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Critica del testo

XVII / 3, 2014

Contaminazione/Contaminazioni

a cura di
Maria Luisa Meneghetti e Stefano Resconi

viella
Stefano Martinelli Tempesta

Contaminazioni nella trasmissione


dei testi greci antichi. Qualche riflessione*

L’autore propone alcune riflessioni sul fenomeno della contaminazione nella


trasmissione dei testi greci, prendendo le mosse da alcune considerazioni teoriche per
poi verificarle passando in rassegna alcuni casi concreti, tratti soprattutto dalle tra-
dizioni di Platone, Demostene, Galeno. Egli cerca, inoltre, di mostrare che la conta-
minazione è, in particolari condizioni, effettivamente rimediabile e conclude il contri-
buto con alcune riflessioni sul rapporto tra contaminazione e “paradosso di Bédier”.

Ma rinunziare non si deve, secondo me,


neppure in casi di recensione del tutto aperta.1

1. Considerazioni introduttive
A quanti si occupano della trasmissione dei testi – antichi e
non – l’esperienza insegna che avevano còlto nel segno Eduard Sch-
wartz e Giorgio Pasquali, quando consideravano ogni tradizione te-
stuale come un caso a sé: la trasmissione di qualsiasi testo, infatti, in
quanto fatto storico, è soggetta all’influenza di molti fattori variabili
che ne determinano i meccanismi e le vicende.2 E, se si considera

* Lavoro realizzato nell’ambito del progetto di ricerca finanziato dal governo spa-
gnolo “Manuscritos griegos en España y su contexto europeo” (ref. FFI2011-25805).
1. G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze, Le Monnier,
19522, p. 183 (cito dalla ristampa anastatica con una premessa di D. Pieraccioni,
Firenze, Le Lettere, 1988).
2.  Non si dovranno dimenticare le parole che Pasquali scrisse nel profilo
di Domenico Comparetti, composto per il fascicolo del luglio 1927 della rivista
«Aegyptus» all’indomani della sua scomparsa avvenuta a Firenze il 20 genna-
io del medesimo anno, profilo che Pasquali volle riproporre all’inizio delle sue

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la questione non soltanto nella prospettiva della Textgeschichte, ma


anche in quella della Textkritik, non si possono che sottoscrivere le
celebri affermazioni di Alfred Edward Housman nel suo memorabile
articolo dedicato all’applicazione dell’intelletto alla critica testuale:
«(...) Textual criticism is not a branch of mathematics, nor indeed an
exact science at all. It deals with a matter not rigid and constant, like
lines and numbers, but fluid and variable; namely the frailties and
aberrations of the human mind, and of its insubordinate servants, the

Pagine stravaganti vecchie e nuove (1933), in G. Pasquali, Pagine stravaganti


di un filologo, nel testo originale a c. di C. F. Russo, Firenze, Le Lettere, 1994,
I, Pagine stravaganti vecchie e nuove. Pagine meno stravaganti, pp. 3-25, da cui
si cita): «Il metodo dell’edizione critica va diventando ogni giorno più delicato,
man mano che i problemi di storia del testo appaiono nella loro vera complessità,
alla quale per lo più una formula meccanica è affatto inadeguata» (p. 24). Questo
profilo fu pubblicato anche in forma autonoma quale VIII opuscolo della serie dei
“Quaderni critici” raccolti da Domenico Petrini: G. Pasquali, Domenico Compa-
retti e la filologia del secolo XIX, Rieti, Bibliotheca, 1929 (la citazione a p. 44).
Non sarà inutile notare che queste ancora attualissime parole, intese a spiegare il
giudizio negativo che Pasquali aveva appena espresso sul lavoro di Comparetti
come editore critico della Guerra Gotica di Procopio, a fronte del suo «ingegno
inventivo e prudente insieme» capace di ottimi risultati con testi lacunosi, «ma
in forma genuina, almeno relativamente originale, come nelle epigrafi», testi, per
così dire, senza storia, apparvero nello stesso anno (1927) in cui fu pubblicata,
come secondo fascicolo del primo volume della Einleitung in die Altertumswis-
senschaft di Gercke e Norden, la prima edizione della Textkritik di Paul Maas,
dalla cui recensione in «Gnomon», 5 (1929), pp. 417-435, 498-521 (ora in G.
Pasquali, Scritti filologici, a c. di F. Bornmann, G. Pascucci e S. Timpanaro, intr.
di A. La Penna, II, Letteratura latina, cultura contemporanea, recensioni, Firenze
Olschki, 1986, pp. 867-914), come è ben noto, nacque la prima edizione (Firenze,
Le Monnier, 1934) del capolavoro pasqualiano (cit. a n. 1). Sul profilo pasqualiano
di Comparetti si veda di recente F. Giordano, Lo studio dell’antichità. Giorgio Pa-
squali e i filologi classici, Roma, Carocci, 2013, pp. 55-69. Il 1927 è anche l’anno
di pubblicazione dell’edizione della Lisistrata di Aristofane curata da Ulrich von
Wilamowitz-Moellendorff (Berlin, Weidmann, 1927), nella cui prefazione (p. 62
n. 1) lo studioso tuona contro coloro che utilizzano i manoscritti mettendoli tutti
sullo stesso piano e accogliendone indiscriminatamente le lezioni, sottolineando la
necessità di conoscere la storia del testo per distinguere ciò che è tradizione da ciò
che è pur brillante congettura medievale e umanistica: su questa importante pagi-
na wilamowitziana si vedano le considerazioni di G. Orlandi, Errore, corruttela,
innovazione (2008), in Id., Scritti di filologia mediolatina, raccolti da P. Chiesa, A.
M. Fagnoni, R. E. Guglielmetti e G. P. Maggioni, Firenze, SISMEL - Edizioni del
Galluzzo, 2008, pp. 233-247, alle pp. 238-239.
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human fingers» e «(...) every problem which presents itself to the


textual critic must be regarded as possibly unique».3
D’altra parte è altrettanto vero che senza quella griglia metodo-
logica rigorosamente geometrica rappresentata dal metodo genealo-
gico/stemmatico, generalmente, anche se in larga misura impropria-
mente, chiamato “metodo del Lachmann”,4 non sarebbe possibile
sottrarsi a scelte arbitrarie nella valutazione delle variazioni (errori,

3. A. E. Housman, The Application of Thought to Textual Criticism (1922), in


The Classical Papers of A. E. Housman, collected and edited by J. Diggle and F. R.
D. Goodyear, Cambridge, Cambridge University Press, 1972, III, pp. 1058-1069,
alle pp. 1058 e 1059. Bisogna, tuttavia, evitare di pensare alla filologia di Housman
come totalmente concentrata sull’attività congetturatrice e del tutto disinteressata
alla ricostruzione dell’originale mediante una recensio: si leggano le opportune os-
servazioni di G. Orlandi, Perché non possiamo non dirci lachmanniani (1995), in
Id., Scritti cit., pp. 95-130, alle pp. 107-110.
4. Oggi sappiamo bene che il primato della formulazione teorica del princi-
pio si cui si fonda il metodo genealogico, cioè quello della possibilità di stabilire la
parentela fra testimoni sulla base delle innovazioni condivise, non si deve a Lach-
mann, né alla cerchia dei filologi classici, bensì a quella della filologia romanza
e della glottologia della seconda metà del’Ottocento: si vedano le pagine che, a
partire dalla accurata sintesi di J. Froger, La critique des textes et son automatisa-
tion, Paris, Dunod, 1968, pp. 41-42, ha scritto M. D. Reeve, Shared Innovations,
Dichotomies, and Evolution, in Filologia classica e filologia romanza: esperienze
ecdotiche a confronto, Atti del Convegno (Roma, 25-27 maggio 1995), a c. di A.
Ferrari, Spoleto, CISAM, 1998, pp. 445-505, ora, con modifiche e aggiornamenti,
in Id., Manuscripts and Methods. Essays on Editing and Transmission, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 54-103 (da cui si cita). Sulla questione
restano fondamentali le pagine di S. Timpanaro, La genesi del metodo del Lach-
mann (1963, poi 1981 e 1985), con una presentazione e una postilla di E. Mon-
tanari, Torino, UTET, 2000, e gli sviluppi, in parte su posizioni differenti, di G.
Fiesoli, La genesi del Lachmannismo, Firenze, SISMEL - Edizioni del Galluzzo,
2000. Del libro di Timpanaro è apparsa qualche anno fa una traduzione inglese:
S. Timpanaro, The Genesis of Lachmann’s Method, edited and translated by G. W.
Most, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2005. Si tratta di un li-
bro importante perché alla fine vi si trovano tre appendici con materiali aggiuntivi,
la prima contenente la traduzione inglese di un inedito timpanariano che contiene,
in forma di abbozzo, le ultime osservazioni di Timpanaro sulla questione degli
stemmi bipartiti (apparsa poi nell’originale italiano per le cure dello stesso Most
in «Belfagor», 61 [2006], 4, pp. 452-465), una seconda in cui sono presentate tutte
le differenze tra le diverse edizioni della Genesi, e una terza con aggiornamenti
bibliografici.

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varianti e, più in generale, qualunque tipo di innovazione)5 che ca-


ratterizzano le tradizioni testuali di ogni epoca e luogo.
Un volta riconosciuto che il metodo genealogico soltanto in rari
casi consente una ricostruzione “meccanica” del testo, che la sua
principale efficacia consiste nella recensio con annessa eliminatio
codicum descriptorum e che è impossibile eliminare il iudicium da
qualsiasi operazione che comporti la valutazione dei dati ricavabili
dall’esame dei testimoni superstiti,6 come pure da nessuna delle fasi
di applicazione del metodo a partire dalla distinzione tra ciò che è
genuino o plausibile e ciò che è errore, corruttela, lezione inferiore
o, più in generale, innovazione, allora si dovrà riconoscere, per dirla
con Giovanni Orlandi, che non possiamo non dirci lachamanniani.7
E, comunque, se del testo che intendiamo pubblicare criticamente
non abbiamo l’originale – fatto pressoché costante nel caso delle
letterature classiche antiche8 –, dobbiamo procedere a una ricostru-

5. Per l’uso del termine si veda P. Chiesa, Elementi di critica testuale, Bolo-
gna, Patron, 20122, p. 63, con le osservazioni di Orlandi, Errore cit., pp. 242-243.
6. D’altra parte, come ha messo in luce Giovanni Orlandi, se si legge lo spes-
so citato, ma altrettanto spesso male inteso, adagio lachmanniano recensere sine
interpretatione nel contesto originario della prefazione all’edizione del Nuovo Te-
stamento, si comprende che per Lachmann, il quale era ben lungi dal negare il
ruolo dell’intelletto umano nell’ars critica, il iudicium rappresentava «il versante
oggettivo, che d’altra parte costituisce per intero – secondo il Lachmann – il corret-
to metodo della recensio». Si veda Orlandi, Perché non possiamo cit., pp. 103-107
(p. 106 per la citazione).
7. Ibid.
8. La “filologia d’autore”, per la quale è opportuno ricorrere a edizioni “ge-
netiche” piuttosto che a edizioni “ricostruttive”, nel caso dei testi greci antichi,
tardoantichi e proto-bizantini non si applica se non a un manipolo di poco più di
una ventina di esemplari unici – che non hanno avuto tradizione e che si sono con-
servati per caso – sopravvissuti su papiri databili tra il sec. III a.C. e il VI/VII d.C.:
per una rassegna critica completa di questi testi (con relativa bibliografia) e per una
disamina delle fonti antiche sulla pratica di composizione autoriale antica tra auto-
grafia e dettatura si veda T. Dorandi, Nell’officina dei classici. Come lavoravano gli
autori antichi, Roma, Carocci, 2007, pp. 47-64. Su Dioscoro di Afroditopoli, oltre
alla bibliografia citata da Dorandi si veda anche L. S. B. Mac Coull, Dioscorus of
Aphrodito. His Work and his World, Berkeley-Los Angeles-London, University of
California Press, 1988, nonché la recente (2011) edizione critica con traduzione
inglese del poema XVII (Inno a San Teodosio) a c. di Clement A. Kuehn (Cicada.
The Poetry of Dioscorus of Aphrodito in English Translation. The critical Edition)
leggibile e scaricabile in rete presso il sito: http://www.byzantineegypt.com. Del
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zione e l’unico metodo che consente di farlo in modo “scientifico”


è, con buona pace dei suoi detrattori, quello genealogico,9 che, pur
con tutti i suoi limiti e purché lo si applichi in una prospettiva il più
possibile storica, permette di stabilire la parentela fra i testimoni su-
perstiti in base alla condivisione delle innovazioni significative. La
prospettiva storica di per sé non apporta contributi teorici all’elabo-
razione di regole, che devono essere formulate in modo da avere una
validità generale a prescindere dei casi particolari, ma permette di
applicarle con i necessari aggiustamenti, quando dalla dimensione
astratta dell’universale si scende a quella concreta del particolare,
dove prevalgono le eccezioni rispetto alle regole. Tale prospettiva,
a mio modo di vedere, offre allo studioso un duplice vantaggio: da
un lato permette, mediante il soccorso di discipline quali la paleo-
grafia, la codicologia, la diplomatica, la prosopografia, la storia delle
biblioteche, di conferire per così dire uno “spessore storico” allo
stemma codicum, che per sua natura è una rappresentazione astrat-
ta e semplificata di una parte delle vicende storiche reali attraverso
le quali un testo ha percorso l’accidentata via che dall’autore lo ha
condotto sino a noi;10 dall’altro permette di risolvere, o almeno di

testo medico conservato nel brogliaccio verosimilmente autografo P.Lit.Lond. 165,


il cosiddetto “Anonimo di Londra”, si veda ora l’edizione critica per la Bibliotheca
Teubneriana curata da Daniela Manetti: Anonymus Londiniensis, De medicina, ed.
D. Manetti, Berolini-Novi Eboraci, De Gruyter, 2011. Interessanti considerazioni
su questi testi si leggono in A. Carlini, Abbozzo di Inno ad Εἰρήνη di un poeta dilet-
tante del sec. I d.C., in L’antico e la sua eredità, Atti del Colloquio internazionale
di studi in onore di Antonio Garzya (Napoli, 20-21 settembre 2002), a c. di U. Cri-
scuolo, Napoli, D’Auria, 2004, pp. 22-29.
9. Anche laddove l’applicabilità ecdotica e la possibilità stessa di disegnare
uno stemma siano limitate o precluse – e sia pertanto necessario ricorrere a solu-
zioni differenti –, è a mio parere consigliabile partire comunque da un tentativo di
approccio stemmatico allo scopo, se non altro, di operare le possibili eliminationes
codicum descriptorum e di ridurre almeno un poco i testimoni di cui tenere conto.
10. Si leggano le interessanti osservazioni di Fabio Acerbi sulla semplifica-
zione schematica degli snodi dello stemma in cui si annidano manoscritti perduti
in Diofanto, De polygonis numeris, intr., testo critico, tr. italiana e commento di F.
Acerbi, Pisa-Roma, Serra, 2011, pp. 129, 133. Acerbi ha certamente ragione, quan-
do sottolinea la «convenzionalità della scelta di assegnare uno ed un solo esemplare
ad ogni snodo» (p. 133), ma resta vero che ad ogni snodo deve corrispondere alme-
no un esemplare (reale) perduto. Non condivido lo scetticismo di G. Gorni, Vecchie
e nuove dell’ecdotica, in «Ecdotica», 1 (2004), pp. 77-81, a p. 79.

