che può dirmi,
che non sia emerso in sede di udienza, sulla protomolecola.»
Il silenzio tra i due si protrasse per un lungo momento. Avasarala osservò
il suo volto, il suo corpo, alla ricerca di un qualche segno, ma quell’uomo era
imperscrutabile. Era un gioco che praticava da troppo tempo, ed era bravo.
Un professionista.
«Capita che qualcosa si perda per strada» disse Avasarala. «Una volta,
durante la crisi finanziaria, abbiamo ritrovato un’intera divisione di revisione
dei conti di cui nessuno ricordava l’esistenza. Perché è così che funziona.
Prendi parte di un problema e la metti da una parte, ci fai lavorare un gruppo
di persone, poi prendi un’altra parte del medesimo problema e ci fai lavorare
un altro gruppo di persone. E alla fine ti ritrovi con sette, otto, cento scatole
diverse a cui lavorano gruppi diversi, e nessuno parla con gli altri perché
sarebbe un’infrazione al protocollo di sicurezza.»
«E lei crede che...»
«Abbiamo fatto fuori la Protogen, e lei ci ha dato una mano. Mi sto
chiedendo se, per caso, lei sappia niente di qualcuna di queste scatole che
capita di smarrire chissà dove. E spero davvero che la sua risposta sia
affermativa.»
«Si tratta forse di una richiesta del segretario generale, o magari di
Errinwright?»
«No. Soltanto mia.»
«Ho già detto tutto quello che so» disse lui.
«Non le credo.»
Mao lasciò cadere la maschera. Durò meno di un secondo, niente più che
un cambiamento nella postura e un irrigidimento nella mascella, subito
svaniti. Rabbia. Questo sì che era interessante.
«Hanno ucciso mia figlia» disse piano. «Anche se avessi avuto qualcosa
da nascondere, non l’avrei fatto.»
«Come mai proprio sua figlia?» chiese Avasarala. «L’avevano presa di
mira? C’era qualcuno che voleva usarla contro di lei?»
«È stata solo sfortuna. Lei era uscita nelle orbite esterne, cercando di
provare chissà che cosa. Era giovane, ribelle e stupida. Stavamo cercando di
farla tornare a casa, ma... si è trovata nel posto sbagliato, al momento
sbagliato.»
Qualcosa solleticò la mente di Avasarala. Un’intuizione. Un impulso. Lo
seguì.
«Ha più avuto sue notizie da allora?»
«Non capisco.»
«Da quando la Stazione di Eros si è schiantata su Venere, ha più avuto
notizie di sua figlia?»
Era interessante osservarlo mentre fingeva rabbia. Era quasi come quella
vera. Avasarala non avrebbe saputo dire che cosa fosse a sembrarle non
autentico. L’intelligenza nei suoi occhi, forse. L’impressione che fosse più
presente di quanto non fosse stato prima. La rabbia autentica travolgeva le
persone. Questa rabbia era uno stratagemma.
«La mia Julie è morta» rispose con la voce che tremava in modo quasi
teatrale. «È morta quando quell’affare alieno è precipitato su Venere. È morta
per salvare la Terra.»
Avasarala scelse una replica morbida. Abbassò la voce, lasciò che il suo
viso assumesse un’espressione preoccupata, quasi da nonna. Se lui aveva
intenzione di recitare il ruolo dell’uomo ferito, lei poteva fare la parte della
madre.
«Qualcosa è sopravvissuto, però» disse. «È sopravvissuto a quell’impatto,
e tutti sanno che è così. Ho motivo di credere che non sia rimasta lì. Se una
qualche parte di sua figlia è sopravvissuta al cambiamento, potrebbe essere
venuta da voi. Aver cercato di contattarla. O di contattare sua madre.»
«Non c’è niente che voglia di più che riavere indietro la mia bambina»
disse Mao. «Ma ormai è andata.»
Avasarala annuì.
«E va bene» replicò.
«C’è altro che posso fare per lei?»
Di nuovo quella finta rabbia. Avasarala si passò un polpastrello sotto i
denti, riflettendo. C’era qualcosa, lì, qualcosa appena sotto la superficie. Non
sapeva bene che cosa avesse davanti, con Mao.
«Ha saputo di Ganimede?» gli chiese.
«C’è stato un combattimento» rispose lui.
«Forse qualcosa di più» precisò Avasarala. «La cosa che ha ucciso sua
figlia è ancora là fuori. Era su Ganimede. Ho intenzione di scoprire come e
perché.»
Lui si appoggiò allo schienale. Era autentica quell’espressione di
sorpresa?
«Vi aiuterò, se posso» disse lui, con voce flebile.
«Cominci da questo: c’è niente che non ha detto durante le udienze? Un
partner commerciale che ha preferito non nominare... un programma di
supporto o del personale ausiliario in esterna... Non m’interessa se non è
legale. Posso garantirle l’amnistia per qualsiasi cosa, ma ho bisogno di
saperlo adesso. Qui e ora.»
«Amnistia?» domandò, come se fosse stato uno scherzo.
«Se me lo dice ora, sì.»
«Se avessi qualcosa da darle, glielo darei» replicò lui. «Ho detto tutto
quello che sapevo.»
«E va bene, allora. Mi dispiace di averle rubato del tempo. E... mi
dispiace di aver riaperto una vecchia ferita. Ho perso un figlio anch’io.
Charanpal aveva quindici anni. Un incidente mentre sciava.»
«Mi dispiace» disse Mao.
«Se dovesse saltar fuori qualcos’altro, mi metta al corrente.»
«Lo farò» promise lui, alzandosi dalla sedia. Lei lo lasciò arrivare fin
quasi alla porta prima di parlare di nuovo.
«Jules?»
Voltando la testa per guardarsi oltre la spalla, Mao le apparve come il
fermo immagine di un film.
«Se scopro che sapeva qualcosa e che non me l’ha detto, non la prenderò
bene» lo avvertì Avasarala. «E non sono una persona con cui le conviene fare
lo stronzo.»
«Se non l’avessi saputo quando sono venuto qui, ora lo so» ribatté Mao.
Era un commiato buono come un altro. La porta si richiuse alle sue spalle.
Avasarala sospirò, appoggiandosi allo schienale della poltrona. Spostò lo
sguardo verso il Buddha.
«Grazie per l’aiuto, grassone compiaciuto che non sei altro» disse. La
statua, essendo soltanto una statua, non rispose. Avasarala spense le luci e
lasciò che il grigio della tempesta riempisse la stanza. C’era qualcosa, in
Mao, che non la convinceva.
Poteva darsi che fosse semplicemente l’abile autocontrollo di un
negoziatore aziendale di alto profilo, ma aveva avuto la sensazione di essere
stata tagliata fuori. Esclusa. E anche questo era interessante. Si chiese se
avrebbe cercato di contrastare la sua mossa, di scavalcarla. Probabilmente
sarebbe stato opportuno avvertire Errinwright che avrebbe potuto ricevere
una chiamata rabbiosa.
Avasarala era incerta. Arrivare a pensare che ci fosse qualcosa di
remotamente umano su Venere era forse una forzatura eccessiva. La
protomolecola, per come tutti la intendevano, era stata progettata per
innestarsi su una vita primitiva e ristrutturarla in qualcosa di diverso. Ma, se...
se la complessità della mente umana fosse stata troppo difficoltosa da
controllare completamente e la ragazza fosse in qualche modo riuscita a
sopravvivere all’impatto, se avesse cercato di contattare suo padre...
Avasarala prese il suo terminale palmare e aprì un collegamento con
Soren.
«Signora?»
«Quando ho detto di prendertela comoda, non intendevo dire che dovevi
prenderti un cazzo di giorno di riposo. Il mio tè?»
«Arriva, signora. Sono stato trattenuto. Ho un rapporto per lei che
potrebbe rivelarsi interessante.»
«Sarà meno interessante se il tè è freddo» replicò lei, e chiuse la
conversazione.
Mettere sotto sorveglianza Mao, in qualsiasi modo, sarebbe
probabilmente stato impossibile. La Mao-Kwikowski Mercantile doveva
disporre dei propri sistemi di comunicazione, di schemi cifrati autonomi, con
diverse altre compagnie rivali potenti almeno quanto le Nazioni Unite intente
a ficcare il naso alla ricerca di qualche segreto aziendale. Ma dovevano
esserci altri modi di intercettare eventuali comunicazioni provenienti da
Venere e dirette ai sistemi della Mao-Kwik. O eventuali messaggi diretti
verso quel pozzo di gravità.
Soren entrò nella sala con un vassoio su cui erano posati una teiera di
metallo e una tazza di terracotta senza manico. Non disse niente del buio e si
limitò ad avanzare cautamente verso la scrivania; posò il vassoio, versò una
tazza di tè fumante e scuro, poi mise il proprio terminale palmare sulla
scrivania accanto a essa.
«Potevi mandarmi una cazzo di copia, no?» disse Avasarala.
«In questo modo è più teatrale, signora» si giustificò Soren. «La
presentazione è tutto.»
Lei sbuffò e prese piccata la tazza, soffiando sulla superficie scura del
liquido prima di dare un’occhiata al terminale. L’ora di creazione del
documento indicava che era giunto da fuori Ganimede sette ore prima,
insieme al codice identificativo del rapporto associato. L’uomo nella
fotografia aveva lo scheletro tarchiato di un terrestre, i capelli scuri arruffati e
una particolare bellezza da ragazzino. Avasarala aggrottò le sopracciglia di
fronte all’immagine mentre sorseggiava il suo tè.
«Che cosa gli è successo in faccia?» chiese.
«Il funzionario che lo ha segnalato ha suggerito che la barba serva da
travestimento.»
Lei sbuffò dal naso.
«Be’, grazie a dio non si è messo un paio di occhiali da sole, o avremmo
rischiato di non riconoscerlo mai. Cosa cazzo ci fa James Holden su
Ganimede?»
«È arrivato con una nave di soccorso. Non si tratta della Rocinante.»
«Ne abbiamo conferma? Lo sai che quei bastardi dell’APE sono capaci di
falsificare i codici di registrazione.»
«Il funzionario che ha fatto rapporto ha eseguito un’ispezione visiva della
disposizione interna e ha confrontato i registri al suo ritorno. Inoltre,
l’equipaggio non includeva il pilota solitamente ingaggiato da Holden, per
cui immaginiamo che la Rocinante sia stata parcheggiata da qualche parte a
portata di raggio stretto» disse Soren. Fece una pausa. «C’è un mandato di
incarcerazione a vista per Holden.»
Avasarala riaccese le luci. La finestra divenne nuovamente uno specchio
scuro; la tempesta fu respinta fuori.
«Dimmi che non l’abbiamo eseguito» disse Avasarala.
«Non l’abbiamo eseguito» confermò Soren. «Abbiamo messo lui e la sua
squadra sotto sorveglianza, ma la situazione all’interno della stazione non è
adatta a un pedinamento ravvicinato. Per di più, Marte non sembra essersi
ancora accorto della sua presenza sul posto, per cui stiamo cercando di tenere
per noi questa informazione.»
«È un bene che ci sia ancora qualcuno, là fuori, che sa come condurre
un’operazione con discrezione. Abbiamo una qualche idea di cosa ci faccia
lì?»
«Fino a ora, sembra essere un tentativo di sostegno alla popolazione»
disse Soren stringendosi nelle spalle. «Non abbiamo osservato nessun
incontro con personalità che rivestano un interesse speciale. È intento a fare
domande. Si è quasi cacciato in una rissa con un funzionario opportunista
dedito a taglieggiare le navi di soccorso, ma l’altro si è tirato indietro. È
ancora presto, però.»
Avasarala prese un altro sorso di tè. Doveva concederglielo: il ragazzo
sapeva prepararlo davvero bene. O conosceva qualcuno in grado di farlo, il
che era la stessa cosa. La presenza di Holden significava che l’APE era
interessata alla situazione su Ganimede. E che non aveva ancora nessuno sul
campo che potesse far loro rapporto.
Che desiderasse avere informazioni, in sé, non significava molto. Se
anche si fosse trattato di un branco di artiglieri idioti a cui era scivolato il dito
sul grilletto, Ganimede era comunque una stazione di importanza strategica
per il sistema gioviano e per la Fascia. Era normale che l’APE volesse avere
qualcuno sulla scena. Inviare proprio Holden, però, l’unico sopravvissuto
della Stazione di Eros, sembrava più che una semplice coincidenza.
«Non sanno di che si tratta» disse ad alta voce.
«Signora?»
«Hanno infiltrato qualcuno che abbia avuto esperienza di prima mano con
la protomolecola per un motivo preciso. Stanno cercando di capire che
diavolo sta succedendo. Il che significa che non lo sanno. Il che significa...»
Sospirò. «Il che significa che non sono stati loro. Ed è un cazzo di peccato,
visto che dispongono dell’unico esemplare vivo di cui conosciamo
l’esistenza.»
«Che cosa desidera che faccia la squadra di sorveglianza?»
«Sorvegliare» scattò lei. «Tenerlo d’occhio, vedere con chi parla e che
cosa fa. Facciano rapporto quotidiano se non c’è niente da dire, e
aggiornamenti in tempo reale se la situazione si fa interessante.»
«Sì, signora. Vuole che venga catturato?»
«Che li prendano quando cercheranno di lasciare Ganimede. Altrimenti,
che si tengano alla larga e cerchino di non farsi notare. Holden è un idiota,
ma non è stupido. Se si accorgesse di essere sotto sorveglianza, comincerebbe
a trasmettere all’universo le foto delle nostre fonti su Ganimede o cose del
genere. Non sottovalutiamo la sua capacità di incasinare ogni cosa.»
«Nient’altro?»
Un altro lampo squarciò il cielo. Un altro tuono. Un’altra tempesta, tra i
milioni di miliardi di tempeste che avevano dato l’assalto alla Terra
dall’inizio dei tempi, quando qualcosa aveva provato a porre fine alla vita su
quello stesso pianeta. Qualcosa che ora si trovava su Venere. E che si stava
diffondendo.
«Trova un modo affinché io possa contattare Fred Johnson senza che
Nguyen o i marziani lo vengano a sapere» disse Avasarala. «Potremmo avere
bisogno di fare ricorso a un po’ di negoziazione non ufficiale.»
10

Prax
«Paskirrup es sono a questo» disse il ragazzo seduto sulla branda.
«Pinche salad, sa-sa?»
Non poteva avere più di vent’anni. Abbastanza giovane da essere suo
figlio, tecnicamente, proprio come Mei sarebbe potuta essere la figlia del
ragazzo. Magro come uno stecco per via della crescita adolescenziale e di una
vita trascorsa a bassa gravità, la sua secchezza era quantomeno inconcepibile.
E inoltre era in chiaro stato di denutrizione.
«Posso scriverti una cambiale, se vuoi» disse Prax.
Il ragazzo sorrise e fece un gesto rude.
Per esperienza professionale, Prax sapeva che i pianeti interni vedevano
l’idioma cinturiano come una sorta di dichiarazione di appartenenza
territoriale. Grazie agli anni passati su Ganimede in qualità di botanico
alimentare, sapeva anche che concerneva l’appartenenza sociale. Era
cresciuto con dei tutori che parlavano cinese e inglese senza alcuna
inflessione. Aveva parlato con uomini e donne provenienti da ogni parte del
sistema. Dal modo in cui qualcuno pronunciava la parola ‘allopoliploidia’,
Prax avrebbe saputo capire se proveniva dalle università della zona di
Pechino o del Brasile, se era cresciuto all’ombra delle Montagne Rocciose o
dell’Olympus Mons o nei corridoi di Ceres. Lui stesso era cresciuto in
condizioni di microgravità, ma il gergo della Fascia gli era estraneo come a
un novellino qualunque. Se il ragazzo avesse voluto scavalcarlo con le parole,
non gli sarebbe stato difficile. Ma Prax era un cliente pagante, e sapeva che il
ragazzo stava facendo uno sforzo per farsi capire.
La tastiera di programmazione era due volte più grande di un normale
terminale palmare, con la plastica consumata dall’uso e dal tempo. Una barra
di progresso si stava lentamente riempiendo da una parte, con delle note in
cinese semplificato che scorrevano a ogni movimento.
Il buco era uno di quelli più economici, vicino alla superficie della luna.
Non era più largo di tre metri, con quattro stanze grezze scavate
faticosamente nel ghiaccio da un corridoio pubblico a malapena più ampio o
meglio illuminato. Le vecchie pareti di plastica scintillavano e trasudavano di
condensa. Erano nella stanza più lontana dal corridoio; il ragazzo sulla sua
branda, e Prax che se ne stava chino sulla porta.
«Non prometto niente di completo» disse il ragazzo. «Quello che è, è,
sabé?»
«Qualunque cosa tu riesca a trovare va benissimo.»
Il ragazzo annuì una volta. Prax non conosceva il suo nome. Non era una
cosa da chiedere. I giorni che gli ci erano voluti per trovare qualcuno che
fosse disposto a infiltrarsi nel sistema di sicurezza erano stati una lunga danza
tra la sua ignoranza dell’economia grigia della Stazione di Ganimede e la
disperazione e la fame crescenti perfino nelle zone più corrotte della luna. Un
mese prima, quel ragazzo poteva benissimo essere stato impegnato a
trafugare dati commerciali da rivendere o da tenere sotto sequestro in cambio
di credito privato facilmente riciclabile. E ora stava cercando di rintracciare
Mei in cambio di foglie sufficienti per un magro pasto. Il baratto agricolo, la
più antica forma di economia della storia dell’umanità, era giunto su
Ganimede.
«La copia di autenticazione è andata» disse il ragazzo. «Succhiata dai
server, infognata fino alle chiappe.»
«Quindi, se non puoi infiltrarti nei server della sicurezza...»
«Non serve. Telecamera ha memoria, memoria ha cache. Dal blocco
militare, si riempie e si riempie. Nessuno guarda.»
«Vorrai scherzare?» disse Prax. «I due più grandi eserciti del sistema si
stanno confrontando, e non pensano a guardare le telecamere di sicurezza?»
«Si squadrano tra loro. Nessuno frega niente di noi.»
La barra di progresso si riempì del tutto e mandò un trillo. Il ragazzo aprì
un elenco di codici identificativi e cominciò a scorrerne la lista, borbottando
tra sé e sé. Dalla prima sala giunse il debole lamento di un bebè. Sembrava
affamato. Certo che lo era.
«Il bambino è tuo?»
«Danni collaterali» disse il ragazzo, cliccando due volte su un codice. Si
aprì una nuova finestra. Un grande corridoio. Una porta mezza fusa e forzata.
Graffi profondi sulle pareti e, peggio ancora, una pozza d’acqua. Non
avrebbe dovuto esserci dell’acqua in libera circolazione. I controlli ambientali
si stavano allontanando sempre di più dai livelli di sicurezza minimi. Il
ragazzo alzò gli occhi verso Prax. «C’est la?»
«Sì» disse Prax. «È questo.»
Il ragazzo annuì e tornò a chinarsi sulla sua console.
«Ho bisogno delle immagini prima dell’attacco. Prima che lo specchio si
schiantasse a terra» spiegò Prax.
«Hokay, capo. Indietriamo. Tod á frames con null delta. Vediamo solo
quando succede qualcosa, que sí?»
«Bene. Sì, va bene.»
Prax si fece avanti, chinandosi per dare un’occhiata oltre la spalla del
ragazzo. L’immagine vacillava senza che sullo schermo cambiasse alcunché,
tranne la pozza d’acqua che si rimpiccioliva a poco a poco. Stavano tornando
indietro nel tempo, di giorni e settimane. Verso il momento in cui ogni cosa
era andata in pezzi.
Dei medici comparvero sullo schermo, apparentemente camminando
all’indietro nel mondo invertito mentre trasportavano un cadavere e lo
posavano accanto alla porta. Poi un altro, accatastato su di esso. I due
cadaveri rimasero immobili; poi uno dei due si mosse, grattando
delicatamente il muro, poi con più forza finché, in un batter d’occhio, non si
rialzò barcollante e andò via.
«Dovrebbe esserci una bambina. Sto cercando qualcuno che ha portato
via una bambina di quattro anni.»
«Asilo nido, giusto? Dovrebbero essercene un migliaio.»
«Me ne interessa una soltanto.»
Il secondo cadavere, una donna, si mise a sedere e poi si alzò, tenendosi
lo stomaco tra le mani. Un uomo entrò nell’inquadratura, impugnando una
pistola, curando la donna e risucchiando il proiettile dal suo stomaco. I due
litigarono, si calmarono e si separarono pacificamente. Prax sapeva che stava
assistendo alla scena in senso inverso rispetto allo svolgersi degli eventi, ma
il suo cervello a corto di sonno e di calorie continuava a cercare di
interpretare quelle immagini come una sequenza narrativa. Un gruppo di
soldati strisciò all’indietro fuori dalla porta distrutta, come in un parto
podalico, poi si accovacciarono e indietreggiarono di corsa. La porta tornò
integra in un lampo di luce, mostrando grappoli di cariche di termite appese
su di essa come frutti finché un soldato in uniforme marziana non corse in
campo per recuperarle senza far danni. Una volta completato il loro raccolto
tecnologico, i soldati indietreggiarono tutti rapidamente, lasciandosi dietro
uno scooter appoggiato alla parete.
Poi la porta si aprì e Prax si vide uscire. Sembrava più giovane. Batté
sulla porta, con le mani che rimbalzavano sulla sua superficie a intermittenza,
quindi saltò goffamente sullo scooter e svanì in retromarcia.
La porta si fece muta. Immobile. Prax trattenne il fiato. Una donna con un
bambino di cinque anni posato sull’anca camminò all’indietro fino alla porta,
scomparve al suo interno, e poi riapparve. Prax dovette ricordare a sé stesso
che la donna non aveva lasciato lì suo figlio, ma che era venuta a recuperarlo.
Due figure indietreggiarono lungo il corridoio.
No. Erano in tre.
«Fermo. È qui» disse Prax, con il cuore che gli martellava sul costato. «È
lei.»
Il ragazzo attese finché tutte e tre le figure non furono perfettamente
inquadrate dall’occhio della telecamera, mentre uscivano nel corridoio. Mei
aveva un’espressione petulante in viso; nonostante la bassa risoluzione della
telecamera di sicurezza, Prax riconobbe quell’espressione. E l’uomo che la
teneva in braccio...
Nel suo petto si scontrarono sollievo e indignazione, e fu il primo a
prevalere. Era il dottor Strickland. Era andata via con il dottor Strickland, che
sapeva della sua condizione medica, dei farmaci e di tutte le cose che
andavano fatte per tenere Mei in vita. Cadde in ginocchio, chiuse gli occhi e
pianse. Se era stato lui a prenderla, allora Mei non era morta. Sua figlia non
era morta.
A meno che, sussurrò un flebile pensiero demoniaco nella sua mente, non
fosse morto anche il dottor Strickland.
La donna era una sconosciuta. Aveva capelli scuri, con dei tratti che a
Prax ricordavano vagamente una delle botaniche russe con cui aveva
collaborato. Tra le mani teneva un foglio di carta arrotolato. Il suo sorriso
poteva essere di divertimento o d’impazienza. Prax non sapeva dirlo con
certezza.
«Puoi seguirli?» chiese. «Vedere dove sono andati?»
Il ragazzo lo fissò con le labbra arricciate.
«Per un’insalata? No. Scatola di pollo e salsa atche.»
«Non ho del pollo.»
«E allora hai quello che hai» replicò il ragazzo stringendosi nelle spalle. I
suoi occhi erano spenti come biglie. Prax avrebbe voluto colpirlo, avrebbe
voluto strangolarlo finché non avesse estratto quelle immagini dai computer
morenti. Ma era più che probabile che quel tizio avesse una pistola, o
qualcosa di peggio, e che, a differenza di lui, sapesse come usarla.
«Per favore» supplicò Prax.
«Hai avuto il tuo favore, tu. No espressa mé, sí?»
Prax sentì l’umiliazione salirgli in fondo alla gola, e la ricacciò giù.
«Pollo» disse.
«Sí.»
Prax aprì la sua borsa a tracolla e tirò fuori una doppia manciata di foglie,
peperoni arancioni e cipolle di neve, posando il tutto sulla branda. Il ragazzo
ne afferrò una manciata e se la ficcò in bocca, stringendo gli occhi in
un’espressione di piacere animale.
«Farò quel che posso» disse Prax.
Non poté fare niente.
Le uniche proteine ancora presenti sulla stazione venivano razionate dalle
scorte di emergenza, oppure se ne andavano in giro su due piedi. La gente
aveva cominciato a mettere in pratica la stessa strategia di Prax, spogliando le
piante nei parchi e nei sistemi idroponici. Nessuno si era preoccupato di fare
attenzione a cosa prendeva, però, mangiando piante non commestibili
insieme alle altre, degradando le funzioni di riciclo dell’ossigeno e
sbilanciando ancor di più l’ecosistema della stazione. Una cosa portava
all’altra, e non era possibile ottenere un pollo, né qualcosa che potesse
fungere da sostituto. E, anche se ci fosse stato, Prax non aveva tempo per
risolvere quel problema.
A casa sua, le luci erano fioche e rifiutavano di accendersi del tutto. La
piantina di soia aveva smesso di crescere ma non ingialliva, il che era un dato
interessante – o meglio, lo sarebbe stato.
A un certo punto, durante il giorno, si era attivato un sistema
automatizzato di routine conservativa, che limitava l’uso dell’energia. In una
visione più ampia delle cose, poteva essere un buon segno. O poteva essere
come l’insorgere di una febbre prima della catastrofe. Ma questo non
cambiava quel che doveva fare.
Da bambino aveva cominciato presto gli studi, salpando con la sua
famiglia nei recessi bui dello spazio, a caccia di un sogno fatto di lavoro e
prosperità. Il suo corpo non aveva accolto bene quel cambiamento.
Emicranie, attacchi di ansia e un continuo affaticamento, radicato fin nelle
ossa, avevano tormentato quei primi anni in cui c’era bisogno che facesse una
buona impressione sui suoi tutori, per essere ritenuto uno studente brillante e
promettente. Suo padre non gli aveva mai permesso di riposarsi. ‘La finestra
è aperta finché non viene chiusa’ diceva sempre, spronando Prax a fare
sempre un po’ di più, a trovare un modo per riuscire a pensare quando era
troppo stanco, malato o addolorato per farlo. Aveva imparato a redigere liste,
note, diagrammi.
Catturando a uno a uno i suoi pensieri fuggevoli, era capace di spingersi
fino alla soglia della lucidità come un rocciatore che si issava, centimetro
dopo centimetro, verso la vetta. E così, in quella penombra artificiale,
continuò a compilare liste. I nomi di tutti i bambini che riusciva a ricordare
dal gruppo di terapia di Mei. Sapeva che erano venti, ma riusciva a ricordarne
soltanto sedici. La sua mente errava. Richiamò l’immagine di Strickland
assieme alla donna misteriosa sul suo terminale palmare e la fissò. Una
confusione di speranza e rabbia gli vorticò dentro fino a placarsi. Si sentì
come se stesse per addormentarsi, ma il cuore gli batteva frenetico. Cercò di
ricordare se la tachicardia fosse un sintomo dell’inedia.
Per un istante tornò in sé, lucido e presente in un modo in cui, si rese
conto soltanto allora, non era stato da giorni. Stava cominciando a cedere. Il
suo personale effetto a cascata stava per travolgerlo, e non sarebbe stato in
grado di continuare quell’investigazione ancora per molto, se prima non si
fosse riposato. Se non avesse trovato delle proteine. Era già diventato un
mezzo zombi.
Doveva trovare aiuto. Il suo sguardo andò alla deriva verso la lista di
nomi dei bambini. Doveva trovare aiuto, ma prima avrebbe controllato,
soltanto controllato. Sarebbe andato a... alla...
Chiuse gli occhi e aggrottò la fronte. Conosceva la risposta. Sapeva di
saperla. Alla stazione di sicurezza. Sarebbe andato lì e avrebbe chiesto di
ognuno di loro. Riaprì gli occhi, scrivendo ‘stazione di sicurezza’ sotto la
lista non appena riacciuffò quel pensiero. Poi: ‘Avamposto delle Nazioni
Unite.’ ‘Avamposto di Marte.’ Tutti i posti in cui era stato prima, giorno
dopo giorno, ma con nuove domande da fare. Sarebbe stato facile. E poi,
quando avesse avuto le risposte, c’era qualcos’altro che avrebbe dovuto fare.
Gli ci volle un minuto per capire che cosa fosse, e poi lo scrisse in fondo alla
pagina.
‘Trovare aiuto.’
«Sono scomparsi tutti» disse Prax, con il fiato che sbiancava per il freddo.
«Sono tutti suoi pazienti, e sono scomparsi tutti. Sedici su sedici. Sa quante
probabilità ci sono? Non è un caso.»
L’addetto alla sicurezza non si rasava da giorni. Una lunga bruciatura da
ghiaccio gli arrossava la guancia e il collo, con la ferita ancora fresca e non
curata. La sua faccia doveva essere entrata in contatto con un pezzo scoperto
di Ganimede. Era fortunato ad avere ancora la pelle. Indossava un cappotto
spesso e dei guanti. La superficie della scrivania era ghiacciata.
«Apprezzo l’informazione, signore, e farò in modo che giunga alle
stazioni di soccorso...»
«No, non ha capito. Li ha presi lui. Sono malati, e li ha presi lui.»
«Può darsi che stesse tentando di metterli in salvo» disse l’addetto alla
sicurezza. Aveva la voce come uno straccio consunto, grigio e floscio.
Qualcosa non andava. Prax sapeva che c’era qualcosa che non andava, ma
non riusciva a ricordare cosa fosse. L’addetto alla sicurezza si allungò verso
di lui, spostandolo gentilmente da un lato, e fece un cenno del capo verso la
donna alle sue spalle. Prax si ritrovò a fissarla come se fosse ubriaco.
«Voglio denunciare un omicidio» disse lei, con voce tremante.
L’addetto alla sicurezza annuì, senza alcuna sorpresa né incredulità negli
occhi. Prax si ricordò.
«Li ha presi prima» intervenne. «Li ha presi prima che iniziasse
l’attacco.»
«Tre uomini hanno fatto irruzione nel mio appartamento» raccontò la
donna. «Loro... Mio fratello era con me, e ha provato a fermarli.»
«Quando è successo, signora?»
«Prima dell’attacco» intervenne di nuovo Prax.
«Un paio di ore fa» disse la donna. «Quarto livello. Settore blu.
Appartamento 1453.»
«Va bene, signora. Ora l’accompagnerò a una scrivania. Ho bisogno che
mi compili un rapporto.»
«Mio fratello è morto. Gli hanno sparato.»
«Mi dispiace molto, signora. Ma ho bisogno che mi compili un rapporto
perché possiamo acciuffare gli uomini che gli hanno fatto questo.»
Prax li osservò mentre si allontanavano. Poi si voltò verso la fila di gente
disperata e traumatizzata che aspettava il proprio turno per chiedere aiuto, per
avere giustizia, per essere protetta dalla legge. Sentì una scintilla d’ira
avvampargli dentro, poi svanì. Aveva bisogno di aiuto, ma lì non ne avrebbe
trovato. Lui e Mei non erano che un granello di sabbia nello spazio. Non
contavano niente.
L’addetto alla sicurezza era tornato; era intento a parlare con una donna
bella e alta di una faccenda orribile. Prax non aveva notato che l’uomo fosse
tornato, non aveva sentito l’inizio del racconto della donna. Stava fissando la
gente per perdere tempo. Non era un bene. La piccola parte sana del suo
cervello sussurrò che, se fosse morto, nessuno avrebbe più cercato Mei.
Sarebbe stata perduta. Gli sussurrò che aveva bisogno di cibo, che ne aveva
bisogno da giorni. Che non gli rimaneva molto tempo.
«Devo andare al centro di soccorso» disse ad alta voce. La donna e
l’addetto alla sicurezza non sembrarono sentirlo. «Grazie lo stesso.»
Ora che aveva cominciato a notare la propria condizione, Prax era stupito
e allarmato. La sua camminata era strascicata; le sue braccia erano deboli e
gli dolevano molto, benché non riuscisse a ricordare di aver fatto alcunché
che avesse potuto provocare un simile dolore. Non aveva alzato niente di
pesante, né aveva fatto arrampicate. Non ricordava di essersi dedicato alla sua
routine quotidiana di esercizi da giorni. Non riusciva a rammentare quando
fosse stata l’ultima volta che aveva mangiato. Si ricordava invece
dell’impatto devastante dello specchio crollato dal cielo, della distruzione
della sua cupola, come se si fosse trattato di qualcosa che fosse accaduto in
una vita precedente. Non c’era da meravigliarsi che stesse cadendo a pezzi.
I corridoi nei pressi del centro di soccorso erano zeppi come un mattatoio.
Uomini e donne, molti dei quali sembravano più in forze e in salute di quanto
non fosse lui, pressati gli uni sugli altri, rendendo angusti perfino gli spazi più
ampi. Più si avvicinava al porto e più si sentiva assalire dalle vertigini. L’aria
era quasi calda, lì, di quel calore da stalla provocato dai corpi. C’era puzza di
alito chetoacido. L’alito dei santi, lo chiamava sua madre. L’odore di proteine
al collasso, dei corpi che consumavano i propri muscoli per sopravvivere. Si
chiese quante persone, in quella folla, sapessero cosa fosse quell’odore.
Qualcuno stava gridando. Spingendo. La folla intorno a lui si mosse
avanti e indietro come immaginava che facessero le onde su una spiaggia.
«E allora aprite le porte e fateci vedere dentro!» gridò una donna, molto
più avanti.
Ah, pensò Prax. È una rivolta per il cibo.
Si spinse verso i lati della folla, cercando di uscire. Cercando di
andarsene. Di fronte a lui, la gente continuava a gridare. Alle sue spalle,
spingeva. File di luci a LED sul soffitto baluginavano bianche e dorate. Le
pareti erano di un grigio industriale. Prax allungò una mano. Era arrivato a un
muro. Da qualche parte, la diga cedette e la folla si rovesciò improvvisamente
in avanti, e il movimento di quei corpi rischiò di trascinarlo via insieme al
flusso collettivo. Prax tenne la mano sulla parete. La folla si assottigliò e lui
barcollò in avanti. Le porte di carico del magazzino erano aperte. Accanto a
esse Prax vide una faccia conosciuta, ma non riuscì a ricordare chi fosse
esattamente. Qualcuno del laboratorio, forse? L’uomo aveva ossa spesse e
muscoli guizzanti. Un terrestre. Forse qualcuno che aveva visto durante i suoi
andirivieni attraverso la stazione in rovina. Forse lo aveva visto in cerca di
cibo? No, sembrava troppo ben nutrito. Le sue guance non erano per niente
smunte. Era come se fosse un amico, ma anche uno sconosciuto. Qualcuno
che Prax conosceva e non conosceva. Come il segretario generale o un attore
famoso.
Prax sapeva che lo stava fissando, ma non riusciva a impedirsi di farlo.
Conosceva quella faccia. La conosceva. Aveva a che fare con la guerra.
La mente di Prax fu attraversata da un ricordo improvviso. Era nel suo
appartamento, con Mei tra le braccia, cercando di calmarla. Lei non aveva
nemmeno un anno, non camminava, e i dottori armeggiavano ancora con i
farmaci per trovare le giuste combinazioni che l’avrebbero tenuta in vita.
Oltre i pianti per le sue coliche neonatali, i notiziari erano un subbuglio di
allarme ininterrotto. Il viso di un uomo appariva in continuazione sullo
schermo.
Il mio nome è James Holden e la mia nave, la Canterbury, è stata appena
distrutta da una nave da guerra con tecnologia mimetica, equipaggiata con
dotazioni contrassegnate da quelli che paiono essere numeri seriali marziani.
Era lui. Era per questo che riconosceva il suo volto, pur sapendo di non
averlo mai visto prima di persona. Prax si sentì tirare al centro del petto e si
ritrovò a fare un passo in avanti. Si fermò. Oltre le porte del magazzino,
qualcuno lanciò un grido d’incitamento. Prax tirò fuori il suo terminale
palmare e guardò la sua lista. Sedici nomi, sedici bambini scomparsi. E, in
fondo alla lista, in semplice stampatello: ‘Trovare aiuto.’
Si voltò verso l’uomo che faceva iniziare guerre e salvava pianeti,
improvvisamente timido e incerto.
«Trovare aiuto» disse, facendo un altro passo avanti.
11

Holden
Santichai e Melissa Supitayaporn erano una coppia di missionari,
originari della Terra, appartenenti alla Chiesa dell’Umanità Ascendente, una
religione che rifiutava il soprannaturalismo in tutte le sue forme e la cui
teologia si riassumeva nel seguente concetto: gli umani possono essere
migliori di quel che sono, per cui cerchiamo di diventarlo. Gestivano anche il
quartier generale del deposito di beni di soccorso con la spietata efficienza di
dittatori nati. Pochi minuti dopo essere arrivato, Holden aveva ricevuto una
bella lavata di capo da Santichai, un fragile stecco d’uomo con i capelli canuti
e radi, per l’alterco che aveva provocato con i funzionari della dogana giù al
porto. Dopo aver cercato di spiegarsi più volte, senza ottenere altro risultato
che farsi zittire dal minuto missionario, alla fine aveva rinunciato e si era
semplicemente scusato.
«Non renda la nostra situazione qui ancora più precaria»ripeté Santichai,
apparentemente addolcito dalle scuse ma deciso a mettere bene in chiaro il
suo punto di vista. Agitò un dito magro e marrone davanti agli occhi di
Holden.
«Ricevuto» disse Holden, alzando le mani in segno di resa. Il resto del
suo equipaggio si era dileguato alla prima sfuriata di Santichai, lasciando
Holden da solo a vedersela con il vecchio. Individuò Naomi dall’altra parte
dell’ampio spazio del deposito dei beni di soccorso, intenta a parlare con
Melissa, la moglie di Santichai. Holden sperò che fosse meno irascibile del
marito. Non sembrava che stesse gridando, anche se, tra le voci di diverse
decine di persone, lo stridore dei macchinari, il ronzio dei motori e gli allarmi
di retromarcia dei tre carrelli elevatori in continuo movimento, Melissa
avrebbe potuto lanciarle addosso un grappolo di granate e probabilmente
Holden non avrebbe sentito niente.
In cerca di una via di fuga, Holden indicò Naomi dall’altra parte
dell’hangar e disse: «Mi scusi, devo...»
Santichai lo interruppe con un brusco gesto della mano, che fece
volteggiare la sua tonaca arancione. Holden si scoprì incapace di disobbedire
a quell’omino.
«Queste scorte» disse Santichai, puntando un dito verso le casse che
venivano scaricate dalla Somnambulist «non sono sufficienti.»
«Io...»
«L’APE ci aveva promesso ventidue tonnellate di proteine e integratori per
la settimana scorsa. Qui ci sono meno di dodici tonnellate» disse Santichai,
sottolineando la sua valutazione con un colpetto stizzito delle dita sul bicipite
di Holden.
«Non sono io che...»
«Perché prometterci cose che poi non hanno intenzione di consegnare?
Promettete dodici tonnellate, se è tutto quello che avete. Non promettete
ventidue tonnellate, per poi consegnarne dodici» disse, accompagnando le
parole con altri colpetti.
«Sono d’accordo» replicò Holden, indietreggiando fuori portata da quei
colpetti e alzando le mani. «Lei ha perfettamente ragione. Chiamerò
immediatamente il mio contatto sulla Stazione di Tycho per capire dove si
trovi il resto delle scorte promesse. Sono certo che siano già in viaggio.»
Santichai si strinse nelle spalle, agitando di nuovo la tonaca arancione.
«Veda di farlo» disse, poi si avviò furioso verso uno dei carrelli di
scarico. «Tu! Dico a te! Lo vedi quel cartello che dice FARMACI? Perché stai
mettendo lì cose che non sono farmaci?»
Holden approfittò di quel momento di distrazione per la sua fuga e si
diresse corricchiando da Naomi e Melissa. Naomi aveva un formulario aperto
sul suo terminale palmare ed era intenta a riempirne i moduli, sotto lo
sguardo concentrato di Melissa.
Holden si guardò intorno nell’ampio deposito mentre Naomi lavorava. La
Somnambulist era soltanto una delle quasi venti navi che erano arrivate nelle
ultime ventiquattr’ore, e quell’enorme spazio si stava rapidamente
riempiendo di casse e rifornimenti. L’aria fredda sapeva di polvere, ozono e
lubrificante surriscaldato dei carrelli elevatori, ma sotto quegli odori c’era un
lezzo vagamente sgradevole, di marcio, come di vegetazione in stato di
decomposizione. Mentre Holden si guardava in giro, Santichai si avviò
correndo attraverso il pavimento del deposito, gridando istruzioni a un paio di
operai intenti a trasportare una cassa dall’aspetto piuttosto pesante.
«Suo marito è un vero fenomeno, signora» disse Holden a Melissa.
Melissa era più alta e più pesante del suo piccolo consorte, ma aveva la
stessa nuvola scompigliata di capelli canuti e radi attorno alla testa. Aveva
anche un paio di occhi azzurri che quasi le scomparivano nel viso quando
sorrideva. Come stava facendo ora.
«Non ho mai conosciuto nessuno che avesse più a cuore il benessere delle
altre persone, e a cui importasse di meno urtarne la sensibilità» rispose lei.
«Almeno però si assicura che siano tutti ben nutriti prima di dir loro tutte le
cose che hanno fatto nel modo sbagliato.»
«Credo che ci siamo» annunciò Naomi, passando un dito sul pulsante per
inviare il formulario compilato al terminale di Melissa – un modello tanto
obsoleto da risultare quasi affascinante – che la donna tirò fuori dalla tasca
quando trillò per segnalare l’avvenuta ricezione.
«Signora Supitayaporn» disse Holden.
«Melissa.»
«Melissa, da quant’è che tu e tuo marito siete su Ganimede?»
«Saranno almeno...» iniziò lei, picchiettandosi le dita sul mento e
fissando lo sguardo nel vuoto. «Dieci anni? Possibile che sia già passato tutto
questo tempo? Possibile, perché Dru aveva appena avuto il suo bambino, e...»
«Me lo chiedevo perché l’unica cosa che nessuno sembra sapere, al di
fuori della gente di Ganimede, è come tutto questo» spiegò Holden facendo
un gesto a indicare tutto quello che avevano intorno «abbia avuto inizio.»
«La stazione?»
«La crisi.»
«Be’, i soldati marziani e quelli delle Nazioni Unite hanno cominciato a
spararsi addosso; poi abbiamo iniziato a ricevere errori di sistema...»
«Sì» disse Holden, interrompendola di nuovo. «Questo l’avevo capito.
Ma perché? Non era stato sparato un colpo, durante tutto l’anno in cui la
Terra e Marte hanno gestito congiuntamente questa luna. C’era la guerra,
prima di tutta quella faccenda su Eros, e non l’avevano portata fin qui. Poi,
all’improvviso, tutti si mettono a sparare all’impazzata? Che cos’è stato a
innescare il conflitto?»
Melissa sembrò interdetta, un’altra espressione che le faceva quasi
scomparire gli occhi tra un mucchio di rughe.
«Non saprei» rispose. «Avevo dato per scontato che si stessero sparando
l’un altro in tutto il sistema. Non riceviamo molte notizie da fuori, ormai.»
«No» disse Holden. «Solo qui, e solo per un paio di giorni. E poi si sono
fermati senza un motivo apparente.»
«Strano» osservò Melissa. «Ma non so quanto possa essere importante.
Qualsiasi cosa sia successa, non cambia ciò che dobbiamo fare ora.»
«Immagino di no» convenne Holden.
Melissa sorrise, lo abbracciò calorosamente, poi si allontanò per
controllare i formulari di qualcun altro.
Naomi passò un braccio intorno a quello di Holden e si diressero verso
l’uscita del magazzino per raggiungere il resto della stazione, scansando
casse di rifornimenti e operai indaffarati lungo il percorso.
«Com’è possibile che si sia scatenata una vera e propria battaglia»
domandò Naomi «senza che nessuno sappia il perché?»
«Lo sanno» replicò Holden. «Qualcuno lo sa.»
La stazione sembrava messa peggio da terra che dallo spazio. Le piante
vitali che producevano ossigeno, allineate lungo i corridoi, stavano virando a
un giallo malsano. Molti corridoi non erano illuminati e le porte pressurizzate
ad apertura automatica erano state forzate a mano, aperte a forza; se una zona
della stazione si fosse improvvisamente depressurizzata, lo stesso sarebbe
accaduto a molti settori adiacenti. Le poche persone che incontrarono
evitavano di guardarli negli occhi, o li fissavano con aperta ostilità. Holden si
trovò a desiderare di poter indossare apertamente una pistola, piuttosto che
averla in una fondina nascosta sulla schiena.
«Chi è il nostro contatto?» chiese piano Naomi.
«Come dici?»
«Immagino che Fred abbia qualcuno, qui» rispose lei sottovoce mentre
sorrideva rigidamente, rivolgendo un cenno del capo a un gruppo di uomini
di passaggio. Erano tutti apertamente armati, benché perlopiù si trattasse di
armi da taglio e di tipo contundente. Loro la fissarono con sguardi indagatori
sui volti. Holden spostò la mano sotto la giacca, verso la pistola, ma gli
uomini proseguirono per la loro strada, concedendogli appena qualche
sguardo all’indietro prima di voltare l’angolo e sparire.
«Non ci ha organizzato nessun incontro?» concluse Naomi tornando a
parlare con voce normale.
«Mi ha dato alcuni nomi. Ma le comunicazioni con questa luna sono state
talmente saltuarie che non è stato in grado di...»
Holden fu interrotto da una forte esplosione proveniente da un’altra parte
del porto. Il botto fu seguito da un ruggito che, a poco a poco, si risolse in
grida infuriate. Le poche persone che erano con loro nel corridoio
cominciarono a correre, alcune verso il rumore, ma la maggior parte in
direzione opposta.
«Forse dovremmo...» disse Naomi, guardando la gente che correva verso
la fonte del trambusto.
«Siamo qui per vedere che cosa sta succedendo» replicò Holden.
«Andiamo a vedere, allora.»
Ci misero poco a perdersi tra i corridoi serpeggianti del porto di
Ganimede, ma non aveva importanza, fintantoché continuavano a muoversi
verso il rumore e insieme alla crescente ondata di persone che correvano tutte
nella stessa direzione. Un uomo alto e robusto con i capelli rossi a spazzola
corse accanto a loro per un po’. In ogni mano impugnava un tubo rotto di
metallo nero. Sorrise a Naomi e fece per dargliene uno. Lei rifiutò con un
gesto della mano.
«Era ora, cozzo» gridò quello con un accento che Holden non riuscì a
individuare. Quando Naomi non la prese, l’uomo offrì la sbarra in più a
Holden.
«Che succede?» chiese quest’ultimo, accettando la sbarra.
«Quei futtuti vastaddi danno i provvisti ai ricconi, e i lavorai si pigliano
in saccoccia, eh? Be’, fonculo, brutti crepacani succiasangue!»
L’uomo dai capelli rossi ululò e agitò la mazza per aria, poi accelerò il
passo e scomparve di corsa tra la folla. Naomi rise e ululò alle sue spalle
mentre si allontanava. Quando Holden le scoccò un’occhiata in tralice, lei si
limitò a sorridere e a dire: «È contagioso.»
Un’ultima curva del corridoio li portò in un altro ampio spazio di
deposito, quasi identico a quello gestito dai Supitayaporn, a parte il fatto che
questo era riempito da una folla di gente arrabbiata che premeva verso il
molo di attracco. Le porte di accesso al molo erano chiuse, e un piccolo
gruppo di ufficiali addetti alla sicurezza del porto cercavano di trattenere la
folla. Quando Holden arrivò sul posto, la calca era ancora tenuta a bada dai
taser e dai manganelli elettrici degli agenti di sicurezza, ma, dalla tensione e
dalla rabbia crescente che percepiva nell’aria, Holden capì che la situazione
non avrebbe retto a lungo.
Appena dietro la linea di guardie in affitto, con i loro deterrenti non letali,
c’era un gruppo di uomini che indossavano tute nere e scarpe da ginnastica.
Impugnavano delle pistole con l’aria di chi non aspettasse altro che venisse
dato loro il permesso di sparare.
Quella doveva essere la squadra di sicurezza dell’azienda.
Guardando in fondo alla sala, Holden sentì quadrare la situazione. Oltre
quelle porte di carico chiuse c’era una delle poche navi mercantili rimaste a
terra, carica delle ultime riserve che stavano per essere sottratte a Ganimede.
E la folla era affamata.
Holden ricordò il tentativo di fuga da un casinò su Eros quando era
scattato il blocco di sicurezza. Rammentò la folla inferocita che affrontava gli
uomini con le pistole. Ricordò le grida, l’odore del sangue e di cordite. Prima
di sapere di aver preso una decisione, si ritrovò a sgomitare per arrivare in
prima fila. Naomi lo seguì in mezzo alla folla, mormorando qualche scusa al
suo passaggio. Lo prese per un braccio e lo fermò per un istante.
«Stai per fare qualcosa di terribilmente stupido?» gli chiese.
«Sto per impedire che questa gente si faccia sparare per il crimine di
essere affamata» rispose facendo una smorfia per il tono da moralista con cui
gli era uscita la frase.
«Non» disse Naomi, lasciandolo andare «puntare l’arma contro nessuno.»
«Loro sono armati.»
«Armati, al plurale. Tu sei armato, al singolare, motivo per cui o ti tieni la
pistola nella fondina, o te la dovrai cavare da solo.»
È l’unico modo in cui si riesce a combinare qualcosa. Da solo. Era il
genere di cose che avrebbe detto il detective Miller. Per lui, era stato proprio
così. Ed era un ottimo motivo per non fare lo stesso.
«E va bene.» Holden annuì, poi riprese a spingersi verso la prima fila.
Quando l’ebbe raggiunta, due persone erano diventate l’epicentro del
conflitto: un uomo della sicurezza portuale con i capelli grigi, che indossava
una mostrina bianca con su scritto ‘supervisore’, e una donna alta e dalla
pelle scura, che sarebbe potuta passare per la madre di Naomi, si stavano
urlando addosso mentre i loro rispettivi gruppi li osservavano gridando
assenso e insulti.
«Aprite quelle cazzo di porte e fateci vedere!» gridò la donna con un tono
di voce che fece capire a Holden che si trattava di una frase che aveva
ripetuto più e più volte.
«Non otterrà niente, gridandomi addosso» le urlò di rimando il
supervisore dai capelli grigi. Alle sue spalle, i suoi colleghi della sicurezza
stringevano i manganelli elettrici con le nocche sbiancate e le guardie
dell’azienda avevano estratto le pistole tenendole in un’impugnatura rilassata
che Holden trovò molto più minacciosa.
La donna smise di gridare quando Holden si fece largo fino al
supervisore, e lo fissò.
«Chi...?» disse.
Holden salì sulla pedana di carico accanto al supervisore. Le altre guardie
agitarono un po’ i manganelli elettrici, ma nessuno lo colpì. Gli sbirri
dell’azienda si limitarono a stringere gli occhi e a prendere posizione. Holden
sapeva che la loro confusione circa la sua identità sarebbe durata poco e che,
quando quel momento fosse passato, si sarebbe molto probabilmente
ritrovato in uno spiacevole a tu per tu con uno di quei bastoni da bestiame, se
non direttamente con una pallottola in faccia proveniente da una di quelle
pistole. Prima che potesse accadere, tese la mano al supervisore e disse ad
alta voce, in modo da farsi sentire anche dalla folla: «Salve, sono Walter
Philips, un incaricato dell’APE venuto dalla Stazione di Tycho; sono qui in
qualità di rappresentante personale del colonnello Frederick Johnson.»
Il supervisore gli strinse la mano come stordito. I gorilla dell’azienda si
spostarono di nuovo e impugnarono con più convinzione le proprie pistole.
«Signor Philips» disse il supervisore. «L’APE non ha alcuna autorità...»
Holden lo ignorò e si voltò verso la donna che stava gridando poco prima.
«Signora, qual è il problema?»
«Su quella nave» spiegò lei, indicando verso la porta «ci sono quasi dieci
tonnellate di fagioli e riso. È abbastanza da sfamare l’intera stazione per una
settimana!»
La folla mormorò il proprio assenso alle sue spalle e si fece avanti di un
passo o due.
«È vero?» chiese Holden al supervisore.
«Come ho già detto,» rispose l’uomo, alzando le mani e facendo segno
alla folla di indietreggiare, come se potesse trattenere tutta quella gente con la
sola forza di volontà «non siamo autorizzati a discutere dei manifesti di
carico di compagnie private...»
«E allora aprite le porte e fateci guardare!» gridò di nuovo la donna.
Mentre lei urlava e la folla ripeteva le sue parole – ‘fateci guardare, fateci
guardare’ – Holden prese il supervisore della sicurezza per un gomito e si
avvicinò al suo orecchio.
«Tra trenta secondi, questa folla farà a pezzi lei e i suoi uomini, tentando
di accedere a quella nave» disse. «Credo che farebbe meglio a lasciarli fare,
prima che la situazione degeneri nella violenza.»
«Violenza?» L’uomo fece una risata priva di allegria. «È già degenerata.
L’unico motivo per cui questa nave non è partita da un pezzo è che uno di
loro ci ha piazzato una bomba e ha fatto saltare il meccanismo di rilascio del
molo di attracco. Se cercheranno di prendere la nave, noi...»
«Non prenderanno la nave» intervenne una voce roca, e una mano
pesante si posò sulla spalla di Holden. Quando lui si voltò, vide uno dei
gorilla della sicurezza privata in piedi accanto a sé. «Questa nave è di
proprietà della Mao-Kwikowski Mercantile.»
Holden tolse la mano dell’uomo dalla sua spalla.
«Una dozzina di tizi armati di taser e pistole non riuscirà a fermarli»
disse, indicando la folla in subbuglio.
«Signor» lo scagnozzo lo squadrò dalla testa ai piedi «Philips. Non me ne
frega un beneamato cazzo di quello che pensa lei o l’APE, soprattutto per
quanto riguarda lo svolgimento del mio lavoro. Quindi, perché non se ne va
affanculo prima che iniziamo a sparare?»
Be’, ci aveva provato. Holden sorrise all’uomo di fronte a sé e cominciò a
portare la mano verso la fondina che aveva sulla schiena. Avrebbe voluto che
Amos fosse lì, ma non l’aveva più visto da quando erano scesi dalla nave.
Prima di riuscire a raggiungere la pistola, sentì delle lunghe dita sottili
avvolgergli la mano e stringerla forte.
«Facciamo così» disse Naomi, comparendo improvvisamente a fianco a
Holden. «Che ne dite se saltiamo i convenevoli e vi dico direttamente come
andranno le cose?»
Holden e lo scagnozzo si voltarono entrambi e la fissarono sorpresi. Lei
alzò un dito facendo segno di aspettare un attimo e tirò fuori il terminale
palmare. Chiamò qualcuno e attivò il vivavoce.
«Amos» disse, continuando a tenere il dito alzato.
«Sì» giunse la risposta.
«Una nave sta cercando di salpare dal molo undici, piattaforma B9. È
piena di provviste che ci farebbe comodo avere qui. Se dovesse riuscire ad
alzarsi da terra, abbiamo una nave d’assalto dell’APE abbastanza vicina da
effettuare l’intercettazione?»
Ci fu una lunga pausa; poi, sghignazzando, Amos rispose: «Lo sai che ce
l’abbiamo, capo. Chi è che vuoi che lo sappia, in realtà?»
«Chiama la nave e di’ loro di disabilitare il mercantile. Poi fallo
abbordare da una squadra dell’APE, depredatelo di ogni cosa e portatelo via.»
Amos si limitò a dire: «Ricevuto.»
Naomi chiuse il terminale e se lo rimise in tasca.
«Non metterci alla prova, ragazzino» disse allo scagnozzo, con una
sfumatura d’acciaio nel tono di voce. «Le mie parole non sono una vuota
minaccia. O consegnate il carico a questa gente, o ci prenderemo tutta la
cazzo di nave. Fai tu.»
Lo scagnozzo la fissò per un momento, poi fece un gesto alla sua squadra
e si allontanò. Gli addetti alla sicurezza del porto lo seguirono, e Holden e
Naomi dovettero scansarsi per evitare la folla che si precipitava verso il molo
e i portelloni di carico.
Quando non ci fu più pericolo di essere travolti, Holden disse: «Sei stata
davvero brava.»
«Farsi sparare in difesa della giustizia probabilmente ti sarà sembrato un
destino eroico» replicò lei, con quella nota dura non del tutto svanita dal tono
di voce. «Ma vorrei continuare ad averti intorno, per cui smettila di fare
l’idiota.»
«Bella mossa, minacciare la nave» disse Holden.
«Ti stavi comportando come quello stronzo del detective Miller, per cui
mi sono regolata come ti saresti regolato tu. Ho detto il genere di cose che
avresti detto tu se non avessi avuto fretta di agitare la tua pistola in giro.»
«Non mi stavo comportando come Miller» disse lui. Quell’accusa gli
bruciava, perché era vera.
«Non ti stavi comportando come te stesso.»
Holden si strinse nelle spalle, rendendosi conto soltanto dopo che era un
altro gesto tipico di Miller. Naomi si guardò le mostrine da capitano sulla
spalla della sua tuta della Somnambulist. «Forse farei meglio a tenerle io,
queste...»
Un uomo minuto e scarmigliato, con i capelli sale e pepe, tratti cinesi e la
barba sfatta di una settimana si avvicinò loro e li salutò con un cenno nervoso
del capo. Si stava letteralmente torcendo le mani, un gesto che Holden era
convinto facessero soltanto le vecchie signore nei film più antichi.
L’uomo ripeté il cenno del capo e disse: «Lei è James Holden? Il capitano
James Holden? Dell’APE?»
Holden e Naomi si guardarono l’un l’altra. Holden si tiracchiò la barba a
chiazze. «Ma serve davvero a qualcosa? Onestamente, però.»
«Capitano Holden, mi chiamo Prax, Praxidike Meng. Sono un botanico.»
Holden strinse la mano dell’uomo.
«Piacere di conoscerla, Prax. Temo che dobbiamo...»
«Dovete aiutarmi» lo interruppe Prax. Holden vedeva chiaramente che
l’uomo aveva passato un brutto paio di mesi. I suoi vestiti gli ricadevano
addosso come i cenci di un affamato, e aveva il viso coperto da lividi
ingialliti di un pestaggio recente.
«Sicuro, se vede i Supitayaporn alla stazione di soccorso, dica loro che le
ho detto...»
«No!» gridò Prax. «Non ho bisogno di questo. Ho bisogno che lei mi
aiuti!»
Holden scoccò un’occhiata verso Naomi. Lei si strinse nelle spalle. Vedi
tu.
«E va bene» disse Holden. «Qual è il problema?»
12

Avasarala
«Una casa piccola è un genere di lusso più autentico» disse suo marito.
«Vivere in uno spazio completamente tuo, ricordare i semplici piaceri del
cuocere il pane e del lavare i propri piatti. È questo che dimenticano i tuoi
amici altolocati. Li rende meno umani.»
Era seduto al tavolo della cucina, appoggiato allo schienale di una sedia
di laminato di bambù che era stato consumato fino a sembrare noce tinto. Le
cicatrici dell’operazione per il cancro erano due pallide linee nel buio della
sua gola, appena visibili sotto la sottile barba bianca. Aveva la fronte più
ampia di quando lei l’aveva sposato, i capelli più radi. Il sole della domenica
mattina si rovesciava sul tavolo, abbagliante.
«Sciocchezze» disse lei. «Soltanto perché fai finta di vivere come un
contadino, questo non rende certo Errinwright, o Lus, o nessuno degli altri,
meno umano. Ci sono case più piccole di questa, con dentro sei famiglie, e le
persone che le abitano sono cento volte più simili agli animali di qualsiasi
persona con cui abbia lavorato.»
«Lo credi davvero?»
«Certo che lo credo. Altrimenti perché me ne andrei a lavorare, la
mattina? Se qualcuno non pensasse a tirare fuori quei poveri bastardi mezze
bestie dalle baraccopoli, a chi insegnereste le vostre teorie, voi universitari?»
«Ottima osservazione» riconobbe Arjun.
«Ciò che li rende meno umani è che non meditano, cazzo. Una casa
piccola non è un lusso» disse lei, poi fece una pausa. «Una casa piccola e un
sacco di soldi, forse sì.»
Arjun le rivolse un gran sorriso. Aveva sempre avuto un sorriso
bellissimo. Lei si ritrovò a restituirglielo, anche se una parte di lei voleva
sentirsi offesa. Fuori, Kiki e Suri gridavano, con i loro corpicini seminudi che
scorrazzavano per il giardino. La loro balia trottava mezzo secondo dietro di
loro, con le mani sul fianco come se stesse allentando un punto.
«Un grande giardino è un lusso» disse Avasarala.
«Vero.»
Suri si precipitò dentro dalla porta sul retro, con la mano coperta di terra
nera e un gran sorriso in volto. I suoi passi lasciarono tracce scure e sgretolate
sul tappeto.
«Nani! Nani! Guarda cos’ho trovato!»
Avasarala si spostò sulla sua sedia. Sul palmo della sua nipotina, un
verme contorceva gli anelli rosa e marroni del suo corpo, umido come la terra
che cadeva tra le dita di Suri. Avasarala compose il viso in una maschera di
meraviglia e delizia.
«Ma è bellissimo, Suri. Torniamo fuori e fa’ vedere alla tua Nani dove
l’hai trovato.»
Il prato profumava di erba tagliata di fresco e terriccio. Il giardiniere – un
uomo magro appena più giovane di quanto sarebbe stato suo figlio – era
inginocchiato sul retro, intento a strappare via le erbacce a mano. Suri corse
verso di lui, e Avasarala la seguì con passo rilassato. Quando arrivò lì vicino,
il giardiniere la salutò con un cenno del capo, ma non c’era spazio per
conversare. Suri indicava, gesticolava e ripeteva la grandiosa avventura di
come aveva trovato un comunissimo verme nel fango come se si fosse
trattato di un’epopea epica. Kiki apparve al fianco di Avasarala, prendendole
silenziosamente la mano. Avasarala amava la loro piccola Suri, ma
intimamente – o, perlomeno, parlandone soltanto ad Arjun – pensava che
Kiki fosse la più intelligente delle due. Era silenziosa, ma in fondo ai suoi
occhi c’era una luce intensa, e sapeva imitare chiunque ascoltasse parlare.
Non si lasciava sfuggire quasi niente.
«Moglie adorata» la chiamò Arjun dalla porta sul retro. «C’è qualcuno
che vorrebbe parlare con te.»
«Dove?»
«Il sistema di casa» spiegò Arjun. «Dice che il tuo terminale è staccato.»
«Non è certo un caso che sia così» disse Avasarala.
«È Gloria Tannenbaum.»
Avasarala mise riluttante la mano di Kiki tra quelle della balia, diede un
bacio sulla testa di Suri e tornò verso la casa. Arjun le tenne aperta la porta.
In viso aveva un’espressione dispiaciuta.
«Queste troie mi rubano le mie ore da nonna» disse lei.
«Il prezzo del potere» replicò Arjun con una solennità che voleva essere
divertita e seria al contempo.
Avasarala aprì il collegamento al sistema nel suo studio privato. Ci fu uno
scatto e un momento di distacco quando gli schermi d’isolamento si alzarono,
poi il viso sottile e privo di sopracciglia di Gloria Tannenbaum apparve sullo
schermo.
«Gloria! Mi dispiace. Avevo spento il mio terminale, mi sono passate a
trovare le bambine.»
«Non c’è problema» rispose la donna con un sorriso pulito e fragile, che
era quanto di più vicino a un’emozione genuina riuscisse a esprimere. «Anzi,
probabilmente è meglio così. Diamo per scontato che quegli affari siano più
controllati delle linee civili.»
Avasarala si sedette sulla sua poltrona. La pelle espirò delicatamente sotto
il suo peso.
«Spero che vada tutto bene, con Etsepan?»
«Tutto bene» replicò Gloria.
«Bene, bene. Ora, perché cazzo mi hai chiamato?»
«Stavo parlando con un mio amico, che ha la moglie in servizio sulla
Mikhaylov. Da quel che mi dice, l’hanno rimossa dal giro di pattuglia. La
faranno uscire.»
Avasarala si accigliò. La Mikhaylov faceva parte di una piccola riserva
che controllava il traffico tra le stazioni dello spazio profondo, in orbita nella
parte più lontana della Fascia.
«Uscire dove?»
«Ho fatto un po’ di domande in giro» rispose Gloria. «Ganimede.»
«Nguyen?»
«Sì.»
«Il tuo amico ha la lingua piuttosto sciolta» disse Avasarala.
«Non gli dico mai niente di vero» ribatté Gloria. «Pensavo che avresti
dovuto saperlo.»
«Ti sono debitrice» disse Avasarala. Gloria annuì una volta soltanto, con
un movimento brusco come quello di un corvo, e interruppe il collegamento.
Avasarala rimase seduta per un lungo istante, premendosi le dita sulle labbra,
seguendo mentalmente la catena di implicazioni come un ruscello che fluisce
sul suo letto di roccia. Nguyen stava inviando altre navi su Ganimede, e lo
stava facendo con molta discrezione.
La parte del ‘perché con discrezione’ era semplice. Se l’avesse fatto
apertamente, lei l’avrebbe fermato. Nguyen era giovane e ambizioso, ma non
era uno stupido. Stava traendo conclusioni per conto suo, e in qualche modo
era giunto all’idea che inviare un maggior numero di mezzi armati nella ferita
aperta che era Ganimede avrebbe aiutato a migliorare la situazione.
«Ehi, Nani!» chiamò Kiki. Dalla cadenza delle sue parole, Avasarala capì
che stava architettando una qualche marachella. Si allontanò dalla scrivania e
si diresse verso la porta.
«Sono qui, Kiki» disse andando in cucina.
Il pallone d’acqua la colpì sulla spalla senza rompersi, cadde a terra ed
esplose ai suoi piedi, scurendo le mattonelle attorno a lei. Avasarala alzò gli
occhi, con il viso adirato. Kiki era in piedi sulla porta che dava sul giardino,
con l’espressione a metà tra lo spavento e la delizia.
«Hai appena sporcato la mia casa?» chiese Avasarala.
La bambina annuì, pallida in volto.
«Lo sai che cosa succede alle bambine cattive che sporcano la casa della
loro Nani?»
«Gli fanno il solletico?»
«Gli fanno il solletico!» esclamò Avasarala, precipitandosi verso di lei.
Ovviamente, Kiki riuscì a fuggire. Era una bambina di otto anni. L’unica
volta che le avevano fatto male le articolazioni, era perché cresceva troppo in
fretta. E, ovviamente, alla fine lasciò che la sua Nani l’acciuffasse e che le
facesse il solletico finché non cominciò a gridare. Quando Ashanti e suo
marito vennero a riprendere le bambine per il volo di ritorno a Novgorod,
Avasarala aveva il sari macchiato d’erba e i capelli scarmigliati in ogni
direzione, ritti sulla testa, come il cartone animato di una sé stessa colpita dal
fulmine.
Abbracciò le bambine per due volte prima di lasciarle andare, allungando
loro pezzi di cioccolata ogni volta, poi diede un bacio a sua figlia, fece un
cenno del capo al genero, e li salutò tutti dalla porta di casa. La loro macchina
fu seguita da quella della scorta. Nessuno, così vicino a lei, era al sicuro dal
pericolo di rapimento. Era soltanto un altro dato di fatto della vita.
Si fece una lunga doccia, usando una copiosa quantità d’acqua quasi
troppo calda per essere gradevole. Le era sempre piaciuto farsi il bagno con
acqua quasi bollente, fin da piccola. Se la sua pelle non formicolava e non le
doleva un po’ quando si asciugava, aveva sbagliato temperatura.
Arjun era sul letto, intento a leggere sul suo terminale palmare con
espressione seria. Lei andò verso l’armadio, gettò l’asciugamano bagnato nel
cesto per la biancheria e si avvolse in una vestaglia di cotone intessuto.
«Pensa che siano stati loro a farlo» disse.
«Chi ha fatto cosa?» chiese Arjun.
«Nguyen. È convinto che dietro tutta la faccenda ci siano i marziani. Che
ci sarà un secondo attacco su Ganimede. Sa bene che i marziani non stanno
spostando lì la loro flotta, e continua a mandare rinforzi. Non gli importa di
mandare a puttane i negoziati di pace, perché crede che siano tutte stronzate.
Di non avere niente da perdere. Mi stai ascoltando?»
«Sì, certo. Nguyen crede che sia stato Marte. Sta radunando una flotta per
rispondere all’attacco. Visto?»
«Sai di cosa sto parlando?»
«In generale? No. Ma Maxwell Asinnian-Koh ha appena postato un
saggio sul postlirismo che gli procurerà una valanga di lettere d’odio.»
Avasarala ridacchiò.
«Tu vivi in un mondo a parte, caro.»
«Già» concordò Arjun, passando il pollice sullo schermo del terminale
palmare. Alzò lo sguardo. «A te non dà fastidio, vero?»
«Ti amo per questo. Resta qui. Continua a leggere di postlirismo.»
«Tu che cosa fai?»
«Le stesse cose di sempre. Cerco di impedire alla civiltà moderna di
andare in fiamme mentre ci sono dentro i nostri bambini.»
Quando era stata molto più giovane, sua madre aveva provato a
insegnarle a lavorare a maglia. Avasarala non si era rivelata molto abile, ma
ne aveva tratto un’altra importante lezione. Una volta, la matassa di filo si era
annodata malamente, e gli strattoni frustrati di Avasarala non avevano fatto
che peggiorare le cose di volta in volta. Sua madre le aveva tolto dalle mani
quel groviglio legato stretto, ma, invece di sistemarlo e di riconsegnarglielo,
si era seduta a gambe incrociate sul pavimento e le aveva parlato di come fare
per risolvere quel nodo. Era stata delicata, cauta e paziente, cercando i punti
in cui poteva allentare un po’ il groviglio finché, d’un tratto, il filo si era
sciolto.
C’erano dieci navi sulla lista; andavano da una vecchia nave di trasporto
truppe che aspettava soltanto di essere rottamata, a un paio di fregate
capitanate da gente di cui aveva già sentito il nome. Non era una forza
massiccia, ma era abbastanza da risultare provocatoria. Con delicatezza,
cautela e pazienza, Avasarala cominciò a districare la matassa.
La nave da trasporto fu la prima, perché era la più facile. Si era lavorata i
ragazzi del reparto manutenzione e sicurezza per anni. Ci vollero quattro ore
affinché qualcuno, con schemi e registri navali alla mano, trovasse un bullone
che non era stato sostituito come da programma, e un’altra mezz’ora per
emanare un richiamo tassativo alla nave. La Wu Tsao, la meglio equipaggiata
delle due fregate, era capitanata da Golla Ishigawa-Marx. Il suo stato di
servizio era solido, altamente professionale. Era competente, privo di fantasia
e leale. Con tre conversazioni, Avasarala lo fece promuovere a capo del
comitato di supervisione della costruzione, dove non avrebbe probabilmente
potuto fare alcun danno. L’intera squadra di comando della Wu Tsao ricevette
l’ordine di fare ritorno sulla Terra per presenziare alla cerimonia in cui gli
avrebbero affibbiato un altro nastrino. La seconda fregata era più difficile, ma
Avasarala trovò comunque un modo. Dopodiché, il convoglio era
sufficientemente ridotto da far sì che la quantità di navi cargo per l’invio di
beni di soccorso fosse maggiore del resto delle navi scorta.
Il nodo si sbrogliò tra le sue dita. Le tre navi che non poteva sciogliere
erano vecchie e sottopotenziate. Se si fosse giunti a un combattimento,
sarebbero state di scarso peso. E, per questo, i marziani si sarebbero offesi
soltanto qualora stessero davvero cercando una qualche scusa per attaccare
briga.
Avasarala non pensava che fosse quello il caso. E, se si fosse sbagliata,
anche quella situazione sarebbe stata interessante.
«Non crede che l’ammiraglio Nguyen mangerà la foglia?» chiese
Errinwright. Era in una stanza d’albergo, da qualche parte, dall’altro lato del
pianeta. Alle sue spalle era notte, e aveva il colletto della camicia sbottonato.
«E allora?» disse Avasarala. «Che può fare? Andare a piagnucolare dalla
mamma perché gli ho tolto i suoi giochini? Se non sa giocare con i ragazzi
più grandi, non dovrebbe essere un cazzo di ammiraglio.»
Errinwright sorrise e si scrocchiò le nocche. Sembrava stanco.
«Che navi andranno?»
«La Bernadette Koe, la Aristophanes e la Feodorovna, signore.»
«Già, quelle. Che cosa dirai ai marziani di quelle?»
«Niente, se non affrontano l’argomento» rispose Avasarala. «Se invece lo
faranno, sarò in grado di derubricare la questione: una nave di supporto
medico, un trasporto truppe e una minuscola navicella da battaglia per tenere
alla larga i pirati. Voglio dire, non è che stiamo mandando un paio di
incrociatori. Per cui, che si fottano.»
«Lo dirà con più garbo, spero.»
«Certo che sì, signore. Non sono stupida.»
«Per quanto riguarda Venere?»
Avasarala fece un respiro profondo, lasciandosi sfuggire l’aria tra i denti.
«Quello è il fottuto uomo nero» disse. «Mi sto facendo recapitare rapporti
quotidiani, ma non sappiamo che cosa abbiamo di fronte. La rete che ha
costruito sull’intera superficie del pianeta sembra essere terminata, e ora sta
crollando, ma ci sono altre strutture che stanno crescendo in un complesso
modello di simmetria radiale. Solo che non è lungo l’asse di rotazione. È sul
piano dell’ellittica. Per cui, qualsiasi cosa ci sia laggiù, si sta orientando
tenendo a modello l’intero sistema solare. E l’analisi spettrografica mostra un
aumento di ossido di lantanio e oro.»
«Non so che cosa significhi.»
«Non lo sa nessuno, ma i cervelloni pensano che possa trattarsi di un
insieme di superconduttori a temperatura elevatissima. Stanno cercando di
replicare le strutture cristalline in laboratorio, e hanno scoperto di non capire
alcune cose. È saltato fuori che quell’affare laggiù è un chimico fisico
migliore di noi. Il che non è certo una cazzo di sorpresa.»
«C’è qualche collegamento con Ganimede?»
«Soltanto quello» rispose Avasarala. «Altrimenti niente. O, perlomeno,
non in maniera diretta.»
«Che intende, per ‘non in maniera diretta’?»
Avasarala si accigliò e distolse lo sguardo. Il Buddha le restituì l’occhiata.
«Sapeva che il numero di sette che professano il suicidio religioso è
raddoppiato, dopo Eros?» disse. «Io non lo sapevo finché non ho ricevuto il
rapporto. L’iniziativa congiunta per ricostruire il centro di raccolta idrica al
Cairo è quasi fallita, l’anno scorso, perché un gruppo di millenaristi si è
messo a dire che non ci sarebbe servito.»
Errinwright si spostò in avanti sulla sedia. I suoi occhi erano stretti.
«Crede che ci sia un qualche collegamento?»
«Non credo che un gruppo di uomini-baccello stia per venire fuori da
Venere,» rispose lei «ma... ho pensato a quello che ci ha fatto. A quello che
ha fatto all’intero sistema solare. A loro, a noi e ai cinturiani. Non è salutare
avere Dio che ci dorme accanto, dove possiamo tutti vederlo sognare. Ci fa
cacare sotto. Mi fa cacare sotto. E così guardiamo tutti da un’altra parte e
continuiamo a fare le nostre cose come se l’universo fosse ancora lo stesso di
quando eravamo giovani, ma sappiamo benissimo che non è così. Ci
comportiamo tutti come se fossimo sani di mente, ma...»
Scosse la testa.
«L’umanità ha sempre convissuto con ciò che è inspiegabile» disse
Errinwright. Il suo tono era duro. Avasarala lo stava mettendo a disagio. E,
del resto, si stava mettendo a disagio da sola.
«Ciò che è inspiegabile non aveva l’abitudine di fagocitare pianeti»
replicò lei. «Anche se la cosa su Ganimede non fosse venuta da Venere, è
dannatamente chiaro che c’è correlazione. E se siamo stati noi...»
«Se siamo stati noi a costruire quella cosa, è perché abbiamo scoperto una
nuova tecnologia, e la stiamo usando» ribatté Errinwright. «Dalle lance in
selce alla polvere da sparo, alle testate nucleari; è questo, che facciamo,
Chrisjen. Lasci che sia io a preoccuparmene. Lei tenga d’occhio Venere e non
lasci che la situazione marziana vada fuori controllo.»
«Sì, signore» disse lei.
«Andrà tutto bene.»
Guardando lo schermo spento in cui era apparso il suo superiore,
Avasarala decise che forse lo pensava davvero. Lei non ne era più sicura.
C’era qualcosa che la tormentava, e non sapeva ancora che cosa fosse. Ma era
lì, in agguato, appena sotto la superficie della sua mente cosciente, come una
scheggia sotto l’unghia. Aprì il video ripreso dall’avamposto delle Nazioni
Unite su Ganimede, eseguì il controllo di sicurezza obbligatorio e osservò i
marine morire di nuovo.
Kiki e Suri sarebbero cresciute in un mondo in cui era successo questo, in
cui Venere era stata la colonia di qualcosa di profondamente alieno, non
comunicativo e implacabile. La paura che ciò portava con sé per loro sarebbe
stata normale, qualcosa a cui non avrebbero pensato, non più di quanto non si
pensi a respirare. Sullo schermo, un uomo non più grande di Soren svuotò il
caricatore sull’aggressore. Le immagini migliorate mostrarono le decine di
impatti che aprivano fori nella cosa, e scie filamentose che si disperdevano
dalla sua schiena come stelle filanti. Avasarala mise in pausa il video. Tracciò
il profilo dell’aggressore con la punta di un dito.
«Chi sei?» chiese rivolta allo schermo. «Che cosa vuoi?»
C’era qualcosa che le sfuggiva. Le capitava abbastanza spesso da saper
riconoscere quella sensazione, ma non le era d’aiuto. L’avrebbe capito
quando fosse stato il momento. Tutto quello che poteva fare, adesso, era
continuare a grattare dove prudeva. Richiuse i documenti, aspettando che i
protocolli di sicurezza accertassero che non aveva copiato niente, poi uscì
dall’account e si voltò verso la finestra.
Si accorse che stava pensando alla prossima volta. A quali informazioni
sarebbero stati in grado di accedere, la prossima volta. A quali schemi
avrebbe intuito la prossima volta. Al prossimo attacco, al prossimo massacro.
Era già perfettamente chiaro nella sua mente che ciò che era successo su
Ganimede sarebbe successo di nuovo, prima o poi. I geni non si potevano
rimettere nelle loro bottiglie una volta usciti, e, dal momento in cui la
protomolecola era stata diffusa attraverso la popolazione civile di Eros solo
per poter studiare quali fossero i risultati, la civiltà era cambiata. Era
cambiata così in fretta e così radicalmente che la stavano ancora rincorrendo.
Rincorrendo.
C’era qualcosa, lì. Qualcosa in quella parola, come un verso di una
canzone che riusciva quasi a ricordare. Avasarala strinse i denti e si alzò,
camminando avanti e indietro davanti alla sua finestra. Odiava quella parte.
La odiava.
La porta del suo ufficio si aprì. Quando lei si voltò per guardare Soren, il
ragazzo sussultò. Avasarala modulò il suo cipiglio, addolcendolo un po’. Non
sarebbe stato giusto spaventare quel povero coniglietto. Probabilmente era
soltanto un tirocinante che aveva pescato la pagliuzza più corta e si era
ritrovato incastrato con la vecchia scontrosa. E poi, in un certo senso, le
piaceva.
«Sì?» disse.
«Pensavo che avrebbe voluto sapere che l’ammiraglio Nguyen ha inviato
una lettera di protesta al signor Errinwright, per interferenza nel suo campo di
competenza. Non ha messo in copia il segretario generale.»
Avasarala sorrise. Anche se non aveva la chiave per risolvere tutti i
misteri dell’universo, era ancora in grado di mettere in riga i ragazzini. E, se
non aveva fatto ricorso al pupazzo, significava che stava soltanto mettendo il
broncio. Non ne sarebbe uscito niente.
«Buono a sapersi. E i marziani?»
«Sono qui, signora.»
Avasarala sospirò, si sistemò il sari e rialzò il mento.
«Andiamo a fermare questa guerra, allora» disse.
13

Holden
Amos, che alla fine era tornato qualche ora dopo la rivolta per il cibo con
appresso una cassa di birra dicendo che era andato ‘in perlustrazione’,
portava ora una cassetta di cibo in scatola. L’etichetta dichiarava che fosse un
‘prodotto a base di pollo’. Holden sperava che l’hacker da cui li stava
portando Prax considerasse quell’offerta perlomeno in linea con lo spirito del
pagamento richiesto.
Prax li guidava con la fretta convulsa di chi aveva un’ultima cosa da fare
prima di morire, e si sentiva la fine alle calcagna. Holden sospettò che non
fosse lontano dal vero. Il piccolo botanico sembrava davvero essersi
consumato fino all’osso.
L’avevano portato a bordo della Somnambulist mentre mettevano insieme
le provviste necessarie, e Holden aveva costretto l’uomo a mangiare qualcosa
e a farsi la doccia. Prax aveva cominciato a spogliarsi mentre Holden gli
stava ancora mostrando come si usava il bagno della nave, come se
nell’aspettare di avere un po’ di privacy avrebbe sprecato tempo prezioso. La
vista del corpo devastato di quell’uomo l’aveva sconvolto. Nel frattempo, il
botanico non parlava che di Mei, del suo bisogno di ritrovarla. Holden si rese
conto che in tutta la sua vita non aveva mai avuto un bisogno così pressante,
come quello che sentiva quell’uomo di rivedere sua figlia.
Con sua grande sorpresa, la cosa l’aveva rattristato.
Prax era stato spogliato di tutto, ogni filo di grasso era stato bollito via;
era stato ridotto al minimo sindacale di umanità. Tutto ciò che gli rimaneva
era il bisogno di ritrovare la sua bambina, e Holden lo invidiava per questo.
Quando Holden stava morendo, intrappolato nell’inferno della Stazione di
Eros, aveva scoperto di aver bisogno di rivedere Naomi almeno un’ultima
volta. O, non potendo farlo, di sapere che lei era al sicuro. Era per questo che
non era morto. Per questo, e perché aveva Miller al suo fianco, con un’altra
pistola. E quel legame, perfino ora che lui e Naomi erano amanti, non era che
un’ombra pallida se paragonato a ciò che spingeva Prax ad andare avanti.
Quel pensiero aveva dato a Holden la sensazione di aver perso qualcosa di
importante, senza che se ne fosse nemmeno reso conto.
Mentre Prax si faceva la doccia, Holden era risalito in plancia, dove
Naomi era al lavoro per forzare il sistema di sicurezza già in affanno di
Ganimede. L’aveva tirata via dal sedile e l’aveva abbracciata per un lungo
istante. Lei si era irrigidita per la sorpresa, poi si era rilassata tra le sue
braccia. «Ciao» gli aveva sussurrato all’orecchio. Poteva anche essere
un’ombra pallida, ma era quello che aveva, ed era dannatamente bello.
Prax si fermò a un incrocio, picchiettandosi le cosce con le mani come a
mettersi fretta da solo. Naomi era tornata a bordo della nave, per tenere sotto
controllo il loro percorso grazie a dei localizzatori che avevano addosso e a
quel che restava delle telecamere di sicurezza della stazione.
Alle spalle di Holden, Amos si schiarì la gola e disse a voce bassa, per
non farsi sentire da Prax: «Se perdiamo questo tizio, non credo che avremo
molte possibilità di ritrovare rapidamente la strada del ritorno.»
Holden annuì. Amos aveva ragione.
Anche nei momenti migliori, Ganimede era un labirinto di corridoi grigi
identici gli uni agli altri, intervallati da occasionali caverne che fungevano da
parchi. E la stazione non era certo in uno dei suoi momenti migliori, ora. La
maggior parte dei chioschi d’informazione pubblica erano spenti,
malfunzionanti o semplicemente distrutti. La rete era inaffidabile, nella
migliore delle ipotesi. E i cittadini del posto si muovevano come saprofagi sul
cadavere di quella che un tempo era stata la loro grande luna, con aria
alternativamente terrorizzata o minacciosa. Holden e Amos indossavano
apertamente armi da fuoco, e il secondo aveva perfezionato una sorta di
broncio continuo che faceva sì che la gente lo inserisse automaticamente
nella lista di quelli a cui era meglio non rompere le palle. Non per la prima
volta, Holden si chiese che razza di vita avesse avuto Amos prima di firmare
il documento d’ingaggio per un giro sulla Canterbury, il vecchio cargo
frigorifero su cui avevano servito entrambi.
Prax si arrestò di colpo davanti a una porta che somigliava a un centinaio
di altre porte che avevano superato, incastrata nel muro di un corridoio grigio
uguale a tutti gli altri corridoi.
«È questa. È qui dentro.»
Prima che Holden potesse dire alcunché, Prax aveva già cominciato a
bussare freneticamente alla porta. Holden fece un passo indietro e di lato,
lasciandosi una visuale aperta dell’ingresso oltre Prax. Amos si allargò
dall’altro lato, infilandosi la cassetta di pollo sotto il braccio sinistro e
agganciando la cintura con il pollice destro, appena davanti alla fondina. Un
anno di pattuglia lungo la Fascia, a ripulire la zona dai peggiori sciacalli che
il vuoto governativo si era lasciato dietro, aveva instillato alcuni automatismi
nel suo equipaggio. Holden li apprezzava, ma non era certo che la cosa gli
piacesse. Lavorare nel campo della sicurezza non aveva certo reso migliore la
vita di Miller.
La porta fu bruscamente aperta da un ragazzo macilento, a petto nudo,
che impugnava un grosso coltello nella mano libera.
«Che cazzo...» fece per dire, poi si fermò quando vide Holden e Amos
accanto a Prax. Diede un’occhiata alle pistole ed esclamò: «Ah.»
«Ti ho portato il pollo» replicò Prax, indicando la cassetta che Amos
aveva con sé. «Ho bisogno di vedere il resto del video.»
«Avrei potuto pensarci io,» disse Naomi nell’orecchio di Holden «se me
ne davate il tempo.»
«Il problema era la parte in cui dovevamo ‘dartene il tempo’» le rispose
sottovoce Holden. «Ma sta’ pur certa che rimane il piano B.»
L’adolescente ossuto si strinse nelle spalle e aprì del tutto la porta,
facendo segno a Prax di entrare. Holden lo seguì, e Amos chiuse la fila.
«Allora» disse il ragazzo. «Fammi vedere, sabé?»
Amos posò la cassetta sul tavolo sporco e ne tolse una sola lattina. La
tenne in alto, dove il ragazzo poteva vederla.
«Salsa?» domandò il tizio.
«Che ne dici di una seconda lattina, invece?» rispose Holden,
avvicinandosi al ragazzo e sorridendo affabile. «Va’ a prenderci il resto del
video, e ci togliamo dai piedi. Che te ne pare?»
Il ragazzo alzò il mento e spinse Holden un passo indietro.
«Non starmi addosso, macho.»
«Le mie scuse» replicò Holden, senza lasciare che il suo sorriso
vacillasse. «Ora va’ a prendere quel dannato video che hai promesso al mio
amico, qui.»
«Magari no» disse il ragazzo. Batté una mano su Holden. «Adinerado, sí
no?Quizas che avete più di un pollo, per pagare. Magari parecchio.»
«Lascia che ti spieghi come stanno le cose» replicò Holden. «Stai per
caso cercando di fregarci? Perché, se così fosse, sarebbe...»
Una manona si posò sulla spalla di Holden, interrompendolo.
«Ci penso io, cap» disse Amos, mettendosi tra lui e il ragazzo. Aveva una
lattina di pollo in mano, e cominciò a giochicchiarci tirandola in aria e
riprendendola con noncuranza.
«A quest’uomo» iniziò Amos, indicando Prax con la mano sinistra mentre
continuava a giochicchiare con il pollo con la destra «hanno rapito la figlia.
Vuole soltanto sapere dove si trova. Ed è disposto a pagare il prezzo richiesto
per avere questa informazione.»
Il ragazzo si strinse nelle spalle e fece per parlare, ma Amos gli alzò un
dito davanti alle labbra e lo zittì.
«E ora, quando quel prezzo è pronto a essere pagato» riprese Amos, con
tono amichevole e colloquiale «cerchi di fregarlo, sfruttandolo, perché sai che
è disperato. Darebbe qualsiasi cosa pur di riavere la sua bambina. C’è da farsi
un bel gruzzolo, vero?»
Il ragazzo si strinse di nuovo nelle spalle. «Que no...»
Amos schiantò la lattina di pollo in faccia al ragazzo così rapidamente
che, per un istante, Holden non riuscì a capire come mai l’hacker fosse
improvvisamente sdraiato a terra, con il naso che spillava sangue. Amos gli
mise un ginocchio sul petto, inchiodandolo al pavimento. La lattina di pollo
salì per aria e affondò di nuovo sul viso del ragazzo con uno schianto sonoro.
Quello cominciò a urlare, ma Amos gli tappò la bocca con la mano sinistra.
«Pezzo di merda» gridò il meccanico, senza più la minima traccia di
calma nella voce, con una rabbia animale che Holden non aveva mai sentito
prima in lui. «Vuoi tenere in ostaggio una bambina per dell’altro
schifosissimo pollo?»
Amos schiantò la lattina sull’orecchio dell’hacker, che si fece
immediatamente rossa di sangue. La mano del meccanico si tolse dalla bocca
del ragazzo, e quello cominciò a gridare in cerca di aiuto. Amos alzò di
nuovo la lattina di pollo, ma Holden gli afferrò il braccio e lo tirò via dal
ragazzo terrorizzato.
«Basta così» disse, tenendo Amos e sperando che l’omone non decidesse
di picchiare anche lui con quella lattina. Il meccanico era sempre stato il tipo
che si ficcava nelle risse da bar perché lo divertivano.
Stavolta però era diverso.
«Basta così» ripeté Holden, poi trattenne Amos finché non smise di
dimenarsi. «Non può aiutarci se gli spacchi la testa.»
Il ragazzo indietreggiò strisciando sul pavimento fino a mettersi con le
spalle al muro. Annuì alle parole di Holden, tenendosi il naso sanguinante tra
pollice e indice.
«Ah, sì?» disse Amos. «Lo aiuterai?»
Il ragazzo annuì di nuovo e si mise in piedi barcollando, continuando a
premersi contro il muro.
«Andrò con lui» disse Holden, dando una pacca sulla spalla ad Amos.
«Perché non resti qui, e fai un bel respiro?»
Prima che Amos potesse rispondere, Holden indicò l’hacker terrorizzato.
«Meglio mettersi al lavoro.»
«Ecco» disse Prax quando furono di nuovo al momento in cui Mei veniva
portata via. «Quella è Mei. Quell’uomo è il suo dottore, il dottor Strickland.
Quella donna, invece, non la conosco. Ma la maestra di Mei ha detto che nel
registro risultava come sua madre. Con una foto e l’autorizzazione a venirla a
prendere. I controlli di sicurezza sono ottimi, a scuola. Non lascerebbero mai
andare via un bambino, senza autorizzazione.»
«Trova dove sono andati» ordinò Holden all’hacker. Poi, rivolgendosi a
Prax: «Perché il suo dottore?»
«Mei è...» cominciò a dire Prax, poi si fermò e ricominciò da capo. «Mei
ha una rara malattia genetica, che le disabilita il sistema immunitario se non
viene trattata regolarmente con dei farmaci. Il dottor Strickland lo sa. Sono
scomparsi anche altri sedici bambini con la sua stessa malattia. Lui saprebbe
come tenerli... saprebbe come tenere Mei in vita.»
«Ci stai ascoltando, Naomi?»
«Sì. Sto leggendo la traccia dell’hacker attraverso il sistema di sicurezza.
Non avremo più bisogno di lui.»
«Bene» disse Holden. «Perché sono piuttosto sicuro che questo ponte sia
bello che bruciato, una volta che saremo usciti da qui.»
«Abbiamo sempre dell’altro pollo» replicò Naomi ridacchiando.
«Amos si è assicurato che la prossima cosa che richiederà il ragazzo sarà
una bella chirurgia facciale.»
«Ahia» esclamò lei. «Sta bene?»
Holden sapeva che stava chiedendo di Amos. «Sì. Ma... c’è forse
qualcosa che non so di lui, che potrebbe rendere le cose problematiche?
Perché è davvero...»
«Aqui» disse l’hacker, indicando lo schermo.
Holden osservò il dottor Strickland portare Mei lungo un corridoio
dall’aspetto più vecchio, seguito dalla donna dai capelli scuri. Arrivarono a
una porta che sembrava un antico portellone pressurizzato. Strickland fece
qualcosa sul pannello accanto al portello, e i tre entrarono nell’apertura.
«Niente occhi, dopo questo punto» disse l’hacker, sussultando come se si
aspettasse di essere punito per le mancanze del sistema di sicurezza di
Ganimede.
«Naomi, dove conduce questo portellone?» chiese Holden, facendo segno
all’hacker che non era colpa sua.
«Sembrerebbe una vecchia parte dell’escavazione originale» rispose lei,
intervallando le parole con qualche pausa mentre lavorava sul suo terminale.
«La zona è stata assegnata a deposito. Non dovrebbe esserci nient’altro che
polvere e ghiaccio, oltre quel portellone.»
«Sapresti portarci fin lì?» chiese Holden.
Naomi e Prax dissero all’unisono: «Sì.»
«E allora andiamoci.»
Fece segno a Prax e all’hacker di tornare nella prima stanza, poi li seguì.
Amos era seduto al tavolo, intento a far girare una lattina sul tavolo come se
fosse stata una moneta molto spessa. Nella bassa gravità della luna, dava
l’impressione di voler girare per sempre. L’espressione del meccanico era
distante e imperscrutabile.
«Hai fatto il tuo lavoro» disse Holden all’hacker, che fissava Amos con il
viso che passava dal timore alla rabbia, e poi di nuovo al timore. «E verrai
pagato. Non abbiamo intenzione di fregarti.»
Prima che il ragazzo potesse rispondere, Amos si alzò e prese la cassetta
di pollo in scatola. La rivoltò e scaricò tutte le lattine rimaste sul pavimento,
dove alcune rotolarono fin negli angoli della minuscola stanzetta.
«Tieni il resto, stronzo» disse, poi gettò la scatola vuota sul cucinino.
«E con questo» concluse Holden «prendiamo congedo.»
Dopo che Amos e Prax furono usciti dalla porta, Holden li seguì
camminando all’indietro, tenendo d’occhio l’hacker per essere certo che non
tentasse un qualche malsano atto di vendetta. Ma non c’era da preoccuparsi.
Non appena Amos fu fuori dalla porta, il ragazzo si precipitò a raccogliere le
lattine da terra e a impilarle sul tavolo.
Mentre Holden usciva e si richiudeva la porta alle spalle, Naomi disse:
«Lo sai che cosa significa, vero?»
«Che cosa?» rispose lui. Poi, rivolto ad Amos: «Torniamo alla nave.»
«Prax ha detto che sono stati rapiti tutti i bambini con la stessa malattia di
Mei» continuò Naomi. «Ed è stato il suo dottore a portarla via da scuola.»
«Quindi possiamo probabilmente immaginare che sia stato lui, o gente
che lavora con lui, a prendere gli altri bambini» convenne Holden.
Amos e Prax camminavano vicini lungo il corridoio. L’omone aveva
ancora in viso quell’espressione distante. Prax gli posò una mano sul braccio
e Holden lo sentì sussurrare: «Grazie.» Amos si limitò a scrollare le spalle.
«Perché mai dovrebbe volere quei bambini?» chiese Naomi.
«Secondo me la domanda giusta è: come faceva a sapere di doverli
prendere appena qualche ora prima che iniziassero a sparare?»
«Già» disse Naomi, con voce pensosa. «Già, come faceva a saperlo?»
«Perché è lui la ragione per cui le cose sono andate a rotoli» rispose
Holden, dicendo ad alta voce quello che stavano pensando entrambi.
«Se ha rapito tutti quei bambini ed è in grado, lui o la gente con cui
lavora, di scatenare una guerra aperta tra Marte e la Terra per coprire il
misfatto...»
«Comincia a sembrare molto simile a una strategia che abbiamo già visto
prima d’ora, vero? Dobbiamo scoprire che cosa c’è dall’altra parte di quella
porta.»
«Delle due l’una,» disse Naomi «o niente perché dopo il colpo se la sono
svignata da questa luna...»
«Oppure» continuò Holden «un sacco di gente con le pistole.»
«Già.»
La cambusa della Somnambulist era silenziosa mentre Prax e l’equipaggio
di Holden riguardavano il filmato. Naomi aveva messo in sequenza tutte le
riprese del rapimento di Mei in un unico lungo video a ciclo continuo.
Rimasero a guardare mentre il suo dottore la portava attraverso diversi
corridoi, su per un ascensore, e finalmente alla porta della zona abbandonata
della stazione. Dopo aver rivisto le immagini una terza volta, Holden fece
segno a Naomi di interrompere il filmato.
«Che cosa sappiamo?» disse, tamburellando sul tavolo con la punta delle
dita.
«La bambina non è spaventata. Non sta cercando di scappare» rispose
Amos.
«Conosce il dottor Strickland da sempre» replicò Prax. «Per lei è
praticamente come uno di famiglia.»
«Il che significa che l’hanno comprato» concluse Naomi. «O che questo
piano è in atto da...»
«Quattro anni» disse Prax.
«Quattro anni» ripeté Naomi. «Un imbroglio dannatamente lungo da
tenere in piedi, a meno che la posta in gioco non sia decisamente alta.»
«Che sia un semplice rapimento? Se vogliono un riscatto...»
«Non funziona. Un paio di ore dopo che Mei scompare in quel portello,»
disse Holden, indicando l’immagine congelata sullo schermo di Naomi «la
Terra e Marte cominciano a spararsi addosso. Qualcuno si è dato molto da
fare per rapire sedici bambini e nascondere il fatto.»
«Se la Protogen non fosse un ricordo lontano,» disse Amos «direi che è
esattamente il genere di merdate che farebbero loro.»
«Chiunque sia stato, dispone di importanti risorse tecnologiche» disse
Naomi. «Sono riusciti a hackerare il sistema della scuola prima che la rete di
sicurezza di Ganimede collassasse per via dello scontro, e a inserire i dati di
quella donna nel registro di Mei senza lasciare traccia di manomissione.»
«Alcuni dei bambini della sua scuola avevano genitori molto ricchi o
potenti» disse Prax. «Il sistema di sicurezza doveva essere perfetto.»
Holden tamburellò un ultimo ritmo sul tavolo con entrambe le mani, poi
disse: «Il che ci riporta alla domanda principale: che cosa ci aspetta dall’altra
parte di quella porta?»
«Scagnozzi corporativi» rispose Amos.
«Niente» disse Naomi.
«Mei» azzardò Prax piano. «Potrebbe esserci Mei.»
«Dobbiamo essere pronti a tutte e tre le eventualità: violenza, indizi da
raccogliere o bambini da soccorrere. Per cui vediamo di tirare fuori un piano
come si deve. Naomi, voglio un terminale con un collegamento radio che io
possa inserire in qualsiasi rete trovassimo dall’altra parte, per darti un punto
di accesso.»
«Ricevuto» rispose Naomi, alzandosi dal tavolo e dirigendosi verso la
scala di chiglia.
«Prax, dovrai inventarti qualcosa per far sì che Mei si fidi di noi, e darci
informazioni dettagliate su qualsiasi complicazione che potrebbe essere
causata dalla sua malattia durante il salvataggio. Quanto tempo abbiamo per
riportarla qui prima che abbia di nuovo bisogno dei suoi farmaci, e cose del
genere.»
«Va bene» disse Prax, tirando fuori il suo terminale e cominciando ad
annotare.
«Amos?»
«Sì, cap.»
«A noi rimane la violenza. Attrezziamoci.»
Il sorriso iniziava e finiva negli occhi del meccanico.
«Cazzo, sì.»
14

Prax
Prax non aveva capito quanto vicino fosse arrivato al collasso finché non
mangiò.
Pollo in scatola con una sorta di chutney speziato, cracker soffici senza
mollica, del tipo che si usava in ambienti a gravità zero, e un bel bicchiere di
birra. Li divorò come un lupo; il suo corpo era diventato improvvisamente
famelico e inarrestabile.
Dopo che ebbe finito di vomitare tutto, la donna che sembrava occuparsi
di tutte le questioni pratiche a bordo – Prax sapeva che il suo nome era
Naomi, ma continuava a volerla chiamare Cassandra, perché somigliava a
una tirocinante che si chiamava così con cui aveva lavorato tre anni prima –
lo fece passare a un brodo proteico che il suo intestino atrofizzato era in
grado di digerire. A poco a poco, ora dopo ora, la sua mente cominciò a far
ritorno a lui. Gli sembrò come un continuo risveglio, senza che si fosse mai
addormentato; seduto nella stiva della nave di Holden, si trovò a notare il
cambiamento percettivo, quanto più chiaramente riuscisse a pensare e quanto
fosse bello tornare in sé. E poi, pochi minuti dopo, un qualche ganglio
deprivato di zuccheri si rimetteva in funzione, e tutto sembrava succedere di
nuovo.
A ogni passo che faceva verso uno stato di piena coscienza, sentiva salire
anche l’impulso di alzarsi, di raggiungere la porta che Strickland e Mei
avevano attraversato.
«Un dottore, eh?» disse l’omone – Amos.
«Ho preso qui la mia laurea. L’università è davvero ottima. Ci sono un
sacco di borse di studio. O meglio... immagino di dover dire che c’erano.»
«Non sono mai stato un gran sostenitore dell’educazione formale.»
La mensa della nave di soccorso era piccola e rovinata dal tempo. Le
pareti in fibra di carbonio intessuta mostravano crepe nello smalto e il tavolo
era macchiato da anni, forse decenni, di utilizzo. L’illuminazione era una
sottile lamina che tendeva al rosa e avrebbe ucciso qualsiasi pianta si fosse
trovata lì sotto in tre giorni. Amos aveva con sé un sacco di iuta pieno di
scatole di plastica sagomate di taglia differente, ognuna delle quali sembrava
contenere una qualche sorta di arma da fuoco. Aveva srotolato un panno di
feltro rosso e ci aveva smontato sopra una grossa pistola di un nero opaco. Le
delicate parti di metallo sembravano sculture. Amos impregnò un tampone di
cotone con una soluzione detergente di un blu intenso e lo strofinò
delicatamente su un meccanismo argentato collegato a un tubo di metallo
nero, lucidando una piastra di metallo che era già lucida come uno specchio.
Prax trovò le sue mani che si muovevano verso i pezzi sparpagliati,
desiderando che si riassemblassero. Che fossero già puliti e lucidati e
sistemati. Amos fece finta di non notarlo in un modo che però faceva capire
che lo notava eccome.
«Non so perché l’abbiano presa» disse Prax. «Il dottor Strickland è
sempre stato bravo con lei. Non ha mai... voglio dire... non le farebbe mai del
male. Non credo che le farebbe del male.»
«Già, probabilmente no» replicò Amos. Intinse nuovamente il tampone
nel liquido detergente e cominciò a lucidare una stecca metallica che aveva
una molla tutto intorno.
«Ho davvero bisogno di essere lì» esclamò Prax. Non disse: ‘Ogni minuto
che passiamo qui è un minuto in cui potrebbero fare del male a Mei. In cui
potrebbe morire, o essere spedita chissà dove.’ Cercò di impedire che le sue
parole sembrassero un lamento o una pretesa, e invece l’effetto fu
esattamente quello.
«Prepararsi è la parte più noiosa» spiegò Amos, come se concordasse su
qualcosa. «Non vorresti altro che andare subito lì, subito al sodo, cazzo. E
farla finita.»
«Be’, sì» ammise Prax.
«Ti capisco» disse Amos. «Non è per nulla divertente, ma bisogna farlo.
Se devi andare lì senza l’equipaggiamento pronto, tanto vale non andarci
affatto. In più, ormai da quant’è che è scomparsa, la bambina?»
«Dagli scontri armati. Da quando lo specchio è collassato.»
«Le possibilità che un’altra ora sia determinante sono piuttosto esigue,
no?»
«Ma...»
«Già» riconobbe Amos con un sospiro. «Lo so. Questa è la parte più dura.
Non quanto quella in cui dovrai aspettare il nostro ritorno, però. Quella sarà
anche peggio.»
Amos posò il tampone e cominciò a sistemare la lunga molla nera sul
fuso di metallo lucido. Le esalazioni alcoliche della soluzione detergente
pizzicavano gli occhi di Prax.
«Io sto aspettando voi» disse Prax.
«Già, lo so» rispose Amos. «E mi accerterò che facciamo il più
rapidamente possibile. Il capitano è proprio un brav’uomo, ma a volte gli
succede di farsi distrarre. Lo terrò concentrato. Nessun problema.»
«No» disse Prax. «Non intendevo che sto aspettando che voi andiate ad
aprire quella porta. Intendo che vi sto aspettando ora. Sto aspettando per
andare lì con voi.»
Amos fece scivolare la molla e il fuso nel corpo della pistola, torcendoli
delicatamente con la punta delle dita. Prax non sapeva dire quand’è che si
fosse alzato in piedi.
«In quante sparatorie sei stato?» chiese Amos. Il suo tono era basso,
distaccato ma gentile. «Perché io ne ho attraversate... cazzo. Questa sarà la
mia undicesima. Forse la dodicesima, se conti separatamente quella volta in
cui il tizio si è rialzato. Il punto è questo: se vuoi che la tua bambina sia al
sicuro, non vuoi che si trovi in un tunnel con un tizio che spara senza sapere
che cosa sta facendo.»
Come a mettere un punto finale al suo discorso, Amos richiuse il carrello
della pistola. Il metallo scattò in posizione.
«Starò bene» disse Prax, ma si sentì tremare le gambe quando tentò di
alzarsi. Amos prese la pistola dal tavolo.
«È pronta a sparare?» chiese.
«Come, scusa?»
«Se prendessi questa pistola, ora, la puntassi contro uno dei cattivi e
premessi il grilletto, sparerebbe? Mi hai appena osservato mentre la
assemblavo. È pericolosa o sicura?»
Prax aprì la bocca, poi la richiuse. Una fitta appena sotto lo sterno
peggiorò di una tacca. Amos fece per posare l’arma sul tavolo.
«Sicura» disse Prax.
«Ne sei sicuro, doc?»
«Non hai caricato alcun proiettile. È sicura.»
«Ne sei certo?»
«Sì.»
Amos si accigliò guardando la pistola.
«Be’, sì. È così» disse. «Ma non puoi comunque venire con noi.»
Delle voci giunsero dallo stretto corridoio che portava al portellone
pressurizzato. Quella di Jim Holden non era come Prax si era aspettato.
Aveva pensato che sarebbe dovuta essere seria, grave. E invece, anche
durante momenti come quello, quando la pressione gli tagliava le vocali e
serrava la sua voce, in lui c’era sempre una certa leggerezza. Quella della
donna – Naomi, non Cassandra – non era più profonda, ma più scura.
«I numeri sono questi» disse lei.
«Sono sbagliati» replicò Holden, chinandosi per entrare nella mensa.
«Devono essere sbagliati. Non ha alcun senso.»
«Che si dice, capitano?» chiese Amos.
«Il corpo di sicurezza non ci sarà di alcun aiuto» rispose Holden. «Gli
agenti locali sono già troppo sotto pressione nel tentativo di impedire che
questo posto collassi nella catastrofe più incontrollata.»
«Ragion per cui, forse, sarebbe meglio non andare con i fucili spianati»
disse Naomi.
«Per favore, possiamo evitare di riparlarne adesso?»
Lei strinse le labbra e Amos fissò ostinatamente la pistola, lucidando le
parti che già brillavano. Prax ebbe l’impressione di essere arrivato nel mezzo
di una conversazione molto più lunga.
«Un uomo che prima estrae l’arma e poi parla...» osservò Naomi. «Non
eri così, prima. Non sei così.»
«Be’, oggi ho bisogno di essere così» replicò Holden con un tono che
metteva un punto alla discussione. Il silenzio che seguì fu imbarazzato.
«Che cosa c’è che non va con i numeri?» chiese Prax. Holden lo guardò
confuso. «Hai detto che c’era qualcosa che non andava con i numeri.»
«Indicano che la percentuale di mortalità sta salendo. Ma dev’esserci un
errore. Lo scontro a fuoco è durato, quanto... Un giorno? Un giorno e mezzo?
Perché mai le cose dovrebbero peggiorare, ora?»
«No» ribatté Prax. «Sono giusti. È l’effetto a cascata. Peggioreranno
ancora.»
«Che cos’è l’effetto a cascata?» chiese Naomi. Amos rimise la pistola
nella sua custodia e tirò fuori un’altra custodia, più lunga della prima. Forse
un fucile. Aveva lo sguardo fisso su Prax, in attesa.
«È l’ostacolo fondamentale di ogni ecosistema artificiale. In un normale
ambiente evolutivo, esiste sufficiente biodiversità per fare da cuscinetto al
sistema quando accade un evento catastrofico. È la natura. Eventi catastrofici
accadono in continuazione. Ma niente di ciò che possiamo costruire ha una
tale ampiezza. Se una cosa va storta, abbiamo solo un certo numero di scelte
compensatorie possibili. Si genera una situazione di stress. Si perde
l’equilibrio. Quando la soluzione successiva cede, rimangono ancor meno
scelte possibili, e lo stress del sistema aumenta di conseguenza. È un sistema
complesso semplice. Questa è la dicitura tecnica. Poiché è semplice, è incline
a essere soggetto all’effetto a cascata; e, poiché è complesso, non è possibile
prevedere che cos’è che genererà l’errore d’innesco. O come succederà. Da
un punto di vista computazionale, è impossibile farlo.»
Holden si appoggiò alla parete, a braccia conserte. Era ancora strano
vederlo di persona. Sembrava uguale a com’era stato sullo schermo, ma
diverso.
«La Stazione di Ganimede» disse Holden «è il centro agricolo e di risorse
alimentari più importante al di fuori della Terra e Marte. Non può collassare
così. Non lascerebbero che accada. La gente viene qui per far nascere i propri
figli, per l’amor di dio.»
Prax inclinò la testa. Il giorno prima, non sarebbe stato in grado di
spiegarlo. Tanto per cominciare, non aveva abbastanza zuccheri nel sangue
per alimentare un pensiero coerente. E poi, non avrebbe avuto nessuno a cui
dirlo. Era bello essere di nuovo in grado di pensare, anche se era soltanto per
spiegare quanto fosse tremenda la situazione attuale.
«Ganimede è morta» disse Prax. «I tunnel probabilmente sopravvivranno,
ma le strutture ambientali e sociali sono già allo sbando. Quand’anche
riuscissimo a ripristinare i sistemi ambientali – e, in effetti, non sarà possibile
senza una mole titanica di lavoro – quante persone resteranno qui, ora? In
quanti dovrebbero finire in carcere? Qualcosa riempirà il vuoto, ma non sarà
ciò che c’era prima.»
«Per via dell’effetto a cascata» disse Holden.
«Già» riprese Prax. «È quello che stavo cercando di dire prima. Ad
Amos. Sta per andare tutto in pezzi. Gli aiuti umanitari renderanno la caduta
un po’ meno rovinosa, forse, ma è troppo tardi. È troppo tardi e, visto che
Mei è là fuori, e non sappiamo che cosa cederà ora, devo per forza venire con
voi.»
«Prax» disse Cassandra. No. Naomi. Forse il suo cervello non era ancora
tornato del tutto a pieno regime.
«Strickland e quella donna, anche se pensano di poterla tenere al sicuro...
non possono farlo. Capite? Anche se non le stessero facendo del male, anche
se non lo stanno facendo, intorno a loro sta per andare tutto in pezzi. E se
finissero l’ossigeno? E se non capissero che cosa sta succedendo?»
«So che è dura» intervenne Holden. «Ma gridare non ci sarà d’aiuto.»
«Non sto gridando. Non sto gridando. Vi sto solo dicendo che mi hanno
portato via la mia bambina, e che devo andare a riprenderla. Devo essere lì
quando aprirete quella porta. Anche se lei non c’è. Anche se è morta, devo
essere io quello che la troverà.»
Il rumore fu nitido e professionale, e stranamente bello: un caricatore che
scivolava in una pistola. Prax non aveva visto Amos prenderlo dalla scatola,
ma il pezzo di metallo scuro era nella manona dell’uomo. Sembrava piccolo
tra le sue dita. Mentre Prax lo guardava, Amos incamerò un colpo. Poi prese
la pistola dalla canna, facendo attenzione a puntarla verso la parete, e gliela
porse.
«Ma pensavo che...» osservò Prax. «Hai detto che non ero...»
Amos allungò il braccio di un altro centimetro. Il gesto era
inequivocabile. Prendila. Prax la prese. Era più pesante di quanto non
sembrasse.
«Ehm... Amos?» disse Holden. «Gli hai per caso appena dato una pistola
carica?»
«Il dottore ha bisogno di andare, capitano» rispose Amos stringendosi
nelle spalle. «Per cui credo che, probabilmente, debba andare.»
Prax vide lo sguardo che passò tra Holden e Naomi.
«Forse sarà il caso che riparliamo di questo processo decisionale, Amos»
intervenne Naomi, scegliendo attentamente le parole.
«Ci puoi scommettere» rispose Amos. «Non appena saremo tornati.»
Prax aveva attraversato la stazione per settimane come nativo, come uno
del posto. Come un rifugiato senza alcun luogo in cui poter fuggire. Si era
abituato all’aspetto che avevano ora i corridoi, a come gli occhi delle persone
scivolavano via da lui per evitare che scaricasse loro addosso il suo fardello.
Adesso che Prax era nutrito, armato ed era in gruppo, la stazione era
diventata un posto differente. Gli occhi della gente continuavano a scivolare
via, ma la paura era diversa, contrastata dalla fame. Holden e Amos non
avevano addosso il grigiore della malnutrizione o quell’aria tormentata che
cerchiava gli occhi di chi non vedeva altro che immutabile collasso intorno a
sé. Naomi era giù alla nave, infiltrata nel sistema di sicurezza locale e pronta
a coordinarli tutti e tre nel caso in cui fossero stati costretti a separarsi.
Per la prima volta, forse in tutta la sua vita, Prax si sentì come uno
straniero. Osservò la sua città natale e vide ciò che Holden doveva vedere: un
enorme corridoio coperto da colori e tinture fin su, in alto, sulle pareti di
ghiaccio; la parte bassa, che la gente poteva accidentalmente toccare, era
coperta da uno spesso cappotto isolante. Il ghiaccio snudato di Ganimede era
in grado di strappare via la carne dalle ossa al minimo contatto fisico. Il
corridoio era troppo scuro, ora, le luci cominciavano a cedere. Un ampio
tunnel che Prax aveva attraversato tutti i giorni quando andava a scuola era
ormai una camera scura, riempita dai rumori di un lento gocciolio mentre il
sistema di climatizzazione perdeva giri. Le piante che non erano già morte
stavano morendo, e l’aria in fondo alla sua gola aveva quel sapore stantio che
significava che i riciclatori d’emergenza si sarebbero accesi presto. Che
avrebbero dovuto accendersi presto. E sarebbe stato meglio che l’avessero
fatto.
Holden aveva ragione, però. Le persone disperate, dal viso smunto, che
superavano erano state esperti di alimentazione e tecnici agrari, specialisti
dello scambio gassoso e personale di supporto agricolo. Se la Stazione di
Ganimede fosse morta, l’effetto a cascata non si sarebbe fermato qui. Una
volta salpato l’ultimo carico di cibo, la Fascia, il sistema gioviano e la
miriade di basi a lungo termine impegnate nelle loro orbite attorno al sole
avrebbero dovuto trovare un altro modo di procacciare vitamine e
micronutrienti per i loro bambini. Prax cominciò a chiedersi se le basi sui
pianeti più lontani sarebbero state in grado di sostentarsi. Se avessero
impianti completamente idroponici e coltivazioni di lievito e niente fosse
andato storto...
Si stava distraendo. Stava cercando di aggrapparsi a qualunque cosa pur
di sfuggire alla paura di ciò che avrebbe trovato ad aspettarlo dietro quella
porta. Prese la sua paura e l’abbracciò.
«Fermi! Tutti voi, fermi lì!»
La voce era cupa, rozza e umida, come se le corde vocali che la
generavano fossero state strappate fuori e trascinate nel fango. L’uomo si
piantò nel mezzo dei tunnel ghiacciati che si incrociavano di fronte a loro,
con indosso una corazza della polizia di due taglie troppo piccola che faticava
a contenere la sua massa corporea. Dall’accento e dalla statura, si capiva che
era marziano.
Amos e Holden si fermarono, si voltarono e guardarono ovunque tranne
che verso l’uomo che avevano di fronte. Prax seguì i loro sguardi. Intorno a
loro spuntarono altri uomini, mezzi nascosti tra le ombre. Il panico
improvviso che li attanagliò aveva un sapore di rame.
«Ne conto sei» disse Holden.
«E il tipo con i pantaloni grigi?» chiese Amos.
«Okay, forse sette. Quello ci sta dietro da quando abbiamo lasciato la
nave, però. Potrebbe trattarsi di qualcos’altro.»
«Sei è comunque più di tre» disse Naomi nelle loro orecchie. «Volete che
invii dei rinforzi?»
«Accidentaccio. Abbiamo dei rinforzi?» chiese Amos. «Pensi di mandare
Supitayaporn per fargli fare una ramanzina mortale?»
«Possiamo farli fuori» intervenne Prax, allungando una mano verso la
pistola nella sua tasca. «Non possiamo permettere che nessuno...»
La manona di Amos si richiuse sulla sua, tenendo la pistola nella sua
tasca e non in vista.
«Questi non sono quelli a cui bisogna sparare» spiegò il meccanico. «Con
questi ci devi parlare.»
Holden fece un passo verso il marziano. La noncuranza della sua posa
faceva sembrare quasi innocuo il fucile d’assalto che portava pigramente
appoggiato alla spalla. Anche la costosa corazza che indossava non sembrava
cozzare con il suo sorriso disinvolto.
«Ehi» disse Holden. «C’è qualche problema, signore?»
«Potrebbe esserci» biascicò il marziano. «O potrebbe non esserci.
Dipende da voi.»
«Propendo per il non esserci» replicò Holden. «Ora, se vuole scusarci,
abbiamo da...»
«Vacci piano, bello» disse il marziano, avanzando lentamente. Il suo viso
somigliava in maniera vaga a qualcuno che Prax aveva visto spesso nel tubo e
non aveva mai notato in modo particolare. «Non siete di queste parti, vero?»
«Io sì» rispose Prax. «Sono il dottor Praxidike Meng. Capo botanico del
progetto agricolo della RMD-Southern. Lei chi è?»
«Lascia parlare il capitano» intervenne Amos.
«Ma...»
«Ci sa fare, con queste cose.»
«Ho l’impressione che facciate parte delle squadre di aiuto» disse il
marziano. «Siete parecchio lontani dai moli. Sembra che vi siate persi.
Magari avete bisogno di una scorta che vi accompagni in un posto più
sicuro.»
Holden spostò il proprio peso. Il fucile d’assalto era scivolato in avanti di
qualche centimetro, senza alcun intento provocatorio.
«Non saprei» disse Holden. «Siamo piuttosto ben protetti. Credo che
potremmo tranquillamente cavarcela da soli. Comunque sia, quale sarebbe la
tariffa per la vostra, ehm... scorta?»
«Be’... siete in tre. Facciamo un centinaio, in moneta marziana. Cinque,
in locale.»
«E se invece vi proponessi di seguirci, e in cambio vi organizzassi un
passaggio per schiodare da questa palla di ghiaccio?»
Il marziano rimase a bocca aperta.
«Non è divertente» disse, ma la maschera di spavalderia e sicurezza era
già caduta. Prax aveva visto la fame e la disperazione che celava.
«Sono diretto verso un vecchio sistema di tunnel» spiegò Holden.
«Qualcuno ha rapito un gruppo di bambini appena prima che tutto andasse a
rotoli. Li hanno portati lì. La bambina del dottore è una di quelli che sono
stati portati via. Stiamo andando a riprenderla, e a chiedere gentilmente come
facevano a sapere che sarebbe successo tutto questo. Potremmo incontrare un
po’ di resistenza. Potrebbe farmi comodo avere con me un po’ di gente che sa
da che parte si impugna una pistola.»
«Mi stai coglionando» replicò il marziano. Con la coda dell’occhio, Prax
vide uno degli altri fare un passo avanti. Una donna pelle e ossa con indosso
una cappa protettiva da due soldi.
«Siamo dell’APE» dichiarò Amos, poi fece un cenno del capo verso
Holden. «Lui è James Holden, della Rocinante.»
«Porca puttana» esclamò il marziano. «Sei lui. Sei Holden.»
«Colpa della barba» disse Holden.
«Io mi chiamo Wendell. Lavoravo per la Pinkwater Security prima che
quei bastardi se ne andassero, lasciandoci qui. Per come la vedo io, la cosa
rende nullo il contratto. Se volete ingaggiare un po’ di potenza di fuoco
professionale, non troverete niente di meglio sul posto.»
«In quanti siete?»
«Sei, incluso me.»
Holden guardò Amos. Prax sentì il meccanico stringersi nelle spalle tanto
quanto lo vide. L’altro uomo di cui avevano parlato, dopotutto, non aveva
niente a che fare con questa storia.
«E va bene» disse Holden. «Abbiamo cercato di parlare con la sicurezza
locale, ma non ci hanno dato retta. Seguitemi, dateci man forte, e vi do la mia
parola che vi porterò via da Ganimede.»
Wendell fece un gran sorriso. Si era fatto colorare uno degli incisivi di
rosso, con sopra una decorazione bianca e nera.
«Agli ordini, capo» esclamò. Poi, alzando il fucile: «In formazione!
Abbiamo un nuovo contratto, gente. Diamoci una mossa!»
Furono circondati da grida di esultanza. Prax si trovò accanto la donna
pelle e ossa, che gli sorrideva e gli stringeva la mano come se si stesse
candidando alle presidenziali. Prax sbatté le palpebre e le restituì il sorriso, e
Amos posò una mano sulla spalla del dottore.
«Visto? Te l’avevo detto. Ora diamoci una mossa.»
Il corridoio era più scuro di quanto non fosse sembrato nel video. Il
ghiaccio presentava sottili rivoli sciolti, come vene pallide, ma il gelo che li
ricopriva era fresco. La porta era simile a un centinaio di altre porte che
avevano superato venendo fin lì. Prax deglutì. Sentiva una fitta allo stomaco.
Avrebbe voluto gridare il nome di Mei, chiamarla e sentire un suo grido di
risposta.
«Okay» disse Naomi nel suo orecchio. «Ho disabilitato la serratura.
Quando siete pronti...»
«Niente è meglio del presente» rispose Holden. «Apri.»
La guarnizione attorno al portellone sibilò.
La porta si aprì.
15

