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in
“Metodologie didattiche per
l’insegnamento della lingua italiana a
stranieri - Didattica dell’Italiano L2”
Modulo 2 – Metodologie e
tecniche della didattica
dell’italiano L2/LS
Introduzione
Negli ultimi trenta anni il dibattito intorno al metodo ha acquisito
crescente importanza. Non soltanto in Italia, e soprattutto grazie agli
spunti e alle esigenze della glottodidattica, si è resa necessaria una
profonda rivisitazione del piano teorico che per decenni, dalla riforma
gentiliana alle spinte innovatrici generate dal ’68, aveva rappresentato la
base delle scienze dell’insegnamento.
L’esigenza di rinnovamento ha investito soprattutto ilmetodo: la
nozione di metodo è stata a lungo concepita come un monolite della
teoria dell’insegnamento, sotto il cui peso restavano schiacciate sia le
possibilità di scelta dei contenuti, sia le modalità di approccio alla
didattica. Soprattutto con la scuola di impostazione gentiliana,
rigidamente gerarchizzata, il metodo ha pervaso di sé ogni ambito, dal
rapporto docente/studente, al concetto di valutazione dei risultati
ottenuti dalla classe, fino, naturalmente, alle modalità di trasmissione dei
saperi.
Alla crisi del metodo si collega anche la profonda riflessione che è stata
effettuata negli ultimi anni sulle teorie linguistiche, dalle quali
evidentemente derivano anche i metodi di insegnamento. Attualmente si
tende a costruire metodi di intervento che non siano legati in maniera
troppo rigida a delle teorie di riferimento, o almeno che non adottino le
teorie linguistiche in maniera prescrittiva. Tanto è vero che lo stesso
concetto di teoria linguistica viene oggi non di rado sostituito da quello
di ipotesi, proprio per sottolinearne la natura mobile.
Una delle ipotesi più diffuse è quella cognitivista. Il termine “cognitivo”
viene adoperato in glottodidattica come sinonimo di consapevole.
Dunque un approccio cognitivo adotterà una didattica che renderà
espliciti i contenuti impliciti grammaticali di una lingua, oppure i legami
esistenti fra le parole (sinonimia o contrarietà, ad esempio). Un approccio
di questo tipo potrebbe apparire ancora legato ad una idea di didattica
tradizionale. Tuttavia esiste una sottile, ma decisiva differenza, fra il
principio su cui si fondano le metodologie grammaticali-traduttive e gli
approcci cognitivisti: ciò che si persegue, nel secondo caso, è
l’insegnamento della lingua attraverso una “presa di coscienza” da parte
del discente, che viene guidato all’interno di un percorso di elaborazione
e di acquisizione di consapevolezza intorno alle strutture della lingua,
perché poi le possa utilizzare. Anche negli approcci di tipo comunicativo,
dei quali parleremo in seguito, l’impostazione di tipo cognitivo è
particolarmente presente.
Alla base dell’approccio definito CLL vi è una teoria della lingua che
considera l’apprendimento non una forma di adeguamento di una realtà
linguistica alla realtà di immagini che ci circondano, ma come il nascere
della lingua attraverso l’abbinamento della competenza comunicativa alle
emozioni e agli stati d’animo suscitati durante la fase di apprendimento,
attraverso il rapporto col docente e con la comunità di studio. Anche per
questo non si tratta di una didattica “da manuale” di lingua, con
situazioni ricostruite artificialmente: la conversazione, e le emozioni da
essa suscitate, devono avere a che fare con situazioni di vita reale, che
coinvolgano l’apprendente in modo diretto.
