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RAPPORTI TRA DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO INTERNO, CON

PARTICOLARE RIFERIMENTO: A) ai rapporti tra il diritto interno ed il diritto


comunitario (Trattato istitutivo della CE del 1957, con le modifiche apportate dal
Trattato di Maastricht del 1992 e dal Trattato di Amsterdam del 1997; normativa
comunitaria derivata -regolamenti, decisioni, direttive, ecc.-), come interpretato
dalla Corte di Giustizia CE del Lussemburgo; B) ai rapporti tra il diritto interno e
la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del
1950 (e Protocolli addizionali), come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo di Strasburgo; C) ai rapporti tra le normative (come interpretate dalle
rispettive Corti) sub A e B ed ai rapporti tra dette normative e gli altri Trattati
internazionali.

A) Rapporti tra il diritto interno ed il diritto comunitario (Trattato istitutivo della CE del 1957,
con le modifiche apportate dal Trattato di Maastricht del 1992 e dal Trattato di Amsterdam del
1997; normativa comunitaria derivata -regolamenti, decisioni, direttive, ecc.-), come interpretato
dalla Corte di Giustizia CE del Lussemburgo.
Il Trattato istitutivo della Comunità Europea del 1957, con le modifiche apportate dal Trattato di
Maastricht del 1992 (entrato in vigore nel 1993) e dal Trattato di Amsterdam del 1997 (entrato in
vigore nel 1999), attribuisce all’Unione Europea una serie di competenze, esclusive o concorrenti.
In particolare, la Comunità Europea agisce in via esclusiva nel campo delle politiche comuni:
agricoltura, trasporti, rapporti commerciali con i Paesi terzi, realizzazione del mercato interno
(quest’ultima basata sulle quattro libertà fondamentali di circolazione: delle merci, dei servizi, delle
persone, dei capitali, oltre che sulla garanzia che la concorrenza in detto mercato interno non sia
falsata); tale competenza esclusiva si basa però sul principio di sussidiarietà, nel senso che la CE
interviene solo allorchè gli obiettivi dell’azione non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati
membri e possono esserlo meglio solo a livello comunitario. La Comunità Europea ha poi competenze
concorrenti nei campi del ravvicinamento delle legislazioni (che abbiano un’incidenza diretta
sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune), della politica economica e monetaria e
della politica sociale. La CE ha inoltre competenza in materia di politica estera e di sicurezza comune,
con l’obiettivo di far risaltare l’identità della Comunità nel consesso internazionale. Infine, la CE è
competente in materia di cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni.
I citati Trattati costituiscono fonti primarie del diritto della CE ossia del diritto comunitario
(sovranazionale).
Vi è poi il diritto comunitario derivato, costituito dalle ulteriori fonti normative contemplate dall’art.
249 del Trattato istitutivo e cioè: i regolamenti (di portata generale, obbligatori e direttamente
applicabili in ciascuno Stato membro), le decisioni (obbligatorie per i loro destinatari), le direttive (che
vincolano gli Stati membri quanto al risultato da raggiungere, ferma restando la loro autonomia nella
scelta delle forme e dei mezzi per raggiungerli -salvo quanto si dirà oltre-), le raccomandazioni ed i
pareri (non aventi efficacia vincolante).
La Corte di Giustizia della Comunità Europea è stata creata dal Trattato istitutivo della CE, il quale
prevede anche (all’art. 234) la sua competenza esclusiva e vincolante (per il Giudice nazionale) a
pronunciarsi sull’interpretazione del Trattato e della normativa comunitaria derivata; vige, dunque, il
principio (estraneo al nostro ordinamento interno e ben conosciuto invece dal diritto anglosassone) della
forza vincolante dei precedenti giurisprudenziali della Corte (cases-law). Questa Corte non interpreta,
invece, il diritto nazionale, né applica il diritto comunitario a fattispecie concrete.

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Lo stesso Trattato prevede che le sue norme così come i regolamenti abbiano efficacia diretta negli
ordinamenti interni degli Stati membri, secondo un rapporto di prevalenza, sicchè i Giudici nazionali
debbono disapplicare le norme interne (antecedenti o successive al Trattato), ancorchè di rango
costituzionale, contrastanti con dette norme comunitarie. Ciò è stato spiegato dalla dottrina e dalla
stessa Corte Costituzionale facendo ricorso all’art. 11 Cost., che attribuisce forza prevalente a dette
norme comunitarie (ancorchè ratificate con leggi ordinarie) sulle altre norme interne, comprese quelle
costituzionali. Ne deriva che il Giudice nazionale, qualora constati un contrasto tra norma interna e
norma comunitaria, non deve sollevare incidente di legittimità costituzionale (dovendo la Corte
Costituzionale in tal caso dichiarare irrilevante la questione), ma disapplicare direttamente la norma
interna.
Tuttavia, il Giudice nazionale, richiestone dal cittadino (il quale può in alternativa segnalare alla
Commissione CE l’incompatibilità tra una norma nazionale che gli rechi pregiudizio e la normativa
comunitaria, affinchè la Commissione decida se avviare una procedura d’infrazione ex art. 226 del
Trattato istitutivo) nel corso di una controversia, può procedere al rinvio pregiudiziale d’interpretazione
innanzi alla Corte di Giustizia CE (ex art. 234 del Trattato istitutivo) della norma comunitaria assunta
come contrastante con la norma nazionale e la decisione di quest’ultima (ossia l’interpretazione che essa
dà della norma comunitaria) sarà vincolante: trattasi di mera facoltà per gli Organi giurisdizionali non di
ultima istanza (che potranno direttamente disapplicare la norma interna, qualora ravvisino il contrasto) e
di obbligo per gli Organi giurisdizionali di ultima istanza; ma, anche in quest’ultimo caso, si ritiene che
detti Organi possano ugualmente disapplicare direttamente la norma interna se la questione è
palesemente chiara, ovvero se la norma comunitaria è già stata interpretata da altra decisione della
Corte del Lussemburgo, ovvero se la questione non è pertinente ai fini del decidere.
Quanto alle direttive, si ritiene invece necessario che lo Stato emani una legge interna che le recepisca,
non essendo altrimenti le stesse direttamente efficaci nell’ordinamento interno (ma vedi quanto si dirà
tra poco). Se, poi, questa legge riproduca in maniera inadeguata o scorretta la direttiva, il Giudice
chiamato a pronunciarsi in una determinata controversia dovrebbe, secondo la dottina prevalente,
operare prima il rinvio pregiudiziale d’interpretazione della direttiva innanzi alla Corte di Giustizia CE e
poi (se l’interpretazione così ottenuta è in contrasto con la norma nazionale) investire della questione la
Corte Costituzionale per far dichiarare l’incostituzionalità della norma interna.
Peraltro, l’art. 3 della legge costituzionale n. 59/2001 ha sostituito il previgente testo dell’art. 117 della
Costituzione, prevedendo ora il I° co. dell’art. 117 che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e
dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali” (quest’ultimo inciso è stato poi soppresso dalla nuova
disciplina sulla “devolution”, la quale tuttavia entrerà in vigore solo in caso di esito positivo del relativo
referendum confermativo). Secondo alcuni, questa nuova formulazione ribadirebbe un principio
sostanzialmente già contenuto negli artt. 10 e 11 Cost. e quindi nulla innoverebbe in materia; secondo
altri, invece, la riforma dell’art. 117 Cost. ha una portata profondamente innovativa. In quest’ultimo
senso, va segnalata la recentissima decisione della Corte Costituzionale (24/10/2005, n. 406), che ha
dichiarato l’incostituzionalità, proprio in relazione al citato art. 117, I° co. Cost., di una legge regionale
(artt. 1 e 2 della L.R. n. 14/2004 della Regione Abruzzo, in materia di zootecnia) per contrasto con una
direttiva CE (n. 2000/75/CE), da ciò potendo trarsi i seguenti corollari: in base al nuovo testo dell’art.
117, I° co. Cost., l’incostituzionalità di una norma interna (statale o regionale) per contrasto con una
direttiva CE può farsi valere anche in assenza di una legge interna che abbia recepito la direttiva (fermo
restando il fatto che il Giudice nazionale non può però disapplicare direttamente la norma interna per
contrasto con la direttiva); l’incidente di costituzionalità della norma interna può essere sollevato anche
senza avere operato previamente il rinvio pregiudiziale d’interpretazione della direttiva innanzi alla
Corte di Giustizia CE (salvo che l’interpretazione della direttiva non sia effettivamente dubbia);
l’incidente di costituzionalità della norma interna può essere sollevato anche se la direttiva è antecedente
all’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 117, I° co. Cost. (stessa cosa dovrebbe ritenersi, anche se

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la sentenza in oggetto non si pronuncia su tale punto, per le norme interne entrate in vigore prima della
modifica dell’art. 117 Cost.).