Bobbie
Tre ore dopo l’inizio del grande incontro tra i diplomatici marziani e
quelli delle Nazioni Unite, avevano appena terminato di fare le presentazioni
di ogni membro partecipante ed erano passati alla lettura del programma. Un
terrestre tarchiato con indosso un abito grigio carbone che costava
probabilmente più dell’armatura da ricognizione di Bobbie continuava a
dilungarsi sulla sezione 14, sottosezione D, argomenti da 1 a 11, in cui si
sarebbe discusso degli effetti delle passate ostilità sul prezzo delle derrate
secondo gli accordi commerciali preesistenti. Bobbie si guardò intorno, notò
che tutti i presenti al lungo tavolo di quercia fissavano rapiti il lettore, e
ricacciò indietro l’ epico sbadiglio che chiedeva a gran voce di essere lasciato
libero.
Si distrasse cercando di calcolare chi fosse chi. Erano stati tutti presentati
per nome e per titolo, a un certo punto, ma non è che significasse un granché.
Erano tutti assistenti di segreteria, sottosegretari, o direttori di qualcosa.
C’erano perfino alcuni generali, ma Bobbie sapeva abbastanza di come
funzionava la politica per capire che i rappresentanti militari presenti in sala
erano i personaggi meno importanti. Quelli che avevano maggior potere se ne
stavano zitti e in disparte, con titoli apparentemente poco prestigiosi. Ce
n’erano diversi, incluso un uomo con il viso tondo come una luna e una
cravatta sottile che era stato presentato come il segretario di chissà che cosa.
Accanto a lui c’era una nonna con indosso un sari dal colore vivace,
un’accesa chiazza gialla nel bel mezzo di tutto quel marrone scuro, blu scuro
e grigio carbone. Se ne stava seduta a sgranocchiare pistacchi con un
enigmatico mezzo sorriso. Bobbie si distrasse per qualche minuto cercando di
indovinare se il capo tra i due fosse Faccia di Luna o la nonnetta.
Considerò l’idea di versarsi un bicchier d’acqua da uno dei decanter di
cristallo che erano stati equamente distribuiti lungo il tavolo. Non aveva sete,
ma girare il bicchiere, versarsi dell’acqua e bere un sorso avrebbe bruciato un
minuto, forse perfino due. Diede un’occhiata intorno al tavolo e notò che
nessuno stava bevendo. Forse aspettavano che qualcuno lo facesse per primo.
«Faremo una breve pausa» disse l’uomo con l’abito grigio carbone.
«Dieci minuti, dopodiché passeremo alla sezione 15 del programma.»
Gli astanti si alzarono e cominciarono a disperdersi verso i bagni e le
zone fumatori. La nonnetta portò la borsa fino a un punto di riciclo e la
svuotò dei gusci di pistacchio. Faccia di Luna tirò fuori il terminale palmare e
chiamò qualcuno.
«Cristo» disse Bobbie, strofinandosi gli occhi con i palmi delle mani fino
a vedere delle stelline luminose.
«C’è qualche problema, sergente?» chiese Thorsson, chinandosi sulla
sedia e sorridendo. «La gravità le sta dando fastidio?»
«No» rispose Bobbie. Poi rettificò. «Be’, sì. Ma più che altro sarei
disposta a piantarmi uno stilo in un occhio, pur di cambiare passo alla
faccenda.»
Thorsson annuì e le diede una pacca sulla mano, una cosa che ora faceva
più spesso. Non era diventato un gesto meno irritante e paternalistico, ma
adesso Bobbie stava cominciando a preoccuparsi che potesse significare che
Thorsson stesse cercando di provarci con lei. Sarebbe stata una situazione
decisamente scomoda.
Sottrasse la mano e si chinò verso Thorsson finché lui non si voltò per
guardarla negli occhi.
«Perché» gli chiese sussurrando «nessuno sta parlando del dannatissimo
mostro? Non è per questo che sono... che siamo qui?»
«Deve capire come funzionano queste faccende» disse Thorsson,
distogliendo lo sguardo e tornando ad armeggiare con il suo terminale. «La
politica si muove con cautela perché la posta in gioco è molto alta, e nessuno
vuole essere quello che ha mandato tutto a puttane.»
Posò il terminale palmare e le rivolse l’occhiolino. «Intere carriere sono
in gioco, qui.»
«Carriere...»
Thorsson si limitò ad annuire e picchiettò ancora un po’ sul suo terminale.
Carriere?
Per un istante, Bobbie si ritrovò prona, con gli occhi fissi nel vuoto pieno
di stelle di Ganimede. I suoi uomini erano morti, o stavano morendo. La sua
radio era morta, la sua corazza era un sarcofago di ghiaccio. Vide il volto
della cosa. Senza tuta nel vuoto spinto e radioattivo, con il sangue congelato
che gli cadeva dagli artigli come una nevicata rossa. E nessuno, a quel tavolo,
era disposto a parlarne perché poteva avere qualche ripercussione sulla
propria carriera?
Al diavolo.
Quando i partecipanti al summit furono tornati in sala ed ebbero ripreso
posto attorno al tavolo, Bobbie alzò la mano. Si sentì vagamente ridicola,
come una studentessa di quinta elementare in una stanza piena di adulti, ma
non aveva idea di quale fosse il protocollo normativo per chiedere il
permesso di fare una domanda. Il relatore del programma le indirizzò
un’occhiata annoiata, poi la ignorò. Thorsson allungò una mano sotto il
tavolo e le strinse forte la gamba.
Lei tenne la mano alzata.
«Chiedo scusa» disse.
Le persone intorno al tavolo la squadrarono con occhiate sempre più
infastidite una dopo l’altra, per poi tornare a distogliere lo sguardo da lei.
Thorsson aumentò la stretta sulla sua gamba finché Bobbie non ne ebbe
abbastanza di lui e gli afferrò il polso con la mano libera. Strinse finché non
sentì le ossa scricchiolare, e lui tirò via la mano con un sussulto di sorpresa.
Thorsson voltò la sedia verso di lei e la fissò, con gli occhi sgranati e la bocca
chiusa in una linea stretta e piatta.
La donna con il sari giallo posò una mano sul braccio del relatore, e
quello smise immediatamente di parlare. Okay, quella è il capo, decise
Bobbie.
«Non so voi, ma io» disse la nonnetta, sorridendo come a scusarsi con la
sala «sarei curiosa di sentire che cosa ha da dire la sergente Draper.»
Si ricorda il mio nome, pensò Bobbie. Interessante.
«Sergente?» la apostrofò la nonnetta.
Bobbie, non sapendo bene come comportarsi, si alzò in piedi.
«Mi stavo solo chiedendo perché nessuno abbia ancora parlato del
mostro.»
Il sorriso enigmatico tornò sul viso della nonnetta. Nessuno disse niente.
Il silenzio iniettò adrenalina nelle vene di Bobbie. Si sentì le gambe che
cominciavano a tremare. Avrebbe voluto tornare a sedersi più di ogni altra
cosa al mondo, fare sì che potessero tutti dimenticarsi di lei e toglierle gli
occhi di dosso.
Si accigliò e irrigidì le ginocchia.
«Avete presente» disse Bobbie, alzando la voce senza riuscire a
impedirselo «il mostro che ha ucciso cinquanta soldati su Ganimede? Il
motivo per cui siamo tutti qui?»
La sala rimase in silenzio. Thorsson la fissava come se avesse perso la
testa. E forse era così. La nonnetta tirò una volta il suo sari giallo e le sorrise
in modo incoraggiante.
«Voglio dire» riprese Bobbie, prendendo il programma «sono certa che
gli accordi commerciali e i diritti di sfruttamento idrici e a chi tocchi scoparsi
chi durante il giovedì successivo al solstizio d’inverno siano questioni di
fondamentale importanza!»
Si fermò per fare un lungo respiro; la gravità e la sua invettiva
sembravano averla privata di ossigeno. Lo vedeva nei loro occhi. Vedeva
che, se si fosse fermata ora, avrebbe rappresentato soltanto un evento strano
da derubricare senza scossoni e tutti sarebbero potuti tornare al lavoro per
dimenticarla in fretta. Vedeva la sua carriera che si andava a schiantare giù da
una scogliera in fiamme.
Scoprì che non le importava.
«Ma» disse, scagliando il programma dall’altra parte del tavolo, dove un
uomo sorpreso in abito marrone lo schivò come se il toccarlo avrebbe potuto
infettarlo con qualsiasi fosse il morbo che aveva colpito Bobbie «che cazzo
ne è del mostro?»
Prima che potesse continuare, Thorsson scattò dalla sua poltrona.
«Vi prego di scusarmi, signore e signori. La sergente Draper è in preda a
un chiaro episodio di stress postraumatico da combattimento, e ha bisogno di
cure.»
La prese per un gomito e la portò fuori dalla stanza, con una crescente
ondata di mormorii che le premevano alle spalle. Thorsson si fermò nell’atrio
della sala conferenze e attese che le porte si richiudessero alle loro spalle.
«Tu» disse Thorsson, spingendola verso una poltroncina. Normalmente,
quell’ufficiale rinsecchito non sarebbe stato in grado di spingerla da nessuna
parte, ma le gambe di Bobbie sembravano aver perso ogni forza, e lei crollò a
sedere.
«Tu» ripeté. Poi, rivolgendosi a qualcuno sul suo terminale, disse:
«Venga giù, immediatamente.»
«Tu» ripeté una terza volta, puntando l’indice contro Bobbie, poi
cominciò a camminare avanti e indietro davanti alla poltroncina.
Pochi minuti dopo, il capitano Martens arrivò di corsa nell’atrio della sala
conferenze. Si fermò quando vide Bobbie accasciata sulla poltroncina e il
viso adirato di Thorsson.
«Che cosa...» cominciò a dire, ma Thorsson lo interruppe.
«Questa è colpa sua» rinfacciò a Martens, poi si voltò per guardare
Bobbie. «E lei, sergente, ha appena dato prova del fatto che è stato un errore
colossale averla portata qui con noi. Qualsiasi beneficio avremmo potuto
trarre dal disporre dell’unico testimone oculare è stato appena gettato alle
ortiche dal suo... pistolotto demenziale.»
«Lei...» cercò di dire Martens, ma Thorsson gli piantò un dito sul petto e
aggiunse: «Lei aveva detto che sapeva come controllarla.»
Martens rivolse a Thorsson un sorriso triste.
«No, non l’ho mai detto. Ho detto che sapevo come avrei potuto aiutarla,
se me ne fosse stato dato il tempo.»
«Non importa» ribatté Thorsson, agitando una mano. «Salirete entrambi
sulla prima nave per Marte, dove potrete spiegarvi di fronte a una
commissione disciplinare. E ora toglietevi dalla mia vista.»
Si voltò sui tacchi e scivolò di nuovo nella sala conferenze, aprendo la
porta quel tanto che bastava per far passare il suo corpo esile.
Martens si sedette sulla poltroncina accanto a Bobbie e fece un lungo
sospiro.
«Allora» disse. «Che succede?»
«Ho appena distrutto la mia carriera?» chiese lei.
«Può darsi. Come si sente?»
«Mi sento...» iniziò, rendendosi conto di quanto avesse voglia di parlare
con Martens, e provando rabbia per quell’impulso. «Sento di aver bisogno di
una boccata d’aria.»
Prima che Martens potesse protestare, Bobbie si alzò e si diresse verso gli
ascensori.
Il complesso delle Nazioni Unite era una città in tutto e per tutto. Per
trovare una via di uscita da lì le ci volle quasi un’ora. Lungo il percorso,
Bobbie si muoveva come un fantasma attraverso il caos e l’energia di quel
luogo di governo. La gente la superava di fretta nei lunghi corridoi, parlando
energica a crocchi o attraverso i terminali palmari. Bobbie non era mai stata a
Olympia, dov’era situato l’edificio del Congresso marziano. Aveva assistito a
qualche minuto di sessioni congressuali sul canale governativo quando si era
discussa una questione che le stava a cuore, ma, paragonato all’attività che
c’era qui alle Nazioni Unite, il Congresso marziano era piuttosto sottotono.
Le persone all’interno di quel complesso di edifici governavano trenta
miliardi di cittadini e centinaia di milioni di coloni. A confronto, i quattro
miliardi di Marte le sembrarono improvvisamente ben poca cosa.
Su Marte era un fatto generalmente accettato che quella della Terra fosse
una civiltà in declino. Cittadini pigri, viziati, che vivevano di sussidi
governativi. Politici grassi e corrotti che si arricchivano a spese delle colonie.
Un’infrastruttura degradata che spendeva quasi il trenta percento del suo
prodotto totale in sistemi di riciclo per evitare che la popolazione affogasse
nella propria sporcizia. Su Marte, la disoccupazione era virtualmente
inesistente. L’intera popolazione era impegnata, direttamente o
indirettamente, nel più grande sforzo ingegneristico della storia dell’umanità:
la terraformazione di un pianeta. Questo dava a tutti uno scopo, una visione
condivisa del futuro. Tutt’altra cosa rispetto ai terrestri, che vivevano soltanto
in attesa del prossimo sussidio governativo e della prossima visita dal
farmacista o ai centri d’intrattenimento.
O, perlomeno, questo era quel che si diceva. Tutt’a un tratto, Bobbie non
ne fu più così sicura.
Alla fine, dopo varie consultazioni ai chioschi informativi sparsi per tutto
il complesso, riuscì a individuare un’uscita. Una guardia annoiata le rivolse
un cenno del capo mentre la superava, e poi fu fuori.
Fuori. Senza tuta.
Cinque secondi più tardi si ritrovò a picchiare sulla porta, che si rese
conto essere soltanto d’uscita, nel disperato tentativo di rientrare. La guardia
ebbe pietà di lei e spinse la porta per farla passare. Lei corse dentro e crollò
sul divanetto più vicino affannata e in iperventilazione.
«Prima volta?» le chiese la guardia, sorridendo.
Bobbie si trovò incapace di parlare, ma annuì.
«Marte o Luna?»
«Marte» rispose lei, una volta ripreso fiato.
«Già, lo sapevo. Sono le cupole, sa? La gente che è abituata a vivere sotto
le cupole va un po’ nel panico. I cinturiani danno completamente di matto. E
intendo completamente. Certe volte ci tocca rispedirli a casa imbottiti di
calmanti per evitare che continuino a gridare.»
«Già» disse Bobbie, ben contenta di lasciar sproloquiare la guardia
mentre lei si riprendeva. «Bella storia.»
«L’hanno portata dentro quando era buio?»
«Già.»
«Lo fanno spesso, con i fuorimondisti. Aiuta con l’agorafobia.»
«Già.»
«Le lascio la porta socchiusa. Nel caso avesse bisogno di tornare di
nuovo.»
Il fatto che l’uomo supponesse che lei avrebbe fatto un altro tentativo gli
fece guadagnare immediatamente la simpatia di Bobbie, e lei alzò gli occhi
sulla guardia per la prima volta. Era un terrestre basso ma con la pelle
bellissima, così scura da sembrare quasi blu. Aveva una struttura compatta,
atletica, e degli adorabili occhi grigi. Le sorrideva senza traccia di scherno.
«Grazie» disse lei. «Bobbie. Bobbie Draper.»
«Chuck» rispose lui. «Guardi a terra, e poi pian piano alzi gli occhi verso
l’orizzonte. Qualsiasi cosa faccia, non guardi subito in avanti.»
«Credo di potercela fare, stavolta, Chuck. Ma grazie comunque.»
Chuck diede una rapida occhiata alla sua uniforme e disse: «Semper fi,
soldato.»
«Oohrah» replicò Bobbie con un sorriso.
Durante la seconda uscita, Bobbie fece come le aveva raccomandato
Chuck e guardò a terra per qualche istante. Questo l’aiutò a ridurre quella
soverchiante sensazione di sovraccarico sensoriale. Ma soltanto un minimo.
Un migliaio di odori diversi le investirono l’olfatto, in competizione per
imporsi. Il ricco aroma delle piante e del terreno che si sarebbe aspettata in
una cupola giardino. Olio e metallo rovente da un’officina. L’ozono dei
motori elettrici. Tutti quegli odori la colpirono nello stesso istante, l’uno
sull’altro e misti a fragranze troppo esotiche da poterle identificare. E i
rumori erano una cacofonia costante. Gente che parlava, macchinari da
costruzione, macchine elettriche, uno shuttle transorbitale che decollava, tutti
insieme e in continuazione. Non c’era da stupirsi che le avessero provocato
un attacco di panico. Già solo le informazioni ricevute da due sensi
minacciavano di sopraffarla. Se ci si aggiungeva anche quel cielo
impossibilmente blu, che si estendeva all’infinito...
Bobbie rimase fuori, con gli occhi chiusi, respirando finché non udì
Chuck che richiudeva la porta alle sue spalle. Ora era obbligata. Voltarsi e
chiedergli di farla rientrare sarebbe stato come ammettere la sconfitta.
Quell’uomo aveva chiaramente servito nel corpo dei marine delle Nazioni
Unite, e Bobbie non aveva intenzione di apparire debole di fronte alla
concorrenza. Diavolo, no.
Quando le sue orecchie e il suo naso si furono abituati a quello
sbarramento di informazioni, Bobbie riaprì gli occhi e fissò il cemento del
marciapiede. A poco a poco, alzò lo sguardo finché non cominciò a vedere
l’orizzonte. Di fronte a lei si estendevano lunghi viali che attraversavano
spazi verdi meticolosamente curati. Oltre il verde, in lontananza, c’era un
muro grigio che doveva misurare almeno dieci metri di altezza, con torrette di
guardia a intervalli regolari. Il complesso delle Nazioni Unite aveva un
sorprendente livello di sicurezza. Si chiese se sarebbe riuscita a uscire da lì.
Ma non c’era bisogno di preoccuparsi. Mentre si avvicinava al cancello
sorvegliato che dava sul mondo esterno, il sistema di sicurezza interrogò il
suo terminale, che confermò il suo status di VIP. Una telecamera sopra il
posto di guardia le scansionò il viso, paragonandolo alla foto sul file di
registro, e verificò la sua identità quando ancora si trovava a più di venti
metri dai cancelli. Allorché raggiunse l’uscita, la guardia scattò in un saluto
irreprensibile e le chiese se aveva bisogno di un passaggio.
«No, sto solo uscendo a fare un giro» rispose lei.
La guardia le sorrise e le augurò una buona giornata. Bobbie s’incamminò
lungo la strada che si allontanava dal complesso delle Nazioni Unite, poi si
voltò e vide due agenti armati del servizio di sicurezza che la seguivano a
discreta distanza. Si strinse nelle spalle e proseguì. Probabilmente qualcuno
avrebbe rischiato di perdere il lavoro, se una VIP come lei si fosse smarrita o
fatta male.
Una volta fuori dal palazzo delle Nazioni Unite, l’agorafobia di Bobbie
allentò la presa. Gli edifici s’innalzavano intorno a lei come pareti di vetro e
acciaio, spostando quel vertiginoso orizzonte abbastanza in alto da non
costringerla a vederlo. Piccole macchine elettriche sfrecciavano lungo le
strade, lasciandosi dietro un ronzio acuto e l’odore di ozono.
E c’era gente dappertutto.
Bobbie era stata a un paio di partite all’Armstrong Stadium su Marte, per
vedere i Red Devils. L’impianto aveva una capienza di ventimila persone.
Dato che i Devils erano solitamente in fondo alla classifica, in genere lo
stadio ne ospitava sempre meno della metà. Quella cifra relativamente
modesta era il maggior numero di umani che Bobbie avesse mai visto nello
stesso posto nello stesso momento. C’erano miliardi di persone su Marte, ma
non c’erano poi molti spazi aperti in cui riunirsi. Giunta a un incrocio, Bobbie
guardò lungo le due strade che sembravano estendersi all’infinito: era sicura
che ci fosse più gente lì, lungo quei marciapiedi, che non a una delle solite
partite dei Red Devils. Cercò di immaginare quante persone potessero essere
in quegli edifici che si innalzavano in picchi vertiginosi da ogni parte attorno
a lei, ma non ci riuscì. Milioni di persone, probabilmente già soltanto negli
edifici e nelle strade che aveva sotto gli occhi.
E, se la propaganda marziana diceva il vero, la maggior parte di quelli che
vedeva in quel momento non avevano un impiego. Cercò di immaginarsi
come fosse non avere alcun posto in particolare in cui doversi trovare in un
giorno qualsiasi della settimana.
Quello che i terrestri avevano scoperto era che, quando la gente non ha
niente da fare, fa bambini. Per un breve periodo, nel XX e nel XXI secolo, la
popolazione era sembrata voler diminuire piuttosto che continuare a crescere.
Più le donne ricevevano un alto livello di istruzione, per poi trovare lavoro, e
più i componenti della famiglia media diminuivano.
Qualche decennio di massiccio decremento dell’impiego aveva invertito
quella tendenza.
Oppure, ancora una volta, questo era soltanto ciò che le avevano
insegnato a scuola. Soltanto lì, sulla Terra, dove il cibo cresceva da sé, dove
l’aria era solamente un prodotto collaterale di qualsiasi pianta, di cui non
serviva avere particolare cura, dove le risorse giacevano copiose nel terreno,
soltanto lì una persona poteva davvero scegliere di non fare niente. C’era
abbastanza surplus creato da quelli che sentivano il bisogno di lavorare da
sfamare il resto dei cittadini. Un mondo non più diviso tra chi aveva e chi non
aveva, ma tra operosi e apatici.
Bobbie si trovò a passare accanto a un bar al livello della strada, e si
sedette a un tavolo.
«Posso portarle qualcosa?» le chiese una ragazza sorridente con i capelli
tinti di blu.
«Che cosa c’è di buono?»
«Facciamo un ottimo tè al latte di soia, se lo gradisce.»
«Sicuro» rispose Bobbie, senza sapere bene che cosa fosse il tè al latte di
soia, ma apprezzando abbastanza le due cose separate da correre il rischio.
La ragazza dai capelli blu scappò via e si mise a chiacchierare con un
altro giovane dietro il bancone, intento a preparare il tè. Bobbie si guardò
intorno, notando che tutti quelli che vedeva lavorare avevano più o meno la
stessa età.
Quando arrivò il suo tè, disse: «Senta, le spiace se le chiedo una cosa?»
La ragazza si strinse nelle spalle, e il suo sorriso fu un invito a proseguire.
«Quelli che lavorano qui hanno tutti la stessa età?»
«Be’» disse lei. «Più o meno. Tutti devono racimolare abbastanza crediti
preuniversitari, dico bene?»
«Non sono di qui» rispose Bobbie. «Me lo spieghi.»
Blu sembrò vederla veramente per la prima volta, osservando la sua
uniforme e le varie mostrine.
«Oh, wow. Marte, giusto? Mi piacerebbe andarci.»
«Sì, è bellissimo. Mi dica di questa faccenda dei crediti.»
«Non li avete su Marte?» chiese la ragazza, sorpresa. «Okay. Allora, se
fai domanda d’iscrizione a un’università, devi avere almeno un anno di
crediti lavorativi. Per dar prova che ti piace lavorare. Sa, non vogliono
sprecare spazio nelle classi per gente che si accontenterà della sopravvivenza
di base, una volta finiti gli studi.»
«Sopravvivenza di base?»
«Sì. Ha presente... sussistenza.»
«Credo di aver capito» rispose Bobbie. «La sussistenza sono i soldi che vi
danno per vivere quando non lavorate?»
«No, niente soldi. Solo le cose basilari, ha presente? Per avere dei soldi
bisogna lavorare.»
«Grazie» disse Bobbie, poi sorseggiò il suo tè mentre Blu trotterellava
verso un altro tavolo. Il tè era delizioso. Doveva ammettere che era
tristemente sensato fare un po’ di selezione preliminare, prima di spendere le
risorse necessarie a educare qualcuno. Bobbie diede istruzione al suo
terminale di pagare il conto, e lo schermo le mostrò il totale dopo aver
calcolato il tasso di cambio. Aggiunse una bella mancia per la ragazza dai
capelli blu che voleva qualcosa di più dalla vita del semplice sostentamento
di base.
Bobbie si chiese se Marte sarebbe diventato così dopo la terraformazione.
Se i marziani non avessero più dovuto lottare ogni singolo giorno per
produrre risorse sufficienti alla propria sopravvivenza, sarebbero diventati
così? Una cultura in cui potevi effettivamente scegliere se dare il tuo
contributo? Le ore di lavoro e l’intelligenza collettiva di quindici miliardi di
umani, gettate via come perdite accettabili per il sistema. Quel pensiero
rattristò Bobbie. Tutti quegli sforzi per arrivare a un punto in cui potessero
vivere a quel modo. Mandando i propri figli a lavorare in un bar per
verificare che fossero adatti a contribuire. E lasciare che vivessero il resto
della loro vita in condizioni di sussistenza, se così non fosse stato.
Ma una cosa era certa: tutto quel correre ed esercitarsi che facevano i
marine marziani a piena gravità era una stronzata. Non c’era verso che Marte
potesse battere la Terra in un conflitto di terra. Potevano inviare ogni singolo
soldato marziano, armato fino ai denti, in una sola città della Terra, e i suoi
cittadini sarebbero bastati a sopraffarli di numero usando soltanto pietre e
bastoni.
Presa nella morsa dell’emozione, all’improvviso sentì un gigantesco peso,
che non sapeva nemmeno di aver portato fino a quel momento, svanirle di
dosso. Thorsson e le sue stronzate non avevano alcuna importanza. La gara a
chi pisciava più lontano con la Terra non aveva alcuna importanza. Fare di
Marte un’altra Terra non aveva importanza, non se questo era ciò verso cui
erano diretti.
Tutto quello che importava era scoprire chi fosse stato a mettere quella
cosa su Ganimede.
Buttò giù l’ultimo sorso di tè e pensò: mi servirà un passaggio.
16

Holden
Oltre la porta si estendeva un lungo corridoio che a Holden sembrava
esattamente uguale a qualsiasi altro corridoio su Ganimede: pareti di ghiaccio
con piastre strutturali isolanti e resistenti all’umidità, con condotti
sottotraccia, un pavimento gommato e illuminazione a LED a spettro completo
per imitare la luce del sole che scendeva a fasci dai cieli blu della Terra.
Potevano essere ovunque.
«Siamo sicuri che sia questo, Naomi?»
«Questo è il corridoio in cui abbiamo visto entrare Mei nel video
dell’hacker» rispose lei.
«Va bene» disse, poi posò un ginocchio a terra e fece segno al suo
esercito improvvisato di fare lo stesso. Quando furono tutti più o meno in
cerchio attorno a lui, disse: «La nostra unità di copertura, Naomi, ha
informazioni sulla struttura di questi tunnel, ma poco altro. Non abbiamo idea
di dove si trovino i cattivi, o se siano ancora qui.»
Prax fece per obiettare, ma Amos lo zittì posandogli una mano pesante
sulla schiena.
«Per cui potremmo rischiare di lasciarci parecchie intersezioni inesplorate
alle spalle. E la cosa non mi piace.»
«Già» intervenne Wendell, il leader della Pinkwater. «Nemmeno a me.»
«Quindi lasceremo una sentinella a ogni intersezione finché non sapremo
dove stiamo andando» replicò Holden, poi aggiunse: «Naomi, inserisci tutti i
loro terminali palmari sul nostro canale. Ragazzi, mettetevi gli auricolari. La
disciplina di comunicazione sarà di non parlare, a meno che io non vi faccia
una domanda diretta, o che qualcuno stia per morire.»
«Ricevuto» rispose Wendell, a cui fece eco il resto della sua squadra.
«Una volta capito con cosa abbiamo a che fare, richiamerò tutte le
sentinelle verso la nostra posizione, se necessario. Altrimenti, saranno la
nostra via d’uscita nel caso in cui ci trovassimo in difficoltà.»
Tutti annuirono intorno a lui.
«Perfetto. Amos aprirà la via. Wendell, coprici le chiappe. Tutti gli altri,
in fila nel mezzo a intervalli di un metro» disse Holden, poi diede una pacca
sul pettorale corazzato di Wendell. «Se facciamo un buon lavoro qui, metterò
una buona parola con la mia gente dell’APE per farvi versare qualche credito
extra sui conti, oltre a portarvi via di qui.»
«Più che giusto» osservò la donna pelle e ossa con l’armatura da due
soldi, prima di caricare un colpo nella sua mitraglietta.
«Okay. Andiamo. Amos, la mappa di Naomi dice che tra cinquanta metri
troveremo un altro portellone pressurizzato, e poi uno spazio di deposito.»
Amos annuì, poi imbracciò l’arma, un pesante fucile automatico con un
grosso caricatore. Aveva diversi altri caricatori con sé, e un discreto numero
di granate appese all’imbragatura della sua corazza marziana. Il metallo
tintinnava appena mentre avanzava. Amos percorse il corridoio a passo
svelto. Holden si diede un’occhiata rapida alle spalle, gratificato nel vedere i
ragazzi della Pinkwater che tenevano il passo e rispettavano le spaziature.
Potevano anche sembrare mezzi morti di fame, ma sapevano che cosa stavano
facendo.
«Cap, c’è un tunnel che viene da destra appena prima del portellone»
disse Amos, fermandosi e posando un ginocchio a terra per esaminare
l’inatteso corridoio.
Sulla mappa non compariva. Il che significava che erano stati scavati
nuovi tunnel dopo che le piante della stazione erano state aggiornate per
l’ultima volta. Modifiche del genere significavano anche che Holden
disponeva di ancora meno informazioni di quanto pensasse. Il che non era un
bene.
«Okay» disse Holden, indicando la donna magra con la mitraglietta. «Tu
sei?»
«Paula» rispose lei.
«Paula, questa è la tua intersezione. Cerca di non sparare a nessuno che
non ti abbia sparato per primo, ma non permettere che qualcuno ti oltrepassi
per nessuna ragione al mondo.»
«Ricevuto forte e chiaro» replicò Paula, e prese posizione tenendo
d’occhio il corridoio laterale con l’arma pronta a sparare.
Amos prese una granata dall’imbragatura e la porse alla donna.
«In caso succedesse qualche casino» disse. Paula annuì e si appoggiò con
la schiena alla parete. Amos, in avanguardia, si mosse verso il portellone
pressurizzato.
«Naomi» chiamò Holden, guardando verso la porta e il suo meccanismo
di chiusura. «Portello pressurizzato, uhm... 223-B6. Aprilo.»
«Ricevuto» replicò lei. Pochi secondi dopo, Holden udì i chiavistelli che
si ritraevano.
«Dieci metri prima della prossima intersezione segnata in mappa» disse
lui, poi osservò i ragazzi della Pinkwater e scelse un uomo dall’aspetto
burbero a caso. «Sarà la tua intersezione, una volta arrivati lì.»
L’uomo annuì e Holden fece un cenno ad Amos. Il meccanico afferrò il
maniglione con la destra e cominciò a contare a ritroso con la sinistra,
partendo da cinque. Holden prese posizione di fronte alla porta, imbracciando
il fucile d’assalto, pronto a sparare.
Quando Amos arrivò a uno, Holden fece un respiro profondo e si
precipitò oltre la porta, non appena Amos la spalancò un secondo dopo.
Niente. Soltanto altri dieci metri di corridoio, fiocamente illuminati dai
pochi LED che non si erano bruciati nei decenni dall’ultima volta che erano
stati usati. Anni di condensa microcongelata avevano intrecciato una trama
sulla superficie delle pareti simile a tante ragnatele pendule. Sembravano
delicate, ma erano mineralizzate e dure come la pietra. A Holden venne in
mente un cimitero.
Amos cominciò ad avanzare verso l’intersezione e il portellone
successivo, puntando l’arma lungo il corridoio. Holden lo seguì, con il fucile
sulla destra mentre lo teneva puntato verso il passaggio laterale; il riflesso di
coprire ogni possibile angolo di ingresso alla propria posizione era diventato
automatico, in quell’ultimo anno.
Il suo anno da sbirro.
Naomi aveva detto che non era fatto così. Holden aveva lasciato la marina
senza mai vedere un combattimento reale, eccezion fatta per le cacce ai pirati
a cui aveva partecipato dal confortevole punto di osservazione della plancia
di comando di una nave da guerra. Aveva lavorato per anni sulla Canterbury,
trasportando ghiaccio da Saturno alla Fascia senza mai doversi preoccupare
di qualcosa che fosse più violento di una rissa scoppiata per noia tra scavatori
di ghiaccio. Lui era il pacificatore, quello che trovava sempre un modo per
calmare la situazione. Quando gli animi s’infiammavano, Holden sapeva
come placarli, o sdrammatizzare, o semplicemente come starsene seduto per
un turno intero ad ascoltare le frustrazioni farneticanti di gente che si sfogava
a proposito di tutto e niente.
La nuova persona che era diventato cercava prima la pistola, poi le parole.
Forse Naomi aveva ragione. Quante navi aveva polverizzato, in quell’anno
dopo Eros? Una dozzina? Di più? Si consolò con il pensiero che fossero tutti
personaggi profondamente malvagi. Sciacalli della peggior specie, che
sfruttavano il caos della guerra e il ritiro della Marina della Coalizione come
un’opportunità per darsi al saccheggio. Il genere di persone che avrebbe
spogliato la tua nave di tutte le parti di valore, rubando anche l’aria e
lasciandoti a soffocare alla deriva. Ognuna di quelle navi che aveva abbattuto
significava probabilmente la salvezza di decine di navi innocenti, centinaia di
vite. Farlo, però, gli aveva portato via qualcosa di cui ogni tanto sentiva la
mancanza.
Ogni tanto, come quando Naomi gli aveva detto: ‘Tu non sei così.’
Se avessero individuato la base segreta in cui era stata portata Mei,
c’erano buone possibilità che si dovesse combattere per poterla salvare.
Holden si trovò a sperare che la cosa lo turbasse, se non altro per provare a sé
stesso che era ancora così.
«Cap? Tutto bene?»
Amos lo fissava.
«Sì» disse Holden. «Ho solo bisogno di un lavoro diverso.»
«Potrebbe non essere il momento più adatto per un cambiamento di
carriera, cap.»
«Non hai tutti i torti» ammise Holden, e indicò verso l’uomo della
Pinkwater che aveva scelto poco prima. «Questa è la tua intersezione. Stesse
istruzioni. Tieni la posizione finché non ti chiamo.»
L’uomo scrollò le spalle e annuì, poi si voltò verso Amos. «Niente
granate per me?»
«Nah» disse Amos. «Paula è più carina di te.» Contò alla rovescia
partendo da cinque, come la volta precedente, e Holden attraversò la porta.
Si era aspettato un altro corridoio grigio e anonimo, e invece dall’altra
parte c’era un grande spazio aperto, con qualche tavolo e vecchie attrezzature
polverose sparpagliate a caso per la sala. Una grossa stampante 3D senza più
resina e parzialmente smontata, qualche minigru industriale, uno di quei
complessi armadietti automatizzati che si trovavano sotto le scrivanie nei
laboratori scientifici e nei reparti medici. La ragnatela mineralizzata copriva
le pareti, ma non le scatole o le apparecchiature. Da una parte era riposto un
cubo con le pareti di vetro, di un paio di metri per lato. Su uno dei tavoli era
impilato un mucchietto di lenzuola, o teli. Dall’altra parte della stanza c’era
un altro portellone chiuso.
Holden indicò l’attrezzatura abbandonata e disse a Wendell: «Vedi se
riesci a trovare un qualche punto di accesso alla rete. Se lo trovi, agganciaci
questo.» Gli consegnò il collegamento di rete arrangiato in fretta e furia da
Naomi.
Amos inviò due dei rimanenti membri della Pinkwater a coprire il
portellone chiuso, poi tornò da Holden e indicò la teca di vetro con il fucile
d’assalto.
«È abbastanza grande per un paio di bambini» disse. «Credi che li
tenessero lì dentro?»
«Può darsi» rispose Holden, spostandosi per esaminarla. «Prax, puoi...»
Holden s’interruppe quando si rese conto che il botanico era andato verso i
tavoli ed era in piedi accanto al mucchietto di stracci. Con Prax accanto a
esso, la prospettiva di Holden cambiò all’improvviso, e di colpo quello non
sembrò più un mucchietto di stracci. Parve molto simile a un corpicino sotto
un lenzuolo.
Prax lo fissava, le sue mani si muovevano verso di esso e poi si ritraevano
di scatto. Tremava con tutto il corpo.
«Questo... questo è...» disse, rivolgendosi a nessuno in particolare,
tendendo la mano e ritraendola di nuovo.
Holden guardò Amos, poi indicò Prax con lo sguardo. Il grosso
meccanico si spostò verso il botanico e gli posò una mano sul braccio.
«Che ne dici di lasciarci dare un’occhiata? Va bene?»
Holden lasciò che Amos accompagnasse Prax qualche passo più in là
prima di spostarsi vicino al tavolo. Quando alzò il lenzuolo per guardare
sotto, Prax fece un rumore secco, come quando si prende fiato prima di
emettere un grido. Holden si spostò in modo da coprire la visuale di Prax.
Sul tavolo giaceva un bambino. Era magrissimo, con una zazzera di
capelli neri scarmigliati e la pelle scura. I suoi vestiti avevano colori accesi:
pantaloni gialli e una maglietta verde con il disegno di un coccodrillo con
delle margherite. Ciò che ne aveva causato la morte non era immediatamente
evidente.
Holden sentì del trambusto alle sue spalle e si voltò; vide Prax con il viso
arrossato, che si dimenava per oltrepassare Amos e arrivare al tavolo. Il
meccanico lo stava trattenendo con un braccio, in una morsa che era a metà
strada tra una presa da wrestling e un abbraccio.
«Non è lei» disse Holden. «È un bambino, ma non è lei. Un bambino.
Quattro, forse cinque anni.»
Quando Amos sentì quelle parole, lasciò andare Prax. Il botanico si
precipitò verso il tavolo, tirando via il lenzuolo e lasciandosi sfuggire un
grido soffocato.
«È Katoa» esclamò Prax. «Lo conosco. Suo padre...»
«Non è Mei» ripeté Holden, posando una mano sulla spalla di Prax.
«Dobbiamo continuare a cercare.»
Prax si scrollò la sua mano di dosso.
«Non è Mei» ripeté ancora Holden.
«Ma Strickland era qui» disse Prax. «Era il loro dottore. Pensavo che, se
era con loro, sarebbero stati...»
Holden non disse niente. Stava pensando la stessa cosa. Se uno dei
bambini era morto, potevano esserlo tutti.
«Pensavo che significasse che li avrebbero tenuti in vita» osservò Prax.
«Ma hanno lasciato morire Katoa. L’hanno semplicemente lasciato morire
così, e l’hanno messo sotto questo lenzuolo. Mi dispiace tanto, Basia...»
Holden afferrò Prax e lo fece voltare. Nel modo in cui immaginava che
avrebbe fatto un poliziotto.
«Quello» disse, indicando il corpicino sul tavolo «non è Mei. Vuoi
trovarla? E allora dobbiamo continuare a muoverci.»
Gli occhi di Prax si erano riempiti di lacrime e le sue spalle sobbalzavano
in singhiozzi silenziosi, ma annuì e si allontanò dal tavolo. Amos l’osservò
attentamente. L’espressione del meccanico era imperscrutabile. Il pensiero gli
venne spontaneo: spero che portare Prax con noi sia stata una buona idea.
Dall’altra parte della stanza, Wendell mandò un fischio e agitò una mano.
Indicò il congegno di accesso alla rete di Naomi collegato a una porta nel
muro e alzò il pollice.
«Naomi, ci sei?» chiese Holden mentre ritirava su il lenzuolo per coprire
il corpo del bambino morto.
«Sì, ci sono» rispose lei, con tono distratto mentre lavorava sui dati in
ingresso. «Il traffico di questo nodo è criptato. Ho già messo la Somnambulist
al lavoro per la decodifica, ma non è nemmeno lontanamente paragonabile
alla Roci. Potrebbe volerci un po’.»
«Continua a provarci» replicò Holden, e fece segno ad Amos. «Se però
c’è traffico sulla rete, significa che qualcuno è ancora qui.»
«Se aspetti un minuto» intervenne Naomi «potrei essere in grado di darvi
accesso alle telecamere di sicurezza e a una pianta dei luoghi più aggiornata.»
«Mandaci quello che puoi, quando puoi, ma non possiamo aspettare.»
Amos raggiunse Holden e si picchiettò il visore del casco. Prax era in
piedi, da solo, davanti al cubo di vetro; lo fissava come se dentro ci fosse
qualcosa da vedere. Holden si aspettava che Amos gli dicesse qualcosa del
botanico, ma il meccanico lo sorprese.
«Hai fatto caso alla temperatura, cap?»
«Già» rispose Holden. «Ogni volta che controllo, i sensori riportano
‘dannatamente freddo’.»
«Sono appena stato accanto alla porta» continuò Amos. «La temperatura
è salita di mezzo grado.»
Holden ci rifletté per un istante, controllando sul suo visore e
tamburellandosi la coscia con la punta delle dita.
«C’è un ambiente nell’altra stanza. La stanno riscaldando.»
«Mi pare probabile» disse Amos, impugnando il grosso fucile automatico
con entrambe le mani e togliendo la sicura.
Holden fece segno al resto della squadra della Pinkwater di raggiungerli.
«A quanto pare abbiamo raggiunto la porzione abitata di questa base. Io e
Amos entreremo per primi. Voi tre» Holden indicò i tre uomini della
Pinkwater che non erano Wendell «seguiteci e copriteci il fianco. Wendell,
paraci le spalle e assicurati che possiamo ritirarci in tutta fretta se le cose
dovessero andar male. Prax...»
Holden si fermò, guardandosi intorno alla ricerca del botanico. L’uomo si
era silenziosamente avvicinato alla porta nella stanza adiacente. Aveva
estratto dalla tasca la pistola che gli aveva dato Amos. Mentre Holden lo
guardava, allungò la mano e aprì la porta, poi l’attraversò deciso.
«Porca puttana» disse il meccanico in tono piatto.
«Merda» esclamò Holden. Poi aggiunse: «Via, via, via» mentre scattava
verso la porta, ormai aperta.
Appena prima di arrivare al portellone, udì Prax esclamare «Che nessuno
si muova» con voce forte ma tremula.
Holden si precipitò nella stanza dall’altra parte, andando a destra mentre
Amos lo seguiva da vicino e prendeva la sinistra. Prax era in piedi pochi passi
oltre la soglia; la grossa pistola nera sembrava un oggetto improbabile nella
sua mano pallida e tremante. L’ambiente era molto simile a quello che si
erano appena lasciati alle spalle, tranne per il fatto che questo ospitava un
piccolo gruppo di persone. Persone armate. Holden cercò di individuare tutto
ciò che poteva essere usato come riparo. Sparse per la stanza c’erano una
mezza dozzina di grosse casse grigie, riempite con attrezzature scientifiche in
vari stadi di smontaggio. Qualcuno aveva messo su una panca il suo
terminale palmare, che diffondeva musica dance. Su una delle casse c’erano
diversi cartoni di pizza aperti, con la maggior parte degli spicchi mancanti,
alcuni dei quali erano ancora tra le mani dei presenti. Holden cercò di
contarli. Quattro. Otto. Una dozzina buona, tutti con gli occhi sgranati e che
si guardavano intorno, pensando a cosa fare.
A Holden sembrò una stanza piena di gente che preparava i bagagli per la
partenza, e che si era concessa una breve pausa per il pranzo. Tranne per il
fatto che le persone in quella stanza avevano tutte una fondina sul fianco e
avevano lasciato il cadavere di un bambino a marcire nella stanza accanto.
«Che nessuno! Si muova!» ripeté Prax, stavolta con più forza.
«Dovreste dargli retta» aggiunse Holden, spostando la canna del suo
fucile in un lento arco, a coprire tutta la stanza. Per rafforzare il concetto,
Amos si avvicinò al tizio più vicino e schiantò con noncuranza il calcio della
sua arma automatica nel costato dell’uomo, facendolo crollare a terra come
un sacco di sabbia bagnata. Holden udì il tramestio dei suoi uomini della
Pinkwater che entravano correndo alle sue spalle e che prendevano posizione
in copertura.
«Wendell» disse Holden, senza abbassare il fucile. «Fammi il favore di
disarmare queste persone.»
«No» replicò una donna dal viso severo, con uno spicchio di pizza in una
mano. «No, non credo proprio.»
«Prego?» chiese Holden.
«No» ripeté la donna, dando un altro morso alla sua pizza. Con la bocca
piena, aggiunse: «Siete soltanto in sette. Soltanto in questa stanza, noi siamo
in dodici. E ce ne sono molti altri, dietro di noi, che accorreranno al primo
sparo. Per cui: no, non potete disarmarci.»
Sorrise compiaciuta a Holden, poi diede un altro morso. Holden poteva
sentire il profumo di una buona pizza al formaggio e peperoni sovrastare
l’onnipresente odore di ghiaccio di Ganimede e la puzza del proprio sudore.
La cosa portò il suo stomaco a mandare un brontolio intempestivo. Prax
puntò la pistola contro la donna, benché la sua mano tremasse a tal punto che
il suo bersaglio probabilmente non si sentiva particolarmente minacciato.
Amos indirizzò un’occhiata a Holden con la coda dell’occhio, come a
chiedere: ‘E ora che facciamo, capo?’
Nella mente di Holden la stanza si trasformò in un dilemma tattico con
uno scatto quasi tangibile. Gli undici potenziali combattenti ancora in piedi
erano separati in tre gruppi. Nessuno di loro indossava corazze visibili. Amos
poteva senz’altro abbattere il gruppo di quattro sulla sinistra con un’unica
sventagliata della sua automatica. Holden era piuttosto sicuro di poter far
fuori i tre che aveva di fronte. Il che ne lasciava altri quattro da gestire per
quelli della Pinkwater. Meglio non contare su Prax.
Terminato il rapido calcolo di possibili perdite, quasi senza volerlo, il suo
pollice fece scattare il fucile da battaglia in modalità automatica.
Tu non sei così.
Merda.
«Tutto questo non è necessario» disse, invece di aprire il fuoco. «Nessuno
deve per forza morire, qui, oggi. Stiamo cercando una bambina. Aiutateci a
trovarla, e usciremo tutti sani e salvi da questa situazione.»
Holden riuscì a indovinare che l’arroganza e la spavalderia della donna
erano soltanto una facciata. Oltre la maschera si nascondeva la
preoccupazione, mentre soppesava le perdite che la sua squadra avrebbe
subìto contro i rischi di negoziare per vedere che cosa ne sarebbe uscito fuori.
Holden le rivolse un sorriso e un cenno del capo per aiutarla a decidere. Parla
con me. Siamo tutta gente razionale, qui.
Ma non tutti lo erano.
«Dov’è Mei?» gridò Prax, spingendo la pistola verso di lei come se il suo
gesto potesse in qualche modo traslarsi attraverso l’aria. «Dimmi dov’è
Mei!»
«Io...» fece per rispondere lei, ma Prax continuò a gridare «Dov’è la mia
bambina?» e armò la pistola.
Come a rallentatore, Holden vide undici mani scattare verso le fondine
alle loro cinture.
Merda.
17

Prax
Nei film e nei videogiochi che costituivano la base della sua
comprensione sulle interazioni tra gente violenta, il gesto di armare una
pistola era più una sorta di punto esclamativo che una minaccia concreta. Un
agente della sicurezza impegnato in un interrogatorio poteva cominciare con
qualche minaccia verbale e schiaffi, ma, allorché armava la pistola,
significava che era giunto il momento di prenderlo sul serio. Non era una
cosa su cui Prax aveva riflettuto più approfonditamente che non su quale
orinatoio usare quando non era l’unico utente del bagno pubblico o su come
salire e scendere da un tubo di trasporto. Era l’innata etichetta della saggezza
infusa. Gridavi, minacciavi, armavi la pistola, e poi si parlava.
«Dov’è la mia bambina?» gridò.
Armò la pistola.
La reazione fu quasi immediata: uno scoppio secco, mozzato, come una
valvola ad alta pressione che cedeva, ma molto più forte. Prax barcollò
all’indietro, lasciandosi quasi sfuggire di mano la pistola. Che avesse sparato
per sbaglio? No, le sue dita non avevano toccato il grilletto. L’aria era
tagliente, acida. La donna con la pizza era scomparsa. Anzi, no, non era
scomparsa. Era a terra. Qualcosa di terribile era accaduto alla sua mascella.
Mentre lui la guardava, la bocca devastata della donna si mosse, come se
stesse cercando di parlare. Prax non udì altro che un gemito acuto. Si chiese
se si fosse rotto i timpani. La donna con la mascella distrutta fece un lungo
respiro tremante, e poi non ne fece altri. Con un certo distacco, Prax notò che
aveva estratto la sua pistola. L’arma era ancora stretta nella sua mano. Non
riuscì a capire quando l’avesse fatto. Il terminale che diffondeva musica
dance cambiò brano, arrivando appena a oltrepassare il ronzio che aveva nelle
orecchie.
«Non sono stato io a sparare» disse. La sua voce sembrava arrivargli
come se si fosse trovato nel vuoto parziale, con l’aria troppo rarefatta per
trasmettere l’energia delle onde sonore. Eppure riusciva a respirare. Si chiese
di nuovo se lo sparo gli avesse perforato i timpani. Si guardò intorno. Erano
spariti tutti. Era rimasto da solo nella stanza. Oppure no, erano dietro
copertura. Gli venne in mente che anche lui avrebbe forse fatto meglio a
mettersi al riparo. Solo che nessuno stava sparando, e non sapeva bene dove
andare.
La voce di Holden sembrò arrivare da molto lontano.
«Amos?»
«Sì, cap?»
«Ti spiace togliergli l’arma, ora?»
«Ci penso io.»
Amos si alzò da dietro una delle casse più vicine alla parete. La sua
corazza marziana aveva una lunga strisciata chiara sul petto e due cerchi
bianchi appena sotto il costato. Amos zoppicò verso di lui.
«Mi dispiace, doc» disse. «Dartela è stato un mio errore. Magari la
prossima volta, va bene?»
Prax fissò la mano aperta dell’omone, poi vi posò cautamente la pistola.
«Wendell?» chiamò Holden. Prax non era ancora certo di dove fosse, ma
gli sembrò più vicino. Probabilmente era soltanto il suo udito che tornava a
funzionare. L’odore acre nell’aria si tramutò in qualcosa di più ramato. A
Prax vennero in mente delle pile di concime inacidito: un lezzo caldo,
organico e snervante.
«Un caduto» disse Wendell.
«Troveremo un medico» replicò Holden.
«Un pensiero carino, ma non servirà» osservò Wendell. «Finiamo la
missione. Li abbiamo beccati quasi tutti, ma due o tre sono riusciti a uscire
dalla porta. Daranno l’allarme.»
Uno dei soldati della Pinkwater si alzò. Aveva il braccio sinistro coperto
di sangue. Un altro giaceva a terra; metà del suo viso era semplicemente
svanita. Poi apparve Holden. Si stava massaggiando il gomito destro, e la
corazza mostrava una nuova scheggiatura sulla tempia sinistra.
«Che cosa è successo?» chiese Prax.
«Hai dato il via a una sparatoria» spiegò Holden. «Okay, procediamo
prima che possano organizzare la difesa.»
Prax cominciò a notare altri corpi. Uomini e donne che poco prima
mangiavano pizza e ascoltavano musica. Erano stati armati, ma gli uomini di
Holden avevano armi automatiche e fucili d’assalto, e alcuni di loro
disponevano anche di quelle che sembravano essere corazze militari. La
differenza di risultato non era stata minima.
«Amos, apri la strada» lo invitò Holden, e l’omone attraversò la porta
verso l’ignoto. Prax fece per seguirlo, e il capo della squadra della Pinkwater
lo prese per un gomito.
«Perché non resta con me, professore?» disse.
«Sì. Io... va bene.»
Dall’altra parte della porta, le stanze cambiavano stile. Si trovavano
ancora chiaramente nei vecchi tunnel di Ganimede. Le pareti avevano ancora
quella ragnatela di ghiaccio mineralizzato, l’illuminazione era costituita da
vecchi alloggiamenti per lampade a LED, e le pareti grigie mostravano punti in
cui il ghiaccio si era sciolto e poi rappreso durante un qualche imprevisto
sbalzo climatico in anni, o decenni, precedenti. Ma attraversare quella soglia
era come passare dal regno dei morti a qualcosa di vivo. L’aria era più calda,
c’era odore di corpi e di terreno fresco, e il profumo tagliente, insidioso di
disinfettante fenolico. L’ampia sala in cui erano entrati avrebbe potuto essere
lo spazio comune di uno qualunque della dozzina di laboratori in cui aveva
lavorato Prax. Tre porte metalliche erano chiuse lungo la parete sul fondo e
una serranda d’acciaio per il carico merci era aperta di fronte a loro. Amos e
Holden si diressero verso le tre porte chiuse; il meccanico le sfondò con un
calcio, una dopo l’altra. Quando la terza si spalancò, Holden gridò qualcosa,
ma le sue parole si persero nel latrato di una pistola e nel fuoco di risposta di
Amos.
I due soldati della Pinkwater rimasti, che non erano Wendell, avanzarono
cautamente, premendo la schiena al muro su entrambi i lati dell’apertura di
carico. Prax fece per seguirli, ma Wendell gli posò una mano sulla spalla,
fermandolo. L’uomo a sinistra della porta si sporse con la testa nell’apertura e
la ritirò di scatto. Una pallottola scavò una striscia sulla parete, nel punto in
cui l’aveva mancato.
«Che cosa mi puoi dare?» chiese Holden, e per un istante Prax credette
che stesse parlando con loro. Gli occhi di Holden erano duri, e il cipiglio
sembrava inciso nella sua pelle. Poi Naomi disse qualcosa che lo fece
sorridere, e soltanto allora apparve stanco e triste. «E va bene. Abbiamo una
pianta parziale dei luoghi. Da lì si entra in una sala aperta. Il pavimento
scende di due metri, con due uscite rispettivamente a ore dieci e a ore una.
Ma è costruita come una fossa, per cui abbiamo un vantaggio di posizione.»
«Il che lo rende un posto decisamente stupido per impostare una difesa,
quindi» osservò Wendell.
Ci furono degli spari, e tre piccoli fori apparvero nel metallo della
serranda di carico. La gente dall’altra parte sembrava piuttosto nervosa.
«Eppure i fatti suggeriscono...»
«Vuoi parlare con loro, cap?» chiese Amos. «O facciamo la cosa più
ovvia?»
Quella domanda significava qualcosa di più di quanto non capisse Prax;
di questo almeno era sicuro. Holden fece per parlare, esitò, e poi annuì in
direzione dell’apertura.
«Chiudiamo questa faccenda» disse.
Holden e Amos si diressero correndo verso la serranda, con Prax e
Wendell alle calcagna. Qualcuno stava gridando ordini nella stanza accanto.
Prax riuscì a cogliere le parole ‘carico pagante’ ed ‘evacuare’, e il cuore gli si
strinse in petto. Evacuare. Non potevano permettere che se ne andasse
nessuno, prima di aver trovato Mei.
«Io ne conto sette» disse uno dei soldati della Pinkwater. «Potrebbero
essere di più.»
«Bambini?» chiese Amos.
«Non ne ho visti.»
«Forse sarà meglio controllare di nuovo» replicò Amos, chinandosi oltre
la porta. Prax trattenne il fiato, aspettandosi di vedere la testa dell’uomo
dissolversi in una pioggia di proiettili, ma Amos si stava già ritirando quando
partirono i primi spari.
«Che cosa abbiamo, allora?» concluse Holden.
«Più di sette» rispose Amos. «Lo stanno usando come punto di strettoia,
ma il tipo ha ragione. O non sanno che cosa stanno facendo, o c’è qualcosa
laggiù che non possono lasciarsi indietro.»
«Per cui o sono dilettanti presi dal panico, o hanno qualcosa di importante
da difendere» disse Holden.
Un barattolo metallico grande quanto un pugno rotolò oltre la soglia,
sferragliando. Amos raccolse la granata con noncuranza e la rigettò oltre la
serranda. La detonazione illuminò la stanza, e lo scoppio fu più forte di
qualsiasi altra cosa Prax avesse mai sentito. Il ronzio nelle sue orecchie
raddoppiò d’intensità.
«Potrebbero essere entrambe le cose» gridò Amos, in tono colloquiale, da
molto lontano.
Nella stanza adiacente, qualcosa andò in frantumi. Giunsero grida di
persone. Prax immaginò dei tecnici come quelli che aveva visto nella stanza
precedente fatti a brandelli dalla loro stessa granata. Uno dei soldati della
Pinkwater si sporse per sbirciare attraverso il velo di fumo. Si udì il verso di
un fucile d’assalto e l’uomo si tirò indietro, tenendosi la pancia. Del sangue
cominciò a sgorgargli tra le dita. Wendell oltrepassò Prax e si inginocchiò
accanto al suo soldato caduto.
«Mi dispiace, signore» si scusò l’uomo della Pinkwater. «Sono stato
avventato. Lasciatemi qui e terrò la retroguardia finché posso.»
«Capitano Holden» disse Wendell. «Se dobbiamo fare qualcosa, sarà
meglio farla in fretta.»
Le grida nell’altra stanza si fecero più forti. Qualcuno emise un ruggito
disumano. Prax si chiese se avevano del bestiame, là dentro. Quel verso
sembrava quasi quello di un toro ferito a morte. Prax dovette lottare contro
l’istinto di tapparsi le orecchie. Poi ci fu un altro rumore fortissimo. Holden
annuì.
«Amos. Ammorbidiscili, poi entriamo.»
«Ricevuto, cap» rispose Amos, posando a terra l’arma. Prese due granate,
tirò via le sicure di plastica rosa, fece rotolare i barilotti oltre l’apertura e
raccolse il fucile da terra. La doppia detonazione fu più profonda di quanto
non fosse stata la prima, ma non altrettanto forte. Ancor prima che l’eco
svanisse, Amos, Holden, Wendell e l’ultimo soldato rimasto si gettarono
attraverso l’apertura, sparando all’impazzata.
Prax esitò. Era disarmato. Il nemico era appena oltre la soglia. Sarebbe
potuto restare lì e occuparsi del ferito. Ma l’immagine che non voleva
lasciare la sua mente era il corpo immobile di Katoa. Il bambino morto era a
non più di un centinaio di metri da lì. E Mei...
Tenendo la testa bassa, Prax attraversò l’apertura. Holden e Wendell
erano alla sua destra, Amos e l’altro soldato alla sua sinistra. Se ne stavano
tutti e quattro accovacciati, con le armi pronte a far fuoco. Il fumo aggredì gli
occhi e le narici di Prax, e i riciclatori d’aria emisero un lamento, sforzandosi
di ripulire l’aria.
«Be’, questa poi» esclamò Amos. «Davvero strano, cazzo.»
La sala era costruita su due livelli: una passerella sopraelevata ampia un
metro e mezzo e un pavimento ribassato, due metri più sotto. Un ampio
passaggio conduceva verso il basso a ore dieci, mentre dall’altra parte si
apriva una porta verso il livello superiore. La fossa sotto di loro era un caos.
Le pareti erano coperte di sangue, che era schizzato fin sul soffitto. Sotto di
loro giacevano a terra diversi cadaveri. Da quel massacro saliva un sottile
velo di fumo.
Avevano usato delle attrezzature per ripararsi. Prax riconobbe una
microcentrifuga, schiantata quasi del tutto fuori dal telaio di contenimento.
Schegge di ghiaccio spesse due dita baluginavano sulla scena della
carneficina. Una vasca di azoto liquido era inclinata da un lato, e l’indicatore
di allarme mostrava che era andata in blocco. Una massiccia macchina per il
blotting – doveva pesare almeno duecento chili – giaceva a un angolo
improbabile, come il giocattolo di un bambino gettato da una parte nell’estasi
del gioco.
«Ma che diavolo di armamentario hai?» chiese Wendell, con voce
stupefatta. Dall’ampio passaggio a ore dieci provennero delle grida e un
rumore di spari.
«Non credo che siamo stati noi» rispose Holden. «Andiamo. A passo
svelto.»
Si calarono nella fossa del massacro. Un cubo di vetro come quello che
avevano già visto se ne stava nel mezzo, impietosamente frantumato. Il
sangue rendeva scivoloso il pavimento sotto i loro piedi. In un angolo c’era
una mano, con la pistola ancora stretta in pugno. Prax distolse lo sguardo.
Mei era lì. Non poteva perdere la concentrazione. Non poteva sentirsi male.
Continuò ad andare avanti.
Holden e Amos guidarono il gruppo verso i rumori di combattimento.
Prax li seguì a passo svelto. Allorché cercò di restare più indietro, lasciando
passare prima Wendell e il suo compatriota, gli uomini della Pinkwater lo
spinsero delicatamente avanti. Prax si rese conto che stavano coprendo la
retroguardia. Nel caso in cui qualcuno gli arrivasse addosso da dietro.
Avrebbe dovuto pensarci.
Il passaggio si apriva ancora, ampio ma basso. Grossi robot industriali da
carico, con gli indicatori ambrati che li dichiaravano inattivi, se ne stavano
parcheggiati accanto a dei bancali di casse da rifornimento ricoperte di
schiuma protettiva. Amos e Holden si spostarono lungo la sala con un’esperta
efficienza che lasciò Prax a bocca aperta. Ma, a ogni svolta che
raggiungevano, a ogni porta che aprivano, si trovò a desiderare che andassero
ancora più veloci. Lei era lì, e lui doveva trovarla. Prima che le facessero del
male. Prima che potesse succedere qualcosa. E, a ogni corpo che trovavano,
la nauseante sensazione che qualcosa fosse già accaduto gli affondava sempre
di più nello stomaco.
Avanzavano rapidamente. Troppo rapidamente. Quando raggiunsero il
fondo – un portellone pressurizzato alto quattro metri e largo almeno sette –
Prax non riuscì a immaginare che ci fosse qualcuno dietro. Amos lasciò
pendere il fucile sul fianco mentre armeggiava con i controlli del portellone.
Holden fissò il soffitto stringendo gli occhi, come se potesse esserci scritto
qualcosa sopra. La terra tremò e fece scricchiolare la base segreta.
«Era un lancio?» disse Holden. «Era un lancio!»
«Già» replicò Amos. «Sembra che abbiano un molo di attracco, là fuori. I
monitor lo mostrano vuoto, però. Qualunque cosa fosse, era l’ultimo treno
per uscire da qui.»
Prax udì qualcuno gridare. Gli ci volle un secondo per rendersi conto che
era lui stesso. Come se stesse guardando il suo corpo muoversi senza di lui, si
precipitò verso le porte di metallo sigillate, picchiandoci sopra con i pugni
chiusi. Lei era lì. Era proprio lì, su quella nave che si stava allontanando da
Ganimede. Riusciva a sentirla, come se avesse uno spago legato al cuore che
a ogni istante lo tirava un po’ di più.
Svenne per un secondo. O forse di più. Quando tornò in sé, era adagiato
sull’ampia spalla di Amos, con la corazza che gli premeva dolorosamente
sulla pancia. Si tirò su spingendo con le mani per vedere il portellone che
indietreggiava a poco a poco dietro di loro.
«Mettimi giù» disse Prax.
«Non posso» replicò Amos. «Il capitano dice...»
Ci fu una sventagliata di mitraglietta, e Amos lasciò cadere Prax a terra,
chinandosi su di lui, con il fucile pronto a sparare.
«Ma che cazzo succede, cap?» chiese Amos.
Prax alzò gli occhi in tempo per vedere il soldato della Pinkwater che
veniva abbattuto, con il sangue che gli fuoriusciva dalla schiena. Wendell era
a terra, intento a rispondere al fuoco verso l’angolo nemico.
«Ci siamo fatti sfuggire qualcuno» disse Holden. «Oppure devono aver
richiamato i loro amichetti.»
«Non sparate» esclamò Prax. «E se fosse Mei? E se l’avessero presa con
loro?»
«Non ce l’hanno, doc» rispose Amos. «Sta’ giù.»
Holden stava gridando, e le parole gli uscivano di bocca troppo rapide per
poterle capire. Prax non sapeva se stesse parlando con Amos, con Wendell,
con Naomi sulla nave, o con lui. Poteva essere con chiunque di loro. Con tutti
loro. Quattro uomini sbucarono dall’angolo, armi alla mano. Avevano le
stesse tute indossate dagli altri. Uno portava dei lunghi capelli neri e il
pizzetto. Un’altra era una donna con la pelle color crema di burro. I due nel
mezzo potevano essere fratelli – avevano gli stessi capelli castani tagliati
corti e il medesimo naso lungo.
Da qualche parte alla destra di Prax, il fucile automatico abbaiò due volte.
Tutti e quattro caddero riversi. Era come la scena di uno di quei programmi di
scherzi televisivi. Otto gambe, segate via in un colpo. Quattro persone che
Prax non conosceva, che non aveva mai incontrato, cadute così. Erano
semplicemente cadute, così. Sapeva che non si sarebbero mai più rialzate.
«Wendell?» disse Holden. «Situazione?»
«Caudel è morto» rispose Wendell. Non sembrava triste. Non sembrava
niente di niente. «Credo di essermi rotto un polso. Qualcuno sa da dove sono
arrivati?»
«No» replicò Holden. «Vediamo di non dare per scontato che fossero da
soli, però.»
Tornarono sui loro passi attraverso quei lunghi, ampi passaggi. Oltre i
corpi di uomini e donne che non avevano ucciso, ma che ormai erano
comunque morti. Prax non tentò di impedirsi di piangere. Non ce n’era
motivo. Se fosse riuscito a continuare a muovere le gambe, a mettere un
piede davanti all’altro, sarebbe stato già abbastanza.
Raggiunsero la fossa insanguinata dopo pochi minuti, o un’ora, o una
settimana. Prax non avrebbe saputo dirlo, e tutte le possibilità sembravano
ugualmente plausibili. I corpi dilaniati puzzavano, il sangue versato si stava
raggrumando in una gelatina viscosa color ribes, le viscere sventrate
liberavano nell’ambiente colonie di batteri solitamente trattenute
dall’intestino. Sulla passerella c’era una donna. Com’era che si chiamava?
Paula. Ecco come si chiamava.
«Perché non sei al tuo posto?» scattò Wendell quando la vide.
«Guthrie ha chiesto rinforzi. Ha detto che era stato colpito al ventre e
stava per svenire. Gli ho portato un po’ di adrenalina e speed.»
«Ben fatto» approvò Wendell.
«Uchi e Caudel?»
«Non ce l’hanno fatta» lo informò Wendell.
La donna annuì, ma Prax vide un’ombra passarle sul viso. Tutti quanti, lì,
stavano perdendo qualcuno. La sua tragedia era soltanto una tra altre decine.
Centinaia. Migliaia. Forse milioni, quando l’effetto a cascata si fosse esaurito
del tutto. Quando la morte aveva questi numeri, cessava di avere un senso.
Prax si appoggiò alla vasca di azoto liquido, prendendosi la testa tra le mani.
Ci era arrivato così vicino. Così vicino...
«Dobbiamo trovare quella nave» disse.
«Dobbiamo ripiegare e fare il punto della situazione» replicò Holden.
«Siamo venuti qui alla ricerca di una bambina scomparsa. Ora abbiamo per le
mani una stazione scientifica sotto copertura che qualcuno stava imballando e
portando via da qui. E un molo di attracco segreto. E un terzo soggetto che
stava combattendo contro questa gente mentre lo facevamo anche noi.»
«Terzo soggetto?» chiese Paula.
Wendell indicò la carneficina.
«Non siamo stati noi» disse.
«Non sappiamo che cosa abbiamo di fronte» osservò Holden. «E, finché
non lo sapremo, dobbiamo ritirarci in buon ordine.»
«Non possiamo fermarci» disse Prax. Non posso fermarmi. Mei è...»
«Probabilmente morta» intervenne Wendell. «La ragazzina è
probabilmente morta. E, se non lo è, è viva da qualche parte che non è
Ganimede.»
«Mi dispiace» esclamò Holden.
«Quel bambino morto,» disse Prax «Katoa. Suo padre ha portato via la
sua famiglia da Ganimede appena ha potuto. Li ha portati in un posto sicuro.
Altrove.»
«Mossa saggia» commentò Holden.
Prax cercò il sostegno di Amos, ma l’omone era intento a curiosare tra le
macerie, evitando scrupolosamente di schierarsi con chicchessia.
«Quel bambino era vivo» disse Prax. «Basia disse che sapeva che suo
figlio era morto, ha fatto i bagagli e se n’è andato, e... quando è salito su
quella nave? Suo figlio era qui. In questo laboratorio. Ed era vivo. Per cui
non venitemi a dire che Mei è probabilmente morta.»
Rimasero tutti in silenzio per un momento.
«Non ditemelo» ripeté Prax.
«Cap?» chiamò Amos.
«Un minuto soltanto» replicò Holden. «Prax, non dirò che so che cosa
stai passando, ma anch’io ho delle persone a cui voglio bene. Non posso dirti
cosa fare, ma permettimi di chiederti – chiederti – di riflettere bene su quale
sia la strategia migliore per te. E per Mei.»
«Cap» disse Amos. «Dico sul serio, dovresti venire a dare un’occhiata.»
Amos era in piedi accanto al cubo di vetro in frantumi. Il fucile gli
pendeva inerte e dimenticato in mano. Holden si accostò all’omone e seguì il
suo sguardo verso il contenitore distrutto. Prax si allontanò dalla vasca di
azoto liquido e li raggiunse. E lì, aggrappata alle pareti di vetro che erano
rimaste in piedi, c’era una rete di sottili filamenti neri. Prax non avrebbe
saputo dire se si trattasse di un polimero artificiale o di una sostanza naturale.
Era una sorta di ragnatela. Aveva una struttura affascinante, però. Allungò
una mano per toccarla e Holden lo afferrò per un polso, strattonandolo via
con tanta forza da fargli male.
Quando Holden aprì bocca, le sue parole erano misurate e calme, il che
non fece che rendere il panico che le sottendeva ancor più spaventoso.
«Naomi, prepara la nave. Dobbiamo andarcene da questa luna. E
dobbiamo farlo subito.»
18

Avasarala
«Che cosa ne pensa?» le chiese il segretario generale dal margine
superiore sinistro del pannello. Sul lato destro, Errinwright era chino in avanti
a pochi centimetri, pronto a intervenire se Avasarala avesse perso la pazienza.
«Ha letto il rapporto, signore» disse dolcemente Avasarala.
Il segretario generale agitò la mano in un cerchio pigro. Era sulla
sessantina, e indossava i decenni con l’eleganza elfica di un uomo libero da
pensieri gravosi. Gli anni che Avasarala aveva passato a costruirsi una
carriera da tesoriere del Fondo Previdenziale dei Lavoratori a governatore
distrettuale della Zona di Interesse Comunitario di Maharshta-Karnataka-
Goa, lui li aveva trascorsi come prigioniero politico in una struttura di
minima sicurezza nella recentemente ricostruita foresta pluviale andina. I
lenti, spietati ingranaggi del potere lo avevano innalzato alla celebrità, e la
sua abilità nel dare l’impressione di essere all’ascolto gli conferiva un’aria
solenne senza l’inconveniente di dover fornire una sua opinione. Se anche un
uomo fosse stato programmato fin dalla nascita per essere il fantoccio
governativo ideale, non sarebbe comunque riuscito a raggiungere la
perfezione incarnata dal segretario generale Esteban Sorrento-Gillis.
«I resoconti politici non catturano mai gli elementi salienti» disse il
pupazzo. «Mi dica che opinione ne ha lei.»
La mia opinione è che non hai letto quei cazzo di rapporti, pensò
Avasarala. Non che me ne possa lamentare. Si schiarì la gola.
«Sono solo esercizi di stile senza una battaglia reale, signore» disse
Avasarala. «I giocatori in campo sono i migliori. Michael Undawe, Carson
Santiseverin, Ko Shu. Si sono portati appresso abbastanza militari da dar
prova di non essere soltanto delle scimmie ammaestrate. Fino a ora, però,
l’unica persona ad aver detto qualcosa di interessante è stata una marine che
avevano portato con loro per fare da soprammobile. Per il resto, stiamo tutti
aspettando che qualcuno dica qualcosa di rivelatore.»
«E che mi dice» il segretario generale fece una pausa e abbassò il tono di
voce «dell’ipotesi alternativa?»
«C’è attività su Venere» rispose Avasarala. «Non sappiamo ancora che
cosa possa significare. C’è stato un massiccio incremento nella presenza di
ferro elementare nell’emisfero nord, durato quattordici ore. Abbiamo anche
registrato una serie di eruzioni vulcaniche. Dato che il pianeta non ha alcun
movimento tettonico, immaginiamo che la protomolecola stia facendo
qualcosa al suo manto geologico, ma non sappiamo dire cosa. I nostri esperti
hanno elaborato un modello statistico che illustra l’output energetico
approssimativo richiesto per i cambiamenti che abbiamo osservato. Il
modello suggerisce che il livello di attività totale sia in crescita del trecento
percento circa all’anno, questo per quanto riguarda gli ultimi diciotto mesi.»
Il segretario generale annuì con espressione seria. Era quasi come se
avesse davvero capito una parte qualunque di ciò che Avasarala gli aveva
appena detto. Errinwright tossicchiò.
«Abbiamo qualche prova che colleghi l’attività su Venere agli eventi di
Ganimede?» chiese.
«Sì» rispose Avasarala. «Un picco energetico anomalo è stato registrato
nello stesso istante in cui avveniva l’attacco su Ganimede. Ma è soltanto un
dato unico. Potrebbe trattarsi di una coincidenza.»
Dal canale del segretario generale giunse la voce di una donna, e lui
annuì.
«Temo che il dovere mi stia chiamando» disse. «Sta facendo un ottimo
lavoro, Avasarala. Dannatamente ottimo.»
«Non riesco a dirle quanto possa significare, detto da lei, signore» replicò
la donna con un sorriso. «Mi licenzierebbe.»
Mezzo istante dopo, il segretario generale abbaiò una risata e agitò il dito
in primo piano prima che il messaggio verde di comunicazione interrotta
riempisse lo schermo al suo posto. Errinwright tornò ad appoggiarsi allo
schienale, premendosi i palmi sulle tempie. Avasarala prese la sua tazza di tè
e la sorseggiò con le sopracciglia alzate e lo sguardo fisso in camera,
invitandolo a dire qualcosa. Il tè non era ancora del tutto tiepido.
«E va bene» disse Errinwright. «Ha vinto.»
«Votiamo la sfiducia contro di lui?»
Errinwright rise, come raramente faceva. Ovunque si trovasse, fuori dalla
sua finestra era buio, per cui era dallo stesso lato del pianeta in cui si trovava
lei. Che da entrambi fosse notte dava a quella riunione un senso di vicinanza
e intimità che aveva più a che fare con la sua spossatezza che con altro.
«Di cosa ha bisogno per risolvere la situazione su Venere?» chiese lui.
«Risolvere?»
«Ho scelto male le parole» disse Errinwright. «Ha tenuto d’occhio Venere
da quando è iniziata tutta questa situazione. Ha mantenuto le cose tranquille
con i marziani. Ha trattenuto Nguyen.»
«L’ha notato, allora?»
«Questi incontri sono arrivati a un punto morto, e non voglio sprecare il
suo talento facendole fare da balia a un’impasse. Abbiamo bisogno di
chiarezza, e ne abbiamo bisogno un mese fa. Chieda pure le risorse di cui ha
bisogno, Chrisjen, e imbrigli Venere o ci metta al sicuro da essa. Le sto
dando carta bianca.»
«Finalmente posso andare in pensione» rispose lei, ridendo. Con sua
sorpresa, Errinwright la prese sul serio.
«Se vuole, ma prima si occupi di Venere. Questa è la questione più
importante a cui ci sia mai stato chiesto di rispondere. Confido in lei.»
«Farò del mio meglio» promise la donna. Errinwright annuì e chiuse il
collegamento.
Avasarala si chinò in avanti sulla scrivania, premendosi le dita sulle
labbra. Era successo qualcosa. Qualcosa era cambiato. O Errinwright aveva
letto abbastanza su Venere da farsi venire la sua piccola dose personale di
strizza, o qualcuno la voleva fuori dal negoziato con Marte. Qualcuno che
aveva abbastanza peso da spingere Errinwright a cacciarla al piano di sopra.
Possibile che Nguyen disponesse di sponsor tanto forti?
Certo, così lei otteneva quel che voleva. Dopotutto aveva detto – ed era
sincera, quando lo aveva fatto – che non poteva rifiutare quel progetto, ma il
successo aveva un retrogusto amaro. O forse stava facendo troppa
dietrologia. Lo sapeva solo dio, quante ore di sonno le mancavano, e la fatica
la rendeva paranoica. Controllò l’ora. Le dieci di sera. Non sarebbe riuscita a
tornare da Arjun, quella sera. Un’altra mattinata passata nei deprimenti
quartieri dei VIP, a bere caffè annacquato e a far finta di essere interessata ai
gusti musicali dell’ultimo ambasciatore della Zona Autonoma del Pashwiri.
Fanculo, pensò. Ho bisogno di un drink.
Il Dasihari Lounge serviva tutti i dipendenti interni al complesso
organismo che erano le Nazioni Unite. Al bancone, giovani portaborse e
commessi si pavoneggiavano sotto i riflettori, ridendo troppo forte e facendo
finta di essere più importanti di quanto non fossero. Era una danza di
accoppiamento appena più dignitosa di quella dei mandrilli, ma tutto
sommato carina, in un modo tutto suo. Roberta Draper, la marine marziana
che era al tavolo quella mattina, era tra loro, con una pinta di birra che
sembrava minuscola tra le sue mani e un’espressione divertita in viso.
Probabilmente lì veniva anche Soren, se non quella sera, in altri momenti. Il
figlio di Avasarala sarebbe probabilmente stato lì, tra loro, se le cose fossero
andate diversamente.
Al centro della sala c’erano tavoli con terminali incorporati per inserire
informazioni cifrate da un migliaio di fonti differenti. Dei diaframmi di
riservatezza impedivano perfino ai camerieri di sbirciare oltre le spalle dei
funzionari di medio livello intenti a cenare mentre continuavano a lavorare.
E, in fondo, c’erano tavoli di legno scuro con sedili in grado di riconoscerla
prima che si sedesse. Se qualcuno al di sotto di un certo rango si fosse
avvicinato troppo, un giovanotto discreto con i capelli perfettamente in ordine
si sarebbe presentato immediatamente per farlo accomodare a un tavolo
diverso, da qualche altra parte, con gente meno importante.
Avasarala sorseggiava il suo Gin tonic mentre i fili delle deduzioni si
tessevano e si ritessevano. Nguyen non poteva avere sufficiente influenza da
metterle contro Errinwright. Che fossero stati i marziani a chiedere che
venisse rimossa dal summit? Cercò di ricordare con chi fosse stata sgarbata e
in che modo, ma non le venne in mente nessun sospetto valido. E se fosse
stato davvero così, che cosa avrebbe potuto farci?
Be’, se non poteva far parte delle negoziazioni con Marte in via ufficiale,
poteva sempre tenersi in contatto su base informale. Avasarala cominciò a
ridacchiare prim’ancora di sapere perché. Prese il bicchiere, segnalò al tavolo
che ora poteva lasciar sedere qualcun altro e si diresse verso il bancone. La
musica consisteva in una serie di morbidi arpeggi in scala tonale
ipermoderna, che riusciva a risultare riposante nonostante tutto. Nell’aria
c’era una traccia di profumi troppo costosi per poter essere portati senza
gusto. Mentre si avvicinava al bar, Avasarala notò le conversazioni arrestarsi
e occhiate fugaci passare da una giovane fonte di ambizione all’altra. La
vecchia signora, s’immaginò che dicessero tra loro. Che cosa ci fa qui?
Si sedette accanto a Draper. La donnona la squadrò. Ci fu un lampo di
riconoscimento nei suoi occhi che faceva ben presagire. Poteva non sapere
chi fosse Avasarala, ma aveva indovinato che cos’era. Era intelligente,
quindi. Perspicace. E, porca puttana, quella donna era enorme. Non era
grassa, solo... grande.
«Posso offrirle un drink, sergente?» chiese Avasarala.
«Temo di averne già bevuti troppi» rispose lei. Un attimo dopo, aggiunse:
«E va bene.»
Avasarala inarcò un sopracciglio, e il barista servì alla marine un altro
bicchiere di quello che aveva bevuto prima senza dire una parola.
«È stata piuttosto impressionante, oggi» disse Avasarala.
«Già» ammise Draper. Sembrava serenamente indifferente alla questione.
«Thorsson mi manderà via. Ho chiuso, qui. Anzi, forse ho chiuso e basta.»
«Mi sembra giusto. Comunque sia, ha fatto quello che volevano da lei.»
Draper la squadrò. Sangue polinesiano, immaginò Avasarala. Forse
samoano. Di un qualche posto in cui l’evoluzione aveva reso le persone simili
a catene montuose. Aveva gli occhi stretti, e in essi c’era una fiamma.
Rabbia.
«Non ho fatto un cazzo.»
«Era qui. È tutto ciò che serviva loro.»
«A che scopo?»
«Vogliono convincermi che il mostro non era loro. Un’argomentazione
che hanno portato a sostegno è stata che i loro soldati – ovvero lei – non ne
sapevano niente. Portandola qui, ci mostrano che non sono spaventati di
portarla qui. Ed è tutto ciò che gli serve. Potrebbe anche starsene seduta
l’intero giorno con un dito nel culo a discutere della regola del fuorigioco.
Per loro andrebbe bene uguale. Lei è soltanto un pezzo da esporre.»
La marine assorbì quelle parole, poi inarcò un sopracciglio.
«Non credo che la cosa mi piaccia» commentò.
«Già. Be’,» disse Avasarala «Thorsson è uno stronzo, ma, se smette di
lavorare con i politici solo per questo, rischia di non avere mai nessun
amico.»
La marine ridacchiò. Poi scoppiò a ridere. Infine, vedendo che Avasarala
la fissava, si calmò.
«Quella cosa che ha ucciso i suoi amici...» disse Avasarala mentre la
marine la guardava negli occhi. «Non era dei miei.»
Draper inspirò bruscamente. Era come se Avasarala avesse appena
toccato un nervo scoperto. Il che aveva senso, visto che era proprio quello
che aveva fatto. La mascella di Draper ruminò per un istante.
«Non era nemmeno dei nostri.»
«Bene. Perlomeno questo l’abbiamo chiarito.»
«Non servirà a niente, però. Non faranno niente. Non parleranno di
niente. A loro non interessa. Lo sa? A loro non interessa, fintantoché possono
proteggere le loro carriere e star certi che la bilancia del potere non pende
dalla parte sbagliata. A nessuno di loro importa un cazzo di cosa fosse
quell’affare o da dove sia venuto fuori.»
Il bar intorno a loro non era silenzioso, ma era meno rumoroso di prima.
Le danze di accoppiamento erano diventate la seconda cosa più interessante
che succedeva al bancone.
«A me importa» replicò Avasarala. «E si dà il caso che mi sia appena
stata data un bel po’ di corda per scoprire che cosa fosse quell’affare.»
Non era del tutto vero. Le era stato accordato un cospicuo budget per
coinvolgere o escludere Venere dalla questione. Ma era comunque qualcosa
di simile, ed era il quadro ideale per quel che voleva ottenere.
«Davvero?» disse Draper. «E che cosa ha intenzione di fare?»
«Per prima cosa, intendo ingaggiarla. Ho bisogno di un contatto con i
militari marziani. E dovrebbe essere lei. Pensa di essere all’altezza del
compito?»
Nessuno, al bar, parlava più con nessuno. Il locale sarebbe anche potuto
essere vuoto. Gli unici suoni erano la musica lounge e la risata di Draper. Un
uomo di una certa età, con indosso un’acqua di colonia ai chiodi di garofano
e cannella, entrò nella sala, attirato da quello spettacolo silenzioso senza
sapere di che si trattasse.
«Sono una marine di Marte» dichiarò Draper. «Di Marte. Lei è delle
Nazioni Unite. Terra. Non siamo cittadine dello stesso pianeta. Non può
ingaggiarmi.»
«Il mio nome è Chrisjen Avasarala. Chieda pure in giro.»
Rimasero in silenzio per un momento.
«Io sono Bobbie» replicò Draper.
«Piacere di conoscerti, Bobbie. Vieni a lavorare per me.»
«Posso pensarci?»
«Ma certo» acconsentì Avasarala, e il suo terminale inviò a Bobbie il suo
numero privato. «A patto che, quando avrai finito di pensarci, verrai a
lavorare per me.»
Una volta tornata negli appartamenti VIP, Avasarala sintonizzò il sistema
sulla musica che Arjun stava probabilmente ascoltando in quello stesso
momento. Se non stava già dormendo. Respinse il bisogno di chiamarlo. Era
già tardi, ed era sufficientemente brilla da diventare sdolcinata. Singhiozzare
nel terminale palmare su quanto amasse suo marito non era qualcosa che
desiderava far diventare un’abitudine. Si tolse il sari e fece una lunga doccia
calda. Non beveva spesso alcol. Solitamente non le piaceva il modo in cui le
ottundeva la mente. Quella notte invece sembrava averla sciolta un po’,
dando al suo cervello quel pizzico di brio in più che le era servito a cogliere
gli agganci necessari.
Draper l’avrebbe tenuta in collegamento con Marte, anche se non con
quella sfacchinata delle negoziazioni giorno dopo giorno. Era un buon inizio.
Ci sarebbero stati altri agganci. Per esempio Foster, del servizio dati. Avrebbe
dovuto cominciare a far passare più lavoro dalle sue parti. Costruire un
rapporto. Andare sparata da lui e cercare di convincerlo che lei fosse la sua
nuova migliore amica soltanto perché gli era capitato di gestire le richieste di
codifica criptata per Nguyen non avrebbe funzionato. Ci sarebbero voluti un
po’ di dolcetti senza impegno. E poi il gancio. Chi altri poteva...
Il suo terminale palmare trillò con un allarme prioritario. Avasarala
chiuse l’acqua e afferrò un accappatoio, avvolgendolo stretto e annodando
due volte la cinta prima di accettare il collegamento. Aveva ben troppi anni
sul groppone per mostrarsi nuda a qualcuno dall’altra parte di un terminale
palmare, a prescindere da quanto avesse bevuto. La richiesta di collegamento
proveniva da qualcuno del servizio di sorveglianza prioritaria. L’immagine
che comparve sullo schermo era quella di un uomo di mezza età con un paio
d’improbabili basette alla vittoriana.
«Ameer! Vecchio cagnaccio. Che cos’hai combinato perché ti facciano
lavorare fino a tardi, la notte?»
«Mi sono trasferito ad Atlanta, signorina» rispose l’analista con un gran
sorriso. Era l’unico che l’avesse mai chiamata signorina. Non gli parlava da
tre anni. «Sono appena tornato dalla pausa pranzo. Ho un rapporto
straordinario destinato a lei. Contattare immediatamente. Ho provato con il
suo assistente, ma non ha risposto.»
«È giovane. Gli capita ancora di dormire, a volte. È una sua debolezza.
Rimani in attesa mentre imposto il protocollo di riservatezza.»
Il momento delle chiacchiere amichevoli era finito. Avasarala si chinò in
avanti, picchiettò due volte il dito sul suo terminale per aggiungere uno strato
di codifica cifrata. L’icona rossa divenne verde.
«Vai» disse lei.
«Viene da Ganimede, signorina. Ha una disposizione permanente su
James Holden.»
«Sì?»
«Si sta muovendo. A quanto pare ha incontrato uno scienziato locale. Un
certo Praxidike Meng.»
«Chi è questo Meng?»
Ad Atlanta, Ameer fece una rapida transizione su un altro file. «Un
botanico, signorina. È emigrato su Ganimede con la sua famiglia quando era
ancora un bambino. Ha studiato lì. È specializzato in ceppi di soia a pressione
parziale e bassa luminosità. Divorziato. Una figlia. Nessuna connessione nota
con l’APE o qualsiasi altra fazione politica riconosciuta.»
«Prosegui.»
«Holden, Meng e Burton hanno lasciato la loro nave. Sono armati e sono
entrati in contatto con un piccolo gruppo di agenti di sicurezza privati.
Pinkwater.»
«Quanti?»
«L’analista locale non lo specifica, signorina. Una piccola forza. Vuole
che invii una richiesta?»
«A che lag siamo?»
Gli occhi color nero-marrone di Ameer baluginarono per un istante.
«Quarantuno minuti e otto secondi, signorina.»
«Metti in pausa la richiesta. Se ho altro da chiedere, le invierò insieme.»
«L’analista locale riporta che Holden ha negoziato con i paramilitari; si
tratta di una rinegoziazione dell’ultimo minuto, o altrimenti l’intero incontro
è stato fortuito. A quanto pare hanno raggiunto un qualche accordo. L’intero
gruppo si è diretto verso un complesso di corridoi in disuso e ha forzato
l’ingresso.»
«Di cosa?»
«Di una porta d’accesso in disuso, signorina.»
«Che cazzo dovrebbe significare? Quanto è grande? Dove si trova?»
«Devo inviare una richiesta?»
«Dovresti andare su Ganimede a prendere a calci nelle palle questa
pallida imitazione di analista locale. Aggiungi una richiesta di chiarimento.»
«Sì, signorina» disse Ameer con il più lieve dei sorrisi sulle labbra. Poi,
all’improvviso, si accigliò. «Abbiamo un aggiornamento. Un istante, prego.»
Quindi l’APE aveva qualcosa su Ganimede. Magari qualcosa che avevano
messo lì loro stessi, o qualcosa che avevano trovato. Ad ogni modo, quella
misteriosa porta rendeva le cose vagamente più interessanti. Mentre Ameer
leggeva e processava il nuovo aggiornamento, Avasarala si grattò il dorso
della mano e rivalutò le proprie posizioni. Aveva creduto che Holden fosse lì
in qualità di osservatore. Come testa di ponte per raccogliere informazioni.
Poteva essere inesatto. Se fosse andato lì per incontrare questo Praxidike
Meng, questo botanico passato completamente inosservato, l’APE poteva già
sapere parecchie cose sul mostro di Bobbie Draper. Se a questo si aggiungeva
il fatto che il capo di Holden era in possesso dell’unico campione noto della
protomolecola, una certa narrazione degli eventi catastrofici su Ganimede
cominciava a prendere forma.
E tuttavia c’erano parecchi buchi, ancora. Se l’APE aveva cominciato a
gingillarsi con la protomolecola, non c’erano stati segni evidenti della cosa. E
il profilo psicologico di Fred Johnson non corrispondeva a quello di possibili
attacchi terroristici. Johnson era uno della vecchia scuola, e l’attacco del
mostro era decisamente nuovo.
«C’è stato uno scontro a fuoco, signorina. Holden e i suoi hanno
incontrato resistenza armata. Hanno impostato un perimetro. L’analista locale
non può avvicinarsi.»
«Resistenza? Ma non avevamo detto che era in disuso? A chi cazzo
stanno sparando?»
«Devo inviare una richiesta?»
«Porca puttana!»
Quaranta minuti luce più in là stava succedendo qualcosa, e lei era lì, in
una camera da letto che non era la sua, cercando di capirci qualcosa
origliando dalla parete. La frustrazione che sentiva era quasi fisica. Le
sembrò di essere schiacciata.
Quaranta minuti in uscita. Quaranta minuti in entrata. Qualunque cosa
avesse detto, qualunque ordine avesse dato, sarebbe arrivato lì con quasi
un’ora e mezza di ritardo su ciò che era chiaramente una situazione in rapida
evoluzione.
«Prendetelo» disse. «Holden, Burton. I loro amici della Pinkwater. E
questo misterioso botanico. Prendeteli tutti. Subito.»
Ameer, ad Atlanta, fece una pausa.
«Se sono in uno scontro a fuoco, signorina...»
«E allora mandate i cani, interrompete lo scontro, e prendeteli. Questa
non è più sorveglianza. Eseguite.»
«Sì, signorina.»
«Contattami appena sarà fatto.»
«Sì, signorina.»
Avasarala osservò il viso di Ameer mentre formulava l’ordine, lo
confermava e lo inviava. Riusciva praticamente a immaginare lo schermo che
aveva davanti, i tasti che premeva. Desiderò che fosse ancora più rapido, che
comunicasse il suo intento alla velocità della luce e che si sbrigassero a
chiudere quella cazzo di faccenda.
«L’ordine è stato inviato. La contatterò non appena avrò notizie
dall’analista locale.»
«Mi trovi qui. Se non prendo la chiamata, prova di nuovo finché non mi
sveglio.»
Avasarala chiuse il collegamento e si sedette. Si sentiva il cervello come
un nugolo d’api. James Holden aveva di nuovo cambiato le carte in tavola.
Quel ragazzo aveva un talento innato per quel genere di cose, ma questo
stesso fatto lo rendeva inquadrabile. Quell’altro tizio, invece, quel Meng, era
spuntato dal nulla. Poteva essere una talpa, un volontario o un cavallo di
Troia inviato lì per attirare l’APE in trappola. Considerò la possibilità di
spegnere la luce per provare a dormire un po’, poi abbandonò l’idea.
Invece, si collegò alla banca dati di ricerca dei servizi segreti delle
Nazioni Unite. Ci sarebbe voluta almeno un’ora e mezza prima di ottenere
qualche notizia. Nel frattempo, aveva intenzione di scoprire chi fosse
Praxidike Meng e perché avesse importanza.
19

Holden
«Naomi, prepara la nave. Dobbiamo andarcene da questa luna. E
dobbiamo farlo subito.»
I filamenti neri si diramavano tutto intorno a Holden, come una ragnatela
scura con lui al centro. Era di nuovo su Eros. Vedeva migliaia di corpi che si
tramutavano in qualcos’altro. Pensava di essere riuscito a fuggire, ma Eros
continuava a tormentarlo. Lui e Miller erano fuggiti, ma si era comunque
ripresa Miller.
E ora era tornata per lui.
«Qual è il problema, Jim?» chiese Naomi dalla distanza degli auricolari
radio nella tuta. «Jim?»
«Prepara la nave!»
«È quella robaccia» disse Amos. Stava parlando con Naomi. «Come
quella di Eros.»
«Cristo, hanno...» riuscì a singhiozzare Holden prima che la paura gli
inondasse la mente, privandolo della parola. Si sentiva martellare il cuore sul
costato come se volesse uscirgli dal corpo, e dovette controllare i livelli di
ossigeno sul suo visore. Aveva l’impressione che non ci fosse abbastanza aria
nella stanza.
Con la coda dell’occhio gli sembrò di vedere qualcosa che strisciava via
sulla parete, come una mano mozzata che lasciava una scia marrone al suo
passaggio. Quando Holden si voltò di scatto e puntò il fucile d’assalto verso
la cosa, quella si rivelò essere una macchia di sangue sotto un pezzo di
ghiaccio scolorito.
Amos gli andò accanto con un’espressione preoccupata sul faccione.
Holden lo scansò con un gesto della mano, poi appoggiò il calcio del fucile a
terra e si appoggiò su una cassa lì accanto per riprendere fiato.
«Forse è meglio uscire da qui» osservò Wendell. Lui e Paula stavano
aiutando ad alzarsi l’uomo che era stato colpito allo stomaco. Il ferito aveva
qualche problema a respirare. Una piccola bolla di sangue gli si era formata
nella narice sinistra, e si gonfiava e si sgonfiava a ogni respiro affannoso che
faceva.
«Jim?» disse Naomi nel suo orecchio, con voce dolce. «Jim, l’ho vista
dalla telecamera di Amos, e so che cosa significa. Sto preparando la nave.
Quel traffico locale criptato è crollato di colpo. Credo che se ne siano andati
tutti.»
«Se ne sono andati tutti» le fece eco Holden.
Quelli che rimanevano della squadra della Pinkwater lo fissarono e la
preoccupazione sui loro volti si trasformò in paura; il terrore di Holden li
stava contagiando anche se non avevano la più pallida idea di cosa fosse quel
filamento. Avrebbero voluto che facesse qualcosa, e lui sapeva di doverlo
fare, ma non riusciva a capire bene cosa fosse. La tela nera gli riempiva la
mente con lampi di immagini, troppo rapide per avere senso, come un video
passato ad alta velocità: Julie Mao nella sua doccia, i filamenti neri che la
circondavano, il suo corpo contorto in un incubo; cadaveri sparpagliati sul
pavimento di un rifugio antiradiazioni; gli infetti che barcollavano come
zombi fuori dai tram su Eros, vomitando bile marrone su quanti stavano loro
intorno, e anche soltanto una goccia di quella sostanza era una sentenza di
morte; i video che catturavano l’orrore che era diventato Eros; un torso
umano, ridotto a una cassa toracica e un braccio solo, che si trascinava
attraverso il panorama infestato dalla protomolecola in qualche
inimmaginabile missione.
«Cap» disse Amos, poi si spostò per toccare il braccio di Holden. Questi
si sottrasse con uno strattone, rischiando quasi di cadere.
Deglutì la saliva densa e acida che gli risaliva in gola e disse: «Okay. Ci
sono. Andiamo. Naomi. Chiama Alex. Ci serve la Roci.»
Naomi non rispose per un istante, poi obiettò. «Ma se il blocco...»
«Subito, cazzo! Naomi!» gridò Holden. «Subito, cazzo! Chiama Alex,
adesso!»
Lei non rispose, ma l’uomo ferito allo stomaco fece un ultimo respiro
affannoso e crollò a terra, trascinando con sé Wendell, ferito anche lui.
«Dobbiamo andare» ingiunse Holden a Wendell, intendendo dire: ‘Non
possiamo aiutarlo. Se restiamo qui, moriremo tutti.’ Wendell annuì ma si
appoggiò su un ginocchio e cominciò a togliere l’armatura leggera dal corpo
del compagno, non comprendendo. Amos tirò fuori il kit medico di
emergenza dall’imbragatura e si chinò accanto a Wendell per cominciare a
lavorare sul ferito mentre Paula li guardava, pallida in volto.
«Dobbiamo andare» disse di nuovo Holden, con l’impulso di afferrare
Amos e di scuoterlo finché non avesse capito. «Amos, fermati. Dobbiamo
andare subito. Eros...»
«Cap,» lo interruppe il meccanico «con tutto il dovuto rispetto, questa
non è Eros.» Prese una siringa dal kit medico e fece un’iniezione all’uomo a
terra. «Niente rifugi antiradiazioni, niente zombi vomitanti melma. Soltanto
quella teca rotta, un sacco di gente morta e quei filamenti neri. Non sappiamo
cosa cazzo sia, ma non è Eros. E non lasceremo indietro questo ragazzo.»
La minima parte razionale rimasta a Holden sapeva che Amos aveva
ragione. E soprattutto, la persona che Holden voleva credere di essere ancora
non avrebbe mai preso in considerazione l’idea di lasciare indietro nemmeno
un perfetto sconosciuto, tantomeno un ragazzo che si era fatto ferire per lui.
Si costrinse a prendere tre lunghi respiri profondi. Prax s’inginocchiò accanto
ad Amos, reggendo il kit medico.
«Naomi» disse Holden, con l’intenzione di scusarsi con lei per averle
gridato contro.
«Alex sta arrivando» rispose la donna, con voce tesa ma non accusatoria.
«È a poche ore da qui. Aggirare il blocco non sarà facile, ma crede di poter
trovare una falla. Dove deve scendere?»
Holden si trovò a risponderle prima di rendersi conto di aver preso una
decisione. «Digli di attraccare al molo della Somnambulist. La sto affidando a
qualcun altro. Vienici incontro al portellone, quando saremo lì.»
Tirò fuori dal taschino dell’imbragatura la chiave magnetica della
Somnambulist e la gettò a Wendell. «Questa vi darà pieno accesso alla nave
su cui salirete. Consideratelo un anticipo per i servizi resi.»
Wendell annuì e mise via la chiave, poi tornò a occuparsi del suo ferito.
L’uomo sembrava respirare.
«Possiamo trasportarlo?» chiese Holden ad Amos, fiero di quanto
sembrasse ferma la sua voce ora, cercando di non pensare al fatto che un
attimo prima era disposto ad abbandonare quell’uomo a morte certa.
«Non abbiamo scelta, cap.»
«E allora che qualcuno lo raccolga da lì» disse Holden. «No, non tu,
Amos. Ho bisogno di te per aprire la strada.»
«Ci penso io» si offrì Wendell. «Con questa mano rotta non riesco a
sparare.»
«Prax. Aiutalo» lo invitò Holden. «Togliamo le tende da questo inferno.»
Si mossero attraverso la base il più velocemente possibile, incontrando un
gruppo con dei feriti. Oltrepassarono gli uomini e le donne che avevano
ucciso entrando e, con maggior paura, quelli che non avevano ucciso. Oltre il
piccolo cadavere immobile di Katoa. Lo sguardo di Prax si attardò sul corpo,
ma Holden lo prese per la giacca e lo spinse verso il portellone.
«Continua a non essere Mei» disse. «Se ci rallenti ti lascio indietro.»
Quella minaccia lo fece sentire come uno stronzo nell’istante in cui lasciò
le sue labbra, ma non era infondata. Trovare la bambina smarrita dello
scienziato aveva smesso di essere una priorità nel momento in cui avevano
scoperto i filamenti neri. E, tanto per essere onesti fino in fondo, lasciarsi alle
spalle lo scienziato significava non essere lì quando avessero trovato la sua
bambina trasformata in un mostro dalla protomolecola, con una melma
marrone che le colava fuori da orifizi con cui non era nata e filamenti neri che
le strisciavano fuori dalla bocca e dagli occhi.
L’uomo della Pinkwater che era rimasto a coprire la loro ritirata si
precipitò per aiutarli a trasportare il ferito senza che gli venisse chiesto. Prax
scaricò il peso della guardia senza dire una parola e si mise dietro a Paula
mentre lei controllava i corridoi più avanti con la sua mitragliatrice pronta a
far fuoco.
Corridoi che erano sembrati noiosi e monotoni quando li avevano
percorsi per entrare, ma che sulla via del ritorno avevano acquisito un’aria del
tutto sinistra. Il tessuto congelato, che a Holden aveva fatto venire in mente
una massa di ragnatele, sembrava ora il sistema venoso di una qualche
creatura vivente. Il fatto che pulsasse doveva essere causato dall’adrenalina,
che gli faceva contrarre gli occhi nervosamente.
Otto rem irradiati da Giove sulla superficie di Ganimede. Perfino con la
magnetosfera, otto rem al giorno. Quanto sarebbe cresciuta in fretta la
protomolecola, lì dentro, con Giove che la riforniva ininterrottamente di
energia? Eros era diventata qualcosa di spaventosamente potente, una volta
che la protomolecola aveva preso piede. Qualcosa che era in grado di
accelerare a velocità incredibili senza sottostare alle leggi dell’inerzia.
Qualcosa che era in grado, se i rapporti dicevano il vero, di alterare
l’atmosfera stessa e la composizione chimica di Venere. Tutto questo, con
poco più di un migliaio di umani a fare da organismo ospite e un milione di
miliardi di tonnellate di massa rocciosa con cui lavorare.
Ganimede aveva dieci volte più umani e molta ma molta più massa di
Eros. Che cosa sarebbe stata in grado di fare, l’antica arma, con tutta
quell’abbondanza?
Amos aprì l’ultimo portellone della base segreta, e l’equipaggio si ritrovò
nuovamente nei tunnel più frequentati di Ganimede. Holden non vide
nessuno che si comportava come se fosse infetto. Niente zombi privi di
volontà che barcollavano attraverso i corridoi. Niente vomito marrone a
ricoprire pareti e pavimento, pieno di quel virus alieno in cerca di organismi
ospiti. Niente scagnozzi mercenari della Protogen che scortavano le persone
nella zona del massacro.
La Protogen non c’è più.
Qualcosa che Holden aveva in un angolino dei suoi pensieri, e di cui non
era stato cosciente fino a quel momento, gli s’impose all’improvviso alla
mente. La Protogen non c’era più. Holden aveva aiutato a farla fuori. Era
nella stanza, quando colui che aveva architettato l’esperimento su Eros era
morto. La flotta marziana aveva bombardato Phoebe fino a polverizzarla, e
quel sottile gas che ne era risultato era stato risucchiato dalla massiccia
gravità di Saturno. Eros si era schiantata nell’atmosfera acida e incandescente
di Venere, dove nessuna nave umana era in grado di arrivare. Era stato lo
stesso Holden a portar via l’unico campione della protomolecola dalla
Protogen.
Per cui, chi era stato a portare la protomolecola su Ganimede?
Holden aveva consegnato il campione a Fred Johnson, affinché lo usasse
come deterrente durante i negoziati di pace. L’Alleanza dei Pianeti Esterni si
era vista riconoscere numerose concessioni, nel caos che aveva seguito la
breve guerra dei pianeti interni. Ma non tutto ciò che voleva. Le flotte dei
pianeti interni in orbita attorno a Ganimede ne erano una prova tangibile.
Fred disponeva dell’unico campione di protomolecola rimasto nel sistema
solare. Perché Holden glielo aveva consegnato.
«È stato Fred» esclamò ad alta voce senza nemmeno accorgersene.
«Che cosa, è stato Fred?» chiese Naomi.
«Tutto questo. Ciò che sta succedendo qui. È stato lui a farlo.»
«No» disse Naomi.
«Per cacciare via i pianeti interni, per testare un nuovo tipo di super arma,
o chissà che cosa. Ma è stato lui.»
«No» ripeté Naomi. «Non possiamo saperlo.»
L’aria nel corridoio si riempì di fumo, e il nauseante lezzo di capelli e
carne bruciati soffocò la replica di Holden. Amos alzò una mano per far
fermare il gruppo, e la squadra della Pinkwater cessò di avanzare e si mise in
posizione difensiva. Amos avanzò lungo il corridoio fino all’incrocio e
guardò alla sua sinistra per diversi istanti.
«Qui è successo qualcosa di brutto» disse alla fine. «Ho una mezza
dozzina di cadaveri, e più gente che sembra far festa.»
«Sono armati?» chiese Holden.
«Oh, sì.»
Quell’Holden che avrebbe cercato di trovare un modo per passare
parlamentando con quella gente, quell’Holden che piaceva a Naomi e che lei
rivoleva, quasi non fece resistenza quando disse: «Liberaci il passaggio.»
Amos uscì dalla copertura e sparò una lunga raffica dal suo fucile
automatico.
«Via libera» esclamò quando gli echi degli spari si furono spenti.
La squadra della Pinkwater raccolse i propri feriti e si affrettò lungo il
corridoio e oltre la scena della battaglia; Prax corse loro dietro a breve
distanza, a testa bassa e agitando le braccia magre. Holden li seguì, notando
con un’occhiata una pila di cadaveri in fiamme al centro di un’ampia
intersezione. Bruciarli doveva essere un messaggio. Non era abbastanza
terribile che si mangiassero a vicenda. Giusto?
C’erano alcuni corpi oltre le fiamme, che finivano di dissanguarsi sul
pavimento di metallo corrugato. Holden non seppe dire se si trattasse
dell’opera di Amos. Il vecchio Holden glielo avrebbe chiesto. Il nuovo
Holden non lo fece.
«Naomi» disse, desideroso di sentire la sua voce.
«Sono qui.»
«Abbiamo qualche problema, qua fuori.»
«Si tratta forse...» Holden percepì l’angoscia nella voce di lei.
«No. Non è la protomolecola. Ma la gente del posto potrebbe essere un
male sufficiente. Sigilla i portelloni» le disse, con le parole che gli venivano
alle labbra senza pensare. «Scalda il reattore. Se ci succede qualcosa, salpa e
incontrati con Alex. Non andate su Tycho.»
«Jim» replicò lei. «Io...»
«Non andate su Tycho. È stato Fred. Non tornate da lui.»
«No» acconsentì lei. Era il suo nuovo mantra.
«Se non siamo lì tra mezz’ora, vai. È un ordine, vicecomandante.»
Almeno lei se la sarebbe cavata, si disse Holden. A prescindere da quel
che fosse accaduto a Ganimede, Naomi ne sarebbe uscita viva. Una visione
da incubo di Julie, morta nella sua doccia, ma con il viso di Naomi, gli balenò
nella mente. Non si aspettava il verso di dolore che gli sfuggì di bocca. Amos
si voltò e guardò nella sua direzione, ma Holden gli fece segno che non era
niente senza dire una parola.
Era stato Fred.
E, se era stato Fred, allora era stato anche Holden.
Holden aveva passato un anno a giocare a fare lo sgherro per i politici di
Fred. Aveva dato la caccia a navi e le aveva abbattute per il grande
esperimento di governo dell’APE di Fred. Questo aveva cambiato l’uomo che
era stato nell’uomo che era ora, perché una parte di lui credeva nel sogno di
Fred di avere i pianeti esterni liberi dal giogo e retti dall’autogoverno.
E intanto Fred aveva pianificato in gran segreto... tutto questo.
Holden pensò a tutto ciò che aveva rimandato solo per aiutare Fred a
costruire il suo nuovo ordine del sistema solare. Non aveva mai portato
Naomi a conoscere la sua famiglia sulla Terra. Non che Naomi avrebbe mai
accettato di andare sulla Terra. Ma Holden avrebbe sempre potuto far volare
la sua famiglia fin su Luna per farli incontrare. Papà Tom avrebbe opposto
resistenza. Detestava viaggiare. Ma Holden non aveva dubbi che, alla fine,
sarebbe riuscito a convincerli tutti, una volta che avesse spiegato loro quanto
Naomi fosse diventata importante per lui.
Dopo aver incontrato Prax, dopo aver visto quanto avesse bisogno di
ritrovare sua figlia, Holden si era reso conto che aveva voglia di sapere che
cosa si provasse. Di sperimentare quella sorta di brama per la presenza di un
altro essere umano. Di presentare un’altra generazione ai suoi genitori. Di
mostrare loro che tutti gli sforzi e le energie che avevano speso per lui erano
stati ben riposti. Che stava trasmettendo qualcosa al futuro. Voleva, più di
ogni altra cosa che avesse mai voluto prima, vedere le loro facce quando
avesse mostrato loro un bambino. Il suo bambino. Il bambino di Naomi.
Fred gli aveva tolto tutto questo, prima facendogli sprecare il suo tempo
come sgherro dell’APE, e ora con il suo tradimento. Holden giurò a sé stesso
che, se fosse riuscito a cavarsela su Ganimede, Fred l’avrebbe pagata cara.
Amos fece ancora fermare il gruppo, e Holden si accorse che erano di
nuovo al porto. Si scosse dal suo sogno a occhi aperti. Non ricordava come
avessero fatto ad arrivare fin lì.
«La via sembra libera» osservò Amos.
«Naomi,» disse Holden «come ti sembra la zona intorno alla nave?»
«Qui pare tutto libero» disse lei. «Ma Alex è preoccupato che...»
La sua voce fu troncata da uno stridio elettronico.
«Naomi? Naomi!» gridò Holden, ma non ricevette risposta. Rivolgendosi
ad Amos, disse: «Via, di corsa verso la nave!»
Amos e la squadra della Pinkwater corsero verso i moli il più
velocemente possibile compatibilmente con le loro ferite e il loro compagno
privo di sensi. Holden coprì le retrovie, imbracciando il fucile d’assalto e
togliendo la sicura mentre correva.
Corsero attraverso i corridoi serpeggianti del settore portuale, con Amos
che disperdeva i pedoni con urlacci e con la minaccia silenziosa della sua
arma automatica. Una vecchia in hijab corse via davanti a loro come una
foglia prima della tempesta. Era già morta. Se la protomolecola era stata
liberata lì, tutti quelli che Holden superava erano morti. Santichai e Melissa
Supitayaporn, e tutta la gente che erano venuti a salvare su Ganimede. Gli
agitatori e gli assassini che erano stati comuni cittadini della stazione prima
che il loro ecosistema sociale crollasse. Se la protomolecola era stata liberata
lì, erano tutti morti.
Ma perché era successo?
Holden respinse quel pensiero. Avrebbe potuto preoccuparsene più tardi –
se ci fosse stato un più tardi. Qualcuno gridò verso Amos, e questi sparò un
colpo verso l’alto. Se la sicurezza portuale esisteva ancora, a parte gli
avvoltoi che tentavano di rubare una fetta di ogni carico in arrivo, i suoi
agenti non cercarono di fermarli.
Quando raggiunsero la nave, il portellone esterno della Somnambulist era
chiuso.
«Naomi, ci sei?» chiese Holden, rovistandosi nelle tasche alla ricerca
della carta di accesso. Lei non rispose, e gli ci volle un momento per
ricordarsi che aveva dato la chiave a Wendell. «Wendell, apri la porta.»
Il leader della Pinkwater non rispose.
«Wendell...» fece per ripetere Holden, poi s’interruppe quando vide che
Wendell stava fissando, con gli occhi sgranati, un punto alle sue spalle.
Holden si voltò e vide cinque uomini – tutti terrestri – in armatura grigia,
anonima, senza insegne. Erano tutti equipaggiati con armi di grosso calibro.
No, pensò Holden. Alzò il fucile e lasciò partire una raffica di fuoco
automatico contro i nuovi arrivati. Tre dei cinque uomini caddero a terra, con
le corazze che si tingevano di rosso. Il nuovo Holden si rallegrò; il vecchio
rimase muto. Non gli importava chi fossero quegli uomini. Agenti di
sicurezza della stazione, militari dei pianeti interni o semplicemente
mercenari residui della base segreta ormai distrutta... Li avrebbe uccisi tutti
piuttosto che lasciare che gli impedissero di portare via il suo equipaggio da
quella luna infetta.
Non vide mai chi aveva sparato il colpo che gli portò via l’appoggio della
gamba. Il momento prima era in piedi, svuotando il caricatore del suo fucile
di assalto sulla squadra di fuoco in corazza grigia, e l’istante dopo una
mazzata colpì l’armatura sulla sua coscia destra, mandandolo a gambe per
aria. Mentre cadeva, vide i due soldati in grigio che erano rimasti crollare
sotto i colpi del fucile automatico che Amos aveva scaricato in un lungo
ruggito assordante.
Holden rotolò su un fianco, cercando di capire se qualcun altro fosse
ferito, e vide che i cinque sul lato erano stati soltanto la metà della squadra
nemica. Gli uomini della Pinkwater alzarono le mani e gettarono le armi
allorché altri cinque soldati in corazza grigia avanzarono nel corridoio alle
loro spalle.
Amos non li vide mai. Lasciò cadere il caricatore esaurito dal suo fucile
automatico e fece per prenderne un altro dall’imbragatura, quando uno dei
mercenari puntò una grossa pistola alla sua nuca e premette il grilletto.
L’elmetto di Amos volò via mentre lui veniva scaraventato in avanti sul
pavimento metallico con un tonfo umido. Il terreno si coprì di sangue nel
punto in cui crollò.
Holden cercò di inserire un nuovo caricatore nel fucile, ma le sue mani si
rifiutavano di cooperare e, prima che potesse ricaricare, uno dei soldati lo
raggiunse e lo disarmò assestando un calcio alla sua arma.
Holden ebbe il tempo di vedere i membri immobili della sua squadra
Pinkwater scomparire in grossi sacchi neri prima che uno di questi gli calasse
sul viso e lo facesse sprofondare nell’oscurità.
20

Bobbie
Alla delegazione marziana era stato assegnato per uso privato un
complesso di uffici nell’edificio delle Nazioni Unite. I mobili erano tutti di
vero legno; i dipinti sulle pareti erano originali, e non stampe. La moquette
profumava di nuovo. Bobbie pensò che o tutti quelli che erano nel campus
delle Nazioni Unite vivevano come re, oppure stavano soltanto dandosi un
gran da fare per impressionare la delegazione marziana.
Thorsson l’aveva chiamata poche ore dopo il suo incontro con Avasarala
al bar, e aveva preteso che l’incontrasse il giorno dopo. Ora Bobbie era in
attesa nell’atrio antistante i loro uffici temporanei, seduta su una poltrona
bergère con cuscini di velluto verde e un telaio in legno di ciliegio che su
Marte le sarebbe costato due anni di stipendio. Uno schermo inserito nella
parete dall’altra parte della sala era sintonizzato su un notiziario con il
volume a zero. In questo modo, il programma si trasformava in un confuso e
occasionalmente macabro scorrere d’immagini: due presentatori seduti a una
scrivania in una sala blu, un grande edificio in fiamme, una donna che
camminava lungo un ampio corridoio bianco facendo gesti a destra e a
manca, una nave da guerra delle Nazioni Unite parcheggiata accanto a una
stazione orbitale con gravi danni a sfigurarne la fiancata, un uomo con la
faccia arrossata che parlava direttamente in camera con lo sfondo di una
bandiera che Bobbie non riconobbe...
Quelle immagini significavano tutto e niente. Poche ore prima, quella
situazione l’avrebbe frustrata. Si sarebbe sentita costretta a cercare il
telecomando per alzare il volume e inserire in un contesto le informazioni che
le stavano lanciando addosso.
Ora lasciò semplicemente che le immagini le fluissero intorno come
acqua di fiume oltre una roccia.
Un giovanotto che aveva visto poche altre volte a bordo della Dae-Jung,
ma che non aveva mai davvero incontrato, si affrettò attraverso l’atrio,
armeggiando furiosamente con lo schermo del suo terminale. Quando arrivò a
metà della sala, disse: «È pronto a riceverla.»
Bobbie ci mise un istante a rendersi conto che il giovanotto stava
parlando con lei. A quanto pareva, il suo status era caduto talmente in basso
da non meritare più nemmeno una comunicazione faccia a faccia. Un’altra
informazione senza importanza. Altra acqua che le fluiva intorno. Si mise in
piedi con un gemito. La sua passeggiata di qualche ora a piena gravità l’aveva
stancata più di quanto non si fosse resa conto il giorno prima.
Fu vagamente sorpresa di scoprire che l’ufficio di Thorsson era uno dei
più piccoli. Questo significava che non gli importava niente del tacito status
trasmesso dalle dimensioni del proprio ufficio, o che era in effetti il membro
meno importante della delegazione ad avere comunque diritto a uno spazio di
lavoro privato. Bobbie non sentì il bisogno di indagare su quale fosse la
verità. Thorsson non reagì al suo ingresso, continuando a tenere la testa china
sul suo terminale palmare. A Bobbie non importava di essere ignorata, o della
lezione che stava cercando di impartirle con il suo comportamento. Le
dimensioni dell’ufficio di Thorsson implicavano che non ci fossero poltrone
per gli ospiti, e il dolore che Bobbie sentiva alle gambe era già una
distrazione sufficiente.
«Potrei aver reagito in maniera eccessiva, ieri» disse lui finalmente.
«Eh?» replicò Bobbie, pensando a dove avrebbe potuto trovare un altro
po’ di quel delizioso tè al latte di soia.
Thorsson alzò lo sguardo verso di lei. La sua faccia stava provando a
mostrare quei suoi resti mummificati di sorriso. «Lasci che sia chiaro. Non
c’è dubbio che lei abbia danneggiato la nostra credibilità con la sua sparata.
Ma, come ha sottolineato Martens, quel che è accaduto è in larga parte una
mia colpa, per non aver compreso la gravità del suo trauma.»
«Ah» disse Bobbie. Alle spalle di Thorsson c’era la fotografia
incorniciata di una città con un’alta struttura metallica in primo piano.
Sembrava una sorta di arcaica piattaforma di lancio. La legenda recitava
Paris.
«Per cui, invece di rimandarla a casa, la terrò qui. Le verrà data
l’occasione di porre rimedio al danno che ha fatto.»
«Perché» domandò Bobbie, fissando Thorsson negli occhi per la prima
volta da quando era entrata «sono qui?»
Lo striminzito sorriso di Thorsson svanì, sostituito da un altrettanto velato
cipiglio. «Prego?»
«Perché sono qui?» ripeté lei, pensando a cosa le sarebbe accaduto dopo
la commissione disciplinare. Pensando a quanto sarebbe stato difficile farsi
riassegnare a Ganimede se Thorsson non l’avesse rispedita su Marte. Se lui
non l’avesse fatto, le avrebbero concesso il permesso di dare le dimissioni?
Di lasciare il corpo dei marine e di comprarsi il suo biglietto di ritorno? Il
pensiero di non essere più un marine la rattristò. La prima sensazione
veramente forte che provava da parecchio tempo.
«Perché mi sta...» fece per dire Thorsson, ma Bobbie lo interruppe.
«Non per parlare del mostro, a quanto pare. Sinceramente, se devo essere
qui per essere esposta come un pezzo da museo, credo che preferirei essere
rimandata a casa. Ho delle cose che dovrei fare...»
«Lei» replicò Thorsson, con voce piccata «è qui per fare esattamente ciò
che io le dico di fare, esattamente quando glielo dico io. È chiaro, soldato?»
«Già» rispose Bobbie, sentendo l’acqua che le passava intorno. Lei era
una pietra. Non la poteva spostare. «Ora devo andare.»
Si voltò e se ne andò, senza che Thorsson riuscisse ad avere l’ultima
parola prima che lei uscisse dalla stanza. Mentre avanzava attraverso gli
uffici verso l’uscita, vide Martens nella zona cucina, intento a versarsi un po’
di latte in polvere nel caffè. Lui la vide nello stesso istante.
«Bobbie» disse. Era diventato molto più informale con lei, negli ultimi
giorni. Solitamente, Bobbie l’avrebbe interpretato come un preludio a un
approccio romantico o sessuale. Con Martens, però, era piuttosto sicura che
fosse soltanto un altro strumento nel suo ‘kit di riparazione per marine rotti’.
«Capitano» disse lei. Si fermò. Sentì la porta di uscita che l’attirava a sé
con una sorta di gravità psichica, ma Martens era sempre stato buono con lei.
E Bobbie aveva lo strano presentimento che non avrebbe mai più rivisto
nessuna di quelle persone. Gli porse la mano e, quando lui la strinse, disse:
«Me ne sto andando. Non dovrà più sprecare il suo tempo con me.»
Lui le rivolse quel suo sorriso triste. «Nonostante non senta di aver
ottenuto alcun risultato, non sento nemmeno di aver sprecato il mio tempo. Ci
lasciamo in amicizia?»
«Io...» fece per dire lei, poi dovette fermarsi per deglutire un groppo che
le era salito in gola. «Spero che la mia decisione non danneggerà la sua
carriera, o qualcosa del genere.»
«La cosa non mi preoccupa» le rispose lui mentre lo superava. Lei era già
oltre la soglia. Non si voltò.
Nel corridoio, Bobbie tirò fuori il terminale e chiamò il numero che le
aveva dato Avasarala. Partì immediatamente la segreteria.
«Va bene» disse. «Accetto l’incarico.»
C’era qualcosa di liberatorio e di terrificante, nel primo giorno di un
nuovo lavoro. In qualunque nuovo incarico, Bobbie aveva sempre avuto la
fastidiosa sensazione di non essere all’altezza del compito, che non avrebbe
saputo come fare ciò che le veniva richiesto di fare, che si sarebbe vestita in
maniera inopportuna o che avrebbe detto la cosa inappropriata, o che tutti
l’avrebbero odiata. A prescindere da quanto potesse essere forte quella
sensazione, però, era offuscata dalla consapevolezza che, insieme a un nuovo
incarico, le veniva data la possibilità di rigenerarsi completamente, come più
le piaceva; che, almeno per un po’, le sue possibilità fossero infinite.
Perfino aspettare che Avasarala si degnasse di notarla non poteva
indebolire quella consapevolezza.
Stare nell’ufficio di quella donna rafforzò l’impressione di Bobbie che gli
uffici in dotazione ai marziani fossero stati pensati per impressionare la
delegazione. La vicesottosegretario era sufficientemente potente da far
trasferire Bobbie da sotto il comando di Thorsson a un ruolo di intermediario
per le Nazioni Unite con una singola telefonata. Eppure il suo ufficio aveva
una moquette scadente che puzzava sgradevolmente di fumo stantio. La sua
scrivania era vecchia e consunta. Niente poltrone in legno di ciliegio. Le
uniche cose che sembravano curate con amore in quella stanza erano i fiori
freschi e il tabernacolo del Buddha.
Avasarala irradiava stanchezza. Aveva dei cerchi neri intorno agli occhi
che non c’erano durante gli incontri ufficiali del giorno precedente e che non
erano stati visibili nella fioca luce del bar dove le aveva fatto la sua proposta.
Seduta alla sua gigantesca scrivania, con indosso un sari di un blu vivace,
sembrava molto piccola, come una bambina che facesse finta di essere
un’adulta. Soltanto i capelli grigi e le rughe di espressione agli angoli degli
occhi rovinavano quell’impressione. All’improvviso, Bobbie se la immaginò
come una bambola scontrosa, che si lamentava mentre i bambini le
muovevano le braccia e le gambe e la costringevano ad andare a bere il tè con
gli animali di pezza. Quel pensiero le fece dolere le guance nel tentativo di
sopprimere un gran sorriso.
Avasarala picchiettò sul terminale che aveva sulla scrivania e sbuffò
irritata. Niente più tè per te, nonna bambola, ne hai avuto abbastanza, pensò
Bobbie, reprimendo una risata. «Soren, hai di nuovo spostato i miei
fottutissimi file. Non riesco più a trovare un cazzo di niente.»
Il giovanotto irrigidito, che aveva fatto entrare Bobbie nell’ufficio e che
poi si era come mimetizzato nella tappezzeria, si schiarì la gola. Bobbie
trasalì. Era più vicino a lei, alle sue spalle, di quanto non si fosse resa conto.
«Signora, mi ha chiesto di spostare alcuni dei...»
«Sì, sì» lo interruppe Avasarala, picchiettando più forte sullo schermo del
terminale, come se così facendo potesse fargli capire meglio quello che
voleva. Qualcosa, in quel gesto, fece venire in mente a Bobbie quelle persone
che cominciavano a parlare più forte allorché cercavano di comunicare con
qualcuno che parlava un linguaggio differente dal loro.
«Okay, eccoli qui» disse Avasarala con tono irritato. «Perché diavolo sei
andato a metterli...»
Picchiettò sullo schermo un paio di altre volte, e il terminale di Bobbie
trillò.
«Questo» riprese Avasarala «è il rapporto con tutte le mie annotazioni
sulla situazione di Ganimede. Leggilo. Oggi. Potrei avere un aggiornamento
più tardi, una volta che avrò terminato di interrogare un ospite.»
Bobbie prese il suo terminale e diede una scorsa veloce ai documenti che
aveva appena ricevuto. C’erano centinaia e centinaia di pagine. Il suo primo
pensiero fu: intendeva davvero dire che devo leggerle tutte entro oggi?
Seguito a ruota da: mi ha davvero appena messo tra le mani tutto quello che
sa? Quello non fece che far sembrare ancora peggiore il modo in cui l’aveva
recentemente trattata il suo governo.
«Non ti ci vorrà molto» continuò il suo nuovo capo. «Non c’è quasi
niente, là dentro. Un sacco di stronzate scritte da consulenti strapagati che
pensano di poter nascondere il fatto di non sapere un cazzo di niente
allungando il brodo.»
Bobbie annuì, ma la sensazione di non essere all’altezza del compito
aveva già cominciato a rivaleggiare con l’eccitazione per quella nuova
opportunità.
«Signora, la sergente Draper ha per caso l’autorizzazione ad accedere...»
domandò Soren.
«Sì. Gliel’ho appena data. Bobbie? Sei autorizzata» disse Avasarala
sovrastando le parole del giovane. «Smettila di rompermi le palle, Soren. Ho
finito il tè.»
Bobbie fece uno sforzo cosciente per non voltarsi a guardare l’assistente.
La situazione era già abbastanza scomoda senza che si facesse pesare anche il
fatto che quel ragazzo fosse stato umiliato davanti a una perfetta sconosciuta
che lavorava lì da esattamente diciassette minuti.
«Sì, signora» rispose Soren. «Ma mi chiedevo se per caso non volesse
avvertire il servizio di sicurezza a proposito della sua decisione di autorizzare
l’accesso alla sergente. A quei funzionari piace essere tenuti al corrente di
questo genere di cose.»
«Miao miao lagna miao miao» replicò Avasarala. «È tutto quello che ti ho
sentito dire.»
«Sì, signora» rispose Soren.
Alla fine Bobbie alzò lo sguardo sui due. Soren stava subendo una sonora
strigliata di fronte a un nuovo membro della squadra che era anche,
tecnicamente, il nemico. La sua espressione non era cambiata. Aveva l’aria di
uno che stesse assecondando una nonnetta rimbecillita. Avasarala fece uno
schiocco impaziente con i denti.
«Non sono stata chiara? Ho forse perso la capacità di farmi capire?»
«No, signora» disse Soren.
«Bobbie? Tu riesci a capire quello che dico?»
«Sì... sì, signora.»
«Bene. E allora uscite dal mio ufficio e mettetevi al lavoro. Bobbie, leggi.
Soren, tè.»
Bobbie si voltò per uscire e trovò Soren che la fissava con il viso
impassibile. Il che era, in un certo senso, più sconcertante di quanto non
sarebbe stato trovarvi una traccia di comprensibile irritazione.
Mentre Bobbie gli passava accanto, Avasarala disse: «Soren, aspetta.
Porta questa a Foster, del servizio dati.» Porse a Soren quella che sembrava
una pennetta di memoria. «Accertati di recapitargliela prima che se ne vada
dall’ufficio.»
Soren annuì, sorrise e prese la pennetta nera dalle mani di Avasarala. «Ma
certo.»
Quando lui e Bobbie ebbero lasciato l’ufficio di Avasarala, e Soren ebbe
richiuso la porta alle loro spalle, Bobbie lasciò uscire un lungo respiro simile
a un fischio e gli sorrise.
«Wow, questo sì che è stato sconcertante. Mi dispiace per...» fece per
dire, ma si fermò quando Soren alzò una mano con gesto noncurante,
dissipando le sue preoccupazioni.
«Non è niente» rispose lui. «Anzi, a dire il vero, oggi è decisamente in
giornata.»
Mentre Bobbie rimaneva lì a fissarlo sbalordita, Soren si voltò e gettò la
pennetta di memoria sulla scrivania, dove scivolò sotto la carta di una
confezione mezza consumata di biscotti. Si sedette e indossò un paio di
cuffie, poi cominciò a scorrere una lista di numeri di telefono sul terminale
del suo desktop. Non diede segno di aver notato che lei era rimasta lì.
«Sai,» disse finalmente Bobbie «io ho solo un po’ di roba da leggere. Per
cui, se sei molto impegnato, posso portare io quella cosa al tipo del servizio
dati. Voglio dire, se sei impegnato con molte altre cose.»
Soren la guardò incuriosito.
«Perché mai dovrei aver bisogno che tu faccia una cosa del genere?»
«Be’,» rispose Bobbie, dando un’occhiata all’orario sul suo terminale
palmare «perché manca poco alle diciotto locali, e non so a che ora chiudiate
i battenti voi da queste parti, per cui ho pensato che...»
«Non ti preoccupare. Il fatto è che il succo del mio lavoro è di tenerla»
fece un cenno del capo verso la porta chiusa «tranquilla e felice. Con lei, ogni
cosa ha la massima priorità. Per cui, niente ha la massima priorità, se capisci
quel che intendo. Lo farò quando va fatto. Fino ad allora, la stronza può
abbaiare un po’, se la rende felice.»
Bobbie si sentì assalire da una gelida sorpresa. No, non era sorpresa. Era
shock.
«L’hai appena chiamata stronza?»
«Come altro la chiameresti, tu?» domandò Soren con un sorriso
disarmante. O la stava prendendo in giro? Che fosse tutto uno scherzo, per
lui... Avasarala, Bobbie, e anche il mostro su Ganimede? Nella sua mente,
Bobbie si figurò un’immagine di lei che tirava via quel piccolo assistente
compiaciuto dalla sua sedia e lo annodava come una cravatta. Le sue mani si
fletterono involontariamente.
Invece, disse: «La signora vicesottosegretario sembrava pensare che fosse
molto importante.»
Soren si voltò per guardarla di nuovo. «Non ti preoccupare, Bobbie. Dico
sul serio. So come fare il mio lavoro.»
Lei rimase lì impalata per un lungo istante.
«Ricevuto forte e chiaro» rispose.
Bobbie fu strappata a un sonno profondo da una musica improvvisa a
tutto volume. Si mise a sedere in un letto sconosciuto, in una stanza quasi
completamente buia. L’unica luce che riusciva a vedere era un bagliore
perlato che pulsava sul suo terminale palmare, dall’altra parte della stanza. La
musica smise di colpo di sembrare una cacofonia insensata e divenne la
canzone che aveva selezionato lei stessa come avviso sonoro per le chiamate
in entrata quando era andata a letto. Qualcuno la stava chiamando. Maledisse
chiunque fosse in tre lingue diverse e cercò di arrancare oltre il letto verso il
terminale.
Il bordo del letto giunse inatteso sotto di lei e la fece cadere a faccia
avanti sul pavimento, mentre il suo corpo ancora mezzo addormentato non
riusciva a compensare la gravità eccessiva della Terra. Riuscì a evitare di
spaccarsi il cranio rimettendoci un paio di dita della mano destra.
Imprecando a voce ancora più alta, Bobbie continuò l’attraversamento
della stanza verso il terminale che continuava a illuminarsi. Quando riuscì
finalmente a raggiungerlo, aprì il collegamento e disse: «Se qualcuno non è
già morto, lo sarà molto presto.»
«Bobbie» replicò la persona dall’altra parte della linea. La mente
annebbiata di Bobbie impiegò qualche istante a situare quella voce. Soren.
Guardò l’ora sul suo terminale e vide che segnava le 04:11. Si chiese se la
stesse chiamando per farle una tirata da ubriaco o per scusarsi. Di certo non
sarebbe stata la cosa più strana che le era capitata nelle ultime ventiquattr’ore.
Bobbie si rese conto che Soren stava ancora parlando, e riportò il
terminale all’orecchio. «...ti aspetta il prima possibile, per cui vieni giù» disse
Soren.
«Puoi ripetere?»
Lui cominciò a parlare lentamente, come se avesse a che fare con una
bambina ritardata. «Il capo vuole che tu venga in ufficio, okay?»
Bobbie guardò di nuovo l’ora. «Adesso?»
«No» rispose Soren. «Domani, al solito orario. Voleva solo che ti
chiamassi alle quattro del mattino per essere sicura che ci saresti stata.»
La fitta di rabbia l’aiutò a svegliarsi del tutto. Bobbie smise di stringere i
denti quel tanto che bastava per dire: «Dille che arrivo subito.»
Barcollò incespicando fino al muro, poi da lì verso un pannello che si
accese al suo tocco. Un secondo tocco fece accendere le luci in tutta la stanza.
Avasarala le aveva fatto assegnare un piccolo appartamento ammobiliato
raggiungibile a piedi dall’ufficio. Non era molto più ampio di un buco in
affitto economico su Ceres. Una grande stanza che fungeva sia da salotto che
da camera da letto, una più piccola con una doccia e un bagno, e un’altra
ancora più piccola che faceva finta di essere una cucina. La sacca da viaggio
di Bobbie se ne stava buttata in un angolo, con poche cose tirate fuori, ma
perlopiù ancora piena della sua roba. Era rimasta sveglia fino all’una di notte
a leggere, e non si era preoccupata di fare altro se non di lavarsi i denti e di
crollare sul letto che scendeva dal soffitto.
Mentre era lì in piedi, osservando la stanza e cercando di svegliarsi,
Bobbie ebbe un improvviso momento di assoluta chiarezza. Fu come se un
paio di occhiali scuri che non sapeva nemmeno di aver indossato le fossero
stati strappati via, lasciandola abbagliata dalla luce. Eccola lì, fuori dal letto
dopo tre ore di sonno, per andare a incontrare una delle donne più potenti
dell’intero sistema solare, e tutto quello che le importava era di non aver
sistemato a dovere la sua stanza e di poter picchiare a morte uno dei suoi
colleghi con il suo stesso calamaio d’ottone. Ah... ed era una marine in
carriera che aveva accettato un incarico di lavoro con quello che al momento
era il peggior nemico del suo governo soltanto perché un capitano dei servizi
segreti della marina era stato scorbutico con lei. Per finire, ma non ultimo,
voleva anche tornare su Ganimede per ammazzare qualcuno, senza però
avere la più pallida idea di chi potesse essere questo qualcuno.
La brusca e limpida visione di quanto la sua vita sembrasse essere uscita
dai binari durò per qualche secondo, poi l’annebbiamento e la mancanza di
sonno ebbero di nuovo il sopravvento, lasciandola soltanto con la snervante
sensazione di essersi dimenticata di fare qualcosa di importante.
Indossò l’uniforme del giorno prima e si sciacquò la bocca, poi uscì
dall’appartamento.
Il modesto ufficio di Avasarala era pieno zeppo di persone. Bobbie
riconobbe almeno tre civili che erano presenti al summit terrestre. Uno di loro
era l’uomo con la faccia rotonda che aveva poi saputo essere Sadavir
Errinwright, il capo di Avasarala e probabilmente il secondo uomo più
potente sulla faccia della Terra. Quando Bobbie entrò, i due erano impegnati
in una fitta conversazione, e Avasarala non si accorse di lei.
Bobbie individuò un crocchio di persone in uniforme militare e fece per
muoversi in quella direzione, finché non vide che erano tutti generali e
ammiragli, e cambiò percorso. Finì accanto a Soren, l’unica persona oltre a
lei a essere da sola nella stanza. Lui non le rivolse nemmeno un’occhiata di
sfuggita, ma c’era qualcosa nella sua postura che sembrava irradiare quel
fascino irritante, potente e ipocrita. Bobbie fu colpita dal pensiero che Soren
fosse il tipo d’uomo che si sarebbe portata a letto se fosse stata
sufficientemente ubriaca, ma di cui non si sarebbe mai fidata per farsi
guardare le spalle in combattimento. Anzi, a pensarci bene, no: non sarebbe
mai stata sufficientemente ubriaca.
«Draper!» esclamò Avasarala a voce alta, dopo aver finalmente notato il
suo arrivo.
«Sì, signora» disse Bobbie facendo un passo avanti, e tutti i presenti in
sala smisero di parlare per osservarla.
«Sei la mia intermediaria» riprese Avasarala, con le borse sotto gli occhi
talmente pronunciate che sembravano più una patologia non diagnosticata
che un sintomo di affaticamento. «Per cui intermedia, cazzo. Chiama i tuoi.»
«Che cosa è successo?»
«La situazione su Ganimede si è appena trasformata nella madre di tutte
le tempeste di merda» rispose lei. «Siamo in guerra aperta.»
21

