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eLa luna splendeva enorme e fredda esattamente al centro del cielo quella notte.

Non faceva
freddo, ma soffiava una brezza tagliente che si infilava sotto i cappotti e faceva rabbrividire i
passanti. Le strade di Trieste erano semideserte, e quelle poche persone che si vedevano in giro
camminavano in fretta, a testa bassa, ignorandosi, ciascuno concentrato sul proprio daffare come
si trattasse di una missione di vitale importanza.
Saverio invece se ne stava seduto su una panchina nel parco più grande della città, accanto ad uno
stagno poco profondo ma molto limpido su cui la luce della luna pioveva a chiazze attraverso i
rami. Una foglia caduta da poco da un albero galleggiava sulla superficie piatta dello stagno,
disegnando lenti cerchi, portata da chissà quale corrente invisibile; Saverio la guardava come
ipnotizzato, immaginando di guidarla attraverso il labirinto virtuale delle ombre sull’acqua.
I rumori delle auto che di tanto in tanto riempivano la strada gli arrivava come attutito, un po’ per
via dei cespugli che lo isolavano da ogni parte, ma soprattutto per quella distanza che ti separa dal
mondo quando i pensieri diventano troppo rumorosi.
Un refolo d’aria si insinuò tra la vegetazione e fece rabbrividire lo stagno increspandolo in piccole
onde regolari; la foglia subì uno scossone e si rovesciò di lato: ora, più che a una zattera,
assomigliava ad una rozza barca a vela, bizzarramente inclinata verso sinistra. Anche gli occhi di
Saverio ebbero un guizzo, e la seguirono mentre andava a sbattere contro le pietre ricoperte di
muschi scuro della sponda. Proprio come se fosse un porto, la foglia si arenò incastrandosi tra due
di questi sassi, e sembrò inclinarsi sull’acqua argentata come per riposare. Saverio decise di
lasciarla in pace, com’è giusto fare con tutte le cose che trovano il loro porto, e si rimise a giocare
a rincorrere le linee scure dei rami stampate come in negativo sullo stagno dalla luna. Sembravano
formare dei disegni veri: un manubrio di bicicletta, una gallina, un autobus senza ruote, una bocca
socchiusa … La bocca sembrava circondata da una folta barba bianca, e sormontata da un lungo
naso da greco che terminava in sopracciglia cespugliose e arcuate. Saverio aguzzò la vista: era
troppo reale per essere un semplice gioco di luci. Con lentezza estrema e quasi intimorito fece
scorrere lo sguardo sul muschio della riva che diventava gradualmente erba, finché non incontrò le
gambe della panchina di fronte alla sua e con esse un paio di stivali da pesca. Sollevò ancora gli
occhi lungo pantaloni di tela macchiati di grigio e consumati all’altezza delle ginocchia, fino
all’impermeabile grigio scuro che si appoggiava largo come un mantello su un corpo minuto, per
fermarsi all’altezza del volto, inchiodato da un paio d’occhi grigi. Saverio rabbrividì: da quanto
tempo era lì quel vecchio? Come aveva fatto ad avvicinarsi senza che lui si accorgesse
minimamente di nulla? Improvvisamente sentì il freddo del vento sul collo e sulla schiena, ma non
osò muoversi per stringersi il giubbotto. Il vecchio invece sembrava perfettamente calmo, mentre
studiava il ragazzo da dietro gli zigomi alti e senza rughe. Dopo un temo che sembrò infinito, fu lui
a rompere il silenzio con voce tenorile nonostante la raucedine della vecchiaia: - È ben strano che
un ragazzo come te se ne stia tutto solo qua fuori a quest’ora- commentò. -È ben strano anche per
lei però- rispose il ragazzo. L’uomo rise -Ah, per noi vecchi non è mai strana la solitudine, che sia in
una casa riscaldata o su una panchina buia non cambia poi molto- - Allora perché è qui?- -Perché
non dovrei essere qui?- Saverio incominciava a stufarsi di tutto quel parlare per enigmi -Per lo
stesso motivo per cui non dovrei esserci io- Il vecchio sorrise di un sorriso che prendeva tutto il
volto e che gli fece apparire una ragnatela di rughe sulla fronte e intorno agli occhi. Portava un
cappello di panno nero con una visiera corta e floscia, dal quale spuntavano ciuffi di capelli grigio
chiaro. – Hai freddo?- chiese a bruciapelo -No- -Hai i brividi però- Saverio alzò le spalle. L’altro
