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Canto I

Il Canto si apre con il proemio alla III Cantica, che si distende per ben 36 versi e risulta così di ampiezza
tripla rispetto al proemio del Purgatorio (I, 1-12) e addirittura quadrupla rispetto a quello dell'Inferno (II, 1-
9): la maggiore ampiezza e solennità si spiega con l'accresciuta importanza della materia trattata, dal
momento che il poeta si accinge a descrivere il regno santo come mai nessuno prima di lui aveva fatto e
dovrà misurarsi con la difficoltà di riferire cose difficili anche solo da ricordare, anticipando il tema della
visione inesprimibile che tanta parte avrà nel Paradiso. Ciò spiega anche perché Dante debba invocare
l'assistenza di Apollo oltre che delle Muse, chiedendo al dio pagano (che naturalmente è personificazione
dell'ispirazione divina) di aiutarlo nell'ardua impresa e consentirgli di cingere l'agognato alloro poetico:
Apollo dovrà ispirarlo con lo stesso canto con cui vinse il satiro Marsia che lo aveva sfidato, in maniera
analoga a Calliope che aveva sconfitto le Pieridi (Purg., I, 9-12) e sottolineando il fatto che la poesia di Dante
dovrà essere ispirata da Dio e non un folle tentativo di gareggiare con la divinità nella rappresentazione di
ciò che supera i limiti umani (ciò sarà ribadito anche nell'esordio del Canto seguente, vv. 7-9). Dante
ribadisce anche il fatto che pochi, ormai, desiderano l'alloro, per cui la sua ambizione dovrebbe rallegrare
Apollo ed essere di stimolo ad altri poeti dopo di lui perché seguano il suo esempio, nel che c'è forse una fin
troppo modesta excusatio propter infirmitatem, dal momento che più volte nella Cantica egli esprimerà
l'orgoglio di essere il primo a percorrere questa strada poetica.

Dopo l'ampia e complessa descrizione astronomica che indica la stagione primaverile e l'ora del
mezzogiorno (è questa l'interpretazione più ovvia, mentre è improbabile che il poeta intenda l'alba), Dante
vede Beatrice fissare il sole e imita il suo gesto, sperimentando l'accresciuto acume dei suoi sensi nell'Eden.
I due hanno iniziato a salire verso la sfera del fuoco che divide il mondo terreno dal Cielo della Luna, anche
se Dante non se n'è ancora reso conto e ha notato solo l'aumento straordinario della luce: il poeta si sente
trasumanar, diventare qualcosa di più che un essere umano e non può descrivere questa sensazione se non
con l'esempio ovidiano del pastore Glauco, che si tramutò in una creatura acquatica e si gettò in mare
dicendo addio alla Terra (come vedremo, Dante ricorrerà spesso nella Cantica a similitudini mitologiche per
rappresentare situazioni prive di termini di paragone «terreni»). L'aumento progressivo della luce e il dolce
suono con cui ruotano le sfere celesti accendono in Dante il desiderio di capirne la ragione e Beatrice è
sollecita a spiegargli che i due stanno salendo verso il Cielo, come un fulmine che cade dall'alto contro la
sua natura; ciò naturalmente suscita un nuovo dubbio nel poeta che si chiede come sia possibile per lui,
dotato di un corpo in carne e ossa, salire contro la legge di gravità, dubbio che sarà sciolto da Beatrice con
una complessa spiegazione che occupa l'ultima parte del Canto. La donna assume fin dall'inizio
l'atteggiamento che avrà sempre nella Cantica, ovvero di maestra che sospira e sorride delle ingenue
domande del discepolo e fornisce spiegazioni di carattere dottrinale: anche qui, infatti, la sua spiegazione
non chiarisce il dubbio di Dante di natura fisica (come fa un corpo grave a trascendere i corpi lievi, l'aria e il
fuoco) ma inquadra il problema nell'ambito dell'ordinamento generale dell'Universo, collegandosi ai versi
iniziali che descrivevano il riflettersi della luce divina di Cielo in Cielo. Beatrice spiega infatti che tutte le
creature, razionali e non, fanno parte di un tutto armonico che è stato creato da Dio e ordinato in modo
preciso, così che ogni cosa tende al suo fine attraverso strade diverse, come navi che giungono in porto
solcando il gran mar de l'essere. Ciò vale per le cose inanimate, come il fuoco che tende a salire verso l'alto
per sua natura e la terra che è attratta verso il centro dell'Universo, ma anche per gli esseri intelligenti, la
cui anima razionale tende naturalmente a muoversi verso Dio; ovviamente essi sono dotati di libero
arbitrio, per cui può avvenire che anziché volgersi in quella direzione siano attratti dai beni terreni, ma
questo non è il caso di Dante che ha ormai purificato la sua anima nel viaggio attraverso Inferno e
Purgatorio. Egli tende dunque verso Dio che risiede nell'Empireo e ciò è un atto del tutto naturale, come
quello di un fiume che scorre dall'alto verso il basso, mentre sarebbe innaturale per Dante restare a terra,
come un fuoco la cui fiamma non tendesse verso l'alto. Tale spiegazione di natura metafisica anticipa quella
che sarà la cifra stilistica di gran parte della III Cantica, in cui spesso i dubbi scientifici di Dante verranno
risolti con argomenti dottrinali e verrà ribadito che la sola filosofia umana è di per sé insufficiente a capire i
misteri dell'Universo, proprio come lo stesso Virgilio aveva detto più volte rimandando alle chiose di
Beatrice-teologia: ciò sarà evidente anche nella spiegazione circa le macchie lunari al centro del Canto
seguente, in quanto laddove la ragione umana non può arrivare deve intervenire la fede e dunque Dante
deve credere che sta salendo con tutto il corpo in Paradiso, non essendo in grado di comprenderlo.