Proprio per il suo potere di provocare e suscitare suggestioni ed
amplificare gli stati emotivi, una grande importanza, nel CLL, è data alla
tecnica del silenzio sociale, al quale ricorrono tutti i membri della
comunità di studio, compreso il docente. Il ricorso al silenzio è
fondamentale soprattutto nelle fasi di riflessione sulla lingua, durante le
quali favorisce l’emergere di particolari stati affettivi (ansietà, resistenze,
senso di inadeguatezza), che l’azione del docente/consulente dovrebbe
provare a dissolvere, perché potrebbero incidere in modo negativo sul
processo di apprendimento. Naturalmente il ricorso a questa tecnica, che
nel CLL è molto frequente, dovrebbe avvenire in modo ponderato, ossia
scegliendo con oculatezza il momento giusto, onde evitare le situazioni di
imbarazzo che normalmente si generano nei momenti in cui la
conversazione langue.
Il docente dovrebbe dunque ricorrere al silenzio solo dopo aver
sollecitato uno scambio linguistico fra gli studenti, per concedere loro il
breve spazio di qualche secondo per organizzare i pensieri e predisporsi a
parlare in L2; oppure dovrebbe scegliere di restare in silenzio durante la
sessione di conversazione degli studenti, e intervenire solo qualora gli
venga espressamente richiesto.
In definitiva gli approcci del tipo CLL hanno avuto una grande
importanza soprattutto per quanto riguarda la ricerca teorica dei metodi
centrati sull’importanza della persona, ossia dello studente. Si tratta
inoltre di approcci che, proprio perché si propongono come alternativa
al “metodo”, permettono una certa elasticità nell’intervento didattico.
Un approccio come quello del CLL, però, ha anche un profondo limite:
la figura del docente, che è di fatto a metà strada fra quella di un
insegnante ed un counselor, richiede una preparazione complessa e
laboriosa, in ambiti molto differenti e specialistici.
Alla base del TPR non troviamo una vera e propria teoria della lingua,
del suo funzionamento e delle sue strutture. Troviamo, invece, la ferma
convinzione che esista un’unica modalità di apprendimento della lingua,
che vale sia per l’acquisizione della L1, sia per l’acquisizione della L2 e
che si fonda sul principio “domanda verbale – risposta fisica”. Non a
caso il TPR ripone pochissima attenzione allo sviluppo delle abilità
comunicative nella loro globalità (parlato, ascolto, scrittura e lettura) e
privilegia l’acquisizione della competenza orale su tutte, relegando il resto
alle attività di consolidamento.
La teoria dell’apprendimento su cui si basano le pratiche del TPR è la
seguente, e si divide in tre ipotesi fondamentali:
1) Il bio-program: secondo lo studioso James Aher, principale teorico del
TPR, il cervello e il sistema nervoso umano sono naturalmente
predisposti all’apprendimento linguistico, pertanto l’acquisizione di una
L2 avverrebbe in maniera spontanea, così come in età infantile era stato
per la lingua materna. Il processo di apprendimento, inoltre, procede
attraverso una schema fisso, per cui comprensione e ascolto precedono
qualunque forma di produzione. La comprensione stessa avverrebbe
attraverso forme di sincronizzazione tra stimolo verbale e movimento
fisico.
2) La lateralizzazione del cervello: il TPR accoglie la teoria della divisione del
cervello in due emisferi: il sinistro, sede delle facoltà razionali, che
presiede alla funzione linguistica; il destro, sede delle attività a carattere
intuitivo, che presiede alle funzioni motorie. La didattica tradizionale
stimolerebbe soltanto una delle due sezioni in cui è diviso il cervello,
mentre le attività proposte dal TPR coinvolgerebbero le funzioni
cerebrali nella loro globalità. Inoltre l’abbinamento fra comando verbale
e risposta fisica genera dei processi di memorizzazione molto efficaci, in
grado addirittura di attivare la memoria a lungo termine, lasciano quindi
una traccia molto duratura delle attività linguistiche nello studente.
