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FRANCESCO GAZZONI

CONTATTO REALE E CONTATTO FISICO (OVVEROSIA L’ACCORDO


CONTRATTUALE SUI TRAMPOLI) *
  1. Tanti, tantissimi (troppi, ahimè!) anni or sono, assistetti ad una
rappresentazione del dramma Vita di Galileo di Bertold Brecht,
interpretatodall’indimenticabile Tino Buazzelli, con una memorabile regia di
Giorgio Strehler, il quale concepì, tra gli altri, questo coup de théatre: nel bel
mezzo del secondo atto, irrompevano sul palcoscenico, su alti trampoli, due
comparse, che circondavano Galileo, incutendogli timore.La scena suscitò
negli spettatori, e in me per primo, meraviglia e sconcerto, mentre la critica
disquisì a lungo circa il significato delle comparse suitrampoli, se, cioè, esse,
per avventura, rappresentassero Tolomeo e Papa Paolo V, che schiacciavano il
povero Galileo, dall’alto del loro potere. Oggi che ne ho viste e sentite tante,
ma proprio tante, e di tutti i colori, sono certo che quelle comparse e
soprattutto quei trampoli non significavano un bel niente. Si trattava solo di un
brillante artificio registico per épater le bourgeois, attirando l’attenzione degli
spettatori. Anche i giuristi hanno il problema di attirare l’attenzione, sicché
assai spesso l’originalità della tesi sta proprio in ciò, che essa, a prescindere
dal merito, è in grado di suscitare discussioni, se non altro al fine di ristabilire
la verità ed eliminare i metaforici trampoli, sui quali poggia. In tal senso
ammirevoli sono le doti dell’Irti, quale ideatore di scenari originali, sorretti da
una capacità di invenzione linguistica tale, da farli apparire plausibili o,
comunque, suggestivi, come suggestivi sono, di per sé, i fonemi, se solo si
pensa alla poesia. Quando però si passa dalla fonologia al diritto è come se si
passasse, appunto, dalla poesia alla prosa, perché ci si deve misurare con il
*
Lo scritto è destinato agli Studi in onore di Cesare Massimo Bianca
dato normativo, con regole tecniche, che lasciano un margine ristretto alla
fantasia. Sotto questo aspetto, allora, le teorie dell’Irti si appalesano assai
meno suggestive, al punto che esse ricevono puntualmente compatte critiche.
Così è stato per l’idea che non esista un principio generale di libertà della
forma del contratto, ma che si debba distinguere tra strutture deboli e strutture
forti (1); così è ora per la più recente tesi dell’accordo contrattuale, inteso come
(2)
esito necessario di trattative e quindi di dialogo linguistico tra i contraenti .
Vorrei anch’io avanzare, su questa tesi, qualche osservazione, volta soprattutto
a precisare quel che hanno già obiettato giuristi ben più autorevoli di me, quali
sono Giorgio Oppo (3) e Massimo Bianca (4).
2. L’Irti parte da una assai personale ricostruzione della giornata di un
uomo qualunque, alle prese con vari acquisti, osservando (5) che «lo scambio di
valori economici è insieme scambio di valori linguistici», perché «lo stringersi
di un vincolo, [è] esito di un parlare e ragionare insieme». Per il moderno
capitalismo, però, «il dialogo si rivela non efficiente […] è davvero uno
sperpero irrazionale, che riduce ed annulla i vantaggi oggettivi e funzionali
della lingua». Ma, abolito il dialogo, non potrà più parlarsi di accordo, quale
fonte di vincoli giuridici.
Per l’Irti, «il dialogo protegge gli interessi di ambedue le parti», sicché
«il declino del dialogo è declino di libertà». Infatti, «il contenuto del
dialogonon si lascia predeterminare: esso obbedisce ad impulsi soggettivi,
oscilla tra l’uno e l’altro tema, procede in avanti e poi ritorna su se stesso, si
(1)
IRTI, Idola libertatis, Milano, 1985. Critici, tra gli altri, DE CUPIS, Sul contestato principio di libertà delle
forme, in Riv. dir. civ. 1986, II, p. 203; GRASSO, La forma tra regola ed eccezione, in Rass. dir. civ. 1986, p.
46
(2)
IRTI, Scambi senza accordo, in Riv. trim. dir. proc. civ. 1998, p. 347.
(3)
Disumanizzazione del contratto?, in Riv. dir. civ. 1998, I, p. 525, cui ha replicato IRTI, «E’ vero, ma…», in
Riv. dir. civ. 1999, I, p. 273.