B) Rapporti tra il diritto interno e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà
Fondamentali del 1950 (e Protocolli addizionali), come interpretata dalla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, approvata a Roma
nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953, come emendata da una serie di Protocolli successivi (fino al
Protocollo n. 11, entrato in vigore nel 1998, che ha sostituito tutte le disposizioni modificate o aggiunte
dai precedenti Protocolli, laddove con legge n. 280/2005 è stato altresì ratificato il Protocollo n. 14, non
ancora operativo), è stata adottata nell’ambito del Consiglio d’Europa (sorto a Londra nel 1949, cui
aderiscono 46 Stati) e costituisce un trattato internazionale proteso a garantire ai cittadini degli Stati
aderenti una serie di diritti fondamentali, quali quello alla vita (art. 2), alla libertà e sicurezza (art. 5), ad
un processo equo (art. 6) e ad un ricorso effettivo (art. 13), al rispetto della vita privata e familiare (art.
8), al matrimonio (art. 12), alla libertà di pensiero, di coscienza e religione (art. 9), alla libertà di
espressione (art. 10), di riunione ed associazione (art. 11), al rispetto dei propri beni (art. 1 Protocollo
addizionale n. 1, come emendato dal Protocollo n. 11), all’istruzione (art. 2 Protocollo addizionale n. 1,
come emendato dal Protocollo n. 11), a libere elezioni (art. 3 Protocollo addizionale n. 1, come
emendato dal Protocollo n. 11), alla libera circolazione (art. 2 Protocollo addizionale n. 4, come
emendato dal Protocollo n. 11), all’indennizzo per detenzione iniqua (art. 3 Protocollo addizionale n. 7,
come emendato dal Protocollo n. 11), all’eguaglianza tra i coniugi (art. 5 Protocollo addizionale n. 7,
come emendato dal Protocollo n. 11), ecc., oltre a contenere una serie di divieti quali quello di tortura
(art. 3), di schiavitù e lavori forzati (art. 4), di discriminazione (art. 14), di espulsione di cittadini (art. 3
Protocollo addizionale n. 4, come emendato dal Protocollo n. 11), di espulsioni collettive di stranieri
(art. 4 Protocollo addizionale n. 4, come emendato dal Protocollo n. 11), di pena di morte (art. 1
Protocollo addizionale n. 6, come emendato dal Protocollo n. 11 ed art. 1 Protocollo addizionale n. 13),
ecc. .
La Convenzione in esame ha poi istituito, agli artt. 19 e ss., la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,
che può essere adìta o dagli Stati contraenti (come avvenne ad esempio con il ricorso presentato
dall’Olanda per violazione di diritti umani da parte del regime dei colonnelli greci) o da singoli individui,
associazioni non governative o gruppi di privati vittime di violazioni della Convenzione da parte di uno
Stato contraente. Condizioni di ricevibilità del ricorso innanzi alla Corte sono (art. 35): il previo
esaurimento delle vie di ricorso interne (a differenza dei ricorsi innanzi alla Corte di Giustizia CE), il
rispetto del termine di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva, la compatibilità del
ricorso con le disposizioni della Convenzione e la sua non manifesta infondatezza od abusività. Le
sentenze della Corte sono impugnabili in casi eccezionali entro tre mesi innanzi alla Sezione allargata
(Grande Camera), che decide in via definitiva.
Le sentenze della Corte hanno: natura dichiarativa, quanto all’accertamento della violazione di una o più
norme della Convenzione (previa loro interpretazione), cui corrisponde l’obbligo dello Stato autore
della violazione di conformarsi alle stesse (art. 46, I° co.) adottando tutte le misure, individuali (che
consistono nella restitutio in integrum in favore del ricorrente) o generali (che concernono l’emanazione
di provvedimenti validi erga omnes, laddove siasi in presenza di violazioni non episodiche), al fine di far
cessare la violazione, eliminarne le conseguenze e prevenire altre analoghe violazioni; e/o natura
costitutiva, allorchè accordano alla vittima della violazione un’equa soddisfazione (art. 41) ed in tal caso
esse costituiscono titolo esecutivo.
La sentenza della Corte viene trasmessa al Comitato dei Ministri (composto dai Ministri degli esteri
degli Stati contraenti), che ne cura l’esecuzione ai sensi dell’art. 46, 2° co. (nel nostro ordinamento, la
legge n. 12/2006 ha poi esteso anche alle sentenze della CEDU il sistema che impone di portare a
conoscenza delle Autorità nazionali le sentenze della Corte di Giustizia CE); peraltro, con l’entrata in

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vigore del Protocollo n. 14 (già ratificato in Italia con la legge n. 280/2005), il controllo sull’esecuzione
delle sentenze della CEDU verrà rimesso alla stessa Corte. In sostanza, il Comitato, nell’ambito
dell’apposito procedimento di sorveglianza, controlla se lo Stato abbia adottato delle misure individuali
o generali per conformarsi alla sentenza della Corte e se tali misure siano o meno idonee: misure quali
(quanto alle sentenze dichiarative della CEDU) l’emanazione di apposite leggi (di abrogazione, riforma,
ecc.) allorchè la violazione sia riconducibile all’esercizio (o al mancato esercizio) di attività legislativa, il
ricorso ai poteri di autotutela da parte della P.A. allorchè la violazione sia riconducibile all’esercizio di
attività amministrativa, la riapertura di procedimenti giudiziari (con relativa revisione o revocazione
delle sentenze definitive già emenate) allorchè la violazione sia riconducibile all’esercizio di attività
giurisdizionale (in Italia, era in corso di discussione parlamentare un disegno di legge che prevedeva, in
determinate ipotesi -per lo più riferite al settore penale-, la riapertura del processo, al fine di
conformarsi alle decisioni della Corte EDU; a seguito dello scioglimento del Parlamento, tale disegno è
decaduto e dovrà essere ripresentato ma potrà essere approvato con procedimento abbreviato, come da
relative previsioni dei regolamenti delle Camere). Ove le misure per conformarsi alla sentenza della
Corte non vengano adottate dallo Stato ovvero siano ritenute dal Comitato inidonee, può aprirsi un
autonomo procedimento sanzionatorio, che può giungere fino all’espulsione di detto Stato (decretata
dal Consiglio d’Europa) resosi responsabile di sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani: la
questione interessa attualmente anche l’Italia, in ordine al problema della irragionevole durata dei
processi, dato che il sistema della riparazione pecuniaria previsto dalla legge “Pinto” n. 89/2001 non
viene ritenuto risolutivo di detto problema né vengono ritenute sufficienti le recenti riforme (in materia
di procedura civile, di istituzione del Giudice di pace, ecc.).
Si pone a questo punto la questione, molto controversa, relativa al rapporto tra la Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo ed il diritto interno.
In alcuni Stati, alla Convenzione è stato espressamente attribuito rango costituzionale. In altri, un rango
intermedio tra la Costituzione e la legge ordinaria. In Italia, essa è stata ratificata con legge ordinaria, al
pari del Trattato istitutivo della CE; a differenza da quest’ultimo Trattato, tuttavia, la Convenzione
EDU non contempla la sua diretta applicabilità nel diritto interno anche in deroga alle norme nazionali
con essa contrastanti.
Sulla base di quest’ultima considerazione, un primo filone dottrinario e giurisprudenziale sostiene che
alla Convenzione EDU non sia estensibile il meccanismo di cui all’art. 11 Cost. (che, come si è visto sub
A, pone le norme del Trattato CE e quelle derivate di natura regolamentare al di sopra delle norme
interne, ivi comprese le stesse norme costituzionali), sicchè il Giudice nazionale non può disapplicare
direttamente la norma interna che ritenga contrastante con una o più disposizioni della Convenzione (e
Protocolli addizionali). Anzi, non era mancato in passato chi sosteneva che le norme della Convenzione
EDU, in quanto ratificate con legge ordinaria (n. 848/1955), potessero essere derogate da leggi
ordinarie successive; di contro, si osservava che, essendo la legge di ratifica una legge speciale
(approvata secondo la previsione di cui all’art. 80 Cost.), nessuna legge ordinaria successiva potesse
derogare alle norme della Convenzione.
E’ intervenuta poi la Corte Costituzionale (sentenza n. 10/93, in materia di taluni diritti dell’imputato
nel processo penale -e, in tema di diritto alla ragionevole durata del processo, cfr. pure la sentenza n.
78/2002-), la quale, pur ritenendo le disposizioni della Convenzione come norme di fonte atipica e come
tali immodificabili da parte di disposizioni di legge ordinaria, ha cercato di riportare i diritti nascenti
dalle norme della Convenzione nell’alveo dell’art. 2 Cost. (in termini, cfr. pure Corte Cost., n. 388/99),
che, riconoscendo i diritti inviolabili dell’uomo, non può essere modificato neppure da altre leggi di
rango costituzionale. Con la conseguenza che il Giudice interno, qualora ritenga una legge ordinaria
contrastante con una o più disposizioni della Convenzione, dovrà sollevare incidente di legittimità
costituzionale per violazione dell’art. 2 Cost. . In tal modo, i diritti dell’uomo previsti dalla
Convenzione vengono in sostanza riportati nell’alveo del diritto interno (di rango costituzionale) come
interpretato dalla stessa Corte Costituzionale (la quale terrà conto della giurisprudenza della Corte
EDU).

