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LA RIVOLUZIONE AMERICANA

I domini inglesi in America iniziarono ad ampliarsi progressivamente dal 1583, anno nel quale il
grande navigatore Sir Walter Raleigh prese possesso di un territorio dell'America Settentrionale, al
quale pose il nome di Virginia, in onore della nubile regina Elisabetta.
Nel XVIII secolo questi domini erano costituiti da tredici colonie, per una popolazione totale di
circa due milioni di abitanti.
A Nord di queste colonie inglesi si trovavano i domini francesi del Canada, ma dopo la sconfitta
subita nella Guerra dei Sette Anni (1756-1763), la Francia fu costretta a cederli all'Inghilterra,
assieme a vastissimi territori situati ad Occidente dei Monti Alleghany.
Proprio verso questi territori la parte più povera della popolazione americana intendeva emigrare
per avviare attività agricole intese a migliorarne le condizioni di vita.
Questi flussi migratori preoccuparono il governo inglese che temeva scontri con le tribù indiane che
abitavano da secoli quelle terre - scontri che avrebbero comportato il mantenimento in zona di un
forte contingente militare - costringendolo quindi a limitare seriamente il diritto di immigrazione al
di la degli Alleghany, causando il malcontento sia di coloro che intendevano trasferirsi in quelle
terre per necessità, sia degli speculatori che intendevano prendere possesso di quei territori per
lottizzarli e rivenderli a caro prezzo ai coloni.
A questo forte motivo di tensione tra il governo inglese ed i coloni americani se ne aggiunsero
presto altri: per risanare le casse dello Stato, prosciugate dalle spese militari sostenute nel corso
della Guerra dei Sette Anni, il governo introdusse nuove imposte a carico dei coloni ed iniziò ad
applicare con maggior rigore le leggi doganali, tese a limitare il libero commercio degli,armatori
americani, a tutto vantaggio della politica mercantile inglese. Naturalmente ciò urtava con gli
interessi della borghesia mercantile, indistriale e armatoriale americana, che vedeva in tal modo
compromessi i sui traffici più redditizzi come ad esempio la distillazione ed il commercio del rum
con l'Africa e la conseguente tratta dei Negri.
Dietro a questi contrasti di natura economica si celava un contrasto ancora più profondo, ossia
l'aspirazione dei coloni all'indipendenza e all'utogoverno, molto sentita dagli Americani, in quanto
la maggior parte di loro era costituita da discendenti di quei Padri Pellegrini che un secolo prima
avevano lasciato l'Inghilterra per difendere la loro libertà politica e religiosa.

L'insurrezione e l'intervento delle potenze straniere


Il primo serio problema per gli inglesi si verificò al momento dell'applicazione delle misure
tributarie decise dal governo reale. Nel 1765, l'introduzione dell'obbligo della carta bollata per tutti
gli atti pubblici e privati scatenò vivaci proteste, soprattutto perchè nella sua applicazione non si era
sentito il parere delle assemblee locali, come del resto la stessa legge inglese prevedeva.
Per perorare la loro causa, i coloni inviarono a Londra Benjamin Franklin, illustre studioso di
Boston ed inventore del parafulmine, che riuscì ad ottenere la revoca del decreto sulla carta da
bollo.
Poco tempo più tardi vennero però promulgati dal governo altri decreti ugualmente lesivi degli
interessi americani, che a loro volta, per colpire gli interessi inglesi, cominciarono a boicottare le
merci provenienti dalla metropoli ed in modo particolare quelle monolizzate dai mercanti inglesi,
come ad esempio il tè. Fu così che scoppiarono i primi tumulti.
Nel dicembre del 1773 una folla di popolani che si era riunita nel porto di Boston, gettò in mare una
gran numero di casse di tè e di altre merci provenienti dall'Inghilterra accatastate sulle banchine del
porto: questo incidente fu l'origine dello scoppio della Guerra d'Indipendenza Americana.
Per reprimere la rivolta di Boston, il governo invio l'esercito, ma le truppe inglesi vennero
sorprendentemente sconfitte nel 1775 a Lexington, da un esercito improvvisato di artigiani.
Nel frattempo a Philadelphia si radunò un congresso delle colonie che reclamava il rispetto dei
diritti tradizionali. A questo punto, la situazione già molto tesa si inasprì fino la punto che, visto
fallito ogni di accordo, i delegati delle tredici colonie, il 4 luglio 1776, sottoscrissero a Philadelphia
una dichiarazione d'indipendenza, che prevedeva lo scioglimento di tutti i legami di sudditanza
verso la monarchia inglese.
La dichiarazione, compilata dal democratico Jefferson, era stata redatta secondo le idee dell'epoca
ed inziava così: "Tutti gli uomini sono stati creati uguali: che il Creatore li ha investiti di certi
diritti inalienabili; che tra questi diritti, sono la vita, le libertà e la ricerca della felicità...".
In palese contraddizione con tali principi, essi vennero proclamati da uomini nel cui paese vigeva
ancora la schiavitù sui Negri e si combattevano i pellerossa come bestie feroci: tale contraddizione
vizia ancora attualmente la vita pubblica americana.
Per sostenere in modo adeguato i propri diritti, le tredici colonie approntarono un esercito, il cui
comando venne affidato a George Washington, uomo capace e dotato di una buona esperienza
militare, avendo combattuto con gli Inglesi nella guerra contro la Francia.
Inizialmente l'esercito americano subì alcune sconfitte a causa delle poche disponibilità finanziarie
per le spese militari. A seguito di queste sconfitte, nel 1776 New York e, nel 1777 la stessa
Philadelphia, sede del congresso americano, caddero in mano agli Inglesi. La prima significativa
vittoria dell'esercito americano avvenne ad opera del generale Gates, che sorprese e sconfisse gli
inglesi a Saratoga, nel 1777.
Questa vittoria segnò una svolta nel conflitto: le principali potenze europee, la Francia in
particolare, si resero conto che, con un adeguato appoggio, le colonie sarebbero state in grado di
fronteggiare l'Inghilterra, e adottarono una condotta più risoluta.
Nel 1778 la Francia scese in guerra, imitata nel 1779 dalla Spagna e dall'Olanda. Su ispirazione
della Zarina di Russia Caterina II, venne fondata la Lega dei Neutri, che aveva lo scopo di imporre
all'Inghilterra il rispetto della neutralità dei paesi che ne facevano parte, pretendendo che gli inglesi
rinunciassero a perquisire in mare le navi neutrali.
L'Inghilterra, isolata diplomaticamente, si trovava quindi esposta al pericolo dell'intervento nel
conflitto di alcune tra le più importanti potenze dell'epoca, proprio nel momento in cui i ricchi
commercianti londinesi chiedevano al Parlamento la fine della guerra, il cui prolungarsi aveva
comportato l'interruzione del lucroso commercio con le colonie americane.
Nel frattempo, l'esercito americano otteneva altre importanti vittorie, grazie anche al notevole aiuto
della flotta e al corpo di spedizione francese e ai numerosi volontari giunti dall'Europa, fra i quali si
segnalarono per il loro valore l'eroe polacco Tadeusz Kosciuzko ed il marchese Lafayette.
Il 19 ottobre 1781, il generale Lord Cornwallis, accerchiato dalle truppe franco-americane nella
località di Yorktown, fu costretto a capitolare. Questa battaglia segno la fine della Guerra
d'Indipendenza Americana. Nel 1783 si conclusero a Parigi le trattative di pace che sancirono
l'indipendenza delle tredici colonie, la restituzione alla Francia del Senegal e di parecchie isole delle
Antille, mentre alla Spagna vennero cedute Minorca e la Florida.
La nascita degli Stati Uniti d'America
Ciascuna delle tredici colonie americane desiderava la propria indipendenza da un potere centrale e
per questo motivo trascorsero quattro anni prima che si potessero gettare le basi per uno Stato
federale: ciò avvenne nel 1787 a Philadelphia, dove alla Convenzione presero parte i rappresentanti
delle diverse colonie.
Dalla convenzione uscì la costituzione degli Stati Uniti d'America, che riconosceva l'esistenza dei
singoli Stati (le ex tredici colonie), demandando al Governo federale la trattazione delle materie
d'interesse generale. Ogni Stato inviava i propri rappresentanti al Congresso federale composto da
due camere: il Senato, del quale facevano parte due rappresentanti per ogni Stato, e la Camera dei
rappresentanti, eletti in proporzione alla popolazione di ciascun Stato, dai cittadini che disponevano
di un certo reddito.
Il potere esecutivo spettava al Presidente degli Stati Uniti, eletto da un numero ristretto di "grandi
elettori" rappresentanti degli Stati. Il Presidente nominava i membri del Governo ed era egli stesso
responsabile davanti al Congresso.
Il potere giudiziario era presieduto da una Corte Suprema, che aveva anche il diritto di decidere
sulla costituzionalità delle leggi. In questo modo nella costituzione degli Stati Uniti veniva
rispettato il principio della divisione dei poteri.
Tuttavia non si trattava di una Costituzione democratica: ai Negri, che rappresentavano circa un
quarto della popolazione americana, non veniva riconosciuto alcun diritto civile nè umano; Le tribù
indiane venivano trattate alla stregua di bestie feroci da eliminare al più presto; anche la maggior
parte della popolazione bianca non aveva diritto al voto, in quanto questo era riservato solo ai
ricchi. Fin dalla loro nascita, gli Stati Uniti furono quindi il dominio di una nuova nobiltà: la nobiltà
del dollaro.
LA RIVOLUZIONE FRANCESE

Cos'è una rivoluzione?


La rivoluzione francese riveste numerosi spunti di interesse per la storia contempo. Intanto
introduce il concetto di rivoluzione nella storia moderna. Una “rivoluzione” che è ben diversa da
quella trasformazione istituzionale conosciuta in Gran Bretagna, e ben diversa anche dalle vicende
americane. Ecco quindi il primo quesito:
COS'E' UNA RIVOLUZIONE?
Fino al XVII secolo il termine rivoluzione significava il moto circolare intorno ad un punto fisso
(“la rivoluzione della terra intorno al sole”). Gli avvenimenti americani e francesi danno alla parola
rivoluzione un significato di sconvolgimento dell'assetto politico e sociale allo scopo di crearne uno
nuovo. Tra le metafore più fortunate c'è quella del “mito solare”: il sole sorge su una nuova era. La
storia viene concepita come un movimento in avanti, un continuo succedersi di progressi in tutti i
campi.
Bisogna essere chiari sul fatto che ci sono due momenti che caratterizzano i processi rivoluzionari:
state breaking (distruzione). Un'azione di massa dal basso distrugge lo stato
state making (costruzione). Lo stato viene ricostruito in tutti i suoi aspetti: leggi, governo, esercito,
ordine pubblico
Se si distrugge la vecchia classe dirigente e al suo posto troviamo una nuova forma di stato allora
possiamo parlare di rivoluzione.
N.B. Il golpe si differenzia dalla rivoluzione perché cambiano solo i dirigenti, mentre il sistema
rimane lo stesso. Inoltre non ha l'appoggio di una parte consistente della popolazione.
Le cause
Verso il precipizio 1770-1789
Alla fine del Settecento la Francia poteva contare circa 28 milioni di abitanti, uno degli eserciti più
forti del mondo, una burocrazia e un sistema amministrativo centralizzato tra i più avanzati
d'Europa. Tra i suoi cittadini c'erano le menti più in vista del continente, le sue élite culturali (i
philosophes ) facevano scuola negli altri paesi; la sua aristocrazia, e ancor di più la corte di
Versailles, erano un modello inarrivabile per i sovrani e i principi di tutti gli stati. Il francese era,
infine, la lingua ufficiale della diplomazia internazionale. L'assolutismo sembrava ancora un
sistema valido, vista anche la rovinosa sconfitta inglese nella guerra contro i coloni americani.
Le prime trasformazioni industriali (o protoindustriali) iniziavano a cambiare il volto della
manifattura anche nelle tante fabbriche sparse nella campagna francese.
Quando Luigi XVI salì al trono (1774) una fase di declino e ristagno prese il posto alla lenta
crescita registrata negli anni precedenti.
La crisi finanziaria precipitò nel volgere di pochi anni. Gli oneri delle guerre d'oltreoceano avevano
svuotato le casse statali; i tentativi di riforma naufragarono tutti contro il veto incrociato dei vari
gruppi di potere. Da una parte nobiltà e clero bloccarono qualunque tentativo di riforma fiscale che
includesse le alte rendite; dall'altra le misure antiprotezionistiche del commercio trovò strenua
resistenza nel potere di Parlamenti: organi locali che rappresentavano una vera e propria “falla” nel
presunto assolutismo dei sovrani di Francia. Nel giro di pochi anni il dicastero delle finanze vive un
via vai continuo di ministri “tecnici” che provano ricette diverse per uscire dalla crisi: prima
Tourgot, poi Necker, quindi Joly de Fleury, per arrivare al 1787 a Charles Colonne.
I contrasti con aristocrazia (e clero) e Parlamenti indusse il re, nel luglio 1788, a convocare gli Stati
Generali come “extrema ratio” per uscire dalla crisi. Nel decreto di convocazione venivano
sollecitati “tutte le persone istruite del regno … a inviare suggerimenti o memorie relative alla
prossima convocazione degli stati generali”.
La crisi, non risolvibile con compromessi parziali, richiedeva una soluzione definitiva. Anche il
popolo – per la prima volta – era chiamato a dire la sua.
La situazione inedita fu la visibilità del dibattito pubblico. La politica usciva dal chiuso delle stanze
di nobili o alto-borghesi per scendere in piazza, nelle strade, nelle affollate assemblee pubbliche.
Una certa alfabetizzazione e la diffusione della stampa favorì questo processo di mobilitazione di
massa intorno alle opinioni politiche.
Tra marzo e aprile 1789 in tutte le comunità e in tutti i quartieri cittadini i capifamiglia si riunirono
per eleggere i delegati di zona che, a loro volta, avrebbero scelto i deputati per l'assemblea degli
stati generali. Insieme alla nomina dei delegati furono compilati anche i cahiers de
doléances (quaderni delle lamentele), ovvero rivendicazioni e richieste. I circa 60000 cahiers ci
dicono di una diffusa insofferenza sia per i vecchi privilegi sia per alcune nuove misure di tipo
“capitalistico”e, naturalmente, per le evidenti ingiustizie che ancora dominavano la società francese.
Accanto ai chaiers ci fu un'esplosione di pubblicazioni, opuscoli, pamphlets [1] . Sul banco degli
imputati il principio di privilegio detenuto, senza niente in cambio, da nobiltà e clero,
rispettivamente l'1,5% e lo 0.5% dell'intera popolazione.
Quali privilegi?
* Non pagavano la taglia, cioè l'imposta sul reddito;
* Il clero riscuoteva la decima su tutti i prodotti agricoli;
* I signori dei villaggi riscuotevano censi in denaro, parte dei raccolti, pedaggi, tasse sulla
compravendita di terre, dazi sul passaggio di merci;
* La legge era magnanima con nobiltà ed esponenti dell'alto clero.
Il 1789
Scoppia la rivoluzione: il 1789
L'Assemblea generale
Il 5 maggio si aprì a Versailles l'assemblea degli stati generali. La composizione numerica sanciva
queste proporzioni:
Terzo stato 578 deputati
Nobiltà 270
Clero 291
Ma in realtà molti esponenti del clero erano parroci di provincia che aderivano al programma del
terzo stato; alcuni nobili erano anch'essi simpatizzanti con le idee anti-assolutistiche.
Il primo punto all'ordine del giorno, ossia il meccanismo di voto, paralizzò i lavori. Il terzo stato
voleva il voto individuale, clero e aristocrazia il voto per ordine. A metà giugno una folta pattuglia
di deputati, in maggioranza aderenti al terzo stato, si proclamò Assemblea Nazionale in quanto eletti
dal basso e investiti del potere dalla volontà generale. L'assolutismo era finito.
La nuova assemblea, che si riuniva nella sala della Pallacorda, si diede come primo obiettivo la
stesura di una costituzione. Il re invitò gli altri rappresentanti degli ordini ad aggregarsi al terzo
stato per riscrivere insieme le nuove regole dello stato.
1° errore di Luigi XVI – Contemporaneamente alle aperture verso i riformatori, il sovrano
complottava strane manovre: licenziò Necker (ministro delle finanze) e assembrò truppe a Parigi e a
Versailles. Questi movimenti diffusero inquietudine e spinsero il popolo, alle prese con una difficile
congiuntura economica, ad una serie di rimostranze in città. Il 14 luglio una folla di artigiani e
bottegai andarono davanti alla Bastiglia per chiedere armi. La guarnigione aprì il fuoco lasciando
sul terreno un centinaio di manifestanti. Ma la fortezza fu espugnata e il governatore ucciso. La
violenza era entrata nella politica.
In seguito all'episodio il re tornò sui suoi passi; alcuni leader cittadini istituirono il potere locale
tramite un Comitato e una Milizia (affidata a La Fayette ), Il rosso e il blu – i colori di Parigi – si
unirono al bianco per formare la coccarda simbolo di unità nazionale. Con quella coccarda il re si
affacciò dall'hotel de Ville, il 17 luglio, assieme al sindaco della città per simboleggiare una nuova
unità.
La campagna
Molto si è discusso sul ruolo della campagna nelle calde giornate rivoluzionarie. È vero che
nell'estate '89 molte sollevazioni contadine spinsero l'assemblea nazionale ad una serie di
provvedimenti legislativi anti-feudali (rendendo così plausibile la tesi della concordia tra città e
campagna); ma è altrettanto vero che molte delle rimostranze della massa di contadini braccianti e
piccoli proprietari si addensavano intorno ai recenti provvedimenti “capitalistici”. La
privatizzazione degli spazi comuni aveva causato l'impoverimento di molti contadini costretti a
diventare braccianti; così come la coltivazione per il mercato e il conseguente abbassamento dei
prezzi aveva arricchito i grandi e medi proprietari ma rovinato i piccoli. L'indigenza dilagante degli
anni '80 del XVIII è da attribuire NON SOLO al perdurare di abusi e ingiustizie di matrice
“feudale” ma anche all'effetto dirompente che le nuove pratiche economiche (improntate
all'efficienza produttivistica) hanno avuto sulle società di antico regime. [1]
Anna Maria Rao scrive: “la paura dei briganti, del complotto aristocratico o di nemici non meglio
identificati fu all'origine delle sollevazioni che si diffusero per larga parte del paese.” [2] Quelle che
per secoli furono jacquerie senza seguito, portarono – stavolta – alla abolizione di “tutti i privilegi
feudali”, alla liberazione dei lavoratori della terra da decime, censi e tasse sulla persona.
Erano i frenetici giorni del 4 agosto, e poi del 7 e dell'11.
Il 26 fu presentata la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino , “l'alfabeto politico del
nuovo mondo” secondo il deputato Rabaut Saint-Etienne. Adesso non restava che promulgare la
costituzione.
2° errore di Luigi XVI – il re non firmò i decreti di agosto contro i privilegi di ordine. Le proteste
sfociarono in una marcia di 7000 parigini fino a Versailles (scortata dalla Guardia Nazionale di La
Fayette ) per chiedere “il pane” e il trasferimento della corte in città. Ad ottobre corte reale e
Assemblea nazionale erano a Parigi e non più nella isolata quiete della reggia.

La monarchia costituzionale
La monarchia costituzionale (1789-1791)
Nuove leggi – L'attività legislativa dell'assemblea proseguiva a pieno ritmo.
• Incameramento beni della chiesa;
• Tasse in proporzione alla ricchezza;
• Emissione di assegnati (buoni del tesoro);
• Libertà di stampa, di opinione e di riunione;
• Nuovo ordinamento amministrativo: 83 dipartimenti divisi in distretti, cantoni e comuni, tutti con
consiglio eletto dai cittadini;
• Nuovo ordinamento giudiziario: fine venalità delle cariche e completa distinzione tra il potere
giudiziario e quello esecutivo e legislativo. Giudici eletti e processi con giuria popolare. Distinzione
tra processi civili e criminali.
• Chiesa di Francia basata sul principio della nomina per elezione. Parroci e vescovi dovevano
essere retribuiti dallo stato come ogni altro funzionario pubblico.
A questo punto il corso degli eventi sembra aver raggiunto un appiglio sicuro. Il deputato Duport
proclamò, il 17 maggio 1791, che la rivoluzione era finita, e che bisognava porre fine agli eccessi,
consolidare il governo, limitare libertà e uguaglianza. Anche per Bernave il senso profondo della
rivoluzione era già raggiunto e stava nella disfatta dell'aristocrazia e nella vittoria della classe
media.
Perché non riesce la stabilizzazione?
• Pressioni esterne / 3° errore di Luigi XVI. Le corti dei principali stati europei considerarono la
questione francese un affare internazionale e si mobilitarono per sostenere il re Luigi XVI. Il quale
commise il terzo fatale errore: tentò una maldestra fuga nel giugno 1791 (fu riconosciuto e bloccato
a Varennes), manifestando così il suo ambiguo ruolo di garante del nuovo stato. Pochi mesi dopo
firmò la Costituzione solo perché costretto.
• Problemi economici. Le cose non vanno meglio per la gente comune. C'era inflazione,
disoccupazione. Inoltre la legge Le Chapelier che proibiva le associazioni operaie aumentò lo
scontento nelle classi popolari (rappresentate politicamente dai “sanculotti”, sempre più influenti).
• Divisione politica. La rivoluzione aveva innescato una passione politica molto forte: stampa, club,
sezioni, petizioni e manifestazioni; feste, giornate insurrezionali, alberi della libertà…bandiere, inni.
In questo clima molto intenso le posizioni politiche si radicalizzarono e si moltiplicarono. Si
crearono – all'interno dell'assemblea – i “partiti” di destra (per fermare qui le riforme), di centro
(cambiare ancora qualcosa) e di sinistra (cambiare la sostanza dei provvedimenti a cominciare dalla
proclamazione della repubblica).
• Controrivoluzionari. Il fronte degli sconfitti iniziò a riorganizzarsi intorno ai molti esponenti del
clero che rifiutarono il nuovo status assegnatogli dallo stato. Specialmente nelle regioni meno
urbanizzate l'opposizione al nuovo stato fu molto forte. Divenne celebre nel 1793 la rivolta della
Vandea. Ma non fu la prima, né l'unica.
Emersero figure molto carismatiche, capaci cioè di convogliare e guidare i sentimenti collettivi
attraverso la retorica, la propaganda, l'abilità nel convincere gli altri. Una di queste, Maximilien
Robespierre, guidava l'ala sinistra dell'assemblea, detta dei giacobini, in virtù del luogo di ritrovo
dei fondatori del partito.
La repubblica giacobina (1792-1794)
Per uscire dallo stallo e per prevenire una possibile azione militare dei paesi confinanti (Austria,
Prussia) l'assemblea si decise a giocare la carta della guerra.
Nell'aprile 1792 :
• GUERRA contro Austria e Prussica
• Giro di vite nella politica interna contro disfattisti e controrivoluzionari.
Ancora una volta l'assemblea si trovò ad un punto morto; incapace di decidere e di organizzare
l'azione di governo. A prendere le redini del paese fu “di fatto” la COMUNE INSURREZIONALE ,
che aveva al suo interno rappresentanti degli stessi “partiti” dell'assemblea ma in proporzioni
diverse. In pratica la guida passò in mano al gruppo giacobino che lo mantenne per quasi due anni,
pur in forme e con interpreti diversi.
La guerra
Inizialmente l'esercito prussiano avanzava minaccioso verso Parigi. Il nuovo organo dirigente (la
comune di Parigi) rispose al “panico da sconfitta” con una serie di leggi eccezionali che
smantellarono il sistema di potere appena introdotto.
• Tribunali speciali
• Repressione ai controrivoluzionari (considerati contro la patria)
• Abolizione della monarchia (21 settembre 1792); processo e condanna a Luigi XVI.
• Dichiarata la repubblica francese. Costituzione nel giugno 1793.
• Convenzione. Al posto dell'assemblea nazionale, una nuova assemblea costituente.
• Grande reclutamento di soldati tra la popolazione. Propaganda nazionalista (adottata al
Marsigliese, dal canto di un battaglione dell'esercito).
• Nuovo calendario
Risultati?
Vittoria militare a Valmy il 20 settembre 1792.
Moltiplicazione dei fronti di guerra: entrano anche Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Savoia e altri
principati tedeschi. Le cose si mettono male per la Francia.
In risposta la Comune opta per la leva obbligatoria, ingrossando le fila dell'esercito fino a circa
700.000 unità.
L'arruolamento coatto provocò una resistenza fortissima. Nelle campagne (dove l'influenza della
chiesa era molto profonda) le famiglie erano determinate a non mandare i giovani a combattere per
la rivoluzione: in alcune zone si scatenò una vera e propria guerra civile. Tra le numerose aree di
guerriglia la Vandea (zona a nord e sud della Loira) è la più celebre.
MARZO 1793
Le rivolte indussero il potere (sempre più stretto nelle mani di pochi) ad una nuova serie di misure
repressive e coercitive:
• tribunale rivoluzionario
• comitato di salute pubblica
• comitati di sorveglianza
N.B.
E' la guerra che crea il meccanismo perverso per cui la paura della sconfitta legittima l'adozione di
una serie di misure eccezionali anti-democratiche. Inoltre la necessità di autoritarismo accentra il
potere nelle mani di pochi. In breve troviamo un potere autoritario e pressoché illimitato (esercitato
da uno o da pochissimi) che, in nome della sicurezza e della patria, muove contro i nemici esterni e
contro gli oppositori interni con tutti i mezzi. Il passo verso un regime di terrore è breve, perché di
fronte alle sconfitte militari la principale arma a disposizione dei governi è la mobilitazione
generale , l'esasperazione dei contrasti, la realizzazione di un mondo dove si è a favore o contro; e
chi è contro deve essere eliminato!
Nel corso del 1793 le vicende belliche andavano male per i francesi; le rivolte interne non si
placavano. Erano le condizioni ideali per accelerare la spirale funesta della guerra totale:
nell'ottobre 1793 fu emanato l'obbligo di arruolamento per tutti i giovani tra i 18 e i 25 anni; fu
requisito il grano nelle campagne; fu portato al massimo grado il regime poliziesco di repressione
controrivoluzionaria. I tribunali speciali lavoravano a pieno ritmo condannando alla ghigliottina
migliaia di persone (con processi sommari, spesso senza prove) per ragioni politiche. I leader delle
varie fazioni si eliminarono tra sé, infatti chi raggiungeva il potere faceva condannare a morte i suoi
avversari politici. Finirono così ghigliottinati tutti i principali protagonisti del Terrore: Danton,
Herbert, Desmoulins ecc.
Nel luglio 1794 la svolta: l'esercito dopo alcune vittorie importanti (tra cui quella di Napoleone
Bonaparte a Tolone) ottiene una vittoria fondamentale a Fleurus che sancisce in pratica il successo
militare della repubblica francese. Nello stesso periodo le rivolte interne si placarono fino a
rimanere solo casi sporadici. A questo punto non c'erano più ragioni di misure di emergenza. Anche
Robespierre, “l'incorruttibile” il grande timoniere della repubblica giacobina, fu scalzato dal resto
del comitato e condannato a morte; per il calendario rivoluzionario era il 9 termidoro, per il resto
del mondo il 27 luglio 1794.

La repubblica giacobina (1792-1794)


Per uscire dallo stallo e per prevenire una possibile azione militare dei paesi confinanti (Austria,
Prussia) l'assemblea si decise a giocare la carta della guerra.
Nell'aprile 1792 :
• GUERRA contro Austria e Prussica
• Giro di vite nella politica interna contro disfattisti e controrivoluzionari.
Ancora una volta l'assemblea si trovò ad un punto morto; incapace di decidere e di organizzare
l'azione di governo. A prendere le redini del paese fu “di fatto” a COMUNE INSURREZIONALE ,
che aveva al suo interno rappresentanti degli stessi “partiti” dell'assemblea ma in proporzioni
diverse. In pratica la guida passò in mano al gruppo giacobino che lo mantenne per quasi due anni,
pur in forme e con interpreti diversi.
La repubblica conservatrice
La repubblica conservatrice (1794-1799)
Il potere tornò nelle mani dei moderati, che agirono attraverso il lavoro nella Convenzione
(l'assemblea parlamentare).
La rivoluzione è finita?
Con l'uscita di scena di Maximilien Robespierre e la revoca delle misure di emergenza, l'epoca della
rivoluzione sembrava destinata a concludersi. Ancora una volta ci fu chi dichiarò terminata la
rivoluzione.
La Convenzione riprese la guida del paese e stilò una nuova costituzione (1795) , molto meno
radicale ma comunque piuttosto avanzata, che confermava la natura repubblicana dello stato; le
libertà civili (opinione, stampa, riunione); introduceva l'istruzione obbligatoria; confermava
l'autonomia della magistratura e il sistema dei Dipartimenti e dei Municipi guidati da Consigli
rappresentativi.
Perché non va tutto a posto?
• C'è la vendetta dei monarchici. Mentre la Convenzione e il nuovo organo esecutivo, il Direttorio ,
tentavano la pacificazione chiudendo i circoli giacobini, si scatenò il “terrore bianco”: a Parigi
bande di giovani benestanti imperversavano alla caccia di giacobini e sanculotti da randellare; nel
sud del paese la ritorsione era anche più violenta con arresti e omicidi politici.
• Crisi economica. Le nuove manifestazioni di protesta di sanculotti e popolani sono represse dalle
forze dell'ordine. (I giacobini accolsero spesso le richieste degli strati popolari.)
• Le elezioni per la nuova assemblea furono vinte dai monarchici. In pratica il governo rimase nelle
mani dei repubblicani grazie ad un escamotage (una quota di “diritto” per i rivoluzionari) ma il
Direttorio (composto da 5 membri scelti dall'assemblea) si trovò stretto tra i monarchici a destra e i
giacobini – sempre molto popolari nelle città – a sinistra.
La fine della Rivoluzione
Il Direttorio (in pratica il governo) si trovava sotto pressione da destra (DX) e da sinistra (SX) :
SX (Giacobini e non solo...)
Nel 1796 Filippo Buonarroti e Gracco Babuf organizzano al “Congiura degli Uguali” per rilanciare
l'ideale rivoluzionario. Novità importante tra le rivendicazioni l'abolizione della proprietà privata. Il
tentativo fallì.
DX (Monarchici)
Nel 1797 vinsero le elezioni. Ma il Direttorio, le considerò nulle e fece arrestare i leader politici.
L'esportazione della rivoluzione
In difficoltà crescenti (il Direttorio) ancora una volta ricorse alla guerra per trovare una via d'uscita
dalla crisi. L'idea era quella di creare un “cuscinetto” tra la Francia e i paese antirivoluzionari per
eccellenza: Austria, Prussia, Savoia. Sebbene nelle intenzioni la campagna d'Italia doveva essere un
semplice diversivo, le vittorie del giovane generale Napoleone Bonaparte trasformarono nella
sostanza il senso dell'iniziativa militare e, in breve tempo, anche l'esito della rivoluzione.
Le conquiste territoriali furono sancite dalla nascita di repubbliche sorelle: il 15 maggio 1796
Napoleone entrava trionfalmente a Milano (grande ammirazione degli illuministi lombardi per gli
uomini della rivoluzione) e iniziò la sua gestione autarchica della guerra.
Anziché utilizzare i successi contro l'Austria al tavolo dei negoziati, Napoleone varò
autonomamente una innovativa politica estera che “creava” stati “satelliti” con leggi e istituzioni
mutuate dalla repubblica francese.
La nascita delle repubbliche filo-francesi si seguì a ritmo incalzante: la prima fu la repubblica
Cispadana [1] , poi fu la volta della R. Cisalpina (1797) che inglobò i territori ex-pontifici con il
Lombardo-Veneto. Successivamente nacquero la repubblica romana e la repubblica napoletana.
La discesa di Napoleone nella penisola alimentò entusiasmi patriottici – celebre a tal proposito
l'opera di Ugo Foscolo – e diede avvio al movimento che andrà a confluire nel Risorgimento.
Ma cosa succede a Parigi?
Gli anni dei trionfi militari di Napoleone sono anni di difficoltà per il Direttorio sempre più in bilico
tra la sinistra popolare e la destra reazionaria e monarchica. Approfittando dell'enorme prestigio del
giovane generale, alcuni vecchi saggi della classe dirigente francese cercano di screditare il
Direttorio e proporre una soluzione transitoria che si appoggiasse esplicitamente sulla conduzione di
Napoleone. Quando il generale rientrò dalla sfortunata campagna in Egitto (celebre la sconfitta
navale contro l'ammiraglio Nelson della flotta britannica) erano mature le condizioni per un
cambiamento politico radicale.
Con il colpo di stato del novembre 1799 e la nascita del Triumvirato composto da Sieyès, Ducos e
Napoleone Bonaparte la rivoluzione – come proclamò lo stesso Napoleone – era davvero finita.
[1] La Repubblica Cispadana, poi integrata alla repubblica Cisalpina, merita un posto nella storia
d'Italia per aver dato i natali alla bandiera. Riprendendo il vessillo francese fu variato il primo
colore adottando il verde al posto del blu. Rimase immutata invece la figura (strisce larghe verticali)
e la sequenza del bianco e rosso.
Storiografia
La rivoluzione francese, una rivoluzione borghese?
E' Karl Marx che espone la teoria dello sviluppo lineare della storia sulla base della lotta di classe,
che muta in conseguenza ai cambiamenti nella struttura economica
Società feudale (distrutta dalla borghesia)
società capitalistica (distrutta dal proletariato)
comunismo (fine della storia)
La rivoluzione secondo Marx è una trasformazione che abbraccia tutti i campi della vita pubblica:
politica, sociale ed economica. Così la rivoluzione francese segnerebbe il primo passo di questo
processo storico, diventando il modello classico di rivoluzione borghese.
Prima della rivoluzione francese:
1. stato aristocratico
2. aristocrazia classe dominante
3. modo di produzione feudale
4. struttura del privilegio
Dopo la rivoluzione francese:
1. stato borghese
2. borghesia alla guida dello stato
3. modo di produzione capitalistico
4. uguaglianza giuridica
Storiografia, marxisti e revisionisti
L'interpretazione di Marx e la propaganda dei rivoluzionari stessi ha creato una vera e propria
ortodossia nell'interpretazione storica della rivoluzione francese. Una ortodossia che è giunta fino
agli anni Cinquanta del secolo scorso.
La storiografia marxista ha quindi trattato la rivoluzione francese come il passaggio (violento) dal
sistema feudale a quello capitalistico-borghese.
Jules Michelet, Jean Jaures, Albert Mathiez, Georges Lefebvre, Albert Soboul sostengono che la
borghesia nel 1789 fosse giunta al culmine della “lotta di classe” con l'aristocrazia: una casta chiusa,
arroccata nella conservazione del potere e nel mantenimento del sistema feudale. Il risultato della
rivoluzione è uno stato più avanzato sotto il profilo economico, sociale e politico.
Nel 1954 [1] uno studioso inglese, Alfred Cobban, rilegge la storia degli anni rivoluzionari negando
la teoria marxista di “big ban” capitalistico. Attraverso uno studio molto attento del materiale
dell'epoca confuta tutti i punti sostenuti dalla storiografica “classica”:
1 – Non c'era il feudalesimo.
Nel 1789 solo un terzo delle terre apparteneva alla classe aristocratica e i tanto sbandierati privilegi
non erano altro che rimasugli insignificanti per lo sviluppo economico.
2 – Non è la borghesia a fare la rivoluzione.
La miccia fu accesa dai nobili che contrastarono le riforme finanziarie proposte dal governo. Strano
che LA RIVOLUZIONE BORGHESE sia innescata da un conflitto tra re e nobili!
Nell'assemblea nazionale non c'erano rappresentanti della fantomatica borghesia capitalistica
(industriali, ricchi artigiani, imprenditori) bensì esponenti della categoria degli “Officiers” ossia i
funzionari pubblici che si erano comprati le cariche dalla corona. Questo corpo, istruito ma non
molto importante, voleva contare di più e avere maggiori compensi economici. Ma non sono certo
loro a promuovere lo sviluppo capitalistico del paese.
3 – La rivoluzione danneggia l'economia.
I dati economici confermano l'effetto negativo dei fatti del 1789-1799 sullo sviluppo economico. La
rivoluzione ha funzionato da freno e non da volano per il passaggio da una società protoindustriale a
una società industriale moderna.
Le pubblicazioni di Cobban fanno scuola in Inghilterra. Dopo di lui altri storici rilanciano la teoria
anti-marxista. Taylor sostiene che i rivoluzionari agiscono con l'intento di imitare lo stile di vita
della nobiltà. Doyle dimostra come il processo rivoluzionario non si sia sviluppato secondo lo
schema della lotta di classe: appartenenti agli ordini privilegiati erano tutt'altro che chiusi alle
rimostranze dei borghesi. Infine R Forster sostenne che l'aristocrazia non viene assolutamente
distrutta dalla rivoluzione: nel 1815 infatti le famiglie nobili sono praticamente le stesse del 1789.
La risposta dei marxisti
Le posizioni degli anglossassoni sono talmente convincenti che molti storici marxisti rivedono la
propria lettura dei fatti alla luce delle nuove interpretazioni. Gli danno ragione sulla minimalia dei
privilegi (ma sottolineano l'importanza simbolica di questi); accolgono l'analisi sugli officiers (ma
sostengono l'importanza “in prospettiva” di questa classe sociale); assumono come giusta la
posizione di una campagna francese spesso contraria alle istanze rivoluzionarie, quindi alla
borghesia e al capitalismo. In generale però ribadiscono l'enorme importanza storica di “esempio”
per tutto il mondo. In particolare François Furet, il maggiore storico della rivoluzione francese,
riprese in mano tutta la questione arrivando, in un certo senso, ad un punto di sintesi.
Secondo Furet la rivoluzione francese va considerata attraverso tre processi distinti:
• LIVELLO ECONOMICO
Inizia la trasformazione capitalistica, ma non c'è un cambiamento positivo, non c'è crescita
economica. Anzi, la rivoluzione è negativa per l'economia francese. Ha ragione Cobban.
• LIVELLO STORICO SOCIALE
Anche qui gli anglosassoni hanno ragione. Nel 1815 l'ordine sociale è pressoché identico. I borghesi
sono dei conservatori simili agli aristocratici; vogliono mantenere i privilegi ottenuti e gli industriali
innovatori non ci sono. Il risultato finale è un compromesso tra grande borghesia e aristocrazia.
• LIVELLO POLITICO
E' il campo delle grandi trasformazioni. Ricordiamoci di Sckocpol: state braking, state making.
Trionfano le idee illuministiche della libertà dell'individuo e della libertà del commercio. Vale la
legge “uguale per tutti” e c'è una carta dei diritti del cittadino al di sopra dell'autorità del capo di
stato. E' finito il potere “divino” e il “modello” feudale. Al suo posto la NAZIONE raccoglie la
sovranità popolare e la realizza tramite un governo eletto liberamente.
Quindi c'è “rivoluzione borghese” o non c'è?
Nel 1989 la questione non è più dibattuta. La visione anglosassone ha vinto, anche se è solo una
visione parziale.
Tra il 1770 e il 1870 c'è stato un doppio processo di trasformazione: economico e istituzionale.
ECONOMICO
Nel 1770 è un sistema che inizia il processo di modernizzazione. La società non era più organizzata
secondo i parametri tipici dell'età feudale, ma restava qualche elemento fortemente simbolico
(privilegi, status speciale) utile per ribadire la gerarchia di ceto.
Nel 1870 la Francia è un paese moderno, organizzato secondo il sistema capitalistico.
STATO
Nel 1770 c'è ancora una monarchia assoluta con un sistema di signorie locali più vicino al sistema
feudale che al moderno stato. L'autorità centrale non ha un reale controllo del territorio.
Nel 1870 la Francia è una repubblica presidenziale con parlamento e libere elezioni (a suffragio
ridotto). La legge tutela tutti i cittadini in modo ugualitario, esiste una carta dei diritti di
cittadinanza, il fisco preleva dall'intero corpo produttivo.
Lo storico Thompson ha parlato di “grande arco della trasformazione”. Un processo che interessa
tutti i paesi con tempi e modi differenti. E che interessa i vari campi in tempi e modi differenti.
Come si vede dal grafico il progresso della politica non coincide con lo sviluppo dell'economia.
L'economia soffre le turbolenze della rivoluzione; sono le innovazioni del primo ottocento (treno,
telaio meccanico) a far compiere il grande balzo. Viceversa la politica conosce un clamoroso
avanzamento negli anni rivoluzionari, per poi tornare indietro (ma non al 1789) dopo il 1815 nel
periodo della “restaurazione”.
La rivoluzione francese non può essere considerata rivoluzione borghese; è l'intero processo di
trasformazione a rivoluzionare stato, economia e società.
È il processo, non il momento!
[1] Cobban tiene un discorso alla University College di Londra nel 1954 dal titolo “il mito della
rivoluzione francese” a cui farà seguire nel 1964 un testo monografico che approfondisce le varie
questioni. Si tratta del libro in edizione italiana “La rivoluzione francese”, Bonacci Editore, 1994.
COSA CAMBIA IN CONCRETO LA RIVOLUZIONE?
Vediamo qual è il contributo della rivoluzione al processo di trasformazione.
Sotto il profilo economico hanno certamente segnato un passo in avanti le leggi di liberalizzazione
degli scambi commerciali: furono abolite le dogane interne, furono aboliti i balzelli territoriali,
come le decime e altri residui delle epoche precedenti. Molto controversa fu la legge
LE CHAPELIER che abolì il sistema delle corporazioni. In pratica colpiva i lavoratori dipendenti
togliendogli le garanzie e le protezioni tradizionali. Il vantaggio era per gli imprenditori che
avevano meno spese e minori obblighi.
Nel complesso però la guerra civile che in pratica attanagliò il paese per oltre tre anni danneggiò il
sistema economico, colpendo il commercio coloniale e l'attività portuale di città come Marsiglia e
Bordeaux. La lenta penetrazione del sistema di fabbrica nelle campagne fu interrotto a causa della
rivoluzione.
Dal punto di vista istituzionale la rivoluzione porta a grandi novità:
• Laicizzazione dello stato
• Pubblica amministrazione razionale ed efficiente
• Istruzione per tutti
• Uguaglianza giuridica
• Diritti civili
• Esercito di leva
Conclusione
Si può ritenere la rivoluzione francese come un momento nel processo di “rivoluzione borghese”
che ha contribuito alla sua realizzazione in modo esiguo, anzi, negativo per l'aspetto economico e in
modo fondamentale, nonché altamente positivo a livello politico, giuridico e istituzionale.
N.B. né rivoluzione economica, né rivoluzione sociale. Solo rivoluzione politica, giuridica,
istituzionale.
DALLA RIVOLUZIONE AMERICANA AL NEW DEAL
Verso il '48 

FRANCIA con Filippo D'Orleans la Francia poteva vantare un regime liberale moderato con un
censo di circa 200000 cittadini. Il movimento socialista muoveva i primi passi, intrecciandosi con
spinte repubblicane mai sopite. Intorno al 1835 l'attentato al re la condanna antiliberale della chiesa.
I politici principali del periodo furono Thiers e Guizot, in luce nei moti del '30 ma poi fieri
oppositori di riforme sociali importanti. 
GRAN BRETAGNA i partiti principali sono il Conservatore e il Liberale. In questa fase inizia il
periodo d'oro della storia britannica che coincise con la permanenza al trono della regina Vittoria
dal 1837 al 1901. Infatti questa è detta anche “età vittoriana”. Nel 1838 esplode il movimento
cartista con rivendicazioni operaie in parte represse in parte accolte. 
Nel 1846 avviene il fondamentale passaggio politico dell'abolizione del dazio sul grano: sostenuto
dai liberali fu approvato dal parlamento quando a capo del governo c'era il conservatore Peel. La
decisione favorì le esportazioni di manufatti e prodotti industriali in genere a scapito della rendita
per proprietà terriera e produzioni agricole. 
SVIZZERA nel 1845 uno scontro tra liberali e conservatori consente ai primi di far approvare una
costituzione in linea con quanto auspicato dalla diplomazia inglese. 
ITALIA 
Caratterizzata da una frammentazione molto accentuata, si può notare una generale debolezza delle
categorie sociali “utili” per le rivoluzioni: borghesia e proletariato. 1831 Mazzini fonda la Giovine
Italia . Lui voleva la Repubblica e l'unità. Pensava di riuscire attraverso le insurrezioni di piccoli
contingenti e l'efficacia della propaganda popolare. Critica il comunismo (agli albori) perché
contrario a famiglia, nazione e proprietà. Non legando la sua iniziativa alla questione agraria fallì
sempre. I numerosi e spesso tragici blitz di giovani mazziniani finirono con lo screditare Mazzini
stesso e l'associazione. I più celebri patrioti trucidati nell'indifferenza o nell'ostilità dei contadini
furono: i fratelli Bandiera, Jacopo Ruffini, Raffaele Pepe. 
C'era però anche una nutrita schiera di patrioti moderati, che guardavano con crescente simpatia al
Piemonte della dinastia Savoia. Proprio in questi anni si ebbero le prime avvisaglie di un timido
riformismo. 
QUESTIONE D'ORIENTE 
•  crisi 1832-33 
Per l'aiuto nella repressione dell'insurrezione greca il Sultano aveva promesso la Siria al Pascià
d'Egitto. Non mantiene la promessa e scoppia il contenzioso. La Russia appoggiò la Turchia in
cambio dell'apertura dello stretto dei Dardanelli (apertura verso il Mar Mediterraneo). Anche la
Gran Bretagna si mette dalla parte dei turchi mentre la Francia caldeggiò la rivendicazione egiziana.
Quest'ultima riuscì a farsi riconoscere il controllo della Siria. 
•  crisi 1839-41 
La Turchia promosse un'azione militare contro l'Egitto per riprendere la Siria. Allarmate per un
possibile nuovo espansionismo francese GB, Russia, Prussia e Austria sfruttarono al situazione per
intervenire sulla “questione d'oriente”. Il ministro britannico Palmerston ottenne un successo
diplomatico facendo chiudere gli stretti; una opzione che fu accettata perché impediva a chiunque di
trarre vantaggio. 
COLONIALISMO 
Dalla metà dell'Ottocento i principali paesi europei furono impegnati in una corsa alla conquista
coloniale senza precedenti. Grazie alla supremazia tecnologica e militare e ad una sostanziale
riuscita della politica di equilibrio stabilita a Vienna, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania ecc.
poterono guardare al resto del mondo come a un terreno di conquista. 
GRAN BRETAGNA aveva bisogno di colonie per “piazzare” l'enorme produzione industriale e per
approvvigionarsi di materie prime. La colonia di riferimento dell'impero di sua maestà fu, dal 1876,
l'India. Come fecero 70000 militare a sottomettere 300 milioni di indiani? 
Nel 1815 la Compagnia delle Indie diventa un organismo del governo inglese. Nel 1858 la
penetrazione inglese fa un ulteriore salto di qualità, con la forte presenza di truppe militari, lo
scioglimento della Compagnia e alcune riforme strategiche volte a minare l'assetto socio-politico
del subcontinente (no schiavi, lingua inglese nelle scuole ecc.). 
(….) 
Anche con la Cina gli inglesi ebbero interessi conflittuali; lo scontro riguardava il controllo del
commercio di oppio ed ebbe come conseguenza la conquista di alcune “enclave”, tra cui Hong
Kong (1840). Sempre nel 1840 il parlamento inglese concesse l'autonomia al Canada; mentre si
completava la colonizzazione di Australia e Nuova Zelanda. Il Sud Africa entrò nell'orbita
britannica a cavallo del secolo XX, al termine di una terribile guerra contro i contadini olandesi da
molti anni insediati in territori improvvisamente scoperti ricchi di oro e diamanti. 
FRANCIA La conquista dell'Algeria del 1830 fu un preambolo della grande conquista che i francesi
fecero in Africa, ma ne costituì anche una esperienza particolare perché realizzò una vera e propria
colonizzazione; trasferendo cioè una porzione consistente di popolazione francese sul territorio
annesso. 
OLANDA consolidò in forma di colonia il controllo commerciale delle isole del sud est asiatico.
Ancora in uso il sistema schiavistico. 
SPAGNA E PORTOGALLO persero progressivamente tutte le colonie dell'America Latina. 

