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William Gibson

MONNA LISA CYBERPUNK

Traduzione di Marco Pensante.


Copyright 1988 William Gibson.
Titolo originale dell'opera: "Mona Lisa Overdrive".
Copyright 1991 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano.
Prima edizione Altri mondi febbraio 1991.
Prima edizione IperFICTION Interno Giallo maggio1994.
Primaedizione Oscar Bestsellers marzo 1995.
Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.
1. Fumosa.

Il fantasma era un dono d'addio di suo padre, portatole da un segretario


vestito di nero nella sala delle partenze di Narita. Durante le prime due ore
di volo verso Londra, restò come dimenticato nella sua borsa. Era un
oggetto liscio e scuro di forma allungata, un lato portava impresso
l'onnipresente logo della Maas-Neotek, l'altro, invece, era curvo, per
adattarsi al palmo della mano.
Sedeva ben dritta nella sua poltrona di prima classe, i lineamenti
composti in una maschera modellata sul volto della madre morta. I sedili
intorno a lei erano vuoti; suo padre aveva comprato gli altri posti. Rifiutò il
pranzo offertole da uno steward nervoso. I sedili vuoti lo impaurivano:
erano la dimostrazione della ricchezza e del potere di suo padre. L'uomo
esitò, poi si ritirò con un inchino. Per un attimo ella permise che, sulla
maschera di sua madre, comparisse un sorriso.
Pensò poi ai fantasmi che, da qualche parte nel cielo della Germania,
osservavano il rivestimento delle poltrone che le stavano accanto. Come
trattava bene i suoi fantasmi, suo padre.
C'erano fantasmi anche al di là del finestrino, fantasmi nella stratosfera,
immagini vaghe che cominciavano a prendere forma non appena lei
lasciava vagare lo sguardo. Sua madre a Ueno Park, con quel suo volto
fragile nel sole autunnale. "Le gru, Kumi! Guarda le gru!" E Kumiko
guardava oltre il laghetto di Shinobazu senza vedere niente, perché non
c'erano gru, solo puntini neri saltellanti, sicuramente dei corvi. L'acqua
color piombo sembrava liscia come la seta, e pallidi ologrammi indistinti
ondeggiavano sul profilo lontano delle postazioni di tiro con l'arco. Ma
Kumiko avrebbe visto molte volte le gru, dopo, in sogno; erano origami,
oggetti geometrici ricavati da fogli di neon piegati, uccelli candidi e rigidi
che volavano alti sul paesaggio lunare della follia di sua madre...
Ricordava il padre, con la vestaglia nera aperta su uno stormo di draghi
tatuati, sprofondato in poltrona dietro la grande scrivania d'ebano; i suoi
occhi erano chiari e inespressivi, come quelli di una bambola dipinta. «Tua
madre è morta. Capisci?» Intorno a lei i piani delle ombre nello studio,
l'oscurità geometrica. Lui allungava il braccio, nel cerchio di luce della
lampada, tremando, l'indice puntato verso di lei, mentre la manica scivolava
indietro, scoprendo il Rolex d'oro e altri draghi con la criniera ondeggiante
avvinghiati al polso. Tendeva l'indice verso di lei. «Capisci?» Lei non aveva
risposto, era corsa via a nascondersi in un posto che solo lei conosceva, il
labirinto della più piccola delle macchine pulitrici. Ticchettarono intorno a
lei tutta la notte, illuminandola a intervalli regolari con i laser rosa, finché
suo padre la trovò e, profumato di whisky e sigarette Dunhill, la prese in
braccio per portarla nella sua stanza. Ricordava le settimane che seguirono,
le giornate opache passate più che altro in compagnia di questo o quel
segretario, uomini cauti dal sorriso automatico, dall'ombrello accuratamente
piegato. Uno di questi, il più giovane e meno cauto, le aveva dato una
dimostrazione improvvisata di "kendo" in mezzo al marciapiede affollato
nel centro di Ghinza, sotto l'orologio di Hattori. Maneggiava abilmente
l'ombrello nero, sotto gli occhi stupiti delle commesse e dei turisti. E
Kumiko aveva sorriso, spezzando con il suo stesso sorriso, la maschera
funebre; per questo, il senso di colpa scavò ancora più profondamente e
dolorosamente nel cuore, fino in fondo, dove solo lei conosceva la sua
vergogna e la sua indegnità. Ma il più delle volte i segretari la portavano a
fare spese, facendole visitare, uno dopo l'altro, tutti i grandi magazzini di
Ghinza e le decine di boutiques di Shinjuku raccomandate da una guida
Michelin scritta in giapponese turistico. Acquistava solo cose molto brutte,
brutte e molto costose, e i segretari, stolidamente, camminavano accanto a
lei, portando le borse di carta patinata. Al ritorno a casa le borse venivano
poggiate con ordine in camera da letto dove restavano, intatte, finché le
cameriere non le rimuovevano.
Dopo sei settimane, alla vigilia del suo tredicesimo compleanno, fu
deciso che Kumiko andasse a Londra.
"Sarai ospite a casa del mio 'kobun'" aveva detto suo padre.
"Ma io non voglio andarci" aveva detto lei, mostrandogli lo stesso sorriso
di sua madre.
"Devi, invece" aveva detto suo padre, voltandosi. "Ci sono alcune
difficoltà" aveva aggiunto rivolto alla penombra dello studio. "A Londra
non correrai nessun pericolo."
"E quando potrò tornare?"
Ma suo padre non le aveva risposto. Kumiko gli aveva rivolto un inchino
ed era uscita dallo studio, ancora col sorriso di sua madre sulle labbra.
Il fantasma si risvegliò al tocco di Kumiko, mentre l'aereo iniziava la
manovra di atterraggio a Heathrow. La cinquantunesima generazione dei
biochip Maas-Neotek aveva prodotto un'immagine indistinta sulla poltrona
accanto a lei, un ragazzo uscito da una sbiadita stampa di caccia, seduto con
le gambe incrociate. Portava calzoni beige e stivali da equitazione.
«Ciao» disse il fantasma.
Kumiko chiuse gli occhi e aprì la mano. Il ragazzo fluttuò e scomparve.
Lei guardò l'oggetto liscio che teneva nel palmo e chiuse lentamente le dita.
«Ciao di nuovo. Mi chiamo Colin. E tu?»
Lo osservò. Aveva occhi grigi e luminosi, l'alta fronte pallida sotto un
ciuffo ribelle di capelli scuri. Intravedeva la fila dei sedili attraverso il
luccicare dei suoi denti.
«Se la cosa ti sembra troppo spettrale» disse sorridendo «si può
aumentare la risonanza.»
E per un istante restò lì, sgradevolmente reale, mentre il pelo sul risvolto
del suo cappotto ondeggiava, reale come un'allucinazione. «Però si scarica
la batteria» disse, ritornando all'aspetto di prima. «Non ho capito come ti
chiami.» Di nuovo quel sorriso.
«Tu non sei reale» disse lei, in tono severo.
Lui alzò le spalle. «Non c'è bisogno di parlare così forte, signorina. Gli
altri passeggeri potrebbero pensare che sei un po' picchiata. Parla sottovoce.
Percepisco tutto attraverso la pelle...» Allungò le gambe e si stiracchiò,
tenendo le mani intrecciate dietro la testa. «La cintura di sicurezza,
signorina. Io non ne ho bisogno, naturalmente, essendo, come hai
giustamente notato, irreale.»
Kumiko, seccata, gettò l'unità addosso al fantasma, che scomparve.
Allacciò la cintura, diede un'occhiata all'oggetto, esitò, poi lo riprese in
mano.
«Allora, è la prima volta che vieni a Londra?» domandò lui,
ricomparendo in un vortice. Lei annuì, senza volerlo. «Com'è volare? Non
hai paura?»
Kumiko annuì di nuovo, sentendosi ridicola.
«Non preoccuparti, baderò io a te. Fra tre minuti saremo a Heathrow.
Viene qualcuno a prenderti?»
«Il socio in affari di mio padre» disse lei, in giapponese.
Il fantasma sorrise. «Allora sei in buone mani, ne sono sicuro.» Le fece
l'occhiolino. «A vedermi non si direbbe che conosco le lingue, vero?»
Kumiko chiuse gli occhi e il fantasma cominciò a sussurrarle qualcosa
sull'archeologia di Heathrow, sul Neolitico, l'Età del Ferro, le ceramiche, gli
utensili...
«Signorina Yanaka? Kumiko Yanaka?» L'inglese incombeva su di lei con
la sua statura; la sua mole di "gaijin", intabarrata in un abito grigio, lo
rendeva simile a un elefante. Occhietti scuri la guardavano affabilmente
dietro le lenti cerchiate di metallo. Il suo naso sembrava essere stato
schiacciato e poi lasciato così com'era diventato. I capelli, quelli che
restavano, erano rasati e sembravano stoppa grigia, e i guanti di maglia che
portava erano consumati e senza dita.
«Mi chiamo Petal, signorina» disse, come per rassicurarla.
Petal chiamava la città "Fumosa".
Kumiko rabbrividì sedendosi sul cuoio freddo e rossiccio; osservava
attraverso i finestrini dell'antiquata Jaguar la neve che turbinava
sciogliendosi sulla strada che Petal chiamava M4. Il cielo della sera era
incolore. Lui guidava, abile, silenzioso, con le labbra increspate come se
stesse fischiettando. Il traffico, ai suoi occhi di cittadina di Tokyo, era
assurdamente leggero. Accelerarono sorpassando un camion Eurotrans
privo di autista col frontale costellato di sensori e fanali. Malgrado la
velocità della Jaguar, a Kumiko sembrava quasi di essere ferma; particelle
di Londra iniziarono ad aggregarsi intorno a lei. Muri di mattoni, archi di
cemento, lance in ferro dipinto di nero dritte in fila una dopo l'altra. Mentre
la osservava, la città iniziava a definirsi. Una volta abbandonata la M4,
quando la Jaguar si fermava agli incroci, Kumiko coglieva dei visi
attraverso la neve, visi di "gaijin" arrossati sopra gli abiti scuri; menti
affondati nelle sciarpe, ticchettio di tacchi femminili fra una pozzanghera e
l'altra. Le file di case e di negozi le facevano venire in mente gli accessori
meravigliosamente dettagliati che completavano un plastico ferroviario nel
negozio di un antiquario di Osaka.
Non era come a Tokyo, dove il passato, quel poco rimasto, era conservato
con cura maniacale. Là, la storia era diventata una cosa rara, catalogata
dall'amministrazione, protetta dalla legge e dalle sovvenzioni. Qui, invece,
la storia costituiva il tessuto stesso delle cose, come se la città fosse stata
una concrezione di pietra e mattoni fatta di strati innumerevoli di messaggi
e significati, generata nel corso dei secoli per obbedire alle leggi di un
D.N.A. del commercio e dell'imperialismo ormai divenuto illeggibile.
«Mi spiace che Swain non sia potuto venire» disse Petal. Kumiko aveva
meno difficoltà a capire il suo accento che la sua sintassi; sulle prime aveva
scambiato la sua frase di scuse per una domanda. Pensò di chiamare il
fantasma, poi cambiò idea.
«Swain» disse lei. «Il signor Swain è il mio ospite?»
Gli occhi di Petal la osservarono nello specchietto.
«Roger Swain. Suo padre non gliel'ha detto?»
«No.»
«Ah.» Petal fece un cenno col capo. «Il signor Canaka è molto scrupoloso
in fatto di sicurezza in queste faccende, si capisce... Un uomo nella sua
posizione e così via...» Sospirò. «Mi spiace per il riscaldamento. Pensavo
che al garage avessero dato un'occhiata...» «Lei è uno dei segretari del
signor Swain?» domandò, rivolgendosi alle pieghe del collo sopra il colletto
del cappotto scuro.
«Un segretario?» Sembrò riflettere. «No. Non lo sono.» Svoltarono a una
rotonda, oltrepassando tettoie metalliche e l'ondata serale di folla.
«Lei ha già cenato? Le hanno dato qualcosa da mangiare durante il
volo?»
«Non avevo fame.» Era conscia della maschera di sua madre.
«Bene, le offrirà qualcosa Swain. Mangia un sacco di cibi giapponesi,
Swain.» Fece uno strano schiocco con la lingua. Si voltò a guardarla. Lei
guardava oltre, guardava il bacio dei fiocchi di neve, il movimento dei
tergicristalli che li cancellava dal vetro.
La residenza di Swain a Notting Hill consisteva di tre case vittoriane
collegate fra loro, situate da qualche parte in un dedalo nevoso di piazze,
vialetti e abitazioni ricavate da scuderie. Petal, con due valigie di Kumiko in
ciascuna mano, le spiegava che il numero 17 era l'entrata principale anche
del numero 16 e del numero 18.
«Inutile bussare là» disse, gesticolando goffamente, mentre teneva ancora
in mano le pesanti valigie e indicava la porta del numero 16, lucida di
vernice rossa e ottoni. «Non c'è niente, là dietro, solo mezzo metro di
cemento armato.»
Kumiko guardò le facciate quasi tutte uguali lungo il vialetto, che
arretravano seguendone la leggera curva. La neve stava cadendo più fitta, e
il cielo monotono era illuminato dalla luce rosa dei lampioni al sodio. La
via era deserta, e la neve fresca, immacolata. L'aria fredda aveva un sapore
straniero, un sentore impercettibile di bruciato, di combustibili di una volta.
Le scarpe di Petal lasciavano grandi impronte nette; erano di tipo oxford e
avevano la punta stretta e spesse suole di plastica rossa. Lei lo seguiva
passo passo, e, iniziando a rabbrividire, salirono i gradini del numero 17.
«Sono io» disse lui; poi sospirò, posò le quattro valigie, si tolse il mezzo
guanto dalla mano destra e premette il palmo su una tonda forma d'acciaio
inserita nel pannello della porta. A Kumiko sembrò di udire un debole
suono, un ronzio che divenne sempre più forte prima di cessare; la porta
vibrò per i colpi attutiti della serratura magnetica che si apriva.
«Prima l'ha chiamata Fumosa» disse lei, abbassando la maniglia d'ottone
«la città...»
«Fumosa, sì» rispose Petal, aprendo la porta ed entrando in un tepore
luminoso. «E' un vecchio modo di dire, una specie di soprannome.» Prese le
valigie. I passi risuonarono felpati sulla moquette blu dell'atrio con le pareti
rivestite di pannelli di legno bianco. Lei lo seguì, mentre la porta si
richiudeva automaticamente. Una stampa era appesa sul rivestimento
bianco, e raffigurava cavalli nella campagna e persone vestite di rosso.
"Forse è lì che vive Colin il fantasma" pensò lei. Petal aveva di nuovo
posato le valigie. Sulla moquette era caduta un po' di neve pressata. Aprì
un'altra porta, rivelando una gabbia d'acciaio dorato. Spostò rumorosamente
le sbarre da una parte. Lei guardò dentro la gabbia, perplessa.
«L'ascensore» disse lui «Non c'è spazio per i bagagli. Farò un altro
viaggio.»
Nonostante l'età, si mosse abbastanza silenziosamente quando Petal
spinse uno dei pulsanti di porcellana. Kumiko fu costretta a stargli molto
vicina; aveva un odore di lana bagnata e dopobarba floreale. «L'abbiamo
sistemata qui in alto» disse, precedendola lungo uno stretto corridoio
«perché abbiamo pensato che avrebbe preferito stare tranquilla.» Aprì una
porta e le fece cenno di entrare. «Spero che vada bene...» Si tolse gli
occhiali e li pulì energicamente. «Vado a prenderle le valigie.»
Non appena se ne fu andato, Kumiko girò lentamente intorno alla grande
vasca da bagno di marmo nero che dominava il centro della stanza bassa e
ingombra. I muri, obliqui verso il soffitto, erano rivestiti di specchi dorati
pieni di macchie. Ai lati del letto più grande che avesse mai visto c'erano
due minuscoli abbaini. Sopra il letto, nello specchio, erano inserite
lampadine orientabili, simili alle lampade per leggere sugli aerei.
Si fermò accanto alla vasca per toccare il collo ricurvo del cigno dorato
da cui usciva l'acqua; le ali aperte facevano da rubinetti. L'aria nella stanza
era tiepida, immobile, e per un istante sembrò aleggiarvi la presenza di sua
madre, come una nebbia pungente.
Petal, all'entrata, si schiarì la voce. «Bene» disse, affaccendandosi con le
valigie «tutto a posto? Fame? No? La lascio a sistemare le sue cose...» Posò
le valigie accanto al letto. «Quando avrà voglia di mangiare, suoni pure.»
Petal indicò un vecchio telefono tutto decorato, con il ricevitore e il
microfono d'avorio ornati di volute d'ottone. «Basta alzare la cornetta, non
c'è bisogno di comporre il numero. Potrà far colazione quando vorrà.
Chieda pure, le mostreranno dove. Poi potrà vedere Swain...»
Al ritorno di Petal la presenza di sua madre era svanita. Cercò di
ritrovarla, quando lui le disse buonanotte e chiuse la porta, ma ormai era
scomparsa.
Rimase a lungo accanto alla vasca, accarezzando il collo liscio di metallo
del cigno.
2. Kid Afrika.
Kid Afrika arrivò tranquillamente a Dog Solitude l'ultimo giorno di
novembre. Aveva come autista della sua Dodge d'annata una ragazza bianca
che si chiamava Cherry Chesterfield.
Slick Henry e Little Bird stavano sfasciando la sega circolare che
costituiva la mano sinistra del Giudice, quando la Dodge di Kid comparve
alla vista; il cuscino ad aria rappezzato sollevava spruzzi marroni dell'acqua
rugginosa che filtrava nell'irregolare piana d'acciaio di Solitude.
Little Bird fu il primo a vederla. Aveva una vista molto acuta, Little Bird,
e un cannocchiale a dieci ingrandimenti che gli luccicava sul petto, tra ossa
di animali vari e bossoli di cartuccia. Slick alzò lo sguardo dal braccio
idraulico e vide Little Bird ergersi nei suoi due metri di statura e puntare il
cannocchiale attraverso la grata d'acciaio priva di vetri che costituiva la
maggior parte del muro sud della Fabbrica. Little Bird era magrissimo,
quasi uno scheletro, e le ali lucide di capelli neri che gli erano valse il
soprannome spiccavano ritte contro il cielo grigio. Teneva i capelli tagliati
corti dietro e ai lati, ben sopra le orecchie; con le ali e la coda aerodinamica,
sembrava indossare un gabbiano senza testa.
«Oh cazzo» disse Little Bird.
«Cosa?» Era difficile farlo concentrare, e ci voleva un'altra persona per
fare quel lavoro.
«E' quel negro di merda.»
Slick si alzò in piedi e si pulì le mani sui jeans, mentre Little Bird si
toglieva il microsoft Mech-5 dalla presa dietro l'orecchio, dimenticando
immediatamente la procedura di servocalibramento in otto punti necessaria
per smontare la sega circolare del Giudice. «Chi guida?» Afrika non
guidava mai, se poteva farne a meno.
«Non lo vedo.» Little Bird fece ricadere il cannocchiale tra lo strato di
ossa e ottone.
Slick lo raggiunse alla finestra per osservare i miglioramenti della
Dodge. Kid Afrika ritoccava periodicamente la vernice nero opaco del suo
hovercraft utilizzando diligentemente una bomboletta spray; l'effetto tetro
era compensato dalla serie di teschi cromati fissati sul paraurti anteriore.
Una volta i teschi di metallo sfoggiavano lampadine natalizie al posto degli
occhi, ma forse il Kid non dava più tanta importanza alla sua immagine.
Mentre l'hovercraft avanzava verso la Fabbrica, Slick udì Little Bird
allontanarsi nell'ombra, raschiando con la suola dei pesanti stivali la polvere
e i trucioli di metallo.
Vide, attraverso una polverosa lastra di vetro superstite, il veicolo che si
abbassava sul cuscino d'aria e si fermava di fronte alla Fabbrica,
scricchiolando ed emettendo vapore.
Qualcosa fece rumore, nel buio dietro di lui, e si accorse che Little Bird
era dietro l'impalcatura della parte vecchia; stava inserendo il silenziatore
nella scacciacani cinese che utilizzavano contro i conigli.
«Bird» disse Slick, gettando la chiave inglese sulla cerata «lo so che sei
uno stronzo di paesano ignorante, ma perdio, devi proprio ricordarmelo?»
«Non mi piace quel negro di merda» disse Little Bird da dietro
l'impalcatura.
«Già, e se quello si degnasse di notarti, neanche tu gli piaceresti. Se
sapesse che sei qui dietro con quella pistola, te la caccerebbe in gola.»
Little Bird non rispose. Era cresciuto nei sobborghi bianchi poveri del
Jersey, dove nessuno sapeva mai un cazzo di niente e tutti odiavano chi
sapeva qualcosa.
«E penso proprio che lo aiuterei.» Slick chiuse la cerniera della giacca e
uscì, andando verso la macchina di Kid Afrika.
Il finestrino impolverato dal lato del conducente era abbassato, e si
poteva vedere un volto pallido, nascosto da un paio di enormi occhiali da
sole. Gli scarponi di Slick scricchiolarono calpestando vecchie lattine
arrugginite e appiattite come foglie secche. Il conducente si tolse gli
occhiali e lo squadrò. Era una donna; gli occhiali, appoggiati sul collo, le
nascondevano la bocca e il mento. Il Kid stava dalla parte opposta,
un'ottima posizione nell'eventualità, improbabile, che Little Bird iniziasse a
sparare.
«Fai il giro» disse la ragazza.
Slick girò intorno all'hovercraft, passando davanti ai teschi cromati, e udì
il finestrino di Kid Afrika aprirsi con lo stesso suono dimostrativo.
«Slick Henry» disse Kid, mentre il respiro si faceva bianco all'atmosfera
di Solitude «salve.»
Slick osservò il suo viso allungato. Aveva grandi occhi nocciola, come
quelli di un gatto, baffetti sottili, e la pelle lucida come cuoio. «Ehi, Kid.»
Slick sentì un odore come d'incenso che veniva dall'interno della macchina.
«Come va?»
«Be'» disse il Kid, socchiudendo gli occhi «ti ricordi, una volta avevi
detto che se avessi avuto bisogno di un favore...»
«Vero» disse Slick, provando una certa apprensione. Kid Afrika una volta
gli aveva salvato la pelle, ad Atlantic City; aveva dissuaso certi tipi
inferociti dallo scaraventare Slick giù da un balcone al quarantatreesimo
piano. «Qualcuno vuole buttarti giù da un tetto?» «Slick» rispose il Kid
«voglio presentarti una persona.»
«E poi saremo pari?»
«Slick Henry, questa bella ragazza è la signorina Cherry Chesterfield, di
Cleveland, nell'Ohio.» Slick si abbassò e guardò la conducente. Capelli
biondi arruffati, occhi cerchiati d'ombretto. «Cherry, questo è il mio caro
amico, il signor Slick Henry. Ai suoi bei tempi viaggiava col Deacon Blues.
Adesso si è rintanato qui a "creare", capisci. E' un uomo di talento, sai?»
«E' quello che costruisce i robot, hai detto?» disse la ragazza, masticando
gomma.
«Proprio lui» disse il Kid aprendo la portiera. «Tu aspettaci qui, Cherry.»
Il Kid, avvolto in una pelliccia di visone il cui orlo gli sfiorava la punta
degli stivaletti gialli di struzzo nuovi di zecca, si diresse verso Solitude;
Slick vide di sfuggita qualcosa nel retro dell'hovercraft e con la coda
dell'occhio colse un'immagine di bende e di intubazioni.
«Ehi, Kid» chiese «che c'è là dietro?» Il Kid fece un cenno a Slick con la
mano ingioiellata, mentre la portiera dell'hovercraft si chiudeva con un
tonfo e Cherry Chesterfield premeva i pulsanti dei finestrini.
«Proprio di quello dobbiamo parlare, Slick.»