Prax
Prax era in ginocchio, con le braccia legate strette dietro la schiena. Gli
dolevano le spalle. Gli faceva male quando alzava la testa e gli faceva male
quando la lasciava ricadere. Amos giaceva, faccia a terra, sul pavimento. Prax
pensò che fosse morto finché non vide i legacci che gli stringevano le braccia
dietro la schiena. Il proiettile non letale che i loro rapitori avevano sparato
sulla nuca del meccanico gli aveva lasciato un enorme bernoccolo blu e nero.
La maggior parte degli altri – Holden, alcuni dei mercenari della Pinkwater,
perfino Naomi – erano nella sua stessa posizione, ma non tutti.
Quattro anni prima, c’era stata un’infestazione di falene. Il progetto di
contenimento era fallito, e sciami interi di tignole fasciate grigio-marrone,
lunghe tre centimetri, avevano combinato un disastro nella sua cupola. Allora
avevano costruito una trappola di calore: qualche pizzico di feromoni
artificiali sparsi su una fibra resistente al calore proprio al di sotto delle
grosse unità di illuminazione a onda lunga e spettro completo. Le falene si
erano avvicinate troppo, e il calore le aveva sterminate. La puzza di quei
minuscoli corpi che bruciavano aveva appestato l’aria per giorni, e l’odore
era esattamente uguale a quello provocato dal cauterizzatore che i loro
rapitori stavano usando sull’uomo ferito della Pinkwater. Un filo di fumo
bianco si attorcigliò dal tavolo da ufficio in plastica stampata su cui l’avevano
sdraiato.
«Sono solo...» disse l’uomo della Pinkwater, con la mente annebbiata dai
sedativi. «Voi andate avanti, concludete senza di me. Io vi raggiungo...»
«Un’altra piaga» osservò uno dei loro rapitori. Era una donna dai
lineamenti spessi, con un neo sotto l’occhio sinistro e un paio di guanti di
gomma coperti di sangue. «Proprio lì.»
«Controllo. Vista» disse l’uomo con il cauterizzatore, tornando a premere
la punta di metallo nella ferita aperta sull’addome del paziente. Ci fu il
rumore secco di una scarica elettrica, e un altro filo di fumo bianco si arricciò
dalla ferita.
All’improvviso Amos rotolò da un lato, con il naso ridotto a un
pastrocchio sanguinolento e la faccia ricoperta di sangue. «Bodrei sbaddiarbi,
gab,» disse, con le parole che si sforzavano di uscire dal pasticcio bulboso del
suo naso «ba dod gredo che quesdi dibi siado agendi di sigurezza dedda
sdaziode.»
La stanza in cui Prax si era ritrovato quando gli avevano tolto il
cappuccio non aveva niente a che fare con la solita atmosfera tipica di un
posto di guardia. Sembrava piuttosto un vecchio ufficio. Del tipo che un
ispettore alla sicurezza o un addetto allo stoccaggio avrebbe usato nei giorni
precedenti l’inizio dell’effetto a cascata: una lunga scrivania con un terminale
di superficie incorporato, qualche luce nascosta che pendeva dal soffitto, una
pianta morta – Sanseviera trifasciata – con lunghe foglie verde-marrone che
si stavano trasformando in melma. Le guardie con le corazze grigie – o i
soldati, o qualsiasi cosa fossero – erano state molto metodiche ed efficienti. I
prigionieri erano tutti allineati lungo un muro, legati mani e piedi; i loro
terminali palmari, le loro armi e i loro effetti personali erano custoditi lungo
la parete opposta da due guardie, che non avevano altro compito se non
quello di assicurarsi che nessuno li toccasse. Le corazze che avevano tolto a
Holden e Amos erano state ammucchiate sul pavimento insieme alle loro
armi. Poi, la coppia di militari che Prax pensava essere la squadra medica
aveva cominciato a mettersi al lavoro, soccorrendo per prima cosa il ferito in
condizioni più disperate. Non avevano ancora avuto il tempo di occuparsi di
nessun altro.
«Qualche idea su chi possano essere?» chiese Wendell sottovoce.
«Non è l’APE» rispose Holden.
«Questo lascia aperta la porta a un gran numero di possibili sospetti»
osservò il capo della Pinkwater. «C’è qualcuno a cui ha dato fastidio e di cui
dovrei essere al corrente?»
Lo sguardo di Holden si fece addolorato, e lui compì il gesto più simile a
uno stringersi nelle spalle che potesse immaginare, viste le circostanze.
«C’è una specie di lista» replicò.
«Un’altra piaga aperta qui» osservò la donna.
«Ce l’ho» disse l’uomo con il cauterizzatore. Schiocco, fumo bianco,
puzza di carne bruciata.
«Senza offesa, capitano Holden,» ribatté Wendell «ma comincio a
pentirmi di non averle sparato quando ne avevo la possibilità.»
«Nessuna offesa» replicò Holden con un cenno della testa.
Quattro dei soldati tornarono nella stanza. Erano tutti tipi tozzi, terrestri.
Uno di loro, un uomo dalla pelle scura con una zazzera di capelli grigi e l’aria
di avere il comando, stava borbottando freneticamente. Il suo sguardo passò
sui prigionieri, vedendoli senza osservarli. Come se fossero stati delle casse.
Quando i suoi occhi arrivarono su Prax, l’uomo annuì ma non a lui.
«Sono stabili?» chiese il tizio dalla pelle scura alla squadra medica.
«Se potessi scegliere» rispose la donna «questo qui non lo muoverei.»
«Se non potesse?»
«Probabilmente ce la farà. Mantenete l’accelerazione gravitazionale al
minimo finché non riuscirò a portarlo in una vera e propria infermeria.»
«Scusatemi» intervenne Holden. «Qualcuno potrebbe gentilmente dirmi
che diavolo sta succedendo?»
Avrebbe fatto meglio a chiederlo ai muri.
«Abbiamo dieci minuti» disse l’uomo dalla pelle scura.
«Nave trasporto?»
«Non ancora. Meglio la zona sicura.»
«Splendido» esclamò amareggiata la donna.
«Perché, se volete farci qualche domanda,» disse Holden «sarebbe meglio
cominciare con l’andarsene tutti da Ganimede. Se volete che i vostri uomini
restino tali, dobbiamo andare. Quel laboratorio era infestato dalla
protomolecola.»
«Voglio che vengano spostati due per volta» ordinò l’uomo dalla pelle
scura.
«Sì, signore» replicò la donna.
«Mi state ascoltando?» gridò Holden. «La protomolecola è stata liberata
nella stazione.»
«Non ci stanno ascoltando, Jim» gli rispose Naomi.
«Ferguson. Mott» disse l’uomo dalla pelle scura. «A rapporto.»
Nella sala calò il silenzio mentre qualcuno chissà dove faceva rapporto.
«Mia figlia è scomparsa» disse Prax. «Quella nave ha portato via mia
figlia.»
Non ascoltavano neanche lui. Prax non si era aspettato che lo facessero. A
eccezione di Holden e del suo equipaggio, nessuno se l’era aspettato. L’uomo
dalla pelle scura era chino in avanti, con un’espressione profondamente
concentrata. Prax sentì rizzarglisi i peli sulla nuca. Un presentimento.
«Ripetete» disse il tizio dalla pelle scura. Poi, un istante dopo: «Stiamo
sparando? Stiamo chi?»
Qualcuno gli rispose. La squadra medica e le guardie avevano gli occhi
fissi sul loro comandante. Le loro espressioni erano imperscrutabili.
«Ricevuto. Squadra Alfa, nuovi ordini. Recatevi al porto e requisite una
nave trasporto. Siete autorizzati a usare la forza. Ripeto: siete autorizzati a
usare la forza. Sergente Chernev, ho bisogno che tagli i legacci dei
prigionieri.»
Una delle guardie reagì a scoppio ritardato.
«Tutti, signore?»
«Tutti. E avremo bisogno di una barella per questo signore.»
«Che cosa succede, signore?» chiese il sergente, con la voce tesa per la
confusione e la paura.
«Quello che succede è che le sto dando un ordine» rispose l’uomo dalla
pelle scura. «Esegua, ora.»
Prax sentì il taglio della lama come una brusca vibrazione sulle caviglie.
Non si era accorto di avere i piedi addormentati finché la sensazione di
formicolio non gli fece lacrimare gli occhi. Stare in piedi gli faceva male. In
lontananza, qualcosa tuonò come un container per il trasporto merci lasciato
cadere da una grande altezza. Il sergente liberò le gambe di Amos dai legacci
e si spostò verso Naomi. Una guardia era rimasta accanto
all’equipaggiamento. La squadra medica era intenta a sigillare il ventre del
ferito con un gel dall’odore dolciastro. Il sergente si chinò.
Lo sguardo che passò tra Holden e Amos fu l’unico preavviso che ebbe
Prax. Con la stessa noncuranza di un uomo che si dirigesse verso la toilette,
Holden cominciò a incamminarsi verso la porta.
«Ehi!» esclamò la guardia, imbracciando un fucile grande quanto il suo
braccio. Holden lo guardò con aria innocente, attirando su di sé l’attenzione
di tutti, mentre alle sue spalle Amos schiantava il ginocchio sulla testa del
sergente. Prax uggiolò per la sorpresa e l’arma fu puntata su di lui. Cercò di
alzare le mani, ma le aveva ancora legate dietro la schiena. Wendell fece un
passo avanti, appoggiò un piede sul fianco della dottoressa e la spinse sulla
linea di tiro della guardia.
Naomi era inginocchiata sul collo del sergente; l’uomo aveva il viso
paonazzo. Holden colpì con un calcio dietro il ginocchio il tizio con il
cauterizzatore nello stesso istante in cui Amos placcava l’uomo con il fucile.
Il cauterizzatore mandò una scintilla sul pavimento facendo un rumore simile
a quello di un dito che picchia su un vetro. Paula afferrò il coltello del
sergente e si mise dietro uno dei suoi compagni, segandogli il legaccio ai
polsi. Il tizio con il fucile tirò una gomitata, e Amos esalò tutto il fiato che
aveva in corpo. Holden si gettò addosso alla metà maschile della squadra
medica, incastrando le braccia dell’uomo con le ginocchia. Amos fece
qualcosa che Prax non riuscì a vedere, e il fuciliere grugnì prima di piegarsi
in due.
Paula finì di tagliare il legaccio al suo compagno nel momento in cui la
dottoressa raccoglieva il fucile. L’uomo appena liberato estrasse la pistola
dalla fondina del sergente a terra e si gettò in avanti, premendo la canna
dell’arma contro la tempia della dottoressa mentre quest’ultima alzava il
fucile una frazione di secondo troppo tardi.
Tutti si bloccarono. La donna sorrise.
«Scacco matto» disse lei, e abbassò il fucile a terra.
La scena non era durata più di dieci secondi.
Naomi prese il coltello, tagliando rapida e metodica i legacci dei suoi
mentre Holden la seguiva, disabilitando la rete di comunicazione delle
corazze grigie e legandoli mani e piedi. Una situazione perfettamente
speculare a quella di pochi istanti prima. Prax, strofinandosi le dita per
ritrovare la sensibilità, ebbe la visione assurda dell’uomo dalla pelle scura che
tornava indietro per abbaiargli altri ordini. Ci fu un’altra esplosione; un altro
enorme container che veniva sonoramente lasciato cadere, rimbombando
come un tamburo.
«Voglio solo che sappiate quanto ho apprezzato il modo in cui vi siete
presi cura dei miei» disse Wendell alla coppia che componeva la squadra
medica.
La donna gli suggerì qualcosa di osceno e spiacevole, ma sorrise mentre
lo faceva.
«Wendell» lo chiamò Holden, frugando nella scatola degli effetti
personali e tirando una carta chiave al leader della squadra della Pinkwater.
«La Somnambulist è ancora vostra, ma dovete andarci subito e togliere le
tende da qui.»
«Sfonda una porta aperta» rispose Wendell. «Prendete quella barella. Non
lo lasceremo indietro adesso, e dobbiamo andarcene da qui prima che
arrivino i rinforzi.»
«Sì, signore» disse Paula.
Wendell si voltò verso Holden.
«È stato interessante conoscerla, capitano. Facciamo in modo che non si
ripeta.»
Holden annuì ma non smise d’indossare la sua corazza per stringergli la
mano. Amos fece lo stesso, poi distribuì loro le armi e gli effetti confiscati.
Holden controllò il caricatore della sua arma e uscì dalla stessa porta che
aveva usato l’uomo dalla pelle scura, con Amos e Naomi alle calcagna. Prax
dovette affrettarsi per restare al passo. Ci fu un’altra detonazione, stavolta
non così distante. Prax ebbe l’impressione di sentire il ghiaccio tremare sotto
di sé, ma probabilmente era solo la sua immaginazione.
«Che... che cosa sta succedendo?»
«La protomolecola si sta attivando» disse Holden, gettando un terminale
palmare a Naomi. «L’infezione si sta diffondendo.»
«Dod gredo ghe sdia suggededdo guesdo, gab» intervenne Amos. Con
una smorfia, si afferrò il naso con la mano destra e lo tirò in direzione
opposta al viso. Quando lo lasciò andare, sembrava quasi dritto. Soffiò via un
tappo di muco sanguinolento da ogni narice, poi fece un respiro profondo.
«Così va meglio.»
«Alex?» disse Naomi parlando sul terminale. «Alex, dimmi che il
collegamento è ancora attivo. Parlami.»
La sua voce tremava.
Un altro botto, questo più rumoroso di qualunque cosa Prax avesse mai
sentito. Il tremore non era più soltanto immaginario, ora; Prax fu sbalzato a
terra. L’aria aveva uno strano odore, come di ferro surriscaldato. Le luci della
stazione lampeggiarono e si spensero; i LED blu pallido del segnale di
evacuazione di emergenza si accesero. Cominciò a risuonare un allarme a
bassa pressione, il cui tritono percussivo era stato progettato per essere
percepibile in atmosfera rarefatta o in rarefazione. Quando Holden parlò,
sembrò quasi pensoso.
«O, magari, potrebbe darsi che stiano bombardando la stazione.»
La Stazione di Ganimede era uno dei primi punti di appoggio permanenti
dell’umanità tra i pianeti esterni. Era stata costruita con in mente un futuro a
lungo termine, non soltanto dal punto di vista architettonico ma anche per il
modo in cui si sarebbe inserita nella grandiosa espansione umana
nell’oscurità ai margini del sistema solare. Le possibilità di una catastrofe
erano nel suo DNA, e lo erano state fin dall’inizio. Era stata la stazione più
sicura dell’intero sistema gioviano. Anche soltanto il suo nome, un tempo,
evocava immagini di neonati e cupole piene di raccolti agricoli. Ma i mesi da
quando lo specchio era crollato sulla sua superficie l’avevano corrosa.
I portelloni pressurizzati costruiti per isolare eventuali perdite di
atmosfera erano stati aperti a forza quando i sistemi idraulici locali erano
andati in guasto. Le forniture di emergenza erano state usate e mai sostituite.
Qualunque cosa fosse di valore, che potesse essere trasformata in cibo o
passata sul mercato nero, era stata rubata e rivenduta. L’infrastruttura sociale
di Ganimede era già inevitabilmente giunta a un lento collasso. Il peggiore
dei peggiori scenari non aveva previsto una cosa del genere.
Prax era in piedi nel grande spazio comune in cui lui e Nicola avevano
trascorso il loro primo appuntamento. Avevano mangiato insieme in una
piccola dulcería, sorseggiando caffè e amoreggiando. Prax riusciva ancora a
ricordare la forma del suo viso e il brivido che gli aveva fatto saltare un
battito quando lei gli aveva preso la mano. Il ghiaccio dove era stata la
dulcería era adesso un caos disastrato. In quel punto s’intersecavano una
dozzina di passaggi, e la gente si riversava da ogni parte, cercando di
raggiungere il porto oppure di scendere abbastanza in profondità nella luna da
essere protetta dal ghiaccio, o in un qualche altro posto che poteva illudersi
fosse sicuro.
L’unica casa che Prax avesse mai conosciuto veramente gli stava
crollando intorno. Migliaia di persone sarebbero morte nelle prossime ore.
Prax lo sapeva, e una parte di lui era in preda all’orrore per quella situazione.
Ma Mei era su quella nave, per cui non era una di loro. E doveva ancora
salvarla, solo non da tutto questo. Lo rendeva sopportabile.
«Alex dice che la situazione è bollente, là fuori» riferì Naomi mentre
correvano attraverso le rovine. «Incandescente. Non riuscirà ad arrivare al
molo.»
«C’è l’altra piattaforma di atterraggio» replicò Prax. «Potremmo andare
lì.»
«Il piano è quello» disse Holden. «Comunica ad Alex le coordinate della
base scientifica.»
«Sì, signore» rispose Naomi nello stesso momento in cui Amos, alzando
una mano come un bambino in classe, chiese: «Quella con la
protomolecola?»
«È l’unica piattaforma d’attracco segreta che abbiamo» rispose Holden.
«Già. E va bene.»
Quando Holden si voltò verso Prax, aveva il viso ingrigito per la tensione
e la paura.
«Okay, Prax. Tu sei del posto. La nostra corazza è a prova di vuoto, ma
avremo bisogno di tute ambientali per te e Naomi. Stiamo per fare una
corsetta all’inferno, e non sarà tutto pressurizzato. Non abbiamo il tempo per
sbagliare strada o tornare sui nostri passi. Sei in testa. Te la senti?»
«Sì» disse Prax.
Trovare le tute ambientali fu facile. Erano abbastanza comuni da non
avere praticamente nessun valore commerciale, ed erano immagazzinate in
stazioni di emergenza dai colori vivaci. Tutte le scorte nei corridoi e nelle
sale principali erano già state svuotate, ma, infilandosi in uno stretto corridoio
laterale che li collegava alla zona meno popolare, dove Prax era solito portare
Mei alla pista di pattinaggio sul ghiaccio, trovarle fu facile. Le tute erano di
colore verde e arancione sgargiante, di sicurezza, fatte apposta per essere ben
visibili ai soccorritori. Delle tute mimetiche sarebbero state più appropriate.
Le maschere puzzavano di plastica infiammabile, e i giunti erano soltanto
degli anelli cuciti nel materiale. Il riscaldamento interno sembrava progettato
senza molta cura e suscettibile di andare a fuoco se usato troppo a lungo.
Giunse un’altra esplosione, seguita da altre due, ognuna più vicina della
precedente.
«Testate nucleari» disse Naomi.
«Piuttosto proiettili gauss» replicò Holden. Sembrava quasi che stessero
parlando del clima.
Prax si strinse nelle spalle.
«Comunque sia, se un colpo arriva fin nei corridoi, significherebbe una
perdita di vapore super riscaldato» disse, richiudendo l’ultimo sigillo della
tuta lungo il fianco e controllando il visore da quattro soldi che giurava che
l’ossigeno stava scorrendo. Il sistema di riscaldamento baluginò sul giallo,
poi di nuovo sul verde. «Tu e Amos potreste farcela, se la corazza regge.
Credo che io e Naomi non avremmo nessuna possibilità.»
«Fantastico» esclamò Holden.
«Ho perso la Roci» disse Naomi. «Anzi, no. Ho perso del tutto il
collegamento. Stavo passando attraverso il router della Somnambulist.
Dev’essere decollata.»
O potrebbe essere stata distrutta. Quello stesso pensiero si leggeva su
tutte le loro facce. Nessuno lo disse.
«Da questa parte» disse Prax.«C’è un tunnel di servizio che eravamo
soliti usare quando ero all’università. Possiamo passare oltre il complesso del
Marble Arch e riprendere da lì.»
«Come dici tu, amico» rispose Amos. Il suo naso aveva ripreso a
sanguinare. Il sangue sembrava nero nella fioca luce blu all’interno del suo
elmetto.
Sarebbe stata la sua ultima passeggiata. Qualunque cosa fosse successa,
Prax non sarebbe mai più tornato qui, perché qui non sarebbe più esistito.
Quella camminata a passo svelto lungo il corridoio di servizio dove Jaimie
Loomis e Tanna Ibtrahmin-Sook l’avevano portato per sballarsi tutti insieme
sarebbe stata l’ultima che avrebbe fatto in quel posto. L’ampio anfiteatro dal
basso soffitto sotto il vecchio centro di trattamento acque, dove aveva svolto
il suo primo tirocinio, era spaccato, con il serbatoio compromesso. Non
avrebbe inondato rapidamente i corridoi, ma, in un paio di giorni, quei
passaggi sarebbero stati riempiti. Un paio di giorni più tardi non avrebbe più
avuto nessuna importanza.
Tutto brillava nelle luci a LED di emergenza, oppure svaniva nell’ombra.
A terra c’era del ghiaccio sciolto, mentre il sistema di riscaldamento cercava
faticosamente e invano di compensare quella follia. Per due volte trovarono la
via ostruita, una volta da un portellone pressurizzato che era ancora
effettivamente funzionante, e un’altra da ghiaccio caduto. Non incontrarono
quasi nessuno. Tutti gli altri stavano correndo verso il porto. Prax li stava
guidando nella direzione praticamente opposta.
Un altro lungo corridoio ricurvo, poi salirono su per una rampa di
costruzione, attraversarono un tunnel vuoto e...
La porta d’acciaio blu che sbarrava loro la strada non era bloccata, ma era
in modalità sicurezza. L’indicatore diceva che dall’altra parte c’era il vuoto.
Uno di quei colpi, come i pugni di Dio che si abbattevano su Ganimede, era
riuscito ad arrivare fin lì. Prax si fermò, facendo correre la mente attraverso
l’architettura tridimensionale della sua stazione natale. Se la base segreta era
lì, e lui era qui, allora...
«Non possiamo arrivarci» disse.
Gli altri rimasero in silenzio per un istante.
«Questa non è una buona risposta» replicò Holden. «Trovane un’altra.»
Prax fece un respiro profondo. Se fossero tornati sui loro passi, sarebbero
potuti scendere di un livello, per poi dirigersi verso ovest e cercare di
accedere dal corridoio inferiore, se non fosse stato per il fatto che
un’esplosione sufficientemente potente da arrivare fin lì doveva aver quasi
certamente compromesso anche il livello inferiore. Se avessero proseguito
fino alla vecchia stazione del tubo, forse avrebbero potuto trovare un
corridoio di servizio – non che Prax sapesse per certo della sua esistenza, ma
chissà – che avrebbe potuto portarli nella direzione giusta. Giunsero altre tre
detonazioni, scuotendo il ghiaccio. La parete alle sue spalle si crepò con un
rumore simile a quello di una mazza da baseball che batteva un home run.
«Prax, amico mio,» disse Amos «prima è, meglio è.»
Indossavano delle tute ambientali, per cui, se avessero aperto il
portellone, il vuoto non li avrebbe uccisi. Ma dovevano esserci dei detriti che
lo bloccavano. Qualsiasi colpo abbastanza forte da attraversare la superficie
avrebbe...
Avrebbe...
«Non possiamo andare lì... attraverso i tunnel della stazione» disse. «Ma
possiamo salire. Possiamo arrivare in superficie e passare da lì.»
«E come facciamo?» chiese Holden.
Prax passò venti minuti a cercare una via d’accesso che non fosse chiusa,
ma alla fine la trovò. Era non più ampia di tre uomini uno a fianco all’altro:
un’unità di servizio automatizzata per l’esterno delle cupole. L’unità di
servizio in sé era stata da tempo cannibalizzata e depredata di tutte le sue
parti, ma non aveva importanza. Il portellone pressurizzato era ancora in
funzione grazie alle batterie. Naomi e Prax inserirono le istruzioni di
apertura, richiusero il portello interno e attesero che si aprisse quello che dava
sull’esterno. La pressione di fuga fu come il vento, per un istante, poi più
niente. Prax s’incamminò sulla superficie di Ganimede.
Aveva visto delle immagini dell’aurora sulla Terra. Non si era mai
immaginato che avrebbe visto qualcosa del genere nell’oscurità del suo cielo.
Eppure, lì, non soltanto sopra di lui ma in grandi linee, da un orizzonte
all’altro, c’erano strisce di verde e blu e oro – rifiuti, detriti e gas emanato dal
plasma in raffreddamento. Boccioli incandescenti segnavano il punto in cui si
trovavano i motori dei reattori. Diversi chilometri più in là, un proiettile gauss
si schiantò sulla superficie della luna e la scossa sismica li fece sobbalzare.
Prax rimase lì impalato per un istante, osservando l’eiettore idrico che
schizzava nell’oscurità e l’acqua che cominciava a ricadere sotto forma di
neve. Era bellissimo. La parte razionale, scientifica della sua mente, cercò di
calcolare quanto trasferimento di energia stesse incamerando quella luna,
quando un grosso pezzo di tungsteno sparato da una mitragliatrice la colpì.
Era un po’ come una testata nucleare in miniatura, senza però tutte quelle
fastidiose radiazioni. Prax si chiese se il proiettile si sarebbe fermato prima di
raggiungere il nucleo di nichel e ferro di Ganimede.
«Okay» esclamò Holden dalle cuffiette da quattro soldi all’interno della
tuta di emergenza di Prax. Le frequenze basse erano una schifezza, e lui
aveva la voce di un cartone animato. «Da che parte, ora?»
«Non lo so» rispose Prax, rimettendosi in ginocchio. Indicò un punto
verso l’orizzonte. «Laggiù, da qualche parte.»
«Mi serve qualcosa di più di questo» disse Holden.
«Non sono mai stato in superficie, prima d’ora» replicò Prax.
«All’interno di una cupola, certo. Ma fuori? Voglio dire, so che siamo vicini,
ma non so come arrivarci.»
«E va bene» disse Holden. Nel vuoto spinto sopra la sua testa, qualcosa di
enorme e di molto lontano esplose. Era un po’ come la vecchia lampadina dei
cartoni quando a qualcuno veniva un’idea. «Possiamo farlo. Possiamo
risolverla. Amos, va’ verso quella collina laggiù, vedi che cosa riesci a
vedere. Prax e Naomi, cominciate ad andare in quella direzione.»
«Non credo che ci sia bisogno di farlo, signore» replicò Naomi.
«Perché no?»
La donna alzò una mano, indicando un punto alle spalle di Holden e Prax.
«Perché sono piuttosto sicura che la Rocinante si sia appena posata
laggiù» disse.
22

Holden
La piattaforma di attracco segreta era stata ricavata nell’incavo di un
piccolo cratere. Quando Holden scavalcò il crinale e vide la Rocinante sotto
di sé, l’improvviso e vertiginoso rilascio di tensione gli fece capire quanto
fosse stato spaventato in quelle ultime ore. Ma la Roci significava casa e, per
quanto la sua mente razionale potesse continuare a ricordargli che erano
ancora in pericolo mortale, casa significava essere al sicuro. Mentre si
fermava un attimo per riprendere fiato, la scena fu illuminata da un lampo di
luce bianca, come se qualcuno avesse appena scattato una fotografia. Holden
alzò gli occhi in tempo per vedere una nuvola di gas luminescente che
svaniva in un’orbita alta.
La gente continuava a morire nello spazio appena sopra le loro teste.
«Wow» disse Prax. «È più grande di quello che mi aspettassi.»
«Corvetta» replicò Amos, con la voce carica di orgoglio. «Nave scorta di
classe fregata.»
«Non so che cosa significhi» ribatté Prax. «Sembra un grosso scalpello
con una tazza di caffè rovesciata sulla schiena.»
Amos disse: «Quello è il propulsore...»
«Basta così» li interruppe Holden. «Al portello, presto.»
Amos aprì la strada, accovacciandosi un po’ e scivolando giù per la parete
ghiacciata del cratere, usando le mani per bilanciarsi. Prax andò per secondo,
una volta tanto senza bisogno di aiuto. Naomi per terza; una vita passata a
gravità variabile le aveva affinato riflessi ed equilibrio. Riuscì perfino a
risultare aggraziata.
Holden andò per ultimo, pronto a scivolare e a ruzzolare giù dal pendio in
un umiliante capitombolo, e piacevolmente sorpreso quando non accadde.
Mentre balzavano sul fondo piatto del cratere verso la nave, il portellone
esterno si aprì, rivelando Alex con indosso una tuta corazzata marziana e con
un fucile d’assalto tra le mani. Non appena furono abbastanza vicini alla nave
da riuscire a sentirsi oltre il rumore radio orbitale, Holden esclamò: «Alex!
Amico, è bello rivederti.»
«Ehi, cap» rispose Alex, e perfino la sua cadenza strascicata non fu in
grado di nascondere il sollievo evidente che aveva nella voce. «Non ero
sicuro di come sarebbe stata questa zona di attracco. Avete nessuno alle
calcagna?»
Amos risalì la rampa e agganciò Alex in un abbraccio da orso che lo
sollevò da terra.
«Amico, è bello essere di nuovo a casa, cazzo!» disse.
Prax e Naomi lo seguirono. Naomi diede una pacca sulla spalla ad Alex
mentre passava. «Sei stato bravo. Grazie.»
Holden si fermò sulla rampa per guardare in su un’ultima volta. Il cielo
era ancora pieno di lampi e scie luminescenti della battaglia in corso. Ebbe
l’improvviso, viscerale ricordo di quando era un bambino, giù nel Montana, e
se ne stava a guardare enormi cumuli nel cielo che s’illuminavano di fulmini
nascosti.
Alex lo guardò, poi ammise: «L’arrivo è stato un po’ complicato.»
Holden gli cinse le spalle con un braccio. «Grazie per il passaggio.»
Una volta che il portellone ebbe finito di pressurizzarsi e l’equipaggio
ebbe rimosso tute e corazze, Holden disse: «Alex, ti presento Prax Meng.
Prax, ti presento il miglior pilota del sistema solare, Alex Kamal.»
Prax strinse la mano ad Alex. «Grazie per il tuo aiuto nella ricerca di
Mei.»
Alex scoccò un’occhiata perplessa a Holden, ma un suo cenno negativo
del capo gli impedì di formulare la domanda. «Piacere di conoscerti, Prax.»
«Alex» disse Holden. «Preparaci al decollo, ma non partire finché non
sarò al mio posto di copilota.»
«Ricevuto» rispose Alex, e si diresse verso la prua della nave.
«È tutto di sbieco» osservò Prax, guardandosi intorno nella stiva
adiacente al portellone interno.
«La Roci non passa molto tempo sulla pancia» spiegò Naomi,
prendendolo per mano e guidandolo verso la scala, che ora sembrava correre
parallela al pavimento. «Ora siamo in piedi su una paratia e quella parete alla
nostra destra, normalmente, è il ponte.»
«A quanto pare sei cresciuto a bassa gravità e non hai passato molto
tempo su una nave, vero?» constatò Amos. «Cavolo, le prossime ore saranno
uno schifo, per te.»
«Naomi» disse Holden. «Va’ in plancia e allacciati le cinture. Amos,
porta Prax sul ponte dell’equipaggio, poi va’ in sala motori e prepara la Roci
per qualche scossone.»
Prima che potessero ottemperare, Holden posò una mano sulla spalla di
Prax.
«Decollo e volo saranno rapidi e accidentati. Se non hai ricevuto un
addestramento per il volo ad alta gravità, rischiano di essere molto
spiacevoli.»
«Non vi preoccupate per me» rispose Prax, facendo quella che
probabilmente pensava fosse una faccia coraggiosa.
«Lo so che sei un tipo tosto. Altrimenti non saresti potuto sopravvivere
alle ultime settimane. Non devi provare niente a nessuno, ormai. Amos ti
porterà giù al ponte dell’equipaggio. Trovati una stanza senza nome sulla
porta. Sarà la tua stanza. Mettiti sul sedile di volo e allacciati le cinture, poi
spingi il bottone verde sul pannello alla tua sinistra. Il sedile ti imbottirà di
farmaci che ti sederanno e impediranno che le tue vene scoppino se mai
dovessimo andare a manetta.»
«La mia stanza?» disse Prax, con una nota strana nella voce.
«Ti troveremo un po’ di vestiti e altre cosette una volta che saremo fuori
da questo inferno. Potrai tenerli lì.»
«La mia stanza» ripeté Prax.
«Già» disse Holden. «La tua stanza.» Vide Prax che ricacciava un groppo
in gola, e si rese conto di ciò che doveva significare quella semplice offerta di
comodità e sicurezza per un uomo che aveva vissuto quello che aveva passato
il piccolo botanico in quell’ultimo mese.
Gli occhi di Prax si riempirono di lacrime.
«Andiamo, vediamo di sistemarti» disse Amos, guidando Prax a poppa,
verso il ponte dell’equipaggio.
Holden si diresse dall’altra parte, oltre la plancia, dove Naomi era già
assicurata a un sedile davanti a una delle postazioni operative, e arrivò nella
cabina di pilotaggio. Salì sul sedile del copilota e si allacciò le cinture.
«Cinque minuti» disse nel canale di comunicazione interno.
«Allora» fece Alex, trascinando le poche sillabe di quella parola mentre
attivava gli interruttori per terminare il controllo prima del volo. «Stiamo
cercando qualcuno che si chiama Mei?»
«La figlia di Prax.»
«Ci siamo messi a fare queste cose? Mi sembra che lo scopo della
missione si stia un po’ stiracchiando.»
Holden annuì. Trovare figlie smarrite non faceva parte del loro mandato.
Quello era stato il compito di Miller. E Holden non era ancora in grado di
spiegarsi adeguatamente la sua certezza che quella bambina smarrita fosse
l’epicentro di tutto ciò che era successo su Ganimede.
«Credo che questa bambina smarrita sia l’epicentro di tutto ciò che è
successo su Ganimede» disse, stringendosi nelle spalle.
«Okay» rispose Alex, poi pigiò qualcosa due volte su un pannello e si
accigliò. «Uhm, abbiamo del rosso sul pannello. Mi dà ‘non sigillato’
riguardo al portellone di carico. Potrei aver beccato un colpo venendo giù,
immagino. La situazione è parecchio incandescente, lassù.»
«Be’, non possiamo fermarci per ripararlo, ora» disse Holden. «E
comunque la stiva è sottovuoto la maggior parte del tempo. Se il portello
interno dell’area di carico è sigillato correttamente, scavalca l’allarme e
parti.»
«Ricevuto» replicò Alex, ed escluse l’allarme.
«Un minuto» disse Holden nel canale interno, poi si voltò verso Alex.
«Sono curioso.»
«Di che?»
«Come sei riuscito a sgattaiolare in mezzo a quella tempesta di merda
lassù, e come riuscirai a fare lo stesso per fuggire?»
Alex scoppiò a ridere.
«Si tratta semplicemente di non essere mai più in alto della seconda
minaccia sul pannello degli altri. E, ovviamente, di non essere più nei paraggi
quando gli altri decidono di darti un’annusata.»
«Ti meriti un aumento» disse Holden, poi cominciò il conto alla rovescia
da dieci secondi. Quando arrivò a uno, la Roci si staccò da Ganimede su
quattro colonne di vapore super riscaldato.
«Mettici in posizione per aprire al massimo appena puoi» ordinò Holden,
con la voce che assumeva un vibrato artificiale per via del decollo della nave.
«Così vicino?»
«Sotto di noi non c’è niente che abbia più importanza» disse Holden,
pensando ai resti di filamenti neri che avevano visto nella base nascosta.
«Brucia tutto.»
«Okay» disse Alex. Poi, una volta che la nave ebbe finito di orientarsi in
posizione verticale, aggiunse: «Vado di sprone.»
Anche con la dose che gli correva per le vene, Holden svenne per un
istante. Quando riprese i sensi, la Roci scartava freneticamente da una parte
all’altra. La cabina di pilotaggio era invasa da allarmi di prossimità.
«Oooh, bella» mormorava Alex tra sé e sé. «Vai così, ragazzona.»
«Naomi» disse Holden, vedendo una massa confusa di rosso sul pannello
di minaccia e cercando di decifrarne il significato con la mente a corto di
sangue. «Chi è che ci sta sparando?»
«Tutti.» Naomi sembrava stordita quanto lui.
«Già» disse Alex, con una tensione nella voce che gli asciugava la
cadenza strascicata da cowboy. «E non è uno scherzo.»
Lo sciame di minacce sul suo schermo cominciò ad avere un senso, e
Holden vide che avevano ragione. Sembrava che metà delle navi dei pianeti
interni da questa parte di Ganimede avessero sganciato loro addosso almeno
un missile. Inserì il codice di comando per impostare tutti gli armamenti di
bordo in modalità fuoco libero, e trasferì il comando dei cannoni di
prossimità di poppa ad Amos. «Amos, coprici le chiappe.»
Alex stava facendo del suo meglio per impedire che i missili in
avvicinamento li colpissero, ma era una causa persa. Niente che avesse carne
al suo interno poteva superare in velocità metallo e silicio.
«Dove stiamo...» disse Holden, interrompendosi per intercettare un
missile che passava nel raggio d’azione dei cannoni di difesa ravvicinata di
tribordo. Il cannone sparò una lunga raffica verso la minaccia incombente. Il
missile era abbastanza intelligente da scartare bruscamente ed effettuare una
manovra evasiva, ma il suo improvviso cambiamento di rotta fece
guadagnare loro qualche altro secondo.
«Callisto è da questa parte di Giove» disse Alex, riferendosi alla prima
luna più vicina a Ganimede. «Ci metteremo nella sua ombra.»
Holden controllò i vettori delle navi che li avevano bersagliati. Se
qualcuna di quelle si fosse messa all’inseguimento, lo stratagemma di Alex
gli avrebbe fatto guadagnare pochi minuti. Ma non sembravano esserci
inseguitori. Della dozzina circa che li avevano attaccati, più della metà erano
moderatamente o severamente danneggiate, e quelle ancora integre erano
ancora impegnate a spararsi addosso.
«Ho come l’impressione che, per un momento, siamo stati la minaccia
numero uno sul pannello di tutti gli altri» disse Holden. «Comunque si sono
calmati.»
«Già. Mi dispiace, cap. Non so bene perché sia successo.»
«Non è mica colpa tua» rispose Holden.
La Roci sobbalzò, e Amos lanciò un grido di vittoria sulla linea interna.
«Nessuno può toccare il culo alla mia ragazza!»
Due dei missili più vicini erano scomparsi dal pannello di minaccia.
«Bel lavoro, Amos» esclamò Holden, controllando le previsioni
d’impatto aggiornate e vedendo che avevano guadagnato un altro mezzo
minuto.
«Cazzo, cap, fa tutto la Roci» riconobbe Amos. «Io la incoraggio soltanto
a esprimersi al meglio.»
«Stiamo per entrare in copertura sotto Callisto. Una qualche distrazione
mi farebbe comodo» disse Alex a Holden.
«Okay. Naomi, tra dieci secondi o giù di lì» ordinò Holden «scaricagli
addosso tutto quello che abbiamo. Ci servono ciechi per qualche secondo.»
«Ricevuto» fece Naomi. Holden se la immaginò mentre preparava un
massiccio pacchetto di assalto di disturbi laser e interferenze radio.
La Rocinante sobbalzò di nuovo e, all’improvviso, Callisto riempì lo
schermo frontale di Holden. Alex si precipitò verso quella luna a velocità
suicida, ruotando la nave e aprendo i reattori all’ultimo secondo per sfruttare
la fionda gravitazionale in orbita bassa.
«Tre... due... uno... ora» disse, e la Roci si tuffò di coda verso Callisto,
passandoci tanto vicino che Holden ebbe l’impressione di poter allungare una
mano fuori dal portellone per raccogliere un po’ di neve. Nello stesso istante,
il pacchetto di disturbo di Naomi aggredì i sensori dei missili
all’inseguimento, accecandoli mentre i loro processori si davano da fare per
filtrare le interferenze.
Quando riacquisirono la Rocinante, la corvetta era stata deviata dalla
gravità di Callisto e dai suoi stessi propulsori lungo un nuovo vettore
direzionale, alla massima velocità. Due dei missili tentarono coraggiosamente
di virare di bordo e riprendere l’inseguimento, ma il resto si disperse in
direzioni casuali oppure si schiantò sulla luna. Quando i due inseguitori si
erano rimessi in traiettoria, la Roci aveva ormai acquisito un vantaggio
enorme e poté prendersela comoda per tracciare e abbattere quelle ultime
minacce.
«Ce l’abbiamo fatta» disse Alex. Holden trovò piuttosto sconcertante
l’incredulità nella voce del suo pilota. C’era davvero mancato così poco?
«Non avevo dubbi» replicò Holden. «Portaci su Tycho. Mezzo g di
crociera. Sarò nella mia cabina.»
Quando ebbero finito, Naomi si lasciò ricadere dal suo lato del letto che
condividevano, con il sudore che le appiccicava ciocche di capelli neri sulla
fronte. Continuò ad ansimare. Anche Holden.
«È stato... vigoroso» disse lei.
Holden annuì ma non aveva ancora ripreso abbastanza fiato da riuscire a
parlare. Allorché era risceso dalla scala del cockpit, Naomi l’aspettava già
libera dalle cinture del sedile. Lei l’aveva preso e l’aveva baciato così forte da
spaccargli un labbro. Ma lui non se n’era nemmeno accorto. Erano riusciti a
malapena a raggiungere la loro cabina con i vestiti addosso. Quello che era
successo dopo era una sorta di momento confuso nella mente di Holden,
anche se si sentiva le gambe stanche e le labbra doloranti.
Naomi gli rotolò addosso e scese dal letto.
«Devo fare pipì» disse, infilandosi una vestaglia e uscendo dalla porta.
Holden si limitò ad annuire, ancora incapace di parlare.
Si spostò in mezzo al letto, stirando braccia e gambe per un momento. La
verità era che le cabine della Roci non erano state concepite per due
occupanti, e men che mai quei sedili ad alto g che fungevano anche da letto.
Ma, durante quell’ultimo anno, Holden aveva dormito sempre più spesso
nella cabina di Naomi, finché in qualche modo non era diventata la loro
cabina e lui non dormiva più da nessun’altra parte. Non potevano condividere
il sedile durante le manovre ad alto g, ma fino a quel momento non avevano
mai dormito quando la nave aveva avuto bisogno di effettuare manovre ad
alto g. Una tendenza che sembrava destinata a continuare.
Holden stava cominciando a sonnecchiare, quando il portello si aprì e
Naomi tornò in cabina. Gli gettò un asciugamano freddo e bagnato sullo
stomaco.
«Ah, questo sì che è tonificante» esclamò Holden, sedendosi di scatto.
«Era ancora bello caldo, quando è uscito.»
«Questo» disse Holden mentre si asciugava il sudore «mi ricorda
qualcos’altro.»
Naomi sorrise, poi si sedette sul bordo della branda e lo punzecchiò sul
costato. «Riesci ancora a pensare al sesso? Avrei detto che per un po’ ti
saresti dato una calmata.»
«Un faccia a faccia con la morte fa miracoli per il mio periodo
refrattario.»
Naomi salì sulla branda accanto a lui, ancora avvolta nella vestaglia.
«Sai» disse lei «era anche la mia idea. E sono assolutamente a favore
dell’affermazione della vita attraverso il sesso.»
«Come mai ho la sensazione che c’è un ‘ma’ che manca alla fine di
questa frase?»
«Ma...»
«Ah, eccolo qua.»
«C’è una cosa di cui dobbiamo parlare. E questo mi sembra un buon
momento.»
Holden rotolò dalla sua parte, guardandola in viso, e si sollevò su un
gomito. Una ciocca ribelle nascondeva il volto di Naomi, e lui la scostò con
l’altra mano.
«Che cos’ho fatto?» chiese lui.
«Non è esattamente qualcosa che hai fatto» rispose Naomi. «Si tratta più
di quello che stiamo andando a fare adesso.»
Holden le accarezzò un braccio ma attese che continuasse a parlare. Il
tessuto morbido della sua vestaglia si appiccicò alla pelle umida di lei.
«Sono preoccupata» spiegò Naomi «per il fatto che stiamo andando su
Tycho per fare qualcosa di molto avventato.»
«Naomi, non eri lì. Non hai visto...»
«L’ho vista, Jim. L’ho vista dalla telecamera di Amos. So bene che cos’è.
So quanto ti spaventi. E spaventa a morte anche me.»
«No» disse Holden, sorprendendo sé stesso per la rabbia che c’era nella
sua voce. «No, non lo sai. Non eri su Eros quando si è diffusa, non hai mai...»
«Ehi, c’ero eccome. Magari non durante il momento peggiore. Non come
te» rispose Naomi, con voce ancora calma. «Ma ho dato una mano a portare
quello che era rimasto di te e di Miller nell’infermeria. E ti ho guardato
cercare di morire laggiù. Non possiamo accusare Fred di...»
«In questo istante – e intendo in questo stesso istante – Ganimede
potrebbe essere in piena mutazione.»
«No...»
«Sì. Sì, potrebbe. Potremmo esserci lasciati alle spalle un paio di milioni
di morti, in questo stesso istante, che non sanno nemmeno di esserlo. Melissa
e Santichai... te li ricordi? Ora pensa a loro, con i corpi spogliati di qualunque
pezzo torni più comodo alla protomolecola. Pensa a loro come a dei pezzi.
Perché, se quel morbo si diffonde su Ganimede, è questo che saranno.»
«Jim» disse Naomi, ora con un tono di avvertimento nella voce. «È
proprio di questo che sto parlando. L’intensità delle tue emozioni non è una
prova. Stai per accusare un uomo, che è stato tuo amico e protettore per tutto
un anno, di aver sterminato un’intera luna piena di persone. Non è questo il
Fred che conosciamo. E tu gli devi qualcosa di più di questo.»
Holden si mise a sedere; una parte di lui voleva allontanarsi fisicamente
da Naomi, quella parte che era irritata con lei perché non lo capiva
abbastanza.
«Sono stato io a dare a Fred l’ultimo campione. Gliel’ho dato io, e lui mi
ha giurato, guardandomi negli occhi, che non l’avrebbe mai usato. Ma non è
quello che ho visto laggiù. Tu dici che è mio amico, ma Fred ha sempre e
soltanto fatto quello che avrebbe profittato alla sua causa personale. Perfino
l’aiuto che ci ha dato non è stato altro che una mossa strategica nel suo
giochetto politico.»
«Sperimentazioni su bambini rapiti?» domandò Naomi. «Una luna intera
– una delle lune più importanti dei pianeti esterni – messa a rischio, e magari
completamente distrutta? Ti sembra avere senso? Ti sembra una cosa da Fred
Johnson?»
«L’APE vuole Ganimede anche più di quanto non la vogliano i pianeti
interni» replicò Holden, ammettendo finalmente la cosa che lo spaventava di
più da quando avevano trovato il filamento nero. «E loro non vogliono
cedergliela.»
«Smettila» disse Naomi.
«Magari sta cercando di scacciarli, o gli ha venduto il campione in
cambio della luna. Questo, perlomeno, spiegherebbe l’elevato traffico in
provenienza dai pianeti interni che abbiamo osservato...»
«No. Smettila» ripeté lei. «Non voglio starmene qui seduta ad ascoltarti
mentre ti convinci di queste cose.»
Holden fece per parlare, ma Naomi si tirò su a sedere e gli posò una mano
sulla bocca, dolcemente.
«Non mi piace questo nuovo Jim Holden in cui ti stai trasformando.
Questo tizio che preferisce mettere mano alla pistola piuttosto che parlare. So
bene che essere l’uomo dell’APE è stato un lavoro di merda, e so che abbiamo
dovuto macchiarci di un sacco di schifezze in nome della sicurezza della
Fascia. Ma eri ancora in te. Riuscivo ancora a vederti lì, nascosto sotto la
superficie, mentre aspettavi di tornare a essere te stesso.»
«Naomi» disse lui, spostando la mano di lei dal suo viso.
«Ma questo tizio che non vede l’ora di andare a fare Mezzogiorno di
fuoco per le strade di Tycho... questo non è per niente Jim Holden. È un
uomo che non riconosco» aggiunse lei, poi si accigliò. «Anzi, no. Non è così.
Lo riconosco. Ma il suo nome era Miller.»
Per Holden, la cosa più terribile era la calma di Naomi. Non aveva mai
alzato la voce, non era arrabbiata. La cosa peggiore, invece, era cogliere in lei
soltanto una rassegnata tristezza.
«Se questo è ciò che sei adesso, mi devi far scendere da qualche parte.
Non posso più andare avanti insieme a te» disse. «Mi chiamo fuori.»
23

Avasarala
Avasarala era in piedi davanti alla sua finestra, con lo sguardo fisso sulla
foschia del mattino. In lontananza, una nave per il trasporto delle truppe si
alzò da terra; cavalcò un pennacchio di fumo che sembrava un pilastro di
luminose nuvole bianche e scomparve nel cielo. Le facevano male le mani.
Sapeva che alcuni dei fotoni che le colpivano gli occhi in quello stesso istante
provenivano da esplosioni a minuti luce di distanza. La Stazione di
Ganimede, un tempo il luogo privo di atmosfera più sicuro dell’universo, era
diventata una zona di guerra, e ora un deserto. Avasarala non poteva vedere i
lampi che ne segnavano la morte, non più di quanto potesse isolare una
particolare molecola di sale dall’oceano, ma sapeva che era lì, e quel fatto era
come una pietra nel suo stomaco.
«Posso chiedere conferma» disse Soren. «Nguyen dovrebbe presentare il
suo rapporto di comando nelle prossime diciotto ore. Una volta che lo
avremo...»
«Sapremo che cosa dice lui» scattò Avasarala. «Posso dirtelo anche
subito, questo. Le forze marziane hanno assunto un atteggiamento
minaccioso, e lui è stato costretto a replicare in maniera aggressiva. Bla bla
bla, cazzo. Dove ha preso quelle navi?»
«È un ammiraglio» disse Soren. «Pensavo che le due cose andassero a
braccetto.»
Lei si voltò. Il ragazzo sembrava stanco. Era sveglio dalle primissime luci
dell’alba. Tutti loro lo erano. Aveva gli occhi rossi e la pelle pallida e
appiccicaticcia.
«Ho fatto a pezzi quel gruppo di comando con le mie stesse mani» disse.
«L’ho ridotto fino al punto da farlo affondare in una tinozza. E ora Nguyen è
là fuori con una potenza di fuoco sufficiente per prendersela con la flotta
marziana?»
«A quanto pare» rispose Soren.
Avasarala resistette al bisogno di sputare. Il rombo dei motori della nave
trasporto finalmente la raggiunse, un rumore attutito dalla distanza e dai vetri.
La luce era già svanita. Alla sua mente deprivata di sonno sembrò
esattamente come fare politica nel sistema gioviano o nella Fascia. Succedeva
qualcosa – lei lo vedeva succedere –, ma ne sentiva parlare soltanto a cose
fatte. Quando era troppo tardi.
Aveva commesso un errore. Nguyen era un falco da battaglia. Quel tipo
di ragazzino adolescente che pensava ancora che qualsiasi problema potesse
essere risolto se si sparava abbastanza. Tutto quello che aveva fatto, fino a
quel momento, era stato acuto e discreto come una sprangata su un ginocchio.
E ora questo: aveva ricostituito il suo gruppo di comando senza che lei lo
venisse a sapere. E l’aveva fatta rimuovere dalle negoziazioni con Marte.
Il che significava che non era stato lui a fare tutto questo. Nguyen doveva
avere un protettore, o una congrega alle spalle. Avasarala non aveva capito
che era soltanto una comparsa, per cui chiunque fosse stato a tirare i suoi fili
l’aveva colta di sorpresa. Si stava muovendo contro un’ombra, ed era una
cosa che detestava fare.
«Più luce» disse.
«Prego?»
«Scopri come ha ottenuto quelle navi» ordinò lei. «Fallo prima di andare
a dormire. Voglio un rapporto completo. Da dove sono venute le navi di
sostegno, chi è stato a inviarle, come sono state giustificate. Tutto.»
«Per caso vuole anche un pony, signora?»
«Ci puoi giurare che lo voglio, cazzo» replicò lei, appoggiandosi stanca
alla scrivania. «Datti da fare. E un giorno potresti anche ritrovarti con un
lavoro vero.»
«Ci conto, signora.»
«Lei è ancora qui?»
«Alla sua scrivania» disse Soren. «Vuole che la faccia entrare?»
«Sarà meglio.»
Quando Bobbie entrò nella stanza, con un foglio di carta scadente stretto
nel pugno, Avasarala fu di nuovo colpita da quanto la marziana fosse in
contrasto con il resto dell’ambiente. Non era soltanto il suo accento, o la
differenza di taglia che raccontava di un’infanzia trascorsa nella bassa gravità
di Marte. Nelle stanze della politica, l’aspetto di adeguatezza fisica di quella
donna spiccava con nettezza. Aveva l’aria di qualcuno che fosse stato tirato
giù dal letto in piena notte, proprio come tutti loro; solo che a lei
quell’aspetto donava. Poteva essere utile o meno, ma certamente valeva la
pena di ricordarselo.
«Che cos’hai per me?» disse Avasarala.
Il cipiglio della marine era tutto sulla fronte.
«Sono riuscita a raggiungere un paio di persone al comando. La maggior
parte di loro non sa chi diavolo sia io, però. Ho passato più tempo a spiegargli
che lavoravo per lei che a parlare della situazione su Ganimede.»
«Ti serva di lezione. I burocrati marziani sono persone stupide, venali.
Che cos’hanno detto?»
«La versione lunga?»
«La breve.»
«Ci avete sparato.»
Avasarala si appoggiò allo schienale della sedia. Le faceva male la
schiena, le facevano male le ginocchia, e il groppo di rimpianti e
indignazione che aveva sempre appena sotto il cuore le sembrava più intenso
che mai.
«Ma certo» disse. «E la delegazione di pace?»
«Sono già partiti» rispose Bobbie. «Domani rilasceranno una
dichiarazione su come le Nazioni Unite si sono presentate al tavolo delle
negoziazioni in cattiva fede. Stanno ancora discutendo sulla formulazione
esatta.»
«Quindi?»
Bobbie scosse la testa. Non sapeva che dire.
«Su quale formulazione stanno discutendo, e quali parti vogliono quale
formulazione?» insistette Avasarala.
«Non lo so. Ha importanza?»
Certo che aveva importanza. La differenza tra ‘Le Nazioni Unite si sono
sedute al tavolo delle negoziazioni in cattiva fede’ e ‘Le Nazioni Unite
sedevano al tavolo delle negoziazioni in cattiva fede’ poteva essere misurata
in centinaia di vite umane’. Migliaia. Avasarala cercò di reprimere la propria
impazienza. Non le veniva naturale.
«E va bene» disse. «Vedi se c’è altro che mi puoi portare.»
Bobbie le porse il foglio. Avasarala lo prese.
«Che diavolo è questa roba?» chiese.
«Le mie dimissioni» spiegò Bobbie. «Ho pensato che avrebbe preferito
avere tutti i documenti in ordine. Siamo in guerra, ora, per cui devo tornare.
Per la mia nuova assegnazione.»
«Chi ti ha richiamato?»
«Ancora nessuno» disse Bobbie. «Ma...»
«Vuoi farmi il favore di sederti? Ho l’impressione di essere sul fondo di
un fottuto pozzo, quando parlo con te.»
La marine si sedette. Avasarala fece un respiro profondo.
«Vuoi uccidermi?» chiese Avasarala. Bobbie sbatté le palpebre, e prima
che potesse rispondere, Avasarala alzò una mano, esigendo silenzio. «Sono
una delle persone più potenti delle Nazioni Unite. Siamo in guerra. Quindi,
vuoi uccidermi?»
«Io... immagino di... sì?»
«No, non vuoi. Vuoi scoprire chi sia stato a uccidere i tuoi uomini e vuoi
che i politici la smettano di ingrassare gli ingranaggi con il sangue dei
marine. E, porca puttana! La sai una cosa? È quello che voglio anch’io.»
«Ma sono una militare marziana in servizio attivo» disse Bobbie. «Se
restassi qui a lavorare per lei, sarebbe alto tradimento.» Il modo in cui lo
disse non era né una lamentela, né un’accusa.
«Non ti hanno richiamato» replicò Avasarala. «E non lo faranno. Il codice
diplomatico di contatto in tempo di guerra è quasi lo stesso per voi come per
noi, e sono diecimila pagine a carattere nove. Se ricevessi degli ordini in
questo stesso istante, io potrei inviare abbastanza emendamenti e richieste di
chiarimento da farti morire di vecchiaia su quella sedia. Se vuoi ammazzare
qualcuno per Marte, non troverai miglior bersaglio di me. Se invece vuoi
mettere fine a questa stupida guerra del cazzo e scoprire chi c’è dietro, torna
alla tua scrivania e scopri quale formulazione esatta sia e chi la vuole.»
Bobbie rimase in silenzio per un lungo istante.
«Lei lo intende come un espediente retorico,» disse alla fine «ma
ucciderla sarebbe una cosa piuttosto sensata. E posso farlo.»
Un brivido attraversò la schiena di Avasarala, ma lei non gli permise di
raggiungere il suo viso.
«Cercherò di non caricare eccessivamente questo punto, in futuro. Ora
rimettiti al lavoro.»
«Sì, signora» disse Bobbie, e uscì dalla stanza. Avasarala esalò un
respiro, gonfiando le guance. Ora si era messa a invitare una marine di Marte
a farla fuori nel suo stesso ufficio. Aveva davvero bisogno di dormire, cazzo.
Il suo terminale palmare trillò. Aveva appena ricevuto un rapporto
straordinario ad alta priorità, e l’avviso rosso scuro copriva le solite
impostazioni della sua schermata di avvio. Lei picchiettò sullo schermo,
pronta a leggere altre brutte notizie da Ganimede.
Ma si trattava di Venere.
Fino a sette ore prima, la Arboghast era stata un cacciatorpediniere di
terza generazione, costruita tredici anni addietro nei cantieri Bush e poi
riequipaggiata come veicolo militare scientifico. Aveva passato gli ultimi otto
mesi in orbita attorno a Venere. Quasi tutti i dati di scansione attiva su cui
aveva fatto affidamento Avasarala erano giunti da lì.
L’evento che stava osservando era stato catturato da due stazioni
telescopiche lunari con inquadrature ad ampio spettro che si trovavano
casualmente alla corretta angolazione, e da una dozzina di osservatori ottici
navali. L’insieme dei dati raccolti era perfettamente concorde.
«Riguardalo» disse Avasarala.
Michael-Jon de Uturbé era stato un tecnico di campo quando l’aveva
incontrato per la prima volta, trent’anni prima. Ora era il capo di fatto del
comitato scientifico speciale, ed era sposato con la compagna di stanza di
Avasarala dei tempi dell’università. In quegli anni, i suoi capelli erano caduti
ed erano sbiancati, la sua pelle marrone scuro aveva cominciato ad allentarsi
un po’ dalle ossa, e non aveva cambiato la marca della scadente acqua di
colonia che utilizzava.
Era sempre stato un uomo decisamente timido, quasi antisociale. Per
mantenere quel contatto, Avasarala sapeva di non dovergli chiedere troppe
cose. Il suo piccolo, caotico ufficio era a meno di mezzo chilometro da quello
di lei; eppure si erano incontrati cinque volte in quegli ultimi dieci anni, e
sempre in momenti in cui Avasarala aveva bisogno di capire alla svelta
qualcosa di oscuro e complesso.
Lui picchiettò due volte sul suo terminale palmare, e le immagini sullo
schermo ripresero da capo. L’Arboghast era di nuovo integra, e fluttuava in
dettaglio a falsi colori sulla foschia della nube venusiana. Il cronometro
cominciò ad avanzare, secondo dopo secondo.
«Guidami» disse lei.
«Uhm. Bene. Cominciamo dal picco. È esattamente come quello che
abbiamo visto l’ultima volta che Ganimede ha cominciato ad andare a rotoli.»
«Fantastico. Ora abbiamo due informazioni.»
«Questo è avvenuto prima del combattimento» spiegò lui. «Forse un’ora
prima, o qualcosa di meno.»
Durante lo scontro a fuoco di Holden. Prima che Avasarala riuscisse a
catturarlo. Ma com’era possibile che Venere reagisse al raid di Holden su
Ganimede? Che i mostri di Bobbie avessero fatto parte di quel
combattimento?
«Poi, il ping radio. Proprio» mise in pausa il display «qui. C’è una
scansione massiccia nella griglia da tre a sette secondi. Stava guardando, ma
sapeva dove guardare. Immagino per via di tutte quelle scansioni attive.
Hanno richiamato l’attenzione.»
«Chiaro.»
Lui fece ripartire il video. La risoluzione si fece appena più sgranata, e
Michael-Jon emise un verso compiaciuto.
«Questo sì che è interessante» disse, come se il resto non lo fosse. «Un
qualche tipo di pulsazione radiante. Ha interferito con tutte le telescopie
eccetto per uno spettro strettamente visibile su Luna. È durata soltanto un
decimo di secondo, però. L’ondata di microonde successiva è una scansione
attiva piuttosto normale.»
Le parole ‘sembri deluso’ arrivarono sulla punta della lingua di
Avasarala, ma il timore e l’ansia di ciò che sarebbe successo dopo le
impedirono di pronunciarle. La Arboghast, con a bordo le sue
cinquecentosettantadue anime, si disgregò come una nuvola. Le piastre della
chiglia si sfaldarono in file ordinate e pulite. Travi sovrastrutturali e ponti si
separarono. Le piattaforme meccaniche si staccarono, scivolando via.
Nell’immagine che aveva di fronte, l’intero equipaggio era stato esposto al
vuoto spaziale. In quel preciso istante, sotto i suoi occhi, stavano morendo
tutti, e non erano ancora morti. Era come guardare l’animazione di un
progetto costruttivo – qui gli alloggi per l’equipaggio, qui la sezione
meccanica, le paratie di contenimento del propulsore e via dicendo – ma
questa era mostruosa.
«Questo sì che è particolarmente interessante» osservò Michael-Jon,
interrompendo la sequenza. «Guarda che cosa accade quando aumentiamo lo
zoom.»
‘Non mostrarmeli’ avrebbe voluto dire Avasarala. ‘Non voglio vederli
morire.’
Ma l’immagine su cui si concentrò non era quella di un essere umano,
bensì un groviglio di complesse tubature. Fece avanzare lentamente il video,
frame dopo frame, e l’immagine si fece offuscata.
«Si sta dissolvendo?» chiese lei.
«Cosa? No, no. Ecco, ti avvicino un altro po’.»
L’immagine fece un altro salto. La foschia era un’illusione creata da un
nugolo di minuscoli pezzi di metallo: viti, bulloni, ponticelli, guarnizioni.
Avasarala strinse gli occhi. Non era una nuvola disordinata. Come segatura di
metallo sotto l’influenza di un magnete, ogni piccolo pezzo era tenuto in linea
con quelli che lo seguivano e che lo precedevano.
«La Arboghast non è stata dilaniata» disse lui. «È stata smontata. Sembra
che ci siano state quindici ondate distinte, ognuna delle quali ha disfatto un
livello del meccanismo. Ha spogliato l’intera nave, fino ai bulloni.»
Avasarala fece un respiro profondo, poi un altro, poi un altro ancora,
finché l’affanno non venne meno e lo sbalordimento e la paura non si fecero
abbastanza insignificanti da poter essere spinti in un angolino della sua
mente.
«Che razza di cosa può fare qualcosa del genere?» chiese alla fine. Era
una domanda retorica. Ovviamente, non c’era risposta. Nessuna forza nota
all’umanità era in grado di fare ciò che era appena stato fatto. Ma non fu il
significato che gli attribuì lui.
«Laureandi» rispose Michael-Jon con brio. «Il mio esame finale di
Progettazione Industriale era proprio così. Ci diedero delle macchine e
dovemmo smontarle per capire come funzionassero. C’erano dei crediti extra
riservati a chi avesse migliorato il progetto.» Un attimo dopo, la sua voce si
fece mesta. «Ovviamente, poi dovevamo anche riassemblarle.»
Sullo schermo, la rigidità e l’ordine dei pezzi fluttuanti s’interruppero e
bulloni e travi, grosse piastre ceramiche e minuscoli ponticelli cominciarono
a sparpagliarsi, messi in movimento caotico dalla scomparsa di qualunque
cosa li avesse tenuti fermi. Settanta secondi, dalla prima ondata all’ultima.
Poco più di un minuto, e non era stato sparato neppure un colpo in risposta.
Non c’era nemmeno niente a cui sparare.
«L’equipaggio?»
«Ha smontato anche le loro tute. Non si è presa la briga di disassemblare i
corpi. Può darsi che li abbia interpretati come unità logiche, o che conosca
già tutto ciò che ha bisogno di sapere sull’anatomia umana.»
«Chi ha visto questa roba?»
Michael-Jon sbatté le palpebre, poi si strinse nelle spalle, quindi sbatté di
nuovo le palpebre.
«Questa roba questa, o una versione di questa roba? Siamo gli unici a
essere in possesso di entrambi i video ad alta definizione, ma si tratta di
Venere. Tutti quelli che stavano guardando l’hanno vista. Non è che siamo in
un laboratorio segreto.»
Avasarala chiuse gli occhi, premendosi le dita sul ponte del naso come se
stesse lottando contro un mal di testa mentre si sforzava di conservare la sua
maschera. Meglio sembrare addolorata. Meglio sembrare impaziente. La
paura la scosse come una convulsione, come qualcosa che stesse capitando a
un altro. Le lacrime le si affacciarono agli occhi, e lei si morse il labbro fino a
ricacciarle indietro. Avviò il localizzatore di personale sul suo terminale.
Nguyen era fuori discussione, anche se fosse stato a distanza di
conversazione. Nettleford aveva una dozzina di navi in viaggio verso la
Stazione di Ceres, e Avasarala non era del tutto sicura di lui. Souther.
«Puoi inviare questa versione all’ammiraglio Souther?»
«Ah, no. Non è stata autorizzata la diffusione.»
Avasarala lo fissò con il viso inespressivo.
«Autorizzi la diffusione?»
«Autorizzo la trasmissione all’ammiraglio Souther. Inviala
immediatamente, per favore.»
Michael-Jon annuì seccamente picchiettando con entrambe le punte dei
mignoli. Avasarala tirò fuori il suo terminale palmare e inviò un semplice
messaggio a Souther. ‘Lo guardi e mi chiami.’ Quando si alzò in piedi, sentì
una fitta di dolore alle gambe.
«È stato un piacere rivederti» disse Michael-Jon, senza guardarla.
«Dovremmo cenare assieme una di queste sere.»
«Senz’altro» rispose Avasarala, e se ne andò.
Il bagno delle donne era freddo. Avasarala rimase in piedi davanti al
lavandino, con i palmi delle mani posati sul granito. Non era abituata a
provare paura o soggezione. La sua vita aveva gravitato attorno all’idea di
controllo, di convincere, forzare e punzecchiare chiunque ne avesse bisogno
finché il mondo non avesse girato nella direzione che voleva lei. Quelle
poche volte che l’implacabile universo l’aveva sopraffatta la tormentavano:
un terremoto in Bengala, quando era una ragazzina, una tempesta in Egitto
che aveva tenuto lei e Arjun intrappolati nella loro stanza d’albergo per
quattro giorni mentre le scorte alimentari erano agli sgoccioli, la morte di suo
figlio. Ognuno di quegli episodi le aveva rivoltato contro la sua continua
pretesa di certezze e il suo orgoglio, lasciandola raggomitolata nel suo letto,
la notte, per settimane e settimane, con le mani strette a pugno e i sogni
trasformati in un groviglio di incubi.
Stavolta era peggio. Prima, poteva trovare conforto nell’idea che
l’universo fosse privo di fini; che tutti quegli eventi terribili fossero soltanto
dovuti alla convergenza accidentale del caso e di forze non intenzionali. La
morte della Arboghast era qualcosa di diverso, però. Era intenzionale e
disumana. Era come vedere in faccia Dio e non trovarvi alcuna compassione.
Tremando, Avasarala tirò fuori il suo terminale palmare. Arjun le rispose
quasi immediatamente. Dal modo in cui stringeva la mascella e dalla
dolcezza nei suoi occhi, lei capì che aveva visto una qualche versione
dell’evento. E il suo pensiero non era andato al destino dell’umanità, ma a lei.
Avasarala cercò di sorridere, ma era troppo. Le sue guance si rigarono di
lacrime. Arjun sospirò piano e abbassò lo sguardo.
«Ti amo» disse Avasarala. «Conoscere te mi ha fatto sopportare
l’insopportabile.»
Arjun sorrise. Le rughe gli donavano. Era un uomo ancora più bello, ora
che era vecchio. Come se il ragazzo dal viso rotondo, comicamente
giudizioso, che si affacciava alla sua finestra per leggerle poesie di notte non
avesse aspettato altro che di diventare questo.
«Ti amo, ti ho sempre amata, e, se rinasceremo in nuove vite, ti amerò
anche allora.»
Avasarala emise un unico singhiozzo, si asciugò gli occhi con il dorso
della mano e annuì.
«E va bene, allora» disse.
«Torni al lavoro?»
«Torno al lavoro. Potrei fare tardi.»
«Sarò qui. Svegliami pure.»
Rimasero in silenzio per un istante; poi lei chiuse il collegamento.
L’ammiraglio Souther non l’aveva chiamata. Errinwright non l’aveva
chiamata. La mente di Avasarala balzava da una parte all’altra come un
terrier che aggrediva una nave di trasporto truppe. Si alzò e si costrinse a
mettere un piede davanti all’altro. Il semplice gesto di camminare sembrò
schiarirle le idee. Piccoli cart elettrici erano lì pronti a riportarla nel suo
ufficio in un batter d’occhio, ma lei li ignorò e, quando giunse alla sua stanza,
era di nuovo quasi tranquilla.
Bobbie era seduta china alla sua scrivania; la semplice mole di quella
donna faceva sembrare che il mobilio fosse uscito da una qualche scuola
elementare. Soren era altrove, il che andava bene. Il suo addestramento non
era militare.
«Fa’ conto di essere in trincea con una minaccia che ti sta per piombare
addosso» disse Avasarala, sedendosi sul bordo della scrivania di Soren. «Fa’
conto di essere su una qualche luna, e un terzo attore ti ha appena sganciato
contro una cometa. Una minaccia massiccia, capito come?»
Bobbie la fissò per un istante, confusa, poi, scrollando le spalle, la
assecondò.
«Capito» rispose la marine.
«Perché scegliere proprio quel momento per metterti a litigare con il tuo
vicino? Sei soltanto spaventata, e spari a casaccio? Stai pensando che il
responsabile della minaccia sia proprio quel bastardo? O sei semplicemente
stupida a tal punto da farlo e basta?»
«Stiamo parlando di Venere e dello scontro nel sistema gioviano» disse
Bobbie.
«È una metafora fottutamente tirata per i capelli, ma sì» replicò
Avasarala. «Allora, perché lo fai?»
Bobbie si appoggiò allo schienale, facendo scricchiolare la plastica sotto
il suo peso. Gli occhi della donnona si strinsero. Aprì la bocca per parlare, poi
la richiuse, si accigliò, infine parlò.
«Sto consolidando la mia posizione» disse Bobbie. «Se uso le mie risorse
per fermare la cometa, poi, una volta che la minaccia sarà svanita, perderò. Il
mio vicino mi troverà con le braghe calate. Bang. Se lo prendo a calci nel
culo prima, però, quando poi sarà finita, avrò vinto.»
«Ma se collabori...»
«In tal caso bisognerebbe fidarsi dell’altro» rispose Bobbie, scuotendo la
testa.
«C’è un milione di tonnellate di ghiaccio che sta per schiacciare entrambi.
Perché diavolo non dovresti fidarti dell’altro?»
«Dipende. È un terrestre?» disse Bobbie. «Ci sono due potenze militari
principali, all’interno del sistema, più quello che i cinturiani riescono a
racimolare. Il che fa tre campi, con un sacco di precedenti. Quando
qualunque cosa stia accadendo su Venere accadrà sul serio, qualcuno vorrà
avere già tutte le carte in mano.»
«E se entrambi i campi – la Terra e Marte – fanno lo stesso tipo di
calcolo, spenderemo tutte le nostre energie a prepararci per la guerra
successiva.»
«Già» ammise Bobbie. «E sì: così perdiamo tutti insieme.»
24

Prax
Prax era seduto nella sua cabina. Per essere uno spazio privato su una
nave, sapeva che era grande. Perfino ampio. In assoluto, era più piccolo di
quanto non fosse stata la sua stanza da letto su Ganimede. Era seduto sul
cuscinetto riempito di gel, con l’accelerazione di gravità che gli premeva
addosso, rendendogli le braccia e le gambe più pesanti di quanto non fossero
in realtà. Si chiese se l’improvvisa sensazione di aumentare di peso – in
particolare con i cambi discontinui tipici dei viaggi nello spazio – facesse
scattare un qualche segnale evoluzionistico di affaticamento. Quella
sensazione di essere attirato verso il pavimento o verso il letto era così
potentemente simile a quella di una stanchezza che penetrava fin nelle ossa,
che era facile credere di poter risolvere la questione con un po’ di sonno in
più, che il sonno potesse migliorare le cose.
«Tua figlia è probabilmente morta» disse ad alta voce. Attese di vedere se
il corpo avrebbe reagito. «Mei è probabilmente morta.»
Stavolta non cominciò a singhiozzare, e questo era già un progresso.
Ganimede era a un giorno e mezzo di viaggio alle sue spalle, e già era
troppo piccola da poter essere vista a occhio nudo. Giove era un disco pallido
delle dimensioni dell’unghia di un mignolo; restituiva la luce di un sole che
era poco più che una stella molto luminosa. Razionalmente, Prax sapeva di
essere diretto verso il sole, muovendosi dal sistema gioviano verso la Fascia.
Tra una settimana, il sole sarebbe stato quasi due volte più grosso di ora, e
sarebbe stato comunque insignificante. In un contesto talmente immenso, di
distanze e velocità così tremendamente al di sopra di qualsiasi significativa
esperienza umana, sembrava che niente dovesse avere importanza. Avrebbe
dovuto accettare il fatto di non essere stato presente quando Dio aveva creato
le montagne, che fossero quelle sulla Terra, quelle su Ganimede o da
qualsiasi altra parte, lontano, nell’oscurità. Prax era all’interno di una
scatoletta di ceramica e metallo che stava scambiando materia in cambio di
energia per trasportare mezza dozzina di primati attraverso un vuoto più
ampio di milioni di oceani. Paragonato a tutto questo, come poteva avere
importanza qualsiasi altra cosa?
«Tua figlia è probabilmente morta» si ripeté, e stavolta le parole gli si
incastrarono in gola e cominciarono a strozzarlo.
Doveva dipendere, pensò, da quell’impressione di essere
improvvisamente al sicuro. Su Ganimede, la paura l’aveva reso ottuso. La
paura e la denutrizione, la routine e la capacità di potersi muovere in qualsiasi
momento, di fare qualcosa anche se era completamente inutile. Andare a
controllare di nuovo i pannelli dei notiziari, aspettare in fila al centro di
sicurezza, trottare lungo i corridoi e vedere quanti nuovi fori di proiettile
c’erano nei muri...
Sulla Rocinante, invece, doveva rallentare. Doveva fermarsi. Non c’era
niente da fare lì, per lui, se non aspettare che la lunga caduta verso il sole li
portasse alla Stazione di Tycho. Non aveva distrazioni. Non c’era nessuna
stazione attraverso cui andare a caccia; nemmeno una stazione ferita, o
morente. C’erano soltanto la cabina che gli era stata data, il suo terminale
palmare e qualche tuta spaziale di mezza taglia troppo grande per lui. Una
scatoletta di articoli da toilette. Questo era tutto ciò che gli era rimasto. E
c’erano cibo e acqua pulita a sufficienza perché il suo cervello potesse
riprendere a funzionare.
A ogni ora che passava gli sembrava di svegliarsi un po’ di più. Aveva
capito quanto erano stati maltrattati il suo corpo e la sua mente soltanto
quando aveva cominciato a stare meglio. Ogni volta gli pareva di essere
tornato alla normalità, e poi, non molto dopo, scopriva che c’era ancora altro
da recuperare.
Per cui aveva esplorato sé stesso. Esaminare la ferita al centro del suo
mondo era come premere la punta della lingua in un buco secco.
«Tua figlia» disse in lacrime «è probabilmente morta. Ma, se non lo è,
devi ritrovarla.»
Così era meglio. O, se non meglio, perlomeno più giusto. Si chinò in
avanti, intrecciando le mani, e vi appoggiò il mento. Cautamente, immaginò
il corpo di Katoa, sdraiato sul quel tavolo. Quando la sua mente si ribellò,
cercando di pensare a qualcos’altro, lui tornò sull’immagine e sostituì Mei al
corpo del bambino. Silenziosa, vuota, morta. Il dolore gli salì dentro da un
punto appena sopra lo stomaco, e lo osservò come se fosse stato qualcosa al
di fuori di sé stesso.
Durante il suo periodo da studente universitario, Prax aveva raccolto
informazioni per uno studio sul Pinus contorta. Tra tutte le varietà esistenti
sulla Terra, il lodgepole si era rivelato essere il più resistente in ambienti a
bassa gravità. Il compito di Prax era consistito nel raccogliere le pigne cadute
e bruciarle per ottenere i semi. In natura, i lodgepole non avrebbero
germinato senza una fiamma; la resina delle pigne incoraggiava il fuoco a
essere più intenso, anche quando significava la morte dell’albero genitore.
Per andar meglio, doveva andare peggio. Per sopravvivere, quella pianta
doveva abbracciare ciò a cui non si poteva sopravvivere.
Lo capiva.
«Mei è morta» disse. «L’hai persa.»
Non doveva aspettarsi che quell’idea avrebbe smesso di fargli male. Non
avrebbe mai smesso di fargli male. Ma non poteva permettere che crescesse
al punto da sopraffarlo. Aveva l’impressione di infliggersi un danno spirituale
continuo, ma era quella la strategia che aveva adottato. E, da quel che vedeva,
sembrava funzionare.
Il suo terminale trillò. Il blocco di due ore era terminato. Prax si pulì le
lacrime dal viso con il dorso della mano, inspirò a fondo, espirò e si alzò in
piedi. Due ore, due volte al giorno, aveva deciso, sarebbero state un tempo
sufficiente da passare tra le fiamme per forgiarlo e mantenerlo forte in quel
nuovo ambiente di minor libertà e maggiori calorie. Abbastanza per
mantenerlo in stato funzionale. Si sciacquò il viso nel bagno in comune –
l’equipaggio lo chiamava bagno di testa – e si diresse verso la cambusa.
Il pilota – di nome Alex – era in piedi davanti alla macchina del caffè,
intento a parlare in un’unità di comunicazione a parete. La sua pelle era più
scura di quella di Prax, aveva i capelli neri che cominciavano a diradare, e i
primi fili bianchi che spuntavano qua e là. La sua voce era carica di quella
strana cadenza strascicata propria di alcuni marziani.
«Io vedo otto percento, in caduta.»
L’unità a parete disse qualcosa di allegro e osceno. Amos.
«Te l’ho detto, la guarnizione è spaccata» disse Alex.
«L’ho sistemata due volte» replicò Amos dal pannello. Il pilota prese
dalla macchina del caffè una tazza con la parola Tachi stampata sopra.
«Non c’è due senza tre.»
«E va bene. Aspetta lì.»
Il pilota prese un lungo sorso dalla tazza, schioccò le labbra e poi,
notando Prax, lo salutò con un cenno del capo. Prax sorrise a disagio.
«Ti senti meglio?» chiese Alex.
«Sì. Credo di sì» rispose Prax. «Non lo so.»
Alex si sedette a uno dei tavoli. La stanza seguiva un’architettura militare:
tutti angoli tondeggianti e curve per minimizzare il danno se qualcuno fosse
stato colto alla sprovvista da un impatto o da una manovra improvvisa. Il
controllo dell’inventario alimentare disponeva di un’interfaccia biometrica
che era stata disabilitata. Costruita per essere ad alta sicurezza, ma non per
essere usata. Sulla parete, grandi quanto la sua mano, erano stampate le
lettere che componevano il nome ROCINANTE; qualcuno ci aveva aggiunto
vicino, a stencil, un narciso giallo. A Prax sembrò disperatamente fuori luogo
e, al contempo, perfettamente appropriato. Pensandoci bene, quel concetto
pareva adattarsi bene alla maggior parte delle cose che riguardavano quella
nave. All’equipaggio, per esempio.
«Ti stai ambientando? Ti serve qualcosa?»
«Sto bene» disse Prax annuendo. «Grazie.»
«Ci hanno fatto un bel mazzo, quando siamo usciti da lì. Sono passato per
parecchi tratti merdosi di cielo, ma quello dell’altro giorno non scherzava.»
Prax annuì e prese una razione dalla dispensa. Era un impasto ruvido,
dolce e ricco di grano e miele, con il retrogusto di uva passa. Prax si sedette
prima di rifletterci, e il pilota sembrò prenderlo come un invito a continuare
la conversazione.
«Quanto tempo sei stato su Ganimede?»
«La maggior parte della mia vita» rispose Prax.«La mia famiglia si è
trasferita quando mia madre è rimasta incinta. Avevano lavorato sulla Terra e
su Luna, mettendo da parte i soldi per andare nei pianeti esterni. Prima hanno
lavorato anche su Callisto, per un po’.»
«Cinturiani?»
«Non proprio. Avevano sentito dire che i contratti erano meglio oltre la
Fascia. Avevano quell’idea di ‘creare un futuro migliore per la famiglia’, e
quella roba lì. Era un po’ il sogno di mio padre.»
Alex sorseggiò il suo caffè.
«E così... Praxidike. Il tuo nome deriva dalla luna?»
«Sì» ammise Prax. «I miei furono imbarazzati di scoprire che si trattava
di un nome femminile. A me non ha mai dato fastidio, però. Mia moglie – la
mia ex moglie – pensava che fosse carino. E forse è proprio quello il motivo
per cui mi ha notato, all’inizio. Bisogna pur avere qualcosa che ti distingua
un minimo, e su Ganimede non puoi fare tre passi senza imbatterti in cinque
esperti di botanica. O meglio, non potevi.»
La pausa fu abbastanza lunga da permettere a Prax di capire che cosa
stava per arrivare e di prepararsi al colpo.
«Ho saputo che tua figlia è scomparsa» disse Alex. «Mi dispiace.»
«Probabilmente è morta» riconobbe Prax, proprio come si era allenato a
fare.
«Aveva a che fare con quel laboratorio che avete trovato laggiù, dico
bene?»
«Credo di sì. Dev’essere così. L’hanno portata via appena prima
dell’incidente. Lei, e diversi degli altri bambini del suo gruppo.»
«Che gruppo?»
«Mei è affetta da una malattia del sistema immunitario.
L’immunosenescenza precoce di Myers-Skelton. L’ha sempre avuta.»
«Mia sorella ha un’osteogenesi imperfetta. Pesante» rispose Alex. «È per
questo che l’hanno presa?»
«Immagino di sì» ammise Prax. «Altrimenti che motivo c’era di rapirla?»
«Lavoro minorile o tratta del sesso» disse piano Alex. «Ma non vedo
perché scegliere bambini con una malattia rara. È vero che avete visto la
protomolecola, là sotto?»
«A quanto pare» disse Prax. Il bulbo alimentare si stava freddando tra le
sue mani. Sapeva che avrebbe dovuto mangiare di più – e voleva farlo, tanto
era buono – ma sentiva qualcosa che gli frullava nella testa. Aveva già
riflettuto su questa faccenda prima d’ora, quando era debilitato e affamato.
Ora, in quella bara civilizzata che si precipitava attraverso il vuoto, tutti quei
vecchi pensieri tanto familiari cominciarono a incontrarsi l’uno con l’altro.
Avevano preso di mira proprio i bambini del gruppo di Mei. Bambini con il
sistema immunitario compromesso. E sperimentavano con la protomolecola.
«Il capitano era su Eros» disse Alex.
«Dev’essere stata una brutta perdita, per lui, quand’è successo» osservò
Prax, tanto per rispondere qualcosa.
«No, non volevo dire che ha vissuto lì. Era sulla stazione quand’è
successo. Ci siamo stati tutti, ma lui è rimasto lì più a lungo. L’ha visto
cominciare. La prima persona infetta. Quello, dicevo.»
«Davvero?»
«L’ha un po’ cambiato. Volo con lui da quando ce ne stavamo su quel
vecchio rottame di nave frigorifera che faceva avanti e indietro tra Saturno e
la Fascia. Sospetto che non gli andassi a genio, prima. Ora siamo una
famiglia. Ne abbiamo fatta di strada.»
Prax tirò su un lungo boccone dal bulbo. L’impasto freddo sapeva meno
di grano e più di miele e uvetta. Era meno buono. Gli tornò in mente
l’espressione terrorizzata di Holden quando avevano trovato i filamenti scuri,
il panico appena controllato nel suo tono di voce. Ora aveva più senso.
E, come evocato da quel pensiero, Holden apparve sulla soglia, con una
cassetta in alluminio precompresso sottobraccio che aveva delle placche
elettromagnetiche lungo la base. Un bauletto di oggetti personali progettato
per restare fermo anche ad alte accelerazioni di gravità. Prax ne aveva già
visti, ma non ne aveva mai avuto bisogno. Fino a quel momento, la gravità
per lui era sempre stata una costante.
«Capitano» disse Alex, accompagnando la parola con quel che rimaneva
del suo saluto formale. «Tutto a posto?»
«Sto solo spostando un po’ di cose nella mia cabina» rispose Holden.
L’irritazione nella sua voce era inconfondibile. Prax ebbe l’improvvisa
sensazione di essersi intromesso in una faccenda privata, ma Alex e Holden
non ne diedero segno. Holden si limitò a proseguire lungo il corridoio.
Quando fu fuori portata, Alex sospirò.
«Problemi?» chiese Prax.
«Già. Ma non ti preoccupare. Tu non c’entri. È da un po’ che va avanti.»
«Mi dispiace» disse Prax.
«Doveva succedere. Meglio farla finita, in un modo o nell’altro» rispose
Alex, ma nella sua voce c’era un timore inequivocabile. Prax sentì che
quell’uomo gli piaceva. Il terminale a parete trillò e poi parlò con la voce di
Amos.
«Ora che cos’hai?»
Alex avvicinò il terminale a sé, tirando il braccio articolato che si piegava
ed estendeva su una serie di giunti complessi, poi picchiettò sullo schermo
con il dito di una mano mentre continuava a tenere il caffè nell’altra. Il
terminale si accese, con i dati che si convertivano in grafici e diagrammi in
tempo reale.
«Dieci percento» disse Alex. «Anzi, no. Dodici. Stiamo salendo. Che
cos’hai trovato?»
«Una guarnizione spaccata» rispose Amos. «Sì, sei davvero fottutamente
perspicace. Che altro abbiamo?»
Alex picchiettò sul terminale e Holden riapparve nel corridoio, stavolta
senza la cassetta.
«Il sensore del portellone ha preso una botta. Sembra che abbiamo
bruciato un po’ di fili» disse Alex.
«E va bene» replicò Amos. «Vediamo di sostituire un po’ di quei
ragazzacci.»
«O magari potremmo fare qualcosa che non implichi il dover strisciare
all’esterno di una nave in accelerazione» disse Holden.
«Ce la posso fare, cap» assicurò Amos. Anche attraverso il piccolo
altoparlante del pannello, il suo tono sembrò offeso. Holden scosse la testa.
«Metti un piede fuori posto, e i reattori ti arrostiscono fino agli atomi.
Lascia che se ne occupino i tecnici su Tycho. Alex, che altro abbiamo?»
«Una perdita di memoria nel sistema di navigazione. Probabilmente una
rete che si è fritta» disse il pilota. «La stiva è ancora sottovuoto. Il sistema
radio è morto e sepolto senza alcun motivo apparente. I terminali palmari non
comunicano tra loro. E una delle piattaforme mediche ci sta dando codici
errore, per cui vedete di non ammalarvi.»
Holden si diresse verso la macchina del caffè, parlando da sopra la
propria spalla mentre inseriva la sua scelta. Anche sulla sua tazza c’era scritto
Tachi. Prax si accorse con un sussulto che era scritto su tutte le tazze. Si
chiese chi o che cosa fosse.
«La stiva necessita di attività extra veicolare?»
«Non lo so» rispose Alex. «Fammici dare un’occhiata.»
Holden tirò fuori la sua tazza di caffè dalla macchina con un sospiro e
accarezzò la superficie di metallo come se stesse coccolando un gatto.
D’impulso, Prax si schiarì la gola.
«Scusatemi» disse. «Capitano Holden? Mi chiedevo, se la radio venisse
aggiustata o il raggio stretto fosse disponibile, se potesse esserci un modo di
farmi usare per qualche istante il sistema di comunicazione?»
«Stiamo cercando di non farci notare troppo, in questo momento» replicò
Holden. «Che cosa vorresti inviare?»
«Ho bisogno di fare un po’ di ricerche» spiegò Prax. «I dati che abbiamo
su Ganimede nel momento in cui hanno portato via Mei. Ci sono delle
immagini della donna che era con loro. E, se riesco a scoprire quello che è
successo al dottor Strickland... Ho avuto a disposizione soltanto un sistema
bloccato, dal giorno in cui è scomparsa. Se fossero anche soltanto banche dati
e reti di accesso pubbliche, sarebbe già un buon punto di partenza.»
«E c’è questo, oppure starsene seduti a girarsi i pollici finché non
arriviamo su Tycho...» disse Holden. «E va bene. Chiederò a Naomi di crearti
un account di accesso alla rete della Roci. Non so se troverai qualcosa nei file
dell’APE, ma potrebbe essere una buona idea controllare anche lì.»
«Davvero?»
«Sicuro» rispose Holden. «Hanno una banca dati di riconoscimento
facciale niente male. È interna al loro perimetro di sicurezza, per cui potresti
aver bisogno di uno di noi per far partire la richiesta di accesso.»
«E si potrebbe fare? Non voglio crearvi problemi con l’APE.»
Il sorriso di Holden era caloroso e gioviale.
«Non ti preoccupare per questo, davvero» disse. «Alex, che
cos’abbiamo?»
«Sembra che il portellone di carico non si riesca a sigillare, cosa che
sapevamo. Potremmo aver preso un colpo, che ci ha fatto un buco. Abbiamo
il video delle telecamere, però... Aspetta...»
Holden si spostò per sbirciare oltre la spalla di Alex. Prax ingurgitò un
altro po’ di cibo e cedette alla curiosità. L’immagine di una stiva non più
grande del palmo di Prax apparve in un angolo dello schermo. La maggior
parte del carico era impilata su bancali elettromagnetici, agganciata alle
piastre più vicine al portellone della stiva, ma alcune casse si erano staccate
ed erano state schiacciate sul pavimento dalla gravità di accelerazione.
Questo dava alla sala un aspetto surreale, escheriano. Alex ridimensionò
l’immagine, ingrandendo sul portellone di carico. In un angolo, una spessa
sezione di metallo era piegata in dentro, e il metallo lucido si mostrava nei
punti in cui la piega aveva spaccato gli strati esterni. Attraverso il foro si
vedeva un fazzoletto di stelle.
«Be’. Almeno non è nascosto» disse Alex.
«Che cosa l’ha colpito?» chiese Holden.
«Non lo so, cap» rispose Alex. «Niente bruciature, da quel che posso
vedere. Ma un proiettile gauss non avrebbe piegato il metallo in quel modo.
Avrebbe semplicemente fatto un foro. E la stiva non è distrutta, per cui,
qualunque cosa l’abbia fatto, non ha perforato anche l’altra parte.»
Il pilota aumentò ancora l’ingrandimento, analizzando attentamente i
bordi della ferita. Era vero che non c’erano segni di bruciatura, ma sul
metallo del portellone e del ponte risaltavano sottili strisciate nere. Prax
aggrottò la fronte. Aprì la bocca per parlare, poi la richiuse.
Holden disse quello che Prax stava pensando.
«Alex? Per caso quella è l’impronta di una mano?»
«Sembrerebbe così, cap, ma...»
«Torna indietro. Fammi vedere il ponte.»
Erano piccole. Appena accennate. Facili da lasciarsi sfuggire in quella
piccola immagine. Ma erano lì. L’impronta di una mano, strisciata in
qualcosa di nero che Prax sospettava fortemente essere stato rosso, un tempo.
L’inconfondibile impronta di cinque dita nude. Una lunga strisciata di
oscurità.
Il pilota seguì la traccia.
«Quella stiva è sottovuoto, giusto?» chiese Holden.
«È così da un giorno e mezzo, signore» rispose Alex. L’atteggiamento
rilassato era sparito. Ora erano del tutto formali.
«Va’ a destra» disse Holden.
«Sì, signore.»
«Okay, basta. Quello cos’è?»
Il corpo era raggomitolato in posizione fetale, tranne per i palmi che
erano premuti sulla paratia. Era assolutamente immobile, come se fossero
stati a g elevato e si tenesse contro il ponte, schiacciato dal suo stesso peso.
La carne aveva il nero dell’antracite e il rosso del sangue. Prax non sapeva
dire se si trattasse di un uomo o di una donna.
«Alex, abbiamo per caso un clandestino?»
«Sono piuttosto sicuro che non figurasse sul manifesto di carico,
signore.»
«Ed è stato quel tipo laggiù ad aprirsi un varco nella mia nave, piegando
la paratia a mani nude?»
«Sembrerebbe così, signore.»
«Amos? Naomi?»
«Lo sto vedendo anch’io.» La voce di Naomi giunse dal terminale un
istante prima del fischio basso di Amos. Prax ripensò ai misteriosi rumori di
violenza nel laboratorio, ai corpi delle guardie che non avevano abbattuto, al
vetro in frantumi e ai filamenti neri al suo interno. Quello era l’esperimento
che era sfuggito al suo guinzaglio nel laboratorio. Era fuggito sulla fredda
superficie morta di Ganimede e aveva aspettato lì finché non aveva avuto una
possibilità di fuga. Prax si sentì la pelle d’oca sulle braccia.
«Okay» disse Holden. «Ma è morto, giusto?»
«Non credo» replicò Naomi.
25

Bobbie
Il terminale palmare di Bobbie cominciò a suonare la diana alle quattro e
trenta, ora locale: ciò che lei e i suoi commilitoni avrebbero chiamato ‘buio e
trenta’ mugugnando, quando era ancora una marine e aveva dei commilitoni
assieme a cui mugugnare. Aveva lasciato il terminale nel salone, vicino al
divano letto che usava per dormire, con il volume abbastanza alto da farle
fischiare le orecchie se fosse stata nella stessa stanza. Ma Bobbie era già in
piedi da un’ora. Nel suo minuscolo bagno, quel rumore era soltanto
fastidioso, e rimbalzava tutto intorno nel piccolo appartamento come una
radio in un pozzo profondo. Quegli echi erano un promemoria sonoro del
fatto che non avesse ancora nessun mobilio né altre decorazioni alle pareti.
Non aveva importanza. Non aveva mai avuto ospiti.
La diana era uno scherzo cinico che Bobbie si era fatta da sola. Le forze
armate marziane erano state costituite centinaia di anni dopo che trombe e
tamburi avevano smesso di essere validi mezzi di trasmissione delle
informazioni alle truppe. Ai marziani mancava la nostalgia che i militari delle
Nazioni Unite avevano per quel genere di cose. La prima volta che Bobbie
aveva sentito una diana mattutina era in un video di storia militare. Era stata
felice di notare che, a prescindere da quanto potesse essere fastidioso
l’equivalente marziano – una serie di sussulti elettronici atonali –, non
sarebbe mai stato fastidioso quanto quello con cui si alzavano i ragazzi della
Terra.
Ma Bobbie non era più una marine marziana.
«Non sono una traditrice» disse alla sua immagine riflessa nello specchio.
La Bobbie nello specchio sembrò poco convinta.
Dopo la terza ripetizione dello squillo di tromba, il suo terminale palmare
mandò un trillo e si chiuse in un silenzio offeso. Bobbie aveva tenuto in mano
lo spazzolino da denti per mezz’ora. Il dentifricio aveva cominciato a
indurirsi. Lei lo passò sotto l’acqua calda per ammorbidirlo di nuovo e
cominciò a lavarsi i denti.
«Non sono una traditrice» ripeté a sé stessa, con lo spazzolino che
rendeva incomprensibili le parole. «Non lo sono.»
Non lo era, nemmeno stando lì, in piedi nel bagno del suo appartamento
fornito dalle Nazioni Unite, mentre si lavava i denti con un dentifricio delle
Nazioni Unite e risciacquava il lavandino con l’acqua fornita dalle Nazioni
Unite. Non mentre aveva in mano il suo bello spazzolino marziano e
continuava a strofinare finché non le sanguinavano le gengive.
«Non lo sono» disse di nuovo, sfidando la Bobbie dello specchio a
dissentire.
Rimise lo spazzolino nella borsetta da bagno, la riportò in salotto e la
ripose nella sacca da viaggio. Avrebbe dovuto muoversi in fretta quando la
sua gente l’avesse richiamata a casa. Perché l’avrebbero fatto. Avrebbe
ricevuto un dispaccio prioritario sul suo terminale, con il bordo rosso e grigio
del comando generale della MRCM che lampeggiava tutto intorno. Le
avrebbero detto che doveva tornare immediatamente alla sua unità. Che era
ancora una di loro.
Che non era una traditrice, per essere rimasta.
Si aggiustò l’uniforme, fece scivolare il suo terminale ormai silenzioso in
tasca e si controllò i capelli nello specchio accanto alla porta. Erano tirati in
una crocchia tanto stretta da stirarle quasi il viso, senza un singolo capello
fuori posto.
«Non sono una traditrice» ripeté allo specchio. La Bobbie dello specchio
all’ingresso sembrò più aperta a quest’idea di quanto non lo fosse stata la
Bobbie dello specchio del bagno. «Diavolo, no» disse, poi sbatté la porta alle
sue spalle quando uscì.
Saltò su una delle biciclettine elettriche che il campus delle Nazioni Unite
metteva a disposizione un po’ ovunque, e arrivò in ufficio tre minuti prima
delle cinque del mattino. Soren era già lì. A prescindere dall’ora in cui
arrivava lei, il ragazzo l’aveva sempre battuta. O dormiva alla scrivania,
oppure la spiava per vedere a che ora impostava la sveglia ogni mattina.
«Bobbie» disse, con un sorriso che non faceva nemmeno finta di essere
autentico.
Bobbie non riuscì a spingersi fino a rispondere, per cui si limitò ad
annuire e a crollare sulla sua sedia. Un’occhiata alle finestre scure dell’ufficio
di Avasarala le disse che la vecchia non era ancora arrivata. Bobbie aprì la
sua lista di cose da fare sullo schermo del desktop.
«Mi ha fatto aggiungere un sacco di gente» disse Soren, facendo
riferimento alla lista di persone che Bobbie avrebbe dovuto chiamare in
qualità di intermediario militare con Marte. «Vuole davvero mettere le mani
sulla prima bozza provvisoria della dichiarazione marziana su Ganimede. È la
tua priorità assoluta per oggi, okay?»
«Perché?» chiese Bobbie. «La dichiarazione è stata rilasciata ieri.
L’abbiamo letta entrambi.»
«Bobbie» rispose Soren con un sospiro triste che rivelava come fosse
stufo di doverle spiegare delle ovvietà, ma con un sorriso che diceva tutto il
contrario. «Ecco come si fa questo gioco: Marte rilascia una dichiarazione di
condanna per le nostre azioni. Noi risaliamo a ritroso e troviamo questa prima
bozza. Se è più dura della dichiarazione che è stata rilasciata, allora qualcuno
del corpo diplomatico ha insistito affinché venisse mitigata un po’. Il che
significa che stanno cercando di evitare un’escalation. Se è più mitigata nella
prima bozza, allora probabilmente Marte sta deliberatamente cercando i
presupposti per provocare una risposta.»
«Ma, poiché sanno che otterremo quelle prime bozze, la cosa non ha
senso. Si limiteranno ad assicurarsi che tu ottenga informazioni che ti
daranno l’impressione che loro vogliono che tu abbia.»
«Visto? Ora hai capito» disse Soren. «Ciò che il tuo avversario vuole che
pensi tu, è un dato utile per cercare di decifrare ciò che pensa lui. Per cui
recupera quella prima bozza, okay? Fallo prima che finisca la giornata.»
Ma nessuno mi parla più, ormai, visto che sono la marziana da
compagnia delle Nazioni Unite, e, benché non sia una traditrice, è del tutto
probabile che tutti gli altri pensino che io lo sia.
«Va bene.»
Bobbie aprì la lista rivista da poco e si occupò del primo contatto
richiesto della giornata.
«Bobbie!» gridò Avasarala dalla sua scrivania.
C’erano diversi congegni elettronici a sua disposizione per richiamare
l’attenzione di Bobbie, ma la marine non l’aveva mai vista farne uso. Bobbie
si tirò via l’auricolare dall’orecchio e si alzò. Il sorrisino di Soren era di quelli
interiori; il suo volto non cambiò di una virgola.
«Signora?» disse Bobbie, facendo un passo per entrare nell’ufficio di
Avasarala. «Ha berciato?»
«A nessuno piacciono gli spocchiosi» replicò Avasarala, senza nemmeno
alzare gli occhi dal terminale della sua scrivania. «Dov’è la mia prima bozza
di quel rapporto? È quasi ora di pranzo.»
Bobbie raddrizzò la schiena e unì le mani dietro di essa.
«Signora, mi dispiace doverle segnalare che non sono stata in grado di
trovare qualcuno che fosse disposto a rilasciarmi la prima bozza di
dichiarazione.»
«Ti sei per caso messa sull’attenti?» domandò Avasarala, alzando lo
sguardo su di lei per la prima volta. «Cristo. Non ho intenzione di farti
portare di fronte al plotone di esecuzione. Hai provato tutti quelli che erano
sulla lista?»
«Sì. Io...» Bobbie s’interruppe per un istante e prese un respiro profondo,
poi fece qualche altro passo nell’ufficio. A voce bassa, disse: «Nessuno vuole
parlarmi.»
L’anziana donna inarcò un sopracciglio canuto.
«Interessante.»
«Lo è?» chiese Bobbie.
Avasarala le sorrise; un sorriso caloroso, genuino. Poi versò del tè in due
tazzine da una teiera di ferro nero.
«Siedi» disse, indicando una poltroncina accanto alla sua scrivania.
Quando Bobbie rimase in piedi, Avasarala proseguì: «Dico sul serio. Siediti,
cazzo. Dopo cinque minuti passati a parlare con te non riesco più a chinare la
testa per un’ora.»
Bobbie sedette, esitò, e prese una delle tazzine. Non era molto più grande
di un bicchierino da liquore, e il tè al suo interno era molto scuro e mandava
un odore sgradevole. Bevve un sorsetto e si ustionò la lingua.
«È un lapsang souchong» disse Avasarala. «Lo compra mio marito per
me. Che cosa ne pensi?»
«Penso che puzzi come i piedi di un barbone»rispose Bobbie.
«Cazzo, è vero. Ma ad Arjun piace un sacco e, una volta che ti ci abitui,
non è poi così male.»
Bobbie annuì e prese un altro sorso, ma non aggiunse altro.
«Va bene. Allora,» disse Avasarala «sei la marziana che era scontenta e si
è fatta convincere a passare all’altro schieramento da una vecchia signora
potente con un sacco di esche scintillanti. Sei una traditrice della peggior
specie perché, in fondo, tutto ciò che ti è successo da quando sei giunta sulla
Terra è dovuto al fatto che stavi mettendo il broncio.»
«Io...»
«Chiudi quella cazzo di bocca, ora, tesoro. Stanno parlando gli adulti.»
Bobbie tacque e bevve il suo orribile tè.
«Però,» proseguì Avasarala, con lo stesso sorriso dolce sul suo viso
rugoso «se io fossi dall’altra parte, sai a chi farei arrivare qualche fuga di
notizie fuorviante?»
«A me» disse Bobbie.
«A te. Perché faresti di tutto per provare quanto vali al tuo nuovo capo, e
loro possono farti avere informazioni palesemente false sbattendosene se ti
mettono nella merda a lungo andare. Se io fossi nei panni dei capoccioni del
controspionaggio marziano, avrei già reclutato uno dei tuoi migliori amici, lì
su Marte, e lo starei usando per convogliare una montagna di dati falsi nella
tua direzione.»
I miei migliori amici sono tutti morti, pensò Bobbie.
«Ma nessuno...»
«Ti parla, da casa. Il che significa due cose: che stanno ancora cercando
di capire il mio gioco nel tenerti qui con me, e che non hanno impostato
alcuna campagna di disinformazione perché sono confusi quanto noi. Sarai
contattata da qualcuno nella prossima settimana, o giù di lì. Ti chiederanno di
far trapelare informazioni dal mio ufficio, ma lo faranno in un modo che
finirà per fornirti un sacco di informazioni false. Dal loro punto di vista, se
sei leale e accetti di spiare per loro, bene. Se non lo sei e mi dici che cosa ti
hanno chiesto, bene lo stesso. Magari gli dice bene e fai entrambe le cose.»
Bobbie rimise la tazzina sulla scrivania. Aveva le mani strette a pugno.
«Questo» disse «è il motivo per cui tutti odiano i politici.»
«No. Ci odiano perché abbiamo il potere. Bobbie, alla tua mente non
piace lavorare in questo modo, e io lo rispetto. Non ho tempo di spiegarti
tutto» replicò Avasarala, mentre il sorriso svaniva come se non ci fosse mai
stato. «Per cui limitati a credere che so cosa sto facendo e che, quando ti
chiedo di fare l’impossibile, è perché anche un tuo fallimento è in qualche
modo utile alla nostra causa.»
«La nostra causa?»
«Siamo nella stessa squadra, qui. La squadra ‘Non-perdiamo-insieme’.
Siamo noi, giusto?»
«Sì» rispose Bobbie, con un’occhiata verso il Buddha nel suo
tabernacolo. La statua le restituì un sorriso sereno. ‘Fai solo parte della
squadra’ sembrava dire il suo viso tondo. «Sì, siamo noi.»
«E allora torna di là, cazzo, e comincia a richiamare tutti, uno per uno.
Stavolta prendi appunti dettagliati su chi si rifiuta di aiutarti e annota le
parole esatte che usa per rifiutare. È tutto chiaro?»
«Ricevuto forte e chiaro, signora.»
«Bene» disse Avasarala, sorridendo di nuovo con gentilezza. «Fuori dal
mio ufficio.»
La familiarità poteva generare disprezzo, ma a Bobbie Soren non era
piaciuto fin dall’inizio. Doversi sedere accanto a lui nei giorni successivi
aveva fatto progredire la sua antipatia a un ulteriore livello. Quando non la
ignorava, Soren era sussiegoso. Parlava al telefono a voce troppo alta, anche
quando lei stava cercando di condurre una conversazione sulla sua linea. A
volte si sedeva sulla scrivania di Bobbie, parlando con i visitatori. Indossava
troppa acqua di colonia.
La cosa peggiore era che mangiava biscotti in continuazione.
Era impressionante, data la sua costituzione rachitica, e in genere Bobbie
non era il tipo di persona a cui importasse qualcosa delle abitudini alimentari
degli altri. Ma la marca preferita di Soren proveniva dai distributori
automatici dell’area break, e i biscotti erano incartati in una confezione che
scrocchiava rumorosamente tutte le volte che ne prendeva uno. All’inizio, la
cosa era stata soltanto fastidiosa. Dopo un paio di giorni di Radio Scrocchia,
Crocchia, Mastica e Schiocca, Bobbie ne aveva avuto abbastanza. Chiuse
l’ennesimo collegamento infruttuoso e si voltò per fissarlo. Lui la ignorò e
continuò a picchiettare sul suo terminale da scrivania.
«Soren» disse lei, con l’intento di chiedergli di rovesciare quei dannati
biscotti su un piattino o su un fazzoletto, così non le sarebbe più toccato
sopportare quell’esasperante scricchiolio. Prima che riuscisse a pronunciare
qualcosa oltre al suo nome, lui alzò un dito per zittirla e indicò l’auricolare.
«No» disse «non è proprio un buon...»
Bobbie non capiva se stesse parlando con lei o con qualcuno in linea, per
cui si alzò e si spostò verso la scrivania di Soren, sedendosi sul bordo. Lui le
rivolse un’occhiataccia, ma lei si limitò a sorridere e sussurrò: «Aspetterò.» Il
bordo della scrivania scricchiolò un po’ sotto il peso di Bobbie.
Lui le diede le spalle.
«Capisco» disse. «Ma questo non è un buon momento per discutere...
Capisco. Probabilmente potrei... Capisco, sì. Foster non... Sì. Sì, capisco.
Arrivo.»
Poi si voltò e passò il dito sul pannello della scrivania, chiudendo il
collegamento.
«Che c’è?»
«Odio i tuoi biscotti. Il continuo scricchiolio del pacchetto mi manda ai
pazzi.»
«Biscotti?» ripeté Soren, con un’espressione stupefatta in viso. Bobbie
pensò che fosse la prima espressione genuina che vi aveva mai visto.
«Già, non potresti metterli su un...» fece per dire Bobbie, ma, prima che
potesse terminare, Soren prese il pacchetto e lo gettò nel cestino di riciclo
accanto alla sua scrivania.
«Contenta?»
«Be’...»
«Non ho tempo per te, adesso, sergente.»
«Okay» disse Bobbie, e tornò alla sua scrivania.
Soren continuò a traccheggiare come se avesse altro da dire, per cui
Bobbie non chiamò la persona seguente sulla sua lista. Aspettò che le
parlasse. Probabilmente la faccenda dei biscotti era stata un errore da parte
sua. In fondo non era poi così importante. Se non fosse stata così sotto
pressione, non era il genere di cose che avrebbe mai notato. Quando Soren
avesse finalmente parlato, si sarebbe scusata per essere stata tanto invadente e
si sarebbe offerta di comprargli un altro pacchetto. Invece di parlare, Soren si
alzò.
«Soren, mi...» cominciò a dire Bobbie, ma lui la ignorò e aprì un cassetto
della sua scrivania. Tirò fuori un pezzettino di plastica. Probabilmente solo
perché l’aveva appena sentito pronunciare il nome di Foster, Bobbie
riconobbe la chiavetta di memoria che Avasarala gli aveva dato qualche
giorno prima. Foster era il tizio del servizio dati, per cui immaginò che si
fosse finalmente deciso a occuparsi di quella piccola commissione, che
almeno l’avrebbe portato fuori dall’ufficio per qualche minuto.
Lui si voltò e si diresse agli ascensori.
Bobbie aveva fatto un po’ di lavoro da galoppino, portando documenti
avanti e indietro dall’ufficio del servizio dati, e sapeva che le loro stanze
erano sullo stesso loro piano e nella direzione opposta rispetto agli ascensori.
«Uhm.»
Era stanca. Si sentiva vagamente in colpa, e non sapeva nemmeno con
certezza per cosa. E, comunque, quel tipo non le piaceva. Il presagio che le
venne in mente fu quasi certamente il risultato della sua paranoia e della sua
visione confusa di quel mondo.
Si alzò e lo seguì.
«È una cosa davvero stupida» disse tra sé e sé, sorridendo e facendo un
cenno del capo a un fattorino di passaggio. Bobbie era alta più di due metri su
un pianeta di gente bassa. Non c’era pericolo che s’integrasse.
Soren salì in un ascensore. Bobbie arrivò fuori dalle porte e attese.
Attraverso le porte di alluminio e ceramica, lo sentì chiedere a qualcuno di
premere uno. Stava andando giù fino in strada, quindi. Bobbie premette il
tasto di discesa e prese un altro ascensore fino al pianoterra.
Ovviamente, Soren non era già più in vista quando lei arrivò giù.
Una gigantesca donna marziana che se ne andava in giro correndo per
l’atrio della sede delle Nazioni Unite avrebbe attirato un po’ troppo
l’attenzione, per cui scartò quel piano. Un’ondata d’incertezza, senso di
fallimento e afflizione le lambì la mente.
Doveva dimenticare che si trovava in un ufficio. Dimenticare che non
c’erano nemici armati e che alle sue spalle non c’era nessun battaglione.
Dimentica tutto questo, ed esamina la logica della situazione sul campo.
Pensa in maniera tattica. Sii intelligente.
«Devo essere intelligente» disse Bobbie tra sé e sé. Una donna bassa con
un tailleur rosso che era appena arrivata e aveva premuto il tasto di chiamata
dell’ascensore la sentì e chiese: «Come, scusi?»
«Devo essere intelligente» le disse Bobbie. «Non posso andarmene in
giro a correre come un grilletto a mezzo cane.» Nemmeno quando faccio cose
folli e stupide.
«Ehm... capisco» rispose la donna, poi premette di nuovo più volte il
pulsante di chiamata dell’ascensore. Accanto al pannello di controllo
dell’ascensore c’era un terminale di cortesia. Se non riesci a trovare il
bersaglio, restringi il suo grado di libertà. Fallo venire da te. Giusto. Bobbie
premette il pulsante di chiamata della reception d’ingresso. Un sistema
automatico con una voce estremamente realistica e asessuata le chiese come
potesse aiutarla.
«Per favore, chiami Soren Cottwald al banco della reception d’ingresso»
disse Bobbie. Il computer dall’altra parte della linea la ringraziò per aver
usato il sistema di cortesia automatizzato delle Nazioni Unite e chiuse il
collegamento.
Soren poteva aver spento il terminale, o poteva averlo impostato per
ignorare le chiamate in entrata. O poteva ignorare questa chiamata per scelta.
Bobbie trovò un divanetto con una buona visuale verso la reception e spostò
una pianta di ficus per avere copertura.
Due minuti dopo, Soren giunse a passo svelto al banco della reception,
con i capelli più scarmigliati del solito. Doveva essere già uscito dall’edificio
quando aveva ricevuto quella chiamata. Cominciò a parlare con un’addetta
umana alla reception. Bobbie si spostò attraverso l’atrio ed entrò in un
chioschetto per il caffè, nascondendosi meglio che poteva. Dopo aver
picchiettato sul terminale del bancone per un istante, l’addetta indicò il
terminale accanto agli ascensori. Soren si accigliò e vi si avvicinò di qualche
passo, poi si guardò intorno nervosamente e si diresse verso l’ingresso
dell’edificio.
Bobbie lo seguì.
Una volta all’esterno, la sua altezza era tanto un vantaggio quanto uno
svantaggio. Essere più alta di una testa e mezzo della maggior parte della
gente che aveva intorno significava che poteva permettersi di restare piuttosto
lontano alle spalle di Soren, mentre lui si affrettava lungo il marciapiede.
Avrebbe potuto individuare la sua testa da mezzo isolato di distanza. Nello
stesso tempo, però, se lui si fosse guardato indietro, non avrebbe potuto non
notare la faccia di Bobbie che spiccava di buoni trenta centimetri sul resto
della folla.
Ma Soren non si voltò. In effetti, sembrava andare piuttosto di fretta,
spingendosi oltre i crocchi di gente sul marciapiede affollato intorno al
campus delle Nazioni Unite con ovvia impazienza. Non si guardò intorno,
non si fermò accanto a una superficie riflettente, e non tornò sui suoi passi.
Era stato nervoso quando aveva risposto alla convocazione nell’atrio, e ora si
sforzava rabbiosamente di non esserlo.
Cercava di fare buon viso a cattivo gioco. Bobbie sentì i suoi muscoli che
si rilassavano, le articolazioni che si scioglievano, e il suo presentimento si
avvicinò di un passetto alla certezza.
Dopo tre isolati, Soren svoltò ed entrò in un bar.
Bobbie si fermò a mezzo isolato di distanza e rifletté sul da farsi. La
facciata del bar, un posto creativamente intitolato Pete’s, era di vetro
oscurato. Se volevi entrare lì per nasconderti e vedere se qualcuno ti stava
seguendo, era il posto perfetto. Forse si era fatto furbo.
O forse no.
Bobbie si diresse all’ingresso del bar. Farsi pizzicare non avrebbe avuto
nessuna conseguenza. Soren la odiava già. La cosa eticamente più sospetta
che stava facendo era uscire prima dall’ufficio per andare in un bar del
circondario. E chi avrebbe potuto fare la spia? Soren? Quello che era uscito
prima proprio come lei e che era andato nello stesso dannatissimo bar?
Se era andato lì soltanto per bersi una birra in anticipo, Bobbie si sarebbe
limitata ad andargli incontro, scusandosi per la faccenda dei biscotti e
offrendogli un secondo giro di bevute.
Spinse la porta ed entrò.
I suoi occhi impiegarono un istante a adattarsi, passando dalla luce del
primo pomeriggio all’interno fioco del bar. Una volta svanito l’abbaglio,
Bobbie vide un lungo bancone di bambù, gestito da un barista umano, una
mezza dozzina di tavoli con altrettanti clienti, ma niente Soren. Nell’aria
c’era odore di birra e popcorn bruciati. Gli avventori le diedero un’occhiata e
poi tornarono cautamente ai loro drink e alle loro conversazioni sussurrate.
Che Soren si fosse allontanato dal retro per seminarla? Bobbie non
pensava che si fosse accorto di lei, ma non era propriamente addestrata per
pedinare qualcuno. Stava per chiedere al barista se per caso avesse visto
passare un ragazzo, e dove potesse essere andato, quando notò un cartello sul
fondo del locale con la scritta TAVOLI DA BILIARDO, e una freccia che indicava
a sinistra.
Andò verso il fondo del bar, svoltò a sinistra e trovò una seconda sala, più
piccola, con quattro tavoli da biliardo e due uomini al suo interno. Uno dei
due era Soren.
Alzarono entrambi lo sguardo quando lei svoltò l’angolo.
«Salve» disse lei. Soren le sorrise, ma sorrideva sempre. Sorridere, per
lui, era una maschera protettiva. Un travestimento. L’altro uomo era grande e
grosso, muscoloso, e indossava degli abiti eccessivamente informali, che si
sforzavano di dare l’impressione di adattarsi a una fumosa sala da biliardo.
Cozzavano con il suo taglio militare e la sua postura rigida come uno
scovolo. Bobbie ebbe l’impressione di aver già visto la sua faccia, ma in un
contesto differente. Cercò d’immaginarselo con indosso l’uniforme.
«Bobbie» disse Soren, rivolgendo al suo compagno un’occhiata rapida e
distogliendo subito lo sguardo. «Anche tu giochi?» Raccolse una stecca che
era stata lasciata su uno dei tavoli e cominciò a ingessarne la punta. Bobbie
non gli fece nemmeno notare che sui tavoli non c’erano bilie, e che il cartello
alle spalle di Soren recitava: BILIE DISPONIBILI SU RICHIESTA.
Il suo compagno non disse niente e si limitò a infilarsi qualcosa in tasca.
Tra le sue dita, Bobbie individuò fugacemente un pezzetto di plastica nera.
Lei sorrise. Si era ricordata dove avesse già visto quell’uomo.
«No» disse a Soren. «Non è popolare dalle mie parti.»
«Sarà per via dell’ardesia» replicò lui. Il suo sorriso si fece più genuino e
molto più freddo. Soffiò via la polvere di gesso dalla punta della stecca e si
spostò di un passo alla sua sinistra. «Troppo pesante per le navi delle
colonie.»
«Ha senso, sì» disse Bobbie, spostandosi indietro finché la porta non le
protesse il fianco.
«È un problema?» chiese il compagno di Soren, guardando Bobbie.
Prima che Soren potesse rispondere, Bobbie disse: «Dimmelo tu. Eri
presente a quell’incontro notturno nell’ufficio di Avasarala, quando
Ganimede è andata a puttane. Lavori per Nguyen, dico bene? Tenente, o
qualcosa del genere.»
«Stai peggiorando le cose, Bobbie» disse Soren, tenendo con noncuranza
la stecca nella mano destra.
«E» continuò «so che Soren ti ha appena consegnato qualcosa che il suo
capo gli aveva chiesto di portare al servizio dati un paio di giorni fa.
Scommetto che non lavori per il servizio dati, vero?»
Il sottoposto di Nguyen fece un passo minaccioso verso di lei, e Soren si
spostò ancora alla sua sinistra.
Bobbie scoppiò a ridere.
«Ma dài» disse, guardando Soren. «O la smetti di fare le seghe a quella
stecca, o te la ficchi dove non batte il sole.»
Soren abbassò gli occhi sulla stecca che teneva in mano, come se fosse
stato sorpreso di vederla lì, e la gettò via.
«E tu» disse Bobbie al militare. «Tu che cerchi di uscire da questa porta
sarebbe letteralmente il momento migliore di quest’ultimo mese.» Senza
muovere i piedi, Bobbie spostò il suo peso in avanti e fletté appena i gomiti.
Il militare la guardò dritto negli occhi per un lungo istante. Lei gli sorrise.
«Forza» disse. «Mi si gonfiano le palle, se continui a farmi aspettare
così.»
L’uomo alzò le mani. Qualcosa a metà strada tra una posizione di guardia
e un gesto di resa. Senza mai togliere gli occhi di dosso a Bobbie, voltò
appena il viso verso Soren e disse: «Questo è un tuo problema. Risolvilo.»
Fece due cauti passi indietro, poi si voltò e attraversò la stanza verso un
corridoio laterale che Bobbie non aveva visto dal punto in cui si trovava. Un
attimo più tardi, udì una porta che sbatteva.
«Merda» disse Bobbie. «Scommetto che avrei fatto più punti con la
vecchia se avessi recuperato quella pennetta di memoria.»
Soren cominciò a muoversi verso la porta sul retro. Bobbie attraversò lo
spazio che li separava come un gatto, afferrandolo per il colletto della
camicia e tirandolo su finché i loro nasi quasi non si toccarono. Il suo corpo
si sentiva vivo e libero per la prima volta da molto tempo.
«Che cosa pensi di fare?» disse lui con un sorriso forzato. «Mi vuoi
picchiare?»
«Nah» rispose Bobbie, adottando una cadenza esageratamente strascicata
da Mariner Valley. «Posso sempre fare la spia, bello.»
26