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dipanare parzialmente, alcuni nodi problematici che rendono diffi-


cile – e talvolta impossibile – la costruzione stessa di uno stemma,
senza contare il fatto che essa è l’unico mezzo che abbiamo per ri-
percorrere le vie del testo in quella zona d’ombra che è lo spazio tra
l’originale e le prime tracce intuibili e, almeno in parte, ricostruibili
attraverso il metodo stemmatico, siano esse riconducibili a un ar-
chetipo unico o a più paleotipi che dall’antichità (più verisimilmente
dalla tarda antichità) hanno dato origine ai singoli rami della tradi-
zione medievale.
Lasciando da parte le complesse questioni degli originali in
movimento, delle varianti d’autore, e delle seconde edizioni auto-
riali, di non facile soluzione – anche se non sempre impossibili da
dipanare – nella trasmissione dei testi antichi,11 i nodi problematici
che possono complicare e talora rendere impossibile la costruzione
di uno stemma sono – è ben noto – rappresentati da tre fenomeni
per loro natura distinti, ma che nella pratica applicazione del meto-
do si possono ritrovare connessi:12 la poligenesi delle innovazioni
(che rende priva di significato la loro condivisione), l’eliminazione
congetturale di un errore del modello (che rende irriconoscibile l’in-
novazione), la contaminazione (che può produrre effetti apparente-
mente simili all’emendazione congetturale, nel caso si trasmetta una
lezione esatta, oppure creare effetti congiuntivi apparenti nel caso
della trasmissione di errori o lezioni inferiori). È su quest’ultima
che intendo soffermarmi e proporre alcune riflessioni tutt’altro che

11.  Una panoramica dei problemi nelle tradizioni greche e latine in M. De


Nonno, Testi greci e latini in movimento: riflessi nella tradizione manoscritta e nel-
la prassi editoriale, in Filologia classica e filologa romanza cit., pp. 222-239. Sul
problema delle varianti d’autore, oltre alle classiche pagine del cap. VII del capola-
voro di Pasquali (Storia della tradizione cit., pp. 397-465), sono sempre attuali le ri-
flessioni di Scevola Mariotti, ora raccolte in S. Mariotti, Scritti di filologia classica,
a c. di M. De Nonno e L. Gamberale, Roma, Salerno Editrice, 2000, pp. 539-563.
Sulle seconde edizioni autoriali è ancora fondamentale – anche se per certi aspetti
un po’ invecchiato – il lavoro di H. Emonds, Zweite Auflage im Altertum, Leipzig,
Harrassowitz, 1941 (qualche aggiornamento per gli autori greci del IV secolo a.C.
in P. M. Pinto, Per la storia del testo di Isocrate. La testimonianza d’autore, Bari,
Dedalo, 2003, pp. 157-160).
12. Si veda J. Irigoin, La critique des textes doit être historique (1981), in Id.,
La tradition des textes grecs. Pour une critique historique, Paris, Les Belles Lettres,
2003, pp. 19-36, alle pp. 20-30.
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sistematiche e neppure troppo originali, focalizzando l’attenzione


sul mio specifico campo di competenza, quello cioè della trasmis-
sione della letterura greca, anche in considerazione del fatto che,
nell’ambito della storia della tradizione delle letterature classiche
antiche, alcuni snodi storici e alcuni meccanismi della trasmissione
dei testi greci sono peculiari rispetto a quelli che hanno garantito la
sopravvivenza dei testi latini.13

13. Peculiare è, per esempio, la possibilità di localizzare i manoscritti in base


alla scrittura: grazie alla frammentazione e alle differenziazioni locali conseguenti
alla dissoluzione dell’impero romano prima e di quello carolingio poi, la paleo-
grafia latina ha avuto la possibilità di raffinare strumenti di analisi delle scritture
che permettono localizzazioni piuttosto precise, mentre la sostanziale uniformità
storico-culturale dell’impero bizantino ha fatto sì che, pur con qualche cospicua
eccezione e nonostante i notevoli passi avanti compiuti negli ultimi decenni, la
localizzazione di un manufatto su basi esclusivamente paleografiche resti ancora
largamente problematica. Meccanismi di trasmissione in parte differenti si devo-
no, inoltre, all’applicabilità limitata per lo più – pur con eccezioni – all’occidente
latino del concetto di scriptorium connesso a un monastero: si veda, per esempio,
G. Cavallo, Monachesimo greco-orientale e cultura scritta, in Il monaco, il libro,
la biblioteca, Atti del Convegno (Cassino-Montecassino, 5-8 settembre 2000), a c.
di O. Pecere, Cassino, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2003, pp.
33-43. Le differenti condizioni della trasmissione dei testi nell’Occidente latino e
nell’Oriente greco nell’ambito del cruciale snodo dell’epoca tardantica sono state
illustrate in un importante contributo del medesimo studioso: Id., Qualche osserva-
zione sulla trasmissione dei classici nella tarda antichità (1997), in Id., Dalla parte
del libro. Storie di trasmissione dei classici, Urbino, Quattro Venti, 2002, pp. 31-47.
Oppure si consideri il fenomeno della distribuzione del lavoro di copia di un model-
lo che nell’Occidente latino ha dato origine al sistema «industrialisé» della pecia,
che non trova riscontro nel mondo bizantino, dove, comunque, secondo modalità
differenti che andranno indagate e valutate nelle loro peculiarità, è ben attestata la
collaborazione tra copisti: si veda, per esempio, P. Canart, Quelques examples de
division du travail chez les copistes byzantins, in Recherches de codicologie com-
parée. La composition du codex au moyen âge en Orient et en Occident, textes éd.
par Ph. Hoffmann, Paris, Presses de l’École Normale Supériore, 1998, pp. 49-67.
Questi fenomeni, unitamente alla questione dei manoscritti miscellanei e composi-
ti, possono avere conseguenze sull’analisi stemmatica, in quanto l’avvicendarsi di
differenti scribi può essere associata a un cambiamento di modello che di per sé non
comporta un fenomeno contaminatorio, a meno che i differenti modelli utilizzati
da differenti scribi non interagiscano tra loro nelle fasi diortotiche successive alla
copia. Ogni caso, comunque, deve essere studiato facendo interagire una precisa
analisi codicologica (individuazione degli snodi materiali e delle unità codicologi-
che) e paleografica (cambi di mano e distribuzione del lavoro di copia) con quella
testuale (applicazione della stemmatica per individuare le ascendenze genealogiche

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2. Il problema della contaminazione. Riflessioni sparse


È ormai diventato topico, quando si riflette sul problema della
contaminazione nella trasmissione dei testi, partire dalla schietta di-
chiarazione di impotenza della stemmatica contro questo male incu-
rabile formulata da Paul Maas alla fine della prima appendice della
sua Textkritik: «Gegen di Kontamination ist kein Kraut gewachsen».14
Dichiarazione necessaria,15 vista l’esigenza da parte di Maas di for-
mulare regole che avessero una validità generale – le quali funziona-

o per constatare, laddove sia percepibile, la presenza di contaminazione): quest’ul-


timo aspetto resta sempre e comunque imprescindibile. Sulle tipologie dei codici
miscellanei greci si possono utilmente leggere, per i secoli IX-XII, F. Ronconi, I
manoscritti greci miscellanei. Ricerche su esemplari dei secoli IX-XII, Spoleto, CI-
SAM, 2007, e, per l’epoca paleologa, D. Bianconi, Libri e mani. Sulla formazione
di alcune miscellanee dell’età dei Paleologi, in Il codice miscellaneo. Tipologie e
funzioni, Atti del Convegno internazionale (Cassino, 14-17 maggio 2003), Cassino,
Università degli Studi di Cassino, 2004 (= «Segno e Testo», 2 [2004]), pp. 311-363
(tutto il volume resta fondamentale per le varie tipologie di manoscritti miscella-
nei greci e latini dall’antichità all’Umanesimo). Un’aggiornata messa a punto sugli
aspetti codicologici e il loro utilizzo per la ricostruzione della formazione e della
storia dei manoscritti si veda ora P. Andrist, P. Canart, M. Maniaci, La syntaxe du
codex. Essai de codicologie structurale, Turnhout, Brepols, 2013.
14. P. Maas, Textkritik, Leipzig, Teubner, 19604, p. 30. Come ha fatto notare
E. Montanari, La critica del testo secondo Paul Maas. Testo e commento, Firenze,
SISMEL - Edizioni del Galluzzo, 2003, p. 415, la frase nell’edizione originale del
1927 e nella seconda edizione del 1950 suonava così: «Gegen di Kontamination ist
noch kein Kraut gewachsen». «Contro la contaminazione non si è ancora scoper-
to alcun rimedio», nella traduzione di Nello Martinelli dell’edizione del 1950 (P.
Maas, Critica del testo, tr. di N. Martinelli, presentazione di G. Pasquali, con lo
“sguardo retrospettivo” del 1956 e con una nota di L. Canfora, Firenze, Le Monnier,
19723 [rist. 1984], p. 62). Nella terza e nella quarta edizione la scomparsa di noch
ha reso ancora più perentoria l’affermazione.
15. Almeno nella prospettiva di questa appendice, mutata rispetto a quanto
Maas stesso aveva scritto nel § 10 della Textkritik a proposito della contaminazio-
ne, nei confronti della quale aveva proposto qualche rimedio: su tutto ciò rinvio
a Montanari, La critica del testo cit., pp. 446-450. Ragionevole l’ipotesi di Mon-
tanari (p. 450), secondo il quale non è improbabile «che Maas abbia volutamente
accentuato il “colore” della sua clausola» – che propriamente, come faceva notare
Pasquali nella presentazione della traduzione italiana della Textkritik, ha una con-
notazione proverbiale e significa contro la contaminazione non è ancora cresciuta
nessuna erba – «per cautelarsi da obiezioni, precedenti o future, additanti aporie
o insufficienze della sua teorizzazione più o meno direttamente procedenti dalla
contaminazione».
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no a condizione che si verifichino certi presupposti, uno dei quali ri-


chiede proprio che la trasmissione non avvenga secondo processi di
contaminazione –, ma che vale, appunto, in generale; tuttavia, come
già sottolineava Giorgio Pasquali nella presentazione della tradu-
zione italiana della Textkritik, in casi particolari «rimedi si possono
escogitare con frutto, così come equazioni algebriche in genere in-
solubili si possono risolvere in particolari casi».16 Pasquali prosegue
con un significativo rimando alla sua Storia della tradizione, presen-
tandola come un tentativo di mostrare, fra l’altro, come ci si debba
muovere in questi “casi particolari” in cui la contaminazione può
essere affrontata con successo. Certo questo tentativo finisce poi per
dimostrare che i “casi particolari” sono in realtà assai più frequenti
di quelli “normali” e che la contaminazione impedisce assai spesso
di “chiudere” la recensio. Ma questo, tutto sommato, a mio modo
di vedere, non è poi così importante: quello che ha recentemente
scritto Michael Reeve nell’ambito di un omaggio a Sebastiano Tim-
panaro, – «a me pare che il metodo del Pasquali sia quello del Maas
ma adoperato in una maniera cauta e ben informata»17 – potrà, forse
non a torto, parere eccessivo, ma è pur vero che una stretta relazione
tra la Textkritik e la Storia della tradizione – anche a prescindere
dalle palesi e dichiarate ragioni genetiche – è innegabile. Credo si
possa, piuttosto, affermare che Pasquali ha inteso calare il metodo
“generale” di Maas nella realtà “particolare” della storia, con tutti
gli adattamenti opportuni, tra i quali la necessità di escogitare rimedi
contro la contaminazione, che nella realtà storica sembra prendere
il posto della “norma”, pur essendo considerata l’“eccezione” nella
formulazione delle regole “generali”.18

16. G. Pasquali, Presentazione, in Maas, Critica del testo cit., p. IX.


17. M. D. Reeve, Da Madvig a Maas, con deviazioni (2005), in Id., Manu-
scripts and Methods cit., pp. 45-54, p. 49.
18. Sulla complementarità tra Maas e Pasquali si veda di recente P. Trovato,
Everything you Always Wanted to Know about Lachmann’s Method. A Non-Stan-
dard Handbook of Genealogical Textual Criticism in the Age of Post-Structural-
ism, Cladistics, and Copy-Text, Padova, Libreriauniversitaria.it, 2014, pp. 67-75.
Importanti materiali che illuminano i rapporti tra i due sulla Textkritik sono stati
pubblicati e commentati da L. Bossina, «Textkritik». Lettere inedite di Maul Maas
a Giorgio Pasquali, in «Quaderni di storia», 72 (2010), pp. 257-306. Un’inte-
ressante analisi della posizione di Sebastiano Timpanaro in quest’ottica si legge
in E. Montanari, Timpanaro tra Maas e Pasquali, in Sebastiano Timpanaro e la

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Ma ci sono davvero rimedi contro la contaminazione o, in ulti-


ma analisi, bisogna dare ragione al pur parossistico aforisma maa-
siano? Credo che la risposta a questa domanda dipenda in sostanza
da due fattori, i quali, a loro volta, dipendono da due differenti punti
di osservazione del fenomeno:
(a) la tipologia e l’intensità dei processi di contaminazione.19 Il punto
di osservazione è, in questo caso, dall’alto, in una prospettiva cro-
nologica. Si deve cioè cercare di capire come il fenomeno si possa
essere verificato nel suo reale processo storico. Utilissime saranno,
dunque, le indicazioni che si possono ricavare dall’osservazione dei
fenomeni di contaminazione materialmente presenti sui manoscritti
sopravvissuti, nonché dalle notizie che su questi procedimenti tal-
volta sono fornite dai medesimi copisti/“filologi”. Di fondamentale
importanza, a questo proposito, in relazione alla trasmissione dei
testi greci, ciò che si ricava dallo studio delle procedure “ecdoti-
che” di filologi bizantini o di epoca umanistica, alcune delle quali
ricostruibili in dettaglio grazie alla sopravvivenza di trascrizioni e

cultura del secondo Novecento, a c. di E. Ghidetti e A. Pagnini, Roma, Edizioni


di Storia e Letteratura, 2005, pp. 171-197. Si ricordi, tuttavia, che Timpanaro,
il quale non nutriva grande simpatia per le tendenze astratte e formalistiche di
Maas, sosteneva che tra Maas e Pasquali si dovesse scegliere e non ci potessero
essere conciliazioni reciproche: S. Timpanaro, Recentiores e deteriores, codices
descripti e codices inutiles, in «Filologia e critica», 10 (1985), pp. 164-192, alla
p. 192. In questa direzione si muove anche L. Canfora, Filologia e libertà. La più
eversiva delle discipline, l’indipendenza di pensiero e il diritto alla verità, Mila-
no, Mondadori, 2008, pp. 60-75. Si veda anche Id., Il problema delle “varianti”
d’autore come architrave portante della Storia della tradizione di Pasquali, in
«Quaderni di storia», 75 (2012), pp. 5-29. Ma che la visione pasqualiana pre-
supponga le Textkritik di Maas è stato sostenuto anche da G. Orlandi, Apografi
e pseudo-apografi della «Navigatio Sancti Brendani» e altrove (1994), in Id.,
Scritti di filologia mediolatina cit., pp. 64-94, alle pp. 87-88 e n. 87. Cfr. anche S.
Mariotti, Rileggendo la Storia della tradizione (1952), in Id., Scritti di filologia
classica cit., pp. 601-609, alla p. 603.
19. Si veda, per esempio, C. Segre, Appunti sul problema delle contamina-
zioni nei testi in prosa, in Studi e problemi di critica testuale, Atti del Convegno di
Studi di Filologia italiana nel Centenario della Commissione per i Testi di Lingua
(7-9 aprile 1960), Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1961, pp. 63-67, a
p. 64 (per una tipologia che tenga conto di modalità, stratificazione e intensità), e
D’A. S. Avalle, Principi di critica testuale (19782), Roma-Padova, Antenore, 2002,
pp. 70-78 (per una casistica stemmatica dei possibili processi di contaminazione).
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 127

collazioni autografe e delle loro fonti dirette. Per limitarsi a un paio


di esempi, si possono ricordare quello di Massimo Planude,20 op-
pure quello della cerchia di copisti che ha lavorato, circa 150 anni
dopo, intorno al cardinale Bessarione: quest’ultimo è un case study
privilegiato, poiché da un lato conosciamo a fondo la personalità e
le motivazioni del committente, oltre a non pochi dettagli sull’atti-
vità dei collaboratori – non di rado a loro volta personalità di spes-
sore intellettuale non trascurabile –, dall’altro si conserva pressoché
intatto il frutto della sistematica operazione di recupero e restauro
di ciò che restava della civiltà ellenica all’indomani della definitiva
catastrofe che chiude il millennio bizantino (la caduta di Costanti-
nopoli del 1453), confluito nel fondo antico della Biblioteca Nazio-
nale Marciana, costituito, appunto, dal lascito del Cardinale.
(b) La visibilità di questi fenomeni. Il punto di osservazione è, in que-
sto caso – sempre in una prospettiva cronologica –, dal basso, in
quanto si parte dai dati che risultano dal processo per dipanare la
matassa e ricostruire a ritroso i meccanismi del femomeno. Biso-
gna, tuttavia, distinguere da un lato (b1) la percettibilità stemmatica
del fenomeno che si verifica, in sostanza, quando le combinazioni
degli accordi in innovazione sono “intrecciate” e consentono di
disegnare contemporaneamente più stemmi ugalmente plausibili;21
dall’altro (b2) la visibilità materiale del femomeno di contamina-
zione. La riconoscibilità di un testimone contaminato può, inoltre,
essere facilitata dalla presenza nel testo di due lezioni alternative
giustapposte o “fuse insieme” (conflatae) in textu.
In linea di massima, si potrà, inoltre, osservare che

