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XVII / 3, 2014
Contaminazione/Contaminazioni
a cura di
Maria Luisa Meneghetti e Stefano Resconi
viella
Stefano Martinelli Tempesta
1. Considerazioni introduttive
A quanti si occupano della trasmissione dei testi – antichi e
non – l’esperienza insegna che avevano còlto nel segno Eduard Sch-
wartz e Giorgio Pasquali, quando consideravano ogni tradizione te-
stuale come un caso a sé: la trasmissione di qualsiasi testo, infatti, in
quanto fatto storico, è soggetta all’influenza di molti fattori variabili
che ne determinano i meccanismi e le vicende.2 E, se si considera
* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto di ricerca finanziato dal governo spa-
gnolo “Manuscritos griegos en España y su contexto europeo” (ref. FFI2011-25805).
1. G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier,
19522, p. 183 (cito dalla ristampa anastatica con una premessa di D. Pieraccioni,
Firenze, Le Lettere, 1988).
2. Non si dovranno dimenticare le parole che Pasquali scrisse nel profilo
di Domenico Comparetti, composto per il fascicolo del luglio 1927 della rivista
«Aegyptus» all’indomani della sua scomparsa avvenuta a Firenze il 20 genna-
io del medesimo anno, profilo che Pasquali volle riproporre all’inizio delle sue
5. Per l’uso del termine si veda P. Chiesa, Elementi di critica testuale, Bolo-
gna, Patron, 20122, p. 63, con le osservazioni di Orlandi, Errore cit., pp. 242-243.
6. D’altra parte, come ha messo in luce Giovanni Orlandi, se si legge lo spes-
so citato, ma altrettanto spesso male inteso, adagio lachmanniano recensere sine
interpretatione nel contesto originario della prefazione all’edizione del Nuovo Te-
stamento, si comprende che per Lachmann, il quale era ben lungi dal negare il
ruolo dell’intelletto umano nell’ars critica, il iudicium rappresentava «il versante
oggettivo, che d’altra parte costituisce per intero – secondo il Lachmann – il corret-
to metodo della recensio». Si veda Orlandi, Perché non possiamo cit., pp. 103-107
(p. 106 per la citazione).
7. Ibid.
8. La “filologia d’autore”, per la quale è opportuno ricorrere a edizioni “ge-
netiche” piuttosto che a edizioni “ricostruttive”, nel caso dei testi greci antichi,
tardoantichi e proto-bizantini non si applica se non a un manipolo di poco più di
una ventina di esemplari unici – che non hanno avuto tradizione e che si sono con-
servati per caso – sopravvissuti su papiri databili tra il sec. III a.C. e il VI/VII d.C.:
per una rassegna critica completa di questi testi (con relativa bibliografia) e per una
disamina delle fonti antiche sulla pratica di composizione autoriale antica tra auto-
grafia e dettatura si veda T. Dorandi, Nell’officina dei classici. Come lavoravano gli
autori antichi, Roma, Carocci, 2007, pp. 47-64. Su Dioscoro di Afroditopoli, oltre
alla bibliografia citata da Dorandi si veda anche L. S. B. Mac Coull, Dioscorus of
Aphrodito. His Work and his World, Berkeley-Los Angeles-London, University of
California Press, 1988, nonché la recente (2011) edizione critica con traduzione
inglese del poema XVII (Inno a San Teodosio) a c. di Clement A. Kuehn (Cicada.
The Poetry of Dioscorus of Aphrodito in English Translation. The critical Edition)
leggibile e scaricabile in rete presso il sito: http://www.byzantineegypt.com. Del
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 121
gr. App. Class. IV 1 (coll. 542 [sigla T]), mentre le altre due, a seconda
del dialogo, possono essere costituite vuoi da un unico manoscritto,
rispettivamente la prima dal manoscritto finito di copiare nel 895 dal
calligrafo Giovanni per Areta di Cesarea, Oxford, Bodleian Library,
Clarkianus 39 (sigla B), e la seconda dal codice vergato verso la metà
del sec. XI dal cosiddetto “Anonymus K”, Wien, Österreichische Na-
tionalbibliothek, Vind. Suppl gr. 7 (sigla W), vuoi da un manipolo di
testimoni che si affiancano ai due appena nominati. Questione aperta,
sulla quale tornenemo più tardi, è se la ramificazione sia realmente
tripartita o se si debba ipotizzare un antenato perduto a monte di due
dei tre testimoni (T e W). Vorrei ora concentrare l’attenzione su un
manoscritto che per i dialoghi delle prime quattro teralogie è gemello
del Bodleiano B:23 il codice, collocabile alla fine del sec. XI o agli inizi
del XII, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 185 (coll.