Holden
Holden osservò il mostro fremere mentre era accoccolato contro la paratia
della stiva. Sullo schermo sembrava piccolo, sbiadito e sgranato. Si concentrò
sul respiro. Un lungo respiro per riempire i polmoni, fino in fondo. Un lungo
respiro per svuotarli. Pausa. Ripeti. Non dare di matto di fronte
all’equipaggio.
«Be’» disse Alex dopo un minuto. «Ecco il problema.»
Stava cercando di fare una battuta. Aveva fatto una battuta. Normalmente,
Holden sarebbe scoppiato a ridere a quella comica ovvietà pronunciata con il
suo accento esageratamente sbiascicato. Alex sapeva essere molto divertente,
in maniera asciutta e velata.
In quel momento, però, Holden dovette stringere i pugni per evitare di
strangolare il pilota.
Amos disse «Salgo su» nello stesso istante in cui Naomi disse «Scendo
giù.»
«Alex» esordì Holden, fingendo una calma che non gli apparteneva.
«Qual è lo stato del portellone pressurizzato di accesso alla stiva?»
Alex picchiettò due volte sul terminale e disse: «Sigillato, cap. Zero
perdite.»
Il che era un bene, perché, pur spaventato com’era dalla protomolecola,
Holden sapeva anche che non si trattava di magia. Aveva una massa, e
occupava spazio. Se nemmeno una molecola di ossigeno poteva passare
attraverso il portellone sigillato, allora poteva star certo che il virus non
poteva penetrare all’interno. Però...
«Alex, metti al massimo l’ossigeno» ordinò Holden. «Aumentalo il più
possibile, senza far saltare la nave per aria.»
La protomolecola era anaerobica. Se per caso anche soltanto un
pezzettino fosse riuscito a entrare, Holden voleva fargli trovare un ambiente il
più ostile possibile.
«E va’ su in cabina di pilotaggio» continuò. «Chiuditi dentro, e sigillati.
Se quella melma trova un modo di diffondersi sulla nave, ho bisogno che tu
possa mettere il dito sui controlli di esclusione dei reattori.»
Alex aggrottò la fronte e si grattò i capelli radi. «Mi sembra un po’
eccessivo...»
Holden gli afferrò entrambe le braccia, con forza. Alex sgranò gli occhi e
alzò le mani in un istintivo gesto di resa. Accanto a lui, il botanico sbatté le
palpebre, confuso e allarmato. Non era certo quello il modo migliore di
instillare sicurezza negli altri. In circostanze differenti, Holden ci avrebbe
fatto attenzione.
«Alex» disse Holden, incapace di smettere di tremare, perfino mentre
stringeva le braccia del pilota. «Posso contare su di te per ridurre questa nave
in una nuvola di gas, se quella merda penetra qui dentro? Perché, se non
posso farlo, considerati sollevato dall’incarico e confinato nei tuoi alloggi con
effetto immediato.»
Alex lo sorprese, non reagendo con rabbia, ma alzando le mani e
posandole sugli avambracci di Holden. Il viso del pilota era serio, ma i suoi
occhi avevano un’espressione gentile.
«Sigillarmi nel cockpit e prepararmi a far brillare la nave. Ricevuto,
signore» disse. «Qual è l’ordine di annullamento?»
«Ordine diretto da me o da Naomi» rispose Holden con un sospiro di
sollievo nascosto. Non serviva dire: ‘Se quella cosa entra qui e ci uccide, per
te sarà meglio andartene con la nave.’ Lasciò andare le braccia di Alex, e il
pilota fece un passo indietro, con l’ampio viso marrone segnato dalla
preoccupazione. Il panico che minacciava di sopraffare Holden sarebbe
potuto sfuggirgli di mano, se avesse lasciato che qualcuno lo compatisse, per
cui aggiunse: «Ora, Alex. Vai ora.»
Alex annuì una volta, sembrò voler dire qualcos’altro, poi girò sui tacchi
e si diresse alla scala, risalendo verso il cockpit. Pochi istanti dopo, Naomi
scese da quella stessa scala, e Amos li raggiunse da sotto un attimo più tardi.
Naomi parlò per prima. «Qual è il piano?» Erano stati intimi abbastanza a
lungo perché Holden riconoscesse la paura malcelata nel suo tono di voce.
Holden fece altri due lunghi respiri. «Amos e io andremo a vedere se
riusciamo a buttarlo fuori dal portellone di carico. Aprilo.»
«Bene» rispose lei, risalendo la scala fino in plancia.
Amos lo stava osservando, con uno sguardo pensieroso negli occhi.
«Allora, cap, come facciamo a ‘buttarlo fuori’ da quel portellone?»
«Be’,» replicò Holden «stavo pensando che potremmo scaricargli addosso
tutte le armi che abbiamo e poi usare un lanciafiamme su quel che rimane.
Per cui, vediamo di equipaggiarci a dovere.»
Amos annuì. «Diavolo. Ho quasi l’impressione di averlo già buttato
fuori.»
Holden non era claustrofobico.
Nessuno che scegliesse una carriera di viaggiatore di lungo corso nello
spazio poteva esserlo. Quand’anche qualcuno fosse riuscito, in qualche
maniera, a superare con l’inganno l’esame psicologico e le prove al
simulatore, un viaggio era solitamente sufficiente a distinguere quanti
riuscivano a tollerare lunghi periodi vissuti in spazi ristretti da quelli che
davano di matto e che dovevano essere sedati per effettuare il viaggio di
ritorno verso casa.
Come giovane sottufficiale, Holden aveva passato giorni e giorni in navi
pattuglia talmente piccole che non permettevano letteralmente nemmeno di
chinarsi per grattarsi i piedi. Aveva strisciato tra la chiglia interna e la chiglia
esterna di grandi navi da guerra. Una volta era rimasto confinato sul suo
sedile per ventuno giorni, durante un viaggio a massima accelerazione da
Luna a Saturno. Non aveva mai avuto incubi in cui veniva schiacciato o
seppellito vivo.
Per la prima volta, nei suoi quindici anni di quasi continuo viaggio
spaziale, la nave che lo trasportava gli sembrò troppo piccola. Non soltanto
angusta, ma terribilmente soffocante. Si sentiva in trappola, come un animale
in gabbia.
A meno di dodici metri dal punto in cui si trovava, nella stiva della sua
nave era seduto un individuo infettato dalla protomolecola. E lui non aveva
nessun posto in cui andare per sfuggirgli.
Infilarsi la sua corazza non l’aiutò a sentirsi meno confinato.
La prima cosa che infilò fu quello che i soldati chiamavano il preservativo
a tutto corpo. Era una spessa tuta nera aderente, costituita da molteplici strati
di kevlar, gomma, gel impattoreagente e dalla rete di sensori che tenevano
sotto controllo le possibili ferite e le condizioni vitali dell’ospite. Su quella
andava la tuta ambientale, appena un po’ più ampia, con i suoi strati di gel
autosigillante pronti a riparare istantaneamente strappi o fori di proiettile. E,
finalmente, i vari pezzi di corazza di piastre da agganciare sul tutto, in grado
di deviare il colpo di un fucile ad alta velocità o di dissipare gli strati esterni
per disperdere l’energia di un laser.
Holden ebbe l’impressione di avvolgersi da solo nel proprio sudario.
Perfino con tutti quegli strati e quel peso, non era comunque spaventosa
come la corazza potenziata che indossavano i marine in ricognizione. Ciò che
i soldati della marina chiamavano i sarcofagi ambulanti. L’idea dietro quel
nome era che, qualsiasi cosa fosse stata sufficientemente potente da rompere
la corazza, avrebbe sicuramente liquefatto il marine che si trovava al suo
interno, per cui non c’era bisogno di prendersi il disturbo di aprirla. Si
buttava tutto quanto direttamente nella fossa. Era soltanto un’iperbole,
ovviamente, ma l’idea di entrare in quella stiva con indosso qualcosa che non
sarebbe nemmeno stato in grado di spostarsi senza i potenziatori artificiali lo
avrebbe fatto cacare sotto. E se le batterie si fossero esaurite?
D’altro canto, un bell’esoscheletro corazzato a forza aumentata si sarebbe
potuto rivelare utile nel caso ci si trovasse a dover buttare un mostro fuori
dalla nave.
«L’hai messa al contrario» disse Amos, indicando la coscia di Holden.
«Merda» esclamò Holden. Amos aveva ragione. Era talmente nervoso che
aveva allacciato male le cinghie sulla piastra della coscia. «Scusa, sto avendo
qualche problema di concentrazione.»
«Una paura fottuta» disse Amos annuendo.
«Be’, non direi...»
«Non parlavo di te» ribatté Amos. «Ma di me. Ho una paura fottuta di
entrare nella stiva con quella cosa lì dentro. E non ho visto Eros che si
trasformava in melma da vicino. Per cui ti capisco. Sono con te, Jim.»
Era la prima volta da che Holden ne aveva memoria che Amos lo
chiamava per nome. Holden gli restituì un saluto con il capo, poi riprese a
stringere la corazza del gambale.
«Già» disse. «Ho appena gridato addosso ad Alex perché non era
abbastanza spaventato.»
Amos aveva finito con la sua corazza e stava prendendo il suo fucile
automatico preferito dall’armadietto.
«Cazzo, davvero?»
«Già. Lui ha fatto una battuta e io ero spaventato a morte, per cui gli ho
gridato contro e l’ho minacciato di sollevarlo dall’incarico.»
«Puoi farlo?» chiese Amos. «È tipo il nostro unico pilota.»
«No, Amos. No, non posso buttare fuori Alex da questa nave, non più di
quanto non possa buttare fuori te o Naomi. Non siamo nemmeno un
equipaggio minimo. Siamo quello che si ha quando non si ha nemmeno il
minimo.»
«Sei preoccupato che Naomi se ne vada?» chiese Amos. Il suo tono era
leggero, ma quelle parole furono come martellate. Holden si sentì mancare
l’aria, e dovette di nuovo concentrarsi per un momento sul respiro.
«No» disse. «Voglio dire... Sì, certo che lo sono. Ma non è quello che mi
fa sbarellare in questo preciso istante.»
Holden raccolse il suo fucile d’assalto e lo studiò, poi lo rimise
nell’armadietto e, al suo posto, prese una pistola di grosso calibro senza
rinculo. I razzi indipendenti che erano le sue munizioni non avrebbero
impartito alcuna spinta, evitando di scagliarlo in giro per la stiva se avesse
sparato a gravità zero.
«Ti ho visto morire» disse ad Amos, senza guardarlo.
«Eh?»
«Ti ho visto morire. Quando quella squadra di sequestro, o chi diavolo
fossero quelli, ci ha aggredito. Ho visto uno di loro spararti sulla nuca, e ti ho
visto cadere a faccia in giù sul pavimento. C’era sangue ovunque.»
«Già, ma io...»
«Lo so che era un proiettile non letale. So che ci volevano prendere vivi.
So che quel sangue era del tuo naso rotto, quando hai sbattuto il viso sul
pavimento. Ora lo so. In quel momento, però, sapevo soltanto che ti avevano
sparato in testa e che ti avevano ucciso.»
Amos inserì un caricatore nel suo fucile e incamerò un colpo, ma, a parte
quello, non fece un fiato.
«Tutto ciò è davvero fragile» disse Holden, facendo un gesto che
includeva Amos e la nave. «Questa piccola famiglia che abbiamo. Basta una
singola stronzata, e rischiamo di perdere qualcosa di insostituibile.»
Amos lo guardò perplesso. «Stiamo sempre parlando di Naomi, giusto?»
«No! Voglio dire... sì. E no. Quando ho pensato che fossi morto, sono
rimasto senza fiato. E, in questo preciso istante, ho bisogno di concentrarmi
su come fare per buttare fuori dalla nave quell’affare, e non riesco a pensare
ad altro che al fatto che rischio di perdere un membro dell’equipaggio.»
Amos annuì, imbracciò il fucile in spalla e si sedette sulla panca accanto
all’armadietto.
«Capisco. E quindi che cosa vuoi fare?»
«Voglio» rispose Holden, agganciando un caricatore alla sua pistola
«buttare fuori quel fottuto mostro dalla mia nave. Ma, per favore, promettimi
che non morirai nel farlo. Mi sarebbe di grande aiuto.»
«Cap» disse Amos con un gran sorriso. «Qualunque cosa riesca a
uccidermi avrebbe già ucciso tutti gli altri. Sono nato per essere l’ultimo a
rimanere in piedi. Puoi contarci.»
Il panico e la paura non abbandonarono Holden. Gli pesavano sul petto
proprio come un attimo prima. Ma almeno non si sentiva così terribilmente
solo insieme a essi.
«E allora andiamo a liberarci di questo clandestino.»
L’attesa all’interno della camera di compressione della stiva sembrò
infinita, mentre il portellone interno si sigillava, le pompe risucchiavano tutta
l’aria fuori dalla stanza e il portello esterno si apriva. Mentre aspettava,
Holden armeggiò con la sua pistola, ricontrollandola una mezza dozzina di
volte. Amos manteneva una postura rilassata, sciolta, cullando il grosso fucile
tra le braccia. L’aspetto positivo, se ce n’era uno per quell’attesa, era che, con
la stiva sottovuoto, il portello poteva fare tutto il rumore che voleva senza
però allertare la creatura della loro presenza.
Le ultime tracce di rumore esterno scomparvero, e Holden non sentì più
altro che il proprio respiro. Una linea gialla apparve accanto al portello
esterno, avvertendoli dell’assenza di atmosfera dall’altra parte della paratia.
«Alex» disse Holden, inserendo un cavo nel terminale della camera
pressurizzata. Il sistema radio era ancora morto in tutta la nave. «Stiamo per
entrare. Spegni i motori.»
«Ricevuto» rispose Alex, e la gravità svanì di colpo. Holden attivò gli
stivali magnetici con un calcetto sui controlli a caviglia. La stiva della
Rocinante era strapiena. Alta e stretta, occupava la parte a tribordo della
nave, incastrata nello spazio inutilizzato tra la chiglia esterna e la sala
macchine. A babordo, lo stesso spazio era occupato dal serbatoio d’acqua
della nave. La Roci era una nave da guerra. Qualsiasi carico avesse a bordo
era un sovrappiù.
L’aspetto negativo della questione era che, in fase di accelerazione, la
stiva diventava una sorta di pozzo, con il portellone di carico sul fondo. Le
varie casse che occupavano lo spazio di rimessaggio dovevano essere
agganciate a telai speciali sulle paratie o, in alcuni casi, legate al ponte con
piastre elettromagnetiche. Con una gravità d’accelerazione che minacciava di
farti capitombolare giù per sette metri, fino al portellone di carico, sarebbe
stato un posto impossibile in cui combattere efficacemente. In microgravità,
diventava un lungo corridoio con molti punti di riparo.
Holden entrò per primo nella sala, procedendo lungo la paratia con gli
stivali magnetici, e si mise in copertura dietro una grossa cassa di metallo
riempita con munizioni supplementari per i cannoni di difesa ravvicinata
della nave. Amos lo seguì, prendendo posizione dietro un’altra cassa due
metri più in là.
Sotto di loro, il mostro pareva essere addormentato.
Era accovacciato, immobile, addosso alla parete che separava la stiva
dalla sala motori.
«Okay. Naomi, procedi ad aprire il portellone» disse Holden. Agitò il
cavo che si trascinava dietro per sganciarlo dall’angolo di una cassa e dargli
un po’ di corda.
«Portellone aperto in questo istante» rispose lei, con la voce flebile e
confusa nel casco di Holden. Il portellone di carico sul fondo della stiva si
aprì silenziosamente, mostrando diversi metri quadri di oscurità piena di
stelle. Il mostro non notò l’apertura, o non se ne curò.
«A volte vanno in ibernazione, giusto?» disse Amos. Il cavo che partiva
dalla sua tuta fino alla camera pressurizzata sembrava una specie di cordone
ombelicale tecnologico. «Come ha fatto Julie quando ha contratto il morbo. È
andata in ibernazione, in quella stanza d’albergo su Eros, per un paio di
settimane.»
«Può darsi» replicò Holden. «Come vuoi muoverti? Stavo quasi pensando
che potremmo andare direttamente lì, prendere quell’affare e gettarlo fuori
dal portello. Ma ho forti riserve sul toccarlo.»
«Già. Non vorrei riportare le tute nelle altre parti della nave, dopo»
concordò Amos.
Holden ebbe un improvviso ricordo di quando ritornava a casa dopo aver
giocato fuori, togliendosi tutti i vestiti nell’ingresso prima che mamma
Tamara gli permettesse di entrare nel resto della casa. Quella sarebbe stata
più o meno la stessa cosa, solo molto più fredda.
«Vorrei tanto avere un lungo bastone» disse Holden, guardandosi intorno
tra i vari oggetti stivati nella sala, sperando di trovare qualcosa che facesse al
caso suo.
«Ehm... cap?» replicò Amos. «Ci sta guardando.»
Holden si voltò e vide che Amos aveva ragione. La creatura non aveva
mosso nient’altro che la testa, ma li stava decisamente fissando, ora; i suoi
occhi erano di uno spaventoso azzurro, e brillavano dall’interno.
«Be’, okay» disse Holden. «Non è andata in ibernazione.»
«Sai, se riesco a staccare quella paratia con un paio di colpi e Alex
accende i motori, potrebbe cadere giù attraverso il portellone di carico e poi
giù nella scia dei reattori. Così dovremmo potercene liberare.»
«Pensiamoci bene pri...» esordì Holden ma, prima che potesse finire la
frase, la sala fu illuminata da diversi lampi in sequenza, provenienti dal fucile
di Amos. Il mostro fu colpito più volte e sbattuto via capriolando verso il
portellone.
«Alex, metti...» disse Amos.
Il mostro scattò in azione. Allungò un braccio verso la paratia, con l’arto
che sembrava allungarsi fisicamente per raggiungerla, e tirò con tanta forza
da piegare le piastre d’acciaio. La creatura si fiondò verso la parte alta della
stiva con tanta violenza che, allorché colpì la cassa dietro cui si nascondeva
Holden, la piastra magnetica del bancale perse l’aggancio con il ponte. La
stiva sembrò vorticare quando l’impatto sbalzò via Holden, e la cassa
appresso a lui. Holden si schiantò sulla paratia una frazione di secondo prima
della cassa, e il bancale magnetico si agganciò alla nuova parete, incastrando
sotto di sé la gamba di Holden.
Qualcosa nel suo ginocchio si torse malamente, e il dolore tinse di rosso il
mondo intorno a lui per un istante.
Amos cominciò a sparare sul mostro a distanza ravvicinata, ma quello gli
tirò un manrovescio, senza sforzo apparente, schiantandolo nella camera
pressurizzata della stiva con tanta forza da piegare il portello interno. Il
portello esterno si sigillò nell’istante in cui la porta interna fu compromessa.
Holden cercò di muoversi, ma la sua gamba era incastrata dalla cassa; con gli
elettromagneti impostati per trattenere un peso di un quarto di tonnellata sotto
un’accelerazione di 10 g, non sarebbe riuscito a spostarsi molto presto. I
controlli che disinnescavano i magneti erano illuminati dell’arancione che
indicava la massima potenza di attivazione, dieci centimetri oltre la sua
portata.
Il mostro si voltò per guardarlo. I suoi occhi blu erano esageratamente
grandi per la sua testa, conferendogli un aspetto curioso, infantile. Allungò
una mano troppo grossa.
Holden gli sparò contro fino a svuotare il caricatore.
I razzi a propulsione autonoma in miniatura, che la pistola senza rinculo
usava come munizioni, esplosero in piccoli sbuffi di luce e fumo quando
colpirono la creatura; ogni colpo la respinse un po’ più indietro, strappandole
via grossi pezzi di torace. Dei filamenti neri schizzarono fuori attraverso la
stanza, come una rappresentazione grafica di schizzi di sangue. Quando
l’ultimo razzo lo colpì, il mostro fu sbalzato via dalla paratia e giù nella stiva
verso il portellone aperto.
Il corpo rosso e nero capitombolò verso l’ampia finestra di stelle e
oscurità, e Holden si permise di sperare. A meno di un metro dalle porte, la
creatura allungò un braccio e afferrò il bordo di una cassa. Holden aveva
visto che razza di forza avevano quelle mani, e sapeva che non avrebbe
lasciato la presa.
«Capitano» gridò Amos nel suo orecchio. «Holden, sei ancora con noi?»
«Qui, Amos. Ho un problemino.»
Mentre parlava, il mostro si tirò sulla cassa che aveva afferrato e si
accovacciò, immobile. Un abominevole gargoyle, trasformatosi di colpo in
pietra.
«Ora attivo l’override e ti vengo a prendere» disse Amos. «Il portello
interno è fottuto, per cui perderemo un po’ di atmosfera, ma non troppa...»
«Okay, ma fa’ in fretta» replicò Holden. «Sono incastrato. Ho bisogno
che disattivi i magneti di questa cassa.»
Un istante dopo, il portellone pressurizzato si aprì con uno sbuffo di
atmosfera. Amos fece per entrare nella stiva quando il mostro saltò giù dalla
cassa su cui era accovacciato, afferrò il pesante contenitore di plastica con
una mano e la paratia con l’altra, e gli scagliò contro la cassa. Quella si
schiantò sulla paratia con tanta forza che Holden ne sentì le vibrazioni
attraverso la tuta. Mancò la testa di Amos di pochi centimetri. Il grosso
meccanico tornò indietro imprecando e il portellone pressurizzato si richiuse.
«Scusa» disse Amos. «Mi sono fatto prendere dal panico. Fammi aprire
questo affare...»
«No» gridò Holden. «Smettila di aprire quel maledetto portellone. Sono
incastrato tra due dannatissime casse, ora. E prima o poi il portellone mi
reciderà il cavo. Non ci tengo proprio a restare incastrato qui dentro senza
una radio.»
Con la camera di pressurizzazione chiusa, il mostro si spostò di nuovo
accanto alla paratia vicino alla sala motori e si riaccovacciò in posizione
fetale. Il tessuto delle ferite aperte provocate dalla pistola di Holden pulsava
umido.
«Lo vedo, cap» disse Alex. «Se apro a manetta, penso di poterlo far
cadere fuori dal portellone di carico.»
«No» replicarono Naomi e Amos quasi all’unisono.
«No» ripeté Naomi. «Guarda dov’è Holden sotto quelle casse. Se
partiamo a g elevato gli spezzerai tutte le ossa che ha in corpo, quand’anche
non venisse sbattuto fuori dalla porta anche lui.»
«Già, ha ragione» disse Amos. «Questo piano ucciderebbe il capitano. È
fuori discussione.»
Holden rimase ad ascoltare per qualche istante il suo equipaggio che
discuteva su come fare per tenerlo in vita, e guardò la creatura riaccoccolarsi
addosso alla paratia. Sembrava che si stesse addormentando di nuovo.
«Be’,» disse Holden, irrompendo nella loro discussione
«un’accelerazione ad alto g mi farebbe a pezzi, ora come ora. Ma questo non
la rende necessariamente inattuabile.»
Le nuove parole che udì in linea sembrarono come provenire da un altro
mondo. In un primo momento, Holden non riconobbe nemmeno la voce del
botanico.
«Be’,» osservò Prax «questo sì che è interessante.»
27

Prax
Quando Eros era morta, tutti erano stati a guardare. La stazione era stata
designata come un oggetto da cui trarre informazioni scientifiche, e ogni
cambiamento, morte e metamorfosi era stata immortalata, registrata e diffusa
nel sistema. Ciò che i governi di Marte e della Terra avevano cercato di
bloccare era filtrato comunque nelle settimane e nei mesi successivi. Il modo
in cui la gente vedeva tutto questo aveva più a che fare con chi fosse
l’osservatore che con i video in sé. Per alcuni, erano notizie. Per altri, prove.
Per più gente di quanto Prax non amasse credere, era stato uno svago di
terrificante decadenza – uno snuff in stile Busby Berkeley.
Anche Prax aveva guardato, come tutti quelli della sua squadra. Per lui,
era stato un rompicapo. L’impulso di applicare la logica della biologia
convenzionale agli effetti della protomolecola era stato irrefrenabile e, in
larga parte, infruttuoso. I pezzi singoli erano intriganti – quelle curve a spirale
tanto simili al guscio di un nautilo, con la traccia termica dei corpi infetti che
si spostava seguendo modelli che corrispondevano quasi perfettamente alle
febbri emorragiche. Ma non ne era uscito niente.
Di certo qualcuno, da qualche parte, riceveva il denaro di una borsa
istituita per studiare quanto era accaduto, ma il lavoro di Prax non se ne
sarebbe certo rimasto lì ad aspettarlo. Era tornato ai suoi germogli di soia. La
vita aveva continuato come al solito. Non era stata un’ossessione, ma solo un
rompicapo molto noto che qualcun altro avrebbe dovuto risolvere.
Prax era appeso, in assenza di gravità, a una stazione operativa
inutilizzata della plancia, intento a osservare le immagini trasmesse dalla
telecamera di sicurezza. La creatura allungò una mano verso il capitano
Holden, e Holden le sparò ancora, e ancora, e ancora. Prax osservò le
emissioni filamentose uscire dalla schiena di quel mostro. Certo, erano
qualcosa di familiare. Erano state uno dei simboli che contraddistinguevano i
video di Eros.
La creatura cominciò a cadere. Morfologicamente, non era poi così
distante da un uomo. Una testa, due braccia, due gambe. Nessuna struttura
autonoma, niente mani o casse toraciche riadattate a una qualche altra
funzione.
Naomi, ai controlli, sussultò. Era strano sentirlo attraverso la normale aria
che condividevano e non sulla linea di comunicazione interna. Gli sembrò
intimo in un modo che lo metteva un po’ a disagio, ma c’era qualcosa di più
importante. La sua mente intuiva una sensazione appannata, come se avesse
la testa piena di garza. Riconosceva quella sensazione. Stava pensando a
qualcosa di cui non era ancora cosciente.
«Sono incastrato» disse Holden. «Ho bisogno che disattivi i magneti di
questa cassa.»
La creatura era in fondo alla stiva. Quando Amos entrò dal portellone,
quella si resse alla paratia con una mano e gli scagliò addosso una grossa
cassa con il braccio libero. Anche in quel video a bassa risoluzione, Prax
riusciva a vederne i massicci trapezi e deltoidi, con i muscoli ingrossati a un
livello disumano. Eppure non erano particolarmente traslati. Quindi, la
protomolecola stava lavorando con dei vincoli. Qualsiasi cosa fosse quella
creatura, non stava facendo quello che avevano fatto i campioni su Eros.
Partecipava indubitabilmente della stessa tecnologia, ma era studiata per
avere un’applicazione diversa. La garza si spostò.
«No! Smettila di aprire quel maledetto portellone. Sono incastrato tra due
dannatissime casse, ora.»
La creatura si spostò di nuovo verso la paratia, vicina al punto in cui
l’avevano vista riposare per la prima volta. Si accovacciò lì, con le ferite sul
corpo che pulsavano visibilmente. Ma non si era stabilita lì. Con i motori
spenti, non c’era nemmeno un filo di gravità che la riportasse in quel punto.
Se si trovava comoda lì, doveva esserci un motivo.
«No!» disse Naomi. Le sue mani erano strette intorno agli anelli di
sostegno dei controlli. Il suo viso aveva un colorito cereo. «No. Guarda dov’è
Holden, sotto quelle casse. Se partiamo a g elevato gli spezzerai tutte le ossa
che ha in corpo, quand’anche non venisse sbattuto fuori dalla porta anche
lui.»
«Già, ha ragione» disse Amos. Sembrava stanco. Forse era così che
esprimeva la sua afflizione. «Questo piano ucciderebbe il capitano. È fuori
discussione.»
La creatura si spostò sulla paratia. Non di molto, ma si era spostata. Prax
ingrandì l’immagine su di essa più che poté. Una massiccia mano artigliata –
artigliata, ma pur sempre con quattro dita e un pollice – la teneva ferma,
mentre con l’altra strappava la paratia. Il primo strato era tessuto e materiale
isolante, e venne via in strisce gommose. Una volta tolta quella parte, la
creatura attaccò l’acciaio corazzato che c’era sotto. Piccoli riccioli di metallo
fluttuarono nel vuoto accanto, intercettando la luce come tante piccole stelle.
Ma perché stava facendo una cosa del genere? Se stava tentando di provocare
un danno strutturale, c’erano molti modi migliori di quello. O magari stava
cercando di passare attraverso la paratia, nel tentativo di raggiungere
qualcosa, seguendo un qualche segnale...
La garza di cotone svanì del tutto, risolvendosi nell’immagine di una
nuova, pallida radicetta che nasceva da un seme. Si sentì sorridere. Be’,
questo sì che è interessante.
«Che cosa, doc?» chiese Amos. Prax si rese conto che doveva aver
parlato a voce alta.
«Uhm» disse Prax, cercando di trovare le parole che avrebbero potuto
spiegare quello che aveva osservato. «Sta cercando di spostarsi lungo un
gradiente radioattivo. Voglio dire... la versione della protomolecola che è
stata liberata su Eros si nutriva di energia radioattiva, per cui immagino che
abbia senso che anche questa...»
«Questa?» chiese Alex. «Questa quale?»
«Questa versione. Voglio dire, questa qui è stata chiaramente progettata
per reprimere molti di quei cambiamenti. Ha a malapena cambiato il corpo
dell’ospite. Devono esserci nuove restrizioni, ma pare comunque che continui
ad avere bisogno di una nuova fonte di radiazioni.»
«Perché, doc?» chiese Amos. Stava cercando di essere paziente. «Perché
pensiamo che abbia bisogno di radiazioni?»
«Ah» disse Prax. «Perché abbiamo spento il propulsore, e così il reattore
è rimasto attivo a bassa intensità, e ora quella creatura sta cercando di scavare
fino al nucleo.»
Ci fu una pausa, poi Alex proferì qualcosa di osceno.
«Okay» disse Holden. «Non abbiamo scelta. Alex, devi togliere da lì
quell’affare prima che passi attraverso la paratia. Non abbiamo tempo per
pensare a un altro piano.»
«Capitano» replicò Alex. «Jim...»
«Entrerò un secondo dopo che l’avremo espulso» disse Amos. «Se non ci
sarai, è stato un onore essere ai tuoi comandi, cap.»
Prax agitò le mani, come se quel gesto potesse attirare la loro attenzione.
Il movimento lo fece volteggiare attraverso lo spazio del ponte di comando.
«Aspettate. No. È questo il nuovo piano» disse. «Quella cosa si muove
seguendo un gradiente radioattivo. È come una radice che cerca l’acqua.»
Naomi si era girata per guardarlo mentre volteggiava. Sembrò volteggiare
anche lei, e il cervello di Prax azzerò la sensazione che fosse sotto di lui,
allontanandosi in lenti giri su sé stessa. Chiuse gli occhi.
«Dovrai spiegarci la cosa passo passo» disse Holden. «Ma in fretta. Come
possiamo controllarla?»
«Cambiamo il gradiente» rispose Prax. «Quanto tempo ci vorrebbe per
assemblare un contenitore con dentro qualche isotopo non schermato?»
«Dipende, doc» replicò Amos. «Quanto ce ne servirebbe?»
«Appena più di quello che sta fuoriuscendo dal reattore in questo
momento» disse Prax.
«Un’esca» intervenne Naomi, afferrandolo e tirandolo verso un
maniglione. «Vuoi fare qualcosa che sembri un miglior nutrimento e usarlo
per attirare quell’affare fuori dal portellone.»
«L’ho appena detto. Non l’ho appena detto?» chiese Prax.
«Non proprio, no» replicò Naomi.
Sullo schermo, la creatura stava costruendo a poco a poco una vera e
propria nuvola di limatura di metallo. Prax non ne era sicuro, perché la
risoluzione dell’immagine non era poi così buona, ma gli sembrò che la sua
mano stesse cambiando forma man mano che scavava. Si chiese in che
misura i vincoli imposti all’espressione libera della protomolecola tenessero
in considerazione danno e guarigione. I processi rigenerativi erano una
grande opportunità di fallimento per i sistemi vincolati. Il cancro non era altro
che un processo di rigenerazione cellulare impazzito. Se quella cosa stava
cominciando a cambiare, si sarebbe potuta non fermare più.
«Comunque sia» disse Prax. «Credo che faremmo meglio a sbrigarci.»
Il piano era semplice. Amos sarebbe rientrato nella stiva e avrebbe
liberato il capitano non appena il portellone di carico si fosse richiuso alle
spalle dell’intruso. Naomi, dalla plancia, avrebbe fatto chiudere le porte nel
momento in cui la creatura avesse abboccato all’esca radioattiva. Alex
avrebbe acceso i motori non appena una simile iniziativa non avrebbe più
rischiato di uccidere il capitano. E l’esca – un cilindro da mezzo chilo con
una sottile scatola di lamina di piombo per evitare che attirasse la bestia
troppo presto – sarebbe stata portata fuori dal portellone d’ingresso principale
e lasciata vagare nel vuoto dall’unico membro rimanente dell’equipaggio.
Prax fluttuava nella camera di pressurizzazione, con l’esca tra gli spessi
guanti della tuta ambientale. Rimpianto e incertezza gli annacquavano la
mente.
«Forse sarebbe meglio se fosse Amos a fare questa parte» disse Prax.
«Non ho mai esercitato nessun tipo di attività extraveicolare prima d’ora.»
«Scusa, doc. Ho novanta chili di capitano da recuperare» replicò Amos.
«Non potremmo automatizzare il processo? Un braccio meccanico da
laboratorio potrebbe...»
«Prax» disse Naomi, e la gentilezza con cui pronunciava quella sillaba
portava con sé il peso di mille ‘Porta le chiappe là fuori’. Prax controllò
ancora una volta i sigilli sulla sua tuta. Tutto sembrava andar bene. La tuta
era molto migliore di quella che aveva indossato per lasciare Ganimede. Dal
portellone del personale, vicino alla prua della nave, fino al portellone di
carico in fondo a poppa, c’erano solo venticinque metri. Non avrebbe
nemmeno dovuto farseli tutti. Controllò il cavo radio per assicurarsi che fosse
attaccato solidamente alla porta della camera stagna.
Quella era un’altra domanda interessante: che l’interferenza radio fosse
un altro effetto naturale del mostro? Prax cercò di immaginare come si
potesse biologicamente generare una cosa del genere. L’effetto sarebbe
svanito, quando il mostro avesse lasciato la nave? Quando fosse stato
carbonizzato dai propulsori?
«Prax» disse Naomi. «Ora è un buon momento.»
«E va bene» rispose lui. «Sto uscendo.»
Il portellone esterno depressurizzò e si aprì. Il primo impulso di Prax fu
quello di spingersi nell’oscurità proprio come avrebbe fatto in una grande
sala. Il secondo fu quello di mettersi carponi e di strisciare su mani e
ginocchia, mantenendosi il più attaccato possibile alla chiglia della nave.
Prese l’esca in una mano e usò i gradini della paratia per spingersi in alto e
poi fuori.
L’oscurità intorno a lui era soverchiante. La Rocinante era una zattera di
metallo e vernice in mezzo all’oceano. Più di un oceano. Le stelle lo
avvolgevano da tutte le parti; le più vicine erano a centinaia di vite più in là, e
poi altre oltre quelle, e altre ancora. Il senso di essere su un minuscolo
asteroide o su una luna, con la testa all’insù verso un cielo troppo immenso,
si capovolse. Prax si ritrovò in cima all’universo, con gli occhi fissi su un
abisso senza fondo. Era come quell’illusione ottica oscillante tra il vedere un
vaso e poi due facce, e poi di nuovo a seconda della velocità della propria
percezione. Prax sorrise, allargando le braccia in quel nulla, nonostante il
primo sapore di nausea gli stesse già risalendo lungo la lingua. Aveva letto
resoconti di euforia extraveicolare, ma quell’esperienza era diversa da
qualsiasi cosa avesse mai potuto immaginare. Era nell’occhio di Dio,
abbeverandosi alla luce d’infinite stelle, ed era un granello di polvere su un
altro granello di polvere, agganciato con i suoi stivali magnetici al corpo di
una nave infinitamente più potente di lui, eppure talmente insignificante di
fronte all’abisso. Gli auricolari della sua tuta frusciavano dell’eco della
radiazione di fondo della nascita dell’universo, e voci misteriose
sussurravano in quell’impercettibile rumore bianco.
«Ehm, doc?» disse Amos. «C’è qualche problema là fuori?»
Prax si guardò intorno, aspettandosi di vedere il meccanico al suo fianco.
L’unica cosa che aveva accanto era quell’universo di stelle lattiginose. Erano
così tante che gli sembrò logico che la loro luminosità si sommasse. E invece,
la Rocinante era al buio, tranne per i segnalatori luminosi esterni e, verso il
retro della nave, una nebulosa biancastra appena visibile nel punto in cui
l’atmosfera era fuoriuscita dalla stiva.
«No» assicurò Prax. «Nessun problema.»
Cercò di fare un passo in avanti, ma la sua tuta non si mosse. Tirò la
gamba, sforzandosi di sollevare il piede dalla chiglia. Scivolò avanti di mezzo
centimetro e si fermò. Un’ondata di panico gli pervase il petto. C’era
qualcosa che non andava con gli stivali magnetici. A quella velocità, non
sarebbe mai riuscito ad arrivare al portellone di carico della stiva prima che la
creatura perforasse la paratia e arrivasse al reattore nella sala macchine.
«Ehm. Ho un problema» disse. «Non riesco a muovere i piedi.»
«Come sono impostati i controlli di scivolamento?» chiese Naomi.
«Ah, giusto» replicò Prax, regolando le impostazioni degli stivali affinché
si accordassero alla sua forza. «Tutto a posto. Risolto.»
Non aveva mai camminato con degli stivali magnetici ai piedi, ed era una
strana sensazione. Per la maggior parte del passo, la gamba che si alzava
sembrava libera e quasi fuori controllo, e poi, mentre riportava il piede verso
la chiglia, c’era un momento, un punto critico, in cui la forza di attrazione
faceva presa e lo risbatteva sul metallo. Avanzò fluttuando e facendosi
catturare di nuovo dal magnetismo, passo dopo passo. Non riusciva a vedere
il portellone di carico della stiva, ma sapeva che era lì. Guardando verso
poppa dalla sua posizione, si trovava a sinistra del cono del propulsore. Ma
sul lato destro della nave. No, a tribordo. Sulle navi si dice a tribordo.
Sapeva che appena superato il bordo di metallo scuro che segnava la fine
della nave c’era la creatura, intenta a scavare nella paratia, artigliando la
carne viva della nave per arrivare al suo cuore. Se aveva capito quello che
stava succedendo – se aveva le capacità cognitive necessarie a formulare
anche un pensiero elementare – sarebbe potuta schizzare fuori dalla stiva per
gettarglisi addosso. Il vuoto non era letale, per lei. Prax s’immaginò mentre
cercava di scappare goffamente con i suoi ingombranti stivali magnetici
mentre la creatura lo faceva a pezzi; poi fece un lungo respiro tremante e alzò
l’esca.
«Okay» disse. «Sono in posizione.»
«Non c’è tempo migliore del presente» replicò Holden, con voce tesa per
la sofferenza ma tentando di restare leggero.
«Giusto» osservò Prax.
Premette il piccolo timer, si accovacciò sulla chiglia della nave e poi, con
tutti i muscoli del suo corpo, si dispiegò e scagliò il cilindro nel vuoto. Quello
volò via, intercettando la luce dell’interno della stiva e poi svanendo. Prax
ebbe la nauseante certezza di aver dimenticato un passaggio, e che lo strato di
piombo non sarebbe venuto via come doveva.
«Si sta muovendo» disse Holden. «L’ha percepito. Sta uscendo.»
Ed eccola lì, con le lunghe dita nere che si ripiegavano sul bordo della
nave, il corpo scuro che si estraeva dalla chiglia come se fosse nato per
l’abisso. I suoi occhi bruciavano di un fuoco azzurro. Prax non sentiva altro
che il proprio respiro terrorizzato. Come un animale nelle antiche praterie
della Terra, ebbe l’istinto primitivo di restare in silenzio, anche se, attraverso
il vuoto, la creatura non l’avrebbe potuto udire neanche se avesse gridato.
Il mostro si spostò sulla chiglia. Chiuse gli occhi spaventosi, li riaprì, li
chiuse ancora. Poi balzò via. Le stelle fisse si eclissarono al suo passaggio.
«Via libera» disse Prax, colpito dalla fermezza della propria voce. «È
saltata via dalla nave. Richiudete il portellone di carico.»
«Ricevuto» rispose Naomi. «Chiudo il portellone.»
«Vengo da te, capitano» disse Amos.
«Io invece svengo qui, Amos» replicò Holden, ma con sufficiente
leggerezza nella voce da far intuire a Prax che stesse scherzando.
Nel buio, una stella si spense e poi tornò. Poi un’altra. Prax tracciò il
percorso mentalmente. Un’altra stella si eclissò.
«Scaldo i motori» disse Alex. «Fatemi sapere quando siete tutti in
posizione, va bene?»
Prax rimase a osservare, aspettò. La stella successiva rimase dov’era. Non
avrebbe dovuto spegnersi come le altre? Che avesse calcolato male la
traiettoria? Oppure la creatura stava tornando indietro? Se era in grado di
cambiare direzione nel vuoto spinto, che avesse notato che Alex aveva
rimesso in funzione il reattore?
Prax si voltò verso il portellone principale.
La Rocinante gli era sembrata un niente. Uno stuzzicadenti a galla in un
oceano di stelle. Ora, però, la distanza che lo separava dal portellone era
immensa. Prax mosse un piede, poi l’altro, cercando di correre senza mai
poter avere entrambi i piedi staccati dalla chiglia. Gli stivali magnetici non gli
permettevano di liberarli entrambi contemporaneamente, con il piede
arretrato che rimaneva incastrato in posizione finché il piede guida non
segnalava l’aggancio. Si sentiva un formicolio sulla schiena, e lottò contro
l’impulso di guardarsi alle spalle. Non c’era niente, lì; e, se ci fosse stato
qualcosa, guardarlo non gli sarebbe stato d’aiuto. Il cavo del suo
collegamento radio si trasformò da una linea in un cappio che lo seguiva nel
suo avanzare. Prax gli diede uno strattone per recuperare i metri che
mancavano.
Il piccolo bagliore verde e giallo del portellone aperto lo chiamava come
se fosse stato in un sogno. Si sentì gemere un po’, ma il suo verso fu
sommerso da una mitragliata di volgarità dalla bocca di Holden.
«Che succede laggiù?» scattò Naomi.
«Il capitano si sente un po’ così così» disse Amos. «Mi sa che potrebbe
essersi strappato qualcosa.»
«Ho l’impressione che qualcuno abbia partorito nel mio ginocchio»
replicò Holden. «Starò bene.»
«Siamo pronti all’accelerazione?» chiese Alex.
«No, non siamo pronti» rispose Naomi. «Il portellone di carico della stiva
è chiuso al meglio che possiamo finché non attraccheremo a un molo, ma il
portellone frontale non è chiuso.»
«Ci sono quasi» disse Prax, pensando: non lasciatemi qui. Non lasciatemi
qui in questo abisso con quell’affare.
«Va bene» replicò Alex. «Fatemi sapere quando posso portare via le
chiappe da qui.»
Nelle profondità della nave, Amos emise un verso soffocato. Prax
raggiunse il portellone, tirandosi dentro con una violenza che fece
scricchiolare le giunture della sua tuta. Tirò il cordone ombelicale per
portarlo dentro dopo di sé. Si precipitò verso la parete interna, picchiando
freneticamente sui controlli finché la camera non cominciò a pressurizzare e
il portellone esterno non fu completamente chiuso. Nella luce fioca della
camera stagna, Prax volteggiava lentamente su tutti e tre gli assi. La porta
esterna rimase chiusa. Niente la sventrò da fuori; non apparvero occhi blu
fosforescenti che volevano strisciare dentro dopo di lui. Sbatté delicatamente
sulla paratia, e il suono distante di una pompa d’aria annunciò la presenza di
atmosfera nell’ambiente.
«Sono dentro» disse. «Sono nella camera stagna.»
«Il capitano è stabile?» chiese Naomi.
«Lo è mai stato?» replicò Amos.
«Sto bene. Mi fa male il ginocchio. Portaci via da qui.»
«Amos?» disse Naomi. «Vedo che sei ancora nella stiva. C’è qualche
problema?»
«Potrebbe» replicò Amos. «Il nostro amico si è lasciato dietro qualche
cosa.»
«Non toccarla!» la voce di Holden schioccò come un latrato.
«Prenderemo una fiamma e la bruceremo finché non ne resteranno che atomi
elementari.»
«Non credo sia una buona idea» obiettò Amos. «Ho già visto questa roba,
e non risponde bene alle fiamme ossidriche.»
Prax si rimise in piedi, impostando i comandi degli stivali affinché gli
permettessero di restare appena attaccato al pavimento della camera stagna. Il
portellone interno trillò, avvisandolo che poteva togliersi la tuta e rientrare
nella nave. Lui lo ignorò e attivò uno dei pannelli a parete. Accese una
visuale della stiva. Holden fluttuava accanto alla camera stagna di accesso al
carico. Amos era appeso a una scala a parete, intento a esaminare qualcosa di
piccolo e brillante che era rimasto incastrato nella paratia.
«Che cos’è, Amos?» chiese Naomi.
«Be’, dovrei ripulirla da un po’ di questa melma» disse Amos. «Ma
sembrerebbe una carica incendiaria piuttosto comune. Non è di quelle grosse,
ma è abbastanza grande da vaporizzare all’incirca un paio di metri quadri.»
Ci fu un istante di silenzio. Prax sganciò il sigillo sul suo casco, se lo
tolse e respirò una lunga boccata dell’aria della nave. Passò alla visuale da
una telecamera esterna. Il mostro stava andando alla deriva dietro la nave,
improvvisamente di nuovo visibile nella debole luce proveniente dalla stiva,
mentre si allontanava lentamente. Era avviluppato attorno all’esca radioattiva.
«Una bomba» disse Holden. «Mi stai dicendo che quell’affare ha lasciato
una bomba?»
«E anche piuttosto particolare, se vuoi saperlo» replicò Amos.
«Amos. Vieni con me nella camera stagna della stiva» disse Holden.
«Alex, che cosa rimane da fare prima di bruciacchiare quel mostro là fuori?
Prax è rientrato?»
«Voi siete nella camera stagna, ragazzi?» disse Alex.
«Ora sì. Parti.»
«Non me lo faccio ripetere» disse Alex. «Reggetevi forte.»
L’effetto a cascata biochimico che derivava dall’euforia mista al panico e
alla certezza di essere di nuovo al sicuro rallentò i tempi di reazione di Prax
al punto che, quando la nave accelerò, non era ancora riuscito a posizionare le
gambe per reggere il proprio peso. Capitombolò addosso alla parete, battendo
la testa contro il portellone interno. Non gli importava. Si sentiva
divinamente. Aveva cacciato quel mostro dalla nave. E quella cosa stava
bruciando nella poderosa scia della Rocinante in quello stesso istante, sotto i
suoi occhi.
Poi un dio furioso scalciò la nave su un fianco, facendola capitombolare
vorticosamente nel vuoto. Prax fu sbalzato via, e la delicata presa magnetica
dei suoi stivali non bastò a bloccarlo a terra. Il portellone esterno della
camera di pressurizzazione gli precipitò addosso, e il mondo si fece buio.
28

Avasarala
C’era stato un altro picco. Il terzo. Solo che, stavolta, non sembrava
possibile che fosse coinvolto uno dei mostri di Bobbie. Per cui, forse... forse
era soltanto una coincidenza. Il che rilanciava l’interrogativo: se quella cosa
non era venuta da Venere, allora da dov’era venuta?
Il mondo, però, aveva cospirato per distrarla.
«Non è quello che pensavamo che fosse, signora» disse Soren. «Anch’io
ci sono cascato. È molto brava.»
Avasarala si appoggiò allo schienale della sua poltrona. Il rapporto dei
servizi che compariva sul suo schermo mostrava la donna che chiamava
Roberta Draper in abiti civili. La facevano sembrare ancora più grande, se
possibile. Il suo nome risultava essere Amanda Telelé. Agente indipendente
dei servizi segreti marziani.
«Sto ancora indagando» disse Soren. «Sembra che una Roberta Draper sia
esistita per davvero, ma sarebbe morta su Ganimede insieme agli altri
marine.»
Avasarala scacciò via le parole con un gesto della mano e diede una
scorsa al rapporto. Vi comparivano registrazioni di messaggi stenografici
cifrati tra la cosiddetta Bobbie e un agente marziano su Luna, già noto ai loro
servizi, a decorrere dal giorno in cui Avasarala l’aveva reclutata. Avasarala
attese che la paura e l’oltraggio del tradimento le stringessero il petto. Non
accadde. Continuò a scorrere le parti del rapporto, assimilando nuove
informazioni e attendendo la reazione del proprio corpo. Che continuò a non
reagire.
«E perché abbiamo controllato?» chiese.
«Un presentimento» spiegò Soren. «Il modo in cui si comportava quando
era con lei. Era un po’ troppo... ossequiosa, immagino. Non mi convinceva.
Per cui ho preso l’iniziativa. Ho detto che era un suo ordine.»
«Così che non sembrassi una fottuta idiota per aver invitato una talpa nel
mio ufficio?»
«Mi sembrava la cosa più cortese» rispose Soren. «Se si sta chiedendo
come ricompensare i miei buoni servigi, le segnalo che accetto bonus e
promozioni.»
«Ci scommetto le chiappe, che li accetti» esclamò Avasarala.
Lui attese, inclinandosi un po’ in avanti sulla punta dei piedi. Attese che
la donna gli desse l’ordine di far arrestare Bobbie e di sottoporla a un
interrogatorio completo da parte dei servizi. In quanto a eufemismi,
‘interrogatorio completo’ era tra i più osceni, ma erano in guerra con Marte, e
un agente segreto infiltrato nel cuore delle Nazioni Unite avrebbe saputo cose
di inestimabile valore.
E allora, pensò Avasarala, perché non ho nessuna reazione?
Allungò una mano verso lo schermo, fece una pausa, ritirò la mano e si
accigliò.
«Signora?» disse Soren.
Fu un gesto impercettibile, del tutto inaspettato. Soren si morse il labbro
inferiore. Fu un movimento minimo, quasi invisibile. Come un segno
rivelatore al tavolo da poker. E, quando lo vide, Avasarala capì.
Non ebbe bisogno di riflettere, di ragionare, nessun dubbio né
ripensamento. Era tutto lì, semplicemente, chiaro nella sua mente come se
l’avesse sempre saputo, completo e perfetto. Soren era nervoso perché il
rapporto che le aveva consegnato non avrebbe retto a un esame scrupoloso.
Non avrebbe retto perché era un falso.
Era un falso perché Soren stava lavorando per qualcun altro, qualcuno
che voleva controllare le informazioni che arrivavano sulla scrivania di
Avasarala. Nguyen aveva ricreato la sua piccola flotta senza che lei lo venisse
a sapere perché era Soren a controllare il traffico di informazioni. Qualcuno
sapeva che aveva bisogno di un assistente che gestisse la fase logistica. Si
trattava di qualcosa che era stato allestito da molto prima che le cose su
Ganimede andassero a rotoli. Il mostro su Ganimede era stato preparato.
E così era Errinwright.
Le aveva permesso di chiedere una negoziazione di pace, le aveva
lasciato credere di aver smontato Nguyen, le aveva consentito di prendere
Bobbie nel suo staff. Tutto questo, per non sembrare sospetto.
Non si trattava di una scheggia sfuggita al controllo su Venere; si trattava
di un progetto militare. Un’arma che la Terra voleva per poter annientare i
propri rivali prima che il progetto alieno su Venere portasse a compimento
quello che stava facendo. Qualcuno, probabilmente Mao-Kwikowski, aveva
conservato un campione della protomolecola in un qualche laboratorio
separato e protetto, l’aveva elaborata per scopi militari e aveva dato il via alle
offerte.
L’attacco su Ganimede era stato, da una parte, una prova generale per un
assalto, dall’altra un colpo menomante alle risorse alimentari dei pianeti
esterni. L’APE non era mai stata sulla lista degli offerenti. E poi Nguyen era
andato nel sistema gioviano per recuperare la merce, James Holden e il suo
botanico da compagnia si erano trovati di fronte a una parte dell’operazione,
e Marte si era resa conto che stava per perdere l’affare.
Avasarala si chiese quanto avesse offerto Errinwright a Jules-Pierre Mao
per superare l’offerta di Marte. Doveva essere qualcosa di più del semplice
denaro.
La Terra stava per avere la sua prima arma protomolecolare, ed
Errinwright l’aveva tagliata fuori perché, qualunque cosa intendesse farci, a
lei non sarebbe piaciuta. E Avasarala era una delle pochissime persone in
tutto il sistema solare che avrebbe potuto fermarlo.
Si chiese se fosse ancora così.
«Grazie, Soren» disse. «Apprezzo il tuo sforzo. Sappiamo dove si trova,
ora?»
«La sta cercando» rispose Soren, mentre un sorriso furbo gli tirava le
labbra. «Potrebbe aver pensato che lei stia già dormendo. È molto tardi.»
«Dormire? Ah, sì, ne ho un vago ricordo» replicò Avasarala. «Va bene.
Ho bisogno di parlare con Errinwright.»
«Vuole che la faccia arrestare?»
«No, non voglio.»
Il suo disappunto si notò appena.
«Come vuole procedere?» chiese Soren.
«Parlerò con Errinwright» spiegò lei. «Puoi portarmi del tè?»
«Sì, signora» disse lui, e uscì dalla stanza con un inchino ininterrotto.
Avasarala si appoggiò allo schienale della sua sedia. La sua mente era
calmissima. Il suo corpo era bilanciato e immobile, come se fosse giunta al
termine di una meditazione particolarmente lunga ed efficace. Fece la
richiesta di collegamento e attese di vedere quanto tempo ci avrebbero messo
Errinwright o il suo assistente a risponderle. Non appena inviata la richiesta,
fu contrassegnata come IN ATTESA PRIORITARIA. Tre minuti dopo, Errinwright
fu lì. Le parlava dal suo terminale palmare, con l’immagine che sobbalzava
mentre la macchina in cui si trovava mandava scossoni e svoltava. Ovunque
fosse, era notte fonda.
«Chrisjen!» disse. «Qualcosa non va?»
«Niente di particolare» replicò Avasarala, maledicendo tra sé e sé il
collegamento. Voleva vederlo bene in viso. Voleva guardarlo negli occhi
mentre le mentiva. «Soren mi ha portato qualcosa di interessante. I servizi
pensano che la mia intermediaria con Marte sia una spia.»
«Davvero?» domandò di rimando Errinwright. «Questo è un brutto colpo.
Ha intenzione di farla arrestare?»
«Non credo» rispose Avasarala. «Credo che sfrutterò a mio vantaggio la
situazione. Meglio conoscere i propri nemici. Non è d’accordo?»
La pausa fu appena percettibile.
«Buona idea. Sì, faccia così.»
«Grazie, signore.»
«Approfitto di averla in collegamento per chiederle una cosa: ha bisogno
di restare in ufficio, o sarebbe in grado di lavorare su una nave?»
Lei sorrise. Ecco la mossa successiva, quindi.
«A cosa pensava?»
La macchina di Errinwright raggiunse un tratto di pavimentazione più
liscia e il suo viso fu più chiaramente visibile. Indossava un abito scuro con
una camicia a collo alto senza cravatta. Sembrava un sacerdote.
«Ganimede. Dobbiamo dimostrare che stiamo prendendo sul serio la
situazione là fuori. Il segretario generale vuole che qualcuno dei piani alti
vada lì, fisicamente. Per fare rapporto dal punto di vista umanitario. Visto che
è stata lei a insistere per occuparsi della questione, ha pensato che sarebbe il
volto giusto da associare all’iniziativa. E io ho pensato che le darebbe
l’opportunità di seguire da vicino la situazione dopo l’attacco iniziale.»
«Siamo in guerra aperta» disse Avasarala. «Non credo che alla marina
farebbe piacere sprecare una nave per caricarsi le mie vecchie ossa fin lassù.
Inoltre, sto coordinando l’investigazione su Venere, giusto? Carta bianca, e
via discorrendo.»
Errinwright sorrise proprio come se fosse vero.
«Ho già pensato a tutto. Jules-Pierre Mao sta portando uno yacht da Luna
su Ganimede per supervisionare gli aiuti umanitari forniti dalla sua
compagnia. Si è offerto di fornirle una cabina. Sarà più comoda del suo
ufficio. E probabilmente avrà anche una miglior larghezza di banda. Potrà
monitorare Venere da lì.»
«La Mao-Kwik fa parte del governo, ora? Non ne ero al corrente» disse
lei.
«Siamo tutti dalla stessa parte. La Mao-Kwik è interessata come chiunque
altro ad aiutare quella povera gente.»
La porta di Avasarala si aprì e Roberta Draper incombette sulla soglia del
suo ufficio. Stava da schifo. La sua pelle aveva il colorito cereo di chi non
dorme da troppo tempo. Aveva la mascella serrata. Avasarala le fece un
cenno del capo verso la poltroncina.
«Occupo un sacco di banda» disse.
«Non sarà un problema. Avrà la priorità su tutti i canali di
comunicazione.»
La marziana si sedette di fronte alla scrivania, ben al di fuori dell’angolo
di ripresa della telecamera. Bobbie puntò le mani sulle cosce, con i gomiti
stretti lungo i fianchi, come un lottatore pronto a entrare nella gabbia.
Avasarala si costrinse a non guardare la donna.
«Posso pensarci?»
«Chrisjen» disse Errinwright, avvicinandosi il terminale e riempiendo lo
schermo con la sua faccia ampia e tonda. «Ho già detto al segretario generale
che la cosa potrebbe non funzionare. Perfino nei migliori yacht, il viaggio
fino al sistema gioviano è arduo. Se ha troppo da fare o si trova a disagio con
la faccenda, dica pure di no e troverò qualcun altro. Peccato solo che non sarà
alla sua altezza.»
«E chi potrebbe esserlo?» chiese Avasarala con un gesto modesto della
mano. Si sentiva lo stomaco ribollire di rabbia. «E va bene. Mi ha convinto.
Quando parto?»
«La partenza dello yacht è prevista tra quattro giorni. Mi dispiace per il
poco preavviso, ma ne ho ricevuto conferma soltanto un’ora fa.»
«Quando si dice la casualità.»
«Se fossi un uomo di fede, direi che c’è un senso a tutto questo. Farò
inviare i dettagli del viaggio a Soren.»
«Sarà meglio che li faccia mandare direttamente a me» disse Avasarala.
«Soren avrà già il suo bel da fare.»
«Come preferisce» replicò lui.
Il suo capo aveva scatenato una guerra in segreto. Lavorava con le stesse
compagnie che avevano fatto uscire il genio dalla bottiglia su Phoebe, che
avevano sacrificato Eros e che minacciavano l’intera umanità. Era un
ragazzino spaventato in abiti costosi, che dava il via a una guerra che pensava
di poter vincere perché se la stava facendo sotto di fronte alla vera minaccia.
Avasarala gli sorrise. Uomini e donne innocenti erano morti per colpa sua e
di Nguyen. Dei bambini erano morti su Ganimede. I cinturiani sarebbero
rimasti a corto di risorse alimentari. Alcuni sarebbero morti di fame.
Le guance tonde di Errinwright scesero di un millimetro. La sua fronte si
aggrottò appena. Sapeva che lei sapeva. Certo che lo sapeva. Perché i
giocatori del loro livello non potevano ingannarsi. Vincevano, anche se il loro
avversario sapeva esattamente che cosa stava succedendo. Proprio come lui
stava vincendo contro di lei, in quel momento.
«Si sente bene?» le chiese. «Credo che questa sia la prima conversazione
con lei, da dieci anni a questa parte, in cui non ha fatto uso di turpiloquio.»
Avasarala sorrise verso lo schermo, allungando le dita come se potesse
accarezzarlo.
«Puttana» disse piano.
Allorché il collegamento s’interruppe, si prese la testa tra le mani per un
attimo, espirando e poi inspirando a fondo, concentrandosi. Quando raddrizzò
la schiena, Bobbie la stava fissando.
«Buonasera» disse Avasarala.
«Ho cercato di contattarla» rispose Bobbie. «Le mie chiamate sono state
bloccate.»
Avasarala grugnì.
«Dobbiamo parlare di qualcosa. Di qualcuno. Voglio dire, di Soren» disse
Bobbie. «Si ricorda di quei dati di cui voleva che si occupasse, un paio di
giorni fa? Li ha consegnati a qualcun altro. Non so chi fosse esattamente, ma
era un militare. Ci potrei giurare.»
Allora è stato questo a mettergli paura, pensò Avasarala. Era stato beccato
con le mani nella marmellata. Quel povero sciocco aveva sottovalutato la sua
marine.
«Capisco» disse lei.
«So che non ha alcun motivo di fidarsi di me,» riprese Bobbie «ma...
Okay. Perché sta ridendo?»
Avasarala si alzò, stirandosi finché le articolazioni delle spalle non le
dolsero piacevolmente.
«In questo preciso istante, sei letteralmente l’unica persona del mio staff
di cui mi fido. Ti ricordi quando ti ho detto che, per quanto riguardava la
faccenda su Ganimede, non eravamo stati noi? Non eravamo noi, allora, ma
ora lo siamo. Abbiamo comprato quell’affare, e immagino che stiamo
pianificando di usarlo contro di voi.»
Bobbie si alzò. Il suo viso, prima cereo, si fece esangue.
«Devo dirlo ai miei superiori» disse, con voce strozzata.
«No, non serve. Lo sanno. E non puoi ancora provarlo, non più di quanto
non possa farlo io. Se glielo dici ora, i tuoi faranno una dichiarazione
pubblica, e noi negheremo tutto, e bla bla bla. Il problema più pressante è che
stai tornando su Ganimede con me. Mi stanno inviando lì.»
Le spiegò tutto. Il rapporto falsificato di Soren, ciò che implicava, il
tradimento di Errinwright e la missione su Ganimede con lo yacht della Mao-
Kwik.
«Non può farlo» disse Bobbie.
«È una vera rottura di palle» concesse Avasarala. «Terranno sotto
controllo i miei collegamenti, ma probabilmente stanno già facendo la stessa
cosa qui. E, se intendono spedirmi su Ganimede, puoi star certa che laggiù
non succederà proprio un bel niente. Vogliono mettermi da parte finché non
sarà troppo tardi per cambiare le cose. O comunque, questo è quello che
stanno cercando di fare. Io però non ho intenzione di mollare questo cazzo di
osso.»
«Non può salire su quella nave» riprese Bobbie. «È una trappola.»
«Certo che è una trappola» ammise Avasarala, agitando una mano con
noncuranza. «Ma è una trappola in cui mi devo infilare. Rifiutare una
richiesta del segretario generale? Se trapelasse una notizia del genere, tutti
penserebbero che sono in prepensionamento. Nessuno dà il proprio sostegno
a un giocatore che sarà fuori gioco l’anno successivo. Giochiamo sul lungo
termine, qui, e questo significa apparire forti in prospettiva. Errinwright lo sa
bene. È per questo che si è mosso in questo modo.»
Fuori, un altro shuttle stava decollando. Avasarala udiva già il ruggito dei
propulsori, sentiva la pressione del decollo e della falsa gravità schiacciarla
sul sedile. Erano passati trent’anni dall’ultima volta che era uscita dal pozzo
di gravità terrestre. Non sarebbe stato piacevole.
«Se salirà su quella nave, la uccideranno» disse Bobbie, scandendo le
parole con estrema chiarezza.
«Questo gioco non funziona così» rispose Avasarala. «Quello che
faranno...»
La porta si aprì di nuovo. Soren portava un vassoio tra le mani. La teiera
che c’era sopra era in ghisa, accompagnata da un’unica tazza smaltata senza
manico. Quando vide Bobbie, Soren fece per dire qualcosa. Era facile
dimenticare quanto fosse grande la marziana, finché un uomo della taglia di
Soren non si faceva piccolo di fronte a lei.
«Il mio tè! Eccellente. Ne gradisci anche tu, Bobbie?»
«No.»
«Va bene. Mettilo giù, Soren. Non posso mica bermelo se rimani lì
impalato. Bene. Versamene una tazza.»
Avasarala l’osservò mentre voltava le spalle alla marine. Le sue mani non
tremavano, bisognava riconoscerglielo. Avasarala rimase in silenzio,
aspettando che le portasse il suo tè come se fosse stato un cucciolo che
imparava a riportare un giochino. Quando l’ebbe fatto, lei soffiò sulla
superficie del tè, disperdendo un sottile velo di vapore. Lui stava ben attento
a non voltarsi verso Bobbie.
«Desidera altro, signora?»
Avasarala sorrise. Quanta gente aveva ucciso questo ragazzo,
semplicemente mentendole? Non l’avrebbe mai saputo con certezza, e
nemmeno lui. Il meglio che poteva fare, ora, era: non uno di più.
«Soren» disse. «Sapranno che sei stato tu.»
Era troppo. Lui si guardò alle spalle. Poi tornò a fissare Avasarala, pallido
d’angoscia.
«Chi intende, signora?» chiese lui, tentando la carta del fascino.
«Loro. Se contavi su di loro per aiutarti nella tua carriera, voglio solo farti
capire che non lo faranno. Il genere di uomini per cui lavori. Una volta saputo
che ti sei fatto smascherare, per loro non vali più niente. Non tollerano chi
fallisce.»
«Io...»
«E nemmeno io. Non lasciare niente di tuo sulla scrivania.»
Avasarala lo vide nei suoi occhi. Il futuro che aveva pianificato e per cui
aveva lavorato, attraverso cui aveva definito sé stesso, si sgretolò. Al suo
posto emerse una vita di sostentamento di base. Non era abbastanza. Non era
neanche lontanamente abbastanza. Ma era il massimo che poteva fare sul
momento, con così poco preavviso.
Quando la porta fu richiusa, Bobbie si schiarì la gola.
«Che cosa gli succederà?» chiese.
Avasarala sorseggiò il suo tè. Era un ottimo tè verde, fresco e infuso alla
perfezione – ricco e dolce, senza una traccia di amaro.
«Chi cazzo se ne frega?!?» disse lei. «Lo yacht della Mao-Kwik parte tra
quattro giorni. Non abbiamo molto tempo. E né io né te potremo andare al
cesso senza che i cattivi lo sappiano. Ti farò avere una lista di gente che
dovrò incontrare per un drink, un pranzo o un caffè prima di partire. Il tuo
compito è di fare in modo che succeda.»
«Sono diventata la sua segretaria, ora?» domandò Bobbie, risentita.
«Tu e mio marito siete le uniche due persone viventi di cui ho la certezza
che non stiano cercando di ostacolarmi» replicò Avasarala. «Ecco quanto
sono caduta in basso. Deve succedere, e non ho nessun altro a cui affidarmi.
Per cui, sì. Sei la mia segretaria. Sei la mia guardia del corpo. Sei la mia
psichiatra. Sei tutto questo. Tu.»
Bobbie chinò il capo, espirando attraverso le narici dilatate. Le sue labbra
si strinsero e scosse la testa enorme una volta soltanto. Destra, sinistra, e poi
di nuovo al centro.
«Lei è fottuta» disse.
Avasarala prese un altro sorso di tè. Sarebbe dovuta essere a pezzi. In
lacrime. Era stata tagliata fuori dal suo stesso potere, ingannata. Jules-Pierre
Mao era stato lì, seduto a non più di un metro da dove si trovava lei ora, e
l’aveva presa in giro. Errinwright e Nguyen, e chiunque altro fosse implicato
in quella faccenda... l’avevano ingannata. E lei se n’era stata lì seduta, a tirare
fili e a scambiare favori, convinta di fare qualcosa di reale. Per mesi – forse
per anni – non aveva notato che la stavano chiudendo fuori.
Si erano presi gioco di lei. Avrebbe dovuto sentirsi umiliata. Invece, si
sentì viva. Quella era la loro partita e, se lei era rimasta indietro all’intervallo,
questo significava che non si aspettavano altro che perdesse. Non c’era niente
di meglio che essere sottovalutati.
«Hai una pistola?»
Bobbie per poco non scoppiò a ridere.
«Diciamo che non apprezzano l’idea di avere un soldato marziano che se
ne va in giro per le Nazioni Unite con una pistola in tasca. Mi tocca mangiare
con un forchiaio spuntato. Siamo in guerra.»
«E va bene, va bene. Quando saliremo su quello yacht, sarai incaricata
della sicurezza. E avrai bisogno di una pistola. Farò in modo di fartela avere.»
«Può davvero farlo? In tutta sincerità, però, preferirei avere la mia tuta.»
«La tua tuta? Quale tuta?»
«Quando sono arrivata qui avevo una tuta corazzata su misura. È da lì che
hanno estratto il video del mostro. Hanno detto che ve l’avrebbero
consegnata per dare conferma che le riprese originali non erano state
contraffatte.»
Avasarala fissò Bobbie e sorseggiò il suo tè. Michael-Jon avrebbe saputo
dove fosse stata stivata. L’avrebbe chiamato la mattina seguente e avrebbe
fatto in modo che fosse portata a bordo dello yacht della Mao-Kwik con
un’etichetta innocua, tipo GUARDAROBA.
Probabilmente pensando che dovesse ancora convincerla, Bobbie
continuò a parlare. «Dico sul serio. Se mi mette una pistola in mano, sono un
soldato. Se riesce a rimediarmi quella corazza, sono un supereroe.»
«Se l’abbiamo ancora noi, l’avrai.»
«E va bene» disse Bobbie. Sorrise. Per la prima volta da quando si erano
conosciute, Avasarala ebbe paura di lei.
Che dio aiuti chiunque te la faccia mettere addosso.
29

Holden
La gravità tornò mentre Alex riavviava i motori, e Holden fluttuò giù fin
sul ponte della stiva a mezzo g. Non avevano bisogno di andare veloce, ora
che il mostro era fuori dalla nave. Dovevano soltanto mettere un po’ di
distanza tra loro e quella cosa, e poi inquadrarla nel getto di scarico dei
propulsori, caldo come una stella, dove sarebbe stata disgregata in particelle
subatomiche. Nemmeno la protomolecola poteva sopravvivere dopo essere
stata ridotta in ioni.
O così sperava, perlomeno.
Quando toccò terra, aveva intenzione di correre al monitor del pannello
per controllare le telecamere di poppa. Voleva vedere quell’affare mentre
veniva carbonizzato ma, nel momento in cui il suo peso venne giù con lui,
una fitta di dolore lancinante gli avvolse il ginocchio. Holden lanciò un grido
di dolore e crollò a terra.
Amos gli si fece accanto, poi spense i suoi stivali magnetici e fece per
inginocchiarsi. «Tutto a posto, cap?» domandò.
«Tutto bene. Voglio dire, per uno che pensa di essersi appena giocato un
ginocchio.»
«Già. I danni alle articolazioni sono molto meno dolorosi in microgravità,
vero?»
Holden fece per rispondere, quando un gigantesco martello si abbatté sul
fianco della nave. La chiglia risuonò come un gong. I motori della Roci si
spensero all’istante e la nave cominciò a girare su sé stessa. Amos fu
strappato via da Holden e si schiantò sul portello esterno della camera
pressurizzata. Il capitano scivolò lungo il ponte fino ad atterrare in piedi sulla
paratia che aveva accanto; il ginocchio gli si piegò sotto il corpo così
dolorosamente che per poco non svenne.
Premette con il mento un pulsante nel suo casco, e la sua tuta corazzata
gli iniettò una dose massiccia di anfetamine e antidolorifici. Pochi secondi
dopo, il ginocchio gli faceva ancora male, ma il dolore era molto attutito e
facile da ignorare. Il minaccioso restringimento visivo che gli si era chiuso
intorno svanì e la camera stagna si fece luminosissima. Il suo cuore cominciò
a battere all’impazzata.
«Alex» disse, conoscendo la risposta prima di chiedere. «Che cos’è
stato?»
«Quando abbiamo carbonizzato il nostro passeggero, là fuori, la bomba
nella stiva si è attivata» rispose il pilota. «Abbiamo riportato gravi danni alla
stiva, alla chiglia esterna e alla sala motori. Il reattore è andato in protezione.
La stiva si è trasformata in un secondo propulsore durante l’esplosione e ci ha
fatto andare in rotazione. Non ho più il controllo della nave.»
Amos grugnì e cominciò a muovere braccia e gambe. «Brutta storia.»
«Dobbiamo interrompere la rotazione» disse Holden. «Di cos’hai bisogno
per rimettere in funzione gli stabilizzatori di posizione?»
«Holden» s’intromise Naomi. «Credo che Prax possa essere ferito, nella
camera stagna. Non si sta muovendo.»
«Sta morendo?»
L’esitazione durò per un lungo secondo.
«La sua tuta non lo segnala.»
«E allora prima la nave» disse Holden. «Poi il primo soccorso. Alex,
abbiamo di nuovo il segnale radio. E le luci sono accese. Per cui il disturbo è
andato, e le batterie dovrebbero funzionare ancora. Perché non puoi
accendere gli stabilizzatori?»
«Sembra che... i getti idrici primari e secondari siano fuori uso. Non
abbiamo pressione.»
«Confermo» intervenne Naomi un istante più tardi. «I primari non sono
nell’area dell’esplosione. Se sono andati, la sala motori dev’essere un vero
casino. I secondari sono sul ponte superiore. Non dovrebbero essere stati
danneggiati fisicamente, ma c’è stato un grosso picco energetico appena
prima del blocco di protezione del reattore. Potrebbero essersi bruciati, o si
potrebbe essere rotto un fusibile.»
«Okay, ci pensiamo noi. Amos» disse Holden, spingendosi verso il punto
in cui il meccanico giaceva addosso al portellone esterno di accesso alla stiva.
«Ci sei?»
Amos gli rivolse un cenno di assenso con una mano, da cinturiano, poi
gemette. «Ho solo bisogno di riprendere fiato, niente di grave.»
«Devi alzarti, omaccione» replicò Holden, alzandosi in piedi. In quella
gravità parziale della rotazione, la sua gamba sembrava pesante, bollente e
rigida come un pezzo di legno. Senza le droghe che gli circolavano nel
sangue, restare in piedi l’avrebbe molto probabilmente fatto gridare per il
dolore. Invece tirò su Amos, applicando ancora maggior pressione sul
ginocchio.
Più tardi la pagherò cara, pensò. Ma le anfetamine gli facevano sembrare
quel ‘più tardi’ molto distante.
«Che c’è?» chiese Amos, sbiascicando le parole. Doveva aver subìto una
commozione cerebrale, ma Holden gli avrebbe dato un’occhiata più tardi,
quando avessero recuperato il controllo della nave.
«Dobbiamo raggiungere la pompa secondaria» replicò Holden,
costringendosi a parlare lentamente nonostante le droghe. «Qual è il punto di
accesso più rapido?»
«L’officina» rispose Amos, poi chiuse gli occhi e sembrò addormentarsi
in piedi.
«Naomi» disse Holden. «Riesci a controllare la tuta di Amos, da lì?»
«Sì.»
«Dagli una botta di speed. Non posso trascinarmelo appresso, e ho
bisogno del suo aiuto.»
«Okay» rispose lei. Un paio di secondi dopo, Amos spalancò gli occhi.
«Merda» esclamò. «Mi ero addormentato?» La sua voce era ancora
strascicata, ma ora c’era una sorta di energia frenetica nelle parole.
«Dobbiamo raggiungere il punto di accesso alla paratia dall’officina.
Prendi qualsiasi cosa pensi che possa servirci per riparare la pompa. Potrebbe
essersi rotto un fusibile, o esserci qualche circuito bruciato. Ci ritroviamo lì.»
«Okay» disse Amos, poi si aiutò con i gradini incassati nella paratia per
tirarsi su fino al portellone interno. Un istante dopo l’aprì e strisciò via.
Con la nave in rotazione costante, la gravità spingeva Holden a metà
strada tra il ponte e la paratia di tribordo. Nessuno dei gradini e delle scale
incassati nelle paratie per l’uso a bassa gravità sarebbe stato orientato nella
giusta direzione. Il che non era un problema, avendo quattro arti a
disposizione, ma avrebbe reso le cose più difficili con una gamba in meno.
E, ovviamente, una volta che avesse oltrepassato il fulcro di rotazione,
ovunque fosse stato, ogni cosa si sarebbe rovesciata.
Per un istante, la sua prospettiva cambiò. Il fastidioso effetto Coriolis gli
scosse gli ossicini dell’orecchio, e si ritrovò a cavalcare un grosso tocco di
metallo in caduta libera continua. Poi ci si trovò sotto, schiacciato dal suo
peso immenso. Fu colto dal sudore che precedeva la nausea mentre il suo
cervello passava in rassegna i diversi scenari necessari a spiegare la
sensazione procurata dalla rotazione. Premette di nuovo i controlli della tuta
con il mento, pompando una massiccia dose di farmaci antinausea
d’emergenza nel suo sistema circolatorio.
Senza concedersi il tempo di riflettere, Holden si aggrappò ai gradini e si
tirò su verso il portellone interno. Vide Amos che riempiva un secchio di
plastica con attrezzi e materiali che tirava fuori da cassetti e armadietti.
«Naomi» disse Holden. «Do un’occhiata nella sala motori. Abbiamo
ancora qualche telecamera attiva, lì?»
Lei fece una sorta di verso disgustato che Holden interpretò come una
risposta negativa, poi disse: «Ho sistemi video in corto su tutta la nave. O
sono andati distrutti, o quel circuito ha qualche problema di alimentazione.»
Holden si trascinò verso il portellone pressurizzato montato sul ponte che
separava l’officina dalla sala motori. Una spia di segnalazione sul portello
lampeggiava rossa e furiosa.
«Merda. Come temevo.»
«Che cosa?» chiese Naomi.
«Nemmeno tu hai i valori ambientali, giusto?»
«Non dalla sala motori. È tutto spento laggiù.»
«Be’,» disse Holden con un lungo sospiro «il portello mi dice che
dall’altra parte non c’è atmosfera. Quella carica incendiaria ha aperto un foro
attraverso la paratia, e la sala motori è sottovuoto.»
«Accidenti» esclamò Alex. «Anche la stiva è sottovuoto.»
«E il portello di carico è rotto» aggiunse Naomi. «E anche la camera
stagna della stiva.»
«E un topolino alla fottuta fiera dell’Est» disse Amos, sbuffando seccato.
«Vediamo di far smettere di girare questa dannata nave, così posso uscire a
dare un’occhiata.»
«Amos ha ragione» intervenne Holden, abbandonando il portello e
rimettendosi in piedi. Barcollò giù per una ripida paratia verso il pannello
accanto a cui lo stava aspettando Amos, con il secchio in mano. «Una cosa
per volta.»
Mentre Amos usava una chiave dinamometrica per svitare il pannello di
accesso, Holden disse: «Anzi, Naomi, espelli tutta l’aria anche dall’officina.
Niente atmosfera sotto il ponte quattro. Scavalca i controlli di sicurezza così
da poter aprire il portellone della sala macchine, se necessario.»
Amos estrasse l’ultima vite e tirò via il pannello dalla paratia. Al di là
c’era uno spazio scuro e angusto, pieno di un groviglio confuso di tubi e cavi.
«Ah» aggiunse Holden. «Può darsi che sia il caso di preparare un SOS, se
non riusciamo a riparare qua sotto.»
«Già, come se là fuori fosse pieno di gente che non vede l’ora di darci
una mano» osservò Amos.
Il meccanico si inserì dentro lo stretto passaggio tra le due chiglie e
scomparve. Holden lo seguì. Due metri più in là del portello incombeva il
tozzo e complesso meccanismo a pompa che regolava la pressione idrica
degli stabilizzatori di manovra. Amos gli si fermò accanto e cominciò a
smontarlo. Holden attese alle sue spalle; quello spazio ristretto non gli
consentiva di vedere che cosa stesse combinando il grosso meccanico.
«Come ti sembra?» chiese Holden dopo qualche minuto passato ad
ascoltare Amos che borbottava imprecazioni mentre lavorava.
«Qui sembra tutto a posto» disse il meccanico. «Questo fusibile lo
sostituisco comunque, per sicurezza. Ma non credo che il problema sia la
pompa.»
Merda.
Holden uscì dal portello di manutenzione e avanzò mezzo carponi su per
la ripida pendenza della paratia, fino al portello della sala macchine. La luce
rosso acceso era stata sostituita da un giallo cupo, ora, a indicare l’assenza di
atmosfera da entrambe le parti del portello.
«Naomi» disse Holden. «Devo entrare nella sala macchine. Ho bisogno di
vedere che cosa è successo là dentro. Hai tolto le sicure?»
«Sì. Ma non ho sensori, là dentro. La stanza potrebbe essere piena di
radiazioni...»
«Ma hai dei sensori qui, nell’officina, giusto? Se apro il portello e vedi
allarmi radioattivi, fammelo sapere. Lo richiuderò subito.»
«Jim» disse Naomi, e la durezza che aveva caratterizzato il suo tono di
voce negli ultimi giorni si sciolse un po’. «Quante volte puoi farti irradiare
così prima di finire male?»
«Almeno un’altra volta?»
«Dico alla Roci di preparare un letto nell’infermeria» disse lei, senza
traccia di umorismo.
«Scegline uno che non sia in avaria.»
Senza darsi il tempo di ripensarci, Holden attivò l’apertura sul pannello
del portellone. Trattenne il fiato quando quello si aprì, aspettandosi di trovare
caos e distruzione dall’altra parte, seguiti dall’allarme radioattivo della sua
tuta.
E invece, a parte un piccolo foro sulla paratia più vicina all’esplosione,
non sembravano esserci problemi.
Holden si calò attraverso l’apertura e rimase appeso con le braccia per
qualche istante, esaminando lo spazio. Il massiccio reattore a fusione che
dominava il centro della stanza sembrava intatto. La paratia dal lato di
tribordo era pericolosamente piegata verso l’interno, con un foro annerito al
centro, come se vi si fosse formato una sorta di vulcano in miniatura. Holden
ebbe un fremito al pensiero di quanta energia dovesse essere stata rilasciata
per piegare a quel modo la paratia antiradiazioni pesantemente corazzata, e di
quanto poco ci fosse mancato che facesse un buco nel loro reattore. Quanti
joule mancavano per passare da una parete rotta a una falla di contaminazione
radioattiva?
«Dio, c’è mancato poco» esclamò a voce alta, senza rivolgersi a nessuno
in particolare.
«Ho sostituito tutte le componenti che mi venivano in mente» disse
Amos. «Il problema è altrove.»
Holden lasciò andare il bordo del portello e cadde di mezzo metro fin
sulla paratia sottostante, angolata stranamente, e si lasciò scivolare fin sul
ponte. L’unico danno visibile era un pezzo di paratia piantato nella parete
esattamente opposta rispetto al reattore. Holden non capiva come potesse
essere arrivato lì senza attraversare il reattore, se non rimbalzando sulle altre
due paratie. Non c’erano segni di danni sul reattore, per cui doveva essere
successa la seconda cosa, per quanto incredibilmente improbabile.
«Voglio dire, c’è mancato davvero poco» disse, toccando il frammento di
metallo frastagliato. Era affondato per una buona quindicina di centimetri
nella parete. Più di quanto bastava per aver perlomeno perforato la
schermatura del reattore. E forse peggio.
«Sto guardando dalla tua telecamera» disse Naomi. «Davvero. Le pareti
là dentro sono piene di cavi. Non si può fare un foro del genere senza
rompere qualcosa.»
Holden cercò di tirare via la scheggia di paratia dalla parete, senza
riuscirci. «Amos, porta un paio di pinze e un sacco di cavi di riserva.»
«Niente richiesta d’aiuto, allora» disse Naomi.
«No. Ma se qualcuno potesse puntare una telecamera a poppa e
rassicurarmi sul fatto che dopo esserci fatti il mazzo siamo riusciti a far fuori
quel dannato affare, sarebbe davvero una gran cosa.»
«L’ho guardata io stesso, cap» disse Alex. «È rimasto soltanto gas.»
Holden giaceva su uno dei lettini dell’infermeria, lasciando che fosse la
nave a prendersi cura della sua gamba. Periodicamente, un manipolatore
meccanico gli tastava il ginocchio, che si era gonfiato come un melone, con
la pelle tesa come quella di un tamburo. Il lettino si assicurava anche di
mantenerlo perfettamente sedato, perciò percepiva quelle palpazioni e quei
colpetti occasionali come semplici pressioni senza dolore alcuno.
Il pannello accanto alla sua testa lo avvertì di rimanere immobile; poi, due
braccia meccaniche gli afferrarono la gamba mentre un terzo braccio gli
iniettava un tubo flessibile sottile come un ago all’interno del ginocchio e
cominciava il suo lavoro in artroscopia. Holden avvertì la vaga sensazione di
qualcosa che lo tirava dall’interno.
Nel letto accanto c’era Prax. Aveva la testa bendata nel punto in cui un
lembo di pelle di tre centimetri era stato riappiccicato al suo posto. I suoi
occhi erano chiusi. Amos, che si era rivelato esente da trauma cerebrale,
avendo semplicemente collezionato un altro bel bernoccolo, era sui ponti
inferiori, intento a eseguire riparazioni di fortuna su tutto ciò che la bomba
del mostro aveva rotto, inclusa una toppa temporanea sul foro nella paratia
della sala macchine. Non sarebbero stati in grado di riparare il portellone di
carico della stiva finché non fossero tornati su Tycho. Alex li stava facendo
procedere delicatamente, a un quarto di g, per rendergli più facile il lavoro.
A Holden non dispiaceva quel ritardo. La verità era che non aveva fretta
di tornare su Tycho e di affrontare Fred riguardo a quel che aveva visto. Più
ci pensava e più si allontanava dall’idea che gli era stata instillata da un
panico cieco, cominciando a pensare che Naomi avesse ragione. Non aveva
senso che dietro tutto quello ci fosse Fred.
Ma non ne era sicuro. E doveva esserne certo.
Prax mormorò qualcosa e si toccò la testa. Cominciò a togliersi le bende.
«Io le lascerei lì dove sono» disse Holden.
Prax annuì e richiuse gli occhi. Dormiva, o cercava di farlo. L’automa
medico tirò fuori il tubo dal ginocchio di Holden, lo spruzzò con un
antisettico e cominciò ad avvolgerlo in una fascia stretta. Holden attese finché
non avesse finito di fare qualunque cosa stesse facendo al suo ginocchio, poi
si girò da un lato sul lettino e cercò di rialzarsi. Perfino a un quarto di g, la
sua gamba non riusciva a sostenere il suo peso. Saltellò su un piede fino a un
armadietto e si procurò una stampella.
Mentre superava il lettino del botanico, Prax gli afferrò il braccio. La sua
presa era sorprendentemente forte.
«È morta?»
«Già» disse Holden, dandogli una pacca sulla mano. «L’abbiamo beccata.
Grazie.»
Prax non rispose; si rotolò su un fianco e cominciò a tremare. Holden ci
mise qualche istante a rendersi conto che stava piangendo. Uscì senza dire
altro. Cos’altro c’era da aggiungere?
Imboccò la scala mobile con l’intenzione di salire in plancia per dare
un’occhiata al rapporto dettagliato sui danni che Naomi e la Roci stavano
compilando. Si fermò quando arrivò al ponte dell’equipaggio e sentì le voci
di due persone che parlavano. Non riuscì a capire che cosa dicessero ma
riconobbe la voce di Naomi, e riconobbe il tono che usava allorché era
coinvolta in una conversazione personale.
Le voci provenivano dalla cambusa. Sentendosi un po’ come un
guardone, Holden si avvicinò al portellone della stessa finché non riuscì a
distinguere le parole.
«È qualcosa di più» stava dicendo Naomi. Holden per poco non entrò
nella cambusa, ma qualcosa nel tono di lei lo trattenne. Aveva la terribile
sensazione che stesse parlando di lui. Di loro. Del motivo per cui se ne stava
andando.
«Perché dovrebbe essere qualcosa di più?» domandò l’altra persona.
Amos.
«Hai quasi ammazzato di botte un ragazzo con una lattina di pollo in
scatola, su Ganimede» replicò Naomi.
«Usare una bambina come arma di ricatto per un po’ di cibo? Fanculo. Se
fosse qui, gliela rischianterei in faccia senza pensarci due volte.»
«Ti fidi di me, Amos?» chiese Naomi. Il suo tono era triste. Di più.
Spaventato.
«Più di chiunque altro» rispose Amos.
«Sono spaventata, più che mai. Jim sta correndo su Tycho per fare
qualcosa di molto stupido. E questo tizio che stiamo portando con noi sembra
essere a tanto così da una crisi di nervi.»
«Be’, ha...»
«E tu» continuò lei. «Io dipendo da te. Lo so che sei sempre dalla mia
parte, a prescindere. Tranne ora forse, perché so che l’Amos che conosco non
picchierebbe mai a sangue un ragazzino denutrito, a prescindere da quanto
pollo chieda. Ho l’impressione che si stiano perdendo tutti per strada. Ho
bisogno di capire, perché sono davvero molto, molto spaventata.»
Holden sentì l’impulso di entrare, di prenderla per mano, di abbracciarla.
Il bisogno nella voce di lei lo esigeva, ma lui si trattenne. Ci fu una lunga
pausa. Holden udì il rumore di qualcosa che grattava, seguito da un suono
metallico sul vetro. Qualcuno stava girando lo zucchero nel caffè. I rumori
erano così chiari che poteva quasi vedere la scena.
«E insomma, Baltimora...» disse Amos, con voce tanto rilassata che
avrebbe potuto parlare del clima. «Non è una bella città. Hai mai sentito
parlare della spremitura? Del mercato della spremitura? Delle prostitute
spremute?»
«No. Si parla di droga?»
«No» replicò Amos con una risata. «No... Quando spremi una puttana, la
metti in strada finché non si fa ingravidare, poi la vendi a dei pervertiti che si
eccitano con le ragazze incinte, e quindi la rimetti in strada dopo che ha
partorito il bambino. Con le restrizioni normative alla procreazione, sbattersi
una ragazza incinta è una vera perversione.»
«Spremere?»
«Già. Hai presente, quando si dice ‘spremere fuori il moccioso’? Non
l’hai mai sentito dire?»
«Okay» rispose Naomi, cercando di nascondere il proprio disgusto.
«Quei ragazzini sono illegali. Ma non li fanno sparire così, non subito»
continuò Amos. «Anche loro sono utili.»
Holden si sentì stringere il petto. Non era una cosa a cui avesse mai
pensato. Quando, un secondo dopo, Naomi parlò, il suo orrore faceva eco a
quello di Holden.
«Cristo.»
«Cristo non ha niente a che fare con tutto questo» disse Amos. «Niente
Cristo nel mercato della spremitura. Ma alcuni di quei ragazzini finiscono
nelle bande di magnaccia. E alcuni finiscono in strada...»
«E alcuni finiscono per trovare un modo per andarsene a bordo di una
nave, per non tornare più indietro?» chiese Naomi, a voce bassa.
«Forse» replicò Amos, con voce inespressiva e colloquiale come sempre.
«Forse qualcuno ci riesce. Ma la maggior parte di loro... scompare, alla fine.
Spremuti fino all’osso. La maggior parte.»
Per un po’ di tempo nessuno parlò. Holden udì il rumore del caffè che
veniva bevuto.
«Amos» disse Naomi, con voce pesante. «Non ho mai...»
«Per cui mi piacerebbe trovare quella bambina prima che qualcuno la
sprema e poi la faccia scomparire. Mi piacerebbe poterlo fare per lei» spiegò
Amos. La sua voce si ruppe per un istante, e la schiarì con un forte colpo di
tosse. «Per il suo papà.»
Holden pensò che avessero finito e fece per sgattaiolare via, poi sentì
Amos che, con voce di nuovo calma, diceva: «E poi ammazzerò chiunque sia
stato a rapirla.»
30

Bobbie
Prima di lavorare per Avasarala alle Nazioni Unite, Bobbie non aveva
mai nemmeno sentito parlare della Mao-Kwikowski Mercantile; o, se le era
capitato, non ci aveva fatto caso. Aveva passato la vita intera indossando,
mangiando o sedendo su prodotti traportati attraverso il sistema solare dai
cargo della Mao-Kwik senza mai nemmeno accorgersene. Dopo aver studiato
i documenti che le aveva dato Avasarala, era rimasta stupefatta dalle
dimensioni e dal potere di quella compagnia. Centinaia di navi, dozzine di
stazioni, milioni d’impiegati. Jules-Pierre Mao deteneva importanti proprietà
su ogni pianeta e luna abitabile del sistema solare.
La sua figliola diciottenne era stata proprietaria della sua nave da corsa
privata. E quella era la figlia che non gli piaceva.
Quando Bobbie cercò di immaginare cosa significasse essere tanto ricchi
da potersi permettere di avere una nave privata solo per lo sfizio di
partecipare a qualche gara, non ci riuscì. Il fatto che quella stessa ragazza
fosse fuggita di casa per diventare una ribelle dell’APE probabilmente rivelava
molte cose sulla relazione che intercorreva tra ricchezza e felicità, ma a
Bobbie riusciva difficile dedicarsi a una simile speculazione filosofica.
Lei era cresciuta in una famiglia del ceto medio di Marte. Suo padre
aveva servito per vent’anni come sottufficiale dei marine ed era diventato un
consulente per la sicurezza per una compagnia privata dopo aver lasciato il
corpo. La famiglia di Bobbie aveva sempre avuto una bella casa. Lei e i suoi
due fratelli più grandi avevano frequentato una scuola privata, e i suoi fratelli
erano potuti andare all’università senza dover fare ricorso ai prestiti d’onore.
Crescendo, Bobbie non si era mai considerata povera.
Ora invece sì.
Possedere una nave da corsa privata non era nemmeno ricchezza. Era
come una speciazione. Era il genere di consumo eccessivo che si addiceva
più a una forma di antica regalità terrestre, come la piramide di un faraone
con un reattore a fusione nucleare. Bobbie aveva pensato che fosse l’eccesso
più ridicolo di cui avesse mai sentito parlare.
E poi era scesa dallo shuttle navetta sulla stazione privata L5 di Jules-
Pierre Mao.
Jules non attraccava le sue navi in orbita a una stazione pubblica. Non
usava nemmeno una stazione aziendale della Mao-Kwik. Quella era un’intera
stazione pienamente operativa in orbita attorno alla Terra, dedicata
unicamente alle sue navi private, e l’intera struttura era agghindata come un
pavone che facesse la ruota. Era un livello di stravaganza che Bobbie non
aveva mai nemmeno concepito.
Pensò anche che la cosa rendeva Mao molto pericoloso. Tutto ciò che
faceva era una dichiarazione della sua totale libertà dalle restrizioni. Era un
uomo che non aveva confini. Uccidere una figura politica di spicco del
governo delle Nazioni Unite poteva essere una faccenda scomoda. Poteva
rivelarsi essere molto dispendioso. Ma non sarebbe mai stato veramente
rischioso per un uomo che disponeva di tale ricchezza e potere.
Avasarala non parve accorgersene.
«Odio la gravità di rotazione» disse, sorseggiando una tazza di tè
fumante. Sarebbero rimaste sulla stazione soltanto per tre ore, mentre il
carico veniva trasferito dalla navetta allo yacht di Mao, ma avevano
assegnato loro una suite di quattro stanze, ognuna delle quali aveva il proprio
bagno con doccia e una gigantesca zona soggiorno. Un grosso schermo
fungeva da finestra dalla quale si vedeva la falce di Terra, con le sue nuvole a
velarne i continenti, appesa nel buio. Disponevano di una cucina privata con
tre inservienti, il cui compito più arduo fino a quel momento era stato di
preparare alla vicesottosegretario il suo tè. Bobbie considerò l’idea di
ordinare un pasto abbondante solo per dar loro qualcosa da fare.
«Non riesco a credere che stiamo per salire a bordo di una nave di
proprietà di quell’uomo. Ha mai saputo di qualcuno così ricco che sia andato
in carcere? O che sia perfino stato perseguito dalla legge? Probabilmente
questo tizio potrebbe entrare qui e spararle in faccia in diretta planetaria e
farla franca.»
Avasarala rise alle sue parole. Bobbie represse un moto di stizza. Era
soltanto paura, che cercava una via di sfogo.
«Il gioco non funziona così» disse Avasarala. «Non ti sparano. Ti
mettono da parte. È peggio.»
«No, non lo è. Ho visto persone a cui avevano sparato. Ho visto sparare ai
miei amici. Quando dice ‘il gioco non funziona così’, intende dire per gente
come lei. Non per quelli come me.»
L’espressione di Avasarala si fece più fredda.
«Sì, è quel che intendevo» rispose l’anziana donna. «Il livello a cui
stiamo giocando ha diverse regole. È come una partita di go. Tutto ruota
intorno all’influenza che si esercita. Alla capacità di controllare il tavolo
senza occuparlo.»
«Anche il poker è un gioco» ribatté Bobbie. «Ma a volte la posta diventa
talmente alta che un giocatore decide che è più facile far fuori l’avversario e
andarsene con i soldi in tasca. Succede in continuazione.»
Avasarala annuì ma non rispose subito, riflettendo su ciò che aveva detto
Bobbie. La marine sentì la stizza trasformarsi in un improvviso moto
d’affetto per quella vecchia signora brontolona e arrogante.
«E va bene» disse Avasarala, posando la tazza sul tavolino e portandosi le
mani in grembo. «Capisco il tuo punto di vista, sergente. Credo che sia
improbabile, ma sono felice che tu sia qui per dirlo.»
‘Ma non lo stai prendendo sul serio’ avrebbe voluto gridarle Bobbie.
Invece, chiese al cameriere che era nei paraggi di portarle un panino con
funghi e cipolle. Mentre lo mangiava, Avasarala sorseggiò del tè,
sbocconcellò un biscotto e chiacchierò della guerra e delle sue nipotine.
Bobbie cercò d’impegnarsi a fare versi preoccupati durante la parte
riguardante la guerra e di passare a ‘uuuh’, ‘ma che carine’ e simili quando il
discorso virò sulle bambine. Ma non riusciva a pensare ad altro che
all’incubo che sarebbe stato il dover proteggere Avasarala su una nave
controllata dal nemico.
La sua tuta da ricognizione era in una grossa cassa con su scritto ABITI
FORMALI che veniva caricata sullo yacht di Mao in quello stesso istante.
Bobbie avrebbe voluto sgattaiolare fuori e indossarla subito. Non notò che
Avasarala aveva smesso di parlare da diversi minuti.
«Bobbie» disse Avasarala, con il viso non proprio accigliato. «Per caso le
storie sulle mie adorate nipotine ti annoiano?»
«Sì» rispose Bobbie. «Parecchio.»
Bobbie aveva pensato che la Stazione di Mao fosse la manifestazione di
ricchezza più grottesca che avesse mai visto, finché non salirono a bordo
dello yacht.
Pur essendo stravagante, la stazione perlomeno assolveva a una funzione.
Era il garage orbitale personale di Jules Mao, dove poteva parcheggiare e
riparare la sua flotta di aeronavi private. Dietro tutto quello sfarzo c’era una
stazione efficiente, con squadre meccaniche e di supporto impegnate in un
lavoro vero.
Lo yacht, il Guanshiyin, era della taglia di una nave trasporto da duecento
passeggeri, ma con soltanto una dozzina di cabine private. La zona della stiva
era sufficientemente grande da contenere le riserve necessarie per un lungo
viaggio. Non era particolarmente veloce. In quanto aeronave era, da un punto
di vista utilitario, un miserabile fallimento.
Ma il suo scopo non era utilitario.
Lo scopo della Guanshiyin era di essere comoda. Stravagantemente
comoda.
Era come la hall di un albergo. La moquette era sontuosa e morbida sotto
i piedi, e dei candelabri di vero cristallo intercettavano la luce. Ogni punto in
cui ci sarebbe dovuto essere uno spigolo era arrotondato. Ammorbidito. Le
pareti erano ricoperte di bambù e fibra naturale. La prima cosa che pensò
Bobbie fu quanto doveva essere difficile pulirla, e il secondo pensiero fu che
quella difficoltà era intenzionale.
Ogni suite occupava un intero ponte della nave. Ciascuna stanza aveva il
proprio bagno, il proprio impianto d’intrattenimento, la sala dei giochi e
un’area lounge con un bar completo, provvista di un gigantesco schermo che
mostrava la vista esterna e che non avrebbe potuto avere maggior definizione
se fosse stato una finestra vera e propria. Vicino al bar c’era un montavivande
accanto a un interfono, da cui era possibile ordinare cibo cucinato da chef
Cordon Bleu a qualsiasi ora del giorno e della notte.
La moquette era talmente spessa che Bobbie aveva la certezza che gli
stivali magnetici non avrebbero funzionato. Non aveva importanza. Una nave
del genere non si sarebbe mai guastata, non avrebbe mai dovuto fermare i
motori durante il viaggio. Il genere di persone che viaggiava sulla Guanshiyin
non aveva probabilmente mai indossato una tuta ambientale in tutta la vita.
Tutti gli impianti della sua sala da bagno erano placcati d’oro.
Bobbie e Avasarala erano sedute nell’area lounge con il capo della sua
squadra di sicurezza delle Nazioni Unite, un uomo di bell’aspetto dai capelli
grigi di origine kurda, di nome Cotyar. Bobbie si era preoccupata la prima
volta che l’aveva incontrato. Sembrava più un amichevole maestro di scuola
che un soldato. Poi però l’aveva osservato perquisire le stanze di Avasarala
con consumata efficienza, impostando il loro piano di sicurezza e dirigendo la
propria squadra, e le sue preoccupazioni si erano allentate.
«Ebbene, impressioni?» chiese Avasarala, appoggiandosi allo schienale di
una morbida poltrona con gli occhi chiusi.
«Questa stanza non è sicura» rispose Cotyar, con un accento che alle
orecchie di Bobbie suonava particolarmente esotico. «Non dovremmo
discutere di questioni sensibili in questo ambiente. La sua stanza è stata
messa in sicurezza per questo genere di conversazioni.»
«Questa è una trappola» intervenne Bobbie.
«Ancora con queste stronzate?» disse Avasarala, chinandosi in avanti per
indirizzare un’occhiataccia alla marine.
«La sergente ha ragione» riprese piano Cotyar, chiaramente a disagio nel
dover discutere una questione del genere in una stanza non protetta. «Ho già
contato quattordici membri dell’equipaggio, e stimerei che si tratti di meno di
un terzo dell’equipaggio totale di questo vettore. Io dispongo di una squadra
di sei uomini per la sua protezione...»
«Sette» lo interruppe Bobbie, alzando la mano.
«Come dice lei» continuò Cotyar con un cenno del capo. «Sette. Non
controlliamo nessuno dei sistemi della nave. Per assassinarla basterebbe
sigillare il ponte su cui ci troviamo e pompare fuori l’ossigeno.»
Bobbie indicò Cotyar e disse: «Visto?»
Avasarala agitò una mano come a scansare una mosca. «Qual è lo stato
dei sistemi di comunicazione?»
«Solido» assicurò Cotyar. «Abbiamo impostato una rete privata e ci è
stato concesso l’uso esclusivo del raggio stretto di riserva e del sistema radio.
La banda è significativamente larga, anche se sarà necessario tenere in
considerazione un lieve ritardo man mano che ci allontaneremo dalla Terra.»
«Bene» disse Avasarala, sorridendo per la prima volta da quando erano
saliti sulla nave. Aveva smesso di sembrare stanca qualche ora prima ed era
passata a quello che diventa l’essere stanchi allorché si trasforma in uno stile
di vita.
«Niente di tutto questo è sicuro» avvertì Cotyar. «Possiamo mettere in
sicurezza la nostra rete di comunicazione interna, ma, se dovessero
monitorare il traffico in entrata e in uscita attraverso il sistema datoci in uso,
non avremo modo di saperlo. Non abbiamo accesso al settore operativo della
nave.»
«E» disse Avasarala «questo è esattamente il motivo per cui sono qui.
Vogliono mettermi in bottiglia, mandarmi via e leggere tutte le mie cazzo di
email.»
«Saremo fortunati se sarà tutto quel che faranno» osservò Bobbie.
Pensare a quanto sembrava stanca Avasarala le aveva ricordato quanto fosse
stanca lei stessa. Per un istante si sentì andare alla deriva.
Avasarala finì di dire qualcosa, e Cotyar annuì e le rispose di sì. Poi si
voltò verso di lei e chiese: «Sei d’accordo?»
«Ehm» replicò Bobbie, cercando di riprendere la conversazione nella sua
mente senza riuscirci. «Io...»
«Stai praticamente dormendo in piedi, cazzo. Quand’è stata l’ultima volta
che ti sei fatta una notte di sonno come si deve?»
«Probabilmente l’ultima volta che l’ha fatta lei» rispose Bobbie. L’ultima
volta che tutti i miei compagni erano in vita, e che non stava cercando di
impedire che il sistema solare andasse a fuoco. Attese il successivo
commento caustico, la successiva osservazione su come non potesse fare il
suo lavoro se era così compromessa. Così debole.
«Mi sembra giusto» disse Avasarala. Bobbie sentì un altro moto di affetto
per lei. «Mao ha organizzato una cena questa sera per darci il benvenuto a
bordo. Voglio che tu e Cotyar veniate con me. Cotyar si occuperà della
sicurezza, per cui resterà in fondo alla sala e si impegnerà a sembrare
minaccioso.»
Bobbie scoppiò a ridere prima di riuscire a fermarsi. Cotyar sorrise e le
fece l’occhiolino.
«E» continuò Avasarala «tu mi accompagnerai in veste di segretaria, per
cui potrai attaccare bottone con la gente. Cerca di sondare l’equipaggio e
l’umore generale della nave. Tutto chiaro?»
«Ricevuto.»
«Ho notato» aggiunse Avasarala, passando al tono che usava di solito
quando stava per chiedere un favore spiacevole «che l’ufficiale di bordo ti
fissava quando ci hanno accolto alla camera stagna.»
Bobbie annuì. L’aveva notato anche lei. Alcuni uomini avevano
un’ossessione per le donne più grandi, e Bobbie aveva avuto la sgradevole
impressione che quel tizio potesse far parte di quella tribù. Quegli uomini
tendevano ad avere il complesso di Edipo, per cui in linea generale li evitava.
«C’è qualche possibilità che tu attacchi bottone con lui, a cena?» concluse
Avasarala.
Bobbie scoppiò a ridere, aspettandosi che anche gli altri avrebbero riso.
Anche Cotyar la stava guardando come se Avasarala le avesse rivolto una
richiesta del tutto ragionevole.
«Uhm, no» rispose Bobbie.
«Hai per caso detto no?»
«Già. No. Diavolo, no. Cazzo, no. Nein und abermals nein. Nyet. La.
Siei» disse Bobbie, fermandosi quando terminò le lingue. «E a dire il vero ora
sono anche un po’ incazzata.»
«Non ti sto chiedendo di andarci a letto.»
«Bene, perché io non uso il sesso come un’arma» replicò Bobbie. «Io uso
le armi come armi.»
«Chrisjen!» esclamò Jules Mao, avvolgendo la mano di Avasarala nella
propria e stringendola.
Il signore dell’impero Mao-Kwik torreggiava sull’anziana donna. Aveva
quel tipico bel viso che faceva venire voglia a Bobbie di farselo piacere, e
un’incipiente calvizie maschile non trattata che diceva che non gli importava
di piacerle o meno. La scelta di non usare la propria ricchezza per risolvere
un problema così facilmente curabile come la calvizie faceva sembrare
ancora di più che avesse il controllo della situazione. Indossava una maglia
leggera e un paio di pantaloni di cotone che gli stavano come un abito su
misura. Quando Avasarala gli presentò Bobbie, lui sorrise e annuì guardando
appena nella sua direzione.
«Il suo staff si è già ambientato?» chiese, facendo capire ad Avasarala che
la presenza di Bobbie gli ricordava i sottoposti. Bobbie strinse i denti ma
mantenne un’espressione impassibile.
«Sì» rispose con ciò che Bobbie avrebbe potuto giurare essere autentico
calore. «Le stanze sono splendide, e il suo equipaggio è stato impeccabile.»
«Eccellente» esclamò Jules, posandosi la mano di Avasarala
sull’avambraccio e guidandola verso un tavolo gigantesco. Si ritrovarono
circondati da ogni parte da uomini con giacche bianche e papillon neri. Uno
di loro si precipitò solerte a tirare fuori dal tavolo una sedia. Jules vi lasciò
Avasarala. «Lo chef Marco ci ha promesso qualcosa di speciale, per questa
sera.»
«Che ne dice di un po’ di risposte oneste? Sono sul menu?» chiese
Bobbie mentre un cameriere le teneva la sedia.
Jules si sedette a capotavola. «Risposte?»
«Avete vinto» disse Bobbie, ignorando la zuppa fumante che uno dei
camerieri le mise davanti. Mao aggiunse un pizzico di sale nella sua e
cominciò a mangiare come se stessero avendo una conversazione casuale.
«La vicesottosegretario è a bordo della sua nave. Non c’è più motivo di dirci
stronzate. Che cosa sta succedendo?»
«Aiuti umanitari» rispose lui.
«Stronzate» commentò Bobbie. Diede un’occhiata ad Avasarala, ma
l’anziana donna si limitò a sorridere. «Non mi venga a dire che ha due mesi
da perdere in viaggio fino a Giove solo per supervisionare la consegna di riso
e succhi di frutta. E su questa nave non avete caricato risorse a sufficienza da
bastare per un pranzo su Ganimede, figuriamoci per fare la differenza sul
lungo periodo.»
Mao si appoggiò allo schienale della sua sedia, e i camerieri in giacca
bianca si diedero da fare sparecchiando i piatti di zuppa. Portarono via anche
quello di Bobbie, anche se non lo aveva nemmeno assaggiato.
«Roberta» cominciò Mao.
«Non mi chiami Roberta.»
«Sergente, dovrebbe fare queste domande ai suoi superiori del ministero
degli affari esteri delle Nazioni Unite, non a me.»
«Mi piacerebbe molto, ma, a quanto pare, fare domande è contrario alle
regole in questo gioco.»
Il sorriso di Mao era caloroso, condiscendente e vuoto. «Ho messo a
disposizione la mia nave per fornire alla signora vicesottosegretario il viaggio
più confortevole verso il suo nuovo incarico. E, benché non li abbiate ancora
incontrati, a bordo di questo vettore ci sono professionisti la cui esperienza si
rivelerà essere inestimabile per i cittadini di Ganimede, una volta che sarete
giunte a destinazione.»
Bobbie era stata vicino ad Avasarala abbastanza a lungo da capire la
partita che le stavano giocando davanti. Mao la stava deridendo. Sapeva bene
che erano tutte stronzate, e sapeva che lo sapeva anche lei. Ma, fintantoché
fosse rimasto calmo e avesse fornito risposte ragionevoli, nessuno avrebbe
potuto metterlo all’angolo. Era troppo potente perché gli si potesse dare del
bugiardo così apertamente.
«Lei è un bugiardo, e...» esordì; poi, qualcosa che lui aveva appena detto
la fece fermare. «Aspetti... ‘Una volta che sarete giunte a destinazione’? Lei
non verrà?»
«Temo proprio di no» disse Mao, rivolgendo un sorriso al cameriere che
gli aveva appena servito un altro piatto. Sembrava essere un pesce intero,
completo di testa e occhi vitrei.
Bobbie fissò a bocca aperta Avasarala, che ora guardava Mao lievemente
accigliata.
«Mi è stato detto che lei avrebbe supervisionato personalmente questa
missione» disse Avasarala.
«Era il mio intento. Ma temo che altri impegni abbiano compromesso
questa possibilità. Una volta terminata questa deliziosa cena, tornerò con la
navetta sulla stazione. Questa nave, e il suo equipaggio, sono a vostra
disposizione finché il suo compito vitale su Ganimede non giungerà al
termine.»
Avasarala fissò Mao. Per la prima volta da quando la conosceva Bobbie,
l’anziana signora era rimasta senza parole.
Un cameriere in giacca bianca servì a Bobbie il suo pesce mentre la loro
lussuosa prigione si dirigeva comodamente a un quarto di g verso Giove.
Avasarala non aveva proferito parola mentre scendevano in ascensore
fino alla suite. Una volta giunte nell’area lounge, si fermò il tempo necessario
per prendere una bottiglia di gin dal bar e chiamò Bobbie con un dito. Bobbie
la seguì nella stanza da letto, con Cotyar subito dietro.
Dopo che la porta fu chiusa e che Cotyar ebbe usato il suo terminale
palmare di sicurezza per accertare l’assenza di cimici, Avasarala disse:
«Bobbie, comincia a pensare a un modo per prendere il controllo di questa
nave, o per farci scendere da qui.»
«Lasciamo perdere» replicò Bobbie. «Andiamo a prendere quella navetta
su cui sta salendo Mao. È ancora a portata della sua stazione, o non potrebbe
usarla.»
Con sua sorpresa, Cotyar annuì. «Sono d’accordo con la sergente. Se
abbiamo intenzione di andarcene da qui, la navetta sarà più facile da
governare e controllare contro un equipaggio potenzialmente ostile.»
Avasarala si sedette sul suo letto esalando un lungo respiro che si
trasformò in sospiro. «Non posso ancora andarmene. Non funziona così.»
«Ancora questo gioco del cazzo!» gridò Bobbie.
«Sì» scattò Avasarala. «Sì, ancora questo gioco del cazzo! Ho ricevuto
l’ordine dai miei superiori di effettuare questo viaggio. Se abbandono ora,
sono fuori. Saranno educati e diranno che si è trattato di malattia o di
esaurimento, ma la scusa che mi concederanno sarà anche il motivo per cui
non mi sarà permesso di continuare a svolgere il mio lavoro. Sarò salva, e
sarò impotente. Finché farò finta di fare quello che mi hanno chiesto di fare,
potrò continuare a lavorare. Sono ancora la vicesottosegretario del capo
dell’esecutivo. Ho ancora dei contatti. Influenza. Se scappassi ora, perderei
tutto questo. Se perdessi tutto questo, quei pezzi di merda potrebbero anche
spararmi.»
«Ma...» disse Bobbie.
«Ma» ripeté Avasarala «se continuo a essere efficace, troveranno un
modo per tagliarmi fuori. Un guasto inspiegabile alle comunicazioni, o
qualcosa del genere. Qualcosa che mi escluda dalla rete. Quando succederà,
esigerò che il capitano faccia rotta verso la stazione più vicina per le
riparazioni. E, se ho ragione, lui non ottempererà.»
«Ah» esclamò Bobbie.
«Oh» le fece seguito Cotyar, un attimo dopo.
«Già» disse Avasarala. «Quando accadrà, dichiarerò che si tratta di una
detenzione illegittima della mia persona, e prenderete il controllo di questa
nave per me.»
31

Prax
Ogni giorno che passava, la domanda si faceva sempre più pressante: qual
era il prossimo passo? Non era poi così diverso da quei primi, terribili giorni
su Ganimede, trascorsi a compilare liste come modo per dire a sé stesso cosa
fare. Solo che ora non stava più cercando Mei. Stava cercando Strickland. O
la misteriosa donna del video. O chiunque avesse costruito il laboratorio
segreto. In quel senso, stava molto meglio di prima.
D’altra parte, se prima aveva perlustrato soltanto Ganimede, ora il campo
si era allargato senza più alcun limite.
Il tempo di ritardo fino alla Terra – o a Luna, per la precisione, visto che i
consulenti per la sicurezza della Persis-Stroke avevano base in orbita
piuttosto che in fondo al pozzo di gravità del pianeta – era poco più di venti
minuti. Il che rendeva qualsiasi conversazione propriamente detta
impossibile; per cui, in pratica, la donna con il viso squadrato sul suo
schermo aveva fatto una serie di video promozionali sempre più
specificamente mirati a ciò che Prax voleva sapere.
«Abbiamo un rapporto di condivisione dei dati sensibili con la Pinkwater,
che al momento è la compagnia di sicurezza con la maggior presenza fisica e
operativa in seno ai pianeti esterni» disse. «Disponiamo anche di contratti
congiunti con la Al Abbiq e la Star Helix. In tal caso possiamo agire con
effetto immediato, direttamente o tramite i nostri partner, su qualsiasi
stazione o pianeta del sistema.»
Prax annuì. Era esattamente ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che
avesse occhi e contatti ovunque. Qualcuno che potesse aiutarlo.
«Le allego una liberatoria» disse la donna. «Abbiamo bisogno di ricevere
il pagamento per la tassa di registro, ma non addebiteremo ulteriori costi sul
suo conto finché non avremo raggiunto un accordo sull’ambito
dell’investigazione per cui si dichiarerà disposto a rispondere in prima
persona. Una volta definito questo passaggio, le invierò una proposta
dettagliata con un foglio di lavoro distinto e potremo decidere insieme il
raggio d’intervento che le si addice maggiormente.»
«Grazie» disse Prax. Aprì il documento, lo firmò e lo rispedì indietro.
Sarebbero passati venti minuti, alla velocità della luce, prima che
raggiungesse Luna. Venti minuti per la risposta. E chissà quanto tempo tra
quei due momenti.
Ma era un inizio. Poteva sentirsi soddisfatto di quello, almeno.
La nave era silenziosa in un modo che sapeva di attesa, ma Prax non
sapeva dire che cosa stesse aspettando. Senz’altro l’arrivo sulla Stazione di
Tycho, ma, a parte quello, non sapeva bene che altro. Lasciandosi la sua
branda alle spalle, attraversò la cambusa vuota e risalì la scala verso il ponte
operativo e la cabina di pilotaggio. La piccola sala era in penombra; la
maggior parte della luce proveniva dai pannelli di controllo e dagli schermi
ad alta definizione che riempivano di luce stellare a duecentosettanta gradi il
campo visivo, mostrando il sole distante e la massa in avvicinamento della
Stazione di Tycho. Un’oasi in quell’ampio nulla.
«Ehi, doc» lo apostrofò Alex dal sedile del pilota. «Sei salito ad ammirare
la vista?»
«Se... voglio dire, se a te va bene.»
«Nessun problema. Non ho avuto alcun copilota da quando abbiamo
preso la Roci. Siediti pure qui. Solo, se succede qualcosa, non toccare
niente.»
«Va bene» promise Prax mentre si issava sul sedile di navigazione.
All’inizio, la stazione sembrò crescere pian piano. I due anelli in
controrotazione erano appena poco più grandi del pollice di Prax, e la sfera
che circondavano poco più di una mentina. Poi, mentre si avvicinavano, la
superficie vaga sul bordo della sfera di costruzione cominciò a definirsi in
immense gru e bracci meccanici allungati verso una massa stranamente
aerodinamica. La nave in costruzione era ancora mezza spoglia, con le travi
in materiale ceramico e acciaio esposte al vuoto come le ossa di uno
scheletro. Minuscole lucciole baluginavano al suo interno e sulla chiglia:
saldatrici e pacchetti sigillanti in azione, troppo distanti per essere visti al di
là della luce.
«È costruita per viaggiare in atmosfera?»
«No. Però un po’ sembra così. Quella è la Chesapeake. O, comunque, lo
sarà. È stata progettata per viaggiare ad altissimo g. Credo che stessero
discutendo se mandare quella poveraccia a qualcosa come 8 g per un paio di
mesi consecutivi.»
«Fin dove?» chiese Prax, facendo un po’ di calcoli mentali
approssimativi. «Dovrebbe arrivare al di fuori dell’orbita di... qualsiasi cosa.»
«Già, andrà in profondità. Vogliono raggiungere la Nauvoo.»
«La nave generazionale che doveva sbattere Eros addosso al sole?»
«Proprio quella. Hanno spento i motori quando il piano è andato a rotoli,
ma da allora ha continuato a viaggiare. Non era terminata, per cui non hanno
potuto riportarla indietro da controllo remoto. E così stanno costruendo una
nave di recupero. Spero proprio che ci riescano. La Nauvoo era un’opera
d’ingegneria eccezionale. Ovviamente, quand’anche riuscissero a recuperarla,
questo non impedirà ai mormoni di fare causa alla Tycho per averla ridotta a
brandelli, sempre che riescano a trovare un modo.»
«E perché non dovrebbero trovarlo?»
«L’APE non riconosce i tribunali della Terra e di Marte, e ha il controllo di
quelli della Fascia. Per cui si tratta di vincere in un tribunale che non ha
valore, o di perdere in un tribunale riconosciuto.»
«Ah» disse Prax.
Sugli schermi, la Stazione di Tycho si fece più grande e più dettagliata.
Prax non seppe dire quale fosse il dettaglio che le conferiva prospettiva ma,
da un secondo all’altro, capì la portata e le dimensioni della stazione che
aveva di fronte e si lasciò sfuggire un sussulto. La sfera di costruzione
doveva avere un diametro di mezzo chilometro, come due cupole agricole
complete unite l’una all’altra alla base. A poco a poco, la grande sfera
industriale crebbe fino a riempire tutti gli schermi, e la luce delle stelle fu
sostituita dal bagliore delle guide e di una bolla di osservazione con una
cupola vetrata. Placche di acciaio ceramico e grandi impalcature presero il
posto dell’oscurità. Ecco gli immensi propulsori in grado di spingere l’intera
stazione, come una città celeste, in qualsiasi luogo del sistema solare. Ecco le
complesse articolazioni di rotazione, come sospensioni cardaniche di sedili
spaziali costruite da giganti, che avrebbero riconfigurato l’intera stazione
quando la gravità di accelerazione avesse preso il posto di quella di rotazione.
Quella visione gli tolse il fiato. Tutta l’eleganza e l’efficienza della
struttura gli si pararono di fronte, belle, semplici ed efficaci come una foglia
o un sistema radicale. Avere qualcosa di così simile ai frutti dell’evoluzione
naturale, ma progettato da menti umane, era qualcosa che ispirava meraviglia.
Era l’apice della creatività, l’impossibile reso reale.
«Un bel lavoro» osservò Prax.
«Già» disse Alex. Poi, attivando il canale interno della nave: «Siamo
arrivati. Assicuratevi ai sedili e preparatevi all’attracco. Passo alla modalità
manuale.»
Prax fece per alzarsi dal sedile.
«Preferisci che torni in cabina?»
«Stai bene anche dove sei. Mettiti le cinture, però, in caso dovessimo
urtare contro qualcosa» disse Alex. Poi, con voce più cadenzata, formale:
«Torre di controllo di Tycho, qui la Rocinante. Richiediamo il permesso di
attracco.»
Prax udì una voce distante che diceva qualcosa in risposta ad Alex.
«Ricevuto» disse Alex. «Stiamo entrando.»
Nelle serie e nei film d’azione che Prax aveva visto su Ganimede, pilotare
una nave era sempre stato un gesto decisamente atletico. Uomini coperti di
sudore che si impuntavano ostinatamente sulle barre di controllo. Guardando
Alex, vide che era tutt’altra cosa. Il pilota aveva sempre i due joystick, ma i
suoi movimenti erano misurati e calmi. Con un tocco, la gravità sotto di lui
cambiò e il suo sedile aggiustò la posizione di qualche centimetro. Poi un
altro tocco, e un altro leggero cambio. Il display superiore mostrava un tunnel
che attraversava il vuoto, tratteggiato da linee blu e oro che andavano in su e
svoltavano a destra, terminando sul fianco dell’anello curvo.
Prax osservò la mole di dati inviati ad Alex e disse: «Perché pilotarla a
mano? La nave non potrebbe usare tutti questi dati per fare l’attracco in
autonomia?»
«Perché pilotarla a mano?» ripeté Alex con una risata. «Perché è
divertente, doc. Perché è divertente.»
Le lunghe luci bluastre delle finestre della cupola di osservazione di
Tycho erano talmente chiare che Prax poteva vedere le persone che li stavano
osservando. Riusciva quasi a dimenticare che gli schermi del cockpit non
erano vere finestre: l’impulso di guardare fuori e di fare un cenno di saluto, e
di aspettare che qualcuno rispondesse al gesto, era profondo.
La voce di Holden si fece sentire sulla linea di Alex; le parole erano
incomprensibili, e il tono perfettamente chiaro.
«Tutto a posto, cap» disse Alex. «Altri dieci minuti.»
Il sedile di Prax si spostò da un lato, e l’ampio piano della stazione prese
a curvare mentre Alex ne assecondava la rotazione. Generare anche soltanto
un terzo di g su un anello di quelle dimensioni avrebbe richiesto una spinta
inerziale proibitiva, ma, sotto la mano di Alex, la nave e la stazione si
trovarono a ruotare lentamente e delicatamente, in perfetta sintonia. Prima di
sposarsi, Prax aveva visto una danza basata su tradizioni neotaoiste. Durante
la prima ora era stata terribilmente noiosa; poi, quei minimi movimenti di
braccia, gambe e torace, che si spostavano, si piegavano e si allontanavano
all’unisono, erano diventati ipnotici. La Rocinante scivolò al suo posto
accanto a una camera stagna di attracco con la stessa eleganza che Prax aveva
osservato in quella danza, resa però più potente dalla consapevolezza che,
invece di pelle e muscoli, si trattava di tonnellate di acciaio ad alta elasticità e
propulsori a fusione nucleare.
La Rocinante si appoggiò al molo con un’ultima correzione, un ultimo
spostamento dei sedili a sospensione cardanica. L’ultima rotazione era stata
non più vistosa di tutte le altre piccole correzioni che Alex aveva fatto
durante l’approccio. Ci fu un rumore sconcertante quando i ganci di attracco
della stazione si posizionarono sulla nave.
«Torre di controllo di Tycho» disse Alex. «Qui la Rocinante: confermo
l’attracco. Abbiamo sigillato la camera stagna. I ganci sono in posizione. Mi
date conferma?»
Passò un momento, poi un mormorio.
«Grazie a voi, Tycho» disse Alex. «È bello essere tornati.»
La gravità a bordo della nave era cambiata appena. Invece di essere
generata dall’accelerazione dei propulsori, l’illusione di peso proveniva ora
dalla rotazione dell’anello a cui si erano agganciati. Prax aveva l’impressione
costante di pendere da un lato tutte le volte che era in piedi, e dovette
combattere l’impulso di compensare dall’altra parte.
Quando Prax arrivò nella cambusa ci trovò Holden, con la macchina del
caffè che mesceva arabica nero e bollente; il flusso del liquido era appena un
po’ curvo fin nel bicchiere. L’effetto Coriolis, una lezione che Prax ricordava
vagamente dai tempi del liceo. Amos e Naomi entrarono
contemporaneamente. Erano tutti insieme ora, e Prax sentì che era il
momento giusto per ringraziarli tutti per ciò che avevano fatto per lui. Per
Mei, che probabilmente era morta. Il dolore evidente sul viso di Holden lo
bloccò.
Naomi era di fronte a lui, con un sacco da viaggio gettato in spalla.
«Te ne stai andando» disse Holden.
«Sì.» Il tono di Naomi era leggero, ma il significato di quella parola
s’irradiava intorno come delle armoniche in risonanza. Prax sbatté le
palpebre.
«E va bene» disse Holden.
Per qualche secondo, nessuno si mosse; poi Naomi si sporse e baciò
lievemente il capitano sulla guancia. Il braccio di Holden si mosse per
abbracciarla, ma lei si era già allontanata, incamminandosi attraverso lo
stretto corridoio con l’aria di una donna che aveva un posto in cui andare.
Holden prese il suo caffè. Amos e Alex si scambiarono un’occhiata.
«Ehm, capitano?» disse Alex. Paragonata alla voce dell’uomo che aveva
appena agganciato una nave da guerra nucleare a un anello di metallo rotante
nel mezzo dello spazio interplanetario, questa voce era esitante e preoccupata.
«Dobbiamo cercare un nuovo vicecomandante?»
«Non cerchiamo un bel niente finché non lo dico io» replicò Holden. Poi,
con voce più calma: «Cristo, spero proprio di no.»
«Sì, signore» disse Alex. «Anch’io.»
I quattro uomini rimasero lì in piedi per un lungo, imbarazzato momento.
Amos fu il primo a parlare.
«Sai, cap» disse. «Nel posto che ho prenotato c’è spazio per due persone.
Se vuoi sistemarti sulla branda libera, è tua.»
«No» replicò Holden. Non li guardava mentre parlava, ma allungò una
mano e premette il palmo sulla parete. «Rimarrò sulla Roci. Starò proprio
qui.»
«Sei sicuro?» chiese Amos, e di nuovo sembrò intendere qualcosa di più
di quanto non potesse capire Prax.
«Io non vado da nessun’altra parte» disse Holden.
«E va bene.»
Prax si schiarì la gola, e Amos lo prese per un gomito.
«Tu che mi dici?» chiese Amos. «Ce l’hai un posto dove dormire?»
Il discorso che si era preparato Prax – ‘Volevo dire a voi tutti quanto
abbia apprezzato...’ – incappò in quella domanda, deviando entrambi i
pensieri.
«Io... ehm... non saprei, ma...»
«Perfetto, allora. Prendi la tua roba, puoi venire con me.»
«Be’, va bene. Grazie. Ma prima volevo dire a voi tutti...»
Amos gli posò una manona sulla spalla.
«Magari più tardi» replicò l’omone. «Ora, però, che ne dici di venire con
me?»
Holden era appoggiato alla parete, ora. Aveva la mascella serrata, come
quella di un uomo sul punto di gridare, di vomitare o di piangere. I suoi occhi
erano fissi sulla paratia della nave, ma guardavano oltre. Prax si sentì risalire
un dolore dentro, come se stesse guardando in uno specchio.
«Sì» disse. «Va bene.»
Le stanze di Amos erano, se possibile, più piccole delle cabine sulla
Rocinante: due piccole zone private, uno spazio comune grande quanto la
metà della cambusa e un bagno con un lavandino a scomparsa e il water nella
doccia. Se Amos fosse effettivamente stato lì, quel posto avrebbe indotto un
certo senso di claustrofobia.
E invece aveva fatto accomodare Prax, si era fatto una doccia rapida ed
era uscito negli ampi corridoi sfarzosi della stazione. C’erano piante in ogni
dove, ma, per la maggior parte, sembravano decorative. La curvatura dei
ponti era così impercettibile che Prax poteva quasi immaginare di essere
tornato su una qualche zona poco familiare di Ganimede, che il suo buco
fosse a non più di qualche stazione di tubo da lì. Che Mei sarebbe stata lì, ad
aspettarlo. Prax attese che la porta esterna si richiudesse, tirò fuori il
terminale palmare e si collegò alla rete locale.
Ancora nessuna risposta dalla Persis-Strokes, ma era probabilmente
troppo presto per aspettarsela. Nel frattempo, il problema principale erano i
soldi. Se doveva finanziare un’operazione del genere, non poteva farlo da
solo.
Il che significava chiamare Nicola.
Prax sistemò il terminale, inquadrandosi con la telecamera. L’immagine
di sé che gli restituì lo schermo era esanime, distrutta. Quelle settimane
l’avevano prosciugato, e il periodo passato sulla Rocinante non gli aveva
consentito di riprendersi completamente. Forse non si sarebbe mai ristabilito
del tutto. Quelle guance scavate sullo schermo potevano essere chi era
diventato, ora. Andava bene così. Cominciò a registrare.
«Ciao, Nici» disse. «Volevo farti sapere che sono salvo. Sono arrivato
sulla Stazione di Tycho, ma non ho ritrovato Mei. Ho intenzione di
ingaggiare una società di consulenza per la sicurezza. Gli darò tutto quello
che so. Mi sembrano in grado di poterci aiutare. Ma i costi sono elevati.
Potrebbero essere molto elevati. E lei potrebbe essere già morta.»
Prax fece una pausa per riprendere fiato.
«Potrebbe essere già morta» ripeté. «Ma devo provarci. So che non è un
buon momento, economicamente, per te. So che devi pensare al tuo nuovo
marito. Ma se avessi qualcosa da mandare... Non per me. Non voglio niente
da te. Solo per Mei. Per lei. Se puoi darle qualcosa, questa è l’ultima
occasione.»
Fece un’altra pausa, indeciso tra ‘Grazie’ ed ‘È il minimo che puoi fare,
cazzo’. Alla fine si limitò a chiudere la registrazione e inviò il messaggio.
Il ritardo orario tra Ceres e la Stazione di Tycho era di quindici minuti,
date le loro relative posizioni. Anche così, non sapeva che ore fossero laggiù.
Poteva darsi che quel messaggio arrivasse lì in piena notte, o durante la cena.
Nicola poteva non avere niente da dirgli.
Non importava. Doveva provarci. Avrebbe potuto dormire, sapendo che
aveva fatto tutto quello che poteva per provarci.
Registrò un messaggio e lo inviò a sua madre, al suo vecchio compagno
di stanza dei tempi dell’università che aveva accettato un posto sulla Stazione
di Nettuno, al suo consulente per il post-dottorato. Ogni volta, la storia si
faceva un po’ più facile da raccontare. I dettagli cominciavano a tornargli in
mente, uno dopo l’altro. Con loro non parlò della protomolecola. Nella
migliore delle ipotesi, non avrebbe fatto altro che spaventarli. Nella peggiore,
avrebbero pensato che la perdita gli aveva fatto perdere la testa.
Quando ebbe inviato l’ultimo messaggio, rimase seduto in silenzio. C’era
un’ultima cosa che pensava di dover fare, ora che aveva accesso a una rete di
comunicazione pienamente efficiente. Ma non voleva farla.
Cominciò a registrare.
«Basia» disse. «Sono Praxidike. Volevo farti sapere che so per certo che
Katoa è morto. Ho visto il suo corpo. Non sembrava... Non sembrava che
avesse sofferto. E ho pensato che, se fossi al posto tuo... ho pensato che
rimanere nell’incertezza... rimanere nell’incertezza sarebbe stato peggio. Mi
dispiace. Solo...»
Interruppe la registrazione, la inviò e si buttò sulla branda. Si aspettava
che fosse dura e scomoda, ma il materasso era accogliente quanto un sedile
imbottito di gel. Si addormentò facilmente e si svegliò quattro ore dopo come
se qualcuno gli avesse acceso un interruttore in testa. Amos era ancora fuori,
anche se sulla stazione era mezzanotte. Non c’era ancora nessun messaggio
dalla Persis-Strokes, per cui Prax registrò un’educata richiesta di conferma di
avvenuta ricezione, per accertarsi che l’informazione non si fosse persa
nell’invio, poi la riguardò e la cancellò. Si fece una lunga doccia, lavandosi
due volte i capelli; si rasò e registrò una nuova richiesta di conferma, in cui
aveva meno l’aspetto di un pazzo furioso.
Dieci minuti dopo l’invio, giunse il trillo di un nuovo messaggio. Sapeva
che non poteva essere la risposta che aspettava. Dato il ritardo orario, la sua
comunicazione non doveva nemmeno essere arrivato su Luna, al momento.
Quando aprì il messaggio, vide che era di Nicola. Il suo viso a forma di cuore
sembrava più vecchio di quanto non ricordasse. Sulle tempie aveva le prime
tracce di grigio. Ma quando mostrò quel dolce sorriso triste, Prax ebbe di
nuovo vent’anni, ed era di nuovo seduto al tavolo di fronte a lei, nel grande
parco con la musica bhangra e i laser che disegnavano arte istantanea sulla
cupola ghiacciata sopra di loro. Si ricordò com’era stato amarla.
«Ho ricevuto il tuo messaggio» disse. «Mi... mi dispiace tanto, Praxidike.
Vorrei poter fare di più. Le cose non vanno molto bene, qui su Ceres. Parlerò
con Taban. Guadagna più di me e, se si rende conto di quel che è successo,
potrebbe voler contribuire anche lui. Per me.
«Prenditi cura di te, vecchietto. Sembri stanco.»
Sullo schermo, la madre di Mei si chinò in avanti e chiuse la
registrazione. Un’icona mostrava un codice di autorizzazione al trasferimento
di ottanta Reál FusionTek. Prax controllò il tasso di cambio, convertendo la
valuta della compagnia in dollari delle Nazioni Unite. Era quasi una
settimana di salario. Non bastava. Non era nemmeno lontanamente
sufficiente. Ma per lei era comunque stato un sacrificio.
Prax riavviò il messaggio, mettendo in pausa tra una parola e l’altra.
Nicola lo guardava dallo schermo del terminale, con le labbra separate quel
tanto che bastava da fargli intravedere il bianco dei denti. I suoi occhi erano
tristi e giocosi. Per molto tempo aveva pensato che fosse la sua anima, e non
soltanto un fatto di fisiognomica, a darle quell’aspetto di gioia contenuta. Si
era sbagliato.
Mentre se ne stava seduto, perso tra la storia e la sua immaginazione,
apparve un nuovo messaggio. Proveniva da Luna. Era la Persis-Strokes. Con
una sensazione a metà tra l’ansia e la speranza, aprì l’allegato con il foglio di
calcolo. Quando vide la prima cifra, ebbe un tuffo al cuore.
Mei poteva essere là fuori. Poteva essere viva. E di sicuro c’erano anche
Strickland e i suoi uomini. Potevano essere rintracciati. Potevano essere presi.
Si poteva ottenere giustizia.
Solo che lui non se lo poteva permettere.
32