20. La bibliografia è assai vasta. Mi limito a segnalare il contributo più recente


a mia conoscenza: G. De Gregorio, Filone Alessandrino tra Massimo Planude e
Giorgio Bullotes. A proposito dei codici Vindob. Suppl. gr. 50, Vat. Urb. gr. 125 e
Laur. Plut. 10, 23, in Handschriften- und Textforschung heute. Festschrift zu Eh-
ren von Dieter Harlfinger, hrsg. von Ch. Brockmann, Wiesbaden, Ludwig Reichert
Verlag, 2014, pp. 177-230.
21. Per una disamina completa delle possibili modalità di eliminazione di er-
rori significativi, di introduzione di errori significativi provenienti da altra fonte e
che sostituiscono la lezione del modello, di introduzione di lezione significativa da
altra fonte che si affianca a quella del modello e viene a creare una doppia lezione,
nonché per la loro avvertibilità stemmatica si veda Montanari, La critica del testo
cit., pp. 315-421.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


128 Stefano Martinelli Tempesta

A) la contaminazione che avviene nei piani bassi della trasmissio-


ne può essere o direttamente visibile grazie alla sopravvivenza
dei manoscritti in cui l’inserimento delle lezioni provenienti
da altro/i testimone/i è avvenuta per la prima volta, oppure ben
ricostruibile grazie alla sopravvivenza della maggior parte dei
manoscritti coinvolti nel fenomeno, che, se fatti correttamente
interagire, permettono di ricostruire, almeno parzialmente, alcu-
ne delle Zwischenstufen che costituiscono il luogo in cui la me-
scidanza ha avuto la sua origine;
B) benché ancora percettibile stemmaticamente, risulterà, invece,
soltanto parzialmente visibile materialmente o ricostruibile nei
suoi meccanismi la contaminazione che avviene ai piani alti del-
lo stemma, cioè in quell’area che sta tra i testimoni più antichi – o
anche recenti ma individuati, su basi stemmatiche, come primari
– e l’archetipo perduto, nel caso si possa parlare di unità della tra-
dizione, oppure i modelli perduti più antichi attingibili quali fonti
più o meno dirette dei differenti rami della tradizione medievale,
quando è impossibile una reductio ad unum;
C) del tutto invisibile materialmente e pure impercettibile stemma-
ticamente sarà la contaminazione avvenuta nella fase più antica
della trasmissione, tra l’originale e l’archetipo perduto, oppure tra
l’originale e i modelli perduti più antichi attingibili quali fonti più o
meno dirette dei differenti rami della tradizione medievale. Si trat-
ta di quella contaminazione che Pasquali chiama «contaminazione
totale pretradizionale» (Storia della tradizione cit., p. 146).22
Un buon esempio – fra i molti – di come sia possibile districarsi in
mezzo a fenomeni di contaminazione anche molto intensa e stratificata
grazie alla conservazione del manoscritto in cui questo processo si è
verificato è fornito dalla tradizione dei Dialoghi di Platone. Nella pri-
ma parte del corpus (Tetralogie I-VI), la tradizione, come è ben noto, si
articola in tre famiglie; una – la seconda – è rappresentata da un unico
testimone primario, il manoscritto della metà del sec. X uscito dal cala-
mo del monaco Efrem, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc.

22. Si vedano le osservazioni di Montanari, ibid., pp. 422-428, il quale ritiene


che tale denominazione sia più propriamente riferibile alla seconda delle possibilità
qui prospettate (essendo, però, la prima distinguibile dalle due possibilità di un
archetipo recensito e dotato di variae lectiones e di un archetipo dal quale discendo-
no, tra gli altri, testimoni che sono stati contaminati da fonti “extra-stemmatiche”).
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 129

gr. App. Class. IV 1 (coll. 542 [sigla T]), mentre le altre due, a seconda
del dialogo, possono essere costituite vuoi da un unico manoscritto,
rispettivamente la prima dal manoscritto finito di copiare nel 895 dal
calligrafo Giovanni per Areta di Cesarea, Oxford, Bodleian Library,
Clarkianus 39 (sigla B), e la seconda dal codice vergato verso la metà
del sec. XI dal cosiddetto “Anonymus K”, Wien, Österreichische Na-
tionalbibliothek, Vind. Suppl gr. 7 (sigla W), vuoi da un manipolo di
testimoni che si affiancano ai due appena nominati. Questione aperta,
sulla quale tornenemo più tardi, è se la ramificazione sia realmente
tripartita o se si debba ipotizzare un antenato perduto a monte di due
dei tre testimoni (T e W). Vorrei ora concentrare l’attenzione su un
manoscritto che per i dialoghi delle prime quattro teralogie è gemello
del Bodleiano B:23 il codice, collocabile alla fine del sec. XI o agli inizi
del XII, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 185 (coll.
576 [sigla D]). Questo importante manoscritto ha subito tre campa-
gne diortotiche che un esame diretto del codice permette di distinguere
su basi paleografiche, tenendo conto del colore degli inchiostri: una
prima campagna, realizzata da un correttore coevo al copista con in-
chiostro nero (D2), è consistita nella tipica rilettura e correzione delle
sviste dello scriba sulla base del modello; una seconda, compiuta da un
copista/“filologo” (o da un copista sotto la direzione di un “filologo”)
in età paleologa con inchiostro quasi rosso (d1), ha introdotto corre-
zioni e varianti proprie della terza famiglia, utilizzando direttamente
W, come si può dedurre dalla presenza sui margini di quest’ultimo di
supplementi a lacune, colmate grazie all’aiuto di D (un bell’esempio
di contaminazione bidirezionale);24 infine, una terza ad opera di un

23. La sintesi che propongo qui di seguito si fonda sui risultati di un riesame
della tradizione dell’Eutifrone compiuto di recente: si vedano S. Martinelli Tem-
pesta, Francesco Filelfo e il testo greco dell’Eutifrone di Platone. La posizione
stemmatica dell’Hauniensis GkS 415a, 2° e del Laurentianus Pl. 85.12 (con qualche
osservazione sui Parisini gr. 2011 e gr. 3005), in «Nea Rhome», 6 (2009), pp. 497-
529, e F. Manfrin, Studi sulla tradizione manoscritta dell’Eutifrone di Platone. La
prima famiglia, in Miscellanea Graecolatina II, a c. di L. Benedetti e F. Gallo,
Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, 2014, pp. 3-45. Per altri dialoghi,
naturalmente, i risultati possono essere parzialmente differenti, ma ciò è irrilevante
per la questione che stiamo discutendo.
24. Sul quale si veda A. Carlini, Le vicende storico-tradizionali del Vind. W
e i suoi rapporti con il Lobcoviciano e il Ven. Gr. Z 185, in Studi su codici e papiri
filosofici. Platone, Aristotele, Ierocle, Firenze, Olschki, 1992, pp. 11-35, alle pp. 19-
21; Id., Da Bisanzio a Firenze. Platone letto, trascritto, commentato e tradotto nei

Critica del testo, XVII / 3, 2014


130 Stefano Martinelli Tempesta

correttore un po’ più recente che, con un inchiostro marrone alquanto


sbiadito, ha operato utilizzando un manoscritto della seconda famiglia,
che sembra riconducibile, almeno in parte, a un celebre codice di epoca
paleologa frutto del lavoro “ecdotico” di Niceforo Moscopulo di Mas-
simo Planude, Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Vind. Phil.
gr. 21 (Y). Queste tre campagne diortotiche – soprattutto la seconda
e la terza – hanno quasi del tutto obliterato la facies originaria di D,
manoscritto che ha poi dato origine a una progenie abbastanza ricca
classificabile in quattro gruppi – prescindo qui dai descripti di ciascuno
dei manoscritti menzionati: (a) il manoscritto Bologna, Biblioteca Uni-
versitaria, Bonon. 3630, della fine del sec. XIII o degli inizi del XIV
(Bon); (b) il modello perduto (α) di København, Det Kongelige Biblio-
tek, Haun. GkS 415a, 2° (Haun), del sec. XV, e di Paris, Bibliothèque
nationale de France, Par. gr. 2011; (c) il modello perduto (ε) di Paris,
Bibliothèque nationale de France, Par. gr. 1810, vergato da Giorgio Pa-
chimere (ca. 1242-1308/1310), di Città del Vaticano, Biblioteca Apo-
stolica Vaticana, Vat. gr. 229, del sec. XIV, e di Paris, Bibliothèque na-
tionale de France, Par. gr. 2010, del sec. XIV; (d) il codice El Escorial,
Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial, Esc. Ψ.
I. 1, finito di copiare a Corfù nel 1462 da Demetrio Trivolis. Il primo
manoscritto è stato copiato da D dopo la prima campagna diortotica,
il secondo e il terzo gruppo sono stati copiati da D dopo la seconda, il
quarto dopo la terza, secondo questo stemma (semplificato):

secoli XIV e XV, in «Atti e memorie dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere


‘La Colombaria’», 62 (1997), pp. 131-143, alle pp. 135-138.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 131

Questa ricostruzione ci è consentita soltanto grazie alla sopravvi-


venza di D e alla conseguente possibilità di distinguere con precisione
le campagne dortotiche da esso subite con le relative conseguenze
sugli apografi,25 che, se D fosse andato perduto, assai difficilmente – a
parte il caso di Bon – sarebbero collocabili con precisione nello stem-
ma: saremmo soltanto in grado di dire che i manoscritti riconducibili a
α e a ε oscillano tra la prima e la seconda famiglia, mentre Esc oscilla
tra la prima, la seconda e la terza. Difficilmente saremmo in grado
di riconoscerne con certezza, non solo la discendenza da un gemello
perduto di B, ma neppure l’appartenenza alla prima famiglia, la gran
parte delle innovazioni caratteristiche della quale sono state elimina-
te mediante la collazione prima con un manoscritto appartenente alla
terza famiglia, poi con uno appartenente alla seconda. Queste due fasi
di collazione, oltre a obliterare innovazioni caratteristiche della prima
famiglia, hanno anche introdotto innovazioni caratteristiche delle altre
due. Le conseguenze sul piano puramente stemmatico sono ovvie.
Con l’esempio appena illustrato ci troviamo in piani relativa-
mente bassi dello stemma. Quando ci avviciniamo ai piani alti dello

25. Si tratta di una questione rilevante anche per il problema dell’eliminatio co-
dicum descriptorum. Fatte salve tutte le cautele necessarie per evitare eliminationes
troppo facili, e cioè dopo essere andati a caccia della prova diretta della dipendenza,
accanto all’assenza di prove della non dipendenza, perché – nei casi di presunti modelli
portatori di collazioni stratificate – l’eliminatio riesca, bisogna che le fasi diortotiche del
presunto modello siano ben distinguibili sul piano materiale (distinzioni di mani; colori
degli inchiostri, etc.) e che ci sia una sostanziale coerenza con quanto di esse è passato
nel supposto apografo: per accettare la presunzione che un testmonio B è stato copiato
da un testimonio A dopo che quest’ultimo è stato corretto una prima volta ma prima che
lo fosse una seconda, bisogna che pressoché tutte le correzioni della prima diorthosis
di A siano presenti in B e che non sia presente in B nessuna di quelle della seconda
diorthosis di A. Se si trovano solo alcune delle correzioni della prima fase diortodica di
A e anche qualcuna (a rigore anche soltanto una) di quelle della seconda fase, allora la
situazione è confusa e l’eliminatio non riesce. Si pensi alla vexata quaestio del rapporto
fra L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 32.2) e P (Città del Vatica-
no, Biblioteca Apostolica Vaticana, Palat. gr. 287 + Firenze, Biblioteca Medicea Lau-
renziana, Conv. Soppr. 172) nella serie alfabetica dei drammi di Euripide, per la quale
mi limito a rinviare a M. Magnani, La tradizione manoscritta degli Eraclidi di Euripide,
Bologna, Patron, 2000 (lo stemma a p. 241). Per un altro esempio nella trasmissione del
Corpus platonico, quello, cioè, relativo agli apografi del manoscritto Paris, Bibliothèque
nationale de France, Par. gr. 1808, del sec. XI/XII, si veda, per esempio, quanto ho
scritto in Platone, Liside, a c. di F. Trabattoni, I, ed. critica, tr. e commento filologico di
S. Martinelli Tempesta, Milano, LED, 2003, pp. 48-53.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


132 Stefano Martinelli Tempesta

stemma la visibilità concreta dei fenomeni può – anche se non sem-


pre e non necessariamente – diminuire e la difficoltà nell’interpre-
tare le costellazioni degli accordi in innovazione aumentare.26 Un
esempio istruttivo fornisce la tradizione manoscritta di Demostene.27
Sintetizzo i risultati del mio studio sui rapporti tra i testimoni prima-
ri delle due orazioni Contro Zenotemide e Contro Apaturio,28 scelte
a bella posta in considerazione della loro scarsa circolazione – de-
ducibile dall’assenza di testimonianze papiracee e dall’assai ridotto
numero di citazioni nella tradizione indiretta: una tale situazione
potrebbe, a priori, essere una parziale garanzia contro fenomeni di
contaminazioni troppo capillari. È ormai opinione condivisa che la
tradizione manoscritta demostenica non sia riconducibile a un arche-
tipo, né tardoantico, né medievale – mancano errori comuni a tutti i
manoscritti di qualità e in quantità tale da indurre a presupporlo – e
che i tre rami principali della tramissione riflettano direttamente tre
edizioni tradoantiche: nel caso delle due orazioni prese in esame,29
da un lato quello rappresentato dal celebre manoscritto Paris, Bi-
bliothèque nationale de France, Par. gr. 2934, della fine del sec. IX
o degli inizi del X (S), dall’altro quello costituito da München, Ba-
yerische Staatsbibliothek, Monac. gr. 485, del sec. IX (A), dall’altro

26. «It is a common experience that uncertainties increase towards the the top
of a stemma» dice Michael Reeve in Vegetius, Epitoma rei militaris, recognovit
brevique adnotatione critica instruxit M. D. Reeve, Oxford, University Press, 2004,
p. XXXIII, affermazione ripresa in Id. Shared Innovations cit., p. 103 n. 106. Si
veda infra il par. 4. Post scriptum.
27. La migliore trattazione di insieme sulla storia della trasmissione del Cor-
pus Demosthenicum è ancora quella da Luciano Canfora nell’Introduzione a De-
mostene, Le Filippiche e altri discorsi, a c. di L. Canfora, Torino, UTET, 1974.
Per un aggiornamento e una disamina delle questioni relative alla tradizione ma-
noscritta demostenica si vedano ora i contributi contenuti in Demosthenica libris
manu scriptis tradita. Studien zur Textüberliefrung des Corpus Demosthenicum,
hrsg. von J. Grusková uns H. Bannert, Wien, Verlag des Österreichischen Akademie
der Wissenschaften, 2014.
28. S. Martinelli Tempesta, Some Remarks about the Relationship between the
Primary Witnesses of the Corpus Demosthenicum, in Demosthenica cit., pp. 165-190.
29. I codices vetustissimi di Demostene sono in realtà una decina, ma a conte-
nere attualmente l’intero Corpus sono soltanto tre: S, A e F. Un nuovo esame paleo-
grafico e codicologico di tutti i vetustissimi è ora offerto da J. Grusková, Paläeogra-
phish-kodikologische Beobachtungen zu den vetustissimi des Demosthenes unter
philologischen Gesichtspunkten, in Demosthenica cit., pp. 263-312.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 133

ancora quello che risale al perduto antigrafo comune a Venezia, Bi-


blioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 416 (coll. 536; sigla F), del
sec. X, a Milano, Biblioteca Ambrosiana, D 112 sup. (D), della fine
del sec. X o dell’inizio del sec. XI, e a Venezia, Biblioteca Nazionale
Marciana, Marc. gr. 418, della fine del sec. X o dell’inizio del sec.
XI (coll. 312; sigla Q). Si dice che la contaminazione, già antica,
rende vani i tentativi di tracciare uno stemma e di utilizzarlo per la
constitutio textus, ma in realtà le innovazioni peculiari (separative)
rispettivamente di S, di A e di F D Q (separative nei confronti di A e
di S e congiuntive per D F Q) consentono di delineare senza troppi
problemi uno stemma di questo tenore:30

