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Agostino

Capasso

La natura dell'essere

Romanzo
Agostino Capasso

La natura dell’essere

1
Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e
luoghi citati sono invenzioni dell’autore e hanno lo
scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi
analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse,
è assolutamente casuale.

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A chi si riconosce
in queste pagine

Agostino Capasso

“La misura dell’umiltà per ciascuno


deve essere la propria grandezza”

Aurelio Agostino d’Ippona

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Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà
dell’autore

ISBN 9781366225993
data pubblicazione 16 marzo 2017

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PREFAZIONE

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Quanto può cambiare un uomo?
Quanto il nostro modo di essere è condizionato dal mondo
che ci circonda?
La libertà di essere comporta delle scelte, che il più delle
volte inducono ad accettare aspetti della nostra personalità
che per diversi motivi abbiamo cercato di reprimere:
l’educazione ricevuta, l’amore per una persona, il senso
del dovere...
La vita potrà cambiare il nostro modo di vivere ma
resteremo sempre ciò che siamo.

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PROLOGO

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Massimo cercò invano il pulsante, prima di accorgersi che
avrebbe dovuto ruotare la vecchia manovella per evitare
che l’abitacolo si trasformasse in una camera a gas.
Nonostante il cigolio, il vetro del finestrino scese di quel
tanto che bastò a far entrare una generosa ventata di aria
fresca che rigenerò i suoi polmoni:
«A che ora dovrebbe arrivare il treno?»
Carlo stava fumando l’ennesima sigaretta mentre il caldo
asfissiante di quel pomeriggio di agosto non dava tregua.
Guardando distrattamente l’orologio borbottò tenendo la
cicca tra le labbra carnose:
«Do-vrem-mo es-se-re in ora-rio».
Non era così per il treno. Emanuele e Gimondo, di ritorno
per le vacanze estive, non sarebbero arrivati prima di
un’ora. Discutendo s’incamminarono costeggiando il
binario fin quando ebbero raggiunto l’ultima panchina:
«Non credo sia ancora il momento» stava dicendo
Massimo.
«Eppure siete sposati da qualche tempo. Non credi che
possa desiderarlo?»
«Me ne avrebbe già parlato. Non è un problema per noi e
abbiamo ancora tante cose da fare. E poi il mio lavoro non
mi lascia tanto tempo».
«Stai attento, però, a separare la carriera da quelle che
sono le cose importanti» lo richiamò Carlo.
«Guarda un po’ da chi viene la predica. Anita è segregata
in casa da quasi un mese...»
«Si è lamentata con te?» chiese.
«L’ha detto a Linda. Non trascurarla troppo, è un angelo
che ha bisogno di spalle forti, come le tue».

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«E’ tutta la mia vita» disse Carlo sorridendo.
«Allora ricordalo».
«Non farei niente che possa farle male. A volte, distratto
da tante cose, può capitare che commetta degli errori, ma
chi è perfetto?»
«Allora la prossima volta, prima di regalare perle di
saggezza, guarda un po’ nel tuo giardino» disse Massimo
appoggiando il braccio sulle spalle dell’amico.

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CAPITOLO 1

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La suoneria continuava incessante già da qualche minuto.
Con la vista offuscata riuscì a scorgere a malapena l’ora.
Mancavano pochi minuti alle otto e Massimo, ancora
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assonnato, si girò dall’altro lato. I riccioli rossi di Linda


coprivano parte della sua schiena. Il profumo della pelle
rendeva più difficile abbandonare quelle lenzuola e il
senso del dovere doveva combattere ad armi impari con i
postumi della sbornia. Quella mattina c’era in programma
la riunione per la chiusura dell’accordo con l’Ital Petroli e
non voleva tardare. Era certo che quel contratto fosse già
nelle loro mani e un atteggiamento remissivo non avrebbe
fatto altro che spalancare le porte ad un ulteriore richiesta
di ribasso. Aveva appena annodato la cravatta quando,
recuperando l’Eberhard dal cassetto si sentì chiamare:
«Non andare».
La voce sensuale di Linda sortiva lo stesso effetto del
canto delle sirene.
«Amore, devo. Sono in ritardo» rispose frettolosamente.
Lei si rigirò nelle lenzuola mostrando buona parte del suo
corpo nudo: «Sei così carino stamattina».
Non avrebbe tardato, doveva solo avvicinarsi, darle un
bacio, girare i tacchi e catapultarsi giù per le scale verso
l’auto. Linda afferrò la cravatta e lo tirò a se, infilando la
lingua nella sua bocca.
Cercò di protestare, ma non poteva più nulla.

Arrivato nel parcheggio, vide la Bentley nera in bella
mostra. La porta d’ingresso della palazzina era sovrastata
da una gigantografia del logo aziendale, in linea con la
megalomania di Pietro Marelli, il proprietario,

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soprannominato dai dipendenti Zazà per l’incredibile
somiglianza con il celebre nemico di Lupin. Massimo non
solo riteneva che fosse un pessimo dirigente, ma che aveva
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avuto tanta di quella fortuna nella vita che, per l’equilibrio


delle cose, avrebbe fatto meglio a non uscire più da casa.
Secondo l’organigramma, Massimo dipendeva solo
dall’Amministratore e, con Antonio Petrone, completava il
quadro dirigenziale della Marelli. Superata la Hall a passo
spedito attraversò l’open space, dove si svolgevano le
attività di progettazione, distribuendo saluti fugaci a chi
non era incollato allo schermo. Lena, dall’alto dei suoi
tacchi, cercava di rincorrerlo tenendo la bozza del contratto
in una mano e una tazzina di caffè nell’altra:
«Massimo... Massimo... Il caffè!»
Nonostante il rispetto dei ruoli, non aveva mai creduto
nelle formalità gerarchiche e consentiva ai collaboratori di
rivolgersi a lui in forma confidenziale.
«Buongiorno, elegante come sempre» la salutò liberando
le sue piccole mani.
Il vestitino azzurro metteva in risalto le sue forme così
come la generosa scollatura, sembrava soffrire
l’abbondanza del seno. Massimo notò il rossore avvampare
sul suo volto e, solo in quel momento, si rese conto che il
suo sguardo era ricaduto, senza volerlo, sul decolleté.
Cercando di giustificarsi con una smorfia che voleva solo
incolpare le prorompenti misure di Lena, si avviò verso la
sala riunioni. Dalla porta in cristallo s’intravedevano le tre
figure sedute al tavolo. De Iulius, procuratore capo
dell’Ital Petroli, sedeva al posto d’onore. Aveva scelto
diligentemente la posizione dalla quale avrebbe avuto, e

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dato, la sensazione di tenere tutto sotto controllo. Pensò
che non avrebbero dovuto permettergli di sentirsi a suo
agio anche se, ne era certo, non sarebbe bastata una
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posizione diversa al tavolo per intimorirlo. Ai suoi lati, uno


di fronte all’altro, sedevano Zazà e Petrone, professionista
dagli indiscutibili valori morali. Salutò e scusandosi per il
ritardo, prese posto.
Dovevano essere seduti già da diversi minuti ma erano
ancora alle formalità:
«Premetto che in veste di procuratore capo, mi sono stati
delegati dall’Amministratore pieni poteri decisionali». Lo
sguardo penetrante era diretto mentre passava in rassegna i
tre dirigenti della Marelli.
«Sappiate che la nostra azienda» continuò scandendo le
parole con cadenza musicale, «non è esclusivamente
interessata alla qualità del servizio. La nostra intenzione è
di acquistare il meglio al minor prezzo».
Il contratto in discussione prevedeva la realizzazione e la
futura gestione di un impianto per la raffinazione. L’offerta
avanzata dalla Marelli, era di dieci milioni di euro, pari
quasi al fatturato dell’anno precedente. Una sfida notevole
per tutti gli addetti ai lavori ma che avrebbe consentito di
tentare il salto tra le grandi realtà del settore.
«In un periodo come questo» continuò, «è facile trovare
aziende disposte a fare follie per un appalto del genere. Ma
il mio compito, e quello dei miei collaboratori, è cercare di
affidarlo a persone che abbiano le referenze per garantire i
più moderni standard realizzativi, senza rischiare di non
arrivare in fondo. L’esposizione economica è notevole».
«Non credo sia necessario presentare la Marelli»

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intervenne Petrone, «lei conoscerà benissimo le nostre
referenze e se è seduto a questo tavolo, vuol dire che le
ritiene all’altezza» continuò guardandosi intorno per
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palesare l’ovvietà della considerazione.


«Volevo solo dire che noi possiamo definirci leader del
settore» s’intromise Zazà, «non le nascondo quanti altri
appalti, anche più grossi, stiamo gestendo in questo
periodo».
Massimo sarebbe voluto sprofondare nella sedia.
«Questa è la mia principale preoccupazione. Vogliamo
essere sicuri di poter richiedere il massimo dell’impegno e
delle risorse» rispose De Iulius.
«Questo contratto resta la nostra priorità» .
«Non mi è sembrato analizzando la vostra offerta» riprese
osservando i fogli disposti ordinatamente davanti a lui.
«Undici milioni sono una bella cifra. Ci sono almeno altre
tre aziende che hanno offerto di meno».
Massimo intervenne per la prima volta da quando era
seduto a quel tavolo:
«Dottore, lei opera in questo campo da anni e non ha
bisogno delle nostre osservazioni per sapere che un’offerta
di questo genere è frutto di strategie aziendali più che di
scelte tecniche. Non sono le migliaia di euro che fanno la
differenza in un appalto di questa entità. Sembra quasi
scontato evidenziare che siamo qui per una trattativa
commerciale e credo che siamo tutti d’accordo sul fatto
che possa essere tutto più semplice se scopriamo le carte in
tavola. Del resto lei si aspetta un ribasso che, siamo
disposti a proporre».
De Iulius rimase qualche istante assorto nei pensieri, senza

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lasciar trapelare alcuna emozione. Zazà spostava
nervosamente lo sguardo tra i presenti alla ricerca di un
cenno che gli trasmettesse tranquillità. Le parole di
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Massimo avrebbero potuto irritare quella persona che


aveva il potere di mettere fine a quella trattativa in
qualsiasi momento ma, a suo avviso, era necessario capire
fino a che punto poteva essere assecondato.
«E’ inutile fare troppi giri di parole, ha ragione lei» rispose
improvvisamente De Iulius, «non ho mai creduto nei
convenevoli. Non emetteremo ordine per una cifra
superiore ai dieci milioni. Questa è la base di partenza, poi
valuteremo eventuali ribassi».
Massimo si sforzava di non lasciar trapelare alcuna
emozione, ma in quel momento si stava rimproverando per
aver tardato e non essersi confrontato con Petrone e
Marelli sul punto di non ritorno di quella trattativa. Sapeva
benissimo che, qualsiasi cifra fosse stata stabilita nei giorni
precedenti, sarebbe stata in realtà ben lontana da quella
definita all’ultimo momento. Tentennò qualche istante nel
caso uno dei due volesse mettere subito in chiaro i limiti
raggiungibili, ma sembravano volergli concedere il
beneficio della decisione. Era sicuro che nessun
concorrente avesse in realtà offerto meno di loro. L’offerta
era aggressiva e di certo De Iulius non si sarebbe
scomodato se avesse avuto delle scelte migliori. Stava
bleffando per raggiungere il miglior ribasso possibile.
«Sembra un’ottima base di partenza. La cifra non ci
spaventa ma vogliamo la prerogativa sulla trattativa»
riprese Massimo. «Firmiamo un preaccordo sulla base di
dieci milioni, in attesa di definire le clausole contrattuali

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che discuteremo con i legali».
De Iulius sorrise:
«Le ho detto che questa è la base di partenza se volete che
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prendiamo in considerazione la vostra offerta, ma non è


sufficiente a chiudere l’affare».
«Nove milioni e mezzo!» esclamò Massimo alzandosi. «E’
la nostra ultima offerta. Ci pensi su» finì guardando
Petrone e Marelli che si unirono a lui per uscire dalla sala.

«Cazzo!» esclamò Zazà visibilmente agitato, «potevamo
trattare con calma e capire fino a che punto spingerci. E se
rifiutasse?»
«Non lo farà» rispose. «E’ un’offerta nettamente inferiore
rispetto a quanto si sarebbe aspettato».
Si accomodarono nell’ufficio di Petrone, dove avrebbero
potuto fumare liberamente senza infastidire nessuno. Dalla
Hall, attraverso la parete in vetro, si aveva la visuale della
sala e, di tanto in tanto, Zazà chiamava la reception per
tenersi aggiornato sulle reazioni di De Iulius. Da quando lo
avevano lasciato, il procuratore dell’Ital Petroli era rimasto
impassibile con lo sguardo fisso sui documenti, assorto nei
suoi pensieri. A detta della ragazza che lo stava tenendo
d’occhio, dai suoi atteggiamenti trapelava uno stato di
assoluta calma. Mentre discutevano nervosamente delle
eventuali contromisure da adottare, squillò l’interno.
Quando Petrone ebbe riattaccato, aveva un’espressione
pensierosa:
«Ha chiesto di parlare con te» disse rivolgendosi a
Massimo.
Si guardarono silenziosi per qualche istante cercando di

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intuire le sue intenzioni, poi fu Marelli a intervenire:
«Non voglio sapere il modo, ma chiudi l’accordo».
Quando rientrò nella sala, cercò di mostrare più sicurezza
di quanto realmente avesse. L’altro, senza proferire parola,
sfilò lo smartphone dal taschino della giacca e, con
movimenti lenti e decisi, smontò la batteria e lo appoggiò
bene in vista sul tavolo. Massimo capì che avrebbe dovuto
fare lo stesso.
«Ci sono sistemi di videosorveglianza?»
«Questa stanza è isolata» rispose.
«Ho riflettuto sulla sua proposta e non posso negare che
sia interessante. Tuttavia, detterò io i termini
dell’accordo».
Massimo sembrava scoraggiato ma De Iulius gli fece
cenno di aspettare:
«Mi lasci finire, se siamo d’accordo, chiudiamo con una
stretta di mano, tra galantuomini. Al resto, penseranno gli
studi legali. La vostra richiesta sarà dieci milioni ma
chiuderemo l’affare a nove milioni e ottocentomila. E tanto
vi dovrà l’Ital Petroli. Come mi ha chiesto, le garantisco
l’affidamento dell’appalto in seduta stante ma lei avrà un
debito nei miei confronti di trecentomila. E questi
dovranno essere in contanti».
Massimo si soffermò qualche istante a riflettere dopodiché,
alzatosi, gli porse la mano.

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CAPITOLO 2

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Sullo schermo del notebook il grafico, inesorabile,
mostrava l’andamento degli incassi degli ultimi tre mesi.
Carlo, intento nella ricerca di un’illusoria soluzione alla
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crisi che aveva colpito il settore dell’elettronica, rispose


distrattamente alla chiamata.
«Spilungone come stai?» chiese Massimo all’altro capo.
«Come vuoi che stia, ho un mal di testa pazzesco».
«Stasera ci sei per un tavolo a quattro?»
«Sempre che quei due abbiano ripreso conoscenza» rispose
Carlo.
«Dovremmo provvedere ai beni di prima necessità».
«Allora tra poco li raggiungo. Credo che oggi non sia la
giornata adatta per trovare una soluzione alla crisi
economica. Spengo tutto e vado».
«Allora a stasera» rispose Massimo, «ci vediamo a casa
mia, Linda ce la lascia in consegna. Non dimenticare le
chips».
Il morale di Carlo non era alle stelle, la carriera per lui era
di fondamentale importanza. Aveva iniziato giovanissimo
come venditore in un piccolo negozio di elettrodomestici,
responsabile del reparto telefonia. Verso la metà degli anni
novanta dopo il boom della telefonia mobile, si era passati
dalle valigette a spalla con la cornetta ai primi telefonini
che ricordavano i cordless. La nascita delle tariffe
prepagate, contribuì alla diffusione dei cellulari soprattutto
tra quelle persone che, alla vista della bolletta telefonica,
rischiavano mensilmente l’infarto divenendo vittime del
cosiddetto “terrore da squillo” ed evitare non solo di
chiamare, ma addirittura di rispondere alle rare telefonate
ricevute per timore di un eventuale addebito. Con il tempo

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la diffusione divenne integrazione: nonnetti che sfidavano
l’artrite per scrivere un SMS e bambini che ciucciavano
latte dagli smartphone. Prima si tornava a piedi con l’auto
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in panne, si perdevano appuntamenti importanti per un


semplice ritardo o si perdeva la vita per mancanza di
soccorsi. Ricordi spazzati via che però hanno portato con
loro il diritto alla privacy. Sono stati spesi miliardi per
telefoni che si vendono continuamente a prezzi più bassi e
abbiamo svenduto una cosa che non riusciremo più a
riconquistare. Di quei miliardi di lire, una piccola fetta
andò al negozietto in cui lavorava Carlo. Sarà stata anche
fortuna, ma quell’anno il settore telefonia del negozio
raddoppiò il suo fatturato. La bravura di quel nuovo
assunto, non giovava certo a suo favore tanto che, perfino
il direttore del negozio, cercò il modo per ridimensionare
la figura di quel venditore che pian piano cominciava a
farsi strada. Dopo qualche tempo, fu trasferito nel reparto
videogame che attraversava un periodo di magra. Il sogno
che prendeva vita. La sua carriera videoludica vantava
un’esperienza pluriennale in compagnia di: Atari, NES,
Sega Master System, Commodore 64, Amiga 500, Amiga
600, Sega Mega Drive, Super Nintendo, Sega Game Gear
e Nintendo Game Boy. In quel periodo passava buona
parte delle notti combattendo i mostri in Doom. Avrebbe
dovuto portare avanti da solo il reparto e, anche se sarebbe
stata dura, ne era contento. Dopo qualche mese, verso la
fine del ’95, ci fu il lancio di quella che per ogni
videogiocatore dell’epoca diventò la compagna di tante
battaglie vinte, tante notti passate svegli aiutati dalle paglie
e tanti filoni a scuola per tornare e combattere il mostro

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finale. Era iniziata l’era della Playstation. Il giorno diventò
notte e la notte diventò giorno, si mangiava quando
capitava, l’orologio non aveva più utilità e il tempo non
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aveva più significato. Wipeout, Destruction derby, F1, i


primi artefici del delirio. Poi arrivò Tomb Raider e fu la
fine. La console della Sony ebbe una così grande
diffusione, che per tutte le mamme “playstation” divenne
sinonimo di videogioco. Anche le nonne impararono che
“giocare a playstation” significava rincoglionirsi per ore
davanti a una TV contorcendosi con un affare in mano.
Dopo appena un anno dall’affidamento del reparto a Carlo,
i numeri parlavano chiaro: fatturato triplicato e premio
come miglior venditore dell’area geografica. A questo
punto, gli occhi dei vertici aziendali cominciarono a
puntare quel ragazzo che, nel giro di due anni, aveva fatto
impennare le vendite. Un giorno arrivò un ispettore inviato
dalla sede centrale. Il suo compito era di verificare se nel
negozio i dipendenti seguivano le direttive aziendali e
valutare, eventualmente, il livello di professionalità
raggiunto. Come un semplice cliente girovagava tra gli
scaffali per verificare la disposizione dei prodotti, i prezzi,
l’ordine delle corsie, parlando di tanto in tanto con i
venditori per appurarne la gentilezza nei rapporti con i
clienti e ogni altro dettaglio cui l’azienda dava importanza.
Nelle note finali del rapporto di visita che inviò alla sede
principale, c’era un appunto:
“Un’attenzione particolare deve essere dedicata al
venditore che si occupa del reparto musica e videogame. In
venti anni non mi era mai capitato di fare un acquisto
presso un nostro punto vendita mentre lavoro. Quel

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ragazzo sarebbe capace di vendere sabbia nel deserto”.
Dopo appena un mese gli fu proposto il trasferimento
presso la sede amministrativa, per collaborare alla
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realizzazione di un nuovo centro. Durante quel periodo,


Carlo si dedicò allo studio delle tecniche di vendita
dedicandosi anima e corpo al lavoro e contribuendo in
maniera attiva alla dislocazione dei reparti, alla
suddivisione delle corsie e perfino alla distribuzione dei
prodotti sugli scaffali. Dall’inaugurazione, il negozio ebbe
un successo enorme. Sul fatto che era un bravissimo
venditore, non c’erano dubbi. Poteva aver avuto anche
fortuna, magari era ben visto dalla direzione generale, ma
comunque quel ragazzo aveva talento da vendere. Dopo
circa cinque anni dalla sua assunzione, gli fu proposto il
lavoro per cui aspirava. Un nuovo punto vendita, realizzato
in un parco commerciale a pochi chilometri dalla sua città,
aveva bisogno di un direttore e i vertici aziendali, avevano
visto in lui la persona adatta. A distanza di dieci anni, quel
punto vendita era il fiore all’occhiello della catena
vantando il primato di aver conseguito per tre anni
consecutivi, il più alto fatturato a livello nazionale. La crisi
che stava colpendo il mercato non aveva risparmiato il
settore dell’elettronica e così, reduce dai grandi successi
degli anni precedenti, per Carlo poteva rappresentare
l’inizio della discesa verso l’oblio. Avrebbe voluto trovare
una soluzione per cercare di riequilibrare quella retta
pendente ma purtroppo, anche invocando il Dio delle
strategie di mercato, non era facile convincere le persone a
portare a casa LCD, portatili e cellulari, quando si stava
cercando di pagare le rate del mutuo. Probabilmente

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bisognava aspettare tempi migliori. Guardò l’orologio
poggiato sulla scrivania e vide che erano quasi le 15:00.
Decise di fare un giro per le corsie del negozio prima di
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andarsene. L’ascensore collegava il piano degli uffici con


il reparto in cui era esposta una vasta gamma di TV. Un
centinaio tra LCD, Plasma e Smart TV, erano sintonizzati
su MTV e stavano trasmettendo il video di Toxic in cui
una Britney Spears, in versione hostess, teneva incollati al
video due ragazzini che brulicavano di ormoni. Attraversò
il reparto dei piccoli elettrodomestici osservando
distrattamente i prezzi dei frullatori e dei robot da cucina.
Alla fine della corsia, posto bene in vista, c’era un cestone
colmo di asciugacapelli. Cartelli gialli e rossi che
circondavano il cesto, indicavano il prezzo in promozione.
Alle singole confezioni era applicato un dispositivo
antitaccheggio a ragno ma gli bastò un’occhiata, per notare
i lacci stretti in malo modo. Camminando prelevò una
scatola e si diresse verso la cassa centrale. Marika, una
commessa di trent’anni, aveva appena iniziato il turno:
«Buongiorno direttore» salutò con un sorriso malizioso.
«Marika buongiorno» rispose Carlo, «questa confezione ha
qualcosa che non va?» le chiese poggiandola sul bancone.
La ragazza, confusa, la stava osservando girandosela nelle
mani:
«Sembra che non ci sia niente di strano. Forse la scatola è
vuota?»
Carlo la riprese e, con semplicità disarmante, sfilò
l’antitaccheggio.
«Chiama il responsabile del reparto e fai confezionare
nuovamente tutto», la ammonì prima di avviarsi all’uscita.

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Aveva veramente bisogno di distrarsi, si sarebbe diretto da
Emanuele e avrebbe dimenticato momentaneamente il
lavoro.
Il Texas hold’em lo aspettava.

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CAPITOLO 3

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Le tre ragazze sedute al tavolo sembravano allegre. Era
difficile non notarle, così giovani, così belle. Al lato
opposto della sala dei ragazzi poco più che ventenni,
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bevevano birra scambiando pareri coloriti sulle tre, ognuno


cercando di accentuare pregi e difetti dell’una per elogiare
la preferita. La piccoletta dagli occhi azzurri, il viso
d’angelo e il corpo ben disegnato. La bruna, riccioluta e
dalle forme generose. La rossa, dai lineamenti marcati e il
fisico slanciato. La loro bellezza unita alla loro diversità,
alimentava la discussione diventata l’ulteriore ospite a
tavola.
«Guardate come se la tirano. Di certo si sono accorte che
stiamo parlando di loro» stava osservando uno di loro.

Avevano consumato una cena leggera accompagnata da
vino bianco, che stavano finendo di sorseggiare:
«Penso che sia una cosa così ovvia» stava dicendo
Barbara, «una donna come te, sposata con la persona che
ama. E poi Massimo è così... adatto».
«Adatto?» intervenne Anita scoppiando in una fragorosa
risata. «Che aggettivo è?» chiese mentre Barbara assumeva
un’espressione scocciata. «Scusa Linda, ma per un attimo
ho pensato che avesse dimenticato che stesse parlando di
tuo marito, non puoi mai sapere cosa è capace di dire su un
uomo».
«Che stronza».
«Hai mai provato a chiederglielo?» continuò Anita
cercando di riportare la discussione su toni seriosi.
«Che cosa stai guardando?» fece Linda notando il sorriso
distratto stampato sul volto di Barbara che, avvicinandosi

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alle due, rispose:
«Credo che quei quattro deficienti stiano parlando di noi.
Quello più carino non ti ha tolto gli occhi di dosso».
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Anita lanciò un’occhiata fugace mentre Linda, che sedeva


di spalle, si limitò a scuotere leggermente la testa facendo
oscillare i capelli che le ricadevano sulle spalle:
«Sempre la solita. Sono solo dei ragazzini».
«Ma se non ti sei nemmeno voltata! E poi, saranno anche
dei ragazzini, ma sono ben fatti».
«Nel caso non avessi seguito il filo della discussione»
s’intromise Anita, «lei vorrebbe usarla per farci un figlio e
non per quello cui stai pensando tu».
Uno del gruppo si alzò mentre i compagni sembravano
dargli la giusta carica, avviandosi tra i tavoli nella loro
direzione.
«Questo sta venendo qua!» esclamò Barbara, «ed è un bel
pezzo di figliolo».
«Per fa-vo-re» scandì a bassa voce Linda.
Avvicinatosi, salutò le ragazze:
«Buonasera signore. Come poter restare impassibili
davanti a tanta bellezza» disse mostrando un sorriso
bianchissimo mentre volgeva lo sguardo verso Linda che,
cercando di mostrare indifferenza, si era voltata
leggermente verso Anita. Barbara alzò la mano e,
muovendo le dita con fare civettuolo, salutò il nuovo
arrivato. Linda sperava che l’amica le venisse in soccorso
con i suoi modi scontrosi che, in alcuni frangenti, potevano
essere inopportuni. Inaspettatamente, quella volta non fu
così.
«Non me ne vogliate» riprese il ragazzo rivolgendosi ad

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Anita e Barbara, «ma lei è un incanto».
«Veramente ci hai interrotto nel bel mezzo di una
discussione» disse Linda in tono aspro, lasciando per un
attimo tutti di stucco. I modi del giovane erano stati pacati,
perfino dolci e l’atteggiamento di Linda, che era
nettamente in contrasto con questi, quasi fuori luogo,
dimostrava tutto il suo disagio.
«Forse non è il caso» s’intromise Anita rivolta al ragazzo.
«Magari ha solo bisogno di qualcuno che la addolcisca un
poco» riprese lui.
«In realtà stavamo parlando di come convincere mio
marito a mettermi incinta» rispose senza mezzi termini. Il
ragazzo restò quasi pietrificato.
«Io invece sarei disposta a divertirmi» proseguì Barbara,
«ma in questi giorni ho quello che si può definire il
peggior ciclo mestruale che abbia mai avuto, non credo sia
il caso. Magari sarà per la prossima volta».
Il ragazzo, mostrando i palmi aperti delle mani, tornò sui
suoi passi.

A casa Carli la partita era terminata.
Il poker aveva regalato le emozioni sperate e adesso si
stavano godendo l’effetto rilassante dell’alcol e del fumo.
Seduti sull’erba, osservavano il cielo stellato d’agosto.
«Penso che Linda voglia un figlio», Massimo ruppe il
silenzio senza avere una risposta immediata.
«E così finirono le serate di poker e le birre in compagnia»
disse Carlo dopo qualche minuto, come se avesse avuto
bisogno di elaborare l’informazione.

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Massimo aspettò sua moglie sull’uscio della porta. Il
rumore dei tacchi era sincronizzato al movimento
ondulatorio dei capelli. Era una donna bellissima e ne era
molto innamorato.
«Ciao», lo salutò mentre, allungandosi, gli diede un bacio
sulle labbra. Il suo profumo era intenso e gli ricordava
quello di un fiore nel bel mezzo della primavera.
«Sei bellissima. Tutti gli uomini saranno impazziti
vedendoti».
«Tra tutti gli uomini m’interessi solo tu. Com’è andata la
serata?»
«Bene. Gimondo ha vinto, Emanuele ha perso, abbiamo
bevuto un po’, il solito insomma. E la vostra?»
«Le solite chiacchiere tra donne» disse mentre, dopo aver
sfilato le scarpe, si avviava in bagno a piedi nudi. Massimo
stava cercando di immaginare la sua vita con un figlio.
Non sapeva come sarebbe cambiato il loro rapporto, se la
loro unione si sarebbe rafforzata o se ne sarebbe uscita lesa
alle prime difficoltà. Il pensiero di una piccola Linda da
abbracciare e coccolare lo faceva sorridere. Forse era
pronto per quel momento e avrebbe anche avuto
un’occasione particolare per parlarne con lei. L’indomani
sarebbe stato il loro anniversario di matrimonio. Si
avvicinò alla porta mentre, attraverso il vetro opaco,
intravide la sagoma slanciata del corpo di Linda.
«Domani sera ceneremo fuori, ti va?»
«Va bene. Devo essere elegante?»
«Potresti non esserlo?»

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CAPITOLO 4

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L’abito di seta nero aderiva al suo corpo in maniera
perfetta e ne faceva risaltare le dolci forme. I tacchi
slanciavano la sua figura e il colore dei capelli era intonato
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con quello delle labbra. Mentre dava l’ultimo ritocco al


trucco, sentì il suono del campanello. Corse alla finestra e
intravide l’auto. Massimo, in abito scuro, era appoggiato
alla portiera e sfoggiava un sorriso smagliante.
«Arrivo… » urlò mentre, correndo sui tacchi per
raccogliere la borsetta dal divano, si avviò alla porta.
Massimo la stava aspettando tenendogli la portiera e
appena si avvicinò, la salutò baciandogli la mano:
«Buonasera amore, sei bellissima».
Si alzò il vestito sopra le ginocchia e sedette sul divano
posteriore di pelle chiara. Il vetro scuro garantiva la loro
intimità mentre la luce blu delle lampade, creavano la
giusta atmosfera. Un cestello di acciaio era poggiato sulla
moquette e conteneva una bottiglia di Cristal immersa nel
ghiaccio. L’auto si avviò.
«Mi lasci senza fiato» esordì lui.
«Grazie» rispose Linda con un sorriso che voleva quasi
nascondere l’imbarazzo di una ragazzina al primo
appuntamento. «Vedo che stasera hai voglia di stupirmi».
«Voglio solo che sia una serata speciale».
«Il fatto che siamo insieme la rende già speciale» rispose
mentre, allungandosi, gli sfiorò le labbra. Arrivati a
destinazione, l’auto si fermò in prossimità di un grosso
cancello di ferro battuto circondato da alberi secolari. Un
viale coperto da ciottoli collegava l’ingresso principale a
un edificio di colore bianco dietro il quale, s'intravedeva
una distesa d’acqua che poteva essere un lago artificiale.

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Massimo prese Linda per mano e si avviarono verso
l'ingresso. All’ingresso una bellissima ragazza in tailleur
scuro salutò i due ospiti e li esortò a seguirla. Attraversato
un corridoio a volta ricavato direttamente nella pietra, si
ritrovarono in una sala rettangolare in cui erano
apparecchiati, in prossimità delle pareti laterali, una
ventina di tavoli circolari. Su ognuno era stata adagiata una
rosa rossa. Ai lati di ogni tavolo c’erano due sedie vuote.
Al centro della sala un pianoforte a coda nero sembrava
essere stato scolpito nello stesso marmo usato per la
pavimentazione. La sala era illuminata da due grandi
lampadari di cristallo.
«Scegli un tavolo» gli sussurrò a un orecchio. Entrando,
girò su sé stessa godendosi quella vista. «Sono tutti per
noi».
Linda si avvicinò al quello in prossimità della finestra
centrale, da cui si poteva ammirare il luccichio dell’acqua,
mentre un cameriere la faceva sedere.
«E’ splendido», fece lei a bassa voce. «E’ tutto perfetto».
«Sono contento che ti piaccia».
Fu versato lo champagne nei calici mentre la luce si
attenuò per far risaltare la vera natura della
pavimentazione. Tutta la sala poggiava su un piano di
cristallo scuro sospeso direttamente sullo specchio d’acqua
che, in determinate condizioni di luce, sembrava una lastra
di marmo nero. Massimo poggiò la mano su quella della
moglie. Lo smalto rosso faceva risaltare la forma
affusolata delle sue dita.
«Tu sei una persona speciale... e vorrei che rendessi
speciale anche me».

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Linda lo fissava con i suoi occhi verdi.
«Mi hai sempre donato tutta te stessa, non potrei chiederti
nient’altro che un pezzo di te».
Linda era incredula. Sperava che quel momento arrivasse
prima o poi, ma adesso non le sembrava vero. La sua
risposta non poteva essere che un sorriso illuminato da
lacrime di gioia. Un uomo può cercare di essere romantico,
sforzarsi di esserlo, può anche esserlo naturalmente, ma
nessuna donna può essere insensibile al romanticismo. Chi
in maniera più evidente e sfacciata e chi meno, ma la loro
sensibilità al tema è indiscutibile. Tanto che, anche per il
più sensibile tra gli uomini, determinati atteggiamenti
possono risultare incomprensibili. Solo l'uomo che impara
ad amare la sensibilità di una donna, non può fare a meno
di stare al suo fianco. Massimo invitò Linda ad alzarsi e,
abbracciandola, la guidò in un dolce ballo accompagnato
dal sottofondo musicale. Quella notte sarebbero tornati a
casa e avrebbero fatto l’amore come mai prima. Non
avrebbero cercato di darsi piacere a vicenda ma di donarsi
totalmente, anima e corpo. Quella volta, l’amore esplose
come non mai.

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CAPITOLO 5

34
Avvicinandosi all’ingresso, Carlo stava osservando
l’insegna che troneggiava sull’edificio. Il sole del mattino
era sufficientemente forte da procurargli un fastidio agli
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occhi non ancora adattati alla luce. Gli era molto più
semplice lavorare fino a tarda sera che di buon mattino
tanto che, quando era un semplice venditore, spesso aveva
dovuto sorbirsi ramanzine per i suoi ritardi. Il senso del
dovere aveva scatenato la volontà di essere uno dei primi
ad arrivare al negozio e uno degli ultimi a uscirne. Questo
suo atteggiamento era spesso motivo di critica da parte di
Emanuele che faticava a comprendere le trame che
condizionano la vita professionale nel settore privato. Per
lui una posizione lavorativa di riguardo, avrebbe dovuto
garantire privilegi tali da rendere migliore la vita stessa del
lavoratore. La sua filosofia si basava sul fatto che se avesse
dovuto sacrificarsi a favore della carriera, poteva essere
solo allo scopo di garantirsi un futuro migliore. Se sei il
direttore del negozio in cui lavori, ci entri e vai via quando
vuoi. Che senso avrebbe accettare un carico di
responsabilità superiore, senza alcun altro privilegio oltre
qualche misero spicciolo in più. Nessuno dei due riusciva a
spuntarla, forse perché non c’erano ragione e torto. Mentre
si avvicinava alla porta automatica, che sembrava non
volerne sapere di aprirsi fino a quando non ti fossi
ritrovato a qualche centimetro dal vetro, squillò il
cellulare. Era Anita. Non la chiamava ormai da due giorni.
«Amore, scusa se non ti ho chiamato prima. Sono stati due
giorni terribili».
«Sarebbe più facile essere seconda a un’altra donna».
«Ti avrei chiamato per dirti che possiamo vederci a

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pranzo. Ho bisogno di stare un po’ con te».
«Ti aspetto a casa?»
«Come vuoi. A dopo».
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Erano fidanzati ormai da qualche anno. Carlo era stato


colpito dalla sua bellezza ma l’aria da eterna bambina lo
aveva fatto innamorare. Il negozio aveva aperto da pochi
minuti ed essendo un giorno infrasettimanale, c’erano
pochissimi clienti. I commessi erano intenti a controllare i
prodotti tra gli scaffali mentre le ragazze sedute alle casse,
avevano un’aria vagamente annoiata. Solo Marika era
impegnata in una conversazione con una cliente. Man
mano che si avvicinava non riusciva a fare a meno di
fissare quella ragazza che, di certo, doveva essere abituata
a non passare inosservata. Bionda, fisico statuario, gonna
corta e décolleté da mozzare il fiato. Entrando in
ascensore, notò che le due si salutarono in modo
confidenziale. Seduto in ufficio, sfilò una Marlboro dal
pacchetto mentre, alzando la cornetta del telefono, digitò
l’interno del centralino. La voce di Marika interruppe il
secondo squillo:
«Cassa centrale».
«Ciao Marika».
«Buongiorno direttore. Caffè amaro?»
«Sì, grazie».
Dopo pochi minuti, entrò con la tazzina.
«Che bella cliente» disse sorridendo.
Marika percepì il tono malizioso:
«E’ una vecchia amica che sta cercando lavoro. E’ una
modella, come ha potuto notare».
«Magari potremmo assumerla per fare pubblicità. Ci

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potrebbe portare un bel po’ di nuovi clienti. E’ famosa?
Sembra di averla già vista... »
«Ha un aspetto che non si dimentica facilmente, questo è
certo» rispose lei prima di uscire.
Aveva già fumato abbastanza per essere sveglio da poche
ore, ma dopo il caffè era difficile resistere alla tentazione.
Accese la sigaretta e chiamò Massimo.
«Pronto?»
«Ho appena visto una dea» esordì.
«Che cosa hai preso? Procuramene un po’, stamattina ne
avrei bisogno».
«Non puoi capire. Devi vederla».
«Smettila con questa fissa delle donne. Quando la mattina
ti svegli arrapato, chiuditi in bagno, dagli due botte e cerca
di non infastidire chi cerca di lavorare».

Arrivato a casa di Anita, scese dall’auto e bussò al
citofono. Dalla finestra la ragazza gli fece cenno di salire.
In cima alle scale, trovò la figura esile ad aspettarlo alla
porta. I capelli corti e spettinati le davano un’aria
sbarazzina. I suoi grandi occhi azzurri contrastavano con il
colore marcato delle labbra e nell’assieme risaltavano la
sua bellezza. Il fisico snello e il corto vestitino, mettevano
in risalto le sue gambe. Carlo, pazzamente innamorato, era
consapevole della sua bellezza, anche se solitamente era
attratto da donne molto diverse da lei. La baciò in modo
appassionato.
«Oggi ho lasciato tutto per stare con te».
«Solo perché te l’ho chiesto stamattina».
«Ho solo tanta voglia di te» le disse stringendola a se.

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«Anche se mi vuoi bene, devi aspettare qualche minuto.
Finisco in bagno e andiamo».
Abbassandosi per prendere le scarpe, il vestito si sollevò
quel tanto da mettere in mostra la parte alta delle cosce.
Carlo non resistette all’istinto di appoggiarsi dietro
tirandola a sé per baciarle il collo.
La reazione di Anita non si face attendere:
«Ma che fai! Possibile che non pensi ad altro? Che avete
vuoi uomini nella testa?» urlò in maniera irritata paonazza
in volto.
«Volevo solo sentirti. Che ti prende?»
«Lo sai che non è il modo che piace a me. Ho bisogno
d’intimità, dolcezza».
«Senti Anita, io ti amo, sei la mia ragazza. Ma ti sei
accorta che non scopiamo da un mese?»
Quella discussione stava solo aspettando il momento di
saltare fuori.
«Sei un porco». Anita stava singhiozzando: «A volte ho
l’impressione che stiamo insieme solo per quello. Non
riesci mai a capire come mi sento e di cosa ho bisogno».
Carlo sarebbe voluto tornare a pochi minuti prima per
tenersi alla sedia nel momento in cui aveva visto il culo
della sua ragazza, solo per evitare quella discussione e
tutto quello che ne sarebbe scaturito. Tentò l’approccio
tenero, si avvicinò e la abbracciò, pensando a quanto
fossero complicate le donne.

