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Guido Ferrari S. J.

(1717 - 1791)

Corte Marziale
per giudicare il
Principe Eugenio di Savoia
reo di
contravvenzione agli ordini
nella battaglia di Zenta
(11 settembre 1697)

"Causa Judicialis Bellica; Reus, Princeps Eugenius: Crimen, proelium contra mandatum Concilii bellici factum ad Tibiscum flumen,
quo proelio caesa Turcarum triginta millia. Hac actione profertur arcana hactenus ratio, qua ab Leopoldo Augusto prospectum est &
honori, & capitis clarissimi Imperstoris". In Guidonis Ferrarii Opusculorum collectio, Editio Prima Italica, Lugani, Typis Agnelli,
1777, pp. 246-266.
Da Dizionario Biografico degli Italiani

FERRARI, Guido S. J. (Novara 1717 - Monza 1791)


di L. Narducci

FERRARI, Guido. - Nacque a Novara il 6 febbr. 1717 da Oliviero, di famiglia di antiche tradizioni. Originaria del Veneto, essa compare sin dal
1219nei registri ufficiali della città di Novara tra quelle che per censo formavano la Credenza novarese. Suo padre, Oliviero, ricoprì importanti
incarichi sia fino al 1734, quando la città era ancora soggetta all'imperatore Carlo VI sia poi, durante il regno di Carlo Emanuele III di Savoia.
Il F. trascorse la sua infanzia nella città natale, dove ricevette dai gesuiti i primi rudimenti di grammatica. All'età di dodici anni venne mandato a
studiare nel collegio dei gesuiti di Savona e, il 20 giugno 1733, entrò nel noviziato della Compagnia a Genova. Dopo due anni, il 15 ag. 1735,
prese i quattro voti solenni e proseguì gli studi a Milano. Non aveva ancora completato il suo curriculum di studi quando fu mandato a Como a
insegnare umane lettere. Fu allora che probabilmente conobbe il De rerum natura di Lucrezio e iniziò a interessarsi alla poesia, componendo versi
su vari argomenti. Rimase a Como per circa un anno, quindi, sempre in veste di insegnante nei collegi del suo Ordine, fu trasferito a Pavia, poi a
Milano e infine di nuovo a Pavia. In seguito il F. fu inviato a Torino, dove avrebbe dovuto compiere gli studi teologici, ma dopo soli tre mesi
venne richiámato a Milano e assegnato al collegio dei nobili, in qualità di prefetto degli studi. Qui portò a compimento nel 1747 il commentario
De rebus gestis Eugenii principis a Sabaudia bello Pannonico libriIII (Romae 1747), con prefazione di G. C. Cordara. Con questa opera egli rivelò
l'eleganza del suo latino, non immune comunque da impurità, e la padronanza della lingua, che seppe adattare alla scrittura dei generi letterari più
diversi. Il commentario ebbe numerose edizioni, stampate in diversi paesi (Haag 1749, con prefazione di Cornelio Valerio Vonk; Friburgi
Brisgoviorum 1751; Augsburg 1757; Ofen 1765). Nel 1753 a Milano fu inoltre realizzato un volgarizzamento ad opera del gesuita Pietro Savi, dal
titolo Fatti d'armi di Eugenio in Ungheria, con prefazione di G. B. Noghera.
Il periodo milanese del F. fu il più fecondo dal punto di vista letterario, soprattutto da quando divenne professore di retorica presso l'università di
Brera. Subordinata al suo ufficio fu la scrittura di una serie di orazioni accademiche. La prima, dettata dalla persuasione della stretta attinenza tra
eloquenza e politica, fu recitata nel gennaio del 1750 e pubblicata nello stesso anno a Nimega a cura di C. V. Vonk (De politica arte oratio), il
quale fece precedere l'edizione da una lettera indirizzata al Ferrari. Dello stesso anno è la stampa a Milano, in un elegante latino, di un' Epistola
deinstitutione adolescentiae, dedicataal giovane marchese Domenico Serra, suo allievo. Nel gennaio del 1751 venne pronunciata l'orazione De
optimo statu civitatis, edita lo stesso anno a Nimega. Del gennaio 1753 è invece il discorso De optimo patre familias (pubblicato nel medesimo
anno a Milano), nel quale il F. analizza i doveri del padre nei riguardi dei propri figli esponendo i punti salienti di un vasto programma educativo.