30. Senza addentrarmi nella complessa problematica della definizione del termine


archetipo, per la quale rinvio ai contributi di J. Irigoin, Quelques réflexions sur le con-
cept d’archétype (1977), in Id., La tradition cit., pp. 38-53, e di M. Reeve, Archetypes
(1987), in Id. Manuscripts and Methods cit., pp. 107-117, mi limito a dire che a me pare
stemmaticamente insensato chiudere in alto lo stemma quando esso non è ravvisabile
(mediante la presenza di innovazioni comuni a tutti i manoscritti), poiché in questo
caso la chiusura in alto verrebbe a coincidere con l’originale. Altra questione è quella
dei cosiddetti originali in movimento, problema strettamente connesso con quella delle
doppie redazioni e delle varianti d’autore: a questo pensava Maas, Critica del testo cit.,
p. 14 (= Textkritik cit., p. 10), quando affermava: «Se l’archetipo di un’intera opera
risulta completamente immune da corruttele, esso può essere l’originale, cioè la rami-
ficazione in tal caso può essere cominciata dall’originale stesso». Si spiega così perché
Pasquali (Storia della tradizione cit., pp. 16-21), criticando l’affermazione Paul Maas, il
quale, subito dopo le parole appena citate, continuava dicendo di non conoscere alcuna
opera classica di una certa estensione per la quale si fosse verificata questa possibilità,
adduceva proprio l’esempio delle due redazioni autoriali dell’Apologetico di Tertullia-
no, cosa ben diversa da quei casi in cui differenti edizioni antiche hanno dato origine ai
rami della tradizione medievale senza passare attraverso la strozzatura di un archetipo.
Naturalmente è possibile che in singoli passi – per esempio tutti quelli in cui il testo
trasmesso è concordemente sano – l’archetipo venga a coincidere con l’originale; se,
però, non si considera più il singolo passo, ma il testo nel suo complesso, la chiusura
in alto dello stemma è possibile soltanto in virtù della presenza di innovazioni comuni
a tutti i testimoni. L’oscillazione tra la prospettiva orientata sul singolo passo e quella
sull’intero testo trasmesso da un testimone è a mio parere all’origine di molti frainten-
dimenti e incomprensioni. Basti qui rinviare alle pagine dedicate da Giovan Battista
Alberti, allievo diretto di Pasquali, a spiegare i fraintendimenti dell’uso pasqualiano dei
termini “recensione chiusa” e “recensione aperta” e a sottolineare che, nella prospettiva
del singolo passo per Pasquali si poteva parlare di “recensione aperta” anche nel caso
di tradizioni con archetipo (opportuna, quindi la necessità di distinguere tra “recensio-
ne aperta” e “tradizione aperta”): G. B. Alberti, Problemi di critica testuale, Firenze,
La Nuova Italia, 1979, pp. 1-18. A questo proposito sono significative le parole che

Critica del testo, XVII / 3, 2014


134 Stefano Martinelli Tempesta

Resta, comunque, vero che la presenza di alcuni accordi incoe-


renti con questa ricostruzione e, perciò, sintomo di contaminazione,
non consente di utilizzare lo stemma per scegliere “meccanicamente”
tra lezioni adiafore che fossero – per ipotesi – attestate, per esempio
in S A vs F D Q, in S F D Q vs A, in A F D Q vs S, oppure in F o D
o Q con S o con A o con entrambi contro il resto dei testimoni. Capi-
ta anzi assai spesso che S o A siano i soli a trasmettere il testo sano
(o per lo meno quello stampato a testo degli editori).31 Fenomeni di
contaminazione sono, dunque, presenti anche in orazioni, come le due
sotto esame, che hanno verosimilmente avuto una scarsa circolazione

Sebastiano Timpanaro, anch’egli scolaro di Pasquali (anche se si era laureato con Nico-
la Terzaghi), dedica alla formulazione pasqualiana «recentiores, non deteriores» nelle
carte inedite preparatorie al suo progettato e mai realizzato manuale di critica testuale,
ora conservate presso la Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa (segnatura:
Inediti Sebastiano Timpanaro 34), la cui conoscenza debbo alla generosità e all’amici-
zia di Michele Bandini, che sta lavorando alla parziale pubblicazione di questi materiali
(una parte è già stata trascritta da una allieva di Bandini: Annamaria Vaccaro, Materiali
inediti di Sebastiano Timpanaro per un manuale di critica del testo. Trascrizione e an-
notazione, Università di Roma «La Sapienza», a. a. 2010-2011): «Relativamente raro è
il caso di codici complessivamente superiori a codici notevolmente più antichi (piccole
differenze di epoca contano naturalmente ben poco: non si chiamerà recentior un co-
dice del XIII rispetto a uno del XII); molto frequente, invece, il caso di codici recenti
complessivamente peggiori dei più antichi, ma contenenti molte singole lezioni superio-
ri. Lo slogan pasqualiano “recentiores, non deteriores” può dunque essere riformulato
così, per evitare ogni possibilità di equivoco: un codice di epoca più recente e più colta
è quasi sempre, giudicato nel suo insieme, meno fededegno di un codice di epoca più
antica e meno colta: ma ciascuna singola lezione del più recente può esser migliore della
corrispondente lezione del più antico (…). Questa formulazione corrisponde esattamen-
te, noi crediamo, al vero pensiero di Pasquali».
31. Non capita quasi mai che sia accolta a testo la lezione attestata soltanto da
F D Q o da uno (o due) dei tre, ma ciò è quasi certamente frutto della tendenza degli
editori a considerare più autorevoli S e A.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 135

al di fuori della Korpusüberlieferung. Eppure, se si considera da vici-


no quantità e qualità delle combinazioni incoerenti, ci si accorge che,
in realtà, almeno dal punto di vista della recensio, se non da quello
della constitutio textus, il fenomeno non è così ingestibile. Nel caso
della Contro Zenotemide, se ci limitiamo agli accordi verosimilmente
non poligenetici – e non frutto di facili emendazioni congetturali in un
manoscritto tali da suggerire l’impressione di un accordo in errore tra
gli altri –, si verificano le seguenti combinazioni: alcuni accordi A D
vs S F Q e F Q vs S A D che possono suggerire una contaminazione
verificatasi nell’immediato antigrafo di D a partire da un manoscritto
imparentato con A (se non A stesso), un fenomeno ben attestato anche
il altre parti del corpus; altri accordi S Q vs A D F e D F vs S A Q sem-
brano suggerire contaminazione tra Q e S (A),32 ma non è consigliabile
postulare una Zwischenstufe tra il modello comune a F D Q e Q stesso,
poiché in F si riscontra un certo numero di lezioni frutto di correzioni
perlopiù sopralineari introdotte dal copista, a quanto sembra, durante
la copiatura e che dovevano essere presenti già nel modello, lezioni
che in Q si leggono in textu. Tutto ciò suggerisce la presenza di varianti
nel modello che hanno lasciato traccia in F e in Q. Si potrebbe, quindi,
riscrivere lo stemma, tenendo conto di alcuni percorsi di contaminazio-
ne, in questo modo:

32. La connessione con A è meno sicura poiché l’accordo è in lezione esatta (o


poziore). Ma per contaminazione sono proprio le lezioni esatte (o almeno ritenute
tali dal “contaminatore”) quelle che si spostano con maggiore facilità.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


136 Stefano Martinelli Tempesta

A fronte di una situazione stemmatica di base identica (S, A, F


D Q), nella Contro Apaturio gli accordi incoerenti sono molto meno:
abbiamo soltanto un paio di accordi D F vs S A Q e cinque accordi F
Q vs S A D. Nel primo caso si potrebbe pensare a una contaminazio-
ne di Q con S (o con un manoscritto ad esso affine), ma gli elementi
di prova sono troppo pochi. Nel secondo caso, invece, è plausibile
ritenere che l’immediato antigrafo di D sia stato contaminato con S o
con A o con entrambi (o con uno o due manoscritti loro affini), ma c’è
un passo che sembra suggerire che la fonte della contaminazione sia
stata A (o un manoscritto suo affine): 37.6 (126.5) φησὶν S : φήσει A
: φήσει. τότε D : φησι τότε F Q. Si può, quindi, tracciare uno stem-
ma del tutto analogo a quello proposto per la Contro Zenotemide, ma
con una sola linea di contaminazione che da A corre verso l’imme-
diato antigrafo (perduto) di D (y). Quanto sin qui delineato si ricava
da fenomeni soltanto parzialmente visibili nella loro materialità e che
ricostruiamo sulla base di ragionamenti pertinenti alla logica stemma-
tica: si tratta cioè, anzitutto, di distinguere quanto è attribuibile alla
trasmissione verticale (in questo caso i tre rami di tradizione indivi-
duabili con buona sicurezza per il numero e la qualità e la coerenza
delle convergenze in innovazione) e quanto attribuibile alla trasmis-
sione orizzontale (accordi in innovazione incoerenti con la sicura ri-
costruzione precedente); in secondo luogo di cercare di individuare la
direzione dei processi contaminatori, distinguendo la fonte principale
da quella secondaria. Nel caso della Contro Apaturio, inoltre, è pos-
sibile verificare in F e in Q la presenza di processi di contaminazione
incipiente operata da correttori distinti dai copisti (Func e Q2), ma ad
essi coevi: in questo caso restano aperte le due posibilità: (a) i cor-
rettori reintroducono varianti e correzioni già presenti nei margini (o
negli interlinea) del modello, ma trascurate dal copista principale; (b)
i correttori sono direttamente responsabili della collazione. Nel primo
caso le costellazioni stemmatiche di queste correzioni introdotte da
Func e da Q2 suggerirebbero processi di contaminazione non soltanto
nell’immediato antigrafo di D, ma anche nel perduto modello comune
a D F Q, inducendo a reintrodurre, in qualche misura, le linee di con-
taminazione che erano risultate stemmaticamente deducibili nel caso
della Contro Zenotemide.
Una buona palestra per studiare le varie tipologie di contamina-
zione e sperimentare eventuali rimedi è costituita dal Commento di
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 137

Galeno al Trattamento delle malattie acute di Ippocrate, indagato di


recente da Antoine Pietrobelli.33 La tradizione di questo commento è
rappresentabile, secondo i risultati di Pietrobelli, con il seguente stem-
ma, che riproduco nella sua struttura essenziale,34 con una modifica
sostanziale nella struttura della famiglia β, di cui darò conto infra:

Una prima indicazione interessante ci viene fornita dalla cosid-


detta “contaminazione ippocratica”. Come spesso accade nel caso
dei commentari galenici al testo ippocratico – ma l’osservazione
può valere in generale per qualsiasi commento, una tipopogia di te-
sto che comporta la convivenza tra due entità differenti, il commento
stesso e il testo commentato – si è verificata in tutti i piani dello
stemma, seppure con intensità differenti, la tendenza a “contamina-

33. A. Pietrobelli, Contaminations dans la tradition du commentaire de Galien


au Régime des maladies aiguës d’Hippocrate, in Storia della tradizione e edizione
dei medici greci, Atti del VI Colloquio internazionale (Parigi, 12-14 aprile 2008), a
c. di V. Boudon-Millot, A. Garzya, J. Jouanna e A. Roselli, Napoli, D’Auria, 2010,
pp. 167-195.
34. Pietrobelli, Contaminations cit., p. 194.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


138 Stefano Martinelli Tempesta

re” la tradizione del testo di Galeno inserendo, completando o am-


pliando i lemmi originari utilizzando testimoni della tradizione di-
retta di Ippocrate. Il rimedio contro questo tipo di “contaminazione”
è stato trovato da Jacques Jouanna nella traduzione araba del trattato
ippocratico sul Trattamento delle malattie acute realizzata nel sec.
IX da Hunain, il quale, non disponendo direttamente del trattato di
Ippocrate si è costituito un testo a partire dai lemmi del commento
di Galeno, attingendo a uno stadio non contaminato della tradizione
manoscritta di quest’ultimo.35 Se ne ricava una preziosa lezione di
metodo, peraltro non nuova: è possibile avere una garanzia contro i
fenomeni di contaminazione in presenza di rami tradizionali costi-
tuiti da «testimoni indiretti (traduzioni, imitazioni, parafrasi, com-
menti [...]), che in virtù della diversa forma del testo, normalmente
inconfrontabile, a partire dal punto di diramazione della tradizione
diretta sono immuni da ulteriori contaminazioni».36

35. J. Jouanna, Le traité hippocratique du Régime des maladies aiguës: re-


marques sur la tradition manuscrite et sur le texte, in «Revue d’histoire des textes»,
6 (1976), pp. 1-30; Pietrobelli, Contaminations cit., pp. 169-173 (con tutti i dettagli
sulla questione, con ulteriore bibliografia e con uno stemma della “contaminazione
ippocratica” a p. 192).
36. Montanari, La critica del testo cit., p. 139. Montanari propone questa for-
mulazione commentando il primo dei due rimedi proposti già da Maas, Critica del
testo cit., p. 11 (= Textkritik cit., p. 9): «Fino a un certo punto v’è una qualche garan-
zia contro la contaminazione, se un’opera viene continuata in singoli rami della tra-
dizione sotto nome cambiato, in modo che i rami della forma primaria non sieno più
accessibili ai singoli rami della forma secondaria» («Eine gewisse Gewähr gegen
die Kontamination ist gegeben, wenn ein Werk in einzeln Überlieferungszweigen
unter verändertem Namen weitergeführt wird, so dass den einzelnen Zweigen der
sekundären Form die Zweige der primären nicht mehr zugänglich werden»). Anche
se ha a che fare più con la questione dei «recentiores, non deteriores», un interes-
santissimo caso di conservazione della tradizione genuina in un ramo “protetto”
della tradizione è stato individuato da Luigi Enrico Rossi in un passo di Alceo:
in una strofe di Alceo, tramandata oralmente almeno fino al V secolo e poi fissata
per iscritto in una silloge di carmi conviviali sopravvissuta soltanto per via indiret-
ta grazie alla testimonianza di Ateneo (archetipo conservato Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana, Marc. gr. 447 = coll. 820, del sec. IX ex. o X in., opera del
calligrafo Giovanni), la lezione esatta è conservata proprio in questo ramo di tradi-
zione indiretta, a fronte di una modifica banalizzante nel testimone della tradizione
diretta, un papiro del sec. I a.C., che riflette la recensio alessandrina. Si veda L. E.
Rossi, Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6-9 V. e carm. conv. 891 P.), in
Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 139