«Non c'è molto da sapere, mi sembra» disse Kid Afrika, appoggiandosi a
un banco da lavoro di metallo, sempre avvolto nella sua pelliccia. «Cherry
ha una tessera tecmed e sa quindi che viene pagata. Bella ragazza, Slick.»
Strizzò l'occhio.
«Kid...»
Nel retro dell'hovercraft di Kid Afrika c'era un tizio, che era come morto;
in coma, o qualcosa del genere. L'avevano collegato a varie pompe,
contenitori, tubi, e a una specie di impianto simstim, il tutto, batterie e il
resto, fissato a una vecchia barella in lega.
«Che è questo?» Cherry, che li aveva seguiti dopo che Kid ebbe
mostrato a Slick il tizio nell'hovercraft, scrutava perplessa l'imponente
Giudice, o, almeno, quello che restava di lui; il braccio dotato di sega
circolare era dove l'avevano lasciato, sul pavimento rivestito di cerata. "Se
lei ha una tessera tecmed" pensò Slick "probabilmente al tecmed non si
sono ancora accorti della sua mancanza." Indossava almeno quattro
giacconi di pelle, tutti troppo grandi per lei.
«Una delle opere d'arte di Slick, come ti dicevo.»
«Quello là sta morendo. Puzza come una merda.»
«Gli si è staccato un catetere. Ma a cosa dovrebbe servire, questo affare?»
chiese Cherry.
«Non possiamo tenerlo qui, Kid, quello crepa. Se vuoi farlo fuori,
sotterralo da qualche parte a Solitude.»
«Quell'uomo non sta morendo» replicò Kid Afrika «non è ferito, non sta
male.»
«Che cazzo ha, allora?»
«E' "sotto", ragazzo. E' in viaggio. Ha bisogno di pace e di tranquillità.»
Slick guardò prima il Kid e poi il Giudice, poi di nuovo il Kid. Il Kid
disse che voleva che Slick custodisse quell'uomo per due, forse tre
settimane; Cherry sarebbe rimasta a Solitude per accudirlo.
«Non ci capisco niente. Questo tipo è un tuo amico?»
Kid Afrika si strinse nelle spalle.
«Ma perché non lo tieni da te?»
«Non è così tranquillo da me. Non c'è abbastanza silenzio.»
«Kid» disse Slick «sono in debito con te, ma tutto questo è assurdo. Devo
lavorare, e in ogni caso è veramente assurdo. Oltretutto c'è anche Gentry.
Adesso è a Boston, ma torna domani sera e la cosa non gli andrà giù. Lo sai
come è strano lui, con la gente... questo posto, più che altro, è suo. Sai
com'è...»
«Ti stavano buttando giù dalla ringhiera, amico» replicò, cupo, Kid
Afrika «ricordi ?»
«Ma sì, mi ricordo, io...»
«Si vede che non ti ricordi abbastanza bene. Forza, Cherry, andiamo. Non
voglio attraversare Dog Solitude di notte.» Kid si allontanò dal tavolo di
metallo.
«Kid, guarda...»
«Lascia perdere. Non sapevo chi cazzo eri, quella volta ad Atlantic City,
solo non volevo vedere un ragazzo bianco sfracellato sulla strada, va bene?
E se quella volta non sapevo chi eri, posso non saperlo anche adesso.»
«Kid.»
«E allora?»
«Va bene. Rimane qui. Due settimane al massimo. Mi dai la tua parola
che torni a prenderlo? E devi anche aiutarmi a sistemare la cosa con
Gentry.»
«Che gli serve?»
«Droga.»
Little Bird ricomparve mentre la Dodge di Kid si allontanava nel
pantano di Solitude. Sbucò fuori da una catasta di automobili pressate, strati
d'acciaio arrugginito e contorto che ancora conservava, in qualche punto,
macchie di vernice lucida.
Slick lo osservava dall'alto di una finestra della Fabbrica. Alle intelaiature
di metallo erano stati fissati fogli di plastica trovati nella spazzatura;
ognuno aveva un colore e uno spessore diverso dagli altri, e così,
voltandosi, Slick intravvide Little Bird attraverso una lastra di plastica rosa
scuro.
«Chi ci sta, qui?» chiese Cherry, parlando dalla stanza dietro di lui. «Io,
Little Bird, Gentry...»
«In questa stanza, voglio dire.»
Slick si voltò e la vide accanto alla barella e alle macchine collegate. «Ci
stai tu» le rispose.
«E' la tua stanza?» Osservava i disegni appesi al muro, gli schizzi fatti da
lui che rappresentavano il Giudice e i suoi Investigatori, lo Strizzacadaveri e
la Strega. «Non preoccuparti.»
«Non farti venire certe idee» disse lei.
Slick la osservò. Aveva un grosso livido su un lato della bocca. I suoi
capelli decolorati erano ritti come se avessero ricevuto una scarica elettrica.
«Ti ho detto di non proccuparti.»
«Kid ha detto che avete l'elettricità.»
«Già.»
«Meglio collegarlo, allora» disse Cherry, voltandosi verso la barella.
«Non consuma molto, ma le batterie si staranno scaricando.»
Slick attraversò la stanza per osservare il viso devastato dell'uomo.
«Faresti meglio a spiegarmi qualcosa» le disse. Non gli piacevano quelle
sonde. Ne aveva una infilata in una narice, e l'idea gli dava i conati di
vomito. «Chi è quest'uomo e che cosa cazzo gli sta facendo Kid Afrika?»
«Non gli sta facendo niente» rispose lei, richiamando alcuni dati sul
video di un biomonitor unito alla barella con nastro magnetico. «E' ancora
in fase REM, come se sognasse continuamente.» L'uomo sulla barella era
immobilizzato dentro un sacco a pelo blu nuovo di zecca. «Comunque,
questo qui, chiunque sia, ha pagato Kid per questa faccenda.»
L'uomo aveva una serie di elettrodi attaccati con cerotti sulla fronte; un
cavo nero gli era stato inserito in una presa dietro l'orecchio sinistro, e
pendeva lungo il bordo della barella. Slick lo seguì con lo sguardo, fino a
incontrare la pesante apparecchiatura grigia montata sulla struttura. Un
simstim? Non ne aveva l'aspetto. Una specie di deck ciberspazio? Gentry
sapeva un sacco di cose sul ciberspazio, o, almeno, così diceva; Slick, però,
non riusciva a ricordarsi che gli avesse detto qualcosa sul fatto che si
potesse rimanere collegati anche se si era privi di sensi. C'era gente che si
collegava per fregarli. Inserivano gli elettrodi, ed ecco che tutti i dati del
mondo comparivano, uno dopo l'altro, come una grande città illuminata
intorno a cui fare un giro per poi afferrarli, almeno visivamente, perché
altrimenti sarebbe stato troppo complicato trovare la strada verso il dato
richiesto. Iconiche, le chiamava Gentry.
«Lui paga il Kid?» «Già» disse lei. «Per cosa?»
«Per stare così. E anche per tenerlo nascosto.»
«Da chi?»
«Non so. Non l'ha detto.»
Nel silenzio che seguì, Slick udì il raschiare del respiro regolare
dell'uomo
3. Malibu.
In casa c'era l'odore di sempre.
Era un odore che apparteneva al tempo alla salsedine e alla natura
entropica delle ville di lusso costruite troppo vicino al mare. Forse era
anche caratteristico delle case disabitate spesso e abitate poco, aperte e
chiuse all'arrivo e alla partenza dei loro inquieti abitanti. Si immaginò le
stanze vuote, le macchie di ruggine che si allargavano silenziosamente sul
metallo, le muffe pallide che si impadronivano degli angoli oscuri. Gli
architetti, rassegnati al corso eterno delle cose, avevano, in un certo senso,
incoraggiato la corrosione; le massicce travi metalliche della terrazza erano
state rosicchiate da anni di salsedine.
La casa era costruita, come quelle circostanti, sui resti di fondamenta in
rovina, e lei, passeggiando lungo la spiaggia, a volte fantasticava sui tempi
andati. Cercava di immaginare il passato di quel luogo, altre case e altre
voci. In queste passeggiate era accompagnata da una telecamera esterna, un
minuscolo elicottero Dornier che si alzava dalla sua postazione nascosta sul
tetto quando lei scendeva dalla terrazza. Si librava senza quasi far rumore,
ed era programmato per restare fuori dalla sua vista. Il modo con cui la
seguiva aveva qualcosa di triste, come un regalo di Natale costoso e brutto.
Sapeva che Hilton Swift la stava osservando attraverso le telecamere del
Dornier. Alla Senso/Rete non sfuggiva quasi nulla di quel che accadeva
nella casa sulla spiaggia; la sua solitudine, la settimana di riposo che aveva
chiesto, erano sotto controllo costante.
Anni di professione le avevano trasmesso una singolare indifferenza
verso il sentirsi osservata.
Di notte, a volte, lei accendeva i fari che si trovavano sulla terrazza,
illuminando i bizzarri geroglifici delle grandi pulci di mare. Lasciava al
buio la terrazza e il salone sottostante. Sedeva su una sedia di plastica
bianca e osservava il movimento browniano delle pulci. Nella luce vivida
dei fari proiettavano ombre microscopiche, quasi invisibili, punti sfuggenti
sulla sabbia.
Il rumore del mare la avvolgeva nel suo movimento. Nel profondo della
notte, mentre dormiva, nella più piccola delle due stanze degli ospiti,
ricompariva nei suoi sogni. Ma non ricompariva mai nei ricordi invadenti
della sconosciuta.
Aveva scelto la stanza degli ospiti istintivamente. La camera da letto
principale era minata di vecchi dolori.
I medici, in clinica, avevano usato delle pinze chimiche per eliminare la
tossicodipendenza dai recettori nel suo cervello.
Si cucinava i pasti nella cucina bianca; scongelava il pane nel forno a
microonde, preparava minestrine svizzere istantanee nelle lustre pentole
d'acciaio, muovendosi lenta nello spazio sconosciuto, eppure sempre più
familiare, dal quale era stata isolata così astutamente dalla polvere del
progettista.
«Si chiama vita» disse, rivolgendosi al tavolo bianco. E che cosa avrebbe
detto l'équipe di psicologi della Senso/Rete, pensò, se qualche microfono
nascosto gliel'avesse trasmesso? Mescolò la minestra con un frullino e
osservò il fumo che si alzava. Fa bene, pensò, fare le cose da soli; in clinica
insistevano perché si rifacesse il letto. Poi si versò la minestra nel piatto,
assorta, pensando alla clinica.
Aveva interrotto il trattamento con una settimana di anticipo. I medici
avevano protestato. Avevano detto che la disintossicazione era andata a
meraviglia, ma che la terapia non era ancora iniziata. Le avevano mostrato
il tasso di ricaduta dei clienti che non completavano la cura. Le avevano
spiegato che l'assicurazione non avrebbe pagato, se avesse interrotto il
trattamento. Lei aveva risposto che avrebbe pagato la Senso/Rete, a meno
che non preferissero che pagasse lei stessa mostrando il suo chip di platino
MitsuBank.
Un'ora più tardi arrivò il suo jet personale; lei gli disse di portarla
all'aeroporto di Los Angeles, richiese una macchina ad attenderla al suo
arrivo ed escluse tutte le chiamate in entrata. «Spiacente, Angela» disse il
jet, inclinandosi sopra Montego Bay qualche secondo dopo il decollo «ma
ho Hilton Swift sul canale preferenziale.»
«Angie» disse Swift «sai che ti controllo costantemente. Lo sai.»
Lei si voltò a guardare l'ovale nero dell'altoparlante, al centro del
pannello di plastica grigia, e immaginò Swift accovacciato là dietro, con le
sue lunghe gambe da atleta piegate scomodamente, grottescamente, dietro
la paratia del jet.
«Lo so, Hilton. Sei stato gentile a telefonarmi» rispose.
«Stai andando a Los Angeles, Angie.»
«Certo. Così ho detto al jet.»
«A Malibu.»
«Infatti.»
«Piper Hill sta venendo a prenderti all'aeroporto.»
«Grazie, Hilton, ma non voglio vederla. Non voglio nessuno. Voglio solo
un'automobile.»
«Non c'è nessuno in casa, Angie.»
«Bene. E' proprio quello che desidero, Hilton. Nessuno in casa. La casa
vuota.»
«Sei sicura che sia una buona idea?»
«L'idea migliore che abbia avuto negli ultimi tempi, Hilton.»
Ci fu un attimo di silenzio. «Hanno detto che è andato proprio bene, il
trattamento. Ma preferivano che tu rimanessi ancora un po'.»
«Ho bisogno di una settimana» disse lei «una settimana soltanto. Sette
giorni. Da sola.»
Dopo la terza notte passata nella casa, si svegliò all'alba preparò il caffè e
si vestì. La condensa offuscava la grande finestra di fronte alla terrazza. Un
sonno tranquillo; se c'erano stati sogni, li aveva dimenticati. Ma c'era
qualcosa, un'ansia, una vertigine, quasi. Restò ferma in cucina, sentendo il
pavimento freddo attraverso i calzettoni bianchi, tenendo la tazza tiepida
con entrambe le mani.
C'era qualcosa. Allungò le braccia, alzando la tazza di caffè come un
calice; il gesto era, allo stesso tempo, istintivo e ironico.
Erano passati tre anni da quando il "loa" l'aveva posseduta; tre anni da
quando l'avevano toccata. Ma ora?
Legba? Uno degli altri?
Improvvisamente, la sensazione della presenza scomparve. Posò
precipitosamente la tazza sul tavolo, schizzandosi il caffè sulle mani, corse
a cercare le scarpe e qualcosa per coprirsi. Trovò un paio di stivali di
gomma verdi nella cabina, e un giaccone blu pesante di cui non si
ricordava, troppo grande per essere di Bobby. Scese di corsa le scale e uscì,
ignorando il ronzio dell'elica del Dornier giocattolo che si alzava dietro di
lei come una paziente libellula. Guardò verso nord, verso il dedalo di case
sulla spiaggia; la confusione dei tetti la faceva pensare a uno dei quartieri
spagnoli. Si incamminò verso sud, in direzione della Colonia.
Era giunta Mamman Brigitte, o Grande Brigitte; alcuni dicono che è la
moglie di Baron Samedi, altri la chiamano "la più antica dei morti".
L'architettura fantastica della Colonia si ergeva alla sinistra di Angie, in un
caos di forme e di egocentrismo. Copie delle Watts Towers rivestite di neon
e dall'aspetto fragile si levavano accanto a bunker neo-Brutalisti, di fronte a
bassorilievi in bronzo.
Muri a specchio riflettevano, al suo passaggio, i banchi di nubi del
Pacifico.
Certe volte, durante i passati tre anni, le era sembrato di essere sul punto
di attraversare, o riattraversare, un confine, una sottile linea di fede, per
scoprire che il tempo passato con il "loa" era stato solo un sogno, o, al
massimo, un grumo contagioso di influenze culturali rimaste dalle settimane
passate nell'"oumphor" di Beauvoir nel New Jersey. In altre parole: gli dei e
i Cavalieri non esistevano. Continuò a camminare, confortata dal rumore
della risacca, dal pensiero dell'istante perpetuo del mare, quel suo ora-e-
sempre.
Suo padre era morto, da sette anni ormai, e la registrazione della sua vita
che le aveva lasciato le aveva detto molto poco. Che aveva servito qualcosa,
o qualcuno, che era stato ricompensato con la conoscenza, e che lei era stata
il suo sacrificio.
A volte le sembrava di avere tre vite, ognuna separata dall'altra da
qualcosa di sconosciuto, senza nessuna speranza di raggiungere mai l'unità.
C'erano i ricordi d'infanzia dell'arcologia della Maas, scavata in cima a
una mesa in Arizona; appoggiata a un parapetto di arenaria, col viso nel
vento, immaginava che l'altopiano intero fosse la sua nave, con cui poter
salpare verso il tramonto, oltre le montagne. Tempo dopo sarebbe fuggita da
là, con la paura ficcata in gola come qualcosa di duro, e non riusciva più a
ricordare l'espressione di suo padre l'ultima volta che l'aveva visto. Anche
se doveva averlo visto sul video dell'ultraleggero, mentre gli altri aeroplani
volavano in fila compatta contro il vento come moscerini iridati. Quella
notte era finita la prima delle sue vite; anche la vita di suo padre era finita
quella notte.
La sua seconda vita era stata breve, veloce e strana. Un uomo chiamato
Turner l'aveva portata via dall'Arizona, e l'aveva lasciata insieme a Bobby,
Beauvoir e gli altri. Ricordava poco di Turner, soltanto che era alto,
muscoloso, e aveva l'aria di un uomo braccato. L'aveva portata a New York.
Poi Beauvoir l'aveva portata nel New Jersey insieme a Bobby. Là, al
cinquantatreesimo livello di una struttura "mincome", Beauvoir le aveva
spiegato i suoi sogni. Le aveva detto che i sogni sono qualcosa di reale, con
il viso scuro lucido di sudore. Le aveva insegnato che tutti i sogni sono
come le gocce di un vasto mare, mostrandole in che modo i suoi erano
diversi e, allo stesso tempo, uguali a tutti gli altri. "Tu sola navighi il
vecchio e il nuovo mare" le aveva detto.
Angie era stata posseduta dagli dei, nel New Jersey.
Aveva imparato ad abbandonarsi ai Cavalieri. Aveva visto il "loa"
Linglessou possedere Beauvoir nell'"oumphor", lo aveva visto cancellare
con i piedi i segni tracciati con la farina bianca. Nel New Jersey aveva
conosciuto gli dei, e l'amore.
Il "loa" l'aveva guidata, quando era partita con Bobby per iniziare la sua
terza vita, quella attuale. Erano bene assortiti Angie e Bobby, entrambi
provenivano dal nulla: lei dal regno immacolato dei Biolaboratori Maas,
Bobby dalla noia di Barrytown.
La Grande Brigitte la sfiorò senza preavviso. Lei inciampò, cadde quasi
in ginocchio sulla battigia mentre il rumore del mare veniva risucchiato
nell'orizzonte crepuscolare che le si apriva di fronte. Vedeva i muri
imbiancati del cimitero, le tombe, i salici. Le candele. Sotto al salice più
antico c'era una moltitudine di candele, e le radici contorte erano bianche di
cera.
"Figlia, conoscimi".
E Angie la sentì all'improvviso, e capì chi era, Mamman Brigitte,
Mademoiselle Brigitte, la più vecchia dei morti.
"Io non ho culti, figlia, non ho un altare".
Lei si scoprì ad avanzare lentamente, verso la luce delle candele,
sentendo che le orecchie le ronzavano come se nel salice si nascondesse un
grande nido di api.
"Il mio sangue è vendetta".
Angie ripensò a Bermuda, a un uragano durante la notte; lei e Bobby si
erano avventurati nell'occhio del ciclone. La Grande Brigitte era qualcosa di
simile. Il silenzio, la sensazione di compressione e di forze inimmaginabili
momentaneamente trattenute. Non si vedeva nulla, sotto il salice. Solo le
candele.
«I "loa"... non posso chiamarli. Ho sentito qualcosa, sono venuta a
vedere...»
"Sei stata chiamata al mio 'reposoir'. Ascoltami. Tuo padre ha evocato i
'vévé' nella tua mente: li ha evocati in una carne che non è carne. Sei stata
consacrata a Ezili Freda. Legba ti ha mandato nel mondo perché tu servivi
ai suoi scopi. Ma ti hanno inviato il veleno, figlia, una 'coup-poudre'.
Lei cominciò a perdere sangue dal naso. «Veleno?»
"I 'vévé' di tuo padre sono alterati, parzialmente cancellati, modificati.
Anche se hai cessato di prendere il veleno, i Cavalieri non possono
ugualmente raggiungerti. Io appartengo a un ordine diverso.
Sentì un dolore terribile alla testa, il sangue le pulsava nelle tempie. «Per
favore...»
"Ascoltami. Hai tanti nemici. Complottano contro di te. La posta in gioco
per tutto questo è alta. Temi il veleno, figlia!"
Si guardò le mani. Il sangue era vivido e reale. Il ronzio aumentò. Forse
era nella sua mente. «Ti prego, aiutami! Spiegami...»
"Non puoi restare qui. Per te è la morte".
Cadde in ginocchio nella sabbia, accecata dal sole, mentre le onde intorno
rombavano. Il Dornier si librava nervosamente di fronte a lei, due metri più
in là. Il dolore cessò all'istante. Si pulì le mani insanguinate sulla manica del
giaccone. Le telecamere dell'unità mobile ronzarono e la inquadrarono.
«Va tutto bene» si sforzò di dire. «E' solo un po' di sangue dal naso. Solo
un po' di sangue...» Il Dornier si spostò velocemente avanti, poi indietro.
«Adesso vado a casa. Sto bene.» Le telecamere sparirono silenziosamente
dalla vista.
Angie si strinse con le braccia, tremante. "No, non farti vedere così. Loro
sanno che è successo qualcosa, ma non hanno capito cosa." Si sforzò di
stare in piedi, si girò e cominciò a tornare sui suoi passi, nella direzione da
cui era venuta. Mentre camminava, si frugò nelle tasche del giaccone
cercando un fazzoletto, qualcosa per pulirsi il viso dal sangue.
Appena le sue dita trovarono l'angolo del pacchetto, subito riconobbe di
cosa si trattava. Si fermò, rabbrividendo. La droga. Non era possibile.
Invece sì. Ma chi? Si voltò e guardò il Dornier finché non si fu allontanato.
Il pacchetto. Bastava per un mese.
"Coup-poudre".
Temi il veleno, figlia.
4. Tana.
Monna stava sognando di fare la danza della gabbia in un locale a
Cleveland, nuda, avvolta in una colonna di luce calda e azzurra. Le facce
che si accalcavano attorno a lei attraverso la cortina di fumo avevano la luce
azzurra fissa nel bianco degli occhi. Avevano l'espressione solita degli
uomini che la guardavano ballare, con gli occhi fissi ma allo stesso tempo
chiusi dentro se stessi, quegli occhi che non dicevano nulla, e i volti,
malgrado il sudore, sembravano scolpiti in una materia che della carne
aveva solo l'aspetto.
Non che le importasse di come la guardavano, mentre era nella gabbia;
eccitata, accaldata, seguiva il ritmo. Tre canzoni in programma, l'effetto del
wiz al culmine, e la forza che sentiva nelle gambe sembrava farla volare...
Uno di loro l'afferrò alla caviglia.
Voleva gridare, ma non ci riuscì, non subito, e quando l'urlo uscì sembrò
che qualcosa dentro le si spezzasse dolorosamente; la luce azzurra si
squarciò, ma la mano, la mano c'era ancora, stretta intorno alla sua caviglia.
Saltò sul letto come una molla, brancolando nel buio, strappandosi i capelli
dagli occhi.
«Che ti prende, bella?»
Lui le posò la mano sulla fronte e la fece ridistendere nella sua impronta
tiepida sul cuscino.
«Un sogno...» la mano era ancora là, le faceva venire voglia di gridare.
«Hai una sigaretta, Eddy?» La mano si allontanò. Lo scatto e il bagliore
dell'accendino. Vide i lineamenti di lui mentre le accendeva una sigaretta e
gliela passava. Si alzò in fretta a sedere e piegò le ginocchia sotto il mento,
coprendole con la coperta militare come una tenda, perché in quel momento
non voleva che nessuno la toccasse.
La gamba incrinata della sedia di plastica trovata nella spazzatura
scricchiolò in modo preoccupante mentre lui si appoggiava allo schienale,
accendendosi una sigaretta. "Rompiti" pensò lei "fallo finire col culo per
terra, così poi mi picchia." Almeno era buio, così non doveva vedere la
tana. La cosa peggiore era svegliarsi con la testa a pezzi, troppo nauseata
per muoversi, la mattina dopo essere rientrata precipitosamente
dimenticandosi di richiudere la plastica nera; così entrava il sole cocente
che illuminava ogni dettaglio e riscaldava l'aria e cominciavano a volare le
mosche.