Nel 1755, persuaso che al buono stato politico giovi favorire gli studi e in particolare quelli di giurisprudenza, pronunciò e pubblicò a Milano
un'orazione De iurisprudentia.
Le ultime due orazioni - De historia e De victoria Bohemica, dettata in soli due giorni subito dopo l'annuncio della vittoria - risalgono
rispettivamente al 1756 e al 1757. Del F. rimangono anche due arringhe (la Causa Eugeniana iudicialis bellica del 1754 e la S. Ermenegildi causa
iudicialis del 1755), giudicate però le sue opere meno riuscite. Congiunta alla sua attività accademica fu anche la scrittura di memorie necrologiche
e discorsi di Gratulationes composti per solenni occasioni. Alla produzione accademica il F. affiancò la scrittura di opere letterarie. là del 1752 la
pubblicazione a Milano dei commentario De rebus gestis Eugenii principis a Sabaudia bello Italico libri IV (anche questo ebbe numerose edizioni;
Pietro Savi nel 1754 ne realizzò il volgarizzamento con il titolo Fatti d'armi di Eugenio in Italia).
Il lungo periodo trascorso presso l'università di Brera fu importante per il F. anche per i rapporti di fraterna amicizia che strinse con alcuni colleghi
e confratelli, in particolare con Alfonso Casati, Filippo Bovio e Giovanni Antonio Lecchi. Di questi colleghi il F. scrisse le biografie, alle quali si
aggiunge quella di Tommaso Ceva. Profondi e duraturi furono anche i rapporti di amicizia che stabilì con alcuni allievi, in particolare con Pietro
Antonio Crevenna, letterato noto per la sua ricchissima biblioteca. Esonerato dopo undici anni dall'incarico universitario per motivi di salute, il F.
rimase comunque a Brera. Il suo interesse si volse principalmente alla composizione di epigrafi latine, ad imitazione di quelle antiche. Ne compose
oltre 1570, e 945 di queste sono state raccolte nel secondo dei sei volumi che riuniscono l'Opera del Ferrari.
Pregevoli risultano le epigrafi storiche, che rivelano una attenta ricerca sulle antichità italiche, benché compiuta senza il sussidio della lingua greca
e di quelle orientali. Una raccolta di Inscriptiones è dedicata alla celebrazione della storia più antica dell'Insubria, come anche diciassette
Dissertationes pertinentes ad Insubriae antiquitates e ventidue Lettere lombarde. Gli scritti dedicati all'Insubria, dai quali emerge una vastissima
crudizione, furono pubblicati tutti nel 1765 a Milano. Il F. stesso tradusse in italiano le iscrizioni, in un'edizione ampliata (complessivamente ricca
di 635 epigrafi): Guidonis Ferrarii e Societate Iesu Inscriptionum editio Italica auctior ducentis (Mediolani 1772). In questi anni il F. concluse la
serie dei commentari su Eugenio di Savoia con la pubblicazione del De rebus gestis Eugenii principis, bello Germanico liber unus, bello Belgico
libri IV. L'opera, pubblicata a Zutphen nel 1773, ulteriore conferma dell'eleganza della prosa latina del F., gli permise di essere annoverato,
insieme con Girolamo Lagomarsini e Giulio Cesare Cordara, tra i maggiori prosatori latini del XVIII secolo. Dello stesso anno è anche l'edizione
di un'altra serie di 215 iscrizioni latine, composte a celebrazione degli avvenimenti guerreschi del regno di Maria Teresa fino all'anno 1743.
L'opera fu stampata a Vienna, appunto nel 1773, con il titolo Res bello gestae auspiciis Mariae Theresiae Augustae ab eius regni initio ad annum
MDCCXLIII. Inscriptionibus explicatae ... Tre anni dopo celebrò ancora le gesta di cinque generali di Maria Teresa distintisi nella guerra tra
l'Austria e la Prussia di Federico II (De vita quinque Austriacorum imperatorum qui floruerunt bello Borussio, Vindobonae 1776).