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Dal suo canto, la Corte di Cassazione aveva opinato, a sezioni unite (Cass., ss.uu., 5/6/2002, n. 8157, in
materia di richiesta di risarcimento di danni derivanti dal compimento di operazioni belliche da parte
dell’Italia nella ex Jugoslavia, a seguito di distruzione di un obiettivo non militare ed al decesso di alcuni
civili), che le disposizioni della Convenzione EDU, in quanto norme di diritto internazionale,
regolassero rapporti fra Stati e non tutelassero direttamente situazioni soggettive dei cittadini degli Stati
contraenti.
Tale orientamento è stato poi superato da Cass., ss.uu., 14/4/2003, n. 6853 e da Cass., ss.uu., 6/5/2003,
n. 5902 (entrambe in materia di occupazione acquisitiva), che hanno affermato il valore di fonte
normativa primaria della Convenzione EDU, la quale affida a ciascuno Stato il compito di assicurare il
godimento dei diritti riconosciuti al singolo (art. 1) richiedendo poi la garanzia dell’esistenza di un
ricorso effettivo (nel diritto interno) volto a tutelare tali diritti (art. 13). Sicchè, come leggesi nelle
relative motivazioni, “il meccanismo di tutela previsto dalla Convenzione riveste un carattere
sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali”. Su questo solco, Cass.,
ss.uu., 26/1/04, n. 1340 (in materia di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata
del processo) ha statuito che, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione
equitativa del Giudice interno deve rispettare i princìpi segnati nella Convenzione EDU, per come essa
vive nelle decisioni della Corte EDU (che fissano i relativi parametri, ai quali il Giudice interno deve
conformarsi, pur potendovi discostarsene entro un limite ragionevole), incorrendo in mancanza in una
violazione di legge denunciabile innanzi alla SC; l’accertamento dei casi simili decisi dalla Corte EDU è
un dovere d’ufficio del Giudice interno, che potrà peraltro giovarsi della collaborazione delle parti.
Sulla vigenza di questo principio di sussidiarietà, secondo cui il Giudice nazionale deve, per quanto
possibile, interpretare ed applicare il diritto interno in conformità della Convenzione EDU (secondo
l’interpretazione che ne dà la Corte EDU), insiste anche la Corte di Strasburgo (cfr. es. la decisione del
17/5/2005, nel caso Scordino c. Italia, in materia di occupazione acquisitiva). Dal principio in esame
può trarsi il corollario secondo cui tutta una serie di norme contenute nella Convenzione EDU (come
interpretate dalla Corte EDU in precedenti casi simili -non è qui invece previsto il rinvio pregiudiziale
d’interpretazione, a differenza che per la Corte di Giustizia CE-) attribuiscono direttamente dei veri e
propri diritti soggettivi ai singoli cittadini degli Stati contraenti e ciò indipendentemente dal fatto che vi
sia o meno una legge interna che le recepisca (sicchè ad es. il risarcimento da irragionevole durata del
processo sarebbe ugualmente dovuto da parte del Giudice nazionale, anche in assenza della legge Pinto
che ne ha solo regolamentato le modalità procedimentali).
Da ultimo, però, la SC (ma a sezione semplice) si è spinta ancor più in là. Nel richiamarsi a Cass., I,
19/7/2002, n. 10542 (in materia di occupazione illegittima), la quale aveva affermato in motivazione che
il Giudice interno, ove ravvisi un contrasto della disciplina nazionale con i princìpi della Convenzione
EDU, “è tenuto a dare prevalenza alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività
rispetto al caso concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna”, Cass., I,
11/3/2005, n. 5380, Cass., I, 15/2/2005, n. 3033 e Cass., I, 11/6/2004, n. 11096 (tutte in materia di
occupazione illegittima), hanno sostenuto in motivazione che “l'applicazione della Convenzione, ove
incorporata nel diritto interno, può comportare la disapplicazione delle norme interne ritenute
incompatibili, senza attendere l'intervento adeguatore del potere legislativo”. In sostanza, da
quest’ultimo più recente indirizzo giurisprudenziale potrebbero trarsi i seguenti corollari: la forza
cogente della Convenzione EDU potrebbe spiegarsi facendo ricorso all’art. 11 Cost. al pari di quanto
avviene per la normativa comunitaria (cfr. quanto già esposto sub A), sicchè le norme contenute in detta
Convenzione (come interpretate dalla Corte EDU in precedenti casi simili -forza vincolante del
precedente peraltro estranea al nostro ordinamento interno-) avrebbero forza prevalente sulle norme
interne incompatibili, comprese quelle costituzionali, che il Giudice nazionale dovrebbe direttamente
disapplicare (senza bisogno di sollevare incidente di costituzionalità); tanto varrebbe indipendentemente
dal fatto che la Convenzione EDU (a differenza del Trattato istitutivo CE) non preveda espressamente
la sua diretta applicabilità nel diritto interno anche in deroga alle norme nazionali con essa contrastanti
(tale diretta applicabilità, difatti, sarebbe implicita nel sistema, vertendosi in materia di diritti pubblici