Nessuno le aveva mai messo una mano addosso, a Cleveland chiunque
fosse stato così intorpidito da poter attraversare il campo era già troppo
ubriaco per muoversi, forse anche per respirare. Neppure i clienti, a meno
che non l'avessero pattuito con Eddy e pagato extra, e poi era solo per finta.
Qualunque cosa volessero fare con lei, doveva essere come un rito, e
così tutto sembrava accadere in un'altra vita. Aveva imparato a osservarli,
quando si lasciavano andare. Quello era il lato più interessante, perché si
lasciavano andare davvero e restavano completamente indifesi, magari solo
per una frazione di secondo, ma in quel momento era come se non fossero
neanche lì.
«Eddy, io divento pazza, non ci posso più dormire, qui.»
Altre volte lui l'aveva picchiata per molto meno, così si nascose il viso tra
la coperta e le ginocchia, aspettando.
«Certo» rispose lui «vuoi tornare dai pesci gatto? Vuoi tornare a
Cleveland?»
«Non ce la faccio più.»
«Domani.»
«Domani cosa?»
«E' presto abbastanza? Domani sera, con un jet privato? A New York,
subito? Allora la pianterai di rompermi i coglioni?»
«Per piacere, tesoro» si sporse verso di lui «possiamo prendere il treno...»
Lui le allontanò la mano con violenza.
«Hai la merda al posto del cervello.»
Se lei si fosse lamentata un'altra volta, se avesse osato dire qualcosa a
proposito della tana o fargli capire che era un fallito e che tutte le sue belle
idee non portavano a un bel niente, Eddy sarebbe esploso, lo sapeva che
sarebbe esploso. Come quella volta che si era spaventata per gli insetti,
quelle specie di scarafaggi chiamati cimici del palmetto, ma era stato perché
quei maledetti affari erano per metà dei mutanti; qualcuno aveva tentato di
sterminarli con qualcosa che gli incasinava il D.N.A., e così c'erano questi
scarafaggi mostruosi che morivano perché avevano troppe teste e troppe
zampe oppure non abbastanza. Una volta ne aveva visto uno che sembrava
avesse ingoiato un crocifisso o qualcosa del genere, e aveva la schiena o il
guscio o quel cazzo che era storpiato in un modo che le faceva venire il
vomito.
«Tesoro» disse lei, cercando di addolcire la voce «non so che farci,
questo posto mi...»
«Hooky Green» disse lui, come se non l'avesse sentita «ero da Hooky
Green e ho incontrato uno che ci porta via. Si è accorto di me, capito? Ha
occhio per il talento.» Monna vide quasi il suo sorriso nel buio. «Uno di
Londra, in Inghilterra. Uno scopritore di talenti. Entra da Hooky e subito
grida: "Sei mio!".»
«E' un cliente per me?» Hooky Green era l'ultimo locale, in ordine di
tempo, in cui Eddy aveva deciso che avrebbe fatto successo; era al
quarantatreesimo piano di un grattacielo di vetro, con quasi tutti i muri
diroccati, all'interno. Aveva una pista da ballo grande come un intero
isolato, poi se n'era andato quando si era accorto che lì dentro nessuno gli
prestava molta attenzione. Monna non aveva neanche mai visto Hooky di
persona, il giocatore di football in pensione che possedeva il locale. "Lo
stronzo Hooky Green faccia di bronzo", però per ballare era fantastico.
«Vuoi ascoltarmi sì o no? Cliente una sega. E' l'uomo giusto, ha gli
agganci, è arrivato in cima e tira su anche me. E sai una cosa? Ti porto con
me.»
«Ma che cos'è che vuole?»
«Un'attrice. Una specie di attrice. E un tipo in gamba per lanciarla e
tenerla in cima.»
«Attrice? Lanciarla dove?»
Lo sentì aprire la cerniera della giacca. Cadde qualcosa sul letto, vicino ai
suoi piedi. «Duemila.»
Cristo. Allora forse non era uno scherzo. Ma se non era uno scherzo, che
cazzo era?
«Quanto hai beccato stasera, Monna?»
«Novanta.» Veramente erano 120, ma aveva contato l'ultimo come
straordinario. Di solito aveva troppa paura di lui per fargliela, ma aveva
bisogno di soldi per il wiz.
«Tienili, comprati dei vestiti. Non come quelli che usi per lavorare, non
servono le chiappe di fuori per questo giro.»
«Quand'è?»
«Domani, ti ho detto. Puoi salutarlo questo posto.»
Appena lo disse, Monna quasi trattenne il respiro.» La sedia scricchiolò
di nuovo. «Novanta, eh?» «Già.»
«Racconta un po'.»
«Eddy, sono così stanca...»
«No» disse lui.
Ma quello che lui voleva non era la verità, e neppure qualcosa che le
assomigliasse. Voleva una storia, la storia che le aveva insegnato a
raccontargli. Non gli interessava sapere che cosa le dicevano - quasi tutti
avevano una cosa che volevano dirle a tutti i costi, e di solito lo facevano -
o come venivano a chiederle di mostrare la sua tessera del sangue. E
neanche sapere la solita storiella che le raccontavano tutti, che quello che
non si può guarire si può curare, né quello che volevano fare a letto.
Eddy voleva sentire la storia di quel tipo grande e grosso che l'aveva
trattata come una pezza da piedi. Solo che al momento di raccontarlo non
doveva far apparire troppo forte la prestazione, perché sarebbe sembrato
che valesse più di quanto era stata pagata. La cosa principale era che in
quella immaginaria prestazione lui l'aveva trattata come una macchina
noleggiata per una mezz'ora. Ce n'erano molti così ma di solito spendevano
i soldi alle sale manichini o lo facevano in simstim. Monna cercava quelli
che volevano parlare, che poi magari alla fine le offrivano un panino, il che
era brutto, certo, ma non abbastanza per Eddy. E c'era un'altra cosa che
Eddy voleva sentire da lei: che non le piaceva, ma che a un certo punto lo
voleva, lo voleva da pazzi.
Lei allungò la mano nel buio e toccò la busta piena di soldi.
La sedia scricchiolò un'altra volta.
Così cominciò a raccontargli di come, uscendo da un negozio, questo tipo
grande e grosso l'aveva aggredita chiedendole bruscamente quanto voleva.
La cosa l'aveva imbarazzata, ma glielo aveva detto e lui aveva risposto che
gli andava. Allora erano andati nella sua macchina, che era vecchia, grande
e puzzava di bagnato - dettaglio preso dai tempi di Cleveland - e lui, più o
meno, se l'era sbattuta sul sedile. «Davanti al negozio?»
«Dietro.»
Eddy non l'accusava mai di essersi inventata qualcosa, anche se lei
sapeva che, in qualche modo, le aveva insegnato una traccia generale da
seguire e in fondo si trattava sempre della stessa storia. Quando disse che
l'uomo le aveva tirato su la gonna - quella nera, e sotto portava gli stivali
bianchi - e le aveva tolto le mutandine, Monna sentì tintinnare la fibbia
della cintura mentre Eddy si sfilava i jeans. Una parte di lei si chiedeva,
mentre lui le scivolava accanto nel letto, se la posizione che stava
descrivendo fosse fisicamente realizzabile. Comunque, continuò il racconto,
che a Eddy stava facendo effetto. Si ricordò di dire che il tizio le aveva fatto
male, mentre glielo piazzava dentro, anche se era molto bagnata. Disse che
l'aveva afferrata per i polsi, anche se ormai si stava confondendo e l'unica
cosa che le sembrava certa era che doveva avere il sedere per aria. Eddy
aveva iniziato a toccarla, sfiorandole il seno e il ventre, e così passò dalla
descrizione brutale delle posizioni a quella delle sensazioni che in quel
momento Eddy voleva che lei provasse.
Le sensazioni che lui si aspettava da lei erano qualcosa che Monna non
aveva mai provato. Lei sapeva che esiste un punto in cui farlo era doloroso,
eppure ancora bello, ma che non si trattava di questo. Eddy voleva sentirla
dire che era doloroso e che la faceva stare male, eppure le piaceva. Questo
per Monna non aveva nessun senso, però aveva imparato a dirlo come
piaceva a lui.
Infatti funzionava sempre. Eddy si mise sopra di lei, con la coperta
gettata sulla schiena, e le aprì le gambe. Monna pensò che lui stava
mentalmente osservando la scena che lei raccontava come un cartone
animato, e intanto si era trasformato in quell'uomo senza volto che la
scopava. Le aveva afferrato i polsi e glieli aveva immobilizzati sopra la
testa, proprio come gli piaceva.
E quando lui ebbe finito e si fu addormentato, voltandosi dall'altra parte,
Monna restò sveglia nel buio, accarezzando nella mente il sogno di partire,
luminoso e incredibile.
Per favore, fa' che sia vero.
5. Portobello.
Kumiko si svegliò nel letto enorme e restò completamente immobile ad
ascoltare. Si udiva il rumore fioco del traffico lontano, continuo. Nella
stanza faceva freddo. Sollevò sopra di sé il piumino rosa, come una tenda, e
scese dal letto. Gli abbaini erano ornati dalla brina scintillante. Andò verso
la vasca e girò l'ala dorata del cigno. L'uccello tossì, gorgogliò e iniziò a
riempire la vasca. Ancora avvolta nella trapunta, aprì le valigie e iniziò a
scegliere i vestiti da indossare, appoggiandoli uno a uno sul letto.
Appena fu pronto il bagno, lasciò scivolare sul pavimento il piumino e
scavalcò la parete di marmo della vasca, immergendosi stoicamente
nell'acqua caldissima. Il vapore che si era formato aveva sciolto la brina e la
condensa gocciolava sui vetri delle finestre. Si chiese se tutti i bagni inglesi
fossero dotati di vasche come quella. Si insaponò accuratamente con una
saponetta francese ovale, si alzò, sciacquò via la schiuma meglio che
poteva. Avvolta in un grande asciugamano nero, dopo qualche ricerca trovò
il lavandino, il bidet e il gabinetto. Erano nascosti in una stanzetta che
sembrava essere stata uno spogliatoio, con i muri ornati di un rivestimento
scuro.
Il telefono, con quella sua forma teatrale, suonò due volte.
«Sì?»
«Sono Petal. Desidera la colazione? Roger è qui, impaziente di vederla.»
«Grazie» rispose lei. «Mi sto vestendo.»
Indossò i suoi pantaloni di cuoio più belli e più morbidi, poi si nascose in
un maglione blu di lana pelosa, così grande che sarebbe potuto andare bene
a Petal. Aprendo la borsettina del trucco, vide l'unità Maas-Neotek. La sua
mano vi si chiuse sopra, automaticamente. Non aveva intenzione di evocare
il fantasma ma era sufficiente un tocco: apparve subito. Allungava
comicamente il collo, osservando a bocca aperta il basso soffitto rivestito di
specchi.
«Non siamo nel Dorchester, immagino.»
«Sono io che faccio le domande» disse Kumiko. «Che posto è questo?»
«Una camera da letto» rispose lui. «Di dubbio gusto, anche.»
«Rispondi alla domanda, per piacere.»
«Bene» rispose lui, studiando il letto e la vasca da bagno. «Dallo stile, si
direbbe un bordello. Ho accesso ai dati storici di quasi tutti gli edifici di
Londra, ma su questo non c'è niente di particolare. Costruito nel 1848.
Solido esempio di classico stile vittoriano. Il quartiere è costoso senza
essere alla moda, preferito da avvocati di un certo livello.» Colin si strinse
nelle spalle. Lei intravedeva il bordo del letto attraverso il luccichio dei suoi
stivali bruni da equitazione.
Lasciò cadere l'unità nella borsetta e lui sparì.
Kumiko si arrangiò senza difficoltà con l'ascensore; arrivata nell'atrio
bianco, seguì il suono delle voci, lungo una specie di corridoio e poi dietro
l'angolo.
«Buon giorno» disse Petal, mentre sollevava il coperchio d'argento di un
piatto da portata. Ne uscì del fumo. «Ecco l'elusivo signor Swain, ed ecco la
colazione.»
«Salve» la salutò l'uomo, avanzando col braccio teso verso di lei. Occhi
incolori, un volto allungato e lineamenti marcati. I capelli sottili, color topo,
erano pettinati obliquamente sulla fronte. Kumiko non riuscì a capire quanti
anni avesse: aveva un viso da giovane, ma sotto gli occhi grigiastri c'erano
rughe profonde. Era alto, spalle e braccia da atleta. «Benvenuta a Londra.»
Le prese la mano, la strinse e la lasciò andare.
«Grazie.»
Swain portava una camicia senza colletto a righine sottili rosse su fondo
azzurro, dai polsini fermati da gemelli ovali d'oro satinato; il colletto
sbottonato mostrava un tatuaggio scuro, triangolare. «Ho parlato con suo
padre questa mattina e gli ho detto che è arrivata sana e salva.»
«Lei è un uomo importante.»
«Prego?» Gli occhi incolori si socchiusero.
«I draghi.»
Petal rise.
«Le lasci far colazione» disse qualcuno, una voce femminile.
Kumiko si voltò, vedendo una figura scura e sottile di fronte alle alte
finestre; dietro le finestre c'era un giardino recintato immerso nella neve.
Gli occhi della donna erano nascosti da lenti argentate in cui si riflettevano
la stanza e i suoi occupanti.
«Un'altra ospite» disse Petal.
«Mi chiamo Sally» replicò la donna. «Sally Shears. Mangia, cara. Se
anche tu ti annoi come me, avrai voglia di fare una passeggiata.» Kumiko la
guardò, e allora la donna si toccò le lenti, come se volesse toglierle.
«Portobello Road è a un paio di isolati da qui. Ho bisogno di prendere un
po' d'aria.» Le lenti a specchio sembravano prive di montatura.
«Roger» chiese Petal, servendo delle fettine rosate di pancetta da un
vassoio d'argento «pensi che Kumiko sarà al sicuro con la nostra Sally?»
«Senz'altro, visto il suo umore di stamattina» rispose Swain. Si rivolse a
Kumiko, che accompagnò alla tavola. «Temo che qui non ci sia molto da
divertirsi per lei, ma cercheremo di farle avere tutte le comodità possibili e
di mostrarle un po' la città. Non è Tokyo, però.» «Non ancora, almeno»
disse Petal, ma Swain fece finta di non sentire. «Grazie» disse Kumiko,
mentre Swain le avvicinava la sedia.
«E' un onore» disse lui. «Il rispetto che abbiamo per suo padre...» «Ehi»
lo interruppe la donna «è ancora troppo piccola per queste stronzate.
Risparmiacele.»
«Sally stamattina ha la luna» disse Petal mentre scodellava nel piatto di
Kumiko un uovo strapazzato.
Il cattivo umore di Sally si trasformò in collera a stento repressa, una
furia che trapelava dai suoi passi, dal ticchettio rabbioso dei tacchi sul
selciato gelido.
Kumiko dovette affrettarsi per raggiungerla, mentre la donna si
allontanava dalla casa di Swain, lungo il vialetto. Le sue lenti mandavano
bagliori gelidi sotto il sole opaco dell'inverno. Indossava pantaloni aderenti
di camoscio marrone e una voluminosa giacca nera, di cui aveva rialzato il
collo. Vestiti costosi. I capelli neri, corti, la facevano rassomigliare a un
ragazzo.
Per la prima volta, dopo la partenza da Tokyo, Kumiko provò paura.
L'energia soffocata che covava in Sally era quasi tangibile, un nodo di
rabbia che poteva sciogliersi in qualsiasi momento.
Kumiko infilò la mano nella borsetta e strinse l'unità Maas-Neotek;
all'istante, Colin fu accanto a lei, camminando a passi allegri con le mani in
tasca senza lasciare impronte sulla neve sporca. Allora lei lasciò andare
l'unità, e lui sparì, ma la ragazza si sentì rassicurata. Non doveva temere di
perdere di vista Sally, il cui passo seguiva con fatica, perché il fantasma
l'avrebbe certamente riportata a casa di Swain. "Se scappo via da lei" pensò
"mi aiuterà lui." A un incrocio, la donna si fece largo tra le auto che
passavano, allontanando Kumiko con noncuranza dalla traiettoria di un
pesante taxi Honda nero, a cui riuscì anche a dare un calcio al paraurti
mentre si allontanava.
«Bevi qualcosa?» le domandò, stringendo con la mano il braccio di
Kumiko.
Kumiko fece cenno di no. «Per favore, mi fate male al braccio.»
Sally allentò la presa, ma Kumiko fu guidata attraverso due porte di vetro
satinato, in mezzo al rumore e al caldo, in una specie di cunicolo affollato
rivestito di legno scuro e velluto beige consunto. Si trovarono sedute faccia
a faccia a un tavolino di marmo, sul quale erano appoggiati un posacenere
Bass, un boccale di birra scura, il bicchiere vuoto di whisky che Sally aveva
ordinato al banco e un bicchiere di spremuta di arancia. Kumiko osservò
che tra le lenti chiare e la pelle di Sally non c'era nessun distacco.
Sally prese il bicchiere di whisky vuoto, lo fece dondolare senza
sollevarlo e lo guardò perplessa. «Una volta ho incontrato tuo padre» disse.
«Non era così in alto, allora.» Lasciò perdere il bicchiere per prendere il
boccale. «Swain ha detto che sei una mezza "gaijin". Ha detto che tua
madre era danese.» Bevve un sorso di birra. «Non ne hai l'aspetto.»
«Lei mi ha fatto cambiare gli occhi.»
«Ti stanno bene.»
«Grazie. I vostri occhiali» disse meccanicamente «sono molto belli.»
Sally si strinse nelle spalle. «Il tuo vecchio ti ha già fatto visitare Chiba?»
Kumiko scosse la testa.
«Furbo, da parte sua. Al suo posto avrei fatto lo stesso.» Bevve altra
birra. Le sue unghie, evidentemente di resina acrilica avevano il colore e le
sfumature della madreperla. «Ho sentito parlare di tua madre.»
Col viso in fiamme, Kumiko abbassò gli occhi.
«Non sei qui per questo. Sai, non ti ha spedito qui da Swain a causa di tua
madre. C'è una guerra. Da quando sono nata non ci sono mai state lotte
intestine nelle alte sfere degli Yakuza. Però adesso è cambiato.» Sally
appoggiò il boccale vuoto, che risuonò sul tavolo. «Non può tenerti con sé,
tutto qui. Saresti un bersaglio troppo facile. Uno come Swain è abbastanza
fuori mano per i rivali di Kanaka. Perché avresti un passaporto con un falso
nome, se no? Swain ha un debito con Kanaka. Così sei a posto, no?»
Kumiko sentì spuntare le lacrime.
«E invece non lo sei.» Tamburellò sul tavolino con le unghie
madreperlate. «Lei si è uccisa e tu non sei a posto. Ti senti in colpa, vero?»
Kumiko guardò gli specchi gemelli.
Portobello era affollato di turisti come Shinjuku. Sally Shears, dopo aver
insistito perché bevesse la spremuta, ormai tiepida e sgasata, la portò fuori
nella strada congestionata. Mentre Kumiko la seguiva da vicino, Sally
cominciò a farsi strada lungo il marciapiede, tra i tavolini pieghevoli di
metallo drappeggiati di velluti strappati, su cui erano esposti centinaia di
oggetti di cristallo e argento, ottone, porcellana. Kumiko osservava e Sally
la trascinava via dalle file di piatti dell'Incoronazione e teiere con la
pappagorgia di Churchill. «Questo è "gomi"» si azzardò a dire Kumiko
appena si fermarono a un incrocio. Sally fece un sorriso sardonico. «Qui
siamo in Inghilterra. Il "gomi" è un'importante risorsa naturale, insieme al
talento. E' quello che sto cercando ora. Talento.»
Il "talento" indossava un abito di velluto verde bottiglia e scarpe di
camoscio immacolate. Sally lo trovò in un altro pub il Rose and Crown. Lo
presentò a Kumiko col nome di Tick. Era appena più alto di Kumiko, e
aveva qualcosa di deforme nella schiena, o nel fianco, che lo faceva
camminare zoppo, il che accentuava l'impressione di asimmetria. I capelli
neri erano corti dietro e ai lati, ma aveva un mucchio di riccioli unti sulla
fronte.
Sally gli presentò Kumiko. «E' una mia amica giapponese. E tieni le mani
a posto.» Tick sorrise impercettibilmente e le guidò a un tavolino.
«Come vanno gli affari, Tick?»
«Bene» rispose lui, cupo. «Come si sta in pensione?»
Sally si sedette su una panca imbottita, appoggiando la schiena al muro.
«Be'» rispose «è una specie di va e vieni.»
Kumiko la osservò. La collera era svanita, oppure la stava abilmente
mascherando. Sedendosi, infilò la mano nella borsetta e trovò l'unità. Colin
apparve sulla panca, accanto a Sally.
«Sei stata gentile a ricordarti di me» disse Tick, prendendo una sedia.
«Ormai sono già due anni, mi pare.» Aggrottò un sopracciglio in direzione
di Kumiko.
«Lei è a posto. Conosci Swain, Tick?»
«Solo di fama, grazie.»
Colin studiava il loro scambio di battute affascinato e divertito,
muovendo la testa di qua e di là come se stesse osservando una partita di
tennis. Kumiko dovette ricordarsi che era l'unica a vederlo.
«Devi distrarlo da me. Non deve sapere niente.»
Tick la guardò. La metà sinistra del suo viso si contraeva in una lenta
strizzata d'occhio. «Be', non è che chiedi poco tu, eh?»
«Soldi buoni, Tick. Il meglio.»
«Stai cercando qualcosa in particolare, o ti occupi solo del grano sporco?
Come se non si sapesse che lui è un boss del racket. Non mi piacerebbe
venire beccato nella sua zona.»
«Ma ci sono i soldi.»
Tick strizzò due volte gli occhi, rapidamente.
«Roger mi sta spremendo, Tick, e qualcuno sta spremendo lui. Non so
cosa vogliano da lui e non mi interessa poi molto. Mi basta sapere che cosa
vuole da me. Sapere chi, dove e quando. Collegati alle chiamate in entrata e
in uscita. E in contatto con qualcuno, perché l'affare continua a cambiare.»
«Dici che potrei scoprire qualcosa?»
«Dai un'occhiata, Tick, fallo per me.»
Di nuovo lo strizzare d'occhio convulso. «E va bene. Vedremo di darci da
fare.» Tamburellò nervosamente con le dita sull'orlo del tavolino. «Offri un
giro?»
Colin guardò Kumiko e spalancò gli occhi.
«Non capisco» disse Kumiko, seguendo di nuovo Sally lungo Portobello
Road. «Mi ha coinvolta in un intrigo...»
Sally sollevò il collo della giacca per proteggersi dal vento.
«Potrei tradirla. Sta complottando contro il socio di mio padre. Non ha
nessuna ragione per fidarsi di me.»
«O tu di me, cara. Potrei essere uno di quei cattivi di cui si preoccupa il
tuo papà.»
Kumiko rifletté. «Lo è davvero?»
«No. E se tu sei una spia di Swain, vuol dire che da qualche tempo a
questa parte è diventato molto più barocco. Se sei una spia del tuo vecchio,
forse Tick non serve. Però, se dietro a tutto questo c'è la Yakuza, perché
usare Roger come paravento?»
«Io non sono una spia di nessuno.»
«Allora comincia a esserlo di te stessa. Se Tokyo è la padella, forse sei
caduta nella brace.»
«Ma perché mi avete coinvolto?»
«Eri già coinvolta, per il solo fatto di essere qui. Paura?»
«No» disse Kumiko, chiedendosi perché mai questo dovesse essere vero.
Più tardi, quel pomeriggio, sola nella sua stanza, Kumiko si sedette
sull'orlo del letto e si tolse gli stivali bagnati, poi prese l'unità Maas-Neotek
dalla borsetta.
«Chi sono?» chiese al fantasma, appollaiato sul bordo della vasca di
marmo bianco.
«I tuoi amici del pub?»
«Sì.»
