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Nel 2019 la Cina ha importato il 71% del valore del suo consumo energetico: l’85% di
importazioni petrolifere (circa 10.2 million-barrels-per-day, mbpd) ha viaggiato per
mare mentre la Russia (primo fornitore nel 2020) ha provveduto al rimanente 15%. Per
quanto riguarda il gas naturale, nel 2019 il 43% del valore totale è stato importato: il
61% via mare come Gas Naturale Liquefatto (GNL) e il 39% attraverso gasdotti
nell’Asia Centrale. Appare evidente come la dipendenza da fornitori esteri sia ancora
preponderante quando non vincolante, soprattutto a fronte di un calo della produzione
interna dovuto alla chiusura, tra 2016 e 2018, di giacimenti petroliferi considerati
infruttiferi, una decisione che ha accelerato il deterioramento generale dell’output
cinese. Da 4.3 mbpd nel 2015 la produzione è scesa a 3.8 mbpd nel 2018, un calo che,
sebbene sia stato contrastato dalla direttiva del 2018 pocanzi menzionata, ha subito
un’ulteriore contrazione in seguito alla pandemia e al crollo dei prezzi. Ulteriore fattore
di incertezza è dato, come anticipato, dallo stato dei rapporti con gli Stati Uniti. La
guerra commerciale aperta dall’amministrazione di Donald Trump nel 2017 ha reso più
palpabile per il PCC il rischio di una continua dipendenza dalle importazioni di risorse
critiche per lo sviluppo dell’economia cinese, tanto nel campo del trasferimento di
tecnologie quanto in quello dell’energia. L’epidemia non ha favorito la ricerca della
distensione e la crisi politica di Hong Kong, così come il tentativo del Presidente Trump
di eliminare le compagnie cinesi dai listini di Wall Street e quello cinese di comprare
segretamente petrolio venezuelano sotto embargo, hanno al contrario acuito le
insicurezze di cui sopra.
L’impegno preso dal Presidente Xi lo scorso settembre davanti alle Nazioni Unite per la
“carbon neutrality” cinese entro il 2060 ha influito sulle discussioni circa i contenuti del
14° Piano Quinquennale, tracciando una direzione precisa che costringerà la politica
cinese a cercare un equilibrio sostenibile tra le necessità dell’industria al servizio di
stringenti obiettivi di crescita economica e quelli a più ampio respiro della transizione.
Per realizzare la modernizzazione socialista, Pechino dovrà crescere in modo costante
tra il 3% e il 5% all’anno, un ragguardevole sforzo di fronte al quale i pragmatici
governanti cinesi hanno affermato che la decarbonizzazione sarà stabile e continua. In
altre parole, dopo il picco di emissioni (previsto per il 2035), non si assisterà a nessun
calo improvviso ma, secondo un rapporto dell’Oxford Institute for Energy Studies, ad
un “graduale declino in uno stato di stabilità”. Questo indica altresì che la domanda di
petrolio e gas da parte cinese difficilmente calerà, tutt’al più si assisterà ad un nuovo
approccio alla diversificazione con maggiore utilizzo di combustibili naturali,
l’introduzione di limiti alle emissioni nel settore termoelettrico, l’inasprimento delle
misure di contrasto all’inquinamento da particolato, l’elettrificazione, la transizione al
petrolchimico e più incisive politiche di rimboschimento. Nondimeno, il trend generale
che ha visto la domanda di energia, soprattutto petrolio e gas naturale, spostarsi verso il
grande bacino indo-cinese sembra destinato a perdurare e la transizione, probabilmente,
non significherà la fine dell’uso di queste risorse benché meno delle complicazioni di
natura geopolitica che esse implicitamente comportano. La transizione energetica
solleva poi il problema dell’accesso alle terre rare ed alle materie prime (come ad
esempio litio, cobalto, indio e gallio) necessarie alle tecnologie verdi e di
decarbonizzazione ma anche all’industria ICT.