Il 1848 
  
Date e luoghi delle principali sollevazioni: 
12 gennaio Palermo 
22 febbraio Parigi 
13 marzo Vienna 
14 marzo Berlino 
17 marzo Milano 
22 marzo Venezia 
12 giugno Praga 
  
Perché tutto nel 1848? Ci fu una convergenza tra questione nazionale, riforme liberali e questione
sociale (processo di lunga durata) e l'incidenza della crisi economica del 1846-47. 
FRANCIA La Francia era più avanzata economicamente e socialmente degli altri paesi continentali,
non aveva problemi di nazionalità e aveva integrato in parte la borghesia nella monarchia di Filippo
d'Orleans. La questione sociale era pertanto prevalente. Quando in seguito a una crisi governativa fu
vietato un banchetto (era un tipico modo di svolgere attività politica) a Parigi si alzarono le
barricate. In soli due giorni il potere monarchico fu abbattuto e proclamata nuovamente la
repubblica: 
“Era un fatto straordinario e terribile di vedere nelle sole mani di coloro che non possedevano
nulla tutta questa città immensa piena di ricchezza” Alexis de Toqueville 
  
Il governo repubblicano adottò una politica radicale andando incontro ad un fallimento totale. Le
elezioni diedero la maggioranza ai moderati. Rivolte durissime tra governo borghese e proletariato;
alla fine la repressione lasciò una grande paura che facilitò l'elezione a presidente di Luigi
Napoleone come esponente del “partito dell'ordine". 
Fu la vittoria delle campagne cattoliche e conservatrici. Uno dei primi atti fu l'aiuto al papa Pio IX
per abbattere la repubblica di Roma. 
In pochi mesi Luigi Napoleone consolidò al punto il suo potere da rilanciare una politica
imperialista. 
AUSTRIA Furono i liberali ad innescare la miccia. Metternich rifiutò le loro richieste di riforma e
nelle vie di Vienna ci furono duri scontri. In seguito il re licenziò Metternich e concesse una
costituzione e qualche libertà civile. In tutte le regioni dell'impero prendono forza i movimenti
indipendentisti; per non perdere Ungheria, Italia e Boemia l'Austria fa marcia indietro e sceglie la
linea della repressione. 
ITALIA 
Gli stati italiani rappresentano il caso più complicato. La questione nazionale è quella prevalente, si
intreccia con un riformismo di stampo liberale e con aspirazioni espansionistiche della casa Savoia.
La politica di Pio IX aveva entusiasmato i circoli conservatori che avevano avanzato una ipotesi
neoguelfa, ovvero con il Papa a capo di una lega di stati italiani (“il primato degli italiani” di
Gioberti). In pratica c'erano tre diversi schieramenti anti-austriaci 
liberali/moderati 
sovrani stati regionali 
democratici 
La guerra all'Austria passa attraverso fasi diverse. 
FASE A – I liberali sfruttano la crisi interna dell'Austria e danno vita a rivolte a Milano (le cinque
giornate a partire dal 18 marzo e Venezia. Intanto in tutti gli stati i sovrani hanno concesso
costituzioni e libertà civili. Un successo dei liberali. 
FASE B – Carlo Alberto dichiara guerra all'Austria dando vita alla I guerra di indipendenza .
Commette più errori: 
• interviene tardi, quando i cittadini del lombardo-veneto si erano già liberati da soli, dando
l'impressione di voler trarre vantaggio da una guerra né combattuta né vinta. 
• Sbaglia tattica militare lasciando a Radeski il tempo per riorganizzarsi all'interno del quadrilatero
(Verona-Peschiera-Legnago-Mantova) 
• Per timore di richieste di stampo democratico rifiutò l'aiuto dei volontari patrioti 
• Fu ambiguo anche con gli altri re italiani. Lavorava per l'annessione al Piemonte. 
  
All'inizio l'esercito piemontese ottiene qualche vittoria MA nell'estate l'Austria inizia la
controffensiva, in Ungheria, in Boemia e in Italia. Radeski contrattacca costringendo Carlo Alberto
a chiedere l'armistizio. 
FASE C – I democratici – idealisti e romantici – non si arresero e attuarono un'azione molto forte di
resistenza a Milano e Venezia, e di indipendenza a Roma e in Toscana. Erano radicali MA non
avevano alcuna sensibilità verso la questione sociale, erano più l'ala sinistra dei moderati che una
sinistra moderna. Il loro riferirsi al popolo era solo una cosa ideale, romantica; in realtà non erano
minimamente interessati alla questione agraria e non capivano che per avere l'appoggio popolare
c'era bisogno di includere nelle rivendicazioni anche la redistribuzione della terra in un paese
composto al 90% da contadini. 
La svolta reazionaria di Austria e Francia influì pesantemente sull'esito delle rivolte italiane. 

Come si risolvono le rivoluzioni? 


I rivoluzionari francesi subiscono una repressione durissima, contando 1500 morti negli scontri,
3000 fucilati e più di 4000 deportati. Il tentativo di governo radicale era miseramente fallito e il
potere era tornato, nella nuova forma di Repubblica presidenziale, nuovamente nelle mani dei
conservatori grazie alla figura dell'uomo forte Luigi Napoleone. 
In Austria il potere si consolida nel nome della conservazione verso l'interno e della repressione
nella gestione delle province di Ungheria, Italia e Boemia. 
In Italia resta tutto come prima e, anzi, la tutela austriaca si fa più opprimente. Unica eccezione il
Piemonte che, con il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II , mantenne alcune libertà formali. 

Colonialismo 
Nel 1857 la Gran Bretagna reprime una rivolta in India, iniziando in modo sistematico
l'occupazione militare della regione. Iniziato anche lo sfruttamento intensivo di tutte le materie
prime o dei prodotti alimentari (per esempio il thé) che potevano essere utili alla madrepatria. Nel
1876 fu dichiarato lo status di impero per i territori indiani. 
Tra il 1854 e il 1865 la Francia militarizzò l'Algeria e si impossessò del Senegal. Dal '58 in Indocina
guerra dell'oppio. 
La Russia completò la penetrazione in Siberia, in Caucaso, nel nord Cina (fino a Vladivostock), in
Asia centrale ( Kazakistan, Turkmenistan ecc.) 

L'Unità d'Italia e la II guerra di indipendenza 


Solo il Piemonte non reazionario dopo il1848. I principali politici del parlamento piemontese
Cavour e Rattazzi si accordarono (accordo passato alla storia come “ connubio ”) per isolare le ali
estreme e procedere con le riforme di marca liberale. 
Intanto proseguivano i fallimenti dei mazziniani, lasciando ai moderati l'unica opzione credibile per
una revisione dei confini statali. Cavour inserì l'Italia nel gioco degli equilibri geopolitica con la
partecipazione alla guerra di Crimea: così trovò un posto al tavolo dei vincitori alla conferenza di
Parigi e mise in guardia i sovrani europei del “pericolo rosso” nell'Italia borbonica e pontificia. 
1857 fondata la Società Nazionale. Con questa mossa Cavour ottiene la fedeltà e l'aiuto dei più
influenti cospirati da Manin a Garibaldi. Rottura dei rapporti diplomatici con l'Austria. 
1858 un giovane anarchico Felice Orsini compie un attentato contro Napoleone III. L'azione
fallisce, il giovane viene arrestato e condannato a morte: ma il re francese si convinse della
necessità di fare qualcosa per l'Italia. Con gli accordi di Plombiers Cavour face firmare a Napoleone
III un patto difensivo. 
1859 Per provocare l'Austria le truppe Piemontesi iniziarono grandi manovre militari sui confini; di
fronte all'ultimatum dell'Austria Cavour rifiutò e, ad aprile, ottenne la dichiarazione di guerra.
Scattò quindi l'accordo e Napoleone III scese in Italia a guidare le operazioni militari. 
MAGENTA – SOLFERINO – SAN MARTINO sono i principali campi di battaglia, per altrettante
vittorie dei franco-piemontesi. Intanto nel centro Italia le insurrezioni fecero cadere i governi di
Modena, Parma e Granducato di Toscana. 
11 luglio – PACE DI VILLAFRANCA. La Lombardia passò al Piemonte. I plebisciti nell'Italia
centrale (marzo 1860) allargarono ulteriormente i confini del Regno di Piemonte. 
1861 Cavour era a posto così. Per i democratici però l'occasione era troppo favorevole (peraltro era
morto il re dei borboni Federico II) per non completare l'unità nazionale. Garibaldi organizza una
spedizione partendo da Quarto la notte tra il 5 e il 6 maggio: arriva a Marsala e da lì, con poco più
di mille uomini, riesce nell'impresa inverosimile di liberare l'isola. Allarmato dai successi dei
democratici Vittorio Emanuele II scende attraverso i possedimenti pontifici di Marche, Umbria e
Lazio e si ricongiunge alle truppe garibaldine a TEANO il 26 OTT 
In novembre altri plebisciti sanzionarono l'annessione anche di Marche e Umbria. 
Il 17 marzo 1861 era annunciata la nascita del Regno d'Italia. 

Guerra civile americana 1861-1865 


NORD – industria e spirito capitalistico 
SUD –latifondi di cotone e tabacco per l'esportazione 
Nel 1833 inizia il movimento antischiavista, ancora in vigore sotto una certa latitudine. Nello stesso
tempo l'espansione ad ovest faceva nascere un paese basato su fattorie e grano / tabacco e schiavi. 
Dal 1854 il partito repubblicano contro la schiavitù per rendere più dinamica l'economia interna,
come serviva alle industrie manifatturiere del nord (Boston – New York – Philadelphia). 
1860 Lincon presidente; uno smacco per il sud. 
La miccia è accesa dallo stato della Virginia, che il 20 dicembre dichiara la secessione dagli Stati
Uniti e la nascita della Confederazione. La confederazione era formata da 10 stati con capitale
Richmond e presidente Davis. 
La risposta fu la guerra civile. Il 12 aprile 1861 con la battaglia di Charleston vinta dai sudisti inzia
il conflitto. Francia e Gran Bretagna forniscono un sostegno modesto al Sud. 
Nel Nord il presidente Lincon promuoveva leggi fortemente ideologiche: fine della schiavitù e terre
gratuite ai coloni. I generali dei due eserciti erano: LEE (sud) e GRANT (nord). Nel 1863 le truppe
di Grant tagliano in due la Confederazione occupando il Teneesse e la Georgia. Il 9 aprile 1865 la
guerra finisce. Cinque giorni dopo Abramo Lincon è assassinato a teatro da un attore sudista. 

L'Italia della destra e la III guerra di indipendenza 


L'unità d'Italia pone ai primi governi, guidati dalla maggioranza parlamentare conservatrice,
problemi enormi, legati in gran parte alla incredibile diversità delle regioni italiane. Come fare,
quali criteri seguire, per dare unità burocratica, militare ed economica al nuovo regno? 
Dati: 78% di analfabeti 
2100Km di ferrovie 
2% il corpo elettorale 
Fu rinnovata l'alleanza con i grandi proprietari del sud ed esteso a tutto il territorio la legislazione e
il regime fiscale in vigore in Piemonte. Scelte fatte in nome della continuità. 
1° governo – Bettino Ricasoli (1861-1862) 
2° governo – Urbano Rattazzi (1862) 
Nei pochi mesi della sua guida il governo fu messo in difficoltà dall'iniziativa di Garibaldi per
prendere Roma: le truppe reale si scontrarono con quelle irregolari del grande generale in
Aspromonte. 
3° governo – Minghetti 
Accordo con la Francia per lasciare Roma al Vaticano. La capitale sarebbe stata Firenze; proteste a
Torino. 
4° governo – La Marmora (1864-1866) 
Firenze diventa capitale, viene stipulato un accordo militare con la Prussia. 
Pochi mesi dopo lo scontro Prussia-Austria induce l'Italia ad approfittarne per prendere il veneto
( III guerra di indipendenza ). Le battaglie di CUSTOZA sulla terraferma e LISSA sul mare, sono
due umilianti sconfitte per il giovane esercito nazionale. La sconfitta dell'Austria permette
comunque all'Italia di acquisire il Veneto (pace di Vienna, ottobre 1866). 
Governi Ricasoli e Rattazzi [2] - tiene banco la questione romana. 
Governo Menabrea – c'è il tentativo fallito di Garibaldi (1867) 
Nel 1870 la Francia , che s'era fatta paladino della causa vaticana, sconfitta dalla Prussia,
abbandona il Papa al suo destino. Il governo italiano rompe gli indugi e occupa la città di Roma,
con il celebre ingresso dei bersaglieri dalla breccia di Porta Pia (20 settembre). Un plebiscito
sanzionò l'annessione. 
BRIGANTAGGIO (1861-1865) 
Il fenomeno dei “briganti”, cioè fuorilegge a giro per le campagne del sud, fu dovuto
principalmente al peggioramento del livello di vita già molto basso, delle popolazioni del meridione
dopo l'unità. L'aumento delle tasse e la leva obbligatoria (che toglie braccia ai contadini) scatenò
una reazione che assunse la forma del brigantaggio e che fu strumentalizzata dal clero e dai borboni.
Una inchiesta parlamentare guidata dal deputato Massari indicò molto bene la relazione tra cause ed
effetto del fenomeno. Fu ignorata e risolto il problema con il pugno di ferro, cioè con una
repressione molto dura. La politica dei governi di destra fu tutta orientata allo sviluppo industriale
del nord: aumento delle tasse per i prodotti agricoli, il corso forzoso (stampa di banconote maggiore
del valore corrispondente dell'oro), nessuna protezione per l'importazione di prodotti agricoli. 
Fu grande soddisfazione per alla fine dell'età della destra storica, nel 1876, poter annunciare il
raggiungimento della parità di bilancio. 
1864 
– I internazionale socialista con Marx e Bakunin. I contrasti tra le varie anime del movimento
(comunismo, anarchismo, sindacalismo ecc) furono talmente forti da essere sciolta nel 1876. 
- viene pubblicato il “SILLABO” enciclica apostolica in cui si condanna tutto ciò che è moderno,
dalla libertà di coscienza alla scuola laica, dal liberalismo al socialismo. 
 Gran Bretagna 
Dopo il 1870 la Germania in forte crescita metteva in discussione la leadership mondiale della Gran
Bretagna. I principali esponenti politici della seconda fase dell’età vittoriana furono DISRAELI
(conservatore dal 1874) e GLADSTONE (liberale dal 1880).
Comincia l’azione terroristica a favore dell’indipendenza irlandese; anche in parlamento emerge la
“questione irlandese” con l’ostruzionismo dei deputati eletti nell’isola “verde”.
1884 il corpo elettorale passa da 3 a 5 milioni.  Nasce la “Fabian Society” una componente molto
rilevante per il pensiero politico socialista, che da quel momento abbandona sostanzialmente la
linea rivoluzionaria per abbracciare la linea riformista, per quanto radicale possa essere.
Francia
In seguito alla sconfitta con la Germania e la resa di Versailles nuova repubblica guidata da Thiers.
A Parigi, nel marzo 1871, scoppia l’insurrezione e viene proclamata la Comune. A maggio, al
termine di un assedio durissimo, la città viene ripresa dall’esercito regolare (aiutato dalla Germania)
e sottoposta ad una feroce repressione.
La III repubblica nasce sotto l’insegna dell’autoritarismo: Thiers presidente, pochi poteri al
parlamento e leva obbligatoria. Solo nel 1880 iniziano alcune concessioni sulle libertà civili. Verso
la fine del secolo la contrapposizione tra socialisti e conservatori si fa sempre più evidente, come
dimostra L’AFFAIRE DREYFUS del 1894. Dreyfus era un giovane tenente ebreo condannato
seppur riconosciuto innocente, proprio perché ebreo. Alla fine fu scagionato.
COLONIALISMO 
Nel 1876 la regina Vittoria diventa imperatrice d’India. Molto diffuse ideologie razziste ed
espansionistiche. I conservatori erano decisamente schierati per l’espansionismo mentre i liberali
auspicavano una politica di mantenimento dei confini già vastissimi dell’impero.1885 primi episodi
di insurrezione in India. La contesa per il canale di Suez, aperto nel 1869, fornirà alla Gran
Bretagna l’occasione per portare sempre più truppe nell’area, fino a conquistare l’intera  regione tra
Egitto e Sudan (completata nel 1898).Tra il 1898 e il 1902 guerra contro i boeri in Africa del Sud.
Naturalmente fu un’altra vittoria.
FRANCIA dal 1871 l’Algeria viene colonizzata: in seguito ad una rivolta la repressione porta alla
politica di consolidamento del territorio attraverso una vera e propria colonizzazione; diventa una
seconda Francia. Negli anni successivi conquista la Tunisia(sottratta all’Italia) il Madagascar, il
Senegal, la Somalia e buona parte dell’Africa Occidentale. Conquiste asiatiche in Indocina.
Germania
La grande Prussia diventa Germania, federazione di 25 stati autonome ad esclusione della politica
estera e della guida economica decise dal governo del cancelliere. Il governo non rispondeva alla
maggioranza parlamentare (reichstag) bensì solo al Kaiser (l’imperatore). La guida di Bismark
punta a rafforzare lo stato, indebolendo sia il mondo cattolico sia il movimento socialista. Grande
esaltazione del nazionalismo tedesco e concessione di un primo pionieristico sistema di
assicurazione sociale per i lavoratori dell’industria. Bismark era contrario alla politica coloniale
mentre gli industriali erano favorevoli. Ebbero la meglio gli industriali e anche la Germania si tuffò
nell’avventura coloniale conquistando alcuni territori nell’Africa  orientale.
1888 sale al trono Guglielmo II con l’idea di realizzare il secondo Reich. L’antagonismo con
Bismark porta quest’ultimo alle dimissioni nel 1890.
 Austria 
1867 concessa la costituzione. Il re manteneva ampi poteri, così come il clero nella società
austriaca. Diventano pressanti le spinte indipendentiste:
CECOSLOVACCHIA: Masaryr leader del movimento per l’indipendenza della Boemia e
Slovacchia fonda nel 1900 il partito progressista.
UNGHERIA supremazia magiara sulle tante minoranze. Si propone il problema delle minoranze
etniche nei nuovi stati nazionali. Rimane lo status di impero Austro-ungarico.
Russia
Dopo il 1865 Alessandro II ripiega su posizioni conservatrici. La borghesia è ininfluente. E’ invece
il “populismo” una corrente politica radicale di sinistra a prendere campo, facendo nascere anche
una forma di terrorismo politico. Nel 1881 lo Zar viene assassinato. Il successore Alessandro III
abbandona la strada del timido riformismo e approva un piano di repressione e “russificazione”
delle province: Polonia, Ucraina, Finlandia ecc.
1894 NICOLA II
Con questo zar la Russia conosce una prima forma di industrializzazione: lo stato investe per
cercare di colmare il divario con le potenze continentali e a Pietroburgo e Mosca nascono grandi
fabbriche e quartieri operai. A cavallo del XX secolo arrivano anche i primi scioperi e le rivolte. Si
costituiscono e acquisiscono molta forza i partiti operai: Partito Socialidemocratico e Partito Social-
rivoluzionario. La sinistra russa guarda anche ai contadini e alla comune di Parigi come modello di
governo.
 Italia (i governi della sinistra)
La parità di bilancio era costata carissimo sul piano dell’equilibrio sociale. Le riforme erano
indispensabili. Dal punto di vista della provenienza del corpo politico c’è da registrare la fine del
monopolio degli uomini del nord e della grande nobiltà.
DE PRETIS nel 1875 si presenta con il celebre “discorso di Stradella” in cui promette un po’ di
tutto inaugurando la demagogia elettorale. L’anno successivo diventa capo del governo. Anziché
rivoltare la linea politica cambia pochissimo, inventando praticamente il “trasformismo” che
annacqua le differenze politiche dei due principali schieramenti (conservatore e progressista) con
una pratica di governo consociativa e accomodante per tutti. Allo stesso tempo la maggioranza
parlamentare mantiene in costante marginalità le ali estreme della rappresentanza politica sia a
destra che a sinistra. E’ stato accertato e storicamente riconosciuto il ricorso alla pratica della
corruzione e dei brogli per mantenere in efficienza il sistema.
Riforme importanti:
-          2 anni di scuola obbligatoria
-          Abolizione della tassa sul macinato
-          1883 abolizione del corso forzoso
-          Aumento del corpo elettorale
1882 TRIPLICE ALLEANZA l’Italia stipula un patto difensivo con gli imperi centrali di Austria e
Germania. Inizia l’avventura coloniale con il tentativo – fallito – di conquistare l’Etiopia.
1887 governo CRISPI Riprende l’aspirazione imperialista. 1889 Trattato (bilingue) di Uccialli fatto
con il re etiope MENELIK. Una diversa interpretazione della traduzione permise quel contenzioso
che portò alla guerra tra Italia e Etiopia.
Altre leggi di rilievo del periodo: diritto allo sciopero; abolita la pena di morte.
Il governo cerca di contrastrare l’ascesa del movimento socialista, che dal 1892 haanche un suo
riferimento nel Partito Socialista guidato da intellettuali come Costa, Turati e Labriola.
 GIOLITTI è un liberale. Con varie e diverse cariche è l’uomo che segnerà la vita politica del paese
fino al 1913. Sale in carica nel 1892 al posto di Crispi. La sua idea è quella di aumentare il consenso
attraverso la concessione di diritti civili. Affiancherà a questa politica “alta” la pratica meno
lusinghiera di cercare sempre il compromesso con chiunque. In un primo tempo la sua condotta fu
poco gradita (non represse le agitazioni dei fasci siciliani) e tornò Crispi. Con lui riprese la guerra ai
socialisti e la guerra per i territori africani: nel 1896 ad Adua l’Italia fu umiliata contando la prima
sconfitta militare di un paese europeo in Africa e 7000 soldati morti. La tragedia costò il posto a
Crispi. Seguirono alcuni governi molto provvisori: Rudinì tra il 96 e il 98 che oscillava tra i
moderati e i reazionari. Pelloux  fece un governo autoritario sfociato nella strage di Milano: nel
maggio del 1898 il generale Bava Beccaris si rese famoso facendo sparare sulla folla in coda per il
pane causando molti morti e una grande indignazione.
29/07/1901 assassinato il re Umberto I. Gli succede Vittorio Emanuele III
Il governo intanto è a guida moderata. Con il nuovo secolo arriva anche lo sviluppo economico e
l’industrializzazione. I capitali furono trovati nelle banche e nello stato. La politica protezionistica
favorì le fabbriche italiane ma svantaggiò i prodotti agricoli del sud. Queste scelte furono tra le
cause della eccezionale ondata migratoria che interessò il popolo meridionale tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Stati Uniti
Lasciata alle spalle la guerra di secessione gli Stati Uniti devono scontare una divisione nord-sud
molto forte: nel 1866 il razzismo prende la forma del famigerato Ku Klux Klan, cittadini bianchi
anglosassoni protestanti (definiti dall’acronimo WASP) mossi da un’odio ideologico verso gli
afroamericani liberati dalle catene della schivitù. A riflettere questa impostazione culturale sta la
struttura economica. Gli stati del sud erano dipendenti ancora dalle grandi piantagioni e
auspicavano una politica di liberismo; viceversa gli stati del nord – che imposero come vincitori il
loro punto di vista – propugnavano il protezionismo a favore dei grandi gruppi industriali e
finanziari. New York e Wall Street segnarono il nuovo corso della più grande repubblica del mondo.
Un corso vincente, se è vero che nel 1898 c’è il sorpasso in termini di Pil assoluto degli Usa alla
Gran Bretagna (primato ancora attuale) e che nel giro di pochi anni le immense ricchezze territoriali
furono integrate a un sistema industriale in grande progresso.
-          Conquista del West (sterminio e prigionia per circa 2 milioni di nativi)
-          Taylor inventa il sistema a catena di montaggio
-          Ai primi del Novecento Ford abbassa drasticamente il prezzo dell’automobile per consentire
ai suoi operai di acquistarne una. Nasce il consumismo industriale.
-          Grande violenza nella repressione di scioperi e delle organizzazioni sindacali.
 Sul fronte internazionale i diversi presidenti che si succedono sono concordi nel perseguire una
politica di espansione, non solo verso i territori vergini dell’ovest ma anche verso possedimenti di
altri stati come Russia, Messico e Spagna. Nel 1867 l’Alaska viene acquistata dalla Russia (venduta
come un deserto ghiacciato si rivelerà poi ricca di materie prime); nel 1898 conquista le isole
Hawaii e le Samoa nell’oceano Pacifico e contende alla Spagna le lontanissime isole Filippine e la
vicina isola di Cuba. Vince facilmente, ma non annette i territori. Inaugura invece la politica dei
governi fantoccio: dei governi formali svolgono in tutto e per tutto gli interessi degli Stati Uniti che
agiscono come “protettori”.
Giappone
Altro paese uscito alla fine degli anni ’60 da una terribile guerra civile. Qui si afferma un potere
imperiale determinato a modernizzare il paese sull’esempio europeo e in particolare tedesco.
L’operazione ha qualcosa di sbalorditivo, mai visto e ripetuto. Agli occhi di un europeo poteva
sembrare simile all’età medievale solamente nel 1866 per ritrovarlo militarmente competitivo e
minaccioso a fine secolo.
 Conflitti internazionali
1877 guerra tra Russia e Turchia. Gli strascichi della guerra di Crimea e la questioni degli stretti
sono problemi aperti che periodicamente tornano a insanguinare lo scacchiere mediterraneo. La
scintilla stavolta furono le rivendicazioni nazionaliste di Bulgaria e Erzegovina contro l’impero
turco. La Russia – strumentalmente per via dell’interesse per la riapertura degli stretti sul mar Nero
– si dichiarò protettrice degli slavi del sud e avviò una serie di azioni contro la Turchia.
Legata ad una serie di conflitti in territorio africano tra le altre potenze europee, la questione venne
discussa al CONGRESSO DI BERLINO del 1878 e sancì l’autonomia di una regione bulgara,
l’indipendenza di Serbia-Montenegro e il protettorato britannico su Cipro. Il mondo islamico stava
perdendo la sua integrità territoriale.
Socialismo
Nel corso della II Internazionale (1871?) fu indetto il 1° maggio festa dei lavoratori e l’obiettivo
comune per i lavoratori di tutto il mondo: le otto ore lavorative. La funzione dell’organismo era
quello di fornire il riferimento internazionale a tutti i partiti socialisti e socialdemocratici.
Inizialmente ne facevano parte anche anarchici ma furono espulsi nel 1898 per incongruenze.
Emersero ben presto distinzioni tra due linee di tendenza che segneranno la lacerazione della
sinistra per tutto il secolo successivo: ovvero la contrapposizione all’interno del movimento tra
riformisti e rivoluzionari. Partendo dall’ideologia marxista si svilupparono diverse correnti, guidate
da abili oratori e pensatori politici, come Bernestein (riformista), Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin
(rivoluzionari), Sorel (sindacalismo rivoluzionario).
LA BELLE EPOQUE (1900-1914)
in realtà con il termine "belle époque" si è soliti riferirsi ad un periodo più lungo, che parte dagli
anni '90 dell'ottocento o addirittura dagli anni '70. La visione italiana dello sviluppo però ci porta a
considerare l'età della crescita e dell'ottimismo come una finestra più piccola tra i molti decenni di
difficoltà.
Gran Bretagna
Insieme alla produzione industriale cresce il movimento operaio, che diviene sempre più
organizzato e minaccioso. Nel 1906 viene costituito il partito laburista che raccolse le diverse anime
della sinistra britannica (a differenza dei movimenti continentali non era rivoluzionaria ma
riformista, per quanto radicale). La politica era dominata dai Tories conservatori, anche se
occasionalmente andavano al potere i liberali. La crescita economica permise alla classe operaia di
ottenere importanti conquiste: otto ore lavorative, riforma fiscale a svantaggio dei grandi proprietari
terrieri. Il potere politico era ormai tutto in mano alla camera dei comuni (elezioni popolari) a
scapito della camera dei Lords (rappresentanti nobiltà) e della monarchia (avviata ad un ruolo di
semplice super-partes e guida spirituale del paese).
Teneva banco la questione irlandese, dove le spinte nazionaliste non erano più arginabili con
concessioni autonomistiche, come la Home Rule di inzio ‘900. Anche il mondo coloniale dava
segnali sempre più forti di insofferenza al controllo della corona britannica. In Sudafrica invece
furono gli inglesi a sconfiggere i boeri olandesi per il controllo delle ricchissime miniere di
diamanti.
Francia
Il governo, laico anche nelle connotazioni conservatrici, ruppe in modo drastico con il Vaticano. Nel
1905 nacque il partito socialista francese, guidato dal carismatico Jacques Jaurés. Le imponenti
manifestazioni – represse duramente – fecero ottenere ai lavoratori il diritto alla pensione di
anzianità e la domenica festiva.
I successi della sinistra allarmarono gli ambienti militaristi e reazionari, portando per risposta ad
una forte crescita del nazionalismo. Nel 1914 il partito socialista vinse le elezioni politiche.
Germania
Tasso di sviluppo economico altissimo. Questa crescita strideva con la situazione geopolitica del
mondo che premiava stati come la Francia e Gran Bretagna con imperi coloniali immensi, e gli Stati
Uniti e la Russia con immensi territori ricchi di materie prime. I tedeschi volevano cambiare i
rapporti di forza nel mondo. L’imperatore e gli industriali erano fortemente determinati a guidare
una nuova fase di espansione. Di fronte al nazionalismo crescente il partito socialdemocratico
(SPD) entra in crisi: la disputa tra rivoluzionari e riformatori paralizza l’azione della sinistra in
Germania, e porta alla sconfitta alle elezioni del 1907. In seguito la linea del partito sarà meno
internazionalista e più vicina alla linea politica del Kaiser, ovvero nazionalista. A guidare questa
svolta furono Bebel e Noske che raccolsero i frutti con la vittoria del 1913. (bisogna ricordare però
che in Germania il governo era nominato dall’imperatore e non dipendeva dal parlamento). In ogni
caso gli operai tedeschi ottennero grandi concessioni in termini di welfare e stipendio. Una base di
consenso molto ampia, che sarà molto utile al momento dello scoppio della guerra.
Russia
Lo zar Nicola II – un regnante di scarsissimo valore umano e politico – risponde alle sfide della
modernità facendo appello alle tradizioni e ai vecchi valori religiosi e autocrati. Quella minuscola
fascia di popolazione definibile come borghesia fece alcune richieste di riforme civili. La massa di
operai proletari (non più di due milioni e mezzo concentrati su Mosca e Pietroburgo) era
compattamente con i partiti marxisti. Anche i contadini, sparsi nella sterminata campagna russa,
erano nella maggior parte attratti dalle teorie rivoluzionarie dell’estrema sinistra.
Inoltre la famosa intellighenzia russa partorì alcune grandi personalità politiche che riuscirono, nel
volgere di pochi anni, di ottenere risultati inimmaginabili.
1905. Al governo ci sono i conservatori guidati da Witte. All’opposizione ci sono i liberali, in
rappresentanza della borghesia. Al di fuori dal parlamento e al confine con la legalità ci sono i
partiti rivoluzionari Contadino e Socialdemocratico (guidato da Lenin, Trocki e Martov).
La guerra contro il Giappone per il possesso delle isole Kurili si risolse in una sconfitta fragorosa.
Sull’onda del disastro il 22 gennaio in 140000 invasero Pietroburgo per protestare contro lo zar. Le
guardie armate spararono facendo 1000 morti, a cui seguirono altri scontri e scioperi. In ottobre
prese corpo l’idea di democrazia alternativa di Trocki: nacquero i soviet del popolo: assemblee di
operai, soldati e contadini in gradi di prendere decisioni politiche. Un vero e proprio contropotere ai
vari prefetti e funzionari imperiali. Questa pressione porta ad ottenere elezioni con suffragio
universale e le libertà civili. Viene istituito il parlamento russo, chiamato DUMA, ma ben presto
viene sciolto per rifarlo senza i rappresentanti dei partiti di sinistra. A fine anno inizia la reazione
violenta da parte delle truppe zariste; vengono sciolti i soviet e arrestati o uccisi i leader di partito. Il
fallimento della rivoluzione del 1905 porta ad una rottura nel partito socialdemocratico tra
menscevichi – guidati da Martov - e bolscevichi – guidati da Lenin e Trokji.
Stati Uniti
Il secolo si apre nel segno del presidente Theodore Roosevelt e della sua enfasi militaresca e
nazionalista. Il segno politico è molto diverso da quello attuale, basti pensare che era dell’ala
progressista dei repubblicani. La distinzione determinante era infatti l’approccio alla politica
economica, protesa all’espansione capitalista e alla conquista di mercati internazionali. Funzionale a
questi obiettivi era anche il superamento della conflittualità con il mondo operaio, ottenuto tramite
alcune concessioni (otto ore, ferie, pensioni ecc.) e alcuni accordi di tipo corporativo con i sindacati
che assunsero un ruolo a-politico all’interno delle fabbriche. Il successore di Roosevelt fu un
presidente di alte visioni idealiste, W. Wilson, al quale lo sfascio della vecchia Europa diede
l’occasione di illustrare una nuova visione per il nuovo mondo.
Italia
Sono gli anni di Giolitti, che propone una politica di apertura verso il movimento operaio,
rispondendo così alle esigenze di moderati e riformisti. La contrazione economica terminò nel 1896,
e si registrò il primo vero boom economico, concentrato per lo più nel triangolo industriale Milano-
Torino-Genova. La spinta allo sviluppo viene da un connubio stato-privato che segnerà la struttura
del capitalismo italiano fino ai giorni nostri. Lo stato ci mette i soldi e sceglie quali gruppi avranno
commesse e lavori; il privato prolifera all’ombra di un mercato riservato e protetto, riservandosi di
finanziare il partito politico o il clan di riferimento nei banchi di Montecitorio per riproporre in
futuro lo stesso schema. Un sistema che ha prodotto numerose conseguenze negative, dalla scarsa
capacità concorrenziale dell’industria italiana, all’affermazione su grande scale del metodo
clientelare come percorso classico per portare avanti affari e carriere. Un imprinting culturale prima
ancora che economico, in grado di costruire un’etica pubblica sui generis che apparirà ben presto
come un carattere tout court dell’essere italiano, specialmente in questioni di soldi, economia,
finanza e potere.
In ogni caso al Nord abbiamo un progresso complessivo: + industrie, + diritti civili, +
comunicazioni, + scuole, + capitali e produzione industriale;
al Sud viceversa troviamo distese latifondiste di cereali con rendite passive per lo stato. Il potere dei
notabili locali è mantenuto attraverso il “voto di scambio”. In questa stagnazione esplode il
fenomeno dell’emigrazione, con milioni di cittadini italiani che cercano fortuna verso l’America e il
Nord Europa. La tenuta dell’Italia e la sua crescita di inizio secolo devono molto anche alle rimesse
in valuta pregiata di questi emigranti della disperazione.
Questa doppia faccia dell’Italia, era anche la doppia faccia del Giolitti politico: progressista al nord
e corruttore-conservatore al sud. La sua idea era di integrare tutti i frammenti nello stato italiano.
Propose al Psi di entrare in coalizione, spaccando così il partito (ala riformista di Turati, e ala
rivoluzionaria di Labriola). La linea moderata di Turati è sconfitta e il socialismo italiano diviene
massimilista in coincidenza con le maggiori concessioni che gli furono fatte (compresi aumenti
salari e misure di assistenza sociale).
Le elezioni le vincono ancora i liberali.
1906 nasce la CGL
1910 nasce la CONFINDUSTRIA
Giolitti rinnova il protezionismo doganale, a favore delle industrie del nord.
 La nuova recessione economica innesca scioperi e malumori, favorendo la crescita del nazionalista
di stampo militarista e imperialista. Nel 1910 infuria il dibattito intorno alla spedizione in Libia.
Intanto cade l’ennesimo governo Giolitti e l’anno successivo inizierà la guerra di Libia. Unico
partito contrario era il PSI. In cambio viene concesso il suffragio universale in vista delle elezioni
del 1913. Per garantirsi i voti delle masse cattoliche viene sottoscritto il “Patto Gentiloni” che
concede molti privilegi alla chiesa cattolica (tasse, scuole, ospedali ecc.)
Le elezioni sono vinte dal Partito Socialista, ma con un sistema proporzionale puro l’incarico di
formare il governo va a Giolitti che trova il sostegno dei partiti liberale, popolare e altri minori. Il
suo è un gabinetto debole e si trova costretto alle dimissioni già nel 1914. Una linea ben più
aggressiva – in politica interna ed estera – si era affermata e trovò sbocco nella formazione del
governo Salandra.
Le alleanze pre-guerra
FR e GER erano divise da vecchie ruggini, a partire dai territori dell’Alsazia-Lorena che la
Germania aveva strappato alla FR nel 1871. GB e GER erano le concorrenti mondiali nel risiko del
colonialismo: Africa e Pacifico erano i fronti caldi della contesa. Le alleanze erano pertanto quasi di
ordine naturale: da una parte FR-GBe Russia, dall’altra GER, impero austro-ungarico e impero
ottomano (aveva perso il treno della seconda industrializzazione ed era in tutto e per tutto
dipendente dai capitali tedeschi). E l’Italia. Indecisa come al solito! Legata dalla triplice alleanza a
GER e AUS era sempre meno convinta della scelta. Infatti quando scoppiò la guerra, il governo di
Roma, si appellò all'articolo 4 che sanciva la situazione di guerra difensiva, e si dichiarò neutrale. 
Cina
Formalmente indipendente, la sua arretratezza consente a tutti i paesi europei di penetrarvi
ecnomicamente e, talvolta, costituire sul territorio delle colonie indipendenti: Hong Kong per GB,
Tapei il Portogallo, Nanchino l’Italia ecc. Nel 1900 alcuni giovani cinesi si ribellano alle
“multinazionali” europee ma vengono trucidati dai soldati stranieri. I disordini offrono un nuovo
spunto per colonizzare ulteriormente l’ex impero celeste. La parte nord-est della Cina (la penisola
della Manciuria, le isole Sakhalin e la Corea), diviene terra di contesa tra Giappone e Russia. Nel
1905 scoppia la guerra, perché lo zar – sicuro di vincere – rifiuta ogni intesa. Ma vince il Giappone:
per la prima volta nella storia un paese asiatico batte uno stato europeo.
Equilibrio internazionale:
FR preoccupata per l’espansionismo tedesco, cerca di intessere accordi diplomatici con mezzo
mondo. La GER invece compie una serie di errori o sconfitte diplomatiche.
1° sconfitta diplomatica: FR e GER si contendono il Marocco. Viene fatta la conferenza internaz. E
tutti sono favorevoli alla Francia. GB si comportò da protettrice della FR. All’epoca FR e GB erano
militarmente molto più forti della GER, che ingoiò il boccone amaro.
2° sconfitta diplomatica: tentò un accordo con la Russia. Lo zar però si rimangiò la parola una volta
tornato in Russia. I suoi consiglieri erano molto più vicini al mondo anglo-francese (il francese era,
da secoli, una lingua parlata alla corte dello zar).
3° sconfitta diplomatica: nel 1907 GB e RUS sottoscrivono un accordo di spartizione del Medio
Oriente. L’intesa GB-FR-Russia mette la GER nella condizione di essere accerchiata. 
4° sconfitta diplomatica: nel 1913 l’Italia non rinnova la triplice intesa. Si sfila l’alleato a sud, che
diviene anche un potenziale nuovo alleato dei suoi antagonisti. 
Crisi Balcanica
Un altro fronte caldo era il nord Africa. La FR invade militarmente il Marocco, mentre la GER invia
una flotta per impedirlo. Sono i generali inglesi che – intimando alla GER la possibilità di un
attacco – fanno retrocedere le truppe del Kaiser. La GER però si sta attrezzando rapidamente per
recuperare il gap dalla Gran Bretagna.
LA GUERRA
Riguarda paesi imperialisti mossi dalla volontà di ridefinire – o proteggere – i rapporti di forza nello
scacchiere mondiale.  Il 28 giugno 1914 a Sarajevo un giovane anarchico bosniaco, Gravilo
Princip, spara – uccidendolo – al principe ereditario di Austria Francesco I. Lo fece – ironia della
sorte! – per sostenere l’annessione della Bosnia alla Serbia. Per reazione l’AUS inviò alla Serbia
una lista lunghissima di condizioni sottoposte a ultimatum (e non a trattativa). La crisi va avanti un
mese circa, al termine del quale la Serbia rifiuta un punto solo; ma è sufficiente all’AUS per
dichiararle guerra: è il 28 luglio 1914. Il gioco delle alleanze porta, nel giro di una settimana mezzo
continente in guerra: 
la RUS corse in aiuto dei fratelli serbi
la GER intimò alla RUS il ritiro, di fronte al no dichiarò guerra alla RUS;
FR e Belgio andarono in aiuto dell’alleato russo
GER e AUS inviarono un ultimatum anche a loro, determinato una nuova dichiarazione di guerra e
l’ingresso nella contesa della GB, principale alleato della FR. Turchia e Bulgaria entrarono a fianco
degli imperi centrali. 
Avvicinando lo sguardo oltre la combinazione delle alleanze vediamo un grande nervosismo negli
stati maggiori dei vari paesi. La propaganda internazionalista del socialismo indicava infatti il
rifiuto da parte delle masse dei lavoratori a combattere la guerra imperialista: in molti temevano il
boicottaggio dei seguitissimi partiti marxisti. E invece la propaganda nazionalista ebbe la meglio
sulla propaganda socialista: tutti i partiti socialisti si schierarono con i rispettivi governi. Solo in
Italia, Serbia e Russia i socialisti erano contrari. In FR il leader Jaurés pacifista fu ucciso alla vigilia
della guerra. 
I cittadini e i capi di stato erano convinti che il conflitto sarebbe stato breve e che si sarebbe
concluso con una vittoria. I tedeschi avevano in mente il 1871, gli alleati le scaramucce di inizio
secolo.
La grande guerra
Piano Schlieffen (dal nome del capo di stato maggiore) era il progetto per attaccare e battere
rapidamente la FR, per poi liquidare GB prima che riuscisse a costituire un forte esercito di terra. A
quel punto le operazioni sarebbero proseguite in Russia per conquistare importanti territori ad est. 
Invece il conflitto prese subito un’altra piega. Conquistato il Belgio le truppe tedesche puntarono
verso Parigi ma furono bloccati lungo il fiume Marna. Helmuth Ludwig Von Moltke (ger) e Joseph
Joffre (fra) erano i generali che condussero la battaglia: entrambi attestarono gli eserciti lungo un
confine mobile costituito da enormi trincee. Resterà questa la tipologia del conflitto: armi troppo
potenti per un combattimento a campo aperto, ma non abbastanza per entrare nel territorio
avversario. Il gioco delle alleanze allarga il campo – e allunga le trincee – in tutta Europa: entra la
Turchia, l’Austria, la Russia e molti altri alleati minori. La guerra prosegue su fronte occidentale
(Ger-Fra) e il fronte orientale (Ger/Aus – Rus). Vengono conquistate dalle truppe tedesche la
Polonia, la Serbia e il Belgio. Ma il grande attacco lanciato nel 1916 nella zona di Verdun viene
respinto dai soldati dell’Intesa (si chiama così il fronte di alleati costruito intorno a Francia e GB).
Siamo nella primavera, in estate invece c’è la controffensiva per alleggerire il fronte lungo il corso
della Somme (tra l’altro la prima battaglia che vide impiegati dei rudimentali carri armati). La
dimensione della carneficina prodotta dalla guerra sta tutta nei numeri di queste due battaglie: circa
600.000 a Verdun, più di 1 milione per la Somme. 
Nel fronte sud, senza ripetere gli stermini del nord Europa, la battaglia si svolgeva lungo il corso
impervio delle Alpi – tra ITA e impero Austroungarico – con una leggera supremazia austriaca. 
Le difficoltà della GER a portare a termine la guerra convinsero il Kaiser a cambiare i vertici
militari: vi giunsero due nomi importanti per la storia seguente del paese Paul von Hindenburg e
Eric Ludendorff. Ma le cose non cambiarono. 
La svolta l’abbiamo nel 1917 con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. Evento ancora oggi legato
ad una serie di leggende su questo inspiegabile ritardo, ma comunque indotto dalla guerra
sottomarina che la GER conduceva per impedire i rifornimenti navali ai paesi dell’Intesa.
L’affondamento di convogli statunitensi dette  la motivazione per un coinvolgimento della potenza
americana a fianco degli inglesi. Il 6 aprile 1917 il presidente Woodrow Wilson dichiarò guerra alla
Germania. La propaganda diceva che combattere in Europa servisse per sostenere la libertà e la
democrazia, ma c’erano anche interessi economici vitali per il paese: i crediti verso l’Europa
occidentale e la possibilità di mantenere e allargare il commercio internazionale.
Nel giro di pochi mesi però le cose si mettono bene per i tedeschi. La Russia collassa, l’esercito va
in rotta e Pietrogrado (allora capitale imperiale, oggi San Pietroburgo) sembra sull’orlo della
rivoluzione. Ad ottobre gli austriaci sfondano il fronte di Caporetto e penetrano in tutto il Friuli e il
Veneto. La caduta dell’Italia è sventata dalla resistenza sul Piave. In questo anno, in tutti gli eserciti,
cresce il fenomeno della diserzione e del rifiuto della guerra. La rivoluzione d’ottobre accenderà
ulteriormente la miccia dell’internazionalismo pacifista. 
1918
A marzo c’è la firma di Brest-Litovsk per la pace separata tra GER e RUS. Tutto l’esercito tedesco
marcia su Parigi, ma l’Intesa ricca di rifornimenti made in Usa tiene bene in quella che è conosciuta
come 2ª battaglia della Marna. In estate inizia la controffensiva decisiva. Lo stesso fa l’Italia contro
le truppe austriache. A settembre con un milione di americani in suolo europeo la guerra è decisa.
L’11 novembre lo stato maggiore tedesco si arrende a inglesi francesi e americani.
 