«Criminali. Personalmente, ti consiglierei di sceglierti una miglior
compagnia. La donna è straniera, nordamericana. L'uomo è londinese,
dell'East End. E' un ladro di dati, chiaramente. Non ho accesso ai dati della
polizia, tranne per quanto riguarda i crimini di interesse storico.»
«Non so che cosa fare.»
«Volta l'unità.»
«Cosa?»
«Sul retro. C'è un incavo a forma di mezzaluna. Infila l'unghia del pollice,
e gira.»
Si aprì uno sportellino. Microinterruttori.
«Punta l'indicatore A/B su B. Usa qualcosa di sottile, di appuntito, ma
non una penna a sfera.»
«Una che?»
«Una penna. Per via dell'inchiostro e della polvere; rovina i circuiti. Uno
stuzzicadenti sarebbe l'ideale. Così è programmato per registrare
automaticamente al suono della voce.»
«E poi?»
«Nascondilo di sotto. Poi domani risentiremo tutto con calma.»
6. La luce del mattino.
Slick Henry passò la notte su un pezzo rosicchiato di espanso grigio al
piano terra della Fabbrica, sotto un banco da lavoro, avvolto in un foglio
frusciante di plastica da imballaggio che puzzava di monomeri liberi. Sognò
Kid Afrika e la sua macchina, e nel sogno le due cose si fondevano, i denti
di Kid diventavano teschi cromati.
Lo svegliò una folata di vento gelido che faceva entrare la neve attraverso
le finestre rotte della Fabbrica.
Restò disteso pensando al problema della sega circolare del Giudice. Il
polso tendeva a deformarsi ogni volta che si cercava di tagliare qualcosa di
più spesso del cartone. Nel progetto originale Slick aveva previsto che le
dita fossero articolate, ognuna terminante con una microsega elettrica, ma
per varie ragioni aveva dovuto rinunciarvi. L'elettricità non era
soddisfacente. Non era sufficientemente fisica. L'aria era quello che ci
voleva, grandi serbatoi d'aria compressa, oppure un motore a combustione
interna se fosse stato possibile trovare i pezzi. Si potevano trovare le parti
quasi di tutto, a Dog Solitude, avendo la pazienza di scavare. E se non si
aveva fortuna, c'era una mezza dozzina di città del Jersey, nella fascia
disabitata, che avevano ettari di campi sparsi di rottami di macchine pronti
per essere presi.
Strisciò sotto al tavolo, trascinando come un mantello la coperta
trasparente di bollicine di plastica. Pensò all'uomo disteso sulla barella nella
sua stanza, e a Cherry, che stava dormendo nel suo letto. A lei non sarebbe
venuto il torcicollo. Si stirò e sussultò. Gentry sarebbe tornato presto.
Avrebbe dovuto dargli diverse spiegazioni, e lui non voleva avere gente
intorno.
Little Bird aveva preparato il caffè nella stanza che fungeva da cucina
della Fabbrica. Il pavimento era di piastrelle di plastica deformate, e lungo
una parete c'erano lavelli di metallo opaco. Le finestre erano schermate da
cerate traslucide che si muovevano al risucchio del vento e lasciavano
entrare una luce lattiginosa che faceva sembrare le stanza ancora più fredda
di quanto non fosse.
«Come stiamo ad acqua?» chiese Slick, entrando nella stanza. Uno dei
compiti di Little Bird era di controllare tutte le mattine i serbatoi sul tetto,
eliminando le foglie cadute portate dal vento o qualche corvo morto. Poi
controllava i sigilli dei filtri e faceva entrare una quarantina di litri di acqua
fresca, se gli sembrava di essere a corto. Ci voleva quasi una giornata intera
per far filtrare quaranta litri dal sistema al serbatoio di raccolta. Il fatto che
Little Bird se ne occupasse scrupolosamente era l'unico motivo per cui
Gentry sopportava la sua presenza, ma forse la discrezione del ragazzo era
un altro punto a suo favore. Little Bird riusciva a essere quasi invisibile, per
quanto riguardava Gentry.
«Ce n'è un sacco» disse Little Bird.
«C'è modo di farsi una doccia?» chiese Cherry, seduta su una vecchia
cassetta di plastica. Aveva le occhiaie, come se non avesse dormito, e aveva
nascosto il livido con il fondotinta.
«No» rispose Henry «non in questo periodo dell'anno.»
«Come pensavo» disse Cherry, cupamente, rannicchiata nella sua
collezione di giacche di cuoio.
Slick si versò quel che restava del caffè e lo bevve stando in piedi di
fronte a lei.
«Che c'è?» chiese la ragazza.
«Tu e il tuo tipo lassù. Come mai sei scesa? Finito il turno?»
Lei mostrò una ricetrasmittente che aveva nella tasca della giacca più
esterna. «Se succede qualcosa, si accende.»
«Dormito?»
«Sì, abbastanza bene.»
«Io no. Da quanto lavori per Kid Afrika, Cherry?»
«Una settimana, più o meno.»
«Sei davvero un tecmed?»
Lei si strinse nelle sue giacche. «Quanto basta per curare il Conte.» «Il
Conte?»
«Già. Kid l'ha chiamato così, una volta.»
Little Bird rabbrividì. Ancora non si era messo al lavoro
sull'acconciatura, e i capelli gli stavano ritti da tutte le parti. «E se è un
vampiro?» chiese timidamente.
Cherry lo fissò. «Mi prendi in giro?»
Con gli occhi spalancati, Little Bird scosse la testa solennemente. Cherry
guardò Slick. «Il tuo amico fa sul serio?»
«Nessun vampiro» disse Slick a Little Bird «quelli non esistono, capito?
Esistono solo in simstim. Quel tizio non è un vampiro, chiaro?»
Little Bird annuì lentamente, senza sembrare affatto convinto, mentre il
vento tendeva la plastica contro la luce biancastra.
Slick Henry avrebbe voluto lavorare al Giudice, quella mattina, ma Little
Bird era sparito di nuovo e l'immagine dell'uomo sulla barella continuava a
ossessionarlo. Faceva molto freddo; avrebbe dovuto abbassare di un grado
il riscaldamento nella zona occupata da Gentry in cima alla Fabbrica e
procurarsi delle stufe. Ma questo avrebbe significato litigare con Gentry per
la corrente. L'elettricità era di Gentry, perché era lui che sapeva come
fregare l'Ente Fissione.
Per Slick stava iniziando il terzo anno di permanenza alla Fabbrica, ma,
quando l'aveva scoperta, Gentry era già lì da quattro anni. Slick aveva
eseguito molti lavori per Gentry, nei primi tempi, perché lui voleva
ampliare gli spazi disponibili. Quando la mansarda di Gentry fu terminata,
Slick aveva ereditato la stanza dove ora erano sistemati Cherry e l'uomo
chiamato il Conte. Gentry sosteneva che la Fabbrica era sua, dato che lui
era arrivato per primo e sapeva come procurare l'elettricità all'insaputa
dell'Ente. Però Slick eseguiva molti compiti di cui Gentry non voleva
occuparsi, come ad esempio controllare le scorte di viveri. E se si guastava
qualcosa di importante, se un cavo andava in corto circuito oppure si
bloccava il filtro dell'acqua, era Slick ad avere gli attrezzi per ripararli.
A Gentry la gente non piaceva. Tutti i giorni passava ore e ore con i suoi
deck, gli organi-F.X. e gli oloproiettori, uscendo dalla sua stanza solo
quando aveva fame. Slick non riusciva a capire a quale scopo, però
invidiava a Gentry la sua ossessione così totale. Non c'era nulla al mondo
che potesse raggiungere Gentry. Kid Afrika non sarebbe mai riuscito ad
arrivare fino a Gentry, proprio perché Gentry non sarebbe mai andato ad
Atlantic City a piantarsi nei casini per farsi salvare da lui e doversi poi
sdebitare.
Slick Henry entrò nella sua stanza senza bussare, e vide che Cherry stava
lavando con una spugna il petto del Conte usando guanti monouso. Aveva
portato su la stufa a butano della stanza che faceva da cucina, e si scaldava
l'acqua in una pentola. Slick si costrinse a osservare il viso smunto
dell'uomo. Le labbra socchiuse mostravano denti gialli da fumatore. Una
faccia comune, come tante, un viso che si potrebbe incontrare in qualunque
bar.
Lei alzò lo sguardo verso Slick.
Lui si sedette sul bordo del letto, su cui lei aveva disteso il sacco a pelo
come una coperta, con il lato strappato al di sotto.
«Dobbiamo parlare, Cherry. Chiarire un po' la faccenda.» Lei strizzò la
spugna nella pentola.
«Com'è che ti sei messa con Kid Afrika?»
Cherry infilò la spugna in una busta ziploc e la ripose nella borsa nera di
nylon dell'hovercraft di Kid. Osservandola, Slick notò che non faceva
neppure un gesto in più del necessario, e non sembrava pensare a quello che
stava facendo. «Conosci un posto che si chiama Moby Jane?»
«No.»
«E' un bar vicino alla statale. Un mio amico faceva il gestore lì, e dopo un
mese circa l'ho raggiunto. Moby Jane è una tipa enorme. Se ne sta in una
vasca a galleggiare nel retro del bar, all'esterno, con una flebo di freebase 4
infilata nel braccio, e fa veramente schifo. Insomma, capita che mi
trasferisco lì con il mio amico Spencer, il nuovo gestore, perché avevo dei
casini con la tessera a Cleveland e non potevo lavorare.»
«Che casini?»
«I soliti. Vuoi sentire la storia o no? Così Spencer mi mette al corrente
delle tristi condizioni della proprietaria. Allora l'ultima cosa che voglio che
si sappia è che sono un tecmed, se no mi mettono a cambiare i filtri della
vasca e a pompare freebase dentro quella pazza allucinata che pesa due
quintali. Insomma, mi mettono a servire ai tavoli e a spinare la birra. E mi
va bene. C'è anche della bella musica. E' un posto un po' da grezzi, ma non
ho problemi perché sanno tutti che sto con Spencer. Solo che una mattina
mi sveglio e Spencer è sparito. Poi salta fuori che se n'è andato con i soldi.»
Mentre parlava, asciugava il petto dell'uomo con fibra assorbente bianca.
«Così mi strapazzano un po'.» Cherry lo guardò e si strinse nelle spalle.
«Alla fine mi dicono quello che hanno intenzione di fare: ammanettarmi
con le mani dietro la schiena, mettermi nella vasca con Moby Jane, alzare al
massimo la flebo e dirle che il mio amico le ha tirato un bidone.» Gettò il
pezzo di fibra bagnata nella pentola. «Allora mi chiudono in uno
sgabuzzino per farmici pensare un po'. Però, quando la porta si apre, vedo
Kid Afrika. Io non lo conoscevo. Comincia a tirarmi una storia tipo
signorina Chesterfield ho ragione di credere che fino a poco tempo fa
eravate un tecnico medico autorizzato.»
«E così ti ha fatto un'offerta.»
«Un bel cazzo. Ha solo controllato i miei documenti e mi ha tirato fuori
di lì. In giro non c'era anima viva, eppure era sabato pomeriggio. Andiamo
nel parcheggio, dove vedo questo hovercraft con i teschi davanti e due negri
che ci stanno aspettando, e mi dico che qualsiasi cosa che non sia finire
nella vasca di Jane per me va bene.» «C'era l'amico qui, nel retro?»
«No.» Si tolse i guanti. «Il Kid mi fa guidare fino a Cleveland, fino a un
sobborgo della periferia. Ci sono grandi case vecchie, con i giardini tutti
malandati. Ci fermiamo davanti a una villa con un sacco di sistemi di
allarme, penso che fosse casa sua. Questo qui» disse, rimboccando il sacco
a pelo sotto il mento dell'uomo «stava in una delle camere da letto. Ho
dovuto iniziare subito. Kid Afrika ha detto che mi avrebbe pagata bene.»
«E sapevi già che ti avrebbe portato qui a Solitude?»
«No. Ma penso che neanche lui lo sapesse. E' successo qualcosa. Kid
Afrika la mattina dopo mi dice che dobbiamo partire. Penso che l'abbia
spaventato qualcosa. E' stato a quel punto che l'ha chiamato Conte. Era
incazzato, e forse anche spaventato. "Il Conte e il suo L.F. di merda" ha
detto.»
«Il suo cosa?»
«"L.F.".»
«E cosa sarebbe?»
«Questo, penso» disse Cherry, indicando l'impianto grigio e senza
indicazioni di sorta montato sulla testa dell'uomo.
7. Nessun luogo laggiù.
Lei immaginò Swift che la aspettava sulla terrazza, con indosso, come
tutti gli inverni, i suoi amati tweed, giacca e panciotto spaiati: uno a spina di
pesce e l'altro a quadretti, ma tessuti della stessa lana, probabilmente
ricavata dalla stessa pecora e addirittura filata sulla stessa collina.
L'abbigliamento, poi, era studiato a Londra da un comitato, in una stanza
sopra un negozio di Floral Street che lui non aveva neanche mai visto. Gli
facevano confezionare camicie a righe con i tessuti di Charvet, a Parigi; gli
fornivano le cravatte facendo tessere la seta a Osaka con il logo della
Senso/Rete ricamato minutamente. Eppure, chissà come, sembrava sempre
che fosse stata sua madre a vestirlo.
In terrazza non c'era nessuno. Il Dornier restò sospeso e poi sfrecciò via
verso la sua postazione. Angie sentiva ancora addosso la presenza di
Mamman Brigitte.
Entrò in cucina e si lavò il sangue secco dal viso e dalle mani. Entrando
in salotto, si sentì come se lo vedesse allora per la prima volta. Il pavimento
sbiadito, le cornici dorate e la tappezzeria di velluto delle poltrone Luigi
Sedici, lo sfondo cubista di un Valmier. "Come l'abbigliamento di Hilton"
pensò "studiato da estranei di talento." Gli stivali lasciavano tracce di sabbia
bagnata sul pavimento stinto, mentre si avvicinava al vano delle scale.
Kelly Hickman, l'addetto al suo guardaroba, si era occupato della villa
mentre lei era in clinica; aveva sistemato il suo bagaglio da lavoro nella
camera padronale. Nove custodie da fucile di Hermès, semplici,
rettangolari, simili a bare di cuoio rossiccio da sella. Non ripiegavano mai i
suoi vestiti. Erano sempre distesi in mezzo a pezzi di tessuto di seta.
Si fermò sulla soglia, guardando il letto vuoto e le nove bare di cuoio.
Entrò in bagno, pareti di vetrocemento e piastrelle bianche, chiudendo a
chiave la porta. Aprì un armadietto dopo l'altro ignorando le file ordinate di
prodotti da toilette, medicinali e cosmetici. Trovò l'iniettore nel terzo
armadietto, accanto a una confezione di dermi. Si piegò a fissare la plastica
grigia su cui era stampato un logo giapponese, quasi timorosa di toccarlo.
Sembrava nuovo, mai usato. Era quasi sicura di non averlo comprato lei, né
di averlo dimenticato nell'armadietto. Estrasse la droga dalla tasca del
giaccone e la esaminò, rigirandola più volte tra le mani e osservando la
polvere violetta che ricadeva dentro gli scomparti monodose sigillati.
Vide sé stessa che appoggiava il pacchetto sull'orlo del piano di marmo,
vi posizionava sopra il caricatore, poi staccava un derma dal suo supporto e
lo inseriva. Vide il lampo rosso del diodo appena il caricatore ebbe
prelevato la dose. Si vide mentre rimuoveva il derma, tenendolo sulla punta
dell'indice come una ventosa bianca. La superficie interna, umida, brillava
di minuscole particelle di dimetilsulfossido.
Si girò, fece tre passi e lasciò cadere il pacchetto sigillato nel gabinetto.
Galleggiava come una barchetta giocattolo, e la droga restava perfettamente
asciutta. Perfettamente. Con la mano che tremava, prese una limetta di
acciaio inossidabile e si mise in ginocchio sulle piastrelle bianche. Dovette
chiudere gli occhi mentre teneva il pacchetto e infilava la punta della
limetta sotto la chiusura, girandola. La limetta cadde tintinnando sul
pavimento mentre lei premeva il pulsante dello sciacquone e le due metà del
pacchetto vuoto sparivano. Appoggiò la fronte contro lo smalto freddo, poi
si sforzò di alzarsi in piedi, andò al lavandino e si lavò le mani
accuratamente.
Perché adesso, e lo sapeva bene, quello che voleva di più al mondo era
leccarsi le dita.
Quello stesso giorno, più tardi, nel pomeriggio grigio, andò in garage a
prendere un contenitore di plastica corrugata, lo portò in camera da letto e
cominciò a mettere via le cose di Bobby che erano rimaste. Non c'era
molto: un paio di jeans di cuoio che non gli piacevano, qualche camicia
scartata o dimenticata, e, nell'ultimo cassetto della scrivania di tek, un deck
ciberspazio. Era un Ono-Sendai, poco più che un giocattolo. Stava tra un
intrico di cavi neri, una serie di elettrodi simstim da poco prezzo e un
tubetto untuoso di pasta salina. Lei pensò al deck che usava Bobby, quello
che aveva preso con sé, un modello Hosaka fatto su ordinazione, con i tasti
non segnati. Era un deck da cowboy; Bobby insisteva nel volerlo portare
con sé durante i viaggi, anche se creava problemi nei controlli doganali.
Angie si chiese perché avesse comprato l'Ono-Sendai per poi abbandonarlo.
Era seduta sulla sponda del letto. Prese il deck dal cassetto e se lo appoggiò
sulle ginocchia.
Molto tempo prima, in Arizona, suo padre l'aveva avvertita di non
collegarsi. Le aveva detto che non ne aveva bisogno. Ed era così, infatti,
perché aveva sognato il ciberspazio, come se le linee fluorescenti della
griglia della matrice la stessero aspettando dietro le palpebre. Non c'è luogo,
là, dicevano ai bambini quando spiegavano il ciberspazio. Ricordò la
lezione tenuta da un maestro sorridente nell'asilo-nido riservato ai figli dei
dirigenti dell'arcologia. Sullo schermo scorrevano immagini: si vedevano
dei piloti con caschi enormi e guanti ingombranti; la tecnologia primitiva
neuroelettronica del "mondo virtuale" li teneva collegati strettamente ai loro
veicoli. Coppie di microterminali video inviavano loro flussi di dati di
combattimento, e i guanti vibrotattili a risonanza provvedevano a ricreare la
sensazione tattile dei pulsanti, dei grilletti. Col progredire della tecnologia i
caschi furono rimpiccioliti, i videoterminali si atrofizzarono.
Angie si piegò in avanti e prese la serie di elettrodi simstim, scrollandoli
per liberare i cavi dall'intrico.
Nessun luogo, laggiù.
Allargò la fascetta elastica e adattò gli elettrodi ai lati delle tempie; era
uno dei gesti più comuni del mondo, ma lei lo faceva di rado. Premette il
pulsante di controllo della batteria dell'OnoSendai. Comparve un segnale
verde. Poteva iniziare. Premette l'interruttore, e la stanza sparì dietro un
muro incolore di statica sensoriale. Nel cervello fluì un torrente di rumore
bianco.
Premette un secondo pulsante, a caso, e venne catapultata oltre il muro
statico, in un vasto spazio informe, il vuoto irreale del ciberspazio. Intorno a
lei, le linee luminose della griglia della matrice formavano come una gabbia
infinita.
«Angie» disse la casa, con voce tranquilla ma insistente «ho una chiamata
di Hilton Swift.»
«Sul canale preferenziale?» Stava mangiando fagioli in umido e pane
tostato sul tavolo di cucina.
«No» rispose la casa, in tono fiducioso.
«Cambia tono» disse Angie, masticando i fagioli. «Mettici un po' di
ansietà.»
«Il signor Swift sta aspettando» disse la casa, nervosamente.
«Così va meglio» esclamò lei mentre metteva la pentola e il piatto nella
lavastoviglie «però voglio qualcosa che si avvicini di più all'isterismo.»
«Vuoi prendere la chiamata o no?» La voce era convulsa per la tensione.
«No. Comunque, mantieni la voce così. Mi piace.»
Entrò in salotto, contando a bassa voce. Dodici, tredici...
«Angie» ricominciò la casa, gentile «ho una chiamata da Hilton Swift.»
«Sul canale preferenziale» disse Swift.
Lei gli fece una pernacchia.
«Sai che rispetto il tuo desiderio di solitudine, ma sono preoccupato per
te.»
«Sto bene, Hilton. Non hai niente di cui preoccuparti. Arrivederci.»
«Stamattina sei inciampata, in spiaggia. Sembravi agitata Ti sanguinava il
naso.»
«Infatti mi è solo uscito un po' di sangue dal naso.»
«Noi vorremmo che tu ti sottoponessi a un'altra visita.»
«Stupendo.»
«Sei entrata nella matrice, oggi. Ti abbiamo rilevata nel settore
industriale dell'A.M.B.A.»
«Ah sì?»
«Hai voglia di parlarne?»
Non c'è niente di cui parlare. Stavo solo facendo due salti. Comunque, se
vuoi proprio saperlo, stavo mettendo via della roba che Bobby aveva
lasciato qui. L'avresti approvato anche tu, Hilton! Ho trovato uno dei suoi
deck e l'ho provato. Ho premuto un tasto, solo un'occhiata e poi l'ho
spento.»
«Ti chiedo scusa, Angie.»
«Per cosa?»
«Per averti disturbata. Adesso vado.»
«Hilton, sai dov'è Bobby?»
«No.»
«Vuoi farmi credere che gli organi di sicurezza della Senso/Rete non
l'hanno tenuto sotto controllo?»
«Ti dico che non lo so, Angie. E' la verità.»
«Ma se tu volessi, potresti scoprirlo?»
Un'altra pausa. «Non lo so. Se anche potessi, non sono sicuro che lo
farei.»
«Grazie. Arrivederci, Hilton.»
«Arrivederci, Angie.»
Quella notte si sedette in terrazza, al buio, osservando le pulci che
danzavano contro la sabbia illuminata dai fari. Pensava a Brigitte, al suo
avvertimento, alla droga trovata nel giaccone, all'iniettore nell'armadietto
delle medicine. Pensava al ciberspazio e al triste senso di oppressione
provato con l'Ono-Sendai, così diverso dalla libertà dei "loa".
Pensava ai sogni dell'altra, a corridoi che si arrotolavano su se stessi,
tappeti antichi dai colori smorzati. Un vecchio con la testa fatta di pietre
preziose, lineamenti tirati, occhi di specchio. E una spiaggia ventosa al
buio.
Non quella spiaggia, non Malibu.
E da qualche parte, in un buio mattino californiano, alcune ore prima
dell'alba, attraverso i corridoi, le gallerie, i volti di sogno, i frammenti di
conversazione quasi dimenticati, svegliandosi e vedendo la foschia pallida
sui vetri della camera padronale, sollevò qualcosa e lo trascinò oltre il muro
del sonno.
Rotolò giù dal letto, si mise a frugare in un cassetto del comodino, e,
trovata una penna Porsche, regalo di un assistente scenografo, scrisse la sua
preziosa scoperta sulla copertina patinata di una rivista di moda italiana: T-
A.
«Chiama Continuity» disse alla casa, bevendo la terza tazza di caffè.
«Ciao, Angie» disse Continuity.
«Quella sequenza orbitale che abbiamo registrato due anni fa. Lo yacht di
quel belga» disse, sorbendo il caffè che si stava raffreddando. «Come si
chiamava il posto dove mi voleva portare? Quello che secondo Robin era
troppo da arricchiti.»
«Freeside» rispose il sistema, esperto.
«Chi c'è registrato?»
«Tally Isham vi ha registrato nove sequenze.»
«Ma non era troppo volgare per lei?»
«Risalgono a quindici anni fa. Freeside allora era di moda.» «Procurami
quelle sequenze.»
«Eseguito.»
«Ciao.»
«Arrivederci, Angie.»
Continuity stava scrivendo un libro. Robin Lanier gliene aveva parlato, e
lei aveva chiesto di che argomento trattasse. Lui le aveva risposto che non
trattava proprio di un argomento particolare. Il libro si avvolgeva su se
stesso e cambiava in continuazione: Continuity lo scriveva perennemente.