3) Attenuazione dello stress: la particolare struttura delle attività previste
dall’approccio TPR ha per effetto, nella maggioranza dei casi, la
creazione di un clima rilassato e giocoso, che riduce notevolmente il
livello di stress dell’apprendimento. Il “materiale didattico” di una
lezione di lingua TPR è di tipo ludico, partecipativo e coinvolge gli
studenti in modalità di apprendimento sconosciute agli approcci di tipo
tradizionale.
Impostare una lezione sulla base proposta dal TPR vuol dire in parte
“tradire” lo spirito degli approcci umanistico-affettivi, che sono nella
maggioranza dei casi orientati a creare un rapporto orizzontale fra
docente e discente, e a promuovere la partecipazione attiva di questi
ultimi. Il discente del TPR non è escluso dalla azione didattica, tuttavia è
evidente come “subisca” la figura del docente, che gli impartisce ordini
da eseguire: il docente è un regista, che detta i tempi, i modi e gli
argomenti della didattica (a maggior ragione se consideriamo la già citata
assenza dei manuali nel TPR) sebbene Asher non gli assegni il compito
prescrittivo della stigmatizzazione degli errori. È addirittura previsto un
ampio ricorso alla L1, soprattutto per le prime fasi, quando un ordine
impartito in L2 non provocherebbe altro che imbarazzo e silenzio. In un
certo senso il rapporto docente/discente ricalca quello dei metodi
tradizionali, tuttavia l’atmosfera ludica che il TPR contribuisce a creare
nel gruppo classe impedisce che questa verticalità si trasformi in vera e
propria sudditanza. Inoltre va detto come il ruolo passivo della
studente/esecutore di ordini vada via via trasformandosi in quello di
attore protagonista con l’andare avanti del percorso di apprendimento.
Introduzione
A partire dagli anni ’60, sulla base delle teorie linguistiche proposte dal
filosofo statunitense Noam Chomsky, in area glottodidattica prende
avvio un importante dibattito, che in tempo relativamente breve avrebbe
condotto ad un radicale ripensamento dei concetti di lingua, di
insegnamento della lingua, di metodo didattico e di tutta una serie di
capisaldi della glottodidattica fino a quel momento ritenuti intoccabili.
Prende dunque avvio, in quegli anni, la riflessione intorno a quello che
sarebbe diventato l’approccio comunicativo.
L’approccio comunicativo è una teoria della lingua e della didattica della
lingua che si fonda su alcuni assunti fondamentali, su alcuni dei quali
abbiamo già detto qualcosa parlando dell’approccio umanistico-affettivo.
Al centro dell’azione didattica promossa dall’approccio comunicativo vi è il discente: la
figura del discente perde definitivamente, con l’approccio comunicativo,
il ruolo di passivo raccoglitore delle informazioni che gli piovono
addosso dal docente. Il discente è considerato infatti nei suoi caratteri
specifici come portatore di un bagaglio di conoscenze pregresse, sulle
quali, attraverso uno studio autonomo, attivo e partecipativo, innestare la
nuova competenza linguistica e culturale.
Il ruolo del docente segue e si adegua a quello del discente: non più
soltanto un esperto di lingua, il docente deve riadattarsi alla funzione di
facilitatore del processo di apprendimento: il docente non insegna più (nel senso
tradizionale del termine), tuttavia il discente impara. Come realizzare un
format didattico di questo tipo? Il docente deve farsi regista e tutor
dell’apprendimento, svestendo i panni del protagonista della lezione: il
protagonista è lo studente, che recita un copione pensato e sviluppato
dalla figura importante, ma discreta, del docente.
I role play sono uno degli esempi più classici e meglio esemplificativi di
questo tipo di attività. Meno problematico (ma anche in questo caso il
contesto della classe deve dimostrarsi adeguatamente predisposto) è il
tipo di attività produttiva libera che abbiamo definito reale, perché non ci
sono scenette da preparare, né copioni da seguire. Sebbene si tratti anche
in questo caso di una teatralizzazione, il non dover assumere i panni di
un altro rende meno problematica l’esecuzione di questo tipo di attività.