Holden
Holden sedeva su una sedia a strapuntino nella sala macchine della
Rocinante, intento a esaminare i danni e ad annotare osservazioni per la
squadra di riparazione della Tycho. Gli altri se n’erano andati. Alcuni più di
altri, pensò.
Sostituire la paratia di tribordo della sala macchine.
Danno significativo al raccordo dei cavi di alimentazione di babordo, se possibile
sostituire l’intera scatola di giunzione.
Poche righe di testo che rappresentavano centinaia di ore lavorative,
centinaia di migliaia di dollari in pezzi di ricambio. Rappresentavano anche la
conseguenza dell’essere arrivati a tanto così dal totale annientamento della
nave e del suo equipaggio. Descriverlo in due rapide frasette sembrò quasi
sacrilego. Annotò in calce le tipologie di ricambi civili che Tycho doveva
avere già a disposizione e che si sarebbero adattati alla sua nave da guerra
marziana.
Alle sue spalle, uno schermo a parete trasmetteva un notiziario di Ceres.
Holden l’aveva acceso per tenersi la mente occupata mentre armeggiava con
la nave e prendeva appunti.
Il che non era altro che una perdita di tempo, ovviamente. Sam, la
capomeccanico della Tycho che solitamente supervisionava i lavori di
riparazione della Roci, non necessitava di quell’aiuto. Non aveva bisogno che
Holden redigesse quella lista. Era, da ogni punto di vista, più qualificata di lui
per fare quello che stava facendo. Ma, non appena le avesse affidato il lavoro,
Holden non avrebbe più avuto motivo di rimanere sulla nave. Avrebbe
dovuto affrontare Fred riguardo al problema della protomolecola su
Ganimede.
E forse perdere Naomi.
Se il suo sospetto iniziale si fosse rivelato corretto e Fred aveva
veramente negoziato usando la protomolecola come oggetto di scambio o,
peggio, come arma, Holden l’avrebbe ucciso. Lo sapeva come sapeva il
proprio nome, e la cosa lo spaventava. Il fatto che si trattasse di un crimine
capitale, e che sarebbe stato quasi certamente liquidato sul posto, era in fondo
meno importante del fatto che sarebbe stata la prova definitiva che Naomi
aveva avuto ragione ad andarsene. La prova che fosse diventato l’uomo che
lei temeva che sarebbe diventato. Solo un altro detective Miller, che
dispensava giustizia da frontiera dalla canna della sua arma. Ma, quando
s’immaginava la scena, l’ammissione di colpa di Fred e l’accorato appello di
non ucciderlo, Holden non riusciva a pensare di non ucciderlo per ciò che
aveva fatto. Si ricordò di essere stato il tipo d’uomo che avrebbe compiuto
una scelta diversa, ma non riusciva a ricordarsi come fosse essere
quell’uomo.
Se aveva torto, e Fred non aveva niente a che fare con la tragedia su
Ganimede, in tal caso Naomi avrebbe avuto ragione fin dall’inizio, e lui era
stato troppo testardo per capirlo. Forse sarebbe stato in grado di scusarsi con
sufficiente umiltà da riconquistarla. La stupidità era di solito considerata un
crimine meno grave del vigilantismo.
Ma se Fred non fosse stato quello che giocava a fare Dio con il supervirus
alieno, questo sarebbe stato molto, molto peggio per l’umanità in generale. Il
pensiero che la verità peggiore per l’umanità fosse in realtà la migliore per lui
era sconcertante. In cuor suo, sapeva che non avrebbe esitato a sacrificare sé
stesso o la sua felicità per salvare tutti gli altri, ma questo non aveva zittito la
vocina in fondo alla sua testa che diceva: ‘Fanculo il resto dell’universo, io
rivoglio la mia ragazza.’
Un mezzo ricordo gli balenò dal subconscio e scrisse ‘Altri filtri da caffè’
sulla sua lista di rifornimenti necessari.
Il pannello alle sue spalle trillò mezzo secondo prima che il suo terminale
palmare ronzasse per avvertirlo che c’era qualcuno, all’ingresso, che
richiedeva il permesso di salire a bordo. Holden passò le dita sullo schermo
per visualizzare la telecamera del portellone esterno della camera stagna e
vide Alex e Sam che aspettavano nel corridoio. Sam era ancora la stessa
adorabile ragazza dai capelli rossi che ricordava, con la tuta grigia sempre
troppo larga per il suo fisico da folletto. Aveva con sé una grossa scatola
degli attrezzi e rideva. Alex disse un’altra cosa e lei rise ancora più forte,
facendo quasi cadere gli attrezzi a terra. Con l’interfono spento, sembrava un
film muto.
Holden attivò il microfono e disse: «Venite dentro, ragazzi.» Con un altro
tocco aprì il portellone esterno della camera stagna. Sam salutò la telecamera
ed entrò.
Pochi minuti dopo, il portellone pressurizzato della sala macchine si aprì
e l’ascensore ronzò mentre scendeva fin sul ponte. Sam e Alex scesero dalla
pedana e Sam lasciò cadere a terra gli attrezzi con un tonfo metallico.
«Allora, che succede?» disse, abbracciando rapidamente Holden. «Avete
riempito la mia ragazza di buchi un’altra volta?»
«La tua ragazza?» chiese Alex.
«Stavolta, no» rispose Holden, indicando le paratie danneggiate nella sala
macchine. «Una bomba è esplosa nella stiva, aprendo un foro lì dentro e
facendo schizzare una scheggia attraverso il raccordo dei cavi di
alimentazione, qui.»
Sam fece un fischio. «O la scheggia si è fatta un giro lungo, o il vostro
reattore sa come schivare i proiettili.»
«Quanto tempo pensi che ci vorrà?»
«La paratia è facile» disse lei, inserendo qualche dato nel suo terminale, e
poi picchiettandosi sugli incisivi con l’angolo dello schermo. «Possiamo far
passare una piastra intera attraverso la stiva, il che rende le cose più semplici.
Per il raccordo di alimentazione ci vorrà un po’ di più, ma non molto.
Diciamo quattro giorni, se comincio a far lavorare i ragazzi da subito.»
«Be’,» disse Holden, con l’imbarazzo di un uomo che doveva continuare
ad ammettere altre colpe «abbiamo anche il portellone di carico della stiva
danneggiato, che dovrà essere sostituito o riparato. E la nostra camera stagna
di accesso alla stiva è combinata un po’ male.»
«Un altro paio di giorni, allora» disse Sam, prima di inginocchiarsi e di
cominciare a togliere le cose dalla scatola degli attrezzi. «Ti spiace se
comincio a prendere qualche misura?»
Holden fece un gesto verso la parete. «Fa’ come se fossi a casa tua.»
«Hai guardato parecchi notiziari, di recente?» domandò Sam, indicando i
conduttori sullo schermo a parete. «Ganimede è fottuta, giusto?»
«Già» rispose Alex. «Mi sa di sì.»
«Ma è solo Ganimede, per ora» disse Holden. «Questo significa che c’è
qualcosa che ancora mi sfugge.»
«Naomi sta da me questi giorni» disse Sam come se non avessero parlato
d’altro fino a quel momento. Holden sentì la sua faccia che s’irrigidiva e
cercò di rimediare, costringendosi a sorridere.
«Ah. Fico.»
«Non vuole parlarne ma, se scopro che le hai fatto qualche merdata, userò
questa sul tuo cazzo» disse lei, tirando fuori una chiave dinamometrica. Alex
rise nervosamente per un istante, poi fece un colpo di tosse e parve a disagio.
«Mi considero avvertito» disse Holden. «Come sta?»
«Silenziosa» rispose Sam. «Okay, ho tutto quello che mi serve. Scappo e
vado a prendere la montatura per lavorare sul taglio di questa paratia. Ci
vediamo in giro, ragazzi.»
«Ciao, Sam» disse Alex, osservandola mentre risaliva con l’ascensore
finché il portellone pressurizzato non si fu richiuso alle sue spalle. «Sono
troppo vecchio di una ventina d’anni, e sono piuttosto sicuro di avere la cosa
sbagliata tra le gambe, ma quella ragazzina mi piace proprio.»
«Tu e Amos vi passate questa cotta di tanto in tanto?» chiese Holden. «O
devo cominciare a preoccuparmi che voi due facciate i pistoleri solitari
pensando a lei?»
«Il mio è un amore puro» replicò Alex con un sogghigno. «Non lo
sporcherei mai facendo qualcosa, hai presente... facendo qualcosa di
inappropriato.»
«Il tipo di amore di cui scrivono i poeti, insomma.»
«Allora» disse Alex, appoggiandosi alla parete e guardandosi le unghie.
«Parliamo di questa situazione del vicecomandante.»
«Non ne parliamo.»
«Oh, parliamone invece» ribatté Alex, poi fece un passo avanti e incrociò
le braccia come un uomo che non era disposto a cedere di un centimetro.
«Piloto questo scafo da solo da più di un anno, ormai. E la cosa può
funzionare soltanto perché Naomi è una brillante operatrice di plancia e ci
permette un sacco di libertà. Se perdiamo lei, non voliamo più. E questo è un
fatto.»
Holden si rimise in tasca il terminale palmare che stava usando e si
addossò alla paratia schermata del reattore.
«Lo so. Lo so. Non avrei mai pensato che l’avrebbe fatto per davvero.»
«Andarsene?» domandò Alex.
«Già.»
«Non abbiamo mai parlato di paga» disse Alex. «Non abbiamo un
salario.»
«Paga?» Holden si accigliò e tamburellò un ritmo veloce con le dita sul
reattore alle sue spalle. Quello echeggiò come una tomba di metallo. «Ogni
centesimo che ci ha dato Fred e che non abbiamo usato per l’operatività della
nave è nel conto che ho aperto. Se ti serve del denaro, il venticinque percento
di quella somma ti appartiene.»
Alex scosse la testa e agitò le mani. «No, non fraintendermi. Non mi
servono soldi, e non credo che tu ci stia rubando qualcosa. Sto solo dicendo
che non si è mai parlato di paga.»
«E allora?»
«E allora, questo significa che non siamo un equipaggio normale. Non
lavoriamo su questa nave per soldi, o perché un qualche governo ci ha
coscritto. Siamo qui perché vogliamo esserci. È tutto quello che hai, come
vincolo. Crediamo nella causa, e vogliamo essere parte di quello che fai.
Nell’istante in cui non è più così, tanto vale cercarci un vero lavoro
retribuito.»
«Ma Naomi...» fece per dire Holden.
«Era la tua ragazza» disse Alex ridendo. «Diavolo, Jim, ma l’hai vista?
Può trovarsi un altro fidanzato. Anzi, a proposito, ti dispiace se io...»
«Ho capito, ho capito. Hai ragione. Ho mandato tutto a puttane. È colpa
mia. Lo so. Tutta colpa mia. Devo andare da Fred e cominciare a pensare a
come fare per rimettere tutto a posto.»
«A meno che non sia stato davvero Fred a farlo.»
«Già. A meno che non sia stato lui.»
«Mi stavo giusto chiedendo quand’è che ti saresti degnato di passare»
disse Fred Johnson quando Holden attraversò la soglia del suo ufficio. Fred
aveva un aspetto migliore e contemporaneamente peggiore di quando Holden
l’aveva conosciuto, un anno prima. Migliore, perché l’Alleanza dei Pianeti
Esterni, il quasi governo di cui Fred era capo nominale, non era più
un’organizzazione terroristica, ma un governo di fatto che poteva sedere al
tavolo della diplomazia con i pianeti interni. E Fred si era dedicato al ruolo di
amministratore con una soddisfazione che non doveva aver sentito nell’essere
un partigiano. Era evidente nel modo rilassato in cui teneva le spalle e nel
mezzo sorriso che era diventata la sua espressione corrente.
E peggiore, perché l’anno trascorso e tutte le pressioni del governare
l’avevano fatto invecchiare più in fretta. I suoi capelli erano più bianchi e più
radi, e il suo collo era una confusione di pelle allentata e vecchi muscoli
nodosi. I suoi occhi erano permanentemente cerchiati. La sua pelle color
caffellatte non mostrava molte rughe, ma sembrava soffusamente grigiastra.
Il sorriso che rivolse a Holden era genuino; si alzò dalla scrivania, fece il
giro per stringergli la mano e lo invitò a sedersi.
«Ho letto il tuo rapporto su Ganimede» disse Fred. «Parlamene.
Impressioni sul campo.»
«Fred» replicò Holden. «C’è qualcos’altro.»
Fred annuì mentre tornava dall’altra parte della scrivania e si sedeva.
«Dimmi tutto.»
Holden fece per parlare, poi si fermò. Fred lo stava fissando. La sua
espressione non era cambiata, ma il suo sguardo era più attento, più
concentrato. Holden ebbe un improvviso e irrazionale timore che Fred
sapesse già tutto quello che stava per dire.
La verità era che Holden aveva sempre avuto paura di Fred. C’era un
dualismo, in quell’uomo, che lo metteva a disagio. Fred aveva aiutato
l’equipaggio della Rocinante nel momento in cui ne avevano più bisogno. Era
diventato il loro protettore, il loro porto sicuro contro la miriade di nemici che
si erano fatti durante l’anno passato. Eppure Holden non riusciva a
dimenticare che si trattava sempre del colonnello Frederick Lucius Johnson,
il Macellaio della Stazione di Anderson. Un uomo che aveva passato l’ultimo
decennio ad aiutare a organizzare e gestire l’Alleanza dei Pianeti Esterni,
un’organizzazione che era stata capace di atti di terrorismo e assassinio per il
conseguimento dei propri scopi. Quasi sicuramente, Fred aveva ordinato
personalmente alcuni di quegli omicidi. Ed era più che probabile che il Fred a
capo dell’APE avesse ammazzato più persone di quante non ne avesse uccise
il Fred colonnello della Marina delle Nazioni Unite.
Si sarebbe davvero tirato indietro se fosse stato necessario usare la
protomolecola per sostenere i suoi piani?
Forse. Forse sarebbe stato andare troppo oltre. E poi era un amico, e
meritava di avere un’opportunità di difendersi.
«Fred, io...» cominciò Holden, poi si fermò.
Fred annuì di nuovo, con il sorriso che gli scivolava via dal volto e veniva
sostituito da un lieve cipiglio. «Non mi piacerà.» Era una constatazione.
Holden afferrò i braccioli della sedia e si mise in piedi. La spinta fu più
violenta di quanto non intendesse, e, nella bassa gravità di rotazione a 0.3 g
della stazione, staccò i piedi da terra per un istante. Fred ridacchiò e il
cipiglio tornò a essere un sorriso.
E successe. Il sorriso e la risata ruppero la paura e la trasformarono in
rabbia. Quando Holden tornò a posare i piedi per terra, si chinò in avanti e
picchiò entrambi i palmi sulla scrivania di Fred.
«Tu» disse «non hai il diritto di ridere. Non finché non saprò con certezza
che non è stata tutta colpa tua. Se fossi capace di fare quello che penso che
potresti aver fatto e poi di ridere ancora, ti ammazzerò senza pensarci due
volte.»
Il sorriso di Fred non cambiò, ma qualcosa nei suoi occhi lo fece. Non era
abituato a essere minacciato, ma non era nemmeno un territorio sconosciuto.
«Quello che potrei aver fatto» disse Fred, senza trasformare la frase in
una domanda, limitandosi a ripetere quelle parole.
«È la protomolecola, Fred. Quello che sta succedendo su Ganimede. Un
laboratorio che usava dei bambini come cavie, quella merda filamentosa e
nera, e un mostro che ha quasi fatto fuori la mia nave. Eccola, la mia fottuta
impressione sul campo. Qualcuno si è messo a pasticciare con il morbo, e
potrebbe essere stato liberato, e i pianeti interni si stanno sparando in orbita
intorno alla protomolecola.»
«Credi che sia stato io» disse Fred. Di nuovo, solo un banale dato di fatto.
«Abbiamo gettato quella merda su Venere» gridò Holden. «Ho dato a te
l’unico campione. E all’improvviso su Ganimede, il granaio del tuo futuro
impero, l’unico posto di cui le marine dei pianeti interni si rifiutano di cedere
il controllo, scoppia una fottuta epidemia?»
Per un secondo, Fred lasciò che fosse il silenzio a rispondere.
«Mi stai chiedendo se sto usando la protomolecola per scacciare le truppe
dei pianeti interni da Ganimede e per rafforzare il mio controllo sui pianeti
esterni?»
Il tono tranquillo di Fred fece realizzare a Holden quanto avesse alzato la
voce, e si prese un momento per fare diversi respiri profondi. Quando sentì il
cuore rallentare un po’, disse: «Sì. Esattamente questo.»
«Tu» disse Fred, con un ampio sorriso che non gli raggiungeva gli occhi
«non hai il diritto di chiedermi una cosa del genere.»
«Come?»
«Nel caso te ne fossi scordato, tu sei un impiegato di questa
organizzazione.» Fred si alzò, torreggiando imponente, di una buona dozzina
di centimetri più alto di Holden. Il suo sorriso non cambiò, ma il suo corpo si
spostò e sembrò ispessirsi. All’improvviso sembrò molto grande. Holden fece
un passo indietro prima di riuscire a impedirselo.
«Io» continuò Fred «non ti devo niente, se non ciò che rientra nei termini
del nostro ultimo contratto. Hai perso la testa, ragazzo? Entrare così nel mio
ufficio? Gridarmi addosso? Esigere delle risposte?»
«Nessun altro potrebbe...» cominciò a dire Holden, ma Fred lo ignorò.
«Mi hai consegnato l’unico campione conosciuto. Ma stai dando per
scontato che non ne esista un altro soltanto perché non ne sei a conoscenza.
Tollero le tue stronzate da più di un anno, ormai» disse Fred. «Quest’idea che
hai, che l’universo ti debba delle risposte... quest’indignazione da virtuoso
che impugni come una mazza con tutti quelli che ti stanno intorno... Ma io
non sono obbligato a tollerare le tue stronzate. E lo sai perché?»
Holden scosse la testa, temendo che, se avesse parlato, la sua voce
sarebbe stata uno squittio.
«Perché» disse Fred «sono il fottuto capo, qui dentro. Sono io a gestire le
cose. Sei stato molto utile, e potresti esserlo di nuovo, in futuro. Ma ho già
abbastanza merda da spalare senza che tu dia inizio a un’altra delle tue
crociate a mie spese.»
«Quindi...» disse Holden, lasciando la frase in sospeso.
«Quindi sei licenziato. Questo era il tuo ultimo contratto con me. Finirò
di riparare la Roci e ti pagherò, perché non vengo meno a un accordo. Ma
credo che abbiamo finalmente costruito un numero sufficiente di navi per
cominciare a tenere sotto controllo il nostro cielo senza il tuo aiuto. E, se
anche non fosse così, mi sono stancato di te.»
«Licenziato» ripeté Holden.
«E ora porta il culo fuori dal mio ufficio prima che decida di prendermi
anche la Roci. Ci sono più pezzi della Tycho, là sopra, che originali. Credo
che avrei qualche diritto di reclamare la proprietà di quella nave.»
Holden indietreggiò verso la porta, chiedendosi quanto potesse essere
seria quella minaccia. Fred lo fissò mentre se ne andava ma non si mosse.
Quando raggiunse la porta, Fred disse: «Non sono stato io.»
I loro sguardi s’incontrarono per un lungo istante.
«Non sono stato io» ripeté Fred.
Holden disse «Va bene» e uscì dalla porta.
Quando la porta si richiuse, nascondendo Fred e il suo ufficio, Holden
fece uscire un lungo sospiro e si appoggiò pesantemente alla parete del
corridoio. Fred aveva ragione su una cosa: ‘Quest’indignazione da virtuoso
che impugni come una mazza con tutti quelli che ti stanno intorno...’ Aveva
visto l’umanità arrivare sull’orlo dell’estinzione per colpa della propria
stupidità. Era stato scosso fin nel midollo. Dalla faccenda di Eros, aveva
vissuto di paura e adrenalina.
Ma non era una scusa. Non più.
Cominciò a tirare fuori il suo terminale palmare per chiamare Naomi,
quando un pensiero lo investì come se si fosse accesa una luce. Sono
licenziato.
Aveva lavorato con un contratto esclusivo per Fred per più di un anno. La
Stazione di Tycho era la loro casa. Sam aveva passato quasi più tempo di
Amos a calibrare e rattoppare la Roci. Tutto questo non c’era più. Si
sarebbero dovuti trovare dei lavori per conto loro, rimediare un attracco per
conto loro, comprare i ricambi per conto loro. Niente più protettori che li
tenessero per mano. Per la prima volta da molto tempo, Holden era un vero
capitano indipendente. Si sarebbe dovuto guadagnare da vivere mantenendo
quella nave in attività e l’equipaggio ben nutrito. Si fermò per un istante,
assimilando quell’idea.
Si sentiva benissimo.
33

Prax
Amos si sporse in avanti sulla sedia. La semplice massa di quell’uomo
sembrava rendere la stanza più piccola, e la puzza di alcol e fumo emanava
da lui come da un fuoco. La sua espressione non sarebbe potuta essere più
gentile.
«Non so che fare» disse Prax. «Non so proprio che fare. È tutta colpa mia.
Nicola era così... così persa, e frustrata. Ogni giorno mi alzavo e la guardavo,
e tutto quel che vedevo era quanto fosse in trappola. E sapevo che Mei
sarebbe cresciuta così. Cercando di far sì che sua madre la amasse, quando
Nici non voleva altro che essere da qualche altra parte. E ho pensato che
sarebbe stato meglio. Quando cominciò a parlare di andarsene, ero pronto,
sai? E quando Mei... quando ho dovuto dire a Mei che...»
Prax abbassò la testa tra le mani, dondolandosi piano avanti e indietro.
«Stai per vomitare di nuovo, doc?»
«No. Sto bene. Se fossi stato un padre migliore, adesso lei sarebbe ancora
qui.»
«Stiamo parlando dell’ex moglie o della bambina?»
«Non m’importa di Nicola. Se fossi stato presente per Mei. Se fossi
andato da lei non appena fosse partito l’allarme. Se non avessi aspettato lì,
nella cupola. E per cosa? Piante? Sono comunque tutte morte, ormai. Ne
avevo salvata una, ma ho perso anche quella. Non sono riuscito a salvarne
nemmeno una. Ma sarei potuto andare lì. Trovarla. Se solo...»
«Lo sai che era già sparita prima che scoppiasse quel casino, vero?»
Prax scosse la testa. Non aveva intenzione di lasciare che la realtà lo
perdonasse.
«E poi questo... Avevo una possibilità. Me la sono cavata. Avevo un po’
di denaro. E sono stato stupido. Era la sua ultima possibilità, e sono stato
stupido.»
«Già. Be’... sei nuovo di queste cose, doc.»
«Avrebbe dovuto avere un padre migliore. Meritava un padre migliore.
Era così... era una bambina così buona.»
Per la prima volta, Amos lo toccò. La sua manona lo prese per la spalla,
afferrandolo dalla clavicola alla scapola e tirandolo su finché non fu dritto.
Gli occhi di Amos erano tutti rossi. Il suo fiato era caldo e astringente, l’idea
platonica di un marinaio con la sbronza da congedo temporaneo. Ma la sua
voce era ferma e sobria.
«Ha un ottimo papà, doc. T’importa di lei, ed è più di quanto molti non
facciano.»
Prax deglutì. Era stanco. Era stanco di essere forte, di continuare a
sperare, a essere determinato e a prepararsi per il peggio. Non voleva più
essere sé stesso. Non voleva essere più nessuno. La mano di Amos gli sembrò
un gancio di attracco, che gli impediva di andare alla deriva nell’oscurità.
Non voleva altro che essere lasciato andare.
«È andata» disse Prax. Sembrò una buona scusa. Una spiegazione. «Me
l’hanno portata via, e non so chi siano, e non posso riaverla, e non capisco.»
«Non è ancora finita.»
Prax annuì, non perché fosse davvero confortato da quelle parole, ma
perché quello era il momento in cui sapeva di doversi comportare come se lo
fosse.
«Non la ritroverò mai.»
«Ti sbagli.»
Qualcuno suonò alla porta, e quella si aprì. Holden entrò nella stanza.
All’inizio Prax non capì che cosa ci fosse di diverso in lui, ma che fosse
successo qualcosa... che fosse cambiato qualcosa... era inequivocabile. La
faccia era la stessa; i vestiti non erano cambiati. Prax ebbe l’inspiegabile
ricordo di quando aveva assistito a una lezione sulla metamorfosi.
«Ehi» disse Holden. «Tutto bene?»
«Così così» rispose Amos. Prax vide la sua stessa confusione riflessa sul
viso di Amos. Erano entrambi coscienti della trasformazione, e nessuno dei
due riusciva a capire di cosa si trattasse. «Ti sei fatto una scopata, cap?»
«No» replicò Holden.
«Voglio dire, buon per te se te la sei fatta» disse Amos. «È solo che non
era così che immaginavo che...»
«Non mi sono fatto una scopata» rispose Holden esitante. Il sorriso che
fece dopo era quasi raggiante. «Mi sono fatto licenziare.»
«Ti sei fatto licenziare solo tu, o tutti noi?»
«Tutti noi.»
«Uh» disse Amos. Rimase in silenzio per un istante, poi si strinse nelle
spalle.
«Va be’.»
«Ho bisogno di parlare con Naomi, ma non accetta le mie chiamate. Credi
che potresti rintracciarla per me?»
Il disagio strinse le labbra di Amos come se avesse appena succhiato un
limone rinsecchito.
«Non ho intenzione di litigarci» disse Holden. «È solo che non ci siamo
lasciati nel modo giusto. Ed è colpa mia, per cui devo rimediare.»
«So che sta bazzicando quel bar di cui ci ha parlato Sam l’ultima volta. Il
Blauwe Blome. Tu va’ pure a umiliarti, ma non sono stato io a dirtelo.»
«Non c’è problema» rispose Holden. «Grazie.»
Il capitano si girò per andarsene, poi si fermò sulla soglia. Aveva l’aria di
qualcuno che fosse ancora per metà in un sogno.
«Cosa, così così?» chiese. «Hai detto così così.»
«Il doc stava cercando di ingaggiare una squadra di sicurezza privata su
Luna per rintracciare la bambina. Non ha funzionato, e l’ha presa un po’
male.»
Holden si accigliò. Prax sentì un’ondata di calore arrossargli il collo.
«Pensavo che dovessimo rintracciarla noi, la bambina» disse Holden.
Sembrava genuinamente confuso.
«Doc non era sicuro della cosa.»
«Ah» disse Holden. Si voltò verso Prax. «La ritroveremo noi. Non serve
che chiami qualcun altro.»
«Non posso pagarvi» replicò Prax. «Tutti i miei conti erano sul sistema di
Ganimede e, anche se fossero ancora lì, non posso accedervi. Ho soltanto
quello che gli altri mi stanno dando. Riuscirò a racimolare sì e no un migliaio
di dollari delle Nazioni Unite. Bastano?»
«No» rispose Holden. «Non bastano per comprarci nemmeno l’ossigeno
per una settimana, e men che meno l’acqua. Dovremo occuparcene noi.»
Holden inclinò la testa come se stesse ascoltando qualcosa che soltanto
lui poteva sentire.
«Ho già parlato con la mia ex moglie» disse Prax. «E con i miei genitori.
Non mi viene in mente nessun altro.»
«Che ne dite di tutti quanti?» chiese Holden.
«Sono James Holden,» disse il capitano dal grande schermo della capsula
di pilotaggio della Rocinante «e sono qui per chiedere il vostro aiuto. Quattro
mesi fa, poche ore prima dell’attacco iniziale su Ganimede, una bambina con
una malattia genetica mortale è stata rapita dal suo asilo. Nel caos che...»
Alex interruppe il playback. Prax cercò di raddrizzarsi, ma le sospensioni
cardaniche del sedile del copilota si spostarono sotto di lui, e tornò ad
appoggiarsi allo schienale.
«Non saprei» disse Alex dal sedile del pilota. «Lo sfondo verde lo rende
un po’ pallido, non trovi?»
Prax strinse un po’ gli occhi, ci pensò su, poi annuì.
«Non è il suo colore» osservò Prax. «Forse, se fosse più scuro...»
«Ci provo» disse il pilota, picchiettando sul suo schermo. «Di solito è
Naomi che si occupa di queste cose. I pacchetti di comunicazione non sono
propriamente il mio primo amore. Ma ce la faremo. Che ne dici, così?»
«Meglio» rispose Prax.
«Sono James Holden, e sono qui per chiedere il vostro aiuto. Quattro
mesi fa...»
La parte di presentazione durava meno di un minuto, ripresa dalla
telecamera del terminale palmare di Amos. Dopodiché, Amos e Prax avevano
passato un’ora nel tentativo di creare il resto. Era stato Alex a suggerire di
usare l’equipaggiamento sulla Rocinante, di gran lunga migliore. Una volta
fatto il tutto, mettere insieme le informazioni era stato semplice. Prax aveva
preso a modello l’inizio dei messaggi che aveva inviato ai suoi genitori e a
Nicola. Alex lo aveva aiutato a registrare il resto: una spiegazione della
malattia di Mei; il filmato delle telecamere di sorveglianza, in cui Strickland
e la misteriosa donna portavano via Mei dall’asilo; i dati raccolti dal
laboratorio segreto, con tanto di immagini dei filamenti della protomolecola;
fotografie di Mei che giocava al parco; e un breve video del suo secondo
compleanno, quando si era spalmata la glassa della torta in fronte.
A Prax fece strano riguardarsi in video. Aveva visto molte registrazioni di
sé stesso, ma l’uomo sullo schermo era più magro di quel che si era aspettato.
Più vecchio. La sua voce era più acuta di quella che sentiva quando parlava, e
meno esitante. Il Praxidike Meng che stava per essere trasmesso all’intera
umanità era un uomo diverso da lui, ma tutto sommato gli somigliava
abbastanza. E, se fosse servito a ritrovare Mei, sarebbe andato bene. Se fosse
servito a riportarla indietro, era disposto a essere chiunque.
Alex passò le dita sui controlli, riorganizzando la presentazione,
collegando le immagini di Mei al montaggio e all’incipit di Holden. Avevano
aperto un account tramite un’unione di credito, con base nella Fascia, che
offriva una suite di opzioni per i versamenti no profit a breve termine,
cosicché qualsiasi contributo potesse essere automaticamente accettato. Prax
lo guardò fare, desiderando poter offrire qualche consiglio o prendere il
controllo. Ma non c’era altro da fare.
«Va bene» disse Alex. «Questo è più o meno il massimo che posso fare.»
«Okay, allora» rispose Prax. «Che cosa ci facciamo, adesso?»
Alex lo guardò. Sembrava stanco, ma c’era anche una certa eccitazione
nei suoi occhi.
«Premi il tasto Invio.»
«Ma non abbiamo fatto una revisione...»
«Non c’è nessuna revisione, doc. Non è mica un documento governativo.
Diavolo, non è nemmeno una questione di denaro. Siamo soltanto noi che
cerchiamo di sbatterci volando veloce per tenere le chiappe lontano dai
propulsori.»
«Ah» disse Prax. «Davvero?»
«Se starai con il capitano per un altro po’ di tempo, ti ci abituerai. Forse
però sarebbe meglio che ti prendessi un giorno per pensarci bene.»
Prax si sollevò su un gomito.
«Pensare bene a cosa?»
«A inviare questo video. Se funziona come pensiamo, stai per ricevere
molta attenzione. Forse sarà come speriamo; e forse sarà qualcosa di diverso.
Sto solo dicendo che, una volta fatta, non puoi disfare la frittata.»
Prax ci rifletté per qualche secondo. Gli schermi brillavano davanti a loro.
«È Mei» disse Prax.
«E va bene» replicò Alex, e passò i controlli di comunicazione alla
stazione del copilota. «Fai tu gli onori di casa?»
«Dove sta andando? Voglio dire, dove lo stiamo inviando?»
«Trasmissione semplice» disse Alex. «Probabilmente verrà intercettata da
alcuni canali locali della Fascia. Ma si tratta del capitano, per cui la gente lo
guarderà e se lo passerà in rete. E...»
«E?»
«Non ci abbiamo messo il nostro clandestino, ma il filamento in quella
teca di vetro... È un po’ come se stessimo annunciando che la protomolecola
è ancora in circolazione. E questo accrescerà ancora l’attenzione.»
«E pensiamo che possa essere d’aiuto?»
«La prima volta che abbiamo fatto una cosa del genere è scoppiata una
guerra» disse Alex. «’Aiuto’ potrebbe essere un parolone. Ma di sicuro
smuoverà le acque.»
Prax si strinse nelle spalle e premette il tasto Invio.
«Siluri partiti» disse Alex, ridacchiando.
Prax dormiva sulla stazione, cullato dal ronzio dei riciclatori d’aria. Amos
era di nuovo uscito, lasciando soltanto una nota a Prax in cui diceva di non
aspettarlo. Probabilmente era solo la sua immaginazione a fargli sembrare
diversa la gravità di rotazione. Con un diametro ampio come quello di Tycho,
l’effetto Coriolis non avrebbe dovuto essere sgradevolmente evidente, e di
certo non mentre se ne stava lì sdraiato, immobile, nell’oscurità della sua
stanza. Eppure, non riusciva a stare comodo. Non riusciva a dimenticare che
stava ruotando, con l’inerzia che lo premeva sul materasso fino mentre il suo
corpo cercava di librarsi nel vuoto. Per la maggior parte del tempo che aveva
passato sulla Rocinante, era stato capace di ingannare la sua mente pensando
di avere sotto di sé la rassicurante massa di una luna. Non era un prodotto del
modo in cui veniva generata l’accelerazione, decise, quanto quello che
significava.
Mentre la sua mente procedeva in una lenta spirale, e i pezzi del suo io si
disgregavano come una meteora in contatto con l’atmosfera, sentì un
gigantesco rigurgito di gratitudine. In parte era per Holden e in parte per
Amos. Per l’intero equipaggio della Rocinante. Come in sogno, fu di nuovo
su Ganimede. Era affamato, camminava lungo i corridoi ghiacciati con la
certezza che da qualche parte, lì vicino, uno dei suoi germogli di soia era
stato infettato dalla protomolecola e lo stava inseguendo, con l’intento di
vendicarsi. Con la logica discontinua dei sogni, era anche su Tycho, alla
ricerca di un lavoro, ma tutti coloro ai quali consegnava il suo curriculum
scuotevano la testa, dicendogli che gli mancava qualche attestato o
credenziale che lui non conosceva o non capiva. L’unica cosa che lo rendeva
sopportabile era la consapevolezza profonda – sicura come le ossa – che
niente di tutto questo era vero. Che stava dormendo e che, quando si fosse
svegliato, si sarebbe trovato in un luogo sicuro.
Quello che lo svegliò alla fine fu un intenso profumino di carne. Prax
aveva gli occhi incrostati come se avesse pianto nel sonno, e le lacrime
avessero lasciato il loro residuo salino nel punto in cui erano evaporate.
L’acqua della doccia sibilava e sciabordava. Prax prese la sua tuta,
chiedendosi di nuovo perché ci fosse la scritta Tachi sulla schiena.
Sul tavolo lo aspettava la colazione: bistecca e uova, tortillas di farina e
caffè nero. Cibo vero, che era costato una piccola fortuna a chi l’aveva
comprato. C’erano due piatti, per cui Prax ne scelse uno e cominciò a
mangiare. Doveva essere costato un decimo del denaro che gli aveva inviato
Nicola, ma aveva un sapore meraviglioso. Amos uscì dalla doccia con un
asciugamano intorno ai fianchi. Una grossa cicatrice bianca gli deturpava la
parte destra dell’addome, spostandogli l’ombelico da un lato, e sul cuore
aveva un tatuaggio quasi fotografico di una giovane donna con lunghi capelli
mossi e occhi a mandorla. Prax pensò che ci fosse una parola sotto quel viso
tatuato, ma non voleva fissarlo.
«Ehi, doc» disse Amos. «Sembri stare meglio.»
«Mi sono riposato» rispose Prax mentre Amos entrava nella propria
stanza e richiudeva la porta alle sue spalle. Quando Prax parlò di nuovo, alzò
un po’ la voce. «Voglio ringraziarti. Mi sentivo molto giù, ieri sera. E, che tu
e gli altri riusciate davvero a trovare Mei o meno...»
«Perché mai non dovremmo riuscire a trovarla?» chiese Amos, con la
voce attutita dalla porta. «Non starai mica perdendo il rispetto che hai per me,
eh, doc?»
«No» replicò Prax. «No, per niente. Volevo solo dire che quello che tu e
il capitano mi avete offerto è... è un grande...»
Amos uscì dalla stanza con un gran sorriso in volto. La sua tuta gli
copriva la cicatrice e il tatuaggio come se non ci fossero mai stati.
«Lo so, quello che volevi dire. Ti stavo solo prendendo un po’ in giro. Ti
piace quella bistecca? Continuo a chiedermi dove diavolo tengano le vacche
su questo affare, tu no?»
«Oh, no. Questa è prodotta in provetta. Si capisce dal modo in cui
crescono le fibre muscolari. Vedi come sono stratificate, queste parti qui?
Rende anche più facile ottenere un buon taglio marmorizzato, piuttosto che
partire da un quarto di bue.»
«Cazzo, davvero?» disse Amos, sedendoglisi di fronte. «Non lo sapevo.»
«La microgravità rende anche più nutriente la carne di pesce» disse Prax
con la bocca piena di uova strapazzate. «Accresce la produzione di olio.
Nessuno sa perché, ma ci sono un paio di studi molto interessanti
sull’argomento. Pensano che possa essere non tanto per via della bassa
gravità in sé, quanto per il flusso costante che bisogna mantenere per far sì
che gli animali non smettano di nuotare, facciano una bolla di acqua
impoverita di ossigeno e soffochino.»
Amos strappò un pezzo di tortilla e la inzuppò nel tuorlo.
«Questo è il genere di conversazioni che fai a tavola con la tua famiglia,
vero?»
Prax sbatté le palpebre.
«Generalmente, sì. Perché? Tu di che parli, di solito?»
Amos ridacchiò. Pareva di ottimo umore. Le sue spalle sembravano più
rilassate, e qualcosa nel modo in cui stringeva la mascella era cambiato. Prax
ricordò la conversazione della sera prima con il capitano.
«Ti sei fatto una scopata, vero?»
«Ah, cazzo, sì» ammise Amos. «Ma non è questa la parte migliore.»
«No?»
«Oh, è una parte dannatamente buona, ma non c’è niente di meglio al
mondo che trovarsi un lavoro il giorno dopo che ti sei fatto silurare.»
Prax rimase interdetto. Amos tirò fuori il terminale palmare dalla sua
tasca, cliccò due volte sullo schermo e lo fece scivolare sul tavolo verso di
lui. Lo schermo mostrava un bordo di sicurezza rosso con il nome dell’unione
di credito con cui aveva preso contatto Alex la sera prima. Quando Prax vide
l’estratto, sgranò gli occhi.
«Ma... è davvero...?»
«Bastano a far volare la Roci per un mese, e li abbiamo raccolti in sette
ore» disse Amos. «Hai appena ingaggiato la tua squadra, doc.»
«Non saprei... davvero?»
«Non solo. Dai un’occhiata ai messaggi in arrivo. Il capitano ha fatto
parecchio rumore, a suo tempo, ma la tua bambina? Tutta quella faccenda su
Ganimede si è appena trovata un volto, ed è lei.»
Prax raccolse il terminale dal tavolo. La casella di posta associata con il
video aveva più di cinquecento videomessaggi e migliaia di commenti.
Cominciò a scorrerli. Uomini e donne che non conosceva, alcuni dei quali in
lacrime, gli offrivano le loro preghiere, la loro rabbia e il loro sostegno. Un
cinturiano con una cascata di capelli grigi e neri biascicava in un dialetto
tanto stretto che Prax riusciva a malapena a coglierne il senso. Da quel poco
che ne capiva, quell’uomo si stava offrendo di uccidere qualcuno per lui.
Mezz’ora dopo, le uova di Prax si erano congelate. Una donna da Ceres
gli disse che aveva perso la figlia in un divorzio, e che gli inviava il denaro
che stava mettendo da parte per comprarsi il suo mese di tabacco da
masticare. Un gruppo di ingegneri alimentari su Luna aveva organizzato una
colletta e gli aveva spedito quello che sarebbe stato il suo salario di un mese
se Prax fosse stato ancora un botanico. Un vecchio marziano con la pelle
color cioccolato e i capelli bianchi come lo zucchero fissò serio lo sguardo
nella telecamera dall’altra parte del sistema solare, e disse che era con Prax.
Quando iniziò il messaggio successivo, sembrava simile a quelli che
l’avevano preceduto. L’uomo nell’immagine era più anziano – ottant’anni,
forse novanta – con un ciuffo di capelli bianchi attaccato alla nuca e il viso
segnato dal tempo. C’era qualcosa, nella sua espressione, che catturò
l’attenzione di Prax. Un’esitazione.
«Dottor Meng» disse l’uomo. Aveva un accento impastato che a Prax
ricordava molto le registrazioni di suo nonno. «Sono desolato di sapere
quanto lei e la sua famiglia abbiate sofferto. Quanto stiate soffrendo.»
L’uomo si leccò le labbra. «Il video delle telecamere di sicurezza... credo di
conoscere l’uomo che vi compare. Il suo nome, però, non è Strickland...»
34

Holden
Secondo l’annuario della stazione, il Blauwe Blome era famoso per due
cose: un drink chiamato il Blue Meanie e il suo gran numero di tavoli da
golgo. La guida avvertiva i potenziali avventori che la stazione consentiva al
bar di servire soltanto due Blue Meanie a ogni cliente per via del miscuglio
suicida di etanolo, caffeina e metilfenidato del drink. A cui si aggiungeva,
immaginò Holden, un qualche tipo di colorante blu.
Mentre camminava per i corridoi della sezione degli svaghi di Tycho, la
guida cominciò a spiegargli le regole del golgo. Dopo qualche istante di
assoluta confusione – ‘le reti si dicono in prestito quando la difesa deflette il
lancio’ – chiuse il documento. Era molto improbabile che si sarebbe ritrovato
a giocare. E un drink che ti rimuoveva ogni inibizione, lasciandoti carico e
pieno di energia, sarebbe stato decisamente ridondante in quel momento.
La verità era che Holden non si era mai sentito meglio in vita sua.
Aveva combinato un sacco di casini in quell’ultimo anno. Si era alienato
il suo equipaggio. Si era allineato a una fazione con cui non era sicuro di
essere completamente d’accordo in cambio di sicurezza. Rischiava di aver
rovinato l’unica relazione sana che avesse avuto in tutta la sua vita. Era stato
spinto dalle sue paure a diventare qualcun altro. Qualcuno che gestiva la
paura trasformandola in violenza. Qualcuno che Naomi non amava, che il suo
equipaggio non rispettava e che a lui stesso non piaceva un granché.
La paura non era svanita. Era ancora lì, che gli faceva accapponare la
pelle tutte le volte che ripensava a Ganimede e a ciò che poteva essersi
liberato e che stava crescendo laggiù. Ma, per la prima volta da molto tempo,
era qualcosa di cui era cosciente, e non stava fuggendo. Si era concesso di
avere paura. Questo faceva tutta la differenza.
Holden udì i rumori del Blauwe Blome diversi secondi prima di vederlo.
Cominciò con una pulsazione ritmica sorda e a malapena distinguibile, che a
poco a poco crebbe di volume e a cui si aggiunsero un lamento elettronico e
una voce femminile che cantava in un misto di hindi e di russo. Quando
raggiunse l’ingresso del locale, la canzone era cambiata trasformandosi nella
voce di due uomini che duettavano in alternanza come se fosse stato un litigio
messo in musica. Il lamento elettronico fu sostituito da chitarroni rabbiosi. La
linea di basso non cambiò di una virgola.
All’interno, il locale era un’aggressione aperta ai sensi. Una gigantesca
pista da ballo dominava lo spazio centrale, e le decine di corpi che vi si
agitavano erano immerse in un continuo gioco di luci che cambiava e
lampeggiava a tempo con la musica. La musica era stata già alta, nel
corridoio, ma all’interno si fece assordante. Un lungo bancone cromato era
sistemato lungo una delle pareti, e mezza dozzina di baristi riempivano
freneticamente i bicchieri delle ordinazioni.
Un cartello sulla parete di fondo recava scritto GOLGO, con una freccia che
indicava di procedere lungo un corridoio. Holden lo fece. La musica si
attutiva a ogni passo e, quando raggiunse il locale sul retro con i tavoli da
gioco, era di nuovo nient’altro che un groviglio di sorde frequenze basse.
Naomi era seduta a uno dei tavoli con la sua amica Sam, la
capomeccanico, e un gruppo di altri cinturiani. Aveva i capelli tirati indietro
con una fascia elastica rossa, abbastanza ampia da essere decorativa. Aveva
sostituito la sua tuta con un paio di pantaloni grigi che Holden non le aveva
mai visto indosso e una giacchetta gialla che faceva sembrare più scura la sua
pelle color caramello. Holden dovette fermarsi per un istante. Lei sorrise a
qualcuno che non era lui, e il capitano sentì una stretta nel petto.
Mentre si avvicinava, vide Sam che tirava una pallina di metallo sul
tavolo. Il gruppo dall’altra parte reagì con improvvisi movimenti violenti. Dal
punto in cui si trovava, Holden non riusciva a vedere che cosa fosse successo,
esattamente, ma la postura afflitta e le imprecazioni del secondo gruppo lo
portarono a credere che Sam avesse fatto qualcosa di buono per la sua
squadra.
Sam si voltò e alzò la mano. Il gruppo dalla sua parte del tavolo, in cui
era inclusa anche Naomi, le diede il cinque a turno. Fu Sam a vederlo per
prima e disse qualcosa che lui non riuscì a sentire. Naomi si voltò e gli
rivolse uno sguardo pensieroso che lo fece fermare sui suoi passi. Non
sorrise, e non si accigliò. Lui alzò i palmi delle mani in quello che sperava
essere un gesto convincente per ‘non sono venuto con l’intenzione di
litigare’. Per un istante, rimasero lì a fissarsi l’un l’altra attraverso la sala.
Cristo, pensò lui, come ho potuto lasciare che arrivassimo a questo?
Naomi gli fece un cenno del capo e indicò un tavolo in un angolo della
stanza. Holden si sedette e ordinò un drink. Non uno di quegli
ammazzafegato blu per cui era famoso il locale, solo uno scotch della Fascia
da due soldi. Aveva imparato a tollerare, se non ad apprezzare, il lieve
retrogusto di muffa che lasciava in bocca. Naomi salutò il resto della sua
squadra per qualche minuto, poi venne verso di lui. Non era una camminata
noncurante, ma neppure il passo di qualcuno che si avviava verso un incontro
che temeva.
«Posso offrirti qualcosa?» chiese Holden mentre lei si sedeva.
«Sicuro. Per me un Martini al pompelmo» rispose lei. Mentre Holden
inseriva l’ordine nel tavolo, lei lo fissò con un misterioso mezzo sorriso che
gli sciolse lo stomaco.
«Okay» disse lui, autorizzando il suo terminale ad aprire un conto al bar e
a pagare i drink. «Un orribile Martini in arrivo.»
Naomi rise. «Orribile?»
«Un caso di scorbuto quasi fatale essendo l’unico motivo che riesco a
immaginare per mettersi a bere qualcosa che abbia dentro del succo di
pompelmo...»
Lei rise di nuovo, sciogliendo almeno uno dei nodi che Holden si sentiva
nello stomaco, e rimasero seduti in un rilassato silenzio finché non arrivarono
i drink. Lei bevve un sorsetto e schioccò le labbra in segno di apprezzamento.
Poi disse: «Okay. Sputa il rospo.»
Holden bevve un sorso molto più lungo, finendo quasi del tutto il
bicchiere di scotch in un’unica sorsata, cercando di convincersi che quel
calore che gli si andava diffondendo nello stomaco potesse prendere il posto
del coraggio. Non mi sento a mio agio per come abbiamo lasciato le cose, e
ho pensato che dovremmo parlare. Affrontare insieme la questione. Si schiarì
la gola.
«Ho mandato tutto a puttane» disse. «Ho trattato male i miei amici.
Peggio che male. Tu avevi tutte le ragioni di fare quello che hai fatto. Non
riuscivo a sentire quel che mi dicevi, allora, ma avevi ragione a dirlo.»
Naomi prese un altro sorso di Martini, poi alzò una mano e si sfilò
pigramente la fascia elastica che le teneva indietro la massa di boccoli neri. I
capelli le ricaddero tutti scarmigliati intorno al viso, facendolo pensare a un
muro coperto di edera rampicante. Holden si rese conto che Naomi si era
sempre sciolta i capelli quando era in situazioni emotivamente complicate. Ci
si nascondeva dietro, non letteralmente, ma perché erano uno dei suoi tratti
più belli. L’occhio veniva naturalmente attirato da quei boccoli neri e lucenti.
Una tecnica di distrazione. La fece sembrare improvvisamente molto umana,
vulnerabile e persa quanto lui. Holden sentì un moto di affetto verso Naomi
che dovette essere evidente sul suo viso, perché lei lo guardò e arrossì.
«Che cosa vuol dire tutto questo, Jim?»
«Delle scuse?» disse lui. «L’ammissione che avevi ragione e che io mi
stavo trasformando in una mia perversa versione di Miller? Come minimo
questo. E spero che possa aprire un dialogo per riconciliarci, se ho fortuna.»
«Mi fa piacere» rispose Naomi. «Mi fa piacere che tu te ne sia reso conto.
Ma sono cose che ti ripeto da mesi, ormai, e tu...»
«Aspetta» la interruppe Holden. Poteva sentirla allontanarsi da lui, non
concedendosi di credergli. Tutto quello che gli rimaneva da offrirle era la
verità assoluta, e così fece. «Non riuscivo a sentirti. Perché ero terrorizzato, e
sono stato un codardo.»
«Avere paura non fa di te un codardo.»
«No» disse lui. «Ovviamente no. Ma rifiutarsi di affrontarla, questo sì.
Rifiutare di ammettere come mi sentivo di fronte a te, sì. Non permettere di
aiutarmi né a te, né ad Alex, né ad Amos. È stata codardia. E potrebbe
essermi costata te, la lealtà dell’equipaggio, e tutto ciò a cui tengo davvero.
Mi ha fatto tenere un lavoro di merda molto più di quanto non avrei dovuto,
perché era un lavoro sicuro.»
Un gruppetto dei giocatori di golgo cominciò a venire verso il loro tavolo,
e Holden fu appagato quando vide che Naomi fece loro cenno di stare
lontani. Significava che voleva continuare a parlare. Era un inizio.
«Dimmi» riprese lei. «Dove pensi di andare, da qui?»
«Non ne ho idea» rispose Holden con un sorriso. «Ed è la sensazione più
bella che abbia mai provato da anni a questa parte. Comunque, a prescindere
da quello che succederà da qui in avanti, ho bisogno di averti con me.»
Quando lei fece per protestare, Holden alzò una mano per bloccarla e
disse: «No, non intendo in quel modo. Mi piacerebbe riconquistarti, ma
accetto senza problemi l’idea che possa volerci del tempo, o che possa non
succedere mai. Quello che voglio dire, è che la Roci ha bisogno di te.
L’equipaggio ha bisogno di te.»
«Io non voglio lasciarla» rispose Naomi con un timido sorriso.
«È casa tua» disse Holden. «Lo sarà sempre, finché lo vorrai. E sarà così,
a prescindere da quello che succederà tra noi.»
Naomi cominciò ad avvolgersi una spessa ciocca di capelli attorno a un
dito e si scolò quel che restava del suo drink. Holden indicò il menu sul
tavolo, ma lei alzò la mano.
«Questo è perché hai parlato con Fred, vero?»
«Sì, in parte» disse Holden. «Ero in piedi nel suo ufficio, terrorizzato, e
mi sono reso conto che ero spaventato da molto, molto tempo. Ho mandato a
puttane le cose anche con lui. In parte, probabilmente, è anche colpa sua. È
uno che ci crede davvero, e questo genere di persone sono le peggiori con cui
andare a braccetto. Ma comunque è soprattutto colpa mia.»
«Hai dato le dimissioni?»
«Mi ha licenziato, ma mi sarei probabilmente licenziato da me.»
«Quindi» disse Naomi. «Hai perso sia i nostri ingaggi che il nostro
protettore. Immagino di dovermi sentire un minimo lusingata per il fatto che,
in tutto questo, tu stia cercando di rimettere a posto le cose con me.»
«Tu» rispose Holden «sei l’unica parte che m’importa di rimettere a
posto.»
«Sai che cosa succederà adesso, vero?»
«Tornerai a bordo della nave?»
Naomi si limitò a sorridere per scacciare quella battuta. «Ora ci toccherà
pagare per le riparazioni. Se spariamo un missile, dovremo trovare qualcuno
che ce ne venda un altro. Pagheremo l’acqua, l’aria, le spese di attracco, il
cibo e le riserve mediche per la nostra costosissima infermeria automatizzata.
Hai un piano per questo?»
«No!» ammise Holden. «Ma devo dire che, per chissà quale motivo, è una
bellissima sensazione.»
«E quando ti sarà passata l’euforia?»
«Penserò a un piano.»
Il sorriso di Naomi si fece meditabondo mentre lei si tiracchiava la ciocca
di capelli.
«Non sono pronta a trasferirmi di nuovo sulla nave» disse, allungandosi
sul tavolo per prendere la mano di Holden tra le sue. «Ma, per quando la Roci
sarà sistemata, avrò bisogno di riavere la mia cabina.»
«Vado subito a spostare il resto della mia roba.»
«Jim» disse lei, stringendogli una volta le dita prima di lasciarlo andare.
«Ti amo, e non siamo ancora a posto io e te. Ma è un buon inizio.»
Sì, pensò Holden, è davvero un buon inizio.
Il capitano si svegliò nella sua vecchia cabina sulla Rocinante sentendosi
meglio di quanto non fosse stato da mesi. Scese dalla sua branda e si avviò
nudo per la nave vuota fino al bagno di testa. Si fece una doccia di un’ora con
l’acqua che ora pagava di persona, scaldata dall’elettricità che il molo gli
avrebbe addebitato al kilowatt/ora. Tornò in cabina lasciando che la pelle,
arrossata dall’acqua bollente, gli si asciugasse lungo il percorso.
Si preparò e mangiò una sostanziosa colazione e bevette cinque tazze di
caffè mentre ripassava il rapporto tecnico sulle riparazioni della Roci finché
non fu sicuro di aver capito tutto ciò che era stato fatto. Quando il suo
terminale trillò, Holden era passato alla lettura di un articolo scritto da un
umorista politico sullo stato delle relazioni tra Marte e la Terra. La chiamata
era di Amos.
«Ehi, cap» disse il meccanico, con il faccione che riempiva il piccolo
schermo. «Vieni sulla stazione, oggi? O dobbiamo venire noi sulla Roci?»
«Incontriamoci qui» rispose Holden. «Sam e la sua squadra hanno del
lavoro da fare oggi, e voglio tenere d’occhio un paio di cosette.»
«Ci vediamo tra poco, allora» disse Amos, e chiuse il collegamento.
Holden cercò di finire di leggere l’articolo ma continuava a distrarsi,
leggendo e rileggendo lo stesso passaggio. Alla fine rinunciò e si mise a
pulire la cambusa per un po’, poi preparò la macchina del caffè per Amos e la
squadra di meccanici che doveva arrivare.
La macchina gorgogliava tra sé e sé come un lattante soddisfatto quando
il portellone del ponte si aprì e Amos e Prax scesero giù per le scale fin nella
cambusa.
«Cap» lo salutò Amos, lasciandosi cadere su una sedia con un tonfo. Prax
lo seguì nella stanza ma non si sedette. Holden prese due tazze e le riempì di
caffè, poi le posò sul tavolo.
«Che notizie?» chiese.
Amos rispose con un sorriso a trentadue denti e fece scivolare il suo
terminale sul tavolo verso Holden. Quando quest’ultimo lo guardò, sullo
schermo c’erano le informazioni del conto per il fondo ‘Salva Mei’ di Prax.
C’era poco più di mezzo milione di dollari delle Nazioni Unite.
Holden fece un fischio e si accomodò su una sedia. «Cristo santo, Amos.
Speravo che riuscissimo a... ma mai così tanto.»
«Già. Stamattina era a poco meno di trecentomila. Nelle ultime tre ore è
salito di altri duecentomila. Sembra che tutti quelli che stanno seguendo la
faccenda di Ganimede sui notiziari abbiano fatto della piccola Mei il
manifesto di questa tragedia.»
«Basteranno?» s’intromise Prax, con voce ansiosa.
«Oh, diavolo se basteranno» esclamò Holden con una risata. «Bastano e
avanzano. Questa cifra finanzierà la nostra missione di salvataggio senza
alcun problema.»
«E abbiamo anche un indizio» disse Amos, con una pausa teatrale mentre
sorseggiava il suo caffè.
«Su Mei?»
«Già» rispose Amos, aggiungendo altro zucchero nella tazza. «Prax,
inviagli quel messaggio che hai ricevuto.»
Holden osservò il messaggio per tre volte, e ogni volta il suo sorriso si
allargava sempre di più. «Il video delle telecamere di sicurezza... credo di
conoscere l’uomo che vi compare» stava dicendo l’anziano signore sullo
schermo. «Il suo nome, però, non è Strickland. Quando ho lavorato con lui
all’università di tecnologia mineraria di Ceres, il suo nome era Merrian.
Carlos Merrian.»
«Questa» disse Holden dopo aver rivisto il video per l’ultima volta «è
quella che il mio vecchio amico, il detective Miller, avrebbe chiamato una
pista.»
«E ora che facciamo, capo?» chiese Amos.
«Credo di dover fare una telefonata.»
«Okay. Io e il doc ci togliamo dai piedi e teniamo d’occhio la grana in
arrivo.»
Se ne andarono insieme e Holden attese finché il portellone del ponte non
si richiuse alle loro spalle per inviare una richiesta di connessione al
centralino dell’università di Ceres. Il ritardo orario era di una quindicina di
minuti, tenendo conto dell’attuale posizione di Tycho, per cui si mise comodo
e aprì un semplice giochino sul suo terminale che gli lasciasse la mente libera
di riflettere e pianificare. Se fossero riusciti a scoprire chi fosse stato
Strickland prima di essere Strickland, forse sarebbero stati anche in grado di
tracciare l’evoluzione della sua carriera. E, a un certo punto, aveva smesso di
essere un tizio di nome Carlos che insegnava al politecnico, ed era diventato
un tizio di nome Strickland che rapiva bambini. Sapere il perché sarebbe
stato un buon inizio per capire dove potesse essere in quello stesso istante.
Quasi quaranta minuti dopo l’invio della richiesta, Holden ricevette la sua
risposta. Fu piuttosto sorpreso di vedere l’anziano del primo video. Non si era
aspettato di trovarlo al primo tentativo.
«Salve» disse l’uomo. «Sono il dottor Moynahan. Mi aspettavo un suo
messaggio. Immagino che voglia conoscere i dettagli sul dottor Merrian. Per
farla breve, lui e io abbiamo lavorato insieme al laboratorio di bioscienze del
politecnico di Ceres. Lui faceva ricerca sui sistemi limitativi di sviluppo
biologico. Non era bravo a giocare sullo scacchiere dell’università. Non si
fece mai nessun alleato, nel periodo in cui lavorò qui. Perciò, quando si trovò
a addentrarsi in qualche area moralmente ambigua, furono fin troppo felici di
buttarlo fuori. Non conosco i dettagli del caso. Non ero a capo del suo
dipartimento. Mi faccia sapere se posso esserle d’aiuto in altro modo.»
Holden guardò il messaggio per due volte, prendendo appunti e
maledicendo quello sfasamento di quindici minuti. Quando fu pronto, inviò
una risposta.
«Grazie mille per il suo aiuto, dottor Moynahan. Lo apprezziamo davvero
molto. Immagino che non sappia che cosa ne sia stato, di lui, dopo che fu
espulso dall’università? È per caso entrato in un’altra istituzione? È stato
assunto da una compagnia? Qualsiasi cosa...»
Premette Invio e tornò ad appoggiarsi allo schienale, nell’attesa di una
risposta. Provò a giocare al rompicapo ma si annoiò subito e lo spense. Aprì
il canale di intrattenimento pubblico di Tycho e guardò un cartone animato
abbastanza frenetico e chiassoso da distrarlo.
Quando il suo terminale trillò per il messaggio in entrata, per poco non lo
scaraventò a terra dal tavolo nella fretta di far partire il video.
«A dire il vero,» disse il dottor Moynahan, grattandosi la barbetta bianca
mentre parlava «non arrivò mai di fronte alla commissione disciplinare vera e
propria. Si licenziò il giorno prima. Fece una gran scenata, girando per il
laboratorio e gridando che non avremmo più potuto dargli addosso. Che
aveva trovato un lavoro con una grossa compagnia, con tutti i finanziamenti e
le risorse che voleva. Ci chiamò meschini passacarte che stagnavano in un
pantano di ridicole costrizioni morali. Non riesco a ricordare il nome della
compagnia per cui andò a lavorare, però.»
Holden mise in pausa il video e sentì un brivido risalirgli lungo la spina
dorsale. Un pantano di ridicole costrizioni morali. Non aveva bisogno di
Moynahan per sapere quale compagnia potesse ingaggiare un uomo del
genere. Aveva sentito pronunciare praticamente quelle stesse parole da
Antony Dresden, l’architetto del progetto Eros, che aveva ucciso un milione e
mezzo di persone come parte di un grandioso progetto biologico.
Carlos Merrian era andato a lavorare per la Protogen ed era scomparso.
Era tornato nei panni di Strickland, rapitore di bambini.
E, pensò Holden, anche nei panni di assassino.
35

Avasarala
Sullo schermo il giovane rise come aveva riso venticinque secondi prima
sulla Terra. Era il livello di sfasamento temporale che Avasarala detestava di
più. Troppo perché la conversazione sembrasse normale, ma non abbastanza
da renderla impossibile. Tutto quello che faceva impiegava troppo tempo,
ogni possibile interpretazione di reazioni e sfumature era resa vana dallo
sforzo di indovinare cosa fosse stato a stimolarle nelle sue parole ed
espressioni.
«Soltanto lei» disse «potrebbe prendere l’ennesima guerra tra Marte e la
Terra, trasformarla in una crociera privata, e poi sembrare scocciata per
questo. Chiunque nel mio ufficio sarebbe pronto a dare la palla sinistra, per
andare con lei.»
«La prossima volta mi farò una collezione, ma...»
«Per quanto riguarda un inventario militare accurato» disse lui
venticinque secondi prima «abbiamo diversi rapporti, ma non sono buoni
come vorrei. Visto che è lei, ho messo un paio dei miei a costruire dei nuovi
parametri di ricerca. La mia impressione è che il budget destinato alla ricerca
sia più o meno un decimo dei soldi che vengono realmente spesi per essa.
Con la sua autorizzazione, ho il diritto di darci un’occhiata, ma questi tizi
della marina sono piuttosto bravi a nascondere le cose. Credo che troverà...»
La sua espressione si velò. «Una collezione?»
«Lascia stare. Dicevi?»
Avasarala aspettò cinquanta secondi, odiandoli uno per uno.
«Non so se saremo in grado di trovare una risposta definitiva» replicò il
giovane. «Potremmo essere fortunati, ma, se è qualcosa che vogliono
nascondere, probabilmente sono riusciti a farlo.»
Soprattutto visto che sapranno che lo stai cercando, e che sapranno che
cosa ti ho chiesto di cercare, pensò Avasarala. Anche se il flusso di denaro tra
Mao-Kwikowski, Nguyen ed Errinwright fosse stato tutto nei bilanci in
quello stesso istante, quando gli alleati di Avasarala fossero andati a
guardare, sarebbe stato già occultato. Tutto quello che poteva fare lei era
continuare a premere su tutti i fronti possibili e sperare che avessero fatto
qualche cazzata. Altri tre giorni di richieste d’informazioni e interrogazioni, e
avrebbe potuto richiedere un’analisi del traffico dati. Non poteva sapere
esattamente quali informazioni stessero nascondendo ma, se fosse riuscita a
scoprire che genere e quali categorie di dati le stessero tenendo nascoste,
avrebbe potuto ricavarne qualche indizio.
Qualche indizio, ma non molto.
«Fate quel che potete» disse lei. «Io me ne starò qui a crogiolarmi nel
lusso, nel bel mezzo del nulla. Datemi una risposta.»
Non attese cinquanta secondi per fare un giro di saluti e buona
educazione. La vita era troppo breve per quelle stronzate.
I suoi alloggi privati sulla Guanshiyin erano magnifici. Il letto e il divano
si accostavano alla spessa moquette con toni oro e verde che avrebbero
dovuto cozzare, e che invece non lo facevano. La luce era la miglior
imitazione di un sole di mezzo mattino che avesse mai visto, e i riciclatori
d’aria erano stati trattati per diffondere ovunque appena una nota di terra ed
erba tagliata di fresco. Soltanto la bassa gravità di accelerazione rovinava
l’illusione di trovarsi in un qualche country club privato, da qualche parte
nella fascia verde dell’Asia meridionale. La bassa gravità e quel dannatissimo
ritardo orario.
Avasarala detestava la bassa gravità. Anche se l’accelerazione era
perfettamente costante e lo yacht non aveva mai dovuto spostarsi o schivare
detriti, il suo stomaco era abituato a 1 g pieno, che tirasse giù le cose. Non
aveva digerito niente da quando era salita a bordo, e si sentiva sempre a corto
di fiato.
Il suo sistema trillò. Un nuovo rapporto da Venere. L’aprì. L’analisi
preliminare della distruzione della Arboghast era in fase di redazione. Nel
metallo era stata osservata una sorta di ionizzazione che si era rivelata
coerente con la teoria di uno specialista sulle modalità di funzionamento della
protomolecola. Era la prima volta che una previsione veniva confermata: il
primo piccolo appiglio verso una comprensione genuina di ciò che stava
accadendo su Venere. C’era un minutaggio esatto dei tre picchi energetici.
C’era un’analisi spettrometrica dell’atmosfera superiore di Venere che
indicava una presenza di azoto elementare maggiore di quanto non ci si
aspettasse. Avasarala sentì che i suoi occhi scorrevano le parole senza
leggerle. La verità era che non le importava.
Avrebbe dovuto, invece. Era importante. Probabilmente più di qualsiasi
altra cosa stesse succedendo. Ma, proprio come Errinwright, Nguyen e tutti
gli altri, anche lei era impigliata in quella meschina, umana lotta fatta di
guerra, influenza e divisioni tribali tra la Terra e Marte. E anche i pianeti
esterni, a volerli prendere sul serio.
Diavolo, a questo punto era più preoccupata per Bobbie e Cotyar di
quanto non lo fosse per Venere. Cotyar era un brav’uomo, e la sua contrarietà
l’aveva lasciata irritata e sulla difensiva. E Bobbie sembrava essere sull’orlo
di una crisi di nervi. E perché no? Quella donna aveva visto i suoi amici
morirle intorno, era stata strappata via dal suo contesto, e ora si trovava a
lavorare per quello che, tradizionalmente, era sempre stato il suo nemico. La
marine era una tipa tosta, in più di un modo, e avere qualcuno nella propria
squadra che non avesse vincoli di alcun tipo sulla Terra era un autentico
vantaggio. Soprattutto dopo quel bastardo di Soren.
Avasarala si appoggiò allo schienale della sedia, innervosita da quanto
fosse diverso quando pesava così poco. La storia di Soren le bruciava ancora.
Non il tradimento in sé; era uno dei rischi del mestiere. Se avesse cominciato
a sentirsi ferita per questo, avrebbe davvero dovuto pensare al
pensionamento. No, era per il fatto di non essersene accorta. Si era concessa
un punto cieco, ed Errinwright aveva saputo bene come usarlo. Come privarla
dei suoi diritti. Avasarala detestava essere battuta al suo stesso gioco. E,
soprattutto, detestava sapere che il suo fallimento avrebbe significato più
guerra, più violenza, più bambini morti.
Questo era il prezzo del fallimento. Più bambini morti.
Non poteva più fallire.
Riusciva a vedere Arjun, con quel suo rammarico gentile negli occhi.
‘Non è tutta tua, la responsabilità’ le avrebbe detto.
«È di tutti, la fottuta responsabilità» esclamò lei ad alta voce. «Ma io sono
l’unica che la prende sul serio.»
Sorrise. Che le telecamere e le spie di Mao trovassero un senso a quello,
se ci riuscivano! Se li immaginò mentre perquisivano la stanza in cerca di un
qualche altro sistema di comunicazione, nel tentativo di capire con chi stesse
parlando. Oppure avrebbero semplicemente pensato che la vecchia stava
perdendo qualche rotella.
Che pensassero quel che volevano.
Chiuse il rapporto su Venere. Mentre era nel suo sogno a occhi aperti, le
era arrivato un altro messaggio, etichettato come una questione su cui aveva
richiesto una sorveglianza continua. Quando lesse il sommario del rapporto,
inarcò entrambe le sopracciglia.
«Sono James Holden, e sono qui per chiedere il vostro aiuto.»
Avasarala osservò Bobbie che guardava lo schermo. Pareva esausta e al
contempo irrequieta. Più che arrossati, i suoi occhi sembravano secchi. Come
dei cuscinetti a sfera senza lubrificante. Se Avasarala avesse avuto bisogno di
un esempio per dimostrare la differenza tra assonnato e stanco, la marine
sarebbe stata perfetta.
«Quindi se l’è cavata, alla fine» osservò Bobbie.
«Lui, il suo botanico e l’intero dannatissimo equipaggio» disse Avasarala.
«Così ora abbiamo una storia che ci racconta quello che stavano facendo su
Ganimede, che ha fatto eccitare i vostri ragazzi e i nostri a tal punto da farli
cominciare a spararsi addosso.»
Bobbie la guardò.
«Non crede che sia vero?»
«Che cos’è, la verità?» disse Avasarala. «Credo che Holden abbia
parecchi precedenti sul blaterare ai quattro venti le cose che sa o che crede di
sapere sull’intero scibile umano. Che sia vero o meno, lui ci crede.»
«E la parte sulla protomolecola? Voglio dire, ha appena detto a tutti che la
protomolecola è stata liberata su Ganimede.»
«L’ha fatto, sì.»
«La gente reagirà a una notizia del genere, no?»
Avasarala tornò al sommario del rapporto, poi ai video delle rivolte su
Ganimede. Gente esangue, spaventata, esaurita dalla tragedia e dalla guerra, e
spinta dal panico. Si vedeva che le forze di sicurezza disposte contro di loro
stavano cercando di andarci piano. Quelli non erano scagnozzi a cui piacesse
usare la forza. Erano militari in servizio che cercavano di impedire che altri
uomini fragili e moribondi si facessero del male e ne facessero a loro,
oltrepassando la linea tra violenza necessaria e inefficacia.
«Cinquanta morti, finora» disse Avasarala. «O, comunque sia, queste
sono le stime. Quel posto è così fottuto, ormai, che sarebbero comunque
morti di malattie e malnutrizione. E invece sono morti di questo.»
«Ci sono andata, in quel ristorante» replicò Bobbie.
Avasarala si accigliò, cercando di capire quella che doveva essere una
metafora. Bobbie indicò lo schermo.
«Quello di fronte a cui stanno morendo... ho mangiato lì subito dopo
essere arrivata per la mobilitazione. Facevano un’ottima salsiccia.»
«Mi dispiace» disse Avasarala, ma la marine si limitò a scuotere la testa.
«Ad ogni modo, questo segreto è allo scoperto» disse.
«Forse» replicò Avasarala. «O forse no.»
«James Holden ha appena detto all’intero sistema che la protomolecola si
trova su Ganimede. In quale universo potrebbe essere ‘forse no’?»
Avasarala richiamò una lista di canali di notiziari, scorse l’elenco e scelse
quello con gli esperti che le interessava. Il canale si caricò per qualche
secondo mentre lei alzava il dito a indicare pazienza.
«...totalmente irresponsabile» disse un uomo con le guance scavate, con
un camice da laboratorio e un kufi sul capo. Lo sdegno nel suo tono di voce
avrebbe fatto sciogliere la vernice su una parete.
Accanto a lei c’era l’intervistatrice. Avrà avuto vent’anni, con i capelli
tagliati corti e dritti e un abito scuro che testimoniava della sua serietà come
giornalista.
«Quindi sta dicendo che la protomolecola non è coinvolta?»
«Non lo è. Le immagini che James Holden e il suo gruppetto stanno
inviando non hanno niente a che vedere con la protomolecola. Quella
membrana è quel che accade quando si lascia tracimare un legante. Succede
in continuazione.»
«Quindi non c’è alcun motivo per cedere al panico.»
«Alice» disse l’esperto, rivolgendo la sua condiscendenza alla giornalista.
«Dopo i primi giorni di esposizione, Eros era un circo degli orrori. Da quando
sono iniziate le ostilità, Ganimede non ha mostrato un singolo sintomo di
infezione. Non uno.»
«Ma c’è uno scienziato con lui. Il botanico, dottor Praxidike Meng, la cui
figlia...»
«Non conosco questo dottor Meng, ma trastullarsi con qualche germoglio
di soia lo rende un esperto protomolecolare quanto un chirurgo cerebrale. Mi
dispiace molto, ovviamente, per sua figlia, ma no. Se la protomolecola fosse
stata su Ganimede, l’avremmo saputo da tempo. Tutto questo panico è
letteralmente per niente.»
«Sono capaci di continuare così per ore e ore» disse Avasarala,
spegnendo lo schermo. «E ne abbiamo a dozzine, come lui. Marte starà
facendo la stessa cosa. Saturare i notiziari con dei programmi di
controinformazione.»
«Impressionante» esclamò Bobbie, allontanandosi dalla scrivania.
«Serve a mantenere calma la popolazione. È questa la cosa più
importante. Holden crede di essere un eroe, potere alla gente, l’informazione
vuole essere libera, bla bla bla... ma è un fottuto imbecille.»
«Ha la sua nave.»
Avasarala incrociò le braccia. «E quindi?»
«Ha la sua nave, e noi no.»
«Quindi siamo tutti dei fottuti imbecilli» disse Avasarala. «Perfetto.»
Bobbie si alzò e cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza. Si
girò ben prima di aver raggiunto il muro. Era abituata a passeggiare
nervosamente in ambienti più piccoli.
«Che cosa vuole che faccia?» chiese Bobbie.
«Niente» rispose Avasarala. «Che diavolo potresti farci? Sei incastrata
qui con me. Io posso fare a malapena qualcosa, e ho amici altolocati. Tu non
hai niente. Volevo soltanto parlare con qualcuno che non dovessi aspettare
due minuti per poter interrompere.»
Era andata troppo oltre. L’espressione di Bobbie si distese, diventando
calma, chiusa e distante. Si stava ritirando in sé stessa. Avasarala si sedette
sul bordo del letto.
«Non sono stata giusta» ammise.
«Se lo dice lei.»
«Lo dico io, sì, cazzo.»
La marine voltò la testa. «Era per caso un chiedere scusa?»
«La cosa più vicina che riesco a fare, ora.»
Qualcosa si mosse nella mente di Avasarala. Non riguardava Venere, né
James Holden e il suo appello per la povera bambina smarrita, e nemmeno
Errinwright. Aveva a che fare con Bobbie, con il suo passeggiare nervoso e
con la sua mancanza di sonno. Poi capì, e rise una volta, senza gioia. Bobbie
incrociò le braccia; il suo silenzio era una domanda.
«Non è una cosa divertente» disse Avasarala.
«Mi metta alla prova.»
«Mi ricordi mia figlia.»
«Ah, sì?»
Aveva fatto irritare Bobbie, e ora si sarebbe dovuta spiegare. I riciclatori
d’aria continuavano a ronzare impercettibilmente. Qualcosa in lontananza,
nello stomaco della nave, gemette come se fossero state su un’antica nave
d’acqua fatta di legno e catrame.
«Mio figlio è morto quando aveva quindici anni» disse Avasarala.
«Mentre sciava. Te l’ho mai detto? Era su una china che aveva già percorso
venti, trenta volte. La conosceva bene, ma successe qualcosa e intruppò
contro un albero. Stimarono che, al momento dell’impatto, andasse a
qualcosa come sessanta chilometri orari. C’è chi sopravvive a un trauma del
genere, ma non mio figlio.»
Per un istante fu di nuovo lì, a casa sua, con il medico sullo schermo che
le dava la notizia. Riusciva ancora a sentire il profumo dell’incenso che Arjun
stava bruciando in quel momento. Riusciva a udire le gocce di pioggia sui
vetri delle finestre, che tamburellavano come tante dita. Era il peggior ricordo
che aveva, ed era perfetto e nitido. Fece un lungo respiro tremante.
«Nei sei mesi che seguirono, sfiorai il divorzio per tre volte. Arjun era un
santo, ma anche i santi hanno i loro limiti. Litigavamo per qualsiasi cosa. Per
un niente. Ci rinfacciavamo a vicenda di non aver salvato Charanpal, e ci
risentivamo quando l’altro cercava di prendersi qualche responsabilità. E
così, ovviamente, fu mia figlia a soffrirne di più.
«Una notte, Arjun e io eravamo usciti, non ricordo per andare dove.
Tornammo tardi, e avevamo litigato. Ashanti era in cucina, intenta a lavare i
piatti. Lavava piatti già puliti, a mano. Li strofinava con una spugna e quel
terribile detersivo abrasivo. Le sue dita sanguinavano, ma lei non sembrava
accorgersene, sai? Cercai di fermarla, di tirarla via da lì, ma lei cominciò a
gridare e non si calmò finché non la lasciai riprendere a lavare i piatti. Ero
così arrabbiata da essere cieca. Odiai mia figlia. In quel momento, la odiai.»
«E io gliela ricordo perché...?»
Avasarala fece un gesto verso la stanza. Verso il letto con le lenzuola di
vero lino. Verso la carta da parati sulle pareti, verso quell’aria profumata.
«Non sai accettare compromessi. Non riesci a vedere le cose per come ti
dico che sono e, quando cerco di fartele vedere, fuggi.»
«È questo, che vuole?» domandò Bobbie. La sua voce stava tornando di
nuovo energica. Era rabbia, ma la riportò nel momento presente. «Vuole che
io sia d’accordo con qualsiasi cosa dica, e, se non lo faccio, mi odierà per
questo?»
«Ovviamente voglio che tu mi faccia notare quando dico una stronzata. È
per questo che ti pago. Ti odierò soltanto per un momento» rispose
Avasarala. «Io amo molto mia figlia.»
«Ne sono sicura, signora. Io non sono lei.»
Avasarala sospirò.
«Non ti ho chiamato qui, mostrandoti tutte queste cose, perché ero stufa
dello sfasamento orario. Sono preoccupata. Anzi no, cazzo... sono
spaventata.»
«Da cosa?»
«Vuoi che ti faccia la lista?»
Bobbie sorrise. Avasarala si sentì rispondere a quel sorriso.
«Ho paura di essere già stata battuta» disse. «Ho paura di non riuscire a
impedire ai falchi e al loro gruppo di potere di usare i loro nuovi giochini. E...
e ho paura che potrei avere torto. Che succederebbe, Bobbie? Che
succederebbe se, qualunque diavolo di cosa sia quella che c’è su Venere,
uscisse fuori e ci trovasse divisi, incasinati e inefficienti come siamo ora?»
«Non lo so.»
Il terminale di Avasarala trillò. Lei diede un’occhiata al messaggio in
entrata. Una nota dall’ammiraglio Souther. Avasarala gli aveva inviato un
messaggio innocuo sull’andare a pranzo insieme allorché fossero tornati
entrambi sulla Terra, poi l’aveva cifrato come comunicazione ad alta
sicurezza con uno schema di codifica privato. I loro osservatori ci avrebbero
messo almeno un paio d’ore, prima di riuscire a decifrare il codice. Aprì il
messaggio di risposta. Era testo semplice.
Con molto piacere.
L’aquila atterra a mezzanotte. Gli zoo di animali domestici sono illegali a Roma.
Avasarala scoppiò a ridere. Stavolta il piacere era genuino. Bobbie si
avvicinò alla sua spalla, e Avasarala girò lo schermo per far leggere anche
alla grossa marine.
«Che significa?»
Avasarala le fece segno di avvicinarsi abbastanza da toccare quasi il suo
orecchio con le labbra. A quella distanza così intima, la donnona profumava
di pelle pulita e di quell’emolliente al cetriolo che si trovava in tutte le stanze
degli ospiti di Mao.
«Niente» sussurrò Avasarala. «Mi sta soltanto reggendo il gioco, ma si
roderanno il fegato per cercare di capire che significa.»
Bobbie si raddrizzò. La sua espressione incredula era eloquente.
«È davvero così che funziona il governo, vero?»
«Benvenuta nella gabbia dei matti» replicò Avasarala.
«Credo che dovrei andare a ubriacarmi.»
«E io tornerò al lavoro.»
Giunta alla porta, Bobbie si fermò. Sembrava piccola, su quell’ampia
soglia. La soglia di una porta su una nave spaziale che faceva sembrare
piccola Roberta Draper. Non c’era niente, su quello yacht, che non fosse
elegantemente osceno.
«Che cos’è successo, con lei?»
«Chi?»
«Sua figlia.»
Avasarala richiuse il terminale.
«Arjun cantò per lei finché non si fermò. Ci vollero tre ore. Si sedette sul
bancone e intonò tutte le canzoni che cantava loro quando erano piccoli. Alla
fine, Ashanti gli permise di riportarla in camera sua e di rimboccarle le
coperte.»
«Odiò anche lui, vero? Per essere stato capace di aiutarla quando tu non
avevi potuto.»
«Stai diventando brava, sergente.»
Bobbie si leccò le labbra.
«Voglio fare male a qualcuno» disse. «E ho paura che, se non sarà a loro,
alla fine finirò per farmi male da sola.»
«Ognuno ha il proprio modo di portare il lutto, sergente» rispose
Avasarala. «Per quel che vale, non ucciderai mai abbastanza gente da
impedire che il tuo plotone resti morto. Non più di quanto io non possa
salvarne abbastanza da riportare in vita Charanpal.»
Per un lungo istante, Bobbie soppesò quelle parole. Avasarala riusciva
quasi a sentire la mente di quella donna che rivoltava le idee da una parte, poi
dall’altra. Soren era stato un idiota a sottovalutarla. Ma Soren era stato un
idiota in più di un modo. Quando alla fine parlò, il suo tono di voce era
leggero e distratto, come se le sue parole non fossero profonde.
«Provare non fa male, però.»
«Facciamo quel che possiamo» disse Avasarala.
La marine annuì seccamente. Per un istante, Avasarala pensò che stesse
per fare il saluto militare, e invece si diresse verso il bancone del bar
nell’ampio salotto. C’era un distributore d’acqua, lì, con getti spumosi che
uscivano da sculture in finto bronzo di cavalli e donne in abiti succinti.
Niente di meglio per farsi venire voglia di bere soltanto superalcolici.
Avasarala riaccese il notiziario.
«Sono James Holden...»
Rispense.
«Almeno ti sei tolto quella cazzo di barba» disse alla stanza.
36

Prax
Prax rammentava la sua prima epifania. Oppure, pensò, quella che
ricordava come tale. In assenza di ulteriori prove, si accontentò di quella. Era
durante la formazione secondaria, appena diciassettenne, e in pieno
laboratorio d’ingegneria genetica. Seduto lì tra i tavoli di acciaio e le
microcentrifughe, non riusciva a capire perché i suoi risultati fossero così
terribilmente sballati. Aveva ricontrollato i calcoli, rivisto le sue annotazioni.
L’errore era più grosso di quanto non potesse spiegare una mancanza di
applicazione tecnica, e la sua tecnica non peccava in alcun modo di
superficialità.
E poi aveva notato che uno dei reagenti era chirale, e aveva capito che
cos’era successo. Non aveva trovato niente di sbagliato, ma aveva dato per
scontato che il reagente fosse stato preso da una fonte naturale piuttosto che
essere generato ex novo. Invece di essere uniformemente orientato verso
sinistra, era un miscuglio di chiralità, metà delle quali inattive. Quella
intuizione l’aveva lasciato con un sorriso a trentadue denti stampato in volto.
Era stato un fallimento, ma un fallimento che riusciva a capire, e questo
lo trasformava in una vittoria. L’unica cosa che rimpiangeva era che gli ci
fosse voluto tutto quel tempo per vedere ciò che avrebbe dovuto essere chiaro
fin dall’inizio.
Nei quattro giorni passati dopo aver trasmesso il video, Prax aveva a
malapena dormito. Aveva trascorso il suo tempo a leggere i commenti e i
messaggi che continuavano ad arrivare insieme alle donazioni, rispondendo
ad alcuni e facendo domande a gente che non conosceva, proveniente da ogni
parte del sistema. La benevolenza e la generosità che gli dimostravano era
intossicante. Per due giorni non aveva chiuso occhio nemmeno per un istante,
carico dell’euforia provocata da quel senso di efficacia. Quando aveva
dormito, aveva sognato di ritrovare Mei.
Allorché giunse la risposta, desiderò averla trovata prima.
«Con il tempo che hanno avuto, possono averla portata ovunque, doc»
disse Amos. «Non è per romperti le palle, eh...»
«Potrebbe essere, sì» ammise Prax. «Potrebbero averla portata ovunque,
fintantoché avessero avuto farmaci a sufficienza. Ma non è lei il fattore
limitante. Il punto è da dove venissero quei farmaci.»
Prax aveva convocato quell’incontro senza una chiara idea di dove
organizzarlo. L’equipaggio della Roci era piccolo, ma gli alloggi di Amos
erano più piccoli ancora. Aveva considerato l’idea di riunirsi nella cambusa
della nave, ma c’erano ancora dei tecnici a bordo, impegnati a terminare le
riparazioni, e Prax desiderava avere un po’ di riservatezza. Alla fine, aveva
controllato il flusso di contributi derivati dal video trasmesso da Holden e ne
aveva presi a sufficienza da affittare una stanza in un locale della stazione.
Ora si trovavano in un’area lounge privata. Fuori dalla finestra del
pannello a parete, gli immensi bracci meccanici da costruzione si spostavano
di pochi gradi, con i razzi di posizione che si accendevano e si spegnevano
secondo uno schema ricorrente complesso come un linguaggio a parte.
Un’altra cosa a cui Prax non aveva mai pensato prima di venire lì: i bracci
meccanici della stazione dovevano far uso di razzi di posizione per impedire
che i loro movimenti spostassero la stazione a cui erano collegati. Ogni cosa,
ovunque, era una danza di movimenti minimi e d’increspature da essi create.
All’interno della stanza, la musica che aleggiava tra gli ampi tavoli e le
poltrone imbottite di gel era dolce e lirica, la voce del cantante profonda e
tranquillizzante.
«Da dove?» disse Alex. «Pensavo che venissero da Ganimede.»
«Il laboratorio su Ganimede non disponeva delle attrezzature necessarie a
effettuare ricerca a quel livello» replicò Prax. «E hanno fatto in modo che
Ganimede diventasse una zona di guerra. Sarebbe stata una pessima idea, se
avessero avuto intenzione di continuare a lavorare proprio da lì. Quello era
soltanto un laboratorio da campo.»
«Anch’io cerco di non cagare nel posto dove mangio, di solito»
intervenne Amos, d’accordo con Prax.
«Vivi su una nave spaziale» disse Holden.
«Non cago nella cambusa» replicò Amos.
«Anche tu hai ragione.»
«Comunque sia,» riprese Prax «possiamo tranquillamente ipotizzare che
abbiano portato a termine il grosso del lavoro in una base meglio protetta. E
quella base dev’essere da qualche parte nel sistema gioviano. Da qualche
parte nelle vicinanze.»
«Mi sono perso di nuovo,» disse Holden «perché dovrebbe essere
vicina?»
«Tempi di trasporto. Mei può andare ovunque, posto che abbia farmaci a
sufficienza, ma è più robusta di... di quelle cose.»
Holden alzò una mano come se fosse stato uno scolaretto con una
domanda.
«Okay. Potrei aver sentito male, ma hai per caso appena detto che
quell’affare che è salito a bordo della mia nave strappando un pezzo di
paratia, che mi ha tirato addosso una cassa da carico merci da cinquecento
chili e che si è quasi aperto un varco a morsi verso il nucleo del reattore è più
delicato di una ragazzina di quattro anni con una sindrome da
immunodeficienza?»
Prax annuì. Fu trafitto da una fitta di orrore e rimorso. Mei non aveva più
quattro anni. Un mese prima era stato il suo compleanno, e lui se l’era perso.
Aveva cinque anni. Ma rimorso e orrore erano vecchi compagni, ormai.
Spinse via quel pensiero.
«Sarò più chiaro» disse. «Il corpo di Mei non sta lottando contro la sua
condizione fisica. È proprio della sua malattia, se ci pensate bene. C’è un
insieme di cose che succedono nei corpi normali, che nel suo non accadono.
Ora prendete uno di quegli affari, una di quelle creature. Come quella della
nave, per esempio...»
«Quel bastardo era piuttosto attivo» osservò Amos.
«No» replicò Prax. «Voglio dire: sì... ma no. Attivo a un livello
biochimico, dico. Se Strickland o Merrian, o chiunque altro, stanno usando la
protomolecola per riprogrammare un corpo umano, quel che fanno è prendere
un sistema complesso e impiantargliene sopra un altro. Sappiamo che è
instabile.»
«Okay» disse Naomi. Era seduta vicino ad Amos e dall’altra parte del
tavolo rispetto a Holden. «Come facciamo a saperlo?»
Prax si accigliò. Quando aveva provato il suo discorso, non si era
aspettato tante domande. Le cose che avrebbe pensato essere ovvie fin
dall’inizio non erano nemmeno venute in mente agli altri. Era esattamente il
motivo per cui non si era dedicato all’insegnamento. Guardando i loro volti,
ora, vedeva soltanto una vuota confusione.
«E va bene» disse. «Ricominciamo dall’inizio. C’è stato qualcosa, su
Ganimede, che ha scatenato la guerra. C’era anche un laboratorio segreto il
cui personale, come minimo, sapeva già dell’attacco prima che accadesse.»
«Chiaro» concordò Alex.
«Okay» riprese Prax. «Nel laboratorio abbiamo trovato tracce della
protomolecola, un bambino morto e un gruppo di persone che si stava
preparando a partire. E, quando siamo arrivati lì, abbiamo dovuto combattere
soltanto fino a metà strada. Dopodiché, c’era qualcos’altro davanti a noi, che
ha ammazzato tutti.»
«Ehi» disse Amos. «Credi che sia stato lo stesso bastardo che era entrato
nella Roci?»
Prax bloccò la parola ‘ovviamente’ prima che gli scivolasse via dalle
labbra.
«Probabilmente» disse invece. «E sembra probabile che l’attacco
originale ne abbia coinvolti altri come quello.»
«Quindi ne sono sfuggiti due?» chiese Naomi, ma Prax vide che la
navigatrice capiva l’incongruenza di quell’ipotesi.
«No, perché sapevano già che stava per succedere. Uno è fuggito quando
Amos gli ha ritirato indietro quella granata. Uno è stato rilasciato di
proposito. Ma questo non ha importanza. Quello che conta è che stanno
usando la protomolecola per riprogrammare dei corpi umani, e che non sono
capaci di controllarli dandogli una somiglianza perfetta. La programmazione
che stanno inserendo è difettosa.»
Prax annuì, come se facendolo potesse portarli a seguire la sua catena
logica. Holden scosse la testa, fece una pausa e poi annuì.
«La bomba» disse.
«La bomba» ripeté Prax. «Anche quando non sapevano ancora che la
seconda cavia si sarebbe liberata, l’avevano equipaggiata con una potente
carica autoinnescante.»
«Ah!» disse Alex. «Ora ho capito! Stai pensando che sapessero che alla
fine ne avrebbero perso il controllo, per cui l’hanno concepita in modo che si
autodistruggesse qualora la situazione gli fosse sfuggita di mano.»
Nelle profondità dello spazio, la fiamma di un saldatore arroventò la
chiglia della nave in via di costruzione, e il suo riflesso proiettò una luce
improvvisa e netta sul viso sollecito del pilota.
«Sì» disse Prax. «Ma potrebbe trattarsi anche di un’arma ausiliaria, o di
una carica esplosiva che quella creatura doveva portare chissà dove. Credo
però che fosse un dispositivo di sicurezza. Probabilmente è così, ma potrebbe
trattarsi di parecchie altre cose.»
«Sì, va bene, però se l’è lasciato dietro» osservò Alex.
«Datogliene il tempo, ha espulso la bomba» disse Prax. «Capite? Ha
scelto di riconfigurarsi in modo da rimuovere la carica esplosiva. Non l’ha
messa lì per distruggere la Roci, anche se avrebbe potuto farlo. Non l’ha
portata al suo bersaglio predestinato. Ha semplicemente deciso di gettarla
via.»
«E, se sapeva fare una cosa del genere...»
«Vuol dire che era abbastanza intelligente da riconoscere una minaccia»
concluse Prax. «Non conosco ancora il meccanismo. Potrebbe essere
cognitivo, o legato a una rete, o un qualche tipo di risposta immunitaria
modificata.»
«Okay, Prax. Quindi, se la protomolecola alla fine fosse in grado di
liberarsi da qualsiasi vincolo che le viene imposto e fare di testa sua, a che
punto saremmo noi?» chiese Naomi.
Torniamo alla casella di partenza, pensò Prax, e si lanciò
sull’informazione che aveva avuto intenzione di condividere fin dall’inizio.
«Significa che, ovunque sia il laboratorio principale – il posto dove non
avrebbero lasciato libero uno di quegli affari – dev’essere abbastanza vicino a
Ganimede da poterci trasportare una di quelle creature prima che si liberi dal
guinzaglio. Non so quanto ci voglia perché questo accada, e scommetto che
nemmeno loro lo sanno con certezza. Per cui, più vicino è, meglio è.»
«Una luna di Giove, o una stazione segreta» disse Holden.
«È impossibile avere una stazione segreta nel sistema gioviano» obiettò
Alex. «C’è troppo traffico. Qualcuno vedrebbe qualcosa. Merda, è dove la
gran parte delle ricerche extrasolari erano concentrate finché non siamo
arrivati su Urano. Se ci metti qualcosa in mezzo, gli osservatori
s’incazzerebbero perché gli stai impallando tutte le immagini, no?»
Naomi tamburellò sul tavolo con le dita, producendo un suono simile al
gocciolare della condensa all’interno di una bocchetta d’aerazione di metallo.
«Be’, la scelta più ovvia sarebbe Europa» disse.
«È Io» replicò Prax, con una vena d’impazienza che gli scivolò nella
voce. «Ho usato un po’ del denaro per una ricerca doganale sul tipo di
arilammine e nitrobenzeni impiegati negli studi sui mutageni.» Fece una
pausa. «Non è un problema se l’ho fatto, vero? Spendere i soldi...»
«È proprio a questo che servivano» disse Holden.
«Okay. Allora, i mutageni che cominciano a funzionare soltanto dopo
l’attivazione sono strettamente controllati, visto che possono essere usati per
la ricerca sulle armi biologiche. Tuttavia, se hai intenzione di lavorare con
quel tipo di effetto a cascata biologico e con quei sistemi vincolati, hai
bisogno di avervi accesso. La maggior parte delle forniture era diretta su
Ganimede, ma c’era anche un flusso significativo verso Europa. E, quando ho
approfondito le ricerche su quello, non sono riuscito a trovare un destinatario
finale. Perché i mutageni sono stati trasferiti da Europa due ore dopo il loro
arrivo.»
«Diretti verso Io» disse Holden.
«Non ho trovato nessuna destinazione in elenco, ma i container di
trasporto per quel genere di merce devono necessariamente attenersi alle
regolamentazioni di sicurezza di Terra e Marte. Molto costosi. E quei
container che erano stati usati per il trasporto fin su Europa sono stati
rispediti al produttore per recuperarne il costo a bordo di un cargo in partenza
da Io.»
Prax fece un respiro. Era stato come togliersi un dente, ma era piuttosto
sicuro di aver posto in rilievo tutti gli elementi necessari affinché le prove
fossero, se non definitive, perlomeno potentemente suggestive.
«Per cui...» disse Amos, trascinando esitante le parole. «Probabilmente i
cattivi stanno su Io?»
«Sì» concordò Prax.
«Be’... cazzo, doc. Potevi dirlo subito.»
La gravità di accelerazione era di 1 g pieno, ma senza l’impercettibile
effetto Coriolis della Stazione di Tycho. Prax sedeva sul suo sedile, chino sul
terminale palmare. C’erano stati dei giorni, durante il ritorno verso la
Stazione di Tycho, in cui l’essere mezzo morto di fame e avere il cuore a
pezzi erano le uniche cose che lo distraevano. Fisicamente, niente era
cambiato. Le pareti intorno a lui erano ancora strette e anguste. Il riciclatore
d’aria continuava a ticchettare e a ronzare. Ora, però, invece di sentirsi
isolato, Prax era consapevole di essere al centro di una vasta rete di persone,
tutte tese a raggiungere il suo stesso scopo.
Signor Meng, ho visto il servizio su di lei e il mio cuore e le mie preghiere sono
con lei. Mi dispiace di non poterle inviare del denaro, essendo in sussistenza base, ma
ho incluso il servizio nella newsletter della mia parrocchia. Spero che riuscirà a
ritrovare sua figlia sana e salva.
Prax aveva composto un messaggio generico per rispondere a tutti quelli
che gli auguravano buona fortuna, e aveva preso in considerazione l’idea di
cercare un filtro che identificasse quei messaggi e rispondesse
automaticamente con la risposta preimpostata. Si trattenne dal farlo perché
non era sicuro di come poter definire con cura i criteri di individuazione, e
non voleva che nessuno avesse l’impressione che i suoi sentimenti fossero
percepiti come scontati. E, dopotutto, non aveva compiti a bordo della
Rocinante.
Le scrivo perché sono in possesso di informazioni che potrebbero aiutarla con la
missione di salvataggio di sua figlia. Fin da bambino, ho sempre avuto potenti
premonizioni attraverso i sogni e, tre giorni prima di aver visto il servizio di James
Holden su di lei e su sua figlia, ho visto la piccola in un sogno. Era su Luna, in un
luogo angusto e senza luce, ed era spaventata. Ho cercato di darle conforto, ma ora ho
la certezza che la troverà su Luna o su un’orbita vicina.
Prax non rispondeva a tutti, ovviamente.
Il viaggio verso Io non avrebbe richiesto più tempo di quello verso
Tycho. Probabilmente ancora meno, visto che era improbabile che stavolta
portassero a bordo il caos di un costrutto protomolecolare clandestino che gli
faceva saltare per aria la stiva. Se Prax ci pensava troppo a lungo, si sentiva
prudere i palmi delle mani. Sapeva dov’era Mei, o dov’era stata. Ogni ora che
passava lo portava più vicino, e ogni messaggio che transitava per il suo
account gli dava un po’ più di forza. Qualcun altro poteva sapere chi fosse
Carlos Merrian e che cosa stesse facendo.
C’erano alcune persone con cui aveva avviato una conversazione,
soprattutto messaggi video in entrata e in uscita. Aveva parlato con
l’intermediario di una società di sicurezza sulla Stazione di Ceres, che aveva
svolto per suo conto alcune delle ricerche doganali e sembrava un uomo
perbene. Si era scambiato alcune registrazioni video con una specialista
marziana nel sostegno all’elaborazione del lutto prima di cominciare ad avere
la fastidiosa sensazione che ci stesse provando con lui. Un’intera scuola –
erano almeno un centinaio di bambini – gli aveva inviato una registrazione in
cui gli alunni intonavano una canzone in spagnolo misto a francese, in onore
di Mei e del suo ritorno.
Nella sua testa, sapeva che nulla era cambiato. C’erano ancora buone
probabilità che Mei fosse morta, e che non sarebbe riuscito a rivederla mai
più. Ma avere tutta quella gente, in un flusso tanto regolare, che gli diceva
che le cose sarebbero andate per il meglio, che lo speravano e che erano tutti
con lui, rendeva più difficile disperare. Doveva trattarsi di una sorta di effetto
di rafforzamento di gruppo. Era una proprietà comune di alcune specie di
piante da coltivazione: una pianta malata o sofferente poteva essere spostata
all’interno di una comunità di esemplari sani e, grazie all’effetto di
prossimità, migliorare le proprie condizioni, anche se terriccio e acqua
venivano dispensati separatamente. Sì, era una mediazione chimica, ma gli
umani erano animali sociali, e a una donna che ti sorrideva dallo schermo,
con gli occhi che sembravano affondare nei tuoi e che diceva quello che
volevi sentirti dire, era quasi impossibile non credere.
Era egoista, e lo sapeva, ma creava anche una dipendenza. Aveva smesso
di prestare attenzione alle donazioni che continuavano ad arrivare, una volta
visto che c’erano abbastanza fondi da finanziare la nave fino a Io. Holden gli
aveva stilato un preventivo di spesa e un elenco dei costi, ma Prax non
pensava che il capitano l’avrebbe ingannato, per cui non aveva visto altro che
il totale in calce. Una volta raggiunta la somma necessaria, aveva smesso di
preoccuparsi del denaro.
Erano i messaggi a prendere tutto il suo tempo e la sua attenzione.
Udì Alex e Amos nella cambusa, che parlavano con toni tranquilli e
casuali. Gli tornò in mente quando viveva nel dormitorio di gruppo
all’università. La consapevolezza di altre voci, altre presenze, e il conforto
che si poteva trarre da quei suoni familiari. Non era così diverso rispetto a
seguire il filo dei messaggi in entrata.
Ho perso mio figlio quattro anni fa, e non riesco ancora a immaginare che cosa stai
passando in questo momento. Vorrei poter fare di più.
Ne erano rimasti ancora una dozzina. Era metà pomeriggio, nel mondo
arbitrario dell’orario navale, ma era terribilmente assonnato. Si chiese se non
fosse il caso di lasciare gli ultimi messaggi per dopo il pisolino, e decise di
leggerli comunque senza però mettersi a rispondere a ognuno di essi. Alex
rise. Amos si unì a lui.
Prax aprì il quinto messaggio.
Sei un bastardo malato, malato, malato, e, se mai dovessi incontrarti, giuro su dio
che ti ammazzo con le mie mani. Quelli come te dovrebbero essere stuprati a morte,
così sapresti cosa si prova.
Prax cercò di riprendere fiato. L’improvviso dolore nel suo corpo era
come quello che si prova dopo aver ricevuto un colpo alla bocca dello
stomaco. Ne arrivò un altro, e poi altri tre. E poi una dozzina. Con una certa
angoscia, Prax aprì uno dei nuovi messaggi.
Spero che tu muoia.
«Non capisco» disse Prax al terminale. Quel livore era improvviso,
costante e del tutto inspiegabile. Perlomeno finché non aprì uno dei messaggi
che riportava il link di un notiziario pubblico. Prax inviò una richiesta di
collegamento e, cinque minuti più tardi, il suo schermo si svuotò, il logo blu
di uno dei grossi aggregatori di notizie terrestri vi baluginò brevemente, e
comparve il titolo del notiziario – TheRaw Feed.
Quando il logo si dissolse, Nicola lo guardò dritto negli occhi. Prax
allungò una mano sui controlli, una parte di sé convinta di essere passato in
chissà che modo nella sezione dei messaggi privati, anche se sapeva che non
era così. Nicola si leccò le labbra, distolse lo sguardo, poi fissò di nuovo in
camera. Sembrava stanca. Esausta.
«Mi chiamo Nicola Mulko. Ero sposata con Praxidike Meng, l’uomo che
ha diffuso un appello per riuscire a ritrovare nostra figlia... mia figlia, Mei.»
Una lacrima le colò lungo il viso e lei non la asciugò.
«Quello che non sapete – quello che nessuno sa – è che Praxidike Meng è
un mostro. Ho cercato di riprendere Mei con me da quando sono riuscita a
sfuggirgli. Pensavo che i suoi abusi su di me fossero una questione tra noi
due. Non avrei mai pensato che le avrebbe fatto del male. Ma dalle
informazioni che ho ricevuto da alcuni amici che erano rimasti su Ganimede
dopo la mia partenza...»
«Nicola» disse Prax. «Non farlo. Non farmi questo.»
«Praxidike Meng è un uomo violento e pericoloso» proseguì Nicola. «In
qualità di madre, credo che Mei sia stata violentata emotivamente,
psicologicamente e fisicamente da lui dopo la mia partenza. E che la sua
cosiddetta scomparsa durante gli scontri su Ganimede sia in realtà un
sotterfugio per nascondere il fatto che l’ha finalmente uccisa.»
Le lacrime fluivano libere lungo le guance di Nicola, ora, e i suoi occhi
erano smorti come un pesce vecchio di una settimana.
«Non biasimo nessuno, se non me stessa» aggiunse. «Non me ne sarei
mai dovuta andare, quando vidi che non potevo portare via con me la mia
bambina...»
37

Avasarala
«Non biasimo nessuno, se non me stessa» disse la donna in lacrime, e
Avasarala interruppe la riproduzione, tornando ad appoggiarsi allo schienale
della poltrona. Il suo cuore batteva più rapidamente del solito, e lei riusciva a
sentire i pensieri che si agitavano irrequieti appena sotto il ghiaccio della
propria mente cosciente. Si sentiva come se qualcuno potesse appoggiare un
orecchio al suo cranio per ascoltare il suo cervello che mormorava.
Bobbie era seduta sul letto a baldacchino. Lo faceva sembrare piccolo, il
che era già impressionante di per sé. Aveva una gamba ripiegata sotto di sé e
un mazzo di vere carte da gioco disposte in ordine sul copriletto dorato e
verde. La sua attenzione non era più per il solitario, però. Lo sguardo della
marziana era su di lei, e Avasarala sentì un lento sorriso affiorarle sul volto.
«Be’, che mi venga un colpo» disse. «Hanno paura di lui.»
«Chi ha paura di chi?»
«Errinwright si sta muovendo contro Holden e questo bastardo di Meng,
chiunque sia. L’hanno costretto ad agire. Io stessa non sono riuscita a
farglielo fare.»
«Non crederà che il botanico abbia davvero molestato sua figlia?»
«Potrebbe anche darsi, ma questa» picchiettò sul viso immobile e
lacrimoso dell’ex moglie del botanico «è una campagna diffamatoria. Sono
pronta a scommettere una settimana di salario che ho anche cenato con la
donna che l’ha coordinata.»
Lo sguardo scettico di Bobbie non fece altro che allargare il sorriso di
Avasarala.
«Questa» disse «è la prima cosa davvero buona che è capitata da quando
siamo salite su questo bordello fluttuante. Dobbiamo metterci al lavoro.
Cazzo, quanto vorrei poter essere di nuovo nel mio ufficio.»
«Vuole del tè?»
«Gin» rispose lei, accendendo la telecamera del suo terminale.
«Dobbiamo festeggiare.»
Nella finestra di visualizzazione, Avasarala sembrava più piccola di
quanto non si sentisse. Le stanze erano state progettate per attirare
l’attenzione a prescindere dall’angolazione che avrebbe scelto, come se fosse
stata intrappolata in una cartolina postale. Chiunque navigasse sullo yacht
avrebbe potuto vantarsene senza nemmeno dire una parola, ma, in quella
gravità ridotta, i capelli di Avasarala le stavano ritti tutto intorno come se si
fosse appena alzata dal letto. Di più: sembrava emotivamente esausta e
fisicamente provata.
Metti via i pensieri, disse a sé stessa. Trova la maschera.
Fece un respiro profondo, si produsse in un gestaccio diretto alla
telecamera, poi cominciò a registrare.
«Ammiraglio Souther» disse. «Grazie mille per il tuo ultimo messaggio.
È giunta alla mia attenzione una cosa che ho pensato potesse interessarti. A
quanto pare, qualcuno ha recentemente preso in antipatia James Holden. Se
fossi con la flotta invece che fluttuante per il fottuto sistema solare, ti
inviterei per un caffè e una chiacchierata sull’argomento, ma, visto che non
accadrà, dischiuderò alla tua attenzione qualcuno dei miei file privati. Ho
seguito Holden. Dai un’occhiata a quello che ho scoperto e dimmi se vedi le
stesse cose che vedo io.»
Inviò il messaggio. La mossa successiva sarebbe stata quella di contattare
Errinwright. Se la situazione fosse stata quella che entrambi fingevano che
fosse, lei l’avrebbe tenuto coinvolto e informato. Per un lungo istante,
considerò l’idea di rispettare la forma e di fingere. Bobbie incombette alla sua
destra, posando il bicchiere di gin sulla scrivania con un delicato ticchettio.
Avasarala raccolse il bicchiere e ne bevve un sorsetto. Il gin dell’etichetta
personale di Mao era eccellente, anche senza l’aggiunta di lime.
Nah. Fanculo Errinwright. Aprì la rubrica e cominciò a scartabellare tra
le voci finché non trovò quel che voleva e premette il tasto di registrazione.
«Signora Corlinowski, ho appena visto il video in cui si accusa Praxidike
Meng di scoparsi la sua adorabile bambina di cinque anni. Da quand’è che
l’ufficio relazioni con i media delle Nazioni Unite è diventato la fottuta
sezione divorzi del tribunale civile? Se dovesse uscire fuori che dietro questa
faccenda ci siamo noi, vorrei sapere di chi sono le dimissioni che dovrò dare
in pasto ai notiziari, e, al momento, mi viene da pensare che siano le sue. Mi
saluti tanto Richard, e mi dia una risposta prima che faccia sbattere fuori il
suo culone da incompetente per puro dispetto.»
Chiuse la registrazione e la inviò.
«Potrebbe essere stata lei a organizzare tutto?» chiese Bobbie.
«Potrebbe darsi» ammise Avasarala, bevendo un altro sorso di gin. Era
troppo buono. Se non fosse stata attenta, avrebbe finito col berne troppo. «Se
così non fosse, troverà chi è stato e ce lo servirà su un vassoio d’argento.
Emma Corlinowski è una codarda. È per questo che l’adoro.»
Nell’ora che seguì, Avasarala inviò un’altra dozzina di messaggi,
registrazione dopo registrazione dopo registrazione. Diede il via a un
processo di accertamento delle responsabilità sull’ex moglie di Meng e sulla
possibilità che le Nazioni Unite potessero essere ritenute responsabili di
diffamazione. Mise in allerta prioritaria il coordinatore degli aiuti umanitari
su Ganimede, esigendo tutto ciò che poteva ottenere su Mei Meng e sulla sua
ricerca. Inviò richieste ad alta priorità per l’identificazione del dottore e della
donna apparsi nel video di Holden, poi inviò un messaggio sconclusionato di
venti minuti a un vecchio collega dell’immagazzinamento dati, con una
piccola, tacita richiesta di fornire quella stessa informazione nel mezzo di
quel fiume di parole.
Errinwright aveva cambiato gioco. Se Avasarala avesse avuto le mani
libere, sarebbe stata inarrestabile. Nel caso attuale, doveva dare per scontato
che ogni mossa che faceva sarebbe stata catalogata e contrastata quasi
immediatamente. Ma Errinwright e i suoi alleati erano umani dopotutto, e, se
avesse mantenuto un flusso poderoso di richieste e interrogazioni, pistolotti e
lusinghe, poteva darsi che si sarebbero lasciati sfuggire qualcosa. O che
qualcuno su un canale di informazione notasse l’aumento di attività e venisse
a ficcarci il naso. Oppure, se non altro, che i suoi sforzi avrebbero fatto
passare a Errinwright una notte agitata.
Era tutto quel che aveva. Non era abbastanza. Lunghi anni di pratica nella
danza della politica e del potere l’avevano lasciata con aspettative e riflessi
che in quel luogo non potevano trovare forma appropriata. Il ritardo di
sincronizzazione la frustrava da morire, e Avasarala si sfogò su chiunque
fosse il destinatario della registrazione del momento. Si sentiva come un
musicista di livello mondiale di fronte a un auditorium pieno di pubblico, a
cui avessero dato un kazoo.
Non si era accorta di aver finito il gin. Portò semplicemente il bicchiere
alle labbra, lo trovò vuoto, e si rese conto che non era la prima volta che
succedeva. Erano passate cinque ore. Fino a quel momento aveva ricevuto
soltanto tre risposte, su una cinquantina di messaggi inviati. Doveva trattarsi
di qualcosa di più del ritardo di sincronizzazione. Lì c’era lo zampino di
qualcuno che la controllava.
Non si rese conto di avere fame finché Cotyar non venne da lei con un
vassoio, accompagnato dal profumo di agnello al curry e anguria. Lo stomaco
di Avasarala si risvegliò con un ruggito e lei spense il terminale.
«Mi hai appena salvato la vita» gli disse, facendo un segno verso la
scrivania.
«È stata un’idea della sergente Draper» disse lui. «Dopo la terza volta che
ha ignorato il suo suggerimento.»
«Non me ne ricordo» rispose Avasarala mentre l’uomo le metteva di
fronte il piatto. «Non hanno dei camerieri su questo affare? Perché sei tu a
portarmi il cibo?»
«Ci sono, signora. Ma non permetto loro di entrare qui.»
«Mi sembra un po’ eccessivo. Non sarai un po’ troppo nervoso?»
«Come dice lei, signora.»
Mangiò troppo in fretta. Le faceva male la schiena, e la gamba sinistra
formicolava di mille pizzichi fastidiosi dopo che era rimasta seduta troppo a
lungo nella stessa posizione. Da giovane non ne aveva mai sofferto. D’altro
canto, però, all’epoca non aveva la capacità di impallinare ogni pezzo grosso
delle Nazioni Unite e di farsi prendere sul serio. Il tempo le aveva tolto la
forza, ma in cambio le aveva dato il potere. Era uno scambio equo.
Non riuscì nemmeno ad aspettare di finire di mangiare, accendendo il
terminale mentre ancora finiva gli ultimi bocconi. Quattro messaggi in arrivo.
Souther, che dio benedicesse il suo cuoricino raggrinzito. Un altro da un
funzionario del consiglio legale di cui non riconobbe il nome, e un terzo da
un nome che conosceva. Il quarto da Michael-Jon, probabilmente su Venere.
Aprì il messaggio da parte di Souther.
L’ammiraglio apparve sullo schermo e Avasarala dovette costringersi a
non salutarlo. Era soltanto una registrazione video, non una conversazione
reale. La cosa le dava un fastidio infinito.
«Chrisjen» disse l’ammiraglio. «Dovrai fare più attenzione con tutte
queste informazioni che mi stai inviando. Arjun potrebbe ingelosirsi. Non ero
a conoscenza del ruolo avuto dal nostro amico Jimmy nel sollevare
quest’ultimo polverone.»
Il nostro amico Jimmy. Non aveva pronunciato apertamente il cognome di
Holden. Interessante. Si aspettava che un qualche filtro individuasse quel
nome. Avasarala cercò di indovinare se Souther pensava che il filtro fosse sui
propri messaggi in uscita o sui messaggi in entrata di lei. Se Errinwright
aveva anche soltanto mezzo cervello, com’era in effetti, avrebbe fatto
controllare il traffico di entrambi, in entrambe le direzioni. Che fosse
preoccupato per qualcos’altro ancora? Quanti giocatori erano seduti al tavolo,
realmente? Avasarala non disponeva di sufficienti informazioni con cui
lavorare, ma era quantomeno interessante.
«Capisco dove ti possano condurre le tue preoccupazioni» disse Souther.
«Sto facendo fare degli approfondimenti, ma sai come vanno certe cose.
Potrei trovare qualcosa tra un paio di minuti, o tra un paio d’anni. Tu però
non sparire. Sta succedendo più di quanto non serva, da queste parti, per
farmi desiderare di poter accettare quel tuo invito a pranzo. Siamo tutti
impazienti di rivederti.»
Quella sì che era una bugia sfacciata, pensò Avasarala. Però era stato
carino da parte sua dirla. Raschiò il fondo del piatto con la forchetta, e un
sottile residuo di curry rimase sull’acciaio.
Il messaggio successivo le mostrò un qualche giovane con l’accento
brasiliano che le spiegava che le Nazioni Unite non avevano niente a che
vedere con il video di Nicola Mulko, e che non potevano quindi essere
ritenute responsabili per la sua realizzazione. Quello dopo ancora era da parte
del supervisore del ragazzo, che si scusava per lui e le prometteva un
rapporto completo entro la fine della giornata, il che era già molto meglio. La
gente intelligente aveva ancora paura di lei. Quel pensiero era più nutriente
dell’agnello.
Mentre allungava una mano verso lo schermo, la nave si spostò sotto di
lei e la gravità la attirò leggermente da una parte. Avasarala posò una mano
sulla scrivania; il curry e quel che rimaneva del gin le si rimestarono nello
stomaco.
«Ce lo aspettavamo, questo?»
«Sì, signora» rispose Cotyar dall’altra stanza. «Una correzione di rotta
che era già in agenda.»
«Non succede mai in ufficio, cazzo» sbottò lei, e Michael-Jon apparve sul
suo schermo. Sembrava mediamente confuso, ma poteva trattarsi
semplicemente dell’inclinazione del viso. Avasarala avvertì una fitta di
timore nauseante. Per un attimo, la Arboghast le fluttuò di nuovo davanti agli
occhi, riducendosi in mille pezzi. Senza volerlo, Avasarala mise in pausa il
video. Qualcosa, in fondo alla sua mente, voleva distogliersi da lì. Non
sapere.
Non era difficile capire come avessero fatto Errinwright, Nguyen e la loro
cricca a voltare le spalle a Venere, al caos alieno che stava diventando ordine,
e più che ordine. Quanto era più facile dedicarsi ai vecchi giochi, ai vecchi
modelli, a una storia di guerre e conflitti, inganni e morte. In tutto il loro
orrore, erano concetti familiari. Noti.
Da bambina, Avasarala aveva visto un film su un uomo che aveva scorto
il volto di Dio. Per tutta la prima ora del film, il protagonista aveva vissuto la
vita scialba di un uomo in condizioni di sussistenza base sulle coste
dell’Africa meridionale. Quando aveva visto Dio, il film era passato per dieci
minuti di pianto del protagonista, seguiti da un’altra ora in cui si ricostruiva
lentamente la stessa vita idiota che aveva all’inizio del film. Avasarala
l’aveva odiato. Ora, però, riusciva quasi a capirlo. Distogliere lo sguardo era
naturale. Anche se era una reazione idiota, autolesionistica e priva di senso,
era naturale.
Guerra. Massacri. Morte. Tutta la violenza che Errinwright e i suoi
uomini – perché era certa che si trattasse quasi unicamente di uomini –
avevano abbracciato, era in realtà confortante. Erano spaventati.
Be’, anche lei lo era.
«Cacasotto» esclamò, e fece ripartire il video.
«Venere è in grado di pensare» disse Michael-Jon invece di ‘ciao’ o altre
formule usuali di cortesia. «Ho fatto elaborare i dati ricavati dalle rete di
correnti elettriche e idriche alla squadra di analisi dei segnali, e abbiamo
trovato un modello di riferimento. La corrispondenza è soltanto del sei
percento, ma mi sento di dare più importanza a questo che al caso. Ha
un’anatomia diversa, naturalmente, ma la sua struttura funzionale è quasi
come quella di un cetaceo intento in ragionamenti di tipo spaziale. Voglio
dire, c’è sempre la questione del gap esplicativo, e su questo non posso essere
d’aiuto, ma, visto quello che abbiamo osservato, sono piuttosto sicuro che i
modelli riscontrati corrispondano a una forma di pensiero. Erano le idee vere
e proprie, come dei neuroni che si stessero attivando.»
Michael-Jon fissò in camera come se si aspettasse di ricevere una risposta
immediata, poi mostrò una faccia vagamente delusa quando non successe.
«Pensavo volessi saperlo» disse, e chiuse il collegamento.
Prima che Avasarala riuscisse a formulare una risposta, arrivò un nuovo
messaggio da parte di Souther. Lo aprì con un senso di sollievo e gratitudine
di cui si vergognava un po’.
«Chrisjen» disse. «Abbiamo un problema. Dovresti dare un’occhiata allo
spiegamento di forze su Ganimede e farmi sapere se vediamo entrambi la
stessa cosa.»
Avasarala si accigliò. Il ritardo orario era arrivato a più di ventotto minuti.
Impostò una richiesta standard, la inviò e si alzò. Si sentiva la schiena
completamente annodata. Andò verso l’area comune della suite. Bobbie,
Cotyar e altri tre uomini erano seduti in cerchio, con un mazzo di carte
distribuito nel mezzo. Poker. Avasarala li raggiunse, accompagnando il
movimento con le anche per via di quel doloroso irrigidimento. C’era
qualcosa, in quella bassa gravità, che le faceva male alle articolazioni. Si
sedette a fianco a Bobbie.
«Alla prossima mano, inseriscimi nel giro» disse.
L’ordine era stato dato da Nguyen e, a prima vista, non aveva nessun
senso. Sei cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite erano stati distaccati dal
gruppo di pattuglia su Ganimede e inviati alla massima velocità su una rotta
che sembrava portare verso il nulla. I rapporti iniziali mostravano che, dopo
un certo periodo trascorso a chiedersi che cazzo stesse succedendo, un
distaccamento proporzionale di navi marziane aveva imboccato la stessa
rotta.
Nguyen stava architettando qualcosa, e Avasarala non aveva la più pallida
idea di cosa potesse essere. Ma Souther le aveva mandato l’avvertimento e
aveva pensato che ci avrebbe visto qualcosa.
Le ci volle un’altra ora per capire cosa. La Rocinante di Holden aveva
lasciato la Stazione di Tycho diretta verso il sistema gioviano, procedendo a
velocità moderata. Poteva aver sottoposto un piano di volo all’APE, ma non
aveva informato né la Terra, né Marte di alcunché, il che significava che
anche Nguyen stava sorvegliando il capitano.
Non erano solo spaventati. L’avrebbero fatto fuori.
Avasarala rimase seduta in silenzio per un lungo istante prima di alzarsi e
di tornare alla partita. Cotyar e Bobbie erano giunti alla fine di una mano con
puntate elevate, il che significava che la pila di cioccolatini che stavano
usando al posto delle fiches era alta quasi cinque centimetri.
«Signor Cotyar» disse Avasarala. «Sergente Draper. Con me, prego.»
Le carte svanirono in un batter d’occhio. Gli uomini si scambiarono
occhiate nervose mentre lei tornava nella sua stanza da letto. Una volta
entrati, richiuse cautamente la porta alle loro spalle. Non fece neanche un
minimo scatto.
«Sto per fare qualcosa che potrebbe provocare una reazione» disse. «Se lo
facessi, la natura della nostra situazione potrebbe cambiare radicalmente.»
Cotyar e Bobbie si scambiarono un’occhiata.
«Ho un po’ di cose che vorrei andare a recuperare in stiva» replicò
Bobbie.
«Io istruirò gli uomini» disse Cotyar.
«Dieci minuti.»
Il tempo di ritardo tra la Guanshiyin e la Rocinante era ancora troppo per
poter avere una conversazione, ma comunque meno di quanto non impiegasse
un messaggio per arrivare sulla Terra. La sensazione di essere tanto lontana
da casa le dava un lieve senso di vertigine. Cotyar entrò nella stanza e annuì
una volta. Avasarala aprì il proprio terminale e richiese un collegamento via
raggio diretto. Inserì il codice di transponder della Rocinante. Meno di un
minuto dopo, la connessione le fu negata. Sorrise tra sé e sé e aprì un
collegamento con la plancia di comando.
«Sono la vicesottosegretario Avasarala» disse, come se potesse essere
qualcun altro. «Che cazzo c’è che non va con il vostro raggio diretto?»
«Le mie scuse, signora segretario» rispose un uomo dagli occhi azzurri e
dai capelli biondi tagliati cortissimi. «Questo canale di comunicazione non è
disponibile, al momento.»
«Perché cazzo non lo è?»
«Non è disponibile, signora.»
«Bene. Non volevo farlo via radio, ma posso sempre trasmettere in
generico.»
«Temo che non sia possibile» rispose il ragazzo. Avasarala inspirò a
fondo e lasciò uscire il fiato tra i denti.
«Mi passi il capitano» disse.
Un istante più tardi, l’immagine saltò. Il capitano era un uomo dal viso
allungato, con gli occhi marroni da setter irlandese. La postura della sua
bocca e le labbra sbiancate le fecero capire che quell’uomo sapeva cosa
aspettarsi, almeno in linea generale. Per un istante, Avasarala fissò in camera
senza dire niente. Era un trucco che aveva imparato quando era agli inizi
della sua carriera. Guardare verso l’immagine sullo schermo faceva percepire
all’interlocutore di essere visto. Guardare direttamente nell’occhiolino nero
della lente lo faceva sentire scrutato.
«Capitano. Ho necessità di inviare un messaggio ad alta priorità.»
«Sono desolato. Abbiamo delle difficoltà con il sistema di
comunicazione.»
«Avete un sistema d’emergenza? Una navetta che possiamo utilizzare?
Qualsiasi cosa?»
«Non in questo momento.»
«Lei mi sta mentendo» disse Avasarala. Poi, quando lui non replicò,
aggiunse: «Presento richiesta ufficiale che questo yacht attivi il segnale di
soccorso e cambi rotta verso il porto più vicino.»
«Non posso farlo, signora. Se avrà un po’ di pazienza, la porteremo su
Ganimede sana e salva. Sono certo che qualsiasi riparazione necessaria possa
essere effettuata da lì.»
Avasarala si avvicinò al terminale.
«Posso salire da lei e possiamo discuterne faccia a faccia» disse.
«Capitano, conosce la legislazione bene quanto me. Attivi il segnale di aiuto
o mi dia accesso alle comunicazioni.»
«Signora, lei è ospite di Jules-Pierre Mao, e io rispetto il suo status. Ma il
proprietario di questo velivolo è lui, ed è ai suoi ordini che obbedisco.»
«Quindi la risposta è no.»
«Sono desolato.»
«Stai facendo un grosso errore, testa di cazzo» sbottò Avasarala, e chiuse
il collegamento.
Bobbie entrò nella stanza. Aveva il viso raggiante, e in lei c’era una
brama indefinita, come un cane da corsa che tirava al guinzaglio. La gravità
si modificò di un grado. Una correzione di rotta, non un cambio vero e
proprio.
«Com’è andata?» chiese Bobbie.
«Dichiaro che questo velivolo si trova ora in aperta violazione della legge
e dei regolamenti» disse Avasarala. «Cotyar, ne sei testimone.»
«Sì, signora, signora.»
«E va bene. Bobbie. Dammi il controllo di questa fottuta nave.»
38