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CAPITOLO 6

39
La macchinetta del caffè era installata in un piccolo locale
di fianco alla fotocopiatrice. Bisognava superare la porta
del magazzino per accedervi, in modo da riservarla al
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personale. Il primo caffè del giorno era quello che gli


portava Marika appena arrivato in ufficio, il secondo era
quello delle 10.30 alla macchinetta, dopo aver fumato
almeno le prime cinque sigarette del giorno. Sapeva che a
quell’ora ci andavano quasi tutti e la sua presenza avrebbe
di sicuro ridotto il tempo della loro pausa. Del resto aveva
il dovere di rendere credibile la sua mansione.
«Buongiorno a tutti» salutò.
Quello era anche il momento in cui incontrava per la prima
volta nella giornata i commessi, dopo aver trascorso
qualche ora in ufficio ad analizzare gli andamenti del
mercato e a rispondere a qualche mail. C’erano tre ragazzi
tra i venti e i trent’anni che aspettavano il caffè. Da
galantuomini avevano dato la precedenza a Marika che
stava prelevando il bicchiere dallo sportellino. Dai toni era
chiaro che stavano scherzando.
«Ragazzi il primo è pronto! Signorina lei l’ha già preso
vero?» disse uno di loro sorridendo malizioso.
«Certo. Lo prendo solo in un modo. A me piace lungo»
rispose lei scatenando l’ilarità degli altri due.
«Allora prenditi il mio» disse l’altro porgendogli il
bicchiere.
La ragazza sbirciò dentro:
«E’ troppo corto per me. Magari se mettete insieme anche i
vostri... » disse rivolgendosi al gruppetto prima di avviarsi
alla porta sculettando.
Non conosceva quel lato del carattere di Marika e ne

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rimase affascinato.
«Ragazzi, non sarà un granché ma mi attizza» osservò uno
di loro.
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«Chi l’avrebbe mai detto» asserì Carlo.


«Dicono che si è scopato tutti i capi reparto del vecchio
negozio, compreso il direttore».
Carlo non era mai stato attratto da lei, che non poteva di
certo definirsi una grande bellezza. Era una ragazza
comune, passabile secondo i suoi canoni, ma quel lato del
carattere gli aveva fatto cambiare opinione. Tornato alla
sua scrivania, sedette appoggiando la testa allo schienale
osservando un punto invisibile del soffitto. Il negozio che
dirigeva era uno dei tanti, disseminati sul territorio
nazionale, facenti parti di un’unica catena. C’erano delle
linee guida definite da seguire nella gestione delle filiali e
proprio da queste, nonostante se ne sentisse limitato,
doveva ripartire per migliorare le vendite. La merce che
commercializzavano, era quella che si poteva trovare in un
qualsiasi punto vendita della concorrenza. Non mancava
nulla, si andava dai piccoli elettrodomestici ai più
tecnologici apparecchi audiovisivi. Aveva anche fatto
allestire una piccola libreria in cui si vendevano le ultime
novità oltre una discreta raccolta di best seller. I prezzi
erano accuratamente determinati in modo da essere
concorrenziali garantendo in ogni caso un buono standard
qualitativo. Scostò la tenda della grande finestra, attraverso
la quale poteva osservare buona parte delle corsie. In quel
momento notò due ragazzi avviarsi all’uscita senza
acquisti. Era sicuro di averli visti entrare mentre saliva in
ufficio e notò che si erano trattenuti solo pochi minuti.

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Entrambi utilizzavano volantini per rinfrescarsi. Era metà
settembre e anche se l’estate non aveva ancora mollato la
presa, non si poteva dire che facesse un caldo
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insopportabile. Solo in quel momento notò il


condizionatore autonomo acceso e il valore di temperatura
indicato sul pannello frontale: venticinque gradi.
Probabilmente Marika lo accendeva prima del suo arrivo.
Compose l’interno del magazzino e attese la risposta
dell'addetto alla manutenzione degli impianti.
«Volevo sapere se c’erano guasti al sistema di
condizionamento».
«A dire il vero, sono due giorni che il sistema non è
avviato. Ho richiesto l’intervento dei tecnici e dalla sede
centrale mi hanno assicurato che arriveranno entro fine
settimana. Gliene avrei parlato alla prossima riunione di
coordinamento».
«Capisco. Comunque quando nascono dei problemi, di
qualsiasi natura, anche se possono sembrare banali, voglio
che me ne parli subito».
«Vuole che faccia qualcosa?» riprese l'addetto intimidito.
«Per ora no» rispose prima di riagganciare.
In quel momento capì che avrebbe dovuto iniziare dal
miglioramento dell’ambiente. Sapeva che un cliente,
sentendosi a proprio agio, avrebbe trascorso più tempo nel
negozio oltre a sentirsi più predisposto all’acquisto. Tutte
le strategie di marketing, il bombardamento mediatico, i
messaggi subliminali, i ribassi e i fuori tutto, non sarebbero
valsi a nulla se il cliente non superava la seconda corsia del
negozio per il troppo caldo o perché c’era puzza di muffa.
Forse era il caso di studiare una strategia di marketing

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sensoriale per migliorare il confort del punto vendita. Non
sapeva se avrebbe dato i suoi frutti, ma era veramente a
corto di idee. Quantomeno adesso aveva una linea da
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seguire. Chiamò l’interno della cassa centrale e chiese di


Marika. Dopo pochi minuti varcò la porta del suo ufficio.
«Penso che tu sia la persona più adeguata a svolgere
questo compito».
«Sono qui per fare del mio meglio» rispose appoggiando le
ginocchia sulla sedia posta di fronte alla scrivania,
mettendo in bella mostra il seno prosperoso. Adesso
cominciava a notare l'atteggiamento disinibito nei suoi
confronti.
«Ho bisogno di erogatori di profumo per ambiente».
«Certo».
«Portamene dei campioni. Sei tu che accendi il
condizionatore di mattina?»
«E lo spengo di sera» rispose lei avviandosi alla porta.
«Senti» riprese Carlo richiamando la sua attenzione, «sei
libera a pranzo? Magari mangiamo qualcosa insieme».
«Perché no» rispose la ragazza prima di uscire.
Sapeva che non avrebbe dovuto farlo per diversi motivi.
Il primo: Anita.
Il secondo: perché era una commessa del suo negozio.
Il terzo: Massimo lo ripeteva spesso. Se proprio devi fare
una cazzata, che ne valga la pena.

Carlo la stava aspettando all’uscita del parcheggio. La
possibilità che qualche dipendente la vedesse salire in auto
erano minime visto che a quell’ora erano quasi tutti in sala
mensa. Si diresse verso la statale per fermarsi dopo

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qualche chilometro in un ristorante in cui era solito
pranzare. Ordinarono un pasto leggero accompagnato da
vino bianco. Dopo circa mezz’ora si stavano godendo
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l’atmosfera che si era creata, alimentata dall’effetto


disinibitorio dell’alcol. Finito il pranzo, uscirono ridendo
dal locale e si avviarono in auto. Marika aveva iniziato a
dargli del tu su sua insistenza, almeno quando non erano in
negozio. Carlo imboccò la strada del ritorno mentre lei
stava legando i capelli dietro la nuca specchiandosi nel
vetrino del parasole.
«Adesso è dura tornare a lavoro» disse lui per rompere il
silenzio che improvvisamente si era creato.
«Hai un’idea migliore?» rispose senza distogliere lo
sguardo dallo specchio.
Carlo non avrebbe voluto rischiare di farsi mandare a quel
paese per averci provato con una commessa, nonostante gli
sembrasse ben disposta.
Marika dovette percepire qualcosa e appoggiò una mano
sui suoi jeans, all’altezza della gamba destra. Sentì un
sussulto leggero e sorrise. Carlo abbassò lo sguardo e vide
la mano con le unghie laccate di rosso, avanzare verso la
patta dei pantaloni. Era una mano diversa da quella di
Anita e questo bastò a fargli venire un’erezione. Lei se ne
accorse e toccò la protuberanza dei pantaloni. Carlo
continuò a guidare con una sola mano. L’altra era
appoggiata su quella della ragazza e la guidava in un lento
movimento. Erano arrivati all’ingresso del parcheggio
quando Marika si fermò:
«Meglio che scenda qui, direttore» disse scandendo le
sillabe dell’ultima parola. Non era certo una ragazzina alle

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prime armi.

Arrivato in ufficio, stava ripensando a quanto accaduto
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quando squillò il suo Iphone. Era Anita. Attese qualche


momento prima di rispondere, quasi dovesse concentrarsi
per eliminare quell’immagine dalla mente per non
trasmettergliela telepaticamente.
«Ciao amore!» esclamò.
«Wow, quanta dolcezza! Dove sei?» chiese la flebile voce
all’altro capo della linea.
«Sono in ufficio. Sto elaborando una strategia di
marketing, stasera magari ne parliamo... per un parere.
Potrebbe essere solo una cazzata».
«Preferisco che ci facciamo le coccole. Prendiamo il plaid,
ci mettiamo sul divano e ci vediamo un bel film. Che dici?
Così mi distraggo un po’. Questo esame mi sta
assorbendo».
«Va bene» rispose lui, «allora ci vediamo a casa tua
stasera. Un bacio».
«Ciao cucciolo».
Poggiò lo smartphone sulla scrivania e decise di tuffarsi
nel lavoro, era l’unico modo per eliminare la confusione
che si era creata nella sua mente. Dopo alcune ore di
lavoro aveva stilato l’ordine del giorno per la riunione
settimanale e abbozzato alcune idee. L’obiettivo era
migliorare l’ambiente del punto vendita. Il reparto musica,
con gli impianti di riproduzione, avrebbe garantito il
sottofondo. Per evitare confusione, avrebbero allestito una
sala insonorizzata, dove i clienti avrebbero potuto
verificare la potenza sonora dei loro acquisti. Nel reparto

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videogame avrebbe fatto installare diverse postazioni di
gioco, ognuna con una console dove ci si poteva sfidare
con nuovi titoli. Lo squillo del telefono lo destò e alzando
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lo sguardo verso l’orologio, notò che l’orario di chiusura


era passato da diversi minuti. Si alzò dalla sedia e
attraverso la vetrata notò che i ragazzi si erano raggruppati
all’ingresso. Rispose.
«Direttore stiamo andando via, lei si trattiene ancora?» Era
Marika.
«Andate pure, io resto qualche altro minuto. Lasciate
accese le luci notturne e chiudete le saracinesche. Uscirò
dal retro».
«Quei documenti che mi ha chiesto sono pronti. Le
servono ancora per stasera?» chiese alzando il tono di voce
per essere certa che gli altri sentissero.
In un primo momento si sforzò di ricordare poi, in maniera
quasi involontaria, rispose:
«Certo. Ne avrei assoluto bisogno, se per te non è un
problema, ovviamente!»
«Si figuri. Dico agli altri di avviarsi».
Carlo restò impietrito, reggeva la cornetta senza riuscire a
credere a quanto era successo. Marika non si era mai
trattenuta oltre l’orario di lavoro e non esisteva alcun
documento. Era ovvio che volesse restare da sola con lui e
la sola idea, dopo quello che era accaduto nel pomeriggio,
lo eccitava. Cercò di rilassarsi. Non riusciva a evitare di
pensare ad Anita e in quel momento non era certo un bene.
Cercò di scacciare quel pensiero e si affacciò alla finestra
osservando il negozio vuoto e illuminato a malapena.
Accostò le tende e tornò alla sua sedia. Dopo qualche

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istante si aprì la porta e Marika, sorridendo, senza giri di
parole si avvicinò alla sedia, sollevò la gonna all’altezza
delle cosce e sedette cavalcioni su di lui. Carlo sentì il suo
odore. La tirò a sé e la baciò appassionatamente. Le mani
di Marika stavano slacciando la sua cintura.

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CAPITOLO 7

48
Massimo sedeva alla sua postazione nell’open space, la
stanza in cui prendevano forma tutti i progetti della
Marelli. Da quella posizione riusciva a intravedere i
monitor di tutte le scrivanie e, di tanto in tanto, controllava
che ognuno svolgesse le proprie mansioni. L’ambiente non
era commisurato al numero di persone che ci lavoravano,
tanto da richiedere l’apertura dei finestroni che davano
sulla strada, qualsiasi fossero le condizioni climatiche. La
parete che separava la stanza dalla Hall, era stata costruita
interamente in cristallo permettendo il passaggio della luce
naturale dal cortile, contribuendo al miglioramento del
benessere degli impiegati. Inoltre di tanto in tanto era
possibile intravedere Lena che, alzandosi sulle punte delle
scarpe per afferrare la cornetta del citofono, appoggiava il
petto sul bancone. In quella posizione era capace di
distrarre tutta l’ala sinistra dell’ufficio progettazione.
Tornò a guardare il display del Galaxy sul quale, racchiusi
in una serie interminabile di nuvolette rettangolari, erano
visibili i messaggi che stava scambiando con Linda.
L’ultimo era stato scritto da lei:
“Stasera tornerò più tardi”.
“Impegnatissima?”
“Devo valutare una serie interminabile di curriculum
appena arrivati”.
“Almeno qualcuno ancora assume”.
“Sono part-time per la sfilata che stiamo organizzando,
riguardano modelle”.
“Ci faccio un pensierino, posso essere molto carina!”
“Stupido... ci vediamo più tardi”.
“Un bacio”.

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Il telefono alla sua sinistra squillò nel momento in cui
stava scrivendo l’ultimo messaggio.
Era Lena:
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«C’è Riccardi della Teleprogetti. Dice di avere un


appuntamento».
«Fallo accomodare nella sala meeting e digli che arrivo tra
un attimo» rispose mentre, recuperando lo smartphone,
vide l’ultimo messaggio:
“Dimenticavo... ho un ritardo di quattro giorni”.

Il contratto con l’Ital Petroli era ormai alla firma e da
diverse settimane, l’intera Marelli era impegnata per
organizzare l’inizio delle attività.
Al Dottor Petrone era stata affidata la gestione del sito e
del personale interno mentre a lui, Zazà aveva affidato
l’approvvigionamento dei materiali e il coordinamento
delle attività di progettazione. Massimo stava
ridistribuendo il pacchetto di attività tra i più fidati
fornitori e tra essi, Armando Riccardi, era stato il primo a
essere interpellato. Il loro rapporto si basava su
un’amicizia che si andava consolidando con il passare
degli anni. Quando Massimo entrò nella sala, lo trovò
seduto al tavolo immerso in un’animata conversazione
telefonica mentre, dall’angolo della sua bocca, pendeva la
solita sigaretta. Il suo modo di vestire e la folta barba
scolorita, lo facevano sembrare molto più vecchio a
dispetto dei suoi quarantaquattro anni. In realtà Massimo
era convinto che quella barba fosse oramai totalmente
bianca ma, a causa delle quaranta e più Merit che Armando
fumava quotidianamente, assumeva quell’aspetto

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ossigenato. Nel complesso lo reputava una persona
piacevole, con cui spesso e volentieri riusciva anche a
chiudere qualche affare.
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«Uelà, carissimo», esordì terminando la telefonata senza


alcun saluto.
«Come stai?», chiese senza reale interesse Massimo
sedendo al suo fianco. Il rapporto che legava i due rendeva
quella trattativa poco formale.
«Cerchiamo di tirare avanti. Il capo è sempre così
cordiale?»
«Si nota tanto?»
«L’ho incrociato all’uscita, non ha risposto al mio saluto e
in realtà non mi ha nemmeno degnato di uno sguardo».
«Non è un grande amante della civiltà. Veniamo a noi. Sai
del contratto con l’Ital Petroli».
L’espressione di Armando lasciava pochi dubbi, quel
giorno era lì per portarsi a casa una fetta di quell’appalto.
Tutti sapevano che la Teleprogetti non navigava in buone
acque, con circa quaranta dipendenti e commesse in
portafoglio per meno di centomila euro, la bancarotta era
alle porte. Anche per un importo pari ai soli costi di
gestione, come responsabile commerciale della
Teleprogetti, Armando Riccardi quel giorno avrebbe
dovuto portare a casa quello che significava lavoro per far
tirare avanti le quaranta famiglie di cui, in un certo qual
modo, ne sentiva la responsabilità.
«Nel rispetto del nostro rapporto di amicizia, sei il primo
cui mi sono rivolto. Ho già deciso qual è il pacchetto che
vorrei affidarti ma, ovviamente, è necessario raggiungere
un accordo che vada bene per entrambi. Sappi che non

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voglio approfittare della situazione in cui versate ma
purtroppo, il periodo non è dei migliori. Oggigiorno per
aggiudicarsi un contratto del genere, è necessario ridurre
all’osso tutti i margini. Voglio che sia tu a fare il primo
passo» terminò Massimo.
«La situazione della Teleprogetti è sotto gli occhi di tutti.
A volte non si riescono nemmeno a immaginare le cause di
una crisi del genere. Siamo arrivati al punto che i fornitori
non ricevono pagamenti da quattro mesi e, di questo passo,
entro fine anno sarà difficile assicurare gli stipendi ai
dipendenti. Siamo già pronti per una richiesta di cassa
integrazione. In questo momento quindi, una commessa
del genere ci consentirebbe di tirare un po’ avanti sperando
in un miracolo».
«Posso immaginare i problemi che stanno investendo la
tua azienda» lo interruppe Massimo, «ma devi comunque
tener presente che, nonostante tutto, ho il dovere di
interpellare altri competitor per un confronto. Dovrete fare
del vostro meglio per assicurarvi l’appalto, sarà una dura
battaglia».
«Massimo, dimmi tu il prezzo e chiudiamo adesso la
trattativa. Ho pieno potere decisionale, devo portare il
lavoro a casa a prescindere dall’importo. Dimmi tu e
chiudiamo subito».
Massimo non voleva essere scortese ma non intendeva
nemmeno che la disperazione dell’altro lo potesse
costringere alle corde. In questi casi capiva l’importanza di
tenere ben distinti il lavoro dall’amicizia.
«Non è un problema di prezzo. Non so ancora a cosa sono
disposte le altre aziende che interpellerò».

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«E’ proprio questo il punto» intervenne Armando, «fai in
modo che non ci sia il bisogno di interpellare nessun altro.
Tu puoi. Non ti sto chiedendo nessun favore, decidi tu il
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prezzo».
«Non sarebbe corretto nei confronti della Marelli e degli
altri fornitori che come te, hanno bisogno di questo
lavoro».
«Non dirmi che mi reputi alla pari degli altri».
«Su questo terreno si!» esclamò Massimo.
Armando capì che sarebbe stata dura, come sempre, e che
con quell’atteggiamento non l’avrebbe spuntata. Avrebbe
dovuto cambiare strategia.
«Massimo, ascoltami per una volta. Siamo tu ed io in
questa stanza. Ripeto, ho pieno potere in questa trattativa e
devo, sottolineo, devo portare quest’ordine a casa,
altrimenti continuerò ad essere considerato quel venditore
mediocre che, neanche avendo carta bianca e con un
amico, riesce a concludere un contratto. Devi pur affidare
la fornitura e perché no, fallo subito per il miglior prezzo
che la Marelli possa aspettarsi. Ci guadagnerebbero tutti
insomma... e anche tu» finì sottovoce.
Armando si guardò intorno e, avvicinandosi, continuò
parlandogli in tono confidenziale.
«Chiudiamo il contratto, l’azienda mi ha messo a
disposizione il dieci per cento dell’importo in contanti per
terminare l’affare, per eventuali spese impreviste. Qui sei
da solo a decidere, prendili tutti tu».
Massimo avvampò. Era stupito non tanto dalla proposta
ricevuta, ma da chi l’aveva avanzata. Non era la prima
volta che gli offrivano un “incentivo”, ma si sentiva

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orgoglioso di aver sempre rifiutato. Si riteneva una persona
onesta, forse per l’educazione ricevuta o per natura, ma era
soddisfatto di potersi guardare allo specchio tutte le
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

mattine, senza sentire la voglia di sputarsi in faccia.


«Sai che non accetterò».
«Ma per favore! Sai cosa si dice in giro di Pietro Marelli?»
L’espressione incuriosita lasciava intendere la risposta.
«Sta prosciugando il patrimonio dell’azienda mentre quelli
come te si fanno il culo per portarla avanti e farla
arricchire. Mentre tu incrementi l’utile portandoti a casa il
fisso mensile, il tuo Zazà se lo fotte per comprarsi ville,
barche e per scoparsi una escort diversa al giorno. Senza
considerare i viaggi in Sudamerica che la Marelli finanzia
per farlo divertire con qualche minorenne. Il colmo è che
lo racconta in giro. Chi cazzo te lo fa fare? Inizia a pensare
un po’ a te e alla tua famiglia».
«Quello che guadagno mi basta. E comunque mi pagano
bene» riprese con un tono poco convincente. Non era la
prima volta che sentiva quelle voci e anche Lena gli aveva
parlato di atteggiamenti sospetti che aveva notato.
«A quanto ammonta l’ordine?» chiese Armando.
«Saranno circa trecentomila euro, ma considerando alcune
attività aggiuntive che potremmo decidere di subappaltare,
arriverebbe a quattrocentomila, su per giù».
«Sono quarantamila euro, pronti per te. La maggior parte
delle persone che lavorano in quest’ufficio, impiegherebbe
qualche anno per guadagnarli. Non rispondermi adesso.
Pensaci su». Si alzò e gli porse la mano.
Senza dilungarsi nei saluti, Massimo lo accompagnò alla
porta dopodiché tornò a sedersi al tavolo. Era confuso,

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forse era giusto cominciare a pensare ai propri interessi.
Avrebbe potuto garantire un futuro migliore alla sua
famiglia.

La riunione di coordinamento si teneva ogni lunedì
mattina. In quell’occasione, Carlo poteva discutere con i
capo reparti dei principali problemi incontrati durante la
settimana e definire le eventuali azioni correttive e
preventive da adottare. Quel giorno però, aveva voluto
tralasciare i soliti argomenti per avanzare le nuove
proposte che aveva elaborato durante la settimana.
Settembre era quasi trascorso e mancava poco alla fine
dell’anno commerciale. Avrebbe attuato la nuova strategia
e, nel caso avessero riscontrato anche solo una piccola
variazione in positivo degli incassi rispetto agli ultimi
mesi, il programma sarebbe andato avanti anche l’anno
successivo altrimenti, avrebbe avuto la certezza che fosse
una grande cazzata. Gli sguardi attenti dei suoi
collaboratori gli trasmettevano fiducia e qualcuno aveva
già lasciato la sala per fare la propria parte. Marika che,
oltre a coordinare le attività alle casse faceva anche da
interfaccia tra i vari reparti, partecipava a tutte le riunioni.
Prima di lasciare la sala gli comunicò che i diffusori
ordinati erano stati consegnati ed erano stati depositati nel
magazzino:
«Il magazziniere ha chiesto un giorno di ferie, dovrai
trovarli da solo» disse mentre raccoglieva i documenti dal
tavolo e si accodava agli altri per uscire.
«Penso che questo sia un grosso problema. Il disordine del
magazzino è da primato nazionale».

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«Posso aiutarti».
Carlo sorrise, non le mancava certo l’iniziativa.

AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Il magazzino era costituito da un’enorme struttura in


cemento alta circa sei metri, un grande spazio aperto, dove
colonne di elettrodomestici ancora imballati facevano da
pareti divisorie. Un vero e proprio labirinto per chi non
fosse solito percorrere quei corridoi. Carlo seguiva la scia
di profumo emanato dai suoi capelli. Il ticchettio degli
stivali alti riecheggiava tra gli spazi angusti.
«Sono sicura che il pacco sia stato accantonato nella zona
ricezione».
La merce in partenza era riposta temporaneamente nella
zona del varco ma in quel momento, si stava dirigendo
nell’area opposta dell’edificio. Quando Carlo tentò di
protestare, Marika lo zittì portandosi l’indice sulle labbra.
Quel semplice gesto lo eccitò, pensando che quella donna
in quel momento lo desiderava. Avevano appena svoltato
nei pressi di una colonna di lavatrici quando lo afferrò per
il giubbotto e lo spinse alla parete di elettrodomestici. Lo
baciò con forza cercando la sua lingua. Carlo gli infilò le
mani sotto la maglietta e cingendola, la tirò a se.
«Vediamoci dopo nel mio ufficio» disse lui ansimante,
«qui potrebbero vederci».
Marika non sembrava intenzionata a lasciarlo andare:
«Ti voglio adesso, qui. Chi vuoi che ci veda. E poi e più
eccitante» disse infilando la mano nei suoi pantaloni.
Aveva ragione. Era capace di spingere la sua eccitazione
oltre limiti che non aveva mai raggiunto. Non provava
alcun sentimento per lei, era puro sesso, ma di quelli che

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soddisfano. Guardandolo negli occhi gli abbassò i
pantaloni prima di inginocchiarsi davanti a lui. Carlo alzò
gli occhi al cielo.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA


Seduto alla sua scrivania, stava osservando distrattamente
lo schermo del computer. Sfilò una sigaretta dal pacchetto
e la accese. Quelli erano i momenti in cui si facevano
avanti i sensi di colpa, quelli che fino a qualche minuto
prima, aveva scacciato in un angolo remoto della sua
mente ma che adesso, sazio dell’appetito sessuale, si
rifacevano avanti con tutta la loro insistenza. Non avrebbe
mai messo in discussione l’amore che provava per Anita,
per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa. Dopo aver fatto
l’amore, restavano abbracciati e godevano della sensazione
di tranquillità coccolandosi a vicenda. Anita era una
ragazza dolcissima. Non l’avrebbe mai tradita facendo
l’amore con un’altra. Lui e Marika scopavano. Prese lo
smartphone e compose l’ultimo numero del registro
chiamate. Massimo rispose quasi subito.
«Ho bisogno del tuo punto di vista».
«Che strano modo di salutare».
«Come si chiama la ragazza che lavora con te, quella
carina di cui mi hai parlato spesso».
«Presumo sia Lena» rispose Massimo sconcertato.
«Esatto. Mettiamo il caso che rimaniate da soli in ufficio»
riprese Carlo.
«In ufficio? Figurati, c’è gente che fa più straordinario di
quanto ne riescano a fare due cinesi messi insieme».
«Massimo, cerca di aprire la tua mente per favore.
Mettiamo che Lena venga da te e si sieda addosso. Cosa

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faresti?»
Massimo capì dove voleva andare a parare. Avevano
affrontato quella discussione svariate volte ed erano
sempre arrivati alla stessa conclusione. Nessuno dei due
avrebbe voluto tradire ma non potevano essere certi di
riuscire a rifiutare le avances di una bella donna. A volte
per strada si divertivano a stilare la classifica di quelle per
le quali l'avrebbero fatto senza tentennamenti. In quelle
occasioni Massimo gli faceva notare che non solo avrebbe
tradito più di lui, ma l’avrebbe fatto anche per dei veri e
propri cessi. Così, in quel momento, non gli fu difficile
pensare che Carlo stesse valutando la possibilità di
scoparsi qualche cassiera.
«Non so se hai mai visto Lena, ma ti posso assicurare che
ogni qualvolta sono venuto al tuo negozio, non ho mai
notato nessuna per la quale a mio avviso valga la pena
tradire Anita. Fatti passare la smania. Sei arrapato? Fatti
una sega».
«Ti ricordi di Marika? Alla cassa centrale?»
Massimo l’aveva vista qualche volta e non ne era rimasto
colpito. Non pensava nemmeno lontanamente al paragone
con Anita e mentre stava per esporgli il suo parere, fu
interrotto:
«Me la sono scopata».
A quell'affermazione rimase sconcertato, non aveva mai
creduto nella reale possibilità che lui o Carlo avessero
potuto realmente tradire le rispettive ragazze.
Dopo qualche secondo rispose:
«Hai fatto bene. Quante volte?»
«E’ circa una settimana».

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«In che senso?» chiese Massimo.
«Nel senso che in una settimana me la sono fatta in tutti i
modi».
«Ascolta signore del sesso, te la sei scopata, ti sei tolto lo
sfizio e hai fatto bene. Adesso cerca di allontanarla, prima
che possa pensare che tra voi ci sia qualcosa di più. E’
fidanzata, sposata?»
«E’ single, ma lo sa che io ho una storia seria».
Massimo lo interruppe subito:
«Devi stroncare. Oltretutto è una dipendente del tuo
negozio. E poi c’è Anita, non lo dimenticare. Non puoi
sostenere due storie, cerca di capire il senso!»
Carlo aveva capito a cosa si riferisse Massimo. Era ovvio
che una storia come quella si basava interamente sul sesso
e l’euforia iniziale lo avrebbe portato ad avere più rapporti
sessuali in una settimana che in un intero anno con la sua
ragazza. E quando Anita gli avesse chiesto di fare l’amore,
come avrebbe reagito?
«Forse hai ragione».
«Ecco» riprese Massimo, «se proprio non puoi farne a
meno, trovatene un’altra. E che questa volta ne valga la
pena» scherzò sarcastico.
Dopo aver riattaccato, controllò la lista degli amici dal
profilo di Marika, nella speranza di riconoscere la
bellissima ragazza bionda che aveva visto la settimana
prima. Per sua sfortuna Marika aveva una dote innata per
le pubbliche relazioni, la lista contava circa seicento
contatti. Era come cercare un ago in un pagliaio.

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CAPITOLO 8

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Carlo si stava guardando allo specchio. Quella mattina non
era molto contento del suo aspetto, sembrava aver passato
una notte insonne. Negli ultimi periodi prestava più
attenzione alla cura del corpo e Anita non aveva potuto
fare a meno di notarlo. Si rase e fece una doccia
nonostante fosse già in ritardo. In quel momento Anita
doveva essere già al negozio per scegliere la nuova piastra
per capelli e l’idea che fosse Marika ad aiutarla lo metteva
in uno stato d’agitazione. Preferiva evitare di godersi la
scena, anche se sapeva che il modo migliore per non
destare sospetti, era comportarsi nella maniera più naturale
possibile. D’altro canto confidava nel buonsenso di
Marika. Quando varcò la soglia d’ingresso, cercò di
dirigersi alla scala che portava in ufficio senza farsi notare.
Da lì avrebbe chiamato Anita invitandola a salire. Quello
che vide però mandò in frantumi il suo piano
costringendolo a preferire l’improvvisazione. Il suo battito
accelerò istantaneamente. Marika e Anita si stavano
avvicinando alla cassa centrale tenendosi sottobraccio. I
volti rilassati e sorridenti le facevano sembrare vecchie
amiche che s’incontrano dopo tanto tempo. Anita aveva tra
le mani una scatola. Anche volendo scappare in ufficio, era
impossibile non farsi notare. Cercò di assumere
l’espressione più naturale possibile e con un sorriso forzato
le andò incontro.
«Hai trovato quello che cercavi?» chiese senza preamboli
prima di darle un casto bacio. Poi rivolgendosi a Marika la
salutò in un modo che gli sembrò gelido.
«Ti senti bene?» chiese Anita sorridendo. «Sei pallido.
Non preoccuparti non ti svaligio il negozio».

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«Credo di non aver dormito bene. Forse sono un po’
stanco». Poi si rivolse a Marika cercando di percepire il
suo stato d’animo:
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Già conoscevi Anita?»


«In realtà l’ho conosciuta meno di un’ora fa. Quando è
arrivata, ha chiesto di lei al centro accoglienza. Ho capito
subito che era la sua fidanzata, chi l’aveva vista mi aveva
parlato della sua straordinaria bellezza e dei suoi occhi
azzurri, era impossibile non riconoscerla. Anche se i
commenti in realtà non le rendono giustizia».
«Sei veramente gentile» disse Anita. Poi rivolgendosi a
Carlo continuò: «Credo anche che sia un’ottima
collaboratrice. E’ stata davvero gentile e professionale».
«E’ sicuramente la migliore dipendente del negozio»
rispose lui notando l’occhiata fulminea di Marika. In quel
momento, ebbe l'impressione che cominciava a essere una
reale minaccia.

Stava percorrendo in lungo e largo i pochi metri quadri che
separavano la scrivania dalla porta, quando udì il rumore
dei passi provenienti dalle scale. Stava ripensando a quanto
era accaduto poco prima e a come potesse evolvere quella
situazione. Alzò lo sguardo verso la porta che si apriva
fino a scorgere la sagoma di quella che era la sua maggiore
preoccupazione in quel momento.
«Stavi pensando alla tua amata?» chiese Marika
richiudendo la porta. Si avvicinò a Carlo e, dopo aver
lanciato un’occhiata per assicurarsi che le tende fossero
accostate, gli strinse le braccia in vita. Si allungò in punta
di piedi per appoggiare le labbra al collo, sentendo il

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sapore amaro di dopobarba.
«Ero concentrato sul lavoro. Fino a qualche secondo fa»
finse con un tono acido. Percepì che il contatto con quel
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

corpo, non gli sortiva più lo stesso effetto di prima. Si


scostò per avviarsi alla scrivania e se quel gesto voleva
segnare la fine di quella che si sarebbe potuta definire
relazione, Marika non se ne accorse. O almeno non lo
diede a vedere.
«Questa notte non ho potuto fare a meno di pensarti. Avrei
voluto averti con me... nel mio letto» riprese lei mentre,
con passo sensuale, avvicinandosi sedette sulle sue gambe.
«Perché non dormi da me stasera. Potremmo avere tutta la
notte per noi. Sono stufa delle sveltine» continuò mentre,
afferrando i suoi polsi, poggiò le mani sulle calze velate.
Muovendo sinuosamente il bacino, sentì l’erezione
attraverso il tessuto leggero della gonna.
Mentre il movimento si faceva più intenso, Carlo la bloccò
con le grandi mani e la sollevò lentamente. Marika parve
sorpresa da quell’atteggiamento, ma capì che non era il
momento giusto per fare giochi di seduzione.
«Cosa c’è che non va? Non ti eccita scoparti un'amica
della tua ragazza?»
«Non mi eccita...»
Il tono della sua voce riecheggiò tra le pareti della stanza.
Non terminò la frase forse per paura della reazione di
Marika. Avrebbe voluto piantarla in quell’istante ma,
sapeva che ci sarebbe voluto molto tatto. E avrebbe dovuto
avere molta pazienza per evitare ripercussioni.
«Ascolta Marika», il suo tono adesso era affettuoso, «non
voglio che fraintenda le mie intenzioni. Questa relazione è

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nata un po’ per gioco, come svago per entrambi». Marika
mostrava un sorriso quasi amaro annuendo, mentre
mormorava parole che sembravano di assenso. Sapeva
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

dall’inizio su quale base si fondasse la sua relazione con


Carlo, ma era stata più debole del turbine di emozioni che
l’avevano travolta.
«Fammi continuare, per favore. Non rendiamo le cose più
difficili» riprese Carlo. Marika abbassò le mani in segno di
resa e lo fissò negli occhi, pronta ad ascoltarlo.
«Sai che amo Anita e ti posso assicurare che per nulla al
mondo la lascerei. Sappi che mi piaci e che sono attratto da
te. Sei una gran bella donna, sei sexy, e insieme scopiamo
alla grande. Lo abbiamo voluto entrambi ed è stato bello.
Eravamo però consapevoli che era sesso, e basta. Penso di
non averti nascosto nulla, dall’inizio sono stato chiaro con
te. Siamo persone adulte, non ragazzini che non riescono a
gestire una cotta...»
Marika aveva gli occhi arrossati e distolse lo sguardo per
farsi coraggio. Nella sua voce si notava un tremolio dovuto
al pianto soffocato in gola:
«Hai ragione. Non hai promesso nulla più di quello che mi
stai dando ed è molto per me. Non sei il primo uomo con
cui ho portato avanti una storia di sesso e fino ad ora, ero
sempre riuscita a gestire le mie emozioni. Con te però è
diverso…»
«Marika, devi tornare in te stessa. E non è detto che finisca
tutto qui. Chi può dirlo, magari un giorno, quando saremo
entrambi più lucidi e ci andrà…»
Quelle parole avevano acceso in lei un barlume di speranza
che non fece altro che peggiorare la situazione,

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trasmettendole la forza di reagire. Con la voce rotta dai
singhiozzi Marika riprese:
«Perché non stiamo bene insieme? Non ti chiedo di
lasciare la tua ragazza, solo che non vorrei essere esclusa».
«Così rendi tutto più difficile. Non posso amare due
persone… non ci riesco».
Gli afferrò il viso tra le mani e lo sollevò fino a incrociare i
suoi occhi: «Marika ascoltami, dobbiamo guardare in
faccia alla realtà. Io non amo te, amo Anita ed è la donna
con cui voglio passare il resto della mia vita, quando
deciderò di sposarmi. Non posso darti quello che vuoi.
Quando ci andrà, se ci andrà, possiamo sempre farci una
gran bella scopata. Ma potremo essere solo amici».
Forse Carlo era stato troppo diretto ma dall’espressione di
Marika, sembrava che il messaggio fosse stato accolto,
anche se forse non aveva sortito l’effetto desiderato.
«Sei proprio uno stronzo!» esclamò indignata.
«Vaffanculo!» gridò mentre si avvicinava a passo spedito
verso la porta.
La reazione di Carlo non fu immediata, ebbe bisogno di
qualche secondo per metabolizzare il colpo. Non si
aspettava quell'atteggiamento e non capiva se era stata
colpita nella dignità o era veramente innamorata.
«Vaffanculo tu! Troia».

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CAPITOLO 9

66
Linda stava osservando distratta la foto sulla scrivania, che
la ritraeva tra le braccia di Massimo ai piedi della torre
Eiffel. Sembravano due pupazzi di neve avvolti
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

nell’imbottitura dei giacconi e, quell’immagine, le fece


ricordare il freddo che investì Parigi durante quell'inverno.
Quella mattina si sentiva nostalgica e avrebbe preferito
essere altrove, se non fosse stato indispensabile completare
le assunzioni. La Graffiti si distingueva sul mercato per la
competenza dei dipendenti. Gli abiti confezionati, erano in
gran parte frutto del loro lavoro. Gli stilisti lanciavano la
linea da seguire, i modellisti sviluppavano le idee
rendendole operative, i sarti creavano gli abiti, il marketing
organizzava gli eventi per la promozione, le modelle
mostravano le creazioni e, le persone come Linda,
coordinavano il tutto. In realtà era l'addetta al personale e
quindi provvedeva alle assunzioni temporanee necessarie
per lo svolgimento di singoli eventi ma, grazie alle sue
spiccate doti di manager, veniva spesso coinvolta dai
dirigenti alla ricerca di consigli. In quei giorni era
impegnata nella ricerca di una nuova modella per la
presentazione della collezione primavera estate. Si trattava
di chiudere un contratto part-time di circa un mese, che
includeva, oltre alla sfilata, una serie di sedute fotografiche
necessarie per la pubblicazione di un book. Non era un
compito che richiedeva molto impegno. Una modella
doveva distinguersi per bellezza e portamento, qualità che
risaltavano immediatamente alla vista. Di certo non era
necessario studiare la psiche umana per sceglierne una,
soprattutto per un contratto part-time. La ragazza che le
sedeva di fronte, non gli ispirava molta simpatia. Era una

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questione di sensazioni, non le piaceva. Dopo una breve
presentazione del lavoro, gli aveva sottoposto il modulo da
compilare con i dati anagrafici. Non serviva a nulla, in
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

realtà lei aveva sempre i curriculum delle persone che si


sottoponevano ai colloqui, ma in quel frangente le faceva
guadagnare un po’ di tempo da dedicare ai suoi pensieri.
Aveva un leggero mal di testa e uno strano malessere che,
da quando si era svegliata, la stavano disturbando.
Avrebbe solo desiderato essere lontana dal suo ufficio. La
ragazza, che aveva dei tratti somatici vagamente orientali,
le stava raccontando delle sue precedenti esperienze
mentre, con la mano sinistra, compilava le righe vuote
velocemente. A suo dire aveva sfilato per le più grandi
case di moda italiane. Le bastarono pochi minuti per avere
un'idea della persona che aveva di fronte. Parlava troppo
per i suoi gusti e lo faceva velocemente. Aveva notato che
non batteva quasi mai le palpebre e che, quando la fissava,
sembrava sgranare le pupille oltre i limiti umani. Tirava
continuamente su con il naso:
«Soffre di qualche patologia in particolare?» chiese in
modo distratto. «Qualche allergia magari. La sfilata si terrà
a breve, dovrò essere sicura che le modelle siano in
perfetta forma».
«Assolutamente nulla, solo un po' di raffreddore» rispose
prontamente la ragazza. Linda aveva già deciso che non
l’avrebbe assunta. Prese in consegna il modulo firmato e,
salutandola cortesemente, le comunicò che sarebbe stata
eventualmente contattata, sfoderando il più bel falso
sorriso della sua carriera. Appena la ragazza richiuse la
porta alle sue spalle, Linda arrotolò il foglio tra le sue mani

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e lo buttò nel cestino. Restava un colloquio, ma avrebbe
avuto bisogno di una boccata d’aria. Chiamò il centralino
chiedendo di far entrare la prossima candidata e di farla
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attendere. Nel frattempo, approfittò per andare in bagno e


darsi una rinfrescata.