Il Project work
Una delle realizzazioni pratiche più efficaci e più rappresentative
dell’approccio comunicativo è il cosiddetto Project Work. Non parliamo
qui del Project Work in quanto tecnica didattica, ma della possibilità di
strutturare in questo formato interi percorsi di formazione in lingua L2.
Volendo riassumere in modo molto sintetico il significato del concetto di
Project Work, potremmo dire che esso è il tentativo di finalizzare lo
studio della lingua al compimento di un progetto, laddove, di norma,
accade l’esatto contrario. Nel PW gli studenti devono risolvere un
problema di più o meno ampia difficoltà e complessità, e per raggiungere
l’obiettivo devo servirsi della L2.
Interazione strategica
Un’altra tipologia di approccio che rientra nell’ambito della didattica
comunicativa è l’Interazione Strategica. La prima teorizzazione
dell’approccio IS risale al 1987 ed è opera del linguista italo-americano
Robert Di Pietro. Nel suo lavoro intitolato Strategic Interaction. Learning
languages through scenarios, Di Pietro presentava l’ipotesi della “non
neutralità” della comunicazione verbale, secondo la quale ogni
componente di un enunciato (dal lessico alle strutture formali che lo
compongono) è frutto di una scelta intenzionale del parlante, che le
seleziona tatticamente e strategicamente. Secondo la teoria della lingua
alla base della IS, la comunicazione non è mai un semplice scambio di
informazioni, ma è un complesso sistema di rimandi più o meno espliciti
alle intenzioni del parlante, che attraverso la comunicazione vuole
raggiungere uno scopo.
In generale, l’IS tenta di creare contesti in cui ad ogni momento sia in agguato
l’imprevisto, che costringa il parlante a calibrare il modo di comunicare,
nella sua globalità, in base alla necessità di risolvere il problema.
Competenza Interculturale
Un posto speciale, nell’ambito degli approcci comunicativi, merita il
Training interculturale, o Competenza interculturale. Si sviluppa
negli Stati Uniti dagli anni ’60 a partire da una necessità ben precisa: le
esigenze moderne, in particolare quelle dettate dalla
internazionalizzazione del mercato del lavoro e dalla globalizzazione dei
rapporti economici fra gli Stati e le aziende, imponevano che gli
operatori del settore acquisissero una serie di competenze specifiche, che
non fossero limitate al campo della lingua, ma che si estendessero anche
alla conoscenza delle abitudini, dei costumi, delle ideologie e delle scale
di valori di interlocutori provenienti, potenzialmente, da ogni angolo del
pianeta. Se vogliamo, potremmo dire che l’approccio CI si pone a metà
strada fra una metodologia glottodidattica e le tecniche di mediazione
culturale, perché di fatto guarda al problema della comunicazione da una
angolazione che considera della massima importanza il problema
dell’intreccio fra lingua e costumi.
L’esigenza maturata in seno al contesto produttivo statunitense degli anni
’60 è oggi diventata globale e soprattutto investe una campo molto
ampio, che riguarda la nostra vita quotidiana nella moderna società
multietnica.
Introduzione
Uno degli aspetti di maggiore novità della didattica comunicativa
riguarda senza dubbio la grande attenzione destinata all’apprendente.
Abbiamo visto come in numerosi casi perfino il sillabo, ovvero l’insieme
delle competenze e abilità comunicative che lo studente dovrebbe
acquisire, può venire calibrato e aggiornato rispettando le esigenze anche
individuali del singolo studente. In generale, la didattica comunicativa,
che da questo punto di vista contrae numerosi debiti nei confronti degli
approcci umanistico-affettivi, si propone di inserire l’intero processo
dell’insegnamento all’interno di un’atmosfera quanto più possibile
rilassata, non competitiva, né ansiogena: un ambiente che non si adatti a
questa prospettiva diviene territorio di coltura di ogni tipo di filtro
affettivo, che potrebbe inficiare in modo estremamente negativo sul
processo di apprendimento.