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soggettivi fondamentali: e, del resto, con l’art. 1 della Convenzione EDU, gli Stati contraenti
“riconoscono” tali diritti fondamentali, e non “si impegnano a riconoscere” com’è per altri Trattati
internazionali); il rapporto tra la Convenzione EDU ed il diritto interno verrebbe così ad ispirarsi al
principio di prevalenza (della prima sul secondo) al pari del rapporto tra il Trattato istitutivo CE (e
normativa comunitaria vincolante derivata) ed il diritto interno.
Infine, merita anche qui fare richiamo al nuovo testo dell’art. 117, I° co. Cost. (che resterà in vigore in
caso di esito negativo del referendum sulla “devolution” -cfr. sub A-). In proposito, devesi segnalare
che, secondo taluni, che non condividono l’indirizzo della SC da ultimo esposto, sulla base di questa
nuova disposizione il Giudice nazionale, ove ravvisi un contrasto tra la norma interna e quella della
Convenzione EDU (come interpretata dalla Corte di Strasburgo in precedenti casi simili), non potrebbe
disapplicare la norma interna ma dovrebbe sollevare incidente di costituzionalità in relazione al
contrasto tra quest’ultima e l’art. 117 cit. .
Concludendo sul punto, è il caso di osservare che la tendenza (emergente dalle cennate affermazioni
contenute nelle più recenti sentenze della SC ed ispirata ad istanze di “globalizzazione” del diritto) a
spingere il principio di sussidiarietà fino a quello di prevalenza non appare del tutto condivisibile. La
Convenzione EDU, difatti (a differenza ad es. della Carta sociale europea, il cui rispetto è peraltro
rimesso al mero controllo di un Comitato europeo dei diritti sociali, che può essere adìto solo da
determinate associazioni riconosciute), esprime in chiave giuridica dei princìpi propri del liberalismo
classico (ed anche, sul piano economico, del liberismo classico: cfr. art. 1 Protocollo n. 1 -a consimili
princìpi liberisti, sul piano delle libertà economiche, risulta ispirato pure il Trattato istitutivo CE di cui si
è detto sub A-), senza quel contemperamento, notoriamente proprio invece della nostra Costituzione (in
cui i princìpi di derivazione liberale si innestano variamente con quelli propri della tradizione socialista -
anche di matrice marxista- e della tradizione solidaristica di stampo cattolico), tra i diritti civili ed i
diritti sociali della persona umana. Così, ad esempio, la Costituzione, pur tutelando e garantendo sul
piano politico e civile le libertà fondamentali dell’individuo (artt. 13 e ss.), si spinge poi a tutelare altresì
diritti della persona umana quali quello alla salute (art. 32), allo studio ed all’istruzione inferiore gratuita
(art. 34), al lavoro ed all’equa retribuzione (artt. 35 ess.), ecc., e, sul piano socio-economico, contiene
la previsione della “funzione sociale” della proprietà (di cui all’art. 42, 2° co. Cost.) e,
conseguentemente, quella secondo cui l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto
con l’“utilità sociale” (art. 41, 2° co. Cost.) e debba essere programmata e controllata per poter essere
indirizzata e coordinata “a fini sociali” (art. 41, 3° co. Cost.); previsioni, queste ultime, che risultano
invece estranee alla Convenzione (anche nell’interpretazione che ne dà la Corte EDU). Sicchè, la
cennata tendenza a spingere il principio di sussidiarietà fino a quello di prevalenza, ben lungi dal
rispondere a tendenze evolutive, potrebbe condurre a conseguenze involutive nell’ambito del nostro
ordinamento giuridico. Emblematica, al riguardo, è ad esempio la vicenda della c.d. accessione
acquisitiva, il quale istituto (di fonte giurisprudenziale ma poi anche normativa), che in qualche modo
costituisce un’applicazione del condivisibile fenomeno moderno della progressiva pubblicizzazione e
costituzionalizzazione del diritto civile (la stessa Corte Costituzionale, nella motivazione della sentenza
n. 188/95, ha affermato che questo “modo di acquisto della proprietà, previsto dall'ordinamento sul
versante pubblicistico, giustificato da un bilanciamento fra interesse pubblico … e interesse privato”
si pone “come concreta manifestazione, in definitiva, della funzione sociale della proprietà”), è stato
invece censurato dalla Corte di Strasburgo (come si dirà oltre) in quanto ritenuto incompatibile con i
princìpi della Convenzione in tema di tutela del diritto di proprietà privata.
In definitiva, dovrebbe dunque ritenersi (non aderendosi alla tesi del principio di prevalenza) che il
Giudice nazionale, ove constati un’incompatibilità tra la norma interna e la Convenzione, non possa
direttamente disapplicare la norma interna, ma debba invece sollevare al riguardo incidente di
costituzionalità, sicchè spetterà alla Corte Costituzionale in ultima analisi pronunciarsi sul punto. Negli
altri casi, in base al principio di sussidiarietà il Giudice nazionale dovrà, per quanto possibile,
interpretare ed applicare il diritto interno in conformità della Convenzione EDU, secondo
l’interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo; il Giudice nazionale risulta dunque tenuto ad

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applicare le norme della Convenzione EDU (come interpretate dalla Corte di Strasburgo, norme
convenzionali la cui violazione può essere peraltro sanzionata da questa Corte solo attraverso
l’emanazione di sentenze dichiarative della violazione oppure costitutive di equa riparazione) in termini
di ragione o torto nel caso concreto sottoposto al suo esame e di conseguente emanazione delle relative
misure giurisdizionali (che possono perciò essere non soltanto di mero risarcimento danni ma anche di
altra natura -v. appresso-). Tanto, però, solo “per quanto possibile”, sicchè: se l’impossibilità deriva
dal contrasto tra le norme convenzionali (come interpretate dalla Corte EDU) ed una o più norme
interne, il Giudice nazionale come ripetesi dovrà sollevare incidente di costituzionalità; se l’impossibilità
deriva invece dal contrasto tra le norme convenzionali (come interpretate dalla Corte EDU) ed i princìpi
generali del nostro ordinamento giuridico interno (com’è a dirsi, ad esempio, per taluni profili
concernenti la materia dell’irragionevole durata del processo -v. oltre-), il Giudice nazionale dovrebbe
dare prevalenza a quest’ultimo.

Passando ad un approccio alla casistica, le sentenze della Corte EDU (rinvenibili via internet, in lingua
inglese e francese, sul portale www.coe.int : dopo averlo aperto, bisogna cliccare su Lingue e scegliere
il portale inglese o francese, quindi cliccare rispettivamente su European Court of Human Rights
oppure su Cour des Droits de l’Homme e poi ancora cliccare rispettivamente su Case-Law oppure su
Jurisprudence ed infine cliccare su Hudoc ed inserire gli elementi di ricerca cliccando poi
rispettivamente su Search oppure su Rechercher) possono riguardare, come già accennato, sia l’attività
(o mancata attività) legislativa, sia quella amministrativa, sia quella giurisdizionale interne, ove reputate
in contrasto con la Convenzione. Quanto all’attività giurisdizionale, esse investono tanto il settore
civile, quanto quello penale che quello giurisdizionale amministrativo (compreso quello contabile,
tributario, ecc.).
Restando al settore civile, possono segnalarsi (senza alcuna pretesa di esaustività) le decisioni di seguito
riportate.

In materia di diritti personalissimi, la Corte tutela il diritto alla vita privata (art. 8 della Convenzione)
ritenendolo violato in caso, ad esempio, di mandato di perquisizione formulato in maniera troppo ampia
ed indeterminata (caso Van Rossen c. Belgio – sentenza del 9/12/2004), di intercettazioni telefoniche
non previste dalla legge o non necessarie in una società democratica (caso Matheron c. Francia –
sentenza del 29/3/2005), di omessa custodia sicura delle trascrizioni delle conversazioni telefoniche ed
omesso svolgimento d’inchieste effettive sulla loro indebita pubblicazione (caso Craxi c. Italia –
sentenza del 17/7/2003), di indebita pubblicazione di fotografie di “persone normali” sottoposte a
procedimento penale (caso Sciacca c. Italia – sentenza dell’11/1/2005), ecc. . E’ obbligo, dunque, del
Giudice (penale) nazionale provvedere a che simili violazioni non abbiano a verificarsi (evitando di
emanare atti del tipo di quelli censurati dalla Corte di Strasburgo; provvedendo a far custodire in
maniera sicura le trascrizioni delle intercettazioni ed a promuovere inchieste effettive in caso di loro
indebita pubblicazione; ecc.); ove, invece, si verifichi una simile violazione, devesi ora ritenere, stando
all’affermarsi del già cennato principio di sussidiarietà, che il Giudice (civile) nazionale sia competente
tanto ad emanare le relative misure sul piano inibitorio (al fine di far cessare ad es. l’indebita
pubblicazione d’intercettazioni, immagini, ecc. da parte dei mezzi di comunicazione) quanto a liquidare
al danneggiato il risarcimento del danno: ciò anche in assenza di una legge interna (del tipo legge Pinto,
quanto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, connessa alla violazione dell’art. 6
della Convenzione) che lo preveda specificamente, posto che, per tutto quanto già esposto in
precedenza, il fondamentale diritto leso trova la sua fonte primaria nell’art. 8 della Convenzione,
direttamente applicabile anche nel diritto interno (laddove il successivo art. 41 è riferibile all’equa
soddisfazione concessa dalla Corte EDU ma non esclude il potere/dovere sussidiario del Giudice
nazionale al riguardo). Pure a prescindere dalla Convenzione EDU, del resto, essendo tali diritti
personalissimi tutelati nel diritto interno (anche) ai sensi dell’art. 2 Cost., la loro lesione integra un
danno esistenziale e dunque è riparabile da parte del Giudice civile.