A partire dal 1773, a seguito della soppressione della Compagnia di Gesù, cominciò per il F. un periodo di peregrinazioni che si concluse con
l'arrivo all'Efebeo di Monza, dove trascorse gli ultimi anni di vita in condizioni economiche precarie a causa della misera pensione che il governo
pagava agli ex gesuiti. Non abbandonò comunque l'attività letteraria, dedicandosi alla preparazione di un corpus di epigrafi, a celebrazione del
regno di Carlo Emanuele III re di Sardegna. Le varie fasi di elaborazione dell'opera si possono ricostruire attraverso una serie di quaranta lettere
scritte al F., dal 19 giugno 1776 al 21 apr. 1781, dal conte G. L. Bogino, che collaborò fattivamente con l'autore, sia emendando la prima stesura
del testo da eventuali errori o inesattezze sia offrendo suggerimenti. Il lavoro, cominciato nel 1777, fu condotto a termine in poco più di due anni.
Le spese della stampa, che il F. non poteva sostenere, furono assunte dal conte Bogino, e cosi nell'aprile del 1780 il libro venne pubblicato con il
titolo Caroli Emmanuelis Sardiniae regis universa vitae et principatus forma inscriptionibus explicatae... .La storia del regno di Carlo Emanuele
III era ripercorsa in 314 iscrizioni latine (nel 1786 fu stampata a Torino la versione italiana, ad opera di Filippo R. Orsini d'Orbassano, Fasti di
Carlo Emanuele III re di Sardegna). L'ultimo scritto del F. fu il Somnium sive Dialogus statuarum (Augustae Taurinorum 1784).
Dall'autunno del 1788 la salute del F. peggiorò sensibilmente fino alla morte, avvenuta a Monza l'11 genn. 1791 (G. B. Morandi contesta con
convincenti argomentazioni la data dell'11 febbraio, fornita dai precedenti biografi).
Fonti e Bibl.: G. Ferrari, Auctoris de se rebusque suis ad Franciscum Gemellum commentarius, Lugano 1781, in Id., Opera, Mediolani 1791, I, pp.
VII-LV; A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium, Pisis1799, XVIII, pp. 182-204; R. D. Caballero, Bibliothecae scriptorum Societatis
Iesu supplementa, Romae 1814, pp. 136-137; A. de Backer, Bibl. des écrivains de la Compognie de Jésus, Liège 1854, pp. 186-189; G. Corniani, I
secoli della letter. ital. dopo il suo risorgimento, VII, Torino 1856, p. 139; G. Negroni, Lettere di G. L. Bogino, di P. Balbo e del conte Perrone a
G. F., in Misc. di storia ital., XXI (1883), pp. 51-128; S. Grosso, Delle opere di G. F. e di G. Garantoni, Pisa 1889, pp. 1-34; G. B. Finazzi,
Notizie biografiche, Novara 1890, p. 52; P. Nigra, Diz. illustrato di pedagogia, I, Milano 1905, pp. 623-625; G. B. Morandi, Come morì padre G.
F., in Boll. stor. per la prov. di Novara, I (1907), pp. 238-244; G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici ital. del sec. XIX, Torino 1910, p. 378; E.
Codignola, Pedagogisti ed educatori, Milano 1941, p. 198; G. Natali, Il Settecento, Milano 1960, pp. 529, 559; L.-G. Michaud, Biographie univ.
ancienne et moderne, XIII pp. 615 s.; Nouvelle Biographie universelle, XVII: col. 515; C. von Wurzbach, Biographisches Lexikon..., IV, Wien
1858, p. 193; C. Sommervogel, Bibl. de la Compagnie de Jésus, III, Bruxelles 1892, pp. 670-676.

Schlacht bei Zenta

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Datum
11. September
1697
Ort Ungarn, Zenta an der Theiß
Ausgang Die Osmanen werden vernichtend geschlagen. Frieden von Karlowitz (1699)
Osmanisches Reich Heiliges Römisches Reich
Sultan Mustafa II. Prinz Eugen von Savoyen
75.000 - 100.000 Mann 50.000 - 55.000 Mann
25.000 Tote 429 Tote 1.598 Verwundete[1]
In der Schlacht bei Zenta errangen die kaiserlichen Truppen unter dem Oberbefehl von Prinz Eugen von Savoyen bei Zenta an der Theiß am 11.
September 1697 einen bedeutenden Sieg über die Osmanen. Dieser Sieg führte schließlich zum Frieden von Karlowitz, der den Großen Türkenkrieg
(1683–1699) beendete.