L’Italia in guerra
Nel 1914 l’Italia è neutrale. La triplice alleanza era ormai lettera morta; nessun altro trattato era
stato sottoscritto. Una situazione che oggi appare di grandissimo vantaggio, ma che all’epoca diede
vita ad un dibattito durissimo, innescato dagli interessi delle grandi lobbies industriali e finanziarie.
Da una parte c’erano i nazionalisti e i futuristi, intellettuali e studenti, dall’altra i neutralisti classe
operaia e partito socialista. I liberali di sinistra sostenevano un’ingresso in guerra dalla parte della
Gran Bretagna e della Francia. Ma fu il re – approfittando della caduta del governo Giolitti
(contrario all’entrata in guerra) – a stipulare a Londra nell’aprile 1915 un patto segreto per aprire un
fronte sud contro gli imperi centrali. Cosa ottenne in cambio? Poco. Il sud Tirolo e l’Istria. Gli
imperi centrali, con cui lo Stato Maggiore aveva trattato un possibile accordo prima di propendere
per l’offerta inglese, offrivano quasi la stessa cosa (Savoia anziché Tirolo). Il 24 maggio l’Italia
entrò solennemente in guerra. 
Il primo ministro era Salandra; il generalissimo Cadorna. Il fronte di guerra su cui mandare migliaia
di ragazzi si dispiegò lungo tutte le alpi orientali Trentino, Veneto e Friuli. L’esercito si dimostrò
inadeguato alla guerra da trincea, con soldati male addestrati (e pochissimo motivati) e attrezzature
obsolete. Quando nel 1917 l’Austria lanciò l’attacco con i gas chimici e una tattica di aggiramento il
fronte di Caporettofu sfondato e gli italiani ripiegarono per centinaia di chilometri. La linea del
Piave funzionò da argine – siamo in ottobre con il fiume in piena - per bloccare l’invasione
austriaca. La disfatta porta al cambio di governo e dei vertici militari. Orlando è il primo ministro,
Diaz il capo di stato maggiore. Nell’estate del 1918 c’è la controffensiva vincente. La resa austro-
tedesca del 3 novembre pone fine al conflitto. Per l’Italia una vittoria amara, con 600 mila morti,
altrettanti feriti gravi e un’economia allo stremo. L’unica speranza era racchiusa nella
partecipazione, come stato vincitore, al tavolo di pace di Versailles.
Conferenza di Pace
Il 18 gennaio 1919 si apriva, nella reggia di Versailles, la conferenza di Pace per stabilire gli assetti
del dopoguerra. Ogni stato aveva obiettivi diversi:
FR – umiliare la Germania
GB – spartirsi le colonie della Germania e i territori neutrali
USA – favorire il commercio internazionale
ITA – annettersi territori limitrofi e dominare nel Mediterraneo
Orlando, rappresentante dell’Italia, fu emarginato immediatamente. Si affermò la volontà francese
di umiliare la Germania con condizioni durissime: i confini furono riportati a quelli del 1871, con
l’annessione dell’Alsazia Lorenza e l’occupazione militare della Rhur. Le colonie furono tutte
perse. Ma la vera tragedia furono i risarcimenti di guerra, che obbligarono il nuovo governo
socialdemocratico a una politica di ristrettezze assurda. 
L’impero austro-ungarico fu smembrato e la corte asburgica esautorata. Nacque la repubblica
austriaca su un territorio grande circa 1/6 dell’impero ottocentesco. Anche la Turchia perse tutto
l’impero, e rimase confinata nella penisola dell’Anatolia. I contesi stretti di Dardanelli furono
dichiarati liberi per tutti, ma sotto controllo formale della GB.

RIVOLUZIONE RUSSA
Torniamo al 1915. La Russia zarista era l’anello autocratico dell’alleanza dei paesi liberali. Un
paese attraversato da problemi di sviluppo giganteschi, che furono amplificati in modo drammatico
dallo scoppio del conflitto mondiale. L’evoluzione politica non seguì il corso classico dei paesi
europei. Una ragione risiede nella composizione sociale.
La borghesia era ridotta a poche migliaia di rappresentanti e tutti legati all’aristocrazia zarista.
Quella che normalmente era un centro progressista, in Russia era in realtà un ulteriore versione di
conservatorismo. Nel 1915 fu eletta una Duma (parlamento) con compiti consultivi, la quale chiese
alcune timidissime riforme. Lo zar, Nicola II, viveva racchiuso nelle sue dimore ed era talmente
screditato che in molti pensavano alla sua sostituzione. La crisi innescata dalla guerra rese le
condizioni di vita delle masse praticamente insostenibile. Nel febbraio 1917 iniziarono imponenti
manifestazioni di protesta. Ne presero la guida i partiti di sinistra: i socialdemocratici (in realtà
comunisti radicali) e i social rivoluzionari (partito socialista dei contadini). Come strumento di
opposizione riesumarono i consigli di fabbrica i SOVIET, ora estesi anche a contadini e soldati. Per
non essere affossati insieme allo zar, i rappresentanti borghesi esautorarono lo zar e assunsero il
controllo del governo. Karenskij – un liberale di sinistra – entrò nel governo pur essendo molto
vicino agli ambienti dei soviet. Altri rappresentanti di prestigio erano L’Vov e Miljukov contrari alla
pace con la Germania e alla riforma agraria. 
La discussione sul nuovo assetto istituzionale proseguì per tutta l’estate accanto alle continue
sconfitte militari. In seguito ad altre manifestazioni di protesta fu varato un secondo governo
provvisorio. Ma il vuoto di potere era così forte che il Soviet di Pietroburgo decideva insieme alla
Duma le scelte di politica generale. L’Vov era il premier e molti ministri erano socialisti. 
Nessuno aveva il coraggio di fare le due cose desiderate dalla massa: la pace e la riforma agraria.
Fu un piccolo partito comunista a guidare il fronte della protesta contro la politica del governo
borghese: l’ala sinistra del partito socialdemocratico guidata da Lenin e Trokji, detti bolscevichi. La
figura chiave della rapidissima espansione dei bolscevichi fu quella di Ilic Lenin. Rientrato dalla
Svizzera (con l’aiuto dei tedeschi) Lenin presentò le sue tesi di aprile come un programma politico
per il paese:
1.      Fine immediata della guerra imperialista
2.      Potere al proletariato (operai e contadini)
3.      Nessun appoggio al governo borghese
4.      Conquistare la maggioranza nei Soviet
5.      Affermare il potere di democrazia diretta dei Soviet sul modello della Comune di Parigi
6.      Espropriazione delle terre ai grandi proprietari
Era una proposta realistica, su cui lottare da subito. Gli altri partiti erano meno lineari nelle
posizioni.
Con le sommosse di agosto cadde il governo e fu sostituito dall’esecutivo a guida Karenskij.
Indeciso se proclamare la repubblica e allearsi ai bolscevichi, oppure perseguire la linea borghese e
sopprimere le manifestazioni antigovernative Karenskij riuscì a inimicarsi tutti i partiti presenti in
Russia. 
A settembre i Soviet di Mosca e Pietroburgo diedero la maggioranza ai bolscevichi, aprendo così
alla prospettiva di un colpo di mano. L’insurrezione fu preparata in segreto anche se in molti si
aspettavano la presa del potere. A condurre le operazioni fu il comitato centrale del partito
bolscevico con affiliati in tutti i settori delle forze armate russe (ci si riferisce sempre alle metropoli
Mosca e San Pietroburgo, all’epoca Pietrogrado). Il 24 e 25 ottobre le guardie rosse (la milizia del
partito) occuparono senza difficoltà il Palazzo d’Inverno, sede del governo. Al congresso del Soviet
gli altri partiti socialisti non approvano la presa del potere. Da quel momento le sorti della Russia
sono tenute dal governo provvisorio composto da “commissari” dei partiti proletari. 
Il primo passo del governo a guida bolscevica fu l’apertura di una trattativa di pace separata con la
Germania. Nel frattempo andava guadagnata la fiducia in tutto il paese. Le resistenze furono molte.
Mosca riconobbe il nuovo potere il 15 novembre, nel resto del paese la situazione restò fluida e in
molti casi si ebbero scontri a fuoco tra le diverse fazioni. A gennaio 1918 erano previste le elezioni
per l’assemblea costituente a suffragio universale. A sorpresa non vince il partito bolscevico ma il
partito socialrivoluzionario, molto più moderato e riformista. Lenin non accetta di lasciare il potere
e scioglie l’assemblea. Secondo lui il nuovo potere doveva venire dai Soviet e non dal parlamento:
lì in effetti i bolscevichi avevano la maggioranza (votavano solo le categorie proletarie con una
logica di delega e non di rappresentanza). 
Pace di Brest-Litovsk – marzo 1918, pace separata con la Germania. La storia della Russia si separa
da quella del restante continente europeo. Una strada che si ricongiungerà solamente nel 1989.
Il primo dopoguerra
GB – è il paese messo meglio, grazie alle colonie. Inoltre dai trattati di  Parigi ha acquisito il
controllo di territori ricchissimi di petrolio, la nuova fonte di ricchezza energetica. In politica
interna le elezioni premiano i liberali che formano il governo in coalizione con i conservatori. In
crescita il partito laburista, che si appoggia anche alle forti organizzazioni sindacali: è una sinistra
che non mette mai in discussione il sistema capitalista. Un caso quasi unico in Europa. L’economia
però va male, l’industria si scopre vecchia e l’export si salva solo grazie alle dominions.
FR – La crisi favorì le rivendicazioni del sindacato CGT: furono concesse le otto ore di lavoro e
molto altro. Nasce anche il partito comunista francese (PCF) che aumentò l’opposizione al governo
di centro destra.
GER – Il paese uscì distrutto dalla guerra. Il re in fuga, rimasero in piedi lo Stato Maggiore (ovvero
la gerarchia militare) e le organizzazioni di sinistra: SPD, sindacato, KPD (comunisti). In questo
clima di smobilitamento viene proclamata la repubblica: è il 9 novembre 1918. Il governo
provvisorio vede la compartecipazione del partito socialdemocratico SPD, dei militari e dei
conservatori. I comunisti intanto aumentano consensi e forza. Guidati da due intellettuali di statura
mondiale Rosa Luxemburg e Liebknecht iniziano una serie di manifestazioni antigovernative che
fanno pensare ad una possibile insurrezione. La reazione è durissima: repressione nelle strade di
Berlino e Monaco e assassinii eccellenti: prima Liebknecht, poi Luxemburg, quindi Eisner guida del
partito comunista a Monaco. La capitale della Baviera ad aprile proclama la “repubblica dei soviet”,
un’esperienza finita nel sangue già a maggio. Nel frattempo si era votato; le elezioni del gennaio
avevano decretato il successo del SPD (37%) che guidarono così il primo governo della cosiddetta
repubblica di Weimar (cittadina in cui fu presentata la Costituzione) insieme a cattolici e liberali
democratici. Presidente della Repubblica fu Erbert, anch’egli socialdemocratico. Il nuovo assetto
prevedeva una struttura federata in 17 lander, un Reichstag con potere legislativo e di nomina del
primo ministro (cancelliere) e un presidente della repubblica (kaiser) eletto direttamente con ampi
poteri. Già nelle elezioni del 1920 i socialisti persero consensi, e il governo passò ad una guida di
centro.
AUSTRIA – Perso tutto l’impero e decaduto il potere della corona degli Asburgo, viene proclamata
la repubblica. Anche qui il partito maggiore è il socialdemocratico.
UNGHERIA – Nuovo stato, e nuova repubblica parlamentare. Strutture statali deboli, e così i
comunisti seguendo l’esempio russo proclamano la presa del potere da parte dei Soviet. A guidare la
rivolta è Bela Kun carismatico leader comunista. Si scatena la guerra civile, vinta dai
controrivoluzionari grazie all’aiuto militare di cechi, romeni e altri combattenti stranieri. Dopo un
periodo di terrore rosso, si scatenò il terrore bianco. Nel 1920 fu ripristinata la monarchia.
TURCHIA – doveva essere spartita tra i vincitori, ma i nazionalisti di Kemal Ataturk si oppongono
con le armi alle truppe straniere. Ottengono la revisione dei trattati firmati dal Sultano e nel 1923
nasce la repubblica con Kemal Ataturk eletto presidente. Uno stato laico e una popolazione
islamica. Per gli alleati andava bene in ottica anti-bolscevica (isolare la Russia) e per aver risolto
l’annosa questione degli stretti, che vennero aperti per tutti. L’Italia riuscì a mantenere il
Dodecaneso (Rodi e altre isole).
Questo rapido quadro della situazione post-guerra mette in risalto il fallimento di tutte le rivoluzioni
comuniste. Un passaggio chiave nello sviluppo del continente europeo, perché la teoria marxista
prevedeva che la riuscita della rivoluzione in un grande paese avrebbe spezzato la catena dei paesi
capitalisti e aperto la strada alla rivoluzione mondiale. Invece il sistema tenne. Vediamo perché:
1.      Borghesia forte, economicamente e culturalmente
2.      Fronte anticapitalista diviso tra socialisti e comunisti, riformisti e rivoluzionari
3.      Consenso popolare anche per i partiti cattolici (non c’era unità nei ceti sociali poveri)
4.      Movimenti nazionalisti antisocialisti in crescita di consenso

III internazionale
Nasce nel 1919 per volontà dei bolscevichi. Sostituisce la gloriosa II internazionale, crocevia e
laboratorio di idee di mezzo secolo di socialismo. Questa assemblea era invece una internazionale
comunista a pensiero unico, quello del partito bolscevico. Infatti i riformatori e i fautori di un
socialismo da realizzare tramite il sistema parlamentare furono espulsi dall’assemblea. In breve
tempo diventa uno strumento con cui i bolscevichi controllano i partiti comunisti di tutto il mondo.
ITALIA
I trattati di Versailles ebbero un esito umiliante per l’Italia. La stampa parlò di vittoria mutilata,
senza neppure la città di Fiume e la Dalmazia. Si creò un clima di confusione istituzionale e tensioni
crescenti tra pulsioni popolari opposte. La sinistra acquisì grande forza, il partito popolare divenne
riferimento dei ceti medi moderati, mentre cresceva in ambienti importanti il fascino della politica
nazionalista di estrema destra. Il 21 gennaio 1921 il PSI si spacca e nasce a Livorno il Partito
Comunista Italiano guidato da Amedeo Bordiga, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. A differenza
dei socialisti, conquistati all’idea del riformismo parlamentare, gli esponenti di “Ordine Nuovo” (la
corrente di sinistra del Psi prima della scissione, che operò dal '19 al '21) pensavano ad un processo
rivoluzionario costruito sul modello dei soviet.
Nel 1919 un ex socialista, Benito Mussolini, fonda i fasci di combattimento, ottenendo
clamorosamente generosi sostenitori tra industriali e agrari. Iniziano le azioni intimidatorie verso il
mondo socialista, compiute in un contesto di incredibile impunità. Ad aprile viene incendiata la sede
dell’”Avanti” il quotidiano socialista. Nell’estate ci sono violente manifestazioni con l’occupazione
delle terre al sud e saccheggi dei negozi nelle città. In molti chiedevano reazioni dure. Ma le
elezioni danno un esito inedito; il PSI è il primo partito (32%) il partito popolare al 20% e poi gli
altri moderati e conservatori.
Giolitti tornò alla guida del governo, e promosse alcune riforme in senso democratico (fiscalità più
estesa per alcuni programmi di assistenza). Risolve la questione di Fiume – occupata da un anno da
D’Annunzio con un manipolo di uomini armati – lasciandola alla Jugoslavia ma ottenendo in
cambio Zara. Sia in politica interna che in politica estera creò molti malumori. 
Nell’estate 1919 nascono i primi soviet anche in Italia. Letteralmente sono i Consigli di Fabbrica e
così si presentano a Torino. La situazione precipita nel 1920 con l’inasprimento dei rapporti, gli
scioperi e la serrata dell’Alfa Romeo di Milano. La FIOM decise l’occupazione, che si propagò in
centinaia di fabbriche del nord. PSI e sindacato non ebbero il coraggio di proclamare lo stato
rivoluzionario, così il temporeggiamento di Giolitti portò ad una soluzione indolore della crisi.
Evitò l’uso della forza, un grande merito disprezzato da tutti. La sinistra del Psi rompe con il partito
e fonda il PCI, mentre la borghesia non si sente abbastanza protetta dai liberali e dai moderati di
centro e inizia a simpatizzare per i giovani fascisti che da qualche tempo si stanno mettendo in luce
per la spregiudicatezza e la violenza delle azioni contro i socialisti.
La piccola età dell’oro: 1921-1929
Il dopoguerra segna uno stallo economico che pare irreversibile; le economie nazionali si chiudono
nel protezionismo peggiorando le cose. L’inflazione diventa un male cronico, la disoccupazione
dilaga. Dal 1922 la ripresa in Usa aiuta tutti. Soprattutto aiuta la GER che viene beneficiata con
prestiti imponenti a medio e lungo periodo. Ma nel 1929 – a partire dal 24 ottobre – i nodi di una
produzione non sostenuta da una adeguata distribuzione della ricchezza vengono al pettine: crollano
i titoli di borsa di Wall Street. Nel giro di poche settimane la finanza mondiale va in collasso. Ma
vediamo nel dettaglio le vicende del gigante d’oltreoceano, già da un decennio prima economia del
mondo.
Dopo il presidente Wilson troviamo Harding, un repubblicano che favorisce i grandi monopoli e si
caratterizza per uno strenuo isolazionismo. Nel 1921 viene addirittura varato un piano di contrasto
all’immigrazione: aumenta l’odio xenofobo e razzista con la rinascita del ku klux kan. Nel 1920
viene istituito il proibizionismo per la vendita e il consumo di bevande alcoliche; un provvedimento
che durerà fino al 1933 quando fu revocato visti i disastrosi risultati ottenuti (l’esplosione
dell’illegalità e della criminalità organizzata di stampo mafioso). Sono anni di crescita
disomogenea, un capitalismo dai grandi profitti, dai grandi monopoli, dalle grandi rendite
borsistiche. Anche i salari crescono, ma non in proporzione. 
1929: perché la crisi?
In Usa i redditi erano troppo bassi per sostenere una produzione così alta (scarsa la crescita dei
consumi) e gli scambi internazionali non erano a un livello accettabile per le dimensioni
dell’economia americana. Così gli investimenti si concentrarono in bolle speculative e in settori
sicuri che – ad un certo punto – fecero crac! A un certo punto il timore di recessione si trasformò in
panico: la borsa di wall street crollò e si innescò una reazione a catena mai vista prima: migliaia di
licenziamenti e abbassamento dei salari, che causarono un’ulteriore riduzione dei consumi.
Il mito delle Corporation svanisce e solo l’intervento massiccio dello stato salva il sistema
capitalista. Il giovane e brillante economista Keynes scrive un saggio illuminante intitolato “la fine
del laissez-faire”. Questi sconquassi si riflettono nelle elezioni del 1932 in cui vince un democratico
progressista: Frank Delano Roosevelt. Il nuovo presidente chiede poteri speciali per agire in tempi
brevi contro la crisi e vara un team di esperti “brain trust” capaci di progettare e applicare una
ricetta innovativa per il mondo capitalista anglosassone: il NEW DEAL.
Prima viene sostenuta la deflazione (per ripagare i debiti), poi inflazione controllata (per aumentare
i consumi). Quindi viene varato un piano fiscale di aumento delle tasse – per i ceti benestanti – allo
scopo di finanziare imponenti programmi di lavori statali e di aiuti al settore agricolo e alle piccole
imprese. Anche i sindacati vedono rafforzato il loro ruolo.
Nel 1935, quando la ripresa inizia a dare i primi segnali concreti, viene avviata la seconda fase del
New Deal: un piano di assistenza sociale statale, grandi opere infrastrutturali (strade, dighe, ponti,
ferrovie), scuole e ospedali per l’intera popolazione. Con Roosevelt è lo stato a fare da garante nel
rapporto tra i grandi gruppi monopolistici e i cittadini.

STATI UNITI: DALLA CRISI DEL ‘29 AL NEW DEAL


Egemonia statunitense
Nel ‘900 l’Europa smette di essere il centro del mondo. Già prima del 1914 gli Stati Uniti
possedevano 1/3 della produzione industriale mondiale, poco meno di Inghilterra, Francia e
Germania messe insieme.
Dopo la guerra da debitori che erano divennero i principali creditori mondiali. Il nuovo sistema
americano era basato su taylorismo e fordismo. Frederick Taylor perfezionò il modello di
organizzazione scientifica del lavoro attorno alla catena di montaggio (Chaplin Tempi Moderni).
Ford era il proprietario della grande fabbrica di automobili che diminuì la giornata lavorativa degli
operai ad 8 ore e il salario minimo a 5 dollari. L’operaio doveva essere in grado di comprare: è l’era
del consumo.
Sotto l’aspetto politico il passaggio dell’egemonia dall’Europa agli Stati Uniti è molto meno
marcato.
Il Presidente Wilson sul finire della guerra annuncia i suoi celebri 14 punti tentando di porre fine
all’isolazionismo: pace giusta per tutti, relazioni internazionali trasparenti e democratiche e non tra
oscure burocrazie, una società delle nazioni e risoluzione dei conflitti coloniali nell’interesse delle
popolazioni soggette. I 14 punti non convinsero completamente nè l’Europa nè il Congresso che si
chiuse nella tradizionale politica isolazionista.
Dal 1923 al 1929 gli Stati Uniti vissero un importante boom economico dato dalla crescita dei
consumi. Nel 1926 iniziò il cosiddetto boom speculativo. Molte persone investirono nella borsa
realizzando enormi guadagni anche prendendo i soldi in prestito dalle banche a tassi bassissimi.
Sembrava la riuscita del sogno americano.
Il crollo della borsa
Il 29 ottobre 1929 i titoli azionari di Wall Street crollarono; si arrivò inaspettatamente vicino al
collasso dell’economia mondiale. Vi fu a catena una crisi mondiale; la Germania fu la più colpita
con 6 milioni di disoccupati e tre milioni di sottoccupati. Entrò in crisi sia la produzione di materie
prime che di beni alimentari. I prezzi infatti scesero a dismisura, i contadini provarono ad
aumentare la produzione facendo scendere ancora di più i prezzi. Non si trovavano soluzioni
all’interno della cornice liberale. Nel 1931 l’economia abbandonò la politica liberista. Ovunque ci
furono misure o spinte protezioniste e di controllo pubblico, autarchia, svalutazioni valutarie,
assistenzialismo.
Le cause della crisi e la reazione di Hoover
La crisi del ’29 viene tradizionalmente considerata una crisi di sovrapproduzione; l’economia
statunitense produceva di più di quanto riusciva a consumare.
Nel decennio 1920-30 le eccedenze americane erano state controbilanciate da ingenti prestiti
all’estero di cui usufruirono i paesi europei nel primo dopoguerra.
Ma non sempre i paesi europei erano dei “buoni pagatori”. In molti casi non riuscivano a far fronte
ai loro debiti come accadde in Germania, costretta a pagare debiti di guerra altissimi.
Wallace (uno dei membri del brain trust di Roosvelt) accusa l’Old Deal di aver condotto una
politica economica folle ed incoerente: internazionalista quando si tratta di esportare, proibizionista
quando bisogna importare. In questo modo, secondo Wallce, gli USA hanno fatto paralizzare il
coomercio mondiale.
Hoover, presidente in carica nel 1929, allo scoppiare della crisi si disse convinto che il mercato
avrebbe trovato da sè le forze per riequilibrare il sistema ed attribuì la colpa della crisi alla
speculazione incontrollata in borsa.
Dal 1930 al 1932 gli investimenti privati continuavano a diminuire e non vennero controbilanciati
da quelli pubblici che dopo esser stati, timidamente, alzati nel ’29 vennero tagliati nel 1930.
Hoover, preoccupato dall’aumento del deficit, in sintonia con l’industria e la finanza, mirava al
pareggio del bilancio.
La tipica scelta isolazionista americana venne riconfermata anche dopo la crisi. Molti economisti
attribuiscono alle reazioni dell’amministrazione Hoover alla crisi una parte della colpa per la
lunghissima eco del “crollo” del ’29. In particolare Kindleberger:
“…La depressione del 1929 ebbe tale estensione, profondità e durata per il fatto che il sistema
economico internazionale venne reso instabile dall’incapacità della Gran Bretagna e dalla non
disponibilità degli Stati Uniti ad assumersi la responsabilità della stabilizzazione su questi tre piani:
a)Mantenere un mercato relativamente aperto per le scorte di merci in difficoltà; b)Provvedere alla
fornitura di prestiti anticiclici a lungo termine; c) Sostenere il credito durante la crisi….quando ogni
paese si volse a proteggere il proprio interesse privato nazionale, l’interesse pubblico mondiale
venne messo fuori gioco; e, insieme ad esso, l’interesse privato di tutti”.
Il New Deal
Nel 1933 fu eletto presidente degli USA Franklin Delano Roosvelt. Accusò apertamente della crisi
l’alta finanza e le banche. Individuando un nemico ottenne un grande appoggio popolare. Nel
governo grande importanza, come mai prima, venne data a tecnici, sociologi, economisti. Venne
creata un assicurazione contro i fallimenti bancari e rafforzata la Federal Reserve Bank. Con
il National Industrial Recovery Act iniziò un grande programma di lavori pubblici con l’obiettivo di
attenuare la disoccupazione e riprendere i consumi.
Altri importanti provvedimenti furono l’Agricoltural Adjustment Act e la Tennessee Walley
Authority
Furono seguite più o meno le idee dell’economista Keynes sull’indebitamento statale a fini
produttivi e l’aumento della spesa pubblica.
In Europa, negli stati autoritari, lo stato ebbe grande importanza nell’economia. Negli USA però gli
interventi statali andarono di pari passo con l’allargamento dei diritti politici e lo stato si occupò
dell’economia solo nei settori a lui tradizionalmente spettanti: opere pubbliche, assistenza,
regolamentazione dell’attività finanziaria. Gli Stati Uniti rimasero capitalisti, l’Europa creò un
sistema misto in cui lo stato assorbiva imprese produttive (banche e industrie). Roosvelt fu esaltato
come un capo, un condottiero in battaglia.
Egli non fu mai un dittatore, il fondamento dello stato restava pluralistico, tuttavia il potere del
governo federale aumentò notevolmente.
L’opposizione a Roosvelt
Gli interventi di Roosvelt mutarono la tradizionale politica economica liberista e causarono le
radicali critiche della Liberty League.
Anche la Corte Suprema, che esercitava anche funzioni di corte costituzionale, fu spesso critica nei
confronti di Roosvelt. Ad esempio essa bocciò la N.I.R.A., preoccupata del netto rafforzamento
dell’esecutivo. Tuttavia Roosvelt ripropose il provvedimento nel 1935 con minime variazioni, con il
nome di National Relation Labor Act(Wagner Act) , e riuscì a farlo approvare.
I risultati del New Deal
Dal 1932 al 1937 non si giunse mai ai livelli precedenti il ’29 ma ci fu una notevole ripresa. Solo
nel ’39 grazie al riarmo in vista della guerra si raggiunsero i risultati precedenti la crisi.
Tra gli obiettivi raggiunti vanno citati il risanamento delle sistema bancario, la crescita delle
imprese vive del paese, le grandi opere pubbliche, l’equilibrio complessivo nel sistema sociale ed
economico americano, l’introduzione del welfare state, l’introduzione nel dibattito politico dei
concetti di giustizia sociale richiesti dall’opinione pubblica. Tuttavia il New Deal non riuscì a far
ripartire gli investimenti privati.

IMPERIALISMO E COLONIALISMO
L'età dell'impero
“Imperi e imperatori erano realtà di vecchia data, ma l'imperialismo era una novità
assoluta. Il termine entrò per la prima volta nel linguaggio politico britannico nel 1870-80,
ed era ancora considerato un neologismo alla fine di quel decennio. Si impose di
prepotenza nell'uso generale negli anni 1890”
E. Hobsbawm [1]

Quando si parla di imperialismo ci si può riferire agli antichi romani o alla politica estera
statunitense del dopoguerra o, ancora, a molte altro: all'impero cinese a quello persiano, spagnolo...
Come altre parole chiave è importante essere precisi. In questa sezione del sito, e più in generale
nella storiografia contemporanea, si parlerà di imperialismo riferendosi al periodo che va da 1860 al
1914 [2] : cercando di spiegare le ragioni di questa periodizzazione, le sue caratteristiche, le
analogie e le peculiarità in relazione alle altre esperienze storiche accostate al concetto di
imperialismo.
Imperialismo o colonialismo?
Le due parole che in questa fase sono in qualche modo intercambiabili hanno in realtà un significato
diverso. Il COLONIALISMO infatti è solo una parte del fenomeno generale dell'IMPERIALISMO,
ovvero la conquista “diretta e formale” con l'occupazione militare, l'insediamento consistente di
cittadini “conquistatori” e la creazione di veri e propri protettorati politici. L'imperialismo invece
travalica la presenza fisica del territorio occupato; il controllo avviene in modo indiretto e
informale, ma non per questo con effetti meno invasivi per i popoli coinvolti. Dopo il 1945 è questa
la forma generalmente utilizzata per il controllo di aree regionali nei paesi in via di
decolonizzazione da parte delle grandi potenze economiche e militari del pianeta.
 
I Protagonisti
A partire dal 1860 i paesi europei si resero protagonisti di una seconda intensa fase di espansione –
dopo quella del cinquecento – tale da assoggettare quasi l'intero pianeta.
In prima fila nella corsa alla conquista delle terre emerse c'era la Gran Bretagna : la “regina” della
rivoluzione industriale fece valere tutta la sua forza economica, finanziaria e militare per
conquistare territori in tutti e cinque i continenti. Se Spagna, Portogallo e Olanda erano in netto
declino (specialmente i paesi iberici), si affacciarono nella “competizione” coloniale anche paesi
emergenti come il Belgio, l'Italia, la Russia e la Germania.
Verso la fine del secolo entrarono nel circolo dei conquistatori – dopo essere stati a diverso livello
territori “conquistati” – gli Stati Uniti e il Giappone.
Fatti, avvenimenti e aneddoti dell'epopea colonialista
La debolezza dell'impero ottomano offrì ai paesi più importanti l'occasione per estendere la propria
area di influenza: nel 1881 la Francia assunse il controllo diretto della Tunisia; nel 1882
la Gran Bretagna occupò militarmente il debole regno di Egitto iniziando una inarrestabile discesa
attraverso Sudan, Kenya, Uganda (acquistata dalla Germania nel 1890). All'altro capo del
continente la scoperta di immensi giacimenti diamantiferi e auriferi spinse le truppe di Sua Maestà a
scontrarsi con i possedimenti dei boeri [3] . La guerra durò dal 1899 al 1902 e si concluse con la
vittoria dei britannici e la nascita dell'Unione Sudafricana (membro del Commonwealth fino al
1961). L'avventuriero Cecil Rhodes proseguì la colonizzazione britannica risalendo verso nord
(l'attuale Rhodesia), puntando a ricollegarsi con il Kenya; l'operazione non riuscì per la presenza del
possedimento tedesco della Tanganica (1890). Se la Gran Bretagna sviluppò i suoi possedimenti da
nord a sud, la Francia disegnò una linea ininterrotta da est a ovest. Nella fascia equatoriale i militari
della repubblica francese presero possesso del Senegal e poi seguirono la linea sub-sahariana fino a
incontrarsi/scontrarsi con gli inglesi al confine del Sudan. Era il 1898 e si rischiò seriamente uno
scontro militare tra le 2 superpotenze dell'epoca. Tra i possedimenti anche l'Algeria (1881) e il
Marocco (1911).
L'epopea imperiale interessò anche il giovane impero tedesco : dal 1884 la prudenza di Bismarck
(“vale più una città in Europa che uno stato in Africa”) fu accantonata e sostituita da una aggressiva
offensiva militare che portò sotto la bandiera dell'imperatore Gugliemo II le regioni del Camerun,
del Togo e della Namibia nella costa atlantica e della già ricordata Taganica nella costa dell'Oceano
Indiano.
L'Italia si ritagliò, al prezzo di clamorose sconfitte, uno spicchio di colonie nella regione del corno
d'Africa (Eritrea e Somalia) e, più tardi, occupando “lo scatolone di sabbia” (la definizione è di
Gaetano Salvemini) della Libia nel 1911. L'ultimo paese europeo in gioco nell'età degli imperi fu il
piccolo Belgio dell'ambizioso re Leopoldo II.Venuto a sapere, tramite il giornalista americano
Henry Morton Stanley, delle immense ricchezze presenti nel bacino del fiume Congo – rame e
stagno soprattutto – iniziò la conquista e lo sfruttamento della zona, praticamente a titolo personale.
L'iniziativa fu ostacolata dalle altre potenze con interesse nell'area, e si rese necessaria una apposita
conferenza che – tenutasi a Berlino nel 1884-85 – sancì la regola dell'”occupazione di fatto”. In
conseguenza re Leopoldo II si tenne il Congo mentre le altre potenze si regolarono di conseguenza
scatenando una vera e propria gara all'occupazione”de facto” dei territori.
Nella cartina vediamo la situazione dell'Africa del 1914 dove solo Liberia ed Etiopia risultano
indipendenti. Il Sudafrica, come detto, era uno stato controllato indirettamente dalla Gran Bretagna. 
MAPPA DELL'AFRICA
Il colonialismo extraeuropeo
Alle conquista africane, Gran Bretagna e Francia, affiancarono conquiste in Asia, ai Caraibi e nel
Pacifico. Nel 1876 con una solenne cerimonia la regina Vittoria fu proclamata imperatrice d'India,
inaugurando così la fondamentale storia del dominio inglese nel sub-continente indiano [4] . Nel
frattempo inglesi, scozzesi e irlandesi avevano “colonizzato” le grandi isole dell'Oceano pacifico:
l'Australia e la Nuova Zelanda quest'ultima con una vera e propria guerra contro gli indigeni Maori.
La Francia estese il suo territorio in Indocina oltre a mantenere e incrementare i numerosi
avamposti in isolotti nei Caraibi e nella Polinesia. Anche l'Olanda mantenne i vasti possedimenti
delle Indie Orientali (oggi Indonesia) tra cui la Nuova Guinea , spartita con inglesi e tedeschi.
Nel continente americano ad esclusione del Canada divenuto autonomo dal Regno Unito nel 1870
l'intero continente fu posto sotto la tutela degli Stati Uniti dal famigerato “Decreto Monroe” del
1823. Con la perdita di Cuba nel 1898 la Spagna completò la sua ritirata dal continente; lasciando
alla rappresentanza europea soltanto alcuni atolli e isolotti del golfo del Messico.
Un discorso a parte meritano tre paesi che vivono l'esperienza imperialista in forme diverse da
quelle degli imperi europei in concorrenza tra loro: la Russia degli zar; gli Stati Uniti della seconda
industrializzazione e il Giappone della modernizzazione lampo.
La Russia completò l'allargamento dei propri confini verso sud e verso est, raggiungendo la
periferia del mondo mussulmano e della civiltà mongola. La contesa sulla Manciuria creò un attrito
con il Giappone, anch'esso interessato al territorio formalmente parte dell'impero cinese, che sfociò
nella guerra russo-giapponese del 1905, risoltasi con un clamoroso successo degli asiatici.
Proprio il Giappone, artefice di una modernizzazione assolutamente strabiliante, entrò a far parte
dei paesi con mire colonizzatrici: a fine ottocento sottrasse la Corea alla Cina e avviò una politica
estera molto aggressiva finalizzata a sottomettere l'intera area del sud-est asiatico. Una strategia che
caratterizzerà il Giappone praticamente senza soluzione di continuità fino alla fine della seconda
guerra mondiale.
L'altro gigante asiatico, la Cina , rimase formalmente indipendente ma, di fatto, occupato un po' da
tutte le potenze coloniali.
Gli Stati Uniti passarono alla loro terza fase: dopo una prima di fase di emancipazione dalla
madrepatria inglese; ed una seconda fase di consolidamento dei propri confini (per tutto l'Ottocento)
si aprì, anche per i cittadini del nuovo mondo la vecchia pratica dello sfruttamento degli altri popoli
e delle risorse altrui.
Con il decreto Monroe del 1823 venne imposto uno stop alla penetrazione europea nell'area del
continente americano; ma fu con la guerra contro la Spagna , prima per il nuovo Messico, poi per
Cuba che si inaugurò la stagione dell'interventismo americano nel mondo. Forse ancora più
significativo della conquista di Cuba (lasciata formalmente indipendente) appare la penetrazione
nell'Oceano Pacifico, realizzata proprio nell'ambito della guerra alla Spagna.: le colonie spagnole
delle isole Hawaii e delle Filippine furono teatro di guerra e, a guerra vinta, protettorati Usa (le
Hawaii inglobate come stato della federazione). Erano gli ultimi anni del secolo e segnarono, senza
che in molti ne percepirono la portata, grandi cambiamenti nell'assetto geopolitica mondiale.
Considerati ancora come potenza secondaria dagli europei gli Stati Uniti proclamarono nel 1904,
per volontà del presidente Theodore Roosevelt, il corollario alla dottrina Monroe: il diritto degli
USA ad intervenire in qualunque parte del continente americano. E infatti intervenne a Panama per
controllare l'importantissimo canale di attraversamento del continente (1903).
Gli assetti della politica europea
La lunga pace, che dalle guerra napoleoniche giunge fino al 1914, deve qualcosa anche al fenomeno
dell'imperialismo.
I contrasti non risolti erano quelli tra Gran Bretagna e Russia (Persia, Afganistan e stretto di
Dardanelli) e tra Germania e Francia. Si creò una serie di alleanze incrociate che creò un sistema di
reciproci contrappesi tale da garantire l'equilibrio nel continente, e quindi la pace. Il congresso di
Berlino del 1878 sancì in un certo senso questo sistema. Ma la politica espansionistica di Guglielmo
II portò ad un nuovo scenario: la Germania ruppe l'accordo con la Russia che si alleò alla Francia.
Nuovi partners dei tedeschi furono Austria e Italia (“triplice alleanza” 1882).
Questa pace continentale favorì la competizione alla conquista coloniale:
1. minore impegno militare sul continente
2. rivincita per le sconfitte militari o diplomatiche
La competizione internazionale si fece sempre più dura: agli albori del nuovo secolo la Gran
Bretagna iniziò una politica estera apertamente anti-tedesca che favorì anche Francia e Russia nella
contesa dei vari territori. Anche l'Italia fu incentivata ad azioni contro l'impero ottomano (quasi un
protettorato tedesco ai primi del 900); tanto che nel 1911 riuscì a sottrarre ai turchi l'isola di Rodi e
l'arcipelago del Dodecaneso. Quando la controversia incendiò i Balcani, tutti i nodi vennero al
pettine: nel mazzo delle ragioni che scatenarono la carneficina dalla guerra mondiale, le dinamiche
imperialistiche giocarono certamente un ruolo di primo piano.
[1] E. Hobsbawm, L'età degli imperi, Laterza, 1987
[2] Come spesso succede la attribuzione di date precise per fenomeni generali comporta inevitabili
controversie. Alcuni testi riportano l'inizio della corsa alle colonie nel 1870 altri anche il
1880...comunque sia possono essere considerati tutti giusti. Anche la data di chiusura – il 1914 –
pur conoscendo una convergenza pressoché unanime non risolve completamente la questione (vedi
il caso dell'Italia).
[3] I boeri sono i coloni olandesi che si erano stanziati nel sud Africa dal secolo XVII. Quando gli
inglesi crearono la “Colonia del Capo” nel 1814 i boeri si spostarono più a nord. Proprio in quelle
terre ricche di oro e diamanti e causa del conflitto.
[4] L'India andata sotto il controllo dell'amministrazione inglese corrisponde agli attuali stati di
India, Pakistan, Nepal, Bhutan e Bangladesch

L'età dell'impero
La specificità
Quale è la distinzione tra questo periodo, ovvero questa forma di imperialismo e gli altri
imperialismi?
Lo storico Reinhard ha dato questa definizione : “ colonialismo starà ad indicare lo sfruttamento
economico, politico e sociale di un popolo su un altro.”
Per quanto riguarda il nostro periodo le caratteristiche che lo distinguono dagli altri periodi della
storia sono:
1. Dimensioni delle conquiste: l'intero pianeta.
2. Rapidità delle conquiste: in poche decine di anni.
3. Stati coinvolti: tutti i paesi europei + Usa e Giappone.
4. Epopea coloniale utilizzata verso la propria opinione pubblica a scopo di propaganda
A differenza delle conquiste spagnole in America o delle conquiste romane, queste conquiste non
implicano solo la “rapina” delle risorse ma anche la distruzione delle economie locali e
l'integrazione nel proprio sistema economico. Per rendere più funzionale l'operazione la distruzione
del sistema indigeno avviene anche sul piano sociale e culturale.
1860/1870   colonialismo e II rivoluzione industriale si trovano a coincidere. Non è un caso!!
Se la prima rivoluzione industriale si è avvalsa dell'ingegno di intraprendenti artigiani e
imprenditori e del capitale privato, la II rivoluzione industriale si basa su economie di scala ad alta
intensità sia di capitale che di risorse:
chimica, elettricità, ferrovie, motori ecc. i processi industriali richiedono ingenti quantità di caucciù,
rame, stagno, ferro, acciaio. Anche i beni di consumo, in forte espansione, chiedono un maggiore
rifornimento di caffè, thé, banane ecc.
La cantieristica e la siderurgia non possono essere lasciata all'iniziativa di imprenditori; occorre
l'impegno di banche disposte a fornire capitali a medio termine. In pratica gli istituti di credito
diventano veri e propri investitori legando la propria sorte a quella dell'impresa (gigantesca) a cui si
finanzia l'investimento. In questo periodo e in questo modo nascono i grandi colossi ancora oggi ai
vertici dei fatturati mondiali:
AT&T (telefono
SHELL (energia)
SIEMENS, PHILIPS (elettricità)
BAYER (chimica)
….
Come nasce il sistema coloniale moderno
Lo stato interviene con il protezionismo, invertendo la tendenza liberale della prima metà ottocento.
Perché questa inversione di politica economica? C'era stata la crisi nel sistema: una crisi economica
e sociale che aveva messo in difficoltà gli stati: come reazione sono ricorsi a misure
protezionistiche. Nel 1879 è la Germania a reintrodurre in maniera consistente dazi e vincoli nel
trasporto di merci; nel 1881 è la Francia seguita dall'Italia e nel 1883 dalla Russia. Alla vigilia della
I guerra mondiale solo la Gran Bretagna era rimasta fedele al sistema del libero scambio puro.
Per aggirare la limitazione al commercio internazionale tutti i governi pensarono di giocarsi la carta
del colonialismo. Coltivare un proprio mercato estero “privato” sembrò lo sbocco logico alla crisi di
fine secolo. Fino a quel momento erano state sufficienti le “aree di influenza”; ma con il ripristino
delle dogane diventava importate definire quali zone dovevano essere considerate francesi piuttosto
che inglesi o tedesche. Inevitabilmente per stabilire chi faceva le leggi commerciali in un dato
territorio si ricorse al controllo militare dell'area e alla difesa dei suoi confini. In pratica le aree di
influenza si trasformarono in dominii militari. Prima ancora che per lo sfruttamento delle materie
prime e dei prodotti agricoli l 'esercito garantiva l'esportazione delle REGOLE del commercio .
In questo contesto l'antagonismo tra la grande potenza britannica e la potenza emergente tedesca
subì una rapida recrudescenza.
 
IMPERIALISMO DELLE MASSE l'imperialismo era popolarissimo nel ceto medio ma anche nella
classe dei lavoratori. L'operaio bianco, in Africa, era automaticamente un capo. I governi fecero un
largo uso della propaganda; anche la letteratura, la cultura e i consumi servirono alla causa
imperialista.
In molti casi le conquiste coloniale supplivano gli insuccessi nella concorrenza europea:
la Russia prende l'Asia centrale dopo la sconfitta di Crimea
la Francia si lancia alla conquista dell'Africa dopo il disastro del 1871 contro la Germania
l'Italia tenta la carta coloniale nel 1881 di fronte alle evidente difficoltà interne
FASI DELLA CONQUISTA
1870-1885 grande spartizione
1885-1900 completamento spartizione
1901-1914 Marocco e Libia
Decolonizzazione
Il mondo disegnato dall’età dell’imperialismo presentava evidenti squilibri. Prima ancora che di
natura economica o geopolitica di semplice contabilità:
1 cittadino britannico comandava su 100 indiani
1 cittadino italiano comandava su 29 etiopici
1 cittadino belga comandava su 170 congolesi
Solo per fare qualche esempio.
Ma questo è solo un aspetto esteriore della situazione. L’aspetto veramente decisivo, su cui ruota
qualunque analisi seria del fenomeno, è la sconvolgente trasformazione a cui sono stati sottoposti i
popoli soggetti a dominio. In altre parole il fenomeno del colonialismo ha segnato l’apogeo della
“cultura unica”, della presunzione di imporre una propria visione del mondo agli altri. Il paradosso
a cui si è andati incontro – una tendenza che in tempi di decolonizzazione si è anche accentuata - è
che il mondo extraeuropeo si è adattato all’idea di civiltà sottosviluppata che l’europeo gli
attribuiva. L’ignoranza e l’incapacità di concepire il mondo al di fuori di alcuni particolari valori
hanno reso possibile un’incredibile sistema di relazioni (economiche, culturali) tra i paesi tale da
giungere, con una progressione spaventosa, ai dati di povertà attuali. Che sono i più alti nella storia,
a fronte di una ricchezza complessiva decine se non centinaia di volte superiore a quella di 30 o 50
anni fa.
Cronologia della decolonizzazione
La decolonizzazione è il fenomeno che porta alla nascita di stati indipendenti dove prima c’erano
possedimenti coloniali.
NOTA BENE : prima della colonizzazione NON C’ERANO stati sovrani. I casi di entità statali
precedenti al dominio straniero sono eccezioni. I territori e le popolazioni erano organizzati secondo
altri schemi socio-politici: c’erano autorità religiose (i califfati nell’area medio-orientale) oppure
autorità locali oppure regni basati sulla semplice fedeltà, senza confini e struttura statale. Un mondo
estremamente vario e multiforme quasi indefinito: un insieme posti ognuno dei quali potrebbe dirsi
come il “luogo delle differenze”.
Il 1946 festeggia il primo paese libero dal dominio: sono le Filippine. Il 1947 è l’anno dell’India. Il
nuovo governo laburista di Clemente Attlee concede l’agognata indipendenza – è il trionfo della
strategia della nonviolenza e della resistenza passiva di Ghandi – ma la rivalità interreligiosa tra
mussulmani e indù, incentivata dagli stessi inglesi nel tentativo di spaccare il fronte anticolonialista,
porta alla secessione del nord-est: nasce il Pakistan.
1949 tocca all’Indonesia;
1951 Libia (era sottoposta all’amministrazione britannica);
1957-62 viene disegnata la mappa geopolitica dell’Africa. Nascono Senegal, Costa d’Avorio,
Repubblica del Congo, Repubblica Centroafricana, Camerun, Ciad, Gabon…
1962 L’Algeria, dopo una durissima guerra civile, proclama l’indipendenza.
1970 si completa la liberazione coloniale nel continente nero: Angola, Monzambico, Guinea-Bissau,
Isole di Capoverde. Anche il Portogallo entra nel club dei paesi ex-colonialisti.