Bobbie
«Che altro possiamo fare per te?» le chiese Cotyar. Due dei suoi uomini
stavano spostando la grossa cassa contrassegnata con la scritta ABITI FORMALI
nella stanza di Avasarala. Facevano uso di un grosso carrello per i mobili e
sbuffavano per lo sforzo. Anche nel delicato quarto di g della Guanshiyin, la
corazza di Bobbie pesava più di cento chili.
«Siamo sicuri che questa stanza non sia sotto sorveglianza?» domandò
Bobbie. «Questa cosa funzionerà molto meglio se non hanno idea di quello
che sta succedendo.»
Cotyar si strinse nelle spalle. «Non ci sono dispositivi di spionaggio che
io sia riuscito a individuare.»
«E va bene, allora» replicò Bobbie, picchiettando sulla cassa in
vetroresina con le nocche. «Apritela.»
Cotyar inserì un codice sul suo terminale palmare e i lucchetti si aprirono
con un sonoro scatto. Bobbie tirò via il coperchio e lo appoggiò alla parete.
All’interno della cassa, sospesa in una ragnatela di bande elastiche, c’era la
sua corazza.
Cotyar fece un fischio. «Una Goliath III. Non riesco a credere che te
l’abbiano lasciata tenere.»
Bobbie tolse il casco e lo mise sul letto, poi cominciò a tirare fuori i vari
pezzi dalla rete e li sistemò sul pavimento. «L’hanno data ai vostri tecnici per
permetter loro di verificare alcuni video che aveva registrato. Allorché
Avasarala l’ha fatta cercare, era stata messa in un armadio, a prendere la
polvere. A nessuno è sembrato interessare quando l’ha fatta portare via.»
Tirò fuori il braccio destro della tuta. Non si era aspettata di trovare le
munizioni da due millimetri usate dall’arma integrata nella corazza, ma fu
sorpresa di vedere che avevano completamente rimosso la pistola
dall’alloggiamento. In effetti, rimuovere tutte le armi prima di consegnare la
tuta a un branco di civili aveva senso, cionondimeno la cosa la infastidiva.
«Merda» disse. «Immagino che non potrò sparare a nessuno.»
«Se l’avessi fatto» replicò Cotyar con un sorriso «pensi che i proiettili
avrebbero anche soltanto rallentato, quando avessero perforato entrambe le
chiglie della nave, facendo uscire tutta l’aria al suo interno?»
«No» disse Bobbie, deponendo l’ultimo pezzo della corazza a terra e
prendendo tutti gli attrezzi necessari a rimontarla. «Ma potrebbe essere un
punto a mio favore. L’arma di questo sistema è progettata per abbattere gente
che indossa corazze dello stesso livello. Qualsiasi cosa in grado di perforare
la mia corazza, qui, dovrebbe probabilmente essere in grado di perforare la
nave. Il che significa...»
«Che nessun membro dell’equipaggio di questa nave avrà armi in grado
di perforare la tua corazza» concluse Cotyar. «Come dici tu. Quanti dei miei
uomini vuoi con te?»
«Nessuno» rispose Bobbie, collegando il nuovo pacchetto di batterie sul
retro dell’armatura e ottenendo un’adorabile luce verde che diceva CARICA
100% sul pannello di controllo. «Una volta che avrò dato il via alle danze, la
contromossa più ovvia sarà quella di prendere la vicesottosegretario e tenerla
in ostaggio. Prevenire questa eventualità sarà vostro compito.»
Cotyar sorrise di nuovo. Non c’era gioia sul suo viso.
«Come dici tu.»
Le ci vollero poco meno di tre ore per assemblare e preparare la sua tuta.
Avrebbe dovuto impiegarne soltanto due, ma si perdonò per quell’ora extra
ricordando a sé stessa che era fuori allenamento. Più la tuta era vicina al
completamento, più il nodo che sentiva nello stomaco si stringeva. In parte, si
trattava della naturale tensione che precedeva un combattimento. E il suo
periodo nei marine le aveva insegnato come usarla. Facendo sì che lo stress la
costringesse a ricontrollare ogni cosa tre volte. Una volta che si fosse trovata
in piena azione, sarebbe stato troppo tardi.
Dentro di sé, però, Bobbie sapeva che quella possibile violenza non era
l’unica cosa che le rivoltava lo stomaco. Era impossibile dimenticare quel che
era successo l’ultima volta che aveva indossato quella corazza. Lo smalto
rosso della mimetica marziana era rovinato e graffiato per via dell’esplosione
del mostro e del suo volo a tutta velocità sulla superficie gelata di Ganimede.
Una perdita minima di fluido sul ginocchio le ricordò il soldato Hillman.
Hilly, il suo amico. Ripulendo il visore del casco, le tornò in mente l’ultima
volta che aveva parlato con il tenente Givens, il suo ufficiale di comando,
appena prima che il mostro lo facesse a pezzi.
Quando la tuta fu pronta e messa a terra, aperta e in attesa che Bobbie
salisse al suo interno, lei sentì un brivido risalirle lungo la schiena. Per la
prima volta, l’interno della corazza le sembrò angusto. Sepolcrale.
«No» disse senza rivolgersi a nessuno, se non a sé stessa.
«No?» ripeté Cotyar, seduto sul pavimento accanto a lei, con in mano gli
attrezzi che le sarebbero potuti servire. Era stato talmente silenzioso durante
tutta la procedura di montaggio che Bobbie si era praticamente dimenticata
della sua presenza.
«Non ho paura di tornare a indossarla» disse lei.
«Ah» replicò Cotyar, annuendo; poi ripose gli attrezzi nella loro scatola.
«Come dici tu.»
Bobbie si alzò in piedi e tirò fuori dalla cassa la tuta aderente nera che
indossava sotto l’armatura. Senza pensarci, si spogliò fino a rimanere in
mutande e poi la infilò. Stava tirando fuori i connettori dalla corazza,
cominciando a collegarli ai vari sensori della tuta aderente, quando notò che
Cotyar ora le dava le spalle, e che il suo collo, solitamente di un marrone
chiaro, stava diventando rosso come un peperone.
«Oh» disse. «Scusa. Mi sono spogliata per indossarlo di fronte ai miei
commilitoni tante di quelle volte che ormai non ci penso più.»
«Non c’è motivo di scusarsi» replicò Cotyar senza però voltarsi. «Sono
stato semplicemente colto di sorpresa.»
Arrischiò un’occhiata oltre la spalla e, allorché vide che Bobbie era
completamente coperta dalla tuta aderente, si voltò per aiutarla a collegarla
alla corazza.
«Sei» disse, poi fece una pausa di un secondo. «Incantevole.»
Stavolta fu Bobbie ad arrossire.
«Non eri sposato?» chiese lei con un sorriso, felice di quella distrazione.
Quell’imbarazzo così umano per via di quei segnali di corteggiamento
rendeva il mostro nella sua testa molto più lontano.
«Sì» rispose Cotyar, collegando l’ultimo cavo a un sensore sui reni di lei.
«Eccome. Ma non sono cieco.»
«Grazie» disse Bobbie, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. Dopo
qualche istante di resistenza psicologica ai suoi spazi angusti, si sedette nel
torace aperto della corazza e ci scivolò dentro finché le gambe e le braccia
non furono completamente al suo interno. «Abbottonami.»
Cotyar le richiuse il torace come lei gli aveva insegnato, poi le mise il
casco e lo sigillò. All’interno della tuta, il visore di comando lampeggiò
segnalando la procedura di avvio. Bobbie fu circondata da un ronzio delicato,
quasi subliminale. Attivò il sistema di micromotori e pompe che gestiva
l’esomuscolatura, e poi si mise a sedere.
Cotyar la stava fissando con un punto interrogativo in volto. Bobbie
accese l’altoparlante esterno e disse: «Sì, qui dentro sembra tutto a posto.
Tutto verde.»
Si mise in piedi senza sforzo e percepì la vecchia sensazione di potenza
appena trattenuta attraversarle gli arti. Sapeva che, se si fosse spinta con forza
sulle gambe, avrebbe colpito il soffitto con slancio sufficiente a danneggiarlo
severamente. Un gesto improvviso del suo braccio avrebbe potuto
scaraventare il letto a baldacchino dall’altra parte della stanza o disintegrare
la spina dorsale di Cotyar. Tutto questo la faceva muovere con la deliberata
delicatezza derivante da lunghi anni di addestramento.
Cotyar allungò una mano sotto la giacca e tirò fuori una pistola nera e
affusolata. Bobbie sapeva che la squadra di sicurezza le aveva caricate con
proiettili di plastica a impatto potenziato, che non avrebbero aperto fori nelle
paratie della nave. Era lo stesso tipo di munizioni che avrebbero usato gli
uomini della sicurezza di Mao. Lui fece per porgergliela, poi però notò lo
spessore delle dita corazzate; guardò l’apertura del grilletto, molto più
piccola, e si strinse nelle spalle come a scusarsi.
«Non mi servirà» disse lei. La sua voce suonava dura, metallica, non
umana.
Cotyar sorrise di nuovo.
«Come vuoi tu.»
Bobbie premette il pulsante per chiamare l’ascensore di chiglia, poi
camminò avanti e indietro nell’atrio, lasciando che i suoi riflessi si
riabituassero alla corazza. C’era ancora un ritardo di un nanosecondo tra
l’intenzione di muovere un arto e la reazione dell’esoscheletro. Rendeva
l’atto di camminare vagamente simile a un sogno, come se la volontà di
muovere i propri arti e l’effettivo movimento degli stessi fossero due eventi
separati. Ore di addestramento e uso avevano quasi dominato quella
sensazione una volta indossata la corazza, ma le ci voleva sempre qualche
minuto in movimento per abituarsi a quella stranezza.
Avasarala arrivò nell’atrio dalla stanza che stavano usando come centro di
comunicazione e si sedette al bar. Si versò un bel sorso di gin, poi, in seconda
battuta, ci spremette dentro uno spicchio di lime. La vecchia signora stava
bevendo molto più del solito ultimamente, ma non stava a Bobbie farglielo
notare. Magari l’aiutava a dormire meglio.
Quando, dopo qualche minuto, l’ascensore non arrivò, Bobbie tornò a
passi pesanti verso il pannello e premette il tasto qualche altra volta. Un
piccolo display recitava: FUORI SERVIZIO.
«Diavolo» esclamò Bobbie tra sé e sé. «Ci stanno davvero tenendo
prigionieri.»
Aveva lasciato accesi gli altoparlanti esterni, e la voce dura che proveniva
dalla sua corazza riecheggiò nella stanza. Avasarala non alzò gli occhi dal
suo drink, ma le raccomandò: «Ricordati quello che ti ho detto.»
«Eh?» replicò Bobbie, distrattamente. Risalì con fare goffo la scala
dell’equipaggio fino al portellone del ponte superiore e premette il pulsante.
Il portello si aprì. Questo significava che stavano ancora facendo tutti finta
che non si trattasse di un rapimento. Potevano sempre spiegare l’ascensore
guasto. Giustificare perché mai la vicesottosegretario fosse rimasta chiusa
fuori dal resto della nave sarebbe stato più complicato. Forse pensavano che
una donna sulla settantina sarebbe stata riluttante ad andarsene in giro per la
nave risalendo per le scale di servizio, e che mettere fuori uso l’ascensore
sarebbe stato abbastanza. Poteva darsi che avessero ragione. Avasarala non
sembrava certo in grado di farsi una scalata di sessanta metri, anche se a
bassa gravità.
«Nessuna di queste persone si trovava su Ganimede» disse Avasarala.
«Okay» replicò Bobbie a quell’affermazione apparentemente non
consequenziale.
«Non puoi uccidere abbastanza uomini da riportare in vita il tuo plotone»
concluse Avasarala, scolando l’ultimo goccio di gin, poi allontanandosi dal
bancone del bar e tornando nella sua stanza.
Bobbie non rispose. Si tirò su attraverso il portellone e lasciò che le si
richiudesse alle spalle.
La sua corazza era stata progettata esattamente per quel genere di
missione. Le tute d’assalto di classe Goliath erano state realizzate per i
battaglioni di arrembaggio nel campo delle battaglie navali. Questo
significava che erano state progettate per consentire la massima
manovrabilità negli spazi angusti. Per quanto potesse essere buona la corazza,
sarebbe stata del tutto inutile se il soldato che la indossava non avesse potuto
risalire scale, attraversare portelloni a misura umana e muoversi agilmente in
condizioni di microgravità.
Bobbie risalì la scala fino al portellone successivo e premette il pulsante.
La console a parete rispose con una luce di allarme rossa. Bastarono pochi
secondi all’interno del menu del pannello per scoprire il perché: avevano
parcheggiato l’ascensore di servizio proprio sopra il portello e l’avevano
disabilitato, creando una barricata. E questo significava che avevano capito
che stava succedendo qualcosa.
Bobbie si guardò intorno nella stanza, un altro atrio pensato per il relax,
praticamente identico a quello che aveva appena lasciato, finché non trovò il
posto più probabile in cui potevano aver nascosto le loro telecamere. Fece un
saluto. Non mi fermerete così, ragazzi.
Tornò di sotto ed entrò nel lussuoso bagno della suite. Su una nave tanto
bella, non poteva certo definirsi un bagno di testa. Pochi istanti di sondaggio
bastarono a rivelarle il portello di servizio della paratia. Era chiuso. Bobbie lo
strappò via dalla parete.
Dall’altra parte c’era un groviglio di tubature e un angusto corridoio,
ampio a malapena quanto bastava per lasciar passare la sua corazza. Bobbie
ci si infilò dentro e costeggiò le tubature per due ponti, poi divelse un altro
portello di servizio con un calcio e tornò dentro. Il compartimento si rivelò
essere una cambusa secondaria, con una fila di stufe e fornelli lungo una
parete, diverse unità refrigeranti e un sacco di spazio di lavoro, il tutto in
lucido acciaio inossidabile.
La sua corazza l’avvertì che qualcuno la stava prendendo di mira, e
cambiò le impostazioni del visore in modo che le tracce infrarosse,
normalmente invisibili, che le stavano puntando addosso diventassero sottili
linee rosse. Ce n’erano una mezza dozzina che le finivano sul petto, tutte
provenienti da armi compatte impugnate dal personale di sicurezza della
Mao-Kwik dall’altra parte della sala.
Bobbie si alzò in piedi. Gli scagnozzi non indietreggiarono. Il visore fece
una rapida scansione nella banca dati delle armi e la informò che quegli
uomini erano armati di mitragliette da 5mm con una capacità standard di
trecento proiettili e una cadenza di fuoco di dieci pallottole al secondo. A
meno che non stessero usando proiettili perforanti esplosivi, il che era
improbabile, con la paratia della nave proprio alle spalle di Bobbie, la corazza
classificò il loro livello di pericolosità come minimo.
Bobbie si assicurò che gli altoparlanti esterni fossero ancora accesi e
disse: «Okay, ragazzi, vediamo di...»
Quelli aprirono il fuoco.
Per un lungo secondo, l’intera cambusa fu in preda al caos. Una pioggia
di proiettili di plastica a impatto elevato le rimbalzò sulla corazza,
deflettendosi sulle paratie e disperdendosi per la sala. Mandarono in frantumi
contenitori di cibo essiccato, strappando pentole e padelle dai loro ganci
magnetici e scaraventando per aria gli utensili più piccoli, in una nube di
schegge di acciaio inossidabile e plastica. Un proiettile ebbe un rimbalzo
particolarmente sfortunato e colpì una delle guardie al centro del naso,
aprendogli un foro nella testa e facendolo stramazzare al suolo con
un’espressione quasi comica di sorpresa sul volto.
Prima che potessero passare due secondi, Bobbie era già in movimento,
lanciandosi oltre l’isola d’acciaio inox al centro della sala e piombando
addosso con le braccia spalancate a tutte e cinque le guardie rimaste, come un
giocatore di rugby impegnato in un placcaggio. Quelle furono scaraventate
addosso alla paratia di fondo con un tonfo carnoso, poi si accasciarono a terra
e lì rimasero, immobili. La sua corazza cominciò a elaborare i loro indicatori
di segnale vitale sul visore, ma lei li spense senza nemmeno guardarli. Non
voleva sapere. Uno degli uomini si mosse, poi fece per alzare la sua pistola.
Bobbie gli diede una spintarella leggera e quello volò dall’altra parte della
stanza, accasciandosi contro la paratia. Non si mosse più.
Bobbie si guardò intorno nella sala, alla ricerca di telecamere. Non ne
trovò ma sperò che ce ne fossero comunque. Se avessero visto quella scena,
forse avrebbero evitato di mandarle contro altre persone.
Arrivata in fondo alla scala di chiglia, scoprì che avevano bloccato
l’ascensore manomettendo il portellone del ponte e tenendolo aperto con un
piede di porco. I protocolli di sicurezza di base della nave non avrebbero
permesso all’ascensore di spostarsi da un ponte all’altro finché il ponte
superiore non fosse stato sigillato. Bobbie afferrò il piede di porco e lo tirò
via lanciandolo attraverso la sala, poi premette il pulsante di chiamata.
L’ascensore risalì su per la sua colonna e si fermò davanti a lei. Bobbie saltò
dentro e premette il pulsante che l’avrebbe portata in plancia, otto ponti più
su. Altri otto portelloni pressurizzati.
Altre otto possibili imboscate.
Strinse le mani a pugno finché le nocche non le tirarono dolorosamente
all’interno dei guanti corazzati. Fatevi sotto.
Tre ponti più sopra, l’ascensore si fermò e il pannello di controllo la
informò che tutti i portelloni pressurizzati erano stati manomessi e aperti a
forza. Erano disposti a rischiare un buco nella nave, svuotandola di metà
della sua aria, piuttosto che lasciarla salire fino in plancia. In un certo qual
modo, era gratificante essere considerati più spaventosi di una
decompressione improvvisa.
Bobbie scese dall’ascensore su un ponte che sembrava essere riservato
perlopiù agli alloggi dell’equipaggio, e che doveva essere stato evacuato.
Non c’era un’anima in giro. Una rapida ricognizione rivelò che c’erano
dodici piccole cabine e due bagni che potevano, questi sì, essere definiti
bagni di testa. Niente rifiniture in oro per i servizi dell’equipaggio. Niente
bancone da bar. Niente servizio di catering ventiquattr’ore su ventiquattro.
Osservare le condizioni di vita decisamente spartane del membro di
equipaggio medio della Guanshiyin le impresse nella mente le ultime parole
di Avasarala. Erano soltanto marinai. Nessuno di loro meritava di morire per
quello che era successo su Ganimede.
Bobbie si scoprì contenta di non avere una pistola.
Trovò un altro pannello di accesso nel bagno di testa e lo strappò via. Con
sua sorpresa, il corridoio di servizio terminava pochi metri più su. C’era
qualcosa, nella struttura della nave, che la stava tagliando fuori. Non avendo
mai visto la Guanshiyin dall’esterno, Bobbie non aveva idea di cosa potesse
essere. Ma aveva bisogno di salire per altri cinque ponti, e non aveva
intenzione di permettere che questo la fermasse.
Una perlustrazione di una decina di minuti rivelò un pannello di servizio
attraverso lo scafo esterno. Aveva strappato via altri due pannelli di servizio
dello scafo interno su due ponti differenti, per cui, se avesse aperto quello che
aveva davanti, quei due ponti avrebbero perso tutto l’ossigeno. Ma il
corridoio della scala centrale era sigillato all’altezza del ponte di Avasarala,
per cui i suoi sarebbero stati bene. E il motivo per cui stava facendo tutto
questo era il portello sigillato che portava ai ponti superiori, dove sembrava
esserci la maggior parte dell’equipaggio.
Pensò ai sei uomini giù nella cambusa e sentì una stretta al cuore. Certo,
avevano sparato per primi, ma, se qualcuno di loro era ancora vivo, Bobbie
non aveva nessuna voglia di asfissiarlo nel sonno.
Si rivelò non essere un problema. Il pannello portava in una piccola
camera di compressione, grande più o meno quanto un armadietto. Un minuto
dopo, la camera aveva completato il ciclo di decompressione e Bobbie era
salita sullo scafo esterno della nave.
Aveva un triplo scafo. Naturalmente. Il signore e padrone dell’impero
Mao-Kwik non avrebbe mai affidato la sua costosa pellaccia a qualcosa che
non fosse stato ciò che di più sicuro erano in grado di costruire gli umani. E
le decorazioni appariscenti della nave si estendevano anche allo scafo
esterno. Laddove la maggior parte delle navi militari erano dipinte di un nero
opaco che le rendeva difficili da individuare visivamente nello spazio, la
maggioranza di quelle civili venivano lasciate di un grigio senza fronzoli o
dipinte con i colori base delle compagnie a cui appartenevano.
La Guanshiyin aveva un murale a colori vivaci dipinto sulla fiancata.
Bobbie era troppo vicina per vedere di che si trattasse, ma, sotto i suoi piedi,
c’era quella che sembrava essere dell’erba, su cui poggiavano gli zoccoli di
un cavallo gigantesco. Mao aveva fatto dipingere lo scafo della sua nave con
un murale che includeva cavalli ed erba. Quando non l’avrebbe mai visto
praticamente nessuno.
Bobbie si assicurò che i magneti e i guanti della corazza fossero impostati
con forza sufficiente da riuscire a gestire il quarto di g a cui la nave
continuava a procedere, e cominciò a risalire sulla fiancata. Raggiunse
rapidamente il punto in cui aveva visto terminare il corridoio di servizio tra i
due scafi, e vide che era una baia di attracco vuota. Se soltanto Avasarala le
avesse permesso di fare tutto questo prima che Mao se ne fosse andato con la
navetta...
Triplo scafo, pensò Bobbie. Il massimo dell’eccesso.
D’istinto, procedette carponi lungo lo scafo fino all’altro lato.
Prevedibilmente, c’era un’altra baia d’attracco. Ma la nave che vi era
ormeggiata non era una navetta standard a corto raggio. Era lunga e
affusolata, con l’alloggiamento dei motori due volte più grande di quello di
una nave normale della sua taglia. Sulla prua della nave, scritto in splendide
lettere rosse, c’era il nome Razorback.
Una pinaccia da corsa.
Bobbie tornò indietro verso la baia di attracco vuota e usò la camera
stagna per entrare nella nave. Con sua grande sorpresa, i codici di accesso
militare che la sua corazza inviò al portellone pressurizzato funzionarono. Il
portello conduceva al ponte appena sotto la plancia, che veniva usato per
stivare il carico di riserva e manutenzione della navetta. Al centro del ponte
c’era un grosso spazio di officina meccanica. Al suo interno stavano il
capitano della Guanshiyin con i suoi ufficiali superiori. Non c’erano né
personale di sicurezza, né armi in vista.
Il capitano si picchiettò sull’orecchio con l’indice, l’antico segno per
chiedere ‘Puoi sentirmi?’. Bobbie annuì una volta, poi riaccese gli
altoparlanti esterni e disse: «Sì.»
«Non siamo militari» dichiarò il capitano. «Non siamo in grado di
difenderci contro apparecchiature militari. Ma non vi consegnerò questa nave
senza prima conoscere le vostre intenzioni. Il mio vicecomandante si trova
sul ponte sopra di noi, pronto a far saltare in aria la nave se non riuscissimo a
trovare un accordo.»
Bobbie gli sorrise, anche se non era certa che il capitano potesse vederla
attraverso il casco. «State detenendo illegalmente un membro di alto rango
del governo delle Nazioni Unite. In qualità di membro della sua squadra di
sicurezza, sono qui per esigere che la trasportiate immediatamente nel porto
di sua scelta, alla massima velocità possibile.»
Poi fece spallucce con le mani, alla maniera dei cinturiani. «Oppure
potete farvi saltare in aria. A me parrebbe una reazione un tantino esagerata
rispetto al restituire alla vicesottosegretario i suoi privilegi radio.»
Il capitano annuì e si rilassò visibilmente. Qualunque cosa fosse accaduta
dopo, non aveva scelta. E, visto che non aveva scelta, non aveva nemmeno
alcuna responsabilità. «Stavamo soltanto eseguendo degli ordini. Lo scriva
nel registro quando prenderete il comando.»
«Mi assicurerò che lo sappia.»
Il capitano annuì di nuovo. «Dunque la nave è vostra, ora.»
Bobbie aprì la linea con Cotyar. «Abbiamo vinto. Passami Sua maestà,
per cortesia.»
Mentre aspettava di parlare con Avasarala, Bobbie disse al capitano: «Ci
sono sei uomini della sicurezza feriti sul ponte inferiore. Inviate loro una
squadra medica.»
«Bobbie?» disse Avasarala nel canale radio.
«La nave è sua, signora.»
«Fantastico. Di’ al capitano che dobbiamo far rotta alla massima velocità
possibile per intercettare Holden. Arriveremo da lui prima di Nguyen.»
«Uhm, siamo su uno yacht da crociera. È progettato per procedere a basso
g, per il massimo comfort. Scommetto che è in grado di andare a pieno g, se
necessario, ma dubito che possa volare molto più veloce.»
«L’ammiraglio Nguyen sta per ammazzare tutti quelli che potrebbero
davvero sapere che cazzo sta succedendo.» Avasarala non urlò, ma quasi.
«Non abbiamo tempo di farci una crociera del cazzo come se stessimo
andandocene a passeggio a rimorchiare gigolò!»
«Uhm» disse Bobbie. Poi, un attimo dopo aggiunse: «Se è una corsa, so
dove trovare una nave da corsa...»
39

Holden
Holden si versò una tazza di caffè dalla caffettiera della cambusa, e un
forte aroma riempì la stanza. Si sentiva gli occhi dell’equipaggio puntati sulla
schiena. Una sensazione quasi fisica. Li aveva convocati tutti lì e, una volta
riunitisi e seduti, aveva dato loro le spalle e aveva cominciato a farsi il caffè.
Sto prendendo tempo perché ho dimenticato in che modo volevo dirglielo.
Mise dello zucchero nel suo caffè anche se di solito lo beveva sempre nero,
soltanto perché girarlo gli avrebbe fatto guadagnare qualche secondo in più.
«Allora. Chi siamo?» domandò mentre mescolava il suo caffè.
La sua domanda andò incontro al silenzio, per cui si voltò e si appoggiò al
bancone, tenendo in mano la tazza di caffè che non voleva e continuando a
girarlo.
«Seriamente» disse. «Chi siamo? È la domanda che continuo a farmi.»
«Uhm» fece Amos, spostandosi sulla sedia. «Io mi chiamo Amos, cap. Ti
senti bene?»
Nessun altro parlò. Alex fissava il tavolo che aveva davanti, con il cranio
lucido attraverso i capelli radi, sotto le luci bianche e impietose della
cambusa. Prax era seduto sul bancone accanto al lavandino e si guardava le
mani. Le fletteva di tanto in tanto, come se stesse cercando di capire a cosa
potessero servire.
Naomi era l’unica a guardare Holden. Aveva i capelli raccolti in una coda
di cavallo stretta, e i suoi occhi scuri, quasi a mandorla, puntavano dritti in
quelli del capitano. Era piuttosto sconcertante.
«Di recente ho capito qualcosa di me stesso» continuò Holden, senza
lasciare che lo sguardo fisso di Naomi lo destabilizzasse. «Vi ho trattato tutti
come se mi doveste qualcosa. E nessuno di voi mi deve niente. Il che
significa che vi ho trattato di merda.»
«No» rispose Alex, senza alzare lo sguardo.
«Sì» ribatté Holden, e si fermò finché il pilota non lo guardò. «Sì. Te più
di chiunque altro, forse. Perché ero spaventato a morte, e i codardi cercano
sempre un bersaglio facile. Tu sei la persona più gentile che conosca, Alex.
Perciò ti ho trattato male, perché sapevo che potevo farla franca. E spero che
vorrai perdonarmi per questo, perché detesto l’idea di averlo fatto.»
«Certo che ti perdono, cap» disse Alex con un sorriso, nel suo accento
sbiascicato.
«Cercherò di guadagnarmi il tuo perdono» replicò Holden, contrariato da
quella risposta facile. «Ma Alex mi ha detto un’altra cosa, di recente, che mi
ha fatto riflettere molto. Mi ha ricordato che nessuno di voi è un impiegato.
Non siamo sulla Canterbury. Non lavoriamo più per la Pur’n’Kleen. E questa
nave non è più mia di quanto non sia vostra. Abbiamo accettato i contratti
con l’APE in cambio di denaro e per coprire i costi della nave, ma non
abbiamo mai parlato di come gestire i soldi in eccesso.»
«Hai aperto quel conto» disse Alex.
«Già, c’è un conto bancario con dentro tutti i soldi guadagnati. L’ultima
volta che ho controllato, c’erano poco meno di ottanta testoni. Dissi che li
avremmo dovuti tenere per coprire i costi della nave, ma chi sono io per
prendere una decisione del genere per tutti voi? Non sono i miei soldi. Li
abbiamo guadagnati tutti insieme.»
«Ma il capitano sei tu» obiettò Amos, poi indicò la caffettiera.
Mentre Holden gli riempiva la tazza, disse: «Lo sono davvero? Ero il
vicecomandante sulla Canterbury. E, dopo la sua distruzione, mi sembrava
sensato essere io il capitano.»
Porse la tazza ad Amos e si sedette al tavolo con il resto dell’equipaggio.
«Ma è da tanto tempo che non siamo più gli stessi di una volta. Ora siamo
soltanto quattro persone che non lavorano per nessuno, in realtà...»
A quelle parole, Prax si schiarì la gola e Holden annuì in segno di scuse.
«Nessuno sul lungo termine, diciamo. Non ci sono compagnie o governi che
mi diano autorità su questo equipaggio. Siamo soltanto quattro persone in
possesso, se così si può dire, di una nave che Marte cercherà probabilmente
di riprendersi non appena ne avrà l’occasione.»
«Abbiamo un legittimo diritto di recupero» disse Alex.
«E spero che i marziani ti troveranno convincente, quando glielo
spiegherai» replicò Holden. «Ma comunque, il punto non cambia: chi
siamo?»
Naomi annuì con il pugno chiuso. «Capisco quello che vuoi dire.
Abbiamo lasciato molti di questi discorsi in sospeso per via del fatto che non
ci siamo fermati un attimo a partire dalla faccenda della Canterbury.»
«E ora» disse Holden «è il momento perfetto per risolvere queste
questioni. Abbiamo un contratto per aiutare Prax a ritrovare la sua bambina, e
ci sta pagando per poterci permettere di operare con questa nave. Una volta
salvata Mei, come troveremo il prossimo incarico? Vogliamo cercare un
prossimo incarico? Vogliamo vendere la Roci all’APE e ritirarci su Titano?
Credo che sarebbe il caso di sapere queste cose.»
Nessuno parlò. Prax si spinse giù dal bancone e cominciò a frugare nei
pensili. Dopo un minuto o due, tirò fuori un pacchetto con su scritto PUDDING
AL CIOCCOLATO e disse: «Posso farlo?»
Naomi scoppiò a ridere. Alex disse: «Fai come se fossi a casa tua, doc.»
Prax tirò fuori una tazza e cominciò a mischiare gli ingredienti.
Stranamente, nel momento in cui il botanico aveva spostato altrove la sua
attenzione, si era creata una sorta di bolla d’intimità per l’equipaggio.
L’estraneo faceva cose estranee, lasciandoli parlare tra loro. Holden si chiese
se Prax lo sapesse e lo stesse facendo di proposito.
Amos si scolò l’ultimo sorso di caffè e disse: «Sei stato tu a convocare
questa riunione, cap. Hai qualcosa in mente?»
«Già» ammise Holden. «Sì, più o meno.»
Naomi gli posò una mano sul braccio e gli sorrise. «Siamo tutt’orecchi.»
«Stavo pensando che potremmo sposarci» disse lui, facendole
l’occhiolino. «Fare tutto per bene e secondo la norma.»
«Aspetta un momento» replicò lei. L’espressione che aveva in viso era
più orripilata di quel che aveva sperato Holden.
«No, no, è una sorta di finta» spiegò il capitano. «Ma soltanto in parte.
Vedi, stavo pensando ai miei genitori. Hanno instaurato la loro relazione
collettiva iniziale per via della fattoria. Erano tutti amici, volevano comprare
la proprietà in Montana, e così hanno creato un gruppo sufficientemente
grande da poterselo permettere. Non era una cosa sessuale. Papà Tom e papà
Caesar erano già partner e monogami. Mamma Tamara era single. Papà
Joseph e Anton, e mamma Elise e Sophie erano già in unione poliamorosa
civile. Papà Dimitri si è unito un mese più tardi, quando ha cominciato a
frequentare Tamara. Hanno formato un’unione civile per condividere la
proprietà della fattoria. Non sarebbero stati in grado di permetterselo, se
ognuno di loro avesse dovuto pagare le tasse per i propri bambini, per cui mi
concepirono in gruppo.»
«La Terra» osservò Alex «è un posto dannatamente strano.»
«Otto genitori per un bambino non è una cosa propriamente comune» gli
fece eco Amos.
«Ma è economicamente sensato, con la tassa sulle nascite» disse Holden.
«Per cui non è nemmeno qualcosa di tanto inconsueto.»
«E che mi dici della gente che fa bambini e non paga le tasse?» chiese
Alex.
«È una cosa più difficile da fare di quanto tu non creda» replicò Holden.
«A meno che tu non vada mai da un dottore o che faccia uso soltanto di
mercati neri.»
Amos e Naomi si scambiarono una rapida occhiata, che il capitano fece
finta di non vedere.
«Okay» proseguì Holden. «Lasciamo perdere i bambini per un istante.
Quello di cui vi sto parlando è di incorporarci. Se dobbiamo rimanere
insieme, facciamolo legalmente. Possiamo fare una bozza dei documenti
d’incorporazione presso una delle stazioni dei pianeti esterni indipendenti,
come Ceres o Europa, e diventare proprietari congiunti di questa impresa.»
«E che cosa farebbe, esattamente, la nostra piccola compagnia?» chiese
Naomi.
«È proprio questo il punto» replicò Holden, raggiante.
«Uhm» disse di nuovo Amos.
«Voglio dire... è esattamente ciò di cui stavo parlando» continuò Holden.
«Chi siamo? Che cosa vogliamo fare? Perché, quando questo contratto con
Prax sarà giunto al termine, il conto in banca sarà bello rimpinguato, saremo
proprietari di una nave da guerra di alta tecnologia e saremo liberi di fare ciò
che più ci pare e piace.»
«Cristo, cap» esclamò Amos. «Mi è venuta una mezza erezione.»
«Bella storia, vero?» rispose Holden con un sorriso.
Prax smise di mischiare gli ingredienti nel contenitore e lo infilò nel
congelatore. Si voltò e li guardò con i movimenti cauti di chi aveva paura di
sentirsi chiedere di andarsene se qualcuno avesse notato la sua presenza.
Holden gli si fece accanto e gli passò un braccio attorno alle spalle. «Il nostro
amico Prax non può certo essere l’unico che ha bisogno di ingaggiare una
nave del genere, dico bene?»
«Siamo più rapidi e cazzuti di qualsiasi cosa possa rimediare un civile»
sostenne Alex, annuendo.
«E, quando troveremo Mei, avrà la massima copertura che si possa
sperare» disse Holden. «Quale miglior pubblicità potremmo avere?»
«Ammettilo, cap» intervenne Amos. «La verità è soltanto che ti piace
essere famoso.»
«Se la cosa ci rimedia da lavorare, eccome.»
«Abbiamo molte più probabilità di finire sul lastrico, senz’aria e alla
deriva nello spazio, morti» disse Naomi.
«Questa è pur sempre una possibilità» ammise Holden. «Ma, ragazzi, non
vi andrebbe di diventare capi di voi stessi, tanto per cambiare? Se
scoprissimo di non riuscire a farcela da soli, potremmo sempre rivendere la
nave per una somma gigantesca di denaro e andarcene ognuno per la propria
strada. Avremmo un piano di riserva.»
«Sì» disse Amos. «Cazzo, sì. Facciamolo. Da dove cominciamo?»
«Be’,» rispose Holden «questa è un’altra novità. Credo che dovremmo
votare. Nessuno di noi è proprietario della nave, per cui secondo me d’ora in
poi dovremmo ricorrere al voto per i casi più importanti, come questo.»
Amos disse: «Quelli a favore della creazione di una compagnia per
gestire il possesso della nave, alzino le mani.»
Con grande piacere di Holden, alzarono tutti le mani. Perfino Prax
cominciò a farlo, poi si rese conto di quello che stava facendo e rimise giù la
propria.
«Cercherò un legale su Ceres e comincerò a riempire le scartoffie» disse
Holden. «Ma questo ci porta a un’altra questione. Una compagnia può
possedere una nave, ma non può essere registrata come ‘capitano’. Dovremo
votare per decidere chi sarà a detenere la carica.»
Amos scoppiò a ridere. «Ah, ma falla finita. Alzate una mano se Holden
non è il capitano.»
Nessuno alzò la mano.
«Visto?» disse Amos.
Holden fece per parlare ma si fermò quando sentì qualcosa bloccarglisi in
gola, appena dietro lo sterno.
«Senti,» concluse Amos, con viso gentile «sei tu e basta.»
Naomi annuì e sorrise a Holden, il che non fece altro che accrescere
piacevolmente il nodo che si sentiva nel petto. «Io sono un ingegnere» disse
lei. «Non c’è un programma, su questa nave, che non abbia modificato o
riscritto, e probabilmente a questo punto sarei in grado di smontarla e
rimontarla da sola. Ma non so bluffare a carte. E non potrei mai essere quella
che guarda in faccia le due marine militari dei pianeti interni per dir loro:
‘Toglietevi dai piedi.’»
«Proprio così» confermò Alex. «E io voglio soltanto pilotare la mia
ragazza. Tutto qui. Se posso fare questo, sono felice.»
Holden fece per parlare ma, con sua sorpresa e imbarazzo, nel momento
in cui aprì la bocca, si sentì salire le lacrime agli occhi. Fu salvato da Amos.
«Io sono soltanto un meccanico» disse. «Frugo tra gli attrezzi. E in linea
generale aspetto che sia Naomi a dirmi quando e dove frugare. Non ho
nessuna voglia di gestire qualcosa di più grosso di quell’officina. Sei tu
quello che sa parlare. Ti ho visto affrontare Fred Johnson, capitani delle
Nazioni Unite, cowboy dell’APE e pirati spaziali imbottiti di droghe. Parleresti
meglio tu con le chiappe di quanto non sappia fare la maggior parte della
gente usando la bocca e da sobria.»
«Grazie» rispose Holden alla fine. «Vi voglio bene, ragazzi. Lo sapete,
vero?»
«Per di più» continuò Amos «nessuno, su questa nave, si darà più da fare
per beccarsi una pallottola al posto mio. E questa è una caratteristica che
trovo piuttosto accattivante, in un capitano.»
«Grazie» ripeté Holden.
«Mi pare che la faccenda sia sistemata» disse Alex, alzandosi e
dirigendosi verso la scala. «Vado a verificare che non ci stiamo per schiantare
contro un asteroide o roba del genere.»
Holden lo guardò mentre si allontanava e fu gratificato nel vedere che il
pilota si asciugò le lacrime dagli occhi non appena fu fuori dalla stanza. Era
più accettabile essere un bambinone piagnucoloso quando lo erano anche tutti
gli altri.
Prax gli diede un’impacciata pacca sulla spalla e disse: «Tornate in
cambusa tra un’oretta. Il pudding sarà pronto.» Poi uscì e andò nella sua
cabina. Stava già leggendo i messaggi sul suo terminale palmare mentre
richiudeva la porta.
«Okay» esclamò Amos. «E ora che si fa?»
«Amos» disse Naomi, alzandosi e andandosi a mettere di fronte a Holden.
«Per favore, occupati tu della plancia per un po’.»
«Ricevuto» replicò Amos, con un sorriso nella voce. Risalì per la scala e
scomparve; il portellone pressurizzato si aprì al suo passaggio e si richiuse
alle sue spalle.
«Ciao» disse Holden. «Ho fatto bene?»
Lei annuì. «Mi sento come se ti avessi ritrovato. Avevo paura di non
rivederti mai più.»
«Se non mi avessi tirato fuori da quella fossa che mi stavo scavando con
le mie stesse mani, non ci saremmo più rivisti.»
Naomi si sporse per baciarlo; lui l’avvolse tra le braccia e la tirò forte a
sé. Quando smisero di respirare, Holden disse: «È troppo presto?»
Lei rispose «Sta’ zitto» e lo baciò di nuovo. Senza interrompere il bacio,
staccò il corpo dal suo e cominciò ad armeggiare con la lampo della sua tuta.
Quelle ridicole tute militari marziane, che avevano trovato già sulla nave, con
il nome Tachi stampato a stencil sulla schiena. Ora che stavano per avere la
loro compagnia privata, avrebbero dovuto trovare qualcosa di meglio. In
effetti le tute avevano senso, per la vita a bordo di una nave, con tutte quelle
variazioni di gravità e le parti meccaniche unte e piene di grasso. Ma ci
voleva qualcosa fatto su misura per ciascuno di loro, e con i loro colori. Con
la scritta Rocinante sulla schiena.
La mano di Naomi s’infilò nella tuta e sotto la maglietta di Holden, il
quale smise di pensare alla questione delle scelte di uniforme.
«Nella mia cabina o nella tua?» le chiese.
«Hai una cabina tutta tua, tu?»
Non più.
Fare l’amore con Naomi era sempre stato diverso che con tutte le altre. In
parte era una questione fisica. Lei era l’unica cinturiana con cui fosse mai
stato, e questo significava che lei era fisiologicamente diversa, per certi
aspetti. Ma per Holden non era quella la parte più importante. Ciò che la
rendeva diversa, era il fatto che fossero stati amici per cinque anni, prima di
andare a letto insieme.
Non deponeva a favore del suo carattere, e la cosa gli faceva storcere il
naso quando ci ripensava adesso, ma era sempre stato piuttosto superficiale
per quanto riguardava il sesso. Sceglieva una potenziale partner sessuale
appena pochi minuti dopo aver conosciuto una donna e, visto che era carino e
affascinante, solitamente otteneva sempre quelle a cui era interessato. Era
sempre stato rapido nel permettersi di scambiare un’infatuazione per vero
affetto. Uno dei suoi ricordi più dolorosi era il giorno in cui Naomi
gliel’aveva detto chiaro e tondo. Gli aveva messo sotto il naso quel giochino
in cui convinceva sé stesso che aveva davvero a cuore le donne con cui
andava a letto, per evitare di sentirsi come se le stesse usando.
Ma era quello che aveva fatto. Il fatto che le donne lo usavano a loro
volta non lo faceva comunque sentire meglio.
Dato che Naomi era così fisicamente diversa dall’ideale che gli era stato
inculcato crescendo sulla Terra, Holden non l’aveva semplicemente vista
come una potenziale partner sessuale quando l’aveva incontrata per la prima
volta. E questo significava che aveva potuto conoscerla come persona senza
tutto quel bagaglio di desiderio fisico che di solito si portava appresso.
Quando i suoi sentimenti per lei erano andati oltre l’amicizia, ne era stato
sorpreso.
E, in qualche modo, quel fatto cambiava ogni cosa per quanto riguardava
il sesso. I movimenti potevano anche essere sempre gli stessi, ma il desiderio
di comunicare amore, piuttosto che di dimostrare la propria abilità tra le
lenzuola, cambiava il senso di ogni cosa. Dopo la loro prima volta insieme,
era rimasto sdraiato sul letto per ore, sentendosi come se l’avesse sempre
fatto nella maniera sbagliata, per anni, e se ne fosse accorto soltanto in quel
momento.
E ora gli stava capitando la stessa cosa.
Naomi dormiva su un fianco accanto a lui, con un braccio attorno al suo
petto e una coscia di traverso sulle sue, la pancia appoggiata alla sua anca e il
seno al costato. Non era mai stato così con nessuna, prima di lei, ed era così
che doveva essere. Quella sensazione di agio e appagamento assoluti. Poteva
immaginarsi un futuro in cui non fosse riuscito a provare che era cambiato, e
in cui lei non fosse mai tornata da lui. Poteva figurarsi anni e decenni di
partner diverse, alla continua ricerca di quella sensazione senza mai riuscire a
ritrovarla, perché, ovviamente, non si trattava soltanto di sesso.
Pensarci gli fece venire una fitta allo stomaco.
Naomi parlò nel sonno. Le sue labbra gli sussurrarono qualcosa di
misterioso sul collo, e quel formicolio improvviso lo svegliò abbastanza da
rendersi conto che si stava cominciando a addormentare. Le abbracciò il
capo, stringendoselo al petto, e le diede un bacio tra i capelli; poi rotolò su un
fianco dalla sua parte e si lasciò andare al sonno.
Il pannello a parete sopra il letto ronzò.
«Chi è?» chiese Holden, sentendosi improvvisamente più stanco di
quanto non ricordasse di essere mai stato. Aveva chiuso gli occhi appena un
secondo prima, e sapeva che non sarebbe stato in grado di riaprirli ora.
«Sono io, cap» rispose Alex. Holden avrebbe voluto gridargli addosso,
ma non riuscì a trovare la forza.
«Okay.»
«Devi vedere questa roba» fu tutto ciò che disse Alex, ma qualcosa nel
suo tono di voce fece svegliare Holden del tutto. Si tirò su a sedere,
spostando il braccio di Naomi. Lei disse qualcosa nel sonno ma non si destò.
«Okay» ripeté lui, accendendo lo schermo.
Un’anziana donna dai capelli bianchi e dagli strani tratti somatici lo fissò
dal monitor. La mente frastornata del capitano impiegò un paio di secondi per
rendersi conto che la donna non era deformata, ma soltanto schiacciata per
effetto di un’elevata accelerazione. Con voce distorta dalla velocità di
accelerazione che le premeva sulla trachea, lei disse: «Il mio nome è Chrisjen
Avasarala. Sono la vicesottosegretario dell’esecutivo delle Nazioni Unite. Un
ammiraglio delle Nazioni Unite ha inviato sei cacciatorpedinieri di classe
Munroe dal sistema gioviano, con il compito di distruggere la vostra nave.
Tracci il codice di questo transponder e venga a incontrarmi, oppure morirà
insieme a tutti i suoi compagni di viaggio. Questo non è uno scherzo del
cazzo.»
40

Prax
L’accelerazione lo teneva premuto sul sedile. Erano soltanto 4 g, ma
anche un singolo g richiedeva praticamente l’intera dose di farmaci. Prax
aveva vissuto in un luogo che l’aveva reso debole. Ne era stato consapevole,
naturalmente, ma più che altro in termini di xilema e floema. Aveva assunto i
normali integratori per incoraggiare la crescita ossea a bassa gravità. Aveva
fatto esercizio esattamente come richiesto dalle linee guida. Solitamente. Ma,
in fondo, aveva sempre pensato che fosse un’idiozia. Era un botanico.
Sarebbe vissuto e morto in quei tunnel familiari, con la loro comoda gravità –
meno di un quinto rispetto alla Terra. Una Terra su cui non avrebbe mai
avuto motivo di andare. E c’erano ancora meno motivi per cui avrebbe avuto
bisogno di dover sopportare le sofferenze di un’accelerazione di gravità
elevata. E invece eccolo lì, sdraiato nel gel come se si trovasse sul fondo di
un oceano. Aveva la vista offuscata, e lottava a ogni respiro. Quando il suo
ginocchio si iperestese, cercò di gridare ma non riuscì a prendere fiato.
Gli altri sarebbero stati meglio. Erano abituati a situazioni del genere.
Sapevano che sarebbero sopravvissuti. Il suo cervelletto, invece, non ne era
del tutto sicuro. Degli aghi gli si piantarono nella carne della coscia,
iniettandogli un’altra miscela di ormoni e farmaci paralitici. Un freddo simile
al tocco del ghiaccio si diffuse dai punti di iniezione, e una paradossale
sensazione di sollievo e timore gli riempì la mente. Arrivato a quel punto, per
i suoi vasi sanguigni si trattava di rimanere in equilibrio tra un’elasticità
sufficiente a far sì che non esplodessero e una rigidità necessaria a evitare che
collassassero. La sua mente scivolò via, lasciando al suo posto qualcosa di
più razionale e distaccato. Era una sorta di pura funzione esecutiva, privata
del sé. Ciò che era stata la sua mente sapeva quel che aveva saputo lui,
ricordava le cose che ricordava lui, ma non era lui.
Nel suo stato di coscienza alterata, si ritrovò a fare un inventario. Gli
sarebbe andato bene morire adesso? Voleva vivere, e, se sì, a che condizioni?
Considerò la perdita di sua figlia come se si fosse trattato di un oggetto fisico.
La perdita era del delicato rosa di una conchiglia schiacciata, laddove un
tempo era stata rossa come vecchio sangue incrostato. Rossa come un
cordone ombelicale che aspettava solo di cadere. Ricordò Mei, ricordò il suo
aspetto. La gioia nella sua risata. Non era più così. Sempre che fosse viva.
Ma probabilmente era morta.
Sorrise, nella sua mente piegata dalla gravità. Le sue labbra, ovviamente,
non potevano reagire. Si era sbagliato. Per tutto quel tempo, si era sbagliato.
Tutte quelle ore passate a sedere, da solo, a dirsi che Mei era morta. Aveva
immaginato di rafforzarsi. Di prepararsi al peggio. Ma non era per niente
così. L’aveva detto, aveva cercato di crederci, perché quel pensiero era
confortante.
Se era morta, non la stavano torturando. Se era morta, non era spaventata.
Se era morta, allora il dolore sarebbe stato soltanto per lui, e lei sarebbe stata
al sicuro. Notò senza piacere né dolore che si trattava di un quadro mentale
patologico. Ma gli erano state strappate via sua moglie e sua figlia, era
sopravvissuto in stato d’inedia per mesi mentre l’effetto a cascata divorava
quel che era rimasto di Ganimede, si era fatto sparare, aveva affrontato una
macchina assassina semialiena ed era conosciuto in tutto il sistema solare
come marito violento e pedofilo. Non aveva alcun motivo per essere sano di
mente. Non l’avrebbe aiutato.
E, per di più, il suo ginocchio gli faceva davvero male.
Da qualche parte molto, molto lontano, in un posto con luce e aria,
qualcosa ronzò per tre volte, e la montagna gli rotolò via dallo sterno.
Tornare in sé era come risalire dal fondo di una piscina.
«Okay, ragazzi» disse Alex attraverso la linea interna. «Ora di cena.
Prendetevi un paio di minuti per far risalire il fegato dalla spina vertebrale, e
ci vediamo in cambusa. Abbiamo soltanto cinquanta minuti, per cui
godeteveli finché potete.»
Prax fece un profondo respiro, espirando tra i denti, e poi si sedette.
Aveva l’impressione di avere il corpo intero ricoperto di lividi. Il suo
terminale palmare sosteneva che l’accelerazione fosse a un terzo di g, ma
sembrava sia più che meno di così. Prax passò le gambe oltre il bordo del
sedile e il suo ginocchio emise uno schiocco umido e stridente. Passò un dito
sul terminale.
«Ehm, non sono sicuro di poter camminare» disse. «Il ginocchio...»
«Tieni duro, doc.» La voce di Amos veniva dal pannello. «Vengo a darti
un’occhiata. Sono la cosa più vicina a un medico che abbiamo a bordo, a
meno che tu non preferisca passare all’infermeria automatizzata.»
«Non cercare di aggiustarlo con la saldatrice, però» intervenne Holden.
«Non funziona così.»
La radio tornò silenziosa. Mentre aspettava, Prax controllò i messaggi in
entrata. La lista era troppo lunga per lo schermo, ma era sempre stato così da
quando avevano diffuso il video iniziale. I titoli dei messaggi erano cambiati.
GLI STUPRATORI DI BAMBINI DOVREBBERO ESSERE TORTURATI A MORTE
NON DAR RETTA AGLI HATER
IO TI CREDO
MIO PADRE HA FATTO LA STESSA COSA A ME
CHIEDI AIUTO A GESÙ PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI
Non li aprì nemmeno. Controllò le notizie che riportavano il suo nome e
quello di Mei, e trovò settemila link attivi con quelle parole chiave. Nicola ne
aveva soltanto cinquanta.
C’era stato un tempo in cui aveva amato sua moglie, o in cui pensava di
averla amata. In cui aveva voluto fare sesso con lei più di qualsiasi altra cosa
nella sua vita. Si disse che c’erano stati bei momenti. Le notti che avevano
passato insieme. Mei era uscita dal corpo di Nicola. Era difficile credere che
qualcosa di tanto prezioso e centrale nella sua vita fosse anche stato parte di
una donna che, con ogni evidenza, non aveva mai davvero conosciuto. Anche
come padre della sua bambina, non conosceva la donna che avrebbe potuto
registrare un video del genere.
Aprì il registratore video del suo terminale palmare, puntò la camera su di
sé e si leccò le labbra.
«Nicola...»
Venti secondi più tardi, chiuse il registratore e cancellò il file. Non aveva
niente da dire. ‘Chi sei tu, e chi credi che sia io?’ era la cosa più sensata, e
non gli importava di conoscere la risposta di nessuna delle due domande.
Tornò ai messaggi, filtrando i nomi delle persone che l’avevano aiutato
nelle indagini. Non c’era niente di nuovo dall’ultima volta.
«Ehi, doc» disse Amos, incombendo sulla soglia della piccola cabina.
«Mi dispiace» replicò Prax, rimettendo il terminale nella custodia accanto
al sedile. «È solo che, durante quest’ultima accelerazione...»
Fece un gesto verso il ginocchio. Era gonfio, ma non quanto si era
aspettato. Pensava che sarebbe stato il doppio del normale, ma gli
antinfiammatori che gli erano stati iniettati nelle vene stavano facendo il loro
dovere. Amos annuì, posò una mano sullo sterno di Prax e lo spinse di nuovo
nel gel.
«Anch’io ho un alluce che si sloga, di tanto in tanto» disse il meccanico.
«Un’articolazione minuscola ma, quando si mette nell’angolazione sbagliata
durante un’accelerazione a manetta, fa un male cane. Cerca di non irrigidirti,
doc.»
Amos piegò il ginocchio un paio di volte, sentendo l’articolazione che
sfregava. «Non è messa malissimo. Ecco, allungala un po’. Okay.»
Il meccanico avvolse una mano intorno alla caviglia di Prax, puntellando
l’altra sul telaio del sedile, e tirò lentamente e irresistibilmente. Il ginocchio
di Prax mandò una fitta di dolore, poi uno schiocco profondo e umido, con
una sensazione nauseante di tendini che strofinavano sulle ossa.
«Ecco fatto» disse Amos. «Quando torniamo in accelerazione, assicurati
di mettere la gamba nella posizione giusta. Un’altra slogatura come questa,
adesso, e ti giochi la rotula. Okay?»
«Ricevuto» rispose Prax, facendo per tirarsi su a sedere.
«Mi dispiace doverlo fare, doc» disse il meccanico, mettendogli una
mano sul petto e spingendolo di nuovo giù. «Voglio dire, è stata una
giornataccia, e tutto il resto. Ma sai com’è...»
Prax si accigliò. Ogni singolo muscolo del suo viso gli sembrava
illividito.
«Che c’è?»
«Tutte queste stronzate che stanno dicendo su di te, e sulla bambina...
sono solo stronzate, vero?»
«Naturalmente» rispose Prax.
«Perché, sai... a volte le cose capitano, non serve nemmeno che uno
voglia. Hai una giornataccia, e magari perdi le staffe. O magari, cazzo, ti
ubriachi... Alcune delle cose che ho fatto quando stavo veramente sbronzo,
sai? Non sapevo nemmeno io di averle fatte, fino a molto tempo dopo.»
Amos sorrise. «Sto solo dicendo che, se c’è un granello di verità, qualcosa
che è stato esagerato, magari, sarebbe meglio saperlo subito, giusto?»
«Non ho mai fatto nessuna delle cose che ha detto Nicola.»
«A me puoi dire la verità, doc. Capirò. A volte le persone fanno cose. Ma
questo non le rende per forza cattive.»
Prax scansò la mano di Amos e si mise a sedere. Il suo ginocchio stava
molto meglio.
«In realtà,» replicò «lo fa eccome. Le rende cattive persone.»
L’espressione di Amos si rilassò e il suo sorriso cambiò in un modo che
Prax non seppe capire del tutto.
«E va bene, doc. Come ho detto, mi dispiace da morire. Ma dovevo
chiedertelo.»
«Non c’è problema» rispose Prax, alzandosi in piedi. Per un istante il
ginocchio sembrò cedere, ma non accadde. Prax fece un passo esitante, poi
un altro. Sarebbe andata bene. Si voltò verso la cambusa, ma la
conversazione non era finita. «Se l’avessi fatto... se avessi fatto quelle cose, ti
sarebbe stato bene lo stesso?»
«Ah, cazzo, no. Ti avrei spezzato il collo e ti avrei tirato fuori dal
portellone pressurizzato» replicò Amos, con una pacca sulla spalla.
«Ah» disse Prax, e un sollievo gli si allentò nel petto. «Grazie.»
«Non c’è di che.»
Quando Prax e Amos arrivarono nella cambusa, gli altri tre erano già lì,
ma sembrava comunque mezza vuota. Meno piena del solito. Naomi e Alex
erano seduti al tavolo, uno di fronte all’altra. Nessuno dei due sembrava
distrutto quanto si sentiva Prax. Holden si voltò dal pannello con una bolla di
schiuma preformata in ogni mano. La poltiglia marrone che contenevano
profumava di caldo, terra e foglie cotte. Non appena giunse al suo naso, Prax
si sentì famelico.
«Zuppa di lenticchie?» chiese Holden mentre Prax e Amos si sedevano
accanto ad Alex.
«Sarebbe meraviglioso» esclamò Prax.
«Per me soltanto un tubo di sbobba» disse Amos. «Le lenticchie mi fanno
gas, e non vedo come un intestino che scoppia alla prossima accelerazione
possa essere divertente per qualcuno, qui.»
Holden mise una tazza di fronte a Prax e diede un tubo bianco con una
tettarella nera ad Amos, poi si sedette accanto a Naomi. Non si toccavano, ma
il legame tra i due era inequivocabile. Prax si chiese se Mei avesse mai voluto
che lui e Nicola si riconciliassero. Ormai era impossibile.
«Okay. Alex,» disse Holden «che abbiamo?»
«La stessa cosa di prima» rispose il meccanico. «Sei cacciatorpedinieri
che si dirigono a tutta velocità verso di noi. Una flotta equivalente alle loro
spalle, e una pinaccia da corsa che si allontana da noi dall’altra parte.»
«Aspetta» disse Prax. «Si allontana da noi?»
«Stanno seguendo la nostra rotta. Hanno già fatto il giro, e si stanno
allineando per farsi raggiungere.»
Prax chiuse gli occhi, figurandosi i vettori di volo.
«Li abbiamo quasi raggiunti, quindi?» domandò.
«Quasi» rispose Alex. «Diciotto, venti ore.»
«Come finirà? Le navi terrestri ci raggiungeranno?»
«Ci raggiungeranno e ci faranno il mazzo,» disse Alex «ma non prima
che riprendiamo quella pinaccia. Diciamo un quattro giorni più tardi, forse.»
Prax prese una cucchiaiata di zuppa. Era buona tanto quanto il suo
profumo. Foglie verdi e scure erano mischiate con le lenticchie, e Prax usò il
cucchiaio per aprirne una, tentando di identificarla. Spinaci, forse. Il margine
dello stelo non era proprio esatto, ma dopotutto erano stati cotti...
«Come facciamo a essere sicuri che non si tratti di una trappola?» chiese
Amos.
«Non possiamo esserlo» disse Holden. «Ma non vedo come potrebbe
funzionare.»
«Se ci volessero catturare, invece che uccidere» suggerì Naomi. «Stiamo
parlando di aprire il portellone a uno dei vertici delle istituzioni terrestri.»
«Quindi è chi dice di essere?» chiese Prax.
«Così pare» disse Holden.
Alex alzò una mano.
«Be’, se si tratta di scegliere tra farci una chiacchierata con una qualche
nonnetta delle Nazioni Unite o farci fare il culo da sei cacciatorpedinieri,
direi che possiamo cominciare a preparare il tè e i biscotti, no?»
«Sarebbe un po’ tardi per un piano alternativo» disse Naomi. «Mi mette
parecchio a disagio il fatto che la Terra mi salvi da altri terrestri.»
«Le strutture non sono mai monolitiche» disse Prax. «Ci sono più
variazioni genetiche all’interno della comunità cinturiana, marziana e
terrestre di quante non ci siano tra loro. L’evoluzione prevedrebbe alcune
divisioni all’interno delle strutture di gruppo e alleanze con membri esterni.
Le felci fanno la stessa cosa.»
«Le felci?» chiese Naomi.
«Le felci possono essere molto aggressive» spiegò Prax.
Furono interrotti da un delicato scampanellio: tre note in crescendo, come
di campanelle percosse.
«Okay, scolatevi la cena» disse Alex. «Mancano quindici minuti.»
Amos fece un risucchio prodigioso, e il tubo bianco si accartocciò sulle
sue labbra. Prax posò il cucchiaio e si portò la tazza alle labbra, non
volendone lasciare neanche una goccia. Holden lo imitò, poi cominciò a
raccogliere le tazze usate.
«Se qualcuno deve usare il bagno, lo faccia ora» disse. «Ci rivediamo
tra...»
«Otto ore» precisò Alex.
«Otto ore» ripeté Holden.
Prax si sentì stringere il petto. Un altro round di opprimente
accelerazione. Ore e ore di aghi che lo perforavano dal sedile per sostentare il
suo metabolismo al collasso. Sembrava l’inferno. Si alzò da tavola, salutò
tutti con un cenno del capo e tornò in cabina. Il suo ginocchio stava molto
meglio. Sperò di ritrovarlo in buone condizioni quando si fosse alzato di
nuovo. L’allarme dei dieci minuti suonò in cabina. Prax si sdraiò sul sedile,
cercando di allineare perfettamente il corpo, poi attese. E attese.
Si rigirò e prese il terminale palmare. Sette nuovi messaggi: due di
sostegno, tre di odio, uno che aveva sbagliato destinatario e un riepilogo
finanziario dal conto. Non si prese il disturbo di leggerli.
Accese la telecamera.
«Nicola» disse. «Non so che cosa ti abbiano detto. Non so se pensi
davvero tutte le cose che hai raccontato. Ma so di non averti mai nemmeno
sfiorato con rabbia, perfino alla fine. E, se davvero avevi paura di me, non so
perché fosse così. Mei è l’unica cosa che amo più della mia stessa vita.
Morirei, piuttosto che permettere a qualcuno di farle del male. E ora mezzo
sistema solare pensa che io le abbia fatto del male...»
Interruppe la registrazione e ricominciò da capo.
«Nicola. Onestamente, non pensavo che rimanesse più niente da tradire,
tra di noi.»
Si fermò. Mentre si passava le dita tra i capelli, risuonò l’allarme dei
cinque minuti. Gli faceva male ogni singolo follicolo. Si chiese se fosse
quello il motivo per cui Amos si rasava la testa. C’erano così tante cose, della
vita su una nave, che non ti venivano in mente finché non ti ci trovavi sopra.
«Nicola...»
Cancellò tutte le registrazioni e accedette all’interfaccia del conto
bancario. C’era un formulario di richiesta con cui si poteva codificare e
inviare un trasferimento autorizzato di fondi non appena la velocità della luce
l’avesse trasmesso ai computer della banca. Lo riempì rapidamente.
L’allarme dei due minuti risuonò più forte e insistente degli altri. Trenta
secondi prima della scadenza della pausa, le rinviò il denaro. Non avevano
più niente da dirsi.
Rimise a posto il terminale e si sdraiò. Il computer cominciò il conto alla
rovescia da venti, e la montagna tornò a premergli sul petto.
«Come sta il ginocchio?» gli chiese Amos.
«Piuttosto bene» rispose Prax. «Sono sorpreso. Pensavo che il danno
fosse maggiore.»
«Stavolta non si è slogato» disse Amos. «È andata bene anche al mio
alluce.»
Un allarme basso risuonò per tutta la nave, e il ponte sobbalzò sotto i
piedi di Prax. Holden, in piedi alla destra di Prax, si passò il fucile nella
sinistra e toccò un pannello di controllo.
«Alex?»
«Sì, è stata un po’ brusca. Scusate, ma... Aspetta. Sì, cap. Siamo
agganciati. E stanno bussando.»
Holden ripassò il fucile nella destra. Anche Amos impugnava un’arma.
Naomi era di fianco a lui, con nient’altro che un terminale collegato alla
plancia della nave tra le mani. Se qualcosa fosse andato storto, essere in
grado di controllare le funzioni della nave poteva rivelarsi più utile di una
pistola. Indossavano tutti le corazze articolate dei militari marziani, che
avevano trovato a bordo della nave. Le due navi accoppiate mantenevano
un’accelerazione costante di un terzo di g. I cacciatorpedinieri terrestri,
intanto, continuavano a inseguirli a tutta velocità.
«Allora... immagino che queste armi significhino che stai pensando a una
trappola, cap?» chiese Amos.
«Non c’è niente di male nell’avere una guardia d’onore» replicò Holden.
Prax alzò una mano.
«Non ti ricapiterà più» disse Holden. «Senza offesa.»
«No, è solo che stavo pensando... la guardia d’onore non dovrebbe stare
dalla parte delle persone a cui fa la guardia, di solito?»
«Può darsi che stiamo un po’ forzando la definizione, in questo caso»
intervenne Naomi. La sua voce tradiva una minima traccia di tensione.
«È soltanto una vecchietta della politica» disse Holden. «E quella
pinaccia non può portare più di due persone. Siamo in sovrannumero. E, se le
cose si mettessero male, Alex ci sta guardando dal sedile del pilota. Ci stai
guardando, vero?»
«Oh, sì» assicurò Alex.
«Per cui, se dovesse esserci qualche sorpresa, Naomi può sganciarci e
Alex può portarci via da qui.»
«Questo non ci aiuterà con i cacciatorpedinieri, però» disse Prax.
Naomi gli posò una mano sul braccio, stringendolo gentilmente.
«Così non sei d’aiuto, Prax.»
Il portellone esterno si aprì con un ronzio distante. Le luci passarono dal
rosso al verde.
«Wow» esclamò Alex.
«Problemi?» scattò Holden.
«No, è solo che...»
Il portellone interno si aprì, e la persona più grande che Prax avesse mai
visto in tutta la sua vita entrò nella stanza, con indosso una sorta di tuta
corazzata potenziante. Se non fosse stato per il visore trasparente, avrebbe
creduto che si trattasse di un robot bipede alto due metri. Attraverso il visore,
Prax riconobbe dei lineamenti femminili: grandi occhi scuri e una pelle color
caffellatte. Lo sguardo di lei li scrutò con una palpabile minaccia di violenza.
Accanto a Prax, Amos fece un istintivo passo indietro.
«Lei è il capitano» disse la donna. Gli altoparlanti della corazza
rendevano la sua voce artificiale e la amplificavano. Non sembrava essere
una domanda.
«Sì, sono io» disse Holden. «Devo ammettere che mi sembrava diversa,
in video.»
La battuta cadde nel vuoto e la gigantessa fece un passo nella stanza.
«Ha intenzione di spararmi con quella?» chiese, indicando la pistola di
Holden con una massiccia mano guantata.
«Funzionerebbe?»
«Probabilmente no» rispose la gigantessa. Fece un altro passo avanti, e la
sua corazza emise un ronzio. Holden e Amos fecero un passo indietro.
«Diciamo che è una guardia d’onore, allora» disse Holden.
«Sono onorata. Ora potrebbe metterla via?»
«Sicuro.»
Due minuti dopo le armi erano state stivate e l’enorme donna, che non
aveva ancora detto loro il suo nome, attivò con il mento una linea all’interno
del casco e disse: «Okay. È sicuro.»
Il portellone pressurizzò di nuovo la camera stagna, passando dal rosso al
verde, accompagnato dal ronzio delle porte che si aprivano. La donna che
entrò, stavolta, era più piccola di tutti loro. I suoi capelli grigi le spuntavano
imbizzarriti da tutte le parti, e il sari arancione che indossava le ricadeva
addosso in maniera strana in quella bassa gravità.
«Sottosegretario Avasarala» esordì Holden. «Benvenuta a bordo. Se
posso fare...»
«Lei è Naomi Nagata» disse la vecchietta rinsecchita.
Holden e Naomi si scambiarono un’occhiata, e Naomi si strinse nelle
spalle.
«Sì.»
«Come cazzo fa a tenere i capelli così in ordine? Ogni volta che mi
guardo, sembra che un riccio mi si sia scopato la testa.»
«Ehm...»
«Avere l’aspetto giusto è metà di quello che serve per tenervi tutti in vita.
Non abbiamo tempo da perdere. Nagata, mi faccia sembrare bella e
femminile. Holden...»
«Sono un ingegnere, non una dannata parrucchiera» rispose Naomi, con
un sentore di rabbia nella voce.
«Signora» disse Holden. «Questa è la mia nave, e il mio equipaggio. La
metà di noi non è cittadina terrestre, e non siamo ai suoi ordini.»
«E va bene. Signorina Nagata, se vogliamo evitare che questa nave si
trasformi in una bolla di gas incandescente, dovremo rilasciare una
dichiarazione alla stampa, e non sono pronta per apparire in video. Le
dispiacerebbe assistermi?»
«Okay» disse Naomi.
«La ringrazio. E... capitano? Deve radersi quella cazzo di barba.»
41

Avasarala
Dopo la Guanshiyin, la Rocinante sembrava severa, spoglia e funzionale.
Non c’erano moquette, solo schiume tappezzate da tessuto industriale per
ammorbidire angoli e spigoli dove i soldati potevano andare a sbattere
quando la nave manovrava con violenza. Invece che di cannella e miele,
l’aria aveva il sapore plastico e caldo dei riciclatori militari. E non c’erano
ampi banconi, né letti su cui fare un solitario, né spazi privati oltre a un
ufficio del capitano grande quanto la cabina di un bagno pubblico.
La maggior parte dei video li avevano registrati nella stiva, regolando
l’inquadratura in maniera che non fossero visibili né armi, né munizioni.
Qualcuno che avesse avuto familiarità con i veicoli militari marziani avrebbe
capito dove si trovavano. A tutti gli altri, però, sarebbe sembrato uno spazio
qualunque, con delle casse di merce sullo sfondo. Naomi Nagata aveva dato
una mano con la postproduzione del videomessaggio – era una montatrice
sorprendentemente dotata – e, quando era stato chiaro che nessuno degli
uomini a bordo era in grado di registrare una voce fuori campo che sembrasse
professionale, si era occupata anche di quello.
L’equipaggio si riunì nell’infermeria, dove il meccanico Amos Burton
aveva impostato lo schermo affinché ricevesse il segnale dal suo terminale
palmare. Ora l’omone era seduto a gambe incrociate su uno dei lettini,
sorridendo placidamente. Se Avasarala non avesse letto le schede informative
dei servizi sull’equipaggio di Holden, non avrebbe mai indovinato che cosa
fosse capace di fare.
Gli altri erano disposti più o meno a semicerchio intorno a lei. Bobbie era
seduta accanto ad Alex Kamal – i marziani presenti, inconsciamente, avevano
fatto gruppo. Praxidike Meng se ne stava in fondo alla stanza. Avasarala non
era in grado di capire se fosse la propria presenza a metterlo a disagio o se
fosse sempre così.
«Okay» disse. «Questa è l’ultima occasione per commentare.»
«Vorrei avere dei popcorn» fece Amos; poi lo schermo medico si accese,
mostrò un codice di trasmissione e quindi una scritta bianca a caratteri
maiuscoli: DIVULGAZIONE IMMEDIATA.
Sul monitor apparvero Avasarala e Holden. Lei stava parlando,
gesticolando con le mani come a spiegare un qualche argomento. Holden, con
aria seria, la guardava con attenzione. La voce di Naomi Nagata era calma,
solida e professionale.
«In uno sviluppo sorprendente, la rappresentante del sottosegretario
all’esecutivo Sadavir Errinwright ha incontrato oggi il rappresentante
dell’APE, James Holden, e un rappresentante dell’amministrazione militare
marziana, per rispondere alle preoccupazioni circa le rivelazioni
potenzialmente sconvolgenti che aleggiano intorno al devastante attacco su
Ganimede.»
L’inquadratura passò su Avasarala. Lei si sporgeva in avanti per far
sembrare più lungo il suo collo e nascondere la pelle floscia che aveva sotto il
mento. Lunghi anni di esperienza la rendevano naturale, ma riusciva quasi a
sentire Arjun che se la rideva sotto i baffi. Una scritta scorrevole in fondo allo
schermo riportava il suo nome e la sua carica.
«Farò rotta con il capitano Holden verso il sistema gioviano» dichiarò
Avasarala. «Le Nazioni Unite della Terra sono profondamente convinte che
un’indagine multilaterale sia il modo migliore di riportare equilibrio e pace
nel sistema.»
Il video passò a mostrare Holden e Avasarala, seduti insieme nella stiva
accanto al botanico. Stavolta era il piccolo scienziato a parlare, mentre lei e
Holden fingevano interesse. Tornò la voce fuori campo.
«In merito alle accuse lanciate contro Praxidike Meng, la cui ricerca della
figlia è diventata il volto umano della tragedia su Ganimede, la posizione
della delegazione terrestre è stata inequivocabile.»
L’immagine inquadrò l’espressione addolorata di Avasarala. Lei scosse il
capo in un gesto di negazione quasi subliminale.
«Nicola Mulko è una figura tragica in tutta questa faccenda, e condanno
personalmente l’irresponsabilità di quei notiziari che hanno consentito alle
dichiarazioni di un personaggio mentalmente instabile di venire presentate
come se si trattasse di fatti verificati. Il suo abbandono del marito e della
bambina è acclarato, e la sua battaglia contro i problemi psicologici da cui è
afflitta meriterebbe di rimanere in un ambito più dignitoso e privato.»
Fuori campo, Nagata chiese: «Quindi biasima i media?»
«Assolutamente sì» rispose Avasarala, mentre l’immagine sullo schermo
mostrava una neonata con gli occhi sorridenti e i capelli legati in due codini
scuri. «Abbiamo assoluta fiducia nell’amore e nella dedizione che il dottor
Meng dedica a Mei, e partecipiamo con piacere allo sforzo messo in atto per
riportarla a casa sana e salva.»
La registrazione terminò lì.
«E va bene» disse Avasarala. «Commenti?»
«In realtà non lavoro più per l’APE» replicò Holden.
«Io non sono autorizzata a rappresentare l’esercito marziano» disse
Bobbie. «Non sono neanche sicura di dover ancora lavorare per lei.»
«Grazie. Qualche commento che abbia senso?» chiese Avasarala. Ci fu
un momento di silenzio.
«Per me funziona» dichiarò Praxidike Meng.
C’era una cosa che sulla Rocinante era infinitamente migliore rispetto alla
Guanshiyin, ed era l’unica di cui le importasse. Il raggio stretto era tutto suo.
Il ritardo orario era sempre più ampio e ogni ora che passava la portava
sempre più lontana dalla Terra, ma la consapevolezza che i messaggi che
inviava uscivano dalla nave senza essere riportati a Nguyen ed Errinwright le
dava la sensazione di poter respirare liberamente. Non poteva controllare quel
che sarebbe successo una volta che fossero giunti sulla Terra, ma questo era
un fatto sempre valido. Era così che funzionava il gioco.
L’ammiraglio Souther sembrava stanco, ma su quel piccolo schermo era
difficile discernere altro.
«Hai preso a calci l’alveare, Chrisjen» disse. «Sembrerebbe che ti sia erta
a scudo umano per un gruppo di tizi che non lavorano per noi. E immagino
che fosse proprio questo il piano.
«Ho fatto quello che mi hai chiesto, e sì: Nguyen ha incontrato Jules-
Pierre Mao. Il primo incontro è stato subito dopo la testimonianza sulla
Protogen. E sì: Errinwright sapeva di loro. Ma questo non significa molto.
Anch’io ho incontrato Mao. È una serpe ma, se dovessimo smettere di avere
contatti con uomini come lui, non ci rimarrebbe molto da fare.
«La campagna di screditamento contro il tuo amico scienziato è partita
dall’ufficio dell’esecutivo, il che, devo ammetterlo, sta rendendo parecchi di
noi, qui alle forze armate, un po’ nervosi. Comincia a sembrare che ci siano
delle divisioni in seno al governo, e sapere di chi sono gli ordini che
dovremmo eseguire sta diventando un po’ troppo difficile. Se si arrivasse a
questo punto, il nostro amico Errinwright è comunque un tuo superiore. Se
lui o il segretario generale vengono da me con un ordine diretto, mi toccherà
avere un motivo dannatamente valido per pensare che sia illegale. Tutta
questa faccenda puzza come una carogna, ma non ho ancora un motivo
valido. Se capisci che intendo...»
La registrazione terminò. Avasarala si premette le dita sulle labbra.
Capiva perfettamente. Non le piaceva, ma lo capiva. Si tirò su dal sedile. Le
articolazioni le dolevano ancora per la corsa fino alla Rocinante, e il modo in
cui la nave si spostava sotto di lei, con le correzioni di rotta che modificavano
la gravità di un paio di gradi, la lasciava vagamente nauseata. Era arrivata fin
lì.
Il corridoio che portava fino alla cambusa era breve, ma aveva una curva
appena prima della soglia. Le voci si sentivano abbastanza bene da spingerla
a camminare in punta di piedi. La parlata strascicata da marziano era del
pilota, e le vocali e il timbro di voce di Bobbie erano inconfondibili.
«...che di dire al capitano dove mettersi e che espressione fare. Pensavo
che Amos stesse per scaraventarla fuori dal portellone almeno un paio di
volte.»
«Può sempre provarci» rispose Bobbie.
«E tu lavori per lei?»
«Non so più per chi diavolo lavoro. Credo di ricevere ancora un salario da
Marte, ma tutte le mie diarie provengono dal suo ufficio. Ho fatto le cose un
po’ come venivano.»
«Sembra dura.»
«Sono una marine» disse Bobbie, e Avasarala si fermò. Il suo tono di
voce era sbagliato. Era tranquillo, quasi rilassato. Quasi in pace. Interessante.
«Ma c’è qualcuno a cui piaccia?» chiese il pilota.
«No» replicò Bobbie quasi prima che Alex terminasse di porre la
domanda. «Diavolo, no. E lei fa in modo che continui a essere così. Hai
presente quella scena che ha fatto a Holden, sbarcando sulla sua nave e dando
ordini come se le appartenesse... è sempre così. E il segretario generale? Lo
chiama ‘pupazzo’, e glielo sbatte in faccia.»
«E tutte quelle parolacce?»
«Fa parte del suo fascino» spiegò Bobbie.
Il pilota ridacchiò, e ci fu il rumore di una sorsata mentre beveva
qualcosa.
«Potrei aver frainteso la politica» disse. Un momento dopo, aggiunse: «A
te, lei piace?»
«Sì.»
«Ti spiace se ti chiedo perché?»
«Abbiamo a cuore le stesse cose» rispose Bobbie, e la nota premurosa nel
suo tono di voce fece sentire Avasarala a disagio mentre origliava. Si schiarì
la gola ed entrò nella cambusa.
«Dov’è Holden?» chiese.
«Starà dormendo» rispose il pilota. «Per come abbiamo impostato il ciclo
di questa nave, sono le due di notte.»
«Ah» esclamò Avasarala. Per lei, era metà pomeriggio. Sarebbe stato un
po’ strano. Ogni cosa nella sua vita, ora, sembrava ruotare intorno al concetto
di sfasamento temporale, in attesa che i suoi messaggi attraversassero la nera
vastità del vuoto. Almeno però poteva prepararsi.
«Voglio un incontro con tutti i presenti a bordo non appena saranno
svegli» disse. «Bobbie, avremo di nuovo bisogno dei tuoi abiti formali.»
Bobbie impiegò un paio di secondi per capire.
«Vuole far vedere loro il mostro» disse.
«E poi ce ne staremo qui seduti a parlare finché non capiremo che cos’è
che sanno esattamente su questa nave. Preoccupa abbastanza i cattivi da fargli
mandare i loro scagnozzi per distruggerla» disse Avasarala.
«Già, a proposito...» intervenne il pilota. «Quei cacciatorpedinieri hanno
rallentato a velocità di crociera, ma non hanno ancora invertito la rotta.»
«Non importa» disse Avasarala. «Tutti sanno che sono su questa nave.
Nessuno può spararci addosso.»
La mattina, ora locale, che per Avasarala era prima serata, l’equipaggio si
riunì di nuovo. Piuttosto che portare tutta la corazza potenziata nella
cambusa, la vicesottosegretario aveva copiato il video in essa contenuto e
l’aveva dato a Naomi. I membri dell’equipaggio erano svegli e ben riposati a
parte il pilota, che era rimasto a parlare con Bobbie fino a tardi, e il botanico,
che aveva l’aspetto di un uomo permanentemente esausto.
«Non dovrei mostrare questo documento a nessuno» disse Avasarala,
fissando Holden. «Ma su questa nave, in questo momento, penso che
dobbiamo tutti giocare a carte scoperte. E sono disposta a cominciare io.
Questo è l’attacco su Ganimede. Lo scontro che ha dato inizio al tutto.
Naomi?»
Naomi fece partire il video, e Bobbie si voltò e fissò la paratia. Non lo
guardò neanche Avasarala, concentrata a osservare le facce degli altri. Mentre
il sangue e il massacro continuavano alle sue spalle, li studiò e imparò
qualcosa di più sulle persone con cui aveva a che fare. Il meccanico, Amos,
osservò il video con il tranquillo riserbo di un assassino professionista.
Nessuna sorpresa. All’inizio Holden, Naomi e Alex erano orripilati, e
Avasarala osservò Alex e Naomi che scivolavano in una sorta di shock. Negli
occhi del pilota spuntarono le lacrime. Holden, d’altra parte, si ritirò in sé
stesso. Le spalle gli si allargarono, e un’espressione di rabbia contenuta gli
avvampò negli occhi e intorno alle labbra. Questo era interessante. Bobbie
pianse apertamente volgendo le spalle allo schermo, e la sua espressione era
di malinconia, come di una donna a un funerale. Un servizio
commemorativo. Praxidike, che tutti quanti lì chiamavano Prax, era l’unico a
sembrare quasi felice. Quando, alla fine dello spezzone, il mostro detonò,
batté le mani e gongolò di piacere.
«Eccolo là» disse. «Avevi ragione, Alex. Avete visto come stava
cominciando a farsi crescere altri arti? Un guasto catastrofico dei vincoli. Era
davvero un meccanismo di sicurezza.»
«Okay» rispose Avasarala. «Perché non riprova a spiegarsi con un po’ di
contesto? Che cos’era un meccanismo di sicurezza?»
«L’altra forma protomolecolare ha espulso il congegno esplosivo dal suo
corpo prima che potesse detonare. Vede, queste... cose – che siano soldati
protomolecolari o chissà che altro – infrangono la propria programmazione
cellulare, e credo che Merrian ne sia al corrente. Non ha trovato alcun modo
per impedirlo, perché i vincoli non reggono.»
«Chi sarebbe questa Marion, e che cosa avrebbe a che fare con tutto ciò?»
chiese Avasarala.
«Servirebbero parecchi sostantivi, nonna» replicò Amos.
«Mi faccia cominciare dal principio» disse Holden, e raccontò l’attacco
della bestia clandestina, il danno alla porta della stiva, il piano di Prax per
attirarla fuori dalla nave e ridurla nei suoi componenti atomici con lo scarico
dei reattori.
Avasarala consegnò loro i dati a sua disposizione relativi ai picchi
energetici su Venere e Prax li afferrò, studiandoli mentre parlava di una base
segreta su Io dove venivano prodotti quegli affari. Avasarala si sentiva
frastornata.
«E hanno portato lì tua figlia» disse la donna.
«Hanno portato lì tutti i bambini» precisò Prax.
«Ma perché?»
«Perché sono privi di sistema immunitario» spiegò il botanico. «E così
sarebbero più facili da rimodellare con la protomolecola. Ci sarebbero meno
sistemi fisiologici a opporsi contro i nuovi vincoli cellulari, e i soldati
durerebbero probabilmente molto di più.»
«Cristo, doc» esclamò Amos. «Vogliono trasformare Mei in uno di quei
fottuti affari?»
«Probabilmente» disse Prax, accigliandosi. «L’ho appena capito.»
«Ma perché farlo?» domandò Holden. «Non ha senso.»
«Per venderli a una potenza militare come arma d’assalto» rispose
Avasarala. «Per consolidare il proprio potere prima... be’, prima della fottuta
apocalisse.»
«Tanto per chiarire» intervenne Alex, alzando la mano. «Abbiamo
un’apocalisse sul groppone? È qualcosa di cui siamo a conoscenza?»
«Venere» disse Avasarala.
«Ah. Quella apocalisse» replicò Alex, abbassando la mano. «Giusto.»
«Soldati che possono spostarsi senza bisogno di navi» spiegò Naomi. «Li
potresti sparare ad alto g per un po’, poi smorzare i motori e lasciarli
proseguire sfruttando l’inerzia. Non sarebbero individuabili.»
«Ma non funzionerà» intervenne Prax. «Vi ricordate? Sfuggono ai
vincoli. E, visto che condividono le informazioni, sarà sempre più difficile
applicare qualsiasi tipo di riprogrammazione.»
Nella sala calò il silenzio. Il botanico sembrò confuso.
«Possono condividere informazioni?» domandò Avasarala.
«Certo» rispose Prax. «Guardi quei picchi energetici. Il primo è stato
quando quella cosa si è scontrata con Bobbie e gli altri marine su Ganimede.
Il secondo picco, allorché l’altro mostro si è liberato nel laboratorio. Il terzo,
quando l’abbiamo uccisa con la Rocinante. Ogni volta che una di queste
creature è stata attaccata, Venere ha reagito. Sono in rete. Quindi immagino
che ogni informazione essenziale possa essere condivisa. Per esempio, come
eludere i vincoli.»
«Se le usassero contro degli esseri umani,» disse Holden «non ci sarà più
modo di fermarle. Si libereranno dalle bombe di sicurezza e continueranno a
mietere. Le battaglie non finiranno mai.»
«Uhm... no» ammise Prax. «Non è questo il problema. È di nuovo
l’effetto a cascata. Una volta che la protomolecola ottiene un po’ di libertà, ha
più strumenti per erodere altri vincoli, il che le dà ulteriori strumenti per
erodere ulteriori vincoli, e così via. Il programma originale, o qualcosa di
simile, alla fine sommergerà il nuovo programma. E ci sarà una ricaduta.»
Bobbie si chinò in avanti, con la testa inclinata di pochi gradi verso
destra. Parlò piano, ma nella sua voce c’era una vena di violenza più forte di
un grido.
«Quindi se liberassero quegli affari su Marte, rimarrebbero soldati come
il primo per un po’. Poi comincerebbero a liberarsi delle bombe di sicurezza
come ha fatto il vostro. E poi trasformerebbero Marte in Eros?»
«Be’, peggio di Eros» precisò Prax. «Qualsiasi città marziana che possa
definirsi tale ha molte ma molte più persone di quante ce ne fossero su Eros.»
Nella stanza regnava il silenzio. Sullo schermo, la telecamera della tuta di
Bobbie fissava il cielo stellato mentre le navi da guerra si abbattevano a
vicenda nell’orbita di Ganimede.
«Devo inviare qualche messaggio» disse Avasarala.
«Queste creature semiumane che avete creato... non sono al vostro
servizio. Non potete controllarle» disse Avasarala. «Jules-Pierre Mao vi ha
rifilato un bidone. So perché mi ha tenuto fuori dalla faccenda, e penso che
lei sia un fottuto idiota per averlo fatto. Ma mettiamo da parte la cosa. Ora
non ha importanza. Non premete quel cazzo di grilletto. Capisce quel che le
sto dicendo? Non fatelo. Lei sarà personalmente responsabile della puttanata
più letale dell’intera storia dell’umanità, e sono su una nave con Jim Holden,
cazzo, per cui so bene di che sto parlando.»
L’intera registrazione arrivava a quasi mezz’ora di video. Ci avevano
allegato anche i filmati del clandestino ripresi dal circuito di sicurezza della
Rocinante. Avevano dovuto scartare una lezione di Prax di una quindicina di
minuti, quando il botanico era giunto alla parte in cui sua figlia rischiava di
essere trasformata in un soldato protomolecolare, e stavolta era scoppiato a
piangere incontrollabilmente. Avasarala aveva fatto del suo meglio per
ricapitolare il concetto, ma non era affatto sicura di aver espresso
correttamente tutti i dettagli. Aveva considerato l’idea di coinvolgere anche
Michael-Jon, poi però aveva desistito. Meglio rimanere in famiglia.
Inviò il messaggio. Se conosceva bene Errinwright, non le avrebbe
risposto immediatamente. Sarebbero passate un’ora o due di valutazione, in
cui avrebbe soppesato quel che gli aveva detto, e poi, dopo averla lasciata in
apprensione sufficientemente a lungo, le avrebbe risposto.
Avasarala sperò che si sarebbe dimostrato ragionevole. Doveva farlo.
Lei aveva bisogno di dormire. Poteva quasi sentire la fatica che le
mordicchiava i bordi della mente, che la rallentava, ma, quando si sdraiò,
l’idea di riposo le sembrò lontana tanto quanto la sua casa. Quanto Arjun.
Considerò l’eventualità di registrare un messaggio per lui, ma la cosa non
avrebbe fatto altro che farla sentire ancor più terribilmente isolata. Dopo
un’ora, si tirò su e si aggirò per i corridoi della nave. Il suo corpo le diceva
che era mezzanotte, o anche più tardi, e l’attività a bordo – una musica che
proveniva dall’officina, una conversazione ad alta voce tra Holden e Alex
sulla manutenzione dei sistemi elettronici, perfino Praxidike che se ne stava
seduto tutto solo nella cambusa, intento a curare quella che sembrava essere
una scatola di coltivazioni idroponiche – aveva una surreale aura notturna.
Avasarala rifletté se fosse il caso di inviare un altro messaggio a Souther.
Il ritardo temporale sarebbe stato molto minore per lui, ed era talmente
affamata di risposte che qualunque cosa le sarebbe andata bene. Quando la
risposta arrivò, non fu un messaggio.
«Capitano» disse Alex sulla linea aperta della nave. «Dovresti salire in
plancia per dare un’occhiata.»
C’era qualcosa, nel suo tono di voce, che fece capire ad Avasarala che
non si trattava di un problema di manutenzione. Trovò l’ascensore per salire
in plancia proprio mentre Holden stava salendo e preferì tirarsi su per la scala
piuttosto che aspettare. Non era l’unica ad aver seguito la chiamata. Bobbie
era seduta su un sedile aggiuntivo, con gli occhi puntati sullo stesso schermo
che stava fissando Holden. I dati tattici lampeggiavano e sfilavano sul
monitor, e una dozzina di puntini rossi illustravano i cambiamenti di stato.
Avasarala non capiva la maggior parte di ciò che aveva davanti, ma il
concetto era evidente. I cacciatorpedinieri avevano ripreso a muoversi.
«Okay» disse Holden. «Che cos’abbiamo qui?»
«Tutti i cacciatorpedinieri terrestri si sono portati alla massima
accelerazione. 6 g» rispose Alex.
«Si dirigono verso Io?»
«Diavolo, no.»
Ecco la risposta di Errinwright. Nessun messaggio. Nessuna
negoziazione. Nemmeno un segno di riconoscimento del fatto che lei gli
avesse chiesto di contenersi. Navi da guerra. La disperazione durò soltanto un
momento. Poi giunse la rabbia.
«Bobbie?»
«Sì.»
«Sai quella parte in cui mi dicevi che non capivo in che razza di pericolo
mi trovavo?»
«Quella in cui mi ha risposto che non sapevo come si svolgeva questo
gioco?»
«Quella.»
«Sì, mi ricordo. E allora?»
«Se volessi dirmi ‘te l’avevo detto’, questo sembrerebbe il momento
giusto.»
42

Holden
Come prima assegnazione dopo la sua candidatura alla scuola per
ufficiali, Holden aveva passato un mese al laboratorio bellico elettronico
della Diamond Head su Oahu. Durante quel periodo, aveva capito di non
avere nessuna voglia di diventare un ufficiale dei servizi della marina, di
detestare il poi e di avere un autentico debole per le donne polinesiane.
All’epoca era stato fin troppo impegnato per darsi alla caccia attiva, ma si era
goduto i suoi momenti liberi in spiaggia rifacendosi gli occhi. Da allora gli
era rimasto il gusto delle donne formose con lunghi capelli neri.
La marine marziana era come una di quelle adorabili conigliette da
spiaggia, su cui qualcuno aveva usato un software di editing per ingrandirla
del centocinquanta percento rispetto alla taglia normale. Le proporzioni, i
capelli neri, gli occhi scuri... era tutto uguale. Solo, più grande. La cosa gli
mandava in cortocircuito la rete neurale. Il rettile che viveva nel suo cervello
primitivo continuava a fare avanti e indietro tra ‘Accoppiamento!’ e ‘Fuga!’
E, quel che era peggio, era che lei lo sapeva. Sembrava averlo inquadrato e
aveva deciso che valeva la pena soltanto di un sorrisetto stanco pochi istanti
dopo il loro incontro.
«Vuoi che te lo ricapitoli?» disse lei, prendendolo in giro con quel suo
sorrisetto. Erano entrambi seduti nella cambusa, dove lei gli aveva appena
descritto le migliori tattiche marziane per ingaggiare un combattimento con
un cacciatorpediniere di classe Munroe.
‘No!’ avrebbe voluto gridarle lui. ‘Ti ho sentito benissimo. Non sono un
maniaco. Ho un’adorabile fidanzata a cui sono completamente devoto, per cui
smettila di trattarmi come una specie di adolescente brufoloso che non
vorrebbe altro che sbirciarti sotto la gonna!’
Poi però aveva di nuovo alzato lo sguardo su di lei, e il suo cervelletto
aveva ripreso a saltellare avanti e indietro tra l’attrazione e la paura, e i suoi
centri di competenza linguistica avrebbero cominciato a dare segni di
cedimento. Di nuovo.
«No» disse, fissando la lista perfettamente organizzata che gli aveva
inviato sul terminale palmare. «Credo che queste informazioni siano molto...
informative.»
Con la coda dell’occhio vide che il sorrisetto di Bobbie si allargava, e
fissò con attenzione ancora maggiore la lista.
«Okay» disse Bobbie. «Vado a buttarmi sulla branda. Con il tuo
permesso, ovviamente. Capitano.»
«Permesso accordato» rispose Holden. «Ma certo. Vai pure. Branda.»
Lei si mise in piedi senza toccare i braccioli della sedia. Era cresciuta a
gravità marziana. Doveva pesare almeno un centinaio di chili, a 1 g. Si stava
mettendo in mostra. Lui fece finta di ignorarla, e Bobbie uscì dalla cambusa.
«Che tipa, eh?» esclamò Avasarala, entrando nella cambusa e crollando
sulla sedia appena lasciata libera. Holden alzò gli occhi su di lei e vide un
sorrisetto di tipo diverso sul suo volto. Un sorrisetto che diceva come la
vecchia signora lo leggesse come un libro aperto, fino al rettile che aveva in
fondo al cervello. Ma lei non era una donna gigante polinesiana, per cui
Holden poteva anche sfogare su di lei la propria frustrazione.
«Già, un vero tesoro» disse. «Ma moriremo lo stesso.»
«Come?»
«Quando quei cacciatorpedinieri ci raggiungeranno, e lo faranno,
moriremo tutti. L’unico motivo per cui non ci stanno già facendo piovere
addosso una gragnuola di missili è che sanno che il nostro sistema CDR è in
grado di contrastare qualsiasi cosa ci tirino contro, a questa distanza.»
Avasarala si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro pesante, e
il sorrisetto si trasformò in un sorriso stanco ma sincero. «Immagino che non
ci sia verso che lei riesca a trovare una tazza di tè per un’anziana signora,
dico bene?»
Holden scosse la testa. «Mi dispiace. Non ci sono bevitori di tè
nell’equipaggio. Abbiamo un sacco di caffè, però, se ne gradisse una tazza.»
«A dire il vero sono abbastanza stanca da poterlo bere. Con un sacco di
latte e molto zucchero.»
«Che ne dice» disse Holden, prendendo una tazza per lei «di molto
zucchero, e di un sacco di polvere chiamata ‘sbiancante’?»
«Sempre meglio del piscio. Lo prendo.»
Holden si sedette e fece scivolare verso di lei la tazza di caffè zuccherato
e ‘sbiancato’. Lei la prese e fece una smorfia lunga diversi sorsi.
«Spieghi» lo invitò dopo un ultimo sorso «tutto quello che ha appena
detto.»
«Quei cacciatorpedinieri ci uccideranno tutti» ripeté Holden. «La sergente
mi riferisce che lei si rifiuta di credere che delle navi delle Nazioni Unite
possano spararle addosso, ma sono d’accordo con lei. È un’ingenuità.»
«Okay, ma che cos’è un ‘sistema CDR’?»
Holden cercò di non aggrottare la fronte. Si aspettava molte cose da
quella donna, ma l’ignoranza non faceva parte della lista.
«Cannoni a difesa ravvicinata. Se quei cacciatorpedinieri ci sparano
addosso dei missili da questa distanza, il sistema di puntamento dei CDR non
avrà alcuna difficoltà ad abbatterli. Per cui aspetteranno di essere
sufficientemente vicini da poterci sopraffare numericamente. Gli do tre giorni
prima dell’inizio dell’attacco.»
«Capisco» rispose Avasarala. «E quale sarebbe il suo piano?»
Holden abbaiò una risata priva di umorismo. «Piano? Il mio piano è
quello di morire in una palla di plasma super riscaldato. Non c’è letteralmente
una sola possibilità che una singola corvetta da attacco rapido, ossia noi,
riesca a contrastare con successo sei cacciatorpedinieri. Non siamo nella
stessa classe di peso. Contro una delle loro navi, forse con un colpo
fortunato... Ma contro sei navi? Nessuna speranza. Moriremo.»
«Ho letto il suo fascicolo» rispose Avasarala. «Lei si è scontrato con una
corvetta delle Nazioni Unite in occasione dell’incidente su Eros.»
«Già. Una corvetta. Eravamo alla pari. E sono riuscito a farli stare
indietro minacciando la nave scientifica disarmata che stavano scortando.
Questa non è nemmeno lontanamente la stessa situazione.»
«Per cui, che cosa farà il famigerato James Holden alla resa dei conti?»
Lui rimase in silenzio per un po’.
«Spiffererà tutto» disse Holden. «Sappiamo che cosa sta succedendo.
Abbiamo tutti i pezzi, ormai. Mao-Kwik, i mostri protomolecolari, il posto in
cui stanno portando i bambini... Tutto. Mettiamo tutti i dati in un file e
trasmettiamolo all’universo intero. Possono sempre ammazzarci, se vogliono,
ma possiamo mettere in atto un insensato gesto di vendetta. Impedire che la
nostra morte gli sia d’aiuto.»
«No» rispose Avasarala.
«Ehm... no? Forse ha dimenticato di chi è la nave su cui sta viaggiando.»
«Le ho forse dato l’impressione che me ne freghi un cazzo, di chi sia
questa nave? Se così fosse, le assicuro che era soltanto una futile cortesia»
disse Avasarala, fulminandolo con lo sguardo. «Lei non manderà a puttane
l’intero sistema solare soltanto perché sa fare bene un’unica cosa. Abbiamo
questioni più importanti da risolvere.»
Holden contò fino a dieci nella sua testa, poi disse: «E la sua idea
sarebbe...?»
«Inviare i dati a questi due ammiragli delle Nazioni Unite» spiegò
Avasarala, poi picchiettò su qualcosa sul suo terminale. Il terminale di
Holden ronzò quando ricevette il file di contatto. «Souther e Leniki.
Soprattutto Souther. Leniki non mi piace, e non è stato tenuto informato della
situazione, ma è comunque un buon ripiego.»
«Lei vuole che il mio ultimo gesto, prima di essere ammazzato da un
ammiraglio delle Nazioni Unite, sia quello di inviare tutte le informazioni
vitali di cui dispongo a un ammiraglio delle Nazioni Unite?»
Avasarala tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e si strofinò le
tempie con la punta delle dita. Holden rimase in attesa. «Sono stanca» disse
lei, dopo qualche istante. «E mi manca mio marito. Non poterlo abbracciare
mi fa sentire come un dolore nelle braccia. Lei sa come ci si sente?»
«So esattamente com’è quel tipo di dolore.»
«Per cui voglio che lei capisca che ora sono seduta qui, in questo istante,
e sto accettando l’idea che non lo rivedrò più. Che non rivedrò più né lui, né
le mie nipotine. Né mia figlia. I miei medici mi hanno detto che ho ancora
una trentina d’anni buoni davanti a me. Il tempo di vedere crescere le mie
nipotine, e magari anche di conoscere un bisnipote o due. E invece mi
toccherà farmi ammazzare da quel lamentoso figlio di puttana con il cazzo
moscio dell’ammiraglio Nguyen.»
Holden poteva sentire il peso massiccio di quei sei cacciatorpedinieri che
gli gravava addosso, con intenzioni omicide. Si sentiva come se qualcuno gli
stesse premendo una pistola sul costato da dietro la schiena. Avrebbe voluto
scuotere la donna e gridarle di sbrigarsi.
Lei gli sorrise.
«La mia ultima azione in questo universo non sarà quella di mandare a
puttane tutto quello che ho costruito fino a ora.»
Holden fece uno sforzo di volontà per ignorare la propria frustrazione. Si
alzò e aprì il frigorifero. «Ehi, è rimasto del pudding. Ne vuole un po’?»
«Ho letto il suo profilo psicologico. So tutto delle sue ingenue stronzate,
del tipo ‘tutti dovrebbero sapere tutto’. Ma quanta parte dell’ultima guerra è
stata colpa sua, con i suoi stramaledetti comunicati pirata? Ebbene?»
«Nessuna» replicò Holden. «Gli psicopatici disperati fanno cose da
psicopatici disperati, quando vengono smascherati. Mi rifiuto di garantire a
questa gente l’immunità dall’esposizione mediatica, solo per paura di una
loro reazione. Così facendo, quegli psicopatici disperati finiscono per
prendere il potere.»
Lei scoppiò a ridere. Era un suono sorprendentemente caloroso.
«Chiunque capisca quello che sta succedendo è come minimo disperato, e
probabilmente psicopatico fin nel midollo. Quantomeno dissociato. Lasci che
glielo spieghi in un altro modo» disse Avasarala. «Se lo diciamo a tutti, certo,
otterrà una reazione. E forse tra qualche settimana, qualche mese o qualche
anno, si risolverà tutto. Tuttavia, se lo diciamo alle persone giuste, possiamo
risolvere la situazione immediatamente.»
Amos e Prax entrarono insieme nella cambusa. Amos aveva un grosso
thermos tra le mani e si diresse subito verso la caffettiera. Prax lo seguì e
prese una tazza. Gli occhi di Avasarala si strinsero e disse: «E forse anche
salvare quella bambina.»
«Mei?» disse subito Prax, posando la tazza e voltandosi.
Questo era un vero colpo basso, pensò Holden. Perfino per una politica.
«Sì, Mei» rispose Avasarala. «Perché è di questo che stiamo parlando,
non è così, Jim? Non si tratta di una qualche crociata personale, ma del
tentativo di salvare una bambina indifesa dalle grinfie dei cattivi...»
«Mi spieghi come...» fece per dire Holden, ma Avasarala continuò a
parlargli sopra.
«Le Nazioni Unite non sono un’unica persona. Non sono nemmeno
un’unica corporazione. Sono un migliaio di piccole, meschine fazioni in lotta
l’una contro l’altra. Una loro parte ha preso il centro del ring, ma è soltanto
temporaneo. È sempre temporaneo. Conosco persone che possono muovere
contro Nguyen e il suo gruppo. Possono tagliargli il sostegno, spogliarlo di
tutte le sue navi, perfino richiamarlo e sottoporlo alla corte marziale, con un
po’ di tempo a disposizione. Ma non possono fare niente di tutto questo se
siamo in guerra aperta con Marte. E, se lei getterà al vento tutto ciò che sa,
Marte non avrà il tempo di aspettare per cercare di capire tutte le sottigliezze;
non avrà altra scelta se non quella di colpire preventivamente la flotta di
Nguyen, Io, quello che resta di Ganimede... e tutto il resto.»
«Io?» disse Prax. «Ma Mei...»
«Quindi lei vorrebbe che io consegnassi tutte le informazioni alla sua
piccola cerchia sulla Terra, quando la causa di tutto questo casino è che la
Terra è piena di piccole cerchie politiche?»
«Sì» rispose Avasarala. «E sono l’unica speranza che le è rimasta. Dovrà
fidarsi di me.»
«Non mi fido. Nemmeno un po’. Credo che lei sia parte del problema.
Credo che lei veda tutto questo in un’ottica di manovre politiche e giochi di
potere. Credo che lei voglia soltanto vincere. Per cui, no, non mi fido affatto
di lei.»
«Ehi, ehm... cap?» intervenne Amos, svitando lentamente il tappo del suo
thermos. «Non stai dimenticando qualcosa?»
«Che cosa, Amos? Che cosa sto dimenticando?»
«Non avevamo concordato che si votava per questo genere di cose, ora?»
«Non fare il musone» disse Naomi. Era sdraiata su un sedile accanto al
pannello di plancia principale sul ponte di comando. Holden era seduto al
pannello comunicazioni, dall’altra parte della sala. Aveva appena inviato il
pacchetto dati di Avasarala ai suoi due ammiragli delle Nazioni Unite. Si
sentiva prudere le dita per la voglia di trasmetterlo su una rete aperta. Ma
avevano argomentato i loro punti di vista di fronte all’equipaggio, e
Avasarala aveva vinto ai voti. Quando l’aveva tirata fuori per la prima volta,
tutta quella faccenda dei voti gli era sembrata una così buona idea. Dopo aver
perso la sua prima votazione, non era più così interessante. Sarebbero tutti
morti un paio di giorni dopo, per cui perlomeno era probabile che non
sarebbe più successo.
«Se ci facciamo ammazzare, e gli ammiragli da compagnia di Avasarala
non faranno niente con i dati che abbiamo appena inviato loro, tutto questo
non sarà servito a niente.»
«Pensi che insabbieranno la faccenda?» domandò Naomi.
«Non lo so, ed è proprio questo il problema. Non so che cosa faranno.
Abbiamo conosciuto questa politica terrestre due giorni fa, e sta già
comandando la nave.»
«E allora manda il pacchetto anche a qualcun altro» disse Naomi.
«Qualcuno di cui ti fidi perché lo tenga segreto, ma che sia in grado di
diffonderlo se questi tizi delle Nazioni Unite dovessero rivelarsi favorevoli
alla parte sbagliata.»
«Non è una cattiva idea.»
«Fred, magari?»
«No.» Holden rise. «Fred lo vedrebbe come una sorta di capitale politico.
Lo userebbe per negoziare. Dev’essere qualcuno che non ha niente da
guadagnare o da perdere nell’usarlo. Dovrò pensarci un po’.»
Naomi si alzò, poi venne a sedersi a cavalcioni sulle sue gambe
guardandolo negli occhi. «E stiamo tutti per morire. Il che non rende certo le
cose più facili.»
Non tutti.
«Naomi, riunisci l’equipaggio, e chiama anche la marine e Avasarala.
Nella cambusa, direi. Ho un ultimo annuncio da fare. Ci vediamo lì tra dieci
minuti.»
Lei gli diede un bacio leggero sul naso. «Okay. Ci trovi lì.»
Quando Naomi scomparve giù per la scala di servizio, Holden aprì
l’armadietto del capoguardia. Al suo interno c’era un insieme di cifrari
decisamente antiquati, un manuale di legge navale marziana, un’arma da
fianco e due caricatori di pallottole di gel balistico. Prese la pistola, la caricò
e si allacciò cinturone e fondina intorno ai fianchi.
Poi tornò alla stazione di comunicazione e inserì il pacchetto dati di
Avasarala in una trasmissione a raggio stretto che sarebbe rimbalzata da
Ceres a Marte, a Luna e fin sulla Terra, usando soltanto router pubblici. Era
improbabile che facesse scattare qualche allarme. Premette il pulsante di
registrazione video e disse: «Ciao, mamma. Da’ un’occhiata qui. Mostralo
alla famiglia. Non ho idea di quando sarà il momento giusto per usarlo, ma,
allorché arriverà, facci quello che ti sembra meglio. Mi fido di voi, e vi
voglio bene.»
Prima di poter aggiungere altro o di rifletterci meglio, premette il tasto
Invio e spense il pannello.
Chiamò l’ascensore perché, così facendo, gli ci sarebbe voluto più tempo
che se avesse usato le scale, e aveva bisogno di tempo per pensare
esattamente a come giocarsi i dieci minuti successivi. Quando ebbe raggiunto
il ponte dell’equipaggio non aveva ancora finito di rifletterci, ma raddrizzò le
spalle ed entrò comunque nella cambusa.
Amos, Alex e Naomi erano seduti da un lato del tavolo, di fronte a lui.
Prax, come al solito, era appollaiato sul bancone. Bobbie e Avasarala
sedevano di lato, dall’altra parte del tavolo, in modo da vederlo. Così la
marine era a meno di due metri da lui, senza niente in mezzo. A seconda di
come fosse andata, questo sarebbe potuto essere un problema.
Posò la mano sul calcio della pistola che aveva sul fianco per assicurarsi
che tutti l’avessero vista bene, poi disse: «Abbiamo circa due giorni prima
che le navi delle Nazioni Unite si avvicinino abbastanza da sopraffare le
nostre difese con una pioggia di missili e distruggere questa nave.»
Alex annuì, ma nessuno parlò.
«Però abbiamo la pinaccia da corsa di Mao, con cui è arrivata Avasarala,
attaccata allo scafo. Può ospitare due persone. Ce ne metteremo due e le
faremo andare via. Poi ci volteremo e ci dirigeremo dritti sulle navi delle
Nazioni Unite, per far guadagnare un po’ di tempo alla pinaccia. E chissà,
potrebbe pure darsi che riusciamo a portarcene una appresso. Ci faremo un
po’ di servitori nell’aldilà.»
«Cazzo, sì» esclamò Amos.
«Sono d’accordo» disse Avasarala. «Chi sono i due bastardi fortunati? E
come faremo a impedire che le navi delle Nazioni Unite facciano fuori la
pinaccia subito dopo aver fatto fuori questa nave?»
«Prax e Naomi» rispose immediatamente Holden, prima che qualcuno
potesse parlare. «Saranno Prax e Naomi a salire a bordo della pinaccia.»
«Okay» disse Amos, annuendo.
«Perché?» chiesero Naomi e Avasarala nello stesso istante.
«Prax, perché è il volto di tutta questa faccenda. È l’uomo che ha capito
tutto. E perché, quando qualcuno salverà finalmente quella bambina, sarebbe
bello che il suo papà fosse lì» spiegò Holden. Poi, tamburellando sul calcio
della pistola con le dita: «E Naomi perché ho deciso così. Domande?»
«No» disse Alex. «Per me va bene.»
Holden teneva d’occhio la marine. Se c’era qualcuno che avrebbe potuto
provare a togliergli la pistola di mano, quella era lei. E lavorava per
Avasarala. Se l’anziana donna avesse deciso che voleva essere sulla
Razorback quando fosse partita, la marine sarebbe stata quella che avrebbe
provato a far sì che andasse in quel modo. Ma, con sua sorpresa, lei non fece
altro che alzare la mano.
«Sì, sergente?» disse Holden.
«Due di quelle sei navi marziane che stanno alle calcagna dei ragazzi
delle Nazioni Unite sono i nuovi incrociatori rapidi di classe Raptor.
Probabilmente riuscirebbero a recuperare la Razorback, se volessero davvero
farlo.»
«Ma vorranno farlo davvero?» replicò Holden. «Avevo l’impressione che
fossero lì per tenere d’occhio le navi delle Nazioni Unite, e nient’altro.»
«Be’, probabilmente no, ma...» Bobbie lasciò in sospeso la frase con uno
sguardo distante negli occhi.
«Quindi questo è il piano» concluse Holden. «Prax, Naomi, prendete
quello che vi serve come scorta, preparate i bagagli e salite sulla Razorback.
Quanto a voi altri, apprezzerei molto se aspettaste qui mentre loro due fanno
quel che devono.»
«Aspetta un attimo...» protestò Naomi, con voce adirata.
Prima che Holden potesse replicare, Bobbie parlò di nuovo.
«Ehi, sapete una cosa? Mi è appena venuta un’idea.»
43