Ausgangslage Kaiser Leopold I. ging nach der Niederlage der Osmanen bei der Zweiten Wiener Türkenbelagerung in die Offensive. Seine Truppen
eroberten Ofen (Stadt) (heutiges Budapest) 1684/1686, besiegten die Osmanen in der Schlacht bei Mohács (1687) und eroberten 1688 Belgrad,
welches 1690 infolge des Pfälzischen Erbfolgekrieges aber wieder an die Osmanen zurückfiel.
Vorgeschichte 1697, als der Pfälzische Erbfolgekrieg beendet war, kehrte Prinz Eugen (seit 1693 Feldmarschall) auf den osmanischen
Kriegsschauplatz zurück. Der bisherige Oberbefehlshaber, Kurfürst Friedrich August von Sachsen, legte sein Kommando nieder, da er nach dem
Tode Johanns III. Sobieski zum König der Polen gewählt worden war. Rüdiger Graf Starhemberg, der berühmte Verteidiger Wiens während der
Zweiten Wiener Türkenbelagerung und damalige Präsident des Hofkriegsrates, empfahl in einem Gutachten vom 15. März 1697: „Ich weiß Keinen,
der mehr Verstand, Experienz, Application [Hinwendung, Fleiß] und Eifer zu Euer Kaiserlichen Majestät Dienst hätte, ein generoses und
uninteressiertes Gemüt, auch die Liebe und Respect bei der Miliz, als der Prinz von Savoyen [...] Er hat in Italien commandiert [...] die Armata
jederzeit in großer Einigkeit, Respect und Gehorsam erhalten, welcher dagegen bei der Armata in Ungarn ganz zerfallen, weswegen wohl nötig,
derselben einen solchen vorzustellen, der ihn wieder Einzuführen weiß, von allen Offizieren beliebt und hierzu secundiert wird, die alle und
sonderlich die Vornehmeren dem Prinzen von Savoyen so viel geneigt, als sie dem anderen [Kurfürst von Sachsen] abgeneigt sind [...][2]“
Vorbereitung zur Schlacht Aufgrund dieser Empfehlung wurde Prinz Eugen am 5. Juli 1697 zum Oberbefehlshaber der Armee in Ungarn ernannt.
Wie aus derselben Empfehlung zu entnehmen ist, befand sich die Armee in einem denkbar schlechten Zustand: Von der Sollstärke von 70.000 Mann
waren nur 35.000 kampffähig, die Kriegskasse war leer und die Verpflegung miserabel. Eugen musste sich Geld leihen, um wenigstens Verpflegung
und Sold für seine Armee im ausreichenden Maße zur Verfügung zu haben. Eugens erste taktische Maßnahme war das rasche Zusammenziehen der
in Oberungarn und Siebenbürgen operierenden Truppen, um eine möglichst große Streitmacht gegen die Türken aufbieten zu können. Da aus
Peterwardein die Meldung kam, dass sich der Sultan mit seiner Armee und der gesamten Donauflottille bereits in Belgrad befinde, blieb ihm nicht
viel Zeit. Nur fünf Tage nach seiner Kommandoübernahme (17. Juli) begann er einen Gewaltmarsch Richtung Peterwardein. Nach der Vereinigung
mit den Truppen aus Oberungarn und Siebenbürgen an diesem Orte umfasste die kaiserliche Armee zwischen 50.000 und 55.000 Mann. [3] Als man
vor der Festung eintraf, war die türkische Streitmacht ebenfalls schon vor Ort. Den ganzen August hindurch spielten sich jedoch nur taktische
Manöver zwischen den Streitmächten im Großraum Peterwardein ab. Die Osmanen versuchten weder die Erstürmung der Burg noch eine offene
Feldschlacht, da Eugen die Schlacht immer nur in Reichweite der Festungsgeschütze anbot. Anfang September brachen die Osmanen die taktischen
Geplänkel ab und zogen der Theiß entlang nach Norden, um sich der Festung Szegedin zu bemächtigen. Der kaiserliche Feldmarschall folgte nun,
fast auf gleicher Höhe, der osmanischen Streitmacht. Da gelang der kaiserlichen Kavallerie, die ständig Feindberührung hielt, die Gefangennahme
eines türkischen Offiziers. Seiner Aussage zufolge wurde der Plan zur Erstürmung Szegedins wegen des verfolgenden christlichen Heeres
aufgegeben und der Sultan beabsichtige, die Theiß bei Zenta zu überqueren und sich nach Temesvár ins Winterlager zurückzuziehen. Als Eugen von