Su altri due aspetti della trattazione di Pietrobelli vorrei focalizzare


la mia attenzione.37
(1) Anzitutto la questione della cosiddetta “edizione” di An-
dronico Callisto rappresentata dal manoscritto autografo D (Mo-
skva, Gosudartstvennyi Istoriceskij Muzej, Bibliotheca SS. Synodi,
Mosq. gr. 465).38 Come Pietrobelli ha dimostrato, essa è il frutto del

in onore di Bruno Gentili, a c. di R. Pretagostini, Roma, Gruppo Editoriale Inter-


nazionale, 1993, I, pp. 238-246. Ricordiamo i moniti di Gianfranco Contini sulla
contaminazione (o anche emendazione) che può prodursi anche nella tradizione in-
diretta a causa degli effetti della memoria: G. Contini, Breviario di ecdotica (1986),
Torino, Einaudi, 1990, pp. 31-32, 146-147. In questo caso ad avere effetti negativi
sulla trasmissione (causati non dalla contaminazione, ma dall’emendatio dei filolo-
gi alessandrini) è stata la tradizione “scritta” diretta, dato che la tradizione indiretta
ha cessato prestissimo di essere attiva oralmente e soggetta alla memoria, una volta
fissata in forma scritta nella silloge poi confluita nei Deipnosofisti di Ateneo. Ma
le due situazioni tradizionali (la Commedia di Dante e il componimento di Alceo)
sono diametralmente opposte: una tradizione diretta sovrabbondante rispetto a una
tradizione diretta pressoché assente.
37.  Interessante, sempre nell’ambito della “contaminazione Ippocratica”, la
distinzione fra “contaminazioni antiche”, quelle verificatasi in manoscritti di Gale-
no dei secc. XIII-XIV (M, S, A), che attingono a fonti imparentate ma indipendenti
dal più antico manoscritto bizantino di Ippocrate (M = Venezia, Biblioteca Nazio-
nale Marciana, Marc. gr. 269 [coll. 533]), e “contaminazioni recenti”, come quella
verificatasi nel Paris, Bibliothèque nationale de France, Par. gr. 2165 (P), copiato
all’inizio del sec. XVI da Nicola Pachys e utilizzato come fonte dell’Aldina, per il
quale è stato possibile individuare le fonti della “contaminazione ippocratica” in
due codici ippocratici recentiores conservati (Paris, Bibliothèque nationale de Fran-
ce, Par. gr. 2141, copiato da Cesare Stratego, e Oxford, Bodleyan Library, Holk. gr.
92, vergato da un collaboratore di Costantino Mesobote): Pietrobelli, Contamina-
tions cit., pp. 172-173. Se si osserva lo stemma della contaminazione ippocratica
proposto dallo studioso (ibid., p. 194), si vede che la contaminazione antica, che
ha avuto effetti sui lemmi dei manoscritti di Galeno M, S e A attinge a una fase
della trasmissione anteriore ai più antichi manoscritti di Ippocrate conservati (A,
M, V), ma è posteriore all’archetipo (ω). Ci troviamo quindi nell’ambito di quella
contaminazione almeno parzialmente visibile e/o stemmaticamente percettibile che
si colloca nei piani alti dello stemma. Credo, tuttavia, che si dovrebbe riservare il
termine di “contaminazione antica” a una fase della trasmissione anteriore all’ar-
chetipo, quella, cioè che può emergere dall’esame dei papiri e delle pergamene
della tradizione diretta “antica” o dallo studio della tradizione indiretta.
38. Questa “edizione” è studiata in dettaglio in A. Pietrobelli, L’itinéraire de
deux manuscrits de Galien à la Renaissance, in «Revue d’histoire des textes», n.s.,
4 (2009), pp. 79-114, alle pp. 80-98.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


140 Stefano Martinelli Tempesta

sistematico utilizzo combinato di due fonti, L (Firenze, Biblioteca


Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 75.5, del sec. XII, copiato in parte
da Gioannicio e in parte dal cosiddetto scriba B, suo collaboratore)39
e C (Athos, Μονὴ τῶν Ἰβηρῶν, Ms. gr. 189, del sec. XIV).40 Dato
che né su L si trovano lezioni marginali di altra mano tratte da C, né
su C si trovano lezioni marginali di altra mano tratte da L, ci si trova
dinnanzi a due possobilità teoriche: «il faut soit supposer un modèle
intermédiaire préparatoire au manuscrit D, soit comprendre plutôt
que Kallistos avait sous les yeux les deux manuscrits sources et qu’il
effectua sa copie en prenant en considération ces deux modèles, mais

39. Su questo manoscritto si veda P. Degni, I manoscritti dello ‘scriptorium’


di Gioannicio, in «Segno e Testo», 6 (2008), pp. 179-248, alle pp. 205-207.
40.  Non condivido quanto afferma Pietrobelli, L’itinéraire cit., pp. 88-89:
«Le travail de Kallistos dénote un projet plus ambitieux: plutôt que de corrigre
le texte de C ou de L avec l’autre manuscrit (emendatio), il semble que Kallistos
ait pu parfois d’abord pratiquer une collation des deux modéles (recensio), avant
d’en venir à des conjecture personelles. Il faut dès lors envisager le manuscrit D,
non plus comme le produit de contaminations, mais comme une veritable édition
critique et voir dans la méthode de Kallistos une pratique philologique assez excep-
tionelle pour l’époque». In realtà l’operazione di Andronico Callisto, seppure più
sistematica e intensiva (a volte spregiudicata), non si differenzia in nulla, in linea
di principio, dall’emendatio ope codicum e ope ingenii, praticata già dall’epoca
ellenistica e tipica delle abitudini ecdotiche umanistiche e rinascimentali. Si veda-
no le fondamentali pagine di Timpanaro, Genesi cit., pp. 15-27, nonché i capitoli
secondo e terzo del libro di E. J. Kenney, Testo e metodo. Aspetti dell’edizione dei
classici latini e greci nell’età del libro a stampa, ed. italiana riveduta a c. di A.
Lunelli, Roma, Gruppo Editoriale Internazionale, 1995 (ed. or. Berkeley-Los An-
geles-London, University of California Press 1974), pp. 27-59, 61-96. La recensio
in senso moderno è tutt’altra cosa e se ne possono, piuttosto, ravvisare i precedenti
(seppure molto alla lontana), se non altro per l’ampiezza della ricerca di manoscritti
e l’ambizione a sistemare il testo sulla base di quanto materialmente recuperabile,
in certe iniziative “ecdotiche” di età paleologa come quelle prodotte nel milieu pla-
nudeo: si pensi, per limitarsi a un esempio soltanto, alla ri-costituzione del corpus
dei Moralia di Plurarco. In fondo Andronico non fa che procedere a una emendatio
ope codicum confrontando soltanto due testimoni, oltre a intervenire ope ingenii in
maniera piuttosto massiccia. Cambia, certo, l’intensità, ma pur sempre di contami-
nazione mista a interventi congetturali si tratta: nulla di più. Sull’attività filologica e
la produzione scritta di Andronico Callisto nel suo complesso sta preparando la sua
dissertazione dottorale Luigi Orlandi sotto la guida del prof. Christian Brockmann,
presso il Sonderforschungsbereich 950 “Manuskriptkulturen in Asien, Afrika und
Europa” dell’Universität Hamburg, istituto patrocinato dalla Deutsche Forschung-
sgemeinschaft (DFG).
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 141

aussi en proposant des conjectures pour amender le texte».41 Avrem-


mo cioè a che fare con quella tra le due modalità di contaminazione
che è normalmente considerata soltanto una possilità teorica, vista la
materiale difficoltà di realizzazione.42 Sulla questione è intervenuto
di recente Michael Reeve, pubblicando parte di un’inedita conferen-
za del 1999. Vale la pena rileggere per intero il passaggio del suo
contributo per la chiarezza con cui il problema è posto:43
Contamination may come about in one of two ways. Either variants from
elsewhere are entered in a copy already complete, whether alongside the original
text as variants or in place of it as corrections, or more than one exemplar is used
simultaneously in the production of a complete copy. These procedures can be
summed up as collation and conflation; Guglielmo Cavallo calls conflation
“contaminazione di primo grado” and collation “contaminazione di secondo
grado”.44 One might restrict the term ‘contamination’ to conflation because
collation brings about irreversible mixing only when someone makes a copy of
the annotated manuscript and adopts some of the variants – in short, only when
conflation follow collation, as collator may often have intended it to do. It would
then be necessary, however, to substitute for the original distinction a distinction
between direct and indirect conflation. Whatever terms one chooses, collation
leaves visible traces, as long as the annotated copy survives [aggiungerei
anche quando sopravvivono più copie del modello annotato che operino scelte
differenti tra le possibili varianti]; conflation doesn’t, unless the scribe jots down
rejected options. If, then, a contaminated manuscript bears no visible traces of
contamination, either conflation occurred and this manuscript could be the very
one in which it occurred, or collation occured but the annotated copy is still
waiting to be found. The distincion matters for the following reason. If ms.
1 and ms. 2 will together account of all the inherited readings of ms. 3, one
can either postulate a lost copy of. ms. 1 or ms. 2 on which someone collated
the other or else suppose that the scribe of ms. 3 had both ms. 1 and ms. 2
on his desk. In principle, then, the latter approach obviate lost manuscripts. It
will do the same even when contamination needn’t be suspected, perecisely by
postulating it; and a hard task then faces anyone who sets out to prove a later
manuscript independent of earlier manuscripts that survive.

Reeve ha perfettamente còlto il nocciolo della questione: la scelta


tra le due opzioni dipende in ultima analisi dall’atteggiamento che uno

41. Pietrobelli, Contaminations cit., p. 175.


42. Si vedano Maas, Textkritik cit., pp. 8-9, e Irigoin, La tradition cit., p. 65.
43. M. D. Reeve, A Man on a Horse, in Id., Manuscripts and Methods cit., pp.
211-219, alle pp. 213-214.
44. Il riferimento è a G. Cavallo, Dalla parte del libro. Considerazioni mini-
me (1995), in Id., Dalla parte del libro. Storie di trasmissione dei classici, Urbino,
Quattro Venti, 2002, pp. 9-13, alle pp. 11-12.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


142 Stefano Martinelli Tempesta

studioso ha nei confronti della moltiplicazione dei manoscritti perduti.


Come Reeve ammette, non è possibile dimostrare che la possibilità
di un utilizzo simultaneo dei due manoscritti – alla quale egli stesso
non crede – deve essere esclusa. Questo è vero sul piano strettamente
stemmatico, ma, forse, è possibile ottenere qualche risultato grazie allo
studio diretto delle modalità di lavoro dei copisti, utilizzando, cioè, gli
strumenti della Textgeschichte, che solo in determinati frangenti per-
mettono di allagare la prospettiva dalla fattispecie a una portata più
generale. Nella fattispecie, in ogni caso, mi sembrano utili i risultati
che, per esempio, sono stati ottenuti nello studio dei manoscritti greci
utilizzati dai traduttori in latino di età umanistica. Non è infrequente
il caso in cui, anche quando siano sopravvissuti manoscritti annotati
dai traduttori, il grado e la modalità di contaminazione che traspaiono
dalle traduzioni – pur con tutte le cautele necessarie nella ricostru-
zione di un testo a partire dalla sua versione in una lingua differente,
soprattutto quando si ha a che fare con le traduzoni oratorie fedeli di
epoca umanistica, ben diverse della versioni ad verbum del Medioevo
– impongono di postulare l’esistenza di quaderni di lavoro perduti.
Si pensi, per esempio, alle traduzioni platoniche di Marsilio Ficino.45
Altro caso significativo, che mi è capitato di studiare direttamente,46
è quello dell’Eutifrone platonico, tradotto in latino da Francesco Fi-
lelfo: sopravvivono due manoscritti direttamente riconducibili al To-
lentinate o alla sua cerchia di allievi, Firenze, Bilioteca Medicea Lau-
renziana, Laur. Plut. 85.12 e København, Det Kongelige Bibliotek,
Haun. GkS 415a, 2° (Haun), ma la traduzione non può essere stata
direttamente condotta su questi due manoscritti, poiché da un lato si
nota qualche traccia di infiltrazioni da almeno un altro manoscritto
(forse Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Conv. Soppr. 78) e
dall’altro Haun è posteriore alla traduzione. Dato che, inoltre, Haun è,

45. Mi limito a rinviare a E. Berti, Osservazioni filologiche alla versione del Filebo
di Marsilio Ficino, in Il Filebo di Platone e la sua fortuna, Atti del Convegno di Napoli
(4-6 novembre 1993), a c. di P. Cosenza, Napoli, D’Auria, 1996, pp. 93-167, S. Marti-
nelli Tempesta, La tradizione testuale del Liside di Platone, Firenze, La Nuova Italia,
1997, pp. 155-177, E. Berti, Marsilio Ficino e il testo greco del Fedone di Platone, in
Les traducteurs au travail. Leur manuscrits et leur méthodes, Actes du Colloque (Erice,
30 sept.-6 oct. 1999), éd. par J. Hamesse, Turnhout, Brepols, 2002, pp. 349-425.
46. Platonis Euthyphron Francisco Philelfo interprete, Lysis Petro Candido
Decembrio interprete, a c. di S. Martinelli Tempesta, Firenze, SISMEL - Edizioni
del Galluzzo, 2009, pp. 14-37, e Id., Francesco Filelfo cit., pp. 526-529.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 143

per l’Eutifrone, copia indiretta di Venezia, Biblioteca Nazionale Mar-


ciana, Marc. gr. 185 (coll. 576; sigla D) – manoscritto di cui abbiamo
già avuto occasione di parlare supra –, ma ha avuto qualche contatto
frutto di contaminazione anche con uno dei due manoscritti Venezia,
Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 590 (coll. 908), e Firenze,
Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 85.9,47 è lecito tracciare
il seguente stemma, dove i due manoscritti non conservati γ e φ (vero-
similmente brogliacci di lavoro assai in disordine, utilizzabili soltanto
da chi li aveva trascritti e per questa ragione facilmente perduti)48 sono
da postulare non tanto per ragioni stemmatiche quanto a partire da
considerazioni storico-testuali:

47. Non sarà un caso che l’unico altro dialogo platonico contenuto nel codice
di København, il Simposio, presenta un testo frutto di conflazione tra questi due ma-
noscritti: si veda Ch. Brockmann, Die handschriftliche Überlieferung von Platons
Symposion, Wiesbaden, L. Reichert Verlag, 1992, pp. 146-149.
48. Di notevole interesse a questo proposito l’osservazione di D. Harlfinger,
Die Textgeschichte der pseudo-aristotelischen Schrift ΠΕΡΙ ΑΤΟΜΩΝ ΓΡΑΜΜΩΝ.
Ein kodikologich-kulturgeschichtlicher Beitrag zur Klärung der Überlieferung-
sverhältnisse im Corpus Aristotelicum, Amsterdam, Hakkert, 1971, pp. 317-318,
secondo il quale si può spiegare la scomparsa della gran parte dei manoscritti in
cui le collazioni sono state materialmente effettuate, soprattutto quando si tratta di
collazioni intensive e stratificate, se si pensa al caso dei manoscritti passati in tipo-
grafia e utilizzati direttamente come Drückvorlagen per le editiones principes. Tale
osservazione è ripresa anche da Pietrobelli, Contaminations cit., p. 185.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


144 Stefano Martinelli Tempesta

Di recente gli studi di Luigi Orlandi hanno portato alla luce un


nuovo manoscritto senofonteo annotato da Francesco Filelfo (Ber-
lin, Staatsbibliothek, Berol. Phillipps 1627 [Berol]), che completa
il quadro tracciato da Jeroen de Keyser sulla fonte greca della tra-
duzione filelfiana della Ciropedia, dallo studioso belga identificata
con Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 55,19
(Laur). Emerge anche in questo caso una traduzione condotta su
un testo frutto della contaminazione incrociata di due codici greci
sui margini di entrambi i quali Filelfo ha annotato variae lectiones
provenienti dall’altro manoscritto:49 qui, per dirla con Reeve, la
collazione incrociata ha lasciato tracce visibili ad opera del respon-
sabile della mescidanza, mentre la conflazione sarebbe avvenuta
in occasione della traduzione latina.50 Gli esempi si potrebbero
moltiplicare, ma, per tornare al caso specifico dell’edizione del
Commento di Galeno al Trattamento delle malattie acute di Ippo-
crate realizata da Andronico Callisto, analizzato da Pietrobelli, è
opportuno sottolineare la circostanza – che non ho potuto verifi-
care personalmente – che sui due manoscritti antigrafi del codice
copiato da Andronico non viene segnalata la presenza della sua
mano. Non sono infrequenti casi in cui manoscritti direttamente
utilizzati da Andronico recano scolii o variae lectiones o proposte
di emendazione di suo pugno. Non dobbiamo, inoltre, dimenticare
che la dimostrazione della derivazione diretta di un manoscritto
da un altro è impossibile per via stemmatica e che le prove dirette
della dipendenza non comportano necessariamente una dipendenza
diretta: pure in presenza di errori nell’apografo che si spiegano
soltanto a partire dall’antigrafo, bisogna verificare anche l’assenza