È interessante inoltre che Beatrice usi per tre volte l'immagine del fuoco per spiegare il movimento di
Dante, prima paragonandolo a un fulmine che corre verso la Terra (mentre lui corre verso il Cielo), poi
spiegando che il fuoco tende a salire verso il Cielo della Luna (cioè verso la sfera del fuoco, dove è diretto
Dante) e infine paragonando il fulmine che cade in basso contro la sua natura a un uomo che, altrettanto
forzatamente, è attratto verso i beni terreni. La luce come elemento visivo domina largamente l'episodio,
segnando il passaggio di Dante dalla dimensione terrena a quella celeste, anche attraverso l'immagine del
sole che è evocato nella spiegazione astronomica, poi indicato come oggetto dello sguardo di Beatrice,
infine chiamato in causa con l'immagine di un secondo sole che sembra illuminare col suo splendore il cielo:
il viaggio di Dante verso la luce è ovviamente il suo percorso verso Dio e tale immagine si ricollega a quella
dei versi iniziali in cui la gloria divina si riverberava in tutto l'Universo, e dove si diceva che Dante è giunto
nel Cielo che più de la sua luce prende, ovvero quell'Empireo verso il quale ha iniziato a salire in modo
prodigioso.

Note e passi controversi

Il Parnaso citato al v. 16 è il monte della Grecia centrale che, secondo il mito, era sede di Apollo e aveva una
doppia cima; nel Medioevo si diffuse l'errata convinzione (attestata da Isidoro di Siviglia, Etym., XIV, 8) che
le due cime fossero il Citerone e l'Elicona, abitate rispettivamente da Apollo e dalle Muse, mentre in realtà
l'Elicona è un monte diverso. È possibile che qui Dante cada nella stessa confusione e indichi l'un giogo
come il Citerone e l'altro con l'Elicona.

Il satiro Marsia (vv. 20-21) è protagonista di un racconto di Ovidio (Met., VI, 382 ss.), in cui sfida Apollo in
una gara musicale e, vinto, viene scorticato vivo dal dio.

Apollo è detto delfica deità (v. 32) perché molto venerato anticamente a Delfi, mentre l'alloro è definito
fronda / peneia in riferimento al mito di Dafne, la figlia di Peneo trasformatasi in alloro per sfuggire ad
Apollo (Met., I, 452 ss.).

Cirra (v. 36) era una città sul golfo di Corinto collegata con Delfi e indicata per designare Apollo stesso.

La complessa spiegazione astronomica dei vv. 37-42 è stata variamente interpretata dai commentatori,
anche se probabilmente indica che è l'equinozio di primavera e il sole è in congiunzione con l'Ariete. I
quattro cerchi sono forse l'Equatore, l'Eclittica, il Coluro equinoziale e l'orizzonte di Gerusalemme e
Purgatorio, che si intersecano formando tre croci (benché non perpendicolari). I vv. 43-45 indicano con ogni
probabilità che è mezzogiorno, come detto in Purg., XXXIII, 104, e non l'alba come alcuni hanno ipotizzato
(nell'emisfero sud è giorno pieno, mentre in quello opposto è notte).

