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Rachele Pesce

ἈΝΔΡΟΜΆΧΗ
Ettore, non andare.
Il corpo di mio marito si stagliava contro il sole, l’elmo e l’armatura da lontano lo
facevano sembrare un terribile semidio. Astianatte si stringeva impaurito al mio petto.
Avevo paura anch’io, ma non c’era nulla a cui appigliarmi.
Ettore, non andare.
Il mio nome è Andromaca. Significa “colei che combatte gli uomini”. Io però non sono
una combattente, né lo sarò mai: troppo debole è il mio cuore, troppo straziata la
mente.
Ettore, non andare.
Dalle mura potevo sentire il clamore dei corpi di bronzo dell’esercito.
Ettore…
Se morrai, con te in battaglia lo farò anch’io, Andromaca, regina di Ilio. Il popolo
preferisce la morte di un soldato valoroso alla vita di un padre codardo. Così sia.
Vestita di bianco cammino lungo le mura, il peplo avvolge il mio corpo come in un
sudario.
Astianatte, non piangere.
Ho amato, e amare è tutto quello a cui nella vita sono destinata. Ho amato mio padre,
Eezione, mia madre e i miei sette fratelli di un amore sincero che ora li accompagna
nelle braccia di Ade. Amo Ettore di un amore disperato, perché nulla sarei senza di lui,
e nostro figlio, un dono troppo facile da sottrarre.
Sarà un eroe valoroso, i troiani tutti potranno dire al ritorno dalla guerra “πατρός γ᾽ ὅδε
πολλὸν ἀμείνων”, “costui è molto più valoroso del padre”. Mio marito mi ha rassicurata
così riguardo al bambino, ma io spero non sia mai costretto a far uso del suo valore.
La guerra è un’invenzione degli uomini, come lo sono gli dèi e i loro conflitti, creati per
giustificare e santificare la sofferenza senza scopi che ci siamo costruiti. E a pagare il fio
della morte sono sempre i vivi, che cedono a illusorie promesse di eternità. Ma
l’eternità non esiste se non nella fine. La vita è fatta di momenti, di attimi che si
perdono nella sofferenza, nel ricordo, nella speranza, nel piacere.
Ettore, perché te ne sei andato?
Φαίδιμος Ἕκτωρ, torna da me. Tienimi stretta, voglio sentire il tuo respiro. Sì, lo sento.
Accarezzami, e togliti l’armatura splendente. Dove sei, Ettore? Qui puoi essere fragile,
non devo vergognartene. Baciami dolcemente. Riposa sull’odoroso seno che tanti figli
ancora potrà nutrire. Ettore, mi senti? Ettore, perché vuoi barattare la bellezza infinita
di un attimo con l’eterno nulla?
Ἔρως, Θάνατος, Ἔρως, Θάνατος, Ἔρως, Θάνατος! Tutto è qui racchiuso: tutto qui comincia,
tutto qui termina. Siamo i sicari di noi stessi, addolciamo l’agonia con il sogno di un
bacio mai dato o con il segreto uno sguardo perduto. Nulla di più subdolo, nulla di più
amabile in una condanna.
Ettore è morto. Lo ha ucciso il Pelide Achille.
Bastardo! Che sia maledetto tu e la tua discendenza.
Ettore è morto. Lo ha ucciso il suo coraggio. Devo scappare.
Chi è là? Neottolemo, figlio di Achille. Fermo. No, lui no! Pietà. Astianatte!
Non vi è più salvezza per i Troiani, la Moira ha voluto privarli del più valoroso figlio di
Priamo, ma soprattutto ha voluto privare una madre del frutto del suo grembo.
Pieghiamoci alla sua volontà.
Ebbene, prendimi! Ma quello che otterrai non sarà più una donna di nome Andromaca,
ma un corpo glabro sporco di ingiustizia, giacché la mia mente giace con mio marito e
il mio cuore ha smesso di battere insieme a quello di mio figlio.
A Neottolemo di questo non importava. A lui è bastato il mio corpo. Ha voluto, infine,
umiliare anche quello, incastrandovi all’interno un dolore che non sarei mai riuscita ad
odiare.
Ho amato, e amare è tutto quello a cui nella vita sono destinata. Ho amato Ettore di un
amore disperato, perché nulla sono ora senza di lui, e nostro figlio Astianatte, un dono
che mi è stato sottratto. Amo questo nuovo mio figlio di un amore giusto, nonostante
l’abbia concepito insieme al carnefice della mia umanità e maledetto in quanto
discendente del più terribile dei greci. Perché amare è giusto, è giusto riconoscere gli
innocenti, e l’unica colpa di mio figlio Molosso è quella di essere stato generato dalla
guerra e dall’odio degli uomini prima di lui.
Egli deve affrontare ancora molte prove, ma non sarà solo. Un giorno governerà
rettamente il suo regno e dimostrerà che anche dalla rivalità di due popoli possono
nascere l’amore e la pace. E poi? Poi torneranno la guerra e l’odio, ma finché rimarrà in
vita anche solo una donna disposta ad amare, si potrà sempre credere e sperare nella
salvezza.
Il mio nome è Andromaca. Significa “colei che combatte gli uomini”: non i nemici, ma
l’umanità tutta e la sua follia che mi tolse ciò che fu a me più caro. Il mio nome
racchiude in sé tutto lo strazio dell’esistenza di una donna. Una donna sola.
Una donna sopravvissuta.

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