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In tema di libertà di stampa e di opinione, la Corte ritiene che il giornalista possa ricorrere anche ad una
certa dose di esagerazione o anche provocazione (più ampia rispetto ad es. agli uomini politici), sicchè,
nel caso Wirtshafts ed altri c. Austria (sentenza del 13/12/2005: qui la compagna di un parlamentare
incriminato per frode, fuggita con lui all’estero, era stata etichettata come “Clyde”), essa ha condannato
l’Austria (che aveva condannato per diffamazione il giornalista) per violazione dell’art. 10 della
Convenzione. Si pone qui il problema, sul piano del diritto interno, della predisposizione di meccanismi
di revisione della sentenza (penale) idonei a porre effettivo riparo (al di là della concessione della
riparazione pecuniaria) alla violazione della Convenzione; e si è già detto come in Italia era in corso di
discussione parlamentare un disegno di legge che prevedeva in determinate ipotesi detta revisione a
seguito dell’emanazione di sentenze della Corte di Strasburgo (a seguito dello scioglimento del
Parlamento, tale disegno è decaduto e dovrà essere ripresentato ma potrà essere approvato con
procedimento abbreviato, come da relative previsioni dei regolamenti delle Camere).
In tema d’insindacabilità del diritto di opinione esercitato dai parlamentari ex art. 68, I° co. Cost., la
Corte di Strasburgo (sentenza 5/12/2005) ha circoscritto tale immunità ai soli atti che presentino un
legame evidente con l’attività parlamentare, non estendendola alle opinioni offensive espresse al di fuori
delle Camere. A simile indirizzo dovranno dunque adeguarsi i Giudici interni, in sede sia civile che
penale.
La Corte ha poi ritenuto violato il diritto di libertà religiosa (artt. 9 e 14 della Convenzione), in un caso
(Hoffmann c. Austria – sentenza del 23/5/93) in cui i figli erano stati affidati al padre per il pregiudizio
che sarebbe ad essi derivato dall’affidamento alla madre divenuta testimone di Geova (con relativo
prevedibile rifiuto di far svolgere ai figli il servizio militare, di far loro praticare trasfusioni di sangue in
caso di bisogno, ecc.) in pendenza di matrimonio (sul piano del diritto interno, ne dovrebbe discendere
altresì, stando sempre al principio di sussidiarietà, una modifica o comunque una ri-valutazione da parte
del Giudice nazionale del provvedimento di affidamento). La Corte non ha, invece, ritenuto violato il
diritto di libertà religiosa in un caso (Dahalab c. Svizzera – sentenza del 15/2/2001) in cui erano state
inflitte delle sanzioni disciplinari ad un’insegnante musulmana che rifiutava di togliersi il velo e ciò
perché la proibizione del velo costituisce una misura necessaria in una società democratica nel quadro di
un insegnamento primario; analogamente, nel caso Sahin c. Turchia (sentenza del 29/6/2004), in cui ad
una studentessa coperta dal velo era stato impedito di partecipare ad un concorso, ritenendo la Corte
che i principi di laicità, pluralismo ed eguaglianza in uno Stato come la Turchia (dove vi è il pericolo di
rigurgiti fondamentalisti) vadano preservati anche a costo di limitare la libertà religiosa nell’ambito di
pubbliche manifestazioni.

In materia di diritto di famiglia, nel caso Bove c. Italia (decisione del 30/6/2005) la Corte ha ritenuto
violato l’art. 8 della Convenzione ed ha conseguentemente riconosciuto il risarcimento del danno in
favore del padre non affidatario cui era stato negato per circa due anni e mezzo il diritto di visita della
figlia minore, pur in presenza di un disagio della stessa ad incontrarlo, derivante dal fatto che essa era
stata oggetto di attenzioni sessuali da parte del nonno paterno e di due amici del padre; ma, anche a
seguito della morte del nonno paterno e dell’archiviazione del procedimento penale a carico dei due
amici paterni, di fatto il padre non aveva potuto esercitare il suo diritto di visita (pur formalmente
ripristinato) a causa delle resistenze della madre affidataria, senza che si predisponessero le misure
necessarie a vincere dette resistenze.
Analogamente, nel caso Scozzari e Giunta c. Italia (decisione del 13/7/2000), la Corte, pur ritenendo
legittimo l’allontanamento dei figli minori dai loro genitori, ha riconosciuto alla madre il risarcimento
del danno per violazione dell’art. 8 della Convenzione in quanto le era stato sostanzialmente negato il
diritto di visitarli (dapprima dal Tribunale e poi, ripristinato formalmente il diritto di visita, dal
comportamento ostruzionistico del servizio sociale).
In senso sostanzialmente conforme, cfr. pure i casi Thon c. Repubblica Ceca (sentenza del 13/12/2005),
Reigado Ramo c. Portogallo (sentenza del 22/11/2005), Suss c. Germania (sentenza del 10/11/2005).

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Peraltro, nel caso Covezzi e Morselli c. Italia (sentenza del 9/5/2003), la Corte non ha ritenuto violato
l’art. 8 della Convenzione in relazione alla sospensione degli incontri del minore con il genitore non
affidatario disposta dal Tribunale, a seguito dell’espresso reiterato rifiuto del minore d’incontrarlo. Così
pure nel caso Couillard Maugery c. Francia (sentenza del 1/7/2004), in cui i due bambini mostravano
segni di stress e tensione negl’incontri con la madre.
Quanto all’affidamento dei figli minori ad uno solo dei genitori (salvo il diritto di visita da parte
dell’altro), la Corte non lo ritiene in contrasto con la Convenzione. Sul punto, va però segnalato che in
Italia, a seguito della recentissima riforma di cui al disegno di legge approvato il 26/1/2006, n. 3537, è
stato introdotto l’istituto dell’affidamento condiviso dei figli minori ad entrambi i genitori (prevedendosi
solo in via di eccezione, quando lo richieda l’interesse del minore per il pregiudizio che può altrimenti
derivargliene, l’affidamento ad uno solo di essi), sicchè oggi l’art. 8 della Convenzione non può non
correlarsi (per lo meno con riferimento all’ordinamento italiano) al rispetto anche di questa fattispecie di
vita familiare prevista dalla legislazione nazionale, concretantesi nel diritto (che è poi un diritto-dovere
integrante una potestà) di ciascun genitore all’affidamento condiviso dei figli minori.
La Corte ha dato poi prevalenza al diritto al rispetto della vita familiare sul diritto alla proprietà (pur
ugualmente garantito dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1), decidendo per l’irricevibilità del
ricorso nel caso Mancini c. Italia (sentenza del 13/10/2005), laddove il ricorrente lamentava il mancato
rilascio al termine pattuito (come previsto negli accordi in sede di separazione consensuale) della casa
coniugale da parte del coniuge affidatario dei figli minori, avendo il Tribunale con provvedimento
d’urgenza in sede di divorzio assegnato temporaneamente a quest’ultimo detta casa stante l’incapacità
dei genitori di garantire ai figli minori un alloggio adeguato.
Sempre in tema di vita familiare, nel caso Kraner c. Austria (decisione del 24/7/2003), alla Corte è stato
sottoposto il problema delle unioni omosessuali da parte di un ricorrente cui era stato negato dal
Giudice interno il diritto a succedere nel contratto di locazione alla morte del convivente. La Corte ha
accolto il ricorso, ma sulla base della violazione del diritto al domicilio, così in sostanza aggirando la
dedotta questione dell’espresso riconoscimento delle unioni omosessuali quali realtà familiari o
parafamiliari (art. 8 della Convenzione) e del divieto di discriminazione per motivi di sesso (art. 14 della
Convenzione). Negli ordinamenti interni di vari Stati contraenti (a differenza che in altri), peraltro, un
simile riconoscimento è già intervenuto; da noi se ne sta ancora discutendo, essendo pendente al
riguardo un disegno di legge sulle coppie di fatto (anche questo decaduto a seguito dello scioglimento
del Parlamento, ma che potrà essere ripresentato ed approvato con procedimento abbreviato, come da
relative previsioni dei regolamenti delle Camere).
In tema di diritto all’aborto, nel caso Boso c. Italia (decisione del 5/9/2002) la Corte ha dichiarato
irricevibile il ricorso del marito (che aveva già adìto la Corte Costituzionale per far dichiarare
l’incostituzionalità dell’art. 5 L. n. 194/78, questione ritenuta manifestamente inammissibile), che
rivendicava il suo diritto alla paternità ex artt. 8, 12 e 2 della Convenzione, ritenendo legittimo il
comportamento delle autorità dato che il diritto all’aborto è riconosciuto dalla legislazione nazionale e
non richiede il consenso del padre.