(4)
Diritto civile, 3, Milano, 2000, p. 43, cui ha replicato IRTI, Lo scambio dei foulards, in Riv. trim. dir. proc.
civ. 2000, p. 601, cui ha replicato BIANCA, Acontrattualità dei contratti di massa?, in Vita not., 2001, p.
1120.
(5)
Scambi, cit.
(6)
avvolge e conturba in innumerevoli spirali» . Dunque il capitalismo sarebbe
nemico della libertà, negando il dialogo all’uomo qualunque, il quale
dovrebbe districarsi, durante la sua giornata, tra moduli e formulari, acquisti
nei grandi magazzini, acquisti televisivi e telematici, accomunati tutti dal
comun denominatore dell’assenza di libertà contrattuale, per assenza di
dialogo.
Mi sembra che questa drastica conclusione non tenga conto
dell’effettiva realtà del mercato. Per quanto riguarda, infatti, i moduli e
formulari, il dialogo non può mai mancare, anche se esso riguarderà, se del
caso, solo uno degli aspetti qualificanti del contratto, che è quello
patrimoniale. Tutti sanno, infatti, che, ad esempio, il tasso di interesse
bancario, sia attivo che passivo, oscilla da banca a banca, sia pure entro
margini ristretti, così come si sa che le commissioni per le operazioni bancarie
sono remunerate diversamente da banca a banca, anche in ragione di risparmi
di spesa, se non di costi. L’uomo qualunque, allora, non si trova di fronte ad
un rozzo diktat (prendere o lasciare), ma potrà trattare e alla fine scegliere la
banca che offre condizioni migliori. Egualmente è a dirsi quanto al premio per
la stipula di un contratto di assicurazione o per l’acquisto di un autoveicolo da
un concessionario, ad esempio, della FIAT, là dove la trattativa sul prezzo è
assai articolata, in ragione della permuta con l’autoveicolo usato, delle
modalità di pagamento con rateizzazione, della fornitura di assistenza gratuita
o di ulteriori risparmi di spesa sui c.d. optional. Tutti questi aspetti del
contratto, dunque, sfuggono completamente al modulo o formulario, il quale
predetermina modalità per lo più, è vero, favorevoli al predisponente, ma
ormai prive di quella antica significanza, da quando l’art. 1342 secondo
comma, che rinvia all’art. 1341 secondo comma c.c., è stato sostanzialmente
(6)
«E’ vero, ma…», cit., p. 274 e Scambi, cit., p. 350-351.
scalzato dall’assai più incisiva disciplina dell’art. 1469 bis ss. c.c. Non è
dunque vero che «il contratto per adesione […] inaugura il declino dell’homo
loquens, e dissolve il dialogo nella solitudine di due decisioni individuali»,
sicché «spento il dialogo, l’accordo è tutto nell’unilaterale predisposizione del
testo scritto e nell’unilaterale adesione». Ma anche per quanto riguarda
l’assetto dispositivo contenuto nei moduli o formulari, è chiaro che, secondo
l’Irti, l’aderente non può, e non già, non avendone interesse, non vuole
dialogare. In tal modo, però, l’Irti oblitera proprio l’art. 1342 c.c., nella parte
in cui prevede la prevalenza delle clausole aggiunte su quelle del modulo o
formulario incompatibili, pur se non cancellate. La norma si spiega solo con la
constatazione che, a livello di traffici, la modifica pattizia delle clausole
predisposte non è una rara eccezione, non avendo altrimenti senso una
speciale disciplina delle ipotesi conflittuali. Dire allora che chi aderisce senza
modifiche rifiuta il dialogo significa dire che, per raggiungere l’accordo, egli
dovrebbe in ogni caso cambiare almeno una delle clausole predisposte, pur se
utili a realizzare il proprio interesse. All’aderente, quindi, si porrebbe questa
paradossale alternativa: o andare contro i propri interessi e raggiungere un
accordo, o realizzarli, rinunciando però all’accordo, per accontentarsi della
solitudine di una decisione individuale. La verità è, ovviamente, un’altra e
cioè che l’adesione non si differenzia dall’accettazione, tanto più in quanto
essa si manifesta necessariamente con la sottoscrizione del modulo o
formulario. Né può dirsi che, sia pure limitatamente alla relativa parte del
complessivo assetto regolamentare, siano assenti trattative, se non nel senso
che esse sono reputate non necessarie dall’aderente, così come accade
ogniqualvolta ad una proposta contrattuale non segua una controproposta ex
art. 1326 ultimo comma c.c., norma, questa, che l’Irti invoca a suffragio della
propria tesi sull’inscindibile legame tra accordo e dialogo, quasi che, di
nuovo, la controproposta fosse atto obbligato o almeno, in termini statistici,
costituisse la regola. E’ vero che «l’uomo che interroga attende risposta», ma è
tale anche quella di chi si limita a rispondere un puro e semplice sì, che altro
non significa se non quell’accettazione integrale della proposta, in nulla
diversa dall’adesione, se non nelle modalità in cui la proposta è avanzata, per
essere, cioè, essa contenuta in un modulo o formulario.