La teoria del filtro affettivo si sviluppa negli Stati Uniti a partire dalle
ricerche condotte da due studiosi, Dulay e Burt, i quali intendevano
fornire una spiegazione plausibile dell’influsso che sul processo di
insegnamento e di acquisizione della L2 avevano gli stati emotivi degli
apprendenti. Non si tratta di una esperienza rara lo stato di noia o
frustrazione che coglie molti di quanti hanno vissuto da studenti il
contesto della scuola, o quello dei corsi di qualunque tipologia. La
formazione, per via della sua struttura e dei suoi obiettivi, è un processo
che provoca stati emotivi altalenanti, molti dei quali, in realtà, sono
nemici dell’apprendimento stesso e del suo regolare progresso.
Se vogliamo, la didattica delle lingue tende ad accentuare alcuni degli
aspetti negativi dell’apprendere: lo stato di straniamento prodotto dal
ricevere nozioni in un idioma che non conosciamo affatto, o che
padroneggiamo peggio della L1, genera stati come il senso di
inadeguatezza, la frustrazione o l’ansia. Soprattutto gli studenti più timidi
rischiano di restare vittima degli stati di ansia, specialmente quando sono
chiamati a parlare nella L2 (cosa per altro inevitabile, soprattutto nei
corsi di lingua progettati scegliendo l’approccio comunicativo).
Alla base della teoria del filtro affettivo, che è stata presentata nella forma
che noi tratteremo dallo studioso Steven Krashen, vi è innanzitutto una
ipotesi di natura neurolinguistica: il cervello umano funziona in forma
direzionale, ovvero i due emisferi cerebrali (il destro preposto alle funzioni
globali e il sinistro preposto a quelle logico-analitiche) processano gli
input seguendo un ordine di precedenze ben definito. L’input passa
prima attraverso il canale emozionale e solo in seguito viene inoltrato al
vaglio di quello analitico. Detto in termini glottodidattici, il contesto precede
il testo, e l’emozione predispone alla comprensione.
Introduzione
Come abbiamo avuto modo di vedere, la glottodidattica, in quanto
disciplina che studia scientificamente il tema dell’insegnamento della
lingua, non si limita a fornire una serie di prescrizioni a chi per lavoro si
trova ad affrontare quotidianamente la sfida della classe di apprendenti.
La glottodidattica è una disciplina complessa, che mette insieme e
rimescola nozioni ed acquisizioni provenienti da numerosi ambiti di
ricerca, perché ha a che fare innanzitutto con i due problemi,
estremamente vasti e attuali, del linguaggio e della pedagogia.
Allo stesso tempo una profonda riflessione investiva anche il campo della pedagogia
e dell’insegnamento. Riflessione che, avviatasi nel secondo dopoguerra, ha
poi subito un’accelerazione decisiva al ridosso del ’68, l’anno della
contestazione, non a caso partita dalle rinnovate esigenze sociali di cui si
fecero portavoce soprattutto gli studenti. Una di queste era la avvertita
necessità di tornare a riflettere sul pericoloso circolo fra educazione e
disciplinamento sociale, o governo politico dei corpi (in ambito
filosofico, grazie alle riflessioni del francese Michel Foucault, si afferma
in quegli anni il concetto di biopotere): l’educazione, che nella complessa
macchina degli apparati statali moderni tende continuamente a slittare
verso forme di assoggettamento, andava riconsiderata nei suoi
presupposti teorici, perché venisse recuperata la sua più genuina radice
umanistica, quella di pedagogia, intesa come armonioso sviluppo della
persona.
Di grande importanza per la nostra analisi saranno anche altri due ambiti
scientifici: le scienze dell’educazione e, soprattutto, le
scienzepsicologiche, con i loro rispettivi sotto ambiti, che sono
pedagogia, didattica generale e psicopedagogia per il primo; psicolinguistica per il
secondo.