Elena stava aspettando il suo turno nel lungo corridoio.
Sarebbe stata la sua prima esperienza con un’azienda di
rilevanza nazionale, un trampolino di lancio per la sua
carriera che le avrebbe permesso di mettersi in mostra
davanti al pubblico importante. Avrebbe accettato il lavoro
anche gratis, ma era consapevole che sarebbe stato difficile
ottenerlo. Le sue preoccupazioni ebbero conferma quando
vide una delle pretendenti uscire da quell’ufficio,
bellissima, con un portamento da far invidia a qualsiasi top
model. Una ragazza così, avrebbe potuto sfilare
tranquillamente al fianco di Naomi Campbell nel periodo
più florido della sua carriera. Le sue speranze si
affievolirono mentre una voce proveniente dall’impianto di
diffusione sonora, richiamò la sua attenzione:
«Sarti è attesa nell’ufficio del personale. E’ pregata di
accomodarsi e di attendere la Dottoressa Valle».
Era il suo turno. Si avviò per il corridoio e, posando la
mano sulla maniglia della porta, trasse un profondo
respiro. Entrò sfoderando il suo miglior sorriso rivolto alla
scrivania che in quel momento era vuota. Sul suo volto il
sorriso ammaliante si trasformò in un’espressione ebete.
«Cominciamo bene» sussurrò avvicinandosi alla sedia.
Linda sentì il rumore della porta mentre era intenta a
osservarsi allo specchio. La sua immagine non era certo

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quella della salute e in più sentiva un senso di nausea,
oramai insopportabile. Pensò che di lì a poco avrebbe dato
di stomaco. Era proprio una brutta mattinata. Dopo essersi
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

ricomposta, uscì dal bagno. La bellezza della ragazza che


si trovò di fronte, la mise di buon umore. Durante la sua
carriera, aveva incontrato tante ragazze di bell'aspetto ma
poche di loro erano riuscite a destare il suo interesse. In
realtà, non era solo l’aspetto fisico che la interessava, ma
la simpatia e la semplicità che riuscivano a trasmettere.
«Buongiorno. Lei è? »
«Sarti. E’ un vero piacere Dottoressa. Elena Sarti. Elena se
vuole».
«Bene Elena. Sai già cosa stiamo cercando?»
«In realtà so che avete bisogno di una modella per la
prossima sfilata e che sarà un lavoro di qualche mese.
Sarei molto felice di poter collaborare con voi».
«Ascolta Elena» disse Linda, «stiamo cercando una
ragazza che riesca a integrarsi bene nel gruppo già
formato. Ho bisogno di semplicità, umiltà e bellezza. E a
mio avviso tu possiedi questi requisiti».
«La ringrazio. Io non ho grande esperienza, ho iniziato da
poco».
«Hai frequentato qualche corso specifico?» chiese secondo
il protocollo.
«Ho intrapreso gli studi classici e dopo la maturità, ho
seguito un corso professionale all’accademia».
Linda stava ammirando la bellezza di Elena senza riuscire
a staccare gli occhi dal suo sguardo magnetico. Era
convinta di aver trovato ciò che cercava.
«Prendi questo modulo e scendi al piano terra. Compilalo e

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consegnalo alla segretaria, gli dici che la Dottoressa Valle
ha trovato ciò che cercava. Dopodiché ti farai
accompagnare nei camerini, dove ti prepareranno per la
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prova in passerella. Da quel momento in poi, dipenderà


solo da te».
«Grazie dottoressa, cercherò di essere all’altezza».
«Te lo auguro» rispose Linda mentre, alzandosi, gli porse
la mano.
Appena fu sola, si avviò di corsa al bagno. La nausea era
insopportabile. Mai come quella mattina un malessere
poteva essere più dolce. La speranza che quelli fossero i
sintomi di una dolce attesa fece nascere un sorriso
sull’immagine riflessa nello specchio. Chiudendo gli occhi
immaginò il figlio tanto desiderato, il frutto dell’amore tra
lei e Massimo e si ritrovò ad accarezzarsi le braccia. La
tentazione di conoscere la verità, combatteva con la paura
di un falso allarme. In tanti anni di relazione con Massimo,
non avevano mai usato un vero e proprio metodo
contraccettivo. Quanto tempo era passato dall’ultimo
ciclo? Cinque settimane, forse poco più. Un tempo
sufficiente per verificare un’eventuale gravidanza. Decisa
uscì dall’ufficio e, attraversando il corridoio a testa bassa
per evitare sguardi indiscreti, si precipitò verso l’ingresso
principale dell’edificio.

Dall’altro lato della strada, una persona stava osservando
la donna di bell’aspetto che, a passo svelto, si dirigeva
nella direzione opposta. Era ben vestita con una camicia
azzurra su una maglia a collo alto nera, coperta da una
giacca. Al collo pendeva il tesserino di riconoscimento

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necessario per muoversi liberamente all’interno
dell’edificio, a spalla la borsa capiente. Cominciò a
seguirla.

La farmacia era a poche centinaia di metri di distanza e ci
arrivò in pochi minuti. L’ambiente, caratterizzato da un
colore bianco candido, le trasmetteva una sensazione di
estrema pulizia, al punto da sentirsi a disagio guardando le
sue mani appoggiate al bancone. La ragazza che si trovava
di fronte, impegnata a telefono, con un gesto impercettibile
le fece capire che sarebbe stata in un attimo a sua completa
disposizione. Aveva un bell’aspetto oltre a un cordiale
sorriso, con i capelli biondi legati in una coda che
poggiava sul bianco colletto del camice. Sul risvolto del
petto portava una spilla su cui era stampato il caduceo, i
due serpenti attorcigliati alla bacchetta, simbolo
dell’ordine dei farmacisti che, secondo alcuni, sottolinea il
leggero confine tra l’effetto medico e velenoso dei farmaci.
Mentre era assorta in questa immagine, una dolce voce la
destò:
«Buongiorno Dottoressa Valle, cosa posso fare per lei?».
Linda restò sconcertata non riconoscendo la ragazza.
Aveva sempre vantato la sua memoria fotografica e la
sorpresa, dipinta sul volto, fece nascere un sorriso radioso
sul volto della farmacista.
«E’ scritto sul tesserino...» disse indicandolo con un dito,
«...il suo nome».
Linda abbassò confusa lo sguardo e, guardando il badge,
sorrise prima di nascondere il viso con una mano in segno
d’imbarazzo:

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«Certo, scusi. Stamani mi sento stralunata» disse
guardando negli occhi la ragazza. Doveva essere
veramente confusa quella mattina, tanto che la perspicacia
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che l’aveva sempre contraddistinta e aiutata nel suo lavoro,


sembrava essersi presa una pausa.
«Ascolti Dottoressa D’Amico» continuò leggendo in
maniera plateale il nome inciso sulla targhetta affissa al
camice, «ho un ritardo di cinque settimane e volevo sapere
se un test di gravidanza può essere attendibile. Non vorrei
rischiare di alimentare false speranze».
«Dopo cinque settimane il test è attendibile nel 95% dei
casi e poi, il rischio è di non rilevare la gravidanza. Nel
caso di test positivo, la percentuale sale al 98%».
«Va bene» rispose Linda, «allora me ne dia uno».
La farmacista incartò il test e lo allungò verso di lei:
«Sono quattro euro e settantacinque. Le istruzioni sono
all’interno».

Entrata in ufficio lasciò la giacca e la borsa sul piano della
scrivania e chiuse la porta a chiave. Sapeva che nessuno
sarebbe entrato prima di essersi fatto annunciare dalla
segretaria ma, in quel modo, si sentiva protetta dal mondo
esterno. Avrebbe voluto che Massimo fosse lì con lei e per
un attimo fu tentata di inviargli un messaggio, ma si tenne
dal farlo. Mentre entrava in bagno, aprì la confezione e
spiegò il bugiardino iniziando a leggere:
«Tutto quello che devi fare, è tenere la punta assorbente
rivolta verso il basso esponendola al flusso di urina».
Non aveva mai fatto un test prima di allora e la sua
espressione, mentre guardava quell’oggetto misterioso, ne

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era la prova evidente. Tirò il cappuccio blu e ne comparve
una punta assorbente. Adesso sembrava molto più padrona
di se.
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«Non sarà poi così difficile. Forza Linda, hai superato cose
molto più complicate di questa» disse cercando di farsi
coraggio.
Appoggiò tutto sul piano del lavabo e, abbassando i
pantaloni, si sedette sul water. L’operazione fu più
semplice del previsto.
Riprese il bugiardino e continuò a leggere.
«Attendere tre minuti. La comparsa di linee blu indica che
il test è in corso di esecuzione... ed eccole qua. Ci sono. La
comparsa del segno + nella finestra dei risultati, indica che
l’esito è positivo».
Sbuffò mentre, guardandosi allo specchio, sistemava una
ciocca di capelli dietro l’orecchio. Notò che il cuore stava
cominciando a battere più velocemente e che il volto si era
arrossato un po’. Probabilmente era l’eccitazione del
momento giustificata dall’ansia di quell’attesa. In quel
momento cominciò a immaginare come cambierebbero la
sua vita e quella di Massimo con un moccioso per casa.
Era sicura che sarebbero stati ottimi genitori, premurosi ed
affettuosi e che il coronamento della sua vita, vissuta con
l’uomo che amava più di ogni altra cosa, forse stava per
avverarsi. Si ritrovò a fissare i suoi occhi verdi lucidi,
evidenziati dalle pupille ristrette per la luce proveniente
dall’applique sopra lo specchio. Abbassò lo sguardo fino a
vedere che era comparsa una croce azzurra all’interno
della finestra più grande della pennetta. Il suo sorriso si
trasformò in una leggera risata rotta da qualche singhiozzo,

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le lacrime cominciarono a scendere sulle sue guance
mentre si portava una mano alla bocca. Controllò
immediatamente le istruzioni riportate sulla confezione del
test e confrontò l’immagine con il segno apparso. Non
c’erano dubbi, il test era positivo. Stringendo le mani a
pugno cominciò a saltellare sul posto, eccitata dal pensiero
di comunicare la notizia a Massimo. Il sogno avuto sin da
bambina stava per realizzarsi, sarebbe diventata mamma.

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CAPITOLO 10

76
La batteria dell’Iphone era quasi scarica e preferì chiamare
dal fisso. La tentazione di raccontare subito tutto a
Massimo era forte, ma preferiva farlo guardandolo negli
occhi e magari tenendogli la mano. Rispose con il solito
tono professionale. Con l’avvento della tecnologia GSM, si
era persa l’abitudine di rispondere con il classico
“pronto?” Chi ha posseduto un cellulare negli anni ’90, da
un giorno all’altro ha visto comparire sul display, come per
magia, il numero del chiamante. Da quel momento, si era
passati ai diversi “ciao!”, “ehi!”, “che fine avevi fatto!” e
così via. Il punto interrogativo scacciato dall’esclamativo.
Massimo era forse uno dei pochi esseri viventi, a non
essersi accorto che la telefonia aveva fatto passi da giganti.
«Si?»
«Se non fosse per me, non ci sentiremmo mai durante il
giorno» disse Linda.
«Scusami, a volte perdo la cognizione del tempo».
«Voglio passare un po’ di tempo con mio marito, subito, e
non sono disposta ad accettare scuse» riprese lei facendo
trapelare eccitazione nella voce.
Massimo non poteva far altro che accettare l’invito
lasciando tutto all’istante.
«Ti raggiungo?»
«Vediamoci al Lounge tra un’oretta».
Avrebbe avuto il tempo di tornare a casa e prepararsi.
Voleva che fosse tutto perfetto. Anche il posto non fu
scelto a caso. Qualche anno prima, seduti ai tavolini di
quel locale, Massimo le chiese di sposarlo. Adesso lei,
nello stesso posto, gli avrebbe detto che aspettavano un
bambino.

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Quando decise di allontanarsi, vide la ragazza avvicinarsi
alla Mini parcheggiata qualche metro più avanti. Forse
avrebbe potuto scoprire dove abitava. Saltò in auto e si
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

avviò nel traffico.



Entrando in casa sentì il profumo emanato dai fiori in
giardino. Aveva letto su qualche rivista che la gravidanza
poteva amplificare i sensi, ma probabilmente, la
suggestione stava facendo la sua parte. Sfilò le ballerine
attraversando il corridoio e, a piedi nudi, entrò in camera
da letto. Avrebbe indossato qualcosa di più adatto
all’occasione, magari un abito scuro. Aprì la cabina
armadio e, dopo aver rivolto la sua attenzione a un paio di
décolleté neri tacco dodici, lanciò sul letto le piccole
scarpe che ancora reggeva tra le dita.

Entrando nel locale si diresse verso i tavoli nell’area privè
dove, si aspettava di trovare Massimo. Un uomo vestito
impeccabilmente si avvicinò: «Buonasera signora. Vuole
accomodarsi?»
Nonostante l’atteggiamento professionale, la sua
espressione lasciava intendere che non riusciva a fare a
meno di essere affascinato da quella donna. Non era facile
reggere il suo sguardo.
«Mio marito mi sta aspettando. Sono la Dottoressa Valle».
«La accompagno subito» rispose l’uomo abbassando
impercettibilmente la testa. Linda faceva quell’effetto a
molti uomini che le dedicavano un’attenzione quasi
reverenziale. Massimo era seduto al solito tavolo e, alla
vista della moglie, si alzò per baciarla castamente sulle

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labbra. Aveva i capelli sciolti e i riccioli che le scendevano
sulle spalle sembravano brillare di luce propria.
«Sei bellissima. Come sempre».
Linda sorrise e, sedendosi sulla comoda poltrona,
accavallò le lunghe gambe regalandogli una vista
meravigliosa. Era chiaro che avesse voglia di sedurlo.
Amava quel posto, l’atmosfera perfetta, la luce soffusa e la
parete in vetro rivolta verso le luci della città, creavano un
alone di intimità che avvolgeva le persone. In sottofondo,
la voce di Frank Sinatra regalava Night and Day.
«A cosa dobbiamo questo piacevole incontro, una
ricorrenza o un evento?» esordì Massimo.
Linda teneva gli occhi fissi in quelli del marito sorridendo
lievemente: «Nel caso di una ricorrenza, la tua sarebbe
stata una dimenticanza. La escluderei a priori, giacché
sono ancora seduta qui».
«A questo punto direi che siamo qui per un evento e, visto
l’atmosfera, è uno di quelli che meritano un
festeggiamento degno di nota» rispose accarezzando la
barba ispida sul mento. Cominciava a divertirsi. In quel
momento pensò che fosse da tanto che non flirtava con la
moglie. Allungò la mano all’interno della giacca e tirò
fuori un pacchetto di Winston Blu. Non era un fumatore
incallito ma, in occasioni particolari, si concedeva il
piacere di quel vizio. Aprì il pacchetto e ne offrì una a
Linda che, come lui, non era immune ai piaceri della vita.
Linda alzò in modo impercettibile la mano in segno di
rifiuto. Massimo ne sfilò una e la accese, aspirando una
generosa boccata. Alzò la mano per richiamare
l’attenzione di una ragazza che passava nei dintorni:

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«Buonasera, cosa bevete?»
«Una bottiglia di Cristal, grazie».
«E un’acqua tonica» intervenne Linda.
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«Non fumi, non bevi alcolici, vuoi festeggiare l’inizio di


una vita sana?»
Linda prese le mani di Massimo e dolcemente le appoggiò
sul suo ventre:
«O voglio festeggiare l’inizio di una nuova vita e basta»
rispose con gli occhi lucidi. Massimo sorrise e osservando
le sue mani, cercò di assimilare quello che sua moglie gli
aveva appena detto.
«Mi stai dicendo che siamo in dolce compagnia, in questo
momento?»
Quella reazione fece sorridere Linda:
«Beh, tecnicamente siamo in dolce compagnia da circa
cinque settimane. Comunque sì, aspetto un figlio da te».
Massimo si avvicinò per baciare quella che era la madre di
suo figlio.
Frank stava cantando “My way”.
E’ strano come una notizia del genere, possa scatenare le
più disparate emozioni secondo diverse condizioni. Lo
stato d’animo, l’atmosfera, la compagnia o lo stesso
ambasciatore possono condizionare in maniera importante
la reazione. Nel caso di Massimo, era tutto perfetto. La
donna che amava gli aveva confessato di essere in attesa di
suo figlio, voluto per completare il loro splendido
matrimonio. La melodia di quella canzone che amava lo
stava cullando. Linda non poteva che regalargli emozioni
indescrivibili e il loro amore rendeva il tutto perfetto.
La vibrazione dello smartphone fu amplificata dal

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bicchiere di cristallo. Tanto bastò per attirare la loro
attenzione. Linda alzò gli occhi al cielo scorgendo il nome
di Marelli e, visibilmente esasperata, invitò Massimo a non
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

rispondere.
«Dammi un minuto» sussurrò alla moglie.
Linda restò seduta guardandolo uscire in cerca di un posto
tranquillo. Massimo cercava sempre di tenerla lontana dai
problemi legati al suo lavoro ma, come dimostrava
quell’occasione, spesso i suoi sforzi erano vani. Prese il
suo bicchiere e, sorseggiando l’acqua tonica, attese il suo
ritorno.

«Com’è possibile?»
La conversazione era abbastanza animata.
«Ci riescono tutti tranne noi. Proviamo con vari fornitori,
magari con importi piccoli tanto per cominciare».
«So benissimo quanto sia importante quest’appalto, ma
purtroppo non è facile racimolare così tanti contanti. Penso
che dovremmo ritrattare e trovare un’altra soluzione».
Massimo si passò la mano tra i capelli, disperato:
«Ritrattare? Stai scherzando? De Iulius non riaprirà mai la
trattativa. Non possiamo rischiare di perdere
quest’opportunità. Queste persone giocano con i milioni
come fossero noccioline e ci piscia sopra le nostre
elemosina».
Massimo aveva capito che quella discussione non poteva
continuare al telefono:
«Ascolta, dammi un’ora e sono li. Non possiamo
permetterci di ritrattare».
Massimo chiuse la conversazione e si ritrovò in un’altra

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realtà. Doveva tornare da Linda e dirle che per problemi di
lavoro doveva lasciarla lì, in compagnia dell’appena
conosciuto bambino, a terminare la bottiglia di champagne
che non poteva bere, per poi tornarsene da sola a casa ed
eventualmente aspettare a letto che tornasse. Non era certo
il massimo.
«Che cosa succede?» chiese divertita dall’espressione
imbarazzata dipinta sul suo volto.
«Dovrei passare in azienda per discutere di un affare
importante».
Linda non poteva essere che dispiaciuta e non gli andava
giù che la loro vita privata dovesse così spesso scontrarsi
con la carriera di suo marito. In ogni caso, non poteva far
altro che alleggerire l’atmosfera ed evitargli inutili sensi di
colpa.
«Vai pure, finisco il drink e torno a casa. Offro io questa
sera» disse sfoderando il suo fantastico sorriso.
Massimo si abbassò per baciarla:
«Sei fantastica».

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CAPITOLO 11

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Settembre volgeva al termine, ma le giornate erano ancora
lunghe. Il crepuscolo aveva appena lasciato spazio
all’oscurità quando, lanciando uno sguardo al computer di
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bordo, notò che erano le 20.00 in punto. Il primo volto che


Massimo vide scendendo dall’auto, fu quello di Pietro
Vallesi. Si poteva arrivare a qualsiasi ora del mattino o
della sera in quell’edificio e trovarlo sempre lì, con la tuta
da lavoro, intento a fare chissà cosa. Era difficile
immaginare che quell’individuo, meglio conosciuto da tutti
come Don Piè, potesse avere una vita privata con tanto di
moglie e figli a cui dedicare quel poco di tempo libero che
Zazà gli lasciava. Non erano chiare le sue mansioni, così
come la sua posizione all’interno dell’organigramma
aziendale. La sua carriera presso la Marelli era iniziata non
più di un paio d’anni prima, quando fu assunto come
trasportatore. Da quel giorno, aveva lavorato come
magazziniere, autista, operaio in cantiere e perfino
giardiniere. Tutti sapevano che in realtà, era l’uomo di
fiducia di Zazà, i suoi occhi e le sue orecchie nei momenti
in cui era fuori sede. Un compito che nemmeno ai suoi
figli aveva affidato. Questo non perché Don Piè avesse la
sua stima o qualità invidiate perfino al KGB,
semplicemente sapeva cosa Pietro Marelli aspettava di
sentirsi dire in un determinato momento. E lui lo
accontentava. Il più di quello che usciva dalla sua bocca
flatulenta era falso, ma accontentava il gran capo e questo
lo portò ad avere in poco tempo una discreta influenza
verso i dipendenti. Bisognava comunque ammettere che
Don Piè pagava tutto quello al costo della sua dignità,
calpestata da Zazà ogni qualvolta lo ritenesse opportuno.

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Pietro Marelli alla modica cifra di uno stipendio, aveva
comprato quell’individuo. Oltre la famiglia Marelli, le
uniche persone che potevano influenzarlo erano Massimo e
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Antonio Petrone.
«Buonasera Massimo. I capi ti stanno aspettando».
«Come mai ancora qui?» chiese ironico.
«Potrei mai abbandonare la barca?»
Vallesi aveva questo modo strano di comunicare, lasciava
intendere che scherzasse dicendo cose che in fondo
pensava realmente. Così facendo, assecondava la persona
che aveva di fronte pur restando coerente con sé stesso e
questo, secondo Massimo, dimostrava che fosse più
intelligente di quanto sembrasse. E comunque, era
certamente un tipo molto sveglio.
«Mi raccomando, cerca di tenere tutto sotto controllo»
continuò scherzando. Era il suo modo di gestire quella
persona e il suo burattinaio, fare buon viso a cattivo gioco.
L’ufficio di Zazà era l’unico ancora illuminato e
dall’interno, arrivava un forte odore di fumo. Il posacenere
colmo, indicava che la riunione era iniziata già da un bel
po’ e che senza dubbio era stata animata. Entrò salutando e
si diresse verso la sedia libera di fronte alla scrivania stile
Luigi XIV. Le imbottiture di pelle verde risaltavano sul
mogano arricchito d’inserti e fregi in oro. Gli arredi di
quella stanza, scelti da Zazà, erano in netto contrasto con
lo stile moderno dei restanti locali, tanto da sembrare
accantonati lì in attesa della loro destinazione.
«Come ti accennavo a telefono, non possiamo gestire
quest’affare secondo gli accordi» esordì Marelli
rivolgendosi a lui. Aveva un atteggiamento

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inopportunamente tranquillo mentre raccoglieva, con le
mani, piccole tracce di cenere che si erano depositate tra le
scartoffie sulla scrivania.
«Non riesco a racimolare una cifra del genere, in contanti
poi. Dobbiamo ritrattare».
Quell’atteggiamento lo stava irritando:
«E’ escluso cambiare le condizioni. Mi avete lasciato
concludere l’affare e sono sicuro che era l’unico modo per
farlo. De Iulius si è esposto con noi e un passo falso
significherebbe non solo far saltare l’affare, ma mettere
fine a ogni speranza di una futura forma di collaborazione
con Ital Petroli. Cerchiamo di non prendere decisioni
affrettate».
«Non c’è altra possibilità. L’Agenzia delle Entrate ci tiene
sotto controllo e questo esclude il ricorso a fatture di
comodo» riprese Zazà.
«Come ne sei al corrente?»
«Da fonti affidabili. Presumo che anche le linee
telefoniche siano sotto controllo e quindi dobbiamo fare la
massima attenzione».
A Massimo sembrava una delle solite esagerazioni di
Zazà:
«Per quale motivo l’Agenzia delle Entrate dovrebbe
controllare la Marelli, di nascosto, se non ci sono mai stati
problemi con il fisco».
«Ammettiamo che l’informazione ricevuta sia veritiera»
intervenne Petrone che fino a quel momento si era limitato
ad ascoltare, «se ci sono controlli riguarderanno operazioni
effettuate in passato e quindi non dovremmo
preoccuparcene».

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«Non ho assoluta voglia di prendere questa cosa alla
leggera».
«Valutiamo le conseguenze di questa decisione» continuò
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lui. «Questo contratto, nel migliore dei casi, non porterà


alcun guadagno. Alle condizioni stabilite, dovremmo fare
del nostro meglio per limitare i danni. D’altro canto, non
possiamo sottovalutare la continuità di lavoro che
assicurerebbe. Garantirebbe l’occupazione a una buona
parte dei dipendenti che altrimenti, tra qualche settimana,
si ritroverebbero senza occupazione».
Marelli stava spegnendo l’ennesima sigaretta:
«Valuterò le possibilità. Di certo non metterò a rischio la
mia azienda per un errore di valutazione frutto della
frenesia».
Marelli aveva usato volutamente quel tono autoritario.
Aveva discusso con i suoi più fidati collaboratori ma alla
fine, aveva voluto mettere bene le cose in chiaro. Potevano
perdere delle ore, ma la decisione spettava esclusivamente
a lui.

Avrebbe preferito un epilogo diverso per quella serata,
nonostante tutto non si sentiva sola. L’aria fresca che
entrava dal finestrino della sua Mini profumava d’autunno,
e la voce suadente di Diana Ross riempiva l’abitacolo:
“Do you know where you're going to?
Ti piacciono le cose che la vita ti sta mostrando?
Dove stai andando?
Lo sai?
Ottieni ciò che stai sperando di avere?
Quando ti guardi indietro, vedi che non ci sono porte

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aperte in cosa speri?
Lo sai?”

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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Il viale che conduceva all’ingresso principale della sua


abitazione era appena illuminato e quindi non fu difficile
scorgere, a distanza, la luce che filtrava dalle finestre.
Linda era sicura di non essere salita al piano superiore,
forse Massimo era passato a casa per prendere la borsa o il
notebook. Avvicinandosi, notò che il cancelletto e il
portone principale erano appena aperti e, confusa, decise di
scendere dall’auto dopo aver parcheggiato alla meglio. I
tacchi alti affondarono nei ciottoli diffondendo il rumore
nel silenzio della notte. La sua attenzione fu richiamata da
una voce proveniente da un lato della strada:
«Mi scusi. Potrebbe aiutarmi?»
Un uomo di corporatura robusta, con un’evidente cicatrice
sulla fronte, si avvicinò all’auto a passo spedito. Era uno di
quei momenti in cui il cervello, dovendo analizzare troppe
informazioni insolite senza avere il tempo sufficiente per
farlo, procura un blocco all’intero sistema motorio.
Sarebbe bastato un qualsiasi segno di pericolo per farla
allertare, ma all’uomo bastò poco per trovarsi a faccia a
faccia.
«Chi è lei?» riuscì a replicare prima di ritrovarsi una mano
ruvida premuta sulla bocca.
«Adesso troia, non fare la stronza. Non gridare e non fare
cazzate che non ti succederà niente». Nel frattempo, con
l’altra mano, l’aggressore gli afferrò i lunghi capelli
attorcigliandoli e tirandoli con forza. Così facendo, gli
bloccò la testa senza dargli la possibilità di muoversi in

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alcun modo. Tutto le diventò più chiaro, qualcun altro si
era addentrato in casa. Li avevano visti uscire ma erano
stati colti di sorpresa da quel ritorno improvviso. Doveva
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

cercare di stare calma e sperare che finisse tutto al più


presto. La puzza di sudore che trapelava dalla camicia
sudicia, era nauseante. L’uomo le lasciò i capelli per sfilare
dai pantaloni una pistola, mettendola bene in vista:
«Adesso ti libero la bocca. Non fare cazzate».
L’espressione di spavento che trapelava dagli occhi, fu la
risposta che si aspettava.
«Svuota la borsa» gli intimò puntando l’arma in direzione
della stessa. Sul punto di piangere, Linda la aprì e
cominciò a scavare all’interno. «Che cazzo fai, stronza!» le
urlò contro l’uomo strappandogliela dalle mani. Lasciò
cadere tutto il contenuto a terra:
«Abbassati e prendi il portafogli. Dimmi se hai qualcosa di
valore».
Linda raccolse il borsello coperto dalla scatola del test di
gravidanza: «Ascolti, prenda tutto quello che c’è».
«Dammi l’anello» intimò mentre le sfilava il portafogli
dalle mani.
Linda, tra i singhiozzi, cominciò a maneggiare la fede
nell’inutile tentativo di sfilarla. Nel frattempo, l’ombra di
quello che doveva essere il complice, comparve sull’uscio
della porta soffermandosi qualche istante sorpreso dalla
scena che gli si presentò di fronte. A quel punto l’uomo,
dopo essersi infilato la pistola nella cinta dei pantaloni,
afferrò la mano sinistra di Linda e, tirandola con forza,
infilò l’anulare in bocca ungendolo con la propria saliva.
L’uomo parve eccitato dal senso di disgusto che trapelava

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dal volto della donna. Tirò fuori il dito e ci sputò sopra
prima di sfilare l’anello.
«Girati e appoggia le mani sul cofano».
Da lontano cominciarono a intravedersi i fari accesi di
un’auto che si addentrava nel viale.
«Andiamo!» lo esortò il compagno mentre usciva dal
cancelletto.
L’uomo spinse Linda verso la Mini:
«Sei proprio una gran figa».
Linda, poggiando il volto sul dorso delle sue mani, poté
sentire il tanfo della saliva dell’uomo, mischiato alla puzza
di nicotina e alcol.

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CAPITOLO 12

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Quel pomeriggio aveva spento il telefono e si era tuffato
nel lavoro. Quando guardò l’orologio, vide che erano da
poco passate le 19.00. Per quel giorno poteva bastare.
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Avrebbe chiamato Massimo durante il tragitto per


chiedergli se gli andava una birra. Era l’ultimo giorno del
mese di settembre, ma era ancora piacevole guidare con i
finestrini aperti. Quando il suono di un campanello segnalò
l’arrivo di un sms, Carlo immaginò che Massimo avesse
trovato la sua chiamata persa. Armeggiò con i tasti per
sbloccare la tastiera e vide che il messaggio era stato
inviato da Marika. Sbuffando, mentre alternava lo sguardo
tra il display e il parabrezza, lesse il testo:
“Carlo mi dispiace, non volevo arrivare a tanto. Spero che
non sia cambiato niente tra noi… TVB”.
Non credeva ai suoi occhi. Forse la situazione era più
difficile di quanto avesse pensato. La discussione del
mattino, avrebbe dovuto sancire la fine di quella relazione,
almeno lo aveva sperato. Per tutto il resto della giornata,
aveva tenuto un atteggiamento scostante nei suoi confronti
ma evidentemente, non era servito a nulla. Non aveva
alcuna voglia di sostenere quella situazione e decise di
rispondere:
“Non devi assolutamente contattarmi su questo numero per
questioni che non riguardano il nostro rapporto
professionale, l’unico che deve riguardarci”.
Inviò il messaggio senza rileggerlo e lanciò il cellulare sul
sedile passeggero. Era quasi arrivato a casa di Massimo. A
priva vista, Linda sembrava essere in compagnia ma,
procedendo lentamente verso l’abitazione, si rese conto
che quella che gli si presentava davanti, era una scena

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tutt’altro che ordinaria. Quando capì quello che stava
accadendo, d’istinto accelerò puntando diretto alle sagome
dei due uomini che erano in procinto di allontanarsi. Si
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fermò di botto in prossimità della Mini sperando di essere


arrivato in tempo.
«Linda come stai?» chiese balzando fuori dalla vecchia
Ford.
«Carlo, o mio Dio! Nulla di preoccupante, sto bene» disse
rincuorata dalla sua presenza.
Carlo le afferrò le braccia e cominciò a esaminarla. Era
visibilmente scossa ma non mostrava segni di violenza.
«Chi cazzo erano?»
«Ladri. Si sono intrufolati in casa, forse sapendo che non
c’era nessuno».
«E Massimo?»
«E’ andato in ufficio. Eravamo insieme, poi io sono tornata
anzitempo perché è dovuto rientrare a lavoro».
«L’importante è che stai bene» gli disse abbracciandola.
«Entriamo in casa, vediamo cosa manca prima della
denuncia. Vuoi che lo chiami?»
«No, lascia stare. Non è nulla di grave» disse mentre un
conato di vomito la costrinse a fermarsi sul viale del
giardino.

La luce soffusa dei faretti creava nella stanza l’atmosfera
giusta per farsi coccolare dai propri pensieri. Carlo stava
pensando a questo mentre, con le mani nascoste nelle
tasche dei jeans, faceva avanti e indietro tra il divano e la
vetrata che affacciava sul giardino. Con la testa bassa
osservava i mocassini blu ripensando all’accaduto. Linda

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per il momento aveva preferito evitare la denuncia anche
perché, non sembravano ci fossero evidenti danni o altri
segni di scasso oltre la serratura della porta principale,
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forzata probabilmente con un grosso cacciavite. Dopo una


rapida ispezione, aveva notato la mancanza della reflex che
aveva appoggiato sul divano, e di qualche gioiello che
conservava nel portaoggetti in camera da letto.
Probabilmente si trattava di semplici ladri alla ricerca di
valori da rivendere al mercato nero. Decise di fare una
doccia, quasi a voler scacciare quella sensazione di sporco
che si sentiva addosso:
«Non ti ho nemmeno chiesto se volevi qualcosa, magari un
caffè» gridò dal bagno.
«Non è il caso che ti preoccupi, me la cavo benissimo da
solo» rispose avvicinandosi alla credenza per scegliere la
bottiglia.
«Non c’è che dire, Massimo ha gusti raffinati» sussurrò
riempiendo il bicchiere di Oban.
«Fai come se fosse casa tua», la voce di Linda combatteva
con lo scroscio d’acqua e la porta chiusa.
«Fatto» si disse guardando la luce ambrata attraverso il
bicchiere. Sul divano erano state sparse, in maniera
disordinata, varie scartoffie e una cartellina. Sul dorso,
scritto in bella grafia, si leggeva:
“SFILATA NUOVA COLLEZIONE – schede candidate”.
Era ovvio che fossero documenti di Linda. Carlo raccolse i
fogli e cercò di riordinarli in una piccola pila da inserire
nella cartellina, non prima di dare un rapido sguardo alle
foto di quelle bellissime ragazze.
«Però! Deve essere difficile scegliere tra tanta bellezza»

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sussurrò mentre la sua attenzione fu catturata
dall’immagine di una ragazza bionda, la stessa che aveva
visto in negozio con Marika. La classica foto da casting.
Un mezzo busto mirato a far esaltare la bellezza del volto.
I capelli dorati che scendevano sulle spalle, illuminavano il
volto snello ed esaltavano i colori scuri degli occhi e delle
sopracciglia. Sulla scheda erano riportati i dati anagrafici
oltre alle referenze lavorative. In basso, riportate a mano
con una biro, alcune osservazioni che probabilmente Linda
aveva annotato durante il colloquio.
«Non è per niente facile scegliere» gridò per farsi sentire.
Nel frattempo lo scroscio d’acqua era cessato:
«In che senso?»
«Stavo sistemando le foto di queste modelle e non ho
potuto fare a meno di guardarle. Sono tutte bellissime.
Lavorano per voi?»
«Cercano lavoro. Purtroppo devo sceglierne solo una che
si aggiungerà al gruppo per una sfilata».
Carlo aveva sfilato l’Iphone dal taschino e stava annotando
i dati della ragazza:
«E-le-na Sar-ti» ripeté a voce sostenuta mentre batteva i
tasti sul touch screen. «Hai già scelto?»
Linda si affacciò dalla porta mentre, con un asciugamano,
si stava strofinando i capelli. Indossava una tuta blu
aderente e nonostante fosse scalza, il suo fisico era così
slanciato da mettere in ridicolo qualsiasi uomo sotto il
metro e ottanta che si fosse avvicinato. Era la moglie del
suo migliore amico e questo la rendeva per principio
morale intoccabile, ma non poteva fare a meno di
apprezzarne la bellezza.

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«Mi piace molto la ragazza bionda. Quella con gli occhi
castani. E’ carina e molto intelligente».
«Troppo comune» rispose di rimando Carlo, «meglio la
nera, faresti un figurone. Dammi retta, ne capisco di
donne. Scegli lei».
«Ne capisci a modo tuo» ribatté lei attraversando la stanza
per sedersi sul divano. Allungò le lunghe gambe sul
bracciolo facendone evidenziare la linea perfetta. Carlo
cambiò leggermente posizione in modo da distogliere lo
sguardo. La sua bellezza riusciva involontariamente a
metterlo in imbarazzo. In nessun modo i suoi atteggiamenti
erano rivolti ad attirare l’attenzione degli uomini o di altre
donne, era semplicemente così, involontariamente sensuale
in ogni suo gesto.
«Eri venuto per Massimo?»
«Niente d’importante. Non sai quando torna?» chiese
distrattamente osservando il display del cellulare.
«E chi può saperlo. Quando c’è bisogno di lui, non c’è
mai».
Carlo notò una lieve nota amara nella voce di Linda e si
sentì quasi in obbligo di difendere le ragioni del suo
migliore amico.
«Vorrebbe sempre darti il meglio» disse lui guardandosi
intorno, quasi a voler sottolineare che tutto quel benessere
non poteva essere solo frutto di capacità individuali, ma
anche di spirito di dedizione. «Arriverà molto in alto».
Linda prese una sigaretta dal pacchetto poggiato sul
tavolino. Non era salutare né per lei né per il bambino, ma
la serata animata le concedeva l’alibi per quel momento di
debolezza.

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«Anch’io ho una carriera che potrei definire brillante»
rispose in tono quasi offeso, «non per questo sacrificherei
il tempo da dedicare alla mia famiglia».
La discussione si stava spostando su un terreno tortuoso:
«Forse hai ragione. Si può fumare?» chiese per distogliere
l’attenzione.
«Stasera ce lo concediamo. E comunque, per cosa vale la
pena sacrificare il tempo da condividere con chi si ama,
che sia una moglie o un figlio, per soldi? Successo? A cosa
servono se non hai nemmeno il tempo di goderteli?»
«A volte ci sono dei momenti in cui si sente il bisogno di
essere più amati, questo non vuol dire che la colpa sia della
persona con cui si vive. Magari è necessario cambiare
qualcosa nella propria vita».
Linda si stava accarezzando i lunghi capelli guardando
Carlo negli occhi.
«Non è che me ne intenda molto di relazioni di coppia, ma
potreste valutare la possibilità di avere un bambino. Siete
una coppia fantastica, potrebbe dare un senso diverso alla
vostra unione».
«Già, potrebbe» sussurrò Linda mentre, senza prestarci
attenzione, stava accarezzando il ventre e dopo aver
soffiato una boccata di fumo blu, spense la sigaretta nel
posacenere attanagliata dal senso di colpa.

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CAPITOLO 13

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Il silenzio degli uffici era interrotto dal rumore dei tasti,
torturati da qualcuno che probabilmente aveva lavorato per
troppi anni su un’Olivetti. Massimo lanciò un’occhiata alla
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

sinistra della reception, dove si trovava l’angusta stanzetta


che Lena utilizzava come ufficio, e incrociando i suoi
occhi azzurri alzò una mano in cenno di saluto. Si affacciò
alla porta da cui proveniva il flebile mormorio dove,
Petrone e Marelli, stavano conversando in maniera
rilassata. Evitò di addentrarsi nell’argomento ma era sicuro
che Petrone stava cercando di convincere Zazà, che la
firma del contratto fosse la soluzione migliore per tutti. Era
il tormentone delle ultime settimane tanto che Massimo
rifiutava quasi di tornare sull’argomento. Si diresse verso
l’ufficio di Lena e si fermò alla porta in attesa che si
accorgesse di lui:
«Buongiorno» lo salutò con un sorriso che fece risaltare la
sua bellezza.
«Non avrei voluto disturbarti, ma ho bisogno di scambiare
due parole che non riguardino De Iulius, Marelli e
compagnia bella». Poi, guardandosi intorno, continuò:
«Penso che tu sia la candidata favorita».
«E’ sempre un piacere parlare con te. Soprattutto se non si
tratta di lavoro» rispose raccogliendo i suoi lunghi capelli
in una coda.
I due lavoravano da molti anni insieme. Per Lena era stata
la prima esperienza di lavoro in quel settore e Massimo,
l’aveva guidata da quando era stata assunta. La sua
intelligenza e la sua diligenza l’avevano portata a
conquistare, in breve tempo, un ruolo decisivo e di rilievo
all’interno dell’azienda. Era una ragazza dotata di una

99
bellezza semplicemente naturale e, come molti suoi
colleghi, ne era affascinato. Allo stesso modo era sicuro di
piacerle ma, per il suo modo di essere donna, non lo aveva
mai dato a vedere. Era proprio questo suo modo di essere
che creava un’aura d’intoccabilità, rendendola così
attraente agli occhi di tutti gli uomini che mettevano piede
in quell’azienda. Massimo, nonostante l’amore per Linda,
non poteva negare di provare qualcosa per lei, diverso
dalla semplice simpatia per una collega ma anche dal bene
verso un’amica. Era sicuro comunque, che non si trattasse
solo di pura attrazione fisica. A quindici anni, forse
avrebbe pensato a una cotta. Di sicuro tra loro c’era una
sana e pura amicizia.
«La mia vita sta cambiando» disse Massimo sedendo di
fronte a lei.
«In meglio spero».
«Credo di si…»
«Hai trovato un altro lavoro!» scherzò sorridendo.
«No, purtroppo mi tocca sprofondare con il resto della
ciurma. Non si tratta solo di me, riguarda anche Linda».
Lena lo stava osservando e quell’espressione preoccupata
la fece sorridere:
«Diventerai papà?» chiese. Il volto di Massimo era una
maschera. «Sono felicissima!» esclamò mentre, alzandosi,
si allungò per abbracciarlo. Massimo adesso era più
imbarazzato che nervoso, ma in fondo quel gesto gli mise
allegria. Era proprio felice.
«Volevo che lo sapessi. Scusami se ho interrotto il tuo
lavoro» riprese lanciando un’occhiata alla pila di fogli
appena stampati.