dieser Nachricht erfuhr, entschloss er sich, sofort die Schlacht zu eröffnen. Auf osmanischer Seite hatte der erfahrene Haudegen Ca'fer Pascha
vergeblich gegen die Überquerung der Theiß gestimmt und zeigte sich, nach der Chronik seines Siegelbewahrers Alî aus Temeschwar, unglücklich
über diese Entscheidung:
“Als er unserem Herrn Pascha Bericht erstattete, raufte sich dieser verzweifelt den Bart und sagte: ‘O weh, o weh, jetzt ist es soweit, dass
der Ehre des Erhabenen Reiches Abbruch geschehen muss!’ Er lud die Paschas und Ağas zu sich und als er ihnen mitteilte, dass man auf
das jenseitige Ufer übersetze, wurden alle niedergeschlagen und bekümmert, weil sie diese Maßnahme als völlig verfehlt erachteten; sie
wunderten sich, auf wessen Betreiben es wohl dazu gekommen war, und waren ganz verstört.” [4]
Ca'fer Pascha fiel noch im Verlaufe der Schlacht bei der Verteidigung des Brückenkopfes, um den Rückzug zu decken.
Schlachtverlauf Am Nachmittag des 11. September 1697 bot sich an der Theiß bei Zenta folgendes Bild: Am diesseitigen, westlichen Ufer befand
sich ein aus Schanzen und Erdwällen errichteter türkischer Brückenkopf, der die Flussüberquerung sicherte. Auf der Pontonbrücke, die über die
Theiß führte, wurden gerade die Artillerie und der Tross auf die andere Seite transportiert, auf der sich bereits der Sultan und die osmanische
Kavallerie befanden. Die Türken wiegten sich in falscher Sicherheit und dachten nicht, dass die kaiserliche Armee so schnell vor Ort sein würde, wie
aus einem türkischen Bericht zu entnehmen ist: „Daß der Feind kommen werde, hatte ja niemand bezweifelt, jedoch war nicht anzunehmen gewesen,
daß er nach nur einem Tag da sein würde; aber die Giaurenreiter [kaiserliche Kavallerie] hatten die Infanteristen hinter sich aufs Pferd genommen,
und so waren sie in höchster Schnelligkeit herangerückt. [5]“ Eugens Truppen eröffneten direkt aus der Bewegung heraus den Angriff und gingen
halbmondförmig gegen die Verteidigungsstellung der Osmanen vor. Als etwas nördlicher der Pontonbrücke Sandbänke im Fluss erkennbar wurden,
nutzte Eugen diese Gelegenheit sofort aus und ließ diese besetzen, um die türkische Abwehrstellung auch in ihrem Rücken unter Beschuss zu
nehmen. Nach intensivem Artilleriefeuer folgte der Sturmangriff, an dem sich nicht nur die Infanterie, sondern auch die abgesessenen Kavalleristen
sowie an der Spitze eines Dragonerregiments Prinz Eugen selbst beteiligten. Die Schanzen wurden schließlich überwunden, die Türken in den Fluss
getrieben und die Brücke unter Feuer genommen: „Der Soldat ist so ergrimmt gewesen, daß er fast keinem Quartier (Pardon, Gnade) gegeben,
obschon Paschas und Offiziere sich gefunden, welche viel Geld versprochen haben, und befinden sich daher gar wenig Gefangene in unserer
hand[sic!].[6]“
Beute Nach dem Sieg bei Zenta überreichte Prinz Eugen dem Kaiser persönlich die Stücke, die in der Schlacht bei Zenta erbeutet wurden. Es waren
dies: 6.000 Wagen und Unmengen von Proviant (3000 Wagen versanken in der Theiß), 80 große und 58 kleine Geschütze, 423 Fahnen, 7
Rossschweife der Regimentsinhaber, Kamele, Ochsen, Pferde, Zelte, die Kriegskasse (angeblich mit drei Millionen Gulden und weiteren 40.000 aus
dem Besitz des Sultans), das Archiv, eine große Zahl türkischer Pauken, einen Prunksäbel sowie die Kutsche des Sultans mit acht Pferden und zehn
„Kebs-Weibern“. Das wichtigste Beutestück war aber das Siegel des Sultans Mustafa II., welches heute im Heeresgeschichtlichen Museum in Wien
aufbewahrt wird. Es handelt sich dabei um eine Messingpetschaft mit spitzovaler Siegelfläche (19×26 mm) mit dem Wortlaut „Mustafa, Sohn des
Mehmed Han, immer siegreich“, darunter das Jahr der Thronbesteigung „1106 der Hedschra“ (nach der christlichen Zeitrechnung das Jahr 1695).