Il pelegrin del v. 51 può essere il pellegrino che torna in patria, ma anche il falco pellegrino.

L'aumento della luce ai vv. 61-63 indica che Dante si avvicina alla sfera del fuoco, che divide il I Cielo
dall'atmosfera.

La similitudine ai vv. 67-69 è tratta da Met., XIII, 898 ss. e si riferisce al pescatore della Beozia Glauco che,
avendo notato che i pesci pescati mangiavano un'erba che li faceva balzare di nuovo in acqua, fece lo stesso
e si trasformò in una creatura acquatica, gettandosi in mare.

Il sito da cui fugge la folgore (v. 92) è sicuramente la sfera del fuoco, verso cui invece Dante si avvicina.

Il ciel del v. 122 è l'Empireo, nel quale ruota velocissimo il Primo Mobile.
Canto III

Ancora nel I Cielo della Luna. Apparizione degli spiriti difettivi: colloquio con Piccarda Donati. Piccarda
spiega i gradi di beatitudine e l'inadempienza del voto. Viene mostrata l'anima dell'imperatrice Costanza.

È il primo pomeriggio di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Apparizione delle anime beate (1-33): Beatrice ha svelato a Dante col suo ragionamento logico la verità
circa l'origine delle macchie lunari, quindi il poeta leva il capo per rivolgersi alla donna, ma un'improvvisa
visione attira il suo sguardo e lo distoglie dal suo proposito. Dante vede le figure di spiriti pronti a parlare,
talmente evanescenti da sembrargli il riflesso di un'immagine sul pelo dell'acqua, così il poeta cade
nell'errore opposto a quello che indusse Narciso a innamorarsi della propria immagine riflessa. Infatti Dante
si volta per vedere le figure reali che pensa siano dietro di lui, senza però vedere nulla; poi guarda Beatrice,
che sorride del suo errore. La donna lo invita a non stupirsi del fatto che lei rida al suo ingenuo pensiero e
spiega che le figure che vede sono creature reali, relegate in questo Cielo per non aver rispettato il voto.
Beatrice lo invita a parlare liberamente con loro, in quanto la luce di Dio che li illumina non gli consente di
allontanarsi dalla verità.

Piccarda Donati (34-57): Dante si rivolge all'anima che gli sembra più desiderosa di parlare e le chiede di
rivelare il suo nome e la condizione degli altri beati, appellandosi ai raggi di vita eterna che lo spirito fruisce.
L'anima risponde con occhi sorridenti e dichiara che la carità che li accende fa sì che rispondano volentieri
alle giuste preghiere: rivela dunque di essere stata in vita una suora e se Dante la guarderà meglio, la
riconoscerà come Piccarda Donati. Rivela di essere posta lì con gli altri spiriti difettivi e di essere relegata nel
Cielo più basso, quello della Luna, benché lei e gli altri gioiscano di partecipare all'ordine voluto da Dio. Essi
hanno il grado più basso di beatitudine perché i loro voti furono non adempiuti o trascurati in parte.

Spiegazione dei vari gradi di beatitudine (58-90): Dante risponde e spiega a Piccarda che nel loro aspetto
risplende qualcosa di divino che li rende diversi da come erano in vita e che questo gli ha impedito di
riconoscerla subito, poi chiede se lei o gli altri beati desiderino acquisire un grado più elevato di
beatitudine. Piccarda sorride un poco con le altre anime, poi risponde lietamente e spiega che la carità
placa ogni loro desiderio e li induce a volere solo ciò che hanno e non altro. Se desiderassero essere in un
grado superiore di beatitudine, i loro desideri sarebbero discordi dalla volontà di Dio che li colloca lì, il che è
impossibile in Paradiso dove è inevitabile essere in carità. Anzi, aggiunge, l'essere beati comporta
necessariamente l'adeguarsi alla volontà divina, per cui la posizione occupata dai beati in Paradiso trova
l'approvazione di Dio come di tutti i beati. Questo dà loro la pace, perché Dio è il termine ultimo al quale si
muovono tutte le creature dell'Universo.