Lei gli chiese il perché, ma Robin aveva già perso ogni interesse: perché
Continuity era un'I.A., e si sa che le I.A. fanno cose strane.
L'aver interpellato Continuity costò ad Angie una chiamata da parte di
Swift.
«Angie, a proposito di quella visita...»
«Non l'hai ancora fissata? Voglio tornare al lavoro. Stamattina ho
chiamato Continuity. Sto pensando a una sequenza orbitale; sto rivedendo
delle cose girate da Tally, potrei ricavarne qualche idea.» Ci fu un momento
di silenzio. Le venne da ridere. Era difficile azzittire Swift. «Ne sei sicura,
Angie? E' meraviglioso, ma vuoi farlo davvero?»
«Sto veramente meglio, Hilton. Sto proprio bene. Ho voglia di lavorare.
La vacanza è finita. Fai venire qui Porphyre; prima di vedere gente vorrei
sistemare i capelli.»
«Sai, Angie, questa notizia ci rende tutti molto felici.»
«Chiama Porphyre. Fissa la visita.» "'Coup-poudre'. Chi, Hilton? Magari
tu?" pensò.
Lui ne aveva la possibilità, rifletté Angie mezz'ora dopo, camminando
sulla terrazza avvolta dalla foschia. La sua tossicodipendenza non aveva
preoccupato la Senso/Rete, non aveva influito sul suo rendimento: non
aveva avuto effetti collaterali sul suo fisico. In caso contrario, la Senso/Rete
non le avrebbe permesso di cominciare. "Il progettista della droga" pensò
"dovrebbe saperlo." Ma non gliel'avrebbe mai svelato, anche ammettendo di
poterlo rintracciare, cosa di cui Angie dubitava. "Supponiamo che il
progettista non fosse lui" pensò, appoggiata alla ringhiera arrugginita "e che
la molecola fosse stata sintetizzata da qualcun altro, per dei fini suoi..."
«Il tuo parrucchiere» disse la casa.
Angie entrò.
Porphyre la stava aspettando, fasciato in un jersey di colore spento, una
novità di qualche sarto parigino. Sul viso, liscio e lucido come l'ebano, gli
apparve un sorriso compiaciuto non appena la vide. «Signorina» la
rimproverò «assomigli veramente a un pezzettino di merda!»
Angie rise. «Vergogna vergogna» squittì Porphyre, dando buffetti con le
sue lunghe dita alla zazzera di lei, fingendo repulsione «la signorina ha fatto
la cattiva. Te l'aveva detto, Porphyre, che quella droga ti faceva male.»
Lei lo guardò; era molto alto, e, lei lo sapeva, incredibilmente forte.
Come un levriero imbottito di steroidi, aveva detto qualcuno. Il cranio
depilato aveva una simmetria sconosciuta in natura.
«Stai bene?» le chiese, in un altro tono; la vivacità affettata era sparita,
come se qualcuno avesse premuto un interruttore.
«Sì.»
«E' stato doloroso?»
«Già. Infatti.»
«Sai» le disse, toccandole piano il mento con la punta del dito «nessuno
riusciva a capire che cosa ne ricavassi, da quella merda. Non sembrava
mandarti tanto su di giri.»
«Non era quello, lo scopo. Era come essere qui, o là, solo non ero
costretta...»
«A pensarci?»
«Sì.»
Lui scosse la testa, lentamente. «Allora era proprio merda.»
«Al diavolo» disse Angie. «E' finita.»
Sul viso di lui ricomparve un sorrisetto. «Laviamo i capelli.»
«Ma li ho lavati ieri!»
«No! Dove? Ma davvero!» e la fece andare verso le scale.
Nel bagno con le pareti di piastrelle bianche, le massaggiò qualcosa sul
cuoio capelluto.
«Hai visto Robin, ultimamente?»
Porphyre le risciacquava i capelli con l'acqua fresca. «"Massa" Lanier è a
Londra. "Massa" Lanier e io attualmente non ci rivolgiamo la parola.
Seduta, ora.» Raddrizzò lo schienale della poltroncina e le avvolse un
asciugamano intorno alle spalle.
«E perché?» I pettegolezzi sulla Senso/Rete, l'altra specialità di Porphyre,
cominciavano a stuzzicarla.
«Perché» rispose lui, in tono studiatamente inespressivo, passandole un
pettine tra i capelli «ha detto delle cose molto cattive su Angie Mitchell,
mentre lei era in Giamaica a farsi curare la testolina.»
Non se lo aspettava. «Davvero?»
«Davvero davvero, signorina.» Cominciò a tagliarle i capelli, usando un
paio di forbici che erano come il suo marchio di fabbrica; si rifiutava di
usare la matita laser, e si vantava di non averne mai toccata una.
«Stai scherzando, Porphyre?»
«No. Lui a me non avrebbe mai detto certe cose, ma Porphyre ascolta,
ascolta tutto. Lanier è partito per Londra la mattina stessa in cui tu sei
venuta qui.»
«E che cosa gli hai sentito dire?»
«Che sei pazza. Sei fuori. Che senti delle voci e che gli psichiatri della
Rete lo sanno.»
Voci... «Chi te lo ha detto?» Cercò di voltarsi sulla poltroncina. «Non
muoverti. Ecco, così.» Tornò al suo lavoro. «Non posso dirtelo. Fidati di
me.»
Dopo che Porphyre se ne fu andato, Angie ricevette molte chiamate: era
il suo staff di produzione, impaziente di salutarla.
«Per questo pomeriggio basta chiamate» disse alla casa. «Salgo a vedere
le sequenze di Tally.»
In fondo al frigo trovò una bottiglia di Corona, e la portò nella camera
principale. L'unità simstim inserita nella testiera del letto era fornita di
elettrodi di tipo professionale, che non c'erano quando lei era partita per la
Giamaica. I tecnici della Senso/Rete venivano periodicamente a
perfezionare l'impianto. Bevve un sorso di birra, appoggiò la bottiglia sul
comodino, poi si distese sul letto con gli elettrodi fissati sulla fronte.
«Okay, forza» disse.
Dentro la carne, il respiro di Tally.
"Come ho fatto a sostituirti?" si chiese, sopraffatta dalla presenza fisica
dell'altra star. "Procuro anch'io alla gente lo stesso piacere?"
Tally-Angie guardava oltre un burrone coperto di viticci che era allo
stesso tempo un viale, osservava l'orizzonte capovolto. In lontananza i
rettangoli dei campi da tennis, e il "sole" di Freeside era una trama assiale
di luminescenza sopra di lei.
«Avanti veloce» ordinò alla casa.
I muscoli pulsavano veloci, una visione di cemento, Tally spingeva la bici
in un velodromo a bassa gravità...
«Avanti veloce.»
A cena, la tensione delle spalline di velluto sulla pelle, il giovane che si
sporgeva in avanti per versare dell'altro vino.
«Avanti veloce.»
Le lenzuola di lino, una mano fra le sue gambe, luce violetta attraverso le
lastre di cristallo e un rumore di acqua corrente... «Indietro. Il ristorante.»
Il vino rosso gorgogliava nel bicchiere.
«Ancora un po'. Ferma. Ecco.»
Gli occhi di Tally erano puntati sul polso abbronzato del giovane, non
sulla bottiglia.
«Voglio un grafico del suo campo visivo» disse, togliendosi gli elettrodi.
Si sedette e bevve un po' di birra, il cui sapore si mescolava stranamente
con il gusto fittizio del vino di Tally.
Di sotto, la stampante segnalò che aveva finito. Si sforzò di scendere le
scale con calma, ma quando fu alla stampante, in cucina, l'immagine la
deluse.
«Puoi schiarire?» domandò alla casa. «Voglio leggere l'etichetta sulla
bottiglia.»
«Giustificare immagine» disse la casa «e ruotare l'oggetto collimato di
otto gradi.»
La stampante ronzò piano, mentre fuoriusciva il nuovo grafico. Angie
trovò il suo tesoro prima che la stampante emettesse il segnale. Inchiostro
marrone, il sigillo del sogno: T-A.
"Possiedono delle vigne" pensò.
TESSIER-ASHPOOL S.A., scritto in caratteri sottili ed eleganti.
«Trovato» sussurrò.
8. Radio Texas.
Monna intravedeva il sole da un paio di squarci nella plastica nera fissata
sulla finestra. Odiava troppo la tana per rimanerci quando era sveglia, o
lucida, e in quel momento era entrambe le cose.
Si alzò tranquillamente dal letto, trasalendo appena sentì il pavimento
sotto i piedi nudi, e cercò i sandali di plastica. Quel posto era lurido.
Bastava appoggiarsi al muro per prendere il tetano. Solo a pensarci le si
accapponava la pelle. Sembrava che a Eddy non desse fastidio; era troppo
perso nei suoi progetti per notare quello che lo circondava. E poi riusciva
sempre a tenersi pulito, come un gatto. La sua era una pulizia da gatto, mai
un granellino di sporco sotto le unghie lucide. Monna pensava che Eddy,
probabilmente, spendesse in vestiti quasi tutto quello che lei guadagnava,
anche se non era una cosa di cui discutere con lui. Monna aveva sedici anni
ed era senza SIN. Un vecchio cliente le aveva detto che c'era una canzone
che si chiamava "Sixteen and SINless". Voleva dire che, alla nascita, non le
era stato dato il Numero di Identificazione Singolo, e così era cresciuta
fuori del controllo dei sistemi ufficiali. Sapeva che era possibile ottenere un
SIN, volendo, ma, ovviamente, bisognava andare in un qualche palazzo a
parlare con un impiegato, il che era lontanissimo da tutto ciò che Monna
considerava divertente, o perlomeno normale.
Aveva trovato un metodo per riuscire a vestirsi nella tana, e sapeva farlo
al buio. Bisognava infilare i sandali dopo averli scossi per far cadere
eventuali mostriciattoli, poi andare nel punto in cui si trovava un rotolo di
fax vecchi su una cassetta di stiroespanso vicino alla finestra. Si srotolava
un metro di fax, più o meno una giornata e mezza dell'"Asahi Shimbun", lo
si piegava e poi lo si metteva per terra. Così si poteva stare in piedi,
prendere il sacchetto di plastica dietro la cassetta, disfare il cavo che lo
teneva chiuso e trovare i vestiti che servivano. Allora, togliendosi i sandali
per infilarsi i pantaloni, i piedi stavano sui fax puliti. Per Monna era un
dogma che nessun animale avrebbe attraversato i fogli durante quei pochi
minuti necessari per infilarsi un paio di jeans e i sandali.
Si poteva indossare una maglietta o qualcos'altro, richiudere
accuratamente il sacchetto e uscir fuori. Monna si truccava, quando era
necessario, nel corridoio esterno, accanto al relitto dell'ascensore era
rimasto qualche pezzo di specchio, con una striscia biofluorescente della
Fuji appiccicata sopra.
Quella mattina c'era un forte tanfo di piscia vicino all'ascensore, così
decise di lasciar perdere il trucco.
Non si vedeva mai nessuno nell'edificio, ma a volte si poteva sentire
qualcuno: musica che proveniva da una porta chiusa, dei passi dietro
l'angolo in fondo a un corridoio. Segno che c'era qualcuno, e Monna non
desiderava incontrare i suoi vicini.
Scese tre rampe di scale e si trovò nel buio abissale del garage
sotterraneo. Teneva in mano la pila elettrica, da cui si fece guidare con sei
rapidi salti oltre le pozze di acqua stagnante e i cavi ottici fuori servizio che
penzolavano dal tetto, fino ai gradini di cemento, fuori nel vicolo.
Quando il vento spirava nella direzione giusta, si sentiva l'odore del
mare; oggi, però, si sentiva solo quello della spazzatura.
Si trovava sotto a un muro dell'edificio, così cominciò ad allontanarsi
velocemente, prima che qualche rottinculo buttasse giù una bottiglia o
peggio. Arrivata nel viale, rallentò, ma non di molto; sapeva di avere il
denaro in tasca, e sapeva anche come spenderlo. Non voleva cacciarsi nei
guai, non ora che sembrava che Eddy fosse finalmente riuscito a rimediare
un biglietto per partire. Pensava prima che ormai era una cosa sicura, che
praticamente erano fuori, e subito dopo che non doveva contarci troppo.
Sapeva già com'erano sicure, le trovate di Eddy: la Florida, per esempio. Le
aveva detto che in Florida c'erano il sole, tante belle spiagge e un sacco di
ragazzi carini e pieni di soldi, proprio un bel posticino per una vacanza che
si era rivelata invece il mese più lungo della sua vita. Tanto per cominciare,
in Florida faceva un caldo da crepare: sembrava una sauna. Le poche
spiagge che non erano private erano inquinate, piene di pesci morti che
galleggiavano a pancia in su nell'acqua bassa. Magari quelle private erano
la stessa cosa, ma non si vedevano; erano recintate con catene e c'erano
guardie a sorvegliarle, in calzoncini e camicia da poliziotto. Eddy era tutto
entusiasta delle armi che portavano, e si era messo a descrivergliele con
precisione
esasperante. Lui, però, una pistola non ce l'aveva, e Monna pensò che era
proprio una fortuna. A volte non si sentiva neanche la puzza di pesce
marcio, perché era coperta da un altro cattivo odore. Una puzza di cloro che
bruciava il palato e proveniva dalle fabbriche lungo la costa. I bei ragazzi,
poi, erano pur sempre solo dei clienti, e non certo disposti a pagare il
doppio. L'unica cosa piacevole della Florida, forse, era la droga, facile da
trovare, a basso prezzo e quasi tutta di produzione industriale. Qualche
volta Monna immaginava che l'odore di cloro provenisse da milioni di
laboratori di droga che stavano preparando qualche miscela incredibile, e
pensava alle molecole che scodinzolavano con le loro codine arricciate,
impazienti di incontrare il proprio destino sulla strada.
Svoltò e cominciò a camminare lungo una fila di bancarelle non
autorizzate che vendevano da mangiare. All'odore del cibo lo stomaco
iniziò a tirar calci, ma Monna non si fidava della roba che si vendeva per la
strada, a meno di non esservi costretta, e c'erano comunque dei locali con
licenza, in centro, che accettavano contanti. Qualcuno stava suonando la
tromba nella piazza asfaltata dove, una volta, si trovava il parcheggio; era
un assolo di musica cubana, che i muri di cemento distorcevano e facevano
rimbalzare, mentre le note morivano, perdute nella confusione mattutina del
mercato. Un predicatore, in piedi su un cartone di detersivo, teneva le
braccia tese, mentre un Gesù pallido e ricciuto ripeteva lo stesso gesto sopra
di lui. L'apparecchiatura di proiezione era dentro il cartone, ma il
predicatore portava uno zaino di nylon tutto rovinato, con due altoparlanti
attaccati alle spalle che sembravano teste cromate prive di lineamenti.
Osservò Gesù, e toccò qualcosa nella cintura che portava in vita. Gesù
mandò un lampo di luce, diventò verde, scomparve. Monna si mise a ridere.
Gli occhi dell'uomo lampeggiarono dell'ira di Dio, un muscolo della sua
guancia ricucita si contrasse. Lei svoltò a sinistra, tra le file di fruttivendoli
che esponevano piramidi di arance e pompelmi sui loro carretti scassati di
metallo. Entrò in un edificio basso e cavernoso, nelle cui navate si
trovavano dei negozi: commercianti di pesce e di cibi confezionati,
casalinghi a basso prezzo, banchi dove si vendevano cibi caldi di ogni tipo.
Là, nell'ombra, faceva più fresco e c'era un po' più di calma. Vide un
chiosco cinese con sei sgabelli vuoti, e ne occupò uno. Il cuoco cinese si
rivolse a lei in spagnolo, e Monna fece l'ordinazione indicando con un dito.
Le servì la minestra in una ciotola di plastica. Lei pagò con una banconota
di piccolo taglio, e il cuoco le diede come resto otto gettoni di cartoncino
unto. Se Eddy diceva sul serio quando parlava di partire, Monna non
avrebbe potuto più utilizzarli, ma se fossero rimasti in Florida avrebbe
sempre potuto comprarsi un po' di won-ton. Scosse la testa. Bisognava
andarsene, proprio. Spinse indietro i dischetti consunti di cartoncino giallo
sul bancone di compensato. «Puoi tenerli.» Il cuoco li fece sparire, calmo,
inespressivo, uno stuzzicadenti di plastica azzurra all'angolo della bocca.
Prese i bastoncini da un bicchiere sul bancone, e ripescò un won-ton nella
ciotola. Un impiegato la stava osservando dal corridoio dell'edificio, dietro
alle pentole e ai fornelli del cuoco. Un impiegato che cercava di non
sembrarlo. Maglietta bianca e occhiali da sole. "E' il loro modo di stare in
piedi, più che il resto" pensò Monna. Però anche la dentatura e il sorriso
erano tipici, a parte la barba. Faceva finta di guardarsi intorno, come uno
che fosse in giro per acquisti; teneva le mani in tasca e atteggiava le labbra
in quello che avrebbe dovuto sembrare un sorriso distratto. Sembrava anche
carino, per quello che si poteva intuire dietro la barba e gli occhiali. Ma il
sorriso non era affatto carino; sembrava quasi rettangolare, e mostrava tutti i
denti. Lei cambiò posizione sullo sgabello. Si sentiva a disagio. Battere era
consentito, ma solo con il chip del fisco in tasca. Improvvisamente si
ricordò dei soldi che aveva in tasca. Fece finta di leggere la lamina della
licenza incollata al banco; quando si voltò, lui era sparito.
Monna spese un cinquantone in vestiti. Frugò in diciotto file di
appendiabiti in quattro negozi diversi, tutto quello che offrivano, prima di
decidersi. I negozianti non avevano voglia di farle provare tutti quei capi,
ma era la cifra più alta che lei avesse mai avuto da spendere. Si fece
mezzogiorno prima che avesse finito, e il sole della Florida bruciava il
selciato mentre Monna attraversava il parcheggio con due borse di plastica
in mano. Le borse, come i vestiti, erano di seconda mano: una portava il
marchio di un negozio di scarpe di Ghinza, l'altra una réclame di tavolette al
gusto di pesce fatte di "krill" ricostituito. Monna studiava le possibili
combinazioni dei vestiti che aveva acquistato, immaginando i diversi
accostamenti. Dall'altra parte della piazza, il predicatore esordì il suo
discorso a tutto volume, quasi sbraitando, come se si fosse allenato a sputar
veleno prima di accendere l'altoparlante. Intanto, l'ologramma di Gesù, in
tunica bianca, agitava le braccia e gesticolava rabbiosamente verso il cielo,
il viale, e di nuovo il cielo. "L'estasi" diceva "l'estasi sta per arrivare".
Monna svoltò a un angolo a caso, evitando di riflesso un pazzoide, e si
trovò a camminare tra tavoli di cartone sbiaditi dal sole sui quali erano
sistemati simstim economici Indo, cassette usate, scaglie colorate di
microsoft infilate in blocchi di stiroespanso azzurro. Dietro a uno dei tavoli
era appeso un manifesto di Angie Mitchell, un ritratto che Monna non
aveva mai visto. Si fermò e lo osservò avidamente, studiando prima il
trucco e l'abbigliamento, tentando poi di immaginare lo sfondo in cui
l'immagine era stata ambientata. Involontariamente, si atteggiò in
un'espressione simile a quella della diva. Non proprio un sorriso. Quasi un
mezzo sorriso, un po' malinconico, forse. Monna provava uno strano
sentimento nei confronti di Angie. Perché - a volte i clienti glielo dicevano -
le assomigliava. Come fossero sorelle. Tranne che il suo naso, quello di
Monna, aveva qualcosa di più irregolare, mentre Angie non aveva il suo
spruzzo di lentiggini sulle guance. Il mezzo sorriso di Monna-Angie si
distese mentre lei guardava e si immergeva nella bellezza di quel manifesto,
nel lusso della stanza che vi era riprodotta. Pensò che fosse una specie di
castello; forse Angie viveva lì, anzi, ne era sicura, circondata di gente che la
serviva, la pettinava e le stirava gli abiti. Si vedeva chiaramente che i muri
spessi erano fatti di pietra, e c'erano specchi con cornici d'oro massiccio
decorate con foglie e angioletti. Forse la scritta in fondo al manifesto diceva
dove si trovava, ma lei non sapeva leggere.
Comunque, una cosa era certa: là non c'erano quelle cimici di merda, e
neanche Eddy. Monna guardò i simstim e pensò per un attimo di spendere i
soldi che le restavano, ma poi non le sarebbe rimasto mente per le cassette.
E poi era roba vecchia, ce n'era anche di più vecchia di lei. C'era quella tipa,
quella Tally, che andava forte quando Monna aveva nove anni...
Quando tornò a casa trovò Eddy che la stava aspettando. Aveva tolto la
plastica dalla finestra e si sentivano ronzare le mosche. Si era sdraiato sul
letto e fumava una sigaretta, l'impiegato con la barba che era stato ad
osservarla era seduto sulla sedia rotta, il viso ancora nascosto dagli occhiali
da sole.
Disse di chiamarsi Prior, come se non avesse avuto un nome di battesimo.
Oppure, come Eddy, non aveva un cognome. Del resto neanche lei ne aveva
uno, a parte Lisa, ma in fondo era come avere due nomi. Lì, nella tana, non
riusciva a capire granché di lui. Forse perché si trattava di un inglese. Però
non era proprio un impiegato, non come le era sembrato poco prima; lui
aveva in mente qualcosa, ma non era chiaro cosa. Continuò a tenere gli
occhi fissi su di lei, la osservò mentre metteva le sue cose nella borsa blu
della Lufthansa che le aveva portato, ma Monna non riusciva a sentire
calore in quello sguardo, non le sembrava che Prior la desiderasse. Si
limitava a guardarla, guardava Eddy che fumava, batteva nervosamente gli
occhiali sul ginocchio, ascoltava le solite stronzate di Eddy e parlava il
minimo indispensabile. Quando diceva qualcosa, di solito si trattava di una
battuta, ma il suo modo di parlare rendeva difficile capire quando stava
scherzando.
Mentre faceva la valigia Monna si sentiva leggera, come se avesse preso
il wiz ma non le avesse ancora fatto effetto. Le mosche sulla finestra
scopavano, colpendo il vetro rigato dalla polvere, ma non le importava più
niente. Via, era già via.
Chiuse la cerniera della borsa.
Pioveva, quando arrivarono all'aeroporto; la pioggia della Florida era
come piscia tiepida che cadeva da un cielo invisibile. Monna non era mai
stata in un aeroporto, ma li aveva visti nei simstim.
L'auto di Prior era una Datsun bianca presa a nolo, con guida automatica
e altoparlanti quadrifonici che diffondevano una musica come quella che
trasmettevano negli ascensori. L'auto li lasciò su uno spiazzo di cemento
con le loro valigie, e si allontanò sotto la pioggia. Se anche Prior aveva una
valigia, non la portava con sé. Monna aveva la borsa della Lufthansa ed
Eddy aveva due valigie nere di clone di coccodrillo. Lei si tirò giù la gonna
sui fianchi, chiedendosi se aveva comprato le scarpe adatte. Eddy era di
buon umore, teneva le mani in tasca e le spalle dritte per dimostrare che
stava facendo qualcosa di importante.
Monna pensò a quando lo aveva visto per la prima volta a Cleveland. Era
venuto a vedere un motorino che il vecchio aveva messo in vendita, uno
Skoda a tre ruote tutto arrugginito. Il vecchio allevava pescigatto in vasche
di cemento poste lungo la discarica. Lei era in casa quando arrivò Eddy. La
casa era un rimorchio alto e lungo che poggiava su mattoni. Su un lato
erano state ritagliate le finestre, buchi quadrati riparati da fogli di plastica
graffiata. Monna era accanto alla stufa. Si sentiva l'odore dei sacchi di
cipolle e dei pomodori appesi a seccare. Lei lo aveva percepito in fondo alla
stanza, aveva sentito i suoi muscoli e le sue spalle, i suoi denti bianchi, il
berretto nero di nylon che teneva timidamente in mano. Il sole entrava dalle
finestre, illuminando la stanza semplice e spoglia, il pavimento pulito come
voleva il vecchio. Fu come se entrasse un'ombra, un'ombra di sangue, non
appena lei aveva sentito battere il cuore più in fretta e lui che si avvicinava.