576 [sigla D]). Questo importante manoscritto ha subito tre campa-
gne diortotiche che un esame diretto del codice permette di distinguere
su basi paleografiche, tenendo conto del colore degli inchiostri: una
prima campagna, realizzata da un correttore coevo al copista con in-
chiostro nero (D2), è consistita nella tipica rilettura e correzione delle
sviste dello scriba sulla base del modello; una seconda, compiuta da un
copista/“filologo” (o da un copista sotto la direzione di un “filologo”)
in età paleologa con inchiostro quasi rosso (d1), ha introdotto corre-
zioni e varianti proprie della terza famiglia, utilizzando direttamente
W, come si può dedurre dalla presenza sui margini di quest’ultimo di
supplementi a lacune, colmate grazie all’aiuto di D (un bell’esempio
di contaminazione bidirezionale);24 infine, una terza ad opera di un
23. La sintesi che propongo qui di seguito si fonda sui risultati di un riesame
della tradizione dell’Eutifrone compiuto di recente: si vedano S. Martinelli Tem-
pesta, Francesco Filelfo e il testo greco dell’Eutifrone di Platone. La posizione
stemmatica dell’Hauniensis GkS 415a, 2° e del Laurentianus Pl. 85.12 (con qualche
osservazione sui Parisini gr. 2011 e gr. 3005), in «Nea Rhome», 6 (2009), pp. 497-
529, e F. Manfrin, Studi sulla tradizione manoscritta dell’Eutifrone di Platone. La
prima famiglia, in Miscellanea Graecolatina II, a c. di L. Benedetti e F. Gallo,
Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, 2014, pp. 3-45. Per altri dialoghi,
naturalmente, i risultati possono essere parzialmente differenti, ma ciò è irrilevante
per la questione che stiamo discutendo.
24. Sul quale si veda A. Carlini, Le vicende storico-tradizionali del Vind. W
e i suoi rapporti con il Lobcoviciano e il Ven. Gr. Z 185, in Studi su codici e papiri
filosofici. Platone, Aristotele, Ierocle, Firenze, Olschki, 1992, pp. 11-35, alle pp. 19-
21; Id., Da Bisanzio a Firenze. Platone letto, trascritto, commentato e tradotto nei
25. Si tratta di una questione rilevante anche per il problema dell’eliminatio co-
dicum descriptorum. Fatte salve tutte le cautele necessarie per evitare eliminationes
troppo facili, e cioè dopo essere andati a caccia della prova diretta della dipendenza,
accanto all’assenza di prove della non dipendenza, perché – nei casi di presunti modelli
portatori di collazioni stratificate – l’eliminatio riesca, bisogna che le fasi diortotiche del
presunto modello siano ben distinguibili sul piano materiale (distinzioni di mani; colori
degli inchiostri, etc.) e che ci sia una sostanziale coerenza con quanto di esse è passato
nel supposto apografo: per accettare la presunzione che un testmonio B è stato copiato
da un testimonio A dopo che quest’ultimo è stato corretto una prima volta ma prima che
lo fosse una seconda, bisogna che pressoché tutte le correzioni della prima diorthosis
di A siano presenti in B e che non sia presente in B nessuna di quelle della seconda
diorthosis di A. Se si trovano solo alcune delle correzioni della prima fase diortodica di
A e anche qualcuna (a rigore anche soltanto una) di quelle della seconda fase, allora la
situazione è confusa e l’eliminatio non riesce. Si pensi alla vexata quaestio del rapporto
fra L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 32.2) e P (Città del Vatica-
no, Biblioteca Apostolica Vaticana, Palat. gr. 287 + Firenze, Biblioteca Medicea Lau-
renziana, Conv. Soppr. 172) nella serie alfabetica dei drammi di Euripide, per la quale
mi limito a rinviare a M. Magnani, La tradizione manoscritta degli Eraclidi di Euripide,
Bologna, Patron, 2000 (lo stemma a p. 241). Per un altro esempio nella trasmissione del
Corpus platonico, quello, cioè, relativo agli apografi del manoscritto Paris, Bibliothèque
nationale de France, Par. gr. 1808, del sec. XI/XII, si veda, per esempio, quanto ho
scritto in Platone, Liside, a c. di F. Trabattoni, I, ed. critica, tr. e commento filologico di
S. Martinelli Tempesta, Milano, LED, 2003, pp. 48-53.
26. «It is a common experience that uncertainties increase towards the the top
of a stemma» dice Michael Reeve in Vegetius, Epitoma rei militaris, recognovit
brevique adnotatione critica instruxit M. D. Reeve, Oxford, University Press, 2004,
p. XXXIII, affermazione ripresa in Id. Shared Innovations cit., p. 103 n. 106. Si
veda infra il par. 4. Post scriptum.