L'inadempienza del voto. Costanza d'Altavilla (91-120): Piccarda e Costanza. Dante ha compreso il fatto che
tutti i beati godono della felicità eterna, anche se in grado diverso, ma se la risposta di Piccarda ha sciolto
un suo dubbio ne ha acceso subito un altro, per cui il poeta le chiede quale sia il voto che lei non ha portato
a compimento. La beata spiega che un Cielo più alto ospita santa Chiara d'Assisi, fondatrice nel mondo
dell'Ordine delle Clarisse alla cui regola molte donne si votano e prendono il velo. Piccarda, da giovinetta,
indossò quell'abito e pronunciò i voti monastici, ma degli uomini più avvezzi al male che al bene la rapirono
dal convento e la obbligarono a una vita diversa. Piccarda indica poi un'anima splendente alla sua destra,
che ha vissuto la stessa esperienza poiché fu suora e le fu tolto forzatamente il velo, anche se in seguito
rimase in cuore fedele alla regola monastica: è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, che da Enrico VI generò
Federico II di Svevia.

Sparizione delle anime (121-130): Alla fine delle sue parole, Piccarda intona l'Ave, Maria e pian piano
svanisce, come un oggetto che cade nell'acqua profonda. Dante la segue con lo sguardo quanto può, poi
torna a osservare Beatrice che però col suo splendore abbaglia la vista del poeta, così che i suoi occhi
dapprima non riescono a sopportare tanto fulgore. Questo rende Dante più restio a domandare.

Interpretazione complessiva

Il Canto presenta la prima schiera di beati incontrati da Dante nel I Cielo e la protagonista assoluta è
Piccarda Donati, che spiega al poeta il motivo per cui lei e le altre anime sono rilegate nel Cielo più basso e
qual è la legge che regola i diversi gradi di beatitudine in Paradiso. La collocazione in Cielo di Piccarda era
già stata preannunciata dal fratello Forese in Purg., XXIV, 13-15 («La mia sorella, che tra bella e buona / non
so qual fosse più, triunfa lieta / ne l'alto Olimpo già di sua corona»), in contrapposizione alla futura
dannazione di Corso, su domanda diretta di Dante che quindi conosceva la giovane; ciò è confermato in
questo episodio, nel quale Dante non riconosce subito Piccarda e se ne scusa adducendo il diverso aspetto
di queste anime rispetto a quello che avevano in vita, per cui non è stato a rimembrar festino. In effetti gli
spiriti difettivi, che in vita non portarono a compimento il voto e perciò godono del più basso grado di
felicità eterna, sono gli unici beati a mostrarsi a Dante con un'immagine vagamente umana, talmente
evanescente da sembrare riflessi nell'acqua: Dante ricorre a una doppia preziosa similitudine per descrivere
queste figure diafane, quella di volti riflessi su un vetro o su uno specchio d'acqua tersa e quella di perle
bianche che si distinguono appena sulla bianca fronte di una giovane donna (ciò rientrava nella moda del
tempo ed era tipico delle giovani aristocratiche, per cui l'immagine aggiunge raffinatezza alla scena). Il
ricorso alla mefatora dell'acqua non è naturalmente nuovo, poiché Dante ha già paragonato la descrizione
del Paradiso a un viaggio per mare (II, 1 ss.; e Beatrice aveva parlato di gran mar de l'essere in I, 113) e più
avanti la scomparsa di Piccarda e degli altri beati sarà assimilata a quella di un corpo che affonda nell'acqua
profonda, così come gli spiriti del Cielo di Mercurio sembreranno pesci che si avvicinano al pelo dell'acqua
per prendere il cibo (V, 100-105).

Beatrice dichiara che gli spiriti difettivi sono confinati in questo I Cielo per manco di voto, anche se in realtà
lei stessa spiegherà più avanti che i beati risiedono tutti nell'Empireo e semplicemente appaiono a Dante
nel Cielo il cui influsso hanno subìto in vita: il poeta chiede infatti a Piccarda di rivelare il proprio nome e la
sorte sua e degli altri beati, per cui la giovane si presenta e spiega che essi godono il grado più basso di
beatitudine, proprio perché indotti o forzati in vita a non rispettare il proprio voto, come nel suo caso il voto
di castità seguente alla monacazione. Questo naturalmente accende in Dante la curiosità di sapere se i
beati desiderino un più alto grado di beatitudine e la domanda fa sorridere le anime, dal momento che un
simile desiderio sarebbe impossibile in Paradiso. La risposta di Piccarda precisa una legge che coinvolge
tutti i beati del terzo regno, ovvero il fatto che essi ardono della virtù di carità e quindi, grazie ad essa, non
possono che conformarsi alla volontà di Dio che li cerne, li colloca in quella posizione; se i loro desideri
fossero discordi da quelli divini ciò sarebbe incompatibile con la loro condizione stessa di beati, proprio
perché verrebbe meno l'ardore di carità che è premessa indispensabile alla beatitudine (secondo la filosofia
scolastica la carità comportava l'adeguamento alla volontà dell'oggetto amato). Il discorso di Piccarda è
conciso e stringente nella sua logica e si avvale di un preciso linguaggio filosofico, che include latinismi puri
(necesse, beato esse) e tecnicismi (formale, nel senso di causa essenziale) che saranno usati spesso dal
poeta nel corso della III Cantica; l'idea stessa della gradazione della beatitudine e della divisione dei beati in
varie schiere, se da un lato risponde a un criterio analogo rispetto a Inferno e Purgatorio, dall'altro risponde
alla trattazione che ne dà san Tommaso e che verrà ripresa nel Canto seguente, specie nel tentativo di
correggere l'opinione espressa da Platone nel Timeo riguardo alla collocazione delle anime dopo la morte.