Domanda cruciale: diventano veramente indipendenti?


Economicamente NO
Culturalmente NO
Politicamente SI
 
LOTTA DI LIBERAZIONE
La lotta di liberazione ha una lunga storia e una curiosa evoluzione. I primi successi militari dei
paesi extraeuropei giungono a cavallo tra Ottocento e Novecento. Nel 1896 Adua è il teatro della
disfatta dell’esercito italiano, sopraffatto dalle truppe di Menelik re d’Etiopia[1]. Nel 1905 è il turno
della Russia ad essere sconfitta da un esercito non europeo: il Giappone della modernizzazione
lampo voluta da Meji.
 
Il modello più affascinante della storia della decolonizzazione è quello proposto e realizzato
Ghandi. Per rivendicare l’indipendenza del continente indiano Ghandi introduce due elementi
nuovi:
1. La forma partito.
2. La filosofia della non violenza e della resistenza passiva.
 
Nel 1920 riorganizza il Partito del Congresso con lo scopo di promuovere un’azione politica
coinvolgendo le masse popolari. Accanto alla libertà dal dominio inglese il partito proponeva una
piattaforma democratica per il progresso di tutto il popolo.
Rivoluzionario fu la pratica con cui portò avanti l’azione politica: non attentati terroristici e
guerriglia, bensì resistenza passiva e propaganda attraverso la filosofia della non violenza. Sul
terreno militare i britannici erano imbattibili: per vincere bisognava cambiare il campo di gioco!
 
DOPOGUERRA
La seconda guerra mondiale cambiò la gerarchia geopolitica. Usa e Urss grandi potenze
antagoniste, l’Europa destinata ad un inevitabile ridimensionamento. In questo quadro la
smobilitazione delle colonie si rivelò un punto fondamentale per la politica internazionale del
dopoguerra. Non solo. Dal punto di vista economico i paesi liberi dal dominio europeo potevano
essere preziosi alleati per l’ideologia liberista o per quella comunista. Spesso la decisione delle
leadership indipendentiste se appartenere a un campo o all’altro era puramente strumentale; la
grande tragedia della decolonizzazione sta quasi tutta in questa ingerenza.
Infatti la lotta di liberazione era condotta contro i paesi occidentali MA con la mentalità, i valori, la
logica politica degli occidentali stessi. Le élite che guidavano i movimenti indipendentisti – che
fossero o meno socialistizzanti – erano istruiti nei college inglesi o americani o francesi: pensavano
alla libertà del popolo ma secondo aspettative tipiche degli europei: uno stato nazionale, una
religione unica, una transizione economica che mirasse all’industrializzazione e alla rapida crescita
economica.
La libertà politica muterà in breve in dipendenza economica, in sottomissione ideologica e
culturale, in spoliazione delle ricchezze naturali e delle ricchezze culturali. Vediamo in che modo si
è realizzato questa rapina.
 
Economia
Premesso che i paesi in area comunista (Vietnam, Corea del Nord, Laos e molti altri) non avevano
possibilità di sviluppo per molteplici ragioni, concentriamo la nostra attenzione sui modelli adottati
e imposti per la parte “libera” delle aree ex-colonie.
I paesi affrancati dal dominio coloniale furono invitati a seguire il modello Rostow, cioè creare le
condizioni perché si ripetesse il miracolo dell’Inghilterra a fine ‘700 e giungere così ad una società
industrializzata (punto 1) regolata dal libero mercato (punto 2) guidata da una borghesia dinamica e
influente (punto 3). 
La cosa non funzionò.
I motivi sono in parte intuitivi – troppe le differenze! – in parte che richiedono un po’ di
approfondimento.
Frank Fanon nel suo “I dannati della terra” del 1959 ci parla di un mondo abituato da decenni o
secoli alla dominazione: uomini e donne assuefati nel modo di pensare alla sudditanza. Anche
fisicamente il mondo coloniale è particolare: da una parte i quartieri ricchi e lussuosi (una ricchezza
spesso maggiore e sicuramente più sfacciata di quella della madrepatria) dall’altra città malfamate,
sovraffollate, strade sporche, con grande povertà. “I rapporti tra coloni e colonizzati sono rapporti di
massa”.
Dal punto di vista storico dobbiamo evidenziare l’importanza del processo 1945-1970 (o anche e
meglio 1896-2008) sul momento (anno di indipendenza).
Le differenze di ricchezza nord-sud sono mutate profondamente nel corso del processo di
colonizzazione e decolonizzazione:
P. Bairoch ha tracciato un percorso su base 1 per dare l’idea del progresso nelle diverse aree del
pianeta:

  EUROPA RESTO DEL MONDO (Cina e India)


18 1 1
50
19 35 2
00
19 135 5
50
19 412 9
90
   
È lo sviluppo del sottosviluppo, non crescita autonoma. È anche la ragione dei flussi migratori verso
le zone di sviluppo.

Visto dall’altra parte


Consapevoli dell’impossibilità di fornire una visione realistica del pensiero e dell’esperienza dal
punto di vista dei colonizzati, questa sezione   è un piccolo contributo contro quella deprecabile
pratica di trattare qualunque problema assumendo tutte le parti: degli sfruttati, degli sfruttatori,
dei generosi e dei cinici.   Così avviene sui giornali, sulle Tv, nelle Ong, nei siti internet, nelle
manifestazioni antirazziste….spesso la voce dei veri protagonisti resta sullo sfondo, ai margini:
sono gli europei o i loro discendenti, che massicciamente inondano i mezzi di informazione con una
storia del dominio coloniale basata su luoghi comuni e amnesie, nonché con spiegazioni socio-
economiche del sottosviluppo al limite dell’incomprensibilità. Ecco perché si conclude con un
intervento di   Doudou Diene e una storia recentissima, ma identica a mille altre dell'Africa, di
guerra e di ipocrisia.

Le quattro “emme” del colonialismo


Gli africani parlano della colonizzazione citando le "quattro emme" :
La prima M è riservata ai monaci. Sono stati loro, in qualità di missionari, i primi ad arrivare.
Dopo sono arrivati i militari. Le nuove leggi, del commercio, del lavoro e delle tasse, dovevano pur
essere imposte con la forza. Nell’Ottocento la chiamavano civilizzazione; nel dopoguerra Sviluppo.
Oggi modernizzazione oppure libertà (!), almeno secondo George W. Bush.
Con l’ordine ristabilito, poterono arrivare i mercanti. Il libero commercio imposto a tutto il mondo,
questa è la sostanza della globalizzazione.
L’ultima emme è riservata ai memorialisti. Una volta destrutturata la società indigena, intellettuali,
professori, economisti, politici, storici si sono gettati in un’opera pazzesca e devastante: riscrivere la
memoria storica, la cultura e l’identità dei popoli dominati. Naturalmente per fare questo andava
distrutta l’identità esistente. 
(Intervento di Doudou Diene, funzionario Onu, a San Rossore nel luglio 2008)

Le guerre d’Africa
(A proposito della guerra della Repubblica Democratica del Congo – l’ennesima guerra d’Africa - e
dei suoi governi corrotti)
"… Al di sopra di tutti questi falchi ci sono le multinazionali, principalmente anglosassoni, che
nell’ombra tirano le fila del gioco. Sono loro i veri mandanti di tutte queste guerre grazie alla loro
influenza economica sulla politica estera dei loro governi. La prova evidente è rappresentata dalla
crisi finanziaria internazionale che ha scosso seriamente il mondo occidentale disarticolando il
sistema bancario. Consapevoli della fragilità dei loro regimi, i governi occidentali si sono uniti per
sostenere le banche - una cosa mai vista in un regime capitalistico  - invece di sanzionarle per il loro
fallimento. La crisi permette di capire le cause nascoste della guerra in Africa orientale, in
particolare nel Kivu, così come è successo in Afghanistan con il gas del mar Caspio e in Iraq con il
petrolio. La Rdc possiede petrolio, diamanti, gas, oro, legname, niobio, coltan e altri prodotti
preziosi. Le multinazionali non arretrano di fronte a nulla, e hanno uomini influenti all'interno dei
governi occidentali e delle istituzioni internazionali per servire le loro cause e i loro interessi, per
orientare le grandi decisioni nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La debolezza delle
missioni di pace dell’Onu in Angola, in Ruanda, in Bosnia Erzegovina, in Somalia e adesso nella
Repubblica Democratica del Congo non è casuale. Si tratta di fallimenti voluti e programmati, che
favoriscono queste politiche di controllo dei governi e delle loro ricchezze e la creazione di stati
deboli e incapaci di imporsi.
L’unico modo per riportare la pace, la sicurezza e lo sviluppo nella regione dei grandi laghi è
impegnarsi a combattere i veri beneficiari di questa guerra.
Le Pontentiel, Repubblica democratica del Congo (da Internazionale del 7/11/2008).
LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA

La guerra civile spagnola scoppia a causa dell’insurrezione guidata dai militari di


ideologia fascista che sotto la guida del generale Francisco Franco si oppongono al Fronte
popolare, che aveva vinto le elezioni nella giovane Repubblica iberica. Questa guerra dura dal 1936
al 1939 e rappresenta sotto alcuni aspetti un preludio alla Seconda guerra mondiale, di cui in
Spagna si delineano già quelli che saranno i due opposti schieramenti: da un lato i fascismi e
dall’altro tutti coloro che ad essi si oppongono. Inoltre in questa guerra si sperimentano quelle
tecniche che diverranno tristemente note nel conflitto mondiale, come i bombardamenti sulle
città 1, le rappresaglie e i rastrellamenti.
 
La Spagna dei primi anni ’30 e la vittoria del Frente Popular
Tra il 1923 e il 1930 in Spagna aveva governato il generale Miguel Primo de Rivera, che aveva
instaurato un regime semi-dittatoriale con l’appoggio del re Alfonso XIII. Nel 1930 de Rivera è
costretto a dimettersi a causa delle proteste interne e nel 1931 si svolgono le elezioni che
segnano una netta vittoria delle forze di sinistra. A questo punto il re decide di abbandonare il
paese e il 9 dicembre del 1931 viene proclamata la Repubblica. Il paese si trova in una situazione
sociale ed economica di grande arretratezza: permangono rapporti sociali di tipo feudale poiché
la maggior parte delle terre è in mano a grandi proprietari terrieri, tra cui la Chiesa Cattolica, che in
Spagna in questi decenni si caratterizza per una visione del mondo particolarmente reazionaria.
Le prime riforme del governo repubblicano si concentrano quindi sulla riforma agraria e
la laicizzazione dello stato, provocando una netta reazione dell’opposizione che nell’estate del
1932 tenta un colpo di stato. Il tentativo fallisce ma nel novembre del 1933 le elezioni vengono
vinte una coalizione formata da gruppi monarchici e cattolici: il nuovo governo di destra attua una
dura repressione sociale, in particolare soffocando nel sangue un’insurrezione anarchica verso la
fine del 1934 2.
Alle nuove elezioni del febbraio 1936 le forze di sinistra si presentano unite: i comunisti si
schierano con socialisti e repubblicani nella coalizione di Frente popular, seguendo la nuova politica
dettata dall’URSSnel congresso del Comintern dell’agosto 1935 che riteneva prioritaria la lotta
contro il fascismo, indicato come il principale nemico. Il Frente popular vince le elezioni e in tutto
il paese scoppiano le prime rivolte: da un lato la collera popolare si rivolge contro il clero e i grandi
proprietari terrieri; dall’altro le forze reazionarie reagiscono con violenza, perpetuata in particolare
dai gruppi fascisti del partito della Falange, nato nel 1933 per iniziativa di José Antonio Primo de
Rivera, figlio dell’ex dittatore.
 
La guerra civile
La contrapposizione interna si trasforma in guerra civile tra il 17 e il 19 luglio del 1936, quando
un gruppo di militari guidati da cinque generali, tra cui spicca Francisco Franco, inizia una
ribellione armata partendo dal Marocco spagnolo. Inizialmente il governo repubblicano pare avere
la meglio, in quanto riesce a mantenere il controllo su gran parte della marina e dell’aviazione e può
contare sull’appoggio di un’intensa mobilitazione popolare. Così mentre gli insorti conquistano
la Spagna occidentale, il governo riesce a mantenere il controllo delle zone più ricche e
industrializzate, ovvero la capitale e le regioni del nord-est.
Il ribaltamento degli equilibri in questa guerra dipende molto dal ruolo giocato dalle potenze
europee. Germania e Italia decidono fin da subito di appoggiare la ribellione di Franco, che si
rifà all’ideologia fascista: Hitler invia soprattutto aerei, armi e rifornimenti, mentre Mussolini
organizza un contingente di 50.000 uomini, ufficialmente volontari ma in realtà membri dei reparti
regolari.
Sul fronte opposto la Francia, governata anch’essa dal Fronte popolare, vorrebbe intervenire ma
viene di fatto bloccata dall’opposizione dell’alleato inglese: la Gran Bretagna minaccia infatti di
non aiutare la Francia in caso di attacco tedesco se questa interverrà in Spagna. Gli inglesi temono
che una vittoria della coalizione repubblicana in Spagna possa essere il preludio per la sua
trasformazione in uno stato socialista, inoltre non desiderano giungere ad una rottura con Germania
e Italia e per questo spingono la Francia a non intervenire. Il governo francese decide quindi di
proporre agli stati europei un patto di non intervento: sottoscritto nell’agosto del 1936 anche da
Hitler e Mussolini, non viene però rispettato dai due regimi fascisti che continuano a supportare il
generale Franco.
Anche l’URSS aderisce in un primo tempo al “patto di non intervento” ma in ottobre, visto il
crescente impegno italo-tedesco in Spagna, decide di intervenire direttamente inviando aiuti al
governo repubblicano e favorendo la formazione delle Brigate internazionali: composte da più di
30.000 volontari provenienti da tutta Europa vedono la partecipazione anche di alcuni grandi
intellettuali come Ernest Hemingway e George Orwell. Un ruolo importante è svolto dagli
antifascisti italiani che vedono nella guerra spagnola un’occasione per lottare apertamente contro il
fascismo mussoliniano, incitati dal motto di Carlo Rosselli “oggi in Spagna, domani in Italia”. Gli
italiani costituiscono il Battaglione Garibaldie la partecipazione al conflitto li porterà a
combattere anche contro i loro connazionali impegnati sul fronte fascista.
Nel settembre del 1936 Francisco Franco riesce ad impadronirsi della zona di San Sebastián,
isolando i territori repubblicani dal confine francese. Alla fine del mese il caudillo[fnIl termine
spagnolo ]caudillosignifica “condottiero, capo militare”; l’appellativo dato a Francisco Franco che
può essere paragonabile all’uso di “Duce” in Italia e di “Führer” in Germania.[/fn] viene
proclamato capo del legittimo Stato spagnolo dalla giunta militare, creando così una divisione di
fatto del territorio iberico. Inoltre Franco dà vita anche ad un nuovo partito che unisce tutti i gruppi
di destra che lo appoggiano: dall’unione tra l’originario partito falangista di Primo de Rivera e le
altre componenti reazionarie nasce la Falange Nazionalista. Franco ottiene anche l’appoggio della
gerarchia ecclesiastica e di una parte della borghesia moderata.
D’altra parte nel fronte repubblicano, al cui interno si erano compattate una serie di forze
composite, da tutti i partiti democratici di sinistra ai movimenti autonomisti basco e catalano,
iniziano a farsi strada divisioni interne. In particolare una parte della borghesia repubblicana si
allontana dalla coalizione, impaurita dagli eccessi di violenza mostrati soprattutto dal settore
anarchico del fronte, mentre crescono i contrasti interni riguardanti l’organizzazione della società
nei territori controllati. Le tensioni interne sfociano in un confronto armato nella primavera del
1937, a Barcellona: esponenti anarchici e appartenenti al partito antistalinista del POUM si
scontrano con comunisti ed esercito repubblicano. I secondi hanno la meglio e al termine dello
scontro danno il via ad una serie di persecuzioni, il cui modus operandi le avvicina a quelle
staliniane: tra il 1937 e il 1938 numerosi militanti anarchici scompaiono, mentre il POUM viene di
fatto liquidato grazie anche all’intervento di agenti sovietici. La situazione della Repubblica
spagnola è quindi sempre più compromessa: nella primavera del 1938 i franchisti riescono a
dividere il territorio repubblicano, isolando così Madrid dalla Catalogna, mentre i repubblicani
vengono via via lasciati soli dai loro alleati fino al ritiro delle Brigate internazionali nell’autunno
dello stesso anno.
Nonostante questo i repubblicani resistono strenuamente ancora alcuni mesi, fino a quando
nel marzo del 1939, dopo un assedio durato un anno, Madrid cade. Questo avvenimento stabilisce
di fatto la fine della Repubblica spagnola e l’inizio della dittatura di Franco.
La guerra civile lascia la Spagna provata dalle distruzioni e con un grave dissesto economico. I
morti sono stati più di 500.000 e alto è anche il numero degli emigrati per motivi politici. Pochi
mesi dopo il mondo si sarebbe trovato davanti ad un altro enorme conflitto, di cui la guerra civile
spagnola era stata una sorta di tragico preludio.
La Seconda Guerra Mondiale

Non ci sono dubbi sui responsabili della seconda guerra mondiale: Adolf Hitler. Naturalmente le
cose sono un po' più complicate, comunque si può riassumere il percorso verso la guerra in alcuni
passaggi fondamentali fatti dai paesi aggressori e non fatti dalle democrazie occidentali che in tutti i
modi volevano evitare un altro conflitto.
Invasione giapponese della Manciuria nel 1931; l'invasione italiana dell'Etiopia; denuncia del
Trattato di Versailles e riarmo tedesco (1935); invasione della Renania (1936); guerra civile
spagnola (1936); occupazione dell'Austria e della Cecoslovacchia (1938). Infine il trattato di non
aggressione tra Germania e Unione Sovietica (1939).
Dall'altra parte, in senso negativo, i paesi democratici riuniti nella Società delle Nazioni sono stati
colpevoli per non essere intervenuti nelle aggressioni di Manciuria e Etiopia. I particolare Francia e
Gran Bretagna sono rimaste a guardare quando erano ancora nettamente più forti della Germania;
prima non intervenendo nella guerra di Spagna, poi permettendo a Hitler di annettere Austria,
Cecoslovacchia (fallimento della Conferenza di Monaco nel 1938).
Tecnicamente la IIGM si spiega nel tentativo della Germania di fare un blietzgrieg(guerra lampo)
per conquistare l'Europa centrale e occidentale. L'occupazione della Polonia realizzata in tre
settimane causò la dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna. Nell'estate 1940 le truppe
della Wairmarch  conquistarono il Belgio, l'Olanda, la Francia, la Norvegia e la Danimarca. Tutte
furono occupate mentre la Francia ebbe una zona controllata dal governo collaborazionista di Vichy.
L'Italia entrò nel conflitto nel giugno '40 dichiarando guerra alla Francia quando questa era già stata
sconfitta dalle truppe naziste.
Da un punto di vista pratico la guerra in Europa era finita.
La Germania non poteva invadere la Gran Bretagna – c'era il mare e la RAF Royal Air Force – ma
era altrettanto improbabile che l'esercito britannico potesse sbarcare sul continente e sconfiggere i
tedeschi. Hitler non si accontentò e rilanciò immediatamente scatenando la guerra area sui cieli
britannici (operazione "Leone Marino").
L'attacco dell'aviazione nazista sulle città inglesi segna una pagina leggendaria nella storia del
popolo britannico.
Nelle colonie la guerra era ancora molto fluida. Truppe inglesi sottrassero aree coloniali agli italiani
impegnando l'Africa Korps di Erwin Rommel in un duro confronto nel continente africano.
La guerra fu riaccesa dall'invasione hitleriana dell'Urss il 22 giugno 1941, la data decisiva della
seconda guerra mondiale.
Nella mentalità di qualunque generale quella mossa appare completamente insensata: il doppio
fronte a oriente e a occidente è l'incubo di ogni esercito!
Ma nel disegno di Hitler la conquista della Russia era un tassello fondamentale per ottenere grandi
risorse e masse di schiavi per la macchina industriale e militare germanica. Inoltre la forza
dell'Unione Sovietica era sconosciuta e certamente sottovalutata [1].
All'inizio sembrava che Hitler avesse ragione: ai primi di ottobre le forze naziste erano alle porte di
Mosca; Stalin si era trasferito all'interno e la capitale sembrava sul punto di crollare. L'esercito
russo però resistette e ben presto i tedeschi dovettero ripiegare.
La resistenza alle porte di Mosca (Operazione Barbarossa) è indicata da alcuni storici come il
capitolo decisivo della guerra; il fallimento di una rapida vittoria in terra russa ha compromesso le
capacità di tenuta dell'esercito tedesco nel lungo periodo. L'estate successiva fu tentato un nuovo
sfondamento da sud (operazione Blu) con la migliore armata dell'esercito e 500.000 uomini. A
Stalingrado si attestò la resistenza russa. Nell'inverno 1942-43 si decisero le sorti della guerra; 1
milione di morti a Stalingrado valsero la resa della VI armata di Von Paulus. Da quel momento
iniziò la controffensiva sovietica che portò l'armata rossa a Vienna, Praga e Berlino.
Nel frattempo la guerra si era estesa fino a diventare planetaria. Il Giappone approfittò delle colonie
francesi rimaste senza madrepatria e occupò tutta l'area del sud est asiatico, suscitando grande
risentimento negli Stati Uniti che imposero severe restrizioni economiche al Giappone, totalmente
dipendente dal commercio marittimo. Fu questo contrasto che portò – il 7 dicembre 1941 –
all'attacco di Pearl Harbor.
Gli Stati Uniti condussero la "loro" guerra nel Pacifico, ma contribuirono attivamente alla
controffensiva britannica in Europa. La scelta di Hitler di dichiarare guerra (anche) agli Stati Uniti
appare, ancora una volta, strategicamente assurda. 
Di fatto con la battaglia di Stalingrado e l'entrata in guerra dell'arsenale bellico Usa la guerra - a
inizio '43 - era segnata; i destini dei contendenti era segnato, c'era da stabilire i modi e i tempi. Gli
alleati inziarono a riconquistare i territori, seppur molto lentamente, intorno al dicktat della "resa
senza condizioni". Questa formula, sicuramente giusta in linea di principio, portò ad un'ultima fase
della guerra dettata dalla spietatezza assoluta: da una parte gli alleati che bombardavano a tappetto
le città sotto controllo nazista (tra cui l'Italia) e si disinteressavano dei lager; dall'altra l'esercito
tedesco - supportato dalle SS - che oppose una strenua resistenza riversando sulle popolazioni civili
l'onta della sconfitta. Da qui la serie sconvolgente di stragi che portarono il numero delle vittime ad
una cifra vicino o superiore ai cinquanta milioni!!! Tra le stragi che vale la pena ricordare c'è quella
di Dresda - città rasa al suolo dall'aviazione americana -  in cui in una sola notte si contarono circa
centomila morti (con armi convenzionali) e i tanti eccidi a freddo delle popolazioni civili:
Marzabotto, Santa di Stazzema, Fosse ardeatine eccetera.
A guerra in corso i paesi vincitori tennero una serie di conferenze per decidere l'assetto del
dopoguerra; Churchill, Stalin e Roosevelt si trovarono a Teheran nel 1943, a Mosca nell'autunno
1944, a Yalta all'inizio del 1945, a Postdam nella Germania occupata nell'agosto 1945.
La Germania trattò la resa ai primi di maggio, il Giappone accettò la sconfitta nell'agosto dopo lo
sgancio di due bombe atomiche nelle città di Hiroshima e Nagasaki.
 
[1] Il Giappone ebbe uno scontro nel 1939 con l'Armata Rossa in un conflitto non dichiarato e ne
uscì malconcio. Forse anche per questo il Giappone non dichiarò guerra all'Urss ma solamente a
Usa e Gran Bretagna.

Il Nazismo
Presupposti storici:
• Debolezza della repubblica di Weimar
• Importanza della guerra mondiale
• Coalizione anti-Weimar
 
Il partito Socialdemocratico (Spd)
E' il partito marxista più forte dell'Europa occidentale. La repubblica di Weimar, figlia della
sconfitta militare, è sostenuta principalmente dalla SPD. Il problema fu che non riuscì ad allargare il
consenso verso la repubblica oltre i confini della classe operaia socialdemocratica; con l'appoggio
debole dei conservatori, si trovò ben presto contro una vera e propria coalizione anti-Weimar.
La coalizione anti-Weimar
In pratica il nuovo stato risultò inviso a molti “pezzi” dello stato stesso:
Esercito
Grandi industriali
contrari a qualunque protezione sociale
Magistratura
è la stessa dello stato imperiale militarista
Junker (grandi proprietari terrieri)
per la prima volta nella storia perdono il potere
Artigiani e commercianti
resi precari dalla modernizzazione (supermercati)
Falliti del 1920-24 l'inflazione record dei primi anni '20 lascia sul lastrico molti piccoli
risparmiatori. Questi associano l'avvento della repubblica con il personale fallimento economico.
Per dare l'idea del disastro sociale creato dall'inflazione, va considerato che nel 1923 l'unità
monetaria perse di un milione di milioni il valore che aveva nel 1913. In vita quotidiana significa
che, ad esempio, la riscossione di una polizza assicurativa maturata in periodo inflazionistico poteva
bastare all'acquisto di una bibita nel miglior caffè di Berlino!
In ogni caso fino al 1928 la maggioranza dei tedeschi appoggiava al repubblica. Fu la crisi
economica del 1929 ad invertire la situazione. È la grande crisi la base del trionfo nazista .
In Germania il tracollo della finanza americana fu particolarmente grave perché la ripresa era in
gran parte finanziata dal capitale statunitense. Gli Usa prestavano denaro a breve termine, le banche
tedesche facevano prestiti a lungo e medio termine. Quando nel '29 gli istituti di credito americani
chiesero indietro i capitali le banche tedesche, prive di liquidità, fallirono in massa. La catena dei
fallimenti si estese all'intero ciclo produttivo: industrie, imprese, negozi, famiglie.
Risultati: conti correnti non fruibili e disoccupazione alle stelle. Il Pil regredisce, i prezzi crollano e
circa 1/3 della popolazione della lavorativa è disoccupata (40% sono operai).
NOTA: In Italia i prezzi erano molto alti nei primi anni '20, questo spinse a scioperi e saccheggi. La
situazione socio-economica era molto diversa. Fu la caduta dei prezzi associata alla disoccupazione
a favorire l'adesione di massa al partito nazionalsocialista (Nsdap); non – come in Italia – la paura
della rivoluzione socialista.
Il minuscolo partito di Adolf Hitler, da alcuni anni ai margini della vita politica, conosce nel pieno
della crisi una escalation di consensi clamorosa.
MAG '28 - 21.6%
SET '30 - 18.3%
LUG '32 - 37.3%
SET '32 - 33.1%
MAR '33 - 43.9%
Soltanto l'elezione del marzo 1933 è viziata da un clima intimidatorio e terroristico.
Ma chi ha votato per Hilter?
Non appoggiarono la Nsdap i grandi industriali e neanche i Junker: loro erano conservatori. E anche
se detestavano la repubblica di Weimar, non avevano simpatia per i mezzi rozzi e violenti delle
camicie brune.
La classe operaia rimase contraria al nazismo, ma non in modo assoluto. Nel 1933 infatti ben
trecentomila tessere del P.N. erano di operai: in genere giovani disoccupati o dipendenti di piccole
fabbriche succubi dei padroni (lo spirito paternalista!).
E' il ceto medio il principale serbatoio di voti del partito nazista. Sono negozianti, artigiani, piccoli
proprietari. Lo stesso Hitler, che di mestiere faceva il pittore, apparteneva a questa categoria dei
lavoratori autonomi. Sono loro ad essere più colpiti dalla crisi del '29; e sono svantaggiati sia dalla
crescita della grande distribuzione – a parole osteggiata da Hitler – sia dalla mancanza di tutele
sindacali. L'elenco non si ferma a queste categorie sociali: altri appartenenti del ceto medio -
impiegati privati e statali, tecnici specializzati, lavoratori nei servizi, commesse nei supermarket –
sono molto sensibili alla propaganda della Nsdap, che contesta un po' tutto ai partiti di governo,
ottenendo larghi consensi.
La propaganda di estrema destra ebbe largo successo tra i giovani contadini: i padri continuavano a
gestire la fattoria, in città non c'era lavoro e molti di loro - delusi e arrabbiati - confluivano nelle fila
di bande teppistiche urbane. L'idea dello “spazio vitale” (lebensraum) , di allargamento ad est, ebbe
in questa categoria grande consenso.
Religione
E' tra le fila dei protestanti che il nazismo coglie adesioni elettorali. I cattolici hanno un riferimento
partitico – la CDU – e restano fedeli a quello. In Baviera, ad esempio, ecco la sequenze delle tornate
elettorali:
MAG '28 - 15%
SET '30 - 15.7%
LUG '32 - 14.8%
SET '32 - 15.2%
MAR '33 - 14%
1. Preparazione alla guerra
L'espansionismo è il fulcro dell'azione politica del nazismo. Già nel Mein Kampf (il libro scritto da
Hitler durante la detenzione del 1923) si parla di espansione ad est, della guerra al bolscevismo e
della ricerca dello “spazio vitale”. Gli anni tra il '33 e il '39 sono una rapida corsa agli armamenti e
una continua provocazione per rompere l'equilibrio internazionale.
2. Organizzazione dello stato - Führerprinzip
Viene creata una “burocrazia parallela”. Si forma uno strano sistema di ministeri, enti e poteri statali
e di partito in competizione tra sé e sganciati dallo stato. In teoria lo stato doveva amministrare e il
partito “guidare” il popolo. Questa distinzione è solo fittizia; il partito si impossessa di tutte le parti
dello stato e si disintegra in fazioni di potere paralleli. Un quadro caotico della distribuzione del
potere, che si tiene in piedi grazie ad una rigidissima logica del fuhrer, cioè del capo supremo. Ogni
funzionario aveva un superiore, fino ad Hitler, il capo supremo e incontestabile. La supremazia
della legge lascia il campo al principio della fedeltà e della volontà.
3. Rapporto stato-società civile
Non cambia la struttura sociale come nella Russia di Stalin. I cambiamenti avvengono sotto la
spinta del forte militarismo. Le donne vanno in massa a lavorare nelle fabbriche (smentendo la
propaganda che le voleva a casa); poi gli uomini sono arruolati in numeri altissimi. L'autonomia
della società civile è distrutta: niente è libero, né le associazioni, né la stampa, né i sindacati. Anche
il regime sovietico distrugge in questo modo la società (per questa invadenza viene appunto definito
totalitarismo) ma cambia il concetto di cittadinanza: nella visione nazista la cittadinanza si basa
sulla razza e l'espansione degli ariani verso est.
4. La cultura nazista
La propaganda diventa una industria di stato. Viene esaltata la “razza pura”, tutti i tedeschi sono
inquadrati in organizzazioni statali e costretti a partecipare a iniziative pubbliche. Lasciare la
famiglia per servire lo stato; questa è la logica del totalitarismo! Lo stato nazista funzionava come
una macchina di propaganda perfetta: dai compiti scolastici, all'intrattenimento, ogni aspetto della
vita quotidiana era scandito dai contenuti politici del nazionalsocialismo.
5. Rapporto economia – nazismo
La retorica comunista tacciò il governo di Hitler come “l'espressione del capitalismo portato alle
estreme conseguenze”. E' una lettura errata della storia sia della Germania che dell'Italia.
In particolare in Germania la volontà politica prevale decisamente sugli interessi economici. In
alcuni casi furono fatte scelte antieconomiche. Lo studioso Heinze approfondì i rapporti del colosso
chimico I.G. Farben con il governo nazista. Dai risultati emerge chiaramente come la grandissima e
ricchissima industria non aveva alcuna influenza sulle scelte politiche. Solo partito e SS
decidevano; su tutto.
In breve possiamo riassumere i caratteri essenziali del nazismo:
• Capo carismatico
• Cittadinanza su base etnica e razzista
• Interventismo culturale dello stato (propaganda, associazioni, istruzione)
• Burocrazia parallela
• Primato della politica sull'economia

Il fascismo italiano
Presupposti storici:
• Debolezza dello stato italiano
• Importanza della guerra mondiale
• Situazione rivoluzionaria del “biennio rosso”
STATO DEBOLE
L'esito del Risorgimento è l'alleanza tra borghesia e nobiltà del nord e grandi proprietari agrari del
sud. Le classi popolari sono escluse dai risultati dell'unità nazionale: la loro partecipazione al
movimento è solo marginale. Antonio Gramsci la definì “rivoluzione passiva”. Il carattere del
Risorgimento si può capire guardando il comportamento di Garibaldi nei giorni successivi alla presa
della Sicilia. Di fronte alle occupazioni spontanee delle grandi proprietà terriere, il comandante dei
mille incarica il suo braccio destro Nino Bixio di fermare con qualunque mezzo l'insurrezione
(strage del Bronte). La scelta politica fu quella di cedere il territorio a Vittorio Emanuele, una
soluzione incompatibile con qualsiasi rivoluzione sociale. Per le popolazioni meridionali il nuovo
stato divenne sinonimo di “male”: chiedeva nuove tasse, prendeva i figli per farli militari. La classe
politica, nobili e alto-borghesi conservatori, è del tutto estranea alle vicende delle masse contadine
del sud, e non fanno nulla per ottenere un po' di consenso. Peraltro la chiesa cattolica mobilitava i
fedeli contro lo stato “ateo” rendendo ancora più problematica la formazione di una nuova identità
nazionale.
Neppure il cambio di linea politica (con i riformisti di De Pretis nel 1876) mutò il rapporto tra stato
e società civile: si fece strada la pratica del trasformismo, del clientelismo, della promozione di
privatissime convenienze attraverso il potere politico. Con questa forma di stato "non condiviso" si
è giunti alla Prima Guerra Mondiale e al drammatico dopoguerra.
INTERVENTO IN GUERRA
Il partito socialista mantiene una posizione astensionista (unico nell'Europa occidentale),
aumentando l'acredine dei ceti medi nei confronti dei proletari (considerati quasi dei traditori).
D'altra parte la guerra fu vissuta dai ragazzi operai e contadini con grande disagio e rassegnazione.
La disfatta di Caporetto fu il momento più drammatico, poiché la resistenza all'avanzata austriaca
coincise con l'apice dei rifiuti a combattere e delle fucilazioni per diserzioni.
BIENNIO ROSSO
Il 1919-1920 sembrava un periodo pre rivoluzionario.
Le fabbriche sono in subbuglio, nascono i consigli di fabbrica (soviet) e grandi scioperi mettono in
crisi le industrie del nord. Nel settembre 1920 molte fabbriche sono occupate, in alcune zone si
assiste a saccheggi di negozi, mentre La Spezia proclama il soviet. Molti pensavano che il Psi fosse
sull'orlo della rivoluzione. L'occupazione è gestita bene dal primo ministro Giolitti che riesce a far
esaurire il movimento con estenuanti trattative.
Il non aver usato la forza diffonde però una grande paura tra grandi industriali e proprietari. Dal
canto suo il Psi si dimostrò ambiguo e altalenante, forse impaurito per una possibile azione
dell'esercito, comunque poco chiaro nella direzione politica da seguire.
Accanto alle manifestazioni c'è il successo elettorale del 1919: il Psi diventa il partito più votato del
paese, molte amministrazioni municipali vanno in mano ai socialisti (che non sono per nulla
moderati).
Anche nelle campagne le Leghe dei contadini ottengono importanti successi. Per la prima volta in
Italia la legge dà tutele ai lavoratori, i sindacati controllano i datori di lavoro e c'è una qualche
forma di garanzia giuridica. Questo successo delle leghe contadine è molto importante perché è
proprio dalle campagne del centro e del nord che iniziano le scorribande squadriste e l'appoggio
finanziario e politico al nascente movimento fascista.
Dove e come si afferma il fascismo
Tessere del partito fascista (P.F.) nel 1921: Milano 6000; Ferrara 7.000; Bologna 5130. Tra i primi
sostenitori ci sono 17 grandi proprietari (tra cui 6 ebrei, per ironia della sorte!). Il movimento trovò
appoggio anche tra i piccoli proprietari, per nulla attratti dalla prospettiva socialista e sindacale di
collettivizzazione delle campagne. Il P.F.inizialmente promise ridistribuzione della terra e,
inizialmente, mantenne le promesse.Nei primi mesi a Ferrara 18.000 ettari furono assegnati in
piccoli lotti.
 
La manovalanza violenta fu “reclutata” tra ex combattenti animati da profondo odio per la classe
operaia e i braccianti contadini. Incapaci di adattarsi alla vita civile e convinti sostenitori dei valori
della patria e dell'ordine furono attratti dalla gerarchia militare e dallo spirito militarista del
fascismo (il termine “camerata” rende bene questa continuità con la vita nell'esercito).
La ferocia e la violenza degli squadristi prese alla sprovvista la pacifica massa di lavoratori
socialisti: ci furono pestaggi, case del popolo date alle fiamme, intimidazioni di ogni genere alle
associazioni popolari e alle cooperative. Bisogna sottolineare che in contesti civili bastano pochi
criminali per terrorizzare masse inermi e pacifiche di cittadini; se lo stato non interviene – come
dovrebbe – è facile per questa minoranza prendere il sopravvento. Il non interventismo delle forze
dell'ordine è stato un fattore chiave nell'ascesa fascista degli anni '20. Una affermazione viziata da
metodi illegali e criminali per la legge dello stato.
Chi appoggia il fascismo?
Studenti
A differenze del dopoguerra la maggioranza degli studenti è nazionalista e militarista. Già nel '21 il
13% è iscritto al partito fascista, sono i figli del ceto medio, avvocati, medici, liberi professionisti
fortemente anticomunisti.
Lavoratori
In gran parte sono impiegati; poi professionisti e in percentuali molto basse operai e commercianti.
Gli imprenditori ci sono, ma percentualmente sul numero di iscritti non sono moltissimi.
Burocrazia
Determinante è l'appoggio in alcuni settori chiave del sistema statale. Commissari, prefetti e
funzionari statali avvallarono sordidamente l'aggressione dei fascisti a settori della società civile: le
associazioni e le cooperative di sinistra non poterono contare sulla protezione delle forze armate e la
magistratura, quasi distratta nei riguardi delle denunce ai fascisti, esercitò la mano pesante verso
esponenti socialisti o comunisti.
Industria
Industriali, confindustria, grandi imprenditori NON SONO fascisti. Lo diventeranno per
convenienza dopo il consolidamento al potere di Mussolini.
N.B. E' in fase di allestimento:
a. cronologia consolidamento del potere
b. l'impero e l'espansionismo bellico degli anni '30
c. la guerra e il crollo del regime

Lo sterminio degli ebrei


La SHOAH (lo sterminio degli ebrei)
Breve cronologia di come si "crea" il contesto politico e culturale in cui matura la spaventosa
tragedia dell'olocausto.
1922 Italia. Va al potere Benito Mussolini che fonda un regime basato sulla violenza e sulla
gerarchia. Il sistema delle squadre speciali del partito (camicie nere) piace molto a Hitler che ne
prenderà spunto.
1923 Germania. Un giovane pittore, ex combattente della I guerra mondiale, tenta un colpo di stato
e viene arrestato. In prigione scrive una specie di programma politico. Era Adolf Hitler e il suo
libro, il Mein Kampf, descrive abbastanza bene cosa vuol fare della Germania e dell'Europa.
1933 Hitler vince le elezioni e diventa capo del governo.
1933-1935 Tutte le opposizioni vengono messe fuori legge, le libertà democratiche sospese, un
pacchetto completo di leggi stabiliscono norme di comportamento degli abitanti tedeschi di razza
ebraica. (Leggi di Norimberga). Nota: erano vietati i rapporti sessuali tra ariani ed ebrei, per
impedire la contaminazione razziale.
1938 Avviato un programma di eliminazione della popolazione handicappata e malata di mente.
L'opposizione della chiesa e dei cittadini fa retrocedere il governo. Intanto si diffondono campi di
lavoro e reclutamento per gli oppositori politici del regime e persone sgradite alla civiltà germanica.
In politica estera la Germania si annette tutti i territori con cittadini tedeschi: Austria, Renania,
Cecoslovacchia.
1939 Aggressione della Polonia. La questione ebraica diventa pressante. Si fa strada l'idea di
trovare una “SOLUZIONE FINALE”.
1939-1941 Quando la guerra sembra andare bene la questione degli ebrei resta sullo sfondo:
vengono rinchiusi in ghetti (Varsavia) o eliminati sul posto (Kiev). Quando ogni possibilità di
trasferimento coatto diventa impossibile viene pianificata l'eliminazione sistematica di tutti gli ebrei
d'Europa.
1942 Soluzione finale
Campi di lavoro per gestire gli schiavi slavi e gli ebrei abili al lavoro. Gli altri smistati verso campi
di sterminio, costruiti appositamente per l'eliminazione di massa (Auschiwtz era un campo misto di
lavoro e di sterminio, gli altri erano Majadnaek, Chelmno, Belzec, Treblinka e Sobibor, tutti in
territorio polacco). Tra il '42 e il '44 i campi lavorarono a pieno ritmo.
In tutta l'Europa occupata una macchina burocratica molto sofisticata andava a cercare gli ebrei
quasi uno a uno, casa per casa: leggi, procedure, uffici, funzionari erano predisposti esclusivamente
per la gestione della soluzione finale.
A fine '44, quando la guerra era segnata, il progetto fu abbandonato. Il 27 gennaio 1945 il campo di
Auschwitz, fu conquistato dalle forze armate sovietiche in rapido avanzamento verso Berlino.
 
Olocausto: perché?

Questa sezione è la elaborazione di alcune lezioni fatte in classe, ed ha perciò un taglio didattico.
Talvolta anche le spiegazioni possono essere rivolte esplicitamente ai ragazzi. 
 
 
La mia preoccupazione era allontanare l'idea che l'olocausto si interiorizzi come qualcosa di
estraneo alla nostra identità; un male assoluto, commesso da mostri, talmente orrendo da non poter
essere compreso né spiegato.
Schema indicativo delle domande chiave per cercare il significato della memoria della shoah:

Tutta colpa di Hitler?? 

Le responsabilità della popolazione sono enormi ma non per l'adesione al progetto politico del
nazismo (alternativa radicale alla democrazia e ai valori della società borghese: uguaglianza, libertà,
solidarietà) bensì per INDIFFERENZA. Alcune indagini hanno descritto un riscontro di questo tipo:
 
• 5% tedeschi entusiasti di Hitler
• 69% indifferenti
• 21% dubbio e smarrimento
• 5% decisa opposizione
E' il 90% di cittadini passivi a permettere a un gruppo ristretto di fanatici criminali di realizzare lo
sterminio.

Perché proprio gli ebrei? 

Erano tradizionalmente malvisti in molti strati popolari, per ragioni religiose e culturali, e si
prestavano perfettamente a simboleggiare tutto ciò che c'era di odioso, terribile e minaccioso del
mondo: un CAPRO ESPIATORIO perfetto. Era molto semplice e molto efficace dal punto di vista
propagandistico. Il “nemico” della società, la causa di tutti i mali era materiale, non ideale come
poteva essere il comunismo o il capitalismo. Indicando nell'ebreo il male assoluto, il regime nazista
personificava l'odio per il comunismo, il capitalismo, l'internazionalismo, la modernità.
Peraltro non possiamo e dobbiamo dimenticare che i campi di concentramento e di sterminio non
hanno riguardato solamente gli ebrei. Il totale dei morti nei campi infatti potrebbe superare i dieci
milioni se aggiungiamo tutti i perseguitati dal regime nazista: zingari, oppositori politici (anarchici e
comunisti), testimoni di geova, handicappati, emarginati sociali.

Un buco nero dell'umanità, un regresso della civiltà? 

In realtà no. Il nazismo è l'espressione della civiltà moderna, dell'industrializzazione, dello sviluppo
della scienza, della tecnica e della cultura storica. I gerarchi nazisti erano persone normali, non
mostri. Himmler, il capo delle SS, amava gli animali e la famiglia. Tutti erano amanti della buona
musica e delle arti. L'eccezionalità e la mostruosità dello sterminio degli ebrei sta proprio nella sua
modernità: nella burocrazia, nella impersonalità dei compiti, nell'alta tecnologia utilizzata,
nell'enfasi sugli aspetti medici, tecnici e scientifici. Non è una violenza da barbari primitivi.

Cosa voleva fare Hitler? 

Il progetto di Hitler era di ridisegnare la mappa etnica dell'Europa secondo una concezione del
mondo divisa in razze. Gli ariani avrebbero dominato; gli slavi sarebbero stati gli schiavi addetti ai
lavori forzati, tutto l'est ridotto ad una colonia della Germania da sfruttare e i popoli raggruppati e
spostati a seconda delle etnie. Gli ebrei esiliati in un'isola africana (avevano pensato al Madagascar)
oppure eliminati del tutto.