27. La migliore trattazione di insieme sulla storia della trasmissione del Cor-
pus Demosthenicum è ancora quella da Luciano Canfora nell’Introduzione a De-
mostene, Le Filippiche e altri discorsi, a c. di L. Canfora, Torino, UTET, 1974.
Per un aggiornamento e una disamina delle questioni relative alla tradizione ma-
noscritta demostenica si vedano ora i contributi contenuti in Demosthenica libris
manu scriptis tradita. Studien zur Textüberliefrung des Corpus Demosthenicum,
hrsg. von J. Grusková uns H. Bannert, Wien, Verlag des Österreichischen Akademie
der Wissenschaften, 2014.
28. S. Martinelli Tempesta, Some Remarks about the Relationship between the
Primary Witnesses of the Corpus Demosthenicum, in Demosthenica cit., pp. 165-190.
29. I codices vetustissimi di Demostene sono in realtà una decina, ma a conte-
nere attualmente l’intero Corpus sono soltanto tre: S, A e F. Un nuovo esame paleo-
grafico e codicologico di tutti i vetustissimi è ora offerto da J. Grusková, Paläeogra-
phish-kodikologische Beobachtungen zu den vetustissimi des Demosthenes unter
philologischen Gesichtspunkten, in Demosthenica cit., pp. 263-312.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 133
Sebastiano Timpanaro, anch’egli scolaro di Pasquali (anche se si era laureato con Nico-
la Terzaghi), dedica alla formulazione pasqualiana «recentiores, non deteriores» nelle
carte inedite preparatorie al suo progettato e mai realizzato manuale di critica testuale,
ora conservate presso la Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa (segnatura:
Inediti Sebastiano Timpanaro 34), la cui conoscenza debbo alla generosità e all’amici-
zia di Michele Bandini, che sta lavorando alla parziale pubblicazione di questi materiali
(una parte è già stata trascritta da una allieva di Bandini: Annamaria Vaccaro, Materiali
inediti di Sebastiano Timpanaro per un manuale di critica del testo. Trascrizione e an-
notazione, Università di Roma «La Sapienza», a. a. 2010-2011): «Relativamente raro è
il caso di codici complessivamente superiori a codici notevolmente più antichi (piccole
differenze di epoca contano naturalmente ben poco: non si chiamerà recentior un co-
dice del XIII rispetto a uno del XII); molto frequente, invece, il caso di codici recenti
complessivamente peggiori dei più antichi, ma contenenti molte singole lezioni superio-
ri. Lo slogan pasqualiano “recentiores, non deteriores” può dunque essere riformulato
così, per evitare ogni possibilità di equivoco: un codice di epoca più recente e più colta
è quasi sempre, giudicato nel suo insieme, meno fededegno di un codice di epoca più
antica e meno colta: ma ciascuna singola lezione del più recente può esser migliore della
corrispondente lezione del più antico (…). Questa formulazione corrisponde esattamen-
te, noi crediamo, al vero pensiero di Pasquali».
31. Non capita quasi mai che sia accolta a testo la lezione attestata soltanto da
F D Q o da uno (o due) dei tre, ma ciò è quasi certamente frutto della tendenza degli
editori a considerare più autorevoli S e A.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 135
45. Mi limito a rinviare a E. Berti, Osservazioni filologiche alla versione del Filebo
di Marsilio Ficino, in Il Filebo di Platone e la sua fortuna, Atti del Convegno di Napoli
(4-6 novembre 1993), a c. di P. Cosenza, Napoli, D’Auria, 1996, pp. 93-167, S. Marti-
nelli Tempesta, La tradizione testuale del Liside di Platone, Firenze, La Nuova Italia,
1997, pp. 155-177, E. Berti, Marsilio Ficino e il testo greco del Fedone di Platone, in
Les traducteurs au travail. Leur manuscrits et leur méthodes, Actes du Colloque (Erice,
30 sept.-6 oct. 1999), éd. par J. Hamesse, Turnhout, Brepols, 2002, pp. 349-425.