L'ultima parte del Canto è dedicata a Piccarda personaggio, la fanciulla conosciuta da Dante a Firenze e
costretta dal fratello Corso a sposarsi contro il suo volere, rapita de la dolce chiostra ad opera di Corso
medesimo e dei suoi complici, definiti da lei uomini... a mal più ch'a bene usi (con sereno distacco dalle
vicende terrene e senza l'ombra di rancore verso l'ingiustizia patita); la conclusione della sua vicenda
personale è affidata a un verso lapidario quanto allusivo, Iddio si sa qual poi mia vita fusi, che è stato
giustamente accostato ad altre celebri chiuse di personaggi danteschi, da Ulisse (Inf., XXVI, infin che 'l mar
fu sovra noi richiuso), al conte Ugolino (XXXIII, 75 Poscia, più che 'l dolor poté 'l digiuno), senza contare il
manzoniano La sventurata rispose relativo alla monaca di Monza e per il quale il grande romanziere
potrebbe essersi ispirato proprio a questo passo. Piccarda rievoca la sua vicenda umana per spiegare quale
voto non ha portato a termine e per farlo indica a Dante due diverse donne, che costituiscono due diversi
esempi di devozione religiosa: la prima è santa Chiara d'Assisi, la fondatrice delle Clarisse alla cui regola
Piccarda si era votata, mentre la seconda è l'imperatrice Costanza d'Altavilla, la madre di Federico II di
Svevia che ha subìto il suo stesso destino e ora risplende accanto a lei in questo Cielo. Dante accoglie la
leggenda della monacazione di Costanza e dell'obbligo impostole di sposare Enrico VI, matrimonio da cui
era nato Federico II (accusato dalla pubblicistica guelfa di essere l'Anticristo in quanto frutto di un'unione
peccaminosa, come del resto suo figlio Manfredi); il fatto era totalmente falso, tuttavia non impedisce a
Dante di collocare la donna in Paradiso come, del resto, Manfredi in Purgatorio, a significare che la via della
salvezza non è necessariamente legata alle vicende terrene o alla condanna della Chiesa, come più volte è
stato affermato nella II Cantica e sarà ancora ribadito nella III, specie nei Canti dedicati al problema della
giustizia. La spiegazione di Piccarda accende due nuovi dubbi in Dante, relativi all'inadempienza del voto e
alla collocazione effettiva dei beati in Paradiso, che saranno spiegati da Beatrice nei Canti IV-V, mentre alla
fine di questo il fulgore con cui la guida di Dante abbaglia la sua vista lo rende a dimandar più tardo, proprio
come lo sarà all'inizio del successivo perché incerto su quale domanda rivolgerle per prima.

Canto VI

Ancora nel II Cielo di Mercurio. Giustiniano si presenta a Dante. Digressione sulla storia dell'Impero
romano. Invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini. Condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena.
Presentazione di Romeo di Villanova.

È la sera di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300.

Giustiniano narra la sua vita (1-27): Giustiniano risponde alla prima domanda di Dante, spiegando che dopo
che Costantino aveva portato l'aquila imperiale (la capitale dell'Impero) a Costantinopoli erano passati più
di duecento anni, durante i quali l'uccello sacro era passato di mano in mano giungendo infine nelle sue.
Egli si presenta dunque come imperatore romano e dice di chiamarsi Giustiniano, colui che su ispirazione
dello Spirito Santo riformò la legislazione romana. Prima di dedicarsi a tale opera egli aveva aderito
all'eresia monofisita, credendo che in Cristo vi fosse solo la natura divina, ma poi papa Agapito lo aveva
ricondotto alla vera fede e a quella verità che, adesso, egli legge nella mente di Dio. Non appena
l'imperatore fu tornato in seno alla Chiesa, Dio gli ispirò l'alta opera legislativa e si dedicò tutto ad essa,
affidando le spedizioni militari al generale Belisario che ebbe il favore del Cielo.