3. Quanto poi alle vendite nei grandi magazzini e in quelle telematiche o
televisive, l’assenza di dialogo, cioè di trattativa, è l’esito di una precisa e
intuitiva realtà di mercato, collegata al circuito commerciale di vendita dei
beni stessi. L’unico elemento del contratto relativamente al quale le parti
potrebbero instaurare una trattativa, è infatti il prezzo della merce. Ma esso,
però, è, nella realtà del mercato, il più competitivo, se non altro grazie alla
riduzione dei costi del personale e, nella vendita televisiva o telematica, alla
frequente assenza di intermediazione, svolgendosi direttamente il rapporto tra
produttore e consumatore. Il nostro uomo qualunque, preferisce quindi questo
tipo di acquisto proprio per la sua convenienza economica. L’assenza di
dialogo significa allora non già assenza di libertà, ma, tutto al contrario,
inutilità di quella trattativa che, in altro contesto, condurrebbe, se del caso, a
quella diminuzione del prezzo, che egli, viceversa, ottiene senza alcuna
discussione. Gli esempi portati dall’Irti non provano pertanto l’asserita
esistenza di un bieco disegno capitalista, volto a privare il povero uomo
qualunque della sua libertà contrattuale. Che ci sia questo disegno è, in verità,
certo, ma esso batte ben altre strade, che sono quelle assai significative delle
intese e dei cartelli, volti a eliminare la concorrenza (magari anche quelli
organizzati dalle imprese che contraggono per moduli o formulari, come
dimostrano i procedimenti instaurati dalla Autorità garante della concorrenza e
del mercato nei confronti di banche e compagnie di assicurazione) e non già
quella, tutto al contrario favorevole, almeno in linea di massima, al
consumatore, delle vendite dei quotidiani beni di consumo a prezzo prefissato.
4. Ciò posto, non è allora vero che non c’è accordo, e dunque contratto,
senza dialogo, perché l’accordo e quindi il contratto è in ogni caso incontro di
volontà, di cui solo potranno semmai discutersi le modalità di manifestazione,
non necessariamente verbis, al fine di graduarne la rilevanza, anche in chiave
(7)
di tipicità dei comportamenti sociali, sul piano disciplinare . Altrimenti non
sarebbe contratto-accordo, più in generale, nemmeno l’acquisto non preceduto
da trattative, che è la regola in caso di vendita a prezzo imposto o c.d.
liquidativa o fallimentare o a saldi, ma è ben ricorrente anche in regime di
libertà. E’ libertà, infatti, anche il mancato esercizio della libertà, ove,
naturalmente, si tratti di una scelta libera. Per l’Irti, invece, l’esempio
paradigmatico di contratto, cui dovrebbe aversi riguardo anche in termini di
applicazione diretta della relativa disciplina, sarebbe quello in cui l’accordo è
raggiunto con un vucumprà o con un venditore di tappeti o al mercato delle
pulci o di Porta portese, al termine di un estenuante batti e ribatti dialogico. La
tesi, pertanto, esalta e dà veste e significato giuridico primarî a quel ben noto
fenomeno dei traffici commerciali, per cui il venditore propone un prezzo più
alto, per poi accettare la controproposta più bassa, al fine di dare all’acquirente
l’impressione di aver fatto un affare. Il mitico “sconto”, una delle molle
psicologiche che regola l’infantile spinta al consumismo, dovrebbe entrare
quindi, grazie all’Irti, a pieno titolo a far parte dell’ordinamento giuridico,
quale elemento imprescindibile della nozione di contratto. L’art. 1321 c.c.
dovrebbe dunque essere così riscritto: «Il contratto è l’accordo di due o più
parti, raggiunto al termine di trattative dialogiche, per costituire, regolare o
estinguere un rapporto giuridico patrimoniale». Per parte sua l’art. 1470 c.c.
(7)
OPPO, op. cit., p. 528-529; BENEDETTI, Diritto e linguaggio. Variazioni sul diritto muto», in Europa e
dir. privato, 1999, p. 148.
dovrebbe essere così integrato: «La vendita è il contratto che ha per oggetto il
trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto
verso il corrispettivo di un prezzo, fissato al termine di trattative dialogiche».