Bobbie
C’era qualcosa che stava sfuggendo a tutti loro. Era come se qualcuno
stesse bussando in fondo alla sua mente, chiedendo di poter entrare. Bobbie
rivide ogni passaggio in testa. Certo, quel bastardo di Nguyen sembrava avere
tutta l’intenzione di far fuori la Rocinante, che a bordo ci fosse un politico di
alto rango delle Nazioni Unite o meno. Avasarala aveva scommesso che la
sua presenza avrebbe tenuto a bada le navi delle Nazioni Unite. Sembrava
che quella scommessa fosse persa. C’erano ancora sei cacciatorpedinieri che
gli stavano per piombare addosso.
Ma c’erano altre sei navi all’inseguimento di quegli stessi
cacciatorpedinieri.
Inclusi, come aveva appena detto a Holden, due nuovi incrociatori rapidi
di classe Raptor. Avevano a bordo il massimo della tecnologia militare
marziana, ed erano più che alla pari con qualsiasi cacciatorpediniere delle
Nazioni Unite. Insieme ai due incrociatori viaggiavano altri quattro
cacciatorpedinieri marziani. Potevano o meno essere migliori delle loro
controparti terrestri ma, con i due incrociatori sulle ali, avevano un
significativo vantaggio in termini di tonnellaggio e potenza di fuoco. E
stavano seguendo le navi delle Nazioni Unite per controllare che non stessero
per fare qualcosa che avrebbe fatto inasprire il conflitto già aperto.
Come ad esempio uccidere l’unico esponente politico delle Nazioni Unite
che non vedeva l’ora di scatenare una guerra con Marte.
«Ehi, sapete una cosa?» disse Bobbie, prima di rendersi conto che stava
per dire qualcosa. «Mi è appena venuta un’idea.»
La cambusa rimase in silenzio.
Bobbie ebbe l’improvviso, scomodo ricordo di quando aveva preso la
parola nella sala conferenze delle Nazioni Unite e aveva mandato a monte la
sua intera carriera militare. Il capitano Holden, un tipo carino ma un po’
troppo pieno di sé, la stava fissando con un’espressione attonita in viso che
non lo abbelliva affatto. Aveva la faccia di una persona molto arrabbiata che
aveva perso il filo del suo discorso in pieno pistolotto. Anche Avasarala la
stava fissando. Benché, avendo imparato a leggere meglio le espressioni
dell’anziana donna, Bobbie non vedesse rabbia in lei. Soltanto curiosità.
«Be’,» disse Bobbie, schiarendosi la gola «ci sono sei navi marziane alle
calcagna di quei cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite. E le navi marziane li
surclassano. Entrambe le marine sono in stato di allerta prioritaria.»
Nessuno si mosse né parlò. La curiosità di Avasarala si era trasformata in
un cipiglio. «Per cui» continuò Bobbie «potrebbero essere disposte ad
aiutarci.»
Il cipiglio di Avasarala si fece ancor più marcato. «Perché mai» disse «ai
marziani dovrebbe importare un cazzo di venirmi a proteggere dalla mia
stessa fottutissima marina militare?»
«Ci perderemmo qualcosa, a chiedere?»
«No» rispose Holden. «Penso di no. C’è qualcun altro, qui, che pensa che
non ci sarebbe niente da perdere?»
«E chi farebbe la chiamata?» domandò Avasarala. «Tu? La traditrice?»
Quelle parole furono come un pugno alla bocca dello stomaco. Ma
Bobbie capì quello che stava facendo la vecchia signora. La stava colpendo
con la peggior risposta che i marziani avrebbero potuto darle. E stava
valutando la sua reazione.
«Sì, aprirò un varco» rispose Bobbie. «Ma sarà lei a doverli convincere.»
Avasarala la fissò per un lunghissimo istante, poi disse: «E va bene.»
«Ripetete, Rocinante» disse il comandante marziano. La connessione era
chiara come se fossero stati nella stessa stanza insieme a quell’uomo. Non era
la qualità dell’audio che l’aveva sconcertato. E tuttavia Avasarala parlava
lentamente, enunciando con chiarezza ogni parola.
«Sono la vicesottosegretario Chrisjen Avasarala, delle Nazioni Unite
della Terra» ripeté. «Sto per essere attaccata da un elemento dissidente della
Marina delle Nazioni Unite mentre mi dirigo verso una missione di
mantenimento della pace nel sistema gioviano. Salvatemi, cazzo! Vi
ricompenserò convincendo il mio governo a non polverizzare il vostro
pianeta.»
«Debbo inoltrare il suo messaggio a un livello superiore della catena di
comando» rispose il comandante. Non stavano usando un collegamento
video, ma il sorriso era ben udibile nella sua voce.
«Chiami chiunque debba chiamare» replicò Avasarala. «Ma prendete una
decisione prima che questi figli di puttana comincino a farmi grandinare
addosso una pioggia di missili. Va bene?»
«Farò del mio meglio, signora.»
La ragazza magrolina – si chiamava Naomi – spense il collegamento e si
girò con tutto il sedile per fissare Bobbie. «Ancora una volta, perché mai
dovrebbero aiutarci?»
«Marte non vuole una guerra» rispose Bobbie, sperando di non dire una
grandissima cazzata. «Se scoprono che la voce più ragionevole delle Nazioni
Unite si trova su una nave che sta per essere distrutta dai falchi dissidenti
delle Nazioni Unite stesse, per loro intromettersi nella questione avrebbe
senso eccome.»
«Mi suona un po’ come una grandissima cazzata» confessò Naomi.
«Inoltre» aggiunse Avasarala «ho appena dato loro il permesso di aprire il
fuoco sulla Marina delle Nazioni Unite senza il rischio di ripercussioni
politiche.»
«Quand’anche ci aiutassero» obiettò Holden «non c’è verso che riescano
a impedire ai cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite di spararci qualche
missile. Avremo bisogno di un piano di combattimento.»
«L’abbiamo appena fatto rimettere a posto, questo dannato affare!»
esclamò Amos.
«Io dico comunque di mettere Naomi e Prax sulla Razorback» disse
Holden.
«Io comincio a pensare che non sia una buona idea» obiettò Avasarala.
Bevve un sorso di caffè e fece una smorfia. L’anziana signora stava
decisamente risentendo della mancanza delle sue cinque tazze di tè al giorno.
«Si spieghi» la invitò Holden.
«Be’, se i marziani dovessero decidere di stare dalla nostra parte, la cosa
cambierebbe l’intero scenario per quelle navi delle Nazioni Unite. Non
possono batterci tutti e sette, se faccio bene i calcoli.»
«Okay» disse Holden.
«E hanno tutto l’interesse a non farsi definire elementi dissidenti nei libri
di storia. Se il gruppo di Nguyen venisse a cadere, tutti quelli schierati dalla
sua parte si beccherebbero come minimo la corte marziale. Il modo migliore
per assicurarsi che questo non accada è quello di fare in modo che io non
sopravviva a questo scontro, a prescindere da chi vincerà.»
«Il che significa che spareranno addosso alla Roci» ne dedusse Naomi. «E
non alla pinaccia.»
«Ovviamente no» rispose Avasarala, ridendo. «Perché, ovviamente, io
sarò sulla pinaccia. Avete pensato, anche soltanto per un secondo, che
crederebbero che stiate disperatamente cercando di proteggere una nave di
salvataggio su cui non ci sono io? E scommetto che la Razorback non
dispone di quei CDR di cui mi stava parlando, dico bene?»
Con grande sorpresa di Bobbie, Holden annuiva mentre Avasarala
parlava. L’aveva in qualche maniera etichettato come un saputello capace
d’innamorarsi soltanto delle proprie idee.
«Già» ammise Holden. «Ha assolutamente ragione. Lanceranno tutto
quello che possono contro la Razorback mentre cerca di fuggire, e la pinaccia
non ha difese.»
«Il che significa che sopravvivremo tutti o nessuno, proprio qui su questa
nave» concluse Naomi con un sospiro. «Come al solito.»
«Quindi, di nuovo...» disse Holden. «Ci serve un piano di battaglia.»
«Questo equipaggio è piuttosto esiguo» intervenne Bobbie, ora che la
conversazione era tornata nel suo campo di competenza. «Dov’è che vi
posizionate di solito?»
«Ufficiale operativo» disse Holden indicando Naomi. «Si occupa anche
di guerriglia elettronica e contromisure. Ed è un talento innato, considerando
che non l’aveva mai fatto prima di salire su questa nave.
«Meccanico...» proseguì Holden, indicando Amos.
«Girabulloni» disse Amos, interrompendolo. «Faccio del mio meglio per
impedire a questa nave di cadere a pezzi quando la riempiono di buchi.»
«Solitamente io mi occupo del pannello di combattimento» riprese
Holden.
«Chi è il mitragliere?» chiese Bobbie.
«Yo» rispose Alex, indicando sé stesso.
«Piloti la nave e gestisci anche l’acquisizione dei bersagli?» domandò
Bobbie. «Impressionante.»
La pelle già scura di Alex lo divenne ancor di più. La sua calata della
Mariner Valley aveva cominciato a trasformarsi da fastidiosa in affascinante.
E quel rossore era carino. «Aw, no. Di solito è il capitano a occuparsi
dell’acquisizione dal pannello di combattimento. Ma sono io che controllo il
fuoco.»
«Bene, ecco fatto» disse Bobbie voltandosi verso Holden. «Datemi la
gestione delle armi.»
«Senza offesa, sergente...» iniziò a replicare Holden.
«Artigliere» lo corresse Bobbie.
«Artigliere» le concesse Holden con un cenno del capo. «Sei qualificata
nella gestione delle operazioni di fuoco su un veicolo navale?»
Bobbie decise di non offendersi e gli sorrise. «Ho visto la tua corazza e le
armi che imbracciavate nella camera stagna. Avete trovato un PAM nella stiva,
vero?»
«Un PAM?» chiese Avasarala.
«Un Pacchetto di Assalto Mobile. Attrezzature d’assalto dei marine. Non
buone quanto la mia corazza da ricognizione, ma c’è comunque un kit
completo per una mezza dozzina di soldati d’assalto.»
«Già» disse Holden. «Le abbiamo trovate lì.»
«Questo perché siamo su una nave di attacco rapido multispecialistica. Il
bombardiere è soltanto uno dei suoi ruoli. L’inserimento di gruppo di
arrembaggio è un altro. E quello di sergente d’artiglieria è un rango con un
significato molto specifico.»
«Già» ammise Alex. «Specialista di equipaggiamento.»
«Mi si richiede di essere competente in tutti i sistemi d’arma che il mio
plotone o la mia compagnia potrebbe trovarsi ad azionare durante uno
schieramento tipo. Questo include i sistemi d’arma su una nave d’assalto
come questa.»
«Capisco...» fece per dire Holden, ma Bobbie lo interruppe con un cenno
del capo.
«Sono il vostro mitragliere.»
Come la maggior parte delle cose nella vita di Bobbie, il sedile
dell’ufficiale mitragliere era stato concepito per un individuo più minuto di
lei. Le cinture a cinque fibbie le tiravano sui fianchi e sulle spalle. Perfino
nell’impostazione più distante, la console di controllo era un po’ troppo
vicina per permetterle di posare i gomiti comodamente sul sedile durante
l’uso. Il tutto sarebbe stato un problema se avessero dovuto fare delle
manovre ad alto g. Cosa che, ovviamente, avrebbero fatto una volta iniziato il
combattimento.
Tirò in dentro i gomiti più che poteva per evitare di slogarsi le braccia in
accelerazione elevata e armeggiò con le cinture. Se lo sarebbe dovuto far
bastare.
Dal sedile posizionato alle sue spalle e sopra di lei, Alex disse: «Finirà
tutto in fretta, in un modo o nell’altro. Probabilmente non avrai il tempo di
stare troppo scomoda.»
«Rassicurante.»
Sulla linea uno, Holden annunciò: «Siamo entrati all’interno della portata
efficace massima dei cacciatorpedinieri. Potrebbero sparare subito, o tra venti
ore. Per cui restate allacciati ai sedili. Lasciate i vostri posti soltanto in caso
di emergenze vitali e su mio ordine diretto. Spero che abbiate messo tutti
bene il vostro catetere.»
«Il mio è troppo stretto» disse Amos.
Alex parlò alle spalle di Bobbie, e una frazione di secondo più tardi la sua
voce arrivò anche dalla linea interna. «È un catetere profilattico, amico. Va
messo all’esterno.»
Bobbie non riuscì a trattenere una risata e alzò una mano finché Alex non
le diede il cinque.
Holden disse: «Qui in plancia abbiamo tutto in verde. Controllate gli
status di funzionamento dei vostri pannelli.»
«Tutto in verde sul pannello di volo» confermò Alex.
«Verde sulla guerriglia elettronica» gli fece eco Naomi.
«Qui sotto è tutto a posto» seguì Amos.
«I missili sono verdi e belli caldi» rispose Bobbie per ultima. Perfino
incastrata su un sedile di due taglie troppo piccolo per lei, a bordo di una
nave da guerra marziana rubata e capitanata da uno degli uomini più ricercati
di tutti i pianeti interni, era dannatamente bello essere lì. Trattenne un grido
di gioia e visualizzò il pannello delle minacce di Holden. Aveva già marcato i
sei cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite. Bobbie segnò la nave di testa e
lasciò che la Rocinante provasse a elaborare una soluzione di bersaglio. La
Roci calcolò le percentuali di riuscita a meno dello 0.1 percento. Bobbie
passò da un bersaglio all’altro, abituandosi ai tempi di risposta e ai controlli.
Passò le dita su un tasto per richiamare le informazioni sui bersagli e osservò
le specifiche dei cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite.
Quando quella lettura l’ebbe annoiata, attivò la schermata tattica. Un
piccolo puntino verde inseguito da sei puntini rossi leggermente più grandi, a
loro volta inseguiti da altri sei puntini blu. Quello era sbagliato. Le navi
terrestri sarebbero dovute essere blu, e quelle marziane rosse. Diede
istruzione alla Roci di invertire i colori. La Rocinante era orientata verso le
navi all’inseguimento. Sulla mappa, si aveva l’impressione che si stessero
dirigendo gli uni verso gli altri. A dire il vero, la Roci era in piena
decelerazione, stava rallentando per permettere alle navi delle Nazioni Unite
di raggiungerla prima. In realtà, tutte e tredici le navi che avrebbero
partecipato allo scontro stavano procedendo in direzione del sole. Solo che la
Roci lo stava facendo al contrario.
Bobbie diede un’occhiata all’ora e vide che il suo armeggiare con i
controlli aveva consumato meno di quindici minuti. «Odio aspettare l’inizio
di un combattimento.»
«Sono con te, sorella» disse Alex.
«Hai qualche gioco, su questo pannello?» chiese Bobbie, picchiettando
sulla console.
«Vedo, vedo...» rispose Alex «Qualcosa che comincia per... C!»
«Cacciatorpediniere» disse Bobbie. «Sei cannoni, otto CDR e una
mitragliatrice a ripetizione montata sulla chiglia.»
«Indovinato. Tocca a te.»
«Cazzo. Odio aspettare l’inizio di un combattimento.»
Quando cominciò, cominciò all’improvviso. Bobbie si era aspettata
qualche colpo d’anticipo, per sondare il terreno. Qualche missile sparato da
distanza estrema, tanto per vedere se l’equipaggio della Rocinante aveva il
pieno controllo di tutti i sistemi d’arma e ogni cosa in perfetto ordine di
funzionamento. E invece, le navi delle Nazioni Unite avevano coperto la
distanza che li separava, mentre la Roci frenava alla massima portata per
andare loro incontro.
Bobbie osservò le sei navi da guerra delle Nazioni Unite avvicinarsi
sempre di più alla linea rossa sul suo monitor di minaccia: la linea rossa che
rappresentava il punto in cui una raffica completa da tutte e sei le navi
avrebbe sopraffatto il sistema di cannoni di difesa ravvicinata della Roci.
Nel frattempo, le sei navi marziane si avvicinavano alla linea verde sul
display, che rappresentava la loro distanza di fuoco ottimale per ingaggiare le
navi delle Nazioni Unite. Era come un grande gioco del pollo, e tutti stavano
aspettando di vedere chi si sarebbe ritirato per primo.
Alex armeggiava con i deceleratori per tentare di assicurarsi che i
marziani arrivassero a distanza prima dei terrestri. Quando avessero
cominciato a sparare, avrebbe aperto a manetta e avrebbe cercato di muoversi
attraverso la zona attiva il più rapidamente possibile. Era per questo che
stavano andando incontro alle navi delle Nazioni Unite. Continuare a fuggire
li avrebbe mantenuti a portata molto più a lungo.
Poi uno dei puntini rossi – un incrociatore d’assalto rapido marziano –
oltrepassò la linea verde, e per tutta la nave risuonarono gli allarmi
d’ingaggio.
«Tracce di movimento rapido» disse Naomi. «L’incrociatore marziano ha
sparato otto missili!»
Bobbie li vedeva bene. Piccoli puntini gialli che passavano all’arancione
mentre partivano a g elevato. Le navi delle Nazioni Unite risposero
immediatamente al fuoco. Metà di esse si voltarono per affrontare le navi
marziane all’inseguimento e aprirono il fuoco con i mitragliatori e i cannoni
da difesa ravvicinata. Sul display tattico, lo spazio tra i due gruppi si riempì
improvvisamente di puntini giallo-arancioni.
«Missili in avvicinamento!» gridò Naomi. «Sei missili in rotta di
collisione!»
Mezzo secondo dopo, il vettore dei missili e i dati tachimetrici apparvero
sul pannello di controllo dei CDR di Bobbie. Holden aveva detto giusto. La
cinturiana pelle e ossa era brava davvero. I suoi tempi di reazione erano
sorprendenti. Bobbie segnò tutti e sei i missili per i CDR, e la nave cominciò a
vibrare mentre sparavano in rapida successione.
«Dose in arrivo» disse Alex, e Bobbie sentì il sedile che la pizzicava in
una mezza dozzina di punti. Nelle sue vene si riversò un gelo che si trasformò
ben presto in un bruciore incandescente. Scosse la testa per schiarire la
visuale che andava restringendosi mentre Alex diceva: «Tre... due...»
Non disse mai ‘uno’. La Rocinante si schiantò addosso a Bobbie da
dietro, schiacciandola sul suo sedile. Lei si ricordò di mantenere i gomiti
allineati all’ultimo secondo ed evitò di spezzarsi le braccia mentre ogni parte
del suo corpo cercava di staccarsi all’indietro a 10 g.
Sul suo visore di minaccia, l’iniziale ondata di sei missili che avevano
sparato loro contro si spense puntino dopo puntino mentre la Roci li
inquadrava e li abbatteva. C’erano altri missili in volo, ma ora l’intera
formazione marziana aveva aperto il fuoco sui terrestri, e lo spazio attorno
alle navi era diventato una confusione di scie di reattori e detonazioni. Bobbie
impostò la Roci affinché inquadrasse qualsiasi cosa si trovasse su un vettore
di collisione e lo abbattesse con i cannoni di difesa ravvicinata, affidandosi
alla scienza ingegneristica marziana e al favore dell’universo.
Usò uno dei grandi schermi per collegarsi alle telecamere frontali,
trasformandolo in una finestra sulla battaglia. Di fronte a lei, il cielo era pieno
di lampi accecanti di luce bianca e nubi di gas, tra le detonazioni dei missili.
Le navi delle Nazioni Unite avevano deciso che la vera minaccia erano i
marziani, e si erano voltate tutte e sei per affrontare il nemico faccia a faccia.
Bobbie toccò un controllo per visualizzare una sovrapposizione grafica delle
minacce sull’immagine video e, all’improvviso, il cielo fu pieno di lampi
incredibilmente veloci mentre il computer elaborava le minacce e delineava
con un indicatore luminoso ogni missile e proiettile.
La Rocinante si stava gettando a capofitto verso i cacciatorpedinieri delle
Nazioni Unite, e l’accelerazione scalò di colpo a 2 g. «Ci siamo» esclamò
Alex.
Bobbie attivò il sistema di puntamento missilistico e mirò ai coni dei
reattori di due navi nemiche. «Due fuori» disse, rilasciando i suoi primi due
pesci in acqua. Due scie brillanti illuminarono il cielo mentre sfrecciavano
via. L’indicatore di disponibilità si fece rosso mentre la nave ricaricava i
canali di lancio. Bobbie stava già inquadrando i reattori di altre due navi delle
Nazioni Unite. Non appena l’indicatore diventò verde, lanciò entrambi i
missili. Inquadrò gli ultimi due cacciatorpedinieri, poi controllò i progressi
dei suoi primi due missili. Erano andati entrambi, abbattuti dai CDR di poppa
dei cacciatorpedinieri. Un’ondata di globi luminosi si precipitò loro addosso e
Alex fece scartare la nave di lato, danzando fuori dalla linea di fuoco.
Non fu abbastanza. Una luce d’emergenza atmosferica cominciò a ruotare
nella cabina di pilotaggio, e il ditono di un clacson si diffuse nella nave.
«Siamo stati colpiti» disse Holden, con voce calma. «Perdiamo
atmosfera. Spero che abbiate messo tutti il casco come si deve.»
«Wow» esclamò Amos nella linea. «Tre colpi. Proiettili di piccole
dimensioni, probabilmente proiettili da CDR. Sono riusciti ad attraversarci
senza colpire niente d’importante.»
«Hanno attraversato la mia cabina» disse lo scienziato – Prax.
«Scommetto che ti hanno dato una svegliata» replicò Amos, con un
ghigno nella voce.
«Me la sono fatta sotto» rispose Prax, senza traccia di umorismo.
«Fate silenzio» intimò loro Holden senza ostilità. «Lasciate libera la linea,
prego.»
Bobbie lasciò che la parte razionale della sua mente, la parte pensante,
ascoltasse quel botta e risposta. Non le serviva quella parte del cervello, in
quel momento. La parte della mente che era stata addestrata a intercettare
bersagli mobili con altri missili lavorava senza che la prima interferisse. Era
il rettile a guidare, ora.
Non avrebbe saputo dire quanti missili avesse sparato quando ci fu un
gigantesco lampo di luce e lo schermo andò in black-out per un secondo.
Allorché l’immagine tornò visibile, uno dei cacciatorpedinieri delle Nazioni
Unite era aperto in due, con i pezzi della carlinga che schizzavano via
rapidamente gli uni dagli altri, lasciandosi dietro una scia leggera di gas e
piccoli pezzi di relitto. Alcuni di quegli oggetti che volavano via dalla nave
distrutta dovevano essere marinai delle Nazioni Unite. Bobbie non li
considerò. Il rettile se ne rallegrò.
La distruzione della prima nave delle Nazioni Unite fece pendere il piatto
della bilancia e, in pochi minuti, le altre cinque furono pesantemente
danneggiate o distrutte. Un capitano delle Nazioni Unite attivò una chiamata
di emergenza e segnalò immediatamente la resa.
Bobbie guardò il suo schermo. Tre navi delle Nazioni Unite distrutte. Tre
pesantemente danneggiate. I marziani avevano perso due cacciatorpedinieri e
uno dei loro incrociatori era gravemente danneggiato. La Rocinante aveva tre
fori che l’avevano svuotata di tutto il suo ossigeno, ma nessun altro danno.
Avevano vinto.
«Porca puttana» disse Alex. «Capitano, dobbiamo per forza prenderne
una così a bordo.»
Bobbie ci mise un po’ per rendersi conto che stava parlando di lei.
«Avete la gratitudine del governo delle Nazioni Unite» stava dicendo
Avasarala al comandante marziano. «O perlomeno della parte del governo
delle Nazioni Unite che gestisco io. Siamo diretti a Io per far saltare qualche
altra nave e, forse, impedire l’apocalisse. Vi va di venire con noi?»
Bobbie aprì una linea privata con Avasarala.
«Ora siamo tutti traditori.»
«Ah!» esclamò l’anziana donna. «Soltanto se perdiamo.»
44

Holden
Dall’esterno, il danno alla Rocinante era a malapena visibile. I tre
proiettili da CDR sparati da uno dei cacciatorpedinieri delle Nazioni Unite
l’avevano colpita proprio di fronte all’infermeria e, dopo un breve percorso in
diagonale attraverso la nave, erano fuoriusciti dall’officina, due ponti più
sotto. Nel passare, uno di essi aveva attraversato tre cabine del ponte di
servizio.
Holden si era aspettato di trovare il piccolo botanico completamente
sconvolto, specialmente dopo la dichiarazione sul fatto di essersela fatta
addosso. Ma, quando Holden era andato a controllare come stava dopo la
battaglia, era stato sorpreso dalla scrollata di spalle noncurante che aveva
ricevuto dallo scienziato.
«È stato piuttosto sconvolgente» fu tutto ciò che disse Prax.
Sarebbe stato facile derubricare la reazione a uno stato di shock
postraumatico. Il rapimento di sua figlia, seguito da mesi passati su
Ganimede mentre la struttura sociale della stazione collassava a poco a poco.
Sarebbe stato facile vedere la calma di Prax come lo stadio precedente una
violenta crisi mentale ed emozionale. Dio sapeva se quell’uomo aveva perso
il controllo almeno una mezza dozzina di volte, la maggior parte delle quali
in momenti decisamente inadatti. Ma Holden sospettava che Prax fosse molto
più solido di quanto sembrasse. C’era un inarrestabile moto di avanzamento
in quell’uomo. L’universo poteva metterlo al tappeto più e più volte ma, a
meno che non fosse morto, Prax avrebbe continuato a rialzarsi e a trascinarsi
verso la propria meta. Holden pensò che doveva probabilmente essere stato
un ottimo scienziato. Elettrizzato per le sue piccole vittorie, imperturbabile di
fronte ai fallimenti. Il tipo d’uomo che continuava ad avanzare
laboriosamente finché non fosse arrivato nel punto in cui doveva arrivare.
Perfino ora, appena poche ore dopo aver rischiato di essere tagliato in due
da un proiettile ad alta velocità, Prax era sottocoperta con Naomi e Avasarala,
intento a rattoppare i fori all’interno della nave. Non glielo avevano
nemmeno chiesto loro. Era semplicemente uscito dalla sua cabina e si era
dato da fare.
Holden era in piedi sopra uno dei fori di ingresso dei proiettili sullo scafo
esterno della nave. Il piccolo proiettile aveva lasciato un foro perfettamente
rotondo senza quasi nessuna imperfezione. Aveva attraversato cinque
centimetri di corazza in lega ad alta elasticità così rapidamente da non creare
sbeccature.
«Trovato» esclamò Holden. «Niente luce proveniente dall’interno, per cui
sembrerebbe che l’abbiano già riparato da dentro.»
«Arrivo» disse Amos, poi avanzò a passi pesanti sulla chiglia con i suoi
stivali magnetici e una fiamma ossidrica in una mano. Bobbie lo seguiva
nella sua costosa corazza potenziata, portando grossi fogli di materiale da
rattoppo.
Mentre lei e Amos si occupavano di sigillare la breccia sullo scafo
esterno, Holden si allontanò in cerca del foro successivo. Intorno a lui, le tre
navi marziane rimaste scivolavano accanto alla Rocinante come una guardia
d’onore. Con i reattori spenti erano visibili soltanto come piccoli punti neri
che si spostavano attraverso il campo stellato. Perfino con la Roci che istruiva
la sua corazza su dove guardare e con il visore che gli indicava la posizione
delle navi, erano quasi impossibili da notare.
Holden inquadrò l’incrociatore marziano sul visore finché non passò
davanti alla lunga chiazza chiara dell’ellittica della Via Lattea. Per un istante,
l’intera nave non fu altro che una sagoma nera sullo sfondo bianco antico di
qualche miliardo di stelle. Un tenue cono di bianco traslucido si diffuse da un
fianco della nave, e quella tornò nel buio chiazzato di stelle. Holden sentì il
desiderio di avere Naomi accanto a sé, per ammirare insieme a lei quello
stesso panorama; un desiderio tanto forte da rasentare quasi il dolore fisico.
«Mi dimentico sempre di quanto sia bello qua fuori» si accontentò di dirle
sulla loro linea privata.
«Stai per caso sognando a occhi aperti, lasciando agli altri tutto il
lavoro?» replicò lei.
«Già. La maggior parte di queste stelle ha dei pianeti intorno. Miliardi di
mondi. Cinquecento milioni di pianeti nella zona abitabile... E questa era solo
l’ultima stima. Credi che i nostri bisnipoti potranno vederne qualcuno?»
«I nostri bisnipoti?»
«Quando tutto questo sarà finito.»
«Più che altro» disse Naomi «almeno uno di quei pianeti è abitato dai
creatori della protomolecola. Magari faremmo meglio a evitarlo, quello.»
«Sai che ti dico? Quello sarebbe un pianeta che mi piacerebbe proprio
vedere. Chi è stato a creare quella cosa? A che scopo? Mi piacerebbe
poterglielo chiedere. Come minimo, condividono lo stesso stimolo umano
che ci spinge a trovare ogni angolo dell’universo abitabile e a trasferirci lì.
Potremmo avere più cose in comune di quante non crediamo.»
«Aggiungici che ammazzano chiunque vivesse lì prima di loro.»
Holden sbuffò. «È quello che facciamo anche noi da quando è stata
inventata la lancia. Loro sono soltanto spaventosamente più bravi.»
«Hai già trovato il prossimo foro?» domandò Amos sulla linea generale.
La sua voce era una fastidiosa intrusione. Holden distolse lo sguardo dal cielo
e tornò a fissare il metallo sotto i suoi piedi. Usando la mappa dei danni che
la Roci aveva inviato al suo visore, gli ci volle un attimo soltanto per trovare
il secondo foro di entrata.
«Sì, sì. Proprio qui» rispose, e Amos e Bobbie cominciarono a venire
verso di lui.
«Cap» disse Alex, inserendosi dal cockpit. «Il capitano di
quell’incrociatore della marina militare marziana vorrebbe parlare con te.»
«Passamelo sul canale della tuta.»
«Ricevuto» disse Alex, poi il crepitio statico del canale radio cambiò
tono.
«Capitano Holden?»
«La sento. Proceda.»
«Sono il capitano Richard Tseng della MRCMCydonia. Mi dispiace di non
averle potuto parlare prima. Sono stato occupato con questioni di controllo
dei danni, recupero dispersi e riparazione delle navi.»
«Capisco benissimo, capitano» replicò Holden, cercando di nuovo
d’individuare la Cydonia senza successo. «Io stesso sono sul mio scafo per
riparare qualche foro. Vi ho visti passare un minuto fa.»
«La mia vicecomandante dice che ha chiesto di parlare con me.»
«Sì, e la ringrazi da parte mia per tutto l’aiuto che ci ha dato finora» disse
Holden. «Ascolti, abbiamo usato un gran quantitativo di riserve in quella
schermaglia. Abbiamo sparato quattordici missili e quasi la metà delle nostre
munizioni da CDR. Dato che mi trovo su quella che un tempo era una nave
marziana, pensavo che magari potreste avere delle ricariche che vadano bene
per i nostri carrelli.»
«Sicuro» rispose il capitano Tseng, senza un attimo di esitazione. «Vi
farò accostare il cacciatorpediniere Sally Ride per il trasferimento di
munizioni.»
«Ah» disse Holden, sconcertato per quell’accordo immediato. Era pronto
a negoziare. «Grazie.»
«Le trasmetto anche il resoconto della battaglia, redatto dal mio ufficiale
tattico. Lo troverà interessante, credo. In breve, però: il primo abbattimento,
quello che ha aperto le difese dello schieramento delle Nazioni Unite e ha
messo fine al combattimento... quello è merito vostro. Immagino che
avrebbero fatto meglio a non darvi le spalle.»
«Potete prendervene comunque il merito, ragazzi» replicò Holden con
una risata. «Avevo a bordo una sergente artigliere della marina marziana
nella postazione del mitragliere.»
Ci fu una pausa; poi Tseng disse: «Quando tutto questo sarà finito, mi
piacerebbe offrirle da bere e parlare di come un ufficiale navale congedato
con disonore dalla Marina delle Nazioni Unite sia finito a comandare un
bombardiere rubato della Marina della Repubblica Congressuale Marziana
che ha per equipaggio un membro dell’esercito marziano e un membro
anziano del governo delle Nazioni Unite.»
«È una storia dannatamente interessante» replicò Holden. «E, a proposito
di marziani, vorrei fare un regalo a uno dei miei. Ha per caso un
distaccamento di marine, sulla Cydonia?»
«Sì. Perché?»
«C’è qualcuno del Corpo dei Ricognitori?»
«Sì. Di nuovo, perché?»
«Abbiamo bisogno di un certo tipo di equipaggiamento che dovreste
probabilmente avere in magazzino.»
Holden spiegò al capitano Tseng quello che stava cercando, e Tseng
rispose: «Ve ne farò dare uno dalla Ride quando effettueremo il
trasferimento.»
La MCRMSally Ride sembrava essere uscita dal combattimento senza un
graffio. Quando si accostò alla Rocinante, la sua fiancata scura sembrava
liscia e illesa come una pozza d’acqua nera. Dopo che Alex e il pilota della
Ride ebbero sincronizzato perfettamente la loro corsa, sul fianco della nave si
aprì un grosso portellone da cui si riversava una fioca luce d’emergenza
rossa. Furono sparati due rampini magnetici, per collegare le navi con dieci
metri di cavi.
«Sono la tenente Graves» disse una voce da ragazzina. «Siamo pronti a
cominciare il trasferimento del carico su vostro ordine.»
Dalla voce, la tenente Graves sembrava dover frequentare ancora il liceo,
ma Holden replicò: «Procedete. Noi qui siamo pronti.»
Passando alla linea privata con Naomi, disse: «Apri i portelli, abbiamo un
po’ di pesci freschi da mettere in stiva.»
A pochi metri da dove si trovava Holden, un ampio portello che era
solitamente tutt’uno con lo scafo si aprì in un varco largo un metro e lungo
otto nella pelle della nave. Un complesso sistema di rotaie e ingranaggi
ricopriva i lati dell’apertura. Sul fondo c’erano tre dei missili antinave rimasti
alla Rocinante.
«Sette qui» disse Holden, indicando la rastrelliera aperta. «E sette
dall’altra parte.»
«Ricevuto» rispose Graves. La forma bianca e allungata di un missile al
plasma apparve sul portellone aperto della Ride, affiancato da marinai con
indosso le tute da intervento esterno. Con qualche delicato sbuffo di azoto
compresso portarono il missile nello spazio lungo le due guide fino alla Roci;
poi, con l’aiuto della forza aumentata della corazza di Bobbie, li
manovrarono per sistemarli in posizione, in cima alla rastrelliera.
«Il primo è a posto» disse la marine.
«Ricevuto» replicò Naomi e, un secondo dopo, le rotaie motorizzate si
misero in moto e agganciarono il missile, tirandolo giù verso il caricatore.
Holden diede un’occhiata al tempo trascorso sul suo visore. Per trasferire
e caricare tutti e quattordici i missili avrebbe impiegato ore.
«Amos» disse. «Dove sei?»
«Ho appena finito di rattoppare l’ultimo foro giù in officina» rispose il
meccanico. «Ti serve qualcosa?»
«Quando avrai finito lì, prendi un paio di pacchetti da intervento esterno.
Ce ne andiamo a prendere gli altri rifornimenti. Dovrebbero essere tre casse
di proiettili da CDR, e qualche provvista.»
«Ho finito. Naomi, aprimi il portellone di carico, vuoi?»
Holden osservò Bobbie e i marinai della Ride mentre lavoravano;
riuscirono a caricare altri due missili nel tempo che Amos impiegò ad arrivare
con le tute da intervento esterno.
«Tenente Graves, due membri dell’equipaggio della Rocinante richiedono
il permesso di salire a bordo per prendere il resto delle scorte.»
«Permesso accordato, Rocinante.»
I proiettili da CDR erano contenuti in casse da ventimila pezzi. In piena
gravità, avrebbero pesato più di cinquecento chili. Nella microgravità delle
navi accostate, due persone equipaggiate con tute da intervento esterno
potevano spostarne una solo se erano disposte a metterci parecchio tempo e a
ricaricare la propria riserva di azoto compresso a ogni giro. Senza un robot o
una navetta da lavoro, non avevano altra scelta.
Ogni cassa doveva essere spinta lentamente verso la poppa della
Rocinante con un’accelerazione di venti secondi dalla tuta EVA di Amos. Una
volta giunti alla poppa della nave accanto al portellone di carico, Holden
doveva eseguire un’accelerazione ugualmente lunga per fermare la cassa.
Dopodiché dovevano entrambi manovrarla all’interno della stiva per
assicurarla a una paratia. Il procedimento era lungo e, almeno per Holden,
ogni viaggio comportava un momento di tensione estrema, quando azionava i
suoi stabilizzatori per frenare la cassa. Ogni volta aveva una visione fugace e
angosciante della sua tuta EVA che s’inceppava, mandandolo alla deriva nello
spazio con tutta la cassa di munizioni, sotto gli occhi impotenti di Amos. Era
una sciocchezza, ovviamente. Amos sarebbe potuto facilmente andare a
prendere un nuovo pacchetto EVA e venire a recuperarlo, o la nave sarebbe
potuta tornare indietro, o la Ride avrebbe potuto inviare una navetta di
soccorso, o mille altri modi in cui sarebbe potuto essere rapidamente salvato.
Ma gli esseri umani non avevano vissuto e lavorato nello spazio
abbastanza a lungo da zittire quella parte primitiva del loro cervello che
diceva: ‘Cadrò nel vuoto. Cadrò all’infinito.’
Il personale della Ride finì di caricare i missili nel momento in cui Holden
e Amos sistemarono l’ultima cassa di munizioni da CDR nella stiva.
«Naomi» chiamò Holden sulla linea aperta. «Siamo a posto così?»
«Da qui mi sembra tutto okay. Tutti i nuovi missili sono in contatto con la
Roci e segnalano piena operatività.»
«Fantastico. Io e Amos rientriamo dal portello pressurizzato della stiva.
Sigillala pure. Alex, non appena Naomi ti dà il via libera, comunica alla
Cydonia che possiamo dirigerci verso Io a massima velocità non appena il
capitano sarà pronto.»
Mentre l’equipaggio preparava la nave per il viaggio verso Io, Holden e
Amos si tolsero l’equipaggiamento da esterno e lo sistemarono nell’officina.
Sei dischi grigi, tre su ogni paratia opposta dello scompartimento, indicavano
i punti in cui i proiettili avevano attraversato quella sezione della nave.
«Che cosa c’è in quell’altra cassa che ti hanno dato i marziani?» chiese
Amos, tirando fuori un enorme stivale magnetico.
«Un regalo per Bobbie» rispose Holden. «Ma vorrei tenerlo segreto
finché non glielo darò, va bene?»
«Sicuro. Nessun problema, capitano. Se si tratta di una dozzina di rose,
però, non voglio esserci quando Naomi lo verrà a sapere. Per di più, sai,
Alex...»
«No, è una cosa molto più pratica di un mazzo di rose...» fece per dire
Holden, poi tornò mentalmente sulle parole di Amos. «Alex? Che c’entra
Alex?»
Il meccanico si strinse nelle spalle con le mani, come un cinturiano.
«Credo che possa avere una piccola cotta per la nostra marine extralarge.»
«Vuoi scherzare?» Holden non riusciva a immaginarselo. Non che
Bobbie non fosse attraente. Tutt’altro. Ma era anche davvero grossa, e
piuttosto intimidatoria. E Alex era un tipo così tranquillo e silenzioso. Certo,
erano entrambi marziani, e, per quanto uno potesse diventare cosmopolita,
c’era sempre qualcosa di confortante in ciò che ricordava la propria casa.
Forse anche soltanto il fatto di essere gli unici due marziani a bordo era
sufficiente. Ma Alex andava per la cinquantina, stempiandosi senza
lamentarsene, e indossava le sue maniglie dell’amore con la tranquilla
rassegnazione di un uomo di mezza età. La sergente Draper non poteva avere
più di trent’anni e sembrava uscita direttamente da un fumetto, completa di
muscoli sopra i suoi muscoli. Incapace di fermarsi, la sua mente cominciò a
provare a immaginarsi come potessero stare insieme quei due. Non
funzionava.
«Wow.» Fu tutto quello che riuscì a dire. «È reciproca, la cosa?»
«Non ne ho idea» rispose Amos con un’altra scrollata di mani. «La
sergente non è facile da interpretare. Ma non credo che gli farebbe del male
deliberatamente, se è quello che mi stai chiedendo. Non che potremmo
impedirglielo, sai.»
«Spaventa anche te, vero?»
«Senti,» disse Amos con un sorriso «quando si parla di lividi, ritengo di
potermi definire un dilettante con un certo talento. Ma ho dato una bella
occhiata a quella donna dentro e fuori da quel costoso guscio meccanico che
indossa. È una professionista. Non giochiamo allo stesso livello.»
La gravità cominciò a tornare a bordo della Rocinante. Alex stava
aprendo il reattore, il che significava che stavano cominciando a dirigersi
verso Io. Holden si alzò e si prese un momento di pausa per permettere alle
articolazioni di riabituarsi alla sensazione del peso. Poi diede una pacca sulle
spalle ad Amos e disse: «Be’, ti ritrovi con la nave carica di missili e
munizioni CDR, tre navi da guerra marziane che ti scortano, una vecchia
arrabbiata in astinenza da tè e una marine marziana che sarebbe capace di
ammazzarti con i tuoi stessi denti. Che cosa faresti tu?»
«Dimmelo tu, capitano.»
«Troverei qualcun altro contro cui farli sfogare.»
45

Avasarala
«Per come la vedo io, signore,» disse Avasarala «il dado è già tratto.
Abbiamo già due diverse direzioni politiche efficacemente in gioco. Il punto
è come vogliamo procedere d’ora in avanti. Finora sono riuscita a impedire
che le informazioni trapelassero ma, una volta che succederà, gli effetti
saranno devastanti. E visto che è del tutto certo che l’artefatto sia in grado di
comunicare, le possibilità di un utilizzo militare effettivo di questi ibridi
protomolecolari-umani sono sostanzialmente nulle. Se useremo queste armi,
creeremmo una seconda Venere, commettendo un genocidio e rimuovendo
dallo scacchiere qualsiasi argomentazione morale contro il ricorso ad armi
come gli asteroidi accelerati contro la Terra stessa.
«Spero che vorrà scusare il mio linguaggio, signore, ma tutta questa
faccenda è stata una cazzata fin dall’inizio. Il danno procurato alla sicurezza
del genere umano è letteralmente inimmaginabile. A questo punto
sembrerebbe chiaro che il progetto che la protomolecola sta portando avanti
su Venere sia a conoscenza degli eventi accaduti nel sistema gioviano. È
plausibile credere che i campioni in nostro possesso dispongano delle
informazioni acquisite dalla distruzione della Arboghast. Dire che la cosa
rende la nostra posizione problematica significa sottovalutare radicalmente la
questione.
«Se si fosse passati attraverso i canali appropriati, non ci troveremmo in
questa posizione. Nel caso attuale, ho fatto tutto ciò che è in mio potere al
momento, data la mia situazione. La coalizione che ho costruito tra Marte,
alcuni elementi della Fascia e il legittimo governo della Terra è pronta ad
agire. Ma le Nazioni Unite devono prendere le distanze da questo piano e
muoversi immediatamente per isolare e rendere innocua la fazione interna al
governo che ha combinato questo fottuto casino. Di nuovo, chiedo scusa per
il linguaggio.
«Ho inviato una copia dei dati inclusi agli ammiragli Souther e Leniki,
così come alla mia squadra al lavoro sulla questione Venere. Sono,
ovviamente, a sua disposizione per rispondere a qualsiasi domanda possa
avere, qualora io stessa non fossi in grado di farlo.
«Sono profondamente dispiaciuta di doverla mettere in una simile
posizione, signore, ma dovrà scegliere da che parte stare in tutta questa
faccenda. E rapidamente. Gli eventi, qui fuori, hanno acquisito uno slancio
proprio. Se vuole trovarsi dalla parte giusta della storia, in questo frangente,
dovrà agire subito.»
Se ci sarà ancora una storia in cui stare dalla parte giusta, pensò
Avasarala. Cercò di trovare qualcos’altro da dire, qualche ulteriore
argomento che avrebbe potuto penetrare gli strati di legno stagionato che
circondavano il cervello del segretario generale. Non c’era nient’altro da dire,
e ripetere gli stessi concetti con parole semplici sarebbe probabilmente
sembrato sussiegoso. Interruppe la registrazione, tagliò gli ultimi secondi in
cui era rimasta a guardare in camera con un’aria disperata, e inviò il
messaggio con tutti i segnalatori di priorità possibili e la codifica diplomatica.
Ecco a cosa si era arrivati. Tutta la civiltà umana, ogni traguardo
raggiunto, dai primi dipinti rupestri all’emersione dal suo pozzo di gravità,
spingendosi all’esterno fino all’anticamera delle stelle, arrivava a dipendere
dal fatto che un uomo il cui maggior merito era quello di essersi fatto
incarcerare per aver scritto rime di dubbio gusto avesse le palle per opporsi a
Errinwright. La nave corresse la rotta sotto di lei, scartando come un
ascensore che scivolasse all’improvviso sulle guide. Avasarala cercò di tirarsi
a sedere, ma le sospensioni cardaniche del sedile si spostarono. Dio, quanto
odiava viaggiare nello spazio.
«Funzionerà?»
Il botanico era in piedi sulla soglia della sua porta. Era magro come uno
stecco, con una testa appena più grande di quanto non sembrasse giusto. Non
aveva la strana costituzione di un cinturiano, ma non poteva essere scambiato
per qualcuno che fosse cresciuto fino all’età adulta in piena gravità. Così, in
piedi sulla soglia, cercando qualcosa da fare con le mani, sembrava strano e
perso, e vagamente di un altro mondo.
«Non lo so» rispose lei. «Se fossi lì, le cose andrebbero come vorrei che
andassero. Potrei andare in giro a strizzare qualche testicolo finché non la
vedessero a modo mio. Ma da qui... Forse sì. Forse no.»
«Però da qui può parlare con chiunque, giusto?»
«Non è la stessa cosa.»
Lui annuì, e la sua attenzione sembrò spostarsi all’interno. Nonostante la
differenza in termini di carnagione e corporatura, l’uomo le ricordò per un
momento Michael-Jon. Dava la stessa impressione di essersi costantemente
ritratto di mezzo passo dal resto del mondo. Solo che il distacco di Michael-
Jon era al limite dell’autismo, mentre Praxidike Meng pareva visibilmente
più interessato alle persone che aveva intorno.
«Sono arrivati fino a Nicola» disse. «Le hanno fatto dire quelle cose su di
me. Su Mei.»
«Certo. È così che fanno. E, se volessero, potrebbero produrre i
documenti e i rapporti giudiziari a sostegno di quelle dichiarazioni, retrodatati
e inseriti nelle banche dati di ogni posto in cui hai vissuto.»
«Odio che la gente pensi che abbia fatto cose del genere.»
Avasarala annuì, poi si strinse nelle spalle.
«La reputazione non ha mai molto a che fare con la realtà» spiegò.
«Potrei farti il nome di una mezza dozzina di santi che sono in realtà persone
orribili, meschine e malvage. E, di alcune delle migliori persone che conosco,
ti basterebbe sentirne il nome per voler uscire dalla stanza. Nessuno, sullo
schermo, è realmente chi è quando respiri la sua stessa aria.»
«Holden» disse Prax.
«Be’... Lui è l’eccezione che conferma la regola» disse Avasarala.
Il botanico abbassò gli occhi a terra, poi li rialzò. La sua espressione era
quasi di scuse.
«Probabilmente Mei è morta» disse.
«Non ci credi sul serio.»
«È passato molto tempo. Anche se avessero il suo farmaco,
verosimilmente l’hanno trasformata in uno di quegli... affari.»
«Tu non ci credi lo stesso» ribatté lei. Il botanico chinò la testa,
accigliandosi come se lei gli avesse appena sottoposto un problema che non
era in grado di risolvere sul momento. «Dimmi che possiamo bombardare Io.
Posso far lanciare trenta testate nucleari in questo stesso istante. Spegniamo i
motori e li lasciamo procedere per inerzia. Non passeranno tutti, ma alcuni sì.
Tu di’ solo che si può fare, e posso far ridurre Io a un cumulo di macerie
prima ancora del nostro arrivo sul posto.»
«Ha ragione» disse Prax. Poi, un attimo dopo, aggiunse: «Perché non lo
fa?»
«Vuoi il motivo reale, o la mia giustificazione ufficiale?»
«Entrambi.»
«Lo giustifico così: non so che cosa ci sia in quel laboratorio. Non posso
dare per scontato che quei mostri siano soltanto lì e, se distruggo quel posto,
rischio di mandare in fumo i resoconti che mi permetterebbero di rintracciare
eventuali altri esperimenti. Non conosco tutti quelli che sono coinvolti in
questa faccenda, e non ho le prove necessarie contro coloro che so essere
coinvolti. Potrebbero essere laggiù. Ci andrò, scoprirò quello che mi serve
scoprire, e poi ridurrò il laboratorio a un mucchietto di vetro radioattivo.»
«Sono ottime ragioni.»
«Sono ottime giustificazioni. Le trovo molto convincenti.»
«Il motivo reale, però, è che Mei potrebbe essere ancora in vita.»
«Non uccido i bambini» disse lei. «Nemmeno quando sarebbe la cosa
giusta da fare. Saresti sorpreso di sapere quante volte questo fatto abbia
danneggiato la mia carriera politica. La gente pensava che fossi debole,
finché non ho trovato il trucco giusto.»
«Il trucco?»
«Se riesci a farli arrossire, la gente tende a pensare che sei una dura»
spiegò lei. «Mio marito la chiama la maschera.»
«Ah» disse Prax. «Grazie.»
L’attesa era peggiore della paura della battaglia. Il suo corpo voleva
muoversi, alzarsi dal sedile e camminare attraverso i corridoi familiari. Da
lontano, la sua mente le gridava di entrare in azione, esigeva movimento,
confronto. Passeggiò ansiosamente per la nave da cima a fondo e ritorno. La
sua mente ripassò le note di colore che aveva sulle persone che incontrava nei
corridoi, quei frammenti irrilevanti dai rapporti informativi che aveva letto. Il
meccanico, Amos Burton. Coinvolto in diversi omicidi, incriminato, mai
processato. Aveva scelto di farsi praticare una vasectomia il giorno stesso in
cui aveva raggiunto l’età legale per decidere. Naomi Nagata, l’ingegnere.
Due lauree. Le era stata offerta una borsa di studio completa per un dottorato
sulla Stazione di Ceres e l’aveva rifiutata. Alex Kamal, pilota. Sette fermi per
ubriachezza molesta e schiamazzi quando era ancora ventenne. Aveva un
figlio su Marte di cui non sapeva ancora niente. James Holden, l’uomo senza
segreti. Lo sciocco buono che aveva trascinato l’intero sistema solare in
guerra e che sembrava completamente ignaro del danno che aveva provocato.
Un idealista. Il tipo d’uomo più pericoloso che ci fosse. E anche un
brav’uomo.
Si chiese se tutto questo avesse importanza.
L’unico soggetto in gioco abbastanza vicino con cui poter parlare senza
che lo sfasamento temporale rendesse la conversazione praticamente
epistolare era Souther e, poiché era ancora presumibilmente dalla stessa parte
di Nguyen, pronto a dare battaglia a quelle medesime navi che la stavano
proteggendo, le opportunità di dialogo erano decisamente scarse.
«Hai saputo niente?» le chiese dallo schermo del terminale.
«No» rispose lei. «Non so perché quel fottuto pupazzo ci stia mettendo
tutto questo tempo.»
«Gli stai chiedendo di voltare le spalle all’uomo di cui si è sempre fidato
di più.»
«E quanto cazzo di tempo ci deve mettere? Quando l’ho fatto io, mi ci
sono voluti più o meno cinque minuti. ‘Soren’ ho detto. ‘Sei un imbecille.
Fuori dalla mia vista.’ Non ci vuole molto, no?»
«E se non lo facesse?» chiese Souther.
Avasarala sospirò.
«In tal caso, mi toccherà richiamarti per cercare di convincerti a
ribellarti.»
«Ah» esclamò Souther con un mezzo sorriso. «E come pensi che andrà?»
«Non mi do molte possibilità, ma non si può mai dire. So essere
maledettamente convincente.»
Sullo schermo comparve un avviso. Un nuovo messaggio. Da Arjun.
«Devo andare» disse lei. «Tieni l’orecchio a terra, o qualsiasi cosa
facciate là fuori, dove la terra non significa niente.»
«Riguardati, Chrisjen» le raccomandò Souther, e svanì sullo sfondo verde
di una connessione interrotta.
Intorno a lei, la cambusa era vuota. Però sarebbe sempre potuto entrare
qualcuno. Avasarala alzò l’orlo del sari e tornò nella sua stanzetta, lasciando
che la porta si richiudesse alle sue spalle prima di dare al terminale il
permesso di aprire il file.
Arjun era alla scrivania, con indosso i suoi abiti formali, ma con il
colletto e le maniche sbottonate. Aveva l’aspetto di un uomo appena tornato
da una festa noiosa. La luce del sole brillava alle sue spalle. Era pomeriggio,
dunque. Era stato pomeriggio, quando le aveva mandato quel messaggio. E
poteva esserlo ancora. Avasarala toccò lo schermo, tracciando con la punta
delle dita la linea della sua spalla.
«Mi pare di capire, dal tuo messaggio, che potresti non tornare a casa,
stasera» disse.
«Mi dispiace» rispose lei allo schermo.
«Come potrai immaginare, trovo il pensiero piuttosto... doloroso» riprese
lui, e poi un sorriso gli divise il volto, danzandogli negli occhi che ora la
moglie notò essere arrossati dalle lacrime. «Ma che cosa posso farci? Io
insegno poesia ai laureandi. Non ho potere in questo mondo. Quella sei
sempre stata tu. E dunque voglio offrirti questo: non pensare a me. Non
distogliere la mente da quello che stai facendo per pensare a me. E se non...»
Arjun fece un profondo respiro.
«Se morte è vita, è lì che ti cercherò. Lì ti cercherò.»
Abbassò gli occhi, poi li rialzò.
«Ti amo, Kiki. E ti amerò sempre, non importa quanto siamo lontani.»
Il messaggio terminava lì. Avasarala chiuse gli occhi. Intorno a lei, la
nave era chiusa e soffocante come una bara. I suoi piccoli rumori le
premettero addosso fino a farle venire voglia di gridare. Fino a farle
desiderare il sonno. Si permise di piangere per un momento. Non c’era
nient’altro che potesse fare. Aveva fatto del suo meglio, e non c’era
nient’altro da fare se non meditare e preoccuparsi.
Mezz’ora dopo, il suo terminale trillò di nuovo, svegliandola dai suoi
sonni agitati. Errinwright. L’ansia le annodò la gola. Alzò un dito per far
partire la registrazione, poi si fermò. Non voleva farlo. Non voleva tornare in
quel mondo, indossare di nuovo quella maschera pesante. Voleva guardare di
nuovo Arjun. Voleva ascoltare la sua voce.
Solo che, naturalmente, Arjun sapeva che cosa avrebbe voluto fare. Era
per questo che aveva detto quelle cose. Avasarala fece partire il messaggio.
Errinwright pareva furioso. Più che altro, però, sembrava stanco. Il suo
portamento elegante era svanito, ed era diventato un uomo amaro e
minaccioso.
«Chrisjen» disse. «So che non capirà, ma ho fatto tutto ciò che era in mio
potere per tenere al sicuro lei e i suoi. Lei non capisce in che cosa si è andata
a invischiare, e sta mandando tutto a puttane. Vorrei che avesse avuto il
coraggio morale di venirmelo a dire prima di scappare come una sedicenne in
calore con James Holden. Onestamente, non avrei trovato un modo migliore
di distruggere qualunque credibilità professionale potesse avere un tempo.
«L’ho fatta salire sulla Guanshiyin per toglierla dallo scacchiere, sapendo
che le cose si sarebbero fatte complicate. Be’, si sono complicate, e ora lei ci
si trova in mezzo e non capisce la situazione. Milioni di persone corrono il
rischio concreto di morire malamente per colpa del suo egotismo. E lei fa
parte del novero. Come Arjun. E sua figlia. Sono tutti in pericolo, ora, per
colpa sua.»
Nell’immagine, Errinwright unì le mani e si premette le nocche sul labbro
inferiore. L’idea platonica di un padre scontento.
«Se torna indietro ora, potrei – potrei – essere in grado di salvarla. Ma
non la sua carriera. Quella è andata. Se la dimentichi. Tutti quanti, quaggiù,
hanno capito che lei sta lavorando con l’APE e Marte. Tutti pensano che lei ci
abbia tradito, e non posso far niente per cambiare questo fatto. La sua vita e
la sua famiglia. È tutto quello che posso salvare. Ma deve prendere le
distanze da questo disastro a cui ha dato inizio, e deve farlo ora.
«Il tempo stringe, Chrisjen. Tutto ciò che ha di importante è sul piatto
della bilancia, e io non posso aiutarla se lei non vorrà aiutarsi. Non stavolta.
«È l’ultima occasione che ha. Mi ignori ora e, la prossima volta che
parleremo, qualcuno sarà morto.»
Il messaggio giunse al termine. Lei lo rimise da capo, e poi una terza
volta. Il ghigno di quell’uomo era ferale.
Trovò Bobbie in plancia con il pilota, Alex. Smisero di parlare quando lei
entrò nella stanza, e sul viso di Bobbie si dipinse un punto interrogativo.
Avasarala alzò un dito e trasmise la registrazione dal suo terminale agli
schermi della nave. Errinwright comparve tra loro. Su quei grandi schermi,
Avasarala riusciva a vedere i pori della sua pelle e le singole ciglia, una per
una. Mentre l’uomo parlava, Avasarala vide Alex e Bobbie farsi seri,
chinandosi verso lo schermo come se fossero stati tutti al tavolo da poker alla
fine di una mano con puntate pesanti.
«E va bene» disse Bobbie. «Che cosa facciamo?»
«Stappiamo un cazzo di champagne» rispose Avasarala. «Che cos’è che
ci ha appena detto? Non c’è niente in quel messaggio. Niente. Gira intorno
alle parole come se fossero avvelenate. E che cos’ha da darci? Minacce.
Nessuno fa minacce, mai.»
«Aspetti un momento» disse Alex. «Quello era un buon segno?»
«Eccellente» replicò Avasarala; poi qualcos’altro, qualcosa di piccolo,
andò al suo posto nella sua mente mentre cominciava a ridere e a imprecare
insieme.
«Che cosa? Che succede?»
«‘Se morte è vita, è lì che ti cercherò. Lì ti cercherò’» disse. «È un fottuto
haiku. Quell’uomo ha un chiodo fisso, e continua a batterci in continuazione.
Poesia. Dio mi salvi dalla poesia.»
Alex e Bobbie non capirono, ma non serviva che lo facessero. Il
messaggio reale arrivò cinque ore dopo. Fu trasmesso su un notiziario
pubblico, e fu dato dal segretario generale Esteban Sorrento-Gillis. Quel
vecchio era bravissimo ad apparire cupo e, al contempo, energico. Se non
fosse stato a capo dell’esecutivo del più grande organismo governativo della
storia dell’umanità, avrebbe potuto fare fortuna come promotore di bevande
vitaminiche.
L’intero equipaggio si era riunito lì – Amos, Naomi, Holden e Alex.
Perfino Prax. Erano accalcati in plancia e i loro aliti sommati eccedevano
appena la capacità dei riciclatori d’aria, conferendo all’ambiente una
sensazione di caldo da fienile. Tutti gli occhi erano puntati sullo schermo
mentre il segretario generale saliva sul podio.
«Sono qui, stasera, per annunciare l’immediata costituzione di un
comitato investigativo. Alcuni individui all’interno dell’organismo
governativo delle Nazioni Unite e delle loro forze armate sono stati accusati
di aver intrapreso misure non autorizzate e presumibilmente illegali nel
prendere accordi con determinate società private. Se tali accuse dovessero
essere verificate, si arriverà a una risoluzione nella maniera più rapida
possibile. Qualora si rivelassero invece infondate, dovranno essere
pubblicamente smentite e i responsabili della loro diffusione saranno
chiamati a rispondere delle loro calunnie.
«Non serve certo che vi ricordi quanti anni io abbia passato in veste di
prigioniero politico.»
«Ah, ma dài» disse Avasarala, battendo le mani deliziata. «Sta usando il
discorso dell’outsider. In questo momento starà stringendo il culo tanto forte
da piegare lo spaziotempo.»
«Ho dedicato il mio mandato in qualità di segretario generale allo
sradicamento della corruzione e, fintantoché avrò questa responsabilità,
continuerò a farlo. Il nostro mondo e il sistema solare, che condividiamo tutti,
devono sapere senza ombra di dubbio alcuno che le Nazioni Unite onorano e
rispettano i valori etici, morali e spirituali che ci uniscono come membri di
un’unica specie.»
Nel video, Esteban Sorrento-Gillis annuì, si voltò e si allontanò a grandi
passi in un clamore di domande rimaste senza risposta, mentre i
commentatori occupavano lo spazio vacante, parlandosi addosso con tutto il
ventaglio di opinioni politiche possibili.
«Okay» fece Holden. «Allora, ha detto qualcosa di sensato?»
«Ha detto che Errinwright è finito» rispose Avasarala. «Se avesse avuto
ancora anche soltanto un minimo di influenza, un simile annuncio non
sarebbe mai uscito. Cazzo, quanto mi sarebbe piaciuto essere lì.»
Errinwright era fuori dallo scacchiere. Rimanevano soltanto Nguyen,
Mao, Strickland o chiunque diavolo fosse, i loro incontrollabili guerrieri
protomolecolari e la crescente minaccia di Venere. Avasarala emise un lungo
respiro tremante dalla gola e dal naso.
«Signore e signori» disse. «Ho appena risolto il più piccolo dei nostri
problemi.»
46

Bobbie
Uno dei ricordi più nitidi di Bobbie era il giorno in cui aveva ricevuto
l’ordine di presentarsi al centro di addestramento alla guerra del secondo
battaglione dei reparti speciali di spedizione. Il Corpo dei Ricognitori. Il
massimo livello raggiungibile per un soldato di terra marziano. Durante
l’addestramento, si erano allenati con un sergente dei Ricognitori. L’ufficiale
indossava una corazza potenziata di un rosso brillante, e loro l’avevano
osservato mentre ne dimostrava i possibili usi in una varietà di situazioni
tattiche. Alla fine, aveva detto loro che i quattro allievi migliori sarebbero
stati trasferiti al centro di guerriglia speciale sulle chine di Hecates Tholus e
addestrati all’uso della corazza per raggiungere le unità di combattimento più
cazzute del sistema solare.
Bobbie aveva deciso che sarebbe andata lì.
Determinata a vincere uno di quei quattro ambiti posti, si era data anima e
corpo all’addestramento sul campo. E saltò fuori che aveva davvero molto da
dare. Non solo riuscì a entrare tra i primi quattro, ma arrivò in prima
posizione con un margine di punteggio imbarazzante. E poi era giunta la
lettera in cui veniva assegnata alla base di Hecate per l’addestramento da
ricognitore, e aveva capito che ne era davvero valsa la pena. Aveva chiamato
suo padre e aveva gridato in linea per due minuti buoni. Quando lui era
finalmente riuscito a farla calmare e a farsi dire il motivo della chiamata,
aveva gridato anche lui per altri due minuti. ‘Sei una delle migliori, ora,
tesoro’ le aveva detto alla fine, e il calore che quelle parole le avevano fatto
sentire non era mai svanito dal suo cuore.
Perfino ora, seduta sul ponte di metallo grigio e sporco dell’officina di
una nave da guerra marziana rubata. Perfino con tutti i suoi compagni fatti a
brandelli e sparsi per la superficie ghiacciata di Ganimede. Perfino con il suo
status militare in sospeso e la sua lealtà alla nazione messa
comprensibilmente in dubbio. Perfino così, la frase di suo padre la faceva
sorridere. Sentiva il bisogno di chiamare suo padre e di raccontargli quello
che era successo. Erano sempre stati molto vicini e, quando nessuno dei suoi
fratelli aveva seguito le orme paterne scegliendo la carriera militare, lei
l’aveva fatto. E aveva consolidato il loro legame. Bobbie sapeva che suo
padre avrebbe capito quanto le fosse costato dover voltare le spalle a tutto ciò
che considerava sacro, pur di vendicare il suo battaglione.
E aveva la forte sensazione che non l’avrebbe mai più rivisto.
Quand’anche fossero arrivati fin su Giove con mezza flotta delle Nazioni
Unite alle calcagna, e anche se, quando fossero arrivati lì, l’ammiraglio
Nguyen non li avesse immediatamente fatti saltare in aria con la dozzina di
navi che controllava, e persino se fossero riusciti a fermare qualsiasi cosa
stesse accadendo in orbita attorno a Io con la Rocinante ancora intatta,
Holden aveva sempre intenzione di atterrare e di salvare la figlia di Prax.
Lì ci sarebbero stati i mostri.
Bobbie lo sapeva con certezza assoluta, come mai in vita sua aveva
saputo qualcosa. Ogni notte sognava di affrontarne un altro. La creatura
fletteva le sue lunghe dita e la fissava con i suoi occhi baluginanti, azzurri,
troppo grandi. Pronta a finire quel che aveva iniziato mesi prima su
Ganimede. Nel suo sogno, Bobbie impugnava un’arma che le cresceva dal
braccio e cominciava a sparare, mentre la cosa le correva addosso e lunghe
ragnatele nere schizzavano via dai fori, che si richiudevano come fossero
d’acqua. Si svegliava sempre prima che il mostro la raggiungesse, ma sapeva
come sarebbe finito il sogno: con il suo corpo martoriato lasciato riverso, a
congelarsi sul ghiaccio. Sapeva anche che, quando Holden avrebbe guidato la
sua squadra nei laboratori di Io, dove venivano prodotti i mostri, sarebbe
andata con lui. La scena del suo sogno sarebbe diventata vita reale. Lo
sapeva, come sapeva che suo padre l’amava. E aspettava quel momento.
Sul pavimento intorno a lei c’erano i pezzi della sua corazza. Con altre
settimane di viaggio fino a Io, aveva tutto il tempo di smontarla pezzo per
pezzo e di revisionarla perfettamente. L’officina della Rocinante era ben
attrezzata, e gli strumenti erano di fattura marziana. Era il posto perfetto per
farlo. La corazza era stata usata parecchio senza essere sottoposta a
manutenzione ma, a voler essere onesti, il vero scopo di quell’attività era la
distrazione. Una tuta corazzata da ricognizione marziana era una macchina
incredibilmente complessa, che andava accordata perfettamente con chi la
indossava. Smontarla e rimontarla non era certo un compito banale.
Richiedeva la massima concentrazione. Ogni momento che passava al lavoro
sulla corazza era un momento in cui non doveva pensare al mostro che la
stava aspettando per ucciderla su Io.
Tristemente, la distrazione era già finita. Aveva terminato la
manutenzione, arrivando a individuare perfino una microfrattura in una
minuscola valvola che provocava la lenta ma persistente perdita di fluido
lubrificante nell’attuatore del ginocchio della tuta. Era venuto il momento di
riassemblare il tutto. Sembrava quasi un rituale. Una purificazione finale
prima di uscire per andare incontro alla morte sul campo di battaglia.
Ho guardato troppi film di Kurosawa, pensò Bobbie, ma non riuscì
comunque ad abbandonare del tutto l’idea. Quell’immaginario era un modo
adorabile di trasformare angoscia e tendenze suicide in onore e nobile spirito
di sacrificio.
Raccolse la piastra del torace e la ripulì accuratamente con un panno
umido, rimuovendo gli ultimi residui di polvere e lubrificante meccanico che
rimanevano all’esterno. L’odore di metallo e olio riempì l’aria. E, mentre
riavvitava il pettorale sul suo telaio, con la superficie coperta da un migliaio
di indentature e graffi, smise di opporsi al bisogno di ritualizzare quel
compito e lasciò che tutto fluisse. Quello che stava assemblando, con ogni
probabilità, era il suo sudario. A seconda di come fosse andata la battaglia
finale, quel guscio di acciaio ceramico, gomma e lega metallica avrebbe
potuto ospitare il suo cadavere per l’eternità.
Rigirò il busto e cominciò a lavorare sulla schiena. Un lungo solco sullo
smalto mostrava la violenza del suo passaggio sul ghiaccio di Ganimede
quando il mostro si era autodistrutto di fronte a lei. Prese una chiave inglese,
poi la posò di nuovo a terra, tamburellando sul ponte con le nocche.
Perché proprio in quel momento?
Perché il mostro si era fatto saltare proprio in quell’istante? Ricordò il
modo in cui aveva cominciato a mutare, con nuovi arti che gli spuntavano dal
corpo mentre la fissava. Se Prax aveva ragione, quello era il momento in cui
erano saltati i sistemi di vincolo impiantati dagli scienziati di Mao. E avevano
impostato la bomba per detonare nell’istante in cui la creatura avesse
cominciato ad andare fuori controllo. Ma questo non faceva che portare il suo
interrogativo a un altro livello. Perché il loro controllo sulla fisiologia della
creatura era venuto meno proprio allora? Prax aveva detto che i processi
rigenerativi erano un buon momento perché i sistemi vincolanti arrivassero a
saltare. E il suo plotone aveva crivellato la creatura con un fuoco di
sbarramento mentre quella continuava a caricare verso le loro linee.
Sull’istante non sembrava avere effetto, ma ogni ferita rappresentava un
improvviso picco di attività per le cellule del mostro o qualsiasi cosa avesse
al posto delle cellule, mentre guariva. Ogni ferita era un’occasione buona per
la nuova evoluzione di sfuggire al guinzaglio.
Forse era quella la risposta. Non cercare di uccidere il mostro. Bisogna
solo danneggiarlo abbastanza da cominciare a far saltare la
programmazione cellulare e innescare il processo di autodistruzione. Non le
serviva nemmeno sopravvivere, ma resistere abbastanza da ferire il mostro al
di là della sua capacità di rigenerarsi in maniera sicura. Tutto ciò che le
serviva era tempo a sufficienza per potergli far male davvero.
Posò la piastra su cui stava lavorando e raccolse l’elmetto. La corazza
aveva ancora il video dello scontro, ripreso dalla sua stessa telecamera, in
memoria. Non l’aveva più rivisto, dopo la presentazione di Avasarala
all’equipaggio della Roci. Non ne era stata capace.
Si mise in piedi e attivò il pannello di comunicazione a parete. «Ehi,
Naomi? Sei in plancia?»
«Sì» rispose Naomi dopo qualche secondo. «Ti serve qualcosa,
sergente?»
«Credi di poter impostare un collegamento tra la Roci e il mio casco? Ho
il sistema radio acceso, ma non comunica con il materiale civile. Questa è
una delle nostre navi, per cui immagino che la Roci disponga delle chiavi e
dei codici di accesso.»
Ci fu una lunga pausa, e Bobbie posò l’elmetto su un piano di lavoro
accanto al monitor a pannello più vicino e attese.
«Vedo un nodo radio; la Roci sta contattando ‘MCR MR Goliath III
24397A15’.»
«Sono io» disse Bobbie. «Puoi inviare il controllo di quel nodo giù al
pannello dell’officina?»
«Fatto» rispose Naomi dopo un secondo.
«Grazie» replicò Bobbie, e chiuse la comunicazione. Le ci volle qualche
istante per riabituarsi al software video militare marziano e per convincere il
sistema a usare quegli algoritmi di spacchettamento così superati. Dopo
qualche falsa partenza, il video diretto del suo scontro su Ganimede apparve
sullo schermo. Lei lo impostò per andare a loop e si risedette sul ponte
accanto alla sua corazza.
Finì di imbullonare la piastra dorsale e cominciò a ricollegare
l’alimentazione del busto e i sistemi idraulici primari durante la prima
riproduzione. Cercò di non provare emozioni vedendo le immagini che
passavano sullo schermo, di non attribuirgli un significato, oppure di vederle
come un grattacapo da risolvere. Si concentrò mentalmente sul lavoro da fare
sulla corazza e lasciò che fosse il suo subconscio a elaborare le informazioni
provenienti dallo schermo.
La distrazione la costrinse a rifare qualcosa di tanto in tanto mentre
lavorava, ma andava bene così. Non aveva una scadenza. Terminò di
collegare l’alimentazione e i monitor primari. Delle spie verdi si accesero sul
terminale palmare che aveva collegato al cervello della corazza. Sullo
schermo a parete accanto al casco, un soldato delle Nazioni Unite veniva
sbalzato verso di lei sulla superficie di Ganimede. Una confusione di
immagini mentre lei schivava. Quando l’immagine tornò stabile, sia il marine
delle Nazioni Unite che il suo amico Tev Hillman erano andati.
Bobbie raccolse un braccio e cominciò ad attaccarlo al busto. Il mostro
aveva afferrato un soldato con indosso una corazza paragonabile alla sua e
l’aveva scaraventato via con forza sufficiente per ucciderlo sul colpo. Non
c’era modo di difendersi contro quel tipo di forza, se non quello di non farsi
colpire. Bobbie si concentrò sul braccio da riassemblare.
Quando rialzò lo sguardo sullo schermo, il video era ricominciato da
capo. Il mostro stava correndo sul ghiaccio, all’inseguimento dei soldati delle
Nazioni Unite. Ne uccise uno. La Bobbie del video cominciò a sparare,
seguita dalla raffica del suo intero plotone.
La creatura era veloce. Ma, quando i soldati delle Nazioni Unite si erano
aperti all’improvviso per lasciare libero un canale di fuoco per i marziani,
essa non aveva reagito rapidamente. Per cui, poteva darsi che fosse veloce in
linea retta ma non avesse molta rapidità laterale. Chissà che non tornasse
utile. Il video recuperò il momento in cui il soldato delle Nazioni Unite
veniva scaraventato addosso a Hillman. Il mostro reagiva al fuoco e alle
ferite, anche se non lo rallentavano. Bobbie ripensò al video che aveva visto,
con Holden e Amos che lo affrontavano nella stiva della Rocinante. Il mostro
li aveva ampiamente ignorati finché Amos non gli aveva sparato, e poi era
esplosa la violenza.
Ma la prima creatura aveva attaccato le truppe dell’avamposto delle
Nazioni Unite. Per cui, perlomeno fino a un certo punto, quegli esseri
potevano essere indirizzati. Gli si potevano dare ordini. Una volta privi di
ordini, sembravano ricadere in uno stato di base in cui cercavano di
aumentare il proprio livello di energia e di sfuggire ai vincoli imposti. Una
volta raggiunto quello stato, ignoravano qualsiasi cosa che non fosse
alimentazione e violenza. La prossima volta che si fosse trovata ad affrontare
una di quelle creature, a meno che essa non avesse ricevuto l’ordine specifico
di attaccarla, Bobbie avrebbe probabilmente potuto scegliere il proprio campo
di battaglia, attirandola dove le avrebbe fatto più comodo. Anche questo
sarebbe potuto tornare utile.
Bobbie terminò di collegare il braccio e lo provò. Spie verdi su tutta la
linea. Anche se non era più sicura di sapere per chi lavorasse, almeno non
aveva dimenticato come fare il suo lavoro.
Sullo schermo, il mostro salì sul fianco dell’esoscheletro Yojimbo e
strappò via il portello del pilota. Sa’id, il pilota, fu scaraventato fuori. Di
nuovo il lacerare e lo scagliare via. Aveva senso. Con una combinazione di
forza spropositata e virtuale immunità ai danni da proiettile come vantaggi
acquisiti, precipitarsi in linea retta verso i propri avversari e poi farli a
brandelli era una strategia piuttosto efficace. Scagliare oggetti pesanti a
velocità letali andava a braccetto con quella forza. E l’energia cinetica era
una vera stronza. La corazza era in grado di deflettere proiettili o laser, e
poteva aiutare ad ammortizzare un impatto, ma nessuno aveva mai creato
corazze in grado di ignorare tutta l’energia cinetica impartita da una grossa
massa che si muoveva ad alta velocità. Perlomeno, non una corazza
indossabile da un umano. Se si era abbastanza forti, un cassonetto poteva
essere meglio di una pistola. Per cui, quando il mostro attaccava, correva
dritto verso il nemico, sperando di riuscire ad afferrarlo, il che metteva
praticamente fine allo scontro. Se non ci riusciva, cercava di scaraventare
addosso all’avversario oggetti pesanti. Quello nella stiva aveva quasi ucciso
Jim Holden lanciandogli contro una grossa cassa. Sfortunatamente, la corazza
di Bobbie aveva molte delle restrizioni che pareva avere la creatura. Benché
la rendesse estremamente veloce, quando voleva esserlo, non era
particolarmente agile negli spostamenti laterali. La maggior parte delle cose
costruite per essere veloci erano così. Ghepardi e cavalli non facevano spesso
corse laterali. Bobbie era forte, nella sua corazza, ma mai quanto quella
creatura. Aveva un vantaggio con le armi da fuoco, nel senso che poteva
fuggire senza smettere di attaccare a distanza. La creatura non avrebbe potuto
tirarle addosso qualcosa di massiccio senza fermarsi e cercare un appiglio da
qualche parte. Poteva anche essere forte in misura sovrumana, ma pesava pur
sempre quello che pesava, e Newton aveva qualche cosina da dire sul tema di
un oggetto leggero che ne lanciava uno pesante.
Quando ebbe finito di assemblare la sua corazza, aveva visto il video un
centinaio di volte, e le tattiche adatte a quel combattimento stavano
cominciando a prendere forma nella sua mente. Durante gli addestramenti al
corpo a corpo, Bobbie era in grado di surclassare la maggior parte dei suoi
avversari. Ma i lottatori piccoli e rapidi, quelli che sapevano come muoversi
in continuazione, le avevano sempre dato del filo da torcere. Ecco chi sarebbe
stata lei in questo combattimento. Avrebbe dovuto colpire e fuggire, senza
mai fermarsi per un istante. E anche così le sarebbe servita molta fortuna,
perché stava combattendo con un avversario che andava ben oltre la sua
categoria di peso e, se quel mostro avesse messo a segno anche soltanto un
colpo, sarebbe stato un KO assicurato.
L’altro vantaggio che aveva Bobbie era che non doveva per forza vincere.
Doveva soltanto procurare abbastanza danni da far sì che il mostro si
uccidesse da solo. Quando risalì nella sua corazza revisionata di fresco e se la
chiuse intorno per un test finale, la marine era piuttosto sicura di poter fare
una cosa del genere.
Bobbie pensava che aver trovato la sua pace quanto alla battaglia
imminente le avrebbe finalmente permesso di dormire ma, dopo tre ore
passate a rigirarsi sulla branda, si diede per vinta. C’era qualcosa che
continuava a pungolarla in fondo alla testa. Stava cercando di trovare il suo
bushido, e c’erano ancora troppe cose che non riusciva a lasciar andare.
Qualcosa non le stava ancora dando il permesso.
Per cui s’infilò un’ampia vestaglia esuberante che aveva rubato dalla
Guanshiyin e risalì con l’ascensore fin sul ponte operativo. Era il terzo turno
notturno, per cui la nave era deserta. Holden e Naomi avevano una cabina
insieme, e si ritrovò a invidiare quel contatto umano. Qualcosa di sicuro a cui
aggrapparsi in mezzo a tutte quelle incertezze. Avasarala era nella cabina che
le avevano assegnato, probabilmente intenta a inviare messaggi a gente sulla
Terra. Alex doveva star dormendo nella sua stanza; per un breve istante,
Bobbie considerò l’idea di andare a svegliarlo. Quel pilota le piaceva. Era
autentico, in un modo che non le era capitato di vedere spesso da quando non
era più in servizio attivo. Ma sapeva anche che svegliare un uomo alle tre di
notte mentre era in vestaglia era un modo per inviare segnali che non aveva
intenzione di dare. Piuttosto che mettersi a spiegare che aveva soltanto
bisogno di parlare con qualcuno, si lasciò dietro il ponte dell’equipaggio e
proseguì la passeggiata notturna.
Amos era seduto a una postazione in plancia, dandole le spalle, per il
turno di guardia notturno. Per evitare di sorprenderlo, Bobbie si schiarì la
gola. Lui non si mosse e non reagì, per cui lei si diresse verso il pannello di
comunicazione. Guardando il meccanico, vide che aveva gli occhi chiusi e il
respiro molto profondo e regolare. Su una nave della marina militare
marziana, dormire durante il proprio turno di guardia gli sarebbe costato
come minimo una nota di demerito da parte del capitano. A quanto pareva,
Holden aveva lasciato che la disciplina si allentasse un po’, dai suoi giorni in
marina militare.
Bobbie aprì il pannello di comunicazione e trovò il relè più vicino per
instradare un raggio stretto. Prima chiamò suo padre. «Ciao, papà. Non sono
sicura che dovresti rispondere a questo messaggio. La situazione qui è
instabile e in rapida evoluzione. Ma potresti sentire un sacco di cazzate
infondate nei prossimi giorni. In parte, anche su di me. Sappi solo che vi
voglio bene, e che amo Marte. Tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto per cercare di
proteggere voi e la mia patria. Potrei aver smarrito un po’ la via, perché le
cose si sono fatte complicate e difficili da capire. Ma credo di aver trovato la
strada ora, e intendo imboccarla. Voglio bene a te e alla mamma. Di’ ai
ragazzi che sono dei perdenti.» Prima di chiudere la registrazione, allungò
una mano e toccò lo schermo. «Ciao, papà.»
Premette Invio, ma qualcosa le sembrava ancora mancare. Al di fuori
della sua famiglia, tutti quelli che avevano provato a darle una mano in quegli
ultimi tre mesi erano seduti sulla sua stessa nave, per cui non aveva senso.
E invece un senso lo aveva. Perché non tutti erano su quella nave.
Bobbie compose un altro numero a memoria e disse: «Salve, capitano
Martens. Sono io. Credo di sapere che cosa stesse cercando di aiutarmi a
vedere. Non ero pronta, allora, ma mi è rimasto addosso. Per cui non ha
sprecato il suo tempo. Ora lo capisco. So che non è stata colpa mia. So di
essermi semplicemente trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sto
tornando al punto d’inizio, ora, proprio perché capisco. Non sono arrabbiata,
non sono ferita, non mi do la colpa di niente. È solo mio dovere portare a
termine il combattimento.»
Qualcosa le si allentò nel petto nel momento in cui premette il pulsante
Invio. Tutti i fili erano stati ordinatamente annodati, e ora poteva andare su Io
e fare quel che doveva senza alcun rimpianto. Fece un lungo sospiro e si
lasciò scivolare sul sedile finché non fu quasi del tutto sdraiata.
All’improvviso si sentì stanchissima. Come se potesse dormire per una
settimana di fila. Si chiese se avrebbe dato fastidio a qualcuno se si fosse
addormentata in plancia piuttosto che tornare giù fin nella sua cabina.
Non ricordava di essersi addormentata, ma eccola lì, sdraiata sul sedile
della stazione di comunicazione, con una macchia di bava accanto al viso.
Notò con sollievo che la vestaglia sembrava essere rimasta al suo posto, così
almeno non aveva esposto la sua nudità a chiunque fosse passato da lì.
«Sergente?» disse Holden con un tono di voce che faceva intendere che lo
stesse ripetendo. Era in piedi accanto a lei, con uno sguardo preoccupato in
volto.
«Mi dispiace, mi dispiace» si giustificò lei, sedendosi dritta e stringendosi
la vestaglia in vita. «Ieri notte dovevo inviare dei messaggi. Mi sa che ero più
stanca di quanto pensassi.»
«Già» replicò Holden. «Non c’è problema. Dormi pure dove più ti piace.»
«Okay» disse Bobbie, indietreggiando verso la scala di servizio. «Detto
questo, credo che scenderò a farmi una doccia e a tentare di ritrasformarmi in
essere umano.»
Holden annuì mentre lei si allontanava, con uno strano sorriso sul volto.
«Sicuro. Vieni nell’officina quando ti sarai vestita.»
«Ricevuto» rispose lei, e si precipitò giù per la scala.
Dopo aver fatto una doccia sontuosamente lunga e aver indossato la sua
uniforme pulita di servizio rossa e grigia, Bobbie prese una tazza di caffè
dalla cambusa e scese nell’officina. Holden era già lì. C’era una cassa delle
dimensioni di una custodia per chitarre su uno dei banchi da lavoro e un’altra
quadrata, più grande, sul ponte ai suoi piedi. Quando lei entrò nella sala,
Holden diede una pacca sulla cassa che era sul banco. «Questo è per te.
Quando sei salita a bordo, mi è parso di capire che ti mancasse il tuo.»
Bobbie esitò per un istante, poi si avvicinò alla cassa e l’aprì. All’interno
c’era un mitragliatore elettrico da 2mm a tre canne, del tipo che i marine
definivano un Thunderbolt Mark V. Era nuovo e lucido, esattamente del tipo
adatto alla sua corazza.
«Ma è fantastico» esclamò Bobbie dopo aver ritrovato la parola. «Ma
senza munizioni è soltanto una mazza un po’ strana.»
Holden diede un calcetto alla cassa a terra. «Cinquemila proiettili caseless
da due millimetri. A punta incendiaria.»
«Incendiaria?»
«Dimentichi che anch’io ho visto il mostro da vicino. I proiettili
perforanti non servono a niente. Anzi, semmai riducono il danno ai tessuti.
Ma, visto che il laboratorio gli ha ficcato dentro una bomba incendiaria,
immagino che questo significhi che non sono ignifughi...»
Bobbie tirò fuori dalla cassa l’arma pesante e la posò sul ponte accanto
alla sua corazza riassemblata di fresco.
«Ora sì che ci siamo.»
47

Holden
Holden era seduto alla console di controllo tattico del ponte operativo,
intento a osservare i Ragnarök che si addensavano di fronte a lui.
L’ammiraglio Souther, che Avasarala aveva assicurato essere uno dei buoni,
aveva aggiunto le sue navi alla loro flotta marziana, piccola ma in crescita,
mentre procedevano a tutta velocità verso Io. Ad attenderli, in orbita attorno a
quella luna, c’era la dozzina di navi dell’ammiraglio Nguyen. Altre navi
marziane e delle Nazioni Unite si dirigevano verso lo stesso luogo da Saturno
e dalla Fascia. Quando tutti fossero giunti sul posto, sul teatro dello scontro ci
sarebbero state qualcosa come trentacinque corazzate e altre dozzine di
intercettori e corvette più piccole, come la Rocinante.
Tre dozzine di corazzate di grosso calibro. Holden cercò di ricordare se ci
fosse mai stata un’azione navale di quella portata, e non gliene venne in
mente nessuna. Includendo le ammiraglie di Nguyen e Souther, ci sarebbero
state quattro navi da battaglia di classe Truman nel computo finale, mentre i
marziani avrebbero messo in campo tre navi da battaglia di classe Donnager,
ognuna delle quali era in grado di sterminare un pianeta intero. Il resto
sarebbe stato un insieme di incrociatori e cacciatorpedinieri. Non erano certo
bombardieri pesanti come le corazzate, ma erano comunque più che
sufficienti per polverizzare la Rocinante. Il che, se doveva essere onesto fino
in fondo, era la parte che lo preoccupava più di ogni altra.
Sulla carta, la sua squadra aveva più navi. Con Souther e i marziani che
univano le loro forze, la proporzione con il contingente di Nguyen era di due
a uno. Ma quante navi terrestri sarebbero state disposte a sparare sui loro
compatrioti, soltanto perché un ammiraglio e una politica in esilio dicevano
loro di farlo? Era del tutto plausibile che, se davvero avessero iniziato a
sparare, molte delle navi delle Nazioni Unite potessero cominciare ad avere
inspiegabili malfunzionamenti al reparto comunicazione e aspettassero di
vedere come procedevano le cose senza immischiarsi. E questo non era il
peggiore dei casi possibili. Il caso peggiore si sarebbe verificato se qualche
nave di Souther avesse cambiato schieramento una volta che i marziani
avessero cominciato a uccidere i terrestri. Il combattimento si sarebbe potuto
trasformare in un sacco di gente che si puntava i cannoni addosso a vicenda,
senza che nessuno sapesse davvero di chi fidarsi.
Si sarebbe potuto trasformare in un bagno di sangue.
«Abbiamo il doppio delle navi» disse Avasarala dal suo trespolo
d’elezione alla stazione di comunicazione. Holden fece per obiettare ma
cambiò idea. Alla fine, non avrebbe avuto importanza. Avasarala avrebbe
creduto quel che voleva credere. Aveva bisogno di pensare che tutti i suoi
sforzi avessero avuto un senso, che avrebbero dato i loro frutti quando fosse
arrivata la flotta e quel pagliaccio di Nguyen si fosse arreso di fronte alla loro
forza palesemente soverchiante. La verità era che la versione di Avasarala
non era meno fantasiosa di quella di Holden. Nessuno avrebbe saputo come
sarebbero andate le cose finché tutti non l’avessero saputo con certezza.
«Quanto manca ancora?» disse Avasarala, poi prese un sorso dal bulbo di
caffè lento che aveva cominciato a prepararsi al posto del tè.
Holden considerò la possibilità di indicarle le informazioni di navigazione
che la Roci metteva a disposizione su ogni console, poi non lo fece.
Avasarala non voleva che lui le mostrasse come fare a trovarle da sola.
Voleva che gliele comunicasse. Non era abituata a premere i pulsanti per
conto proprio. Nella testa di Avasarala, lui era un suo sottoposto. Holden si
chiese quale fosse esattamente la catena di comando in quella situazione.
Quanti capitani illegittimi di navi rubate ci volevano per raggiungere il livello
di un funzionario in disgrazia delle Nazioni Unite? La cosa avrebbe potuto
tenere occupata una commissione per qualche decennio.
Ma in fondo non era giusto nei confronti di Avasarala. In fondo, la
questione non si riassumeva nel fatto che lui dovesse stare ai suoi ordini. Si
trattava piuttosto del fatto che si trovavano in una situazione per cui
Avasarala non aveva nessuna preparazione, nella quale era la persona più
inutile e cercava di tenere le cose un minimo sotto controllo. Cercava di
rimodellare lo spazio che aveva intorno affinché corrispondesse all’immagine
mentale che aveva di sé stessa.
O forse aveva soltanto bisogno di sentire una voce umana.
«Diciotto ore» disse Holden. «La maggior parte delle navi che non fanno
parte della nostra flotta arriveranno prima di noi. Così come quelle che non
hanno intenzione di mostrarsi finché non sarà tutto finito, per cui possiamo
ignorarle.»
«Diciotto ore» ripeté Avasarala. Nel suo tono di voce c’era qualcosa di
simile allo sbalordimento. «Lo spazio è troppo fottutamente enorme. È
sempre la stessa storia.»
Holden ci aveva visto giusto. Voleva semplicemente parlare, e lui glielo
permise. «Che storia?»
«Imperi. Ogni impero cresce finché le sue dimensioni non eccedono la
sua portata. Abbiamo cominciato facendoci la guerra per chi dovesse avere i
rami migliori su un albero. Poi siamo scesi dall’albero e ci siamo fatti la
guerra per qualche chilometro quadrato di alberi. Poi qualcuno ha cominciato
a cavalcare, ed ecco che sono nati imperi di centinaia o migliaia di chilometri.
Le navi hanno aperto la strada all’espansione imperiale oltre gli oceani. Il
reattore Epstein ci ha consegnato i pianeti esterni...»
Avasarala lasciò la frase in sospeso e picchiettò su qualcosa sul pannello
delle comunicazioni. Non disse a chi stava inviando messaggi, e Holden non
glielo chiese. Quando ebbe finito, continuò a parlare. «Ma la storia è sempre
quella. A prescindere da quanto sia avanzata la tua tecnologia, prima o poi
conquisterai territori che non sei in grado di tenere.»
«Sta parlando dei pianeti esterni?»
«Non specificamente» disse lei, con voce più pacata e pensierosa. «Sto
parlando del concetto di impero nel suo fottutissimo insieme. I britannici non
sono riusciti a mantenere il possesso dell’India o dell’America del Nord
perché... perché la gente dovrebbe stare a sentire quello che dice un re che si
trova a seimila chilometri di distanza?»
Holden armeggiò con il beccuccio dell’aria sul suo pannello,
puntandoselo verso il viso. L’aria fresca aveva un vago retrogusto di ozono e
lubrificante. «La logistica è sempre problematica.»
«Poco ma sicuro. Farsi un periglioso viaggio di seimila chilometri
attraverso l’Atlantico per andare a combattere contro i coloni dava al nemico
che giocava in casa un diavolo di vantaggio.»
«Perlomeno,» disse Holden «noi terrestri l’abbiamo capito prima di
metterci a litigare con Marte. È ancora più lontano. E a volte c’è perfino il
sole, in mezzo.»
«Ci sono persone che non ci hanno mai perdonato di non aver umiliato
Marte quando ne avevamo l’occasione» rispose Avasarala. «Io lavoro per
alcuni di loro. Fottuti idioti.»
«Pensavo che la morale della sua storia fosse che questa gente, alla fine,
perde sempre.»
«Questa gente» replicò lei, rimettendosi in piedi e dirigendosi lentamente
verso la scala di servizio «non è il vero problema. In questo stesso istante,
Venere potrebbe ospitare l’avanguardia del primo impero la cui portata
corrisponda alle dimensioni. E questa fottuta protomolecola ci ha
smascherato, mostrando all’universo quanto siamo meschini e provinciali. Ci
stiamo preparando a barattare il nostro sistema solare perché pensavamo di
poter costruire gli aeroporti con il bambù e portarci via il carico.»
«Cerchi di dormire un po’» le consigliò Holden mentre lei chiamava
l’ascensore. «Sconfiggeremo un impero per volta.»
«Speriamo» rispose lei mentre svaniva sotto il ponte. Poi il portello le si
richiuse sopra la testa con un tonfo sordo.
«Perché nessuno spara?» domandò Prax. Era risalito in plancia stando
appresso a Naomi come un bimbo smarrito. Ora era seduto su uno dei molti
sedili vuoti. Fissava lo schermo principale, con in viso un misto di paura e
attrazione.
Il grande display tattico mostrava una massa confusa di punti rossi e
verdi, che rappresentavano le tre dozzine di corazzate in orbita intorno a Io.
La Roci aveva segnato in verde tutte le navi della Terra e le marziane in
rosso, semplificando così in maniera disorientante una situazione che era in
realtà molto più complessa. Holden sapeva che l’identificazione di navi
nemiche e amiche sarebbe stato un vero problema, se qualcuno avesse
cominciato ad aprire il fuoco.
Per il momento, le navi scivolavano tranquille intorno a Io, limitandosi a
suggerire l’enorme minaccia che recavano con sé. A Holden facevano venire
in mente i coccodrilli che aveva visto allo zoo, da bambino. Enormi,
corazzati, pieni di zanne, ma che scivolavano sulla superficie dell’acqua
come statue. Senza nemmeno sbattere le palpebre. Quando avevano gettato
del cibo nel recinto, le bestie erano scattate fuori dall’acqua con una rapidità
spaventosa.
Stiamo solo aspettando che l’acqua si tinga di sangue.
«Perché non spara nessuno?» ripeté Prax.
«Ehi, doc» disse Amos. Se ne stava spaparanzato su uno dei sedili
accanto al botanico. Proiettava tutto intorno a sé una tranquilla pigrizia che
Holden avrebbe desiderato poter provare. «Ti ricordi quando, su Ganimede,
abbiamo affrontato quei tizi armati e nessuno ha sparato finché non hai
deciso di armare la pistola?»
Prax sbiancò. Holden immaginò che stesse ricordando il sanguinoso
epilogo di quello scontro. «Sì» rispose Prax. «Me lo ricordo.»
«Ecco, è così» riprese Amos. «Solo che nessuno ha ancora armato la
pistola.»
Prax annuì. «Okay.»
Se qualcuno avesse finalmente dato il via alle danze, Holden sapeva che
capire chi stesse sparando a chi sarebbe stato il loro primo problema.
«Avasarala, ci sono notizie sul fronte politico? C’è un sacco di verde su quel
pannello. Quanti di quei punti sono dei nostri?»
Avasarala si strinse nelle spalle e continuò ad ascoltare le comunicazioni
incrociate tra le navi.
«Naomi?» disse Holden. «Qualche idea?»
«Finora la flotta di Nguyen sta inquadrando soltanto le navi marziane»
rispose lei, segnando le navi sullo schermo tattico principale per far vedere a
tutti. «Le navi marziane rispondono inquadrandola a loro volta. Le navi di
Souther non stanno inquadrando nessuno, e Souther non ha nemmeno ancora
aperto i tubi di lancio. Immagino che stia ancora sperando che si possa
raggiungere una soluzione pacifica.»
«Per favore, invia i miei complimenti all’ufficiale tattico a bordo della
nave di Souther» disse Holden a Naomi. «E chiedigli di farci avere qualche
dato di identificazione di alleati e avversari, in modo da non trasformare
questa situazione nel più grande bordello del sistema solare.»
«Ricevuto» rispose Naomi, e fece la chiamata.
«Amos, fa’ chiudere a tutti le proprie tute» continuò Holden. «Eseguite
un controllo dei caschi prima di scendere di sotto. Spero che non
cominceremo a sparare, ma quello che spero accada e quello che poi accade
per davvero non sono quasi mai la stessa cosa.»
«Ricevuto» replicò Amos, poi si alzò dal sedile e cominciò ad aggirarsi
per il ponte con il passo pesante dei suoi stivali magnetici, controllando i
sigilli degli elmetti di tutti gli altri.
«Prova, prova, prova» disse Holden sulla linea radio dell’equipaggio.
Uno dopo l’altro, tutti i presenti risposero affermativamente. Finché qualcuno
con uno stipendio più alto del suo non avesse deciso in che modo dovessero
andare le cose, non c’era molto altro che potesse fare.
«Aspettate» disse Avasarala, poi premette un pulsante sulla sua console e
un canale esterno cominciò a trasmettere sulla linea delle loro tute.
«...lanceremo con effetto immediato contro bersagli su Marte.
Disponiamo di una batteria di missili carichi di armi biologiche letali pronta
al fuoco. Avete un’ora per uscire dall’orbita di Io o li lanceremo con effetto
immediato contro bersagli su Marte. Disponiamo di...»
Avasarala spense il canale.
«Sembra che un terzo attore si sia unito al cerchio dei segaioli» osservò
Amos.
«No» replicò Avasarala. «È Nguyen. È in inferiorità numerica, per cui ha
ordinato ai suoi scagnozzi della Mao-Kwik in superficie di lanciare la
minaccia per farci indietreggiare. Farà... Oh, cazzo.»
Toccò di nuovo il pannello e una nuova voce parlò nel canale radio.
Stavolta apparteneva a una donna con un raffinato accento marziano.
«Io, qui è l’ammiraglio Muhan, della Marina della Repubblica
Congressuale Marziana. Se proverete a sparare anche soltanto una bottiglia,
vetrificheremo la vostra fottuta luna. Sono stata chiara?»
Amos si chinò verso Prax. «Vedi? Questa roba qui, sono loro che armano
le pistole.»
Prax annuì. «Capito.»
«La situazione» disse Holden, percependo la furia repressa a stento nella
voce dell’ammiraglio marziano «sta per sfuggire seriamente di mano.»
«Qui è l’ammiraglio Nguyen, a bordo della UNNAgatha King» disse una
nuova voce. «L’ammiraglio Souther si trova qui in maniera illegale, su
richiesta di un ufficiale civile delle Nazioni Unite senza alcuna autorità
militare. Ordino che tutte le navi sotto il comando dell’ammiraglio Souther si
facciano immediatamente da parte. Ordino inoltre che il capitano della nave
ammiraglia di Souther metta l’ammiraglio agli arresti per alto tradimento e...»
«Ah, ma falla finita» replicò Souther sullo stesso canale. «Sono qui come
parte di una missione investigativa perfettamente legale riguardante l’uso
improprio di fondi e materiali appartenenti alle Nazioni Unite per la
realizzazione di un progetto di sviluppo segreto di un’arma biologica su Io.
Un progetto di cui l’ammiraglio Nguyen è diretto responsabile, in
contravvenzione alle direttive delle Nazioni Unite...»
Avasarala interruppe il collegamento.
«Uhm, sembra mettersi male» osservò Alex.
«Be’...» disse Avasarala, poi aprì la visiera del suo casco e trasse un
lungo sospiro. Aprì la borsetta e ne tirò fuori un pistacchio. Lo spaccò e ne
mangiò con cura tutta la noce, poi gettò il guscio nel tubo di riciclo lì accanto.
Un pezzettino di guscio galleggiò via nella microgravità. «In realtà no.
Dovrebbe essere tutto a posto. Stanno solo gonfiando il petto. Finché
continuano a misurarsi il cazzo a vicenda, nessuno sparerà.»
«Ma non possiamo starcene semplicemente qui ad aspettare» obiettò
Prax, scuotendo la testa. Amos fluttuava di fronte a lui, intento a controllargli
il casco. Prax lo spinse via e cercò di mettersi in piedi. Si allontanò fluttuando
dal sedile ma non pensò ad attivare i suoi stivali magnetici. «Se Mei è laggiù,
dobbiamo scendere. Stanno parlando di vetrificare quella luna. Dobbiamo
andare lì prima che lo facciano per davvero.»
In fondo alla voce di Prax c’era come un gemito alto da corda di violino.
La tensione lo stava sopraffacendo. Stava sopraffacendo tutti, ma lui era
quello che l’avrebbe mostrato per primo, e nel modo peggiore. Holden scoccò
un’occhiata ad Amos, ma l’omone sembrava solo sorpreso di essere stato
spinto via da quel piccolo scienziato.
«Stanno dicendo che distruggeranno la base. Dobbiamo scendere laggiù!»
continuò Prax, e il panico nella sua voce cominciò a essere più evidente.
«Non faremo nulla» replicò Holden. «Non finché non avremo un’idea più
chiara di come andranno le cose.»
«Siamo venuti fino a qui per non fare niente?» esclamò Prax.
«Doc, non ci conviene essere i primi a muoverci» rispose Amos, e mise
una mano sulla spalla di Prax, riportandolo sul ponte. Il piccolo botanico se la
scrollò di dosso con violenza senza nemmeno voltarsi, poi si spinse sul suo
sedile verso Avasarala.
«Mi dia la linea. Mi ci lasci parlare» disse Prax, allungando le mani verso
il suo pannello di comunicazione. «Posso...»
Holden si scagliò fuori dal sedile, abbrancando lo scienziato a mezz’aria e
schiantandosi con lui sulla paratia oltre il ponte. Lo spesso strato
d’imbottitura assorbì il loro impatto, ma Holden sentì l’aria fuoriuscire da
Prax quando la sua anca affondò nello stomaco dello scienziato.
«Uff» soffiò Prax, raggomitolandosi in posizione fetale, sospeso per aria.
Holden attivò i suoi stivali magnetici e si spinse verso il ponte. Afferrò
Prax e lo spinse verso Amos. «Portalo giù, mettilo sul suo sedile e sedalo. Poi
scendi in sala motori e preparaci al combattimento.»
Amos annuì e afferrò Prax, che continuava a fluttuare. «Okay.» Un
istante più tardi, i due scomparvero giù per il portellone del ponte.
Holden si guardò intorno, vedendo gli sguardi sconvolti di Avasarala e
Naomi e scegliendo di ignorarli. La necessità di Prax che sua figlia avesse la
precedenza su tutto il resto stava per metterli di nuovo tutti in pericolo. E,
benché Holden capisse perfettamente cosa fosse a spingere il botanico, essere
costretto a impedirgli di farli ammazzare ogni volta che saltava fuori il nome
di Mei era uno stress che in quel momento non poteva sobbarcarsi. Lo
rendeva nervoso, desideroso di prendersela con qualcuno.
«Dove diavolo è Bobbie?» chiese, senza rivolgersi a qualcuno in
particolare. Non l’aveva più vista da quando si erano messi in orbita intorno a
Io.
«L’ho appena vista in officina» rispose Amos dalla radio. «Stava
controllando il mio fucile. Credo che lo stia facendo per tutte le armi e le
corazze.»
«Questo...» fece per dire Holden, pronto a mandare un urlaccio per
qualsiasi cosa. «Questo è molto utile, a dire il vero. Dille di chiudersi la tuta e
di accendere la sua radio. Le cose rischiano di andare a gambe all’aria molto
in fretta, qui.»
Impiegò qualche secondo per respirare e calmarsi, poi tornò alla stazione
di operazioni belliche.
«Stai bene?» gli chiese Naomi sulla linea privata.
«No» rispose lui, premendo il pulsante con il mento per assicurarsi che
soltanto lei sentisse la sua voce. «No, a dire il vero sono spaventato a morte.»
«Pensavo che ormai fossimo andati oltre.»
«Oltre l’essere spaventato?»
«No» replicò lei, con un sorriso percepibile nel tono di voce. «Oltre la
parte in cui ti biasimi per questo. Sono spaventata anch’io.»
«Ti amo» disse Holden, sentendo quello stesso fremito elettrico che
provava sempre quando glielo diceva, in parte paura e in parte spavalderia.
«Faresti meglio a tenere d’occhio la tua stazione» disse lei, con tono
giocoso. Naomi non gli diceva mai che lo amava allorché era lui a dirlo per
primo. Sosteneva che, quando le persone lo dicevano troppo spesso, facevano
perdere tutto il proprio potere a quelle parole. Holden capiva i suoi motivi,
ma aveva sperato che stavolta infrangesse la regola. Aveva bisogno di
sentirselo dire.
Avasarala era appollaiata sulla stazione di comunicazione come
un’anziana mistica intenta a scrutare in una fumosa palla di cristallo. La tuta
spaziale le pendeva addosso come dei vestiti troppo larghi su uno
spaventapasseri. Il capitano si domandò se fosse il caso di ordinarle di
sigillare l’elmetto, poi si strinse nelle spalle. Era abbastanza grande da
decidere da sé i rischi e i benefici relativi dello sgranocchiare durante una
battaglia.
Di tanto in tanto, Avasarala allungava una mano nella borsetta e tirava
fuori un’altra noce. L’aria intorno a lei era una nube crescente di schegge di
pistacchio. Era fastidioso guardarla mentre sporcava la sua nave, ma nessuna
nave da guerra era tanto fragile da poter essere danneggiata da un po’ di
spazzatura aerea. Quei pezzettini di guscio sarebbero stati risucchiati dai
sistemi di riciclo dell’aria, rimanendo intrappolati nei filtri, oppure tutta
quella spazzatura sarebbe caduta a terra nell’istante in cui avessero
accelerato, e li avrebbero potuti spazzare via. Holden si chiese se Avasarala
avesse mai dovuto pulire qualcosa in vita sua.
Mentre l’osservava, l’anziana donna inclinò la testa da un lato, ascoltando
con improvviso interesse qualcosa che soltanto lei poteva sentire. La sua
mano scattò in avanti, rapida come un uccello, e toccò lo schermo. Una
nuova voce entrò nei canali radio della nave, stavolta con il debole fruscio
che caratterizzava le trasmissioni dati quando viaggiavano per milioni di
chilometri attraverso lo spazio.
«...enerale Esteban Sorrento-Gillis. Qualche tempo fa ho annunciato la
costituzione di un comitato esplorativo per verificare il possibile uso
improprio di risorse delle Nazioni Unite per un progetto di ricerca illegale su
armi biologiche. Benché l’investigazione sia tuttora in corso, e il comitato
non sia ancora pronto a sollevare accuse, nell’interesse della pubblica
sicurezza e per facilitare un’indagine scrupolosa e serena, alcuni esponenti
chiave delle Nazioni Unite saranno richiamati sulla Terra per essere
sottoposti a interrogatorio. Il primo sarà l’ammiraglio Augusto Nguyen, della
Marina delle Nazioni Unite. Il secondo...»
Avasarala toccò il pannello per spegnere la trasmissione e fissò la
console, restando a bocca aperta per diversi secondi. «Oh, cazzo.»
All’improvviso, in tutta la nave scattarono gli allarmi di ingaggio.
48

Avasarala
«Missili in avvicinamento» annunciò Naomi sovrastando gli allarmi
impazziti. «L’ammiraglia delle Nazioni Unite ha aperto il fuoco.»
Avasarala richiuse il casco, controllando che il visore interno confermasse
l’avvenuta sigillatura, poi picchiettò sulla console di comunicazione, con la
mente che si muoveva più rapida delle mani. Errinwright era sceso a patti, e
Nguyen lo sapeva. L’ammiraglio era appena stato mollato, e la stava
prendendo piuttosto male. Un avviso comparve sulla console: una
trasmissione ad alta priorità in entrata. Avasarala ci cliccò sopra, e Souther
apparve sul suo terminale e su tutti gli altri terminali del ponte operativo.
«Qui è l’ammiraglio Souther. Prendo il comando di...»
«Okay» rispose Naomi. «Ho bisogno di riavere il mio schermo, ora. Ho
del lavoro da fare.»
«Scusate, scusate» disse Avasarala, passando le dita sulla console. «Ho
sbagliato tasto.»
«...questa flotta speciale. L’ammiraglio Nguyen è sollevato dal suo
incarico. Qualunque atto ostile verrà...»
Avasarala passò la trasmissione sul suo schermo e, nel farlo, cambiò
collegamento. Il viso di Nguyen era quasi viola per la rabbia. Indossava la
sua uniforme con spavalderia.
«...confisca illegale e senza precedenti. L’ammiraglio Souther deve essere
scortato in cella finché...»
Cinque richieste di collegamento in entrata s’illuminarono sul display,
ognuna con un nome e un codice identificativo di transponder. Avasarala le
ignorò tutte e si concentrò sui controlli di trasmissione. Non appena il
pulsante di registrazione si attivò, fissò in camera.
«Qui è la vicesottosegretario Chrisjen Avasarala, rappresentante civile del
governo della Terra» disse. «Il comando legale e riconosciuto di questa flotta
è assegnato all’ammiraglio Souther. Chiunque rifiuti o ignori i suoi ordini
sarà soggetto a rappresaglie legali. Ripeto: l’ammiraglio Souther è legalmente
autorizzato al comando...»
Naomi emise un lungo grugnito basso. Avasarala interruppe la
trasmissione e si voltò.
«Okay» disse Holden. «Questa era brutta.»
«Che cosa?» domandò Avasarala. «Che cos’è brutta?»
«Una delle navi terrestri ha appena incassato tre missili.»
«Sono molti?»
«I CDR non riescono a fermarli» spiegò Naomi. «Quei missili delle
Nazioni Unite hanno tutti codici di transponder che li segnalano come fuoco
amico, per cui passano attraverso le difese. Normalmente non si aspettano di
essere bersagliati da altre navi delle Nazioni Unite.»
«Tre sono molti» commentò Holden, allacciandosi le cinture del sedile.
Avasarala non l’aveva visto toccare i controlli ma doveva averlo fatto,
perché, quando parlò, la sua voce riecheggiò in tutta la nave oltre che nelle
cuffie del suo casco. «Siamo appena entrati in azione. Avete tutti venti
secondi per assicurarvi in qualche posto sicuro.»
«Ricevuto forte e chiaro» replicò Bobbie, da dovunque fosse sulla nave.
«Ho appena sistemato doc, felice e contento» disse Amos. «Vado in sala
macchine.»
«Vogliamo entrare lì dentro?» chiese Alex.
«Ci sono qualcosa come trentacinque corazzate là fuori, tutte molto,
molto più grandi di noi. Vediamo di limitarci a impedire che qualcuno ci
crivelli di colpi.»
«Sì, signore» disse Alex dal ponte di pilotaggio. Qualsiasi vestigio di
democrazia e diritto di voto era scomparso. Era un bene. Almeno Holden
poteva avere il controllo quando era necessario avere una singola voce al
comando.
«Ho due missili in avvicinamento» avvertì Naomi. «Qualcuno pensa
ancora che i cattivi siamo noi.»
«Colpa di Avasarala» disse Bobbie.
Prima che la vicesottosegretario potesse scoppiare a ridere, la gravità salì
di una tacca e lei sbarellò da un lato, mentre la Rocinante si metteva in
movimento sotto di lei. Il suo sedile si spostò e cigolò. Il gel protettivo la
strinse e poi la rilasciò.
«Alex?»
«Ci sono» disse Alex. «Non mi dispiacerebbe avere a bordo un vero
mitragliere, signore.»
«Abbiamo il tempo di farla salire quassù senza rischi?»
«No» replicò Alex. «Ne ho altri tre in avvicinamento.»
«Posso occuparmi dei controlli dei CDR da qui, signore» intervenne
Bobbie. «Non è il massimo, ma almeno sarà qualcosa che non toccherà fare a
voialtri.»
«Naomi, invia i CDR alla sergente.»
«Controllo CDR trasferito. Sono tutti tuoi, Bobbie.»
«Controllo acquisito» disse la marine.
Lo schermo di Avasarala era un groviglio di messaggi in entrata, in un
baluginio di avvisi luminosi. Cominciò a vagliarli. La Kennedy stava
annunciando che il comando di Souther era illegale. Il primo ufficiale della
Triton riportava che il capitano era stato sollevato dall’incarico, e chiedeva di
ricevere ordini da Souther. Il cacciatorpediniere marziano Iani Chaos stava
cercando di contattare Avasarala per chiarire quali navi terrestri aveva il
permesso di abbattere.
Avasarala attivò il display tattico. Piccoli cerchi rossi e verdi segnavano
lo stormo di navi; sottili fili argentati mostravano quelle che sarebbero potute
essere raffiche di CDR o il percorso dei missili.
«Noi siamo rossi o verdi?» chiese Avasarala. «Chi è chi, su questo fottuto
affare?»
«Marte è rosso, la Terra è verde» rispose Naomi.
«E quali terrestri sono dalla nostra parte?»
«Lo scopra lei» replicò Holden mentre uno dei punti verdi svaniva
all’improvviso. «Alex?»
«La Darius ha tolto le sicure dai suoi CDR, e ora sta facendo fuoco su
qualsiasi cosa si trovi a portata, alleato o nemico che sia. E... merda.»
Il sedile di Avasarala scartò di nuovo, come alzandosi sotto di lei,
premendola nel gel fino a renderle difficile alzare le braccia. Sullo schermo
tattico la nube di navi, nemiche, amiche o incerte, si spostò appena, e due
punti dorati divennero più grandi, con degli indicatori di prossimità a fianco
che contavano rapidamente alla rovescia.
«Signora vice qualsiasi cosa sia» disse Holden. «Ora potrebbe cominciare
a rispondere ad alcune di quelle richieste di comunicazione.»
Avasarala aveva l’impressione che qualcuno le stesse stringendo
l’intestino da sotto. Un sapore di sale e succhi gastrici le aggredì il fondo
della lingua. Stava cominciando a sudare in un modo che aveva meno a che
fare con la temperatura che con la nausea. Costrinse le sue braccia ad alzarsi
verso il pannello nello stesso momento in cui i due punti dorati svanivano.
«Grazie, Bobbie» disse Alex. «Vado su. Cerco di mettere i marziani tra
noi e il combattimento.»
Avasarala cominciò a fare chiamate. Nel pieno della battaglia, tutto ciò
che aveva da offrire era questo: effettuare chiamate. Parlare. Le stesse cose
che faceva sempre. C’era qualcosa di rassicurante, in questo. La Greenville
accettava il comando di Souther. La Tanaka non rispondeva. La Dyson aprì la
linea, ma l’unica cosa che si sentiva erano gli uomini che si gridavano
addosso l’un l’altro. Era una bolgia.
Arrivò un messaggio da Souther, che lei accettò. Includeva un nuovo
codice di identificazione alleati e nemici, e Avasarala accettò manualmente
l’aggiornamento. Sullo schermo tattico, la maggior parte dei punti verdi
divennero bianchi.
«Grazie» disse Holden. Avasarala si rimangiò il suo ‘prego’. Le droghe
antinausea sembravano fare effetto su tutti gli altri. Non aveva davvero
alcuna voglia di vomitare dentro il casco. Uno dei sei puntini verdi rimanenti
svanì dall’universo e un altro diventò improvvisamente bianco.
«Wow, alla schiena» esclamò Alex. «Pesante.»
Il codice identificativo di Souther apparve di nuovo sulla console di
Avasarala, e lei accettò il collegamento mentre la Roci scartava di nuovo.
«...la resa immediata della nave ammiraglia King e dell’ammiraglio
Augusto Nguyen» stava dicendo Souther. La sua ciocca di capelli bianchi gli
stava ritta sulla testa come se la bassa gravità di accelerazione la stesse
facendo aprire come la coda di un pavone. Il suo sorriso era tagliente come
un coltello. «Qualsiasi vascello che continui a rifiutare i miei ordini come
legittimi e legali non beneficerà di questa amnistia. Avete trenta secondi a
partire da adesso.»
Sul display tattico, i fili dorati e argentati erano quasi del tutto svaniti. Le
navi si spostarono, muovendosi ognuna lungo il proprio complesso vettore.
Sotto gli occhi di Avasarala, tutti i punti verdi rimanenti passarono al bianco.
Tutti tranne uno.
«Non fare lo stronzo, Nguyen» esclamò Avasarala. «È finita.»
Il ponte operativo rimase in silenzio per un lungo istante, in una tensione
quasi insopportabile. Fu la voce di Naomi a romperlo.
«Sto visualizzando altri missili. Ah. Ne sto visualizzando parecchi.»
«Dove?» scattò Holden.
«Dalla superficie.»
Avasarala non fece niente, ma il suo display tattico si ridimensionò,
rimpicciolendosi finché il gruppo di navi rosse, bianche e quell’unica verde
ribelle furono ridotte a meno di un quarto della loro dimensione originale. La
massiccia curva della superficie della luna fece capolino dal margine inferiore
dello schermo. E, alzandosi da lì quasi come una massa solida, apparvero
centinaia di sottili tracce dorate.
«Fammi una stima» disse Holden. «Ho bisogno di una stima.»
«Duecentodiciannove. No, aspetta. Duecentotrenta.»
«Che diavolo sono? Sono missili?» chiese Alex.
«No» replicò Bobbie. «Sono mostri. Hanno lanciato i mostri.»
Avasarala aprì un canale di trasmissione. I suoi capelli dovevano essere
messi peggio di quelli di Souther, ma ormai lei era ben oltre la vanità. Il fatto
di riuscire a parlare senza il timore di vomitare era già una benedizione
sufficiente.
«Qui Avasarala» disse. «Il lancio che state vedendo in questo momento è
una nuova arma protomolecolare che stanno tentando di usare come primo
attacco non autorizzato contro Marte. Dobbiamo cancellare quei bastardi dal
cielo, e dobbiamo farlo subito. Tutti.»
«Abbiamo una richiesta di override coordinato dall’ammiraglia di
Souther» annunciò Naomi. «Gli cediamo il controllo?»
«Col cavolo» replicò Alex.
«No, ma traccia la richiesta» disse Holden. «Non ho intenzione di cedere
il controllo della mia nave a un computer di coordinamento balistico militare,
ma dobbiamo comunque far parte della soluzione.»
«La King è in accelerazione massima» disse Alex. «Credo che Nguyen
stia cercando di svignarsela.»
Sullo schermo, intanto, l’attacco dalla superficie di Io stava cominciando
a sbocciare; ogni traccia si dipartiva ad angolazioni inaspettate, alcune
avvitandosi su sé stesse, altre allontanandosi per linee curve come le zampe
articolate di un insetto. Ognuno di quei fili era la morte di un pianeta, e i dati
di accelerazione li attestavano attorno a 10, 15, 20 g. Niente di umano poteva
sopravvivere a 20 g sostenuti. E non c’era niente di umano, lì dentro.
Lunghi bagliori luminosi si staccarono dalle navi, scendendo per
intercettare i fili di Io. Il loro incedere lento e maestoso sullo schermo era
smentito dai dati. Missili al plasma in piena accelerazione, eppure ci vollero
diversi lunghi secondi prima che raggiungessero lo stelo principale.
Avasarala osservò il primo missile detonare e vide la colonna di mostri
protomolecolari dividersi in una dozzina di flussi differenti. Azione evasiva.
«Alcuni vengono verso di noi, cap» disse Alex. «Non credo che siano
pensati per perforare lo scafo di una nave, ma sono dannatamente sicuro che
sono in grado di farlo.»
«Rimbocchiamoci le maniche e facciamo quel che possiamo. Non
possiamo lasciare che nemmeno uno di quei... Okay. Dove sono finiti?»
Sul display tattico, i mostri stavano svanendo uno dopo l’altro, insieme
alle loro tracce.
«Stanno interrompendo l’accelerazione» annunciò Naomi. «E i
transponder sono oscurati. Devono avere delle chiglie di materiale antiradar.»
«Abbiamo i dati del tracciamento? Siamo in grado di anticipare dove
passeranno?»
Il display tattico cominciò a baluginare. Come lucciole, i mostri
apparivano e svanivano, accelerando in quelle che parevano essere direzioni
semicasuali, ma con il bocciolo in continua espansione.
«Sarà un vero casino» disse Alex. «Bobbie?»
«Ho inquadrato qualche bersaglio. Portaci a distanza di CDR.»
«Tenetevi forte, ragazzi» avvertì Alex. «Si parte.»
La Roci sgroppò vigorosamente, e Avasarala fu schiacciata sul sedile. Le
vibrazioni le sembrarono quelle dei suoi muscoli tremanti, poi dei cannoni di
difesa ravvicinata, e poi di nuovo del suo corpo. Sullo schermo, le forze
combinate della Terra e di Marte si allargarono a ventaglio, all’inseguimento
di quei nemici pressoché invisibili. L’accelerazione di gravità variava,
spostando il sedile da un lato e poi dall’altro, senza preavviso. Avasarala
provò a chiudere gli occhi, ma era anche peggio.
«Uhm...»
«Che c’è, Naomi?» domandò Holden. «‘Uhm...’ cosa?»
«La King stava facendo qualcosa di strano, laggiù. C’è parecchia attività
sugli stabilizzatori di posizione e... ah.»
«‘Ah’ cosa? Soggetto, predicato, complemento!»
«È stata perforata» spiegò Naomi. «Uno dei mostri l’ha forata.»
«Ve lo dicevo che potevano farlo» disse Alex. «Non vorrei proprio essere
su quella nave, adesso. Ma comunque... non poteva capitare a un tipo
migliore.»
«I suoi uomini non sono responsabili per le sue azioni» replicò Bobbie.
«Potrebbero perfino non sapere che Souther è al comando. Dobbiamo
aiutarli.»
«Non possiamo» disse Holden. «Ci sparerebbero addosso.»
«Vi spiace chiudere quelle cazzo di bocche?» sbottò Avasarala. «E
smettete di sballottare questa dannata nave. Prendete una direzione che sia
una, e calmiamoci per un paio di minuti.»
La sua richiesta di comunicazione fu ignorata per cinque minuti. Poi
dieci. Quando la richiesta di soccorso della King si accese, Avasarala non
aveva ancora risposto. Subito dopo giunse un segnale di trasmissione.
«Qui è l’ammiraglio Nguyen, della corazzata delle Nazioni Unite Agatha
King. Offro la mia resa alle navi delle Nazioni Unite a condizione di
un’evacuazione immediata. Ripeto: offro la mia resa a qualunque vascello
militare delle Nazioni Unite a condizione di un’evacuazione immediata.»
Souther gli rispose sulla stessa frequenza.
«Qui la Okimbo. Qual è la vostra situazione?»
«Abbiamo un possibile rischio biologico» spiegò Nguyen. Aveva la voce
tanto serrata e acuta da dare l’impressione che qualcuno lo stesse
strangolando. Sul display tattico, diversi punti bianchi si stavano già
muovendo verso il verde.
«Tenete duro, King» disse Souther. «Stiamo arrivando.»
«Col cavolo» replicò Avasarala, poi imprecò tra sé e sé mentre apriva la
linea di trasmissione. «Col cavolo che state arrivando. Qui Avasarala.
Dichiaro un ordine di quarantena e contenimento sulla Agatha King. Nessun
vascello è autorizzato ad accostarsi all’ammiraglia, né ad accettare
trasferimenti di carico o di personale. Qualunque nave lo farà sarà sottoposta
anch’essa a un ordine di quarantena e contenimento.»
Due dei punti bianchi cambiarono rotta. Altri tre proseguirono. Avasarala
aprì di nuovo la linea.
«Sono l’unica, qui, che si ricorda quello che è successo su Eros? Cosa
cazzo pensate che ci sia, sulla King? Non avvicinatevi.»
Anche l’ultimo dei punti bianchi cambiò rotta. Quando Nguyen rispose
alla sua richiesta di comunicazione, Avasarala si era dimenticata di averla
lasciata aperta. Aveva un aspetto di merda. Avasarala immaginava di non
essere in condizioni molto migliori. Quante guerre erano finite a questo
modo?, si chiese. Due persone esauste e nauseate che si fissavano mentre il
mondo bruciava intorno a loro.
«Che cos’altro vuole da me?» chiese Nguyen. «Mi sono arreso. Ho perso.
I miei uomini non meritano di morire per le sue ripicche.»
«Non è una ripicca» rispose Avasarala. «Non possiamo farlo. La
protomolecola si diffonde. I vostri fantasiosi programmi di controllo non
funzionano. È infettiva.»
«Non è provato» replicò lui, ma il modo in cui lo disse faceva capire
tutt’altro.
«Sta succedendo, vero?» domandò Avasarala. «Accenda le sue
telecamere interne. Ci faccia vedere.»
«Non intendo farlo.»
Avasarala si sentì svuotare i polmoni d’aria. Era successo.
«Mi dispiace» dichiarò. «Mi dispiace così tanto.»
Le sopracciglia di Nguyen si alzarono di un millimetro. Aveva le labbra
premute strette, esangui e sottili. Ad Avasarala parve di vedere delle lacrime
nei suoi occhi, ma poteva darsi che fosse soltanto un’impressione dovuta alla
qualità della trasmissione.
«Deve accendere i transponder» disse Avasarala. E poi, quando lui non
rispose: «Non possiamo creare un’arma a partire dalla protomolecola. Non
capiamo nemmeno cosa sia. Non possiamo controllarla. Avete appena inviato
una sentenza di morte su Marte. Non posso salvarvi, non posso. Ma
accendete quei transponder e aiutatemi a salvare quella gente.»
Il momento rimase sospeso nell’aria. Avasarala si sentiva l’attenzione di
Holden e Naomi addosso come se fosse calore che si irradiava dalla griglia
del riscaldamento. Nguyen scosse la testa, muovendo le labbra, perso in una
conversazione con sé stesso.
«Nguyen» disse lei. «Che cosa sta succedendo? Sulla sua nave. In che
condizioni siete?»
«Tiratemi fuori di qui, e accenderò i transponder» rispose lui. «Sbattetemi
pure in cella per il resto della mia vita, non m’importa. Ma tiratemi fuori da
questa nave.»
Avasarala cercò di sporgersi in avanti, ma non fece altro che far spostare
le sospensioni cardaniche del suo sedile. Cercò le parole che l’avrebbero
riportato indietro, le parole che gli avrebbero fatto capire che aveva sbagliato,
che era stato malvagio e che ora sarebbe morto malamente per mano della sua
stessa arma, ma che in qualche modo poteva rimettere a posto le cose.
Guardò quell’ometto rabbioso, miope e spaventato, e cercò di trovare un
modo per restituirgli un minimo di semplice decenza umana.
Non ci riuscì.
«Non posso farlo» disse.
«E allora la smetta di farmi perdere tempo» ribatté lui, e chiuse il
collegamento.
Avasarala si appoggiò allo schienale, coprendosi gli occhi con i palmi
delle mani.
«Mi stanno arrivando delle misurazioni piuttosto strane da quella
corazzata» avvertì Alex. «Naomi? Le vedi anche tu?»
«Scusa. Dammi un secondo.»
«Che hai visto, Alex?» chiese Holden.
«Il reattore è spento. I valori di radiazione interna alla nave stanno avendo
grossi picchi. È come se avessero messo in circolo il reattore nei riciclatori
d’aria.»
«Non sembra una cosa sana» disse Amos.
Il ponte operativo ricadde nel silenzio. Avasarala allungò una mano per
aprire una linea con Souther, ma si fermò. Non sapeva che cosa avrebbe
detto. La voce che giunse dalla linea interna della nave era sbiascicata e
drogata. All’inizio non riconobbe Prax, e poi il botanico dovette ripetere due
volte quello che diceva perché riuscissero a capirlo.
«Incubatore» disse Prax. «Sta trasformando la nave in un incubatore.
Come su Eros.»
«Sa come farlo?» chiese Bobbie.
«A quanto pare» disse Naomi.
«Dovremo fare a pezzi quell’affare» suggerì Bobbie. «Abbiamo
abbastanza potenza di fuoco per farlo?»
Avasarala riaprì gli occhi. Cercò di provare qualcosa oltre a un
gigantesco, oceanico rimorso. Doveva pur esserci una speranza, da qualche
parte. Perfino a Pandora era stato concesso.
Fu Holden a dire quello che lei stava pensando.
«Anche se potessimo, non servirebbe a salvare Marte.»
«Può darsi che li abbiamo beccati tutti?» domandò Alex. «Voglio dire, ce
n’erano un fottio, ma magari... magari li abbiamo beccati.»
«Difficile dirlo, quando procedono per inerzia» rispose Bobbie. «Se ne
avessimo mancato anche uno soltanto, e arrivasse su Marte...»
Ogni cosa le stava sfuggendo tra le mani. Era stata a tanto così dal
riuscire a fermare tutto, e ora eccola lì, a guardarsi mentre la situazione le
sfuggiva di mano. Si sentiva un nodo rigido nello stomaco. Ma non avevano
fallito. Non ancora. Da qualche parte, in tutta quella situazione, doveva
esserci un modo. Qualcosa che si potesse ancora fare.
Inoltrò a Souther la sua ultima conversazione con Nguyen. Forse lui
avrebbe avuto un’idea. Un’arma segreta che potesse saltar fuori dal nulla e
ottenere i codici a forza. Forse il vincolo di fratellanza militare sarebbe
riuscito a risvegliare un ultimo sussulto di umanità in Nguyen.
Dieci minuti dopo, una scialuppa di sopravvivenza si staccò dalla King.
Souther non si prese il disturbo di contattarla prima che venisse abbattuta. Il
ponte operativo somigliava a una stanza in lutto.
«Okay» disse Holden. «Cominciamo dalle cose più urgenti. Dobbiamo
scendere nella base. Se Mei si trova lì, dobbiamo tirarla fuori.»
«Ci sto» rispose Amos. «E dobbiamo portare doc. Non penso che vorrà
affidare ad altri la faccenda.»
«Lo penso anch’io» concordò Holden. «Allora, ragazzi, voi portate la
Roci sulla superficie di Io.»
«Voi?» chiese Naomi.
«Io andrò sull’ammiraglia con la pinaccia» spiegò Holden. «I codici di
attivazione dei transponder saranno nella sala di controllo.»
«Andrà lei?» chiese Avasarala.
«Soltanto due persone sono uscite vive da Eros» replicò Holden
stringendosi nelle spalle. «E io sono l’unico rimasto.»
49