46. Platonis Euthyphron Francisco Philelfo interprete, Lysis Petro Candido
Decembrio interprete, a c. di S. Martinelli Tempesta, Firenze, SISMEL - Edizioni
del Galluzzo, 2009, pp. 14-37, e Id., Francesco Filelfo cit., pp. 526-529.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 143
47. Non sarà un caso che l’unico altro dialogo platonico contenuto nel codice
di København, il Simposio, presenta un testo frutto di conflazione tra questi due ma-
noscritti: si veda Ch. Brockmann, Die handschriftliche Überlieferung von Platons
Symposion, Wiesbaden, L. Reichert Verlag, 1992, pp. 146-149.
48. Di notevole interesse a questo proposito l’osservazione di D. Harlfinger,
Die Textgeschichte der pseudo-aristotelischen Schrift ΠΕΡΙ ΑΤΟΜΩΝ ΓΡΑΜΜΩΝ.
Ein kodikologich-kulturgeschichtlicher Beitrag zur Klärung der Überlieferung-
sverhältnisse im Corpus Aristotelicum, Amsterdam, Hakkert, 1971, pp. 317-318,
secondo il quale si può spiegare la scomparsa della gran parte dei manoscritti in
cui le collazioni sono state materialmente effettuate, soprattutto quando si tratta di
collazioni intensive e stratificate, se si pensa al caso dei manoscritti passati in tipo-
grafia e utilizzati direttamente come Drückvorlagen per le editiones principes. Tale
osservazione è ripresa anche da Pietrobelli, Contaminations cit., p. 185.
ria del manoscritto del monte Athos (C) successiva alla copiatura
di D sembra seguire una strada comune a quella di D, tanto da
far sospettare a Pietrobelli che il manoscritto fosse in possesso di
Andronico e abbia seguito le sorti della dispersione della sua bi-
blioteca, viaggiando proprio insieme a D.56 Se questo è vero, è ben
possibile che Andronico abbia utilizzato questo manoscritto come
base di collazione, traendone una copia ad uso personale, sulla
quale, avendo avuto a disposizione per un certo periodo L, avrebbe
effettuato la collazione. Insomma, anche in questo caso, non siamo
autorizzati a escludere del tutto l’esistenza di un manoscritto de-
perditus nel quale la collazione sia stata materialmente effettuata
(verosimilmente da Andronico stesso) e a partire dal quale sia stata
realizzata la conflazione che ha prodotto il codice di Mosca (D), da
considerasi come una, pur incompleta, mise au net.
(2) A proposito della struttura stemmatica del ramo β in relazio-
ne ai fenomeni di contaminazione in esso riscontrabili osservo quan-
to segue. Pietrobelli distingue due tipi di contaminazione, una visi-
bile, che è quella facilmente individuabile mediante l’esame delle
stratificazioni delle correzioni operate su S utilizzando T come fonte
e di quelle realizzate su A utilizzando M come fonte, l’altra invisi-
bile perché risale ai modelli dei codici conservati, i quali presentano
accordi in errore in combinazioni incrociate che non consentono, in
apparenza, di stabilire i precisi rapporti tra questi e il “subarchetipo”
che sta all’origine di questa famiglia (β). In particolare dalla simul-
tanea presenza di errori comuni a T M, M S e S A, troppo numerosi e
significativi per essere poligenetici, Pietrobelli deduce la presenza di
tre “iparchetipi” (β1, β2, β3) derivati da β in modo indefinibile, secon-
do l’interpretazione del concetto pasqualiano di “recensione aperta”
proposto da Elio Montanari. Inoltre si riscontrano anche ulteriori
fenomeni di contaminazione con la prima famiglia (α) a monte dei
singoli T e M. Ecco come Pietrobelli rappresenta stemmaticamente
la situazione appena descritta:
3. Considerazioni conclusive
Le questioni da affrontare sarebbero ancora molte, ma sono
consapevole di avere abusato della pazienza di che legge. Mi
limiterò, quindi, a poche riflessioni conclusive ben consapevole di
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 149
ne che nel caso in cui siano attestate tre lezioni o l’accordo tra B e T
sia in innovazione poligenetica, sarà allora possibile che la lezione
esatta sia attestata dal solo W. Per ottenere la terza configurazione
stemmatica si dovrà stabilire con un buon grado di verosimiglianza
che gli accordi in innovazione tra B e W sono poligenetici, mentre
quelli tra T e W non lo sono.