5. La conferma che questa sia l’ambizione dell’Irti si ha quando egli
segue il suo uomo qualunque, che si reca per acquisti in un grande magazzino,
(8)
da lui descritto come un antro kafkiano, popolato da automi semoventi,
dove «un alto e grave silenzio domina gli scambi», perché «l’homo videns
prende il luogo dell’homo loquens» e, evidentemente, aggiungo io, le addette
alle vendite, le c.d. commesse, sono scelte tra donne mute. Pertanto «l’uomo
non incontra l’altro uomo, ma la visibile fisicità delle cose», sicché «il dialogo
linguistico è sostituito dalla realità di due atti: l’esposizione e la preferenza», i
quali si appuntano sulla cosa, vero centro motore dello scambio. Infatti
andrebbe colto «il primato della cosa, che, esposta nei grandi magazzini e
preferita dal consumatore, circola, come tale e perché tale, dall’una all’altra
parte», essendo «l’unica misura di consonanza tra le parti». Questo della cosa,
cioè della merce, intesa quale deus ex machina dello scambio, è il punto
centrale della tesi, illustrato ripetutamente con innumerevoli formule,
divagazioni, variazioni e anche schemini grafici. E così: «i due atti unilaterali
si ritrovano nell’identità della merce: è veramente questa, che combina i due
atti e ne fa una decisione di scambio». Ed ancora: «le parti dirigono le loro
decisioni sulla merce, e nella merce s’incontrano e ritrovano» (non si
comprende se al suo interno o sopra o sotto di essa). E di nuovo: «lo scambio
qui non risulta da un accordo, ossia dalla consonanza di dichiarazioni rivolte
dall’una all’altra parte, ma da atti indirizzati alla cosa». Autorevolmente ci si è
chiesti, con interrogativo retorico: «può una cosa qualificare gli atti che
interessano, altrimenti che come oggetto dell’esposizione per vendere e della
(8)
Scambi, cit. p. 353, 354, 355.
(9)
preferenza per acquistare?» . Certo che non può! Ed è questo il passaggio
essenziale, in cui regna non già la necessaria chiarezza, ma anzi alquanta
confusione, è il caso di dirlo, di lingue. L’Irti, infatti, per avvalorare «il
primato della cosa» e la «realità di due atti: l’esposizione e la preferenza»,
ricorda il risalente scritto di Cicu, ove il grande giurista, a proposito degli
acquisti fatti con immissione di moneta in apparecchi automatici, parlava
bensì di contratto di vendita, ma reale, stipulato con lo scambio tra «oggetto
(10)
contenuto nell’automa» e «moneta gettatavi dall’utente» . A prescindere
dalla inattualità di tale ricostruzione, posto che qui si è in presenza di un tipico
rapporto di fatto, rilevante in quanto tale, a prescindere, cioè, dalla fonte, che
(11)
«mima» un contratto di vendita , il «brivido problematico» che l’Irti
attribuisce a Cicu, avrebbe dovuto, in realtà, assalire lui stesso, perché nel
contratto reale la cosa, in quanto tale, non svolge ruolo alcuno, rilevando essa
sempre e comunque quale oggetto del contratto, mentre è la sua consegna,
come atto di spossessamento o strumentale alla custodia o sintomo di
giuridicità, in ogni caso riferibile ai contraenti, pur se ficta, quel che conta e a
prescindere dalla quale il vincolo non nasce. Ben diversa, dunque, è la
“realità” del contratto reale, rispetto alla c.d. “realità” degli atti unilaterali di
cui parla l’Irti, sicché non è certo appoggiandosi a Cicu che la tesi può trovare
il proprio ubi consistam. E’ pur vero che al contratto può giungersi
percorrendo strade diverse sul piano procedimentale [basti pensare all’art.
1327 c.c. e anche all’art. 1333 c.c. per chi voglia affermare, sulla scorta
dell’inquadramento sistematico del codice civile, che questa norma disciplina
(12)
il contratto, senza contare il possibile apporto dell’autonomia privata , in

(9)
OPPO, op. cit., p. 530.
(10)
CICU, Gli automi nel diritto privato, ora in Scritti minori, II, Milano, 1965, spec. p. 315.
(11)
DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Comm. del cod. civ. a cura di Scialoja e Branca, Bologna-
Roma, 1988, p. 200.
(12)
Su cui GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, p. 848.
punto di negozio di configurazione], ma non si riesce a scorgere come sia
possibile «distaccare il contratto dall’accordo, sicché esso sia in grado di
(13)
accogliere anche gli atti unilaterali, convergenti sulla stessa cosa» , pur
permanendo essi, in quanto tali, distinti e indipendenti, senza cioè fondersi.