L'eccezionalità dei campi di sterminio 

Il progetto tragico di Hitler si realizzò effettivamente in delle aree limitate e nascoste chiamati
Lager. La specificità era l'organizzazione interna che portava alla distruzione morale dei prigionieri.
Quello che fa considerare Auschwitz “il male assoluto” è la capacità di pianificare l'annientamento
dell'uomo prima di mandarlo nelle camere a gas. I tre milioni di ebrei, comunisti e zingari uccisi nei
campi non soffrivano più, non speravano più, non sognavano più quando andavano a fare l'ultima
doccia.

Non può ripetersi ?? 

Siccome non è stato un evento fatto da mostri, ma una eccezionale combinazioni di fattori delle
società moderne, non è affatto escluso che qualcosa di simile si ripeta. Le recenti guerre a sfondo
etnico - come la guerra in Jugoslavia - in un certo senso ci ricordano tragicamente l'attualità della
storia della shoah.
 
E noi che c'entriamo?

L'attualità di questa brutta storia si può individuare lungo due binari, che accompagnano spesso le
società contemporanee: il razzismo e l'indifferenza.

1) Il razzismo.

Dal diario di Anna Frank ‘Se un cristiano compie una cattiva azione la responsabilità é soltanto sua,
se un ebreo compie una cattiva azione, la responsabilità ricade su tutti gli ebrei". La shoah è stata la
combinazione della NORMALITA' indotta dall'organizzazione burocratica e dall'obbedienza e
indifferenza alle direttive superiori e dall'ORRORE di una concezione dello straniero/diverso come
non-umano. Questo porre l'ebreo al di là dell'umano ha funzionato come anestetico per la coscienza.

2) Indifferenza.

La chiusura nella vita privata e il disinteresse per la vita sociale e politica è uno dei fattori causali
della tragedia. Per questo c'è la giornata della memoria. Non basta “non dimenticare” bisogna
prendere coscienza che l'abbandono dei valori portanti della nostra civiltà (libertà individuale,
uguaglianza, solidarietà) unita alla diffusione di idee razziste e violente può - in certi momenti
storici - portare a forme simili di sterminio di massa. Non è un meccanismo irripetibile. I momenti
storici a rischio si verificano quando le istituzioni perdono di stabilità e di legittimità. Se non è lo
Stato a codificare i principi entro un quadro coerente di leggi e relazioni tra le parti il rischio di
scivolare in fenomeni simili al nazifascismo c'è, proprio alla luce della “non mostruosità” del “non
anacronismo”. Ovvero la nostra civiltà – mentalità comune, cultura di massa, capacità tecnologica,
scientifica, di organizzazione – produce la democrazia, i diritti dell'uomo e tutto il resto, ma può
produrre anche ideologie di superiorità della razza e pianificazione di una qualche “soluzione
finale”. 

Nota:

Nel corso delle lezioni ho appena accennato alle condizioni di vita degli ebrei nel lager e agli
episodi di raccapricciante violenza che sono, in genere, il tipo di messaggio che viene trasmesso in
queste occasioni. Sebbene in certi casi fissare nella mente dei giovani l'orrore sperando che questo
funzioni automaticamente come coinvolgimento sia emotivo che razionale, può funzionare, temo
(come sostenuto anche da Annette Wieviorka in “Auschwitz spiegato a mia figlia”) che l'emozione
non sia sufficiente per far assimilare il senso della tragedia.

Personalmente sono rimasto colpito anni fa, quando uscì il film Schindler's list, nel leggere dello
sconforto di alcuni insegnanti di scuola superiore nel vedere i propri alunni ridacchiare e fare
incitamenti pro-nazi alla visione del film. Forse il compito oggi è ancora più difficile di prima e
davvero inorridire non serve più o non basta più. E' un fatto che la moderna comunicazione di
massa utilizzi l'immagine raccapricciante e ultra-violenta come strategia di marketing (si pensi ai
film, ai videogiochi o anche agli stessi telegiornali). Allora forse è tempo di capire veramente il
“nodo” della questione e scioglierlo questo nodo: per vedere chiaramente quali sono i fili che
legano Auschwitz alla nostra vita e dove cominciare per far sì che non si riannodino mai. Dietro
l'angolo c'è sempre il rischio di fare vuota retorica o controproducente resoconto horror.

Le conseguenze del conflitto mondiale e la "guerra fredda"


(a cura di Claudio Li Gotti)

Le conseguenze della seconda guerra mondiale in termini di bilancio delle perdite umane furono
ancora più disastrose rispetto alla guerra del ’14-18; le vittime delle barbarie ammontarono a
circa quaranta milioni di individui e furono assai più numerose tra i civili che tra i militari. Questo
fu il risultato soprattutto dei bombardamenti a tappeto su vaste aree abitate (basti pensare a
Coventry nel ’40 o Dresda nel ’45, che furono totalmente distrutte), indipendentemente
dall’esistenza di impianti bellici o punti miltari strategici; anche l’impiego delle due bombe
atomiche, deciso dagli americani in Giappone (che rasero al suolo le due città di Hiroscima e
Nagasaki, causando più di centocinquantamila morti), servì a delineare il quadro di una "guerra
totale" senza precedenti. Senza dimenticarci del genocidio degli ebrei messo in atto dalla follia
nazista, la cifra di sei milioni di uomini, donne e bambini sterminati dai tedeschi nella loro
"soluzione finale" che rimane un simbolo dell’orrore di questo conflitto.
La guerra oltre a provocare immani distruzioni (soprattutto nei paesi europei), ebbe profonde
ripercussioni anche sul sistema internazionale. Uno degli effetti più importanti dei negoziati di pace
fu infatti quello di stabilire il ruolo egemone degli USA nel nuovo ordine politico ed economico in
campo internazionale, davanti alle rovine dell’Europa. Nel febbraio del 1945 alla Conferenza di
Yalta, in Crimea, si incontrarono i tre "grandi" W. Churchill, F.D. Roosevelt e J.V. Stalin i quali
stabilirono la suddivisione dell’Europa in due sfere d’influenza: l’Occidente agli anglo-americani,
l’Oriente all’URSS, che si era affermata come la potenza militare antagonista agli Stati Uniti e
nuova minaccia per il mondo occidentale. Infatti nell’Est europeo, sotto la guida dell’Unione
Sovietica, si andavano affermando i vari regimi comunisti (in Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia,
Ungheria, Polonia) che avrebbero costituito insieme all’URSS un’organizzazione di mutua
assistenza economica, il Comecon (1949) e poi una vera e propria alleanza militare, con il Patto di
Varsavia (1955). Dall’altro lato, i principali paesi dell’Europa occidentale (tra cui l’Italia) avrebbero
iniziato il loro cammino verso l’integrazione europea e, sotto la guida degli Stati Uniti, si unirono in
un’alleanza militare, la NATO (North Atlantic Treaty Organization, 1949) che avrebbe dovuto
scongiurare il pericolo comunista con una difesa reciproca. Sempre nello stesso anno, in una
Germania occupata dalle forze vittoriose, nascevano la Repubblica Federale Tedesca, in mano agli
Alleati, e la Repubblica Democratica Tedesca, nella zona sovietica. Praticamente la seconda guerra
mondiale aveva diviso il continente in due, come disse Churchill, una "cortina di ferro" separava
l’Europa dell’Est da quella dell’Ovest. Di qui la formazione di due blocchi contrapposti, Est ed
Ovest appunto, intorno ai quali si polarizzerà il sistema delle relazioni internazionali nel secondo
dopoguerra (e fino al crollo dei regimi comunisti, alla fine degli anni ’80): il cosiddetto sistema
della "guerra fredda".
Se sul piano militare vi fu un equilibrio tra le due superpotenze (USA ed URSS), entrambe in
possesso di numerose testate nucleari (tant’è vero che si parlò di un "equilibrio del terrore
nucleare") e sul piano politico entrambe ebbero lo stesso ruolo all’interno dell’ONU (come membri
del Consiglio di Sicurezza, in possesso del diritto di veto, assieme a Francia, Gran Bretagna e Cina),
in campo economico gli Stati Uniti non ebbero rivali ed assunsero il ruolo di leader dell’ordine
economico mondiale, come tra l’altro era stato stabilito dagli accordi di Bretton Woods (luglio
1944). La conferenza di Bretton Woods, alla quale parteciparono 44 paesi, fu voluta dal presidente
americano Roosevelt allo scopo di ristabilire un certo ordine nel sistema economico internazionale.
Venne così sancita una forte prevalenza degli Stati Uniti attraverso il passaggio al Gold Exchange
Standard, cioè ad un sistema monetario dove la convertibilità dei biglietti non sarebbe avvenuta più
in oro ma bensì contro dollari; quindi, il dollaro statunitense veniva posto al centro del sistema degli
scambi come unica moneta con la quale effettuare i pagamenti internazionali. Al fine di
incoraggiare la cooperazione monetaria ed aiutare i paesi più colpiti dagli eventi bellici nella loro
ricostruzione, vennero create, sempre nello stesso anno, due importanti istituzioni: il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, entrambe con sede a Washington e dominate dagli
USA. A completare l’opera di costruzione del nuovo ordine internazionale, nel 1947 venne istituito
il GATT (più tardi confluito nella WTO, l’organizzazione mondiale del commercio), un accordo
generale sulle tariffe commerciali al fine di liberalizzare gli scambi multilaterali e ridurre
progressivamente le barriere doganali.
Il Piano Marshall, operativo dall’aprile del 1948, fu una conferma dell’avvenuta presa di coscienza
da parte degli americani della loro leadership mondiale. L’allora Segretario di Stato
americano George C. Marshall aveva posto dinanzi al Congresso lo stato di estremo disagio in cui
versavano le economie dei paesi europei; così, forti della loro posizione, gli USA finirono per
adottare l’European Recovery Program (ERP), il cui scopo era quello di aiutare la ricostruzione
delle disastrate economie europee. In breve furono erogati miliardi di dollari a favore soprattutto dei
principali alleati occidentali (Francia e Gran Bretagna), mentre alla Germania, il paese uscito più
distrutto dalla guerra, andò solo una piccola parte. Anche l’Italia beneficiò degli aiuti americani nel
suo processo di ricostruzione politica ed economica post-fascista. I fondi stanziati dall’ERP
permisero di raggiungere il pareggio del bilancio statale e la stabilità monetaria oltre che un
risveglio dell’attività produttiva; questi saranno i punti chiave che porteranno, negli anni ’50, al
cosiddetto "miracolo economico" dell’Italia, cioè allo straordinario sviluppo dell’economia italiania
i cui ritmi di crescita saranno tra i più alti del mondo (secondi solo alla Germania Federale).
In realtà, gli aiuti scaturiti dal piano Marshall furono dettati più da ragioni strategiche che
economiche; gli americani miravano infatti a portare dalla loro parte tutti i paesi dell’Europa
occidentale allo scopo di arrestare l’avanzata comunista. Di qui la decisione di assisterli
economicamente e di garantire loro la protezione militare contro un eventuale attacco sovietico.
Secondo molti studiosi, fu proprio il piano Marshall a dare avvio alla guerra fredda. Però è giusto
ricordare che gli aiuti americani contribuirono a risollevare le economie dei paesi dell’occidente
europeo e, indirettamente, favorirono l’adozione di scelte di cooperazione tra questi paesi (in primo
luogo Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda) che porteranno a quella
integrazione economica, monetaria ed anche politica tutt’ora in corso.
La guerra fredda e l'equilibrio del terrore
Nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti d’America s’assunsero il compito di guidare la
ricostruzione del sistema economico internazionale, dinanzi al declino delle potenze europee. Sul
piano politico-militare il ruolo egemonico statunitense fu però insidiato dall’Unione Sovietica,
nascente potenza che fondava la sua rivalità nel conflitto ideologico tra capitalismo (americano) e
comunismo e che godeva di una forte capacità di destabilizzazione politica in Europa. Infatti, sotto
la guida sovietica, in quasi tutti i paesi dell’Est europeo si andò affermando l’ideologia politica
comunista che rappresentava una vera e propria minaccia agli occhi del mondo occidentale. Gli
americani risposero in un primo momento con la cosiddetta "strategia del contenimento"
(containment); il 12 marzo 1947 il presidente degli USA Harry Truman enunciò dinanzi al
Congresso americano la sua "dottrina", che consisteva in una serie di aiuti economici (con
l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall) e militari alle nazioni europee
che sarebbero passate quindi sotto la protezione degli USA. Lo scopo era di creare un fronte
compatto dinanzi alla minaccia dell’avanzata comunista e, all’interno dei paesi che ricadevano nel
nascente blocco americano, i partiti di sinistra furono allontanati dalle coalizioni governative; in
Italia, ad esempio, le elezioni politiche del 1948 segnarono il trionfo della Democrazia Cristiana e il
definitivo allontanamento dei comunisti e socialisti dall’area di governo.
Ecco quindi come il sistema delle relazioni internazionali del secondo dopoguerra si andava
polarizzando su due blocchi contrapposti di stati, quello sovietico dell’Est e quello americano
dell’Ovest, che divideranno l’Europa in due parti. In seguito, questo sistema della "guerra fredda"
(termine che fu utilizzato per la prima volta dal giornalista americano Walter Lippmann) si
estenderà anche fuori dell’Europa, dando vita a due "mondi" ideologicamente contrastanti: quello
comunista guidato dall’URSS e quello capitalista e democratico guidato dagli USA. Da qui anche la
nascita del "Terzo Mondo", termine che inizialmente fu identificato con il movimento degli Stati
"non allineati" rispetto ai blocchi raccolti intorno agli USA e all'URSS; in gran parte si trattava di
nuovi paesi usciti dal processo di decolonizzazione, ma non mancarono grandi Stati che si
rifiutarono di entrare nell’orbita americana o sovietica (ad esempio l’India, la Cina e la Iugoslavia).
Sino alla fine degli anni quaranta gli americani, essendo gli unici in possesso di testate nucleari,
riuscirono a mantenere una condizione di superiorità strategica sulla quale fondarono la cosiddetta
"dottrina della rappresaglia massiccia", la quale doveva bloccare ogni tentativo di aggressione nei
loro confronti (o nei confronti degli Stati occidentali) con la minaccia nucleare. Ma, quando
nell’agosto del 1949 l’URSS fece esplodere la sua prima bomba atomica, la preponderanza militare
americana venne meno ed in breve tempo i sovietici riuscirono a dotarsi di armi nucleari tali da
competere come antagonisti degli Stati Uniti, almeno in campo militare. Il successo in Cina della
rivoluzione comunista guidata da Mao Zedong e l'immediata alleanza di quest'ultimo con Stalin
fece rientrare anche l'Estremo Oriente nella scena dello scontro bipolare. Iniziò così una fase di
militarizzazione massiccia della guerra fredda, caratterizzata da una continua corsa al riarmo
nucleare da parte delle due superpotenze.
La parità in campo nucleare poneva la rivalità sovietico-americana in una condizione strategica del
tutto nuova nella storia delle relazioni internazionali, quella del cosiddetto "equilibrio del terrore",
fondato sulla consapevolezza che una guerra diretta tra le due superpotenze avrebbe causato la
distruzione di entrambe e del mondo intero. Questo equilibrio del terrore rappresentò dunque una
sorta di deterrenza reciproca che avrebbe dissuaso i due rivali dall’impiego delle loro terribili armi
di distruzione di massa; quella dell’esclusione dello scontro militare diretto tra le due superpotenze
fu una vera e propria regola del "gioco" bipolare durante la guerra fredda. Soltanto una volta il
mondo rischiò di precipitare in una guerra nucleare. Accadde nel 1962, l’anno della famosa crisi dei
missili di Cuba, dovuta al fatto che i sovietici avevano installato nell’isola (grazie all’appoggio del
leader cubano Fidel Castro) dei missili capaci di bombardare gli Stati Uniti e spinsero il presidente
americano John F. Kennedy ad imporre un blocco navale intorno a Cuba per una probabile
invasione dell’isola; l’invasione avrebbe potuto scatenare una guerra nucleare e il leader sovietico
Chruscev, conscio di ciò, accettò di ritirare i missili in cambio dell’impegno americano a non
invadere Cuba.
Agli inizi degli anni settanta le due superpotenze inaugurarono una collaborazione che portava un
periodo di distensione e di maggiore stabilità mondiale, soprattutto attraverso gli accordi di
Helsinki del 1975 che sancivano il riconoscimento dell’Europa divisa, allentando la rivalità tra
americani e sovietici. In occasione degli accordi SALT-I e SALT-II del 1972 e 1979 gli USA e
l'URSS concordarono una riduzione degli armamenti. Negli anni ’80 toccò al giovane leader
sovietico Michail Gorbacev di riprendere il dialogo distensivo con gli USA, lanciando una richiesta
di pace e di alleggerimento delle risorse militari che venne raccolta dal presidente Ronald Reagan.
La fine del bipolarismo e della guerra fredda giunse tra il 1989 e il 1991, con il crollo dei regimi
comunisti dell’Est europeo e la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
 
LA RIVOLUZIONE IN CINA
La rivoluzione democratico-repubblicana cinese ebbe iniziò con la rivolta di Wuchang (1911),
durante la quale la maggioranza delle province meridionali della Cina aderirono alla nuova entità
statale. Le forze che avevano lottato per la democrazia diedero vita nel 1912 al Kuomintang (Partito
nazionalista), guidato da Sun Yat-sen (1866-1925). La proclamazione della repubblica avvenne il 1°
gennaio 1912.
Pochi mesi dopo, Sun Yat-Sen, per evitare ulteriori conflitti, rinunciò alla presidenza a favore di
Yuan Shikai, generale dell'esercito del nord.
Alla caduta dell'ultimo imperatore della Cina, Pu Yi, le province periferiche del Tibet e dello
Xinjiang si resero autonome. La Mongolia divenne indipendente perché era un territorio della
Corona e, alla fine della dinastia, non sussistevano ormai più legami con la Cina.
Nel 1913 Yuan Shikai sciolse il parlamento e iniziò un processo di accentramento su di sé che lo
avrebbe quasi portato, nel 1916, ad essere insediato come imperatore, se in quello stesso anno non
fosse morto, lasciando però la parte settentrionale della Cina alla mercé dell'anarchia dei
governatori locali delle province. In pratica il Kuomintang dominava nella parte meridionale del
paese, mentre a nord spadroneggiavano i "signori della guerra", cioè i governatori militari delle
province.
Intanto nel 1915 il Giappone aveva presentato al debole governo cinese ventuno richieste, nelle
quali si imponeva il riconoscimento degli interessi giapponesi sul territorio cinese, nonché la
partecipazione di consiglieri giapponesi alla pubblica amministrazione.
Nel 1921 venne fondato a Shanghai il Partito comunista cinese. Nello stesso periodo il Kuomintang
venne riorganizzato come moderno partito di massa. Il Kuomintang, unitosi al Pcc, costituì a
Canton un governo alternativo a quello di Pechino.
La prima fase di esistenza del Partito comunista viene definita epoca delle "basi rosse" (1927-1934),
nel senso che nelle "aree liberate" furono adottati importanti atti normativi, tra cui la distribuzione
delle terre ai contadini, la parità dei diritti tra uomini e donne, la repressione dell'usura, del
brigantaggio e della corruzione morale che regnavano nel paese.
Il Pcc cercò di sviluppare, nelle basi rivoluzionarie rurali sotto il suo controllo, un proprio sistema
giudiziario e di governo. Grazie alla figura predominante di Mao Zedong si giunse, alla fine del
1931, alla fondazione della Repubblica sovietica cinese. La legittimazione legislativa dell'evento fu
fornita dalla stesura di una bozza costituzionale che prevedeva la distribuzione di tutto il potere
nelle mani di operai, contadini, soldati dell'Armata Rossa (il nuovo nome attribuito all'esercito
comunista) e chiunque appartenesse ad una classe sociale riconosciuta povera.
Dopo la morte di Sun Yat-sen (1925), andò al potere nel Kuomintang il generale Chiang Kai-shek,
che costituì a Nanchino un governo, appoggiandosi alle potenze straniere, ruppe le relazioni con
l'Urss, eliminò in un primo tempo la componente comunista dall'esercito (1926) e in un secondo
tempo costrinse le forze comuniste alla clandestinità (1927), dando inizio ad una guerra civile che
sarebbe terminata solo nel 1949.
In tale contesto Mao Zedong, individuando nelle masse contadine la maggiore forza rivoluzionaria,
costituì nelle zone rurali del Sud basi comuniste dotate di proprie forze armate, con lo scopo di
appoggiare l'azione contadina contro i proprietari e di respingere le offensive governative.
Nel 1931 Mao fu eletto presidente di una Repubblica sovietica con base nel Jiangxi, nel sud del
paese. Ma nel 1934 le truppe nazionaliste ebbero il sopravvento. Allora, per sfuggire
all'accerchiamento, con una marcia di 10.000 km (Lunga marcia) i 100.000 comunisti, fortemente
decimati (si salvarono in 30.000), si trasferirono nel Nord-Ovest, dove Mao organizzò nuovamente
uno Stato da lui diretto con l’appoggio dei contadini.
Intanto la crescente aggressività giapponese portò all'invasione della Manciuria (1931) e di
Shanghai (1932). Il governo di Chiang Kai-shek preferì però continuare la guerra civile, lasciando
campo libero ai giapponesi.
Nel 1936 i generali di Chiang Kai-shek, arrestarono quest’ultimo costringendolo a parlamentare con
i comunisti e a formare un fronte unico antigiapponese. Ci volle però l'invasione giapponese della
Cina (1937-45), a far sì che comunisti e nazionalisti si unissero per respingere gli aggressori, pur
mantenendo ognuno la propria autonomia d'azione. L'esercito del Kuomintang fu travolto dai
giapponesi, che nel 1937-41 avevano anche sottratto l’Indocina alla Francia. Furono i comunisti a
organizzare la guerriglia nelle campagne, che poi fu vittoriosa.
Con la sconfitta dei paesi dell'Asse nella II guerra mondiale, la Cina si ritrovò fra le potenze
vincitrici, ottenendo un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell'ONU.
L'epoca post-bellica (1946-1949) si sviluppò nell'arco di tempo che va dalla capitolazione del
Giappone alla fondazione della Repubblica Popolare. In questo periodo scoppiò di nuovo la guerra
civile (1946), tra il Kuomintang, appoggiato dagli Usa, che aveva una netta superiorità militare, e i
comunisti di Mao, che, appoggiati dalla popolazione, potevano contare su una superiorità politica e
sociale. Infatti riuscirono a sbaragliare facilmente gli avversari (1948-49), che si rifugiarono
nell'isola di Taiwan, dove Chiang Kai-shek costituì un suo governo e dove morì nel 1975.
Il 1° ottobre 1949 Mao, stabilito il governo a Pechino, proclamò la nascita della Repubblica
Popolare di Cina, che sancì la fine della rivoluzione, ma non la possibilità di riavere Taiwan. Il
partito comunista abolì tutta la legislazione nazionalista definita "lo strumento volto a proteggere il
potere dei latifondisti, dei compradores, dei burocrati e dei borghesi".
L’indipendenza dell’India

La Gran Bretagna cominciò a occupare l’India tra la fine del 1757 e la prima metà dell'Ottocento,
attraverso la Compagnia delle Indie Orientali, una di quelle imprese marittime commerciali nate
verso il 1600.
Il primo passo verso la trasformazione in colonia dell’India fu l'approvazione, nel 1784, dell'Indian
Act,  che concedeva ai governatori generali della Compagnia la facoltà di agire in nome del governo
di Londra.
Sin dal 1785 i successivi governatori generali, appoggiati da un esercito moderno, erano andati
avanti nella conquista dell'immenso territorio, sottomettendo vari principi regnanti e conquistando
l'isola di Ceylon (Sri-Lanka).
Nel 1818 i britannici dominavano quasi tutta l'India, amministrando in maniera diretta la regioni più
ricche, (Bengala e Delhi, con l'eccezione del regno Sikh, nel nord-ovest).
Per dimostrare che si trattava di un colonialismo utile agli indiani, gli inglesi fecero restaurare il
sistema di canali, ripararono le vie di comunicazione e promossero in Bengala la creazione di un
sistema di pubblica istruzione. Nel 1828 sostituirono la lingua persiana come lingua ufficiale con i
dialetti locali e con l'inglese. Si proibì inoltre il lavoro minorile e la pratica funeraria del Sati (la
vedova si buttava nella pira del marito).
In realtà la fiorente manifattura indiana che produceva tessuti di cotone venne completamente
rovinata dalla concorrenza di quella inglese, che faceva coltivare il cotone in India, poi lo importava
in Inghilterra per farlo lavorare con tecniche più avanzate: così i prodotti britannici avevano un
costo di molto inferiore a quelli indiani.
Anche l'agricoltura indiana fu devastata da quella britannica. L'India, infatti, era un enorme insieme
di villaggi autosufficienti, e i campi erano proprietà di tutti. Questa tradizione durava da centinaia di
anni. Con l'arrivo degli inglesi si diffuse la grande proprietà latifondistica e i proprietari terrieri si
resero conto che era molto più conveniente esportare i prodotti, cosa che fino ad allora non era mai
stata fatta.
Nel maggio 1857 le truppe indiane che prestavano servizio nell'esercito britannico, formato da
238.000 uomini (dei quali solo 38.000 europei), si ribellarono a causa dal pessimo trattamento che
gli ufficiali britannici riservavano alle truppe indiane, per la politica inglese delle annessioni e
perché si doveva andare a combattere contro i Birmani.
La voce diffusa che le cartucce dei fucili venissero unte con grasso di maiale e di vacca - animali
tabù per musulmani e induisti - fece scoppiare una insurrezione che causò migliaia di vittime e che
fu soffocata nel giugno 1858.
Tra il 1848 e il 1856 gli inglesi misero in atto una politica espansionista sulla base del "principio
della reversibilità", che comportava l'annessione di quei principati indiani che rimanevano senza
erede diretto alla morte del reggente. In questi territori intrapresero la costruzione di ferrovie, la
riforma delle poste e l'installazione delle prime linee telefoniche; fu inaugurata anche la linea
ferroviaria Calcutta-Agra (in tutto si realizzarono oltre 50.000 km di ferrovie e 60.000 km di
strade). Vennero fondate le Università di Calcutta, Bombay e Madras, riservate però alle classi
sociali privilegiate.
Il Government of India Act 1858 ratificò la fine dell'impero Moghul e trasformò l'India in una
colonia britannica sotto il mandato di un viceré. A Londra venne creato il ministero dell'India e
Calcutta diventò la capitale della colonia. I funzionari vennero organizzati nell'Indian Civil Service.
Nel 1877, la regina Vittoria sarà incoronata "Imperatrice delle Indie".
Nel 1885, Allan Octavian Hume fondò il Congresso Nazionale Indiano, con il proposito di ottenere
una partecipazione più attiva della borghesia indiana al governo del Paese. Ma il nazionalismo
indiano ne approfittò per rifarsi agli esempi del Canada, dell'Australia, della Nuova Zelanda e del
Sudafrica, cioè per reclamare lo status di dominionnell'Impero Britannico.
Nel 1891 gli inglesi si annessero l'intera Birmania, che serviva da Stato-cuscinetto per proteggere le
frontiere orientali. Poi appoggiarono o crearono Stati intermedi come il Nepal e il Bhutan, si
intromisero nelle questioni dell'Afghanistan e si annessero il Belucistan.
Grandi carestie ed epidemie caratterizzarono il periodo che va dal 1866 al 1912: oltre 25 milioni di
morti.[1]
Nel 1911 il Re Giorgio V si fece incoronare Imperatore dell'India nella nuova capitale Delhi e
riunificò il Bengala.
Durante la prima guerra mondiale circa 1,2 milioni di soldati indiani combatterono per l'Inghilterra:
in cambio si aspettavano una qualche forma di autogoverno, che però non arrivò. Nel 1916 la Lega
Musulmana e il Congresso Nazionale Indiano si unirono nella richiesta di autonomia.
Nel 1918 il governo promulgò il Rowlatt Act, una legge che stabiliva misure eccezionali per
chiunque fosse accusato di terrorismo, ovvero di azione politica anti-britannica.
Gandhi, detto il Mahatman (la grande anima), guidò il movimento di protesta contro l'applicazione
della legge e un anno più tardi cominciò ad attuare le sue campagne di disobbedienza civile. Per
prima cosa si occupò di trasformare il Congresso in un grande partito di massa capace di mobilitare
non solo gli abitanti delle città, ma anche la gran massa di contadini che abitavano le campagne e in
un primo luogo riuscì a tenere uniti induisti e musulmani.
Nel 1921 fu promulgata una nuova Costituzione indiana in cui veniva concessa ampia autonomia
agli indiani per l'insegnamento, le opere pubbliche, l'agricoltura e l'industria, ma veniva lasciato agli
inglesi il controllo diretto sulla difesa, la politica estera, il sistema giudiziario e quello finanziario e
veniva ribadito il concetto che il governo di Delhi doveva render conto solo al parlamento
britannico. Questa politica scavò un solco incolmabile tra gli inglesi e il movimento nazionale
indiano.
Allora Gandhi attuò forme di lotta basate sulla non violenza, sulla disobbedienza civile, sulla non
collaborazione con i colonizzatori. Riuscì a coinvolgere grandi masse, poiché fece della sua lotta
quasi una religione, cosicché gli indiani videro in lui un profeta da seguire.
Gli indiani abbandonarono a migliaia i posti che ricoprivano nell'apparato amministrativo, si
rifiutarono di frequentare scuole, paralizzando il paese.
Gandhi esortò a boicottare i prodotti provenienti dall'Inghilterra e invitò gli indiani a riprendere
l'antica pratica della filatura del cotone con l'arcolaio.
Dedicò tutta la sua vita a diffondere la sua teoria della non violenza e a difendere i diritti degli
intoccabili, cioè di coloro che si trovavano al livello più basso del complesso sistema di caste in cui
era divisa la società indù.
Nel 1930 iniziò una nuova campagna di non collaborazione e di disubbidienza civile di massa: il
rifiuto di pagare l'imposta sul sale. Effettuò la marcia del sale: percorse a piedi un lungo cammino,
fino al mare, dove raccolse alcuni cristalli di sale. Questo semplice gesto era un reato: gli inglesi
avevano il monopolio del sale in India, perciò nessun indiano poteva procurarsi del sale, se non
comperando quello venduto dagli inglesi. Le manifestazioni del movimento nazionalista costrinsero
gli inglesi a promettere all'India la concessione dell'indipendenza, a cui effettivamente si giunse il
15 agosto del 1947.
Tuttavia nella ripartizione dell'India nacquero due Stati sovrani: la Sovranità del Pakistan (più tardi
Repubblica islamica del Pakistan) e l'Unione dell'India (più tardi Repubblica dell'India), dopo che il
Regno Unito garantì l'indipendenza dell'India britannica.
Dopo la formazione del Pakistan seguì una vera e propria guerra di religione (anche per
l’annessione del Kashmir), che al termine contò circa un milione di morti e oltre sei milioni di
profughi di musulmani e indù dal Pakistan all'India e viceversa.
Gandhi, per far smettere queste violenze, decise di digiunare fino alla morte: alla fine i massacri
cessarono, ma Gandhi fu assassinato il 30 gennaio 1948 da un fanatico estremista indù che lo
credeva a favore dei musulmani.
PALESTINA E ISTRAELE

Perché la guerra?
Il conflitto arabo-israeliano, che da cinquanta anni ha trasformato la terra di Palestina in un campo
di battaglia permanente, è un prodotto tragico del nazionalismo, inserito in un contesto di forte
conflittualità religiosa.
Israele, stato indipendente dichiarato il 14 maggio 1948, si costituisce al termine di una
contraddittoria politica di decolonizzazione attuata con gravissime responsabilità da Francia e Gran
Bretagna.
La Palestina non è mai stata una nazione indipendente. Fino al 1914 era parte dell'impero
Ottomano; una regione scarsamente popolata, arretrata e con un sistema semifeudale. Gli abitanti
erano in grandissima maggioranza poveri braccianti al servizio di proprietari terrieri. Nel 1880 la
zona contava circa 24 mila ebrei e 150 mila arabi. Nel 1945 gli arabi erano saliti a 1 milione e 240
mila, mentre gli ebrei erano 553 mila. Solo Gerusalemme era un centro urbano di una qualche
importanza.
Cosa accadde nel frattempo? La prima guerra mondiale segnò la fine dell'impero Ottomano; l'area
mediorientale passò sotto il controllo (protettorato) franco-inglese. Le diplomazie dei due stati
avviarono un triplice gioco:
A) fu promessa l'indipendenza ai grandi proprietari arabi in cambio del loro appoggio in guerra
(1915)
B) Balfour (premier britannico) rispose alla pressione del movimento sionista dichiarando di vedere
con favore lacreazione di uno stato ebraico indipendente in Palestina (1917).
C) l'accordo Sykes-Picot, siglato nel marzo 1915, e tenuto a lungo segreto, fissò la spartizione
dell'intero Medio Oriente in aree di influenza.
La creazione dello stato di Israele
I Trattati di Versailles assegnarono la Palestina al protettorato britannico.
Sia ebrei che arabi si aspettavano una qualche forma di indipendenza; la Gran Bretagna non va oltre
a qualche proposta di spartizione territoriale; la conflittualità tra le popolazioni - sempre più
numerose - cresce continuamente. Il vento di guerra, e i rischi di una penetrazione tedesca nell'area,
indussero il ministro Eden a favorire una strategia di accordo tra i paesi arabi e a proporre (1939) la
costituzione di uno stato indipendente, basato sulla coesistenza etnica. Per limitare la supremazia
ebraica e per non rompere l'alleanza con i paesi islamici, fu fortemente limitata l'immigrazione
ebraica - fissata a quota 75.000.
Con l'inizio in grande scala della persecuzione nazista, è facile immaginare quale ripercussione
drammatica abbia comportato questa scelta.
Non mancarono scontri tra terrorismo ebraico e autorità britanniche, considerate ostili al sionismo.
Terminata la guerra, forse anche in seguito all'ondata emotiva dell'olocausto, l'immigrazione verso
la Palestina non fu più ostacolata dal controllo britannico. Nell'immediato dopoguerra la zona era
teatro di scontri tra ebrei e britannici, e tra ebrei e arabi. Nel maggio 1947 La Gran Bretagna
annunciò all'ONU che si sarebbe ritirata dalla regione. Nel novembre dello stesso anno dalla stessa
assemblea delle Nazioni Unite venne la proposta di dividere la regione in due parti: agli ebrei
sarebbe andata la zona del Negev (permetteva una notevole espansione e capacità di accoglienza di
nuovi immigrati). Usa, Urss e Francia si dichiararono a favore; la Gran Bretagna si astenne; stati
arabi, India, Grecia e Pakistan votarono contro.
Quando le truppe inglesi lasciarono il Medio Oriente, nel maggio 1948, fu immediatamente
proclamato lo stato di Israele.
Gli stati arabi considerarono la creazione dello stato ebraico - fondato su basi religiose e razziali -
un atto di forza intollerabile: un esercito di palestinesi e truppe dei paesi arabi circostanti attaccò il
nuovo stato iniziando la lunga stagione delle sconfitte militari. Aggressioni dei paesi arabi e
controffensive violentissime portarono i soldati di Israele ad occupare vaste zone interamente
abitate dai palestinesi. I conflitti del 1956, 1967 e 1973 aprirono le porte alla tragedia dei "territori
occupati": le alture del Golan, la striscia di Gaza e la Cisgiordania diventarono campi di guerriglia
permanente; con una popolazione a grandissima maggioranza palestinese (1,5 milioni gli arabi
acquistati nei confini israeliani) discriminati e disprezzati da autorità e coloni. Soltanto nella
controffensiva del 1949 e in seguito ai disordini dovuti alla proclamazione del nuovo stato ci furono
quasi 1 milione di palestinesi espulsi dalla propria terra, accolti in miserabili campi profughi messi a
disposizione dai paesi arabi e dall'UNRRA. 
 
Le guerre e l'intifada
Dal 1949 il conflitto ha assunto connotati sempre più drammatici.
Nel 1956 i palestinesi costituiscono un movimento di liberazione (Al-Fatah) capace di collaborare
con le forze armate degli stati arabi e di muovere azioni di guerriglia nel territorio israeliano.
Nel 1967 - con fronti caldi come Siria e Egitto - scoppiò una crisi internazionale intorno al controllo
del golfo di Aqaba (Sharm el Sheikh), innescato principalmente da Nasser , presidente dell'Egitto.
Forte dell'appoggio sovietico - se Usa e Francia erano filo-israeliani, ovviamente i sovietici erano
filo-arabi -  Nasser annunciò il blocco delle navi che attraversavano il golfo di Aqaba per rifornire
Israele. Lo stato ebraico rispose con la forza: il 5 giugno 1967 l'aviazione bombardò gli aeroporti
dei paesi arabi; le truppe di terra occuparono Gaza, Sherm el Sheikh, la Cisgiordania e
Gerusalemme, le alture del Golan, l'Alta Galilea e il Sinai. 
L'attacco passò alla storia come la guerra dei 6 giorni: il 10 giugno le offensive erano già terminate.
Ma le ferite aperte risultarono gravissime: lo scontro all'interno del territorio palestinese si
trasformò in guerriglia permanente, con una militarizzazione molto estesa del movimento di
liberazione arabo e un ricorso alla rappresaglia indiscriminata e violentissima.
Nel 1969 nasce l'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sotto la guida di Yasser
Arafat. Intanto anche il Libano, con il bombardamento di Beirut nel 1968 ad opera dell'aviazione
israeliana, entrava nella spirale di guerra del Medio Oriente. La Francia di De Gaulle divenne
sostenitrice della pacificazione nell'area, appoggiando di fatto l'azione diplomatica dei paesi arabi.
1972
E' l'anno del massacro di Monaco. Il 5 settembre un commando di guerriglieri palestinesi fece
irruzione negli alloggi israeliani del villaggio olimpico, prendendo in ostaggio nove atleti e
uccidendone due. Quando le trattative fallirono le truppe speciali assaltarono il commando: nel
conflitto rimasero uccisi cinque feddayyin, un poliziotto e tutti gli ostaggi. 
1973
Anwar Sadat, successore di Nasser alla presidenza dell'Egitto, tentò nuovamente nell'autunno del
1973 di cambiare i rapporti di forza nell'area. Il 6 ottobre, sfruttando l'effetto sorpresa offerto dalla
festività dello Yom Kippur, Egitto e Siria attaccarono. Dopo primi parziali successi, l'armata araba
fu costretta alla ritirata, al punto da veder quasi minacciato Il Cairo. Il 22 ottobre la controffensiva
ebbe termine.
Sadat si convinse dell'irrimediabilità della presenza di Israele e avviò una serie di contatti che
portarono a una normalizzazione completa dei rapporti tra i due paesi e una fuoriuscita dell'Egitto
dalla spirale di violenza del conflitto arabo-israeliano (trattato di pace di Washington, 1979). Sadat,
tacciato di tradimento della causa araba, fu assassinato nell'autunno 1981.
Teatro principale degli scontri divenne il Libano, dove si erano rifugiati circa 200.000 palestinesi,
armati e decisi a sostenere in grande scala azioni terroristiche e militari contro Israele. Il paese era
caduto in una tragica guerra civile su cui Siria e Israele stavano pesantemente contribuendo.
All'inizio del 1980 Israele invase il Libano meridionale coinvolgendo nella controffensiva anche i
territori palestinesi e proclamò Gerusalemme capitale dello stato. I fatti sono terribilmente
complicati per gli intrecci tra scontri locali e religiosi con le questioni di politica internazionale e di
supremazia nell'area. Il massacro di Sabra e Shatila (settembre 1982) - un campo di profughi
palestinesi alla periferia di Beirut - ad esempio è stato compiuto da truppe dell'esercito cristiano-
libanese ma con la complicità dell'esercito israeliano, guidato tra gli altri da Sharon, che aveva il
controllo dei campi.

Il resto è storia recente, con l'Intifada, la progressiva istituzionalizzazione dell'OLP e i decisivi


accordi, con la mediazione USA, della prima metà degli anni '90 (1994, autonomia a Gaza e
Gerico). L'assassinio di Rabin e i continui problemi di coesistenza sono sfociati nei primi mesi del
2000 nella ripresa gravissima dello scontro militare, cercato e alimentato dal governo Sharon.
Si tratta della Seconda Intifada, a cui sono seguiti attentati e conferenze di pace, parziale
applicazione dell'autonomia amministrativa nei territori palestinesi e continui attacchi terroristici e
controffensive militari. L'agenzia Afp aggiorna i dati delle vittime della Seconda Intifada - iniziata il
28 settembre 2000 - settimanalmente. Al 16 dicembre 2008 i numeri ci dicono:
Palestinesi 5302
Isrealiani 1082
Altre vittime 79    TOT  6463
Nel dicembre 2008, a seguito di una serie di lanci missilistici effettuati dalla striscia di Gaza e che
hanno provocato in otto anni circa 15 morti e alcune centinaia di feriti, Israele lancia una durissima
offensiva militare denominata "piombo fuso" . L'attacco provoca 1203 vittime tra i palestinesi - tra
cui 450 bambini - e oltre 5000 feriti; mentre i morti dell'esercito di Tel Aviv sono stati 10 e 3 i civili.
L'Onu ha condannato l'aggressione con la risoluzione 1860 del 8 gennaio 2009.
Ariel Sharon è in stato vegetativo permanente dall'aprile 2006. Il suo successore e attualmente
premier in carica è  Benjamin Netanyahu. Entrambi appartengono al Likud, partito di destra, fautore
di una politica di occupazione armata e una sottomissione dell'autorità politica palestinese.
Yasser Arafat fondatore e guida dell'Olp è morto nel 2004. Suo succesore è Abu Mazen leader del
partito Al Fatha (i moderati palestinesi). L'altro partito importante e vincitore delle ultime elezioni è
invece Hamas, molto attivo nella vita sociale e sostenitore di una linea di scontro aperto con Israele.

Nota -  La presenza ai vertici istituzionali di Israele e dei territori palestinesi dei due partiti fautori
dello scontro rende impossibile la risoluzione del conflitto. In caso di un nuovo e definitivo
accordo, infatti, sia il Likud che Hamas perderebbo gran parte del consenso elettorale. E' loro
interesse pertanto mantenere la situazione incandescente e alimentare lo scontro ogniqualvolta le
pressioni internazionali sembrano aprire scenari diversi. Penso sia questa terribile trappola a
inchiodare le popolazioni israeliane e palestinesi a un destino terribile e apparentemente
immodificabile. La storia ci dice però che la questione è politica e non religiosa; che quindi sono le
scelte a determinare i fatti e non viceversa, come troppo spesso politici e media vogliono far
credere.
Guerra d’Algeria (1954-1962)
Una guerra contro il colonialismo che fu anche una guerra di terroristi finalizzata alla pulizia etnica
nei confronti degli Europei
di Luciano Atticciati 

La guerra d’Algeria costituì una tragedia, sia per il grande numero di morti (300.000 circa), che per
il fatto che tali eventi toccarono indirettamente il cuore dell’Europa e avvennero in un periodo
storico in cui si ritenevano le guerre e le violenze un semplice retaggio del passato. La guerra
d’Algeria fu anche una questione complessa dal momento che non si combattevano solo due
schieramenti, Arabi contro Europei, ma si combatté anche all’interno degli schieramenti, Arabi e
Berberi moderati contro il predominio violento del Fronte di Liberazione Nazionale, e nell’ultimo
periodo fra residenti francesi e governo di Parigi. Anche sul piano strettamente politico la questione
fu controversa: i comunisti erano contrari al «particolarismo» algerino, i socialisti difendevano il
principio che l’Algeria fosse parte integrante della Francia, i conservatori gollisti per realismo
politico si convertirono all’idea di un’Algeria indipendente.