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«Figurati, ne avrei davvero fatto a meno» rispose lei
porgendogliene uno.
Lanciò un’occhiata veloce alle poche righe. Erano lettere
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

di convocazione che sarebbero state spedite ai dipendenti.


Oltre a quelle consuete per lo scambio di auguri prima
delle festività, le riunioni allargate erano indette raramente
e comunque lui e Petrone ne erano sempre a conoscenza.
«E’ stato Marelli?»
Lena annuì.
«E a che proposito?» chiese con espressione accigliata.
Gli fece segno di socchiudere la porta:
«Ieri sera, prima che andassi via, sono passata come il
solito per salutarlo quando mi ha chiesto di trattenermi
qualche minuto. Ha iniziato a parlarmi dei problemi
economici che ci stanno affliggendo in questo periodo,
come se io potessi saperne più di lui. Dopo un lungo giro
di parole, mi ha detto che l’unica soluzione era
ridimensionare l’azienda per salvare il salvabile. In quel
momento ho pensato che quello stronzo mi stesse
licenziando».
«E invece?»
«Mi ha dato una lista bella e pronta, un elenco di persone
da convocare».
Massimo sembrava confuso:
«E cosa vuole fare, licenziare?»
Lena lanciò uno sguardo in lontananza, attraverso la porta
in vetro, per essere sicura di non essere interrotta da
nessuno:
«No, vuole che si dimettano. Vuole raggiungere un
accordo, il pagamento di una percentuale del TFR e la

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promessa di un’ipotetica futura riassunzione in cambio
della firma delle dimissioni».
«E perché dovrebbero accettare?» chiese stizzito.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Vista l’alternativa…»
«Sarebbe?»
«Ferie residue, cassa integrazione, licenziamento nel
migliore dei casi. In caso di fallimento invece, per i
dipendenti sarebbe una dura battaglia cercare di racimolare
il loro dovuto».
«E quindi, pensi che cercheranno il concordato» osservò
Massimo. «Davvero siamo messi così male? Non abbiamo
contratti importanti, ma non pensavo che le casse si
prosciugassero così velocemente».
«Così sembra. Sono mesi ormai che non mi occupo più dei
pagamenti, adesso è passato tutto nelle sue mani» riprese
lei indicando la postazione nella hall. Massimo non aveva
bisogno di voltarsi per sapere di chi stesse parlando.
Marelli aveva discusso proprio con lui, tempo addietro, la
possibilità di ridistribuire le mansioni di Lena delegando la
contabilità a Simona, sua futura nuora.
In quel momento sentì aprire la porta alle sue spalle e
riconobbe la voce di Zazà:
«Mancano pochi minuti all’inizio della negoziazione».
Non aveva la buona abitudine di bussare.
Massimo lanciò un’occhiata all’orologio:
«Abbiamo finito. Adesso vado».
«Non c’è nulla di più importante. Lascia tutto. Questi sono
gli affari su cui dobbiamo puntare» disse mentre si
allontanava.
L’espressione di Lena non lasciava trasparire di certo

102
simpatia:
«Quali sarebbero questi affari su cui dobbiamo puntare?»
«Quelli del tipo toccata e fuga, non di certo utili a garantire
lavoro per i dipendenti. Richiedono poco tempo e
assicurano tanto guadagno».
«Vorrei tanto vedere la sua faccia se lo perdessimo».
«L’appalto è già nostro» sentenziò Massimo.

Dalla grande vetrata entrava la luce calda pomeridiana.
Prima di sedersi accostò le tende per evitare il riflesso
negli LCD. La postazione era già pronta con i due
computer connessi al portale SAP. Le gare d’appalto erano
ormai quasi interamente gestite con i sistemi informatici,
che avevano spazzato via i metodi classici fatti di buste
chiuse, timbri e cera lacca. I portali telematici garantivano
velocità, sicurezza e affidabilità, il tutto in maniera chiara e
trasparente. Ogni fornitore invitato alla negoziazione,
avrebbe utilizzato il portale sia per prelevare i documenti
di specifica, sia per consegnare l’offerta. Solo in seguito i
buyer incaricati dal cliente, avrebbero potuto consultarle
alla presenza di una commissione. Nel caso in cui la
differenza tra le stesse fosse stata inferiore ad una valore
prestabilito, si sarebbe proceduto all’affidamento tramite
un’asta online in cui, ogni partecipante, avrebbe potuto
sottoporre un nuovo prezzo senza limiti di ribasso.
Massimo inserì le credenziali di accesso della Marelli e si
ritrovò connesso al sistema. Mancavano circa dieci minuti
all’inizio della negoziazione. Giovanni Marelli,
primogenito di Zazà, entrò in quel momento nell’ampio
open space e si diresse verso la postazione.

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«Posso connettermi dall’altro terminale? Qual è la
password?» chiese occupando posto. Cercava in maniera
esasperante di mettersi in mostra agli occhi del padre tanto
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

che finiva per viverne all’ombra.


«Aspettiamo qualche altro minuto» rispose Massimo. «Ho
appena connesso la Marelli».
Zazà arrivò spingendo una sedia e si accomodò al fianco di
Massimo, così vicino da fargli sentire la puzza della
sigaretta appena fumata:
«Quanto manca?»
«Pochi minuti» rispose mentre, allungandosi, digitò la user
e la password sull’altra tastiera.
Il messaggio “Benvenuto Tec Sys” apparve nella parte alta
dello schermo.
«Con la Sirem come siamo messi?» riprese Zazà.
«Non dovrebbero esserci problemi. Sanno cosa fare»
rispose senza distogliere lo sguardo dallo schermo.
«In che senso dovrebbero. Hai parlato con
l’amministratore?»
«Abbiamo preferito evitare telefonate. Petrone l’ha
incontrato poco fa per definire i dettagli. Dovrebbe essere
di ritorno» disse lanciando un’occhiata fugace all’orologio.
Senza rispondere, Zazà prese lo smartphone e cercò il
numero nel registro delle chiamate. Massimo udì diversi
squilli prima che partisse in automatico il messaggio
registrato della compagnia telefonica. Sapeva che Petrone
si sarebbe aspettato quella chiamata e che non avrebbe
risposto. Anche lui avrebbe voluto conoscere l’esito
dell’incontro e stava aspettando trepidante il suo ritorno.
«Perché non risponde?» chiese Giovanni Marelli mentre

104
Petrone stava varcando la soglia dell’ufficio.
La frustrazione di Massimo sembrò affievolirsi di colpo.
«Tutto come da accordi» esordì il nuovo arrivato senza
aspettare alcuna domanda. «Faranno due soli ribassi e poi
si fermeranno».
«E come facciamo a sapere che sono proprio loro e non
l’altro concorrente?» chiese Giovanni cercando lo sguardo
del padre.
«I loro prezzi finiranno con il numero quattro» rispose
Massimo.

La negoziazione non durò a lungo. Arrivarono i due rilanci
della Sirem cui risposero quelli della Tec Sys. Ma, come
da copione, fu la Marelli ad aggiudicarsi l’appalto battendo
gli altri con l’ultimo ed unico ribasso.

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CAPITOLO 14

106
L’inchiostro nero formava sul planning una chiazza scura,
animata di tanto in tanto dal fucsia dell’evidenziatore.
Seduta alla sua scrivania, Linda stava studiando l’elenco
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giocherellando con il tappo di plastica tra i denti. Il


casting, i parrucchieri, i truccatori, i fotografi, restavano
ancora tante cose da fare e il tempo che mancava
all’evento era quasi terminato. Le toccava organizzare
ancora buona parte della sfilata e mancava meno di un
mese. Quell’anno l’azienda le aveva affidato la direzione
dell’intera organizzazione ed era chiaro che, alla buona
riuscita della sfilata, avrebbe potuto seguire la promozione
a Leisure Manager, ruolo lasciato vuoto da qualche
settimana da una dirigente passata alla concorrenza. La
stavano mettendo alla prova e lei sarebbe stata pronta
confidando nella sua dedizione maniacale per i dettagli.
Sollevò la cornetta del telefono e compose il numero del
centralino. Una voce gentile rispose:
«Graffiti Moda buongiorno».
«Buongiorno Antonella, sono Linda».
«Dottoressa cosa posso fare per lei?», il tono adesso era
quasi reverenziale. Ormai era diffusa l’idea che la
responsabile del personale avrebbe scalato l’organigramma
per arrivare ai piani alti della dirigenza. A suo avviso con
quell’aspetto e quegli atteggiamenti, non avrebbe
impiegato nemmeno troppo tempo.
«Avrei bisogno che mi dedicassi un po’ del tuo tempo
cortesemente».
«Si figuri, per lei sono sempre disponibile. Mi dica»
rispose mentre, vedendo passare il direttore generale, si
abbassò generosamente lo scollo del maglioncino in modo

107
da mettere in risalto i seni.
«Sono state già contattate le società che si occuperanno del
catering e dei fiori?»
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«Sono gli stessi fornitori della scorsa stagione».


«Allora ho bisogno di incontrare al più presto i loro
referenti. Provvedi tu per gli appuntamenti?»
«Certo Dottoressa», ma avrebbe preferito “certo stronza”.
Di cos’altro aveva bisogno?
«E poi», continuò mentre scorreva l’elenco con la punta
dell’evidenziatore, «dovresti chiamare i grafici perché
vorrei apportare alcuni ritocchi agli inviti prima di
mandarli in tipografia. Tu li hai visti?»
«I grafici?» rispose con tono di sorpresa la segretaria.
«Certo che no!» esclamò Linda lasciando trapelare una
leggera risatina che fece irritare la ragazza. «Gli inviti. Li
hai visti?»
«Oh, certo. Gli inviti. Si, ehm, no. Non li ho visti.
Perché?»
«Personalmente sembrano un po’ spartani, ma volevo
qualche altro parere. Magari è solo una mia impressione e
volevo sapere cosa ne pensassi».
«Dottoressa, penso che il suo parere sia frutto delle sue
competenze», “che stronza!” pensò.
«Grazie. Mi rincuora tanta fiducia da parte del personale.
Allora aspetto tue».
«Farò del mio meglio».
Linda si appoggiò allo schienale della sedia e,
accarezzandosi il ventre con entrambe le mani, cercò di
distrarsi momentaneamente sperando di percepire qualche
piccolo movimento. Quella giornata l’aveva sfiancata.

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Massimo, da quando aveva saputo della gravidanza, non
aveva fatto altro che cercare di farla restare a casa evitando
di stancarsi più del dovuto. In questo momento però, non
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

poteva assolutamente mollare. Sapeva che le gravidanze


non erano ben viste dai quadri dirigenziali e quindi, per il
momento, non ne aveva fatto parola con nessuno. Temeva
che la notizia avrebbe potuto compromettere la sua carriera
anche se, l’azienda, promuoveva la politica per i diritti
delle future mamme. Per adesso voleva solo svolgere al
meglio i suoi compiti e raggiungere quella tanto sudata
promozione. Al resto poi, ci avrebbe pensato in seguito.
Prima di tornare a casa però, voleva assicurarsi che alla
sfilata non sarebbe mancata la cosa più importante. Quella
collezione era stata affidata alla sua migliore amica, oltre
che collega, Barbara. Anche per lei quell’evento era un
trampolino di lancio poiché, da modellista, grazie al suo
innato talento sarebbe potuta diventare una delle stiliste
dell’azienda. Alzò la cornetta del telefono e compose il
numero dell’interno. Una voce maschile rispose
combattendo con il rumore delle macchine per cucire:
«Reparto produzione».
«Buongiorno, sono la Dottoressa Valle. Posso parlare con
la Signora Miele?»
«Buongiorno Dottoressa. Un attimo solo».
Dopo qualche istante udì dall’altro capo una voce
squillante:
«Pronto?»
«Signora Miele buongiorno, sono la responsabile del
personale».
«Scema! Non hai di meglio da fare che disturbare chi tira

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avanti la carretta?» fece Barbara divertita.
«Lo so che voi creature dei gironi infernali date un valore
alla nostra esistenza, ed è per questo che ho bisogno che
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

mi raggiungi in ufficio. Avrei la necessità di un suo illustre


parere».
Le loro conversazioni seguivano sempre lo stesso filone,
troppo amiche per le formalità, troppo distanti i loro ruoli.
Non restava che prendersi in giro:
«Sto completando un cartamodello ma se vuoi, faccio
subito un salto da te».
«Vieni il prima possibile, ho bisogno di un aggiornamento
sulla produzione».
Neanche il tempo di riagganciare che il telefono squillò di
nuovo. Probabilmente l’idea di tornare a casa prima del
dovuto non era attuabile.
«Si?»
«Dottoressa sono Antonella, la disturbo?»
«Niente affatto. Dimmi che hai buone notizie».
«Il fioraio e il catering sono disponibili domani mattina
mentre i grafici nel pomeriggio. Confermo?» chiese in
tono sbrigativo.
«Conferma tutti gli appuntamenti. Un’ultima cosa».
“E adesso che cazzo vuole questa?”
«Mi dica».
«Puoi inviarmi i nomi delle persone che verranno agli
appuntamenti di domani?»
«Sarà fatto Dottoressa».
«Grazie».
Gli incontri del giorno seguente sarebbero stati necessari
per definire la posizione del bar e gli addobbi floreali.

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Inoltre avrebbe dovuto cominciare a studiare la
disposizione degli ospiti ai tavoli. Si coprì il volto con le
mani sbuffando. La foto sulla scrivania gli fece pensare a
Massimo.

Barbara bussò alla porta e senza attendere risposta, la aprì
infilando la testa riccioluta. Linda gli fece segno di entrare
e lei si accomodò sulla sedia posta di fronte alla scrivania.
La sua espressione era sempre solare e il suo ampio
sorriso, esaltato dal nero dei capelli, metteva di buon
umore.
«Oggi sei particolarmente bella» esordì Barbara appena
Linda poggiò sul telefono il ricevitore. «Hai una luce
particolare negli occhi».
«Mi stai prendendo in giro? Ho un aspetto terribile. Ho il
terrore di andare in bagno e di passare davanti allo
specchio».
«Di cosa hai bisogno? »
Linda cercò di riordinare un po’ le idee:
«L’organizzazione della sfilata è a buon punto. Ci sono
parecchi dettagli da analizzare, ma nel complesso tutte le
attività sono avviate. Credo che se facciamo tutti la nostra
parte, possiamo raggiungere il traguardo anche con
qualche giorno di anticipo».
Barbara ascoltava con vivo interesse, annuendo al termine
di ogni periodo.
«L’unico aspetto che per ora ho tralasciato, e ovviamente
perché penso sia in ottime mani, è quello riguardante la
produzione dei modelli da presentare».
L’affermazione fece sorridere Barbara:

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«I modelli sono quasi tutti pronti. Resta qualche aggiusto,
ma sono già in sartoria. Tra un paio di giorni le modelle
potranno già iniziare a sfilare. Puoi dormire sonni
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tranquilli».
Linda si sentiva più rilassata e un sorriso comparve sul suo
volto stanco:
«Per fortuna esisti».
«Ho visto quella nuova», riprese Barbara con fare
civettuolo, «la bionda, come si chiama?»
«Elena» rispose Linda.
«Che tipo è? Tu l’hai psicoanalizzata».
«Psico-che? Gli ho fatto un semplice colloquio di lavoro e,
visto che a mio avviso ha tutti i requisiti che cercavo, ho
dato un parere favorevole. So che l’azienda ha poi
terminato la pratica dell’assunzione e quindi parteciperà
alla sfilata. Tutto qua!» terminò incrociando le mani sul
tavolo.
«Tutto quaaa!!!» esclamò sorridendo Barbara. «Ma dico,
stai mica scherzando? Conoscendo i tuoi tempi l’avrai
interrogata per più di un’ora e adesso te ne vieni con un
tutto qua! Dove stiamo andando a finire? Che fine ha fatto
il dio pettegolezzo padre di tutte le pettegole? Forza su,
impegnati un pochino! Dammi soddisfazione».
Linda finse di pensarci su con espressione seria ma poi,
dopo qualche istante, scoppiò a ridere e, avvicinandosi in
modo complice all’amica, cominciò a parlare a bassa voce:
«Non vorrei commentare quello che è sotto l’occhio di tutti
e che sicuramente non è sfuggito nemmeno a te, in altre
parole che è una gran figa! Una di quelle che quando un
uomo le guarda, devi allungare la mano per potergli

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ricomporre la mascella con la mandibola. Una di quelle
che speri non si trovi mai a specchiarsi al tuo fianco, per
non cadere in una profonda depressione. Insomma, una
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

gnocca stratosferica».
Barbara, che aveva visto Elena in azienda, non poteva fare
a meno di concordare con quanto stava dicendo Linda ma,
il fatto che la bellezza della bambolina fosse così evidente,
le faceva un po’ invidia e forse per questo le era sembrata
un po’ antipatica.
«Tesoro, questo l’abbiamo notato tutte. Sembri un vecchio
arrapato. Passiamo a qualche difetto».
«Mi è sembrata una ragazza molto umile, ma non al punto
di non essere sicura di se. Educata, intelligente e
probabilmente anche single».
«E che cazzo!!!» gridò di rimando Barbara. «E così no
però. E già che ci siamo torniamocene a casa e buttiamoci
sul divano a piangere. E con questi elementi in giro non si
può uscire. E poi come fai a dire che è single, glielo hai
chiesto?»
«E’ solo un’intuizione, magari mi sbaglio» rispose Linda.
«Dobbiamo indagare. E’ indispensabile saperlo, in modo
da prendere le giuste contromisure».
Linda la stava guardando nei profondi occhi scuri e capì
che non poteva tenerle nascosta ancora a lungo la sua
gravidanza. In realtà sentiva il bisogno di parlarne con
qualcuno che non fosse suo marito e Barbara era la
persona perfetta, sempre con la parola giusta, discreta e poi
le voleva bene.
«Lasciamo stare i pettegolezzi, adesso ti regalo una notizia
sensazionale» disse frugando nella borsa. Prese il piccolo

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stick di plastica con il segno + in bella vista e lo poggiò
sulla scrivania di fronte a lei. Sul volto di Barbara si
disegnò subito un sorriso e, incrociando i suoi occhi, vide
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

che erano arrossati dalle lacrime di gioia che cominciavano


a scendere sulla linea delicata del naso.
«Aspetti un bambino?» chiese mentre Linda annuiva
vigorosamente.
«E’ bellissimo!» esclamò con voce strozzata mentre,
saltando cavalcioni sulla scrivania, abbracciò
calorosamente la sua amica.
«Dobbiamo uscire subito. Dobbiamo festeggiare, questo
momento merita una bevuta».
«Io sto bevendo solo acqua tonica» ribatté ridendo Linda.
«L’acqua tonica va benissimo, per te. Io ho bisogno di
qualcosa di più forte» disse raccogliendo la borsa.
«E Anita?»
«Starà studiando, con lei festeggeremo stasera».
Attraversando la Hall passarono a breve distanza dal
bancone della reception. Quando incrociarono lo sguardo
della segretaria, sfoderarono il loro migliore sorriso:
«Buongiorno Antonella», salutarono all’unisono.
«Dottoressa, ho i riferimenti che mi ha chiesto. Sono
riportati su questo foglio» disse la ragazza porgendo un
post-it dal retro del bancone.
Linda, che stava per allungare la mano, fu anticipata da
Barbara che s’intromise nella discussione:
«Stiamo uscendo per il pranzo. Puoi portalo direttamente
nell’ufficio della Dottoressa». Poi rivolgendosi a Linda si
giustificò: «Hai dimenticato la borsa».
«Che sbadata. Ho lasciato tutto sulla scrivania. Antonella,

114
se puoi farmi questa cortesia» disse mentre veniva
trascinata verso l’uscita.
«Grazie Antonella, noi andiamo» aggiunse Barbara. Poi
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continuò sottovoce:
«Gli sta bene. Quell’antipatica non fa nulla per nascondere
la sua invidia. Ti odia, te lo dico io».
«Fa il suo lavoro e basta» rispose Linda.
Mentre uscivano dalla porta principale, le ragazze
intravidero la chioma bionda camminare sui tacchi dodici
come fosse a piedi nudi sull’erba. Si avvicinava
all’ingresso dell’edificio.
«Guarda un po’ chi c’è!» esclamò a bassa voce Barbara.
«Dottoressa, che piacere rivederla» fece Elena porgendole
la mano.
«Il piacere è mio ma per favore, chiamami Linda. Sono
felice che tu ce l’abbia fatta».
«Grazie... Linda».
«Io sono Barbara. Finalmente ti conosco».
«Anche tu lavori per la Graffiti?» chiese sorridente Elena.
«Sono una modellista. I vestiti che indosserai in questa
sfilata sono in parte frutto del mio lavoro. Spero che
riescano a rendere giustizia alla tua bellezza. C’è
comunque il rischio che distratti da te, nessuno li guardi».
Elena arrossì impercettibilmente facendo tenerezza alle
due ragazze.
«Noi stiamo uscendo per bere qualcosa, vieni con noi?»
continuò Barbara mentre, voltandosi verso Linda, gli fece
l’occhiolino. Avrebbe voluto festeggiare tra intime amiche
quello che forse era l’evento più importante della sua vita
ma adesso, pur di alimentare la sua curiosità, Barbara

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avrebbe organizzato una scampagnata. Amava i
pettegolezzi anzi, ne era posseduta.
«Magari un’altra volta...» rispose in evidente stato di
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imbarazzo.
«Unisciti a noi, così ci conosciamo un po'» disse Linda
sorridendole.
«Va bene. Andiamo».

Le ragazze si sedettero in un angolo del lungo divano. Il
bianco della pelle rifletteva in modo vivido la luce dei
faretti sulla parete scura, rivestita con carta da parati su cui
erano riportati, in diversi stili, nomi d’importanti città
europee. Tavolini di legno consentivano ai clienti di
poggiare i drink. L’atmosfera era molto rilassante e
l’effetto della luce soffusa, misto a quello dell’alcol,
avevano reso la discussione molto intima e allegra.
«Comunque sei diversa da come mi aspettavo», stava
dicendo Barbara tenendo un Mojito in mano. «Ti facevo
più stronza».
«Cosa te lo avrebbe fatto pensare?» rispose Elena.
«Il fatto che sembri una reginetta della TV può aver inciso,
non credi?»
«L’aspetto esteriore a volte può essere un problema per chi
ha dei pregiudizi. E poi non mi ritengo così carina. Non
più di voi, almeno».
«Ci stai prendendo per il culo?» fece Barbara esterrefatta.
«Non voglio immaginare che pezzi di ragazzi ti ritrovi ai
piedi» disse Linda mentre Barbara annuiva vigorosamente
roteando la mano.
«Non sono nemmeno fidanzata. Fino a qualche anno fa mi

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sono dedicata allo studio per conseguire la maturità
classica. Poi, avendo la passione per le passerelle fin da
bambina, mi sono iscritta all’accademia, dove ho studiato
per fare la modella. Poi tra casting, provini, bastardi che
pensano solo a portarti a letto. Non ho avuto né il tempo,
né la voglia».
«Quanti schifosi ci sono in giro e quante cretine ci
cascano» sentenziò Barbara con un’espressione disgustata.
«Venissero da me, glielo staccherei».
«Nessuna storia d’amore di cui valga la pena raccontare
qualcosa?» chiese Linda.
«Nulla d’importante. Solo uno spasimante romanticone
che mi sta facendo una corte spietata».
«E ci credo», s’intromise Barbara, «bona come sei!»
«Dove vi siete incontrati?» chiese Linda.
«In realtà non ci siamo ancora incontrati, l’ho conosciuto
sul web».
«Mai fidarsi degli uomini virtuali!» esclamò Barbara con i
palmi aperti bene in vista. «Cercano solo di infilarlo da
qualche parte».
«Sempre la solita esagerata» disse Linda.
«A me sembra così sensibile» riprese Elena con fare
assorto.
Barbara le passò le mani davanti agli occhi:
«Bambola, sveglia! Stai attenta, non vorrei che tra qualche
settimana te ne venissi con frasi del tipo “avevi ragione
tu”».
«Credo che abbiamo bevuto abbastanza», disse Linda
guardando l’orologio. «Io direi di tornare e, per quanto mi
riguarda, recupero le cose e torno a casa».

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«Se hai bevuto solo acqua minerale!» esclamò Elena.
«La Dottoressa vuole tenersi in forma» sentenziò Barbara.

Antonella osservò la targhetta di ottone affissa sulla porta.
Attese qualche secondo prima di decidersi a entrare.
L’ufficio era vuoto e nell’aria si sentiva un buon profumo.
Lo conosceva bene, lo aveva acquistato anche lei dopo
aver fatto un po’ di ricerche. A lavoro però non l’aveva
mai indossato. Si avvicino alla scrivania lasciando il post-it
sulla tastiera del notebook:
«Ecco i tuoi nomi del cazzo. Quanto bisogna essere troia
per arrivare fin qui?» si domandò mentre, dopo aver girato
lentamente intorno alla scrivania, si lasciò cadere sulla
sedia appoggiandosi allo schienale. Accavallò le gambe
sentendosi a suo agio e cominciò a guardarsi intorno. La
cassettiera alla sua sinistra era dotata di serratura ma la
chiave, era nella toppa. Valeva la pena dare un’occhiata.
Aprì i cassetti ma ci trovò solo scartoffie e qualche penna
di poco valore buttata lì, di quelle che gli agenti di
commercio regalano a Natale e che qualcuno addirittura
butta direttamente nel cestino dei rifiuti. La stronza aveva
lasciato la borsa sulla scrivania, magari dentro c’era
qualcosa per cui valesse la pena guardare. Quando stava
per aprire la lampo, la sua attenzione fu attirata dallo stick
in plastica coperto in parte da essa. Gli bastarono pochi
secondi per capire di cosa si trattasse, era un test di
gravidanza ed era stato già usato.
«Ma guarda un po’ cosa c’è qui in bella mostra. Qualcuno
è in dolce attesa».

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Non era tanto difficile immaginare di chi fosse. Il test era
stato dimenticato sulla scrivania insieme alla borsa, in
ufficio c’erano solo la Valle e la stronza della Miele.
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Barbara era single e, una troia single, prende le dovute


precauzioni. La Valle era sposata da anni, doveva essere
suo.
«E brava la mia Dottoressa. Hai deciso di metterti a
sfornare marmocchi? Sai che piacere farà all’azienda avere
sul groppone una futura dirigente che invece di farsi il
culo, perde il suo tempo facendosi succhiare le tette da un
cacasotto». Rimise a posto le cose e si avviò verso la porta
con un sorriso malizioso stampato sul volto.

Le tre ragazze varcarono l’ingresso principale che dava
sulla Hall. Era chiaro che erano di buon umore, si capiva
dal loro atteggiamento e dalle fragorose risate. Barbara
teneva sottobraccio Elena e camminavano un passo più
avanti di Linda che, intenta ad osservare lo smartphone,
stava rispondendo ad un SMS. Dietro al bancone della
reception, al centro della parete blu, risaltava il logo della
Graffiti. Da una certa distanza, delle due ragazze sedute,
potevano osservare solo le teste che sovrastavano in
altezza il bordo del bancone. Quando fu progettato
l’edificio della nuova sede, l’azienda affidò a Linda il
compito di supervisionare lo sviluppo architettonico della
Hall, fiduciosi del suo talento e della sua riconosciuta cura
dei dettagli. Linda voleva che le persone, entrando,
vedessero prima di tutto il logo della Graffiti per poi
trovarsi a faccia a faccia con le receptionist, senza essere
distratti dai corpi femminili. Non erano solo donne ma

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professioniste, parte integrante dell’azienda. La scelta le
valse i complimenti dell’Amministratore Delegato e
l’ufficio che tuttora occupava al primo piano. Antonella
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Massa svolgeva perlopiù compiti di segreteria oltre piccole


mansioni d’amministrazione mentre, la giovane
collaboratrice part-time, si occupava di smistare le
telefonate e portarle qualche caffè. A Linda sembrava
molto simpatica ma, secondo una prassi consolidata,
sapeva che sarebbe stata sostituita allo scadere del
contratto. La formazione per svolgere quella mansione, era
meno onerosa dei costi riguardanti un contratto a tempo
indeterminato e quindi le agevolazioni sui contributi per i
contratti part-time, si trasformavano da incentivo per
l’assunzione dei giovani a causa principale del loro
licenziamento. Antonella, sorridente, alzandosi le salutò:
«Dottoressa, ho lasciato il post-it sulla sua scrivania».
«Ti ringrazio» rispose Linda mentre si avviava alla scala
che conduceva al piano superiore.
«Dottoressa», quasi gridò cercando di richiamare la sua
attenzione, «le volevo fare i miei migliori auguri».
All’espressione stupita e confusa delle ragazze, aggiunse:
«Sta per diventare mamma! Non ho potuto fare a meno di
notare il test, era di fianco al computer, ho pensato che
fosse il suo. Mi sono sbagliata?»
La sua espressione di finta innocenza era disarmante, ma
fece comunque andare su tutte le furie Barbara. Elena,
imbarazzata, stava cercando di evitare lo sguardo di Linda
che non avrebbe certo voluto farlo sapere in questo modo.
«E se pure fosse vero», la aggredì Barbara, «dovrebbe
essere la diretta interessata a sputtanarlo in giro, non certo

120
la prima arrivata che mette il naso nell’intimità altrui».
«Ma io non ho messo il naso da nessuna parte. Facevo solo
il mio lavoro e non ho potuto fare a meno di notarlo. Non
ci vedo nulla di male» rispose Antonella sulla difensiva. I
toni della discussione stavano attirando l’attenzione di chi
si trovava a passare. Qualcuno uscì dall’ufficio
avvicinandosi al bancone con la scusa della pausa caffè.
Linda poggiò la mano sulla spalla di Barbara facendole
capire che toccava a lei gestire la situazione:
«E’ così e sono felice di farvelo sapere. Aspetto un
bambino e ti ringrazio sinceramente per gli auguri».
Elena si avvicinò sussurrando:
«Tantissimi auguri Linda. Credo che per te sia una notizia
fantastica».
«Lo è» rispose sorridendo.

121
CAPITOLO 15

122
Quando Massimo entrò nell’ufficio di Marelli, Petrone lo
stava aspettando. Sedeva sprofondato nella spessa
imbottitura della sedia, al punto che ebbe non poche
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difficoltà a raggiungere il posacenere per spegnere il


mozzicone. Senza neanche salutarlo, gli fece cenno di
accostare la porta: «Da diversi giorni sto studiando i
movimenti di Pietro. Sono sicuro che stamani cercherà il
nostro appoggio per metterci contro i dipendenti. E’ una
battaglia che non può combattere da solo e cercherà in noi
degli alleati». Massimo aveva saputo di quella riunione da
poche ore e ne era rimasto sorpreso a differenza di Petrone,
che sembrava aspettarsela.
«Che cosa pensi di fare?» chiese sfilando una sigaretta dal
pacchetto sulla scrivania.
«Niente di particolare. Ci limitiamo ad ascoltare senza
dargli un parere definitivo. Qualsiasi cosa stia
architettando, lo fa solo per i suoi interessi. Se vuole
coinvolgerci, è perché ne ha bisogno, ha paura che
possiamo unire il gruppo contro di lui».
«Perché avrebbe messo in moto questo meccanismo?»
chiese Massimo.
«Non è la prima volta che ci passo e neanche lui, anche se
in vesti diverse. Mi sembra di rivivere gli ultimi anni di
vita della Sarel, l’azienda per la quale abbiamo lavorato
insieme. Venne fuori che c’era un buco di oltre dieci
milioni di euro. Da un giorno all’altro più di cento famiglie
restarono senza lavoro».
«E come andò a finire?»
«Chi era stato assunto da poco non percepì nulla. I più
anziani hanno combattuto anni per ricevere una parte

123
dell’indennità che gli spettava di diritto. Pietro fu l’unico a
non pagarne le conseguenze. Anzi, si può dire che ne uscì
vittorioso mettendo in piedi quella che poi è diventata la
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Marelli. La proprietà aveva bisogno dell’appoggio di


qualcuno tra i dipendenti per calmare le acque e prendere
tempo. Lui era il miglior candidato, aveva carisma da
vendere e la capacità di mentire spudoratamente a tutti.
Anche a chi lavorava ogni giorno a stretto contatto con lui.
Senza rimorsi».
«La capacità di farsi da solo, partendo da zero, di cui è
tanto fiero» sentenziò Massimo.
In quel momento Marelli entrò sorridendo:
«Mi stavate aspettando?»
Massimo avrebbe evitato volentieri quella discussione,
figuriamoci i convenevoli, a differenza di Petrone che
riusciva a non lasciar trasparire alcun risentimento:
«Poiché sei in ritardo, abbiamo dovuto».
Prese posto alla sua scrivania ed accese una sigaretta.
«E’ inutile spiegare certi meccanismi. Sapete bene quello
che sta succedendo». Tenendo la sigaretta tra le labbra,
cominciò a riordinare i documenti disseminati sul piano
del tavolo in pile affiancate, evitando di alzare lo sguardo.
«Non vi dico la quantità di lavoro necessario per portare
avanti questa baracca» continuò, «ma adesso dico basta.
Sono stufo di essere preso per il culo da persone che non
fanno il loro dovere. Ovviamente non mi riferisco di certo
a voi».
Quel vittimismo ipocrita faceva quasi ribrezzo a Massimo
che, lottando contro sé stesso, stava evitando di
intervenire. Petrone, percependo il suo stato d’animo, gli

124
fece cenno di aspettare.
«Come avrete potuto immaginare, è necessaria una
riduzione dei costi e quindi, mio malgrado, sarò costretto a
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licenziare. Ovviamente, tutti avranno ciò che gli spetta, sia


ben chiaro, e ribadisco che per me non è stata una scelta
semplice».
«Cerca di non prendere decisioni affrettate» intervenne
Petrone in modo placido, «a volte ci si abbandona
all’istinto senza curarsi troppo delle conseguenze».
«Sono assolutamente convinto» riprese stizzito Marelli.
«Sono arrivato a questa conclusione e volevo farvi sapere
che conto su di voi. Inoltre ho saputo che c’è chi pensa che
siate coinvolti in questa scelta e quindi aspettatevi anche
delle reazioni».
«Per la pianificazione delle attività» disse Petrone
indicando Massimo per avere il suo supporto, «avremmo
bisogno di sapere quali sono gli elementi che rientrano in
questo ridimensionamento».
«La signora Lena ha la lista di tutti quelli che firmeranno
le dimissioni».
«Dimissioni?» chiese Massimo. «E firmeranno?»
«In realtà hanno già firmato».
Petrone si alzò:
«Credo che ci siamo detti tutto».
«Prima di andare... » riprese Marelli, «ho preso accordi
con il buyer. Saremo invitati a tre gare, insieme alla Tec
Sys e ad altre due aziende che posso gestire. Arriveranno i
requisiti dal nostro contatto all’ufficio tecnico. Massimo,
cerca di fare un buon lavoro. Prepara le specifiche, cerca di
blindarle, fai come cazzo vuoi, ma sappi che questi appalti

125
devono essere nostri. Stiamo parlando di grandi forniture a
ridotta manodopera».
«Sarà necessario lavorare bene sugli acquisti» intervenne
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Petrone.
«A proposito. Questa sarà l’ultima settimana di lavoro per
Saverio Scala».
Responsabile dell’ufficio acquisti, era capace di trovare in
brevissimo tempo qualsiasi cosa gli si chiedesse a prezzi
sbalorditivi. Aveva risolto non pochi problemi sia a
Massimo sia a Petrone ed era riconosciuto come l’incubo
dei fornitori. Non aveva senso licenziare chi poteva far
guadagnare utilizzando solo un telefono.
«Abbiamo trovato un accordo ed ha firmato le dimissioni.
Resterà ancora qualche settimana in modo da affiancare
Giovanni. Reputo giusto che sia mio figlio a occuparsi
degli acquisti».
«Non credi sia necessaria una buona dose di esperienza per
ricoprire quella mansione? Magari gli si potrebbero
delegare alcune trattative lasciando comunque la direzione
a Saverio».
«Queste erano le mie intenzioni, sia chiaro. Quando gli ho
proposto la collaborazione di Giovanni, mi ha chiesto di
firmare le dimissioni».
«Vuol dire che cercheremo di tirare avanti» sentenziò
Petrone alzandosi, questa volta imitato da Massimo.
Ne aveva già abbastanza per quella giornata. Poteva
consolarsi pensando che nella vita c’erano cose più
importanti della Marelli e il loro valore, facevano passare
tutto in secondo piano. Negli ultimi tempi gli capitava di
ripensare a quando, fino a pochi anni prima, accecato dalla

126
giovanile voglia di conquistare il mondo, metteva tutto in
secondo per la smania di successo. Adesso era consapevole
di aver maturato una semplice voglia di vivere, da non
confondere con la rassegnazione di essere una persona
qualunque. Avrebbe accettato le sfide quotidiane della vita
senza arrendersi ma semplicemente riservandole il loro
posto, senza farle interferire con quelli che sono i veri
valori e di cui troppo spesso se ne sente la mancanza
quando è troppo tardi. La prospettiva di vita con Linda e il
bambino, dava un senso diverso al suo essere uomo. In
quel momento avrebbe voluto raggiungerla. Non ci pensò
troppo.

In ufficio si sentiva come a casa. Seduta alla scrivania, era
talmente a suo agio da riuscire a rilassarsi come se fosse
immersa nella sua Jacuzzi. Con la schiena appoggiata allo
schienale della sedia e la testa all’indietro, stava
ripensando a quanto successo. La gioia per l’arrivo del
bambino era tale, che non riusciva a provare risentimento
per Antonella. Cominciò a riflettere su quelle che potevano
essere le ripercussioni per la sua carriera. Non ci sarebbe
voluto molto prima che la notizia si diffondesse a macchia
d’olio e se Barbara aveva ragione sul conto di Antonella,
probabilmente ci avrebbe pensato lei ad accelerare il
processo. Ad ogni modo, avrebbe continuato a dare il
massimo, sicura che i suoi sforzi sarebbero stati
ricompensati. I suoi pensieri furono interrotti dalla
suoneria dell’Iphone.
«C’è qualcuno che mi vuole?» rispose.
«Direi urgentemente».

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«Qual è il motivo di tanta urgenza? Dovrei rimandare
alcuni impegni importanti e vorrei essere sicura che ne
valga la pena».
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«Avrei bisogno di parlare con la mamma di mio figlio».


«Mi sembra più che giustificabile» disse lei.
Quando chiuse la conversazione, l’idea di ritornare a casa
era ormai accantonata. Sentì bussare e dalla porta
socchiusa vide il viso sorridente di Massimo. Indossava
una giacca nera, una camicia bianca sbottonata e un paio di
jeans. Gli piaceva il suo gusto nello scegliere i vestiti.
«Posso?» chiese.
Linda si avvicinò e lo baciò prima di tirarlo per il bavero
della giacca.
«Come ti senti?» chiese lui stupito da quell’accoglienza.
«Bene! Anzi benissimo. Avevo proprio voglia di vederti».
Massimo occupò la sedia degli ospiti guardandosi intorno.
Stava esplorare quello che era il piccolo mondo in cui la
moglie passava buona parte della sua giornata:
«Non ti mancherà tutto questo?» chiese.
«E perché dovrebbe! Non rinuncerò a nulla» rispose lei.
«E’ evidente che fare la mamma richiederà del tempo che
adesso dedichi al lavoro».
«Al momento sono solo certa che non trascurerò la carriera
per diventare una mammina a tempo pieno. Mi riguarderò
durante la gravidanza e allatterò il bambino fin quando
sarà necessario. Dopo, insieme, troveremo una soluzione».
Massimo aveva un’espressione intenerita:
«Faremo del nostro meglio».
Linda si allungò verso di lui e questa volta lo baciò con
passione. Si sedette cavalcioni su di lui mentre i loro

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respiri si facevano affannosi:
«Andiamo a casa».
«Sono solo di passaggio» fece lui tra i gemiti sentendo
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crescere l’eccitazione.
«Allora ti voglio qui, adesso» riprese lei mentre,
avvicinandosi alla porta, la chiuse a chiave.
«Dai!» esclamò lui divertito.
«Non l’abbiamo mai fatto a lavoro» continuò mentre
cominciava a sbottonare la camicetta.