Ragioni della digressione sul'Impero (28-36): Fin qui Giustiniano avrebbe risposto alla prima domanda di
Dante, ma la sua risposta lo obbliga a far seguire un'aggiunta, affinché il poeta si renda conto quanto
sbagliano coloro che si oppongono al simbolo sacro dell'aquila (i Guelfi) e coloro che se ne appropriano per
i loro fini (i Ghibellini). Il simbolo imperiale è degno del massimo rispetto, e ciò è iniziato dal primo
momento in cui Pallante morì eroicamente per assicurare la vittoria di Enea.

Storia dell'aquila: dai re alla Repubblica (37-54): Giustiniano ripercorre le vicende storiche dell'aquila
imperiale, da quando dimorò per trecento anni in Alba Longa fino al momento in cui Orazi e Curiazi si
batterono fra loro. Seguì il ratto delle Sabine, l'oltraggio a Lucrezia che causò la cacciata dei re e le prime
vittorie contro i popoli vicini a Roma; in seguito i Romani portarono l'aquila contro i Galli di Brenno, contro
Pirro, contro altri popoli italici, guerre che diedero gloria a Torquato, a Quinzio Cincinnato, ai Deci e ai Fabi.
L'aquila sbaragliò i Cartaginesi che passarono le Alpi al seguito di Annibale, là dove nasce il fiume Po; sotto
le insegne imperiali conobbero i loro primi trionfi Scipione e Pompeo, e l'aquila parve amara al colle di
Fiesole, sotto il quale nacque Dante.
Storia dell'aquila: l'età imperiale (55-96): Nel periodo vicino alla nascita di Cristo, l'aquila venne presa in
mano da Cesare, che realizzò straordinarie imprese in Gallia lungo i fiumi Varo, Reno, Isère, Loira, Senna,
Rodano. Cesare passò poi il Rubicone e iniziò la guerra civile con Pompeo, portandosi prima in Spagna, poi a
Durazzo, vincendo infine la battaglia di Farsàlo e costringendo Pompeo a riparare in Egitto. Dopo una breve
deviazione nella Troade, sconfisse Tolomeo in Egitto e Iuba, re della Mauritania, per poi tornare in
Occidente dove erano gli ultimi pompeiani. Il suo successore Augusto sconfisse Bruto e Cassio, poi fece
guerra a Modena e Perugia, infine sconfisse Cleopatra che si uccise facendosi mordere da un serpente.
Augusto portò l'aquila fino al Mar Rosso, garantendo a Roma la pace e facendo addirittura chiudere per
sempre il tempio di Giano. Ma tutto ciò che l'aquila aveva fatto fino ad allora diventa poca cosa se si guarda
al terzo imperatore (Tiberio), poiché la giustizia divina gli concesse di compiere la vendetta del peccato
originale, con la crocifissione di Cristo. Successivamente con Tito punì la stessa vendetta, con la conquista di
Gerusalemme; poi, quando la Chiesa di Roma fu minacciata dai Longobardi, fu soccorsa da Carlo Magno.

Invettiva contro Guelfi e Ghibellini (97-111): Terminata la sua digressione, Giustiniano invita Dante a
giudicare l'operato di Guelfi e Ghibellini che è causa dei mali del mondo: i primi si oppongono al simbolo
imperiale dell'aquila appoggiandosi ai gigli d'oro della casa di Francia, i secondi se ne appropriano per i loro
fini politici, per cui è arduo stabilire chi dei due sbagli di più. I Ghibellini dovrebbero fare i loro maneggi
sotto un altro simbolo, poiché essi lo separano dalla giustizia; Carlo II d'Angiò, d'altronde, non creda di
poterlo abbattere coi suoi Guelfi, dal momento che l'aquila coi suoi artigli ha scuoiato leoni più feroci di lui.
I figli spesso pagano le colpe dei padri e Dio non cambierà certo il simbolo dell'aquila con quello dei gigli
della monarchia francese.

Condizione degli spiriti nel II Cielo (112-126): Giustiniano risponde alla seconda domanda di Dante e spiega
che il Cielo di Mercurio ospita gli spiriti che in vita hanno perseguito onore e fama, per cui quando i desideri
sono rivolti alla gloria terrena è inevitabile che si ricerchi in minor misura l'amor divino. Tuttavia, spiega
Giustiniano, lui e gli altri beati sono lieti della loro condizione, in quanto i premi sono commisurati al loro
merito e la giustizia divina è tale che non possono nutrire alcun pensiero negativo. Voci diverse producono
dolci melodie, e così i vari gradi di beatitudine producono una dolcissima armonia nelle sfere celesti.