sorrise ancora e si aggiustò l’impermeabile troppo grande -Vuoi bere qualcosa lo stesso?- -No-
-Come vuoi- -Tanto a quest’ora non ci sono bar aperti- commentò il ragazzo, come per
giustificarsi. -Ci sono molti posti per due uomini soli che vogliono ripararsi dal vento- -Ma io non
ho mica freddo- -Ho capito. Non volevo disturbarti- -Ma no…- cercò di dire Saverio -Non
preoccuparti, non sono offeso. Andrò a portare la mia solitudine da qualche altra parte. A volte è
bene custodirla, la solitudine, dico bene?- Non era una domande, e Saverio non disse nulla; lo
guardò semplicemente alzarsi con un’agilità quasi giovanile eseguì con gli occhi la sua figura esile
che si allontanava quasi galleggiando negli abiti sformati. Il parco tornò vuoto e all’improvviso
sembrò incredibilmente buio e incredibilmente grande. Sarà la solitudine si sorprese a pensare
Saverio, e all’improvviso avvertì tutto il peso del vuoto che quella parola portava con sé. Si strinse
nella giacca e si allontanò, cercando di lasciare alle spalle l’immagine curiosa e malinconica del
vecchio. Uscito sulla strada, la luce gialla dei lampioni sovrastò quella della luna e lo riportò alla
realtà. Allungò il passo e si diresse verso la stazione, dove sapeva che chi avrebbe dovuto
attenderlo non si era probabilmente nemmeno accorto che quella sera non era rientrato. Cercò di
non far rumore per non svegliare i suoi genitori e si mise a letto tirando le coperte fino al naso
come faceva sempre. Ma attraverso fessure delle tapparelle la luce della luna continuava a
stamparsi sul muro, disegnando le ombre del volto dell’uomo del parco, che sembrava sorridergli.
Non era la prima volta che Saverio faceva fatica ad addormentarsi, però quella sera era destinata a
rimanere nella sua memoria con quella ricchezza di dettagli tipica delle prime volte della vita.
L’ombra della luna ebbe tempo di percorrere tutta la lunghezza del muro della camera e di sparire
tramontando prima che il ragazzo riuscisse a chiudere gli occhi; ma anche nel sonno lo
tormentarono i pensieri. Sognò di essere in equilibrio sul bordo dello stagno, con un impermeabile
sformato e degli stivali da pescatore. Il muschio lo faceva scivolare, ma prima di cadere nell’acqua
gelida un vento violentissimo gonfiava l’impermeabile e lo sosteneva come una grande ala da
pipistrello, facendolo pattinare sull’acqua come certi insetti di palude. E intanto lo stagno era
diventato mare, enorme ma calmo in maniera surreale; e mentre il vento lo spingeva verso
l’orizzonte scuro di nubi senza che lui potesse comandarne la direzione, ecco che dal mare
sopraggiungeva il vecchio, anche lui appeso al vento col suo impermeabile vela, e gli veniva
incontro con andatura quasi danzante. Il ragazzo voleva chiedergli spiegazioni, ma kilometri e
kilometri di mare invalicabile li separavano, e da qualche parte nell’aria -come succede spesso nei
sogni- qualcuno ripeteva come una supplica una parola: solitudine, solitudine, solitudine…
Ma Saverio aveva deciso di non lasciarsi turbare da quello strano incontro: gli avevano sempre
detto che era troppo impressionabile e incline a fantasticare, quindi aveva deciso di impegnarsi a
restare con i piedi per terra, come si conviene- pensava- ad un uomo.
Frequentava il liceo scientifico, ma lo studio e soprattutto la matematica non erano né la sua
passione né il suo forte; lui preferiva disegnare, o ascoltare la musica, o leggere. Molto spesso,
appena poteva, saliva sull’autobus 3 o 42 e andava a fare lunghe passeggiate sul carso, di cui
conosceva ogni angolo. Aveva una scatola che custodiva gelosamente dove conservava tutti i
tesori raccolti nelle sue spedizioni: c’erano una coppia di frutti di rosa canina, una pietra con un
fossile sporgente a forma di conchiglia, una piccola stalattite, una penna di gabbiano con la punta
nera…
A volte gli veniva anche voglia di aria salmastra, allora in pochi minuti era sulle rive, le percorreva
tutte a passo spedito rimanendo sempre sul bordo, sull’ultimo blocco di pietra prima del mare.
Fu durante una di quelle passeggiate che incontrò il vecchio per la seconda volta.