In materia di diritto di proprietà, la Corte riporta nel concetto di “beni” di cui all’art. 1 del Protocollo
addizionale n. 1 non solo le cose mobili o immobili, ma anche i diritti reali limitati, i diritti di credito, i
brevetti, l’avviamento commerciale, la clientela di uno studio professionale, ecc. .
Le limitazioni al diritto di proprietà da parte dei singoli Stati vengono ammesse purchè siano fondate su
una ragionevole base legale (ossia su una legge, che dia certezza in ordine alle modalità ed ai tempi:
principio di legalità) ed osservino il principio di proporzionalità tra la limitazione imposta ed il fine che
si intende perseguire nell’interesse generale.
Così, in tema di occupazione acquisitiva (istituto cui si è già fatto cenno in precedenza), la Corte in
numerose sentenze ha ritenuto contrario al principio di legalità e quindi contrastante con l’art. 1 del
Protocollo addizionale n. 1 l’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva e dell’occupazione
usurpativa. Sono stati poi emanati prima (a livello settoriale) l'art. 3 L. n. 458/1988 e poi l'art. 3, 65° co.

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L. n. 662/1996 (successivamente trasfuso nell'art. 55 del T.U. sulle espropriazioni di cui al DPR n.
327/2001 -e cfr. pure l’art. 43- e successive modificazioni), a seguito della quale disciplina la SC (nelle
già citate pronunce rese a ss.uu. nn. 5902/2003 e 6853/2003; e vedi pure ad es. Cass., I, 15/7/2004, n.
13113) ha ritenuto che l’istituto dell’espropriazione indiretta fosse ormai fornito della base legale
richiesta dalla Convenzione come interpretata dalla Corte EDU, risultando basato su regole
sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno superato il
vaglio di costituzionalità (cfr. Corte Cost., n. 188/95 cit., nonché nn. 369/96 e 148/99) ed hanno
recepito (confermandoli) principi enucleati dalla costante giurisprudenza, con la conseguenza che esso
deve ritenersi compatibile con il principio sancito dall'art. 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla
Convenzione EDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Invece, la Corte EDU (nel caso
Scordino c. Italia – sentenza del 17/5/2005) ha formulato rilievi in ordine a queste disposizioni di legge,
così giungendo a valutare la corrispondenza tra la base legale nazionale ed il principio generale di
legalità (espresso dal citato art. 1 del Protocollo 1), che postula che le norme interne siano
sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, tali non essendolo (secondo la Corte di Strasburgo)
quelle in discussione. E’ pure intervenuta l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato che, con sentenza
29/4/2005, n. 2, ha affermato che l’elaborazione giurisprudenziale dell’istituto dell’espropriazione
indiretta non avrebbe dato luogo ad un assetto della materia sufficientemente accessibile, preciso e
prevedibile, sicchè ha concluso che il proprietario, a seguito di espropriazione indiretta (sia che trattisi
di occupazione usurpativa sia che trattisi di occupazione acquisitiva), possa chiedere la restituzione del
bene in luogo del risarcimento del danno per equivalente e ciò ancorchè l’area sia stata irreversibilmente
trasformata a seguito della realizzazione dell’opera pubblica; l’art. 43 cit. andrebbe quindi interpretato
nel senso che la non restituzione del terreno possa essere ammessa solo nei casi eccezionali in cui vi sia
stato un provvedimento di acquisizione sanante da cui risulti un interesse pubblico particolarmente
rilevante all’acquisizione dell’opera (fermo restando, comunque, in tal caso il ristoro integrale in favore
del privato). La materia in esame, peraltro, interessa sempre meno i Giudici civili, i quali hanno
giurisdizione in tema di occupazione acquisitiva solo per le controversie introdotte prima del 10/8/2000
e quindi anteriormente al nuovo criterio di riparto di giurisdizione di cui all’art. 34 DLgs n. 80/1998 nel
testo sostituito dall’art. 7 L. n. 205/2000 (che ha trasferito detta giurisdizione al Giudice
amministrativo), laddove l’art. 43 DPR n. 327/2001 sembra avere riportato nella giurisdizione del
Giudice amministrativo anche l’istituto dell’occupazione usurpativa (ed in tal senso, v. pure la citata
sentenza di Cons. Stato, ad. plen., n. 2/2005 -contra, Cass., sez. un. 6/6/2003, n. 9139, ma con
riferimento ad un caso antecedente l’entrata in vigore della citata L. n. 205/2000-).
In tema d’indennità di esproprio (prescindendosi qui dall’ipotesi in cui la P.A. abbia disposto
l'espropriazione applicando unicamente la legge n. 2359/1865 e quindi dalle ipotesi in cui l'opposizione
alla stima spetti alla cognizione del Tribunale in primo grado anzichè alla Corte di Appello in unico
grado ex art. 19 L. n. 865/71), la Corte, nel caso Scordino c. Italia (sentenza del 29/7/2004, peraltro
rimessa all’esame della Grande Camera, che dovrebbe pronunciarsi nel marzo 2006), ha ritenuto in
contrasto con la Convenzione (in quanto lesivo dei diritti del proprietario) il sistema italiano di
determinazione della stessa, ancorchè lo stesso sia fondato su una base legale (art. 5/bis L. n. 359/92,
sostanzialmente ripreso dal vigente art. 37 DPR n. 327/2001). Tale sistema, secondo la Corte, nel
determinare l’indennità di esproprio in misura inferiore alla metà del valore venale (per effetto
dell’ulteriore riduzione del 20% dovuta all’imposizione fiscale ex art. 11 L. n. 413/88), è lesivo del
giusto equilibrio che deve intercorrere tra le esigenze di finalità sociale e di salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo, tra cui vi è quello di proprietà. Il Giudice nazionale (ossia la Corte di
Appello in unico grado e poi la Cassazione), dunque, per quanto precedentemente illustrato dovrebbe
sollevare incidente di costituzionalità della normativa interna in questione, ovvero (qualora si segua la
tesi della prevalenza) dovrebbe disapplicare la medesima normativa interna riconoscendo in simili ipotesi
un’indennità pari almeno alla metà del valore venale del bene.
In tema di (finita) locazione, la Corte è stata posta di fronte al problema dei rinvii indefiniti
dell’esecuzione degli sfratti e, pur affermando di rispettare le scelte compiute dal legislatore nazionale in

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una materia così delicata quale quella abitativa, ha aggiunto che le stesse non debbono risultare
sprovviste di una base ragionevole. Così, nel caso Mascolo c. Italia (sentenza del 16/12/2004: il
Mascolo aveva esperito ben 25 tentativi di sfratto per non aver potuto usufruire della forza pubblica,
riottenendo l’immobile dopo circa 10 anni), la Corte ha condannato lo Stato italiano al risarcimento del
danno non patrimoniale in favore del proprietario per violazione degli artt. 6 (per diniego di giustizia)
della Convenzione ed 1 Protocollo n. 1, restando a carico del conduttore il risarcimento (ex art. 1591
cc) del danno patrimoniale. Analogamente nel caso Capitanio c. Italia (sentenza dell’11/7/2002). Il
problema è stato poi affrontato in Italia anche dalle L. nn. 269/2004, 148/2005 e, da ultimo, dal DL
1/2/2006, n. 23.

In materia di diritti di credito (la cui tutela viene comunque riportata nell’ambito dell’art. 1 Protocollo
1, come già si è detto), la Corte, nel caso Buffalo c. Italia (sentenza del 3/7/2003), ha ritenuto contrario
all’art. 1 Prot. 1 il ritardo ultraquinquennale nel rimborso dei crediti d’imposta pacificamente dovuto al
contribuente.
Sempre in tema di crediti nei confronti della P.A., la Corte, nel caso Metaxas c. Grecia (sentenza del
27/5/2004), ha censurato i ritardi nell’esecuzione delle sentenze emesse in favore di un cittadino e nei
confronti della P.A.; anzi, proprio il fatto che il cittadino debba mettere in esecuzione dette sentenze al
fine di essere soddisfatto è stato ritenuto integrante la fattispecie del diniego di giustizia (violazione
dell’art. 6 della Convenzione) oltre che lesiva del diritto al rispetto dei propri beni ex art. 1 Protocollo n.
1.
Né la P.A. può addurre a propria giustificazione la mancanza di risorse per onorare debiti derivanti da
decisioni giudiziarie (così nel caso Morkotun c. Ucraina – sentenza 4/10/2005).
E’ stata poi sanzionata pure l’inottemperanza della P.A. ad adempiere obblighi di facere (impostile dal
Giudice amministrativo: caso Antonetto c. Italia – sentenza 20/7/2000. Ma anche il Giudice ordinario
potrebbe imporglieli nell’ambito di materie rimesse alla sua giurisdizione esclusiva -es. in materia di
pubblico impiego-).