Romeo di Villanova (127-142): Giustiniano indica a Dante l'anima di Romeo di Villanova, che splende in
questo stesso Cielo e la cui grande opera fu sgradita ai Provenzali, che tuttavia hanno pagato cara la loro
ingratitudine nei suoi confronti. Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, ebbe quattro figlie e grazie
all'opera dell'umile Romeo tutte furono regine; poi le parole invidiose degli altri cortigiani lo indussero a
chiedere conto del suo operato a Romeo, che aveva accresciuto le rendite statali. Egli se n'era andato via,
vecchio e povero, e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a chieder l'elemosina, lo loderebbe
assai più di quanto già non faccia.

Interpretazione complessiva

Il Canto è occupato interamente dal discorso dell'imperatore Giustiniano (caso unico nel poema) che
risponde alle due domande che Dante gli ha posto alla fine del precedente, rivelando cioè la sua identità e
spiegando la condizione degli spiriti del II Cielo: nella parte centrale fa seguire alla prima risposta una
«giunta» che è una digressione sulla storia dell'Impero romano e della sua funzione provvidenziale, per cui
il tema del Canto è politico come il VI di ogni Cantica (secondo una gradazione crescente, da Firenze,
all'Italia, all'Impero). La ragione della lunga digressione è mostrare, nelle intenzioni del personaggio, la
cattiva condotta di Guelfi e Ghibellini nei confronti dell'aquila simbolo dell'Impero, in quanto i primi vi si
oppongono e i secondi se ne appropriano per i loro fini politici, causando molti dei mali politici che
affliggono l'Italia e l'Europa del tempo; soluzione a questi mali è, secondo Dante, l'Impero universale,
ovvero un'autorità che imponga il rispetto delle leggi e assicuri a tutti la giustizia, ponendo fine alla
situazione di anarchia e instabilità che caratterizza soprattutto l'Italia (è lo stesso motivo presente nel VI del
Purgatorio, con esplicito riferimento alle leggi emanate da Giustiniano e non fatte rispettare). Proprio
questo spiega, forse, perché Dante affidi a Giustiniano l'alta celebrazione dell'Impero provvidenziale,
nonostante egli fosse un monarca dell'Impero orientale e avesse regnato su Costantinopoli e non su Roma:
egli aveva emanato il Corpus iuris civilis che fu poi base del diritto di tutto il mondo romanizzato del
Medioevo, un'opera giuridica immensa a cui Dante assegnava un alto valore, oltre al fatto che Giustiniano
aveva tentato di ricostituire l'antica unità dell'Impero con la riconquista di Roma e dell'Italia. A tale riguardo
non è da escludere che il poeta biasimasse Costantino per aver portato la capitale a Bisanzio, facendo fare
all'aquila un volo contr'al corso del ciel e quindi contro natura, specie perché nel Medioevo si pensava che
ciò fosse avvenuto in seguito alla famigerata donazione che per Dante era causa dei mali della Chiesa (va
detto, in ogni caso, che Costantino figura tra i beati del Cielo di Giove, gli spiriti giusti che formano proprio
la figura dell'aquila, quindi l'eventuale condanna non va intesa in senso troppo netto).