Linda camminava a passo svelto, l’aria fresca gli sfiorava
il viso. Sentiva addosso il profumo di Massimo ed il battito
era ancora accelerato. Una ragazza che poteva avere circa
la sua età, veniva verso lei spingendo un passeggino. Un
sorriso comparve sulle sue labbra e non poté fare a meno
di guardare il piccolo avvolto nel lenzuolo azzurro.
Appena il tempo di alzare lo sguardo e incrociò quello di
una donna in attesa, seduta su una panchina, con entrambe
le mani poggiate sul ventre. Da quando aveva saputo di
essere in dolce attesa, le sembrava che il mondo fosse
popolato da future mamme, quasi come se tutti avessero
deciso all’unanimità di contribuire a una collettiva crescita
demografica. Probabilmente la vera ragione, era che fino a
poco prima la sua visione delle cose era distorta dal lavoro
e dalla quotidianità. Era felice, anzi provava gioia. Quella
sensazione che proviene da dentro, che ti fa accelerare il
battito del cuore, che dura solo qualche attimo e che non è
procurata da una bella notizia o da una conquista. E’
qualcosa di diverso, che nasce senza un apparente motivo e
senza capirne il perché. E’ un dono. In quel momento, la

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sua vita era gioia.

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CAPITOLO 16

131
Carlo versò una generosa quantità di scotch nel bicchiere.
Lo preferiva liscio. Poggiò la bottiglia sul tavolo e sedette
su uno sgabello. Il lavoro lo teneva di solito lontano dalla
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casa e la cucina era organizzata per consumare pasti brevi


e fugaci. Accese una Marlboro in attesa dell’avvio di XP.
Il suo era un portatile oramai obsoleto ma, nonostante la
dose di pazienza che richiedeva lavorarci, ne era
affezionato e non aveva intenzione di cambiarlo. Anche
vivendo quotidianamente l’evoluzione della tecnologia,
restava un tradizionalista, uno dei pochi che riusciva a
provare dei sentimenti per un computer, per l’automobile o
per l’LCD da 21”. Lanciò il browser e inserì le sue
credenziali. L’icona in alto segnalava che c’erano due
nuove notifiche, spostò il puntatore e passò alla schermata
dei messaggi privati. Il primo era di Anita e non era
necessario alcun testo per dargli un senso. La faccina con i
cuori negli occhi, gli ricordava che ogni giorno era
l’ultimo dei suoi pensieri prima di addormentarsi. Lanciò
spontaneamente un’occhiata alla lista delle persone online,
tirando un sospiro di sollievo. Era disconnessa da circa
un’ora. Non aveva intenzione di passare la notte chattando
con la sua ragazza. Il secondo era di Massimo, sarebbe
diventato papà. La notizia lo rallegrò, anche se l’aveva già
saputo quando Linda l’aveva confidato ad Anita. Bevve un
sorso di whisky e tirò una lunga boccata di fumo. Era
felice per loro. Si disconnesse e inserì le nuove credenziali.
Il suo nome diventò Carlo Merisi, in omaggio al
Caravaggio. La prima richiesta di amicizia l’aveva inviata
a Marika. Contava quasi seicento contatti e non credeva
conoscesse tutti di persona. Dopo pochi minuti arrivò la

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conferma. Quando in seguito inviò la richiesta a Elena
Sarti, sperò che l’amicizia in comune lo aiutasse. Dopo
qualche giorno ne ebbe la conferma. Era passato qualche
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giorno intriso di conversazioni virtuali quando seppe che


Linda l’aveva selezionata. La notizia gli raggelò il sangue.
La scelta più ovvia sarebbe stata stroncare in quello stesso
istante ogni contatto con lei e convincersi che si era trattato
solo di un gioco. Tuttavia fu debole. Non riuscì a resistere
al suo fascino nemmeno quando, tra i suoi contatti, notò i
nomi di Linda e Barbara.
Arrivò un messaggio in chat:
“Mi stavi aspettando?”
Era lei. Il cuore balzò al pensiero che la donna all’altro
capo della rete, stesse pensando allo sconosciuto che con
l’uso delle parole, riusciva ad ammaliarla. La
conversazione andò avanti per un po’, come il solito,
fluttuando su quel gioco fatto di corteggiamenti.
“Ti va l’idea di prendere un caffè insieme?” chiese lei che,
fino a quel momento, aveva cercato di evitare l’incontro.
“Anche adesso” rispose Carlo senza pensarci troppo.
“Stupido! Sono già in pigiama. E poi a quest’ora non
prendo caffè”.
“Beviamo qualche altra cosa”.
“Domani, durante la pausa pranzo avrò qualche ora di
tempo. Ci potremmo vedere in un posto poco distante”.
Carlo stava valutando il rischio. Sapeva che c’era la
possibilità di incontrare Linda o Barbara. Elena si sarebbe
potuta confidare raccontando che avrebbe finalmente
incontrato il misterioso corteggiatore. Sperava che il
buonsenso di Linda avesse tenuto a bada la curiosità di

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Barbara.
“Dove?” chiese lui.
“Blanco bar. Lo conosci?”
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“Lo troverò”.
“Allora a domani. Alle 13:30. Un bacio”.
“A domani”.
Carlo sentiva crescere lo stato di ansia che si prova quando
si sta avvicinando un evento importante. Sapeva che tra
Elena, Linda e Barbara, stava nascendo una sana amicizia.
Lei gli aveva raccontato delle due colleghe che l’avevano
accolta come una sorella. Carlo aveva capito che non
sarebbe stato semplice con lei. Avrebbe dovuto lavorarci
parecchio. Il rischio, nel caso delle relazioni a lungo
termine, era quello dell’innamoramento. Elena era stata
chiara fin dall’inizio, non aveva intenzione di frequentare
fidanzati, mariti o papà frustrati. Lui gli rispose in maniera
sincera: era single.

La luce della lampada scialitica oltrepassando il lenzuolo
verde, abbagliava il suo sguardo. Aveva un braccio che
pendeva dal lettino, quel tanto che bastava a stritolare la
mano di Massimo quando il dolore si faceva
insopportabile. Il sudore le bagnava la fronte su cui si
appiccicavano i riccioli che fuoriuscivano dalla cuffia
bianca. Respirava profondamente per cercare di calmarsi e
non pensare alle fitte che, a intervalli regolari, le
laceravano dentro. Adesso stava vivendo uno di quei
momenti di calma che si alternavano al dolore, momenti in
cui il parto sembrava quasi piacevole. Linda si rivolse

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all’ostetrica con quello che restava della voce dopo le sei
ore di travaglio:
«Tolga il lenzuolo, lo voglio vedere» disse rivolgendo un
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dolce sorriso a Massimo. La donna sembrò non sentire la


voce o non se ne curò per nulla. Stava arrivando. Il dolore
era li, lo sentiva aumentare dentro, dal ventre si spostava in
basso tra le sue gambe.
«Per favore!» riuscì a gridare tra i denti, «il lenzuolo».
La donna la guardò negli occhi con aria indifferente per
poi allontanarsi dal lettino. La fitta arrivò più forte di
prima, gli squarciava l’addome e un urlo disumano le uscì
dalla bocca:
«BRUTTA TROIA PUTTANA, togli questo cazzo di
lenzuolo!»
Una voce rassicurante cercò di tranquillizzarla:
«Ci siamo quasi. Un altro piccolo sforzo e ci siamo». Poi
rivolgendosi all’infermiera: «La signora vuole che
abbassiamo il lenzuolo, per favore».
«Certo Dottore».
Adesso Linda vedeva la testa abbassata tra le sue cosce. Si
girò di lato ma Massimo non c’era più. La sua mano
stringeva il lenzuolo bianco che pendeva al lato del letto.
Guardò alla sua sinistra e vide l’ostetrica che usciva dalla
porta.
«Dove andate?» cercò di chiedere senza che le parole
uscissero dalla bocca.
«Spinga un altro po’, da brava» disse il Dottore con un
timbro diverso. «Su spingi ti ho detto» ripeté mentre
Linda, cominciava a ricordare quella voce ascoltata in un
posto diverso. «Dai muoviti, dammi quello che hai dentro.

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Caccialo fuori altrimenti dovrò tirartelo io».
Linda sentì che qualcosa stava entrando dentro di lei e
intuì che si trattava della mano. Cercò di dimenarsi ma non
riusciva a comandare né gambe né braccia. Quando alzò la
testa, riconobbe la vistosa cicatrice coperta in parte dai
capelli folti. Abbassò la mascherina chirurgica mostrando i
suoi denti in una risata sguaiata, era lo stesso uomo che
l’aveva aggredita.
«E anche questo adesso è roba mia, troia».
L’urlo di Linda svegliò di soprassalto Massimo che in un
attimo capì cosa stava accadendo. Erano alcune notti
oramai che la moglie era tormentata dagli incubi.
La scrollò per farla svegliare:
«Tesoro, svegliati!»
Lei aprì gli occhi ancora pieni di lacrime e scoppiò in un
pianto a dirotto. Massimo la strinse a se:
«E’ stato solo un brutto sogno, non è reale. Sono qui con
te, calmati. E’ tutto finito».

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CAPITOLO 17

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Era circa mezzogiorno quando Carlo chiuse la porta
dell’ufficio e si avviò verso l’uscita. Doveva fare un po’ di
strada e preferiva arrivare in anticipo. Superò gli scaffali e
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si diresse verso la cassa centrale, dove Marika occupava la


postazione dell’operatore. Negli ultimi giorni aveva
cercato di evitarla e anche in quel momento, per un attimo,
pensò di tornare e uscire dal retro. Tentennò, ma decise
che era meglio tirare dritto e non farsi condizionare.
Marika lo salutò sorridendo approfittando che non ci fosse
nessuno nei paraggi, Carlo rispose in maniera distratta,
cercando di nascondere il nervosismo.
«Aspetta! Volevo parlarti, non ho avuto l’opportunità di…
»
Carlo non gli consentì di continuare la frase:
«Adesso ho da fare, poi ne riparliamo. Scusa» disse senza
guardarla prima di varcare la porta in cristallo. Il volto di
Marika divenne rosso di rabbia:
«Che gran figlio di puttana! Quel bastardo… ma se pensa
di trattarmi così… ».

Carlo arrivò con circa mezz’ora di anticipo
all’appuntamento. Entrò nel locale e si guardò intorno.
C’era già stato tempo addietro e ricordava bene
l’atmosfera che si respirava. Il suo abbigliamento si
addiceva perfettamente alla location. Il posto era elegante e
nonostante l’ora, non era molto affollato. Pensò che di sera
sarebbe stato difficile trovare un posto libero. A poca
distanza dai divanetti, c’erano quattro postazioni dotate di
computer dai quali si aveva la possibilità di accedere a
internet. Chiese al cassiere, pagò per un’ora di connessione

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e ritirò la password temporanea. Si sedette allo sgabello e
ordinò un Campari Spritz. Elena era online e gli inviò un
messaggio:
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“Sei ancora a lavoro?”


La risposta non tardò ad arrivare:
“Sono in auto e comunque sei in anticipo”.
“Stai tranquilla, sono ancora in ufficio. Un imprevisto mi
terrà qui ancora qualche minuto. Spero che non sia un
problema per te”.
“Vuol dire che ti aspetterò”.
“Cercherò di farmi perdonare”.
“A dopo”.
Elena parcheggiò la Smart in corrispondenza dell’ingresso.
Non era molto distante dalla Graffiti ma se fosse uscita a
piedi, avrebbe destato più di qualche sospetto. Poteva
definirsi un appuntamento al buio, se non altro lei era
convinta che lo fosse per entrambi. Erano riusciti a non
farsi sopraffare dalle banalità legate all’aspetto fisico e
questo aveva reso Carlo sinceramente interessante, abituata
a essere giudicata principalmente per la sua bellezza. Era
questo il motivo per cui non pubblicava foto che la
ritraevano. Aveva trovato un uomo intelligente, colto,
dolce e simpatico, interessato a lei non per il suo aspetto.
Cos’altro avrebbe dovuto desiderare, la bellezza? Gli
sarebbe bastato che fosse stato carino per rendere la cosa
interessante. Del resto avrebbe potuto anche mollarlo lì,
sul posto. Il cuore le batteva all’impazzata e guardandosi
nello specchietto retrovisore, notò che il suo viso era
arrossato. Cercò di rilassarsi e scese dall’auto. Entrando
nel locale si guardò intorno, sperando di non trovare

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nessuno con un mazzo di fiori in mano. Si avviò verso i
divani alla ricerca di un po’ di discrezione quando vide
l’elegante cassiere in abito scuro alzarsi e venirle incontro.
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«Lei deve essere la signora Elena».


L’espressione da cui trapelava stupore misto a imbarazzo,
sembrò dare la risposta che l’uomo stava aspettando.
«Ho riconosciuto la sua auto» si giustificò. «Venga, mi
segua» fece avviandosi verso un tavolino. Elena sedette
mentre l’uomo sfilò la bottiglia di Veuve Clicquot dalla
ghiacciera e, dopo averla stappata, versò lo champagne nel
flute. Elena bevve un sorso e, ripensando a quella
situazione, gli scappò un leggero sorriso che coprì con una
mano. Aveva capito che Carlo non era in ritardo.

Il tavolo era ben visibile dalla sua postazione. Voleva
essere sicuro che a quell’ora non ci fosse nessun’altra
persona che conoscesse. In qualsiasi momento avrebbe
potuto giustificare la sua presenza lì, almeno fino a quando
non si fosse seduto a quel tavolo. Elena era bellissima nella
sua semplicità. Indossava un vestitino a fantasia floreale,
leggero ma lungo fino alle caviglie. Una camicetta azzurra
aperta lasciava intravedere le forme del suo seno mentre i
biondi capelli lisci le scendevano sulle spalle. Teneva
l’Iphone rosa in mano mentre rispondeva al messaggio:
“Cerca di non tardare troppo che il ghiaccio si scioglie,
scemo”.
“Comincia a riempire il bicchiere che hai di fronte”.
Leggendo quel messaggio, un dubbio cominciò a balenare
nella sua mente. Poggiò il flute sul tavolo e si guardò
intorno. Sembrò ovvio che sapesse del bicchiere, avendo

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preparato tutto nei minimi particolari.
“Facciamo un gioco” scrisse Carlo. “Voglio che mi
racconti come m’immagini”.
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“Meglio di no, potrei restare delusa!”


“Non credo che tu non abbia mai pensato al mio aspetto”.
“Spero che tu sia carino, sarebbe ipocrita dire il contrario,
ma non riesco a immaginarti”.
“Allora cerco di aiutarti. Guardati intorno, immagino ci
siano degli uomini”.
Elena fece come gli aveva suggerito e sollevò lo sguardo:
“Certo che ci sono”.
“C’è qualcuno che ti sembra carino, che ti piace?”
La risposta arrivò dopo qualche secondo:
“Direi di si”.
“Allora descrivi lui. Se abbiamo qualcosa in comune,
entro. In caso contrario, ti evito la delusione”.
Elena ci pensò un po’:
“Sei qui fuori?”
“Forse”.
“Ci sto, a condizione che possa decidere comunque se
vederti o no”.
“Inizia” scrisse Carlo.
Elena bevve un altro sorso di champagne e alzò lo sguardo.
Se stava guardando qualcuno in particolare, non lo
dimostrò. Le sue dita esili sfioravano lo schermo
dell’Iphone.
“Il mio uomo è bello, di una bellezza elegante”.
“Cerca di non esagerare”.
Riprese a scrivere:
“Corporatura robusta, alto. Più di me. Deve trasmettermi

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un senso di forza. Capelli corti, pettinati in modo ordinato,
brizzolato. Sguardo profondo, occhi scuri, lineamenti
marcati. Barba leggera, al massimo di un giorno. Veste in
modo elegante, indossa pantaloni leggeri e camicia bianca
leggermente sbottonata”.
“Vuoi dire che in sala c’è un uomo così? Sono senza
speranze”.
“Almeno fino ad ora, perché penso che stia uscendo”.
Carlo si stava alzando. Si avviò verso il centro della sala
senza mai incrociare il suo sguardo. Arrivato in prossimità
del tavolo, poggiò la mano sullo schienale della sedia
libera:
«Scusa il ritardo. Posso sedermi?»
Il viso di Elena avvampava come il fuoco e rispose
balbettando:
«S-si, certo... »
Carlo fissò gli occhi scuri:
«Delusa?»
Elena sorrise in modo imbarazzato:
«La smetti di prendermi in giro?»
Era sicuro di piacergli.
«Allora brindiamo?» chiese mentre riempiva i due
bicchieri.
«Certo» rispose lei.
«A noi due».
Bevvero.
«Abbiamo il pomeriggio per noi o torni a lavoro?» fece lui
poggiando il suo bicchiere.
«Credo che ci meritiamo un po’ di tempo, il lavoro può
aspettare. Mando un messaggio in azienda».

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«Magari andiamo in un altro posto» disse alzandosi.

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CAPITOLO 18

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Linda stava osservando la pianta della sala su cui aveva
riportato, a penna, la disposizione dei tavoli. Aveva ancora
bisogno di definire con Barbara l’ordine di uscita dei
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modelli e poi sarebbe tornata a casa. Erano giorni che


quella pesante sensazione di stanchezza non la
abbandonava mai e inoltre, cominciava a soffrire
d’insonnia. Non dormiva più di un’ora di fila e, le rare
volte che capitava, era perseguitata dagli incubi. La
gravidanza la stava cambiando profondamente, dentro e
fuori, pensò guardando il lieve rigonfiamento del suo
ventre. Quel giorno aveva scelto un abito scuro che
nascondeva le generose forme ormai evidenti. Prese la
cornetta del telefono e compose il numero del centralino,
la risposta arrivò al secondo squillo:
«Antonella, sono la dottoressa Valle. Puoi mettermi in
contatto con la signora Miele? Ho bisogno di vederla».
«Certo, attenda in linea» rispose, prima di inserire l’attesa
di chiamata appoggiando la cornetta sul bancone.
«Chi è?» chiese la ragazza seduta al suo fianco.
«Quella rompiballe della Valle» rispose con
un’espressione infastidita, «quindi, ti stavo dicendo… ».
«La lasci in linea?» chiese divertita la collaboratrice.
Non avrebbe certo interrotto il racconto della notte passata
con il responsabile commerciale per colpa della Valle.
Linda appoggiò la cornetta sulla pila di carte che
ricoprivano gran parte della sua scrivania e attivò il
vivavoce. Dopo qualche minuto, Antonella si scusò per
non essere riuscita a rintracciare Barbara. Decise di
cercarla di persona, fare due passi le avrebbe di sicuro fatto
bene. Era sicura che si trovasse sulla passerella. Prima di

145
scendere si diede una rapida sistemata ai capelli e al
trucco. Guardandosi allo specchio, non poté fare a meno di
notare le sue occhiaie e il colorito pallido. Chiese il
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miracolo al fondotinta prima di avviarsi verso il corridoio.


Salutò le ragazze alla reception e s’incamminò verso l’ala
del fabbricato in cui avevano allestito la sala che doveva
ospitare la sfilata. Antonella dovette reprimere un moto di
stizza quando la ragazza al suo fianco, esaltando l’elegante
camminata, osservò che avrebbe potuto tranquillamente
sfilare su quella passerella nonostante la gravidanza. Linda
si soffermò sulla porta d’ingresso valutando eventuali
differenze nella sistemazione degli arredi rispetto alle sue
disposizioni. L’odore di pittura fresca, indicava che le
pareti erano state da poco imbiancate. Nei lampadari erano
state montate lampade a luce calda che, riflettendo sulle
pareti, creavano un’atmosfera cupa per far risaltare il
colore chiaro degli abiti. La passerella, ricoperta da uno
strato di moquette nera, si estendeva per tutta la lunghezza
della sala mentre ai lati erano state disposte le sedie e in
seconda fila i tavolini. Sembrava tutto perfetto. Le ragazze
stavano sfilando indossando i modelli originali mentre
Barbara, seduta all’estremità della passerella, prendeva
appunti su un taccuino. Linda riconobbe da lontano la
sagoma di Elena. L’abito bianco avvolgeva il suo corpo in
maniera perfetta terminando ai suoi piedi con un leggero
rigonfiamento. Una generosa scollatura mostrava buona
parte della schiena e dei fianchi mentre, l’assenza di
maniche, metteva in mostra le spalle su cui ricadevano i
lunghi capelli biondi. Il suo sorriso faceva il resto. Non si
poteva restare indifferenti a tanta bellezza e tanta classe.

146
Arrivata a metà passerella, intravedendola in lontananza si
sbracciò per salutarla saltellando sui tacchi vertiginosi. La
scena fece sorridere Linda che vide in un attimo, una
femme fatale trasformarsi in una ragazzina. Si avvicinò
alla passerella mentre Elena correva nella sua direzione.
Appena furono vicine allungò le braccia al collo
stringendola in un caloroso abbraccio:
«Finalmente sei arrivata. Ti stavamo cercando, come stai?»
«Ho avuto giorni migliori» rispose mentre, con una mano,
stava richiamando l’attenzione di Barbara.
«E la gravidanza?» chiese Elena toccandole il ventre.
«Tutto per il meglio. Il tuo corteggiatore invece?»
«E’ fantastico».
«Tu sei fantastica!» s’intromise Barbara che nel frattempo
le aveva raggiunte. Poi si rivolse a Linda guardandola
come se volesse ammirarla da lontano:
«Che aspetto di merda che hai. Stai dormendo? Credo che
dovresti riposare di più».
«Proprio adesso?» rispose. «E’ il momento più difficile,
bisogna essere attenti a ogni minimo dettaglio perché non è
più concesso sbagliare. Non avremmo il tempo di
recuperare».
«Ci siamo noi, tu potresti limitarti ai controlli di tanto in
tanto».
Trascorsero del tempo a discutere dell’organizzazione,
prima di concedersi un po’ di riposo in un angolo della
sala.
«Tutti sanno della tua gravidanza» esordì Barbara.
Linda la guardò con aria disinteressata come a voler
rimarcare l’ovvietà di quell’osservazione.

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«E’ inutile che mi guardi così» continuò, «sei stata tu a
dirlo in giro? E non parlo di noi ragazze o di quelle stronze
al banco della reception. Io sto parlando dei dirigenti. Qui
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lo sanno tutti».
«Prima o poi doveva succedere. E poi che problema c’è?
Anche con il pancione si può lavorare».
«Ma non è questo il punto» riprese Barbara sensibilmente
alterata, «qualcuno aveva interesse che la notizia trapelasse
subito. Se nessuno ne avesse parlato, magari la cosa poteva
venir fuori dopo la tua promozione».
Linda restò in silenzio riflettendo su quanto la sua amica
stava dicendo. Era possibile che qualcuno provasse gusto a
renderle le cose difficili?
Elena, che fino ad ora si era limitata ad ascoltare,
s’intromise cercando di assumere un tono
accondiscendente:
«Linda, cerca di fare attenzione. Quello che Barbara sta
dicendo non è escludibile. Com’è possibile che le alte sfere
aziendali siano venute a sapere della tua gravidanza?»
«E’ vero che le voci circolano» riprese Barbara, «ma quale
impiegato, modella o operaio che lavorano qui in sede, ha
contatti così in alto. Io un’idea me la sono fatta».
Fissò Barbara negli occhi.
«Quella troia di Antonella!»
«Dai!» rispose Linda con l’espressione rassegnata, «ma ti è
così antipatica? Anch’io penso che sia disposta a tanto per
avere favori, ma da qui a intralciare la carriera altrui per il
gusto di farlo... Anche perché lei non può certo aspirare
alla mia posizione».
«Lei no» rispose Barbara, «ma potrebbe favorire qualcuna

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con cui ha rapporti migliori di quelli che ha con te».
«Parli del diavolo... » disse sottovoce Elena.
Antonella si avvicinò con fare distratto stringendo al petto
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una serie di fascicoli:


«Dottoressa, volevo assicurarmi che avesse trovato la
signora Miele».
«Ero sicura che fosse qui».
Fece per allontanarsi ma, come se avesse appena ricordato
qualcosa, continuò:
«Abbiamo una nuova Leisure Manager» e, guardando
Linda, aggiunse: «non avrebbero potuto scegliere di
meglio».
Appena restarono sole, Elena le strinse le mani:
«Auguri. Da oggi sei un dirigente. Sembrava quasi
contenta».
«Figurati» intervenne Barbara, «sta solo cominciando ad
ingraziarsela. Comunque, complimenti Linda».
«Siete così sicure che abbiano scelto me?»
«E chi altra?» disse in modo scontato Elena.
Barbara prese l’Iphone e avviò Mailbox. Antonella non
avrebbe mostrato tanta sicurezza se la notizia non fosse
stata già resa ufficiale. Elena e Linda continuarono a
chiacchierare, alternando brevi frasi a risate strozzate.
Sembravano due vecchie amiche tanto erano in sintonia.
Tra spam e newsletter, c’erano una decina di mail da
leggere. La prima, in alto, era stata inviata dalla direzione
della Graffiti. L’oggetto: “Nuova Leisure Manager”.
Barbara rilesse più volte il comunicato, quasi a voler
essere sicura di non essersi sbagliata, per poi passare
l’Iphone a Linda. Anche se sottovoce, lesse in modo che

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potessero ascoltare:
“La Graffiti ha una nuova Leisure Manager. La scelta,
difficile per l’alto valore delle candidate, è ricaduta sulla
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Dottoressa Rosaria Icardi, già Responsabile dell’Ufficio


Amministrativo. In due anni di servizio alla Graffiti, la
nuova dirigente si è distinta per l’impegno e le spiccate
doti organizzative che fanno di lei l’esempio da seguire per
chiunque voglia raggiungere importanti traguardi
professionali. La Direzione”.
Linda cercò di nascondere le emozioni contrastanti che
stava provando, un misto di amarezza e delusione:
«Non si può negare che Antonella avesse ragione. La
Icardi è una persona altamente qualificata, hanno scelto
bene».
«Da dove ti vengono queste stronzate!» esclamò Barbara
mentre legava i capelli, quasi a voler contenere la
temperatura che sentiva salire. «La dottoressa Icardi lavora
da meno tempo in azienda ed è meno brava di te
sull’aspetto gestionale. Tutto questo», disse indicando la
sala in modo plateale, «sta prendendo forma grazie a te.
Hanno temuto che tra qualche mese li avresti lasciati con il
culo per terra, che stronzi».
Linda stava scendendo le scale che portavano alla Hall. Il
suo unico pensiero era di tornare a casa cercando di
lasciarsi dietro i pensieri legati alla sfilata, che tanto
l’avevano tormentata negli ultimi tempi. Barbara ed Elena
stavano discutendo con Antonella in piedi, a un lato del
bancone, di spalle, tanto da non vederla arrivare. Riuscì,
avanzando verso di loro, a intuire parte del discorso. Ebbe
subito la sensazione che qualcosa fosse cambiato, il tono

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autoritario di Antonella ne era la chiara dimostrazione.
Tutti sapevano del suo ottimo rapporto con la Dottoressa
Icardi che, con la nuova carica, era l’unico dirigente in
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dimora stabile presso quella sede, con tutti i vantaggi che


quella condizione garantiva. Nessuno aveva più potere di
lei varcata la porta di quell’edificio. Barbara ed Elena, di
spalle, non si accorsero della sua presenza mentre
Antonella non la degnò di uno sguardo mentre si rivolgeva
alle due ragazze:
«Mi raccomando, puntuali. La Dottoressa ci ha tenuto a
puntualizzare che non ammette ritardi». Linda non poté
fare a meno di notare che l’appellativo “signora” ed il “lei”
erano stati spazzati via dal confidenziale “tu”.
«E’ necessario discutere di tutti i principali argomenti che
possono riguardare l’evento».
Elena si accorse di Linda e le rivolse un dolce sorriso:
«Sei qui! Domani ci sarai anche tu?»
Rispose in maniera frettolosa, in modo da non dare la
possibilità ad Antonella di intromettersi:
«No, credo di no. Sono molto stanca e penso di essere
influenzata».
«Allora mi raccomando!» riprese Antonella rivolgendosi a
Barbara ed Elena.

Appoggiò la borsa sul sedile del passeggero e allacciò la
cintura osservandosi nello specchietto retrovisore. Pensò
che Barbara avesse ragione. Il suo era davvero un aspetto
di merda. Gli sbalzi d’umore, condizionati dalla
gravidanza, stavano accentuando la sua espressione stanca.
La suoneria dell’Iphone segnalò l’arrivo di una mail e

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infilò la mano nella borsa senza distogliere lo sguardo
dagli occhi tristi. Era stata inviata dalla direzione della
Graffiti. Scorse velocemente il testo senza soffermarsi sui
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

dettagli. L’azienda innanzitutto la ringraziava per il


contributo fornito all’organizzazione della sfilata durante
quel periodo. Adesso avrebbe potuto dedicarsi alle sue
specifiche mansioni, anche se tutti speravano che
continuasse a collaborare all’evento fornendo il suo
prezioso aiuto alla Dottoressa Icardi. Lanciò l’Iphone sul
sedile e si avviò verso casa. La traduzione che diede a
quella comunicazione balenò nella sua mente:
“Cara deficiente, visto che sei stata tanto stronza da farti
ingravidare durante il periodo più importante della tua
carriera, abbiamo deciso di mettertelo in quel posto
passando tutto nelle mani della Icardi. Sarà lei a prendersi i
meriti del lavoro fatto fino ad oggi. Nel caso si presentasse
qualche problema da risolvere, confidiamo nel tuo senso
del dovere”.

I rumori dei suoi passi riecheggiavano nella Hall
scandendo un ritmo cadenzato. Ormai era diventata
un’abitudine passare per la sala prima di salire in ufficio e
quel giorno non fu da meno. Avvicinandosi alla porta
d’ingresso, riusciva a distinguere il mormorio disordinato
delle voci interrotto di tanto in tanto da rumori sordi e
improvvisi. A bocca aperta e con le braccia penzoloni,
Linda assisteva incredula alla scena che si presentò
davanti. Due ponteggi mobili erano stati allestiti in
prossimità delle pareti laterali della sala e su ognuno aveva
trovato posto, in modo maldestro a causa della rapidità con

152
cui venivano svolte le operazioni, un gruppo
d’imbianchini. Le pareti erano state quasi interamente
riverniciate e gli schizzi bianchi avevano imbrattato buona
parte della pavimentazione che, un gruppo di signore di
mezza età, cercava di tirare a lucido con l’aiuto di scope e
stracci. Una parte degli impiegati aveva riposto le giacche
ed era impegnata nel trasporto di tavoli e sedie nella parte
antistante alla passerella. Le camicie, intrise di sudore,
mostravano la poca confidenza con quel tipo di lavoro.
Osservando la scena, ebbe l’impressione di assistere a uno
spettacolo di burattini diretti con estrema maestria. Lei era
li, di spalle, con il suo impeccabile tailleur nero, gli
appunti in una mano, l’altra poggiata su un fianco in una
posa che mostrava tutta la sua autorità. Dopo appena
qualche giorno dalla sua nomina, era stata già capace di
rivoltare l’intera azienda per mettere sull’evento la sua
firma, spazzando via il lavoro delle ultime settimane. La
cosa che le faceva più male, era che tutti stavano dando il
massimo dagli impiegati, che addirittura si dilettavano a
fare i facchini, a Barbara ed Elena che pendevano dalle sue
labbra mentre discutevano di qualche dettaglio forse legato
ai modelli. Una vera dimostrazione di forza, quella donna
aveva carisma da vendere e lo stava spargendo in quella
sala. Come aveva potuto pensare di ricoprire quel ruolo,
come aveva potuto essere così cieca, proprio lei che
doveva essere la talent scout della Graffiti. Delusa e
scoraggiata, si avviò verso le scale notando le nuove
ragazze della reception discutere con Antonella che, quella
mattina, sembrava risplendere di una luce nuova. Salutò,
passando davanti.

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«Buongiorno Valle», fu la risposta di Antonella. Rimase
sconcertata dal tono insolitamente confidenziale.
«Mi chiami appena hai finito in ufficio?»
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«Certo, stai tranquilla» rispose Linda nel suo solito tono


cordiale.
Stava osservando da qualche minuto la sua scrivania vuota.
Lo scatolone, poggiato a terra, era quasi colmo. Sulla
sommità, la foto che la ritraeva con Massimo a Parigi.
Forse era l’occasione per dedicare un po’ di tempo in più
all’uomo che amava e al bambino in arrivo. Quelle
riflessioni tornavano contestualmente a ogni delusione
lavorativa e questo la faceva sentire in colpa. La famiglia
non doveva essere solo un rifugio per superare le difficoltà
della vita, ma anche una dimora per accogliere ciò che era
donato da essa. Il rumore la fece sobbalzare. Alzando lo
sguardo incrociò gli occhi di Antonella che aveva sbattuto
violentemente una scatola sulla scrivania.
«Allora Valle, hai liberato tutto?»
«Ho appena finito» rispose raccogliendo le sue cose.
«Sappi che non è colpa mia se la Dottoressa Icardi ritiene
opportuno che voi impiegati lavoriate insieme. Crede nella
forza del gruppo, come darle torto?»
«L’azienda avrà le sue buone ragioni se ha deciso di darle
pieno potere» rispose Linda avviandosi alla porta.
«Vedrai che starai bene giù» riprese la nuova assistente
della Icardi sedendo alla scrivania. «Io comincio a
sistemare le mie cose. Il cesso lo hai lasciato pulito?»
Linda si voltò con aria disgustata notando il sorriso
provocatorio:
«Non è certo compito mio. E comunque puoi stare

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tranquilla per la tua igiene».
«Oh, vedo!» esclamò indicando con la mano, «lasci tracce
di te dappertutto. Guarda che cazzo stai combinando».
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Linda sentiva una strana sensazione, come se qualcosa di


caldo stesse scivolando tra le cosce. Abbassò la testa ma la
vista era limitata dallo scatolone che aveva in mano.
«Guarda che schifo, stai imbrattando tutto l’ufficio»
continuò Antonella.
Si spostò per guardare il pavimento e si accorse di aver
poggiato il piede su qualcosa di scivoloso tanto che, dopo
un attimo, capì che non sarebbe riuscita a tenersi in
equilibrio. Lanciò in aria la scatola e si ritrovò a cadere nel
vuoto.
Si svegliò di soprassalto e si ritrovò nel buio della notte, la
camicia intrisa di sudore. Capì che aveva avuto un incubo
e richiuse gli occhi cercando di riprendere fiato. Allungò la
mano alla sua destra fino a sentire le braccia forti di
Massimo. La sensazione provata nel sogno però non era
svanita. Il sudore si stava asciugando addosso
procurandole dei brividi ma, tra le gambe, sentiva qualcosa
di caldo. Si toccò da sopra il lenzuolo e notò qualcosa di
appiccicoso. Si portò la mano alla faccia e la annusò
sentendo un odore forte. Accese l’abat-jour e si guardò.
Sul lenzuolo era comparsa una leggera macchia rossa. Lo
sollevò. Il battito stava accelerando mentre iniziò a sentire
un leggero fischio. Stava combattendo per allontanare il
pensiero che avanzava nella sua mente, ma si convinse ad
abbassare le mutande. Un grumo di sangue era depositato
sul proteggi slip e, piegando il ventre per abbassarsi a
guardare, notò un fiotto di sangue scuro uscire. A quel

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punto urlò a pieni polmoni. Massimo si svegliò di
soprassalto e capì immediatamente cosa fosse successo.
«Linda, amore. Calmati!»
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«Massimo, aiuto. Ti prego… nooo!» stava urlando tra le


lacrime e i singhiozzi mentre il fischio alle orecchie si fece
più forte e la vista cominciò a offuscarsi. Sentì la testa più
leggera fino a quando tutto divenne scuro.

Massimo sedeva su una delle sedie allineate alla parete.
Un’unica lamiera di metallo piegata, costituiva la seduta e
lo schienale rendendola tanto scomoda quanto fredda. Era
ipotizzabile che, in alcuni momenti, dovevano esserci
talmente tante persone in quella sala d’attesa che, anche
quel pezzo di latta, fosse ambito come una Chaise Longue
di Le Corbusier. Diede un rapido sguardo al quadrante
dell’Eberhard notando che mancavano pochi minuti alle
sette. L’ospedale iniziava a popolarsi e l’inevitabile
mormorio, cominciò a risalire dal vano scale. Le
infermiere attraversavano la sala dirigendosi verso il
corridoio che portava al reparto ginecologia. Massimo
sentiva un senso d’intontimento, forse dovuto alla
stanchezza, alla mancanza di sonno o semplicemente allo
stato di angoscia che lo avvolgeva. Lo sguardo fisso sulla
parete di fronte, resa più fredda dal fascione di colore
verde. Erano passate diverse ore dal loro arrivo e non
aveva ancora avuto notizie. Le uniche persone che
sembravano popolare quel posto, erano le infermiere,
impegnate nel loro viavai quotidiano, classe dirigente di
quella struttura che sembrava sprovvista di medici. Mentre
passeggiava, attento a centrare i quadroni del pavimento

156
con le scarpe, sentì dei passi provenienti dal corridoio del
reparto. Il camice bianco e lo stetoscopio indicavano che si
trattasse di un medico.
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«Il marito della signora Valle?» chiese con un sorriso


gentile.
«Sono io» rispose porgendogli la mano. Sul taschino del
camice era ricamato lo stesso nome che aveva letto sulla
targa affissa all’ingresso del reparto, Damiani.
«Sua moglie sta bene. Adesso riposa».
L’espressione di Massimo mostrava tutta la gratitudine
verso quello sconosciuto.
«Grazie a Dio. Posso vederla?»
Damiani gli appoggiò una mano sulla spalla
incamminandosi verso le panche:
«Lasciamole qualche ora di riposo. Non ha passato una
nottata piacevole».
Quella situazione gli ricordava una delle tante trattative di
lavoro cui aveva preso parte. La persona al suo fianco, era
un professionista che in quel momento stava svolgendo il
suo compito, cercando il modo di renderlo più semplice
possibile. Si rese conto che il medico si era espresso solo
sullo stato di salute di Linda tralasciando il bambino. La
vita di suo figlio era il vero motivo per cui in quel
momento si trovavano in quel posto.
«Il bambino?» domandò.
«La gravidanza si è interrotta» rispose il medico,
scegliendo quella forma che forse aveva utilizzato
centinaia di volte durante la sua carriera. Parole distaccate,
fredde, tanto da assopire la reazione emotiva e renderla
meno immediata. Sentire “il bambino non c’è più” o

157
peggio ancora “suo figlio è morto”, trasmette un senso di
angoscia che alimenta l’inevitabile dolore. La reazione di
Massimo fu composta, non ci aveva pensato durante
l’attesa preoccupato per lo stato di salute della moglie.
«Il feto era affetto da un’anomalia cromosomica, di solito
provocata da un problema dello sperma o dell’ovaio che ne
impedisce il normale sviluppo. Non c’è molto che si possa
fare in questi casi».
Massimo ascoltava quelle parole ma non riusciva più a
coglierne il senso. Il medico sembrò accorgersene e gli
diede qualche secondo prima di riprendere:
«L’organismo di sua moglie non ha espulso tutti i tessuti e
quindi è stata sottoposta a una revisione uterina per
arrestare il sanguinamento e prevenire infezioni».
«Quanto tempo dovrà restare in ospedale?»
«La ripresa per questi tipi d’intervento è rapida se non ci
sono evidenti complicazioni. Già stasera potrebbe essere
dimessa. Vede, le conseguenze fisiche di un aborto
spontaneo di questo tipo sono irrilevanti. Sua moglie potrà
tornare a una vita normale da subito e potrà intraprendere
nuove gravidanze. Le maggiori ripercussioni invece, nella
maggior parte dei casi, sono di tipo psicologico».
Massimo sapeva che Linda era una donna forte e che era
capace di reagire con energia alle difficoltà della vita.
Purtroppo, quella non rientrava nelle situazioni che una
persona immagina di dover affrontare.
«Stia vicino a sua moglie in questo periodo. Molte donne
impiegano anni per superare le angosce, a volte non ci
riescono per tutta la vita. Questa struttura sanitaria offre un
servizio di assistenza nel caso ne abbiate bisogno».

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Il medico gli strinse la mano prima di allontanarsi.