Eddy, passando, aveva gettato il berretto sul nudo tavolo di cartone proprio
di fronte a lei, non timidamente, ma come se fosse stato un abitante della
casa. Si era passato una mano inanellata attraverso la massa imbrillantinata
dei capelli. A quel punto era entrato il vecchio, e Monna si era allontanata
facendo finta di sistemare qualcosa vicino alla stufa. Il vecchio le aveva
detto di preparare il caffè, e lei era andata sul tetto a prendere l'acqua dal
serbatoio per riempire il bricco smaltato, l'acqua che gorgogliava passando
attraverso il filtro a carbone. Eddy e il vecchio, seduti al tavolo, bevevano il
caffè nero, Eddy con le gambe allungate sotto il tavolo e le cosce rigide
sotto la tela dei jeans. Il vecchio sorrideva, stavano trattando per lo Skoda.
Diceva che gli sembrava a posto e che l'avrebbe comprato, se il vecchio
aveva il certificato. Il vecchio era andato a frugare in un cassetto. Lo
sguardo di Eddy si era posato nuovamente su di lei. Monna li aveva seguiti
fuori nel cortile, e lo aveva guardato mentre inforcava il sellino di vinile
rovinato. Un ritorno di fiamma aveva spaventato i cani neri del vecchio,
odore acuto e dolciastro di alcol scadente, e il telaio che vibrava fra le sue
gambe.
Monna lo osservava, tutto una posa con le sue valigie, e pensò che era
difficile dire perché l'avesse seguito, perché fosse fuggita con lui il giorno
dopo sullo Skoda, direzione Cleveland. Lo Skoda aveva una radiolina
scassata che non si poteva ascoltare quando il motore era acceso, ma solo di
notte, a basso volume, in un campo vicino alla strada. Il selettore era rotto, e
così si riceveva una stazione soltanto, musica fantasma proveniente da
qualche antenna solitaria nel Texas, il suono della steel guitar che andava e
veniva per tutta la notte, mentre lei si sentiva bagnata contro la gamba di
Eddy e l'erba secca le pungeva il collo.
Prior mise la sua borsa blu in un carrello bianco col bordo a strisce, e
Monna salì, sentendo delle vocine in spagnolo nella cuffia del conducente
cubano.
Eddy caricò le sue valigie di coccodrillo e salì insieme a Prior. Si
avviarono verso la pista attraverso scrosci di pioggia.
L'aeroplano non era come nei simstim, un grande autobus di lusso con
tanti sedili. Era una cosa nera, con ali aguzze e scheletriche e dei finestrini
che sembravano occhietti maligni.
Monna salì alcuni scalini di metallo e vide uno spazio occupato da
quattro sedili e rivestito di moquette grigia anche sulle pareti e il soffitto,
tutto pulito, freddo, grigio. Eddy entrò dopo di lei e occupò il suo posto
come fosse una cosa che faceva tutti i giorni, allentandosi il nodo della
cravatta e stendendo le gambe. Prior premette alcuni pulsanti accanto al
portellone, che si chiuse con un suono smorzato.
Lei guardò fuori dai finestrini angusti, gocciolanti, e vide le luci della
pista che si specchiavano sull'asfalto bagnato.
"Si arriva in treno da New York ad Atlanta" pensò "poi si cambia."
L'aereo ondeggiò. Lo udì scricchiolare mentre riprendeva vita.
Monna si svegliò per un attimo, due ore più tardi, nella cabina buia,
cullata dal lungo mormorio del jet. Eddy dormiva con la bocca semiaperta.
Forse dormiva anche Prior, o forse stava tenendo solo gli occhi chiusi,
chissà.
Ancora immersa in un sogno che il mattino dopo non avrebbe ricordato,
udiva il suono di una radio del Texas, e gli accordi della steel guitar che si
perdevano, pungenti come una fitta.
9. Metropolitana.
Fermate "Jubilee" e "Bakerloo", "Circle" e "District". Kumiko diede
un'occhiata alla piantina metallica che Petal le aveva dato e rabbrividì. La
banchina di cemento sembrava trasmettere il freddo attraverso le suole degli
stivali.
«E' vecchio da far schifo» disse, con aria assente, Sally Shears. Le sue
lenti riflettevano una parete convessa, rivestita di piastrelle bianche.
«Prego?»
«Il metrò.» Aveva annodato sotto il mento una sciarpa scozzese nuova, e
quando parlava il suo respiro diventava bianco. «Sai cosa mi dà fastidio?
Che a volte attaccano delle piastrelle nuove senza togliere quelle vecchie.
Poi fanno un buco nel muro per far passare qualche cavo, e così vengono
fuori questi strati di piastrelle.»
«Sì?»
«Si sta restringendo, no? Un po' la stessa cosa che succede alle arterie.»
«Sì» disse Kumiko, perplessa «ho capito. Scusate, Sally, quei ragazzi.
Che cosa significa il loro abbigliamento?»
«Sono dei Jack. Si chiamano "Jack Dracula".»
I quattro Jack Dracula, molto simili a corvi, stavano sulla banchina
opposta. Portavano impermeabili neri informi e anfibi lucidi, anch'essi neri,
allacciati fino al ginocchio. Uno di loro si voltò verso il compagno, e
Kumiko vide che portava i capelli raccolti in una treccia legata da un
nastrino nero.
«L'hanno impiccato» disse Sally «dopo la guerra.»
«Chi?»
«Jack Dracula. Per un po' di tempo ci furono esecuzioni pubbliche, dopo
la guerra. Meglio girare al largo da quelli là. Odiano tutti gli stranieri.»
Kumiko avrebbe voluto chiamare Colin, ma l'unità Maas-Neotek era
fissata dietro a un busto di marmo nella sala da pranzo. Arrivò il treno, che
la stupì con il rombo arcaico delle ruote sulle rotaie.
Sally Shears sullo sfondo dell'architettura composita della città: le sue
lenti riflettevano il caos londinese, gli stili su cui l'economia, gli incendi, la
guerra avevano operato una selezione.
Kumiko, ormai disorientata dopo tre rapidi cambiamenti di treno
apparentemente casuali, si lasciò trascinare in una serie di corse in tassì.
Scendevano da un tassì, entravano nel più vicino grande magazzino, poi
prendevano la prima uscita verso un altra via e un altro tassì. «Harrod's» la
informò Sally a un certo punto, mentre attraversavano frettolosamente un
atrio pieno di decorazioni, con pareti rivestite di piastrelle e colonne di
marmo. Kumiko guardò di sfuggita i grossi arrosti sanguigni e i cosciotti
esposti sui banconi di marmo allineati, sospettando che fossero fatti di
plastica. Poi, di nuovo fuori. Sally chiamò un altro tassì. «Covent Garden»
disse all'autista.
«Scusate, Sally. Che cosa stiamo facendo?»
«Ci stiamo perdendo.»
Sally beveva brandy caldo in un piccolo caffè sotto la tettoia di vetro
striata di neve della piazza. Kumiko aveva preso una cioccolata. «Ci siamo
perse, Sally?»
«Già. Almeno lo spero.» Kumiko pensò che quel giorno sembrava più
vecchia. Notò diverse rughe ai lati della bocca, causate dalla stanchezza o
dalla tensione.
«Sally, qual è la sua professione? Il suo amico le ha chiesto se era ancora
in pensione...»
«Faccio affari.»
«Anche mio padre?»
«Certo, cara. Non nello stesso modo. Io sono indipendente. Più che altro,
faccio investimenti.»
«In cosa investite?»
«In altri indipendenti.» Alzò le spalle. «Oggi è la giornata della
curiosità?» Sorbì il suo brandy.
«Mi aveva consigliata di fare la spia di me stessa.»
«E' un buon consiglio. Ma bisogna andarci piano.»
«Sally, lei vive qui a Londra?»
«Viaggio molto.»
«Anche Swain è un "indipendente"?»
«Così pensa. Subisce diverse influenze, deve badare da che parte tira il
vento; qui, per fare affari è una necessità, però mi dà sui nervi.» Ingoiò in
un sorso il resto del brandy e si leccò le labbra.
Kumiko rabbrividì.
«Non devi aver paura di Swain. Yanaka potrebbe mangiarselo a
colazione.»
«No. Pensavo a quei ragazzi che abbiamo visto nel metrò. Erano così
magri.»
«I Dracula.»
«E' una banda?»
«"Bosozoku"» disse Sally, con una pronuncia perfetta. «Significa "tribù
in fuga"? Comunque, sono come una tribù.» Non era il termine esatto, ma
Kumiko ritenne che avesse intuito il senso. «Sono magri perché sono
poveri.» Sally fece cenno al cameriere di portare un altro brandy.
«Sally» chiese Kumiko «tutta la strada che abbiamo fatto per venire qui...
i treni, i tassì... era per assicurarci di non essere seguite?» «Non c'è mai
niente di sicuro.»
«Però quando siamo andate a trovare Tick non avete preso nessuna
precauzione. Avremmo potuto essere seguite senza difficoltà. Incaricate
Tick di spiare Swain e non prendete precauzioni. Per portarmi qui, invece,
ne prendete molte. Perché?»
Il cameriere posò di fronte a Sally un bicchiere fumante. «Sei proprio una
ragazzina sveglia, vero?» Si piegò in avanti e respirò i vapori del brandy.
«Le cose stanno così. Forse con Tick sto solo cercando di smuovere le
acque.»
«Ma Tick si preoccupa che Swain non lo scopra.»
«Swain non gli farà niente, sapendo che Tick lavora per me.»
«Perché?»
«Perché sa che potrei ucciderlo.» Sally alzò il bicchiere, e sembrò
improvvisamente contenta.
«Uccidere Swain?»
«Proprio così.» Bevve un sorso di brandy.
«Allora perché oggi siete stata così attenta?»
«Perché a volte è bello scuotersi tutto di dosso, sentirsi liberi. Forse è
impossibile. O forse no. Forse nessuno, proprio nessuno, sa dove siamo. E'
una bella sensazione, vero? Hai mai pensato che potresti essere sotto
controllo? Magari il tuo paparino, il capo della Yakuza, ti ha fatto installare
un microfono nascosto per poter controllare la sua figlia prediletta. Forse il
suo dentista ti ha infilato qualche congegno in quei bei dentini mentre eri in
simstim. Vai dal dentista?»
«Sì.»
«Usi il simstim, mentre lui lavora?»
«Sì.»
«Vedi? Forse ci sta ascoltando proprio adesso.»
Kumiko per poco non rovesciò il resto della cioccolata.
«E dai» disse Sally, dando un colpetto con le unghie laccate sul polso
della ragazza «non preoccuparti. Non ti avrebbe mandato qui come ha fatto,
con un microfono nascosto addosso. Avrebbe reso troppo facile ai suoi
nemici rintracciarti. Hai capito, però, quello che volevo dire? E' bello
sfuggire ai controlli, o almeno provarci. Starsene per i fatti propri, giusto?»
«Certo» disse Kumiko, mentre il cuore continuava a batterle forte e il
panico aumentava. «Ha ucciso mia madre» balbettò. Poi vomitò la
cioccolata sul pavimento di marmo grigio del caffè.
Sally la conduceva oltre il colonnato della cattedrale di San Paolo,
camminando senza parlare. Kumiko, in stato confusionale per la vergogna,
coglieva impressioni a caso: il montone bianco di cui era bordata la giacca
di pelle di Sally, il riflesso iridescente e oleoso delle penne di un piccione
che zampettava di fronte a loro, gli autobus rossi che sembravano giocattoli
di un gigante esposti nel Museo dei Trasporti, Sally che si scaldava le mani
con una tazza di tè fumante.
Freddo, da quel punto in avanti, sempre freddo. Il gelo e l'umidità nelle
ossa antiche della città, le fredde acque di Sumida che avevano riempito i
polmoni di sua madre, il volo gelido delle gru di neon.
Sua madre era esile e bruna, l'onda dei suoi capelli vaporosi venata d'oro
come un legno raro ed esotico. Era calda e profumata. Sua madre le
raccontava fiabe di elfi, fate e Copenhagen, che era una città molto lontana.
Quando Kumiko sognava gli elfi, assomigliavano sempre ai segretari di suo
padre, melliflui e contegnosi, vestiti di nero e con gli ombrelli chiusi. Gli
elfi facevano cose curiose, nei racconti di sua madre, racconti magici che
cambiavano ogni volta e non si sapeva mai come la storia andasse a finire.
Nei suoi racconti comparivano anche principesse e ballerine, e Kumiko si
era accorta che ognuna di esse, in qualche modo, somigliava a sua madre.
Le principesse-ballerine erano belle ma povere e ballavano per amore nel
cuore della città lontana, dove erano corteggiate da artisti e studenti poeti,
belli e squattrinati. Per mantenere un vecchio genitore o procurare un
organo per un fratello malato la principessaballerina doveva spesso andare
lontano lontano, anche fino a Tokyo, e ballare a pagamento. Nel racconto
era implicito che ballare per denaro era una cosa molto triste.
Sally la condusse in un bar giapponese e la convinse a bere un bicchiere
di saké. Nel liquore caldo galleggiava una pinna di carpa affumicata, che lo
rendeva color whisky. Mangiarono "robata" cotto alla griglia, e Kumiko
sentì che le stava passando il freddo, ma non la sensazione di stordimento.
L'arredamento del bar provocava un'impressione profonda di straniamento
culturale: riusciva a ricreare l'ambiente tradizionale giapponese, ma come se
fosse stato disegnato da Charles Rennie Mackintosh.
Era strana, Sally Shears, la cosa più strana di tutta la Londra "gaijin". Ora
aveva iniziato a raccontare storie su certe persone che vivevano in un
Giappone che Kumiko non aveva mai conosciuto, racconti che chiarivano il
ruolo di suo padre nel mondo. Sally Shears lo chiamava "oyabun". Il mondo
dei racconti di Sally non sembrava più reale di quello delle fiabe di sua
madre, eppure Kumiko stava iniziando a capire i fondamenti e l'estensione
del potere paterno. «"Kuromaku"» disse Sally. La parola significava
"sipario nero". «E' un termine derivato dal teatro kabuki, ma vuol dire
maneggione, uno che vende dei favori. Uno dietro le quinte, insomma.
Questo fa tuo padre, e anche Swain. Però Swain è il "kobun" del tuo
vecchio, uno dei tanti. "Oyabunkobun", padre-figlio. E' da questo che Swain
ricava parte della grana. Ecco perché sei qui, perché Roger lo deve al suo
"oyabun". "Giri", capito?»
«E' un uomo importante.»
Sally scosse la testa. «Il tuo vecchio, Kumi, è il boss. Se ha dovuto
spedirti via per metterti al sicuro, significa che sta succedendo qualcosa di
grosso.»
«Vi siete fatte un goccetto?» chiese Petal mentre entravano nella stanza.
Nei suoi occhiali si rifletteva la luce di un albero di Tiffany in bronzo e
vetro che stava sulla credenza. Kumiko voleva guardare il busto di marmo
che nascondeva l'unità Maas-Neotek, ma si sforzò di guardare fuori. La
neve in giardino era diventata dello stesso colore del cielo di Londra.
«Dov'è Swain?» chiese Sally.
«Il capo è fuori» rispose Petal.
Sally andò alla credenza e si versò un bicchiere di scotch da una pesante
bottiglia di cristallo. Kumiko vide che Petal sobbalzava quando la bottiglia
venne appoggiata pesantemente sul piano di legno lucido. «Ha lasciato
detto niente?»
«No.»
«Torna stanotte?»
«Non lo so, veramente. Vuole cenare?»
«No.»
«Io vorrei un panino» disse Kumiko.
Un quarto d'ora più tardi, senza aver toccato il panino appoggiato sul
comodino di marmo nero, Kumiko sedeva in mezzo al grande letto tenendo
tra i piedi nudi l'unità Maas-Neotek. Aveva lasciato sola Sally a bere il
whisky di Swain e a guardare fuori dalla finestra il giardino grigio.
Prese in mano l'unità e Colin apparve ai piedi del letto.
«Nessuno mi può sentire» disse velocemente, mettendosi un dito davanti
alle labbra. «E' una fortuna, visto che la stanza è piena di microfoni.»
Kumiko stava per rispondere, ma annuì.
«Brava» le disse. «Sei una ragazza furba. Ho qui due conversazioni per
te. Una tra il tuo ospite e il suo tuttofare, l'altra tra il tuo ospite e Sally. Ho
registrato la prima circa un quarto d'ora dopo che mi hai nascosto giù.
Ascolta.» Kumiko chiuse gli occhi, e udì il tintinnio di un cubetto di
ghiaccio in un bicchiere.
"Allora, dov'è la nostra giapponesina?" chiese Swain.
"Si è messa a letto" disse Petal. "Parla da sola, quella là. Fa conversazioni
a senso unico. Strano."
"Che cosa dice?"
"Quasi niente, in effetti. C'è gente che lo fa, no?"
"Che cosa?"
"Parlare da soli. Ti interessa sentirla?"
"Cristo, no. Dov'è quel tesoro della signorina Shears?"
"Fuori per il suo giretto."
"La prossima volta chiama Bernie, vedete di scoprire cosa c'è dietro
queste passeggiate."
"Cazzo!" e Petal scoppiò a ridere. "Bernie allora sarebbe da raccogliere
col cucchiaino!"
Anche Swain rise. "Non sarebbe male. Due piccioni con una fava: Bernie
fuori dai piedi, e la sete di sangue della famosa tagliagole placata. Forza,
versane un altro."
"Per me no. Vado a letto, se non hai più bisogno di me."
"No" disse Swain.
«E così» riprese Colin, mentre Kumiko riapriva gli occhi e lo vedeva
nuovamente ai piedi del letto «in questa stanza c'è un microfono attivato
dalla voce. Petal ha ascoltato la registrazione e ha sentito che mi parlavi. La
seconda parte, ora, è più interessante. Il tuo ospite è ancora seduto lì con il
secondo whisky, ed ecco che arriva la nostra Sally.»
"Ehilà!" salutò Swain "sei stata a prendere aria?"
"Vaffanculo."
"Lo sai che io, in tutto questo, non c'entro. Dovresti cercare di tenerlo
presente. Sai che mi ci hanno tirato dentro."
"Sai, Roger, qualche volta sono tentata di crederti." "Perché non lo fai,
allora? Renderebbe tutto più facile." "Altre volte, invece, mi vien voglia di
tagliarti la gola."
"Cara, il tuo problema è che non sei capace di delegare. Vuoi ancora fare
tutto di persona."
"Senti, cazzone, io lo so da dove vieni e come sei arrivato fin qui, e me ne
frego se sei culo e camicia con Kanaka o con qualcun altro. 'Sarakin'!"
Kumiko non aveva mai sentito quella parola.
"Mi hanno chiamato di nuovo" disse Swain, in tono indifferente,
conversativo. "Lei è ancora sulla costa, ma sembra che stia per muoversi.
Verso est, probabilmente. Tornerà al tuo vecchio castello. Penso che per noi
sia la migliore soluzione. Quella casa è inavvicinabile. Ci sono tanti sistemi
di sicurezza da fermare un esercito."
"Roger, stai ancora cercando di farmi credere che si tratta soltanto di un
rapimento? Che tutto quello che vogliono sono i soldi del riscatto?"
"No. Nessuno ha parlato di rimandarla indietro."
"E allora perché non usano davvero un esercito? Dei mercenari, no? Non
è mica un bersaglio difficile, non più di qualche ricercatore del cazzo. Basta
chiamare dei professionisti..."
"Te lo ripeto per la centesima volta, non è questo che vogliono. Loro
vogliono te."
"Roger, com'è che ti tengono in pugno? Davvero non sai che cosa
vogliono da me?"
"No, davvero. Ma sapendo che cosa vogliono da me, potrei azzardare
un'ipotesi."
"Allora?"
"Tutto."
Nessuna risposta.
"C'è un altro problema" disse Swain. "E' saltato fuori oggi. Vogliono che
sembri che sia stata fatta fuori."
"Cosa?"
"Vogliono che sembri che l'abbiamo uccisa."
"E come pensano che possiamo risolvere una cosa del genere?"
"Procureranno un corpo."
«Ritengo» disse Colin «che Sally sia uscita dalla stanza senza fare
commenti. Finisce a questo punto.»
10. La Forma.
Passò un'ora a controllare i cuscinetti della sega, poi li lubrificò ancora.
Faceva già troppo freddo per lavorare. Per continuare avrebbe dovuto
riscaldare la stanza dove teneva gli altri, gli Investigatori, lo Strizzacadaveri
e la Strega. Questo sarebbe bastato per alterare l'equilibrio del
compromesso raggiunto con Gentry, ma la cosa passava in secondo piano
rispetto al problema di come spiegare l'accordo preso con Kid Afrika e al
fatto che nella Fabbrica si trovavano due estranei. Non c'era modo di
discutere con Gentry. La corrente era sua, perché era lui che la sottraeva
all'Ente Fissione. Non avrebbero avuto l'elettricità senza i suoi passaggi
mensili alla consolle, rito che manteneva l'Ente nella convinzione che la
Fabbrica era situata altrove, dove qualcuno provvedeva a pagare la bolletta.
E comunque Gentry era proprio strano, pensò Slick, sentendo
scricchiolare le ginocchia mentre si alzava in piedi ed estraeva l'unità di
controllo del Giudice dalla tasca della giacca. Gentry era convinto che il
ciberspazio avesse una Forma, una configurazione globale e totale. Non era
certo l'idea più da picchiati che Slick avesse mai sentito, però Gentry era
ossessionato dalla convinzione che la Forma avesse un'importanza capitale.
La comprensione della Forma rappresentava il suo Graal.
Slick, una volta, aveva sperimentato in simstim una sequenza della
Rete Conoscenza sulla forma dell'universo; lui pensava che l'universo fosse
costituito da tutto quello che esiste, quindi, come poteva avere una forma?
Se avesse avuto una forma, avrebbe dovuto esistere qualcosa che ne
definisse il contorno, giusto? E se quel qualcosa era qualche cosa, non era
anche parte dell'universo stesso? Questo era proprio uno di quegli
argomenti di cui era meglio non discutere con Gentry, perché era un tipo
capace di ingarbugliarti il cervello con i suoi discorsi. Slick, comunque, non
pensava al ciberspazio come a un universo; era solo un modo di
rappresentazione dei dati. L'Ente Fissione appariva sempre come una
grande piramide azteca rossa, ma non era necessariamente quello il suo
aspetto; se quelli dell'E.F. avessero deciso diversamente, avrebbero potuto
raffigurarlo in qualsiasi altro modo. Le società avevano il copyright sulla
forma che assumevano. Perciò come poteva essere possibile immaginare
che la matrice avesse una forma particolare? E se anche l'avesse avuta, chi
diceva che dovesse per forza significare qualcosa.
Toccò il pulsante di accensione dell'unità. Il Giudice, dieci metri più in là,
si mise a ronzare e a tremare.
Slick Henry odiava il Giudice. Era questo che i critici non potevano
capire. Non che costruirlo non gli avesse dato un certo piacere; Slick l'aveva
portato alla luce, una luce che gli permetteva finalmente di vederlo, di
tenerlo sotto controllo, forse anche di sentirsi sollevato dal suo ricordo. Ma
sicuramente ciò non voleva dire che lo amasse. Alto quasi quattro metri,
con le spalle larghe quasi la metà, senza testa, il Giudice tremava, nel suo
carapace fatto di pezzi diversi uniti insieme. Aveva un particolare color
ruggine, come le maniglie di una vecchia carriola lucidate dallo
sfregamento di centinaia. di mani. Aveva scoperto come ottenere quella
superficie usando prodotti chimici e abrasivi, e aveva dato quell'aspetto a
quasi tutte le parti, quelle vecchie, di recupero. Non i denti freddi delle
seghe circolari o le superfici a specchio dei giunti, ma il resto del Giudice
era di quel colore e quella finitura che lo facevano sembrare un vecchissimo
utensile usato tutti i giorni senza risparmio.