49. Su tutta la questione rinvio al contributo di L. Orlandi, In margine alla tra-


duzione di Filelfo della Ciropedia, di prossima pubblicazione in «Studi medievali
e umanistici». Per l’identificazione del manoscritto Laurenziano quale fonte della
versione filelfiana della Ciropedia si veda Francesco Filelfo, Traduzioni da Seno-
fonte e Plutarco. Respublica Lacedaemoniorum, Agesialus, Lycurgus, Numa, Cyri
Paedia, a c. di J. De Keyser, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2012, pp. LIV-LVIII.
50. Ma non si può escludere di per sé la possibilità che Filelfo, prima di proce-
dere materialmente con la traduzione si sia trascritto ad uso personale un brogliaccio
di lavoro in cui si sarebbero verificate sia la conflazione delle due memorie testuali
sia l’introduzione di ulteriori emendationes ope ingenii, per le quali, d’altro canto, è
in qualche frangente possibile pensare a emendazioni inserite inter vertendum.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 145

di indizi che inducano a interporre una Zwischenstufe perduta tra


i due codici. Un’utile indicazione, in questi casi, si può ricava-
re dalla conoscenza precisa delle vicende storiche dei manoscritti
coinvolti: se sappiamo esattamente quando e dove un codice era
effettivamente disponibile, possiamo ritenere verosimile l’ipotesi
di un suo utilizzo diretto. Il fatto è che di entrambi i manoscritti le
cui memorie testuali sono state mescolate da Andronico Callisto
nel codice di Mosca (D) non si conoscono con precisione le vicen-
de. Dei manoscritti di Gioannicio, sappiamo che la maggior parte
– soprattutto quelli di contenuto medico e filosofico – sono giunti
in Italia (a Pisa) con Burgundio entro la metà del secolo XII;51 il
suo codice con Euripide e Sofocle (Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Laur. Plut. 31.10) a Firenze fu nelle mani di Leon-
zio Pilato, il quale tra il 1360 e il 1362 tradusse l’Ecuba e da quel
manoscritto trasse di suo pugno una copia che forse è appartenuta
a Giovanni Boccaccio (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana,
Laur. San Marco 266);52 un manoscritto, Firenze, Biblioteca Medi-
cea Laurenziana, Conv. Soppr. 192, faceva parte della collezione di
Antonio Corbinelli; si riscontrano, inoltre, tracce sporadiche della
presenza di alcuni di essi a Firenze nei primi decenni del Quattro-
cento, come nel caso di Firenze, Biblioteca Medica Laurenziana,
Laur. San Marco 695 (con scritti apologetici e dogmatici di Ata-
nasio), appartenuto a Niccolò Niccoli già prima del 1423,53 oppu-

51. Ne siamo certi per i manoscritti annotati da Burgundio, ma possiamo rite-


nerlo verosimile anche per gli altri, vista la compattezza delle loro vicende di con-
servazione: essi sono quasi tutti confluiti nella raccolta Medicea. Inoltre, se si eccet-
tua il manoscritto appartenuto ad Antonio Corbinelli (Firenze, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Conv. soppr. 192), anche quelli che non sono rimasti in Laurenziana,
hanno preso altre vie a partire dalla raccolta Medicea. Si veda Degni, I manoscritti
cit., pp. 183-189.
52. D. Speranzi, 72. Le tragedie di Euripide scritte da Leonzio Pilato e forse
appartenute a Boccaccio, in Boccaccio autore e copista, Catalogo della Mostra
(Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 11 ottobre 2013-11 gennaio 2014), a
c. di T. De Robertis, C. M. Monti, M. Petoletti, G. Tanturli e S. Zamponi, Firenze,
Mandragora, 2013, pp. 365-367.
53. Si vedano P. Degni, ‘In margine’ a Gioannicio. Nuove osservazioni e un
nuovo codice (Laur. San Marco 695), in Alethes Philia. Studi in onore di Giancarlo
Prato, a c. di M. D’Agostino e P. Degni, Spoleto, CISAM, 2010, I, pp. 321-329,
e D. Speranzi, I testimoni greci utilizzati da Poliziano. Schede descrittive, in M.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


146 Stefano Martinelli Tempesta

re di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 81.18


(con Aristotele, Ethica Nicomachea, Magna Moralia, De partibus
animalium), copiato da Gioannicio, annotato da Sozomeno da Pi-
stoia e restaurato nella sua parte iniziale da un anonimo allievo di
Manuele Crisolora.54 Alcuni dei manoscritti di questo gruppo sono
stati, poi, utilizzati come antigrafi da copisti legati alla cerchia ro-
mana del cardinale Bessarione, anche se non è sempre possibile
stabilire se essi abbiano operato a Roma o altrove (possibili in linea
teorica sia prestiti di manoscritti fiorentini a Roma, sia spostamenti
dei copisti all’occasione da Roma a Firenze).55 D’altro canto la sto-

Accame Lanzillotta, Poliziano traduttore di Atanasio. L’Epistola ad Marcellinum,


Tivoli, Tored, 2012, pp. 65-84, a p. 74.
54. Questo anonimo allievo di Crisolora è presente anche nei manoscritti Fi-
renze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 81.17 (annotazioni; Aristotele,
Ethica Nicomachea), copiato proprio da Sozomeno da Pistoia, e Laur. Plut. 29.9 (ff.
113r-132r; Tolomeo, Geographia): si veda A. Rollo, Mimetismo grafico alla scuola
di Manuele Crisolora, in I luoghi dello scrivere da Francesco Petrarca agli albori
dell’età moderna, Atti del Convegno internazionale di studio dell’Associazione ita-
liana dei Paleografi e Diplomatisti (Arezzo, 8-11 ottobre 2003), a c. di C. Tristano,
M. Calleri e L. Mangionami, Spoleto, CISAM, 2006, pp. 85-108, tavv- I-XVI, alla
p. 96. Su questo allievo di Crisolora, denominato Anonymus λ, si veda anche S.
Gentile, D. Speranzi, Coluccio Salutati e Manuele Crisolora, in Coluccio Salutati
e l’invenzione dell’Umanesimo. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze,
29-31 ottobre 2008), a c. di C. Bianca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010,
pp. 3-48, alle pp. 24-30.
55. Oltre ai due manoscritti, copiati da Giovanni Roso per Bessarione a partire
da manoscritti di Gioannicio, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr.
281 (coll. 581; sigla V), per il commento di Galeno al Trattamento delle malat-
tie acute, apografo di L (Pietrobelli, L’itinéraire cit., pp. 82-83), e Marc. gr. 279
(coll. 705), apografo di Bibliothèque nationale de France, Par. gr. 1849 (si veda
S. Fortuna, Sui manoscritti greci di Galeno appartenuti a Nicolò Leoniceno e al
cardinale Bessarione, in «In partibus Clius». Scritti in onore di Giovanni Pugliese
Carratelli, a c. di G. Fiaccadori, Napoli, Vivarium, 2006, pp. 190-211, p. 203), mi
limito a ricordare il caso di Udine, Biblioteca Arcivescovile, Ms. gr. VI, 2 (Ari-
stotele, Ethica Nicomachea, Magna Moralia), copiato a partire dal manoscritto di
Gioannicio Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 81.18, dal calamo
di Michele Ligizo, annotato da Giovanni Argiropulo e completato con i titoli da
Giovanni Roso, il quale ha poi ha utilizzato il manoscritto udinese per trascrivere
l’attuale Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 81.12: si veda Ch.
Brockmann, Zur Überlieferung der aristotelischen Magna Moralia, in Symbolae
Berolinenses für Dieter Harlfinger, heraugegeben von F. Berger, Ch. Brockmann,
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 147

ria del manoscritto del monte Athos (C) successiva alla copiatura
di D sembra seguire una strada comune a quella di D, tanto da
far sospettare a Pietrobelli che il manoscritto fosse in possesso di
Andronico e abbia seguito le sorti della dispersione della sua bi-
blioteca, viaggiando proprio insieme a D.56 Se questo è vero, è ben
possibile che Andronico abbia utilizzato questo manoscritto come
base di collazione, traendone una copia ad uso personale, sulla
quale, avendo avuto a disposizione per un certo periodo L, avrebbe
effettuato la collazione. Insomma, anche in questo caso, non siamo
autorizzati a escludere del tutto l’esistenza di un manoscritto de-
perditus nel quale la collazione sia stata materialmente effettuata
(verosimilmente da Andronico stesso) e a partire dal quale sia stata
realizzata la conflazione che ha prodotto il codice di Mosca (D), da
considerasi come una, pur incompleta, mise au net.
(2) A proposito della struttura stemmatica del ramo β in relazio-
ne ai fenomeni di contaminazione in esso riscontrabili osservo quan-
to segue. Pietrobelli distingue due tipi di contaminazione, una visi-
bile, che è quella facilmente individuabile mediante l’esame delle
stratificazioni delle correzioni operate su S utilizzando T come fonte
e di quelle realizzate su A utilizzando M come fonte, l’altra invisi-
bile perché risale ai modelli dei codici conservati, i quali presentano
accordi in errore in combinazioni incrociate che non consentono, in
apparenza, di stabilire i precisi rapporti tra questi e il “subarchetipo”
che sta all’origine di questa famiglia (β). In particolare dalla simul-
tanea presenza di errori comuni a T M, M S e S A, troppo numerosi e
significativi per essere poligenetici, Pietrobelli deduce la presenza di
tre “iparchetipi” (β1, β2, β3) derivati da β in modo indefinibile, secon-
do l’interpretazione del concetto pasqualiano di “recensione aperta”
proposto da Elio Montanari. Inoltre si riscontrano anche ulteriori
fenomeni di contaminazione con la prima famiglia (α) a monte dei
singoli T e M. Ecco come Pietrobelli rappresenta stemmaticamente
la situazione appena descritta:

G. De Gregorio, M. I. Ghisu, S. Kotzabassi, B. Noak, Amsterdam, Hakkert, 1993,


pp. 43-80, alle pp. 46, 49, 64-65.
56. Si veda Pietrobelli, L’itinéraire cit., pp. 95, 98-106.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


148 Stefano Martinelli Tempesta

Tuttavia, fatta salva l’esistenza del capostipite della seconda


famiglia (β), per dimostrare il quale è necessaria la presenza di
errori/innovazioni comuni a tutti i suoi testimoni (T M S A), e non
ci si può accontentare della sua fallace induzione fondata sulla
presenza di innovazioni/errori comuni ai manoscritti della prima
famiglia (α), a me pare che la modifica di questa parte dello stemma
di Pietrobelli, da me proposta supra, renda conto nella maniera più
economica dei probabili meccamismi di trasmissione orizzontale
che traspaiono dagli accordi incrociati. D’altra parte, non essendo
consigliabile moltiplicare gli enti praeter necessitatem, non si
capisce perché sia necessario postulare a monte di T e di M un
ulteriore anello perduto (β1) oltre a τ e μ che sono presupposti dalle
tracce di contaminazioni con la prima famiglia presenti nei soli T
e M. Vista la necessità di postulare questi due antigrafi perduti (τ e
μ), la spiegazione più ovvia della presenza simultanea di accordi T
M, M S, S A è quella di postulare a monte di ciascuno dei testimoni
– non soltanto a monte di T e M – un immediato antigrafo a sua
volta derivato dal capostipite dell’intera famiglia (β): ciascuno di
questi antigrafi è assai probabilmente il luogo dove sono avvenuti
i passaggi orizzontali di innovazioni/errori che hanno prodotto le
sopra menzionate costellazioni stemmatiche incrociate.

3. Considerazioni conclusive
Le questioni da affrontare sarebbero ancora molte, ma sono
consapevole di avere abusato della pazienza di che legge. Mi
limiterò, quindi, a poche riflessioni conclusive ben consapevole di
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 149

avere trascurato alcuni problemi non irrilevanti, come quello delle


tradizioni contaminate sovrabbondanti e difficilmente gestibili.57
(1) Da quanto sono venuto dicendo sin qui risulta evidente la
mia convinzione che la contaminazione risulti irrimediabile o quan-
do la sua intensità – magari unita a fenomeni di stratificazione – sia
tale da non permettere di distinguere più nell’apografo la fonte di-
retta da quella secondaria, oppure quando sia avvenuta in una fase
della trasmissione non attingibile per via stemmatica, sì da risul-
tare stemmaticamente impercettibile. Quanto alla possibilità stessa
di individuare e comprendere certi meccanismi di contaminazione

57. Basti pensare, per esempio, al cosiddetto Coherence-Based Genealogical


Method (CBGM) elaborato da Gerd Mink per affrontare il problema della contami-
nazione nella sterminata tradizione testuale del Nuovo Testamento: si veda, almeno,
G. Mink, Contamination, Coherence, and Coincidence in Textual Transmission:
the Coherence-Based Genealogical Method as a Complement and Corrective to
Existing Approaches, in The Textual History of the Greek New Testament. Changing
Views in Contemporary Research, ed. by K. Wachtel and M. W. Holmes, Atlanta,
Society of Biblical Literature, 2011, pp. 141-216. Per una messa a punto di tutte le
questioni metodologiche relative alla critica testuale neotestamentaria rinvio i con-
tributi contenuti nel ponderoso recentissimo volume The Text of the New Testament
in Contemporary Research. Essays on the Status Questionis, ed. by B. D. Ehrman,
M. W. Holmes, Leiden-Boston, Brill, 20132. Nell’ambito delle tradizioni testuali
di classici greci, buoni esempi di studio di tradizioni abbondanti e contaminate
forniscono le edizioni delle Rane e delle Nuvole di Aristofane frutto dell’infatica-
bile lavoro di sir Kenneth Dover: si vedano le pagine introduttive a Aristophanes,
Clouds ed. with introduction and commentary by K. J. Dover, Oxford, Clarendon
Press, 1968, pp. XCIX-CXXV, e a Aristophanes, Frogs, ed. with introduction and
commentary by K. J. Dover, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 76-104. Comple-
tano in parte lo studio della triade bizantina delle commedie di Aristofane i risultati
apprezzabili che Domenica Cisterna ha ottenuto nella disamina dei manoscritti del
secolo XIV del Pluto: D. Cisterna, I testimoni del secolo XIV del Pluto di Aristo-
fane, Firenze, University Press, 2012. Preziose indicazioni di metodo si ricavano
anche dai contributi alla tradizione manoscritta della Teogonia e delle Opere e i
giorni di Esiodo di Martin West, confluiti nelle sintesi introduttive alle sue due edi-
zioni esiodee commentate: si vedano Hesiod, Theogony, ed. with prolegomena and
commentary by M. L. West, Oxford, Clarendon Press, 1966, pp. 48-72, e Hesiod,
Works and Days, ed. with prolegomena and commentary by M. L. West, Oxford,
Clarendon Press, 1978, pp. 60-86. Sono utili anche le sue considerazioni metodo-
logiche per lo studio di tradizioni contaminate complesse in M. L. West, Textual
Criticism and Editorial Technique, Stuttgart, Teubner, 1973, pp. 37-46. Sulle poten-
zialità dell’informatica nella gestione di tradizioni abbondanti e complesse si veda
l’aggiornata messa a punto di Trovato, Everything cit., pp. 179-227.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


150 Stefano Martinelli Tempesta

e di valutare i diversi intrecci nelle costellazioni stemmatiche, bi-


sognerà anche tenere conto degli aspetti quantitativi dei fenomeni,
nonché della loro serialità,58 senza dimenticare, però, che anche in
queste analisi contano soltanto gli accordi in errore/innovazione e
che accordi in lezione esatta non provano nulla.59 Si confrontino, per