La grande finestra della degenza era rivolta a sud rendendo
l’ambiente molto illuminato. La stanza era predisposta per
ricoverare due pazienti e il lettino libero stava servendo da
sedia a Massimo. Osservando la moglie dormire,
ammirava la sua bellezza nonostante la dura nottata. Linda
aprì leggermente gli occhi restando a osservare un punto
distante con il viso rivolto alla parete. Dopo qualche
attimo, avvertendo la presenza di qualcuno, si voltò
lentamente fino a incrociare lo sguardo di Massimo.
Sorridendo stese il braccio chiedendo il suo contatto.
Massimo si spostò sul suo lettino e le strinse la mano.
«Ciao amore» le disse prima di sfiorarle la fronte con le
sue labbra. «Come ti senti?»
«Meglio adesso che ti vedo» rispose lei. «Ho solo un
leggero mal di testa».
Massimo voleva evitare di parlare di ciò che era accaduto
ed era contento di vederla così tranquilla. Era quasi
sorpreso dal suo sorriso.
«Ti sei riposato almeno un po’?» gli chiese con
espressione rilassata.
«Per quanto si possa riposare su una sedia. Comunque
penso di essermi appisolato. A un certo punto sono stato
svegliato da quello che sembrava il galoppo di un cavallo,
per poi scoprire che si trattava di un’infermiera di duecento
chili con gli zoccoli».
Linda abbozzò una risata e gli accarezzò il volto. Spostò il
braccio sotto le lenzuola e posò la mano sul suo ventre
piatto.

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«E il bambino a chi somiglia?»
Il volto di Massimo si fece serio. Il sorriso sparì mentre
abbassava lo sguardo verso le sue mani che stringevano
quella di Linda.
«Dovrebbero portarlo per la poppata» continuò lei.
Massimo pensò che non fosse il caso di assecondarla,
anche se riportarla alla realtà, avrebbe potuto sconvolgerla
più di quanto già fosse. Nelle piene facoltà mentali, non
avrebbe potuto pensare di mettere al mondo un bambino
dopo poco più di un mese di gravidanza.
«Linda, c’è stata una complicazione. La gravidanza si è
interrotta, stanotte ti ho portato qui in ospedale. Purtroppo
è così ma tu stai bene».
«Il bambino come sta?»
Massimo le accarezzò il viso:
«Non c’è nessun bambino. Non c’è mai stato nessun
bambino. La gravidanza si è interrotta dopo appena un
mese, era poco più di un ovulo. Potremmo riprovarci».
L’espressione di Linda mostrava tutta la sua sorpresa.
Restò impassibile per qualche attimo prima di scoppiare in
una fragorosa risata. Quella reazione fece cadere Massimo
nello sconforto. Cercando di farla smettere, la strinse forte
a se:
«Amore, calmati! Dobbiamo affrontare la realtà, essere
forti e cercare di trovare la forza per superare questo
momento».
La risata di Linda si trasformò lentamente in un pianto
contenuto. Avrebbe dovuto convivere con quella
sofferenza, ma almeno adesso era consapevole di quanto
fosse successo.

160
CAPITOLO 19

161
Massimo stava osservando distratto il monitor. Immergersi
nel lavoro lo aiutava a distrarsi, ma quel giorno non era
così. Aveva letto una serie interminabile di mail, aveva
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

ordinato la scrivania, stava cercando in ogni modo di


tenere la mente occupata, senza comunque riuscirci.
Affondò il volto nelle mani. Preferiva reputarsi una
persona allegra che prediligeva l’armonia del gruppo di
lavoro, credendo nei risultati che consentiva di
raggiungere. Negli ultimi tempi la situazione era ben
diversa e anche se i suoi collaboratori se ne accorsero, non
lo diedero a vedere. Assorto nei suoi pensieri, fu destato
dallo squillo del telefono. Era Lena, l’unica con cui si era
confidato:
«Ho bisogno di parlarti».
I conti della Marelli erano in passivo. Da quando si
occupava dell’amministrazione, non avevano mai dovuto
affrontare una situazione peggiore. Gli affidamenti delle
banche erano al limite e chi come lei contava mensilmente
sulla paga sindacale che quel lavoro gli assicurava, aveva
buona ragione di preoccuparsi.
«Com’è possibile?» chiese Massimo confuso, «nelle
ultime due settimane abbiamo ricevuto pagamenti per oltre
un milione di euro».
«Il buco è più profondo di quanto possa sembrare. Quei
soldi sono finiti direttamente nelle casse della banca. Ed io
che stavo pensando al mutuo».
«Da quanto tempo riversiamo in queste condizioni?»
«Sicuramente non da molto. Non controllo spesso i conti,
ma qualche mese fa la situazione era ben diversa. Come
saprai non sono l’unica ad accedervi e nell’ultimo periodo

162
sono stati eseguiti pagamenti consistenti per acconti di
forniture».
«Ordini emessi da Saverio Scala?» chiese Massimo.
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«Non credo. Sono operazioni recenti».


«Non credo si tratti di acconti. Presumo che siano
pagamenti anticipati, concordati come scontro
supplementare a fine trattativa».
«Quindi paghi prima per avere un prezzo migliore» disse
Lena.
«Esatto. Tuttavia, ha un senso se hai contanti a
disposizione e vuoi investirli» continuò pensieroso.
«Potresti inviarmi la copia delle fatture ricevute nelle
ultime settimane?»
«Certo» rispose lei, «ma ne possiedo solo una parte. Le
restanti sono state inviate direttamente a Simona, su
indicazioni di Marelli in persona. Vuoi la sua
giustificazione?»
«Ha bisogno di fare pratica, tra poco dovrà essere in grado
di gestire la Tec Sys» rispose Massimo imitando Zazà.
Lena sorrise:
«Vedrò cosa posso fare. Potrebbe scomparire la scrivania
senza che se ne accorgesse».

Massimo, immerso nei pensieri, osservava il cielo notturno
dalla grande vetrata del salone. Il bicchiere vuoto rifletteva
la flebile luce proveniente dagli spot, creando uno strano
riflesso sulle pareti. Sentiva un senso di solitudine, quelli
che ti spingono a ricordare. Prese lo smartphone dalla tasca
e scorse la rubrica. Linda era a letto. Dormiva, sembrava
incapace di svegliarsi. Riempì l’ennesimo bicchiere di

163
Oban. Osservò, attraverso il bicchiere, lo schermo del
portatile colorato d’ambra mentre sentiva il calore
pervadere la gola. Socchiuse gli occhi. Forse aveva bevuto
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

troppo. Si avvicinò alla console e accarezzò il dorso degli


LP con un dito. Sfilò “Songs for Swingin’Lovers!” e
osservò la copertina che mostrava i segni del tempo. Era
stato un regalo di Linda. Prese il vinile maneggiandolo
come una reliquia e lo poggiò sul piatto. Abbassò la testina
in corrispondenza della prima traccia, “I’ve got you under
my skin” e la voce di Sinatra sembrò scaldare l’ambiente.
Spense le luci e uscì in giardino lasciando la porta aperta.
Ottobre era al termine ma non sembrava far freddo, forse
anche grazie all’effetto dell’alcol. Si lasciò andare su una
sedia umida e accese una sigaretta. La melodia arrivava in
sottofondo mentre la luce emessa dalla combustione era
l’unica a illuminare la notte. Il cielo era splendido. Non ci
volle molto per orientarsi tra le stelle, lo faceva da
bambino quando, con una carta celeste regalo del papà, si
divertiva a identificare le costellazioni. Alzò lo sguardo in
alto e riconobbe la caratteristica forma di Cassiopea, le
stelle che rappresentano la bellissima regina etiope che, a
causa della sua superbia, sfidò le Nereidi offendendo il dio
Nettuno. Tutti i personaggi della tragedia che ne derivò,
furono immortalati nel cielo con lei: Andromeda, Perseo,
la Balena. La superbia è uno dei mali cui l’uomo sa
resistere meno.

Roberto Davino era una persona elegante. Il suo buongusto
nel vestire associato al suo bell’aspetto, lo rendevano
estremamente affascinante. Era una persona brillante e fin

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da piccolo si era sempre distinto in qualsiasi cosa si fosse
cimentato. Le sue spiccate doti, gli avevano consentito di
diventare capo area all’età di trent’anni e Carlo avrebbe
scommesso la sua carriera che a breve, nonostante la
giovane età, sarebbe riuscito a ricoprire un posto al vertice
della piramide aziendale. Quella mattina si stava aggirando
tra le corsie, con il suo impeccabile abito grigio,
osservando con aria apparentemente distratta gli scaffali.
Carlo lo seguiva a passo lento, con le mani infilate nelle
tasche dei jeans. I clienti affollavano il negozio nonostante
fosse un martedì di ottobre e i commessi, erano impegnati
a dare il loro meglio per impressionare il visitatore. Carlo
sembrò scorgere sul suo viso l’ombra di un sorriso. Si
fermò e inspirò lentamente:
«Che buon odore!» esclamò. Cominciò a sentirsi più
rilassato seguendolo verso la corsia centrale, dalla quale si
aveva una visuale completa del negozio. Una giovane
coppia si stava avvicinando a quelli che dovevano essere i
loro figli, appena adolescenti, intenti a sfidarsi con un
nuovo picchiaduro. Davino li aveva già notati nel reparto
TV, intenti ad ascoltare i consigli studiati del commesso,
immersi nella parete di LED in esposizione. Gli stava
mostrando gli ultimi modelli Samsung, secondo le recenti
direttive aziendali emesse dopo l’accordo commerciale.
Percorse il corridoio alla sua sinistra e si avvicinò al
commesso:
«Com’è andata?» chiese senza troppi preamboli.
Il fatto che quella persona ben vestita fosse accompagnata
da Carlo, fu sufficiente a farlo rispondere senza troppe
domande:

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«Ho cercato di convincerli che fossero i migliori sul
mercato».
«E ci sei riuscito?»
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Sembrava di sì, ma non è stato sufficiente a fargli


sborsare i duemila euro per portarlo a casa», rispose
indicando lo Smart TV esposto alle sue spalle. «In
compenso» continuò, «ne hanno comprato uno piccolo per
la cameretta dei loro bambini».
Carlo si portò la mano al volto massaggiandosi le palpebre.
«L’importante è riuscire a ottenere il massimo» fece
Davino. «La bravura sta nel capire cosa il cliente può
veramente comprare e convincerlo a farlo» disse
visibilmente soddisfatto. Il commesso sorrise a Carlo
ricordando come il direttore, in una recente riunione, aveva
espresso lo stesso concetto ma in maniera più colorita:
“Non potete sfilare le mutandine a una donna se non le
porta”.
Tornarono verso la corsia centrale attraversando la libreria
dove, alcuni clienti, leggevano in comode poltrone.
«Sono in vendita?» chiese Davino divertito.
«Se l’azienda decidesse di allargare le sue vedute, siamo
pronti a farlo». Carlo aveva notato il tono meno formale e
pensò che la visita stesse volgendo al termine.
«Ci sediamo in ufficio?»
Gli indicò il corridoio che portava alle scale.
Il capoarea occupò posto alla scrivania e sfilò un pacchetto
di sigarette dalla giacca:
«Posso?»
Carlo annuì.
«Apprezzo il tuo modo di gestire il punto vendita.

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Purtroppo, il gruppo non naviga in buone acque. Stamani
sono stato informato della chiusura di altri due punti
vendita nell’area nord est. Hanno venduto i locali, ne
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

faranno negozi per il bricolage. Oramai le persone


preferiscono annaffiare piante che sedersi su un divano per
guardare un film».
Carlo ascoltava pensando che quel giro di parole non
prometteva nulla di buono:
«Che ne sarà dei dipendenti?»
«Cassa integrazione per adesso. Il consiglio di
amministrazione ha deciso di chiuderne altri. L’azienda ha
bisogno di liquidità ed io, come responsabile dell’area
centro sud, devo segnalarne almeno due».
«E poi, che ne sarà?» chiese preoccupato.
«Chi può saperlo. Forse ne sceglieranno uno tra quelli
sparsi su tutto il territorio, forse li chiuderanno tutti. Non
voglio che ti preoccupi per adesso, ci sono punti vendita
che cadono letteralmente a pezzi, incassi ai minimi storici,
personale inadeguato, direttori senza stimoli. Questo è da
esempio per gli altri e d’altronde, conoscendo la tua fama,
ne ero più che certo. Il mio dovere è visitarli tutti» disse
porgendogli la mano. Carlo la strinse accompagnandolo
alla porta.
«Credo che quest’anno assisterai a una riduzione del
fatturato».
Non si meravigliò di quell’osservazione. Come capoarea,
aveva accesso alle informazioni commerciali di ogni punto
vendita dislocato nella sua zona ed era scontato che le
avesse analizzate prima di quella visita.
«Cerca di alzare l’utile, taglia un po’ i costi. Sono tra i più

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alti dell’intera catena. Ci sono più commessi qui che in
altre due sedi messe insieme. Licenzia qualcuno. Tenta
fino in fondo di tenere in piedi questo negozio. Vedrai che
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

non sarà così difficile» terminò dandogli una pacca sulla


spalla.
In quel negozio lavoravano persone che dovevano badare
alla famiglia, con figli e mutui da pagare per i quali, nella
maggior parte dei casi, quella fonte di guadagno costituiva
l’unico sostentamento. Se erano necessari licenziamenti,
avrebbe cercato di limitarne le conseguenze iniziando da
chi non aveva ancora la responsabilità di una famiglia. Il
primo nome che gli venne in mente fu Marika.

La vibrazione del cellulare, poggiato sul piano di legno
della scrivania, lo distolse da quei pensieri. Da uno
sguardo all’orologio vide che era quasi mezzogiorno,
doveva essere Anita. Il mormorio di sottofondo riusciva
quasi a coprire la voce trepidante. Era appena uscita
dall’aula in cui, come consuetudine, aveva convinto il
professore a concederle la lode e voleva che lui fosse il
primo a saperlo. Era una ragazza intelligente, brillante,
caparbia e molto bella. Proprio il suo aspetto spesso le
procurava qualche problema con le assistenti dei professori
fino a quando, il più delle volte, erano messe da parte
appena questi ultimi posavano gli occhi su di lei. Carlo si
era abituato al modo in cui gli uomini la guardavano, non
era una ragazza che passava inosservata, anche se faceva
di tutto per rendersi semplice. Forse era proprio questo suo
modo di mostrarsi che la rendeva più attraente. Tuttavia, la
sua fenomenale media voto non era certo dovuta al suo

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aspetto fisico ma a una tenacia nello studio che rasentava
le capacità umane. L’intervallo medio che trascorreva tra
due esami era di circa quattro mesi. Il primo, era
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

necessario per riconquistare ciò che aveva trascurato


durante la preparazione dell’esame precedente, incluso il
rapporto con Carlo. Nei restanti tre mesi, Anita era
sopraffatta da uno stato di ansia isterica che bisognava
combattere a spada tratta per rendere possibile la
condivisione di qualche istante di armonia. A un mese
dall’esame, entrava in una specie di trance agonistica che
includeva la capacità di cancellare qualsiasi elemento
potesse distoglierla dall’argomento d’esame. Riusciva a
studiare ininterrottamente per circa dodici ore il giorno,
ogni settimana, per quasi quattro consecutive. Nell’ultima,
subentrava la depressione per la convinzione di non essere
pronta. All’esame arrivava un trenta, spesso accompagnato
dalla lode, e dopo qualche minuto la telefonata a Carlo.
Quella sera voleva dedicare il suo tempo a lui, rilassata tra
le sue braccia, facendosi coccolare. Avrebbe costretto i
suoi genitori a passare la serata fuori, cercando di
ritagliarsi un po’ d’intimità, di certo lo avrebbe voluto
anche lui. Da quanto tempo non facevano l’amore?

Carlo parcheggiò la Ford a qualche metro dal cancello. Era
buio già da un pezzo e sembrava che l’inverno fosse
arrivato tutto a un tratto. La luce arancione delle lampade a
sodio illuminava la strada deserta, in un modo che gli
metteva nostalgia ricordando quando un tempo, quei
lampioni, emettevano una luce biancastra. Erano quasi le
20:00, sfilò il cellulare che portava nella tasca del

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giubbotto e controllò che non ci fosse qualche chiamata
persa. Il numero di quella SIM, acquistata non più di un
mese prima, lo conoscevano solo due persone: Marika ed
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Elena. L’icona rappresentante una busta chiusa, indicava


che c’era un SMS da leggere:
“Le mie coinquiline cenano fuori. Ti aspetto? Elena”.
Avrebbe rimesso in moto in quell’istante, ma sarebbe stato
difficile trovare una valida scusa:
“Sono a cena da amici. Tra qualche ora sarò libero.
Facciamo alle 23:00?”
Attese con ansia la risposta che non tardò:
“Ok! Le ragazze non torneranno prima dell’alba. Ti
voglio”.
“A dopo” rispose eccitato. Nell’ultima settimana si erano
visti quasi tutti i giorni e, considerando il periodo in chat,
si stavano frequentando da almeno tre settimane ma, fino a
quel momento, Elena non aveva concesso nulla di se.
Spense il cellulare e lo ripose sul fondo del cassetto
portaoggetti. Si era più volte ripromesso di trovargli
un’ubicazione più consona alla sua funzione, solo Dio
avrebbe potuto aiutarlo se Anita lo avesse trovato cercando
di recuperare una limetta per unghie. Infilò l’Iphone in
tasca e scese dall’auto. Quando Anita lo vide sull’uscio
della porta, gli allungò le braccia al collo e lo baciò prima
di avviarsi rapidamente verso il corridoio, stringendo le
braccia al petto per proteggersi dal freddo. Indossava una
felpa grigia con cappuccio, dei collant e dei calzettoni di
lana spessa. Carlo aveva notato un leggero velo di trucco
che probabilmente aveva messo per lui. La seguì in camera
giusto in tempo per vederla saltare sul letto e rifugiarsi

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sotto il plaid. In TV stavano dando un documentario sugli
animali della savana.
«Vieni qua sotto amore, scaldiamoci un po’» fu il suo
invito.
Carlo slacciò le scarpe e si sdraiò di fianco sentendo il suo
tepore. Anita si accucciò con la testa al petto inspirando
l’odore che emanava. Amava quella ragazza e in quei
momenti, quando gli mostrava tutta la sua fragilità,
provava una profonda tenerezza. Ciò nonostante, in quel
momento era distratto, stava con lei sentendo di adempiere
un dovere ed era impaziente di raggiungere Elena. Stava
pensando che quella sera l’avrebbe avuta nell’attimo in cui
Anita si allontanò da lui. Si ritrovò nell’azzurro intenso dei
suoi occhi e per un momento ebbe il timore che fosse stata
capace di percepire i suoi pensieri, come se quel contatto
così intimo, avesse aperto la porta della percezione tra
loro.
«Facciamo l’amore».
Carlo cominciò a baciarla più intensamente, pensando a
quelle parole. Poi la passione prese il sopravvento e si
sdraiò su di lei.
Anita abbassò i collant mentre lui stava cercando di sfilarle
la felpa.
«No, per favore. Sento freddo!» esclamò sorridendo.

Dopo aver fatto l’amore, Carlo era disteso sul letto mentre
lei, con la testa poggiata sul petto, gli accarezzava
l’addome.
Restarono così per un tempo che sembrò interminabile:
«Come stai?»

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La risposta di Anita arrivò dopo qualche attimo:
«Bene, ma sono triste».
«Perché?»
Anita lo strinse a se:
«Per Linda. Ho l’impressione che per lei sia stata più dura
di quanto si possa immaginare».
«E’ una donna forte e può contare su Massimo. Si amano,
riusciranno a superare questo periodo. Tu e Barbara
cercate di starle accanto, le sarete d’aiuto».
«Guarda che il bambino l’hanno perso in due» rispose di
botto lei. «Massimo come sta? Da quanto tempo non lo
senti?»
Solo in quel momento Carlo pensò realmente a lui.
Succedeva spesso che per vari motivi, passavano diverse
settimane prima che riuscissero a incontrarsi, tuttavia,
trovavano sempre il tempo per una telefonata. Da quando
aveva avuto inizio la sua relazione con Marika, stava
trascurando ogni aspetto della sua vita quotidiana,
compreso il suo migliore amico. Ovviamente la colpa era
solo sua, non poteva certo pretendere che Massimo,
distratto dai suoi problemi familiari, trovasse il tempo per
chiedergli l’andamento delle sue relazioni. In quel
momento si ricordò dell’appuntamento e sentì un nodo in
gola. Anita si era assopita. Chiuse gli occhi e immaginò
quel corpo stupendo che avrebbe avuto sentendo tornare
l’eccitazione. Quando riaprì gli occhi, si rese conto di
essersi addormentato. Guardò l’orologio e vide che erano
passate le ventitré. Sobbalzò svegliando la sua ragazza:
«Amore, si è fatto tardi. Continua a dormire, io torno a
casa. Domani dovrò svegliarmi presto».

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«Resta con me. Dormiamo insieme» borbottò lei
allungando il braccio alla cieca.
Carlo si avvicinò dandole un bacio sulla guancia:
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AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Ci vediamo domani».


Era già tornata tra le braccia di Morfeo.
Entrato in auto, recuperò il cellulare dal cassetto, lo accese
e attese che agganciasse il ripetitore più vicino. La
suoneria notificò due chiamate perse. Era lei. Avviò la
telefonata e attese in linea. La risposta arrivò dopo due
squilli:
«Hai cambiato idea?»
«Sono in auto, sto arrivando».
«Ti sto aspettando da un pezzo. Fai presto».
Aveva già imboccato la strada.

Mentre saliva le scale, sentì il cigolio del portone. Lei era
lì, ad aspettarlo, bellissima e sexy come non mai. Una
semplice maglia di filo copriva poco più degli slip mentre,
le gambe nude, erano slanciate da un tacco vertiginoso. I
capelli sciolti sulle spalle e il suo sorriso facevano il resto.
Era indiscutibilmente la donna più sensuale che avesse mai
conosciuto.
«Entra, che fai impalato?»
«Sei semplicemente meravigliosa» rispose varcando la
soglia d’ingresso. L’appartamento non era molto grande
ma nel complesso era arredato con stile e sembrava molto
accogliente. Elena lo divideva da un po’ di tempo con due
coinquiline in modo da alleggerire i costi dell’affitto.
Avevano ricavato una terza stanza da letto da un piccolo
ripostiglio, occupata dall’ultima arrivata che, pur di

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rendersi indipendente dai genitori, si era accontentata dello
spazio ridotto. La sua era una camera ben più ampia con
una grande finestra sul giardino, che la rendeva molto
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luminosa durante le ore diurne. I colori delle pareti e degli


arredi variavano tra il rosa pastello e l’ambra. Carlo versò
il vino bianco nei bicchieri che Elena aveva preparato e
brindarono al loro incontro. Si avvicinò a lei tanto da poter
sentire il suo profumo accarezzandole la gamba. La sua
pelle era perfetta. Lei lasciò la testa all’indietro porgendo il
collo morbido alle sue labbra. La passione prese il
sopravvento. Entrambi aspettavano quel momento da
quando si erano conosciuti e adesso si sarebbero
finalmente goduti. Carlo la sollevò e la spinse sul tavolo.
Lei lo tirò a sé stringendolo tra le cosce. Intravide il pizzo
nero degli slip mentre slacciava la patta dei pantaloni.
«Aspetta!» esclamò lei baciandolo sulle labbra.
«Aspettami in camera» disse dirigendolo nel piccolo
corridoio. «Arrivo subito».
Carlo sfilò i jeans e sedette sul letto. La sua erezione era
evidente attraverso gli slip e si accorse di sentire l’odore di
Anita. Forse a Elena piaceva il sesso orale e quel pensiero
gli fece crescere l’ansia. Come poteva cavarsela in quella
situazione. Aprì il cassetto del comodino cercando di non
fare rumore, e si sentì risollevato trovando una confezione
di kleenex. Si pulì in fretta, infilò le salviettine sporche
nella tasca dei jeans e rimise la confezione al suo posto.
Nel cassetto c’erano anche dei profilattici e quella cosa lo
lasciò turbato. Era consapevole che lei, come tutte le
ragazze del mondo, avrebbe potuto avere una vita sessuale
attiva ma quella certezza gli procurò un certo fastidio. Non

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poteva certo credere di amarla, ma allora cos’era quel
sentimento se non gelosia? Si poteva quindi essere gelosi
di una persona anche senza provare un sentimento, o in
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quel rapporto c’era qualcosa di più? Richiuse il cassetto


mettendo da parte quei pensieri. Per il momento l’avrebbe
scopata.
Elena si appoggiò alla porta d’ingresso aperta. Indossava
un corpetto nero stretto che metteva in risalto le sue curve.
Il seno era stretto in una generosa scollatura, il perizoma e
le calze autoreggenti rendevano il tutto terribilmente
eccitante. Era favolosa. Sfilò letteralmente per la stanza
facendo ondeggiare i fianchi, fino a porsi di fronte a lui. Si
mise cavalcioni e lo spinse giù. Cominciò a muoversi
lentamente strofinandosi sulla sua erezione fino a portarlo
vicino all’orgasmo. Si alzò, gli sfilò gli slip e gli lanciò un
preservativo. Rimontò su di lui. Questa volta spostò il
perizoma e con la mano lo accompagnò dentro di lei. Per
Carlo fu il miglior sesso mai provato. Quella notte lo
fecero più volte e in diversi modi. Elena chiedeva ciò che
desiderava e godeva nel fargli provare piacere. Sfiniti
restarono abbracciati sul letto, nudi, a godere i rilassati
respiri.
«Sto bene con te» gli sussurrò improvvisamente lei.
Quella frase lo lasciò inizialmente sconcertato. Era diverso
pensare a lei, dopo averci fatto sesso per due ore. Gli
venne in mente un aneddoto che Massimo gli ripeteva
spesso. Se una donna avesse voluto una risposta sincera da
un uomo, avrebbe dovuto porgli la domanda nei cinque
minuti successivi l’atto sessuale, quando lui fosse stato
capace di parlarle senza tentare di portarsela a letto. Forse

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anche Elena lo conosceva.
«Anch’io» rispose senza troppa convinzione.
Lei sorrise:
«Lo so che è stata solo una gran bella scopata, ma a me
piaci davvero».
«Anch’io sto bene con te. Proviamo a vedere come va, che
ne pensi?» chiese guardandola negli occhi.
«Che cosa sono adesso per te?» chiese seria.
Carlo non distolse lo sguardo:
«Sei ciò che più voglio» disse prima di baciarla.
Si abbandonò a lui.

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CAPITOLO 20

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Marika poggiò i documenti sulla scrivania. Dal forte odore
di fumo capì che Carlo era uscito da poco, forse solo per
un breve controllo alle corsie avendo lasciato il computer
acceso. Il desktop era occupato dall’elenco delle mail ma
sulla barra delle applicazioni, erano evidenti le notifiche
del browser che indicavano l’arrivo di messaggi in chat.
Diede uno sguardo furtivo all’ingresso, pensando che
sarebbe riuscita ad accorgersi dei passi provenienti dalle
scale prima che qualcuno fosse riuscito a entrare. Afferrò il
mouse per aprire la finestra. La foto del profilo ritraeva un
paesaggio lunare ed il nome, Carlo Merisi, le sembrava
familiare. Stava pensando alla possibilità che qualcun altro
potesse utilizzare quel computer quando udì una voce
riecheggiare all’esterno. Richiuse la finestra del browser e
si allontanò dalla scrivania. In quel momento entrò Carlo
impegnato in un’animata conversazione telefonica.
Marika, notando il suo sconcerto, giustificò la sua presenza
indicando i fascicoli sulla scrivania prima di avviarsi alla
porta. Durante il tragitto verso la sua postazione, ripeté
quel nome cercando di imprimerlo nella memoria. Arrivata
al punto accoglienza, recuperò lo smartphone dalla borsa e
avviò l’applicazione. La sua memoria non l’aveva
ingannata, non solo quel nome era tra i suoi contatti, ma
avevano anche un’amicizia in comune. Carlo Merisi e
Carlo Sorli dovevano essere la stessa persona e non fu
difficile intuirne la spiegazione. La curiosità si tramutò in
rabbia quando capì di essere stata scaricata per una donna
che non fosse Anita e che i sensi di colpa di Carlo, erano
solo una stupida scusa per metterla da parte. Di una cosa
era sicura, non avrebbe mollato così facilmente.

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La porta chiusa non lasciava trapelare alcun rumore nella
piccola stanza che una volta, aveva avuto lo scopo di far
accomodare gli ospiti in attesa. C’era appena lo spazio per
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un piccolo divanetto al fianco del quale, un portariviste


metteva in bella mostra la pubblicità per corrispondenza
che arrivava alla Marelli. Volantini con prodotti per il
bricolage, riviste di settore, tutto materiale che non
avrebbe potuto attirare l’attenzione per più di qualche
minuto. Con il tempo fu proprio Marelli a volerlo
trasformare in ufficio, nonostante ci fosse appena lo spazio
per una piccola scrivania e due sedie, destinandolo a Lena.
Gironzolando per la hall, dalla quale si poteva intravedere
ogni angolo della piccola stanza, il giovane Marelli
lanciava occhiate furtive cercando di nascondere la sua
indiscrezione.
«Ti spiace se fumo?» chiese Petrone portando una sigaretta
alle labbra mentre, tentoni, cercava l’accendino nella tasca
della giacca.
«Dovrebbe dispiacere lei avvelenarsi. Almeno lo faccia
dalla finestra».
«Quando iniziai a lavorare per quest’azienda, rimasi
positivamente colpito» riprese lui sbuffando fumo, «fui
sorpreso da quanto Pietro fosse riuscito a fare. Non ha mai
brillato per intelligenza ma, com’è risaputo, nella vita ci
vuole ben altro che un cervello. C’è chi ha carisma, chi ha
intuito, chi ha la bellezza» disse voltandosi
impercettibilmente verso Lena. «Per chiunque però, è
indispensabile un’abbondante dose di fortuna. Puro culo,
se vogliamo. Nel suo caso, associato all’inconsapevolezza
del rischio tipica di chi è stupido, ha sortito il suo effetto.

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Può sembrare un paradosso ma, chi tende a pensare troppo
deve dar conto alle considerazioni sulle maggiori
probabilità d’insuccesso e quindi è più tentato dal
desistere. Chi pensa meno osa di più e, come si sa, bisogna
tentare per ottenere».
«Pensiero inappuntabile» disse Massimo visibilmente
amareggiato, lui che credeva nella meritocrazia.
Petrone si appoggiò alla sedia vuota:
«Quanti Marelli esistono che, invece, hanno rischiato
senza lo stesso successo. Sono sicuro che rappresentino la
maggioranza, ma di loro nessuno parla. Ed ecco può
sembrare quasi che nella vita, se si ha il coraggio di
provarci, si può ottenere qualsiasi risultato» disse
mimando con le mani uno sbuffo d’aria, quasi con le
movenze di un mago al quale è appena riuscita una magia
che ha lasciato i bambini senza fiato. «Siate onesti. Il
pensiero che lui sia riuscito a creare tutto questo, quasi vi
rincuora. Se ce l’ha fatta lui, se avessi un po’ di coraggio
in più… Col cazzo!» esclamò quasi gridando, facendo
trasalire Lena. «Dovreste avere il suo culo. La sua cazzo di
fortuna. Anche per trovare persone come voi durante il
cammino» terminò sedendosi, quasi sfiancato da quelle
parole.
«Tutto ci porta a pensare che abbia deciso di raccogliere i
frutti di tanta fortuna» disse Massimo. «Ne siamo quasi
certi. Ogni azione sembra studiata nei minimi dettagli per
un unico scopo».
«Sta usando i fornitori più fidati per prosciugare le casse. E
di questo passo non ci vorrà molto tempo» intervenne
Lena.

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Petrone sembrava pensieroso:
«Anche il licenziamento di Scala quindi, è stato
premeditato. Era l’unico ostacolo nei rapporti tra lui e i
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fornitori».
«Potremmo fargli capire che siamo a conoscenza delle sue
intenzioni. Magari convincendolo a fermarsi» disse lei.
«Andrà dritto per la sua strada» rispose Massimo. «Anche
se si tratta di falsa fatturazione, sarà difficile provarlo. Non
si fermerà».
«Sono d’accordo» fece Petrone. «Dobbiamo metterlo con
le spalle al muro. E’ improbabile farlo tornare sui suoi
passi, dobbiamo essere consapevoli che lo facciamo solo
per rovinarlo. Forse riusciremo ad avere tutti quello che ci
spetta di diritto, ma per la Marelli non vedo via d’uscita».
«Potremmo iniziare da queste fatture di affitto, magari
troviamo qualche pista da seguire» disse Massimo.
Lena digitò qualcosa sulla tastiera:
«Quel nome non mi è nuovo» disse osservando uno dei
documenti, quasi parlasse con sé stessa, «e perché i
licenziamenti da un giorno all’altro?»
«Ecco il colpevole!» esclamò Petrone indicando
platealmente Massimo. «Pur non volendo, ha innescato
questo meccanismo suggerendo la soluzione per l’affare
Ital Petroli. Pietro sarebbe dovuto ricorrere ai suoi fondi
personali e ha colto l’occasione per dirottarci nella
situazione in cui ci troviamo».
«Ecco!» esclamò Lena soddisfatta, «ricordavo di averla
vista. E’ la visura camerale della GM Immobiliare. E
indovinate un po’ chi è l’amministratore?»
«Giovanni Marelli» rispose Massimo che, all’espressione

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interrogativa di Lena, continuò: «Di certo non brillano per
originalità. Giovanni Marelli Immobiliare» fece
disegnando nell’aria due lettere immaginarie.
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«Ci sono transazioni documentate tra le due società?»


chiese Petrone.
«Se ce ne sono, avranno avuto cura di nasconderle. Simona
ormai si occupa di gran parte delle mie vecchie mansioni».
«Tutti i documenti riservati sono archiviati nel suo ufficio»
intervenne Massimo. «Il suo computer è dotato di un hard
disk estraibile cui è impedito l’accesso dalla rete aziendale.
E’ protetto da un firewall dedicato. Lo fece installare in
modo da portarlo via in caso di necessità. E’ lì che archivia
tutti i documenti compromettenti».
«Dobbiamo metterci le mani» disse Petrone mentre la
porta alle loro spalle si aprì.
Era Giovanni Marelli:
«Lena, avrei bisogno di parlarti».
Lei annuì mentre i due si alzavano:
«Allora siamo d’accordo» fece il più anziano.
Erano sicuri che non fosse niente d’importante.

La serata era fredda e, nonostante il riscaldamento acceso,
i vetri della Smart erano appannati. Sbirciando tra le
chiazze che cominciavano a diradarsi sul parabrezza, riuscì
a intravedere la snella figura che entrava in auto. I suoi
dubbi non erano infondati, Carlo aveva una relazione con
Elena. Restò in auto, al freddo, aspettando che i due
tornassero, pensando a come la sua vita fosse così
differente da come l’aveva sempre sognata. Una carriera
brillante, un uomo affascinante che la amasse, una casa

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tutta sua, per un breve periodo aveva accarezzato
quell’idea ma era svanito tutto troppo presto. L’uomo che
desiderava l’aveva mollata, e il suo posto di lavoro era a
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rischio da quando l’azienda aveva deciso di ridurre il


personale.
Calcolò che erano passate almeno due ore quando vide
l’auto rossa parcheggiare qualche metro più avanti.
Intravide dal lunotto posteriore i due che si scambiavano
un lungo bacio prima che lei scendesse per dirigersi verso
il portone. Aspettò qualche minuto prima di seguirla. Non
impiegò molto tempo a trovare il tasto giusto poiché nello
stabile, c’erano solo quattro appartamenti. Era la voce che
si aspettava:
«Chi è?»
«Sono Marika». I secondi che passarono prima della
risposta fecero intendere che quella era l’ultima visita che
si sarebbe aspettata.
«Ehi! Marika… ma come?.. Sali» rispose confusa mentre
si udì lo scatto dell’elettroserratura.
La casa era piccola ma accogliente. Elena doveva essere da
sola e non aveva fatto ancora in tempo a mettersi qualcosa
di comodo. Indossava dei jeans neri aderenti infilati in un
paio di stivali di pelle. Il tessuto della maglietta era così
sottile che lasciava intravedere le forme del seno. Non
aveva nemmeno fatto in tempo a togliersi la giacca bianca.
Marika non poté fare a meno di ammirare, con una punta
d’invidia, la sua eleganza. Elena la fece accomodare sul
divano mentre lei occupò una sedia in plexiglass.
«Non mi aspettavo di vederti» disse sorridendo.
L’atteggiamento di Marika mostrava tutta la sua

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determinazione. A gambe accavallate, sedeva con le spalle
dritte poggiate allo schienale del divano con le mani sul
ginocchio. Il suo sguardo era fisso in quello di Elena e sul
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suo volto si poteva scorgere l’ombra di un sorriso:


«Ti stai scopando il mio capo» furono le sue prime parole.
L’espressione di Elena cambiò all’istante. Non si era certo
aspettato quell’approccio. Era incuriosita da quella visita
ma non credeva che qualcuno fosse a conoscenza della sua
relazione con Carlo, né tantomeno che ne fosse interessato.
«Beh! Non vedo quale sia il problema. E poi, come puoi
esserne certa?»
L’atteggiamento di Marika non sembrò risentire di quella
reazione: «Perché me l’ha detto lui».
Elena cominciò a sentirsi agitata. Pensandoci, Carlo
gestiva un negozio di elettrodomestici, proprio come
quello in cui lavorava la sua vecchia amica. Era una strana
coincidenza, ma plausibile. Non riusciva però a capire che
tipo di rapporto potesse avere con lui poiché, a suo dire, gli
aveva confidato qualcosa che rientrava nella sfera della
vita privata.
«E perché mai avrebbe dovuto confidarsi con te?» chiese
con un tono quasi di sfida.
«Perché me lo scopo da più tempo di te».
Il volto di Elena diventò rosso di rabbia, era chiaro che
l’intento di Marika andava bel oltre la voglia di fare una
sana chiacchierata tra vecchie amiche. Non solo voleva
indurla a interrompere quella relazione, ma voleva farlo
umiliandola.
«Non credo ti abbia raccontato con chi va a letto».
«Oh si invece. Lo fa sempre con me, è una cosa che mi

184
eccita. Ieri mi ha parlato di te. La tua reputazione di
amante non fa onore a tutta questa bellezza. Per lui scopo
meglio di te ed è per questo che non potrà fare a meno di
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

me» disse sorridendo compiaciuta.


Elena, che faceva chiaramente fatica a trattenere le
lacrime, non avrebbe voluto concedergli quella
soddisfazione:
«Lascia immediatamente questa casa!»
«Non prendertela» riprese Marika, «lo sto facendo per te.
Non voglio che te ne innamori. Forse è troppo tardi? Non
sei la prima e non sarai l’ultima. Cosa ti aspettavi da uno
che tradisce la donna che dice di voler sposare» disse
alzandosi. L’espressione di Elena mostrava il suo
disorientamento. «Non lo sapevi? Tesoro mio, non ti ha
detto che sta per sposarsi? Che mascalzone, scherzare così
con la tua sensibilità».
Elena scoppiò in lacrime:
«Esci da casa mia e non tornare mai più» gridò a pieni
polmoni, «Carlo non ha una ragazza, stai solo cercando di
rovinare tutto».
Marika si fermò davanti alla porta:
«Il suo nome è Anita Pace, difficile competere con lei. E’
bella, come te del resto, ma la ama. Tra noi c’è solo sesso,
dell’ottimo sesso direi, ma solo quello. Dimenticavo, il suo
vero nome è Carlo Sorli».
Uscì lasciandola sola. Non poté far altro che sfogare la
frustrazione con il pianto.

Carlo stava affondando il piede sull’acceleratore. Dalla
voce al telefono Elena sembrava sconvolta e durante tutto

185
il tragitto non aveva fatto altro che chiedersi cosa fosse
successo. L’aveva lasciata meno di un’ora prima di buon
umore ma quando entrò nell’appartamento, osservando i
suoi occhi, capì che aveva pianto. Non gli diede il tempo di
avvicinarsi: «Dimmi che non è vero!»
Restò sconcertato, non aveva immaginato che potesse
avercela con lui: «Cosa?»
«Dimmi che non sei fidanzato!» L’espressione sul volto di
Elena era supplichevole, quasi a pregarlo di dirgli ciò che
voleva sentire. La risposta le fece crollare il mondo
addosso:
«Volevo dirtelo» fece lui passandosi una mano tra i
capelli.
Elena abbassò la testa sprofondando il volto tra le mani. I
capelli dorati coprivano quell’immagine di sofferenza.
Carlo si avvicinò sedendo al suo fianco ma lei si scostò
istintivamente quando sentì il contatto con la sua gamba.
Alzò lo sguardo nei suoi occhi:
«Non mi toccare» disse mostrando i palmi delle sue
piccole mani con aria minacciosa. «Quando cazzo avresti
pensato di dirmelo?»
«Ci stavo pensando da alcuni giorni» rispose cercando di
riprendere le redini in mano.
Elena sorrise in maniera beffarda:
«Dimmi se per te sono una semplice avventura, una da
farti come tante altre. Forse mi sono sbagliata a credere
che... »
In quel momento pensò che forse sarebbe stato meglio
stroncare quella relazione e tornare alla sua vita di sempre.
Non era facile.