Slick Henry spinse la cloche e il Giudice fece un passo, poi un altro. I
giroscopi funzionavano alla perfezione; anche con un braccio staccato, il
gigante si muoveva con maestosa dignità, piantando i piedi proprio come
doveva.
Slick sogghignò nel buio della Fabbrica mentre il Giudice avanzava verso
di lui a passi pesanti, un-due, un-due. Ricordava perfettamente ogni passo
della costruzione del Giudice, e a volte li ripercorreva con la mente, solo
per la soddisfazione di esserne capace.
Non poteva ricordarsi di quando non era capace di ricordare, ma qualche
volta ci riusciva quasi.
Era quello il motivo per cui aveva costruito il Giudice, perché aveva
fatto qualcosa. Non era stato niente di grave, ma lo avevano colto in
flagrante, due volte. Era stato processato e condannato. Dopo l'esecuzione
della sentenza, Slick non era più stato in grado di ricordare alcunché per più
di cinque minuti di seguito. Rubava auto. Rubava le auto dei ricchi.
Facevano in modo che ci si ricordasse del reato commesso.
Azionando la cloche, Slick fece girare il Giudice e lo diresse nella stanza
accanto, lungo un corridoio fiancheggiato da piattaforme di cemento
macchiato di umidità che un tempo avevano sostenuto torni e saldatrici. In
alto, nel buio attraversato da raggi di luce polverosi, erano sospese
apparecchiature fluorescenti fuori uso, con i grovigli di cavi nei quali a
volte gli uccelli facevano il nido.
Lo chiamavano metodo Korsakov. Facevano qualcosa ai neuroni che
impediva ai ricordi più recenti di fissarsi, così, mentre si cercava di
ricordare qualcosa, essa era già svanita. Slick, però, aveva sentito dire che
non lo facevano più, o almeno non ai ladri di auto.
Chi non l'aveva provato pensava che si trattasse di una cosa da niente,
come andare in prigione, solo che dopo è tutto cancellato. Ma non era così.
Quando Slick uscì, una volta che fu tutto finito dopo tre anni dilatatisi in
una lunga catena fluttuante di terrore e confusione misurata a intervalli di
cinque minuti - e non ricordava tanto gli intervalli quanto i momenti di
transizione - allora dovette costruire la Strega, lo Strizzacadaveri, gli
Investigatori, e, alla fine, il Giudice.
Guidando il Giudice sui gradini della scala di cemento che portava alla
stanza dove gli altri stavano aspettando, udì Gentry che dava gas al motore,
fuori, su Dog Solitude.
La gente metteva Gentry a disagio, pensò Slick dirigendosi verso la scala,
ma la cosa era reciproca. Gli altri sentivano bruciare la Forma dietro i suoi
occhi, e la sua ossessione compariva in tutto quello che faceva. Slick non
aveva idea di cosa facesse durante i suoi viaggi nell'Agglomerato. Forse
incontrava gente che aveva la sua stessa tensione, solitari ai margini dei
mercati della droga e del software. Sembrava che il sesso non lo
interessasse affatto, tanto che Slick non riusciva a immaginare cosa sarebbe
successo se una volta o l'altra Gentry avesse deciso di pensarci.
Il sesso costituiva il principale inconveniente di Dog Solitude, almeno
per quanto riguardava Slick. Soprattutto d'inverno. D'estate, a volte, riusciva
a trovare qualche ragazza nelle cittadine rugginose. Quello era stato il
motivo che l'aveva portato ad Atlantic City e gli aveva fatto contrarre il
debito con Kid Afrika. Tempo dopo si era detto che la cosa migliore era
concentrarsi esclusivamente sul lavoro, ma, salendo le traballanti scale
metalliche della passerella che portava alle stanze di Gentry, si scoprì a
pensare come poteva essere Cherry sotto tutti quei giacconi. Gli vennero in
mente le mani di lei, pulite e abili, ma gli fecero subito pensare al viso
incosciente dell'uomo sulla barella, con un tubicino infilato nella narice
sinistra, mentre lei gli sfiorava le guance incavate con un fazzoletto. Trasalì.
«Ehi, Gentry» gridò nel vuoto metallico della Fabbrica «sto salendo.»
Tre cose soltanto, in Gentry, non erano acute, sottili e forti: gli occhi, la
bocca, i capelli. Aveva occhi grandi e di colore indefinito, grigi o celesti a
seconda della luce; le sue labbra erano tumide e mobili, i capelli pettinati
all'indietro in un ciuffo ispido e biondiccio che ondeggiava a ogni passo. La
sua magrezza non somigliava a quella dell'emaciato Little Bird, che
derivava dalla dieta dei sobborghi e dalle nevrosi. Gentry era sottile,
muscoli compatti, senza un filo di grasso. Anche il modo in cui vestiva, con
abiti aderenti, sottolineava la sua magrezza. Indossava abiti di cuoio nero
ornati di borchie ancora più nere, un abbigliamento che a Slick ricordava i
giorni passati nel Deacon Blues. Le borchie, come tutto il resto, gli
facevano pensare che Gentry avesse circa trent'anni; anche Slick aveva più
o meno quell'età.
Gentry osservò Slick che entrava nella stanza illuminata da dieci
lampadine da cento watt, assicurandosi che Slick si rendesse conto di
rappresentare un intruso tra lui e la Forma. Stava mettendo sul lungo tavolo
di metallo due contenitori da motocicletta che sembravano pesanti.
Slick aveva fatto molte riparazioni per Gentry, durante la sua prima estate
di permanenza a Dog Solitude. Aveva tagliato via pannelli del tetto,
installato sostegni dove ce n'era bisogno, coperto i buchi con fogli di
plastica rigida, e sigillato col silicone i lucernari che ne aveva ricavato. Alla
fine era arrivato Gentry con una maschera, una pistola a spruzzo e ottanta
litri di vernice bianca alla gomma. Non aveva tolto la polvere né ripulito. Si
era limitato a spruzzare uno spesso strato di vernice sulla sporcizia e gli
escrementi essiccati dei piccioni, più o meno incollandoli a terra e passando
una mano successiva finché il tutto non era risultato quasi bianco. Aveva
verniciato tutto tranne i lucernari, e poi Slick aveva portato su con una
carrucola materiale vario dal piano terra della Fabbrica: un piccolo carico di
computers, alcuni deck ciberspazio, una grande e vecchia tavola da
oloproiezione che quasi aveva spezzato il cavo con il suo peso, generatori di
effetti. E poi decine di cassette di plastica piene delle migliaia di piastrine
che Gentry aveva accumulato ricercando la Forma, centinaia di metri di
cavi ottici su bobine nuove di zecca che a Slick puzzavano tanto di furto. E i
libri, libri vecchi, con le copertine di tela incollata su cartoncino. Slick non
si era mai reso conto di quanto fossero pesanti i libri. Avevano un odore
triste, i libri vecchi.
«Stai consumando degli ampère in più, da quando sono andato via» disse
Gentry aprendo il primo dei due contenitori. «Nella tua stanza. Hai un
calorifero nuovo?» Cominciò a frugare affannosamente nel contenitore,
come se stesse cercando qualcosa che gli serviva ma che aveva messo nel
posto sbagliato. Non era per quello, e Slick lo sapeva, ma per il fatto che
qualcuno, anche se lo conosceva, aveva inaspettatamente violato il suo
spazio.
«Già. Devo anche riscaldare di nuovo l'area del magazzino. Altrimenti fa
troppo freddo per lavorare.»
«No» disse Gentry, guardandolo improvvisamente» non è un calorifero,
quello che hai nella stanza. L'amperaggio non è quello giusto.
«Già.» Slick sorrise, basandosi sul fatto che il suo sorridere faceva
pensare a Gentry che Slick fosse uno stupido facile da intimorire. «"Già"
cosa, Slick Henry?»
«Non si tratta di un calorifero.»
Gentry chiuse il contenitore con un colpo secco. «Dimmi che cos'è o ti
taglio la corrente.»
«Sai, Gentry, se qui non ci fossi io tu avresti molto meno tempo per... per
le tue cose.» Slick aggrottò significativamente le sopracciglia in direzione
del grande tavolo di proiezione. «Il fatto è che ho qui due persone con me.»
Vide Gentry irrigidirsi e i suoi occhi di colore indefinito spalancarsi. «Ma
sta' tranquillo, hai la mia parola che non si faranno né vedere né sentire.»
«Certo che no» disse Gentry, con voce tagliente, girando intorno al tavolo
«perché tu adesso li mandi via di qui, vero?»
«Due settimane al massimo, Gentry.»
«Fuori. Subito.» Il viso di Gentry era a qualche centimetro da Slick, e lui
ne sentiva l'alito reso acido dalla spossatezza. «Se no te ne vai anche tu.»
Slick pesava dieci chili più di Gentry, ed erano tutti muscoli, ma la cosa
non l'aveva mai impaurito; Gentry sembrava non pensare che l'altro avrebbe
potuto picchiarlo, oppure non gli importava. La cosa, in un certo senso, lo
metteva in difficoltà. Una volta Gentry l'aveva colpito violentemente sul
viso, e Slick aveva guardato la pesante chiave inglese che aveva in mano,
con una strana sensazione di imbarazzo.
Gentry restava rigido, e stava cominciando a tremare. Slick era quasi
convinto che non dormisse, quando andava a Boston o a New York. Non
dormiva mai molto neanche quando era nella Fabbrica. Quando ritornava
era agitato, e il primo giorno era sempre il peggiore. «Guarda qui» gli disse
Slick con il tono in cui ci si rivolge a un bambino che sta per piangere,
estraendo il sacchetto dalla tasca, il regalo di Kid Afrika. Fece vedere a
Gentry la busta ziploc di plastica trasparente: dermi azzurri, tavolette rosa,
una pallina d'oppio dall'aspetto sinistro avvolta in cellophane rosso, cristalli
di wiz simili a gialle caramelle per la gola, inalatori di plastica col nome del
produttore giapponese raschiato via col coltello.
«Da Afrika» disse Slick facendo oscillare il sacchetto.
«Africa?» Gentry guardò il sacchetto, poi Slick, poi di nuovo il sacchetto.
«Vengono dall'Africa?»
«Kid Afrika. Non lo conosci. Ha lasciato questo per te.»
«Perché?»
«Perché ha bisogno che io gli tenga nascosti questi suoi amici per un po'.
Sono in debito con lui, Gentry. Gli ho detto che non ti piace avere gente
intorno, e che ti disturba. Così» mentì Slick «ha detto che voleva lasciarti
qualcosa in cambio del disturbo.»
Gentry prese il sacchetto e fece scorrere il dito lungo la chiusura,
aprendolo. Tolse l'oppio e lo diede a Slick. «Questo non mi serve.»
Estrasse uno dei dermi, lo staccò dalla carta di supporto, lo fissò con cura
sulla pelle all'interno del polso destro. Slick, intanto, rigirava distrattamente
fra le dita la pallina di oppio, facendo scricchiolare il cellophane. Gentry
tornò in fondo al lungo tavolo e aprì il contenitore. Ne estrasse un paio di
guanti di pelle nera, nuovi.
«Penso che sarebbe meglio... che incontrassi questi tuoi ospiti, Slick.»
«Eh?» Slick spalancò gli occhi, stupito. «Certo... ma non è proprio
indispensabile, insomma, non sarebbe poi...»
«No» ribatté Gentry, sollevando il bavero. «Insisto.»
Mentre scendevano le scale, Slick si ricordò dell'oppio e lo gettò oltre la
ringhiera, nel buio.
Odiava la droga.
«Cherry?» Si sentiva idiota, a bussare alla porta della propria stanza sotto
gli occhi di Gentry. Nessuna risposta. Aprì la porta. Luce fioca. Vide che lei
aveva offuscato una lampadina con un cono di fax giallo legato con un giro
di cavo. Cherry aveva svitato le altre due. Lei non c'era.
C'era la barella, con il suo occupante avvolto nel sacco a pelo di nylon
blu. "Lo sta mangiando" pensò Slick, guardando la struttura di supporto
dell'impianto, i tubi, i sacchetti di liquido. "No" si disse "lo sta mantenendo
in vita, come in ospedale". Ma l'impressione restava: e se lo stesse
risucchiando, prosciugando? Gli venne in mente quello che Little Bird
aveva detto a proposito dei vampiri.
«Ma bene» disse Gentry oltrepassandolo e avvicinandosi ai piedi della
barella «che strano ospite hai, Slick Henry...» Gentry girò intorno alla
barella, tenendosi per precauzione a un metro di distanza dalla figura
immobile.
«Gentry, sei sicuro che non ti va di tornare di sopra? Non è che te ne sei
fatto troppo, di quel derma?»
«Davvero?» Gentry inclinò la testa, con gli occhi scintillanti nel bagliore
giallastro. Ammiccò. «Come mai pensi una cosa del genere?» «Be'» esitò
Slick «non sei come al solito. Come prima, cioè.»
«Stai pensando che ho avuto un cambiamento d'umore Slick?»
«Sì.»
«Me lo sto godendo, il cambiamento d'umore.»
«Non ti vedo sorridere» disse Cherry dalla porta.
«Cherry, questo è Gentry. La Fabbrica è più o meno sua. Cherry è di
Cleveland.»
Ma Gentry aveva una piccola torcia nera nella mano guantata. Stava
esaminando la rete di elettrodi che copriva la fronte del dormiente. Si alzò,
seguendo con il raggio di luce l'unità anonima e non identificabile, quindi lo
diresse verso il basso lungo il cavo nero inserito nella presa.
«Cleveland» disse Gentry alla fine, come se fosse un nome udito in
sogno. «Interessante.» Sollevò di nuovo la torcia, allungandosi per
osservare il punto in cui il cavo si inseriva nell'unità. «Cherry... Cherry, chi
è questo?» Il raggio di luce puntava, implacabile, sul viso sfatto e
irrimediabilmente comune.
«Non lo so» rispose Cherry. «Tiragli via quella luce dagli occhi. Potrebbe
mandargli in vacca il REM O roba del genere.»
«E questo?» Illuminò l'apparecchiatura grigia e anonima.
«Kid l'ha chiamato L.F.. Lui l'ha chiamato il Conte, e quello lo ha
chiamato L.F.» Infilò una mano in tasca e si grattò.
«Bene, bene» disse Gentry, voltandosi e spegnendo la torcia con uno
scatto. La luce della sua ossessione era più viva che mai, gli bruciava dietro
agli occhi, amplificata con tale potenza dal derma di Kid che a Slick parve
che la Forma fosse lì che sfolgorava dietro la sua fronte, visibile a tutti
tranne che a Gentry... dunque deve trattarsi proprio di quello, allora...
11. Nella mischia.

Monna si svegliò mentre l'aereo stava per atterrare.


Prior stava ascoltando Eddy, annuendo ed esibendo il suo sorriso
rettangolare. Sembrava che il sorriso stesse sempre lì, nascosto dietro la
barba. Si era cambiato d'abito, quindi doveva averne portato qualcuno
sull'aereo. Indossava un serio abito grigio da uomo d'affari e una cravatta a
righe diagonali. Un po' come i clienti che le procurava Eddy a Cleveland,
soltanto che addosso a Prior l'abito faceva un effetto diverso.
Una volta Monna aveva incontrato un cliente a cui quel tipo di abito
stava bene. L'aveva portata in un Holiday Inn. La camera era lontana
dall'ingresso dell'albergo. Era rimasto in mutande a guardare la propria
immagine trasmessa da tre grandi schermi, mentre linee di luce azzurra lo
attraversavano. Sugli schermi le linee azzurre non comparivano, perché lui
indossava un abito diverso in ciascuna immagine. Monna aveva dovuto fare
uno sforzo per non ridere, perché il sistema era programmato in modo da
migliorare l'immagine trasmessa dallo schermo: gli allungava un po' il volto
e gli rendeva più forte il mento, ma lui sembrava non essersene accorto.
Aveva scelto un vestito per riprendere poi quello che indossava prima, e la
cosa era finita lì.
Eddy stava spiegando qualcosa a Prior, forse un punto cruciale
dell'architettura di una sua creazione. Monna sapeva come fare per non
udire il contenuto del discorso, ma percepiva ugualmente il tono, da cui
traspariva la convinzione di Eddy che gli altri non potessero capire le
trovate di cui andava così orgoglioso. Per questo parlava piano e in maniera
semplice, come con un bambino, e a voce bassa per sembrare paziente.
Sembrava che tutto ciò a Prior non desse fastidio, ma a Monna parve
decisamente che a lui non gliene fregasse un cazzo quello che Eddy stava
dicendo.
Monna sbadigliò, si stiracchiò; l'aereo sobbalzò due volte sulla pista con
un rombo di motori, e iniziò a rallentare. Eddy non aveva smesso di parlare
neanche per un secondo.
«C'è una macchina che ci aspetta» lo interruppe Prior.
«Per andare dove?» chiese Monna, ignorando l'occhiataccia di Eddy.
Prior le fece il solito sorriso. «In albergo» rispose, slacciando la cintura di
sicurezza. «Ci resteremo per qualche giorno. Temo che dovrai passarli quasi
tutti in camera.»
«Questi sono i patti» disse Eddy, come se fosse stata sua l'idea di farla
rimanere nella sua stanza.
«Ti piace il simstim, Monna?» le domandò Prior, continuando a sorridere.
«Certo. A chi non piace?»
«C'è una star che preferisci, Monna, una che ti piace in modo
particolare?»
«Angie» rispose, leggermente seccata. «Chi, se no?»
Il sorriso di Prior divenne più ampio. «Bene. Ti faremo avere tutti i suoi
nuovi nastri.»
L'universo di Monna consisteva soprattutto di cose e luoghi che lei
conosceva, ma che fisicamente non aveva mai visto né visitato. Il centro
dell'Agglomerato nord non aveva nessun odore, nei simstim. Monna pensò
che venisse eliminato, in modo che Angie non avesse mai mal di testa o si
sentisse male. Ma, in realtà, la città puzzava. Come Cleveland, forse anche
peggio. Lei credette che si trattasse dell'odore dell'aeroporto, non appena
scesero dall'aereo, ma, usciti dalla macchina per entrare in albergo, diventò
ancora più insopportabile. Come se non bastasse, per strada faceva un
freddo cane, il vento le pungeva le caviglie nude.
L'albergo le sembrò più grande, ma anche più vecchio, di quello
dell'Holiday Inn. L'atrio era più affollato di quelli che si vedevano nei
simstim, ma era coperto di moquette blu. Prior le disse di aspettarli accanto
alla pubblicità di una stazione orbitale, mentre lui andava con Eddy verso
un lungo bancone nero a parlare con una donna che portava sul vestito una
targhetta col nome. Si sentì stupida ad aspettare là, con addosso
l'impermeabilino bianco di plastica che Prior le aveva fatto indossare come
se pensasse che i suoi vestiti non erano adatti. Quasi un terzo delle persone
che affollavano l'atrio era formato da giapponesi. Monna pensò che fossero
dei turisti. Tutti avevano un qualche tipo di video od oloregistratore,
qualcuno portava alla cintura un'unità simstim, ma, nel complesso, non
sembravano avere molti soldi. Aveva sempre pensato che i giapponesi
fossero tutti ricchi. "Forse sono furbi e non vogliono dare nell'occhio" si
disse. Vide che Prior faceva scivolare un integrato di credito attraverso il
banco; la donna con la targhetta lo prese e l'infilò in una fessura di metallo.
Prior appoggiò la borsa di Monna sul letto, che era fatto di un grande
pannello di temperespanso, e toccò un pannello, facendo aprire delle cortine
che coprivano l'intera parete. «Non è il Ritz» le disse «ma cercheremo di
farti avere tutte le comodità.»
Monna fece un cenno vago. Il Ritz era un fast-food di Cleveland, e non
riusciva a capire che cosa c'entrasse.
«Guarda» le disse «i tuoi preferiti.» Prior era accanto alla testata imbottita
del letto, dove era incassata un'unità simstim. Accanto, su una mensola, si
trovava una serie di elettrodi in una busta di plastica e alcune cassette.
«Tutti i nuovi simstim di Angie.»
Monna si chiese chi avesse portato quelle cassette, e se lo avessero fatto
dopo che Prior le aveva domandato quali erano i suoi simstim preferiti. Gli
rivolse uno dei suoi enigmatici sorrisi e andò alla finestra. L'Agglomerato
era proprio come nei simstim. La finestra sembrava un ologramma postale,
c'erano edifici famosi di cui non sapeva il nome, ma sapeva che erano
famosi.
Vedeva il grigio delle cupole, le geodesiche bianche di neve, e, sullo
sfondo, il cielo grigio.
«Tesoro, sei contenta?» le chiese Eddy, avvicinandosi e posandole le
mani sulle spalle.
«C'è la doccia, qui?»
Prior rise. Lei si divincolò dalla leggera presa di Eddy e portò in bagno la
borsa. Chiuse la porta a chiave. Sentì Prior che rideva di nuovo, ed Eddy
che ricominciava a parlare delle sue trovate. Si sedette sul gabinetto, aprì la
borsa e prese la scatoletta del trucco, dove di solito teneva il wiz. Ne erano
rimasti quattro cristalli. Le sembravano abbastanza, anche se, quando gliene
rimanevano due, cominciava a cercare uno spacciatore. Non si faceva
molto, non tutti i giorni, almeno, tranne negli ultimi tempi, ma solo perché
la Florida la stava facendo uscire pazza.
Pensò che adesso poteva prendersela più comoda, e diede un colpetto alla
fiala, facendone uscire un cristallo. Sembrava una caramella gialla e
trasparente. Bisognava sbriciolarlo e poi polverizzarlo tra due lastrine di
plastica. Mentre lo si faceva, emanava un odore di disinfettante.
Se n'erano andati tutt'e due quando lei uscì dalla doccia. Era rimasta
dentro fino a quando, dopo un bel po' di tempo, non aveva iniziato ad
annoiarsi. In Florida aveva usato soprattutto le docce delle piscine
pubbliche o delle stazioni, quelle che funzionavano a gettone. Pensò che la
doccia fosse collegata a qualcosa che misurava i litri e li metteva sul conto;
anche quella dell'Holiday Inn funzionava allo stesso modo. Il sifone di
plastica aveva un grosso filtro bianco, e un adesivo sulle piastrelle con un
occhio e una lacrima avvertiva che si poteva fare la doccia purché non ci si
lasciasse entrare l'acqua negli occhi, come in piscina. Nella parete era stata
inserita una serie di beccucci in metallo. Premendo il pulsante
corrispondente, si avevano shampoo, bagnoschiuma, sapone liquido e olio
da bagno. Si accendeva anche una spia rossa sopra il pulsante, perché tutto
quello che si usava veniva messo sul conto. Sul conto di Prior. Monna era
contenta che se ne fossero andati, perché le piaceva restare sola, fatta e
pulita. Di essere sola non le riusciva molto spesso, tranne che sulla strada,
ma non era la stessa cosa. Lasciò impronte bagnate sulla moquette beige
mentre andava verso la finestra. Si era avvolta in un grande asciugamano in
tinta con il letto e la moquette, con una parola scavata nella spugna,
probabilmente il nome dell'albergo.
Un isolato più in là si scorgeva un edificio dall'aspetto antiquato. Gli
angoli del tetto a gradini erano stati smussati per ricavarne una sorta di
montagnetta, coperta di rocce e di erba, con una cascata che ricadeva da una
roccia a quella sottostante. Sorridendo, si chiese perché mai avessero
costruito qualcosa di tanto complicato. Nel punto in cui l'acqua cadeva
salivano getti di vapore. "Sicuramente non cade sulla strada. Costerebbe
troppo" rifletté. Probabilmente la riprendevano con una pompa e la
riciclavano.