(2) Tutti i possibili – e differenti – rimedi contro il fenomeno
si possono ricondurre, in ultima analisi, al tentativo di distinguere
ciò che si può trasmettere orizzontalmente (o trasversalmente) da
ciò che non può essere frutto di trasmissione verticale.61 Ciò può
comportare un adattamento dei criteri a seconda della tipologia di
trasmissione con cui abbiamo a che fare, fino al punto da ridurre
al minimo le innovazioni significative (che ci orienteranno nell’in-
dividuazione della trasmissione vericale, mediante congiunzioni) e
allargare al massimo le possibilità di fenomeni poligenetici o tra-
smessi per via orizzontale.62
61. Si tratta in fondo del secondo rimedio, già individuato da Maas, Critica del
testo cit., p. 11 (= Textkritik cit., p. 9): «Inoltre guasti evidenti, specialmente lacune,
vengono, sì, tramandati ulteriormente in linea retta, ma ben difficilmente per contami-
nazione» («Ferner werden offensichtliche Verderbnisse, besonders Lücken, zwar wohl
geradlinig weiter überliefert aber doch kaum je durch Kontamination übertragen»), al
quale si può anche ricondurre anche il secondo criterio escogitato da Avalle, Principi
cit., p. 81, relativo alla condivisione di varianti “microscopiche” (con l’opportuna limi-
tazione sottolineata da Montanari, La critica del testo cit., p. 140). Tentativi di isolare
ciò che si deve alla tradizione verticale hanno, a mio parere, dato buoni risultati, per
esempio, negli studi della tradizione contaminata di vari opuscoli dei Moralia di Plu-
tarco. Particolarmente istruttivi i contributi di Brian Hillyard e Fabio Vendruscolo: B.
Hillyard, The Medieval Tradition of Plutarch, De audiendo, in «Revue d’histoire des
textes», 7 (1977), pp. 1-56, F. Vendruscolo, Le ‘recensione Θ’ dei Moralia di Plutarco.
Plutarco edito da Demetrio Triclinio (?), in «Bollettino dei Classici» s. III, 13 (1992),
pp. 59-106, Id., L’edizione planudea della Consolatio ad Apollonium e le sue fonti, in
«Bollettino dei Classici», s. III, 15 (1994), pp. 29-85, Id., La Consolatio ad Apollonium
fra Mistrà (?) e Padova: apografi quattrocenteschi del Bruxellensis 18967 (b), in «Bol-
lettino dei Classici», s. III, 17 (1996), pp. 3-35, Id., Libidinosa recensio. La ‘recensione
Δ’ e il testo dei Moralia, in Plutarco. Lingua e testo, Atti dell’XI Convegno plutarcheo
della International Plutarch Society – Sezione Italiana (Milano, 18-20 giugno 2009),
a c. di G. Zanetto e S. Martinelli Tempesta, Milano, Cisalpino, 2010, pp. 143-168. Si
veda anche quanto ho osservato in S. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione testua-
le del De tranquillitate animi di Plutarco, Firenze, Olschki, 2006, pp. 97-99, 145-152.
62. Esemplare in questo senso – mi si permetta lo sconfinamento nel campo
della filologia mediolatina – la recente edizione della Navigatio Sancti Brendani.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 153
65. Mi limito a rinviare a quanto ho già avuto modo di osservare a proposito del-
la tradizione manoscritta platonica in Platone, Liside cit., 25-34 (con discussione della
bibiiografia precedente) e di quella dei Moralia di Plutarco in Studi, cit., 153-160, e
in La tradizione dei Moralia cit., 277-278. Importanti per le dinamiche della forma-
zione dei corpora gli studi di Irigoin sulle Vitae di Plutarco e sul corpus degli scritti
di Ippocrate: J. Irigoin, La formation d’un corpus. Un problème dans la tradition des
Vies parallèles dde Plutarque (1982-1983), in Id., Tradition cit., pp. 311-328, Id.,
Tradition manuscrite et histoire du texte. Quelques problèmes relatifs à la Collection
hippocratique (1975), in Id., Tradition cit., pp. 251-269. Un altro caso interessante è
quello del corpus delle commedie di Aristofane: uno status quaestionis sul problema
dell’archetipo e delle differenti situazioni stemmatiche nelle singole commedie in Ci-
sterna, I manoscritti cit., pp. 6-11. Sulla medesima questione nell’ambito della tradi-
zione manoscritta di Isocrate mi sia concesso di rinviare a S. Martinelli Tempesta, Dai
rotoli al codice. Tracce della formazione del Corpus isocrateo nell’Urbinate greco
111, in «Accademia Raffaello – Atti e Studi», 2 (2011), pp. 73-87.