58. Molto si apprende, in proposito, dalla lettura di E. Berti, Editoria e origi-


nali. Un codice della versione di Leonardo Bruni del Fedone di Platone nella bot-
tega di Vespasiano da Bisticci, in Gli antichi e i moderni. Studi in orone di Roberto
Cardini, a c. di L. Bertolini e D. Coppi, Firenze, Polistampa, 2010, I, pp. 73-123.
59. Questa è la fondamentale ragione per la quale non funzionano, soprattutto
nel caso di tradizioni contaminate, i metodi tassonomici, che, pur in forme assai raffi-
nate, come quella elaborata da Griffith per la tradizione manoscritta di Giovenale e per
quella dei Vangeli, risalgono al metodo di Quentin: si vedano le giuste osservazioni di
West, Textual Criticism cit., pp. 46-47, e di Chiesa, Elementi cit., p. 123. Per questo
motivo è di notevole interesse l’esperimento realizzato da Hermann Weidemann nella
sua recentissima edizione critica del De intepretazione di Aristotele: Aristoteles, De
interpretatione, recognovit H. Weidemann, Berolini-Novi Eboraci, De Gruyter, 2014.
Lo studioso tedesco cerca di dipanare la contaminatissima e sovrabbondante tradizione
manoscritta dell’opuscolo che apre l’Organon aristotelico a partire da una base docu-
mentaria soltanto di poco ampliata rispetto al precedente lavoro di E. Montanari, La
sezione linguistica del Peri Hemeneias di Aristotele, I, Testo, Firenze, Università degli
Studi di Firenze-Dipartimento di Scienze dell’Antichità “Giorgio Pasquali”, 1984. Li-
mitando il discorso alla sola tradizione diretta dai sei manoscritti databili tra IX e XI
secolo utilizzati da Montanari si passa a sette, con l’aggiunta dei nuovi frammenti si-
naitici. Colpiscono i risultati diametralmente opposti ottenuti dai due studiosi a partire
dalla medesima base documentaria, che si spiegano con la differente valutazione del
significato delle convergenze: tradizione senza archetipo e irrimediabilmente conta-
minata per Montanari, il quale conclude che non è possibile tracciare alcuno stemma
e che la constitutio textus si deve basare soltanto su criteri interni; tradizione risalente
a un archetipo (da cui derivano anche le traduzioni e i commentari tardoantichi), in-
dividuato in base a una decina di “errori” comuni a tutti i testimoni, e possibilità di
riconoscere e, perciò, di rappresentare con uno stemma (invero assai complicato), le
linee essenziali di tradizione, pur in mezzo agli intrecci prodotti dai vari fenomeni di
contaminazione, grazie all’applicazione di alcune formule matematiche proprie della
teoria degli insiemi. Devo rinviare a un altro momento e ad altra sede un riesame ap-
profondito della questione: mi limito qui a osservare che, se da un lato non è sempre
condivisibile il valore congiuntivo che Weidemann attribuisce agli accordi in innova-
zione, e può quindi risultare un po’ troppo ottimistica (e in certa misura un po’ troppo
“meccanica”) l’applicazione di questo metodo a una tradizione le cui vicende storiche
sono complicate – soprattutto in virtù della popolarità e del largo utilizzo del testo nella
pratica dell’insegnamento della filosofia nella cultura tardoantica e bizantina: una tra-
dizione quanto mai “attiva” –, mi pare interessante la proposta di connettere un metodo
fondato su un criterio “matematico” (la teoria degli insiemi) con il principio logico
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 151

esempio, i seguenti stemmi teorici, che, tuttavia, corrispondono a


una situazione reale:60

la prima configurazione stemmatica corrisponde alle seguenti co-


stellazioni stemmatiche: non avremo mai accordi significativi tra B
e T, avremo, invece, accordi significativi tra B e W e tra T e W,
inoltre a conservare da soli la lezioni esatta potranno essere a volte
A, a volte T, ma mai W. Con la seconda configurazione stemmatica
avremo le medesime costellazioni della prima, con l’unica eccezio-

basilare della stemmatica, cioè la significativa convergenza in errore/innovazione. A


me pare che l’esame delle costellazioni di accordi (significativi e non indifferenti alla
convergenza in errore/innovazione) a partire dalla teoria degli insiemi risulti efficace
nell’individuazione di combinazioni sempre assenti, che permettono, almeno a grandi
linee, di cogliere la separazione tra testimoni sostanzialmente immuni da reciproci
contatti orizzontali/trasversali (in termini insiemistici si potrebbe dire la loro non par-
tecipazione al medesimo insieme). Meno efficace mi pare, invece, la dimostrazione
della maggiore “dipendenza” da un capostipite, con conseguente definizione di una
relazione “secondaria” con un altro, sulla base della percentuale maggiore o minore
di accordi di un testimone con un gruppo di manoscritti o con un altro. Insomma, lo
stemma tracciato da Weidemann (con la conseguenza ecdotica di una almeno parziale
applicazione di criteri meccanici nella scelta tra varianti adiafore) costituisce un siste-
ma perfettamente coerente e logicamente costruito in maniera ineccepibile, all’interno
del quale risultano spiegabili anche i non molti casi aberranti; non va, tuttavia, taciuto
che, soprattutto in presenza della pressoché intera gamma di combinazioni di accordi,
sono possibili anche altre ricostruzioni stemmatiche (non sarebbe forse inutile provare
a testare i risultati ottenuti da Weidemann utilizzando il criterio dell’ipotesi più econo-
mica, per il quale rinvio senz’altro a Avalle, Principi cit., pp. 82-86). Tutta la costru-
zione di Weidemann, inoltre, anche nei risultati che anche a me parrebbero plausibili
– ossia l’appartenenza di n (Milano, Biblioteca Ambrosiana, L 93 sup.; sec. IX/X) da
una lato, e di A (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. gr. 35; sec.
IX/X) e B (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Marc. gr. 201 [coll. 780]; sec. X
[a. 954]) dall’altro a due rami indipendentemente derivati dall’archetipo –, risulta va-
lida a condizione di accettare le sue valutazioni sul significato degli accordi in errore/
innovazione e questo è un problema ancora aperto.
60. Si tratta delle tre possibili ricostruzioni stemmatiche risultanti dall’esame del-
la tradizione testuale del Liside di Platone: si veda Platone, Liside, cit., pp. 19-34, 104.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


152 Stefano Martinelli Tempesta

ne che nel caso in cui siano attestate tre lezioni o l’accordo tra B e T
sia in innovazione poligenetica, sarà allora possibile che la lezione
esatta sia attestata dal solo W. Per ottenere la terza configurazione
stemmatica si dovrà stabilire con un buon grado di verosimiglianza
che gli accordi in innovazione tra B e W sono poligenetici, mentre
quelli tra T e W non lo sono.
(2) Tutti i possibili – e differenti – rimedi contro il fenomeno
si possono ricondurre, in ultima analisi, al tentativo di distinguere
ciò che si può trasmettere orizzontalmente (o trasversalmente) da
ciò che non può essere frutto di trasmissione verticale.61 Ciò può
comportare un adattamento dei criteri a seconda della tipologia di
trasmissione con cui abbiamo a che fare, fino al punto da ridurre
al minimo le innovazioni significative (che ci orienteranno nell’in-
dividuazione della trasmissione vericale, mediante congiunzioni) e
allargare al massimo le possibilità di fenomeni poligenetici o tra-
smessi per via orizzontale.62

61. Si tratta in fondo del secondo rimedio, già individuato da Maas, Critica del
testo cit., p. 11 (= Textkritik cit., p. 9): «Inoltre guasti evidenti, specialmente lacune,
vengono, sì, tramandati ulteriormente in linea retta, ma ben difficilmente per contami-
nazione» («Ferner werden offensichtliche Verderbnisse, besonders Lücken, zwar wohl
geradlinig weiter überliefert aber doch kaum je durch Kontamination übertragen»), al
quale si può anche ricondurre anche il secondo criterio escogitato da Avalle, Principi
cit., p. 81, relativo alla condivisione di varianti “microscopiche” (con l’opportuna limi-
tazione sottolineata da Montanari, La critica del testo cit., p. 140). Tentativi di isolare
ciò che si deve alla tradizione verticale hanno, a mio parere, dato buoni risultati, per
esempio, negli studi della tradizione contaminata di vari opuscoli dei Moralia di Plu-
tarco. Particolarmente istruttivi i contributi di Brian Hillyard e Fabio Vendruscolo: B.
Hillyard, The Medieval Tradition of Plutarch, De audiendo, in «Revue d’histoire des
textes», 7 (1977), pp. 1-56, F. Vendruscolo, Le ‘recensione Θ’ dei Moralia di Plutarco.
Plutarco edito da Demetrio Triclinio (?), in «Bollettino dei Classici» s. III, 13 (1992),
pp. 59-106, Id., L’edizione planudea della Consolatio ad Apollonium e le sue fonti, in
«Bollettino dei Classici», s. III, 15 (1994), pp. 29-85, Id., La Consolatio ad Apollonium
fra Mistrà (?) e Padova: apografi quattrocenteschi del Bruxellensis 18967 (b), in «Bol-
lettino dei Classici», s. III, 17 (1996), pp. 3-35, Id., Libidinosa recensio. La ‘recensione
Δ’ e il testo dei Moralia, in Plutarco. Lingua e testo, Atti dell’XI Convegno plutarcheo
della International Plutarch Society – Sezione Italiana (Milano, 18-20 giugno 2009),
a c. di G. Zanetto e S. Martinelli Tempesta, Milano, Cisalpino, 2010, pp. 143-168. Si
veda anche quanto ho osservato in S. Martinelli Tempesta, Studi sulla tradizione testua-
le del De tranquillitate animi di Plutarco, Firenze, Olschki, 2006, pp. 97-99, 145-152.
62. Esemplare in questo senso – mi si permetta lo sconfinamento nel campo
della filologia mediolatina – la recente edizione della Navigatio Sancti Brendani.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 153

(3) La rimediabilità della contaminazione crescerà con il crescere


della visibilità dei suoi meccanismi e, in questa prospettiva, come in
tutte le fasi della recensio, anche – e soprattutto – quando si tratta
di districare gli intrecci prodotti dalla contaminazione, utili contributi
alla costruzione dello stemma potranno venire dall’interazione di tutti
gli strumenti che permettono la ricostruzione delle vicende storiche
del testo e dei singoli testimoni.63 Risulterà, dunque, di fondamentale
importanza, allo scopo di individuare la direzione e la tipologia delle
contaminazioni, lo studio degli ambienti che hanno prodotto i mano-
scritti, dei metodi di lavoro dei copisti/filologi, delle possibili fonti
utilizzate.64 Non sarà poi da trascurare, nel caso di autori di cui sono
sopravvisuti corpora anche cospicui, la dinamica della formazione
di queste collezioni, che possono essere state costituite (e ricostituite
in varie occasioni) utilizzando materiali eterogenei: così si spiegano

Alla scoperta dei segreti meravigliosi del mondo, a c. di G. Orlandi e R. E. Gugliel-


metti, Firenze 2014, pp. CXXXII-CCXX.
63. Importanti sono i risultati cui si può pervenire anche nel caso di conta-
minazioni apparentemente non districabili, come quello – ed esco di nuovo dai
confini del mio orticello di grecista – del Policraticus di Giovanni di Salisbury,
studiato da Rossana Guglielmetti: R. E. Guglielmetti, La tradizione manoscritta
del Policraticus di Giovanni Di Salisbury. Primo secolo di diffusione, Firenze, SI-
SMEL - Edizioni del Galluzzo, 2005, Ead., Descripti contaminati a catena e altre
perturbazioni. L’esperienza del Policraticus di Giovanni di Salisbury, in Prassi ec-
dotiche. Esperienze editoriali su testi manoscritti e testi a stampa, a c. di A. Cadioli,
P. Chiesa, Milano, Cisalpino, 2008, pp. 117-136.
64. In mezzo all’abbondanza dei possibili esempi, vorrei ricordare i risultati che
si sono ottenuti studiando i cosiddetti “rami cretesi” delle tradizioni manoscritte di
autori greci. Fra gli altri si possono vedere gli studi di Francis Vian sul ramo k nella tra-
dizione delle Argonautiche di Apollonio Rodio: F. Vian, La recension “crétoise” des
Argonautiques d’Apollonios (1972), in Id., L’épopée posthomerique. Recueil d’études,
éd. par D. Accorinti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2005, pp. 1-29 (si veda anche
Alberti, Problemi cit., pp. 26-27). Per l’interessante ramo cretese nella tradizione dei
Moralia di Plutarco si veda quanto ho osservato in S. Martinelli Tempesta, La tradi-
zione manoscritta dei Moralia di Plutarco. Riflessioni per una messa a punto, in Gli
scritti di Plutarco: tradizione, traduzione, ricezione, commento. Atti del IX Convegno
Internazionale dell’International Plutarch Society, a c. di G. Pace e P. Volpe Cacciatore,
Napoli, D’Auria, 2013, pp. 273-288, alla p. 283 e n. 52 (con bibliografia); interessante
anche quanto emerge dallo studio di un manoscitto plutarcheo ambrosiano copiato dal
cretese Giovanni Roso: L. Leurini, La tradizione manoscritta del De Iside et Osiride
alla luce del codice Ambrosianus H 113 sup., in Gli scritti di Plutarco cit., pp. 263-
271. Molto su vari aspetti del milieu cretese si apprende dalla lettura di D. Speranzi,
Marco Musuro. Libri e scrittura, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2013.

Critica del testo, XVII / 3, 2014


154 Stefano Martinelli Tempesta

le oscillazioni tra differenti strutture stemmatiche nelle singole opere


che costituiscono un corpus, come pure i differenti gradi o le diverse
tipologie di contaminazione, che possono scaturire dall’interferenza
tra Einzelüberlieferung e Korpusüberlieferung.65
(4) Infine, se si osserva il fenomeno da un punto di vista del-
la storia della tradizione, la contaminazione, che è il risultato di
una tradizione “attiva” e non “quiescente”, può avere effetti posi-
tivi, per esempio, fornendo indicazioni preziose su localizzazioni
problematiche,66 oppure, come nel caso di contaminazioni “extra-
stemmatiche”, conservando traccia di rivoli di tradizione altrimenti
perduti.67

65. Mi limito a rinviare a quanto ho già avuto modo di osservare a proposito del-
la tradizione manoscritta platonica in Platone, Liside cit., 25-34 (con discussione della
bibiiografia precedente) e di quella dei Moralia di Plutarco in Studi, cit., 153-160, e
in La tradizione dei Moralia cit., 277-278. Importanti per le dinamiche della forma-
zione dei corpora gli studi di Irigoin sulle Vitae di Plutarco e sul corpus degli scritti
di Ippocrate: J. Irigoin, La formation d’un corpus. Un problème dans la tradition des
Vies parallèles dde Plutarque (1982-1983), in Id., Tradition cit., pp. 311-328, Id.,
Tradition manuscrite et histoire du texte. Quelques problèmes relatifs à la Collection
hippocratique (1975), in Id., Tradition cit., pp. 251-269. Un altro caso interessante è
quello del corpus delle commedie di Aristofane: uno status quaestionis sul problema
dell’archetipo e delle differenti situazioni stemmatiche nelle singole commedie in Ci-
sterna, I manoscritti cit., pp. 6-11. Sulla medesima questione nell’ambito della tradi-
zione manoscritta di Isocrate mi sia concesso di rinviare a S. Martinelli Tempesta, Dai
rotoli al codice. Tracce della formazione del Corpus isocrateo nell’Urbinate greco
111, in «Accademia Raffaello – Atti e Studi», 2 (2011), pp. 73-87.
66. Per riprendere un esempio già presentato supra, si può ricordare la vexata
quaestio dell’origine italogreca del codice Parigino S (vergato in “stile Anastasio”) o
del Monacense A (per il quale si è sospettata un’origine palestinese): i dati ricavabili
dallo studio delle contaminazioni presenti (o intuibili negli immediati antigrafi a monte
di manoscritti conservati) su alcuni manoscritti di sicura origine costantinopolitana con-
vergono sensibilmente con i risultati ottenuti da un più approfondito studio paleografico
della scrittura (si veda B. Mondrain, Le rôle de quelques manuscrits dans l’histoire du
texte de Démosthène: remarques paléographiques et philologiques, in Demosthenica
cit., pp. 199-226, alle pp. 201-205 [sul Monacense A]) o anche da un più attento vaglio
dei marginali (si veda E. Gamillscheg, Demosthenes in Konstantinopel. Zur Lokalisie-
rung von Cod. Par. gr. 2934, in Demosthenica cit., pp. 1190-198): si è indotti a conclu-
dere che, se anche non tutti i testimoni vetustissimi fossero stati prodotti a Costantinopo-
li, qui – essi o i loro modelli – si dovessero trovare assai presto. Si veda infra a n. 73.
67.  Notevoli, quanto all’individuazione di fonti “extrastemmatiche”, i risulta-
ti degli studi di Alberti e Kleinlogel sulla tradizione manoscritta di Tucidide: basti
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 155