In materia di fallimento e procedure concorsuali, la Corte ha affermato che le norme nazionali che
privano il fallito del potere di disposizione dei propri beni, che gl’impongono di consegnare la
corrispondenza e che gli vietano di allontanarsi dalla sua residenza senza il permesso del Giudice
delegato contrastano rispettivamente con gli artt. 1 Prot. n. 1, 8 della Convenzione e 2 Prot. n. 4 solo
allorchè la procedura fallimentare si protragga per un tempo irragionevole (v. es. i casi Luordo c. Italia
e Bottaro c. Italia – sentenze 17/7/2003). Peraltro, la recente riforma delle procedure concorsuali ha
modificato l’attuale disciplina sulle conseguenze personali del fallimento, eliminando le sanzioni
personali e prevedendo che le limitazioni alla libertà di residenza e corrispondenza del fallito siano
connesse alle sole esigenze della procedura.
Nel caso Sgattoni c. Italia (sentenza del 6/10/2005), la Corte ha tra l’altro esteso l’efficacia del rimedio
interno della c.d. legge Pinto (v. oltre) anche alle restrizioni personali e patrimoniali causate da una
procedura fallimentare troppo lunga ed ha altresì affermato che, nelle ipotesi di procedure concorsuali
riguardanti delle società, il ricorso dev’essere formulato non dall’amministratore ma dal liquidatore
eventualmente nominato dall’assemblea dei soci dopo la dichiarazione di fallimento, pena la sua
irricevibilità per ciò che riguarda gli asseriti danni causati alla società da una procedura fallimentare
eccessivamente lunga.
Nei casi Saggio c. Italia (sentenza del 25/10/2001) e F.L. c. Italia (sentenza del 20/12/2001), la Corte
ha ritenuto la violazione dell’art. 13 della Convenzione in quanto le regole fondanti rispettivamente la
procedura di amministrazione straordinaria e quella di liquidazione coatta amministrativa, caratterizzate
dalla lunghezza della verifica dello stato dei crediti, hanno ostacolato in maniera ingiustificata il diritto
degl’interessati di disporre di un ricorso effettivo per far valere il loro credito innanzi ai Giudici
nazionali (e, nel caso della liquidazione coatta amministrativa, è mancata altresì nel diritto interno la

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previsione di un rimedio per contestare gli atti o le omissioni del commissario liquidatore nella fase
anteriore al deposito dello stato passivo).

In materia di giusto processo, la Corte EDU ha poi ripetutamente censurato la prassi, alquanto diffusa
tra gli Stati contraenti, degl’interventi legislativi sopravvenuti che modifichino retroattivamente in
malam partem le leggi da cui nascono diritti la cui lesione ha dato luogo ad azioni giudiziarie ancora
pendenti (o addirittura già concluse) all’epoca della modifica: tanto si sostanzia in una violazione
dell’art. 6 (giusto processo) della Convenzione (ed eventualmente anche dell’art. 1 Protocollo 1),
risolvendosi in un’indebita ingerenza del potere legislativo sull’amministrazione della giustizia (così nei
casi Draon c. Francia – sentenza del 6/10/2005; Scordino c. Italia – sentenza 29/7/2004, caso
attualmente pendente presso la Grande Corte; Zielinsky, Pradal & Gonzales c. Francia – sentenza del
28/10/99; Raffineries Grecques ed altri c. Grecia – sentenza del 9/12/94; ecc.). La legittimità di simili
interventi è stata riconosciuta solo allorchè ricorrano ragioni storiche epocali (come ad es. la
riunificazione tedesca: caso Forrer-Niedenthal c. Germania – sentenza del 20/2/2003) o dei motivi
imperiosi d’interesse generale (come ad es. il pagamento di contributi alla generalità degl’insegnanti
dipendenti da istituti privati: caso Ogis-Institut Stanislas c. Francia – sentenza del 27/5/2004). Al di
fuori di queste eccezioni, il Giudice nazionale, dunque, per quanto precedentemente illustrato dovrebbe
sollevare incidente di costituzionalità della normativa interna sopravvenuta ovvero (qualora si segua la
tesi della prevalenza) dovrebbe disapplicare la medesima normativa interna.
Sempre in materia di giusto processo, sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale, la Corte ha
censurato una sentenza della SC che, nonostante le obiettive difficoltà incontrate dalla parte nell’attività
di notificazione, aveva negato la proroga del termine assegnato al fine dell’integrazione del
contraddittorio ex art. 331 cpc nei confronti di litisconsorti necessari residenti all’estero (caso
Kaufmann c. Italia – sentenza del 19/5/2005). Proroga che dunque, in simili circostanze, il Giudice
interno è tenuto a concedere; ed anche qui, in caso di mancata concessione della proroga, si porrebbe
un problema (da risolversi sul piano legislativo) di riapertura o revisione del giudizio (stavolta civile)
conclusosi con la sentenza definitiva censurata dalla Corte di Strasburgo, potendo l’equa soddisfazione
pecuniaria da questa concessa non essere sufficiente a riparare il torto subìto.

Sempre in materia di giusto processo e, più specificamente, di diritto alla ragionevole durata del
processo (in relazione alla cui tutela è stata anche emanata nel nostro ordinamento la c.d. legge Pinto,
n. 89/2001), si è già detto come, in ordine al quantum debeatur, la SC (Cass., ss.uu., 26/1/2004, n.
1340) ha statuito che, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione equitativa del
Giudice interno deve rispettare i princìpi segnati nella Convenzione EDU, per come essa vive nelle
decisioni della Corte di Strasburgo (che fissano i relativi parametri, ai quali il Giudice interno deve
conformarsi, pur potendovi discostarsene entro un limite ragionevole), incorrendo in mancanza in una
violazione di legge denunciabile innanzi alla SC; l’accertamento dei casi simili decisi dalla Corte EDU è
un dovere d’ufficio del Giudice interno, che potrà peraltro giovarsi della collaborazione delle parti.
Di conseguenza, la giurisprudenza delle Corti di merito tende a riconoscere un’equa riparazione pari
all’incirca ad euro 1.000,00-1.500,00 per ogni anno di irragionevole ritardo. Permane comunque sul
punto un contrasto tra la nostra giurisprudenza (pure di legittimità) e la Corte EDU, dato che
quest’ultima ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale tiene conto dell’intera durata del
processo e non soltanto del periodo che eccede la sua durata ragionevole: ed anche qui, per quanto
esposto, il Giudice interno dovrebbe sollevare incidente di costituzionalità dell’art. 2, 3° co., lett. a)
della L. n. 89/2001 ovvero (ove si segua la tesi della prevalenza) disapplicare detta norma. Peraltro,
questo sistema adottato dalla Corte di Srasburgo appare ispirato ad un criterio di automaticità
confliggente non soltanto con la norma in esame ma, più in generale, con i princìpi regolatori della
materia riparatoria nel nostro ordinamento giuridico interno, che, ai fini della liquidazione di una
“riparazione”, di un’indennità o di un risarcimento, presuppongono pur sempre la configurabilità di un
danno “ingiusto” (a parte le ipotesi eccezionali di indennizzo per lesione di meri interessi legittimi, che