La decolonizzazione in Africa e in Asia fu in larga parte un movimento incruento che sfociò in una
separazione consensuale fra le potenze europee e i nuovi Paesi del Terzo Mondo. Abbastanza
significativi furono gli avvenimenti in India dove si ebbe una progressiva autonomia amministrativa
che portò alla completa indipendenza del Paese che venne successivamente retto da un governo e da
una classe politica socialista ma non estremista che si guardò bene dal compiere vendette o
vessazioni sui residenti europei. In quel Paese come in molti altri Paesi ex coloniali la realizzazione
dell’indipendenza divenne quasi un evento di minore importanza di fronte all’affiorare di contrasti
etnici e religiosi locali che provocarono la morte e la fuga di alcuni milioni di persone. Interessante
notare al riguardo che gli storici indiani, fra i quali Pannikar, hanno espresso un giudizio
relativamente positivo sul dominio britannico in India. Diversamente in Vietnam e in Algeria dove
operavano movimenti estremistici, l’andamento degli eventi portò a guerre terribili con la
madrepatria francese. In Francia si ebbe in quel periodo una prevalenza di governi socialisti
sostanzialmente favorevoli al progressivo distacco delle colonie, tuttavia in Vietnam dopo la firma
degli accordi per il progressivo passaggio dei poteri al governo del Vietminh (con prevalenza di
elementi comunisti) si ebbe un contrasto sulla questione della Cocincina (territorio vietnamita
abitato in prevalenza da Cambogiani), mentre in Algeria sorse un movimento, il Fronte di
Liberazione Nazionale, terrorista, non favorevole ai diritti delle popolazioni berbere, contrario alla
presenza dei Francesi nel Paese e ai movimenti politici algerini non estremistici.
Diversamente da quanto si riteneva nel passato, il colonialismo nei Paesi Afroasiatici non ha
lasciato posto ad un «neocolonialismo», ma a regimi dittatoriali fortemente impegnati a reprimere le
minoranze etniche fra le quali anche quelle formate da Europei. In Indonesia gli Olandesi furono
espropriati e cacciati dal Paese, in Congo i Belgi furono vittime di gruppi armati locali, in altri Paesi
anche relativamente moderati come la Tunisia si ebbero espropri generalizzati contro gli stranieri.
Le colonie francesi in Asia avevano già ottenuto l’indipendenza gradualmente nel dopoguerra, e nel
1960 ottennero l’indipendenza la maggior parte delle colonie africane. Per quanto riguarda la
regione del Maghreb, il governo radical socialista di Mendes France aprì negoziati con gli
indipendentisti di Tunisia e Marocco accordando loro la piena indipendenza nel 1956, ma si
dimostrò riluttante a procedere in maniera simile in Algeria, dove esistendo una numerosa e antica
presenza di Europei (oltre il 10% della popolazione totale, ma quasi la metà della popolazione delle
grandi città) riteneva che il Paese dovesse considerarsi parte integrante della Francia. La situazione
degli Arabi algerini non era paritaria a quella degli Europei, solo pochi avevano potuto accedere alla
cittadinanza francese e sebbene godessero dei diritti civili, risultavano sottorappresentati nelle sedi
politiche. Nel 1944 si ebbe una prima riforma che prevedeva la concessione della cittadinanza
francese a 60.000 Arabi «evoluti», e tre anni dopo venne istituita una Assemblea Algerina formata
da una Camera con i rappresentanti dei cittadini europei e dei musulmani (arabi e berberi) evoluti, e
una Camera con i rappresentanti dei rimanenti otto milioni di musulmani. La stessa legge che
introduceva la nuova istituzione, prevedeva la parificazione della lingua araba al francese negli atti
legali. Nel Paese operavano diversi movimenti politici, i primi, nati agli inizi del Novecento
(Giovani Algerini e Federazione dei Nativi Eletti) chiedevano la parificazione degli Arabi evoluti ai
cittadini europei e l’estensione della cittadinanza francese, successivamente si ebbero movimenti
moderati come l’Unione Democratica del Manifesto Algerino di Ferhat Abbas che intendeva creare
una Algeria indipendente legata ad un patto federativo con la Francia, e il Movimento Nazionale
Algerino di Messalj Hadj, islamico socialista, e ben radicato fra i lavoratori algerini in Francia,
favorevole al terrorismo.
Il primo atto politico di una certa consistenza si ebbe il giorno in cui si festeggiava la Vittoria, l’8
maggio 1945: a Setif venne massacrato un centinaio di Europei, azione a cui seguì una dura
rappresaglia dei Francesi (la stima dei morti va da 600 a 6.000 vittime considerando anche le
rappresaglie compiute spontaneamente da civili). Tuttavia il fatto non ebbe conseguenze immediate,
e per un certo periodo permaneva una relativa tranquillità.
Negli anni successivi sorse un nuovo gruppo, il Fronte di Liberazione Nazionale, che in Egitto, con
la protezione di Nasser, invitava i «militanti della causa nazionale» ad insorgere per la
«restaurazione dello Stato algerino, sovrano, democratico e sociale, all’interno dei principi
dell’Islam». Al tempo stesso però affermava di volere anche l’eliminazione fisica dei rappresentanti
delle comunità algerine moderati non contrari alla presenza dei Francesi in Algeria. I leader del
nuovo movimento si rifacevano alle teorie sull’oppressione colonialista di Frantz Fanon, il quale
pur sostenendo la causa degli Algerini ricordava che «il Fronte di Liberazione Nazionale, in un
celebre volantino, constatava che il colonialismo molla soltanto con il coltello sulla gola, davvero
nessun Algerino ha trovato questi termini troppo violenti». Frantz Fanon, considerato l’ideologo del
movimento, tendeva all’utopismo (teorizzava l’idea dell’Uomo Nuovo), non rifuggiva dall’idea
della violenza e non attribuiva particolare importanza alla mancanza di democrazia che
caratterizzava i nuovi regimi afroasiatici. I sostenitori dei suoi programmi erano dei violenti, uno
dei principali capi militari della rivolta, Mohammed Said, aveva militato fra i volontari della
divisione islamica delle SS. Nel novembre del 1954 piuttosto improvvisamente si ebbe una pesante
serie di attacchi terroristici contro posti di polizia, strutture militari e mezzi di comunicazione che
diede il via alla guerra d’Algeria propriamente detta. L’evento fu sorprendente, il giornale socialista
«Le Populaire» scrisse: «Gli attentati arrivano proprio nel momento in cui la Francia ha un governo
la cui politica comprensiva nell’Africa del Nord poteva favorire la pacificazione». La reazione della
Francia fu comunque relativamente moderata, venne approvato il rafforzamento dei poteri
dell’esercito nelle zone di maggiore pericolo, venne organizzato il trasferimento delle popolazioni
contadine in zone più sicure (ma anche gli Europei abbandonarono le regioni più pericolose) e
venne elaborato un programma che prevedeva miglioramenti nel campo economico e in quello
dell’istruzione della popolazione araba, nonché maggiori investimenti nel settore produttivo. Il
Fronte di Liberazione Nazionale progressivamente portò lo scontro sul territorio metropolitano. Qui
impose elargizioni forzate da parte dei lavoratori algerini con metodi di tipo mafioso e attaccò
duramente con un gran numero di attentati l’altra grande associazione algerina, il Movimento
Nazionale Algerino che godeva di maggiori consensi e di una superiore organizzazione sindacale.
Lo scontro fra i due gruppi provocò la morte di 4.000 Arabi sul territorio europeo, e nel maggio del
1957 il Fronte di Liberazione Nazionale si rese responsabile del massacro del villaggio Melouza in
Algeria (ritenuto simpatizzante dell’organizzazione antagonista) dove furono sgozzate 300 persone.
La superiorità del Fronte di Liberazione Nazionale sull’organizzazione rivale fu anche la
conseguenza dell’appoggio politico da parte di Nasser e dei rifornimenti in armi ottenuti dai Paesi
comunisti. La politica del terrore del Fronte di Liberazione Nazionale (con il ricorso a sequestri e
mutilazioni) provocò nei primi due anni la morte di 1.000 Europei e 6.000 Arabi nonché la fuga di
migliaia di arabi dall’Algeria, si calcola che dal 1954 al 1962 fra i 150.000 e i 250.000 Arabi
algerini abbiano trovato rifugio in Francia. Lo storico Benjamin Stora ha scritto che gli uomini del
Fronte di Liberazione Nazionale erano indottrinati e soggetti ad una disciplina durissima «che
arrivava a sanzionare con la morte le infrazioni al codice di comportamento o la disattenzione
nell’utilizzo e nel mantenimento delle armi», e che 15.000 furono i membri del Fronte di
Liberazione Nazionale vittime di purghe interne. Tale ferocia venne confermata anche nelle
numerose uccisioni di uomini delle Sas, le organizzazioni impegnate nell’assistenza sanitaria dei
villaggi più remoti, e nel massacro di Philippeville dove vennero uccise 120 persone di cui circa la
metà arabe. In seguito a quest’ultimo episodio i Francesi uccisero per ritorsione 1.200 guerriglieri,
anche se la propaganda avversaria affermava che molti di questi fossero semplici civili. Gli orrori
della guerra portarono lo scrittore francese nato in Algeria, Albert Camus, a un appello alla
moderazione che non ebbe alcun effetto, mentre la caotica situazione creata dal conflitto spinse gli
Stati Uniti e i Paesi della Nato ad una posizione di scarso sostegno verso il governo di Parigi, che
godeva dell’appoggio dell’opinione pubblica anche se era presente un certo turbamento per i metodi
duri dell’esercito nelle operazioni di guerra. In particolare venne contestato il ricorso frequente alla
tortura operato nel corso della famosa Battaglia di Algeri (1956), dove la vittoria francese portò per
un certo periodo ad una relativa tranquillità del Paese. Particolarmente interessato alla questione
algerina fu il filosofo Jean Paul Sartre che in contrasto con il Partito Comunista prese apertamente
posizione a favore dei guerriglieri indipendentisti e in maniera decisamente molto riduttiva scrisse
che: «Sapete benissimo che siamo degli sfruttatori. Sapete benissimo che abbiamo preso l’oro e i
metalli, poi il petrolio dei “nuovi continenti”».
Nonostante il successo della Battaglia di Algeri che portò alla cattura dei principali capi del
movimento indipendentista, la guerra corrodeva gli animi, e nell’aprile del 1958 di fronte ad un
atteggiamento più prudente del governo di Parigi, le autorità militari locali con il sostegno della
popolazione algerina compresa una parte di quella araba, proclamarono un Comitato di Salute
Pubblica. L’esercito francese anche nella madrepatria manifestò dissenso aperto verso il governo
centrale e i reparti in Corsica si ribellarono apertamente. La situazione pareva degenerare in aperta
guerra civile, e per scongiurare tale pericolo venne richiamato al potere De Gaulle. Diversamente
dalle aspettative il Generale non prese le difese dei residenti francesi e indisse un referendum per
una nuova costituzione che conteneva innovazioni anche per l’Algeria boicottato duramente (ma
senza successo) dal Fronte di Liberazione Nazionale. La rottura fra governo centrale e «pied noirs»,
come vennero chiamati gli Europei d’Algeria fu totale, e nel gennaio del 1960, in occasione della
rimozione del generale Massu, insorsero di nuovo dando vita alla «settimana delle barricate». Per
gli Europei (Francesi, Italiani, Spagnoli, Maltesi) sorse l’idea di creare uno stato di bianchi come in
Sudafrica e di dare vita nel 1961 ad una associazione di estremisti, l’Organizzazione dell’Armata
Segreta (con base nella Spagna franchista), che acquisì caratteri sempre più violenti, e intraprese
diversi tentativi di assassinare De Gaulle. Il governo di Parigi aprì formali negoziati con il Fronte di
Liberazione Nazionale e nel gennaio 1961 indisse un nuovo referendum sull’Algeria che ebbe esito
positivo per il Generale in Francia ma non nelle grandi città in Algeria. Nuovamente i reparti
militari in Algeria tentarono di insorgere, e minacciarono di marciare su Parigi, questa volta però
con molto minore sostegno popolare in Francia che riteneva la causa ormai persa. Il tentativo non
ebbe esito positivo e da quel momento l’Organizzazione dell’Armata Segreta scatenò una doppia
guerra contro gli Arabi e il governo di Parigi. Tale situazione portò alla conclusione in breve tempo
degli Accordi di Evian che prevedevano l’indipendenza ma anche alcune forme di garanzia verso i
cittadini europei. Gli accordi non favorirono la pacificazione del Paese, il Fronte di Liberazione
Nazionale si divise per correnti e i guerriglieri capeggiati da Boumedienne che negli anni precedenti
non avevano preso parte al conflitto presero il sopravvento. A Orano e nelle altre grandi città
migliaia di cittadini europei vennero uccisi. In condizioni terribili un milione di Europei, l’intera
comunità ebraica e molti Arabi fuggirono dal Paese. Un destino ancora peggiore venne riservato ai
cosiddetti «harkis», gli Arabi che avevano servito nella polizia e nelle altre istituzioni francesi,
decine di migliaia, forse 150.000, vennero torturati e massacrati, molti crocifissi sulle porte di casa.
Tutto il Paese conobbe negli anni successivi una rigida dittatura di tipo socialista che portò il Paese
al collasso economico e alla miseria.

La guerra in Vietnam
"We shall pay any price, bear any burden, meet any hardship, support any friend, oppose any foe, in
order to assure the survival and the success of liberty”.

Il 20 Gennaio del 1961, dalla collina di Capitol Hill, il Presidente John Kennedy, rivolgendosi alla
nazione la esortava a sopportare ogni peso e a pagare qualsiasi prezzo in nome della difesa della
libertà.
Gli Stati Uniti orami da 16 anni erano impegnati nella sfida ideologica, economica e militare che
aveva come unico e ultimo obiettivo il contenimento dell’ U.R.S.S. e dell’espansione globale del
Comunismo. La politica estera americana dal 1947 seguendo le linee tracciate dall’amministrazione
Truman cercò di evitare con ogni mezzo che l’influenza sovietica (e dal 1949 anche quella cinese)
si espandesse, mettendo a rischio la supremazia americana conquistata grazie allo sforzo bellico
nella Seconda Guerra Mondiale.
A inizio anni Sessanta, nel momento in cui la leadership americana iniziava ad erodersi,  e nuovi
competitori si affacciavano sullo scenario internazionale, l’amministrazione Kennedy rinnovò,
reiterpretandola, la sfida lanciata (o accolta, dipende dai punto di vista) da G.Kenan, proponendo
accanto alla strategia del contenimento una più audace e innovativa “missione”: la “Nuova
Frontiera”.
La sfida rilanciata dall’amministrazione Kennedy, aveva però un limite strutturale, che allo stesso
tempo rappresentava il suo punto di maggior forza ma anche la sua debolezza. L’universalità della
missione americana, rifacendosi alla tradizione wilsoniana, non consentiva all’establisment
americano distinzioni geo-politiche, tanto meno militari. Il “gioco a somma zero”, dove il guadagno
di una parte (U.S.A.-U.R.S.S.) implicava la perdita di influenza della controparte, non consentiva ai
politici americani di interpretare con chiarezza le differenti situazioni geo-politiche e di elaborare,
quindi, una risposta adeguata alla situazione che si aveva davanti. Non è difficile intuire come agli
occhi delle amministrazioni, Berlino, il Vietnam o l’America Latina rivestissero, quindi, la stessa
importanza strategica, e come ognuna di essa fosse di fondamentale importanza per la  propria
sicurezza e quella del mondo Occidentale.  L’universalità della missione americana non permetteva
eccezioni o distinzioni di nessun genere e fu così che il Vietnam divenne, per l’amministrazione
Kennedy, una pedina fondamentale nella lotta al comunismo. 
A inizio anni Sessanta “perdere” il Vietnam non avrebbe avuto solamente ripercussioni catastrofiche
a livello strategico ma anche psicologico. Già dalla metà degli anni Cinquanta, l’amministrazione
Eisenhower si era convita che se il Vietnam del Nord, guidato dal leader comunista Ho Chi Min,
avesse allargato la propria influenza sul Vietnam del Sud, governato dal dispotico e corrotto regime
di Ngo Dinh Diem, con l’appoggio degli americani, sarebbe stato impossibile evitare un “effetto
domino” in tutto il Sud-Est asiatico.
La paura di perdere il Vietnam, il timore di un conseguente “effetto domino” in tutto il Sue-Est
asiatico, così come era stata persa la Cina a fine anni Quaranta, spinse gli Stati Uniti a sostituirsi
alla Francia nella penisola indocinese, e attraverso il sostegno economico e politico a mantenere in
vita il fragile governo del Vietnam del Sud.
La penisola indocinese era stata divisa in diverse entità statuali nel 1954 con gli accordi di Ginevra,
che diedero vita, oltre ad un Vietnam del Nord e uno del Sud, al Laos e Cambogia.  Nei due stati,
divisi dal 17° parallelo, si sarebbero dovute tenere elezioni politiche entro il 1956 con l’obiettivo di
unificare la nazione sotto un unico governo. Nonostante ciò la paura americana di vedere sconfitto
l’impopolare e corrotto regime del sud a favore di una vittoria elettorale delle forze comuniste,
spinse l’amministrazione Eisenhower a inviare già nella seconda metà degli anni Cinquanta i primi
consiglieri militari e i primi aiuti economici al governo di Diem.
Gli aiuti e l’assistenza americana, non sortirono però gli effetti desiderati, il governo di Diem a
inizio 1960 era sempre più impopolare, la corruzione dilagava e le riforme in senso democratico
sperate e volute dall’amministrazione Kennedy, che nel 1960 aveva vinto le elezioni presidenziali,
stentavano a decollare, creando imbarazzo e perplessità tra l’opinione pubblica americana. Oltre ad
attraversare una difficile e profonda crisi interna, il Governo Diem era insediato anche dall’esterno.
Sempre più forte era, infatti, l’appoggio popolare dato ai Viet Cong, un gruppo di guerriglieri sud-
vietnamiti sostenuto dall’Esercito popolare del Vietnam del Nord che lottava, adottando tattiche di
guerriglia, per liberare il territori del sud e unificare il paese nel nome del socialismo.
L’impegno americano in Indocina aumentò dunque rapidamente e gia a metà del 1961 il numero dei
consiglieri militari americani nel Vietnam del Sud arrivava a 3000.
Le aspettative dell’amministrazione Kennedy continuavano però ad essere tradite dall’ambiguo
regime del Vietnam del Sud e fu così che il 1 Novembre 1963 un gruppo di colonnelli dell’ esercito,
aiutati e appoggiati dal Dipartimento di Stato Americano, depose e uccise Ngo Dinh Diem, dando
vita ad una giunta militare che si proponeva di unificare il paese e sconfiggere definitivamente la
guerriglia comunista. Solamente 12 giorni dopo a Dallas il Presidente Kennedy veniva assassinato,
lasciando nelle mani del suo successore, il texano Lindon B. Johnson, la difficile situazione
indocinese.
Nonostante il cospicuo incremento di consiglieri militari in Vietnam tra, il 1959 e il 1963, non si
può parlare di vera e propria guerra. Gli scontri armati tra il personale americano e l’esercito
popolare del Vietnam del Nord furono inesistenti, i consiglieri inviati da Kennedy si limitavano,
infatti, a supervisionare le operazioni militari a fornire supporto logistico e ad addestrare le truppe
sudvietnamite.
A fine 1963 il coinvolgimento americano in Vietnam era, dunque, ancora marginale. La crisi nella
penisola indocinese non calamitava ancora l’attenzione dell’opinione pubblica, e gli sforzi effettuati
dall’amministrazione Kennedy per tenere nascosto o comunque sminuire il coinvolgimento
americano, aumentarono tra il pubblico la percezione che il Vietnam fosse qualcosa di lontano che
non gli avrebbe mai riguardati da vicino.
Tutto cambiò una mattina del 7 Agosto 1964 con l’approvazione della “Risoluzione del Golfo del
Tonchino”. Tale risoluzione fu, ed è tutt’oggi, una tra le più controverse e dibattute risoluzioni della
storia politico-istituzionale americana. Il 7 Agosto il Senato concesse ampio supporto per aumentare
il coinvolgimento statunitense nella guerra “come il Presidente riterrà opportuno”. La risoluzione
lasciava aperte due questioni di fondamentale importanza: la prima di ordine giuridico. L’escalation
militare in Vietnam  non fu preceduta da una formale dichiarazione di guerra del Congresso, la
Risoluzione del Golfo del Tonchino, concedeva  si pieni poteri al Presidente ma non rappresentava
una dichiarazione di guerra. Il conflitto vietnamita a livello giuridico non poteva essere dunque
considerato una guerra, in quanto gli Stati Uniti non elaborarono mai una formale dichiarazione.
La seconda questione sollevata dalla risoluzione del 7 Agosto era di ordine istituzionale. Il
Congresso, concedendo al Presidente ampi poteri, rinunciava al proprio diritto costituzionale di
controllo della politica estera. In base al Secondo Emendamento della Costituzione, spettava, infatti,
ai due rami del Parlamento decidere come se e quando impiegare le forze armate in combattimento.
Ma in assenza di una dichiarazione di guerra e grazie alla Risoluzione del Golfo del Tonchino
Johnson potè impiegare le forze armate senza essere soggetto a alcun tipo di controllo istituzionale,
dando vita ad un escalation militare che in 11 anni provocò più di 50.000 morti tra i soldati
americani. 
Tutto aveva avuto origine pochi giorni prima, quando il 31 Luglio 1964 l’incrociatore americano
Maddox riprese una missione di ricognizione nel Golfo del Tonchino, che era stata sospesa per sei
mesi. Lo scopo era di provocare una reazione da parte delle forze della difesa costiera
nordvietnamita, da usare come pretesto per una guerra più ampia. La Maddox subì un danno
superficiale ma che fu sufficiente come pretesto per iniziare il conflitto.
La tattica americana funzionò alla perfezione e poco meno di un anno dopo l’incidente, 3.500 US
Marines sbarcarono nel Sud unendosi ai 25.000 consiglieri militari.
La strategia militare adottata dal dipartimento della difesa americano si fondava su un intenso
bombardamento aereo delle postazioni nordvietnamite e delle installazioni dei Viet Cong, vera spina
nel fianco delle truppe americane. L’imponente macchina bellica messa in campo dagli americani
non bastò, tuttavia, ad avere ragione dell’agguerrita e ben organizzata resistenza vietnamita.
L’illusione del Dipartimento di Stato di poter vincere la guerra in 40 giorni, si scontrò con le pesanti
perdite subite dal contingente statunitense. A inizio 1966 le truppe americane in Vietnam salirono
alla cifra record di 500.000, una forza spropositata se paragonata all’esercito nordvietnamita. 
Il continuo incremento del coinvolgimento militare avvenne mentre l’amministrazione Johnson e il
generale W.Wesmoreland assicuravano ripetutamente il pubblico americano che il successivo
incremento di truppe avrebbe portato alla vittoria, la “luce alla fine del Tunnel” era ormai ben
visibile.
Le ottimistiche convinzioni dell’amministrazione Johnson vennero frantumate la sera del 30
Gennaio 1968, quando nei salotti americani la televisione, strumento ormai fondamentale per
condizionare l’opinione pubblica, trasmise le immagini dell’ “Offensiva del Tet”. Le truppe regolari
dell’esercito popolare del Vietnam del Nord assieme ai Viet Cong organizzarono un imponente
attacco nel sud. Pur non ottenendo alcun successo militare l’offensiva ebbe un forte impatto sul
pubblico americano, creando la percezione che la guerra fosse ormai persa e che ogni ulteriore
sforzo sarebbe stato inutile a risolvere una crisi iniziata male e conclusasi nel peggiore dei modi. Gli
americani non tardarono a esprimere pubblicamente il proprio dolore e contrarietà ad una guerra che
stava decimando un’ intera generazione e di cui non si capivano gli obiettivi. Le manifestazioni di
opposizione al conflitto si moltiplicarono, dando vita nei campus universitari ad un acceso e spesso
violento scontro sulle responsabilità americane, ma soprattutto sull’intera cultura statunitense. La
generazione dei “Baby Boomers”, i figli nati dopo la Seconda Guerra Mondiale, diede vita ad un
intenso dibattito politico-culturale sugli obiettivi della politica estera americana e sulla società nel
suo insieme. La contestazione studentesca, che contemporaneamente dilagava in tutto il mondo, fu
rafforzata dalla decisione del Dipartimento di Stato di ristabilire la coscrizione obbligatoria
attraverso un sistema che fu chiamato “lotteria di leva”, il quale, attraverso un meccanismo
perverso, estraeva a sorte le future reclute.
A fine 1968 ara chiaro che gli Stati Uniti avrebbero potuto vincere la guerra ad un prezzo che la
nazione non era disposta a pagare, il tentativo di conquistare “i cuori e le menti” sia a casa che in
Vietnam era fallito, spettava al nuovo Presidente R.Nixon trovare una via di uscita dal pantano
vietnamita.
Nixon si rese subito conto che la guerra era ormai persa, adesso gli Stati Uniti dovevano riuscire ad
ottenere una “pace con onore”. La strategia adottata da Nixon per sganciarsi dal Vietnam fu però
estremamente ambivalente. Da un lato intensificò i bombardamenti sul Vietnam del Nord,
allargando le operazioni militari anche al Laos e Cambogia, dall’altro iniziò a ridurre il contingente
militare americano provando ad ottenere una vietnamizzazione del conflitto. L’obiettivo della
vietnamizzazione era di mettere l’esercito sudvietnamita in grado di reggere sempre più lo scontro
con l’esercito del Nord. La “Dottrina Nixon” non si limitò solamente ad un intensificazione dei
bombardamenti e ad un contemporaneo ritiro, di fondamentale importanza risultarono essere le
trattative diplomatiche avviate a fine 1969 con l’U.R.S.S. e soprattutto con la Cina che aveva una
forte influenza sul governo comunista del Vietnam del Nord. Avvalendosi della preziosa
collaborazione del Segretario di Stato H.Kissinger, Nixon cerco di indurre la Cina a fare pressioni
sul Vietnam del Nord e allo stesso tempo cercò di spaccare definitivamente le già difficili relazioni
tra la Cina e i sovietici. La diplomazia risultò, quindi, lo strumento più efficace per uscire dal
pantano vietnamita, e così a metà 1969 a Parigi iniziarono le trattative tra le parti. Se Nixon fece
della diplomazia uno strumento irrinunciabile per risolvere la crisi vietnamita, è però importante
sottolineare che negli anni 1970-1973 furono sganciate più bombe sul Vietnam che in tutti gli anni
precedenti e che morirono più soldati che durante la presidenza Johnson.
L’accordo di pace tra gli Stati Uniti e il Vietnam venne firmato il 27 Gennaio 1973, Nixon annunciò
il ritiro unilaterale delle truppe americane, impegnandosi tuttavia a fornire aiuti economici e
materiale militare al Vietnam del Sud. La strategia di Nixon per non perdere il Vietnam risultò
comunque inefficace, il Congresso resosi conto del terribile errore fatto nel 1964 con la Risoluzione
del Golfo del Tonchino, vietò ulteriori finanziamenti all’azione militare in Indocina e negò a inizio
1975 qualsiasi aiuto economico al Vietnam del Sud.
Fu così che il debole regime sudvietnamita ormai abbandonato, capitolò il 30 Aprile 1975. Il
Vietnam del Nord fu annesso a quello del Sud il 2 Luglio 1976 dando vita alla Repubblica
Socialista del Vietnam.
La sconfitta militare in Vietnam, la prima subita dagli americani, lasciò una profonda ferita nella
cultura americana, esercitando una profonda influenza sulla politica estera americana, sulla strategia
da adottare e sui mezzi per contenere l’Unione Sovietica. La politica del Contenimento, che aveva
portato gli Stati Uniti in Vietnam, subì sostanziali ripensamenti. Gli americani non sarebbero stati
più gli stessi, l’America aveva perso la propria innocenza nella giungla vietnamita.
IL SESSANTOTTO

Una mobilitazione planetaria


di Stefano De Luca
 
Il Sessantotto fu un fenomeno prima di tutto giovanile, ed in modo particolare studentesco.
Caratteristica peculiare che fa delle rivolte di quegli anni una rarità storica, fu la simultaneità e la
vastità geografica delle rivolte: in situazioni socio-economiche e geografiche molto diverse (dai
Paesi europei al Giappone, dal Messico agli Stati Uniti) si assistette a forme di ribellione simili e
contemporanee, senza che vi fosse stata alcuna forma di preparazione o di coordinamento. Tra la
metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, le giovani generazioni dei paesi più diversi si sono
ribellate ai rispettivi sistemi politici, culturali e sociali.
 
E’ sufficiente ricordare alcuni eventi di quegli anni per rendersi conto delle dimensioni del
fenomeno: il ‘maggio francese’ (divenuto quasi il ’68 per antonomasia); la primavera di Praga;
l’esplodere dei movimenti studenteschi in Italia e Germania; l’opposizione negli Stati Uniti alla
guerra in Vietnam; l’assassinio a Menphis del leader nero della non-violenza Martin Luther King, e
le sanguinose rivolte dei ghetti neri; la terribile strage di Piazza delle Tre culture a Città del
Messico, in prossimità delle olimpiadi (con un numero di vittime che non fu mai accertato, ma
sicuramente superiore alle duecento persone); il famoso gesto di protesta degli atleti afro-americani
alla premiazione olimpica dei 200 metri piani, con Tommy Smith e John Carlos sul podio a pugno
chiuso, a segnare l’adesione al movimento del Black Power.
 
 Alcuni studiosi come Marco Revelli hanno proposto addirittura un parallelo storico tra questi
movimenti e quelli del 1848: “Ci sono state due rivoluzioni mondiali, una nel 1848 e una nel 1968.
Entrambe hanno fallito, entrambe hanno trasformato il mondo”. Ma il fenomeno del Sessantotto si
differenzia dalla rivoluzione del 1848, in quanto è un fenomeno che non si limita al Vecchio
Continente.
 
La guerra nel Vietnam, evento chiave della politica internazionale degli anni Sessanta, fu uno dei
motivi più forti di aggregazione dei movimenti di protesta in tutto il mondo. I giovani e gli studenti
che scendevano in piazza per il Vietnam non intendevano certo schierarsi in favore dell’Unione
Sovietica, ma vedevano nella crisi dell’egemonia militare americana l’elemento decisivo per una
ridefinizione complessiva degli equilibri internazionali.
 
Un filo conduttore nei movimenti sociali del ’68, un loro carattere storico comune, può essere
individuato nell’essere stati i primi movimenti di contestazione radicale del modello sociale
‘neocapitalistico’ e dell’equilibrio mondiale fondato sull’egemonia statunitense, condotta in forme
di massa, ma culturalmente non ascrivibile alla tradizione comunista.
 
Una critica ‘da sinistra’ che ricorreva sovente a immagini, slogan, linguaggi tratti dalla tradizione
del movimento operaio (riferimento molto forte in Europa, ma assente nei movimenti americani),
ma che al tempo stesso esprimeva una cultura e un sistema di valori profondamente diversi da quelli
delle sinistre politiche del dopoguerra.
 
Sotto questo aspetto i movimenti di contestazione, definiti come movimenti della ‘nuova sinistra’,
contenevano forti elementi di innovazione nei confronti della tradizione politica e culturale delle
sinistre, verso la quale erano fortemente critici. In primo luogo era ritenuto estremamente
importante il riferimento alle lotte dei popoli del terzo mondo, alle rivoluzioni del mondo arabo,
dell’Asia e di Cuba. L’Unione Sovietica non veniva più assunta come Stato-guida, ma anzi come
uno dei garanti, insieme agli Stati Uniti, dell’ordine da abbattere.
 
In secondo luogo la nuova sinistra rifiutava la convinzione, comune a tutta la sinistra tradizionale,
secondo cui l’evoluzione storica andava necessariamente in favore dell’emancipazione del
proletariato e dei popoli oppressi. Infine, era assai diffidente nei confronti dell’organizzazione di
tipo leninista, e proponeva forme di aggregazione che valorizzassero la partecipazione di massa ai
processi decisionali.
 
Questo spiega anche la varietà delle reazioni che essi provocarono, proprio da parte
dell’intellettualità progressista e dei partiti democratici, socialisti e comunisti, profondamente divisi
tra l’appoggio alle istanze di rinnovamento espresse dalle lotte studentesche e la forte
preoccupazione per l’eccessivo radicalismo di cui davano prova i giovani attivisti del movimento.
 
Non si battevano  più (e qui stava la novità rispetto ad esempio alla tradizione italiana di sinistra)
per lo sviluppo e la modernizzazione, ma contro le caratteristiche autoritarie e di classe di quello
sviluppo e di quella modernizzazione. La loro era dunque la prima critica della modernità, fatta non
in nome delle nostalgie passate della destra, ma in nome di una modernità più libera e più giusta.
 
L’antiautoritarismo è uno dei principali fili conduttori che attraversa tutti i movimenti di protesta
sorti nei primi anni Sessanta. Viene contestata ogni istituzione che si fondi sul principio di autorità,
come la famiglia e la scuola, che trasmettono modelli di disciplina e che stigmatizzano ogni
comportamento deviante, fino a tutte quelle istituzioni per loro natura finalizzate alla repressione o
fondate su un forte principio gerarchico: l’esercito, la magistratura, la polizia, la chiesa, la
burocrazia degli stati e dei partiti tradizionali.
 
Nascono tentativi di dar vita a luoghi dove l’autorità sia bandita: la comune al posto della famiglia,
l’assemblea e la democrazia diretta in luogo delle deleghe e della democrazia rappresentativa, con
lo scopo di voler simboleggiare il rovesciamento del potere costituito e quello di creare un proprio
spazio autonomo (con queste intenzioni i movimenti studenteschi adotteranno la tattica
dell’occupazione). Tutte forme che finirono per mettere definitivamente in crisi le figure sociali in
cui l’autorità si esprimeva: dal padre al poliziotto, dal giudice al militare.
 
 Oggetto della contestazione non è solo il potere statale, ma anche e soprattutto i singoli poteri
quotidiani: dalla famiglia autoritaria al professore in aula al caporeparto nella fabbrica. Questi
movimenti combattono qualunque forma di burocrazia, da quella statale a quella delle tradizionali
organizzazioni dei partiti. All’apparato organizzativo della politica tradizionale contrappongono le
reti informali dei comitati, le assemblee, la democrazia diretta.
 
Importante, per capire i motivi che hanno portato a questa simultaneità del fenomeno  Sessantotto, è
analizzare il contesto in cui si è formata la generazione protagonista delle mobilitazioni.
 
La generazione nata tra gli anni ’40 e ’50 si forma nella consapevolezza della minaccia mondiale di
una catastrofe nucleare, di un rischio di totale distruzione tecnologica che appariva essere del tutto
indipendente dal luogo di nascita e dalla volontà del singolo individuo.
 
La percezione del mondo da parte di questa generazione è così del tutto diversa rispetto a quella
delle generazioni precedenti: la terra risulta essere un globo dove gli antichi riferimenti locali, le
precedenti divisioni per confini appaiono superate da una realtà tecnologica unificante. Lo sviluppo
di un nuovo sistema di telecomunicazioni mondiali, ha permesso una circolazione delle
informazioni e delle immagini più veloce e immediata (in quello che viene definito ‘villaggio
globale’). La tecnologia ha creato gli strumenti per ‘rimpicciolire’ il mondo, consentendo di
concepire l’uomo non più come fortemente legato alla realtà locale, ma come membro della specie
umana.
 
 La diffusione del benessere nelle società ha spostato l’attenzione sulle questioni connesse alla
qualità della vita. Si è passati da rivendicazioni di tipo materialistico a quelle di tipo post-
materialistico, e questo è uno dei tratti che differenzia questi nuovi movimenti sociali da quelli
precedenti.
 
I movimenti del Sessantotto si collocano in una logica di assoluta estraneità rispetto allo Stato. A
differenza dei precedenti movimenti di rivolta che si ponevano l’obbiettivo finale della conquista
del potere, dello Stato, i movimenti del Sessantotto negano ogni possibile uso positivo dello stesso.
 
Il primo dei movimento di contestazione giovanile, e di quelli che sono stati definiti nuovi
movimenti sociali, sorge in America sul finire del 1964. La lotta degli studenti universitari
americani è, sin dall’inizio, collegata al movimento pacifista ed a quello per i diritti civili.
 
Il 1964 è l’anno chiave nella vicenda del movimento americano: il coinvolgimento nel conflitto tra
Vietnam del Sud e del Nord si trasformò proprio allora in una vera e propria guerra. Nell’estate
dello stesso anno la rivolta di Harem inaugurò il ciclo delle sanguinose rivolte nei ghetti, e il
movimento studentesco bianco condivise gran parte delle rivendicazioni del “Black Power”, tutti
i leader del quale provenivano da università americane.
 
Gli studenti occuparono l’università di Berkley, per manifestare il loro rifiuto nei confronti del
Ministero della Difesa che aveva commissionato alle università la ricerca per produrre nuove armi
per la guerra nel Vietnam.
 
Il movimento studentesco americano, sebbene sostanzialmente apolitico nei suoi sviluppi, fu alle
sue origini profondamente influenzato dal pensiero socialista e comunista, ma con grandi differenze
rispetto a ciò che sarebbe accaduto successivamente in Europa.
 
Nel Vecchio Continente i movimenti si rifacevano all’ortodossia comunista, al marxismo appunto,
ispirata a figure diverse, da Lenin a Mao, da Trotskj al Che. Negli Stati Uniti, dopo il maccartismo,
un appello così aperto al marxismo non era più possibile. Per di più, la classe tradizionalmente
vicina alle idee comuniste, cioè gli operai, negli Stati Uniti era non soltanto poco propensa a
cambiamenti, ma addirittura sosteneva apertamente il governo.
 
Il tipo di socialismo a cui si rifaceva quella che sarebbe divenuta la ‘Nuova Sinistra Americana’,
perseguiva valori come  l’eguaglianza sociale, la giustizia e l’eliminazione delle disparità razziali,
influenzato dalla rivolta castrista. Tra il 1958 e il 1961, anno in cui il Dipartimento di Stato
americano proibì i viaggi a Cuba oltre che in Cina e in Albania, migliaia di studenti si recarono
nell’isola caraibica per prendere contatto con “l’impero del male”, come Ronald Reagan avrebbe in
seguito etichettato il mondo comunista.
 
In quegli anni si crearono negli Stati Uniti numerosi movimenti che si rifacevano agli ideali della
rivolta castrista, come ad esempio la Student Peace Union (Spu), la Young People Socialist League,
gli Students for Democratic Society (Sds) o il W.E.B. Du Bois, che prendeva il nome da uno
studioso afroamericano curiosamente divenuto comunista all’età di novant’anni. Tutti questi gruppi,
pur essendo molto attivi, rimasero sempre di scarso peso numerico. Le ragioni furono
essenzialmente due: lo stretto controllo del FBI a cui erano sottoposti tutti i soggetti che si
professavano comunisti, ed il fatto mancava un vero progetto e una dirigenza che dettasse le
direttive da seguire. Per questo motivo l’interesse per ogni nuova lotta svaniva velocemente col
passare della furia del momento.
 
Con l’escalation del conflitto nel Vietnam, col crescente invio di truppe regolari a partire dal 1965,
ci fu anche un mutamento nelle finalità, sempre molto confuse, dei movimenti studenteschi. Dalla
lotta sociale si passò a una contestazione politica. I movimenti attaccavano il governo per il
presunto imperialismo dimostrato nell’intervanire in una guerra così distante che non era sentita
come ‘giusta’ (l’opinione pubblica era influenzata dalle immagini che la rete televisiva nazionale
americana trasmetteva sui comportamenti dei soldati americani).   Vennero organizzati sit-in, marce
simboliche della pace che mobiliterano le città di S. Francisco, New York e Washington. Molti
giovani si rifiutarono di rispondere alla leva militare per protestare contro il sistema politico .
 
Il movimento degli studenti rivendicava un mondo libero e pacifico e rifiutava i modelli tradizionali
di vita imposti da politica, religione e scuola. Perseguiva valori egalitari, anti-borghesi, anti-
autoritari e anti-militaristi, sotto l’influenza degli ideali espressi dal filosofo americano di origine
tedesca Herbert Marcuse.
 
Altro movimento che si è sviluppato in contemporanea a quello degli studenti è il
movimento hippy. Nel 1965 a New York e S. Francisco furono fondate le prime vere comunità, che
crebbero a ritmo vertiginoso fino alla metà degli anni Settanta. L’uso che facevano gli aderenti al
movimento di sostanze stupefacenti non rispondeva solo a una necessità di rottura con la cultura
dominante, ma arrivò a diventare una vera e propria religione.
 
Ad esempio la Lega per la Ricerca Spirituale, fondata da un professore da Harvard espulso
dall’università perché sospettato di distribuire agli studenti durante le lezioni pasticche di LSD,
attraverso l’uso di droghe voleva raggiungere un nuovo stadio dello sviluppo umano. Molti furono i
personaggi di fama internazionale che si avvicinarono al movimento come Bob Dylan, i Beatles e i
Rolling Stones, e scrittori famosi come Ginsburg.
 
Elemento caratteristico delle “comuni” hippy era il concetto di amore libero in tutte le sue forme, ed
una maggiore libertà sessuale. Il radicale cambiamento delle abitudini sessuali portò a conseguenze
importanti nei rapporti interpersonali. L’amore omosessuale non fu più considerato un tabù assoluto
e le prime organizzazioni gay fecero la loro comparsa.
 
Negli stessi anni si sviluppò anche il movimento femminista, come conseguenza
dell’insoddisfazione che le donne avevano nei confronti della società americana (ad esempio, a
parità di mansioni e di orario di lavoro svolto le donne erano retribuite meno degli uomini).
L’insoddisfazione femminile inizialmente si concentrò negli stessi gruppi studenteschi e sugli stessi
ideali condivisi da questi ultimi: libertà di pensiero e diritti civili. Ben presto le leaders del
movimento femminista si resero conto che la componente maschile dei movimenti studenteschi
tendeva a mettere in minoranza l’altro sesso. Nel 1966 con la nascita di movimenti come la
Women’s Intenational League for Peace, il Women Strike for Peace e la National Organization for
Woman, le rivendicazioni femminili assunsero una portata autonoma e indirizzata all’ottenimento
della piena uguaglianza tra i sessi. Ogni aspetto personale dell’universo femminista costituiva
argomento di lotta, non solo il mondo del lavoro, ma anche quello della famiglia e soprattutto della
salute. Le donne pretesero la legalizzazione dell’aborto, lotta che si concluse solo nel 1973 con una
sentenza che lo avrebbe permesso almeno nei primi mesi della gravidanza.
Le donne di colore ebbero un ruolo di grande importanza nel movimento per i diritti civili, nel
Black Power e persino nelle Pantere Nere. Ciò dovuto al fatto che negli anni Quaranta e Cinquanta,
esse erano le uniche in famiglia ad avere un lavoro ben retribuito, spesso come cameriere o
governanti presso famiglie bianche. Con il progressivo inasprimento della rivolta razziale e la
conseguente detenzione di uomini di colore, le donne raggiunsero più facilmente posizioni di
potere.
 
Un ultimo cenno deve essere fatto ai movimenti per l’uguaglianza razziale che si attivarono per
tutto il 1961 per ottenere la scomparsa della segregazione nei servizi pubblici, in una società dove
vigeva una segregazione di carattere razziale istituzionale nella vita di tutti i giorni (bagni pubblici,
posti sull’autobus, scuole, ospedali, istituzioni religiose e chiese erano distinti per razza).
Movimenti come lo Student Nonviolent Coordinating Committee (SNCC) e il Congress of Radical
Equality (CORE) organizzarono Freedom Marches, azioni di protesta non violenta che andavano
dal sit-in alla disobbedienza, sotto l’influenza di Martin Luther King, che aveva elogiato la tattica
non-violenta per il raggiungimento dei fini di parità sociale.
 Nel 1965 vi fu una profonda revisione degli obbiettivi del movimento degli afro-americani.
L’eguaglianza formale sancita dal Civil Right Act non era più sufficiente per uomini come Malcom
X, che predicavano con fervore l’orgoglio nero. Egli fu il padre spirituale del Black Power, l’ala più
radicale del movimento per i diritti civili, secondo cui se gli afro-americani volevano migliorare le
proprie condizioni non potevano ricercare un’integrazione, ma creare una società a se stante. Nel
1966 fu fondato il Black Panther Party (le Pantere Nere) che si dimostrò fin dall’inizio l’ala più
radicale del movimento.
 
Questi movimenti si rivelarono incapaci di trasformare le ideologie in concrete azioni di lotta.
Martin Luther King fu l’unico in grado di rappresentare la minoranza nera a livello nazionale.
L’attentato che lo uccise il 4 aprile 1968 coincise con il definitivo declino delle rivendicazioni del
Black Power, in quanto nessuno fu capace di raccogliere la sua eredità, né fornire alla gente una
nuova via da seguire.
 
Nella seconda metà degli anni Sessanta iniziarono le lotte anche nelle università del Giappone. Nel
’66 vi furono cinque mesi di sciopero degli studenti dell’università di Waseda, contro l’aumento
delle tasse e contro le autorità accademiche. Da qui partirono una serie di mobilitazioni che
avrebbero investito tutte le università del paese: contestazioni che procedevano di pari passo con la
lotta contro l’aggressione del Vietnam. La mobilitazione culminò nel ’68 quando venne organizzato
e preannunciato l’assalto contemporaneo  all’Ambasciata americana, alla Dieta, al Ministero della
Difesa, alla residenza del Primo Ministro e alla stazione ferroviaria di Shinjuku. Quest’ultimo è il
vero obbiettivo, in quanto il nodo centrale di tutto il traffico di uomini e mezzi diretti in Vietnam
che passano per il Giappone. Studenti e operai resistono agli attacchi per ore: all’una di notte il
governo è costretto a decretare la legge marziale.
 
La forte frantumazione organizzativa, ed un settarismo che non ha paragoni con quello dei paesi
europei, avrebbero portato alla degenerazione del movimento negli anni Settanta.
 
Anche in Europa domina in questi anni un clima di insofferenza e di disagio. Tanto i giovani dei
paesi occidentali, quanto quelli dei paesi orientali, erano mossi da un istinto di ribellione contro i
rispettivi modelli di cultura e società. Ideali anti-imperialisti, anti-militaristi, anti-autoritaristi e anti-
borghesi, recepiti dall’esperienza americana, alimentarono ovunque la contestazione. I giovani dei
paesi occidentali puntavano alla realizzazione di forme di democrazia diretta in tutti i settori della
vita associata e all’annientamento di quel sistema democratico-rappresentativo, considerato troppo
legato agli interessi economici e militari di una elite borghese di natura autoritaria. Nei paesi del
blocco socialista (Germania Est, Polonia, Cecoslovachia), invece si rivendicava, contro il sistema
dominante, un “socialismo dal volto umano”.
 
Nell’ambito dei paesi occidentali è in Francia che la contestazione assume i toni più clamorosi, in
quanto si trasformò in una rivolta contro lo stato. Questa esplose nel marzo del 1968 all’Università
di Nanterre, e nei mesi successivi alla Sorbona. Inizialmente si era trattato di un fenomeno
minoritario, e molto frammentato fra le piccole organizzazioni (i groupuscules maoisti, trozkisti,
anarchici), che se ne contendevano la direzione. La repressione da parte della polizia giocò da
fattore unificante e provocò un considerevole allargamento dell’agitazione, che si estese anche alle
scuole medie superiori ed al mondo del lavoro. Dapprima furono occupate dagli operai alcune
fabbriche di Parigi. Poi, in tutta la Francia, gli operai ed anche quadri tecnici, intellettuali, e gli
stessi componenti dell’apparato statale, entrarono in agitazione. Gli studenti rivendicavano
maggiore libertà in una società rigida; anche in Francia la contestazione per la guerra del Vietnam è
uno dei temi principali delle proteste. Il 22 marzo nasce un movimento (che appunto verrà chiamata
“22 marzo”) di solidarietà a favore di uno studente, attivista trotzkista, che era stato arrestato per
qualche ora per aver attentato alla sede parigina dell’American Express, simbolo degli Stati Uniti.
Nella Germania occidentale, la prima a raccogliere il messaggio d’oltre Atlantico, il Sessantotto,
sotto la guida di Rudi Dutschke, assunse più che altrove connotati fortemente libertari. Anche qui la
denuncia era rivolta contro il corpo accademico, accusato di essere un ‘regime oligarchico’. Il
nuovo ‘bisogno’ di comunismo si caratterizza anche qui per la negazione assoluta di qualsiasi
modello di tipo sovietico o di democrazia popolare, realtà considerate illiberali ed anti-
democratiche, e come tali, da annientare.
 
In Italia, dopo un anno di incubazione (il 1966), i primi veri focolai di rivolta si accendono nel
novembre del 1967, simultaneamente, nelle università di Trento e Napoli. Subito la contestazione
raggiunse il sistema privato, coinvolgendo in particolare l’Università cattolica di Milano. Si propaga
quindi a Torino per irradiarsi, con impressionante rapidità e lungo la linea dell’occupazione a catena
degli atenei, in ogni sede universitaria del Paese.
 
Anche qui le originali ragioni di lotta avrebbero tardato ad intrecciarsi con la difesa di altri ideali: in
polemica con il capitalismo si arriverà a lottare per una realizzazione di una democrazia radicale,
non più semplicemente rappresentativa, ma il più possibile diretta e anti-autoritaria. Contro ogni
forma di oppressione si svilupperà la condanna anche di quel comunismo di tipo sovietico che rende
l’individuo schiavo del potere; si prenderanno a modello le esperienze comuniste cubana e cinese,
ritenute valide alternative a quella russa.
 