Si era spinto più lontano del solito, in direzione del faro invece che verso l’acquario; era una
giornata di sole abbagliante, ma fredda, una di quelle in cui l’orizzonte del mare è davvero una
linea perfetta che segna il confine dello sguardo. Lo aveva riconosciuto da lontano alla prima
occhiata, seduto su un attracco per le navi col suo impermeabile nero e il cappello di stoffa, ma
non aveva voluto cambiare strada: dopotutto, non era nessuno. Ma in cuor suo era certo che si
sarebbero riconosciuti.
Passò davanti al vecchio spiandolo con la coda dell’occhio, per non dare segni né di volerlo evitare
né di averlo riconosciuto; invece l’altro lo fissò e lo seguì con la testa, ma senza insistenza, senza
chiedere nulla, senza sottintesi. Saverio era oltre di parecchi metri, avrebbe potuto proseguire
indisturbato, ma la curiosità, o forse quell’istinto che come il vento spinge gli uomini verso il
proprio destino, ebbe la meglio: non resistette più e si voltò. Il vecchio lo stava ancora guardando;
alzò una mano e lo salutò. Aveva delle mani incredibilmente grandi, con dita nodose che non
riuscivano a distendersi del tutto; erano quasi grottesche rispetto a quel corpo da ballerina. Anche
Saverio alzò la mano, che era piccola e con le unghie mangiate, e salutò. Il vecchio gli fece cenno di
avvicinarsi, e il ragazzo si sedette accanto a lui, sull’asfalto polveroso. Tacquero, uno di quei silenzi
lunghi che non si sente la necessità di spezzare per forza. Il vecchio guardava l’acqua ondulata e
abbagliante, con le palpebre grinzose strizzate; il ragazzo guardava l’orizzonte riflesso nelle sue
pupille umide. Un gabbiano -uno solo- planò sorvolando le loro spalle e si adagiò sull’acqua; i due
lo seguirono con lo sguardo. -Ci ho pensato, sa- proruppe Saverio. -alla solitudine- -Alla
solitudine, eh?- -Sì- -Come quel gabbiano- -Sì- -Hai interrotto la mia- -Anche lei- -Vero- Ma non
era un’accusa. L’odore della salsedine arrivava a raffiche, e quando succedeva i respiri sembravano
più profondi. Saverio aspettava: toccava all’altro dire qualcosa. -Hai mia guidato una barca?-
chiese infatti quello -No, mai- -Ti piacerebbe?- -Non saprei, credo di sì…- -Anche io credo di sì-
-Ha una barca?- - Certamente- -Dove?- -Dove ho la mia casa- -è grande?- -Quanto serve e
quanto basta- -Per cosa?- -Per navigare- -è una barca per andare lontano?- -Non sono le
barche a portarti lontano. È il vento, è la corrente. È il tuo coraggio, ma soprattutto la tua paura.-
-è un marinaio?- -Oh, no- -Chi è lei?- -Tu chi diresti che sono?- -Cos’è, un indovinello adesso?-
-Credi che la risposta sia semplice, non è vero? Invece è la domanda più difficile di tutte. Gli uomini
ci mettono tutta la vita per tentare di capirlo, ma anche i pochi che ci riescono ci arrivano troppo
tardi- -Allora può dirmi semplicemente come si chiama?- -Chiamami Ulisse, se vuoi-
-D’accordo-. C’era di nuovo silenzio. Saverio si voltò verso la costa: la luce bianchissima del sole
disegnava i contorni degli alberi che coprivano l’altura e delle case che vi stavano appollaiate sopra
con una nitidezza impressionante; anche il profilo della collina contro il cielo sembrava tagliato con
una lama. Pensò che era molto bello, si rivolse al suo compagno per farglielo notare, ma lui pareva
calamitato dall’orizzonte vuoto. -Vieni con me- propose all’improvviso, senza staccare gli occhi dal
mare -Dove?- -Hai paura?- -Dovrei averne?- -No- -Allora andiamo-.
Senza aggiungere altro, il vecchio si sollevò con una lentezza che non tradiva fatica, e il ragazzo
saltò in piedi e si mise alle sua calcagna. Si incamminarono lungo la costa, oltrepassarono il porto e
giunsero ad un molo più piccolo, all’ombra di un grande edificio pieno di finestre; cinque piccole
barche ormeggiate con funi scure ondeggiavano nell’acqua quasi stagnante, che mandava un forte
odore di alghe. Il vecchio afferrò una cima, le diede uno strattone e un fuoribordo scrostato e
molto leggero si mosse verso di loro. -è con quella che hai navigato?- chiese il ragazzo con ironia

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