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può anche prescindere dal requisito dell’ingiustizia del danno, com’è ad es. l’indennizzo per danni di
guerra, per abbattimento di animali infetti, ecc.: ma non è il caso di cui si discute, venendo qui in rilievo
la lesione di un diritto soggettivo, qual è quello alla ragionevole durata del processo), ingiusto danno
che nella specie può derivare (ammesso che vi derivi: v. oltre) solo dalla irragionevole durata del
processo e che quindi può essere liquidato solo per il periodo eccedente la sua durata ragionevole; ove
dunque non si condivida il principio di prevalenza, potrebbe ritenersi che nella fattispecie non operi
neppure il principio di sussidiarietà, posto che quest’ultimo impone al Giudice nazionale di interpretare
ed applicare il diritto interno in conformità della Convenzione EDU (secondo l’interpretazione che ne
dà la Corte di Strasburgo) “per quanto possibile” e che quello in oggetto è un caso in cui non appare
invece possibile conciliare i princìpi ispiratori del nostro sistema giuridico interno con quelli espressi
dalla Convenzione, come interpretata dalla Corte EDU.
D’altra parte, ci si è accorti che la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo, almeno quanto alla
determinazione degli anzidetti parametri riparatori, è alquanto oscillante, per cui la questione è stata
sottoposta alla Grande Camera, che dovrebbe pronunciarsi nel giugno 2006 e che potrebbe affrontare
anche il problema connesso alla cennata automaticità.
Merita segnalare, a proposito della materia in trattazione, che, in ordine all’an debeatur, le ss.uu. della
S.C. (cfr. es. Cass., ss.uu., 26/1/2004, n. 1339), pur continuando a tenere distinto il danno-evento dal
danno-conseguenza e quindi escludendo che il danno in questione possa ritenersi insito
automaticamente (v. supra) nella violazione (trattasi, in sostanza, di una forma di danno esistenziale,
ricollegabile al nuovo testo dell’art. 111 Cost. -oltre che di danno derivante direttamente dalla
violazione dell’art. 6 della Convenzione e della stessa legge Pinto-), hanno però aggiunto che “nella
normalità dei casi” è la prova del danno (non patrimoniale) ad essere insita nella violazione. Tuttavia,
se ciò è vero per la “normalità dei casi”, può non esserlo nello specifico caso di cui è processo, posto
che nella fattispecie concreta può esistere la prova contraria in ordine alla lamentata causazione di un
danno non patrimoniale, in quanto, ad esempio, la domanda del ricorrente si dimostrò palesemente
infondata e venne rigettata nell’ambito del giudizio di merito (oggetto del procedimento ex legge Pinto).
Sicchè, anche a livello presuntivo ed inferenziale, devesi ragionevolmente escludere che al ricorrente
possa essere stato cagionato un danno non patrimoniale in virtù della relativa sua pretesa palesemente
infondata. Nel solco di tale indirizzo espresso dalla SC, secondo la unanime giurisprudenza della Corte
di Appello di Campobasso la prova contraria in ordine alla lamentata causazione di un danno non
patrimoniale esiste, altresì, in virtù del protrarsi del giudizio in rispondenza di un interesse di parte o
comunque di conseguenze che la parte percepisce a sè favorevoli o comunque non sfavorevoli, come
dimostra il fatto, assai sintomatico, che proprio la parte (in persona del suo difensore che la
rappresentava a tutti gli effetti) abbia avuto a chiedere e/o comunque a concordare una serie di meri
rinvii d’udienza; il che, come si diceva, porta sintomaticamente a ritenere, a livello presuntivo ed
inferenziale, un più generale suo non-interesse alla pronta definizone del giudizio nel suo complesso.
Quanto meno, la circostanza in esame conduce ad una sorta d’inversione dell’onere probatorio, nel
senso che, stante la presunzione secondo cui la sovraesposta circostanza conduce ad escludere di regola
la produzione nell’uomo medio di un danno non patrimoniale da ritardo (correlato a patemi d’animo,
ansie, frustrazioni, ecc.) e quindi non fa nascere alcun diritto al risarcimento (di un danno che non c’è),
in simili ipotesi sta al ricorrente dimostrare che, nel caso concreto, un tale danno siasi in lui ugualmente
prodotto.
In chiusura, va solo ribadito che il rimedio della legge Pinto, sebbene idoneo a riparare i singoli torti (sul
punto la Corte EDU non lo ha censurato), non è però idoneo in alcun modo a risolvere il più generale
problema della durata irragionevole dei processi (problema che anzi essa ha finito per aggravare,
incrementando i procedimenti in corso), al quale ultimo scopo andrebbero poste in essere riforme
strutturali ben più incisive di quelle (riforma del cpc, Sezioni stralcio, istituzione del Giudice di pace,
ecc.) finora adottate. In proposito, l’Italia continua ad essere monitorata permanentemente dal Comitato
dei Ministri, innanzi al quale è rimasta aperta la relativa procedura.

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C) Rapporti tra le normative (come interpretate dalle rispettive Corti) sub A e B e rapporti tra
dette normative e gli altri trattati internazionali.
Il Trattato istitutivo della CE con le modifiche apportate dal Trattato di Maastricht e dal Trattato di
Amsterdam, oltre che la normativa comunitaria derivata, hanno ad oggetto materie che rilevano
soprattutto sotto il profilo della libertà economica, la quale costituisce anche uno dei diritti fondamentali
dell’uomo secondo la Convenzione EDU (cfr. spec. l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1; e v. pure il
diritto alla libera circolazione di cui all’art. 2 Protocollo addizionale n. 4; ecc.). Inoltre, la CE è andata
estendendo nel tempo le proprie competenze anche in altri settori, come ad esempio quelli
dell’immigrazione, della tutela penale, ecc., nei quali parimenti rileva la tutela dei diritti umani secondo
le norme della Convenzione EDU.
Si pone, allora, il problema di un’intersecazione delle relative discipline, come interpretate dalle
rispettive Corti (Corte del Lussemburgo e Corte di Stasburgo) e di un possibile loro conflitto.
In proposito, va premesso che la Corte di Giustizia CE ritiene che i princìpi ispiratori della Convenzione
EDU, purchè connessi con il Trattato istitutivo CE o con la normativa comunitaria derivata,
costituiscano fonti di diritto anche in sede comunitaria (e ciò ancorchè la UE non sia parte della
Convenzione, approvata solo dai singoli Stati membri); tanto trova fondamento pure nella Dichiarazione
comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sul rispetto dei diritti fondamentali
del 1977 e nella Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) del 7/12/2000.
Sicchè, in caso di violazione di detti princìpi, il cittadino potrà investire sia la Corte del Lussemburgo
(chiedendo al Giudice interno il rinvio pregiudiziale d’interpretazione, prima che le vie di gravame
interne siano esaurite) che quella di Strasburgo (in quest’ultimo caso, però, solo una volta che le vie di
gravame interne siano esaurite).
Così, ad esempio, la Corte di Giustizia CE ha convalidato, sulla base di una risoluzione O.N.U. del 1992
che aveva imposto l’embargo alla ex Jugoslavia, il sequestro di un aeromobile disposto dalle autorità
irlandesi. Chiamata a pronunciarsi a sua volta sul medesimo caso, la Corte EDU (Bosphorus c. Irlanda
– sentenza del 30/6/2005) ha escluso la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 solo in base alla
presunzione generale che i citati Trattati comunitari recepiscono le norme della Convenzione EDU e che
gli Organi comunitari operano nel rispetto di dette norme.
Viene da chiedersi se la Corte EDU ritenga trattarsi di una presunzione assoluta o solo relativa, posto
che, in quest’ultimo caso, potrebbero verificarsi in concreto contrasti di giudicati tra le due Corti
nascenti da un conflitto tra le due discipline in questione (come interpretate dalle rispettive Corti).
Altro problema concerne il possibile conflitto tra dette discipline (come interpretate dalle rispettive
Corti) e le norme contenute in altri Trattati internazionali.
Sotto quest’ultimo aspetto, devesi ritenere che, quanto alle norme comunitarie dei Trattati e
regolamenti CE, queste, prevalendo sulle norme interne, prevalgono anche su quelle dei trattati
internazionali (in quanto ratificate appunto con leggi interne, ancorchè “speciali”). Quanto invece alle
norme della Convenzione EDU (che, pure, è un trattato internazionale, ma sulla cui particolare natura
ed efficacia si è già discusso), devesi segnalare che la Corte EDU ritiene (cfr. caso Tete c. Francia –
sentenza del 9/12/87) che non sia possibile utilizzare lo strumento della ratifica di un trattato
internazionale per sottrarsi alle norme della citata Convenzione, sicchè le materie coperte dalla
protezione dei diritti umani non possono essere trasferite alla competenza esclusiva ed illimitata di altri
trattati internazionali. Così, nel caso Kaufmann c. Italia (sentenza del 19/5/2005), la Corte di
Strasburgo ha ritenuto violato l’art. 6 della Convenzione EDU a causa dell’applicazione di norme
concernenti la notifica di atti giudiziari, ancorchè dette norme fossero state recepite nel nostro
ordinamento con la ratifica della Convenzione dell’Aja (sulla collaborazione internazionale per la
notifica di atti giudiziari).
14 febbraio 2006

Vincenzo Di Giacomo
(Consigliere presso la Corte di Appello di Campobasso -

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Referente distrettuale per la formazione decentrata nel settore civile)

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