Quale che sia il motivo della scelta di Dante, il poeta mette in bocca a Giustiniano un alto e solenne discorso
che inizia con la prosopopea dell'imperatore che si presenta come l'autore della riforma legislativa e della
vittoriosa spedizione in Occidente, sia pur affidata al generale Belisario (i contrasti con quest'ultimo
vengono taciuti dal poeta), opere che hanno goduto entrambe del favore divino e, anzi, l'emanazione del
Corpus sarebbe stata ispirata addirittura dallo Spirito Santo. Il volere divino ha determinato anche la
creazione dell'Impero, il cui valore provvidenziale è al centro di tutta la successiva digressione: Giustiniano
ripercorre le vicende storiche di Roma attraverso il volo simbolico dell'aquila, simbolo politico e militare del
dominio romano, dalle mitiche origini troiane (evocate attraverso il riferimento a Enea, l'antico che Lavina
tolse, e il sacrificio di Pallante), al periodo monarchico, fino alla creazione della Repubblica, citando i più
rappresentativi personaggi della storia romana (fonte principale, se non l'unica, è sicuramente Livio). Il
punto finale di tutto questo processo è ovviamente la nascita del principato con Cesare e Augusto, voluta
da Dio per unificare il mondo in un'unica legge e favorire così la venuta di Cristo: dopo la celebrazione di
coloro che per Dante erano i due primi imperatori, vi è quella del terzo (Tiberio) sotto il cui dominio Cristo
viene crocifisso, evento centrale nella storia umana e che ha la funzione di punire il peccato originale; in
seguito tale punizione viene a sua volta punita da Tito, artefice della distruzione di Gerusalemme che Dante
gli attribuisce quando era già imperatore, mentre in realtà ciò avvenne sotto Vespasiano (tale affermazione
susciterà i dubbi del poeta che saranno chiariti da Beatrice nel Canto seguente). Il disegno provvidenziale si
esaurisce qui, poiché negli anni seguenti l'Impero inizia il suo lento declino culminato proprio nel
trasferimento della capitale a Bisanzio e nella successiva divisione tra Oriente e Occidente, cui sarà
Giustiniano a porre rimedio sia pure in modo effimero; da qui si arriva velocemente a Carlo Magno,
protettore della Chiesa contro i Longobardi e, quindi, legittimo erede dell'autorità imperiale (Dante afferma
una volta di più che l'Impero germanico è erede e continuatore di quello romano, quindi legittimato a
imporre la sua autorità su tutto il mondo come ribadito più volte nel poema e nella Monarchia). Dalla
digressione nasce poi l'aspra invettiva contro Guelfi e Ghibellini, che per motivi diversi oltraggiano il
sacrosanto segno e sono da biasimare in quanto causa dei mali politici dell'Europa di inizio Trecento:
l'attacco è soprattutto contro Carlo II d'Angiò, più volte biasimato da Dante nel poema (cfr. soprattutto
Purg., VII, 124 ss.; XX, 79-81) e contro cui Giustiniano rivolge un duro richiamo affinché non si illuda che la
monarchia francese possa sostituirsi all'autorità dell'Impero, che è la stessa polemica portata avanti da
Dante contro il re di Francia Filippo il Bello (cfr. Purg., XXXII, con l'analoga simbologia dell'aquila imperiale).

La risposta alla seconda domanda di Dante, ovvero la condizione degli spiriti operanti per la gloria terrena
(che godono di un minore grado di beatitudine ma non se ne dolgono, confermando quindi quanto già
dichiarato da Piccarda Donati) dà modo a Giustiniano di concludere il Canto indicando un altro beato di
questo Cielo, quel Romeo di Villanova ministro del conte di Provenza Raimondo Berengario e vittima,
secondo una diffusa diceria, delle calunnie degli altri cortigiani che lo costrinsero a lasciare la corte vecchio
e povero. Non si tratta solo di un edificante esempio di cristiana rassegnazione, dal momento che tale
aneddoto ha una valenza politica che si collega al tema centrale del Canto: la figura di Romeo, cacciato dalla
Provenza nonostante il suo ben operare, adombra quella di Dante stesso, che subì la stessa condanna da
parte dei Fiorentini che si pentiranno del loro gesto, come è toccato ai Provenzali passati sotto la tirannia
degli Angioini (e il riferimento è quindi a Carlo II d'Angiò citato poco prima). L'ingiusto destino che
accomuna Dante e Romeo è anche il prodotto della decadenza politica, quindi (nel caso di Dante) è causato
dall'assenza di un potere imperiale in grado di applicare le leggi e assicurare la giustizia; secondo alcuni
Giustiniano loda la figura di Romeo per fare ammenda della sua condotta verso Belisario, il grande generale
con cui ebbe contrasti e che sollevò dal suo incarico alla fine della guerra greco-gotica, ipotesi suggestiva
anche se non suffragata da elementi certi. Di sicuro l'accenno a Romeo che, ridotto in miseria, è obbligato a
chiedere l'elemosina, ricorda molto la figura di Provenzan Salvani (Purg., XI, 133 ss.) in cui Dante si
identificava in quanto anche lui, durante l'esilio, dovrà mendicare l'aiuto dei potenti: l'umiliazione di questi
personaggi è la stessa che subirà l'orgoglioso poeta e che gli sarà profetizzata da Cacciaguida nel Canto XVII
del Paradiso, proprio nel momento in cui gli affiderà l'alta missione morale e poetica che è al centro di
questa Cantica e di tutto il poema.

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