Tra i paesi del blocco sovietico l’episodio più clamoroso, la ‘Primavera di Praga’, si verifica in
Cecoslovacchia. Qui la contestazione giovanile si confonde con un movimento intellettuale e
politico di liberazione volto al superamento del comunismo tradizionale ed al raggiungimento
dell’indipendenza dall’Unione Sovietica.
Nell’estate del 1968 si svilupparono agitazioni anche in Irlanda del Nord. La minoranza cattolica di
città come Belfast e Derry, da sempre oggetto da parte della maggioranza protestante di un
predominio irrispettoso dei suoi diritti civili, aveva dato luogo da parecchi anni a forme di lotta
clandestina e terroristica. L’influenza dei movimenti studenteschi europei, e del marxismo, favorì lo
sviluppo di forme proteste, duramente represse dalle truppe speciali britanniche. Questo era solo
uno dei movimenti etnico-nazionali che conobbero in quell’anno un nuovo slancio: dal movimento
basco nell’area di confine tra Spagna e Francia a quello bretone, a quello corso, fino ai nuovi
fermenti autonomisti sardi.

La crisi degli anni ‘70


Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma
 

Prologo: il “trentennio glorioso”1 (1945-'75)

Tra la fine della Seconda guerra mondiale e la fine del 1973 l'economia del cosiddetto Primo mondo
(Europa occidentale, Nord America e Giappone) visse un periodo di enorme prosperità.
Il pianeta intero in quel trentennio vide la sua ricchezza aumentare più di quanto non fosse accaduto
nei mille anni precedenti. In alcuni Paesi, come l’Italia, si parlò di miracoli economici e l'idea che 
la crescita del benessere fosse un fenomeno inarrestabile si consolidò nella mentalità dell'emisfero
Nord del pianeta.
 

Alla radice del trentennio glorioso vi erano tre fenomeni interconnessi:


1.la ricostruzione post – bellica aveva prodotto in Europa una grande vivacità economica. Il
settore edilizio conobbe una grande espansione: si costruivano case e le si riempiva
progressivamente di elettrodomestici e di automobili. I lavoratori delle campagne, attratti dalla
possibilità del benessere urbano, migravano nelle fabbriche cittadine aumentando la richiesta di
nuove case, mobili, elettrodomestici e automobili, in un circolo virtuoso che sembrava
inarrestabile.
2.Il sistema di produzione fordista (la catena di montaggio e l'ottimizzazione dei tempi) continuò
la sua corsa negli USA e si diffuse in Europa, aumentando a dismisura la quantità di merci
prodotte ogni anno. Ma a differenza di quanto avvenuto negli anni '20 l'aumento delle merci e dei
profitti fu accompagnato da un parallelo aumento dei salari operai che rese possibile ai lavoratori
l'acquisto di una buona parte delle stesse merci  da loro prodotte (elettrodomestici, utilitarie...).
3.L'intervento statale sia nella pianificazione economica, sia nella costruzione dello stato sociale.
Entrambe le idee traggono origine dalle teorie di John Maynard Keynes, economista che sviluppò
il suo pensiero innovativo soprattutto grazie all'osservazione della crisi del 1929. Secondo Keynes
il sistema dei liberi mercati non è sempre in grado di mantenere alta la domanda di beni e quando
questo non accade si manifestano le crisi. Per evitarle occorre che lo Stato intervenga a sostenere
la domanda, attività che, dopo la prematura morte di Keynes (1946) si realizzò in diversi modi:
programmando in modo coordinato la produzione industriale nazionale, sviluppando una serie di
servizi sociali pubblici a cui è stato dato il nome di “Stato sociale”, favorendo l'aumento dei salari.
La costruzione dello Stato sociale in particolare si è rivelata un'idea economicamente (oltre che
socialmente) felice, grazie al “moltiplicatore”, un meccanismo  che può essere spiegato con un
esempio. Lo stipendio di un medico dell'ospedale pubblico ad un'osservazione immediata
apparirebbe una spesa a perdere per lo Stato. In realtà una parte di quello stipendio verrà utilizzato
dal medico per acquistare beni, supponiamo un'abitazione. I soldi transiteranno quindi in due
tasche: quelle del dottore e quelle del costruttore, arricchendo entrambi. Ma il costruttore a sua
volta utilizzerà una parte del denaro ricevuto dal medico per comprarsi ad esempio un'automobile
nuova. E quindi il produttore di automobili diverrà la terza tasca entro la quale il denaro
moltiplicherà i suoi effetti, e così via. Ma non è finita: ciascuno tra i diversi soggetti presso cui
passeranno i soldi  aumenterà la sua attività economica e la conseguente quantità di tasse che
dovrà pagare allo Stato il quale, alla fine del ciclo, si vedrà ripagare lo stipendio versato
inizialmente al medico.
 
La crisi degli anni ‘70
1973-4: la fine della pace (economica) dei Trent'anni
Trent'anni di sviluppo economico tumultuoso avevano radicato nella mentalità comune la
convinzione che l'economia ormai avesse trovato la ricetta di una crescita infinita, che le
generazioni successive avrebbero goduto per sempre di maggior benessere rispetto a quelle
precedenti, che la crisi fosse il retaggio di epoche passate.
A interrompere questi racconti intervenne improvvisa la crisi del 1973-'74, durante la quale il
mondo occidentale conobbe un fenomeno di profonda influenza sulle sorti dell'economia: la brusca
carenza di petrolio e il conseguente aumento a livelli stellari dei prezzi dell'energia.
Tuttavia la crisi di quel biennio fu l'ultima tappa di un processo di svuotamento degli elementi che
avevano sostenuto i miracoli economici post bellici. Per questo occorre ripercorrere
cronologicamente i fatti strutturali che resero  così esplosiva la carenza petrolifera.
 
1968 – '69: salari crescenti e profitti calanti
Il 1968 è passato alla storia per la traccia indelebile lasciata in quell'anno dal movimento
studentesco. In Italia il 1969 è stato un anno altrettanto importante a causa delle lotte sviluppate da
un altro movimento, quello degli operai, il cui esito più significativo è rappresentato dall'adozione
nel 1970 dello Statuto dei lavoratori. Ma se l'Italia rappresenta un caso specifico per la vivacità
delle lotte sociali che ha espresso in quegli anni, in linea generale la fine degli anni '60 e l'inizio
degli anni '70 hanno espresso un momento di forza operaia e di crescente difficoltà per l'economia
capitalista all'interno del Primo mondo. Il processo innescato negli anni '50 e (soprattutto) negli anni
'60, prevedeva la ripartizione fra imprenditori e lavoratori degli utili crescenti generati dalle attività
economiche.
 

 
Tuttavia in alcuni Paesi (e l'Italia ne è un esempio) la forza delle rivendicazioni operaie aveva
portato i lavoratori ad ottenere aumenti percentualmente superiori a quelli riportati dalla
controparte. I profitti crescevano meno dei salari, un fatto anomalo nell'intera storia del capitalismo,
dovuto principalmente alle condizioni di forza sindacale e politica sviluppatesi nel secondo
dopoguerra.

1971: dollari, lire e  altre monete iniziano a fluttuare


Un secondo passaggio fondamentale nella storia economica dei primi anni '70 fu rappresentato
dall'abbandono della stabilità monetaria.
All'origine del fenomeno vi era la guerra che gli Stati Uniti conducevano contro il Vietnam; per
finanziarne i costi il governo USA stampava continuamente dollari il cui valore era garantito dalle
riserve in oro detenute a Fort Knox. Ma ad un certo punto la quantità di dollari circolanti divenne
eccessiva perché si continuasse ad assicurare la loro trasformazione in oro. Perciò il 15 agosto 1971
il presidente statunitense Nixon dichiarò nullo il legame fra dollaro e oro: il dollaro valeva di per sé,
scisso da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica del governo USA.
 

 
Le conseguenze inizialmente non furono gravi, il sistema mondiale fece finta di nulla e le altre
monete continuarono ad essere cambiate allo stesso valore (nel 1964 ci volevano 624 lire per un
dollaro, 627 nel 1974), ma   nel corso degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 i valori delle divise
cominciarono ad oscillare pericolosamente (il 19 luglio del 1985 si arrivò ad un cambio di 2200 lire
per un dollaro!) e  questo fattore contribuì a potenziare la crisi del 1973-'74 e la successiva del
1979, soprattutto per quei Paesi che dovevano importare petrolio, pagandolo in dollari e che erano
pertanto obbligati ad esborsi sempre maggiori man mano che sia il greggio, sia la divisa statunitense
si apprezzavano.
 
Anni '70: la sovrapproduzione
Ma i successi dei lavoratori prima e l'instabilità dei cambi fra monete da soli non avrebbero spiegato
la portata di ciò che avvenne negli anni '70.
Il fattore più importante nel favorire il mutamento storico fu la crisi da sovrapproduzione che fin
dagli anni '60 negli USA e negli anni '70 e '80 in Europa iniziò a far sentire la sua morsa.
 

 
A differenza della crisi da sottoconsumo del 1929 questa volta il problema non era la mancanza di
domanda da parte di lavoratori troppo mal pagati per potersi comprare le automobili che
producevano. Al contrario, le paghe operaie crescenti e l'intelligenza di alcuni imprenditori - che
avevano cominciato a produrre beni di prezzo accessibili ai loro dipendenti (un caso per tutti: la 500
FIAT) - avevano evitato il ripetersi delle dinamiche degli anni '20. Il problema del 1973 era un altro:
dopo alcuni decenni di acquisti di massa (il famoso consumismo, alimentato da grandi strategie
pubblicitarie) le case di molte famiglie occidentali cominciavano ad essere colme e in alcuni casi
perfino a strabordare di merci. In abitazioni in cui era già presente un frigorifero, una lavatrice, una
lavastoviglie, un mobilio adeguato, due o tre televisori e un paio di automobili, di quali altri beni di
un certo valore si poteva aver bisogno ?
Inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di nuove merci e di conseguenza le strategie di
produzione e di vendita delle imprese dovettero riorientarsi per far sì che le famiglie anziché
comprare ex novo un bene che prima non possedevano (televisore, automobile), si limitassero a
sostituire i beni che già avevano  con altri, più belli, più grandi, più colorati e pieni di optional. In
termini tecnici finiva l'epoca dei  mercato di riempimento e iniziava quella dei mercati di
sostituzione (assai meno redditizi perché la concorrenza nel disputarsi la sostituzione di un prodotto
obbligava le diverse case produttrici a ribassare i prezzi e a farsi una guerra commerciale feroce).  
 
1973: la prima crisi energetica
Il miracolo economico degli anni '60 si era tradotto in crescite impressionanti del Prodotto interno
lordo (PIL), ossia della ricchezza prodotta dalle nazioni: in Giappone, per l'intero decennio il PIL,
aumentò di una media del 10,1% all'anno, in Italia del 5,4%2. All'inizio degli anni '70 i fattori
ricordati sopra stavano già ridimensionando la forza propulsiva dei miracoli economici e in questo
contesto l'aumento impressionante del costo dell'energia rappresentò il colpo definitivo per le
speranze di crescita sostenuta.
 
1973: l’Opec chiude i rubinetti del petrolio
Nel secondo dopoguerra l'economia dei Paesi industrializzati era fortemente dipendente dal
petrolio, da tempo divenuto la più importante fonte di energia per la produzione industriale, la
produzione agricola e il sistema dei trasporti. La sua relativa scarsità (come è noto il petrolio non è
una fonte rinnovabile) veniva vista come un problema solo guardando a tempi molto lunghi, e il suo
prezzo molto basso permetteva di non appesantire i costi delle economie occidentali. Ma nel 1973
accadde l'imprevisto: l'OPEC (l'alleanza dei Paesi produttori di petrolio, quasi tutti di lingua araba)
decise di sospendere improvvisamente le forniture di greggio agli Stati occidentali. Questi ultimi
avevano infatti appoggiato Israele, facilitandogli la vittoria nella guerra dello Yom Kippur, che
nell'ottobre di quell'anno lo aveva opposto agli Stati arabi di Siria ed Egitto. La ritorsione
dell'OPEC si tradusse in un aumento improvviso e molto elevato del prezzo del petrolio, che nel
girò di poco tempo crebbe di oltre tre volte. Fu in quel momento che l’Italia conobbe la prima crisi
da “penuria di energia”, che obbligò a ridurre le spese per il riscaldamento o a impedire l’uso delle
automobili nelle domeniche.
 
 
La scarsità di petrolio e la forte crescita dei suoi costi si tradussero rapidamente nell'intero
Occidente in una riduzione generalizzata delle attività di produzione e di trasporto, in un ulteriore
calo dei profitti imprenditoriali e in un aumento del prezzo di tutte le merci, ossia in un meccanismo
di inflazione.
 
1970/1980: l'inflazione, spauracchio dell'Occidente
La parola “inflazione” evoca in tutti coloro che hanno vissuto negli anni '70 e '80 uno spauracchio,
un avvenimento di gravità tale che qualunque meccanismo per porvi rimedio acquista un'aura di
positività.
In realtà il fenomeno di aumento generalizzato dei prezzi non è un male o un bene in assoluto, ma
come molti fenomeni ha effetti diversi a seconda del gruppo sociale da cui lo si osserva. Per i
lavoratori dipendenti l'inflazione è negativa solo se non esistono meccanismi di adeguamento
automatico dei salari all'aumento del costo della vita (la cosiddetta “scala mobile”); è invece
tendenzialmente neutra negli altri casi. Per coloro che sono indebitati l'inflazione è un aiuto: al
momento della restituzione del prestito il valore del debito in termini reali sarà infatti diminuito
(mentre invece per coloro che detengono crediti l'inflazione si rivela un danno, poiché per loro vale
il ragionamento contrario).
 

 
Nella mentalità comune il manifestarsi di aumenti continui e diffusi nei generi di prima necessità
portò ad associare l'inflazione ad un male tout court. E nel corso di pochi anni la lotta contro
l'aumento dei prezzi, scatenatasi a partire dal 1979, fu uno dei cavalli di Troia utilizzati cambiare il
volto all'economia e alla società mondiali.

Conclusione: 1979, si esce dalla crisi e si crea un nuovo paradigma


Se la crisi del 1973 - '74 ha lasciato un segno profondo nella memoria comune in quanto primo
momento di difficoltà delle economie occidentali a partire dal 1945 (difficoltà plasticamente
rappresentate dalle domeniche senza auto nell'Italia di fine 1973), la crisi del 1979 ebbe minore
impatto comunicativo, ma lasciò tracce ancora più profonde nelle politiche economiche del
trentennio successivo.
 
1979: la seconda crisi petrolifera
La cronaca del 1979 registrò una seconda crisi petrolifera con dinamiche molto simili a quella del
1973-'74: un forte aumento del prezzo del petrolio dovuto a un evento politico nell'area asiatica (in
quest'occasione si trattò dell'avvento al potere di Khomeyni in Iran e della successiva guerra con
l'Iraq di Saddam Hussein; entrambi gli avvenimenti determinarono un brusco calo della produzione
di petrolio). Anche in questo caso l'aumento dei prezzi del greggio si tradusse in  una forte
inflazione, diffusa in tutto il mondo occidentale.

 
 
1979-'82: le risposte neoliberiste cambiano la politica economica mondiale
Alla fine degli anni '70 la situazione economica del cosiddetto Primo mondo aveva quindi
accumulato diversi elementi critici da un punto di vista capitalistico: crisi di sovrapproduzione,
crescita dei salari/calo dei profitti, incertezza nei valori delle monete, inflazione.
Nell'arco di un triennio (1979-'82) le risposte di politica economica a questo stato di cose,
provenienti dal mondo anglosassone e diffuse poi in tutto l'Occidente, modificarono profondamente
gli orientamenti economici planetari.
Per comodità l'insieme di queste risposte viene chiamato neoliberismo e sebbene il termine sia
molto impreciso è ormai indubbio che in quel periodo si sia passati dal keynesismo del “trentennio
glorioso”, al declino dello Stato come regista e attore dello sviluppo economico (complice anche
l'avvento al potere di due politici fautori della primazia del privato, Margareth Tatcher nel Regno
Unito dal 1979 e Ronald Reagan negli USA dal 1980).
 

 
Tra i tanti segnali di questo cambio di paradigma per semplicità qui ne vengono ricordati solo tre, il
cui impatto ha segnato profondamente anche i decenni successivi.
 
1. Dal primato del lavoro al primato della lotta all'inflazione. Come si diceva sopra, l'inflazione
danneggia in particolare chi detiene un credito, ossia colui che si ritroverà ad essere ripagato a
distanza di tempo dal prestito concesso con una moneta ormai svalutata. Il principale detentore di
crediti è il sistema bancario nel suo complesso e fu da lì che il più importante fra i suoi
rappresentanti, il governatore della Banca centrale statunitense Paul Volcker, mosse l'attacco
all'aumento dei prezzi. Nel giro di poco tempo Volcker, appena assurto nell'agosto 1979 al ruolo più
importante nella politica monetaria mondiale, ridusse bruscamente la quantità di banconote in
circolazione per operare un raffreddamento dell'attività economica e dell'inflazione3.
 

 
Il piano diede i suoi frutti, ma le conseguenze di medio e lungo periodo furono pesanti: la riduzione
dell'inflazione e del denaro circolante determinò una diminuzione delle attività industriali e dei posti
di lavoro, nonché l'inizio di un lungo processo di perdita di valore dei salari (spiegabile attraverso la
dinamica del mercato del lavoro: essendoci meno posti disponibili, pur di accedervi le persone
tendono ad accontentarsi di paghe e condizioni meno vantaggiose).
 
2. I capitali iniziano a viaggiare in modo compulsivo. Il secondo segnale di un cambiamento
economico duraturo si ebbe con la deregolamentazione dei movimenti dei capitali. Fino alla fine
degli anni '70 i capitali bancari e finanziari di un Paese avevano grossi vincoli se volevano muoversi
verso altri lidi. Nella nuova situazione di crisi questi impedimenti furono giudicati eccessivi e le
leggi che limitavano il movimento internazionale dei capitali furono abolite, a cominciare dagli
USA. Il principio che informava le nuove disposizioni era la necessità di rendere più “liquidi” i
capitali, ossia più facilmente in grado di arrivare laddove vi fossero occasioni di profitto. Nel tempo
tuttavia la deregolamentazione si rivelò un'arma potentissima nelle mani di chi muoveva capitali
non per aprire nuove attività produttive in luoghi differenti, ma per operare in un'ottica speculativa
di breve e brevissimo periodo, muovendo freneticamente grosse cifre laddove vi fosse l'occasione di
spuntare guadagni immediati e ritirandole subito dopo.
 
3. Addio a Keynes e al consumo illimitato di energia. Rispetto alla crisi del 1929, la crisi degli anni
'70 ha interpretazioni rese più difficili dalla vicinanza storica del periodo e dall'intenso  dibattito
ideologico che si è avuto da allora fino ad oggi su quali  fossero le migliori risposte di politica
economica allo stato di crisi.
Quanto si può affermare con ragionevole sicurezza è che tra il 1973 e il 1979 entrò in crisi il
modello keynesiano costruito nel lungo secondo dopoguerra e che ciò che ne è seguito non è stato
in grado di ricostruire condizioni stabili di crescita economica, tanto è vero che dagli anni '90 in poi
una serie di crisi finanziarie ha fatto da prodromo alla grande crisi iniziata nel 2008

Un'ulteriore considerazione va infine spesa sullo spartiacque rappresentato dagli anni '70 anche per
ciò che riguarda le politiche energetiche. Prima di quegli avvenimenti la riflessione sul petrolio, sui
suoi impatti ecologici e sulla mancanza di rinnovabilità avevano interessato solo pochissimi
ambientalisti ante litteram. Dagli anni '80 in poi il dibattito su un modello di sviluppo
ecologicamente compatibile e su possibili alternative energetiche al petrolio e agli altri fossili è
divenuto progressivamente sempre più centrale.
L’AMERICA DI REAGAN

Quando, nel novembre 1980, il repubblicano Ronald Reagan, fino al 1966 attore cinematografico,
diviene il 40° presidente, l'immagine internazionale degli Stati Uniti è ai suoi minimi storici.
Sia l'impotenza americana di fronte all'invasione russa dell'Afghanistan, sia, soprattutto, la vicenda
degli ostaggi statunitensi da un anno nelle mani degli iraniani hanno infatti compromesso
profondamente l'immagine pubblica di un paese che non è ancora riuscito a superare la cocente
sconfitta subita nella guerra del Viet Nam.
E, quel che è peggio, tale perdita di credibilità viene sottolineata non soltanto da avversari e alleati
esteri, ma anche dalla stessa opinione pubblica statunitense, che accusa di eccessiva debolezza
l'amministrazione uscente del presidente Jimmy Carter (1976-1980).
Il "reaganismo" 
Su questo sentimento di orgoglio ferito fa leva l'agguerrita campagna elettorale condotta da Reagan,
candidato del partito repubblicano, che promette al paese una "riscossa" in grado di riportarlo al
rango di prima superpotenza, garante dell'ordine mondiale. Il popolo degli Stati Uniti risponde a
questi forti richiami al patriottismo e ai valori tradizionali concedendo a Reagan un vero trionfo
elettorale, che quattro anni dopo, in occasione delle successive elezioni presidenziali, si
amplificherà fino a divenire una sorta di plebiscito.
Reagan rimarrà dunque alla Casa Bianca per otto anni, determinando un profondo mutamento di
rotta nella storia americana e mondiale.
Il nuovo presidente avvia subito un programma per molti versi antitetico rispetto a quello del suo
predecessore. In politica interna egli intende procedere al ridimensionamento dell'apparato
burocratico e a una drastica riduzione della spesa pubblica, soprattutto di quella destinata alle
istituzioni pubbliche e assistenziali (scuola, sanità, sussidi alla disoccupazione ecc.).
Il rilancio dell'economia è affidato a una politica totalmente liberista, che si basa sull'intraprendenza
individuale e sull'ossequio alle leggi del mercato, nello sforzo di limitare il più possibile ogni forma
di intervento statale e di assistenzialismo.
Il modello neoliberista reaganiano si basa infatti sul presupposto che la spesa pubblica impiegata
per finanziare interventi sociali e assistenziali da un lato crea inflazione (uno dei grandi flagelli
economici degli anni Settanta), dall'altro sottrae consistenti fondi agli investimenti produttivi.
Questa linea economica, che verrà comunemente definita "reaganismo", diverrà una sorta di
simbolo degli anni Ottanta e segnerà un vero e proprio punto di rottura rispetto al modello dello
stato sociale che era nato negli anni della ricostruzione postbellica, per sostenere le economie
piegate dalla partecipazione alla lunga guerra mondiale.
Lo scudo spaziale 
Contemporaneamente Reagan mira a potenziare l'apparato difensivo americano, attraverso la
cosiddetta Iniziativa di Difesa Strategica (SDI), più nota come Progetto dello Scudo Spaziale.
Si tratta di un complesso sistema difensivo basato sull'impiego di satelliti di osservazione e di
sofisticate armi spaziali in grado di intercettare e abbattere i missili intercontinentali prima che essi
giungano all'obiettivo prefissato.
Tale sistema avrebbe dovuto portare, secondo Reagan, alla progressiva eliminazione delle armi
nucleari, perché ciascuna delle superpotenze sarebbe protetta dal proprio scudo stellare.
La politica estera di Reagan 
In politica estera, Reagan si assume l'arduo compito di far superare agli americani  ogni complesso
d'inferiorità e imposta subito i rapporti con l'Unione Sovietica su un piano di "rigido confronto".
Per punire il Cremlino dell'invasione dell'Afghanistan approva una serie di misure che vanno dalla
mancata ratifica del trattato Salt II sugli armamenti nucleari, concluso a Vienna due anni prima, alla
sospensione delle forniture all'Urss di beni di prima necessità, in particolare grano.
Il primo quadriennio dell'amministrazione Reagan vede dunque un deciso irrigidimento della
politica dei blocchi contrapposti: tale linea verrà notevolmente ammorbidita durante il secondo
mandato presidenziale di Reagan (1984-1988), anche grazie alla politica riformistica intrapresa dal
leader sovietico Gorbaciov, che nel frattempo si era insediato al Cremlino.
La politica estera di Reagan vede  inoltre un'accentuazione delle spinte interventistiche nelle aree
più "calde" del globo: nella tormentata regione del Centro-America, egli sostiene massicciamente i
movimenti anticomunisti del Nicaragua, che dal 1979 si fronteggiano in una sanguinosa guerra
civile con il governo  sandinista appoggiato dall'Urss. Tale situazione perdurerà fino al 1990,
quando il governo sandinista verrà sconfitto alle elezioni da una coalizione di partiti moderati.
Raegan svolge inoltre un'efficace azione di dissuasione nei confronti della Libia, nazione
considerata tra le nazioni ispiratrici del terrorismo arabo internazionale.
In due occasioni, nel 1986 e nel 1988, è addirittura la VI Flotta degli Stati Uniti a dirigersi
minacciosamente verso il Mediterraneo e a mettere in atto raid punitivi per ritorsione contro gli
attentati terroristici e per cercare di ottenere la chiusura di impianti libici sospettati di produrre armi
chimiche.
In particolare nel suo secondo mandato, grazie soprattutto, lo ripetiamo, ai migliorati rapporti con
l'Unione Sovietica di Gorbaciov, Reagan va gradualmente stemperando la precedente linea politica
volta a una sostanziale affermazione di forza, e si adopera per il mantenimento della pace mondiale
e per il superamento di alcune crisi regionali.
I vertici con Gorbaciov tenutisi a Ginevra (1985), Reykjavik (1986), Washington (1987) e Mosca
(1988) approdano a importanti accordi per la riduzione degli armamenti in Europa.
Un contributo decisivo Reagan dà anche alla transizione verso la democrazia nelle Filippine, dove
nel febbraio 1986 termina la ventennale dittatura di Ferdinand Marcos, iniziata nel 1965.
Le Filippine e il ritorno alla democrazia
 
All'inizio degli anni Ottanta il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos, che da un periodo di
vent'anni tiene l'arcipelago sotto il giogo di un regime dittatoriale inefficiente e corrotto, perde
gradualmente l'appoggio degli Usa, tradizionali alleati, e della Chiesa cattolica, che rappresenta uno
dei principali punti di riferimento interni.
L'opposizione si raccoglie attorno a Corazón (Cory) Aquino, vedova del leader liberale Benigno
Aquino, fatto uccidere presumibilmente da Marcos.
Nel febbraio 1986, dopo una contestata vittoria elettorale ottenuta attraverso una serie di brogli, il
dittatore cede di fronte ai crescenti disordini popolari e, di conseguenza, alla defezione di alcuni
suoi collaboratori e abbandona il paese.
La guida del governo viene assunto da Cory Aquino, tuttavia la transizione verso la democrazia
risulta essere tutt'altro che facile: per due anni si susseguono numerosi tentativi di colpo di stato
operati sia dai nostalgici del dittatore Marcos sia dalla guerriglia comunista e islamica. Soltanto nel
1988 il nuovo corso riesce finalmente a consolidarsi, anche grazie al decisivo appoggio degli Stati
Uniti e alla morte in esilio di Marcos.
MARGARET THATCHER
LA STORIA DELLA LADY DI FERRO

 Da una parte lacrime, dispiacere e raccoglimento, dall’altra muri con le scritte “Iron Lady rust
(=arrugginisci) in peace”, e la canzone “Ding Dong the witch is dead” (celebre brano del Mago di
Oz, recentemente riproposto sul grande schermo) che spopola nelle classifiche inglesi.
 
Questa è la controversa eredità che lascia al suo popolo Margaret Thatcher, primo ministro
britannico dal 1979 al 1990, morta per un ictus, dopo un lungo periodo di malattia, lo scorso 8
aprile all’età di 87 anni.
 
Ma quali sono i motivi di queste reazioni così diverse? Per cercare di capirlo, bisogna iniziare dal
chiedersi chi fu Margaret Thatcher e ripercorrere le tappe più significative della sua vita politica.
 
Accenni al passato
 
La Thatcher nacque nel 1925 a Lincolnshire, dalla famiglia di un droghiere molto impegnato nella
politica locale.
 
Nonostante le umili origini portò avanti i suoi studi laureandosi in chimica all’università di Oxford,
divenendo poi ricercatrice. L’esempio del padre la portò a mantenere sempre alto il suo impegno
politico e i suoi solidi valori religiosi la spinsero a iscriversi al Partito Conservatore.
 
Dopo iniziali sconfitte, nel 1959, venne eletta alla Camera dei Comuni e nel 1970 divenne Ministro
dell’Istruzione.
 
Non fu un ministro particolarmente apprezzato, anzi, a causa dei numerosi tagli operati dal governo,
adottò delle misure che la allontanarono dal ben volere dell’opinione pubblica. Abolì infatti il latte
gratuito nelle scuole per i bambini dai 7 agli 11 anni, prendendo l’infelice nomignolo di “milk
snatcher”, ruba latte.
 
Decise allora di intraprendere un’altra strada, proponendosi alla guida del Partito Conservatore; nel
1975 divenne la prima donna ad assumerne la leadership. A capo dell’opposizione riuscì a riportare
numerosi consensi verso i conservatori e tenne poi un discorso molto duro nei confronti dell’URSS,
che gli valse il soprannome con cui è passata alla Storia, “la donna di ferro”.
 
Nel 1979, il governo laburista entro in crisi e i conservatori riuscirono a portare Margaret Thatcher
alla guida del paese, la prima, e a oggi l’unica donna divenuta Primo ministro britannico. Da questo
momento comincia il discusso operato della Donna di ferro.
 
Politica economica
 
Nel corso dei sue tre mandati la Thatcher mise in atto una politica economica fortemente influenzata
dal pensiero degli economisti Friedman e Von Hayek: a grandi linee si possono definire come due
teorici anti-keynesiani, favorevoli al ritorno al liberismo, al lassaiz faire: il primo sosteneva che le
politiche di domanda espansiva cercavano di risolvere la disoccupazione con la svalutazione della
moneta, ottenendo solamente l’aumento dell’inflazione; il secondo, famoso per la teoria dei cicli
economici, riteneva che l’inflazione, portata avanti dalle banche centrali, falsificava il valore degli
investimenti e che la recessione, dunque, si rivelava necessaria per una giusta ridistribuzione delle
risorse.
 
Queste teorie aiutano a spiegare le misure intraprese dalla Thatcher per far uscire il Regno Unito
dalla crisi economica scaturita in seguito allo shock petrolifero del `73.
 
Per risanare l’economia britannica il Primo ministro perseguì l’obbiettivo di contenere l’aumento
dei prezzi, mantenendo i tassi d’inflazione bassi; nel farlo però sacrificò il lavoro e la
disoccupazione crebbe fino a toccare circa i 3 milioni.
 
Incrementò il tasso d’interesse, aumentò l’IVA e le imposte indirette (che si ripercuotono sul
consumo con maggioranze di prezzo), colpendo maggiormente l’industria manifatturiera, che
ridusse i propri utili di un terzo in quattro anni. Questo tipo di misure venne adottato anche da
Ronald Reagan, presidente USA dal 1981 al 1989: con lui alla Casa Bianca e Margaret Thatcher al
10 di Downing Street, gli anni `80 furono caratterizzati dal cosiddetto Neoliberismo.
 
Con questo termine si intende un ritorno al liberismo, dove lo stato però assume un ruolo, quello
cioè di intervenire per espandere le dinamiche competitive del mercato, a cui non viene più
conferita la totale autonomia, come la dottrina originaria prevedeva.
 
In quest’ottica il Welfare – ovvero le politiche di protezione e promozione del benessere economico
e sociale dei cittadini – viene considerato un costo.
 
Nel corso del periodo Thatcheriano, dunque, il Welfare State britannico perde i suoi connotati
garantisti e universalisti che lo avvicinavano ai paesi scandinavi.
 
Si diede avvio infatti ai processi di privatizzazione, ovvero l’inserimento di aziende pubbliche nelle
logiche del mercato, a cui precedentemente erano estranee: in questo caso la compagnia aerea di
bandiera, la British Airways, il colosso energetico dellaBritish Gas, l’azienda di
telecomunicazioni British Telecommunication, e la più importante produttrice di acciaio, la British
Steel.
 
Anche le politiche di previdenza, come il settore pensionistico, vennero affidate ad assicurazioni
private: il ruolo centrale del servizio pubblico veniva così superato.
 
Questa politica non risanò la disoccupazione, che iniziò a scendere solo negli anni `90, ma portò
l’economia in ripresa e consentì di diminuire il tasso d’interesse già dal 1982.
 
Con l’aumento della tassazione durante il periodo di massima recessione, la Lady di ferro anticipò
di fatto le odierne politiche di austerity, mettendo a dura prova il popolo britannico per riportarlo
poi al benessere; un benessere diverso, non più garantito dal servizio pubblico, dalle politiche di
sussistenza dello stato, ma dalla crescente economia del paese
 
Ecco quindi che si rivela uno dei più influenti fattori che divide oggi la popolazione britannica tra
“sostenitori” e “contrari”. Vi fu infatti chi, più interessato a politiche economiche, vedeva nella
Thatcher colei che avrebbe potuto riportare il Regno Unito allo stato di grande potenza mondiale,
temuta all’estero, in continua ascesa economica. Ma vi fu anche chi, più interessato a politiche di
cittadinanza, considerava l’Iron lady come la smantellatrice del Welfare State britannico.
 
Politica interna ed estera
 
Oltre alla politica economica, anche le misure intraprese in politica interna ed estera sono motivo di
dissidio sull’interpretazione del suo operato.
 
La Thatcher ebbe una relazione particolarmente conflittuale con i sindacati; nel 1984 in particolare
fece passare una legge che vietava gli scioperi a meno che non fossero stati approvati dalla
maggioranza dei lavoratori.
 
Si scontrò con i portuali britannici, ma soprattutto con i minatori (come rappresentato dal celebre
film Billy Elliot). Per opporsi alla chiusura di diverse miniere, infatti, il sindacato dei minatori
dichiarò lo sciopero a oltranza, dando luogo a episodi molto violenti come la Battaglia di Orgreave
(dove migliaia di poliziotti affrontarono altrettanti minatori).
 
Il Primo ministro infatti utilizzò metodi molto repressivi per sedare gli scioperi, che la portarono
alla fine a una vittoria senza compromessi. Anche qui l’opinione pubblica si divide tra chi ritiene
che abbia saputo ristabilire l’ordine e chi la accusa di violenza.
 
La stessa fermezza aveva mantenuto anche qualche anno prima, nel 1980, quando alcuni esponenti
dell’IRA (organizzazione che si batte per la riunificazione dell’Irlanda e la fine della presenza
britannica nel nord dell’isola) iniziarono lo sciopero della fame per riottenere lo status di prigionieri
politici; ne morirono dieci, senza che la Thatcher cedesse a nessuna richiesta. In seguito, nello
stesso anno dei violenti scioperi, l’IRA attentò alla vita del Primo ministro, che ne uscì però illesa.
 
La politica estera convalidò ancora di più il soprannome di Iron Lady. Nel 1982 l’Argentina
rivendicò le Isole Falkland ordinando l’occupazione militare.
 
La risposta fu immediata, rapida e decisa; le isole erano di proprietà britannica e il suo leader
doveva difenderle. La task force navale inviata dal Regno Unito risolse brevemente la questione e il
paese fu attraversato da una forte ondata di patriottismo.
 
Le operazioni vennero facilitate da alcune informazioni segrete avute dal vicino nemico
dell’Argentina,il dittatore cileno Pinochet, con il quale la Thatcher instaurò una rapporto di amicizia
che la portò poi a opporsi a processarlo. Alla luce dei crimini di guerra commessi dal dittatore,
anche questo rapporto divenne un argomento assai controverso. I rapporti con l’Argentina non sono
stati mai chiariti e anche al funerale il capo di stato argentino non è stato invitato.
 
Per quel che riguarda una politica un po’meno estera e più “europea”, divenne celebre la frase “i
want my money back”.
 
Margaret Thatcher non era una favorevole all’integrazione europea, tantomeno all’unificazione
della moneta (argomento che scatenò non pochi dissidi interni al partito) e alla cooperazione
economica.
 
Il 50% dei finanziamenti per l’Europa finiva poi nel settore agricolo e poiché l’economia britannica
non era certo fondata sul settore primario, finiva per finanziare quello altrui e voleva indietro i suoi
soldi.
 
I suoi anni di governo dipingono Margaret Thatcher come un leader estremamente forte e
determinato, che ottiene sempre il suo scopo, anche se con tanti sacrifici.
 
Una donna determinante nello scacchiere mondiale ed europeo, che ha saputo risollevare
l’economia britannica in una chiave del tutto diversa, contravvenendo alle soluzioni solitamente
adottate e anticipando così i governi futuri.
 
Nei riguardi di un politico del genere non sono possibili mezze misure: o lo si rispetta
completamente o lo si odia dal più profondo.
LA RIVOLUZIONE IRANIANA
IL VICARIATO DEI GIURECONSULTI
di Cristiano Zepponi
 
La rivoluzione iraniana del 1979 trovò linfa e vigore abbeverandosi alla fonte dello scontento
popolare generato dalle contraddizioni acute dello Stato, nei decenni precedenti.

Il Paese, allora conosciuto col nome di Persia, visse – tra 1906 e 1911 – la sconfitta del moto
costituzionale che sembrava poter imprimere una svolta nella vita politica locale. Durante la prima
guerra mondiale rimase formalmente neutrale, ma Gran Bretagna e Russia condussero operazioni
militari all’interno dei confini persiani, rivelando lo stato di sostanziale subalternità della monarchia
dei Qājār.

Al termine del conflitto, dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi (che avrebbero presto portato
alla fondazione dell’Anglo-Persian Oil Company), la politica persiana risultò sempre più soggiogata
ai voleri britannici. Nel 1919, in particolare, la Gran Bretagna – in cambio del riconoscimento
dell’indipendenza del Paese mediorientale – ottenne rilevanti privilegi di natura militare, fiscale ed
economica. 

Ne derivò un golpe, attuato nella notte del 21 febbraio del 1921 ad opera di un ufficiale della brigata
cosacca, Ridā (Reza) Shāh, che inizialmente strappò il ministero della guerra, e quattro anni dopo
completò l’opera liquidando la dinastia regnante, prima di essere riconosciuto nuovo scià di Persia.

Reza Shāh governò sulla scia di quanto Mustafà Kemàl stava realizzando in Turchia, ed al
contempo sulla base della massiccia tradizione dei tiranni locali: alternò istanze modernizzatrici a
spietate repressioni, impose alle donne di togliersi il velo senza concedergli il voto, le ammise
all’università di Teheran senza abolire i privilegi maschili in fatto di diritto matrimoniale e
familiare, sostenne le moderne scuole laiche senza imporre la chiusura delle madrase del Paese, a
partire dalla città santa di Qomm.

Quest’ambivalente politica si espresse quindi in una modernizzazione appena abbozzata,


superficiale e soprattutto ristretta ad una fascia molto limitata della popolazione.
A guadagnarne fu l’esercito, veicolo d’istruzione ed alfabetizzazione, rafforzato e riorganizzato per
assumere il ruolo di sostegno della politica del sovrano.

L’autocrazia e la modernizzazione, lo statalismo e la repressione, quindi; ma anche la


secolarizzazione. Reza Shāh, infatti, depose il simbolismo religioso ed assunse il titolo “laico” di
“Pahlavi”, ereditato dall’antica tradizione culturale persiana; al contempo, per le stesse ragioni,
decise di cambiare il nome del Paese in Iran.

Fu la politica estera, a causarne la caduta; nel 1941, in pieno conflitto, i due abituali “padrini” del
Paese - Gran Bretagna e URSS – allarmati per le ambiguità e le simpatie mostrate da Teheran nei
confronti della Germania, intervennero per detronizzarlo, sostituendogli il figlio Muhammad Reza.

Il nuovo sovrano dovette barcamenarsi per tutta la guerra tra le velleità indipendentistiche
dell’Azerbaigian (dichiaratosi autonomo con l’appoggio sovietico) e del Kurdistan (dove era stato
proclamato uno Stato indipendente, la repubblica di Mahabad), tra le rivolte causate dalla penuria di
grano e l’ingombrante presenza di truppe sovietiche nel territorio nazionale, tra i gruppi di
guerriglia di vario orientamento politico che proliferavano nella clandestinità e la crescita del
Tudeh, il partito comunista.

Il problema più grave, una volta sconfitte le forze centrifughe che minacciavano l’integrità
territoriale, era quello economico.
La ricchezza petrolifera, principale fonte di reddito del Paese, divenne oggetto di vivaci discussioni.

Le voci, sempre più forti, che avrebbero auspicato una nazionalizzazione dell’Anglo-Iranian Oil
Company accolsero con entusiasmo la nomina a primo ministro, avvenuta il 30 aprile del 1951, del
nazionalista Muhammad Musaddiq (noto come ‘Mossadeq’); e non dovettero attendere granchè,
dato che il giorno successivo alla nomina il primo ministro firmò il decreto che sfidava gli interessi
economici ed il ruolo stesso di potenza egemone della Gran Bretagna.

Per quanto in declino, i britannici reagirono chiedendo prima l’intervento del tribunale
internazionale dell’Aia e poi delle Nazioni Unite, ma entrambi rifiutarono d’intervenire
legittimando in forma indiretta la pratica iraniana. Decisero allora di dare il via ad un boicottaggio
commerciale del Paese, la cui situazione economica peggiorò rapidamente.

La politica di Mossadeq, inizialmente orientata a limitare l’autorità dello scià trasformando l’Iran in
una monarchia costituzionale ed a promuovere una serie di riforme sociali di stampo populista,
andò sempre più sfumando verso un personalismo autoritario e repressivo, ostile ad ogni tentativo
di riforma popolare e perfino ad ogni velleità repubblicana delle folle.
Ciò non bastò a salvarlo dall’intervento anglo-americano, dettato dal timore che i disordini polari
provocassero la caduta di un regime amico in un punto strategico del Medio Oriente, ed al
contempo dalla volontà di rispondere alla sfida lanciata da Mossadeq all’ordine internazionale. Tra
luglio ed agosto del 1953, un golpe occidentale spazzò via il nazionalismo di Mossadeq senza
peraltro intervenire sul suo frutto principale, la nazionalizzazione petrolifera; Mohammed Reza potè
riassumere la sua carica, virando rapidamente verso un regime dittatoriale abbondantemente
foraggiato dal rubinetto petrolifero: tutto, all’apparenza, sembrava rientrato nella normalità.

Sotto la cenere, tuttavia, covava il risentimento delle popolazioni mediorientali verso gli
occidentali: l’allontanamento di Mossadeq era considerato solo l’ultimo di una lunga serie di torti
ed ingerenze, e non sarebbe stato superato così in fretta.

Ciò non toglie, comunque, che negli anni seguenti affluissero nelle casse dello Stato ricchezze
notevoli, in proporzione crescente: il 16 ottobre del 1973, in riposta alla politica israeliana, i paesi
dell’OPEC (Organization of Petroleum Exporting Company), tra cui l’Iran, decisero di aumentare il
prezzo del barile dell’”Arabian Light” da 2,90 a 5,11 dollari; in dicembre, il prezzo raggiunse gli
11,65 dollari, ed in alcuni casi perfino i 17. La ricchezza era quadruplicata.

La massa di denaro che si riversò sull’Iran eccitò l’immaginazione dello scià, che si diede ad ogni
sorta di spesa superflua, festa imperiale, sfarzo di corte e villeggiatura chic. L’improbabile
discendente di Dario e Ciro, allora, sostenne seriamente che gli iraniani, di lì a dieci anni, avrebbero
goduto dello stesso tenore di vita tedeschi, francesi e inglesi (settimanale Spiegel, gennaio 1974),
promulgò centinaia di decreti ed ordinò di raddoppiare gli investimenti, importare prodotti d’alta
tecnologia, costruire mezzi militari ed infrastrutture. Teheran cominciò allora a comprare di tutto,
dai brevetti agli elicotteri, scatenando gli appetiti famelici degli operatori finanziari di mezzo
mondo.

Lo scià, al contempo, fu anche l’unico a non capire che questa valanga di denaro, improvvisamente
piovuta su un Paese nel complesso sottosviluppato, e privo della rete (infrastrutturale, burocratica,
educativa) necessaria ad accoglierla e ripartirla, avrebbe causato un mare di problemi; inflazione,
disoccupazione e povertà cominciarono allora a pesare sensibilmente in uno Stato che
contemporaneamente viveva un’indigestione di ricchezza capace di sottolinearne ulteriormente la
distribuzione ineguale tra le varie fasce della popolazione.

A ciò si aggiunse la vocazione militarista e poliziesca che lo scià, al pari del padre, mostrò di
possedere organizzando una potente polizia politica (la SAVAK) ed assumendo il ruolo di
“gendarme dell’America” nell’area, specie durante la presidenza Nixon.

L’occidentalizzazione e la militarizzazione a marce forzate entrarono quindi in contrasto con un


substrato tradizionale – rappresentato in prevalenza dagli ‘ulamā’ – capace di ridurre drasticamente
le simpatie per il regime, nonostante il complesso di riforme agrarie, educative ed economiche
attuate negli anni ’60 e note come ‘rivoluzione bianca’.
Le proteste, le manifestazioni, gli scioperi, i proclami di intellettuali, ‘ulamā’ e dissidenti
s’intrecciarono allora con i malumori del ceto mercantile dei bazari, scatenando la foga repressiva
delle forze di polizia.

Alla rivoluzione serviva un capo carismatico, e fu trovato nella persona dell’ayatollāh Rūhollāh
Khumaynī (Khomeini), vecchio professore di teologia a Qomm protagonista di numerose proteste
contro il regime negli anni ’60, quando aveva denunciato il servilismo nei confronti degli USA e
rifiutato il servizio militare.

Dopo una campagna contro la riforma agraria (sgradita al clero sciita, che perdeva d’un colpo i beni
religiosi di manomorta), nel 1963, Khomeini – che dei religiosi iraniani non era né il più famoso né
il più autorevole – fu costretto all’esilio: dapprima in Turchia e poi a Najaf, in Iraq.

Dall’estero il vecchio teologo seppe diventare il portavoce delle rivendicazioni popolari, e per
questo la stampa governativa prese ad attaccarlo con ferocia; dopo 14 anni d’esilio, nel gennaio del
’78, un quotidiano lo accusò di essere una spia inglese e addirittura “un omosessuale”.

Raramente intento fu così mal perseguito: se si voleva screditarne l’immagine, si ottenne l’effetto
contrario. Lungi dal tollerare l’offesa, tutto il clero – anche quella parte che più si distanziava dal
rigore dottrinale di Khomeini – scese in piazza a Qomm.

Su pressione di uno scià angosciato dagli eventi il governo iracheno cacciò l’ayatollāh dal suo
territorio, ma neanche questo bastò: Khomeini, infatti, era ancora più pericoloso a Parigi – dove
arrivò il 12 ottobre di quello stesso 1978 – che in Iraq.