4. Post scriptum68
Non intendo entrare nei dettagli della vexata questio del
“paradosso di Bédier”, ma è, a mio parere, innegabile che le difficoltà
che si riscontrano man mano che si risale in alto nello stemma sono
strettamente connesse da un lato con la minore visibilità diretta
dei fenomeni e con la conseguente maggiore semplificazione che
lo stemma è costretto a operare nella schematica rappresentazione
della realtà storica, dall’altro con il problema della cosiddetta
“decimazione”. Non dobbiamo dimenticare le varie catastrofi – una
per tutte il disastro prodotto sulle biblioteche costantinopolitane dai
saccheggi della quarta crociata (1204)69 – verificatesi nel corso dei

il rinvio a A. Kleinlogel, Geschichte des Thucydidestextes im Mittelalter, Berlin, De


Gruyter, 1965, pp. 33-40, 112-142, 149-161, Id., Beobachtungen zu einigen ‘recen-
tiores’ des Thukydides, Heidelberg, Winter, 1957, e a Thucydidis historiae, libri I-II,
recensuit G. B. Alberti, Romae 1972, pp. CXXXIII-CXLIII; Thucydidis historiae, libri
III-V, recensuit G. B. Alberti, Romae, Typis Officinae Polygraphicae, 1992, pp. XIII-
XIV, Thucydidis historiae, libri VI-VIII, recensuit G. B. Alberti, Romae, Typis Offici-
nae Polygraphicae, 2000, pp. XV-XXI. Lo stemma complessivo della tradizione tuci-
didea, che Alberti – recentemente scomparso –, alla fine di una lunga ma costruttiva
polemica, ha ridisegnato alla luce dei risultati degli studi di Guglielmo Cavallo (Dalla
parte del libro cit., pp. 17-18, 45, 177-180) e di Maria Jagoda Luzzatto (Itinerari di
testi antichi: un’edizione di Tucidide tra il II e il X secolo, in «Materiali e discussioni
per l’analisi dei testi classici», 30 [1993], pp. 167-203) sulle condizioni materiali di C
(Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Laur. Plut. 69.2; sec. X) – che inducono a
sostenere la sua dipendenza diretta da un modello tardoantico, precedente la traslitte-
razione (contro la posizione di Kleinlogel, di Hemmerdinger e dello stesso Alberti in
in un primo tempo) – si trova in G. B. Alberti, Precisazioni sullo stemma tucidideo, in
Harmonia. Scritti di filologia classica in onore di Angelo Casanova, a c. di G. Bastia-
nini, W. Lapini e M. Tulli, Firenze, University Press, 2012, I, pp. 9-11 (con archetipo
di V-VI sec., come già in G. B. Alberti, Altre note di un vecchio tucidideo, «Prome-
theus», 36 [2010], pp. 87-89). L’alta qualità che un testo contaminato grazie a fonti
“extrastemmatiche” può assumere spiega la paradossale ipotesi di recente sostenuta
da B. Hemmerdinger, Notes de philologie, in «Bollettino dei Classici», 26 [2005], pp.
109-111, di basare l’edizione di Tucidide soltanto su B (Città del Vaticano, Bibliote-
ca Apostolica Vaticana, Vat. gr. 126, sec. XI) e H (Paris, Bibliothèque nationale de
France, Par. gr. 1734; sec. XIV in.), i due manoscritti in cui sopravvivono gli effetti
della contaminazione con due fonti extrastemmatiche molto antiche: giuste le critiche
a questa paradossale tesi avanzate da Alberti, Precisazioni cit., p. 10.
68. Si veda supra a n. 26.
69. Anche se non l’unica, questa è assai probabilmente fra le principali ragioni
del divario numerico che spesso capita di trovare nelle tradizioni di testi greci tra

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secoli trascorsi dall’antichità all’età umanistica e rinascimentale,


epoche nelle quali nacquero sia le raccolte private di principi
e signori che hanno dato poi origine alle prime biblioteche
“pubbliche”, sia il fenomeno del collezionismo privato, anch’esso
in parte all’origine di fondi poi confluiti nelle grandi bibliotheche di
conservazione. Anche a rischio di risultare forse un poco apodittico
non voglio rinunciare a dire che, secondo me, tra le varie ragioni
proposte per spiegare la netta preponderanza degli stemmi bifidi
colgono certo in parte nel segno quelle di Sebastiano Timpanaro e,
cioè, le perturbazioni causate dai felici emendamenti congetturali
e dalla contaminazione “extrastemmatica”.70 Anche secondo G.
Orlandi la soluzione al paradosso di Bédier proposta, con cautela,

i non molti manoscritti di un autore risalenti all’epoca delle dinastie Macedone e


Comnena e il proliferare di quelli prodotti a partire dalla prima età dei Paleologi.
Ovviamente, come ho spesso ripetuto, bisognerà valutare caso per caso, ma non
si può addebitare soltanto alla sorte il risultato della disamina di Alberti su una
ottantina di tradizioni di testi greci allo scopo di verificare l’effettiva presenza di ra-
mificazioni pluripartite per le quali si potessero applicare criteri “meccanici” nella
constitutio textus: Alberti, Problemi cit., p. 94 («quasi tutte le tradizioni manoscrit-
te greche pluripartite sono rappresentate da codici piuttosto recenti»). Ora che si
dispone di un buon numero di studi approfonditi su singole tradizioni manoscritte
che scandagliano i rapporti genealogici fino ai rami più bassi dello stemma, sarà
opportuno, seguendo l’invito di Antonio La Penna, e fatto proprio da Alberti, veri-
ficare se nei rami bassi ci sia una maggiore frequenza di ramificazioni pluripartite:
A. La Penna, rec. a Timpanaro, La genesi cit., in «Critica storica», 3 (1964), 3, pp.
369-374, a p. 374.
70.  Si veda S. Timpanaro, Ancora su stemmi bipartiti e contaminazione, in
«Maia», 17 (1965), pp. 392-399, Id., La genesi cit., pp. 129-160, Id., Osservazioni
sugli stemmi bipartiti, a c. di G. W. Most, in «Belfagor», 61 (2006), 4, pp. 452-465.
Quest’ultimo contributo, pubblicato postumo e rimasto in forma di abbozzo, va letto
alla luce di quanto lo stesso Timpanaro ha scritto un una importante lettera a Paolo
Mari, pubblicata dallo stesso Mari, Introduzione all’epistolario fra un filologo e un
giurista, in Per Sebastiano Timpanaro, a c. di M. Feo (= «Il Ponte», 57 [2001], 10-
11), pp. 158-183, alle pp. 176-183. Interessante anche il suggerimento di J. Irigoin,
Stemmas bifides et états de manuscrits (1954), in Id., La tradition, cit., pp. 68-77, alle
pp. 69-76, che invita a riflettere sulle perturbazioni causate dal fatto che un modello,
dopo essere stato copiato una prima volta, può subire dei cambiamenti, che avranno
conseguenze sulle copie che verranno realizzate successivamente. Nuove prospettive
sulle perturbazioni prodotte da restauri nei modelli (conservati o perduti) emergono
dall’importante contributo di D. Bianconi, Restauri, integrazioni, implementazioni
tra storia di libri e storia di testi greci, in Il segno e il testo, a c. di L. Del Corso e A.
Stramaglia, Firenze 2015, i.c.s.
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da Timpanaro «appare di gran lunga preferibile alle altre».71 Delle


quattro conclusioni raggiunte da Michael Reeve, in polemica con
Timpanaro,72 condivido – anche se forse non avrei detto many – la
seconda («many bipartite stemmata are both textually and historically
as certain as one can hope»)73 e la quarta («stemmatic method remains
valid»); quanto alla prima («Greg’s hypothesis of decimation has
not been refuted, though it will never be confirmed [...] by purely
mathematical calculations») voglio soltanto rinviare all’interessante
argomentazione (non matematica) di Paolo Trovato, che impone
di non sottovalutare troppo il numero crescente dei manoscritti
perduti man mano che si risale in alto nello stemma;74 quanto alla
seconda («of the textual disturbances discussed by Timpanaro
interpolation is a more frequent cause of false bipartite stemmata than
contamination»), a mio parere,75 l’incomprensione tra Timpanaro e

71.  Si veda G. Orlandi, Sebastiano Timpanaro, in «Maia», 54 (2002), pp.


129-152, a p. 133.
72. M. D. Reeve, Stemmatic Method: «qualcosa che non funziona» (1986), in
Id., Manuscipts and Methods cit., pp. 27-44 (da cui si cita), alle pp. 43-44.
73. In effetti ci sono, anche per le tradizioni greche, casi in cui la rarità delle
trascrizioni prodotte da un manoscritto corrispondono alle reali circostanze storiche
della sua trasmissione. Capita spesso di verificare nello studio dei testimoni con-
servati che alcuni sono stati assai prolifici, altri assai meno o per nulla, a seconda
dall’effettiva disponibilità o anche della più o meno facile leggibilità. Sarebbe im-
metodico escludere che ciò possa essere accaduto anche nei rami alti dello stemma,
laddove si ha a che fare con testimoni perduti ricostruiti. A questo proposito, sarà
bene tenere presente che la minore o maggiore accessibilità di un manoscritto non
dipende necessariamente dalla sua collocazione in aree periferiche o provinciali: a
Costantinopoli, il cosiddetto “centro”, convivevano numerosi luoghi di produzione
o conservazione di manoscritti e la differente accessibilità dipende da fattori che
andranno di volta in volta valutati, ma non comporta necessariamente un’origine
“provinciale” del testimone. Si veda supra a n. 66.
74. Trovato, Everything cit., pp. 85-94.
75. Ma non soltanto mio. Che l’incomprensione con Reeve ruoti proprio attor-
no al concetto di contaminazione “extra-stemmatica” emerge dalla lettera di Tim-
panaro a Mori citata supra in questa nota: si veda Mori, Introduzione cit., p. 179:
«egli [scil. Reeve] non ha inteso (anche per colpa mia: mi ero espresso molto più
chiaramente in Maia 1965, riferendomi anche a uno scritto di Andrien) che cosa io
(e, mi pare, anche Dawe che, poco prima di me, aveva già usato il termine “extra-
stemmatic”, e H. Fränkel che parla di Fremdlesung) intendo per “contaminazione
extrastemmatica”. Egli prevede i due soli casi della contaminazione “al di sotto
dell’archetipo” (...) e “nell’archetipo stesso” (...). Ma io, con quel termine ho sem-

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Reeve nasce dal fatto che i due studiosi si riferivano a due tipi di
contaminazione differente: quella di cui parla Reeve è avvenuta a
valle dell’archetipo e può in molti casi produrre una diminuzione delle
innovazioni condivise, creando l’impressione di un maggior numero
di ramificazioni; quella di cui parla Timpanaro (“extrastemmatica”)
proviene da uno o più rami perduti che sopravvivono soltanto
grazie a collazioni effettuate su codici derivanti dall’archetipo: di
fronte, quindi, a una reale tripartizione a partire dall’archetipo, la
collazione parziale di uno dei tre rami con una fonte che non ne
dipende produce l’eliminazione di un errore, che era in precedenza
condiviso dai tre rami, ma che ora, essendo stato eliminato da uno
di essi, suscita l’impressione che i due rami che lo contengono siano
congiunti contro il terzo (bipartizione apparente). Anche in questo
caso fa capolino l’oscillazione tra testo nella sua integrità e singolo
passo: la contaminazione “extrastemmatica” è individuabile quando
si ha a che fare con singoli passi in cui un testimone, che dipende
nel suo complesso certamente dall’archetipo (perché in molti casi
condivide gli errori comuni all’intera tradizione), è immune da
un errore – per cui è assai improbabile pensare a una congettura
– condiviso da tutti gli altri, oppure condivide una innovazione –
non poligenetica – comune a un papiro o a un testimone indiretto.76
Se fossimo in grado – ma nella realtà di norma non lo siamo – di
ricostruire l’intero testimone fonte di questo tipo di contaminazione,
allora sì che sarebbe assurdo parlare di contaminazione “extra-
stemmatica”, poiché dovremmo semplicemente chiudere più in alto
lo stemma (e avremmo lo stemma bipartito di fatto e non apparente

pre inteso un’altra cosa: la contaminazione fuori dall’archetipo, cioè provieniente


da un ramo di tradizione perduto non derivato dall’archetipo dei manoscritti a noi
giunti». Se non fosse spesso pericolosa fonte di equivoci la modifica di termini che
sono entrati nell’uso, non sarebbe inopportuno parlare, piuttosto, di contaminazione
“extra-archetipo” o “extraarchetipica”.
76. Nel caso in cui questo accordo in innovazione di un manoscritto con un
papiro o con un testimone della tradizone indiretta non sia poligenetico, non si
dovrà ipotizzare un archetipo più antico, ma soltanto affermare che l’errore, già
antico, sia confluito nel modello del codice medievale per contaminazione extra-
stemmatica. Quando, invece, sono lezioni esatte a trasmettersi orizzontalmente/tra-
sversalmente, sarà soltanto in virtù dell’ipotesi più economica che saremo indotti a
postulare un’unica e sola fonte etrastemmatica, dato che l’accordo in lezione esatta
non prova nulla.
Contaminazioni nella trasmissione dei testi greci antichi 159

che Reeve obietta a Timpanaro); a patto, però, che anche questa


fonte condivida errori con il resto della tradizione, poiché, se essa
non contiene affatto errori, viene a coincide con l’originale (si veda
quanto ho detto supra alla nota 30); se, invece, ne contiene soltanto
di suoi propri, allora dobbiamo concludere per l’impossibilità di
chiudere in alto lo stemma e pensare che il testimone nuovo che
abbiamo ricostruito – ma si tratta di un caso meramente fittizio –
restituisca una differente edizione antica. La contaminazione di cui
parla Timpanaro, quindi, induce realmente l’impressione falsa di una
congiunzione apparente tra rami che sono in realtà nati dall’archetipo
indipendentemente l’uno dall’altro.77

77. Ritengo, quindi, ci sia molto di buono nelle argomentazioni utilizzate da


W. Lapini, Contaminazione e codices descripti, in «Giornale italiano di filologia»,
46 (1994), 1, pp. 103-132, alle pp. 109-115, per difendere la posizione di Timpanaro
dalle critiche di Reeve. La misquotation che Reeve, Manuscripts and Methods cit.,
p. 40 n. 35 («W. Lapini [...] misquotes “more likely to reduce the number of shared
errors in a tradition than to increase it” as “more likely to increase the number of
shared errors in a stemma than to reduce it”» [corsivi miei]), rimprovera a Lapini e
che indurrebbe a non tenere in alcun conto le sue argomentazioni, in quanto propo-
ste a partire da un totale fraintendimento del pensiero di Reeve, è a sua volta – se
non mi inganno – una misquotation: la frase di Reeve è in realtà composta da due
cola: «Contamination, it seems to me, is a process [a] more likely to reduce the
number of shared errors in a tradition than to increase it [b] and therefore more
likely to increase the apparent number of branches in a stemma than to reduce it».
Stando al rimprovero di Reeve, Lapini avrebbe citato, capovolgendone il significa-
to, il primo dei due cola, ma, come prova la presenza della parola «stemma» e non
«tradition», la misquotation, che è indubbiamente avvenuta, riguarda il secondo.
Lapini ha, quindi, commesso un errore materiale (da copista), ma ha perfettamente
compreso il senso dell’argomentazione di Reeve, il quale avrebbe dovuto esprimere
il suo rimprovero in questi termini: «W. Lapini [...] misquotes “more likely to in-
crease the number of apparent number of branches in a stemma than to reduce it”
as “more likely to increase the number of shared errors in a stemma than to reduce
it”» [corsivi miei]).

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