Ma vi è un altro aspetto della costruzione, che non convince. Secondo l’Irti,
infatti, lo scambio avviene nel momento in cui l’homo non loquens sceglie la
merce esposta, atteso che non la volontà, ma «l’identità della cosa, esposta
dall’una e preferita dall’altra, è l’unica misura di consonanza tra le parti».
Tuttavia, si obietta, al fine di distinguere l’acquisto dal furto, «se non si colora
lo “scegliere” con la volontà di comprare, la conclusione dello scambio
dovrebbe essere spostata al successivo momento del pagamento del prezzo
(cash and carry, meglio che self service); e allora la fattispecie rientrerebbe,
quanto all’adesione, direttamente sotto l’art. 1327 c.c.» (14). A questa obiezione
l’Irti replica, a sua volta, che la volontà di vendere e di acquistare «si riduce a
semplice libertà di compiere dati gesti», sicché, mancando il dialogo, dove
mai avverrebbe «se non nell’unificante fisicità della cosa, lo “incontro” delle
due decisioni di parte?». Dunque «non l’intima volontà, ma l’estrinseco e
complessivo agire lasciano individuare il ladro e il compratore», a seconda che
il prezzo non sia o sia pagato (15). Temo che l’Irti non abbia soppesato a
sufficienza le conseguenze di questo, pur denunciato, «complessivo agire». Se
lo scambio interviene al momento della scelta, l’homo non loquens diviene
proprietario della merce in quello stesso momento, sicché, ove poi non paghi il
prezzo, commetterà il reato non già di furto, ma, semmai, di insolvenza
fraudolenta o addirittura avrà commesso un semplice illecitocontrattuale. Per
configurare il furto sarà necessario ipotizzare non solo il mancato pagamento
(13)
IRTI, Scambi, cit., p. 361 n.15.
(14)
OPPO, op. cit., p. 529, il quale però non considera che in ogni caso l’art. 1327 c.c. prevede non già
l’avvenuta, ma l’iniziata esecuzione.
(15)
IRTI, «E’ vero, ma…», cit., p. 276.
del prezzo, ma anche il mancato acquisto della proprietà. La verità è che l’Irti
non ha esattamente colto la sequenza dell’acquisto nei grandi magazzini, pur
riconoscendo che vi sarebbe un «complessivo agire», cioè una pluralità di
comportamenti. Infatti, l’uomo silenzioso, dopo aver scelto e appreso la merce
dagli scaffali ove essa è esposta, la consegna alla cassiera, la quale fa il conto
e incassa il prezzo dopo averlo comunicato al silente. Se dunque costui è
homo non loquens, la controparte dello scambio è una mulier loquens e anche
tradens, ricevendo, in ultima analisi, l’uomo silenzioso la merce proprio dalla
donna parlante. La particolarità della vendita nei grandi magazzini consiste
dunque in ciò, che l’uomo silenzioso compie un atto di approntamento, quale è
quello di prelevare la merce dagli scaffali, di per sé del tutto neutro, potendo
esso preludere, alternativamente, alla consegna della merce stessa alla donna
parlante o alla fuga. Nel primo caso si conclude il contratto di vendita tra due
soggetti, di cui uno agisce per conto del proprietario, ben individuati, con
immediata sua esecuzione: consegna, ad opera della donna parlante, della
merce e contestuale pagamento del prezzo ad opera dell’homo non loquens.
Pertanto quando costui dà la merce alla cassiera, propone di acquistarla (si è
dunque fuori dell’ipotesi prevista dall’art. 1327 c.c.), sicché l’esposizione
della merce stessa si configura come invito a proporre,a condizioni, peraltro,
prefissate, così come accade, ad esempio, in caso di vendite per posta sulla
base di cataloghi o listini. E’ opportuno ricordare che diversamente accade
nell’esposizione della merce nelle vetrine dei negozi, con indicazione del
relativo prezzo, da configurarsi, essendo assente l’atto di approntamento del
cliente, cioè il self service, come offerta al pubblico, checché ne dica un
giurista, voltosi agli studi civilistici in età ormai matura, il quale così si
esprime: «Ogni negoziante si ritiene libero di decidere a chi vendere (ossia di
scegliere la propria clientela) e quanto vendere, salvo il caso di chi vende
generi di monopolio; considera quanti entrano nel proprio negozio come
proponenti, ai quali si riserva di rispondere con una accettazione o con un
(16)
rifiuto» . A prescindere dal fatto che appare fuori di ogni realtà l’idea che
chi entra in un negozio formuli una proposta di acquisto di una merce
fissandone egli stesso il prezzo, sarebbe anche bello trasformare i negozi in
piccoli clubs esclusivi con tanto di tessera: peccato però che al rilascio della
licenza di esercizio si accompagni un obbligo a vendere (ora art. 3, D. Leg.