Holden
«Non farlo» disse Naomi. Non lo supplicò, non pianse, non lo impose.
Tutta la forza della sua richiesta risiedeva nella sua pacata semplicità. «Non
farlo.»
Holden aprì l’armadietto accanto al portellone principale e prese la sua
corazza di fattura marziana. L’improvviso e viscerale ricordo degli effetti
delle radiazioni su Eros lo fece fermare. «Ormai saranno ore che pompano
radiazioni all’interno della King, giusto?»
«Non andare laggiù» ripeté Naomi.
«Bobbie» chiamò Holden sulla linea interna.
«Ci sono» rispose lei sbuffando. Stava aiutando Amos a preparare la loro
attrezzatura per l’assalto alla Stazione scientifica di Mao. Dopo quell’unico
incontro con l’ibrido protomolecolare di Mao, Holden non dubitava che
sarebbero andati carichi a dovere.
«Quanto reggono queste corazze marziane, dal punto di vista delle
radiazioni?»
«Una tipo la mia?»
«No, non una corazza potenziata. Lo so che voialtri siete pronti a
esplosioni di prossimità. Sto parlando di questa roba che abbiamo trovato
nelle casse PAM.»
«Più o meno quanto una tuta atmosferica standard. Buone per una
passeggiata fuori dalla nave. Non buone per un’esposizione costante ad alti
livelli di radiazioni.»
«Merda» esclamò Holden. Poi aggiunse: «Grazie.» Spense il pannello di
comunicazione e richiuse l’armadietto. «Ho bisogno di una tuta
anticontaminazione. Il che significa che reggerò meglio le radiazioni, e non
sarò protetto contro i proiettili.»
«Quante volte pensi di poterti far irradiare a questi livelli prima che ti
presentino il conto?» domandò Naomi.
«Come ho già detto: almeno un’altra volta» rispose Holden con un
sorriso. Naomi non lo ricambiò. Holden attivò di nuovo il pannello di
comunicazione e disse: «Amos, portami su una tuta anticontaminazione dalla
sala motori. La cosa più resistente che abbiamo a bordo.»
«Okay» rispose Amos.
Holden aprì l’armadietto dell’equipaggiamento e tirò fuori il fucile
d’assalto che teneva lì. Era grosso, nero, e concepito per essere intimidatorio.
Conferiva immediatamente uno status di minaccia a chiunque l’avesse
imbracciato. Lo rimise a posto e decise di prendere una pistola. La tuta
anticontaminazione l’avrebbe reso piuttosto anonimo. Era il genere di cose
che un qualunque membro di una squadra di contenimento danni avrebbe
potuto indossare durante un’emergenza. Se avesse indossato semplicemente
una pistola nella sua fondina, avrebbe avuto più possibilità di non farsi
identificare come una parte del problema.
E, con la protomolecola libera sulla King e la nave piena di radiazioni, il
problema in questione sarebbe stato bello grande.
Perché, se Prax e Avasarala avessero avuto ragione, e la protomolecola
fosse stata davvero in contatto con sé stessa anche senza alcun collegamento
fisico, allora la melma sulla King sapeva quello che sapeva la melma su
Venere. Parte di questa conoscenza includeva la maniera di costruire le navi
spaziali umane, dopo aver disassemblato la Arboghast. Ma significava anche
che sapeva bene come trasformare gli umani in zombi vomitanti. Era un
trucchetto cui era ricorso un milione di volte, su Eros. Aveva fatto pratica.
Era plausibile che ogni singolo umano a bordo della King fosse ora uno
zombi vomitante. E, purtroppo, quella era soltanto la migliore delle ipotesi.
Gli zombi vomitanti erano una minaccia di morte ambulante per chiunque
avesse della pelle esposta ma, per Holden, nella sua tuta anticontaminazione
perfettamente sigillata e resistente al vuoto, sarebbero stati alle brutte un
fastidio.
Nella peggiore delle ipotesi, invece, la protomolecola era diventata
talmente brava a trasformare gli umani, ora, che la nave sarebbe stata piena di
ibridi letali come quello contro cui avevano combattuto nella stiva. Quella
sarebbe stata una situazione ingestibile, per cui Holden scelse di credere che
non fosse così. Inoltre, la protomolecola non aveva creato nessun soldato su
Eros. Miller non si era propriamente dilungato a descrivere ciò che vi aveva
trovato, ma aveva passato parecchio tempo sulla stazione alla ricerca di Julie
e non aveva mai detto di essere stato attaccato da qualcosa. La protomolecola
era incredibilmente aggressiva e invasiva. Sarebbe stata in grado di uccidere
milioni di umani in poche ore e di trasformarli in parti di ricambio per ciò a
cui stava lavorando, qualunque cosa fosse. Ma la sua era un’invasione a
livello cellulare. Si comportava come un virus, non come un esercito.
Tu continua a dirti che è così, pensò Holden. Faceva sembrare possibile
quello che stava per fare.
Prese una pistola semiautomatica compatta e una fondina dall’armadietto.
Naomi lo osservò mentre riempiva il caricatore dell’arma e ne caricava altri
tre, ma non disse niente. Holden aveva appena finito di inserire l’ultima
pallottola nel terzo caricatore di riserva quando Amos fluttuò nel
compartimento, trascinandosi dietro una grossa tuta rossa.
«Questo è il meglio che abbiamo, cap» disse. «Per quando le cose vanno
davvero in merda. Dovrebbe bastare per i livelli di radiazione che hanno su
quella nave. Il tempo di esposizione massima è sei ore, ma la riserva di
ossigeno ne dura soltanto due, per cui non sarà un problema.»
Holden esaminò la tuta ingombrante. La superficie era fatta di una
sostanza spessa, gommosa. Poteva far desistere qualcuno dall’attaccarlo con
le unghie o i denti, ma non avrebbe fermato un coltello o un proiettile. La
riserva d’ossigeno era contenuta sotto lo strato antiradiazioni della tuta, per
cui creava un grosso bozzo strano sulla schiena di chi la indossava. La
difficoltà che ebbe nel portare a sé la tuta e poi nel fermarla gli fece capire
quanto fosse considerevole la sua massa.
«Non mi muoverò rapidamente con questa addosso, vero?»
«No» rispose Amos con una smorfia. «Non sono fatte per il conflitto a
fuoco. Se cominciano a volare proiettili, sei fottuto.»
Naomi annuì ma non disse niente.
«Amos» disse Holden afferrando il braccio del meccanico mentre si
voltava per andarsene. «Una volta che avrete toccato terra, la sergente
prenderà il comando. È una professionista, e questo è il suo mondo. Ma ho
bisogno che tu ti occupi di tenere al sicuro Prax, perché è un po’ uno scemo.
L’unica cosa che ti chiedo di fare è di portare quell’uomo e sua figlia via da
quella luna, e di ricondurli su questa nave sani e salvi.»
Per un istante, Amos sembrò accusare il colpo. «Certo che lo farò,
capitano. Qualsiasi cosa che arrivi a posare un dito su di lui o sulla bambina
dovrà avermi prima ammazzato. E non è una cosa facile da fare.»
Holden attirò a sé l’omone e lo strinse in un rapido abbraccio. «Già mi
dispiace per qualsiasi cosa dovesse provarci. Non avrei potuto chiedere un
miglior compagno di equipaggio, Amos. Voglio che tu lo sappia.»
Amos lo spinse via. «Ti stai comportando come se pensassi di non
tornare.»
Holden scoccò un’occhiata verso Naomi, ma la sua espressione non era
cambiata. Amos rise per un istante, poi diede una pacca sulla schiena a
Holden, tanto forte da fargli tremare i denti. «Stronzate» disse. «Sei il tipo più
tosto che conosca.» Senza aspettare la risposta di Holden, Amos tornò alla
scala di servizio e scomparve verso il ponte inferiore.
Naomi si diede una lieve spinta sulla paratia e fluttuò verso Holden.
L’attrito dell’aria la fece fermare a mezzo metro da lui. Lei era la persona più
agile che Holden conoscesse, in condizioni di microgravità; una ballerina
della gravità zero. Lui dovette reprimere il desiderio di stringerla a sé.
L’espressione sul volto di Naomi gli faceva capire che non era quello che
voleva. Lei rimase a fluttuargli di fronte per un momento, senza dire niente,
poi stese una mano lunga e affusolata verso di lui e la poggiò sulla sua
guancia. Era fresca e morbida.
«Non andare» disse, e qualcosa nel suo tono di voce fece capire a Holden
che sarebbe stata l’ultima volta.
Lui si ritrasse e cominciò a infilarsi dentro la tuta anticontaminazione. «E
chi lo farebbe, poi? Ce la vedi, Avasarala, a farsi largo attraverso una folla di
zombi vomitanti? Non distinguerebbe nemmeno la sala operativa dalla
cambusa. Amos deve andare a recuperare quella bambina. Sai che è così, e
sai perché. Prax dev’essere presente. Bobbie proteggerà le vite di entrambi.»
Si tirò l’ingombrante tuta fin sulle spalle e la richiuse sul davanti, ma
lasciò il casco appeso sulla schiena. Gli stivali magnetici si attivarono quando
fece scattare i talloni; si spinse sul ponte e rimase attaccato lì.
«Te?» chiese a Naomi. «Mandare te? Scommetterei su di te contro un
migliaio di zombi vomitanti in qualsiasi momento. Ma non conosci la
composizione di una sala operativa meglio di Avasarala. Avrebbe senso?»
«Ci siamo appena riappacificati» rispose lei. «Non è giusto.»
«Però» disse Holden «tu di’ ai marziani che, se salvo il loro pianeta, poi
siamo più che pari per tutta quella faccenda del ‘furto di nave da guerra’,
okay?» Sapeva che stava sminuendo quel momento e si detestò subito per
averlo fatto. Ma Naomi lo conosceva, si rendeva conto di quanto fosse
spaventato, e non gli disse niente. Holden provò un impeto d’amore per lei
che gli mandò una scossa su per la spina dorsale e gli fece formicolare la
nuca.
«Va bene» accettò lei, indurendo il viso. «Ma devi tornare. Sarò qui, alla
radio, per tutto il tempo. Lavoreremo insieme, passo dopo passo. Niente
stronzate da eroe. Userai il cervello invece della pistola, e risolveremo
insieme i problemi. Dimmi di sì. Farai meglio a dirmi di sì.»
Holden la prese tra le braccia e la baciò. «Va bene. Per favore, aiutami a
uscirne vivo. Mi piacerebbe molto poterlo fare.»
Pilotare la Razorback fino alla Agatha King era come guidare una
macchina da corsa per andare al bar dell’angolo. La King era a poche migliaia
di chilometri appena dalla Rocinante. Sembrava abbastanza vicina da poter
essere raggiunta con un assetto EVA e una bella spinta di lancio. Invece,
Holden portò quella che era probabilmente la nave più veloce dell’intero
sistema gioviano con i propulsori a vapore, al cinque percento
dell’accelerazione disponibile, attraverso i detriti della recente battaglia.
Poteva sentire la Razorback che tirava al guinzaglio, rispondendo ai suoi
prudenti sbuffi di vapore con scontrosa disapprovazione. La distanza fino
all’ammiraglia colpita era piuttosto breve, e il percorso abbastanza irto di
ostacoli da rendere più lungo mettersi a programmare la rotta piuttosto che
pilotarla manualmente. Anche con quel languido incedere, la Razorback
sembrava avere difficoltà a puntare il muso verso la King.
‘Meglio non andare lì’ sembrava consigliare la nave. È un luogo
spaventoso.
«Vero. È meglio non andarci» disse, accarezzando la console che aveva
di fronte. «Tu però portami lì tutto intero, va bene, bellezza?»
Un grosso pezzo di ciò che un tempo doveva essere un cacciatorpediniere
gli fluttuò accanto, con i bordi frastagliati ancora arroventati e rossi. Holden
picchiettò sulla cloche e spinse la Razorback da un lato per mettere un po’
più di distanza tra sé e quel relitto alla deriva. La prua deviò dalla rotta. «Puoi
resistere quanto vuoi, ma è sempre lì che andremo.»
Una parte di Holden era infastidita dal fatto che il transito fosse tanto
pericoloso. Non era mai stato su Io, e la vista di quella luna sul limitare del
suo schermo era spettacolare. Un gigantesco vulcano di silicato fuso dall’altra
parte del satellite eruttava particelle talmente in alto nello spazio che Holden
riusciva a vedere le tracce che lasciavano nel cielo. Il pennacchio si raffreddò
in un getto di cristalli di silicato che rifletterono il bagliore di Giove,
scintillando come diamanti sparsi su un velluto nero. Alcuni di quei cristalli
sarebbero andati alla deriva e sarebbero diventati parte del tenue sistema di
anelli di Giove, soffiati via dal pozzo di gravità di Io. In qualsiasi altra
circostanza, sarebbe stato uno spettacolo magnifico.
Ma quel volo periglioso lo costringeva a mantenere la sua attenzione sui
comandi e sugli schermi di fronte a sé. E sulla massa crescente della Agatha
King, che fluttuava solitaria nel mezzo della nube di detriti.
Quando fu a portata, Holden inviò un segnale al sistema di attracco
automatico della nave ma, come aveva sospettato, la King non rispose. Pilotò
la pinaccia fino al portellone pressurizzato più vicino e istruì la Razorback di
mantenere una distanza costante di cinque metri dalla fiancata. La nave da
corsa non era stata progettata per attraccare a un’altra nave nello spazio. Non
aveva nemmeno un tubo di attracco rudimentale. Per arrivare alla King,
Holden avrebbe dovuto farsi una breve passeggiata nello spazio.
Avasarala aveva ottenuto un codice di override generale da Souther, e
Holden lo fece trasmettere alla Razorback. Il portellone si aprì
immediatamente. Holden riempì la riserva d’ossigeno della tuta
anticontaminazione all’interno della camera stagna della Razorback. Una
volta all’interno dell’ammiraglia di Nguyen, non avrebbe potuto fare
affidamento sull’aria, nemmeno su quella delle apposite stazioni di ricarica.
Niente di ciò che era all’interno della nave doveva penetrare nella sua tuta.
Niente.
Quando il suo indicatore raggiunse il cento percento, attivò la radio e
chiamò Naomi. «Sto entrando.»
Spense gli stivali magnetici, e con una spinta secca sul portellone interno
della camera stagna attraversò il breve tratto fino alla King.
«L’immagine è buona» disse Naomi. La spia del collegamento video sul
visore di Holden era accesa. Naomi poteva vedere tutto quello che vedeva lui.
Era confortante e, al contempo, lo faceva sentire più solo, come fare una
chiamata a un amico che viveva molto lontano.
Holden attivò il ciclo di pressurizzazione della camera stagna. I due
minuti che la King impiegò per richiudere il portellone esterno e per pompare
aria nella camera sembrarono durare un’eternità. Non c’era verso di sapere
che cosa avrebbe trovato dall’altra parte del portellone interno quando si
fosse finalmente aperto. Holden posò la mano sul calcio della pistola con una
noncuranza che non sentiva affatto.
La porta interna si aprì.
L’improvviso allarme radiazioni della sua tuta anticontaminazione per
poco non gli fece venire un infarto. Pigiò col mento il comando che spegneva
l’allarme sonoro, mantenendo però attivo il misuratore di radiazioni esterne.
Quelle informazioni non gli servivano a niente, nel concreto, ma in quel
modo la tuta lo rassicurava sul fatto che riuscisse a gestire i livelli di
radiazione correnti, ed era piacevole.
Holden uscì dalla camera stagna ed entrò in un piccolo scomparto pieno
di armadietti e pacchetti EVA. Sembrava vuoto, ma un rumorino proveniente
da uno degli armadietti lo allertò, e si volto appena in tempo per vedere un
uomo in uniforme navale delle Nazioni Unite precipitarsi fuori
dall’armadietto e mulinare una pesante chiave inglese verso la sua testa.
L’ingombrante tuta anticontaminazione gli impediva di muoversi
rapidamente, e la chiave inglese colpì sonoramente il lato del suo casco.
«Jim!» gridò Naomi sulla linea radio.
«Muori, bastardo!» urlò il marinaio nello stesso istante. Menò un secondo
colpo ma non indossava stivali magnetici e, senza la spinta dalla paratia a
dargli slancio, quel movimento non fece altro che cominciare a farlo girare su
sé stesso, fluttuando. Holden gli strappò di mano la chiave inglese e la scagliò
via. Afferrò l’uomo per farlo smettere di girare con la sinistra ed estrasse la
pistola con la destra.
«Se hai spaccato la mia tuta, ti butto fuori dal portellone» minacciò
Holden. Prese a controllare le schermate di stato della tuta continuando a
tenere l’arma puntata contro il forsennato della chiave inglese.
«Sembra tutto a posto» lo rassicurò Naomi, con evidente sollievo nella
voce. «Niente spie rosse o gialle. Quel casco è più resistente di quanto non
sembri.»
«Che diavolo stavi facendo in quell’armadietto?» chiese Holden
all’uomo.
«Stavo lavorando qui quando quel... quell’affare è salito a bordo» spiegò
l’uomo. Era un terrestre dall’aspetto compatto, con il colorito pallido e capelli
rosso fuoco tagliati corti sul cranio. Un’etichetta sulla sua tuta riportava il
nome ‘Larson’. «Tutte le porte si sono sigillate durante la procedura
d’emergenza. Io sono rimasto intrappolato qui, ma ho visto quello che stava
succedendo sul sistema di sicurezza interno. Speravo di riuscire a prendere
una tuta e di uscire dal portellone, ma anche quello era bloccato. Come ha
fatto a entrare?»
«Ho dei codici di controllo dell’ammiragliato» rispose Holden. Poi
aggiunse sottovoce, rivolgendosi a Naomi: «Quali sono le possibilità di
sopravvivenza del nostro amico, qui, agli attuali livelli di radiazioni?»
«Non sta messo così male» replicò Naomi. «Se lo portiamo in infermeria
nelle prossime due ore.»
Holden disse a Larson: «Okay. Tu vieni con me. Andiamo nella sala
operativa. Portamici rapidamente, e ti guadagnerai un passaggio per
andartene da qui.»
«Sì, signore!» disse Larson, eseguendo il saluto militare.
«Pensa che tu sia un ammiraglio.» Naomi scoppiò a ridere.
«Larson, indossa una tuta ambientale. Fa’ in fretta.»
«Sì, signore, signore!»
Le tute che conservavano negli armadietti della camera stagna avevano
perlomeno la propria riserva di ossigeno. Così avrebbero limitato il danno
causato dalle radiazioni che il giovane marinaio stava assorbendo. E una tuta
sigillata avrebbe ridotto il rischio d’infezione protomolecolare mentre
avanzavano attraverso la nave.
Holden aspettò finché Larson non si fu infilato la tuta, poi trasmise il
codice di override al portellone, e quello si aprì. «Dopo di te, Larson. Al
centro d’informazioni di comando, più veloce che puoi. Se incappiamo in
qualcuno, specialmente se sta vomitando, sta’ lontano e lascia che me ne
occupi io.»
«Sì, signore» rispose Larson, con voce confusa in mezzo al crepitio della
linea radio, poi si immise nel corridoio. Prese Holden in parola e lo guidò a
passo rapido attraverso la Agatha King, ormai menomata. Si fermarono
soltanto quando un portello sigillato bloccò loro il passo, e solamente per il
tempo necessario affinché Holden lo convincesse ad aprirsi.
Le zone della nave che attraversarono non sembravano minimamente
danneggiate. L’arma biologica l’aveva colpita maggiormente a prua, e il
mostro si era diretto dritto verso la sala del reattore. Secondo Larson, aveva
ucciso parecchie persone sul suo percorso, incluso l’intero contingente di
marine presenti sulla nave allorché questi ultimi avevano cercato di fermarlo.
Una volta penetrato nella sala macchine, però, aveva tendenzialmente
ignorato il resto dell’equipaggio. Larson disse che, poco dopo l’arrivo del
mostro in quel punto, il sistema di monitoraggio video si era disattivato in
tutta la nave. Senza poter sapere dove fosse il mostro, e senza poter uscire
dalla camera stagna della stiva, Larson si era nascosto in un armadietto per
attendere che se ne andasse.
«Quando è entrato, non vedevo altro che un grosso affare rosso e
sproporzionato» spiegò Larson. «Ho pensato che fosse un altro di quei
mostri.»
La mancanza di danni evidenti era una buona cosa. Significava che tutti i
portelloni e gli altri sistemi che incontravano erano ancora in funzione. La
mancanza di un mostro che metteva a soqquadro l’intera nave era ancora
migliore. Ciò che preoccupava di più Holden era l’assenza di personale. Una
nave di quelle dimensioni aveva più di un migliaio di passeggeri a bordo.
Perlomeno alcuni di quelli sarebbero dovuti essere nelle zone della nave che
stavano attraversando ma, fino a quel momento, non ne avevano incontrato
nemmeno uno.
Le pozze di fanghiglia marrone che di tanto in tanto si vedevano in giro
non erano un segno incoraggiante.
Larson si fermò davanti a un portellone chiuso per permettere a Holden di
riprendere fiato. La pesante tuta anticontaminazione non era stata costruita
per lunghe camminate, e stava cominciando a riempirsi della puzza del suo
stesso sudore. Mentre Holden si prendeva un minuto di pausa per riposarsi e
permettere al sistema di raffreddamento della tuta di riportare la temperatura
a livelli accettabili, Larson disse: «Passeremo oltre la cambusa di prua fino a
uno degli ascensori. Il centro operativo è sul ponte appena sopra. Ci vorranno
altri cinque minuti; dieci, al massimo.»
Holden controllò le sue riserve di ossigeno e vide che ne aveva
consumate quasi la metà. Stava rapidamente avvicinandosi al punto di non
ritorno. Ma qualcosa, nella voce di Larson, aveva risvegliato la sua
attenzione. Il modo in cui aveva detto ‘cambusa’.
«C’è qualcosa che dovrei sapere sulla cambusa?»
Larson rispose: «Non ne sono sicuro. Però, dopo che le telecamere si
sono spente, ho continuato a sperare che qualcuno sarebbe venuto a
riprendermi. Per cui ho cominciato a cercare di chiamare gli altri sulla linea
interna. Quando non ha funzionato, ho iniziato a fare qualche controllo di
posizione nella King su gente che conoscevo. Dopo un po’, a prescindere da
chi cercassi, la risposta era sempre ‘la cambusa di prua’.»
«Per cui» disse Holden «in quella cambusa potrebbero essersi ammassati
circa un migliaio di marinai infetti?»
Larson scrollò le spalle in maniera appena visibile con la tuta ambientale
addosso. «Può darsi che il mostro li abbia uccisi e li abbia messi lì.»
«Oh, credo che sia esattamente quello che è successo» replicò Holden,
impugnando la pistola e armeggiando con il caricatore per incamerare un
colpo. «Ma dubito fortemente che siano rimasti morti.»
Prima che Larson potesse chiedergli che cosa intendesse, Holden fece
sbloccare il portellone alla sua tuta. «Quando aprirò questa porta, dirigiti il
più rapidamente possibile verso l’ascensore. Io sarò dietro di te. Non
fermarti, qualunque cosa accada. Devi portarmi a quella sala operativa. Ci
siamo capiti?»
Larson annuì dentro il casco.
«Bene. Al mio tre.»
Holden cominciò a contare tenendo una mano sul portello e impugnando
l’arma nell’altra. Quando arrivò al tre, aprì il portellone con una spinta.
Larson puntò i piedi su una paratia e si spinse lungo il corridoio dall’altra
parte.
Piccole lucine blu fluttuavano nell’aria intorno a loro, simili a libellule.
Come le luci che Miller aveva segnalato allorché era sceso su Eros per la
seconda volta. La volta in cui non era tornato indietro. Le lucciole erano
anche lì, ora.
In fondo al corridoio, Holden riusciva a vedere la porta dell’ascensore.
Cominciò a mettere un passo davanti all’altro, pesantemente, con i suoi
stivali magnetici. Quando Larson giunse a metà corridoio, passò davanti a un
portellone aperto.
Il giovane marinaio cominciò a urlare.
Holden corse più veloce che poteva, per quel che gli permettevano di fare
la sua goffa tuta anticontaminazione e gli stivali magnetici. Larson
continuava a fluttuare lungo il corridoio, ma gridava e agitava le braccia per
aria come un uomo che stesse affogando e cercasse disperatamente di
nuotare. Holden era quasi giunto al portellone aperto, quando qualcosa
strisciò fuori e gli si parò davanti. All’inizio pensò che si trattasse dello stesso
genere di zombi vomitanti in cui si era imbattuto su Eros. Si muoveva lento, e
la sua uniforme della marina era sporca di vomito marrone sul davanti.
Allorché però si voltò per fissare Holden, i suoi occhi baluginavano
dall’interno di una debole luce blu. E c’era un’intelligenza, in quegli occhi,
che gli zombi di Eros non possedevano.
La protomolecola aveva imparato qualche lezione, su Eros. Quella era la
nuova versione, migliorata, degli zombi vomitanti.
Holden non aspettò di vedere che cosa avrebbe fatto. Senza rallentare,
alzò la pistola e sparò dritto in testa. Con suo grande sollievo, la luce svanì
dagli occhi della creatura e quella volò via dal ponte, schizzando melma
marrone in un arco tutto intorno mentre ruotava su sé stessa. Quando Holden
superò il portello aperto, arrischiò un’occhiata all’interno.
La stanza era piena di nuovi zombi vomitanti. A centinaia. Tutti i loro
spaventosi occhi blu puntarono verso di lui. Holden si voltò verso il corridoio
e riprese a correre. Alle sue spalle sentì un’ondata crescente di rumori mentre
gli zombi gemevano come un solo corpo e cominciavano a venirgli dietro
sciamando lungo le pareti e il ponte.
«Via! Sali sull’ascensore!» gridò a Larson, imprecando per quanto lo
rallentava la tuta anticontaminazione.
«Mio dio, che cos’erano quelli?» esclamò Naomi. Holden si era
dimenticato che anche lei vedeva quel che vedeva lui. Larson era riuscito a
scrollarsi di dosso il panico e stava armeggiando febbrilmente per aprire le
porte dell’ascensore. Holden lo raggiunse di corsa e si voltò per guardarsi alle
spalle. Dozzine di zombi vomitanti con gli occhi blu riempivano il corridoio,
ora, strisciando sulle paratie, sul soffitto e sul ponte, come ragni. Le luci blu
volteggiavano portate da correnti d’aria che Holden non riusciva a sentire.
«Più veloce» disse a Larson, puntando la pistola contro il primo zombi e
piazzandogli un proiettile in testa. Quello venne via dalla parete schizzando
melma mentre fluttuava per aria. Lo zombi che veniva dietro lo spinse via,
mandandolo a capitombolare lungo il corridoio verso di loro. Holden si mise
di fronte a Larson per proteggerlo, e uno schizzo di melma marrone gli colpì
il petto e il visore. Se non avessero avuto entrambi delle tute sigillate, sarebbe
stata una sentenza di morte. Holden represse un fremito e abbatté altri due
zombi. Gli altri non rallentarono nemmeno.
Alle sue spalle, Larson imprecò mentre le porte mezze aperte gli si
richiudevano addosso, intrappolandogli il braccio. Il marinaio si diede da fare
per riaprirle, spingendo con la schiena e una gamba.
«Ci siamo!» gridò Larson. Holden cominciò a indietreggiare verso la
colonna dell’ascensore, svuotando il caricatore davanti a sé. Un’altra mezza
dozzina di zombi si staccarono inerti, schizzando melma; poi Holden si
ritrovò nella colonna dell’ascensore e Larson richiuse le porte con una spinta.
«È al livello superiore» disse Larson, con il fiatone per la paura e la
fatica. Si spinse sulla paratia e fluttuò fino a un’altra coppia di porte, che aprì
a forza. Holden lo seguì, sostituendo il caricatore nella sua arma. Proprio di
fronte all’ascensore c’era un portellone pesantemente corazzato con
l’acronimo della sala operativa marchiato a stencil bianco sul metallo. Holden
si avvicinò e fece trasmettere alla sua tuta il codice di override. Alle sue
spalle, Larson lasciò che le porte dell’ascensore si richiudessero. L’ululato
degli zombi riecheggiò su per la colonna dell’ascensore.
«Dovremmo sbrigarci» disse Holden, premendo il tasto che dava accesso
alla stanza e spingendosi a forza per entrare prima che il portellone fosse del
tutto aperto. Larson entrò fluttuando alle sue spalle. All’interno della sala
operativa c’era un uomo solo: un asiatico tarchiato e dalla corporatura
possente, con indosso un’uniforme da ammiraglio e una pistola di grosso
calibro in una mano tremante.
«Fermi dove siete» intimò loro l’uomo.
«Ammiraglio Nguyen!» biascicò Larson. «È vivo!»
Nguyen lo ignorò. «Siete qui per i codici di controllo dei vettori di lancio
delle armi biologiche. Li ho qui con me.» Alzò un terminale palmare. «Ve li
darò in cambio di un passaggio per andarmene da questa nave.»
«Ci porterà via da qui» disse Larson, indicando Holden. «Ha detto che
porterà anche me.»
«Col cazzo» intervenne Holden rivolto a Nguyen. «Non ci contare. O mi
dai quei codici perché ti rimane ancora un briciolo di umanità, oppure me li
darai perché sarai già morto. Non m’importa come. Decidi tu.»
Nguyen spostò lo sguardo avanti e indietro tra Larson e Holden,
stringendo il terminale palmare e la pistola tanto forte da farsi sbiancare le
nocche. «No! Lei deve...»
Holden gli sparò alla gola. Da qualche parte, nel suo tronco cerebrale, il
detective Miller annuì in segno di approvazione.
«Comincia a pensare a un percorso alternativo per tornare alla mia nave»
disse Holden a Larson mentre attraversava la stanza per prendere il terminale
che fluttuava accanto al cadavere di Nguyen. Gli ci volle un po’ per trovare il
pulsante di autodistruzione nascosto dietro un pannello sigillato. I codici di
override di Souther gli consentirono l’accesso anche a quello.
«Scusa» disse piano Holden a Naomi mentre l’apriva. «So che avevamo
detto che non avrei più fatto così. Ma non avevo il tempo di...»
«No» rispose Naomi, con voce triste. «Quel bastardo meritava di morire.
E so che più tardi ti sentirai uno schifo per averlo fatto. Per me va bene così.»
Il pannello si aprì, e dall’altra parte c’era un semplice pulsante. Non era
nemmeno rosso, ma di un ordinario bianco industriale. «È questo che fa
saltare in aria la nave?»
«Non c’è il timer» disse Naomi.
«Be’, si tratta di un dispositivo pensato per impedire l’arrembaggio. Se
qualcuno apre questo pannello e preme il pulsante, vuol dire che la nave
ormai è persa. Non c’è alcun conto alla rovescia per evitare che possa essere
disarmato.»
«Questo è un dilemma da ingegnere» osservò Naomi. Sapeva già che
cosa stesse passando per la testa a Holden, e stava cercando di trovare una
risposta prima che lui potesse dirlo. «Possiamo risolverlo.»
«Non possiamo» obiettò Holden. Si aspettava di provare rammarico, e
invece si sentì pervadere da una sorta di pace tranquillizzante. «Ci sono un
paio di centinaia di zombi molto arrabbiati che stanno cercando di risalire la
colonna dell’ascensore in questo stesso istante. Non troveremo comunque
nessuna soluzione che possa tirarmi fuori da qui.»
Una mano gli strinse la spalla. Holden alzò lo sguardo e Larson disse:
«Lo premerò io.»
«No, non devi...»
Larson alzò un braccio. La manica della sua tuta ambientale aveva un
piccolo strappo nel punto in cui le porte dell’ascensore gli si erano richiuse
addosso. Intorno al danno c’era una macchia marrone della taglia di un
palmo.
«Semplice, dannatissima sfortuna, immagino. Ma ho visto le immagini di
Eros, come tutti» disse Larson. «Non può rischiare di portarmi via. Presto
potrei essere...» Fece una pausa e indicò verso l’ascensore con un gesto del
capo. «Potrei essere uno di quelli.»
Holden strinse la mano di Larson. I guanti spessi rendevano impossibile
sentire alcunché. «Mi dispiace molto.»
«Ehi, ci ha provato» rispose Larson con un sorriso triste. «Almeno così
non morirò di sete nell’armadietto di una camera stagna.»
«L’ammiraglio Souther sarà messo al corrente del tuo gesto» promise
Holden. «Farò in modo che lo sappiano tutti.»
«Davvero» disse Larson, fluttuando verso il pulsante che avrebbe
trasformato la Agatha King in una piccola stella per qualche secondo. Si tolse
il casco e fece un respiro profondo. «C’è un altro portellone tre ponti più su.
Se non sono già penetrati nella colonna dell’ascensore, può ancora farcela.»
«Larson, io...»
«Dovrebbe andare, ora.»
Holden si dovette disfare della sua tuta nella camera stagna della King.
Era coperta di fanghiglia e non poteva rischiare di portarla sulla Razorback.
Assorbì un po’ di radiazioni mentre rubava un’altra tuta pressurizzata da uno
degli armadietti e la indossava al posto della sua. Era esattamente identica a
quella che portava Larson. Non appena tornò sulla Razorback, inviò i codici
di comando remoto alla nave di Souther. Era quasi arrivato alla Rocinante
quando la King svanì in una gigantesca palla di fuoco bianco.
50

Bobbie
«Il capitano se n’è appena andato» disse Amos a Bobbie quando tornò
nell’officina. Lei fluttuava a mezzo metro dal ponte, al centro di un piccolo
cerchio di tecnologia mortale. Alle sue spalle c’era la sua tuta da ricognizione
pulita e revisionata, con una singola canna del nuovo mitragliatore che
luccicava all’interno dell’alloggiamento sul suo braccio destro. Alla sua
sinistra galleggiava il fucile automatico preferito di Amos, riassemblato di
recente. Il resto del cerchio era composto da pistole, granate, un coltello da
combattimento e una gran varietà di caricatori. Bobbie fece un ultimo ripasso
mentale e decise che aveva fatto tutto quello che poteva.
«Crede che forse non tornerà indietro, stavolta» continuò Amos, poi si
chinò e raccolse il fucile automatico. Lo studiò con sguardo esperto, poi le
rivolse un cenno di apprezzamento col capo.
«Andare in un combattimento da cui sai che non tornerai indietro ti dà
una sorta di lucidità accresciuta» disse Bobbie. Allungò una mano e afferrò la
corazza, tirandocisi dentro. Non era una cosa semplice da fare, in
microgravità. Doveva contorcersi e scuotersi per infilare le gambe nella tuta
prima di poter richiudere il pettorale. Notò che Amos la fissava. Aveva un
ghigno beato sul viso.
«Davvero? Adesso?» esclamò lei. «Stiamo parlando del tuo capitano che
va a morire, e tutto quello che ti passa per il cervello ora è: ‘Oooh, tette’?»
Amos continuò a ghignare, per niente pentito. «Quella tuta aderente non
lascia molto all’immaginazione. Tutto qui.»
Bobbie roteò gli occhi. «Credimi, se potessi indossare una giacca più
spessa all’interno della mia tuta da combattimento potenziata e
multiarticolata, non lo farei lo stesso. Perché sarebbe stupido.» Pigiò i
comandi per sigillare la tuta, e la corazza le si avvolse intorno come una
seconda pelle. Richiuse il casco e usò gli altoparlanti esterni per parlare con
Amos, sapendo che avrebbe reso la sua voce robotica e disumana.
«Faresti meglio a smetterla di fare il ragazzino» disse, con la voce che
riecheggiava nella sala. Inconsciamente, Amos fece un passo indietro. «Il
capitano non è l’unico che rischia di non tornare indietro.»
Bobbie salì sull’ascensore di servizio e lasciò che la portasse su fino in
plancia.
Avasarala era seduta sul sedile del pannello di comunicazione con le
cinture allacciate. Naomi era in quello che di solito era il posto di Holden, di
fronte al pannello tattico. Alex doveva già essere su, nella cabina di
pilotaggio. Bobbie aprì la visiera per parlare con la sua voce normale.
«Siamo pronti?» chiese ad Avasarala.
L’anziana donna annuì e alzò una mano facendole cenno di aspettare
mentre parlava con qualcuno dal microfono delle cuffie. «I marziani hanno
già inviato un plotone completo» disse poi, allontanandosi il microfono dal
viso. «Ma hanno ricevuto ordine di impostare un perimetro e di sigillare la
base mentre qualcuno più in alto nella catena alimentare decide cosa fare.»
«Quindi non pensano di...» fece per dire Bobbie, ma Avasarala la
interruppe con un gesto noncurante della mano.
«Cazzo, no» replicò. «In cima alla catena alimentare ci sono io, e ho già
deciso che ridurremo in polvere quel mattatoio non appena vi sarete
allontanati dalla superficie.»
Bobbie annuì con il pugno chiuso. I marine ricognitori erano abituati a
utilizzare l’idioma fisico dei cinturiani quando indossavano le loro corazze da
combattimento. Avasarala sembrò sconcertata da quel segno e disse: «Per cui
smettila di fare giochini con le mani e va’ a prendere quei cazzo di
ragazzini.»
Bobbie tornò verso l’ascensore, collegandosi al sistema di comunicazione
interno della nave mentre scendeva. «Amos, Prax, vediamoci nella camera
stagna tra cinque minuti, attrezzati e pronti a partire. Alex, portaci sul ponte
tra dieci.»
«Ricevuto» rispose Alex. «Buona caccia, soldato.» Bobbie si chiese se
sarebbero potuti diventare amici, avendone avuto il tempo. Era un pensiero
piacevole.
Quando lei arrivò all’appuntamento, Amos l’aspettava già davanti al
portellone. Indossava la sua corazza leggera di fattura marziana e
imbracciava la sua grossa arma. Prax arrivò di corsa nel compartimento pochi
minuti dopo, armeggiando ancora per infilarsi l’equipaggiamento preso in
prestito. Sembrava un bambino che avesse indossato le scarpe del padre.
Mentre Amos lo aiutava a sigillare la tuta, Alex li chiamò nella camera stagna
e disse: «Scendiamo giù. Reggetevi a qualcosa.»
Bobbie attivò gli stivali magnetici alla massima potenza, agganciandosi al
ponte mentre la nave si spostava sotto di lei. Amos e Prax si sedettero
entrambi su degli strapuntini che fuoriuscivano dalla parete e si allacciarono
le cinture.
«Ripassiamo il piano ancora una volta» disse lei, visualizzando le foto
aeree che avevano scattato al centro di ricerca. Si collegò alla Roci e riversò
le immagini su un pannello a parete. «Questo portellone pressurizzato è il
nostro ingresso. Se fosse sigillato, Amos lo farà saltare con dell’esplosivo per
aprire la porta esterna. Dovremo entrare rapidamente. La vostra corazza non
vi proteggerà a lungo dalle insidiose radiazioni della fascia in cui orbita Io.
Prax, tu hai il sistema radio che Naomi ha messo su, per cui, una volta dentro,
comincia a cercare un nodo di rete a cui collegarti. Non abbiamo nessuna
informazione sulla pianta della base, quindi prima riusciamo a mettere Naomi
in condizione di hackerare il loro sistema, e prima riusciremo a trovare quei
bambini.»
«Preferisco il piano B» rispose Amos.
«Piano B?» chiese Prax.
«Il piano B sarebbe che prendo il primo tizio che ci troviamo a tiro e lo
riempio di legnate finché non ci dice dove si trovano i bambini.»
Prax annuì. «Okay. Anche a me piace.»
Bobbie ignorò quelle sparate da macho. Ognuno gestiva la tensione che
precedeva il combattimento a modo suo. Lei preferiva redigere liste in
maniera ossessiva. Ma ostentazione e minacce andavano bene lo stesso. «Una
volta che avremo un luogo, voi due vi affretterete dai bambini, mentre io mi
occuperò di mettere in sicurezza un percorso protetto per l’estrazione.»
«Mi sembra buono» osservò Amos.
«Non vi fate illusioni» obiettò Bobbie. «Io è uno dei posti peggiori di
tutto il sistema solare. Tettonicamente instabile e radioattivo da morire. È
facile capire perché si siano nascosti qui, ma non sottovalutate il pericolo che
comporta il semplice transitare su questa luna.»
«Due minuti» disse Alex sulla linea generale.
Bobbie fece un respiro profondo. «E questa non è la parte peggiore. Quei
bastardi hanno scagliato un paio di centinaia di ibridi protomolecolari umani
contro Marte. Possiamo sperare che abbiano sparato l’intero carico, ma ho la
sensazione che non sia così. È probabile che ci imbattiamo in uno di quei
mostri, una volta entrati.»
Non disse: ‘L’ho visto nei miei sogni.’ Sembrava controproducente.
«Se dovessimo vederne uno, sarò io a occuparmene. Amos, hai quasi
fatto ammazzare il vostro capitano quando hai aperto il fuoco su quello che
avete trovato qui nella stiva. Prova a fare una cazzata del genere con me, e ti
spezzo le braccia. Non mettermi alla prova.»
«Okay, capo» replicò Amos. «Non serve agitarsi. Ho capito.»
«Un minuto» disse Alex.
«Il perimetro è controllato dai marine di Marte, ma gli è stato dato
l’ordine di lasciarci passare. Se qualcuno dovesse sfuggirci, non serve
riacciuffarlo. I marine li raggiungeranno prima che possano arrivare lontano.»
«Trenta secondi.»
«Tenetevi pronti» avvertì Bobbie, poi richiamò lo status della tuta sul
visore. Tutti gli indicatori erano verdi, incluso quello delle munizioni, che
segnava duecento proiettili incendiari.
L’aria venne risucchiata fuori dalla camera stagna con un lungo sibilo,
lasciando soltanto un sottile strato di atmosfera che corrispondeva alla densità
della flebile nebbia sulfurea di Io. Prima che la nave toccasse terra, Amos
saltò su dallo strapuntino e si alzò in punta di piedi per appoggiare il casco a
quello di Bobbie. Gridò: «Scateniamo l’inferno, marine!»
Il portellone esterno si aprì e la corazza di Bobbie le lanciò subito un
allarme. Inoltre la informò utilmente che l’atmosfera esterna non era adatta a
ospitare la vita. Lei spinse prima Amos verso il portellone aperto, poi Prax.
«Via, via, via!»
Amos scattò fuori in una strana corsa balzellante, e il suo respiro
affannoso risuonò nelle orecchie di Bobbie tramite il canale radio. Prax gli
correva accanto e sembrava più a suo agio di lui a bassa gravità. Teneva il
passo senza difficoltà. Bobbie uscì dalla Roci e saltò in un lungo arco che, al
suo apice, la portò a sette metri di altezza. Studiò la superficie a vista mentre
la corazza scansionava l’area con radar e sensori elettromagnetici, cercando
di individuare eventuali bersagli. Non ne trovarono né lei, né la corazza.
Toccò terra accanto ad Amos, che continuava a correre goffo, e balzò di
nuovo in avanti, precedendo entrambi verso la camera stagna. Premette un
tasto e il portellone esterno si aprì. Ovvio. Chi mai avrebbe pensato a
chiudere a chiave la propria porta su Io? Nessuno si sarebbe messo ad
attraversare quel deserto di silicio fuso e zolfo solo per venire a rubare
l’argenteria.
Amos caracollò oltre Bobbie ed entrò nella camera stagna, fermandosi a
riprendere fiato soltanto una volta all’interno. Bobbie seguì Prax ed entrò un
istante più tardi, e fece per dire ad Amos di pressurizzare la stanza quando il
collegamento radio scomparve.
Lei si voltò, cercando con gli occhi un qualche movimento sulla
superficie della luna. Amos le si avvicinò e appoggiò il casco sullo schienale
della corazza. Quando gridò, era a malapena udibile. «Che c’è?»
Invece di rispondergli urlando, Bobbie uscì dalla camera stagna e indicò
Amos, e poi la porta interna. Usò le dita per mimare una persona che
cammina. Amos annuì con una mano, quindi tornò nella camera stagna e
richiuse la porta esterna.
Qualunque cosa fosse successa, ormai dipendeva da Amos e Prax. Si
augurò che avessero successo.
Bobbie notò il movimento prima ancora della corazza. Qualcosa che si
spostava sullo sfondo di un giallo sulfureo. Qualcosa che non era esattamente
dello stesso colore. La seguì con gli occhi e la fece inquadrare con un laser di
puntamento dalla corazza. Così non ne avrebbe più potuto perdere le tracce.
Quegli affari potevano anche assorbire le onde radio, ma il fatto che riuscisse
a vederli significava che riflettevano la luce normalmente.
La cosa si mosse di nuovo. Senza fretta e restando vicina a terra. Se
Bobbie non avesse guardato direttamente in quel punto, quel movimento le
sarebbe sfuggito del tutto. Si stava spostando in modo furtivo. Il che
probabilmente significava che non aveva capito che Bobbie l’aveva
individuata. Il misuratore di portata del laser della corazza segnalava la
creatura a poco più di trecento metri di distanza. Secondo la teoria che aveva
formulato Bobbie, una volta che si fosse accorta di essere stata vista,
l’avrebbe caricata in linea retta, cercando di afferrarla e di farla a brandelli.
Se non fosse riuscita a raggiungerla in fretta, avrebbe cercato di scagliarle
addosso qualcosa. Tutto quello che doveva fare Bobbie era ferirla finché il
suo programma non fosse andato in tilt e la creatura non si fosse
autodistrutta. Tutte teorie.
Era giunto il momento di sperimentarne la validità.
Puntò l’arma verso la cosa. La corazza l’assistette nella correzione
dell’angolo di deviazione in funzione della portata, ma stava usando proiettili
ultraleggeri su una luna dotata di bassa gravità. Calcolare la curva dei
proiettili a trecento metri di distanza sarebbe stato irrilevante. Anche se non
era possibile che la creatura la vedesse attraverso la visiera oscurata del
casco, Bobbie le tirò un bacio. «Sono tornata, tesoro. Vieni a dare un bacio a
mammina.»
Premette il grilletto dell’arma. Cinquanta proiettili si liberarono dalla
canna, coprendo la distanza che la separava dalla creatura in meno di un terzo
di secondo. Andarono a segno tutti e cinquanta, perdendo pochissima
accelerazione mentre attraversavano l’obiettivo. Quanto bastava, però, per far
aprire la punta di ognuno dei proiettili e far incendiare il gel infiammabile
auto-ossidante che contenevano. Cinquanta scie di fuoco di breve durata ma
di grande intensità attraversarono il mostro.
Alcuni dei filamenti neri che schizzavano fuori dai fori di uscita presero
fuoco, svanendo in un lampo di cenere.
Il mostro si lanciò addosso a Bobbie correndo a una velocità che a bassa
gravità sarebbe dovuta essere impossibile. Ogni spinta dei suoi arti avrebbe
dovuto scagliarla per aria. E invece rimaneva attaccata alla superficie silicea
di Io come se avesse avuto indosso degli stivali magnetici su un ponte di
metallo. La sua rapidità era tale da mozzare il fiato. I suoi occhi blu
baluginavano come fulmini. Le sue lunghe, improbabili mani si allungarono
per afferrare Bobbie, aprendosi e chiudendosi nel vuoto mentre correva. Era
tutto come nei suoi sogni. E, per una frazione di secondo, la marine ebbe
voglia di restare esattamente dov’era per lasciare che la scena giungesse alla
conclusione che non le era mai stato permesso di vedere. Un’altra parte della
sua mente si aspettava di svegliarsi, fradicia di sudore, come aveva fatto già
tante volte prima di allora.
Bobbie fissò la creatura che correva verso di lei e notò con piacere i segni
neri e bruciati delle ferite che i proiettili incendiari le avevano procurato sul
corpo. Niente schizzi di filamenti, niente ferite che si richiudevano come
acqua. Non stavolta. Le aveva fatto male, e voleva continuare a farlo.
Bobbie si voltò e scattò via balzando a novanta gradi rispetto all’angolo
di corsa della creatura. La sua tuta mantenne il mirino laser incollato al
mostro, così poteva tenerlo sotto tiro anche senza doversi voltare. Il mostro si
chinò e strappò da terra un grosso pezzo di colata lavica, poi allungò una
mano per aggrapparsi al terreno.
«Eccolo che arriva» si disse Bobbie.
Si gettò di lato mentre il braccio della creatura si scagliava in avanti. La
roccia la mancò di pochi centimetri mentre schivava. Toccò la superficie
della luna e scivolò a terra, rispondendo al fuoco. Stavolta sparò per diversi
secondi, colpendo e perforando il mostro con centinaia di proiettili.
«Qualsiasi cosa tu sappia fare, io so farla meglio» canticchiò tra sé e sé.
«Posso fare qualsiasi cosa meglio di te.» I proiettili strapparono via grossi
pezzi fiammeggianti dal mostro, recidendogli quasi di netto il braccio. La
creatura girò su sé stessa e crollò a terra. Bobbie balzò in piedi, pronta a
correre di nuovo se il mostro si fosse rialzato. Non lo fece. Invece di rialzarsi,
la creatura rotolò sulla schiena e iniziò a tremare. La testa cominciò a
gonfiarsi, e gli occhi blu baluginarono ancora più forte. Bobbie vedeva
muoversi qualcosa sotto la superficie della sua pelle nera e chitinosa.
«Booom, figlio di puttana!» gridò lei, aspettando che la bomba
esplodesse.
E invece il mostro balzò di colpo in piedi, si strappò una parte del proprio
addome e gliela scagliò addosso. Quando Bobbie si rese conto di quello che
era appena successo, la bomba era ormai a pochi metri da lei. Esplose,
scaraventandola via. Bobbie scivolò grattando sulla superficie di Io, mentre
l’armatura la subissava di allarmi. Allorché finalmente si fermò, il visore era
pieno di luci rosse e verdi, come un albero di Natale. Cercò di muovere gli
arti, ma erano pesanti come pietra. Il processore di controllo motorio della
tuta, il computer che interpretava i movimenti del suo corpo e li tramutava in
comandi per gli attuatori della corazza, era andato in blocco. La tuta stava
cercando di riavviarlo e contemporaneamente di reindirizzare e di eseguire il
programma in un diverso settore. Un messaggio lampeggiante color ambra
sul visore recitava ATTENDERE PREGO.
Bobbie non poteva ancora girare la testa, per cui, quando il mostro si
chinò su di lei, la prese completamente alla sprovvista. Trattenne un grido.
Non avrebbe avuto importanza. L’atmosfera sulfurea di Io era fin troppo
rarefatta perché il suono potesse attraversarla. Il mostro non l’avrebbe potuta
sentire. Ma, mentre la nuova Bobbie aveva accettato l’idea di morire in
battaglia, c’era ancora abbastanza della nuova Bobbie in lei da non
permetterle di andarsene gridando come una bambina spaventata.
La creatura si chinò su di lei; i suoi occhi troppo grandi, come quelli dei
bambini, baluginavano di un blu acceso. Il danno che le aveva inflitto il
mitragliatore appariva esteso, ma sembrava non notarlo. Picchiettò sul
pettorale dell’armatura con un lungo dito nero, poi ebbe un sussulto e le
vomitò addosso un denso schizzo di fanghiglia marrone.
«Ah, ma che schifo» gridò lei. Anche se la sua tuta fosse stata permeabile
agli agenti esterni, farsi contagiare da quella merda protomolecolare sarebbe
stato l’ultimo dei suoi problemi. Ad ogni modo, però, come diavolo sarebbe
riuscita a lavare via quello schifo?
Il mostro inclinò la testa da un lato e l’osservò curioso. Picchiettò di
nuovo sulla corazza, passando un dito nelle scanalature, cercando un modo
per arrivare alla sua carne. Bobbie aveva visto uno di quegli affari sventrare
un esoscheletro da combattimento da nove tonnellate. Se fosse voluto entrare
nella sua corazza, sarebbe entrato. Ma, per chissà quale motivo, sembrava
riluttante a danneggiarla. Mentre lo fissava, un lungo tubo flessibile proruppe
dal busto di quell’essere e cominciò a sondare la corazza al posto del dito. La
fanghiglia marrone continuava a colare da quella nuova appendice in un
flusso costante.
Lo stato del mitragliatore passò da rosso a verde. Bobbie fece girare le
canne per fare una prova, e funzionò. Ovviamente, la sua tuta continuava a
dirle ATTENDERE PREGO, quando si trattava di muoversi. Magari, se il mostro
si fosse stufato e si fosse spostato di fronte all’arma, avrebbe potuto provare a
colpirlo.
Il tubo aveva cominciato a sondare la corazza con più insistenza. Si
faceva largo tra i giunti, schizzandoci dentro quel liquido marrone. Era tanto
disgustoso quanto spaventoso. Era come essere minacciata da un serial killer
che nel frattempo giochicchiava con i suoi vestiti con l’insistenza di un
adolescente arrapato.
«Ah, al diavolo» esclamò Bobbie. Era stufa di lasciarsi palpeggiare da
quella cosa mentre non poteva far altro che starsene sdraiata sulla schiena. Il
braccio destro della tuta era pesante, e gli attuatori che la rendevano forte
quando era in funzione resistevano al movimento quando non lo era. Tirarlo
su era come alzare un bilanciere sulla panca piana con un braccio solo e un
guanto di piombo addosso. Bobbie spinse comunque finché non sentì
qualcosa che scoppiava. Poteva essere dentro la tuta. Poteva essere il suo
braccio. Non sapeva ancora dirlo, perché era troppo nervosa per lasciare
spazio al dolore.
Quando ci fu quel suono, il suo braccio si alzò e spinse il pugno su, verso
la testa del mostro.
«Ciao ciao» disse. Il mostro si voltò per guardare incuriosito la sua mano.
Bobbie premette il grilletto finché l’indicatore delle munizioni non raggiunse
lo zero e le canne smisero di girare. La creatura non esisteva più dalle spalle
in su. Bobbie lasciò ricadere il braccio a terra, esausta.
REINDIRIZZAMENTO ESEGUITO le disse la tuta. RIAVVIO aggiunse poi.
Quando sentì di nuovo quel suo ronzio subliminale, Bobbie cominciò a ridere
e scoprì di non riuscire a smettere. Spinse via il cadavere del mostro e si tirò a
sedere.
«Meglio così. È una bella camminata, fino alla nave.»
51

Prax
Prax correva.
Intorno a lui, le pareti della stazione formavano degli angoli nel mezzo
per comporre un esagono allungato. La gravità era appena più alta degli
standard di Ganimede e, dopo settimane di accelerazione a pieno g, Prax
doveva fare attenzione a non saltare fino al soffitto a ogni passo che faceva.
Amos caracollava alle sue spalle con passi bassi, lunghi e rapidi. Il fucile tra
le mani del meccanico rimaneva perfettamente spianato.
Una donna apparve a un’intersezione di fronte a loro. Capelli e pelle
scuri. Non era quella che aveva preso Mei. Sgranò gli occhi e scappò via.
«Sanno che stiamo arrivando» disse Prax. Era un po’ in affanno.
«Non credo che sia stata lei ad avvertirli, doc» rispose Amos. Il suo tono
era assolutamente informale, ma c’era una certa intensità nella sua voce.
Qualcosa di simile alla rabbia.
Giunti all’incrocio si fermarono, Prax si chinò e appoggiò i gomiti sulle
ginocchia per riprendere fiato. Era un vecchio riflesso istintivo. A meno di
0.2 g, il flusso sanguigno non era significativamente migliorato tenendo la
testa alla stessa altezza del cuore. A rigor di logica, avrebbe fatto meglio a
restare in piedi e a impedire che la sua posizione restringesse qualche vena. Si
costrinse a rimettersi dritto.
«Dove devo inserire questo collegamento radio per Naomi?» chiese ad
Amos.
Amos si strinse nelle spalle e indicò la parete. «Forse potremmo limitarci
a seguire le indicazioni.»
Sulla parete c’era un cartello con delle frecce colorate che indicavano
diverse direzioni. CONTROLLO ENV, BAR e LABORATORIO PRIMARIO. Amos
picchiettò sulla scritta LABORATORIO PRIMARIO con la canna del suo fucile.
«Sono d’accordo» disse Prax.
«Sei pronto?»
«Sì» rispose Prax, anche se probabilmente non lo era.
Il pavimento sembrò scuotersi sotto di lui, e quella sensazione fu seguita
immediatamente da un lungo rombo infausto che si riverberò fin nei suoi
piedi.
«Naomi? Ci sei?»
«Ci sono. Devo seguire il capitano sull’altra linea. Potrei andare e venire.
Tutto bene?»
«Potrebbe non essere del tutto esatto» disse Amos. «Abbiamo sentito
qualcosa che dava l’impressione che ci stessero bombardando. Non stanno
bombardando la base, vero?»
«Non stanno bombardando» replicò Naomi dalla nave, con la voce sottile
e metallica per via del segnale attenuato. «Sembra che alcuni dei locali stiano
organizzando una difesa ma, fino a ora, i marine non hanno risposto al
fuoco.»
«Di’ loro di smetterla con questo casino» disse Amos, ma stava già
muovendosi giù per il corridoio, verso il laboratorio primario. Prax scattò
dietro di lui, calcolò male la gravità e sbatté un braccio sul soffitto.
«Non appena chiederanno il mio parere» rispose Naomi.
I corridoi erano un dedalo, ma era il genere di labirinto in cui Prax
correva da tutta una vita. La logica istituzionale di un centro di ricerca era la
stessa ovunque. La progettazione dei piani era variabile; limitazioni del
budget potevano cambiare la ricchezza dei dettagli; i campi di ricerca
determinavano che genere di strumentazione si poteva trovare. Ma l’anima di
tutti quei posti era sempre la stessa, e per Prax era come essere a casa.
In altre due occasioni videro persone che correvano per i corridoi insieme
a loro. La prima era una giovane donna cinturiana con indosso un camice da
laboratorio. La seconda era un uomo dalla pelle scura, terribilmente obeso,
con la corporatura tozza da terrestre. Indossava un abito elegante, segno
distintivo della classe dirigente in qualsiasi luogo si andasse. Nessuno dei due
cercò di fermarli, per cui Prax se li dimenticò quasi nello stesso momento in
cui li videro.
Il laboratorio di risonanza era dietro una serie di portelli a
pressurizzazione negativa. Quando Prax e Amos li attraversarono, la
pressione dell’aria sembrò sospingerli, incoraggiandoli ad affrettarsi. Il
rombo tornò a farsi sentire, stavolta più forte, e durò quasi quindici secondi.
Poteva essere un rumore di battaglia. Poteva trattarsi di un vulcano che si
stava formando nelle vicinanze. Non c’era verso di saperlo. Prax sapeva che
quella base doveva essere stata progettata tenendo a mente l’instabilità
tettonica del luogo. Per un momento si chiese quali fossero i dispositivi di
sicurezza del centro, poi archiviò il pensiero. Non avrebbe comunque potuto
farci niente.
Il laboratorio di risonanza era grande almeno quanto quello che usava
Prax su Ganimede, con tutti gli strumenti necessari, dagli schermi di
risonanza completa alle lenti di gravità inferenziale. In un angolo, un basso
tavolo arancione mostrava un’immagine olografica di una colonia di cellule
in rapida separazione. C’erano altre due porte nella sala, oltre a quella da cui
erano entrati. Da qualche parte, lì vicino, si sentivano delle grida furiose.
Prax indicò una delle porte.
«Questa» disse. «Guarda le cerniere. È costruita per permettere il
passaggio di un lettino operatorio.»
Il corridoio dall’altra parte era più caldo, e l’aria più umida. Non al livello
di una serra, ma quasi. Si apriva su una lunga galleria con soffitti alti cinque
metri. Apposite rotaie sul soffitto e sul pavimento permettevano di spostare
strumenti particolarmente pesanti e gabbie di contenimento. Lungo la galleria
c’erano degli scomparti, ognuno dei quali equipaggiato con un banco di
ricerca che non sembrava affatto dissimile da quelli che aveva usato Prax
quando era ancora studente: un tavolo interattivo, schermo a parete, scatola di
controllo d’inventario, gabbie per gli esemplari. Le grida erano più forti, ora.
Stava per dirlo, ma Amos scosse la testa e indicò lungo la galleria verso uno
degli scomparti più lontani. Da quella direzione proveniva la voce di un
uomo, alta, tesa e rabbiosa.
«...non un’evacuazione, se non c’è un posto dove evacuare» stava
dicendo. «Non ho intenzione di rinunciare all’unica moneta di scambio che
mi è rimasta.»
«Non ha scelta» replicò la donna. «Abbassi la pistola e parliamone. L’ho
gestita per sette anni, e le darò lavoro per altri sette, ma non...»
«Ha forse perso la testa? Crede che ci sia ancora un domani, dopo
questo?»
Amos indicò avanti con il fucile, poi cominciò ad avanzare lentamente e
cautamente. Prax lo seguì, cercando di non fare rumore. Erano passati mesi
dall’ultima volta che aveva sentito la voce del dottor Strickland, ma
quell’uomo che gridava sarebbe potuto essere lui. Era possibile.
«Lasci che le metta in chiaro una cosa» disse l’uomo. «Non abbiamo
niente. Niente. L’unica speranza di negoziazione che abbiamo risiede nelle
carte che ci possiamo giocare. Ovvero loro. Perché crede che siano ancora
vivi?»
«Carlos,» disse la donna mentre Prax raggiungeva l’angolo dello
scomparto «possiamo parlarne più tardi. C’è una forza nemica ostile
all’interno della base in questo momento e, se sarà ancora qui quando
entreranno da quel portellone...»
«Già» la interruppe Amos. «Che succede, in quel caso?»
Lo scomparto era uguale a tutti gli altri. Strickland – era
inequivocabilmente Strickland – era in piedi accanto a una cassa di metallo
grigio che gli arrivava poco più su dell’anca. Nelle gabbie per cavie
giacevano una mezza dozzina di bambini, immobili, addormentati o sedati.
Strickland impugnava una piccola pistola, puntandola contro la donna che era
apparsa nei video. Lei indossava un’uniforme dal taglio severo, il genere di
abiti che le forze di sicurezza adottavano per conferire al personale un aspetto
duro e intimidatorio. Con lei funzionava.
«Siamo arrivati dall’altro portellone» disse Prax, indicando alle sue
spalle.
«Papà?»
Due sillabe, soffiate piano. Risuonarono dalla cassa più forti di tutte le
settimane di esplosioni, di proiettili gauss e di grida dei feriti e dei moribondi.
Prax non poteva più respirare; non poteva più muoversi. Voleva dire a tutti di
mettere via le armi, di fare attenzione. C’era una bambina. La sua bambina.
La pistola di Strickland abbaiò, e una sorta di pallottola ad alto impatto
esplosivo distrusse il collo e la faccia della donna in uno schizzo di sangue e
cartilagini. Lei cercò di gridare ma, con una significativa porzione della
laringe ormai compromessa, non riuscì a emettere più di una forte esalazione
umidiccia. Amos alzò il fucile, ma Strickland – o Merrian, qualunque fosse il
suo nome – posò la pistola sulla cassa e sembrò quasi sgonfiarsi per il
sollievo. La donna si accasciò lentamente a terra, mentre il sangue si
spandeva e ricadeva anch’esso sul pavimento come un lenzuolo di pizzo
rosso.
«Grazie a dio siete arrivati» disse il dottore. «Oh, grazie a dio siete
arrivati. L’ho trattenuta il più a lungo possibile. Dottor Meng, non immagino
neanche quanto possa essere stato difficile per lei. Mi dispiace così tanto.»
Prax fece un passo in avanti. La donna fece un altro respiro rantolante,
con il sistema nervoso che si attivava a tratti. Strickland sorrise a Prax, lo
stesso sorriso rassicurante che lui riconosceva da tutte le visite mediche che
avevano fatto l’anno precedente. Prax trovò il pannello di controllo della
cassa e s’inginocchiò per aprirla. Il pannello laterale scattò quando le
serrature magnetiche cedettero, poi si arrotolò all’interno del telaio della
cassa.
Per un terribile istante, Prax trattenne il fiato: era la bambina sbagliata.
Aveva gli stessi capelli neri e lucidi, la stessa pelle del colore del guscio di un
uovo. Sarebbe potuta essere la sorella maggiore di Mei. Poi la bambina si
mosse. Non fece molto più che spostare la testa, ma era tutto ciò che serviva a
Prax per riconoscere la sua piccola nel corpo di quella bambina più grande.
Per tutti quei mesi su Ganimede, per tutte quelle settimane su Tycho e in
viaggio, era cresciuta senza di lui.
«È così grande» disse. «È cresciuta così tanto.»
Mei si accigliò, e delle rughette le comparvero appena sopra le
sopracciglia. La facevano assomigliare a Nicola. E poi aprì gli occhi. Il suo
sguardo era assonnato e vago. Prax tirò via la sicura del casco e se lo tolse.
L’aria della stazione aveva un vago sapore di zolfo e rame.
Le pupille di Mei si fissarono su di lui, e gli sorrise.
«Papà» disse di nuovo, e allungò una mano verso di lui. Quando Prax si
sporse verso di lei, Mei gli prese un dito e si gettò tra le sue braccia. Lui se la
strinse al petto; fu sopraffatto dal calore e dalla consistenza di quel piccolo
corpo – non più minuscolo, soltanto piccolo. Il vuoto tra le stelle era più
piccolo di quanto non fosse la sua bambina in quell’istante.
«È sedata» spiegò Strickland. «Ma è in perfetta salute. Il suo sistema
immunitario si è comportato in maniera perfetta.»
«La mia bambina» disse Prax. «La mia bambina perfetta.»
Mei aveva gli occhi chiusi, ma sorrise e fece un piccolo grugnito di
soddisfazione animale.
«Non so dirle quanto sia dispiaciuto per tutto questo» riprese Strickland.
«Se avessi avuto modo di contattarla, di dirle quello che stava accadendo, le
giuro che l’avrei fatto. È stato peggio di un incubo.»
«Quindi stai dicendo che ti hanno tenuto prigioniero qui?» chiese Amos.
«Quasi tutto il personale tecnico era qui contro la propria volontà» rispose
Strickland. «Quando abbiamo firmato, ci sono state promesse risorse e libertà
che la maggior parte di noi aveva soltanto sognato, prima. Quando ho
cominciato, ho pensato di poter fare la differenza. Ho commesso un grave,
gravissimo errore nel pensarlo, e non potrò mai scusarmi abbastanza per
questo.»
Prax si sentiva una musica nel sangue. Una sensazione di calore gli si
diffondeva dal centro del corpo, irradiandosi verso le mani e i piedi. Era
come essere drogati con l’eccitante più perfetto della storia della
farmaceutica. I capelli di Mei avevano l’odore dello shampoo da laboratorio
che Prax aveva usato per lavare i cani nei laboratori della sua giovinezza. Si
rialzò troppo in fretta e la massa della bambina, combinata con lo slancio, lo
fece alzare di qualche centimetro dal pavimento. Le sue ginocchia e i suoi
piedi erano scivolosi, e gli ci volle un momento per rendersi conto che si era
inginocchiato nel sangue.
«Che cos’è successo a questi bambini? Ce ne sono altri, da qualche altra
parte?» chiese Amos.
«Loro sono gli unici che sono riuscito a salvare. Sono stati tutti sedati per
l’evacuazione» replicò Strickland. «Ora, però, dobbiamo andarcene da qui.
Allontanarci dalla stazione. Devo parlare con le autorità.»
«E perché mai?» chiese Amos.
«Devo raccontare quello che è successo qui» rispose Strickland. «Devo
dire a tutti che razza di crimini venivano commessi in questo posto.»
«Certo, come no» disse Amos. «Ehi, Prax. Credi che riusciresti a
prendere quella?» Puntò il fucile verso qualcosa su una cassa lì vicino.
Prax si voltò per guardare Amos. Era difficile ricordarsi dove fossero e
che cosa stessero facendo.
«Ah» esclamò. «Certo.»
Reggendo Mei con un braccio, prese la pistola di Strickland e la puntò
addosso allo scienziato.
«No» disse Strickland. «Voi non... non capite. Io sono una vittima, qui.
Ho dovuto farlo. Mi hanno costretto. Lei mi ha costretto.»
«Sai,» replicò Amos «può darsi che io abbia l’aspetto di uno che
appartiene a quella che un tipo come te potrebbe chiamare classe operaia.
Questo però non significa che io sia stupido. Tu sei uno di quei pupazzi
sociopatici della Protogen, e non mi berrò niente di quello che stai cercando
di farci credere.»
Il viso di Strickland fu attraversato da una rabbia gelida, come se gli fosse
caduta una maschera di dosso.
«La Protogen è finita» disse. «Non c’è alcuna Protogen.»
«Ah, già» esclamò Amos. «Ho sbagliato il nome della ditta. Questo sì che
è un problema.»
Mei mormorò qualcosa, allungando la mano dietro l’orecchio di Prax per
stringergli una ciocca di capelli. Strickland fece un passo indietro, stringendo
le mani a pugno.
«L’ho salvata» disse. «Quella bambina è viva grazie a me. Era stata scelta
per le unità di seconda generazione, ma io l’ho tolta dal progetto. Ho salvato
tutti loro. Se non fosse stato per me, ognuno di questi bambini sarebbe stato
peggio che morto. Peggio che morto.»
«È stato il video, vero?» chiese di rimando Prax. «Ha visto che potevamo
riuscire a rintracciarvi, e si è voluto assicurare di avere la bambina giusta.
Quella che tutti stavano cercando.»
«Avrebbe preferito che non lo facessi?» ribatté Strickland. «Sono
comunque stato io a salvarla.»
«A dire il vero, credo che a questo punto il merito vada al capitano
Holden» affermò Prax. «Ma capisco quel che intende.»
La pistola di Strickland aveva un semplice interruttore sul fianco. Prax lo
premette per attivare la sicura.
«La mia casa non c’è più» disse, parlando lentamente. «Il mio lavoro non
c’è più. La maggior parte delle persone che conoscevo è morta o dispersa per
il sistema solare. Uno dei governi più importanti di questo stesso sistema
sostiene che io abbia abusato di mia moglie e di mia figlia. Ho ricevuto più di
ottanta minacce di morte esplicite da parte di perfetti sconosciuti durante
l’ultimo mese. E la sa una cosa? Non m’importa.»
Strickland si leccò le labbra, spostando lo sguardo da Prax ad Amos, poi
di nuovo su Prax.
«Non ho bisogno di ucciderla» concluse Prax. «Ho riavuto mia figlia. La
vendetta non è importante, per me.»
Strickland fece un respiro profondo ed esalò lentamente. Prax vide il
corpo dell’uomo che si rilassava, e qualcosa a metà strada tra il sollievo e il
piacere che compariva agli angoli della sua bocca. Mei sussultò quando il
fucile automatico di Amos sparò, ma si adagiò di nuovo sulla spalla di Prax
senza piangere né guardarsi intorno. Il corpo di Strickland si accasciò
lentamente a terra, con le braccia che ricadevano lungo i fianchi. Lo spazio
dov’era stata la testa schizzava sangue arterioso sulle pareti, ogni schizzo più
piccolo del precedente.
Amos si strinse nelle spalle.
«O così» disse Prax.
«Allora, hai idea di come...»
Il portellone dietro di loro si aprì e un uomo corse dentro la sala.
«Che cos’è successo? Ho sentito...»
Amos alzò il fucile automatico. Il nuovo arrivato fece due passi indietro,
lasciandosi sfuggire un flebile gemito di paura mentre indietreggiava. Amos
si schiarì la gola.
«Qualche idea su come facciamo a portare questi bambini fuori di qui?»
Rimettere Mei nella cassa da trasporto fu una delle cose più difficili che
avesse mai fatto Prax. Voleva portarsela addosso, premere il viso contro il
suo. Era una reazione da primate, i nuclei più profondi del suo cervello
bramavano la sicurezza del contatto fisico. Ma la sua tuta non l’avrebbe
protetta dalle radiazioni o dal quasi vuoto dell’atmosfera sulfurea di Io, come
invece avrebbe fatto la cassa. La adagiò delicatamente accanto ad altri due
bambini mentre Amos metteva gli altri quattro in una cassa diversa. La più
piccola era ancora in fasce. Prax si chiese se anche lei fosse giunta da
Ganimede. Le casse scivolarono sul pavimento della stazione, sobbalzando
appena allorché attraversarono le rotaie incassate nel pavimento.
«Ti ricordi come fare per tornare in superficie?» chiese Amos.
«Credo di sì» rispose Prax.
«Ehm, doc? Sarebbe meglio che ti rimettessi il casco.»
«Ah! Hai ragione. Grazie.»
Una volta giunti all’incrocio a T, videro che una mezza dozzina di uomini
in uniforme avevano eretto una barricata, pronti a difendere il laboratorio da
un eventuale attacco. Dato che le granate di Amos arrivarono da dietro, la
copertura fu meno efficace di quanto gli uomini del laboratorio avessero
previsto, ma ci volle comunque qualche minuto per spostare i cadaveri e i
resti della barricata quanto bastava per lasciar passare le casse.
Prax sapeva che c’era stato un tempo in cui la violenza l’avrebbe
sconvolto. Non il sangue, né i cadaveri. Aveva praticato dissezioni e perfino
vivisezioni di arti autonomi abbastanza a lungo da essere capace di schermare
quello che aveva sotto gli occhi da qualunque senso di orrore viscerale. Ma il
fatto che fosse stato un gesto dettato dalla rabbia, che gli uomini e le donne
che aveva appena visto saltare in aria non avessero donato volontariamente il
proprio sangue o i propri tessuti, un tempo l’avrebbe colpito. L’universo gli
aveva tolto quella parte di umanità, e ora non riusciva a dire con esattezza
quando fosse successo. Una parte di lui era diventata insensibile, e forse lo
sarebbe rimasta per sempre. C’era un senso di perdita, in tutto questo, ma
solo a un livello intellettuale. Le uniche emozioni che provava in quel
momento erano un sollievo raggiante per il fatto che Mei fosse lì con lui,
viva, e un aggressivo affetto protettivo di matrice animale che gli faceva
capire che non avrebbe più permesso che si allontanasse da sotto il suo
sguardo, probabilmente almeno finché non fosse andata all’università.
Sulla superficie della luna, il trasporto fu più difficoltoso. Le ruote delle
casse non erano adatte a quel terreno sconnesso. Prax seguì l’esempio di
Amos, girandosi per tirare le casse invece che spingerle. Tenuto conto delle
condizioni, era la cosa più logica, ma Prax non ci avrebbe pensato se non
l’avesse visto fare ad Amos.
Bobbie stava tornando pian piano verso la Rocinante. La sua tuta era
bruciata, macchiata e si muoveva in modo difettoso. Un liquido chiaro le
fuoriusciva sulla schiena.
«Non vi avvicinate» li avvertì. «Sono piena di fanghiglia
protomolecolare.»
«Brutta storia» esclamò Amos. «Hai modo di ripulirla?»
«Non proprio» rispose lei. «Com’è andato il salvataggio?»
«Abbiamo abbastanza bambini da mettere su un bel coro, ma siamo un
filino a corto per una squadra di baseball» rispose Amos.
«Abbiamo trovato Mei» disse Prax. «Sta bene.»
«Mi fa piacere» rispose Bobbie e, nonostante fosse chiaramente esausta,
il suo tono era genuinamente felice.
Giunti alla camera stagna, Amos e Prax salirono a bordo e sistemarono le
casse sulla parete in fondo mentre Bobbie rimaneva a terra, all’esterno. Prax
controllò gli indicatori delle casse. C’era ossigeno a sufficienza per altri
quaranta minuti.
«E va bene» disse Amos. «Siamo pronti.»
«Procedo all’estrazione di emergenza» replicò Bobbie, e la sua tuta
corazzata si disfece intorno a lei. Era una strana vista: le linee dure e gli strati
di corazza da combattimento che si sfaldavano, sbocciando come un fiore e
separandosi, rivelando la donna al loro interno, con gli occhi chiusi e la bocca
aperta. Quando Bobbie allungò una mano per farsi tirare dentro da Amos, a
Prax quel gesto ricordò Mei che lo rivedeva per la prima volta.
«Ora, doc» esclamò Amos.
«Avvio la pressurizzazione» disse Prax. Richiuse il portello esterno e
cominciò a immettere aria fresca nella camera stagna. Dieci secondi dopo, il
petto di Bobbie cominciò a sussultare come un mantice. Trenta secondi, ed
erano a sette ottavi di atmosfera.
«A che punto siamo, ragazzi?» chiese Naomi mentre Prax apriva le casse.
I bambini erano tutti addormentati. Mei si succhiava indice e medio, come
faceva quando era in fasce. Prax non riusciva a capacitarsi di quanto
sembrasse più grande, ora.
«Siamo a posto» disse Amos. «Direi di portare il culo via da qui e di
polverizzare questo posto.»
«Amen, cazzo» esclamò la voce di Avasarala in sottofondo.
«Ricevuto» intervenne Naomi. «Ci prepariamo al decollo. Fatemi sapere
quando avrete fatto sistemare per bene tutti i nostri nuovi passeggeri.»
Prax si tolse il casco e si sedette accanto a Bobbie. Nella guaina nera della
sua tuta aderente sembrava una donna appena uscita dalla palestra. Sarebbe
potuta essere chiunque.
«Sono felice che tu abbia ritrovato la tua bambina» disse lei.
«Grazie. Mi dispiace che tu abbia perso la corazza» rispose Prax.
Lei si strinse nelle spalle.
«A questo punto, era più che altro una metafora» replicò lei, e il
portellone interno si aprì.
«Pressurizzazione completa, Naomi» disse Amos. «Siamo a casa.»
52

Avasarala
Era finita, ma non lo era. Non era mai finita.
«Siamo tutti amici, ora» disse Souther. Parlare con lui senza ritardo era
un lusso che le sarebbe mancato. «Ma se ce ne torniamo tutti nei nostri
rispettivi angoli, sarà più probabile che le cose restino tali. Credo che ci
vorranno anni prima che le nostre flotte tornino al punto in cui eravamo
prima. Ci sono stati molti danni.»
«I bambini?»
«Li stiamo visitando. Il mio ufficiale medico è in comunicazione con un
elenco di dottori che si occupano di problemi immunitari pediatrici. Ora si
tratta semplicemente di ritrovare i loro genitori e di riportarli tutti a casa.»
«Bene» disse lei. «Ecco cosa mi piace sentire. E l’altra cosa?»
Souther annuì. Sembrava più giovane, a bassa gravità. Lo sembravano
entrambi. La pelle non cedeva se non c’era niente che la tirasse giù, e
Avasarala riusciva a intuire l’aspetto che aveva da ragazzo.
«Abbiamo assegnato i codici transponder a settantuno pacchetti. Si stanno
muovendo tutti verso il sole a gran velocità, ma non accelerano né deviano.
Non dobbiamo far altro che stare a guardare e lasciare che si avvicinino
abbastanza a Marte da essere facilmente eliminabili.»
«Sei sicuro che sia una buona idea?»
«Con ‘abbastanza vicini’ intendo comunque a settimane di distanza, alla
velocità attuale. Lo spazio è vasto.»
Ci fu una pausa dovuta a qualcosa di diverso dalla distanza.
«Vorrei che tornassi a bordo di una delle nostre navi» disse Souther.
«E restare incastrata qui per altre settimane, con tutte le scartoffie da
riempire? Non credo proprio. E poi, tornare con James Holden, la sergente
Roberta Draper e Mei Meng? È simbolicamente perfetto. La stampa ci
ricamerà sopra per settimane. La Terra, Marte, i pianeti esterni, e quello che
diavolo è James Holden adesso.»
«Una celebrità» rispose Souther. «Una nazione a sé stante.»
«Non è così male, una volta digerito il moralismo. E comunque, ormai
sono su questa nave, e non sono necessarie riparazioni che possano ritardare
la nostra partenza. E li ho già ingaggiati. Non c’è nessuno che mi rompa le
palle sulle spese discrezionali, al momento.»
«E va bene» replicò Souther. «Ci rivediamo in fondo al pozzo, allora.»
«Ci vediamo lì» concordò lei, e interruppe il collegamento.
Si tirò su e si librò dolcemente attraverso il ponte operativo. Sarebbe stato
facile proseguire giù per la colonna della scala di servizio, volando come
sognava di fare quand’era bambina. Era tentata. In pratica, Avasarala aveva
paura di darsi una spinta troppo forte e di andare a sbattere addosso a
qualcosa, oppure troppo debole e di farsi arrestare dall’attrito dell’aria senza
avere niente di solido a portata di mano per continuare a muoversi. Usò i
maniglioni e si spinse pian piano giù verso la cambusa. I portelli pressurizzati
si aprivano e si richiudevano alle sue spalle con dei tenui sibili idraulici e
tonfi metallici. Quando raggiunse il ponte dell’equipaggio, sentì le voci prima
di riuscire a distinguere le parole, e le parole prima di vedere le persone.
«...bisogna chiuderlo» stava dicendo Prax. «Voglio dire, sarebbe un
raggiro, ora. Non credi che possano farmi causa, vero?»
«Possono sempre farti causa» rispose Holden. «È possibile che non
vincano, però.»
«Ma non voglio che mi facciano causa. Dobbiamo chiuderlo.»
«Ho messo un avviso sul sito in modo che dia un aggiornamento di stato
e che chieda conferma prima che venga mosso del denaro.»
Avasarala si spinse nella cambusa. Prax e Holden fluttuavano accanto alla
macchina del caffè. Prax aveva un’espressione sconvolta, mentre Holden
sembrava vagamente compiaciuto. Avevano entrambi un bulbo di caffè tra le
mani, ma Prax sembrava essersi scordato del suo. Gli occhi del botanico
erano sgranati e la bocca spalancata, anche in microgravità.
«A chi è che fanno causa?» chiese Avasarala.
«Ora che abbiamo ritrovato Mei,» rispose Holden «Prax vuole che la
gente smetta di mandargli dei soldi.»
«Sono troppi» spiegò il botanico, guardandola come se si aspettasse che
lei potesse farci qualcosa. «Voglio dire...»
«Fondi in eccesso?» chiese Avasarala.
«Può praticamente andarsene in pensione, con quello che ha» disse
Holden. «Anche se non nel lusso più sfrenato...»
«Ma sono tuoi» replicò Prax, voltandosi verso Holden con una luce di
speranza negli occhi. «Sei stato tu ad aprire il conto.»
«Ho già preso il denaro necessario a coprire la tariffa della Rocinante. Ci
hai pagato generosamente, fidati» disse Holden, alzando la mano in segno di
rifiuto. «Quello che è rimasto lì è tutto tuo. Be’, tuo e di Mei.»
Avasarala si accigliò. Quella storia cambiava i calcoli che si era fatta.
Aveva pensato che sarebbe stato il momento giusto per incastrare Prax con
un contratto, ma Jim Holden si era di nuovo intromesso all’ultimo minuto e
aveva mandato tutto a monte.
«Congratulazioni» disse Avasarala. «Qualcuno di voi ha per caso visto
Bobbie? Ho bisogno di parlarle.»
«L’ultima volta che l’ho vista, era diretta in officina.»
«Grazie» rispose Avasarala, e continuò a spingersi lungo i maniglioni. Se
Praxidike Meng era economicamente indipendente, era meno probabile che
accettasse il compito di ricostruire Ganimede per motivi puramente
finanziari. Forse poteva lavorarselo dal punto di vista dell’orgoglio civico.
Lui e sua figlia erano il volto della tragedia di quel luogo, e avere lui a capo
della baracca, per la gente, sarebbe stato più significativo di tutti i dati e le
analisi su quanto sarebbero stati fottuti se le riserve alimentari non fossero
tornate a lavorare a regime. Prax poteva essere il tipo d’uomo che si faceva
influenzare da un ragionamento del genere. Avasarala doveva rifletterci per
bene.
Riprese a muoversi ancora una volta tanto lentamente e cautamente da
sentire le voci prima di raggiungere l’officina. Bobbie e Amos, che ridevano
entrambi. Non riusciva a credere di essere arrivata nel mezzo di un momento
intimo, ma erano le risate tipiche di quando ci si fa il solletico a vicenda. Poi
Mei gridò deliziata, e Avasarala capì.
L’officina era l’ultimo posto a bordo, con la possibile eccezione della sala
motori, in cui Avasarala avrebbe pensato di giocare con una bambina; e
invece eccola lì, con le braccia e le gambe che si agitavano per aria. I suoi
capelli neri, lunghi fino alle spalle, le fluivano intorno seguendo la rotazione
del suo corpo. Il suo viso s’illuminava di piacere. Bobbie e Amos erano in
piedi sulle pareti lontane dell’officina. Sotto gli occhi di Avasarala, Bobbie
prese la bambina in volo e la rilanciò verso Amos. Mei avrebbe presto perso i
suoi denti da latte, pensò Avasarala. Si chiese quanto di tutto questo avrebbe
ricordato nella sua vita da adulta.
«Vi ha dato di volta il cervello?» domandò Avasarala mentre Amos
afferrava la bambina. «Non è mica un parco giochi, questo.»
«Ehilà» esclamò Amos. «Non pensavamo di stare molto. Il capitano e doc
dovevano parlare un po’, per cui ho pensato di portare la bambina quaggiù.
Le faccio fare un giro della nave.»
«Quando ti dicono di andare a giocare con la bambina, non significa che
lei debba fare la fott... che lei debba fare la palla» disse Avasarala,
andandogli incontro. «Dammela qua. Nessuno di voi ha la più pallida idea di
come prendersi cura di una bambina. È incredibile che siate riusciti a
sopravvivere fino all’età adulta.»
«Su questo non ci piove» convenne amabilmente Amos, porgendole la
bambina.
«Vieni da nonna» disse Avasarala.
«Che cos’è una nonna?» chiese Mei.
«Io sono una nonna» le rispose Avasarala, portandosela al petto. Il suo
corpo avrebbe voluto posarla sull’anca, per sentire il suo peso che le premeva
addosso. In quella microgravità, reggere una bambina in braccio era una cosa
strana. Piacevole ma strana. Mei profumava di cera e vaniglia. «Quanto
ancora, prima di cominciare ad accelerare? Mi sento come un caz... come un
palloncino, a galleggiare così per la nave.»
«Ci muoveremo non appena Alex e Naomi finiranno la manutenzione dei
computer del reattore» rispose Amos.
«Dov’è il mio papà?» chiese Mei.
«Bene» disse Avasarala. «Abbiamo un’agenda da rispettare, e non vi sto
pagando per prendere lezioni di galleggiamento. Il tuo papino sta parlando
con il capitano, Mei-Mei.»
«Dove?» domandò con insistenza la bambina. «Dov’è? Voglio il mio
papà!»
«Ti riporto subito da lui, piccola» la rassicurò Amos, allungando una
manona enorme. Poi spostò l’attenzione su Avasarala. «Fa la brava per
cinque minuti, poi comincia la lagna del papà.»
«Bene» disse Avasarala. «Meritano di stare insieme.»
«Già» replicò il grosso meccanico. Si tirò la bambina al petto e si lanciò
su, verso la cambusa. Niente maniglioni per lui. Avasarala lo guardò mentre
si allontanava, poi si voltò verso Bobbie.
Bobbie fluttuava con i capelli sciolti e sparsi morbidamente intorno a lei.
Il suo viso e il suo corpo erano più rilassati di quanto Avasarala non li avesse
mai visti. Avrebbe dovuto conferirle un’aria serena, e invece Avasarala non
riusciva a non avere l’impressione che quella ragazza sembrasse smarrita.
«Ehi» disse Bobbie. «Ha avuto notizie dai suoi tecnici sulla Terra?»
«Sì» confermò Avasarala. «C’è stato un altro picco di energia. Più alto
dei precedenti. Prax aveva ragione. Sono collegati in rete e, quel che è
peggio, non risentono di nessuno sfasamento orario. Venere ha reagito prima
ancora che le informazioni sulla battaglia potessero raggiungerlo.»
«Okay» disse Bobbie. «E questo è un male, giusto?»
«È strano come un paio di tette su un vescovo, ma chissà se vuol dire
qualcosa? Parlano di reti di entanglement dello spin, o quel che diavolo sia.
La miglior teoria che abbiamo è che sia come una scarica di adrenalina per la
protomolecola. Una qualche sua parte è coinvolta in un momento di violenza,
e il resto va in allarme finché non è chiaro che il pericolo sia passato.»
«Be’, quindi c’è qualcosa che la spaventa. È bello sapere che potrebbe
avere una qualche vulnerabilità.»
Il silenzio si protrasse per un momento. Da qualche parte, sulla nave,
qualcosa sferragliò e Mei gridò. Bobbie si tese, Avasarala no. Era interessante
vedere come le persone che non erano abituate ai bambini reagivano alla
presenza di Mei. Non riuscivano a capire la differenza tra piacere e allarme.
Avasarala aveva scoperto che, a bordo di quella nave, gli unici esperti di
grida infantili erano lei e Prax.
«Ti stavo cercando» disse Avasarala.
«Sono qui» rispose Bobbie, stringendosi nelle spalle.
«È un problema?»
«Non la seguo. Che cosa, è un problema?»
«Il fatto che tu sia qui.»
Bobbie distolse lo sguardo e la sua espressione si fece più introversa.
Come si era aspettata Avasarala.
«Stavi andando lì a morire, solo che l’universo ti ha fottuto di nuovo. Hai
vinto. Sei viva. Nessuno dei problemi se n’è andato via.»
«Alcuni sì» rispose Bobbie. «Solo, non tutti. E almeno abbiamo vinto la
sua partita.»
La risata come un colpo di tosse di Avasarala fu sufficiente a farla ruotare
leggermente. Allungò una mano verso la parete e fermò la sua deriva.
«La partita che gioco io è così; non si vince mai. Puoi solo non perdere,
per il momento. Errinwright ha perso. Soren. Nguyen. Ho tolto di mezzo loro
e io sono rimasta in gioco, ma adesso? Errinwright si ritirerà con suo
massimo detrimento, e a me daranno il suo posto.»
«Lei lo vuole?»
«Non importa se lo voglio. Mi verrà offerto perché, se quel pupazzo non
me lo offre, la gente penserà che mi stia offendendo. E io lo accetterò perché,
se non lo faccio, la gente penserà che non sono più abbastanza affamata da
essere temibile. Risponderò direttamente al segretario generale. Avrò più
potere, più responsabilità. Più amici e più nemici. È il prezzo che si paga per
questo gioco.»
«Dovrà pur esserci un’alternativa.»
«C’è. Potrei andare in pensione.»
«Perché non lo fa?»
«Oh, lo farò» le assicurò Avasarala. «Il giorno in cui mio figlio tornerà a
casa. E tu? Pensi di ritirarti?»
«Intende se sto ancora cercando di farmi ammazzare?»
«Sì, quello.»
Ci fu una pausa. Questo era un bene. Significava che Bobbie stava
riflettendo sulla risposta.
«No» disse. «Non credo. Morire in combattimento è una cosa. Posso
andarne fiera. Ma mollare così, per mollare... questo non posso farlo.»
«Sei in una posizione interessante» disse Avasarala. «Pensa a che cosa
vuoi farci.»
«E che posizione sarebbe? Ronin?»
«Traditrice del tuo governo ed eroe della patria. Una martire che non è
morta. Una marziana la cui unica e migliore amica sta per prendere in mano il
governo della Terra.»
«Lei non è la mia unica amica» rispose Bobbie.
«Stronzate. Alex e Amos non contano. Vogliono soltanto scopartisi.»
«E lei no?»
Avasarala scoppiò a ridere. Bobbie sorrideva. Era più di quanto non
avesse fatto da quando era tornata da Io. Il suo sospiro fu profondo e
malinconico.
«Continuo a sentirmi inquieta» disse. «Pensavo che sarebbe andata via.
Pensavo che, se l’avessi affrontata, la mia inquietudine sarebbe andata via.»
«Non va via. Mai. Ma col tempo impari a farlo.»
«Fare cosa?»
«Essere inquieta» spiegò Avasarala. «Rifletti su quello che vuoi fare.
Rifletti su ciò che vuoi diventare. Poi vieni a trovarmi e farò in modo che
succeda, se posso.»
«Perché?» chiese Bobbie. «Dico davvero, perché? Sono un soldato. Ho
compiuto la mia missione. E sì, è stata più strana e più difficile di qualsiasi
altra cosa abbia mai fatto, ma l’ho portata a termine. L’ho fatto perché ne
avevo bisogno. Lei non mi deve niente.»
Avasarala inarcò un sopracciglio.
«I favori politici sono il mio modo di esprimere affetto» spiegò.
«Okay, gente» disse la voce di Alex sulla linea interna della nave. «Siamo
pronti a partire, e cominceremo l’accelerazione tra trenta secondi, a meno che
qualcuno non abbia da ridire. Preparatevi a ripesare qualcosa.»
«Apprezzo l’offerta» riprese Bobbie. «Ma potrebbe passare un po’ di
tempo prima che capisca se voglio accettarla.»
«Che cosa farai, allora? Dopo, intendo.»
«Andrò a casa» rispose. «Voglio vedere la mia famiglia. Mio padre.
Credo che resterò lì per un po’. Per capire chi sono. Come ricominciare da
capo. Cose così.»
«La porta è aperta, Bobbie. Quando vorrai, la troverai aperta.»
Il volo di ritorno su Luna fu una vera seccatura. Avasarala passò sette ore
al giorno sul suo sedile imbottito, inviando messaggi avanti e indietro contro
tutti i livelli di sfasamento orario. Sulla Terra, Sadavir Errinwright era stato
celebrato in sordina, la sua carriera in seno alle Nazioni Unite era stata
onorata con una piccola cerimonia privata, e poi si era ritirato per passare più
tempo con la sua famiglia o per allevare polli o quel diavolo che gli andava di
fare con i decenni che gli rimanevano da vivere. Qualunque cosa fosse, non
avrebbe più riguardato la politica.
L’investigazione sulla base di Io era in corso, e sulla Terra stavano
cadendo diverse teste senza fare troppo rumore. Non su Marte, però.
Chiunque avesse fatto una scommessa contro Errinwright in seno al governo
marziano l’avrebbe fatta franca. Avevano salvato la propria carriera politica
perdendo l’arma biologica più potente dell’intera storia dell’umanità. La
politica era piena di piccole ironie della sorte come quella.
Avasarala organizzò il suo nuovo ufficio in contumacia. Per quando si
fosse insediata, sarebbe stato attivo già da un mese. Era come guidare una
macchina standosene sul sedile posteriore. Detestava quella sensazione.
Inoltre, Mei Meng aveva deciso che Avasarala era divertente, e passava
buona parte di quel che rimaneva del giorno a monopolizzare la sua
attenzione. L’anziana non aveva proprio il tempo di mettersi a giocare con
una bimbetta, eccetto il fatto che, ovviamente, ce l’aveva eccome. Ed era
quello che faceva. E poi doveva fare esercizio, per evitare di essere rinchiusa
in una casa di riposo quando fosse tornata a pieno g. Il cocktail di steroidi le
faceva venire vampate di calore e le rendeva difficile dormire. Entrambe le
sue nipotine avevano festeggiato il loro compleanno, e lei aveva potuto
partecipare soltanto in video. Per una c’erano stati venti minuti di sfasamento
orario; per l’altra, quattro.
Quando superarono il nugolo di mostri protomolecolari che si
precipitavano verso il sole, Avasarala ebbe gli incubi per due notti di fila, ma
a poco a poco scemarono. Ogni singola creatura era tenuta sotto controllo da
due governi, e i pacchetti mortali di Errinwright erano tutti quiescenti, diretti
tranquillamente e felicemente verso la propria distruzione.
Avasarala non vedeva l’ora di essere a casa.
Quando attraccarono su Luna, era come una donna affamata alle cui
labbra venisse accostato uno spicchio di mela che non aveva il permesso di
mordere. Il morbido blu e bianco del pianeta illuminato dal giorno, il nero e
oro della notte... era un mondo bellissimo. Senza eguali in tutto il sistema
solare. Il suo giardino era laggiù. Il suo ufficio. Il suo letto.
Ma Arjun non era lì.
La stava aspettando sulla piattaforma di atterraggio con indosso il suo
vestito migliore e un mazzo di lillà freschi in una mano. La bassa gravità
faceva sembrare più giovane anche lui, nonostante gli occhi un po’ arrossati.
Avasarala sentiva la curiosità di Holden e del suo equipaggio mentre lei gli
andava incontro. Chi era quell’uomo che riusciva a sopportare di essere
sposato con una donna irritante e dura come Chrisjen Avasarala? Era il suo
dominatore o la sua vittima? Come poteva funzionare un rapporto del genere?
«Bentornata a casa» disse piano Arjun mentre lei si abbandonava tra le
sue braccia.
Aveva il suo profumo. Avasarala gli posò la testa sulla spalla, e non ebbe
più così bisogno della Terra.
Così era già abbastanza a casa.
53

Holden
«Ciao, mamma. Siamo su Luna!»
La lieve latenza di Luna era meno di sei secondi ad andare e tornare, ma
bastava ad aggiungere una pausa strana prima di ogni risposta. Madre Elise lo
fissò dallo schermo della sua stanza d’albergo per cinque lunghi battiti; poi il
suo viso s’illuminò. «Jimmy! Vieni giù?»
Intendeva dire giù nel pozzo. Venire a casa. Holden sentiva l’urgenza di
fare esattamente quello. Erano passati anni dall’ultima volta che era stato
nella fattoria del Montana gestita dai suoi genitori. Ma stavolta c’era Naomi
con lui, e i cinturiani non andavano sulla Terra. «No, mamma. Stavolta no.
Ma vorrei che veniste su voi, per incontrarmi. La navetta la metto a
disposizione io. E sarete ospiti della sottosegretario delle Nazioni Unite,
Avasarala, per cui il posto sarà piuttosto lussuoso.»
Quando c’era una latenza nelle comunicazioni, era difficile non
straparlare. L’altra persona non poteva inviare quei minimi segnali fisici che
suggerivano quando fosse il suo turno di parlare. Holden si sforzò di smettere
di chiacchierare e aspettò una risposta. Elise fissava lo schermo, aspettando la
fine della latenza. Holden vedeva quanto fosse invecchiata dall’ultima volta
che era stato a casa, anni prima. I suoi capelli scuri, quasi neri, erano striati di
grigio, e le rughe d’espressione attorno agli occhi e alla bocca si erano
accentuate. Dopo cinque secondi, agitò la mano in un gesto di rifiuto. «Oh,
Tom non vorrà mai salire su una navetta per andare su Luna. Lo sai bene.
Detesta la microgravità. Vieni giù tu da noi, piuttosto. Faremo una festa. Puoi
portare qui i tuoi amici, se vuoi.»
Holden le sorrise. «Mamma, ho bisogno che saliate voi perché vorrei
presentarvi una persona. Ti ricordi quella donna? Naomi Nagata, quella di cui
ti ho parlato? Ti ho detto che mi vedevo con lei. Credo che potrebbe essere
qualcosa di più. A dire il vero, ora ne sono piuttosto sicuro. E adesso staremo
su Luna mentre un sacco di roba da politici verrà rimessa a posto. Vorrei
davvero che veniste su, per incontrare me e conoscere Naomi.»
Il modo in cui sua madre sussultò cinque secondi dopo era quasi troppo
discreto per poter essere colto. Lei lo coprì con un gran sorriso. «Qualcosa di
più? Che significa? Tipo, sposarsi? Ho sempre pensato che avresti voluto dei
figli, un giorno...» Lasciò la frase in sospeso, continuando a mostrare un
sorriso rigido e inquieto.
«Mamma» disse Holden. «Terrestri e cinturiani possono avere
tranquillamente dei bambini. Non siamo di due specie diverse.»
«Certo» replicò lei pochi secondi dopo, annuendo troppo in fretta. «Ma se
avrete dei bambini là fuori...» Si fermò, e il suo sorriso si appannò un po’.
«In tal caso saranno cinturiani» disse Holden. «Già, e voi dovrete
semplicemente farvelo andare bene.»
Dopo cinque secondi, lei annuì. Ancora una volta, troppo in fretta. «E
allora immagino che sarà meglio che veniamo su per conoscere questa donna
per cui sei disposto a lasciarti la Terra alle spalle. Dev’essere molto speciale.»
«Già» ammise Holden. «Lo è.»
Elise si mosse a disagio per un istante; poi sul volto le tornò un sorriso
molto meno forzato. «Farò salire Tom su quella navetta, dovessi trascinarcelo
per i capelli.»
«Ti voglio bene, mamma» replicò Holden. I suoi genitori avevano passato
una vita intera sulla Terra. Gli unici cinturiani che conoscevano erano le
caricature dei cattivi che venivano mostrate sui canali di intrattenimento più
scadenti. Non faceva loro una colpa per quei pregiudizi, perché sapeva che
conoscere Naomi sarebbe stata la cura per quel problema. Pochi giorni passati
in sua compagnia, e non avrebbero potuto fare a meno di innamorarsi di lei.
«Ah, un’ultima cosa: i dati che ti ho inviato un po’ di tempo fa? Tienili da
parte per me. Con discrezione, ma tienili. A seconda di come andranno le
cose nei prossimi due mesi, potrei averne bisogno.»
«I miei genitori sono razzisti» disse Holden a Naomi quella notte. Lei
giaceva accoccolata al suo fianco, con il viso vicino al suo orecchio. E una
lunga gamba scura di traverso, sui lombi.
«Okay» sussurrò lei.
La suite che Avasarala aveva prenotato per loro era tanto lussuosa da
risultare opulenta. Il materasso era talmente soffice che, in quella gravità
lunare, era come fluttuare su una nuvola. Il sistema di riciclo dell’aria
emanava delicati profumi prodotti a mano dal profumiere dell’albergo. La
selezione di quella sera si chiamava Erba mossa dal vento. Secondo Holden
non aveva esattamente l’odore dell’erba, ma era piacevole. Era come una
suggestione di terrestrità. Ad ogni modo, Holden aveva il sospetto che tutti i
profumi avessero nomi dati a caso. Sospettava anche che l’albergo
impostasse la quantità di ossigeno nell’aria a un livello leggermente più alto
del normale. Si sentiva un po’ troppo bene.
«Sono preoccupati per il fatto che i nostri bambini saranno cinturiani»
disse.
«Niente bambini» sussurrò Naomi. Prima che Holden potesse chiedere
che intendesse dire, Naomi già russava nel suo orecchio.
Il giorno dopo si svegliò prima di Naomi, si vestì con l’abito migliore che
aveva, e uscì nella stazione. C’era un’ultima cosa da fare, prima di poter
dichiarare davvero conclusa tutta quella dannata faccenda.
Doveva vedere Jules Mao.
Avasarala gli aveva detto che Mao era uno tra le diverse decine di politici
di alto rango, generali e capi d’azienda che erano stati presi nella retata di
arresti dopo la faccenda di Io. Era l’unico che Avasarala avrebbe incontrato
personalmente. E, visto che l’avevano catturato sulla sua stazione L5, mentre
cercava freneticamente di salire a bordo di una nave veloce per fuggire verso
i pianeti esterni, la vicesottosegretario l’aveva fatto portare direttamente su
Luna.
Quello era il giorno in cui si sarebbero incontrati. Holden aveva chiesto
ad Avasarala se poteva partecipare, aspettandosi un diniego. Lei invece era
scoppiata a ridere di cuore e aveva detto: «Holden, non riesco a pensare a
niente di più umiliante, per quell’uomo, di avere te come spettatore mentre lo
faccio a pezzi. Certo che puoi venire, cazzo.»
Per cui Holden si affrettò fuori dall’albergo e tra le strade di Lovell City.
Una rapida corsa su un risciò a pedali lo portò alla stazione del tubo, e venti
minuti di tubo lo portarono al complesso delle Nazioni Unite della Nuova
Aia. Al suo arrivo, Holden trovò uno zelante inserviente ad attenderlo, e fu
efficacemente scortato attraverso il labirinto intricato di corridoi fino a una
porta segnata con la targhetta SALA CONFERENZE34.
«Può aspettare dentro, signore» cinguettò lo zelante inserviente.
«No... sa cosa?» replicò Holden, dando una pacca sulla spalla al ragazzo.
«Credo che aspetterò qui fuori.»
L’inserviente fece un leggero inchino col capo e si affrettò lungo il
corridoio, controllando già quale fosse il suo prossimo incarico sul terminale
palmare. Holden si appoggiò alla parete del corridoio e attese. In quella bassa
gravità, stare in piedi non era più faticoso che stare seduti, e aveva una gran
voglia di vedere Mao che veniva scortato lungo il corridoio dai celerini fino
all’incontro.
Il suo terminale trillò, e ricevette un messaggio breve da parte di
Avasarala. Diceva ‘arriviamo’.
Meno di cinque minuti più tardi, Jules-Pierre Mao scese da un ascensore
ed entrò nel corridoio, scortato dai due ufficiali della polizia militare più
grossi che Holden avesse mai visto. Mao era ammanettato, con le mani di
fronte a sé. Perfino con indosso un’uniforme da carcerato, con le mani in
ceppi e con due guardie armate come scorta, riusciva a sembrare arrogante e a
dar l’impressione di avere la situazione in pugno. Mentre si avvicinavano,
Holden raddrizzò la schiena e si mise di traverso. Uno dei due militari
strattonò il braccio di Mao per farlo fermare e rivolse un minimo cenno del
capo a Holden. Sembrava dire: ‘Fa’ pure quel che vuoi con questo tizio.’
Holden ebbe l’impressione che, se avesse tirato fuori una pistola dai
pantaloni e avesse sparato a Mao proprio lì, in quello stesso corridoio, i due
militari di scorta avrebbero scoperto di essere stati entrambi colpiti da
un’improvvisa cecità nello stesso istante, non riuscendo a vedere nulla.
Ma Holden non voleva sparare a Mao. Voleva quello che sembrava
volere sempre in quelle situazioni. Voleva sapere perché.
«Ne valeva la pena?»
Benché fossero alti uguale, Mao riuscì a guardarlo dall’alto in basso. «Lei
sarebbe?»
«Oh, andiamo» disse Holden con un sorriso. «Lo sa chi sono. Sono James
Holden. Ho dato una mano a far fuori i suoi amichetti alla Protogen, e ora sto
per finire il lavoro con lei. Sono anche quello che ha ritrovato sua figlia dopo
che la protomolecola l’aveva uccisa. Per cui glielo chiederò di nuovo: ne
valeva la pena?»
Mao non rispose.
«Una figlia morta, un’azienda in rovina, milioni di persone massacrate,
un sistema solare che probabilmente non conoscerà mai più una pacifica
stabilità... ne valeva davvero la pena?»
«Perché è qui?» chiese finalmente Mao. Quando parlò, sembrava più
piccolo. Si rifiutava di guardarlo negli occhi.
«Ero in quella stanza, quando Dresden ha ricevuto quel che meritava, e
sono stato io a uccidere il suo ammiraglio da taschino. Avevo solo
l’impressione che ci sarebbe stata una meravigliosa simmetria, nell’essere qui
quando fosse toccato a lei.»
«A Antony Dresden» replicò Mao «hanno sparato tre colpi in fronte,
come in un’esecuzione sommaria. È questo che lei chiama giustizia?»
Holden rise. «Oh, dubito fortemente che Chrisjen Avasarala le sparerà in
faccia. Crede forse che quello che l’aspetta sia meglio?»
Mao non rispose; Holden guardò i due militari e fece un gesto verso la
sala conferenze. Mentre spingevano Mao nella stanza e assicuravano le sue
manette a una sedia, sembravano quasi delusi.
«Se dovesse avere bisogno di noi, signore, saremo qui fuori» disse il più
grosso dei due. Si misero in posizione ai lati della porta.
Holden entrò nella sala conferenze e prese posto su una sedia, ma a Mao
non disse nient’altro. Pochi istanti dopo, Avasarala entrò trascinando i piedi
nella stanza, intenta a parlare con il suo terminale palmare.
«Non me ne frega un cazzo di chi è il compleanno, fate in modo che
succeda prima che il mio incontro sia finito, o con le vostre palle mi ci faccio
un fermacarte.» Prese una pausa mentre la persona dall’altra parte della linea
diceva qualcosa. Sorrise a Mao e riprese: «Be’, datevi una mossa, perché ho
la sensazione che il mio incontro sarà breve. È stato un piacere parlare con
lei.»
Avasarala sprofondò su una sedia di fronte a quella di Mao, dall’altra
parte del tavolo. Non guardò Holden, né diede segno di essersi accorta di lui.
Il capitano sospettò che la sua presenza sarebbe stata completamente esclusa
dal rapporto ufficiale. Avasarala posò il terminale sul tavolo e si appoggiò
allo schienale della sedia. Non parlò per diversi secondi carichi di tensione.
Quando lo fece, si rivolse a Holden. Continuava a non guardarlo.
«Sei stato pagato per avermi riportato fin qui?»
«Pagamento ricevuto» disse Holden.
«Bene. Volevo chiederti che cosa ne pensavi di un contratto più a lungo
termine. Sarebbe un incarico civile, ovviamente, ma...»
Mao si schiarì la gola. Avasarala gli sorrise.
«Lo so che è qui. Sono subito da lei.»
«Ho già un contratto» rispose Holden. «Stiamo scortando la prima
flottiglia di ricostruzione su Ganimede. Dopodiché, credo che dovremmo
riuscire a ottenere un altro incarico come scorta da lì. C’è ancora un sacco di
gente che si sta spostando e che preferirebbe non farsi fermare dai pirati
lungo il tragitto.»
«Sei sicuro?»
La faccia di Mao era sbiancata per l’umiliazione. Holden si permise di
godersi il momento.
«Ne ho abbastanza di lavorare per il governo» disse. «Non lo tollero
bene.»
«Ah, ma per favore. Hai lavorato per l’APE. Non è neanche un governo; è
una squadretta di rugby che stampa valuta. Sì, Jules, che c’è? Deve andare a
fare pupù?»
«Questo è umiliante» replicò Mao. «Non sono venuto qui per essere
insultato.»
Il sorriso di Avasarala era incandescente.
«Ne è sicuro? Lasci che glielo chieda, allora: si ricorda quel che le dissi la
prima volta che ci siamo incontrati?»
«Mi ha chiesto di metterla a parte di qualsiasi coinvolgimento potessi
aver avuto con il progetto della protomolecola gestito dalla Protogen.»
«No» rispose Avasarala. «Voglio dire... certo, le ho chiesto anche quello.
Ma non è la parte di cui lei dovrebbe preoccuparsi in questo momento. Mi ha
mentito. Il suo coinvolgimento nella trasformazione del progetto Protogen in
arma è ormai alla luce del sole, e quella domanda a questo punto sarebbe
come chiedere di che colore è martedì. Non avrebbe senso.»
«Veniamo al sodo» disse Mao. «Posso...»
«No» lo interruppe Avasarala. «La parte di cui si dovrebbe preoccupare
riguarda quel che le ho detto appena prima che se ne andasse dal mio ufficio.
Se la ricorda?»
Lui la fissò con sguardo smarrito. «Come pensavo. Le ho detto che, se
avessi scoperto che mi stava nascondendo qualcosa, non l’avrei presa bene.»
«Le sue parole esatte» ribatté Mao con un ghigno sprezzante «sono state:
‘Non sono una persona con cui le conviene fare lo stronzo.’»
«Quindi se le ricorda» disse lei, senza un filo di umorismo nella voce.
«Bene. Perché adesso avrà la possibilità di scoprirne il significato.»
«Dispongo di informazioni supplementari che potrebbero rivelarsi utili
a...»
«Chiudi quella cazzo di bocca» rispose Avasarala, con una vena di
autentica rabbia che si faceva largo nella sua voce per la prima volta. «La
prossima volta che sento la tua voce, ti faccio prendere da quei due militari
grandi e grossi che sono là fuori e ti faccio pestare a sangue con la sedia. Hai
capito bene?»
Mao non rispose, il che significava che aveva capito.
«Non hai idea di cosa mi sei costato» proseguì lei. «Mi stanno
promuovendo. Ora sono io a gestire il consiglio di pianificazione economica.
E non mi ero mai dovuta preoccupare del servizio di sanità pubblica, perché
era uno dei pali che andavano in culo a Errinwright. E ora va in culo a me. Il
comitato di regolamentazione finanziaria? Mio. Hai mandato a puttane la mia
intera agenda per le prossime due decadi.
«Questa non sarà una negoziazione» proseguì Avasarala. «Questa sarà io
che me la godo. Ti ricaccerò in un buco talmente profondo che perfino tua
moglie si scorderà che tu sia mai esistito. Userò la posizione che è stata di
Errinwright per smantellare ogni cosa che tu abbia mai costruito, pezzo per
pezzo, e sparpagliarla ai quattro venti. E mi assicurerò che tu sia lì per
guardarlo accadere. L’unica cosa che avrai in quel buco sarà un servizio di
informazioni attivo ventiquattr’ore su ventiquattro. E, visto che io e te non ci
incontreremo più, voglio essere ben certa che il mio nome ti torni in mente
ogni volta che distruggo qualcosa che ti sei lasciato dietro. Io ti cancellerò.»
Mao la fissò con aria di sfida, ma Holden vide che si trattava soltanto di
un guscio vuoto. Avasarala aveva capito esattamente dove fargli male. Perché
gli uomini come lui vivevano per il patrimonio che avrebbero tramandato. Si
vedevano come architetti di un futuro. Quello che Avasarala gli stava
promettendo ora, per lui era peggio della morte.
Mao scoccò una rapida occhiata verso Holden e sembrò dire: ‘Mi
accontento di quei tre colpi alla testa, per favore.‘
Holden gli sorrise.
54

Prax
Mei era seduta in braccio a Prax, ma la sua attenzione era concentrata con
l’intensità di un laser verso sinistra. Portò la mano alla bocca e vi depositò
con cautela e delicatezza un mucchietto di spaghetti mangiucchiati, poi la tese
verso Amos.
«Sono brutti» disse lei.
L’omone ridacchiò.
«Be’, se prima non lo erano, ora lo sono di sicuro, zucchina» rispose,
spiegando il tovagliolo. «Perché non li metti qui?»
«Mi dispiace» disse Prax. «È solo un po’...»
«È solo una bambina, doc» replicò Amos. «Fa quello che fanno i
bambini.»
Quella cena non l’avevano chiamata ‘cena’. Era un ricevimento,
finanziato dalle Nazioni Unite nella struttura della Nuova Aia su Luna. Prax
non riusciva a capire se la parete fosse una finestra o uno schermo a
ultradefinizione. Su di essa, la Terra baluginava blu e bianca all’orizzonte. I
tavoli erano stati disposti intorno alla stanza in un modo quasi casuale, che
Avasarala aveva spiegato essere la moda del momento. Sembra che un
qualche imbecille sia venuto apposta per metterli così, come capita.
Nella stanza, le persone che conosceva erano tante quante quelle che non
conosceva, e guardarle dividersi in gruppi chiusi aveva il suo fascino. Alla
sua destra, diversi tavoli più piccoli erano pieni di uomini e donne dalla
corporatura tozza in abiti formali e uniformi militari che gravitavano attorno
ad Avasarala e a suo marito, Arjun, che sembrava piuttosto divertito.
Chiacchieravano di analisi dei fondi di finanziamento e di questioni relative
al controllo delle relazioni con i media. Ogni mano dei pianeti esterni che
stringevano era un’inclusione che il loro argomento di conversazione
ricusava. Alla sua sinistra, i membri del gruppo scientifico erano vestiti con i
loro abiti migliori, giacche eleganti che erano su misura dieci anni prima e
abiti da sera che rappresentavano almeno una mezza dozzina di diverse
stagioni di moda. In quel gruppo si mischiavano terrestri, marziani e
cinturiani, ma i discorsi erano parimenti elitari: gradienti nutrizionali,
tecnologie a membrana con permeabilità variabile, espressioni di forza
fenotipica. Quella era la gente del suo passato, e anche del suo futuro. La
società disgregata e riunita di Ganimede. Se non fosse stato per il tavolo nel
mezzo, con Bobbie e l’equipaggio della Rocinante, Prax sarebbe stato lì con
loro, a parlare di matrici in cascata e cloroplasti ad alimentazione non
visibile.
Lì nel mezzo, invece, isolati e soli, Holden e il suo equipaggio erano
felici e contenti come se si fossero trovati nella cambusa della loro nave, in
accelerazione attraverso il vuoto. E Mei, che si era affezionata ad Amos,
continuava a non volersi staccare da Prax senza mettersi a piangere e a
gridare. Prax capiva esattamente come si sentiva la bambina, e non lo vedeva
come un problema.
«Per cui, vivendo su Ganimede, sai un sacco di cose sulle gravidanze in
bassa gravità, giusto?» domandò Holden. «Non è poi così rischioso per le
cinturiane, vero?»
Prax deglutì un boccone d’insalata e scosse la testa.
«Oh, no. È terribilmente difficile. Specialmente se si tratta di stare a
bordo di una nave senza la possibilità di effettuare regolari controlli medici.
Se si prendono in considerazione soltanto le gravidanze naturali, c’è uno
sviluppo di anomalie morfologiche in cinque casi su sei.»
«Cinque...» disse Holden.
«La maggior parte delle anomalie deriva da problemi della linea
germinale» spiegò Prax. «Quasi tutti i bambini nati su Ganimede sono stati
impiantati dopo un’analisi genetica completa. Se viene trovato un equivalente
letale, si abbandona lo zigote e si ricomincia da capo. Le anomalie non
germinali sono soltanto il doppio della Terra, però, per cui non è così male.»
«Ah» esclamò Holden, avvilito.
«Perché me lo chiedi?»
«Nessun motivo in particolare» intervenne Naomi. «Sta solo facendo
conversazione.»
«Papino, voglio il tofu» disse Mei, afferrandogli il lobo dell’orecchio e
strattonandolo. «Dov’è il tofu?»
«Vediamo se riusciamo a trovarti un po’ di tofu» rispose Prax, scostando
la propria sedia dal tavolo. «Andiamo.»
Mentre attraversava la sala, studiando la folla per individuare l’abito
formale scuro di un cameriere tra gli abiti formali scuri dei diplomatici, una
giovane donna venne verso di lui con un drink in una mano e le guance
arrossate.
«Lei è Praxidike Meng» disse. «Probabilmente non si ricorda di me.»
«Ehm... no» ammise lui.
«Sono Carol Kiesowski» disse la donna, toccandosi la clavicola come a
chiarire quel che intendeva con quel ‘sono’. «Ci siamo scritti un paio di volte
subito dopo la pubblicazione del suo video su Mei.»
«Ah, ma certo» rispose Prax, cercando disperatamente di ricordarsi anche
soltanto un minimo dettaglio di quella donna o dei commenti che poteva aver
lasciato.
«Voglio soltanto dirle che siete stati entrambi molto, molto coraggiosi»
riprese la donna, annuendo. Prax si rese conto che doveva essere brilla.
«Maledetto figlio di puttana» esclamò Avasarala, a voce abbastanza alta
da risaltare sul brusio di fondo delle conversazioni in sala.
La folla si voltò verso di lei, che fissava il suo terminale palmare.
«Che cos’è una puttana, papino?»
«È un tipo di glassa, tesoro» disse Prax. «Che succede?»
«Il vecchio capo di Holden ci ha battuti sul tempo» spiegò Avasarala.
«Immagino che ora sappiamo che ne è stato di tutti quei fottuti missili che ha
rubato.»
Arjun sfiorò la spalla di sua moglie e indicò Prax. Lei sembrò desolata.
«Chiedo scusa per il linguaggio» disse. «Dimenticavo la bambina.»
Holden apparve accanto a Prax.
«Il mio capo?»
«Fred Johnson è appena entrato in scena» rispose Avasarala. «I mostri di
Nguyen... aspettavamo che arrivassero più vicini a Marte, prima di abbatterli.
I transponder erano tutti felicemente attivi, e i nostri controlli erano più
serrati di un buco di... Be’, mentre attraversavano la Fascia, Johnson li ha
polverizzati. Tutti quanti.»
«È un bene, però» disse Prax. «Voglio dire, non è un bene?»
«Non se è lui a farlo» replicò Avasarala. «Sta flettendo i muscoli. Sta
mostrando che la Fascia dispone di un arsenale offensivo, ora.»
Un uomo in uniforme alla sinistra di Avasarala cominciò a parlare nello
stesso istante in cui lo faceva una donna alle sue spalle, e, in un momento, il
bisogno di commentare si era diffuso per tutto il gruppo. Prax si allontanò. La
donna brilla aveva puntato un uomo e parlava a raffica, ormai dimentica di lui
e di Mei. Prax trovò un cameriere vicino a una parete, ottenne la promessa di
farsi portare del tofu, e se ne tornò al suo tavolo. Amos e Mei cominciarono
immediatamente a giocare a chi sapeva soffiare più forte dal naso, e Prax si
rivolse a Bobbie.
«Te ne torni su Marte, quindi?» chiese. Gli era sembrata una domanda
cortese e assolutamente innocua prima che Bobbie stringesse le labbra in una
linea sottile e annuisse secca.
«Sì» rispose. «A quanto pare mio fratello si sta per sposare. Cercherò di
arrivare in tempo per mandare all’aria il suo addio al celibato. E tu? Prenderai
il posto della vecchia?»
«Be’, penso di sì» replicò Prax, un po’ sorpreso che Bobbie sapesse
dell’offerta di Avasarala. Non era ancora stata resa pubblica. «Voglio dire,
tutti i vantaggi fondamentali di Ganimede sono ancora validi. La
magnetosfera, il ghiaccio. Se anche soltanto una parte dei sistemi a specchio
potesse essere recuperata, sarebbe sempre meglio che ricominciare da zero.
Voglio dire, quello che bisogna capire di Ganimede...»
Una volta che partiva su quell’argomento, per lui era difficile fermarsi. In
molti modi, Ganimede era stato il centro della civilizzazione per i pianeti
esterni. Tutto il lavoro di avanguardia tecnologica era passato da lì. Tutte le
questioni di scienze biologiche. Ma era più di questo. C’era qualcosa di
eccitante nella prospettiva della ricostruzione che era, a suo modo, perfino
più interessante dello sviluppo iniziale. Fare qualcosa per la prima volta era
un’esplorazione. Farla di nuovo significava prendere tutte le cose che
avevano imparato e raffinarle, migliorarle, perfezionarle. L’idea gli dava
quasi le vertigini. Bobbie lo ascoltò con un sorriso malinconico sul volto.
E non era soltanto Ganimede. Tutta la civiltà umana era stata costruita
sulle rovine di ciò che era venuto prima. La vita stessa non era altro che
un’improvvisazione chimica cominciata con i più semplici dei replicatori, poi
cresciuta e collassata, e quindi cresciuta di nuovo. La catastrofe era sempre
stata soltanto una parte di quello che succedeva. Era il preludio di quello che
sarebbe accaduto poi.
«Lo fai sembrare romantico» osservò Bobbie, e il modo in cui lo disse era
quasi un’accusa.
«Non intendevo...» fece per rispondere Prax, e qualcosa di freddo e
bagnato gli s’infilò nell’orecchio. Si ritrasse con un guaito, girandosi per
trovarsi di fronte gli occhi divertiti e il sorriso smagliante di Mei. Il suo ditino
indice era coperto di saliva, e alle sue spalle Amos era rosso per le risate,
mentre si teneva la pancia con una mano e dava pacche sul tavolo con l’altra,
facendo tremare tutti i piatti.
«E questo cos’era?»
«Ciao, papino. Ti voglio bene.»
«Ecco» disse Alex, porgendo a Prax un tovagliolo pulito. «Potrebbe
esserti utile.»
Il silenzio tutto intorno era sorprendente. Non sapeva da quanto fosse
iniziato, ma la consapevolezza di quell’assenza di rumore gli si riversò
addosso come un’onda. La metà politica della sala era immobile e silenziosa.
Attraverso la foresta di corpi, Prax vide Avasarala china in avanti, con i
gomiti puntati sulle ginocchia e il terminale palmare a pochi centimetri dal
viso. Quando lei si alzò, gli astanti si allargarono intorno a lei. Era una donna
minuta, ma governava tutta la sala con il suo semplice andar via.
«Non mi piace» disse Holden, alzandosi in piedi. Senza aggiungere altro,
Prax e Naomi, Amos, Alex e Bobbie le andarono dietro. Vennero anche i
politici e gli scienziati, mescolandosi finalmente tra loro.
La sala riunioni era in fondo a una grande hall, ed era stata realizzata sul
modello degli antichi anfiteatri greci. Il podio nel centro si ergeva di fronte a
un gigantesco schermo ad alta definizione. Avasarala si diresse decisa verso
una sedia, parlando svelta e a bassa voce nel suo terminale palmare. Gli altri
la seguivano a ruota. L’angoscia era palpabile. Lo schermo si accese e
qualcuno abbassò le luci.
Nel buio dello schermo, Venere si stagliò come una sagoma sul sole. Era
un’immagine che Prax aveva già visto centinaia di volte. Il video poteva
provenire da una qualunque delle dozzine di stazioni di monitoraggio
installate. L’indicazione oraria in basso a sinistra avvertiva che stavano
guardando indietro nel tempo di quarantasette minuti. Il nome di una nave, la
Celestine, fluttuava sotto quei numeri.
Ogni volta che i soldati protomolecolari erano stati coinvolti in atti di
violenza, Venere aveva reagito. L’APE aveva appena distrutto un centinaio dei
suoi soldati semiumani. Prax era diviso tra eccitazione e terrore.
L’immagine scattò e si riformò, con i sensori confusi da una qualche
interferenza. Avasarala disse qualcosa in tono secco, che poteva essere
‘fammi vedere’. Pochi secondi dopo, l’immagine si fermò e si riquadrò. Un
ingrandimento dei dettagli mostrò una nave grigioverde. Una scritta in
sovrimpressione la identificava come la Merman. L’immagine scattò di
nuovo e, quando si riformò, la Merman si era spostata di un centimetro sulla
sinistra, ruotando da testa a coda, rivoltandosi. Avasarala parlò di nuovo.
Dopo pochi secondi di latenza, lo schermo tornò alla sua immagine originale.
Ora che Prax sapeva dove guardare, riuscì a vedere il puntino della Merman
che si muoveva vicino alla penombra. C’erano anche altri puntini come
quello.
Il lato oscurato di Venere pulsò con un improvviso lampo planetario che
si riverberò sotto il velo di nubi. E poi cominciò a baluginare.
Immensi filamenti lunghi migliaia di chilometri, disposti come i raggi di
una ruota, s’illuminarono di bianco e poi svanirono. Le nubi di Venere si
rimestarono, disturbate dal basso. A Prax tornò in mente il ricordo vivido
della scia che si gonfiava sulla superficie di un acquario quando un pesce vi
passava appena sotto. Qualcosa d’immenso e baluginante s’innalzò attraverso
la coltre di nubi. Lunghi fili iridescenti simili a spuntoni s’inarcarono in una
tempesta di fulmini, riunendosi come i tentacoli di un polipo ma connessi in
uno snodo centrale più rigido. Una volta fuori dalla spessa coltre di nubi di
Venere, si scagliarono in direzione opposta al sole, verso la nave di
osservazione, superandola. Al loro passaggio le altre navi furono disperse e
scaraventate via. Una lunga scia di atmosfera venusiana s’incendiò nel sole,
brillando come fiocchi di neve e schegge di ghiaccio. Prax cercò di dare un
senso a quelle dimensioni. Era grande quanto la Stazione di Ceres. Quanto
Ganimede. Più grande ancora. La cosa ripiegò le braccia – anzi, i tentacoli –,
accelerando senza alcuna combustione visibile. Nuotava nel vuoto. Prax si
sentiva il cuore battere all’impazzata, ma il suo corpo era come di pietra.
Mei gli premette un palmo sulla guancia e indicò lo schermo.
«Quello cos’è?» chiese.
Epilogo

Holden
Holden fece ripartire il video ancora una volta. Lo schermo a parete nella
cambusa della Rocinante era troppo piccolo per restituire adeguatamente tutti
i dettagli delle immagini ad alta risoluzione registrate dalla Celestine. Ma
Holden non riusciva a smettere di guardarle, a prescindere da dove si
trovasse. Una tazza di caffè rimase ignorata a raffreddarsi sul tavolo di fronte
a lui, accanto al panino che non aveva mangiato.
Venere lampeggiava in un intricato groviglio di luci. La pesante coltre di
nubi si rimestava come se fosse stata presa in una tempesta planetaria. E poi
quella cosa emerse, tirandosi appresso una densa scia di atmosfera dalla
superficie di Venere.
«Vieni a letto» disse Naomi, poi si sporse dal sedile e gli prese la mano.
«Cerca di dormire.»
«È così grossa. E guarda come ha scacciato tutte quelle navi al suo
passaggio. Senza sforzo, come una balena che attraversasse un banco di
pesci.»
«Puoi farci niente?»
«Questa è la fine, Naomi» replicò Holden, distogliendo gli occhi dallo
schermo per guardare lei. «Che succede, se questa è la fine? Non si tratta più
di un qualche virus alieno. Quell’affare è ciò per cui è venuta qui la
protomolecola. È quello che cambierà tutte le creature viventi sulla Terra da
ricostruire. Potrebbe essere qualsiasi cosa.»
«Puoi farci niente tu?» ripeté lei. Erano parole dure, ma il suo tono era
gentile e gli strinse le dita con affetto.
Holden tornò a voltarsi verso lo schermo, facendo ripartire le immagini.
Una dozzina di navi si rovesciarono intorno a Venere, come colte da una
violenta folata di vento che le avesse soffiate via come foglie secche. La
superficie dell’atmosfera cominciò a intorbidirsi e a rimestarsi.
«Okay» disse Naomi, alzandosi. «Vado a dormire. Non svegliarmi,
quando vieni a letto. Sono esausta.»
Holden annuì senza distogliere lo sguardo dal video. La gigantesca forma
si ripiegò in un dardo affusolato, come uno straccio bagnato afferrato nel
mezzo con la punta di due dita, e volò via. Il pianeta che si lasciava alle spalle
sembrava in qualche modo aver subìto una diminuzione. Come se gli fosse
stato sottratto qualcosa di vitale per costruire quell’artefatto alieno.
Ed eccola lì. Dopo tutto quel lottare, con la civiltà umana precipitata nel
caos per la sua semplice presenza, la protomolecola aveva terminato il lavoro
per cui era venuta miliardi di anni prima. L’umanità sarebbe riuscita a
sopravvivere? Forse la protomolecola non si sarebbe nemmeno accorta di
loro, ora che aveva concluso la sua grandiosa opera...
Non era quel fatto a terrorizzarlo. Era la prospettiva dell’inizio di
qualcosa totalmente al di fuori dell’umana esperienza. Qualunque cosa fosse
successa ora, nessu
no poteva essere preparato ad affrontarla.
E questo lo spaventava a morte.
Alle sue spalle, un uomo si schiarì la gola.
Holden si voltò riluttante dall’immagine sullo schermo. Il tizio era in
piedi accanto al frigorifero della cambusa, come se non si fosse mai mosso da
lì, con il suo completo grigio sgualcito e il cappello pork pie ammaccato. Una
lucciola blu volò via dalla sua guancia e rimase sospesa in aria accanto a lui.
L’uomo la scacciò come se si trattasse di un moscerino. La sua espressione
era un misto di disagio e scuse.
«Ehi» disse il detective Miller. «Dobbiamo parlare.»
Ringraziamenti
La realizzazione di un libro non è mai un processo così solitario come sembra.
Questo romanzo e la serie a cui appartiene non esisterebbero senza il duro lavoro di
Shawna McCarthy e Danny Baror, e senza il sostegno e la dedizione di DongWon
Song, Anne Clarke, Alex Lencicki, dell’inimitabile Jack Womack e della brillante
squadra della Orbit. Un grazie anche a Carrie, Kat e Jayné per i commenti e il
sostegno, nonché a tutta la banda Sakeriver. Gran parte delle cose più fiche di questo
libro sono merito loro. Gli errori, gli elementi inappropriati e le mirabolanti
mistificazioni sono tutta farina del nostro sacco.

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