66. Per riprendere un esempio già presentato supra, si può ricordare la vexata
quaestio dell’origine italogreca del codice Parigino S (vergato in “stile Anastasio”) o
del Monacense A (per il quale si è sospettata un’origine palestinese): i dati ricavabili
dallo studio delle contaminazioni presenti (o intuibili negli immediati antigrafi a monte
di manoscritti conservati) su alcuni manoscritti di sicura origine costantinopolitana con-
vergono sensibilmente con i risultati ottenuti da un più approfondito studio paleografico
della scrittura (si veda B. Mondrain, Le rôle de quelques manuscrits dans l’histoire du
texte de Démosthène: remarques paléographiques et philologiques, in Demosthenica
cit., pp. 199-226, alle pp. 201-205 [sul Monacense A]) o anche da un più attento vaglio
dei marginali (si veda E. Gamillscheg, Demosthenes in Konstantinopel. Zur Lokalisie-
rung von Cod. Par. gr. 2934, in Demosthenica cit., pp. 1190-198): si è indotti a conclu-
dere che, se anche non tutti i testimoni vetustissimi fossero stati prodotti a Costantinopo-
li, qui – essi o i loro modelli – si dovessero trovare assai presto. Si veda infra a n. 73.
67. Notevoli, quanto all’individuazione di fonti “extrastemmatiche”, i risulta-
ti degli studi di Alberti e Kleinlogel sulla tradizione manoscritta di Tucidide: basti
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 155
4. Post scriptum68
Non intendo entrare nei dettagli della vexata questio del
“paradosso di Bédier”, ma è, a mio parere, innegabile che le difficoltà
che si riscontrano man mano che si risale in alto nello stemma sono
strettamente connesse da un lato con la minore visibilità diretta
dei fenomeni e con la conseguente maggiore semplificazione che
lo stemma è costretto a operare nella schematica rappresentazione
della realtà storica, dall’altro con il problema della cosiddetta
“decimazione”. Non dobbiamo dimenticare le varie catastrofi – una
per tutte il disastro prodotto sulle biblioteche costantinopolitane dai
saccheggi della quarta crociata (1204)69 – verificatesi nel corso dei
Reeve nasce dal fatto che i due studiosi si riferivano a due tipi di
contaminazione differente: quella di cui parla Reeve è avvenuta a
valle dell’archetipo e può in molti casi produrre una diminuzione delle
innovazioni condivise, creando l’impressione di un maggior numero
di ramificazioni; quella di cui parla Timpanaro (“extrastemmatica”)
proviene da uno o più rami perduti che sopravvivono soltanto
grazie a collazioni effettuate su codici derivanti dall’archetipo: di
fronte, quindi, a una reale tripartizione a partire dall’archetipo, la
collazione parziale di uno dei tre rami con una fonte che non ne
dipende produce l’eliminazione di un errore, che era in precedenza
condiviso dai tre rami, ma che ora, essendo stato eliminato da uno
di essi, suscita l’impressione che i due rami che lo contengono siano
congiunti contro il terzo (bipartizione apparente). Anche in questo
caso fa capolino l’oscillazione tra testo nella sua integrità e singolo
passo: la contaminazione “extrastemmatica” è individuabile quando
si ha a che fare con singoli passi in cui un testimone, che dipende
nel suo complesso certamente dall’archetipo (perché in molti casi
condivide gli errori comuni all’intera tradizione), è immune da
un errore – per cui è assai improbabile pensare a una congettura
– condiviso da tutti gli altri, oppure condivide una innovazione –
non poligenetica – comune a un papiro o a un testimone indiretto.76
Se fossimo in grado – ma nella realtà di norma non lo siamo – di
ricostruire l’intero testimone fonte di questo tipo di contaminazione,
allora sì che sarebbe assurdo parlare di contaminazione “extra-
stemmatica”, poiché dovremmo semplicemente chiudere più in alto
lo stemma (e avremmo lo stemma bipartito di fatto e non apparente