98/114, che rinvia espressamente all’art. 1336 c.c.). In caso di fuga, viceversa,
l’uomo, oltre che silenzioso, sarà anche ladro. Al fine di configurare il reato di
furto, sarà dunque di per sé irrilevante il fatto che il silente prenda la merce e
(17)
la nasconda sotto la giacca , tant’è che, per correre ai ripari, tutte le merci
sono dotate di meccanismo magnetico che fa scattare l’allarme posto all’uscita
dei locali, essendo quello il momento in cui il furto può dirsi commesso. Ed
infatti la donna parlante ha anche il compito di smagnetizzare la merce prima
di consegnarla all’homo non loquens a seguito del pagamento del prezzo. Del
resto se così non fosse, non si spiegherebbe, né l’Irti si preoccupa di spiegarlo,
in virtù di quale regola l’uomo silenzioso avrebbe uno ius poenitendi, nel
senso di poter porre nel nulla l’asseritamente intervenuto scambio a seguito
della scelta, rimettendo la merce, già prelevata, al proprio posto. Essendo
viceversa l’apprensione (e quindi la scelta) un atto neutro di approntamento, si
comprende come esso ben possa essere reversibile fino al momento della
conclusione del contratto, fino a quando, cioè, la donna parlante porta a
termine il procedimento, comunicando il prezzo dopo aver ricevuto e
smagnetizzato la merce. Senza dubbio l’acquirente non dialoga, ma muto resta
anche quel finlandese non poliglotta, il quale, entrato in un negozio e

(16)
GALGANO, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 1999, p. 177.
(17)
Così invece BIANCA, Diritto civile, cit., p. 43 e Acontrattualità, cit., p. 1124. Il divieto sussiste bensì, ma
è previsto solo a livello di regolamento interno del grande magazzino.
constatato che nessuno comprende i suoni gutturali da lui emessi, tocca con un
dito la merce esposta in vetrina, esprimendo così la propria intenzione di
acquistarla, al pari dell’uomo qualunque non loquens, nel momento in cui
affida la merce alla donna parlante, anziché darsi alla fuga.
6. Il nostro uomo qualunque, giunta la sera, si rilassa davanti alla
televisione, dove compaiono immagini di cose in vendita. Come anche i
soldati del generale Jacques De Chabannes, signore di La Palice,
osserverebbero, «il “televendere” è, appunto, un vendere da lontano, poiché le
immagini ci offrono la figura di oggetti assenti», onde «nei grandi magazzini e
nei centri commerciali, scegliamo cose presenti, nelle televendite, scegliamo
(18)
immagini di cose assenti» . Pur in tal caso c’è assenza di dialogo, ma ci
sono «l’esposizione e la preferenza, la quale ultima, come è ovvio, non si
esprime nella scelta tattile (il prendere la cosa e posarla sul “carrello”), ma
nella scelta dell’immagine». Si potrà pensare che qualcuno parli e cioè
l’imbonitore di turno, la Wanna Marchi della situazione: errore! L’irtiana
meditazione giunge infatti a questa inaspettata conclusione: «Tra la cosa e noi
non c’è un uomo, che la offra e proponga, ma la stessa figura visiva della
cosa: astratto termine del nostro rifiuto o della nostra preferenza». Dunque,
anche in questo caso, l’acquisto non giungerebbe al termine di un accordo,
perché i soliti due atti unilaterali, questa volta, «si incontrano o combinano o
(19)
confluiscono in altro: che è […] l’immagine della merce» . Siamo alla
sublimazione! In realtà un accordo c’è ed esso giunge al termine di un
procedimento formativo non difforme da quello già esaminato con riguardo
agli acquisti nei grandi magazzini. Infatti, anche ammesso che la figura visiva
della cosa non sia accompagnata, come di regola in verità accade, da un’ampia
illustrazione, ad opera dell’imbonitore televisivo di turno, resta il fatto che si è
(18)
IRTI, Scambi, cit., p. 356-357.
(19)
IRTI, «E’ vero, ma…», cit., p. 277.
comunque in presenza di un invito ad offrire, tant’è che è poi necessaria la
proposta o meglio ordine, da parte del telespettatore, seguito da
un’accettazione ex art. 1327 c.c., con invio della merce, nei limiti della
disponibilità. Infine, secondo l’Irti, l’uomo qualunque si applica ad Internet e
agli acquisti telematici, con analoghi esiti: niente dialogo = nessun accordo!
6. La tesi dell’Irti potrebbe anche risolversi in un’innocua esibizione di
fantasia linguistica, se non traesse con sé conseguenze sul piano disciplinare.