186
«Non sei come le altre. Da quando ci sei tu, per me sono
cambiate tante cose» rispose poggiandole la mano dietro la
schiena.
«E allora perché cazzo non mi hai parlato di lei?» urlò.
«Perché non volevo che pensassi di essere una semplice
distrazione. Avevo paura di perderti».
«Cosa provi per me?» chiese guardandolo negli occhi. «Mi
ami?»
Carlo sapeva che avrebbe dovuto scegliere in quel
momento. Per continuare a vederla non c’erano altre
possibilità.
«Sì. Ho avuto paura di ammetterlo ma non posso mentire a
me stesso». Le teneva le mani e si era avvicinato tanto da
sentirne il profumo. Elena lo baciò appassionatamente
stringendolo a se. Gli sfilò il giaccone mentre, montando
su di lui, gli porse il collo.
«E per lei? Cosa provi per lei?»
«Per me ci sei solo tu» rispose mentre, sotto la maglia, le
mani armeggiavano per slacciare il reggiseno.

187
CAPITOLO 21

188
Massimo lanciò distrattamente un’occhiata all’orologio.
Erano appena passate le diciannove e il silenzio si
percepiva come una presenza. Era stato il rumore dei passi
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

pesanti, proveniente dalla Hall, a ridestarlo. Pietro Vallesi,


come il solito, stava aspettando per il giro di controllo
prima della chiusura e nel frattempo impiegava il tempo
svolgendo i compiti che Zazà, un tempo, avrebbe delegato
a personale esterno. Attraverso le vetrate della sala tecnica,
Massimo lo intravide mentre trasportava non senza sforzo,
dei secchi forse pieni d’acqua. Notando i grossi guanti
sporchi di terra, pensò che quella fosse la serata destinata
al giardinaggio. Spense il computer e si avviò verso la
porta. Quando fu sicuro che Vallesi fosse tornato a
occuparsi del grosso ulivo, entrò nel locale tecnico. Il
piccolo tavolo era occupato da un monitor sul quale erano
proiettate le immagini provenienti dalle quattro telecamere
a circuito chiuso, installate in vari punti dell’edificio. Da
quella che inquadrava il cortile, s’intravedeva l’uomo
chino nella grande aiuola, mentre sfidava l’intenso freddo,
intento a estirpare erba. Le immagini erano registrate in
ciclo continuo e archiviate per una settimana in un hard
disk protetto da password. In azienda solo i Marelli
possedevano le credenziali per accedere al sistema oltre a
lui. Una delle telecamere, era stata nascosta in un angolo
dell’ufficio di Zazà, sistemata in modo da inquadrare la
scrivania e le sedie disposte di fronte, voluta da lui per
immortalare i suoi incontri d’affari. Le immagini sarebbero
tornate utili nel caso qualcuno avesse avuto qualche
ripensamento dopo essere caduto nella tentazione della
corruzione. Il calore emanato dalle apparecchiature e lo

189
stato di tensione, cominciavano a farsi sentire. Piccole
gocce di sudore comparvero sulla sua fronte e la frequenza
dei battiti aumentò. Non era raro che entrasse in quel
locale per ripristinare qualche disservizio agli impianti
dell’edificio o semplicemente per controllare che fosse
tutto a posto. Quella sera però, forse per paura di assumere
un atteggiamento che non sembrasse naturale o
semplicemente per non destare sospetti, preferiva non farsi
vedere in quel posto. Bastava semplicemente mostrare di
essere a suo agio nel caso in cui Vallesi l’avesse trovato
intento a smanettare su quel computer ma, non essendo
sicuro delle sue doti di attore, cercò di fare il più
velocemente possibile. Digitò la password di
amministratore utilizzando la tastiera collegata al sistema e
disabilitò la segnalazione di guasto. Dopodiché scollegò il
cavo dal recorder e immediatamente le immagini in un
riquadro del monitor scomparvero. L’indomani avrebbe
riallacciato il cavo. Se non ci fossero stati problemi,
nessuno si sarebbe accorto dell’anomalia e dopo una
settimana, il sistema avrebbe rimediato cancellando ogni
traccia dell’oscuramento. Uscì dal locale e si avviò verso
la sua postazione per recuperare la giacca.
«Allora andiamo?» riecheggiò nella sala vuota la voce di
Vallesi.
Massimo non sapeva da quanto tempo fosse lì, ma rispose
con naturalezza:
«Don Pietro credo che per oggi basti. Possiamo anche
tornare a casa».

190
Lena arrivò in ufficio di buon mattino. Le piaceva
svegliarsi presto e sentirsi avvolgere dall’aria fredda
ancora povera di sole. Camminare per le strade deserte
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

godendosi il tempo a disposizione, le dava un senso di


benessere, quasi di potere. Era lei a respirare la prima aria
stantia dei locali ancora bui, raggelati dalla notte appena
passata. Aprendo la finestra che dava sul cortile, riempì la
piccola stanza dei flebili raggi di luce che filtravano tra gli
edifici lontani dietro i quali, ancora basso, si nascondeva il
sole. Pietro Vallesi spazzava il cortile. Da quando lavorava
alla Marelli, era arrivata a lavoro nelle ore più disparate del
mattino e lo aveva sempre trovato lì, intento a operare,
tanto da dubitare del fatto che avesse bisogno di dormire.
Aveva notato il modo in cui la guardava e per quello
preferiva mantenere una certa distanza. Anche quel giorno,
al suo saluto, aveva finto di non vederla. Imboccò la breve
scalinata che portava all’ingresso principale quando,
superati i primi gradini, aveva notato l’affievolirsi del
brusio della scopa. Si voltò, appena in tempo per vederlo
abbassare lo sguardo e riprendere il lento movimento.

Accese il computer e si appoggiò alla sedia cercando di
tranquillizzarsi. Tirò un profondo respiro e si avviò verso i
bagni. Alle donne ne era stato riservato uno mentre, agli
uomini che erano in numero nettamente superiore, due. Un
piccolo locale adibito a dispensa, completava l’area
comune insieme all’antibagno. Si guardò allo specchio
dandosi una veloce sistemata ai capelli, e uscì lasciando la
luce accesa. Girò la chiave nella toppa e la infilò in tasca.
Attraversò la hall con passo deciso facendo ricorso ai

191
frammenti di sicurezza nascosti in lei, e si avviò alla porta
dell’ufficio di Marelli. Si fermò guardandosi intorno. Era
sicura che non ci fosse nessun altro, non c’era bisogno di
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

essere agitata. Sfilò la copia della chiave dalla tasca


posteriore dei jeans e aprì. Dopo essere entrata, richiuse la
porta alle sue spalle, si appoggiò ad essa e chiuse gli occhi.
L’odore acre di muffa inondò le sue narici. La penombra
della stanza, dovuta agli infissi ancora chiusi, sarebbe
perdurata fino all’arrivo di Marelli. Avanzò verso la
scrivania sulla quale era installato il computer e, spostando
leggermente il mouse, verificò che fosse acceso così come
assicurato da Massimo. Digitò la password e attese qualche
interminabile secondo, fin quando la familiare schermata
di Windows comparve sul desktop. Stava andando tutto
come previsto e cercò di tranquillizzarsi. Inserì il disco
rimovibile nella porta USB mentre occupava la sedia che
fece scomparire la sua esile corporatura. Trovò senza
difficoltà l’archivio dei dati seguendo le indicazioni che
aveva ripetuto mentalmente tutta la notte. Quando avviò il
processo di copia, sentì fermare il respiro alla vista del
piccolo riquadro in cui era riportata l’indicazione del
tempo residuo alla fine dell’operazione. Sperò che quella
stima, come nella maggior parte dei casi, non fosse
affidabile. Non avrebbe potuto giustificare facilmente la
sua presenza in quell’ufficio che tra l’altro restava
perennemente sotto chiave. Era pur vero che Marelli le
aveva affidato l’unico duplicato ma, ovviamente, doveva
essere utilizzato solo in caso di necessità. In quella stanza,
nascosta dalla copia di un Dalì, c’era la cassaforte di cui
Lena conosceva la combinazione e in cui era autorizzata a

192
riporre le buste che le recapitavano a mano, quando Zazà
non si trovava in sede. Sapeva benissimo che contenevano
mazzetti di banconote, come sapeva che essere l’unica
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

autorizzata a eseguire quelle operazioni non era una


dimostrazione di fiducia ma, semplicemente,
l’assicurazione per Marelli di conoscere con certezza il
responsabile di un’eventuale falla nella contabilità. Il
rumore dei passi provenienti dall’esterno la ridestò da quei
pensieri. Tese l’orecchio avendo l’impressione che il cuore
si fermasse di colpo. Quando si allontanarono, i battiti
ripresero con una tale frequenza che il petto sembrava
volesse esplodere. Lanciò un’occhiata allo schermo
oscurato dallo screen saver. Spostò il mouse per riattivare
il desktop prima di udire un rumore metallico. Imprecando,
recuperò la Mont Blanc caduta felice nel constatare che era
ancora integra. Mancava meno di un minuto alla fine, era
quasi fatta. Vallesi si avviò verso il bagno superando la
Hall a passo svelto. Entrando notò la luce accesa.
Lasciando la porta spalancata, cominciò a svuotare la
vescica. Pensare di essere visto lo eccitava. Alzò gli occhi
verso il soffitto e notò che l’aspiratore non funzionava.
Quel guasto si era già verificato in passato e gli sembrava
di ricordare il modo in cui Massimo aveva provveduto.
Tirò lo sciacquone e si avviò verso il locale tecnico. Si
sentì profondamente fiero quando, osservando il quadro
elettrico, notò la leva dell’interruttore abbassata. Si rese
conto di avere identificato la causa del problema. Lo
riarmò e, uscendo dal locale, fece caso al cavo che
pendeva dalla scrivania accostata al muro. Lo osservò con
attenzione finché il suo volto s’illuminò. Lo aveva

193
riconosciuto, era dello stesso tipo di quelli utilizzati per le
TV. Pensò dovesse essere dell’impianto di
videosorveglianza e sbirciò nella zona posteriore
all’apparecchio sul quale era poggiato il monitor. Ne notò
una serie già collegati e una sola presa vuota. Inserì il cavo
e fu maggiormente convinto che avrebbe potuto offrire
all’azienda molto più di quello che gli veniva richiesto.

Quando udì il rumore dei passi, Lena si accostò agli infissi
socchiusi scorgendo Vallesi scendere nel cortile. Si sentì
risollevata ma solo fino a quando notò il cancello
scorrevole aprirsi. Il cuore ricominciò a sobbalzare
notando l’auto di Marelli varcare l’ingresso. Si precipitò
verso la sedia, mancavano pochi secondi al termine. Non
riuscì a trattenere l’imprecazione:
«Vaffanculo! Muoviti!»
Cercò di restare lucida e, dopo aver spento il monitor, si
avvicinò alla parete alle sue spalle rimuovendo la copia del
Dalì. Avrebbe tentato di convincerlo che stava depositando
una busta, non era un granché come scusa, ma poteva
essere credibile. In quell’istante sentì la voce di Petrone
chiamare Marelli. Quando si accorse che stava tornando
nel cortile, risistemò il quadro alla parete, controllò che la
copia fosse completa e sfilò il disco rimovibile. Diede una
sistemata alla scrivania e si avviò verso la porta. Sperò che
non ci fosse nessuno dall’altra parte. Uscì e, dopo averla
richiusa, si avviò al bagno. Osservandosi allo specchio
notò il volto di una persona stanca. Quando attraversò la
hall, Marelli e Petrone, stavano varcando l’ingresso:
«Buongiorno» salutarono.

194
«Buongiorno a voi» rispose lei.

Massimo rispose senza badare chi stesse chiamando:
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Chi è?»
«Ciao, sono Barbara».
«Come va?»
«Bene grazie. Ti chiamo per Linda. Sai che domani sarà il
giorno della sfilata e tutti vorremmo che ci fosse anche
lei».
«Se riuscite a convincerla, siete le sue migliori amiche».
«Tu sei il marito, chi meglio di te».
«Ascolta Barbara, la Linda che ricordate, nasconde quella
con cui mi ritrovo a vivere ogni giorno, quella che
combatte con l’angoscia, che è impegnata la maggior parte
del tempo a piangere. Credimi, non è facile convincerla a
uscire, ad affrontare le persone, il mondo. A volte è
infastidita anche dalla mia presenza».
«Tutti mi chiedono di lei pregandomi di convincerla, anche
la Icardi».
«Potrebbe provare di persona».
«Questo evento è una sua creatura, non può mancare».
Nessuno più di lui voleva quello che gli stava chiedendo,
ma sapeva che parlarne per ore non avrebbe risolto nulla.
«Stasera venite a casa, tu e Anita. Io sarò con voi.
Rivogliamo tutti la nostra Linda».
«Allora a più tardi».

Le ragazze arrivarono poco prima di cena. Massimo stava
seduto accanto a lei, avvolta in un sonno tanto leggero che

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una carezza riuscì a svegliarla. L’espressione di Linda, che
dovette percepire il bisbiglio proveniente dal corridoio, era
un punto di domanda.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Barbara e Anita ti aspettano» sussurrò Massimo come per


risponderle. Lei strinse le palpebre quasi a implorarlo di
liberarla da quella situazione e si voltò dall’altro lato
rimboccandosi le coperte. Erano settimane ormai che non
faceva altro che dormire. Nelle poche ore che passava
sveglia, si estraniava da tutto quello che le accadeva
intorno. I segnali più evidenti di un ritorno alla realtà li
dava quando piangendo chiedeva di essere abbracciata,
prima di tornare in uno stato di dormiveglia. In quel
periodo lui iniziò a trascurare gli impegni di lavoro
cercando di dedicarle più tempo, anche perché doveva
provvedere alle faccende domestiche. Lasciò la lampada
accesa e tornò in salotto:
«Si è svegliata».
Anita notò la scatola di capsule sul tavolino:
«Sono per lei?»
«Sì. Ho insistito perché si aiutasse con i farmaci».
Dall’espressione era evidente che non condividesse quella
scelta. Gli era capitato spesso in quegli ultimi tempi,
imbattersi in persone che rifiutavano il solo fatto di
prendere in considerazione l’utilizzo degli psicofarmaci,
quasi come fosse l’ammissione della resa a una malattia
che difficilmente era considerata tale. E’ usuale torturare
l’organismo con gli antinfiammatori per un semplice mal
di testa, ma non utilizzare un farmaco per gestire la
serotonina. Massimo aveva conosciuto gli effetti dell’ansia
e della depressione a spese di suo fratello Emanuele che ne

196
aveva sofferto in giovane età, e nutriva forti dubbi sul fatto
che si potesse criticarne l’uso.
«Hai notato dei cambiamenti?» chiese Barbara.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

«Con questi sbadiglia di più» rispose sorridendo.


«Comunque è presto per valutare gli effetti della cura».
«Da quanto non esce da casa?» continuò Anita.
«Sono settimane ormai. Ho paura di averla persa. Non
pensavo si potesse arrivare a questo punto in così poco
tempo. Non vive più, sembra che le dia fastidio anche la
mia presenza».
«Non darti per vinto» intervenne Barbara con fare
energico, quasi volesse scacciare quell’alone di angoscia
che si era creato, «lei è forte, passerà. Ha solo bisogno di
te».
«Per lei faccio parte dei tanti ormai». Poi rivolgendosi ad
Anita chiese: «E Carlo ti accompagnerà?»
L’espressione rassegnata era già una risposta:
«Non ne ha voluto sapere. Dice che dovrà lavorare fino a
tardi, faremo a meno di lui».
La conversazione fu interrotta dal rumore dei passi
provenienti dal corridoio. Quando Linda entrò in salotto, le
ragazze balzarono in piedi e andarono ad abbracciarla. Il
suo pianto fu contagioso. Dal giorno del suo ricovero, non
aveva avuto il coraggio di incontrarle e Massimo temeva
che non avesse ancora dato sfogo a tutte le emozioni
accumulate con la perdita del bambino. Si spostarono sul
divano. Il silenzio che avvolse la stanza era interrotto solo
dai singhiozzi di pianto. Era evidente che Barbara e Anita
stavano facendo uno sforzo enorme per contenere le
lacrime, ma sembravano volerle trasmettere forza. Linda

197
aveva un’espressione distrutta, i capelli le scendevano
scomposti sulle spalle e aveva perso peso. Si notava dalla
sporgenza degli zigomi che risaltavano rispetto al naso e
alle labbra. Massimo decise di concedere quel momento
alle ragazze e si spostò all’esterno. Prese una Winston blu
e l’accese combattendo con il vento freddo, pensando che
forse non era più il caso di uscire in maniche di camicia.
La tensione si era attenuata e adesso le ragazze stavano
chiacchierando. Stavano cercando di convincerla a
partecipare all’evento ma dal suo atteggiamento, si
percepiva che era una sfida molto ardua. Massimo spense
la sigaretta quando udì la suoneria dello smartphone di
Linda. Erano settimane che lo teneva spento, ma proprio
lui, quel pomeriggio, lo aveva acceso per recuperare il
numero di Barbara. Mentre la vide allontanarsi dalla
stanza, entrò per chiedere come l’avesse presa.
«Stai tranquillo» disse Barbara, «faremo di tutto per
riprenderci la nostra Linda».
«Cosa vi ha risposto?»
«Non sarà facile convincerla» rispose Anita, «penso che
per lei sia difficile affrontare anche i colleghi di lavoro
dopo quello che è successo, rispondere a tante domande…
»
«Incontrare quella stronza di Antonella... » fece Barbara.
«Per non parlare della Icardi» osservò Massimo.
«Guarda che non è come sembra» stava spiegando Barbara
prima di interrompersi alla vista di Linda. Aveva
un’espressione più rilassata.
«Chi era amore?» chiese lui.
«Un’amica».

198
«Tutto bene?» domandò Anita.
«Meglio, grazie».
Quella sera Massimo aveva visto Linda reagire, non
sapeva se per effetto dei farmaci o per l’incontro con le
amiche. Di sicuro non poteva che essere contento. Entrò in
bagno e la vide osservarsi allo specchio:
«Che aspetto orribile» disse raccogliendo i capelli dietro la
nuca. «Se dovessi ripensarci, domani mi
accompagneresti?» gli chiese sorridendo.
«Ovunque vorrai» rispose Massimo.

199
CAPITOLO 22

200
La serata volgeva al termine. Quasi tutta la collezione
aveva sfilato e ormai il clima tra gli addetti ai lavori era
molto più disteso. Elena aveva saputo da Barbara che forse
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Linda sarebbe arrivata e non aveva fatto altro che


osservare l’ingresso della sala nella speranza di vederla
entrare. Gli unici momenti in cui lo perdeva di vista, erano
quando sfilava con un nuovo abito. Non sarebbe stato
piacevole fare un volo dalla passerella e finire tra le sedie
degli invitati. E fu proprio in uno di quei momenti che
varcarono la soglia d’ingresso. La prima a notarli fu
Barbara che si precipitò a braccia tese per abbracciarla
seguita da Anita. Linda era splendida nel suo abito scuro.
Lo scollo vertiginoso metteva in risalto la schiena su cui
pendeva un ciondolo d’argento con inciso il suo nome.
Solo lei poteva indossare un abito del genere senza
sembrare ridicola in pieno autunno. Il suo volto sembrava
irradiare luce propria, accentuata dai capelli ambrati
raccolti in una coda stretta alla sommità del capo.
L’immagine della ragazza sconvolta del giorno precedente,
fu spazzata dalla bellezza che emanava in quel momento.
Una vera metamorfosi che se si fosse ripercossa anche sul
suo stato d’animo, avrebbe rappresentato un vero miracolo.
Al suo fianco Massimo, nel suo completo scuro, non
sfigurava. Anche Elena corse a salutarla e tutti insieme si
avvicinarono al tavolo libero che Barbara aveva fatto
riservare.
«Quante persone. Non manca nessuno» disse Linda
lanciando sguardi furtivi, «avete fatto davvero un ottimo
lavoro».
«Abbiamo fatto» sottolineò Barbara, «c’è molto di te in

201
tutto questo. La Icardi ha condiviso parecchie delle tue
idee».
«Non aveva fatto rimbiancare le pareti?» chiese
guardandosi intorno.
«Quella fu un’iniziativa di Antonella. Lo fece dopo aver
visto le bozze della Icardi in cui la sala era tinteggiata di
bianco. Voleva farle una sorpresa. Non tenne conto che
Elena ed io, prima che partisse, le avevamo mostrato i tuoi
progetti recuperandoli dallo scatolone in archivio. Li portò
con sé promettendo di analizzarli. Al suo ritorno, quando
entrò nella sala, andò in escandescenza».
«Dov’è adesso?» chiese Linda.
«Penso che si stia preparando per i ringraziamenti. Tra
poco dovrebbe salire in passerella» rispose Barbara.
Antonella si avvicinò al loro tavolo, sfoderando un sorriso
più finto delle tette soffocate nella scollatura dell’abito
pitonato. Non si poteva fare a meno di notarla, anche se la
sua appariscenza, associata al cattivo gusto nel vestire,
metteva in secondo piano l’indiscutibile bellezza. Anche
Massimo si lasciò distrarre dal suo décolleté,
guadagnandosi l’occhiata fulminea di Barbara all’insegna
della solidarietà femminile.
«Dottoressa Valle, che piacere averla con noi stasera»
esordì nell’atteggiamento più civettuolo che potesse
mostrare.
«Buonasera Antonella. Sei incantevole».
«Anche lei sta bene, nonostante tutto».
«Lui è Massimo, mio marito» continuò Linda per
adempiere i convenevoli. Massimo si alzò e le strinse la
mano sorridendo in maniera cordiale.

202
«L’ho vista in azienda, qualche tempo fa». Poi
rivolgendosi a lei con espressione maliziosa: «Difficile non
notarlo». Massimo, sconcertato, arrossì leggermente.
Barbara era visibilmente irritata tanto che Anita,
accortasene, le poggiò una mano sulla spalla per tenerla al
suo posto.
«Scusatemi, finisco il giro dei tavoli. Siamo in chiusura e
vorrei salutare tutti prima che Rosaria faccia il discorso di
ringraziamento. Attirerà l’attenzione di tutti e quindi,
meglio anticiparsi per non farsi rubare la scena» riprese
Antonella.
«Non preoccuparti» s’intromise Barbara, «vestita in quel
modo non corri questo rischio».
Linda e Anita la fulminarono con lo sguardo.
«Lo prendo come un complimento» rispose rifilandole
l’ennesimo finto sorriso. L’abito che indossava era tanto
lungo da lasciar intravedere a sprazzi solo la base del tacco
dodici. Barbara si allungò fino a poggiare il piede sulla
coda dell’abito, nel momento in cui si stava
incamminando. Il risultato fu che si ritrovò con le
ginocchia e le mani a terra nel bel mezzo dei tavoli.
Barbara fu la prima a soccorrerla per aiutarla a rialzarsi:
«Mamma che botta! Ti sei fatta male?» chiese.
Il vestito troppo leggero per reggere il peso di tutto quel
silicone in caduta libera, fece ritrovare Antonella in piedi,
su un solo tacco ed un seno in bella mostra. A quel punto
la risata generale contagiò perfino Linda, anche se in
maniera contenuta. Dopo diverso tempo, Massimo riuscì a
rivedere sua moglie felice. Nonostante l’euforia generale,
Linda notò la mancanza di qualcuno:

203
«Come mai Carlo non ti ha accompagnato?» chiese ad
Anita. In quel momento l’espressione della ragazza bionda
che le sedeva di fronte cambiò, come se avessero attirato la
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

sua attenzione.
«Il lavoro prima di ogni altra cosa. Non ci faccio nemmeno
più caso» rispose.
«Tutti uguali» intervenne lei, «anche il mio ragazzo questa
sera mi ha lasciato sola. E per lo stesso motivo direi. Posso
chiederti che lavoro svolge?»
«Dirige un punto vendita di aggeggi elettronici, sai quelle
catene di negozi?»
«E quindi la carriera prima di tutto» riprese Elena. «Anche
il mio lavora nel privato. Stessa storia».
La discussione fu interrotta da un fragoroso applauso.
Non si poteva negare l’eleganza che mostrava nella sua
semplicità la Dottoressa Icardi. Per quella serata aveva
scelto un abito scuro, lungo fino alle ginocchia, con uno
scollo da cui s’intravedeva la camicia candida. Aveva
raggiunto i cinquant’anni, ma era una donna affascinante e
ancora attraente. La maggior parte dei giovani impiegati
alla Graffiti, avrebbero dato qualsiasi cosa per riuscire a
sedurla. Sulla passerella era stato sistemato un leggio con
un microfono. Le luci della sala erano state abbassate e un
faro illuminava la postazione per richiamare l’attenzione
dei presenti. Finito l’applauso, la manager cominciò il suo
discorso. Non leggeva. Iniziò guardando gli ospiti che
circondavano la passerella e, di tanto in tanto, volgeva lo
sguardo in diverse direzioni in modo da trasmettere
l’impressione di rivolgersi a tutti, nessuno escluso.
«Buonasera. E’ un onore per me, in quest'occasione,

204
rappresentare forse la più importante casa di moda del
paese. Lavoro qui da due anni, ma solo da qualche
settimana ho il piacere di ricoprire il ruolo cui ho aspirato
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

dal giorno della mia assunzione. Sono onorata della fiducia


che l’azienda ha riposto in me e cercherò di ricambiare
sacrificando me stessa, avendo la fortuna di farlo per il
lavoro che ho sempre amato. Tuttavia, stasera non sono qui
per parlare di me. L’impegno che ho dedicato a questa
serata è stato limitato dal tempo che ho avuto a
disposizione, se consideriamo quello profuso da alcune
persone che si trovano in questa sala. A loro vanno il mio
ringraziamento, l’onore e il merito di quello cui stasera
avete assistito».
Tutti in sala applaudirono. Le ragazze al tavolo si
scambiarono uno sguardo in segno di approvazione.
«Non posso far altro che ringraziarvi a nome di tutti gli
addetti e portare questo applauso a chi più di me lo ha
meritato». Le modelle salirono in passerella e si disposero
in gruppo nella zona del leggio.
«Ringrazio le ragazze che hanno sfilato, le sarte, gli operai
che hanno allestito la sala, i colleghi dirigenti. Un
ringraziamento speciale alla modellista Barbara Miele, che
ha curato gli abiti che hanno sfilato».
Con un gesto invitò Barbara ad alzarsi applaudendo con gli
ospiti. Anita gli diede una gomitata per convincerla a
staccarsi dalla sedia e godersi il suo momento di gloria.
«E infine, voglio ringraziare personalmente la persona che
più di tutte ha reso questo possibile, ma soprattutto l’ha
reso speciale. La persona che ha dato inizio a
quest’avventura marchiandola con il suo buon gusto. La

205
Dottoressa Linda Valle».
Al tavolo ci fu quasi un’ovazione, Anita e Barbara
saltellavano sulle sedie applaudendo. Elena scese dalla
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
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passerella e corse verso di loro. Massimo applaudiva


mentre osservava la moglie visibilmente sorpresa ma allo
stesso tempo felice. Linda si alzò in piedi per ringraziare.
Dopo il discorso, la Dottoressa Icardi salutò gli ospiti ai
tavoli:
«Buonasera a tutti. Linda, bentornata» disse porgendole la
mano, «sono veramente contenta che sia venuta».
«Grazie della telefonata» rispose lei, «e delle belle parole».
«E’ solo quello che penso. Sono sicura che quando tornerai
a lavoro, faremo grandi cose insieme».
«A proposito» s’intromise Barbara, «quando tornerai?»
«Presto! Molto presto» rispose lei stringendo la mano di
Massimo.

Seduto sul divano, osservava pensieroso lo schermo del
portatile. Seguì con lo sguardo i passi nudi sul freddo
parquet. Linda prese una bottiglia dal frigo e la portò alle
labbra camminando verso di lui. Sembrava stesse
riacquistando la serenità di qualche tempo prima e con essa
anche la sua bellezza. Gli si avvicinò per baciargli la
guancia:
«Vado a letto, sono stanca» gli sussurrò sorridendo. Tutto
il resto sembrava non avere importanza adesso che stava
ritrovando sua moglie, la donna che amava e che lo amava.
Nonostante quella consapevolezza, la lasciò tornare da sola
a letto. Forse era inevitabile il sacrificio per raggiungere un
obiettivo a tutti i costi. Cercò di ritornare ai file che Lena

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gli aveva consegnato qualche giorno prima. Aveva passato
due sere ad analizzare fatture e documenti di trasporto.
Merce della più svariata tipologia per la quale Marelli,
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aveva speso centinaia di migliaia di euro solo nell’ultimo


mese. Una parte riguardava contratti stipulati con la GM
Immobiliare, sia per affitti sia per compravendita
d’immobili, in un periodo in cui la crisi di settore, aveva
portato a un notevole ribasso le valutazioni economiche.
Per un’azienda solida come la Marelli, rappresentavano
un’ottima forma d’investimento. Nonostante ciò, alla vista
di quei documenti Massimo restò sconcertato. Sbuffò
passandosi la mano nei capelli e guardò l’orologio appeso
al muro. Era quasi mezzanotte, prese lo smartphone e
cercò nella rubrica. Pensò che se non volesse essere
disturbata, non lo avrebbe lasciato acceso.
Dopo diversi squilli, Lena rispose con voce assonnata:
«Pronto?»
«Non dirmi che dormivi!»
«No, aspettavo una tua chiamata» rispose lei con la voce
impastata mentre, nella penombra della camera, cercò la
sveglia. «Hai perso l’abitudine di dormire?»
«Quante proprietà possiede la Marelli? Intendo beni
immobili, case, edifici… »
«So cosa sono» lo interruppe bruscamente. Non era
abituata a essere svegliata di soprassalto. «A occhio e
croce, direi mezza città» continuò mentre, rassegnata, si
era appoggiata alla testata del letto.
«Lo pensavo anch’io fino a qualche minuto fa» riprese lui.
«E invece?»
«Il vecchio Zazà ha venduto tutto. Quasi tutto, se si

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considera la sede dell'azienda».
Lena si alzò pensando che fosse venuto il momento di
preparare un caffè:
«Lasciami indovinare chi è l’acquirente».
«Nulla di più scontato» fece lui.
«A questo punto, la Marelli dovrebbe avere un bel
gruzzoletto».
«E’ proprio questo il punto. Dubito che i soldi siano
rimasti sul conto. I contratti di affitto, il giro di false
fatturazioni... »
«E quindi avrebbe spostato le proprietà dalla Marelli alla
GM immobiliare. A che scopo?»
«Manca ancora un tassello» riprese lui. «La GM sta
rivendendo tutto.»
Lena si fermò un attimo a pensare, assaporando il gusto
amaro del caffè mentre la caffeina risvegliava il suo
organismo. Dopo qualche istante le furono chiare le
intenzioni di Marelli. Stava trasferendo il patrimonio
dell’azienda nelle mani della sua famiglia, trasformandolo
in immobili. «La metà delle proprietà è stata acquistata
dalla sua ex, che continua a vivere sotto lo stesso tetto».
«Un divorzio di facciata» disse lei.
«Tra qualche mese della Marelli non resterà più nulla».
«Ci dovrà pur essere qualche falla nel sistema».
«Ne sono più che certo».

208
CAPITOLO 23

209
Carlo stava aspettando che scendesse. Erano passati diversi
giorni e la voglia di vederla cresceva costantemente.
Avrebbe preferito salire da lei, come il solito, ma quella
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sera aveva rifiutato con una scusa banale. Quando entrò in


auto, si avvicinò per baciarla ma lei gli porse la guancia.
Fu lui a rompere il ghiaccio:
«Come mai non ti sei fatta sentire in questi giorni?»
«Ho avuto da lavorare. Impegni importanti» rispose
fredda.
«La sfilata era domenica scorsa!»
«Perché non hai voluto accompagnarmi?»
«Avevo da lavorare. Sono stato impegnato fino a tarda
sera».
«E’ la stessa scusa che hai usato con lei?»
Carlo cercò di nascondere la sua agitazione. Elena aveva
incontrato Anita e forse l’aveva anche conosciuta. Preferì
restare in silenzio.
«Tu continui a mentire. A me, a lei, ma soprattutto a te
stesso». Il tono di voce era fermo, sicuro, determinato. In
quei giorni aveva pensato a quello che stava succedendo e
ora sapeva ciò che voleva.
«Penso che Anita sia una ragazza speciale, bella,
simpatica... »
Era la conferma che temeva e che lo fece impallidire.
Nonostante la scarsa luce nell’abitacolo, Elena dovette
notarlo:
«Tranquillo, non gli ho parlato di noi».
Carlo cercò di essere onesto:
«Non potevo accompagnarti… »
«Certo che non potevi farlo. E non hai potuto

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accompagnare nemmeno lei. E tutto questo perché la tua
vita è fatta di menzogne. Come puoi pretendere di
continuare così?» continuò adesso irritata. «Devi imparare
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a rispettare le persone, non meritiamo di vivere una


all’ombra dell’altra. Devi scegliere. Me o lei».
Seguì un silenzio che sembrò eterno:
«Dove vuoi che ti porti?» chiese lui.
«Riportami a casa».

Era stato sufficiente varcare la soglia d’ingresso per
trovarsi trascinato da quel fiume in piena che era la
Marelli. Non quella delle decisioni importanti, delle cene
di lavoro o dei bonus ai dirigenti, ma quella dei problemi
quotidiani, del computer che non vuole saperne di
collegarsi alla rete, della carta che manca quando bisogna
stampare dei documenti, della connessione internet che dà
problemi quando bisogna inviare una mail importante.
Massimo era il ponte che univa questi due mondi, facente
parte dello stesso universo ma distanti tra loro anni luce. Il
mondo dei macronumeri, delle manovre che condizionano
l’economia dell’intera azienda, dei sì e dei no, delle
decisioni drastiche indipendenti da qualsiasi forma di
sentimentalismo. E quello che soccombe a esso pur
alimentandolo continuamente, senza il quale non
esisterebbe altra forma di vita, quello dei grandi sacrifici
che portano a piccole conquiste e dei tanti sconosciuti che
rendono meritevoli i pochi. Contribuire alla soluzione dei
piccoli problemi quotidiani, era per Massimo come
riparare un piccolo ingranaggio necessario al movimento

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di un grande meccanismo. Abitualmente trascorreva le
prime ore del mattino spostandosi da una postazione
all’altra, offrendo il suo contributo anche solo per definire
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una linea da seguire nello svolgimento di un’attività. Le


sue competenze, associate al suo fascino, lo rendevano ben
accetto dall’intero team di lavoro. In realtà erano
abbastanza frequenti le giornate in cui, come quel mattino,
era letteralmente sommerso dalle richieste di aiuto.
Trascinato di peso verso la sala tecnica, riuscì a malapena
a lanciare un saluto fugace alle ragazze della reception.
Dopo circa un’ora girava pensieroso tra le postazioni. La
frenesia disordinata del mattino aveva lasciato posto al
silenzio ordinato percepibile quando ognuno svolge
diligentemente il proprio dovere. Si sarebbe concesso
qualche minuto prima di avviarsi alla scrivania per
controllare la posta elettronica. Sfilò una sigaretta
avviandosi alla porta che dava sul cortile, quando notò che
Lena non era al suo posto. C’era qualcosa di diverso dagli
altri giorni, il suo ufficio sembrava stranamente vuoto. Si
soffermò a pensare mentre tirava una boccata di fumo e
capì cosa era che non andava. Si riaffacciò nella hall
lasciando la mano fumante fuori dalla porta, e notò che
nella piccola sala non c’era segno della sua presenza,
mancava il cappotto sull’attaccapanni e la solita borsa
appoggiata alla sedia. Si spostò di nuovo fuori
socchiudendo gli occhi, godendosi il tepore del sole e il
sapore del fumo. La voce di Vallesi lo allontanò dai suoi
pensieri:
«Massimo, il capo ti sta aspettando nel suo ufficio. Vuole
parlarti». L’espressione era stranamente seria per lui che

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regalava continuamente falsa simpatia. Sembrava quasi
che fosse stato incaricato per enfatizzare quella richiesta e
indurgli uno stato di ansia e confusione. Marelli, convinto
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che il prossimo vivesse per cercare di fotterlo, lo aggrediva


continuamente alimentandosi dei timori di chi soccombeva
al suo terrorismo. L’unica difesa era affrontarlo a viso
aperto, cosa che ovviamente cercava in ogni modo di
evitare. Massimo, dopo aver spento la sigaretta, si avviò
verso l’ingresso.
«Mai visto così incazzato» riprese Vallesi.
Massimo sentì il battito accelerare e il calore invadergli il
viso, segno che stava perdendo il controllo. Si fermò di
colpo ma, pensando che Zazà, con l’aiuto del suo fidato
suddito, avrebbe raggiunto il suo scopo, tirò un profondo
sospiro imponendosi di rilassarsi e proseguire fino alla
porta chiusa. Marelli, che fingeva di essere impegnato
nella lettura di alcuni appunti riportati su un bloc notes, lo
fece accomodare. La sua espressione era seria. Fece
aspettare Massimo nel silenzio della stanza mentre
scorreva velocemente il testo attraverso gli occhiali
poggiati sulla punta del naso. Esordì senza alzare lo
sguardo dal foglio:
«Sai cosa ha tentato di fare quella puttanella?»
Letteralmente era una domanda ma, il tono di
affermazione, lasciò Massimo interdetto per qualche
secondo. Quando era entrato in quella stanza, non aveva
minimamente idea di cosa volesse ma adesso, nella sua
mente, cominciava a prendere forma. Quando intuì che
stava alludendo a Lena, sentì l’impulso di reagire ma
ritenne opportuno combattere per mantenere la calma.

213
Ovviamente Zazà lo stava mettendo alla prova verificando
la sua reazione.
«Ho sempre riposto la massima fiducia in lei, sai
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perfettamente che è l’unica a conoscere le credenziali per


eseguire movimenti bancari».
«Stiamo parlando di Lena?» chiese Massimo cercando di
assumere un’espressione stupita.
Zazà accese una sigaretta prima di porgergli il pacchetto:
«Ho appena spento».
«Quella stronza ha venduto segreti aziendali alla
concorrenza». L’espressione del suo volto era tesa e
lasciava traspirare disprezzo misto a odio. Massimo ebbe
la conferma che Zazà non conosceva le loro intenzioni,
tuttavia aveva avuto l’intuizione che stava accadendo
qualcosa. E adesso stava sparando alla cieca cercando di
venirne a capo.
«Mi sembra una follia. Penso sia il caso discuterne con
lei».
«Non sarà possibile».
«In che senso? Non credo che possa aver fatto una cosa del
genere. Penso sia meglio procedere con cautela prima di
lanciare delle accuse infondate».
«Sono sicuro delle mie affermazioni. Stamattina era qui e
ne abbiamo già parlato. Avevo le prove e non ho perso
troppo tempo. E’ bastato un niente per farla confessare. A
quel punto sono stato costretto a licenziarla. In realtà si è
offerta di firmare le dimissioni ed è andata via».
Massimo sembrava sconvolto, stava cercando di rimettere
a posto tutti i tasselli di quella vicenda. Era plausibile che
avesse confessato per evitare che Zazà continuasse a

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indagare scoprendo che erano coinvolti anche lui e
Petrone. Diventava difficile cercare una scusa per
difenderla, ammesso che le cose fossero realmente andate
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così e che Zazà non stesse solo cercando di ingannarlo


alimentando dei dubbi. Forse avevano commesso qualche
errore, a volte bastava un piccolo dettaglio per tradirsi.
Zazà sembrò leggergli nella mente e ruotò il monitor verso
di lui, fornendogli su un piatto d’argento la risposta alle
sue domande. Non serviva guardare quelle immagini,
sapeva benissimo cosa stava facendo la ragazza seduta a
quella scrivania. Sentì avvampare il volto e sperò che la
sua reazione non lo tradisse. Era ovvio che Lena fosse stata
compromessa proprio da lui. Quelle immagini non
dovevano esistere, il suo ruolo era di escludere il servizio
di videosorveglianza e per qualche motivo non c’era
riuscito. L’espressione di Marelli lasciava trasparire una
certa soddisfazione. Era sicuro che stesse leggendo
l’angoscia che trapelava dal suo volto. Non osava
immaginare cosa avesse provato Lena alla vista di quelle
immagini e, il pensiero che avesse ammesso le sue colpe
cercando di proteggerlo, gli dava quasi un senso di nausea.
«E’ ovvio che non abbia agito da sola» affermò Marelli
mentre riposizionava lo schermo di fronte a lui. «Per
quanto possa essere sveglia, sono sicuro che non sia in
grado di mettere fuori servizio una telecamera».
A quelle parole Massimo sentì per la seconda volta
avvampare il volto e questa volta cercò di nascondere la
sua reazione aprendo il pacchetto di sigarette.
«Solo per caso sono riuscito ad avere quelle immagini.
L’impianto era stato manomesso. Lei è un’abile

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manipolatrice, non ci avrà messo molto a coinvolgere
qualcuno in grado di farlo. Forse Petrone. Che ne pensi?»
chiese osservandolo attentamente.
Massimo in quel momento non solo si sentiva sconfitto.
Come Achille quando trascinò il corpo di Ettore, Zazà non
si stava accontentando di aver vinto quella battaglia. Era
stato un passo davanti a loro e stava dimostrando di
conoscere perfettamente chi aveva osato sfidarlo. Tutto
questo senza accusarlo direttamente, ma inducendolo a
rifugiarsi nella codardia di voltare le spalle ai suoi
colleghi. Quell’umiliazione sarebbe stata la vittoria di
Zazà.
«Se vuoi, posso cercare di venirne a capo... » disse
Massimo cercando di prendere tempo.
«So che posso fidarmi solo di te» riprese Marelli. «Devi
cercare di recuperare i dati che ha rubato. Deve
consegnarti tutto, nel suo interesse. Dimenticherò tutta
questa storia ed eviterò di denunciarla. Ho le prove e lei lo
sa. Non ci vorrà molto a convincerla».
«Cercherò di fare il possibile» disse alzandosi.
«Sono i piccoli dettagli che fanno la differenza» riprese
Marelli prima che Massimo aprisse la porta, «come una
penna fuori posto. Bisogna curare tutti i particolari per
essere vincenti».
Massimo aprì la porta e lasciò l’ufficio.