Lo scià, a quel punto, fece marcia indietro annunciando nuove elezioni, la revoca della legge
marziale, la cancellazione di alcune commesse, si affidò dapprima ad un governo militare e poi ad
un riformatore: corse ai ripari quando l’intero edificio minacciava di crollare come un castello di
carte, ed era ormai troppo tardi.

Pensò anche di far intervenire l’esercito, prima che Carter gli negasse l’appoggio politico
necessario. In dicembre però, in occasione delle celebrazioni religiose sciite della ‘āshūrā’ (la
commemorazione del martirio di Husayn), gli scontri si fecero ancora più sanguinosi, e diversi
morti restarono sul terreno.

Tra il 5 ed il 13 gennaio del 1979, allora, milioni di persone scesero in strada per reclamare la
caduta dello scià ed il ritorno di Khomeini; tre giorni dopo, Muhammed Reza fuggì dall’Iran.

Il 19 del mese Khomeini atterrò da trionfatore, tra milioni di connazionali deliranti di gioia. 
A marzo, un referendum sancì la nascita della Repubblica islamica con il 98% dei consensi.
Il vicariato dei giureconsulti (velayat-e faqih), la dottrina secondo la quale gli ‘ulamā’ hanno il
diritto d’intervenire nella legislazione in attesa del ritorno dell'imam nascosto della tradizione, era
realtà; nasceva allora lo stato islamico.

GORBACIOV
Brežnev morì nel novembre del 1982; il suo successore nella carica di segretario generale del
Partito comunista, Jurij Andropov, venne a mancare dopo una lunga malattia nel 1984. Il successore
di quest’ultimo, Konstantin Černenko, che morì solo tredici mesi dopo la nomina, venne a sua volta
sostituito, nel marzo 1985, da Michail Gorbaciov.
Dopo aver consolidato il proprio potere sostituendo i membri del Politburo, Gorbaciov lanciò una
campagna per la riforma della società sovietica. Le parole chiave
furono: perestrojka (“ricostruzione”) in campo economico e glasnost (“trasparenza”) negli affari
politici e culturali. Durante il congresso del Partito comunista tenutosi nel giugno del 1988,
Gorbaciov propose una serie di riforme costituzionali che avrebbe spostato il potere dal partito agli
organi legislativi eletti a suffragio universale, riducendo il dominio del partito nella gestione
dell’economia locale e aumentando i poteri della presidenza. Tre mesi dopo il capo dello stato
Andrej Gromyko si dimise e Gorbaciov prese il suo posto. Nel marzo del 1989 si tennero le prime
libere elezioni e il ricostituito Congresso dei deputati del popolo elesse Gorbaciov quale presidente;
tuttavia, un grave incidente presso la centrale nucleare di Černobyl (1986) complicò il processo
delle riforme economiche interne.
Politica estera:
Tra il 1985 e il 1991, Gorbaciov tenne una serie di conferenze al vertice con i presidenti statunitensi
Ronald Reagan e George Bush. Gorbaciov e Reagan firmarono un accordo nel dicembre 1987 per
l’eliminazione dei missili a medio e a corto raggio. Nell’aprile del 1988 fu siglato un accordo che
prevedeva il ritiro dei sovietici dall’Afghanistan. Nel maggio del 1990 Gorbaciov e Bush firmarono
un trattato per porre fine alla produzione delle armi chimiche; nel luglio del 1991 i due presidenti
siglarono un accordo per una forte riduzione delle armi nucleari strategiche. Precedentemente, nel
dicembre del 1988, presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il presidente sovietico aveva
annunciato la riduzione unilaterale delle armi convenzionali, in particolare in Europa orientale e
lungo il confine con la Cina.
Durante la visita di Gorbaciov a Pechino, nel maggio del 1989, Cina e URSS riallacciarono i
rapporti interrotti trent’anni prima. Nel corso di un incontro con papa Giovanni Paolo II a Roma,
Gorbaciov promise che il suo paese avrebbe concesso la piena libertà di culto. I rapporti con Israele
infine migliorarono considerevolmente dopo che l’URSS mitigò le restrizioni sull’emigrazione
degli ebrei sovietici.

La crisi del comunismo:

Fra le più drammatiche inversioni di rotta della politica sovietica vi fu il rifiuto di intervenire
nell’Europa orientale, quando i movimenti di riforma tra il 1989 e il 1991 fecero cadere i governi
comunisti in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, provocando la dissoluzione della Germania
Orientale, che divenne parte della Repubblica federale di Germania, e lo scioglimento del Comecon
e del patto di Varsavia. Nel febbraio del 1990, con un’economia in rapido deterioramento, anche il
Partito comunista sovietico decise di abbandonare il monopolio del potere politico. Gorbaciov, nel
frattempo, aveva perso il sostegno popolare a causa dei suoi interventi di politica interna, e l’11
marzo la Lituania si proclamò stato sovrano e indipendente, mentre anche nelle altre repubbliche si
attivavano movimenti indipendentisti e nazionalistici.
I sostenitori della linea dura tentarono un colpo di stato nell’agosto del 1991, mettendo Gorbaciov
agli arresti domiciliari. Nell’arco di tre giorni i riformatori, guidati dal presidente russo Boris Eltsin,
respinsero l’attacco e smantellarono l’apparato del partito. Il 5 settembre il Congresso dei deputati
del popolo costituì un governo di transizione, con un Consiglio di stato guidato da Gorbaciov e dai
presidenti delle repubbliche partecipanti. Il giorno seguente fu riconosciuta la completa
indipendenza di Estonia, Lituania e Lettonia. L’influenza di Eltsin tuttavia andava oscurando quella
di Gorbaciov e in breve tempo il governo russo assunse i poteri esercitati prima dal governo centrale
sovietico.
Il 21 dicembre 1991 l’URSS cessò formalmente di esistere e undici repubbliche, Armenia,
Azerbaigian, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldavia (rinominata Moldova), Russia,
Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina e Uzbekistan, formarono la Comunità degli Stati Indipendenti.
Gorbaciov si dimise il 25 dicembre e il Parlamento sovietico riconobbe la dissoluzione dell’URSS il
giorno seguente.

IL MURO DI BERLINO
 
Per 28 anni, dal 1961 al 1989, il muro di Berlino ha tagliato in due non solo una città, ma un intero
paese. Fu il simbolo delle divisione del mondo in una sfera americana e una sovietica, fu il simbolo
più crudele della Guerra Fredda. 
Come diretta conseguenza della seconda guerra mondiale e della guerra fredda, la Germania, nel
1949, fu divisa. Sul piano economico la Germania occidentale visse negli anni 50 un fortissimo
boom, erano gli anni del cosiddetto "Wirtschaftswunder" (miracolo economico). Aiutata all'inizio
dai soldi americani, la Germania Federale riuscì in breve tempo a diventare nuovamente una
nazione rispettata per la sua forza economica.
La parte orientale faceva molto più fatica a riprendersi: era svantaggiata all'inizio per le pesanti
richieste economiche fatte dall'Unione Sovietica per riparare i danni subiti nella guerra e per la
mancanza di aiuti paragonabili a quelli che riceveva la parte occidentale. Inoltre la rigida struttura di
pianificazione nazionale dell'economia non favorì lo stesso sviluppo come nella parte occidentale
del paese. Più i due paesi si stabilivano al livello politico, più si facevano sentire le differenze per
quanto riguarda lo standard di vita.
In quegli anni il confine tra est ed ovest non era ancora insuperabile e per tutti gli anni '50 centinaia
di migliaia di persone fuggivano ogni anno dall'est all'ovest, per la maggior parte erano giovani con
meno di 30 anni e spesso persone con una buona formazione professionale, laureati, operai
specializzati e artigiani, che all'ovest si aspettavano un futuro più redditizio e più libero. Questo
continuo dissanguamento stava diventando un pericolo serio per la Germania dell'est ed era
un'ulteriore causa delle difficoltà economiche di questo stato.
L'erezione del muro
Nelle prime ore del 13 agosto del 1961 le unità armate della Germania dell'est interruppero tutti i
collegamenti tra Berlino est e ovest e iniziavano a costruire, davanti agli occhi esterrefatti degli
abitanti di tutte e due le parti, un muro insuperabile che avrebbe attraversato tutta la città, che
avrebbe diviso le famiglie in due e tagliato la strada tra casa e posto di lavoro, scuola e università.
Non solo a Berlino ma in tutta la Germania il confine tra est ed ovest diventò una trappola mortale. I
soldati ricevettero l'ordine di sparare su tutti quelli che cercano di attraversare la zona di confine che
con gli anni fu attrezzata con dei macchinari sempre più terrificanti, con mine anti-uomo, filo
spinato alimentato con corrente ad alta tensione, e addirittura con degli impianti che sparavano
automaticamente su tutto quello che si muoveva nella cosiddetta "striscia della morte".
Muro di Berlino
13 agosto 1961: viene eretto il muro di Berlino
Bloccato quasi completamente il dissanguamento economico dello stato, negli anni 60 e 70 la DDR
visse anch'essa un boom economico. Tra gli stati dell'est diventò la nazione economicamente più
forte e i tedeschi cominciarono a rassegnarsi alla divisione. Di riunificazione si parlava sempre
meno e solo durante le commemorazioni e le feste nazionali.
La caduta del muro
Quello che infine, per la grande sorpresa di tutti e nel giro di pochissimo tempo portò alla
riunificazione furono due fattori: l'arrivo di Gorbaciov  come leader dell'Unione Sovietica e le
crescenti difficoltà politiche ed economiche dei paesi dell'est e specialmente della DDR. Con la
"Perestroika", cioè la radicale trasformazione della politica e della economia e con la "Glasnost",
che doveva portare alla trasparenza politica, Gorbaciov cominciò a cambiare strada all'Unione
Sovietica.
 
Un mucchio di pietre
Nella seconda metà degli anni Ottanta il blocco comunista in Europa mostrò evidenti segni di crisi.
La politica riformatrice di Michail Gorbačëv, leader dell’Unione Sovietica dal 1985, favorì e
accelerò il crollo dei regimi comunisti. A Berlino tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre
1989 centinaia di migliaia di abitanti manifestarono nelle strade invocando libere elezioni, libertà di
stampa e di viaggiare. Mentre i dirigenti della Germania dell’Est cercavano di controllare e
indirizzare le proteste della popolazione, il simbolo più sinistro della repressione venne preso
d’assalto pacificamente dai Berlinesi dell’Est.
Nel tardo pomeriggio di giovedì 9 novembre gli abitanti della città iniziarono la conquista e
l’abbattimento del Muro: da Est e da Ovest migliaia di persone si arrampicarono sul Muro per
abbracciarsi, ballare, festeggiare. Preso a picconate, raschiato, martellato, il Muro mostrò i primi
squarci e nel giro di alcune settimane si era trasformato in un cumulo di macerie.

 
Il caso Jugoslavia
L'attentato che diede il via alla Prima Guerra mondiale avvenne a Sarajevo, per mano di un giovane
bosniaco che rivendicava l'annessione della Bosnia alla Serbia contro l'impero asburgico.
Nel 1918 le rivendicazioni serbe videro riconosciuta il diritto all'autoderminazione con l'istituzione
dello stato jugoslavo. Cosa successe con le altre entità etniche? La Croazia accetta lo stato unitario
ma si rende conto di non avere la protezione necessaria dall'egemonia serba. Ci sono subito tensioni
altissime tra serbi e croati.
Nel 1929 re Alessandro I fece sospendere la costituzione e instaurò la dittatura, dichiarandosi a capo
della nazione jugoslava. Era però serbo, e qualche favoritismo alla Serbia lo fa. Gli sloveni
accettano il predominio serbo in cambio di maggiore autonomia economica. Ma per i croati non era
possibile accettare una situazione così. Si svilupparono gruppi estremisti, disposti alla lotta armata,
imbevuti di fanatismo religioso (cattolico) e nazionalista: gli USTASCIA.
Durante l'occupazione italiana, a partire dal 1941, i rapporti di forza sono invertiti: gli ustascia
formano un governo fascista collaborazionista e creano la Grande Croazia, che arriva quasi a
Belgrado.
Ora sono i serbi che fanno la resistenza. Si formano gruppi combattenti monarchici CETNIKS
(cetnici). Nell'estate del 1942 gli ustascia compiono massacri tra gli abitanti serbi e gli italiani non
fanno nulla per impedirlo.
Dopo il 1945 il generale Tito, eroe della resistenza, promette la "fine del fascismo e la libertà del
popolo" e si propose di sradicare il nazionalismo in nome del socialismo. La sua azione si svolse su
tre livelli:
1) Fine nazionalismi
2) Rivoluzione sociale
3) Internazionale comunista
Il primo livello è il miglior risultato di Tito. In quaranta anni crea una società molto mescolata e
tiene sotto controllo (anche con la forza) le spinte nazionalistiche.
Gli altri due livelli sono sostanziali fallimenti: la Jugoslavia non ha garantito né libertà né fine dello
sfruttamento ai suoi cittadini. Nel 1948 l'Urss ruppe definitivamente con il regime di Tito; tutti i
partiti comunisti del mondo si schierarono contro Tito.
Fino alla sua morte lo stato jugoslavo mantenne intatta l'integrità territoriale e politica. Ma con
l'ascesa al potere di Slobodan Milosevic e la fine della guerra fredda molte cose cambiarono. Come
mostra in maniera magistrale il film Underground di Emir Kustorica del 1995 il paese rimase come
congelato per quasi quarant'anni passando - senza mai risolvere i problemi di coesistenza etnica -
dalla guerra mondiale a una drammatica guerra civile.
Tra il 1992 e il 1995 il territorio di Croazia, e soprattutto Bosnia Erzogovina, fu teatro di una guerra
sanguinosa tra gli eserciti e le truppe irregolari.
Come si è arrivati alla fine del conflitto?
La svolta si è avuta con l'intervento degli Stati Uniti. Prima appoggiando (clandestinamente) della
repubblica croata, rifornendo e addestrando l'esercito regolare, poi – nell'ambito di alcune
risoluzioni ONU – bombardando le postazioni di artiglieria con cui l'esercito serbo teneva sotto
assedio le principali cittadine bosniache. Dal punto di vista strategico l'alleanza tra Croazia (che
rinunciò così all'annessione dell'Erzegovina) e Bosnia sancì il ribaltamento degli equilibri sul
campo di battaglia. In poco più di due mesi – da agosto a novembre - la controffensiva delle forze
croato-bosniache e i bombardamenti della Nato indussero Milosevic a firmare gli accordi di pace e
a dare inizio al lungo dopoguerra Jugoslavo.
Protagonisti e altro
 
Solbodan Milosevic – presidente della repubblica di Serbia e Montenegro
Franjo Tudjman – presidente della repubblica di Croazia
Karadic, presidente repubblica serbo-bosniaca, ricercato dal tribunale internazionale dell'Aja
ancora latitante
Mladic / Arkan sono solo alcuni dei più terribili capi militari dell'esercito serbo, responsabili dei più
efferati massacri tra le montagne e le città della Bosnia.
Krajina – territorio croato abitato in maggioranza dai serbi che fu annesso dalla Serbia all'inizio del
conflitto e poi “liberato” nel 1995 durante la fortissima controffensiva dell'estate. Seguì una dura
politica di pulizia etnica a danno dei serbi espulsi dalle loro case, oppure mal tollerati dal nuovo
stato.
Il ponte di Mostar – simbolo dell'unione delle due culture musulmana e croata, il caratteristico e
antico ponte fu cannoneggiato e abbattuto dall'esercito croato durante la guerra tra croati e bosniaci
nel 1993. Oggi è stato ricostruito e riconsegnato alla città, ancora nettamente divisa tra quartieri
cattolici-croati e musulmani-bosniaci.
Appendice
 
Il Kosovo e la guerra della Nato
“Tutto è cominciato e tutto finirà in Kosovo”. Era una profezia che, a quanto pare, si è avverata.
Con la creazione dell'esercito di liberazione UCK l'inensità dello scontro con il potere di Belgrado
fa un salto di qualità: la tipica resistenza passiva delle popolazioni albanesi diventa guerriglia. La
reazione di Milosevic è una repressione militare in stile bosniaco.
Ancora sotto choc per l'insopportabile attendismo mostrato nel corso del conflitto bosniaco, la
comunità internazionale mostra il pugno di ferro, intimando a Milosevic il ritiro delle truppe con
alcune risoluzioni ONU. Dopo il fallimento dei negoziati di pace di Rambouillet (1998-99) MA
SENZA il mandato ONU la Nato procede ad un'azione militare contro le città Jugoslave. Per quasi
tre mesi Belgrado fu bersaglio dei bombardieri americani e britannici. A giugno Milosevic ritirò le
truppe dal Kosovo, concludendo così il tragico decennio dell'ex-jugoslavia. Il Kosovo è passato ad
un'amministrazione ONU anche se formalmente rimane una regione della repubblica di Serbia-
Montenegro.
Slovenia e Macedonia sono riusciti a tenersi fuori dal conflitto, anche se la Macedonia ha un
contingente della UE come forza di interposizione.
La disintegrazione della Jugoslavia
“La cosa che più mi turbava non era la mancanza di sicurezza individuale, il fatto che potessimo,
come qualunque altro abitante di quel paese, morire improvvisamente a causa di una granata o di
una pallottola di un cecchino, ma il fatto di assistere in diretta – e forse contribuire? – al crollo di
tutti i valori difesi dalla nostra civiltà. I diritti dell'uomo non avevano più alcun senso. Potevi
essere ucciso ad un posto di blocco soltanto perché il tuo nome sembrava musulmano. E la cosa
peggiore è che il tipo che ti stava di fronte, quello che ti sparava era tale e quale a voi e a me.”
Jean-Selim Kanaan. La mia guerra all'indifferenza (2002)

L'integrità dello stato jugoslavo, garantito dal governo comunista di Josip Broz Tito, si sbriciola in
modo sconcertante ai primi anni novanta. La morte del grande capo nel 1980 non intaccò il sistema
di potere basato sul dominio del partito unico e dell'esercito ma anche su forme di decentramento
per unità produttive e comunità nazionali. Le varie religioni [1] erano inquadrate in una sostanziale
laicità istituzionale, che riconosceva in modo paritario le varie festività. In particolare la Bosnia-
Erzegovina era la regione dove si era realizzata una vera e propria comunità multietnica, con
tantissimi matrimoni misti e con una visione molto aperta e moderna dell'islam.
Una prima avvisaglia si ha nel 1981, quando la regione del Kosovo (80% di albanesi) vide delle
sommesse di ragazzi che rivendicavano lo status di repubblica all'interno della Federazione. Fino al
1991 la Jugoslavia era uno stato federale di cui facevano parte, da nord a sud: Slovenia – Croazia –
Serbia – BosniaErzegovina – Macedonia. Kosovo e Montenegro erano organi amministrativi
autonomi all'interno della Repubblica di Serbia , la più grande e la più rappresentata negli organi
federali tra le repubbliche.
La sommossa dei giovani kosovari è repressa con facilità. Il crollo avviene dopo la caduta del muro
di Berlino e coincide con l'ascesa di Slobodan Milosevic ai vertici del partito comunista e dello
stato. Le pressioni esterne per un'apertura indiscriminata ai mercati internazionali trova stato e
popolo impreparati e innesca meccanismi centrifughi per cui le province più ricche e legate
all'occidente (Slovenia e Croazia) sostengono una riforma istituzionale che trasformi la federazione
in confederazione.
Quale fu la scintilla?
La guerra civile in Jugoslavia scoppia con la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia
nel 1991. Riconosciute da Germania e Unione Europea i nuovi stati sono aggrediti militarmente
dall'esercito federale jugoslavo, in realtà divenuto esercito della repubblica serba, dando vita ad una
guerra vera e propria. Il conflitto entra in una spirale tragica alimentandosi dei peggiori fantasmi
della storia balcanica: tornano i miti di tutte le precedenti guerre, da quelle medievali a quelle della
seconda guerra mondiale; vengono riscritti i libri di storia; reinventata la lingua: la propaganda
nazionale diventa, insomma, un inno all'odio etnico. L'escalation del fanatismo panslavo induce la
Bosnia a proclamare l'indipendenza (1992). Il 6 aprile dello stesso anno inizia il cannoneggiamento
di Sarajevo e l'assedio della capitale della Repubblica della Bosnia Erzegovina. Ufficialmente la
guerra in Bosnia riguardava i serbo-bosniaci che avevano dichiarato una propria repubblica
indipendente “Republika Srpska”: in realtà si trattava di un tentativo di conquista mano militare del
territorio da parte dell'esercito di Serbia.
Il conflitto che ha disintegrato la federazione jugoslava rappresenta una specie di “buco nero” per la
civiltà europea del dopoguerra. Non c'era infatti un esercito che perseguiva precisi obiettivi
strategici, né – come succedeva in Somalia e Afganistan – bande di irregolari che si spartivano il
controllo del territorio. In Bosnia agivano eserciti pressoché regolari con l'obiettivo di uccidere e far
scappare le popolazioni di etnia rivale, di compiere cioè un genocidio . Tornarono i cetnici e gli
ustascia, tornarono i campi di concentramento, le fosse comuni, le deportazioni e le stragi. E
divenne familiare il pericolo del cecchino: ovvero del militare che, nascosto dietro una finestra,
spara ai civili inermi – meglio se donne e bambini – intenti ad attraversare la strada, fare la spesa,
comprare il pane o riempire bottiglie d'acqua.
Inoltre bisogna aggiungere che la guerra assunse presto una forma di “tutti contro tutti”: Serbia
contro Croazia e Bosnia; ma anche Bosnia contro Croazia poiché all'interno della Bosnia la
minoranza croata aveva rivendicato l'annessione con lo stato-madre. La guerriglia era fatta casa per
casa, villaggio per villaggio, dove ogni esercito che prevaleva provvedeva alla “pulizia etnica”:
bruciava o confiscava le abitazioni, cacciava o uccideva le persone di etnia sbagliata.
Le Nazioni Unite gestivano l'assistenza umanitaria e molti contingenti internazionali agivano sul
territorio per proteggere i progetti di assistenza. L'incapacità dei paesi di trovare una soluzione e di
fare qualcosa segnò una sconfitta storica per la politica dell'Unione Europea. Fu soltanto nel 1995,
dopo 200 mila morti e molti milioni di profughi e rifugiati, che la guerra vide la sua fine con
gli accordi di Dayton (Stati Uniti),
 
 
 
che sancì l'indipendenza di tutte le repubbliche
dell'ex Jugoslavia ma con una ridefinizione dei
confini su basi strettamente etniche. La Bosnia
Erzegovina mantenne la sua integrità.
Le guerre in ex jugoslavia (approfondimento)

La crisi del sistema di Tito

Dopo che il partito iugoslavo era stato espulso dal Cominform (28 giugno 1948), Tito difese
sempre con determinazione l’autonomia della Iugoslavia da Mosca. Per circa trent’anni, il Paese si
trovò in una posizione strana e difficile: in quanto repubblica comunista, era guardato con sospetto
dagli Stati Uniti; nel medesimo tempo, rifiutava di allinearsi, cioè di sottomettersi, alla potenza
sovietica. Questa situazione permise a Tito di cementare l’unità di un Paese diviso e poco
omogeneo. L’insistenza sul marxismo (con il suo motto «Proletari di tutto il mondo unitevi!»)
permetteva di dare scarsa rilevanza alle varie nazionalità presenti sul territorio iugoslavo e che
spesso erano in contrasto tra loro da lungo tempo. In secondo luogo, il pericolo di uno scontro
armato (sia con le potenze capitalistiche sia con l’urss) permetteva di insistere sull’unione, sulla
concordia interna, per la sopravvivenza comune. Tito, che era croato, conosceva bene il
nazionalismo dei serbi: temendolo, prese una serie di misure finalizzate a contenerlo. Innanzi tutto,
la nuova repubblica di Iugoslavia fu costruita su base federale e organizzata in sei repubbliche
(slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, serbia e Montenegro). La Serbia fu
notevolmenteindebolita, quanto a estensione territoriale, in quanto perse la Macedonia (costituita in
repubblica separata) e il Kosovo (dichiarato nel 1974 provincia autonoma). Le cariche pubbliche e
di partito, invece, furono distribuite in modo equo, senza privilegiare alcuna nazionalità. Le
rivendicazioni serbe emersero subito dopo la morte di Tito (1980) e si fecero sempre più acute nel
corso degli anni seguenti. Man mano che la situazione economica, in Iugoslavia come in tutti gli
altri Paesi comunisti, si faceva sempre più critica, in Serbia ripresero vigore le vecchie ambizioni
egemoniche. Nel 1986, ad esempio, un gruppo di intellettuali dell’Accademia delle scienze e delle
arti di Belgrado stese un memorandum nel quale lamentava che per tutto il periodo comunista la
serbia era stata penalizzata: anzi – si diceva – esposta a un «genocidio strisciante». «A nessun
popolo della Iugoslavia – scrivevano gli intellettuali serbi – viene negata in maniera massiccia la
sua identità culturale e spirituale come a quello serbo». Il 28 giugno 1989, il leader nazionalista
serbo Slobodan Miloševic´ annunciò la revoca dell’autonomia del Kosovo. Per reazione, in slovenia
e in Croazia – regioni settentrionali, più sviluppate dal punto di vista industriale – si fece strada
l’idea di una secessione dalle più arretrate repubbliche del sud (serbia, Montenegro, Bosnia,
Macedonia). Il 25 giugno 1991, Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla
federazione iugoslava. Le due regioni, però, erano molto diverse tra loro, in quanto la slovenia era
più omogenea della Croazia sotto il profilo etnico: in pratica, ospitava solo una piccola minoranza
(formata dai pochi italiani che non erano fuggiti nel 1947) entro i propri confini. In Croazia, invece,
si trovavano moltissimi serbi, che furono quasi subito oggetto di discriminazione; costoro quindi
(appoggiati e sostenuti dall’esercito della repubblica di serbia) si organizzarono in formazioni
armate, per ottenere a loro volta l’indipendenza dalla Croazia.

28 GIUGNO: GIORNO DI SAN VITO La storia della Serbia e delle regioni circostanti ha una
propria peculiarità: un numero elevatissimo di eventi molto importanti si verificono il 28 giugno
(San Vito). Non si tratta di coincidenze, ma di scelte precise. Poiché la disfatta subita nel 1389, in
Kosovo, a opera dei turchi, alla fine dell’Ottocento fu scelta dai nazionalisti serbi come evento
simbolico negativo, di cui cancellare le conseguenze, ogni volta che vollero lanciare un messaggio
politico forte alla nazione, i leader serbi scelsero il 28 giugno, sicuri del fatto che avrebbero
suscitato una formidabile ondata di emozione.
NEL GIORNO DI SAN VITO
1389 Sconfitta serba a Kosovopolje, per opera dei turchi
1914 Assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo
1948 Espulsione del PC iugoslavo dal Cominform: rottura tra Tito e Stalin
1989 Revoca del l’autonomia del Kosovo da parte del leader serbo Slobodan Miloševi

La guerra tra serbi, croati e musulmani bosniaci

La guerra serbo-croata esplose ben presto in tutta la sua violenza. A livello internazionale, l’unione
Europea si mostrò debole e priva di una comune strategia d’azione; ciò la rese del tutto incapace di
impedire lo scoppio di un gravissimo conflitto nel cuore del continente, mentre in Iugoslavia, con il
passar del tempo, le violenze si fecero sempre più acute. Poiché il lungo regime di Tito aveva
facilitato in ogni modo gli intrecci, i matrimoni misti e la mescolanza tra i diversi gruppi, in tutte le
regioni della Iugoslava le etnie erano ormai mescolate in maniera inestricabile. scoppiata la guerra,
da entrambe le parti si fece allora ricorso in modo feroce e sistematico alla pulizia etnica. Al fine di
rendere una regione del tutto omogenea sotto il profilo nazionale, si procedette all’eliminazione
fisica o all’espulsione con la violenza di tutte le minoranze (seguendo una procedura simile a quella
adottata dai serbi in Kosovo, nel 1912, e dagli ustascia croati negli anni 1941-1945). Nel 1992, il
conflitto si estese anche alla Bosnia-Erzegovina, la regione che – proprio al centro del Paese – era
caratterizzata dalla maggiore varietà etnica, complicata per di più dalla presenza dei musulmani
(slavi convertitisi all’islam, al tempo della dominazione turca). Intorno a sarajevo e nel resto della
Bosnia, infuriò una lotta brutale tra serbi, croati e musulmani, mentre l’intervento delle Nazioni
unite non sortì nessun effetto moderatore. Pertanto, un compromesso capace di porre fine (almeno
temporaneamente) alla guerra di Bosnia fu raggiunto solo dopo tre anni di violenze, IPErTEsTo
2UNITÀ XIV IL TEMPO DEL DISORDINE F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 28 GIUGNO:
GIORNO DI SAN VITO La storia della Serbia e delle regioni circostanti ha una propria peculiarità:
un numero elevatissimo di eventi molto importanti si verificono il 28 giugno (San Vito). Non si
tratta di coincidenze, ma di scelte precise. Poiché la disfatta subita nel 1389, in Kosovo, a opera dei
turchi, alla fine dell’Ottocento fu scelta dai nazionalisti serbi come evento simbolico negativo, di
cui cancellare le conseguenze, ogni volta che vollero lanciare un messaggio politico forte alla
nazione, i leader serbi scelsero il 28 giugno, sicuri del fatto che avrebbero suscitato una formidabile
ondata di emozione. NEL GIORNO DI SAN VITO Data Evento 1389 Sconfitta serba a
Kosovopolje, per opera dei turchi 1914 Assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo a
Sarajevo 1948 Espulsione del PC iugoslavo dal Cominform: rottura tra Tito e Stalin 1989 Revoca
del l’autonomia del Kosovo da parte del leader serbo Slobodan Miloševi Riferimento storiografico
pag. 5 1 ➔Debolezza della Unione Europea Riferimento storiografico pag. 7 2 IPErTEsTo nel
dicembre 1995. L’accordo fu firmato a Dayton, negli stati uniti: prevedeva uno smembramento di
fatto della Bosnia in due stati distinti, uno serbo e uno croatomusulmano. È difficile fare un bilancio
delle vittime della serie di guerre che hanno devastato la ex Iugoslavia negli anni Novanta: il più
lungo e sanguinoso conflitto europeo del Novecento, escluse le guerre mondiali. solamente in
Bosnia, l’insieme delle violenze ha provocato più di 250 000 morti. L’episodio più feroce (il più
grande massacro di civili in Europa, dopo il 1945) si verificò a srebrenica, tra il 13 e il 15 luglio
1995, allorché le milizie serbe uccisero circa 7000 musulmani bosniaci, mentre le truppe dell’oNu
(soldati olandesi) presenti nei dintorni scelsero di non intervenire. rispetto ad altre guerre, in Bosnia
assunse dimensioni e caratteristiche estreme la violenza nei confronti delle donne del nemico.
Innanzi tutto, lo stupro fu praticato in maniera sistematica, cioè fu ordinato e diretto dall’alto, e non
solo tollerato dalle autorità militari (come invece avvenne in Germania, dove gli ufficiali russi
facevano finta di non vedere). La violenza di massa sulle donne venne organizzata e pianificata
soprattutto dai serbi e, in Bosnia, fu parte integrante di una precisa strategia di occupazione del
territorio. In primo luogo, serviva a diffondere il panico: il timore della violenza estrema spingeva
gli abitanti di interi villaggi a fuggire terrorizzati, realizzando la pulizia etnica desiderata dai serbi.
Violentare chi restava significava, invece, conquistare a pieno titolo il territorio, umiliare il nemico
in quanto aveva di più caro e prezioso, mostrando chi deteneva a tutti gli effetti il potere. Lo stupro
di massa, pertanto, spesso andava di pari passo con la distruzione dei cimiteri, dei monumenti e più
in generale del patrimonio culturale del nemico, trattato come spazzatura da incenerire e cancellare.
secondo una commissione dell’unione Europea, le donne bosniache violentate sono state circa 20
000, ma le stime del governo bosniaco parlano di 50 000, in quanto moltissime di loro non hanno
trovato il coraggio di testimoniare e di denunciare pubblicamente le violenze subite.

La guerra del Kosovo

Nel 1998, il presidente serbo Miloševic´ decise di procedere alla pulizia etnica del Kosovo. Per lui e
per tutti gli altri nazionalisti serbi, gli albanesi residenti in questa terra erano usurpatori che
occupavano abusivamente una terra sacra, considerata la vera culla della cultura serba. Per tutto il
1998, gli albanesi furono oggetto di violenze simili a quelle subite dai musulmani di Bosnia: almeno
300 villaggi furono distrutti, mentre circa 250 000 profughi furono costretti ad abbandonare le loro
case. Il 20 marzo 1999, l’esercito serbo intensificò la propria attività, con l’obiettivo di costringere
tutti i kosovari albanesi a fuggire in direzione della Macedonia e dell’Albania. una politica così
brutale e violenta spinse all’azione gli Stati Uniti e i Paesi aderenti alla NATo. A partire dal 24
marzo, Belgrado e le altre città della Serbia furono oggetto di violenti bombardamenti. In un primo
tempo, queste azioni non ottennero nessun risultato: anzi, i militari serbi si fecero ancora più
spietati, uccidendo 100 000 persone e spingendone oltre frontiera almeno 600 000. I
bombardamenti si fecero allora sempre più intensi, al punto che la serbia rischiò di trasformarsi in
una terra priva di qualsiasi infrastruttura moderna (centrali elettriche, ponti, ferrovie, industrie,
stazioni televisive ecc.). Infine, Miloševic´ accettò di interrompere le violenze e di ritirare le truppe
serbe dal Kosovo, che venne presidiato da truppe della NATo. L’intervento americano in Kosovo ha
suscitato una violenta discussione e, per vari motivi, ha costituito un’importante novità storica. Tutti
coloro che erano contrari all’attacco rilevarono che esso era, dal punto di vista del diritto
internazione, un atto di aggressione, nel momento in cui l’organizzazione delle Nazioni unite non
aveva emesso alcuna richiesta di intervento militare, paragonabile alle risoluzioni che avevano dato
una patina di legittimità alla guerra di Corea (1950) e alla prima guerra del Golfo (nel 1991, dopo
l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq). sul versante opposto, si fece notare che l’autorizzazione
oNu era tecnicamente impossibile, in quanto il Kosovo figurava come una regione che, a tutti gli
effetti, era sotto la sovranità serba; le violenze contro i kosovari albanesi, a rigor di termini, erano
una faccenda puramente interna alla Serbia, una questione sulla quale la comunità internazionale
non aveva alcuna competenza. Proprio questo argomento, però, era stato a suo tempo avanzato in
modo ipocrita per chiudere gli occhi di fronte a quanto era accaduto in urss contro i kulaki e in
Germania contro gli ebrei: anzi, si può dire che l’insistenza sulle competenze ben delimitate
dell’oNu fosse stata difesa a oltranza da stalin, al momento della nascita dell’organizzazione. Poiché
la gravità di quanto accadeva in Kosovo era lampante ed evidente – dicevano i sostenitori
dell’attacco alla serbia –, occorreva superare l’approccio tradizionale e introdurre un nuovo
principio, quello dell’intervento militare a scopo umanitario, in regioni i cui governi violassero in
modo clamoroso i diritti umani. A distanza di anni, la questione è tutt’altro che risolta, in quanto i
rischi che si corrono accogliendo il nuovo principio sono diversi e pericolosi: mentre l’oNu si
troverebbe sempre più emarginata, perdendo qualsiasi potere decisionale, questo passerebbe a forze
che potrebbero calpestare la sovranità di qualsiasi soggetto, usando l’intervento umanitario come
pretesto. Nell’autunno 2000 Miloševic´ fu costretto ad abbandonare il potere in Serbia. Arrestato, fu
condotto di fronte al Tribunale internazionale dell’Aja, incaricato di processarlo per crimini contro
l’umanità, ma nel 2005 è morto in carcere. sicuramente, Milošević va considerato come il principale
responsabile delle violenze verificatesi nella ex Iugoslavia. Il veleno del nazionalismo, però, è
tutt’altro che spento: Bosnia e Kosovo (che ha proclamato la propria indipendenza nel marzo 2008)
restano terre dell’odio, vere polveriere pronte a esplodere di nuovo.
DALLA GUERRA DEL GOLFO ALL’11 SETTEMBRE
 In seguito alla definitiva crisi del sistema comunista tra il 1989 e il 1991, gli Stati Uniti rimasero, di
fatto, l’unica superpotenza mondiale. George H. W. Bush, repubblicano, eletto presidente nel 1988,
lanciò contro Panamá, nel dicembre dell'anno successivo, la più vasta offensiva militare dai tempi
del Vietnam; rivolta a rovesciare e catturare il dittatore Manuel Antonio Noriega, considerato uno
dei maggiori narcotrafficanti centroamericani, l’operazione causò anche la morte di diverse migliaia
di civili. 
    Nel 1991, in seguito all’invasione irachena del Kuwait, gli Stati Uniti si posero alla guida di
un’ampia coalizione internazionale lanciando l’operazione nominata “Desert Storm” (“Tempesta
nel deserto”): era cominciata la Guerra del Golfo. In politica interna, George Bush si ritrovò ad
affrontare una grave recessione e un grosso debito federale; gli ulteriori tagli apportati
dall’amministrazione alla spesa sociale crearono tra le classi più povere un clima di esasperazione e
nell’aprile del 1992, in seguito a un episodio di razzismo di cui fu protagonista una pattuglia della
polizia, nei sobborghi di Los Angeles scoppiò una delle rivolte più violente della storia statunitense,
provocando in pochi giorni una sessantina di morti, centinaia di feriti ed estese distruzioni.
    Dopo il lungo periodo di predominio repubblicano, i democratici si aggiudicarono le elezioni
presidenziali del novembre 1992 con Bill Clinton. Questi, che fu favorito nella corsa alla Casa
Bianca dalla partecipazione alle elezioni di un terzo candidato di area conservatrice, Ross Perot,
riuscì tuttavia ad affermarsi soprattutto recuperando gli elettori che avevano abbandonato il Partito
democratico durante l’era Reagan. 
    Clinton perseguì una politica di riforme che affrontasse sia la situazione economica del paese,
investito da una forte recessione, sia la critica situazione sociale, onde impedire il ripetersi di
rivolte. Clinton cercò anche di attuare una vasta riforma del sistema sanitario e assistenziale
(affidandone lo studio a una commissione guidata dalla moglie Hillary), ma il progetto venne
tenacemente avversato dai repubblicani e dalle grandi compagnie private di assicurazione.
    In politica estera, Clinton confermò il sostegno al presidente russo Boris Eltsin e sostenne
energicamente le trattative di pace tra israeliani e palestinesi, culminate nello storico incontro di
Washington tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat (settembre 1993). Gli Stati Uniti ebbero un ruolo
importante nella risoluzione della crisi bosniaca e lo sforzo della loro diplomazia condusse agli
accordi di Dayton (1995).
     Alle elezioni di medio termine del 1994 il Partito
democratico subì una cocente sconfitta e i repubblicani
conquistarono la maggioranza in entrambe le camere del
Congresso. La situazione del paese, migliorata
sensibilmente dal punto di vista economico e
occupazionale, presentava però gravi problemi legati alla
povertà (soprattutto tra le comunità nere e ispano-
americane) e alla sicurezza. Il paese conobbe anche
l’intensificarsi di un fenomeno settario bianco,
antigovernativo e razzista, e dopo il tragico episodio
consumatosi a Waco nel 1993 (costato la vita a un'ottantina
di aderenti a una setta estremista), nel 1995 un devastante
attentato dinamitardo realizzato a Oklahoma City da un gruppo di “suprematisti” bianchi provocò
186 morti e centinaia di feriti.
    Nel 1996 furono riconfermate sia la presidenza democratica sia la maggioranza repubblicana nel
Congresso. Il secondo mandato di Clinton si caratterizzò per un ulteriore miglioramento
dell’economia e dell’occupazione, ma anche per un forte deterioramento della situazione sociale. A
monopolizzare tuttavia la scena politica nazionale fu per lungo tempo il “Sexgate” (o “caso
Lewinsky”, dal nome della stagista della Casa Bianca che agli inizi del 1998 aveva rivelato la sua
relazione con il presidente Clinton). Sottoposto a un’inchiesta meticolosissima da parte del
procuratore Kenneth Starr e in seguito accusato di falsa testimonianza e di intralcio alla giustizia,
Clinton fu oggetto di un’ossessiva e morbosa campagna politico-giuridico-mediatica. L’offensiva
nei confronti della Casa Bianca non ebbe tuttavia gli effetti sperati dai repubblicani, che, penalizzati
nelle elezioni di “medio termine” (1998), si videro in seguito bocciare la richiesta di impeachment a
carico di Clinton.
    In politica estera, Clinton si sforzò di rafforzare il ruolo internazionale degli Stati Uniti.
Confermata la sua ostilità a Cuba e alla Libia, il presidente americano si lanciò in un’energica
campagna contro il fondamentalismo islamico che lasciò molto freddi i suoi tradizionali alleati arabi
come l’Arabia Saudita o la Giordania; questi due paesi si unirono infatti alla protesta araba quando
gli Stati Uniti minacciarono un nuovo massiccio intervento militare in Iraq alla fine del 1998 (poi
scongiurato grazie al successo della missione diplomatica del segretario delle Nazioni Unite Kofi
Annan).
    In seguito ai drammatici sviluppi del conflitto in atto tra serbi e albanesi in Kosovo, nel febbraio
del 1999 gli Stati Uniti presero parte, con gli altri paesi del gruppo di contatto (Russia, Francia,
Germania, Gran Bretagna e Italia), ai negoziati di Rambouillet, rivolti a raggiungere un accordo che
garantisse l’autonomia della provincia serba e la sicurezza della popolazione di etnia albanese e che
scongiurasse il precipitare della crisi. Dopo il fallimento dei negoziati, l’amministrazione
statunitense fu la più risoluta nel sostenere l’intervento armato dell’“Allied Force” (Forza Alleata),
una coalizione formata da alcuni paesi della NATO, tra cui l’Italia: tra gli effetti collaterali del
conflitto vi fu un deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti, Russia e Cina.
    Nel corso degli ultimi due anni della presidenza Clinton l’economia del paese, grazie soprattutto
al settore delle telecomunicazioni e ai sorprendenti sviluppi delle attività legate alla cosiddetta “new
economy”, registrò un’ulteriore crescita (nel maggio 1999 l’indice Dow Jones, triplicato sotto la
presidenza Clinton, superò per la prima volta 11.000 punti). I profondi sconvolgimenti avvenuti
nell’economia e nella società statunitense e la sempre più ineguale distribuzione della ricchezza
favorirono anche la diffusione del malcontento e la comparsa di un forte movimento di critica alla
globalizzazione, che, nato all’interno dei movimenti della sinistra radicale ed ecologista, si estese
presso altri settori della società statunitense e nel mondo del lavoro; nella primavera del 2000, tra i
protagonisti della clamorosa protesta contro il vertice di Seattle dell’Organizzazione mondiale per il
commercio (WTO), vi furono infatti i sindacati e centinaia di organizzazioni operanti nei più diversi
ambiti sociali. 
    A contrassegnare l’ultima fase della presidenza di Clinton, fu anche l’affermarsi, sulla scena
politica internazionale e in diretta contrapposizione con gli Stati Uniti, del terrorismo di matrice
islamica. Nel 1998 le ambasciate statunitensi di Kenya e Tanzania vennero colpite da due gravi
attentati. Clinton rispose con un nutrito lancio di missili contro il Sudan e l’Afghanistan, diventati,
nel corso degli anni Novanta, i principali santuari della galassia radicale islamica e in particolare dei
gruppi legati all’organizzazione Al Qaeda di Osama Bin Laden. Durante il suo secondo mandato,
Clinton provò anche a rilanciare il processo di pace in Palestina, ma il suo tentativo si arenò contro
l’intransigenza delle leadership israeliana e palestinese.

Primi passi della Presidenza Bush


La campagna elettorale per la presidenza, che oppose nel novembre 2000 il vicepresidente Al Gore,
candidato dei democratici, a George W. Bush, si concluse con la vittoria di quest’ultimo. Decisiva ai
fini del risultato finale fu la candidatura di Ralph Nader, popolare difensore dei diritti civili, che
sottrasse al democratico Gore una parte dell’elettorato, sebbene modesta (2,6%).
    Quelle del 2000 furono tra le elezioni più incerte e combattute della storia degli Stati Uniti, non
solo per l’insolita lunghezza della campagna elettorale – durata praticamente tutto l’anno – e per la
sua asprezza, ma anche per la confusione che caratterizzò la fase conclusiva. Molte inchieste
contestarono la validità del voto, furono tutte respinte dalla Corte Suprema. Bush fu eletto
presidente, ma, va ricordato, al suo esordio si vide accolto, durante la tradizionale "passeggiata" dei
neo eletti verso la casa bianca, da decine di migliaia di manifestanti che, a suon di uova, costrinsero
il corteo ad accelerare.
    Nei primi “cento giorni” – che nel sistema politico statunitense rappresentano un importante
segnale dell'indirizzo che la nuova amministrazione intende seguire – il presidente Bush prese
decisioni significative circa molte questioni anticipate durante la campagna elettorale: lotta
all'aborto, alleggerimento della pressione fiscale, tagli ai finanziamenti dei settori assistenziale,
previdenziale e scolastico. Dopo timidi segnali di ripresa economica, a partire dalla primavera 2001
l’industria statunitense iniziò a perdere colpi; le maggiori perdite si ebbero nel settore della New
economy, con la chiusura di centinaia di imprese.
    In politica internazionale le prime iniziative della nuova amministrazione indicarono un netto
cambiamento di rotta e una ridefinizione degli obiettivi strategici americani. Annunciata dallo
sblocco della vendita di armi a Taiwan e da due aspri scontri diplomatici con Mosca e Pechino, la
strategia statunitense si delineò ulteriormente con la rimessa in discussione di una serie di
importanti trattati internazionali – sull’ambiente, sulle armi batteriologiche, sulle armi leggere, sulle
mine antiuomo – in attesa di ratifica. Il nuovo vento “unilateralista” si manifestò anche con la
diminuzione dell’impegno nei confronti di alcune questioni internazionali (ad esempio il conflitto
nei Balcani e in Medio Oriente), costantemente nell’agenda della passata amministrazione. Bush
rilanciò inoltre il progetto del cosiddetto “Scudo spaziale” – la National Missile Defense, Difesa
missilistica nazionale – già caro al presidente Reagan, incontrando la ferma opposizione della Cina
e della Russia ma anche la perplessità dei paesi dell’Unione Europea, preoccupati di una pericolosa
corsa al riarmo.

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