Per l’Irti, infatti, là dove si sia in presenza di uno scambio senza accordo,
frutto, cioè, non già di dialogo, ma della «solitudine di due decisioni
individuali», da un lato, la disciplina contrattuale sarebbe applicabile solo in
via analogica e, dall’altro, sul piano della capacità, sarebbe sufficiente quella
naturale, non essendo più necessaria quella d’agire prevista dagli artt. 2, 1425
e 1426 c.c. Le due solitarie decisioni, infatti, non assurgerebbero nemmeno a
dignità negoziale, con applicazione della disciplina contrattuale ex art. 1324
c.c., ma resterebbero meri atti unilaterali leciti, soggetti alla disciplina prevista
(20)
dall’art. 2046 c.c. . La capacità si dissolverebbe, dunque, in imputabilità,
sicché ha ben ragione chi, tra le altre critiche radicali, ha sollevato il problema
dell’incapacità di agire, osservando che «non ci si può accontentare del
(21)
richiamo al piuttosto remoto art. 2046 c.c.» . Per parte sua, Emilio Betti, di
cui l’Irti si proclama allievo, a proposito del contiguo problema dei rapporti
contrattuali di fatto, ammoniva come sarebbe affrettato indurre che, non
potendosi in tal caso rinvenire una dichiarazione di volontà, non avrebbe
alcuna rilevanza la capacità d’agire: «una veduta siffatta sarebbe semplicistica
ed erronea al pari dell’altra veduta, secondo cui nei c.d. “atti reali” non
(22)
sarebbe richiesta la capacità d’agire, ma solo la c.d. volontà naturale» .

(20)
IRTI,Scambi, cit., p. 361 n.15 e «E’ vero, ma…», cit., p. 277.
(21)
OPPO, op. cit., p. 531.
(22)
BETTI, Sui cosiddetti rapporti contrattuali di fatto, in Jus, 1957, p. 368.
Semplicistica ed erronea non sarebbe stata allora, per Emilio Betti, anche
l’irtiana tesi? E’ un dubbio, certo, ma più che legittimo, tale che l’allievo del
maestro avrebbe dovuto avvertire. Ma quali, poi, tra le norme che disciplinano
il contratto, potrebbero essere estese in via analogica? L’Irti non si applica al
problema, ma, di certo, nessuna di quelle che presuppongono l’accordo, in
punto di formazione, mentre dubbi potrebbero sollevarsi per la validità e
efficacia, anche considerando che non si sarebbe in presenza di attività
negoziali, sia pure unilaterali. Se, ad esempio, quella certa merce non potesse
essere venduta nei grandi magazzini, perché riservata alle farmacie, saranno
nulli per contrarietà a norme imperative i due singoli atti unilaterali? E, in caso
positivo, sarebbe necessario impugnarli entrambi o sarebbe sufficiente
impugnarne uno solo? Se la merce è viziata, che cosa si risolve? Se appare una
via di fuga non brillante quella di osservare che gli acquisti fatti dai minori
non sono mai impugnati per incapacità di agire, sicché ci si può anche
(23)
accontentare della capacità naturale , perché allora potrebbe anche non
(24)
pretendersi nemmeno questa pur ridotta capacità , non può sicuramente
accettarsi l’idea che l’intera disciplina dello scambio senza accordo sia
inespressa e fonte di incertezze. Questo esito finale è tanto più pericoloso se si
considera che, tra questi scambi, l’Irti inserisce anche quelli che sono il
risultato di contratti conclusi mediante moduli o formulari, cioè di quei
contratti non solo diffusissimi, ma anche di notevole portata economica.
7. Lo scritto in replica alle critiche di Massimo Bianca, in linea con
quelle già avanzate in precedenza da Giorgio Oppo, non introduce nuovi
elementi di valutazione, limitandosi l’Irti a ribadire la propria tesi, peraltro con
inusuale e immotivata acrimonia (25). In particolare, all’osservazione di Bianca,

(23)
IRTI, Scambi, cit., p. 361 n.15.
(24)
OPPO, op. cit., p. 531.
(25)
IRTI, Lo scambio di foulards, cit., p. 602.
secondo cui lo scambio pretende l’accordo, tant’è che «il contratto non si
perfeziona se, ad es., la cliente scelga il foulard che si trova sul bancone
(26)
ignorando che esso appartiene alla commessa» , l’Irti obietta che, in tal
caso, «la commessa “parla” e dice ben forte la sua proprietà, mentre gli altri
(27)
foulards sono muti oggetti» . E così si scioglie uno degli enigmi della tesi
irtiana, perché apprendiamo finalmente che le commesse dei grandi magazzini
posseggono il dono della parola, sia pure non già, secondo l’Irti, per fungere
da intermediarie nella conclusione dei contratti per conto terzi, come in effetti
è, ma, tutto al contrario, per rifiutare di concluderne in proprio. Ma l’Irti
prende spunto dal foulard per esibirsi in una chiusa dello scritto a tal punto
forzata, da costringerlo anche a commettere errori. Egli afferma che lo scritto
di Bianca «suscita un’invida tenerezza. La suscita soprattutto in chi non
vorrebbe strappare l’ondoso foulard dal collo di Tamara di Lempicka, che
(28)
guida la verde Bugatti, e sciuparlo nella grigia disputa di due giuristi» .