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CAPITOLO 24

217
Il Dren pub era un locale frequentato da un ristretto gruppo
di persone. Negli ultimi anni la città era stata invasa da
Lounge bar, American bar e Art cafè, i cui nomi
ricordavano quelli dei grandi casinò di Las Vegas e in cui i
teenager iniziavano la loro carriera di alcolisti. Le luci a
led, l’atmosfera fredda e i quarantenni che tentavano di
rimorchiare ragazzine che avevano l’età delle loro figlie,
facevano sentire Carlo fuori luogo. Lui e Massimo
preferivano passare le serate seduti al tavolo di legno di un
classico pub all’inglese. Le luci soffuse, l’odore di birra, il
colore del legno e la sala fumatori. Entrando in quel posto
entrambi avevano l’impressione di essere catapultati negli
anni novanta, quelli che avevano segnato la loro
giovinezza. Il fumo della sigaretta sembrava uscire dalla
schiuma che sormontava i boccali di Erdinger, facendoli
sembrare ciminiere di una moderna fabbrica. La quantità di
sigarette fumate sarebbe aumentata proporzionalmente con
la birra bevuta. La Weiss, per entrambi, andava servita
rigorosamente con limone.
«Che effetto ti fa?» chiese indicando la sigaretta tra le dita
di Massimo.
«Un altro paio ed è come se non avessi mai smesso».
«Da domani riprenderai a essere un non fumatore?»
«Se mi va» rispose lui. Era circa un mese che aveva deciso
di smettere ma, in serate come quelle, si concedeva il
vizio. «E’ come se dovessi imparare di nuovo a godermi
l’effetto della nicotina. Più tempo passa e più è difficile.
Ricordi quando iniziammo?»
Carlo sorrise prima di tracannare una lunga sorsata dal
boccale.

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«Lo facevamo nonostante provassimo più fastidio che
piacere... fino a quando ti ritrovi schiavo senza
accorgertene».
«Ed è allora che inizia il bello».
«Già!» esclamò Massimo guardando la sigaretta con fare
inquisitorio, quasi pretendendo un parere a quelle
riflessioni. «A quell’età fai tante cose per sentirti libero, e
quando diventi libero di scegliere, ti rendi conto che sei
schiavo di tante cose».
Carlo stava bevendo ma non riuscì a trattenersi. Abbassò
di botto il boccale e sputò una generosa quantità di birra
sul tavolo scoppiando a ridere:
«Che cazzo hai detto?»
La risata fu contagiosa. Fecero tintinnare i boccali prima di
riprendere a bere.
«E tu invece? Hai smesso di scoparti la cassiera?»
«Chi? Marika?»
«Perché te ne fai più di una?» riprese Massimo mentre,
alzando il boccale vuoto, richiamò l’attenzione della
cameriera chiedendogli il pieno.
«E’ una storia passata. Ho stroncato dopo una settimana».
Massimo stava annuendo in segno di assenso:
«Scelta saggia, amico, mai rischiare di trovartela sotto
casa… peggio ancora se è quella della tua ragazza».
Carlo aspettò qualche istante prima di riprendere:
«Mi sto scopando un’altra».
Massimo lo fulminò con lo sguardo.
«Questa volta però non potevo farne a meno» continuò
smanettando con l’Iphone. «Guarda qui!» disse mostrando
lo schermo.

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Massimo osservò la foto di Elena:
«Vuoi farmi credere che per caso ti sei ritrovato questa
figa nel letto? Non riesco nemmeno a spiegarmi come
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fanno a sopportarti. Come l’hai conosciuta?»


«Fa la modella alla Graffiti» rispose tutto di un fiato.
«Dimmi che stai scherzando».
L’espressione impassibile di Carlo faceva intendere
tutt’altra cosa.
«Sei una gran testa di cazzo. Non dirmi che conosce
Linda».
«L’ha assunta lei».
Massimo appoggiò la fronte sul palmo della mano. Non
riusciva a credere che avesse osato tanto.
«Come credi di uscirne senza fare un casino? Perché
dovrai uscirne».
Carlo sbuffò mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto:
«Non sono sicuro che sia solo sesso. Elena è una donna
fantastica».
«E tu sei un gran cazzone. Non si smette mai di fare nuove
esperienze, sono alla base della crescita personale e
condizionano il nostro modo di essere. Questo significa
che durante il corso della vita, tutti cambiamo. E con noi
cambiano i nostri sentimenti e i rapporti che abbiamo con
le persone che conosciamo. Ci sono fratelli che diventano
sconosciuti e amici che diventano fratelli. Poi ci sono
quelle esperienze che nessuno si augura ma che purtroppo
fanno parte dell’esistenza. Sono quelle che ci fanno
assaporare il gusto della perdita di qualcosa cui avevamo
dimenticato l’importanza. E solo in quei momenti
riscopriamo il valore di quella cosa, il più delle volte per

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poco tempo. Ma quando quella cosa la perdi per sempre…
»
«Stai parlando di quello che è successo a te e Linda?»
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«Sto parlando di te e Anita adesso».



Carlo guidava pensando a quanto Massimo gli aveva detto.
Forse erano gli effetti dell’alcol o la malinconia che
l’aveva invaso, ma quelle parole gli avevano aperto la
mente facendo affiorare i ricordi legati alla sua storia con
Anita. Accostò al ciglio della strada e cercò il numero in
rubrica.

La risposta arrivò dopo pochi squilli. Il tono di voce dolce
lasciava trasparire la curiosità di capire di chi fosse quel
numero sconosciuto.
«Ciao, ti disturbo?»
«Ci conosciamo?»
«Sono Marika, la collega di Carlo. Ci siamo conosciute in
negozio».
«Ciao! Come stai?» chiese Anita, «non mi aspettavo una
tua chiamata». La voce s’incrinò leggermente mostrando
un tono preoccupato:
«Tutto bene? E’ successo qualcosa?»
«Stai tranquilla, non chiamo per darti nessuna cattiva
notizia… almeno non del tipo che stai immaginando».
«In che senso?» chiese mentre sedeva sul bordo del letto.
Sentiva il battito del cuore accelerare e l’emozione
cominciava a trapelare dalla sua voce. Aveva capito che
quella non era una chiamata di cortesia.
«Nel senso che quello che voglio dirti non ti piacerà. Di

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questo sono sicura. Ma avendoti conosciuto e vedendo che
ragazza sei, mi sono sentita in dovere di chiamarti, anche a
costo di darti un dispiacere. Sei libera di scegliere se
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questa conversazione deve continuare, altrimenti possiamo


salutarci adesso».
Marika era sicura della risposta di Anita. Nessuno avrebbe
resistito a quel punto.
«Figurati. Non ho nessun problema ad ascoltarti».
Marika sospirò facendole intendere che quelle parole le
stavano costando tanto:
«Penso che Carlo ti tradisca».
Anita sentì crollarle il mondo addosso. Per qualche istante
le fischiarono le orecchie e temette di essere sul punto di
svenire. Aveva temuto che l’argomento fosse quello, del
resto aveva già coltivato qualche dubbio nell’ultimo
periodo. Carlo non le sembrava più sé stesso. Era distratto
e adesso sapeva da cosa.
«Come puoi affermarlo?»
«Purtroppo ho le prove. Anita, li ho visti… lasciamo stare i
particolari. Volevo solo dirti questo. Scusami».
«Chi è?» chiese Anita singhiozzando. «Lavora con voi?»
In quel momento Marika avrebbe compiuto la sua
vendetta:
«E’ una modella. Lavora alla Graffiti». Sapeva benissimo
che le sue migliori amiche lavoravano in quell’azienda.
«Mi dispiace. Non avrei voluto... »
«Grazie Marika. Buonanotte» salutò prima di riagganciare.
In quel momento fu tentata di chiamare Linda, ma decise
che avrebbe prima riflettuto sul da farsi. Tentò di ricordare
i volti delle ragazze presenti alla sfilata e poi le venne in

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mente quella bionda che sedeva al loro tavolo. Ricordò
l’espressione dipinta sul suo volto quando le parlò di
Carlo. Forse anche lei sapeva.

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CAPITOLO 25

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Erano tre giorni che tentava invano di contattarla. Lanciò
lo smartphone sul sedile passeggero mentre il messaggio
preregistrato continuava a diffondersi dal piccolo
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altoparlante. Il fatto che Lena avesse reagito in quel modo,


quasi cercando di scomparire dal mondo in cui aveva
vissuto fino a pochi giorni prima, gli faceva rabbia e allo
stesso tempo lo faceva sentire in colpa. La sua reazione era
più che comprensibile, come non biasimarla. Avrebbe
dovuto essere lui a prelevare i dati dal computer ma lei non
era stata d’accordo. Se qualcosa fosse andato storto,
sarebbe stato più semplice giustificare la sua presenza in
quell’ufficio. In quel momento gli era sembrato un
ragionamento più che logico ma adesso, cominciava ad
ammettere che si era sentito sollevato dal fatto di non
dover affrontare ansie e paure. Era per questo motivo che
non aveva insistito, aveva lasciato che fosse lei a fare il
lavoro sporco per timore. Avrebbe dovuto rimediare a
quella situazione, non poteva finire tutto in quel modo.
Parcheggiò l’auto nei pressi del viale alberato sul quale
affacciava il cancelletto che portava all’appartamento di
Lena e s’incamminò a passo veloce. Il sole oramai si stava
alzando ma l’aria fredda sembrava tagliare le narici.
Stringendosi nella giacca di jeans bussò al citofono
lanciando, di tanto in tanto, occhiate fugaci di là dal
muretto che separava il piccolo cortile dal viale, cercando
di scorgere segni di vita dalle finestre. Gli infissi aperti
erano il segno che fosse già sveglia. Bussò di nuovo.
Guardandosi intorno si rese conto che era solo nel raggio
di qualche centinaio di metri. Era sabato e sembrava che il
primo freddo avesse convinto la gente a restare un po’ di

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più a letto. L’unico segno di vita era il canto degli uccelli
che sembrava provenire dalle foglie mosse dal vento. Infilò
la prima sigaretta della giornata tra le labbra e, dopo
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essersi seduto sulla fredda panchina, l’accese tirando una


lunga boccata di fumo. Era possibile che non fosse in casa
o, come aveva temuto, che non volesse parlargli. Voleva
scusarsi con lei ma, soprattutto, convincerla che non
potevano arrendersi ora. In fondo, era consapevole di
volerlo soprattutto per sé stesso. Nel momento in cui aveva
deciso di combattere quella battaglia, aveva messo in
discussione sé stesso. Aveva sempre creduto nelle sue
capacità ma, quando si trattava di mettersi in gioco contro
qualcuno, aveva paura di non essere all’altezza. A volte
cercava di giustificarsi pensando che fosse l’umiltà di cui
tanto si decantano le lodi, ma poi la sola formulazione di
questo pensiero, lo riconduceva alla superbia. Il successo,
nella vita, era condizionato in maniera prevalente dalla
fortuna e dall’ambizione, due fattori che, quando si
associavano all’incoscienza, potevano portare qualsiasi
persona a risultati nemmeno immaginabili. Se
confrontassimo due ipotetiche graduatorie, create
rispettivamente sulla classe sociale e sulle capacità
individuali, se fossero classificabili, scopriremmo delle
incongruenze che non possono far altro che rafforzare
questa ipotesi. Questo non significa che il successo non
può essere raggiunto con l’intelligenza, anzi, è solo che si
resta perplessi analizzando la scalata di persone come
Zazà. Com’è possibile che ciò accada? Il segreto forse sta
proprio nella stupidità. Quando non si è capaci di
analizzare i fattori di rischio, si tende a cimentarsi più

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facilmente in nuove avventure. Mettiamoci la fortuna e
l’indubbio pregio dell’ambizione, ed ecco fatto. Massimo
credeva nelle sue capacità e anche se non lo ammetteva
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nemmeno a sé stesso, sapeva di vivere nell’attesa che


arrivasse l’occasione, il momento giusto o il colpo di
fortuna che gli consentisse di sfruttarle al meglio. Non
poteva essere sconfitto così da Marelli, sapeva di essere
più forte di lui. Guardò oltre la panchina verso le finestre.
Lena sembrava non essere in casa. Osservò qualche
secondo il fumo salire dalla punta incandescente. A volte
pensava che fosse un modo sbagliato di vivere. Forse la
sua filosofia di vita lo portava a essere prigioniero di sé
stesso, sempre in obbligo di dover cambiare qualcosa, di
emergere, di brillare, non solo per dimostrare di avere delle
doti fuori dal comune ma per fare tutto ciò nelle sue
possibilità per dare un valore alla sua esistenza. Vivere
ogni attimo per quello che può essere o cercare
continuamente di dimostrare qualcosa. Forse non era
questo il modo migliore di godersi la libertà di essere
qualcuno. In quel momento avrebbe voluto sentirsi uno dei
tanti. Decise di tornare a casa nel momento in cui, alzando
lo sguardo, scorse la sagoma di Lena da lontano.

Sentiva il sudore raffreddarsi mentre scivolava giù lungo la
schiena.
Il tonfo sordo delle scarpe che toccavano ritmicamente
l’asfalto dava un ritmo continuo alla sua corsa. Quella
mattina aveva deciso di non ascoltare musica perché
preferiva il silenzio per pensare. Erano diversi giorni che
non riposava bene ed il fiatone dimostrava che il suo corpo

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ne risentiva. Rallentò ad un passo svelto e imboccò la
strada secondaria che portava al viale alberato. Quando
scorse la sagoma di Massimo, tentennò. Le sue gambe si
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bloccarono di colpo, come se i piedi fossero stati


inchiodati al suolo. Si sforzò di riprendere la sua normale
andatura e abbassando lo sguardo cominciò a riflettere
velocemente. Fece dei lunghi respiri per regolare il ritmo
del cuore e si avviò dritta verso il cancelletto d’ingresso.
«Che ci fai qui?» chiese guardandolo dritto negli occhi.
Il suo volto pulito o le ciocche umide di capelli che le
coprivano parte degli occhi, la facevano sembrare indifesa.
Forse, semplicemente, era il senso di colpa a trasmettergli
quella sensazione:
«Ho bisogno di parlarti. Capisco perfettamente come ti
senti e non posso non biasimarti ma… lascia che mi scusi.
So che è colpa mia e che non avrei dovuto esporti a quel
rischio ma, non preoccuparti, non ci fermeremo».
«Massimo», lo interruppe bruscamente, «è finita. Va bene
così, non pensarci. Torna a casa» gli disse prima di
allontanarsi diretta verso il cancelletto a passo svelto. La
sua mente sembrò svuotarsi, passarono dei secondi senza
che riuscisse a formulare pensieri sensati. Si era aspettato
un atteggiamento ostile ma non fino al punto di non farlo
neanche scusare. Oltrepassò la soglia del cancelletto e a
passo svelto la raggiunse fino a strattonarle un braccio:
«Non trattarmi così». Lei si voltò di scatto, aveva gli occhi
chiusi e un'espressione quasi di resa. «Se solo avessi avuto
la sensazione di mettere a rischio il tuo lavoro o quello di
qualsiasi altro, non avrei mai permesso che entrassi in
quell’ufficio. Mi era sembrata una buona idea in quel

228
momento e forse ho convinto anche te, sbagliando.
Purtroppo ho commesso un errore e sappi che sono diversi
giorni che non riesco a perdonarmi per il fatto che a pagare
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

sia stata tu».


«Era la scelta giusta» disse lei guardandolo negli occhi.
Non avrebbe mai voluto che Massimo pensasse che ce
l’avesse con lui, ma era sicura che fargli credere il
contrario era l’unica soluzione per mettere un punto a
quella storia. Sapeva che non si sarebbe arreso facilmente
ma allo stesso momento, era più che sicura che neanche
Marelli lo avrebbe fatto. Per lui quello era solo l’inizio e
non si sarebbe fermato fino a quando tutte le persone
coinvolte avessero pagato per aver tentato di fotterlo. Ed
era sicura che sapesse benissimo di chi si trattasse, stava
solo facendo in modo che uscissero allo scoperto. Aveva
conoscenze nelle alte sfere di tanti settori e con il potere
conferitogli dai soldi, non si sarebbe fermato fino alla
distruzione delle loro carriere. Massimo, come Petrone,
avevano una famiglia cui dover badare. Lei avrebbe
trovato un altro lavoro, forse avrebbe impiegato un po’ di
tempo ma, sarebbe riuscita a tirare avanti. E poi, dopo tutto
quello che aveva passato nelle ultime settimane con Linda,
le sembrava una vera ingiustizia che si dovesse anche
preoccupare del lavoro. Sperava che sarebbe finita così.
«Penso che non sia colpa tua e non ho mai dubitato di te.
Comunque, adesso faremo a modo mio» disse lei con tono
autoritario. «Prendi l’archivio, lo porti a quella testa di
cazzo e gli dici che mi hai convinto a consegnarlo
promettendomi che lui non avrebbe parlato con nessuno di
quello che è accaduto. E’ ovvio che abbia bisogno di un

229
nuovo lavoro e non sarebbe facile se si diffondesse questa
bella storiella. La lettera di dimissioni è già nelle sue mani.
In questo modo siamo tutti felici e contenti, tu e Petrone vi
dimenticate di questa storia e tornate a fare quello che
avete sempre fatto. Anche se Marelli dubitasse di voi, non
potrà farci nulla. E poi non gli conviene perdervi».
Massimo non sembrava convinto.
«Lo devi fare per me, ti prego. Non voglio che metti a
rischio la tua carriera per nulla. Ci abbiamo provato ed è
andata così. Tutto sommato, sapevamo di correre qualche
rischio e forse questo, è il minore dei mali». Lo abbracciò.
Massimo sentì l’odore della sua pelle e quel leggero
contatto gli procurò una piacevole sensazione.
«Ci facciamo un caffè?» chiese.
Lei sorrise:
«Certo, entra».
La stava guardando mentre armeggiava con la moka,
seduto sul divano di pelle. I leggings stretti le stavano
appiccicati addosso facendo risaltare le forme. Sfilò le
adidas e le scalciò lontano:
«Dai un’occhiata al caffè. Vado a mettermi qualcosa
addosso, comincio a sentire freddo».
Massimo annuì cercando di mostrare un’espressione
indifferente. Chiuse gli occhi e, poggiando la nuca alla
testata del divano, cercò di rilassarsi. Dopo qualche minuto
sentì il rumore del caffè che stava risalendo nel camino
della caffettiera e, prima che l’aroma potesse raggiungere
le sue narici, fu ridestato dalla voce di Lena:
«Quanto zucchero?»
Aveva indossato una tuta e ai piedi portava solo i calzini.

230
«Non troppo dolce, grazie.»
Lo raggiunse con le tazze fumanti e sedette di fronte a lui.
«Quel bastardo non si è mai posto limiti anche a discapito
di chiunque lo circondasse. Ogni sua decisione, ogni suo
gesto, anche quello che poteva sembrare nobile, ha sempre
avuto un secondo fine, uno scopo personale, anche quello
più ignobile di tutti, sembrare agli occhi degli altri una
persona migliore di quanto realmente fosse. Una persona
così non può farla sempre franca. Come potremmo
altrimenti un giorno trasmettere i valori della giustizia ai
nostri figli?»
«Cos’hai in mente?» chiese Lena.

231
CAPITOLO 26

232
Era un mattino come tanti altri. Gli impiegati intenti a
guardare i monitor, qualcuno armeggiava con i fogli
inceppati nei rulli della stampante, la signora che cercava
di far risplendere le vetrate che separavano la hall dal resto
dei locali facendo impregnare l’aria del profumo di fiori di
loto. Il tempo scorreva e tutto andava avanti,
inesorabilmente, com’era sempre successo e come sarebbe
sempre stato. Tuttavia quel giorno Massimo era uno
spettatore, seduto in prima fila, che osservava e aveva la
facoltà di decidere: lasciarsi andare nella poltrona e godere
quanto quel mondo offriva ai suoi occhi o abbandonare la
sala, sentendosi libero di alzarsi e uscire quando riteneva
opportuno farlo. Aveva deciso che quello non era un
giorno come tanti in cui avrebbe fatto parte della vita, ma
era un giorno della sua vita, e come tale lo avrebbe vissuto.
Bussò alla porta prima di aprirla, senza essere sicuro di
aver udito qualcuno che dall’interno gli avesse risposto.
Marelli era seduto alla sua scrivania mentre alzava lo
sguardo nella sua direzione:
«Avrei bisogno di parlarti» disse senza troppi preamboli.
Zazà indicò la sedia. Dopo aver poggiato gli occhiali sul
bloc notes dove fino a qualche istante prima stava
scrivendo, gli dedicò la sua attenzione:
«Dimmi pure. Di cosa si tratta?»
Massimo poggiò sulla scrivania una pila di fogli raccolti in
maniera ordinata con un elastico:
«Ho analizzato gli ordini di acquisto effettuati negli ultimi
mesi».
«Quindi?» chiese Marelli mostrando di non essere
interessato a quella domanda.

233
«Bisogna riorganizzare il processo di approvvigionamento.
Abbiamo già superato quasi tutti i budget di spesa per le
commesse aperte e le attività non sono ancora terminate.
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

Di questo passo non riusciremo di certo a garantire gli utili


previsti. Forse tuo figlio Giovanni ha bisogno di un
supervisore».
Zazà tirò a se la pila di fogli. La sua espressione cambiò
quando si accorse cosa stava osservando. In quel momento
Petrone entrò dalla porta e, dopo aver salutato con un gesto
della mano, occupò la sedia di fianco a Massimo.
«Non credo sia così» riprese mentre cercava di rilassare il
suo volto dal quale traspariva inevitabilmente uno stato di
agitazione. «Anzi, questi sono ordini fasulli. E’ stata una
brillante idea di Giovanni, un’arma in più per condurre le
trattative con i fornitori. Farebbero di tutto per superare il
fatturato della concorrenza. E’ tutto a posto, questi
documenti non dovrebbero nemmeno essere nelle vostre
mani» disse spingendo i fogli verso di loro. Petrone aprì la
borsa di cuoio e passò un’altra pila di fogli a Massimo:
«Veramente un’idea geniale, se non fossero stati tutti
fatturati» riprese lanciando il mattone di carta sulla
scrivania. Il tonfo fece sobbalzare Zazà.
«Questi documenti sono strettamente confidenziali e sono
di proprietà della Marelli. Non sono di certo affari che vi
riguardano. Come dipendenti non avete né il diritto né il
dovere di entrare in questi affari. Anzi, denuncerò quella
troia e chiunque abbia a che fare con lei. E adesso, se non
c’è altro… »
«Ascoltami bene» disse Petrone parlando per la prima
volta da quando era entrato in quella stanza, «questi non

234
sono gli unici documenti in nostro possesso e lo sai
benissimo. Abbiamo preparato un bel pacchetto regalo in
cui, oltre alle fatture che stai guardando, ci sono la lista dei
fornitori che ti riportano il contante, i contratti di vendita
degli immobili che dalla Marelli arrivano nelle mani dei
tuoi figli, i contratti di affitto che servono per spostare
soldi dalla GM Immobiliare alla Marelli e tante altre belle
cosine. Perciò, cerca di dare una regolata alle tue
reazioni».
Zazà si alzò di scatto e si avvicinò alla porta. Stava
cercando di sbollire la rabbia, non era abituato a subire la
pressione da parte di qualcuno. Comunque, quel poco di
buonsenso che aveva ebbe la meglio, e con non poca
difficoltà cercò di sembrare più sereno di quanto realmente
fosse: «Cosa volete?»
«Niente che non sia già nostro di diritto» rispose Massimo.
«Ovviamente parlo anche per Lena e per Antonio qui
presente» disse mentre Petrone annuiva. «La Marelli ci
verserà quello che ci spetta per il trattamento di fine
rapporto, compreso i residui per le ferie e per i permessi
non goduti. Dopo aver ricevuto i bonifici, avrai le nostre
dimissioni».
Zazà sembrava quasi sollevato da quella richiesta e sembrò
riacquistare la sua consueta presunzione:
«Avrete quello che vi spetta, così metteremo fine a questa
storia. Adesso se non vi dispiace… »
«Non è tutto» riprese Massimo. «Questo è quello che la
Marelli ci deve. Non avrai pensato che basti? Darai a
ognuno di noi una buonuscita in contanti da centomila
euro».

235
L’espressione che si dipinse sul volto di Zazà gli ricordò
l’Urlo di Munch.
«Inoltre riassumerai i dipendenti che hai licenziato e farai
del tuo meglio per cercare di risollevare l’azienda. Niente
di più del tuo dovere se non sbaglio. E con questo hai la
nostra parola che niente di quello che abbiamo scoperto
uscirà da queste mura e non sentirai più parlare di noi.
Rispettare i patti sarà la tua garanzia».
«E se la mia risposta sarebbe un vaffanculo?»
«Se la tua risposta “fosse” quella, penso che avremo tanto
da discutere con i nostri amici della Guardia di Finanza»
rispose Petrone.

236
CAPITOLO 27

237
Quella notte il sonno di Anita fu tormentato dai ricordi.
Avrebbe voluto il potere di accelerare il tempo per rendere
il tormento meno lungo. Sperava quasi che l’alba, oltre a
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

portare via il freddo della notte, potesse sciogliere il senso


di angoscia che sentiva crescere dentro. Avrebbe voluto
confidare nella fiducia che, fino il giorno prima, aveva
ritenuto alla base della sua relazione. Sentiva che Marika
non le aveva mentito e sarebbe andata fino in fondo, a
costo di ferirsi in modo insanabile. Era mattino presto ma
la risposta arrivò subito. Senza troppi preamboli formulò la
domanda che l’aveva tormentata per tutta la notte:
«Dove posso trovarli?»
Un po’ le dispiaceva che per rovinare la vita a quel porco,
avrebbe dovuto far soffrire quella ragazza, ma era
necessario. Marika sapeva che era l’unica cosa cui teneva
veramente e la cui perdita gli avrebbe fatto provare
qualcosa di simile alla sofferenza. E la relazione con Elena
oramai doveva avere la stabilità di un bicchiere pieno
d’acqua nelle mani di un bambino:
«Mi dispiace! Mi sto rendendo conto che forse ho
sbagliato a parlartene… non volevo renderti la vita un
inferno» disse cercando di assumere un tono dispiaciuto.
La sensazione di poter manipolare quella ragazza così
carina e brillante le procurava un certo piacere. Era
eccitata.
«Marika, posso solo ringraziarti. Io farei lo stesso per una
persona che mi sta a cuore e questo accresce la stima che
provo per te. Avresti potuto farne a meno ma... ti sento
così vicina in questo momento... »
Si udì un singhiozzo. Cominciò a temere che Anita volesse

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essere consolata, ma ben presto si tranquillizzò.
«Non fraintendermi, ma ho bisogno di vederli con i miei
occhi. Sarà debolezza o qualcos’altro ma… è come se il
mio cervello non riuscisse a elaborare quello che sta
accadendo… forse una parte di me si rifiuta di crederci. La
“io” romantica... » disse mentre sul viso si disegnava un
sorriso amaro.
«Conosci la Graffiti?»
«Sì, ci lavorano le mie più care amiche. Ci sono stata
qualche volta».
«Nei pressi c’è un Lounge bar, a pochi metri. Ci si può
arrivare a piedi. E’ un locale che frequento spesso e a
volte, ci vado per la pausa pranzo. Mi è capitato di vederli
in quel posto più di una volta, tanto che da un po’ di tempo
evito di andarci. Meglio evitare scene imbarazzanti…»
«Già… » rispose Anita triste immaginandolo abbracciato
ad un’altra. «Conosco il posto, lo troverò. Grazie».

Carlo attraversò le corsie diretto verso l’uscita,
ricambiando in maniera distratta i saluti dei commessi.
Marika, che quella mattina era passata in negozio con la
scusa di voler salutare le colleghe, lo vide avvicinarsi
camminando in maniera goffa. Non alzò lo sguardo assorto
nello schermo dell'Iphone nemmeno quando, passando
accanto alla cassa centrale, lei e le altre ragazze lo
salutarono. Rispose dopo qualche secondo senza
accorgersi della sua presenza e questo la irritò. Sfilò lo
smartphone dalla tasca e inviò un SMS:
“Sta andando da lei. Mi dispiace. Marika”.

239
Elena stava attraversando a passo svelto la hall quando
sentì la vibrazione. Si fermò per leggere l’SMS. Era Carlo
che confermava l’appuntamento al solito posto. Inviò un
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

messaggio di risposta prima di sentire la voce squillante di


Barbara. Gli lanciò un rapido saluto e gli fece intendere
che si sarebbero viste subito dopo la pausa. Lasciò
l’edificio a passo svelto.

Quella mattina Anita aveva deciso di tuffarsi nel faldone di
diritto penale ma le pagine non avevano senso. Più volte si
era lasciata andare sul lettino, osservando il candore del
soffitto, cercando di distendere la mente per poi tornare
allo studio ma fino ad allora, senza successo. Erano passate
diverse ore e aveva letto solo poche pagine. Forse era
meglio dedicarsi ad altro. Mentre rifletteva, vide lo
smartphone spostarsi sul volume aperto. Dopo aver letto il
messaggio, gli ci vollero pochi secondi per decidere. Senza
infilarsi nemmeno il giaccone, scese le scale e passando
per la cucina, prese le chiavi dell’auto del padre. Era una
Mercedes Classe C e nonostante qualche anno di vita, le
cure affettuose la facevano sembrare nuova. Anita non
guidava spesso e quando capitava, usava la vecchia Ford di
Carlo. Quella volta, non ci pensò troppo a utilizzare la
berlina tedesca.

Carlo varcò la soglia facendosi spazio tra le persone che si
accalcavano al bancone e, a passo spedito, si diresse verso
i tavoli, sicuro di trovarla al solito posto. A dispetto delle
abitudini, Elena sedeva dando le spalle al corridoio. Carlo
l’avrebbe riconosciuta tra mille, il modo in cui i capelli

240
dorati le scendevano sulle spalle, le sue forme e anche il
suo modo di sedere la distinguevano. Pensò che l’eleganza
fosse una cosa innata. Per un attimo si sentì in colpa per
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

quello che fino a pochi minuti prima, gli sembrava la cosa


più giusta da fare. Quella storia, iniziata come un
capriccio, era diventata per lui la cosa più vicina all’amore
provato per Anita. Sentiva di riuscire ancora a tenere
separate le due cose anche se, quando aveva tra le braccia
Elena, la confusione prendeva il sopravvento. Era proprio
la paura di non riuscire più a distinguere chi fosse tra le
due la donna che amasse di più ad averlo condotto in quel
posto. Avanzò fino al tavolo e le poggiò una mano sulla
spalla. Elena si voltò. La sua espressione sorpresa lasciò il
posto a un dolce sorriso:
«Ciao. Ero sovrappensiero, scusa».
Carlo le baciò una guancia:
«Posso sedermi?»
Elena indicò il posto vuoto di fronte a lei:
«Ti stavo aspettando».
Non era una ragazzina alle prime armi invaghita di un
uomo più grande di lei. Era una donna indipendente, che
viveva a pieno la sua vita e le sue storie. E non era stupida.
Non aveva costretto Carlo a lasciare Anita ma gli aveva
fatto capire chiaramente che non era disposta a essere la
valvola di sfogo di una relazione coniugale. Gli aveva
concesso la libertà e dettato il dovere della scelta, a costo
di perderlo senza combattere. Ed era sicura che fosse già
successo, nel momento in cui Carlo aveva dovuto guardare
in faccia alla realtà. L’atteggiamento nei suoi confronti era
già cambiato e questo, oltre a farla soffrire, confermava il

241
suo pensiero. In quegli ultimi giorni aveva avuto il tempo
di riflettere e maturare le ragioni di quanto stava
accadendo. Quel bacio sulla guancia e l’atteggiamento
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

formale di Carlo, gli ricordarono che la loro storia era già


finita, prima di quell’incontro. Si sentì sola, seduta a un
tavolo con un bellissimo sconosciuto, che in un’altra vita
sarebbe potuto essere il suo uomo. Era pronta a rendere più
semplice quel compito:
«Come sta Anita?»
Carlo rimase sorpreso:
«Bene» rispose abbassando lo sguardo sul tavolo. In quel
momento capì che, anche se per un valido motivo, stava
rinunciando a un tesoro.
Alzò lo sguardo e fissò quegli intensi occhi color nocciola:
«Sei una donna fantastica, intelligente oltre che bellissima.
E credo… anzi sono sicuro, che sai cosa voglio dirti».
Elena stava sorridendo, ma era evidente che voleva
mascherare il suo reale stato d’animo. Se nel profondo
aveva covato un’infinitesima possibilità di averlo, quelle
parole stavano scacciando ogni più remota speranza.
«Voglio che tu sappia una cosa», continuò, «non sentirti un
capriccio».
«Lascia stare. Beviamo qualcosa? Facciamo due
chiacchiere spensierate, come vecchi amici che
s’incontrano dopo tanto tempo. Non perdiamoci in discorsi
inutili».
Carlo annuì sentendosi umiliato da tanta forza.

La strada era libera e la voglia di arrivare, mista alla
rabbia, le faceva spingere il piede sull’acceleratore. Non

242
riusciva a smettere di pensare alle parole di Marika e il
bruciore che le procurava l’immagine di Carlo con un’altra
donna, le invadeva il petto. Avrebbe voluto lasciar stare,
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

tornarsene a casa e dimenticare tutto, ma sapeva di non


esserne capace. Sarebbe arrivata in tempo per vederli
insieme. Il piede affondò di più.

«Riusciremmo mai ad essere amici?»
«Può sembrare che mettere fine a una relazione sia per me
la cosa più normale del mondo» rispose Elena.
«Sinceramente, non è così. Io credevo in questa cosa e
credevo in te. Non sono delusa dal tuo comportamento,
sono delusa da me. Sono delusa di non aver combattuto
per prendere ciò che volevo. Forse è giusto che le cose
vadano in questo modo, ma non chiedermi di continuare a
vederti al fianco di un’altra donna e di tramutare quello
che provo per te in un’amicizia. Sarebbe da ipocrita dirti di
si».

L’insegna della Graffiti che troneggiava sull’edificio
principale, era già visibile. Anita rallentò concentrando la
sua attenzione ai lati della strada. In quel punto della città
non c’erano tanti locali e non sarebbe stato difficile
identificare quello che cercava. Dopo poche decine di
metri, vide un gruppo di persone che si accalcava
all’ingresso di quello che poteva essere un Lounge bar.
Quando intravide l’insegna, sterzò in modo brusco
invadendo con l’auto il largo marciapiede. Nonostante non
fosse il miglior punto per parcheggiare, lasciò l’auto e si
avvicinò all’ingresso. Sbirciò tra le vetrate prima di

243
varcare la soglia. Un cameriere si avvicinò chiedendole se
avesse bisogno di qualcosa, ma era troppo impegnata a
guardare tra i tavoli. Senza rispondere s’incamminò a
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA
AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA

passo lento verso il corridoio che portava alla sala sul


retro, quasi avesse paura di quello che potesse trovarvi. Il
cameriere, deluso, la lasciò proseguire. Riconobbe Carlo
seduto al tavolo in fondo. Di spalle, la lunga chioma
bionda di una ragazza vestita in modo elegante. Stavano
bevendo. La rabbia fu spazzata dal dispiacere. Gli occhi
s’inondarono di lacrime.

Elena lasciò il bicchiere mezzo pieno. Aveva preferito
l’alcol al cibo. Diede uno sguardo rapido all’orologio e
recuperò la borsetta appoggiata sul tavolo:
«Si è fatto tardi. Devo tornare a lavoro».
Carlo si limitò ad annuire mentre si alzava con lei.
«Anita deve essere una ragazza speciale… e anche
fortunata». Si avvicinò:
«Cerca di non rovinare quello per cui hai rinunciato a noi».

Anita riconobbe la modella incontrata alla sfilata. La sua
intuizione era stata corretta. Era una ragazza bellissima e
sentì crollare il mondo addosso. Lo avrebbe ammazzato
con le sue mani ma… come non biasimarlo. Sentì il fuoco
ardere dentro vedendola baciarlo. Avrebbe voluto vomitare
la rabbia che sentiva crescere dentro, al pensiero che stava
assaporando il suo uomo, sentendo il suo odore, il calore
del suo volto tra le mani. Quando fu sazia di lui, si voltò e
si allontanò a testa bassa, il volto coperto dai suoi lunghi
capelli dorati. Carlo sembrava sconvolto, lei non aveva

244
mai sortito quell’effetto su di lui. Decise di avvicinarsi al
tavolo. Quando la vide, la sua espressione cambiò di colpo
perdendo il controllo della parola. Dal volto di Anita
trapelava odio misto a disprezzo:
«Almeno hai scelto bene» riuscì a dire trattenendo a stento
il pianto.
Carlo sembrò riprendersi dallo stato di trance:
«Anita! Siediti e ascoltami... »
Sembrò sul punto di non riuscire più a trattenere le
lacrime:
«Ho visto abbastanza. Vaffanculo!» esclamò lanciandogli
addosso, quello che restava nel bicchiere marchiato da
un’ombra di rossetto, prima di voltarsi per uscire da
quell’incubo.

245
EPILOGO

246
Massimo e Carlo erano appena arrivati in stazione.
Mancavano pochi minuti all’arrivo del treno che avrebbe
riunito il gruppo di amici d’infanzia. Il freddo era
pungente, mancavano pochi giorni a Natale e,
passeggiando sulla banchina, parlavano emettendo piccoli
sbuffi di fumo che si perdevano nell’aria insieme alle
parole:
«Lo sai, stiamo provando ad avere un figlio».
Carlo annuì:
«Sono contento per voi. E poi vuol dire che Linda sta
meglio. Sono sicuro che lo fai anche per lei».
Massimo ci pensò un po’ su:
«Non è per questo. E poi non è una mia decisione. Lo
vogliamo e credo ne abbiamo bisogno entrambi. In realtà
non sono sicuro di quello che gli passa per la testa.
Tuttavia, a cosa si riduce la nostra vita? Ogni giorno presi
dal lavoro, sempre di corsa. Il motivo principale per cui ho
lasciato il lavoro è proprio per avere più tempo da dedicare
a lei e... insomma a quello che sarà».
«Dovrai trovare comunque un impiego alternativo, dovrai
affrontare tante spese...»
«I soldi non sono mai stati un problema» rispose lui, «e
non lo saranno nemmeno adesso. E tu invece? Lo sai che
Anita ti sta aspettando».
Carlo scrollò le spalle.
«Ti ama ed è pronta a lasciarsi tutto alle spalle».
Si fermarono osservando il treno arrivare in lontananza:
«Il fatto è che non so se sono pronto io a ricominciare. Lo
abbiamo fatto tante volte ma, non so se sono più la stessa
persona».

247
Massimo gli diede una pacca sulla spalla:
«Siamo quello che vogliamo essere. Nient’altro».

248
249
250
251
Carlo e Massimo, amici d’infanzia, condividono
passioni, valori e ambizioni. Due uomini brillanti,
due carriere in ascesa, due donne bellissime.
Entrambi con la voglia di distinguersi dagli altri,
alla ricerca di un cambiamento che li metterà di
fronte ad avvenimenti che stravolgeranno le loro
vite. Restare coerenti ai propri principi o lasciarsi
trasportare dagli istinti. La personalità forgiata dalla
società, riuscirà a prevalere su quella nascosta
nell’indole? Quale sarà il loro naturale modo di
essere?

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