Das Siegel des Sultans ist zusammen mit einem zweiten Siegel eines gewissen Ismail und einem rotseidenen, goldbestickten Säckchen zu sehen. [7]
Das Siegel war im Feldzug von 1697 (Großer Türkenkrieg) - wie in der türkischen Armee üblich - dem Oberbefehlshaber Großwesir Elmas Mehmed
Pasa übergeben worden, der es ständig bei sich zu tragen hatte. Der Großwesir wurde in der Schlacht getötet, das Siegel von Prinz Eugen erbeutet,
dieser übergab es als Trophäe dem Kaiser, in weiterer Folge wurde es von der kaiserlich-königlichen Schatzkammer dem Heeresmuseum übergeben.
[8]
Über das Siegel schrieb Prinz Eugen in seinem Bericht an den Kaiser: „Ich habe auch [...] des Gross-Sultan Petschaft erhalten, welches das
Allerrarste, und diesen ganzen Krieg über bei allen Victorien noch niemals bekommen worden ist [...] und ich werde mir auch die Ehre geben, wenn
ich wiederum das Glück habe, vor Eurer Kaiserlichen Majestät Thron zu erscheinen, in aller Untertänigkeit es persönlich zu überreichen.“[9]
ErgebnisEs war ein vollständiger und umfassender Sieg und von nun an war der Name Prinz Eugens in ganz Europa zu einem Begriff geworden.
Der nach Temeschburg fliehende Sultan verlor an die 25.000 Mann, seine gesamte Artillerie und den ganzen Verpflegungsvorrat, wohingegen die
Verluste der Truppen des Kaisers 28 Offiziere und 401 Mann an Toten betrugen.[10] Die Schlacht bei Zenta war die Grundlage für den Frieden von
Karlowitz (1699), mit dem sich das Kräfteverhältnis in Südosteuropa zu Ungunsten des Osmanischen Reiches veränderte. Trotzdem wurde der Sieg
bei Zenta militärisch nicht vollständig genutzt, weil auf eine Verfolgung der Türken angesichts der Witterungsbedingungen verzichtet wurde.
Einzelnachweise
1. ↑ K. K. Kriegsarchiv (Hrsg.): Feldzüge des Prinzen Eugen von Savoyen. Verlag des K. K. Generalstabes, Wien 1876, Band 2, S. 156.
2. ↑ Walter Hummelberger: Die Türkenkriege und Prinz Eugen. In: Herbert St. Fürlinger(Hrsg.): Unser Heer. 300 Jahre österreichisches
Soldatentum in Krieg und Frieden. Wien 1963, S. 86f.
3. ↑ Ernst Trost: Prinz Eugen von Savoyen. Wien ²1985, S. 10.
4. ↑ Stefan Schreiner (Herausgeber): Die Osmanen in Europa. Erinnerungen und Berichte türkischer Geschichtsschreiber. Verlag Styria,
Graz/Wien/Köln 1985, ISBN 3-222-11589-3, S. 337.
5. ↑ Trost ²1985, S. 11
6. ↑ Trost ²1985, S. 12
7. ↑ Manfried Rauchensteiner, Manfred Litscher (Hg.): Das Heeresgeschichtliche Museum in Wien. Graz, Wien 2000 S. 17.
8. ↑ Johann Christoph Allmayer-Beck: Das Heeresgeschichtliche Museum Wien. Saal I - Von den Anfängen des stehenden Heeres bis zum
Ende des 17. Jahrhunderts, Salzburg 1982 S. 64.
9. ↑ zitiert bei Agnes Husslein-Arco, Marie-Louise von Plessen (Hrsg.): Prinz Eugen. Feldherr, Philosoph und Kunstfreund, Wien 2010, S.
61.
10. ↑ Hummelberger 1963, S. 88
Schlacht bei Zenta (HGM Wien)

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