Sono totalmente d’accordo sul grigiore delle dispute tra giuristi, specie quando
uno di loro cammina sui trampoli, ma lo sono assai meno sulla storpiatura del
cognome di Tamara (ribattezzata di anziché de Lempicka) e sullo scambio
(ancora lui!) della debordante sciarpa-mantello, che invade l’interno della
Bugatti verde, indossata da Tamara nell’autoritratto del 1932, con un banale
foulard da commessa, che l’Irti, viceversa, le pone al collo. Sul piano tecnico,
poi, l’interesse suscitato dalla replica è in due righe, là dove si legge che è
necessario distinguere «fattispecie ed effetto, cioè atti unilaterali delle parti e
“rapporti” ad essi collegati. Il rapporto, come nesso di posizioni soggettive,
può ricollegarsi a contratti od [sic!] a coppie di atti unilaterali» (29). In effetti da
(26)
BIANCA, Diritto civile, cit., p. 44 n.140
(27)
IRTI, op. ult. cit., p. 603. BIANCA, Acontrattualità, cit., p. 1125 n. 22 replica che il contratto non si
concluderebbe pur se la commessa tacesse, perché mancherebbe l’offerta da accettare. Secondo B., infatti,
l’esposizione della merce con il prezzo non sarebbe, come a me pare, invito ad offrire.
(28)
Id., op. cit., p. 604.
(29)
Id., op. cit., p. 602.
due atti unilaterali «solitari», dovrebbero nascere due rapporti, di cui però non
si comprende il senso. Se i rapporti sono due, indipendenti, distinti e scaturenti
da altrettanto indipendenti e distinti atti unilaterali, ci sarebbero forse due
scambi? Questa sorta di miracolo di Cana avrebbe in verità meritato un
maggiore approfondimento, che, viceversa, ci viene subito negato, perché, dal
plurale, si trapassa immediatamente, a distanza di tre parole e un punto, al
singolare, sicché i “rapporti” diventano “il rapporto”. Ma anche se ridotto ad
unità, il rapporto che nasce, alternativamente, da un contratto o da una coppia
di atti unilaterali, che però rimangono distinti e distanti, perché si combinano
bensì, ma senza fondersi in accordo, è, in termini giuridici, una costruzione
che dire ardua è dire poco, specie se si discende dai metaforici trampoli e si sta
con i piedi per terra, dando alla merce solo quel che è della merce. Sennonché
questa costruzione, se rocambolesca in chiave giuridica, non lo è qualora, alla
vicenda giuridica, si sostituisca, mutatis mutandis, quella amorosa, là dove, a
causa del narcisismo degli amanti (ciascuno ama la propria immagine
(30)
proiettata e riflessa dall’amato e dall’amata), la coppia non si fonde . Ha
così sentenziato, con profonda cognizione di causa, la fatale donna (parlante e
scrivente) che fece invaghire di sé Nietzsche, Rée, Tönnies, Wedekind, Rilke
e, si vociferava, lo stesso Freud: «un eterno rimanere estranei nell’eterna
vicinanza è dunque il senso più pertinente ed inalienabile di ogni amore in
(31)
quanto tale» . La coppia di amanti, quindi, si atteggia come l’irtiana coppia
di atti unilaterali «solitari». E lo scambio? Lo scambio amoroso egualmente
avviene, con il contatto fisico, tattile, direbbe l’Irti, o almeno visivo, specie
per i voyeurs (possibilmente muti) e per i platonici sublimatori delle pulsioni,
in perfetto parallelismo con l’irtiano contatto reale o per immagini dell’homo
videns, sed non loquens. Il corpo, allora, è deus ex machina della vicenda
(30)
GAZZONI, Amore e diritto, Napoli, 1994, p. 65.
(31)
SALOME’, Riflessioni sull’amore, Roma, 1993, p. 36.
amorosa, così come la merce è deus ex machina di quella acquisitiva di beni.
Forse le faticate meditazioni dell’Irti, anche per dar loro un qualche
significato, vanno interpretate così, come una sottile metafora dell’amore.  

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