Qualcosa di grigio mosse la testa e sollevò le grandi corna a spirale, come
se volesse guardarla. Lei fece un passo indietro e spalancò gli occhi. Era
una specie di pecora, ma doveva trattarsi di una telecamera esterna, un
ologramma o qualcosa del genere. Mosse la testa e cominciò a brucare
l'erba. Monna rise.
Sentiva il wiz sotto i talloni e in mezzo alle scapole, come un fitto e
freddo formicolio, e il sentore di disinfettante in fondo alla gola. Prima
aveva avuto paura, ma ora non ne aveva più.
Prior aveva un brutto sorriso, ma era solo una pedina, un impiegato. Se
aveva dei soldi, erano di qualcun altro. E non aveva più paura di Eddy, anzi,
quasi quasi aveva paura per lui, perché aveva visto come lo consideravano
gli altri.
Comunque pensò che in fondo non era importante; non era più a
Cleveland, a dar da mangiare ai pesci-gatto, e mai e poi mai sarebbe tornata
in Florida.
Ripensò alla stufa ad alcol, alle fredde mattine d'inverno, al vecchio
imbacuccato nel suo gran cappotto grigio. D'inverno fissava alle finestre un
secondo strato di fogli di plastica. Allora la stufa bastava per riscaldare la
stanza, perché i muri erano rivestiti di espanso rigido su cui veniva fissato
del cartone. Nei punti in cui l'espanso era scoperto lo si poteva toccare con
la punta del dito e farci dei buchi, ma se il vecchio lo vedeva si metteva a
urlare. Era più faticoso tenere al caldo i pesci d'inverno; bisognava pompare
l'acqua sul tetto, dove c'erano i pannelli solari, attraverso i tubi di plastica
trasparente. Era d'aiuto quella specie di muschio che marciva sulle pareti
delle vasche. Ogni volta che si prendeva un pesce con il retino, usciva del
vapore. Il vecchio scambiava il pesce con altri cibi, roba proveniente da
qualche allevamento, alcol per la stufa o da bere, caffè, rifiuti che davano da
mangiare ai pesci.
Lui non era suo padre, e glielo ripeteva spesso, quando si degnava di
parlare. A volte lei si chiedeva se non lo era davvero. La prima volta che gli
aveva chiesto l'età, lui aveva risposto che ne aveva sei, così teneva il conto
da allora.
Udì la porta aprirsi alle sue spalle, e si voltò; era Prior, che teneva in
mano la chiave con la placchetta di plastica dorata e mostrava il suo sorriso
tra la barba. «Monna» esordì, entrando «ti presento Gerald.» Un cinese alto,
abito grigio, capelli brizzolati. Gerald sorrise cortesemente, entrò subito
dopo Prior e si diresse subito verso la cassettiera ai piedi del letto.
Appoggiò una valigetta nera e la aprì con uno scatto. «Gerald è un amico. E'
un medico e ti deve dare un'occhiata.»
«Monna» cominciò Gerald, prendendo qualcosa nella valigetta «quanti
anni hai?»
«Ha sedici anni» disse Prior. «Giusto?»
«Sedici anni» ripeté Gerald. Teneva in mano un paio di occhiali scuri
simili a occhiali da sole con protuberanze e cavi. «La cosa è un po' tirata per
i capelli, no?» Guardò Prior.
Prior sorrise.
«Di quanto è troppo giovane, dieci anni?»
«Più o meno» disse Prior. «Ma non stiamo cercando la perfezione.»
Gerald la guardò. «Non la troverete comunque.» Fissò gli occhiali sulle
orecchie e toccò qualcosa. Si accese una luce sotto la lente destra.
«Comunque l'approssimazione è buona.» La luce si diresse su di lei.
«Esiste la chirurgia plastica, Gerald.»
«Dov'è Eddy?» chiese lei, mentre Gerald si avvicinava.
«Al bar. Vuoi che lo chiami?» Prior sollevò il telefono, ma lo riappese
subito.
«Che cos'è?» chiese Monna, allontanandosi da Gerald.
«Una visita medica» rispose lui. «Non ti farò male.» Lei aveva la
testa appoggiata contro la finestra, e le scapole, fuori dall'asciugamano,
premute contro il vetro freddo. «C'è chi ti vuole assumere, e ti pagherà
molto bene. Bisogna assicurarsi che tu sia in buona salute.» La luce colpì il
suo occhio sinistro. «E' sotto l'effetto di qualche stimolante» disse, rivolto a
Prior, in un altro tono.
«Cerca di tenere gli occhi aperti, Monna.» La luce passò nell'occhio
sinistro. «Che cos'è, Monna? Quanto ne hai preso?»
«Wiz» e distolse gli occhi dalla luce.
Le afferrò il mento con le dita fredde e le rimise il viso nella posizione di
prima. «Quanto?»
«Un cristallo.»
La luce si spense. Il viso liscio e calmo di Gerald era vicinissimo al suo; i
suoi occhiali erano costellati di lenti, fessure, dischetti di rete nera
metallica. «Impossibile valutarne la purezza» disse lui.
«E' purissimo» disse Monna, con un risolino.
Gerald le lasciò il mento e sorrise. «Non dovrebbe essere un problema»
disse. «Puoi aprire la bocca, per favore?»
«La bocca?»
«Voglio dare un'occhiata ai denti.»
Lei guardò Prior.
«Siete fortunati» disse Gerald a Prior, non appena le ebbe osservato la
bocca con la pila. «E' in discrete condizioni e vicina alla configurazione del
modello. Capsule, otturazioni.»
«Sapevamo di poter contare su di te, Gerald.»
Si tolse gli occhiali e guardò Prior. Andò verso la valigetta e ripose gli
occhiali. «Siete fortunati anche per quanto riguarda gli occhi. Molto simili.
Si tratta solo di lavorare sulle sfumature.» Estrasse dalla valigetta una busta
metallizzata, la strappò e infilò il guanto chirurgico sulla mano destra.
«Monna, togliti l'asciugamano e mettiti comoda.»
Guardò Prior, poi Gerald. «Volete vedere i documenti, il certificato del
sangue e il resto?»
«No» disse Gerald «quelli sono a posto.»
Monna guardò fuori dalla finestra, sperando di vedere la pecora selvatica,
ma era scomparsa, e il cielo sembrava molto più buio. Sciolse
l'asciugamano, lo lasciò cadere sul pavimento, si distese supina sul letto
beige.
Non fu poi molto diverso da quello per cui la pagavano di solito, e ci
volle anche molto meno tempo.
Seduta nella stanza da bagno, con la scatoletta del trucco aperta sulle
ginocchia, polverizzò un altro cristallo e pensò che aveva tutto il diritto di
averne piene le scatole.
Prima Eddy se ne va senza di me, poi arriva Prior con quel leccaculo di
medico e alla fine mi dice che Eddy va a dormire in un'altra stanza. In
Florida le sarebbe anche piaciuto passare un po' di tempo senza Eddy, ma lì
era diverso. Non voleva restare da sola, e non se la sentiva di chiedere a
Prior una chiave. Però lui ce l'aveva e poteva entrare quando voleva con
quei suoi rompicazzo di amici. Che troiata di accordo era, quello?
E poi anche la storia dell'impermeabile di plastica le aveva fatto girare i
coglioni. Uno schifoso impermeabile di plastica monouso.
Mise la droga polverizzata tra le due lastrine di plastica, la fece
cadere attentamente nel caricatore, espirò forte, si posò l'imboccatura sulle
labbra e premette. La nuvola di polvere gialla ricoprì le membrane della
gola, probabilmente una parte le raggiunse i polmoni. Dicevano che faceva
male.
Era entrata in bagno per farsi, senza nessun programma; ma non appena
cominciò a sentire il formicolio alla nuca si scoprì a ripensare alle vie che
circondavano l'albergo e a quello che aveva visto. C'erano locali, bar,
negozi con le vetrine piene di vestiti. Musica. Ci voleva proprio un po' di
musica, e di folla. Solo nella folla era possibile perdersi, dimenticarsi,
esistere e basta. La porta non era chiusa a chiave, lo sapeva bene: aveva già
fatto una prova. Però dall'esterno non si poteva aprire, e lei non aveva la
chiave. Ma, dato che dormiva lì, Prior doveva averla registrata alla
reception. Per un attimo pensò di scendere e di chiedere una chiave alla
donna dietro il banco, ma l'idea la mise a disagio. Conosceva bene gli
impiegati e il loro modo di fare. No, decise che l'idea migliore era quella di
restare in camera a guardare i nuovi simstim di Angie.
Dieci minuti dopo Monna usciva da una porta laterale dell'albergo, con il
wiz che le cantava nel cervello.
Piovigginava, forse condensa della cupola. Aveva messo l'impermeabile
bianco per scendere nell'atrio, pensando che dopotutto Prior doveva sapere
il fatto suo; ora, però, era contenta di averlo addosso. Afferrò un pezzo di
fax che fuoriusciva da un bidone stracolmo e se lo mise in testa per tenere
asciutti i capelli. Non faceva più freddo come prima, il che era un'altra cosa
positiva. Il vestito nuovo che indossava non la riparava di sicuro.
Guardando il viale di qua e di là, pensando in quale direzione andare,
notò cinque o sei facciate d'albergo tutte uguali, una fila di tassì a pedale e
una serie di negozietti luccicanti di pioggia. E un sacco di gente, come in
centro a Cleveland, ma erano tutti ben vestiti e si davano grandi arie, tutti
avevano fretta di andare da qualche parte. "Coraggio, buttati" pensò mentre
il wiz la spingeva dolcemente nel fiume di gente elegante, senza doverci
neppure pensare. I tacchi delle scarpe nuove ticchettavano mentre
passeggiava col fax sulla testa, finché non si accorse che - un altro colpo di
fortuna - aveva smesso di piovere.
Le sarebbe piaciuto dare un'occhiata alle vetrine, ma la folla la spingeva
avanti. Le piaceva essere immersa nella calca, e, del resto, non c'era
nessuno che si fermasse. Si accontentò di dare un rapido sguardo mentre
passava. I vestiti erano come quelli dei simstim, e certi erano addirittura di
foggia mai vista.
"Avrei dovuto nascere qui" pensò. "Avrei dovuto vivere qui fin
dall'inizio. Non in un allevamento di pesci-gatto, non a Cleveland, non in
Florida. Questa è una città, questa è una città vera, tutti possono venirci
senza doversi accontentare di vederla nei simstim." Il fatto era che Monna
non aveva mai visto questo aspetto della vita nei simstim, l'aspetto normale
della vita. Questo non riguardava una diva come Angie. Angie stava in
ricchi castelli insieme agli altri divi del simstim, certo non lì. Ma, dio mio,
com'era bello, la notte luminosa, la folla che ondeggiava intorno a lei,
oltrepassando tutte quelle belle cose che, con un po' di fortuna, avrebbe
potuto avere.
A Eddy non piaceva. Ripeteva sempre che era un posto di merda, con
troppa gente, gli affitti troppo cari, troppa polizia e troppa concorrenza. Non
che avesse esitato un secondo quando Prior gli aveva fatto l'offerta.
Comunque, lei si era già fatta un'idea dei motivi per cui Eddy era così
sprezzante. Doveva aver fatto cilecca. Probabilmente aveva piantato una
bella wilsonata e non voleva che qualcuno glielo ricordasse, oppure doveva
esserci della gente che sicuramente gliel'avrebbe fatta pagare se fosse
tornato. Si poteva sentire nel tono da stronzo con cui parlava della città, lo
stesso con cui parlava di qualcuno che gli aveva detto che le sue trovate non
avrebbero funzionato. Il tipo che la prima volta aveva giudicato
maledettamente in gamba, la seconda era solo un wilson, un testa di cazzo,
incapace di vedere al di là dei coglioni.
Oltrepassò un grande negozio che esponeva apparecchiature simstim di
lusso in vetrina, tutte nero opaco e sottili sorvegliate da uno stupendo
ologramma di Angie, che guardava passare la gente con il suo sorriso quasi
triste. Regina della notte, come no.
Il fiume di folla si riversò in una specie di cerchio, uno slargo dove
quattro vie si incrociavano intorno a una fontana. Visto che Monna non
andava da nessuna parte, si mise a gironzolare. La gente la sospingeva in
direzioni diverse, senza sosta. Qualcuno si fermava nella piazza, altri
sedevano sul muretto di cemento pieno di crepe che circondava la fontana.
In mezzo c'era una statua di marmo, tutta consumata, dai profili smussati.
Sembrava un bambino che cavalcava un grosso pesce, un delfino.
Probabilmente, quando la fontana era in funzione, dalla bocca del delfino
zampillava l'acqua, ma ora non funzionava. Oltre le teste della gente seduta
vedeva fogli di fax accartocciati, fradici, e bicchieri di plastica che
galleggiavano nell'acqua.
Ad un tratto le sembrò che la folla si fosse fusa dietro di lei in un muro di
corpi curvo e ondeggiante. I tre di fronte a lei sul bordo della fontana
risaltavano quasi fossero dipinti. Una grassona dai capelli neri tinti, la bocca
semiaperta come se fosse la sua posizione naturale, le tette che
traboccavano da un reggiseno di gomma rossa; una bionda con il viso
lungo, pennellata sottile di rossetto blu sulle labbra, mani come artigli da
cui spuntava una sigaretta; infine un uomo con le braccia nude e unte d'olio,
muscoli trapiantati duri come la roccia sotto l'abbronzatura sintetica e brutti
tatuaggi da carcerato.
«Tu, troia» gridò la grassona in tono quasi giulivo «mica ti verrai a
mettere qua, spero.»
La bionda guardò Monna con gli occhi stanchi, le rivolse un vago sorriso
tipo non-è-colpa-mia e si voltò dall'altra parte.
Il pappone avanzò verso di lei come spinto da una molla, ma Monna
aveva raccolto il suggerimento implicito nello sguardo della bionda e stava
già andandosene. Lui riuscì ad afferrarle il braccio, ma la cucitura
dell'impermeabile cedette e lei si fece largo sgomitando tra la folla. Il wiz
cominciò a cambiare effetto, e improvvisamente lei si accorse di essersi
allontanata di un isolato e di essere appoggiata a un palo, col respiro
affannoso e un accenno di tosse.
Ormai l'effetto del wiz era completamente cambiato, come succedeva a
volte, e tutto era diventato brutto. Sui volti della gente vedeva
un'espressione tesa e ansiosa come se tutti avessero i loro incarichi segreti
da svolgere. La luce delle vetrine era fredda e triste, e tutte le cose esposte
dietro ai vetri sembravano urlare che non avrebbe mai potuto averle. Da
qualche parte proveniva una voce, una voce rabbiosa e infantile che
vomitava ininterrottamente oscenità senza senso; quando Monna capì a chi
apparteneva, smise di parlare. Aveva freddo al braccio sinistro. Guardò e
vide che la manica era andata, e che la cucitura laterale si era strappata fino
alla vita. Si tolse l'impermeabile e se lo gettò intorno alle spalle come un
mantello. Forse lo strappo si sarebbe notato meno. Si appoggiò al palo con
la schiena, mentre il wiz la percorreva in una scarica tardiva di adrenalina.
Le ginocchia le si piegavano, pensò di essere sul punto di svenire, ma il wiz
le giocò uno dei suoi tiri, e si ritrovò accovacciata nel cortile sporco del
vecchio, in un tramonto d'estate, e sulla terra grigiastra c'erano i segni del
gioco che stava facendo. Acquattata, assente, osservava un punto oltre le
sagome delle vasche, dove le lucciole pulsavano nel groviglio di rovi
cresciuti sulle vecchie carrozzerie contorte. Dalla casa, dietro di lei,
proveniva una luce, sentiva l'odore del pane che cuoceva e del caffè che il
vecchio faceva bollire e ribollire finché ci si poteva far stare in piedi il
cucchiaio, come diceva lui. Doveva essere dentro a leggere uno dei suoi
libri con le pagine ingiallite e fragili, non una che avesse gli angoli intatti, li
teneva dentro sacchetti di plastica tutta stropicciata e certe volte gli si
sbriciolavano tra le mani, ma se trovava qualcosa che voleva conservare
prendeva una copiatrice tascabile nel cassetto, inseriva le batterie e la
faceva scorrere lungo la pagina. A lei piaceva guardare le copie che
uscivano tutte nuove, con un odore particolare che svaniva, ma il vecchio
non gliela lasciava mai usare. Qualche volta il vecchio leggeva a voce alta,
con una certa esitazione, come uno che tenti di suonare uno strumento che
da molto tempo non prende in mano. Quelli che leggeva non erano racconti,
non avevano un finale e non facevano neppure ridere. Sembravano finestre
aperte su cose strane. Lui non aveva mai provato a spiegarglieli, forse non li
capiva neanche lui, forse nessuno era in grado di comprenderli...
Poi, uno scatto. La strada, dura e luminosa.
Si stropicciò gli occhi e tossì.
12. Ai confini dell'Antartide.
«Sono pronta» disse Piper Hill, con gli occhi chiusi, seduta sul tappeto in
una posizione del loto molto approssimativa. «Tocca il copriletto con la
sinistra.» Otto sottili conduttori collegavano le prese dietro le orecchie di
Piper allo strumento che teneva sulle cosce abbronzate.
Angie, avvolta in un accappatoio bianco di spugna, era seduta sulla
sponda del letto di fronte alla ragazza bionda, il suo tecnico, e l'unità di
controllo nera le copriva la fronte come una benda. Fece come le aveva
detto, facendo scorrere leggermente le punte delle dita sul copriletto
stropicciato di lino e seta grezzi.
«Bene» disse Piper, più a se stessa che ad Angie, toccando qualcosa sulla
consolle. «Ancora.» Angie sentì che il tessuto si ispessiva sotto le dita.
«Ancora.» Un'altra variazione.
Ora Angie poteva distinguere le singole fibre e riconoscere qual era la
seta e quale il lino.
«Ancora.»
Sentì ogni singolo nervo stridere mentre i polpastrelli scorticati
grattavano lana d'acciaio, cocci di vetro.
«Ottimale» disse Piper, aprendo gli occhi azzurri. Estrasse una fialetta
d'avorio dalla manica del kimono, tolse il cappuccio e passò la fiala ad
Angie.
Chiudendo gli occhi, Angie annusò con cautela. Nulla.
«Ancora.»
Qualcosa di fiorito. Violetta?»
«Ancora.»
Un flutto nauseante di odore di serra le riempì la testa.
«L'olfatto si è elevato» disse, mentre l'odore soffocante svaniva. «Non
l'avevo notato.» Aprì gli occhi. Piper le stava porgendo un dischetto di carta
bianca. «Purché non sia pesce» disse Angie, inumidendo la punta del dito.
Toccò il dischetto di carta e si portò il dito alle labbra. Uno dei test di Piper,
una volta, le aveva impedito di mangiare pesce per un mese.
«Non è pesce» disse Piper, sorridendo. Teneva i capelli molto corti, come
un piccolo elmetto che contrastava con la grafite lucida delle prese dietro le
orecchie. Santa Giovanna al silicio, come la chiamava Porphyre, e il lavoro
sembrava essere la sua più grande passione. Era il tecnico personale di
Angie, ed era considerata il miglior esperto di riparazioni della Rete.
Caramello...
«Chi altro c'è qui, Piper?» Dopo aver completato l'"Usher", Piper stava
infilando la consolle nella valigetta di nylon.
Un'ora prima, Angie aveva sentito arrivare un elicottero: risa e passi sul
terrazzo mentre il sogno svaniva. Aveva smesso di cercare di dormire,
sempre che si potesse definire "dormire" il flusso continuo dei ricordi
dell'altra che la riempivano e filtravano in profondità verso livelli che lei
non poteva raggiungere, lasciando quelle immagini persistenti...
«Raebel» rispose Piper «Lomas, Hickman, N.g., Porphyre, Pope.»
«Robin?»
«No.»
«Continuity» disse sotto la doccia.
«Buon giorno, Angie.»
«La Freeside Tours. Chi è il proprietario?»
«E' stata ribattezzata "Mustique Two" dalle società che attualmente la
possiedono, la Julianna Group e la Carribbana Orbital.»
«Chi la possedeva, quando Tally ha fatto le sue registrazioni?»
«La Tessier-Ashpool S.A.»
«Voglio sapere qualcosa di più sulla Tessier-Ashpool.»
«"Ai confini dell'Antartide".»
Lei guardò il tondo bianco dell'altoparlante attraverso il vapore.
«Cos'hai detto?»
«"Ai confini dell'Antartide" è il titolo di un video di due ore, uno studio
sulla famiglia Tessier-Ashpool girato da Hans Becker.»
«Ce l'hai?»
«Naturalmente. Di recente è stato visionato da David Pope. Ne è rimasto
piuttosto colpito.»
«Davvero? Quando?»
«Lunedì scorso.»
«Allora voglio vederlo stasera.»
«Eseguito. E' tutto?»
«Sì.»
«Arrivederci, Angie.»
David Pope. Il suo regista. Porphyre aveva detto che Robin
raccontava in giro che lei sentiva delle voci. L'aveva raccontato anche a
Pope? Toccò un pannello di ceramica e il getto d'acqua si fece più caldo.
Perché Pope era interessato alla Tessier-Ashpool? Toccò di nuovo il
pannello e annaspò sotto le punture di spillo dell'acqua improvvisamente
gelida. Tutto sottosopra, le figure dell'altro paesaggio che arrivavano in
fretta, troppo in fretta...
Porphyre stava accanto alla finestra in una posa studiata da guerriero
masai, vestito con una camicia nera di crespo di seta dalle spalle imbottite e
un "sarong" di cuoio nero. Gli altri applaudirono, e Porphyre si voltò
sorridendo.
«Ci hai colti alla sprovvista» disse Rick Raebel, disteso sul divano chiaro.
Curava gli effetti speciali e il montaggio. «Hilton pensava che tu volessi
qualcosa di più di una vacanza.»
«Sono venuti a rintracciarci dappertutto, cara» aggiunse Kelly Hickman.
«Io ero a Brema, e Pope era nel pozzo gravitazionale, preso dal sacro fuoco
dell'arte, vero, David?» Cercò una conferma nello sguardo del regista.
Pope, seduto a cavalcioni su una poltrona Luigi Sedici con le braccia
incrociate sul fragile schienale, sorrise debolmente. Aveva un viso magro,
incorniciato da capelli scuri e arruffati. Quando lo permetteva la
programmazione del lavoro di Angie, girava dei documentari per la
Rete/Conoscenza. Poco tempo dopo aver firmato il contratto con la Rete,
Angie aveva partecipato anonimamente a una delle rappresentazioni
minimaliste di Pope: una camminata senza fine attraverso dune di sudicio
raso rosa sotto un cielo di metallo sbalzato. Tre mesi dopo, quando lei era
ormai all'apice del successo, una versione illegale di quel nastro era
diventata un classico dell'avanguardia.
Karen Lomas, che curava gli inserti di Angie, sorrise dalla sua sedia alla
sinistra di Pope. Alla sua destra Kelly Hickman, addetto al guardaroba, era
seduto sul pavimento sbiadito accanto a Brian N.g., il tuttofare di Piper.
«Be'» iniziò Angie «sono tornata. Mi dispiace di avervi lasciato tutti in
sospeso, ma era necessario.»
Ci fu un attimo di silenzio. Le poltrone dorate scricchiolarono
impercettibilmente. Brian N.g. tossì.
«Siamo proprio contenti che tu sia tornata» disse Piper, uscendo dalla
cucina con due tazze di caffè in mano.
Applaudirono di nuovo, stavolta un po' forzatamente, e risero.
«Dov'è Robin?» chiese Angie.
«"Massa" Lanier è a Londra» rispose Porphyre, con le mani sui fianchi
fasciati di cuoio.
«Dovrebbe essere in arrivo» disse Pope seccamente, alzandosi e
accettando il caffè che Piper gli offriva.
«Cosa ci facevi in orbita, David?» gli chiese Angie, prendendo l'altra
tazza.
«Ero a caccia di solitari.»
«Solitudine?»
«Solitari. Eremiti.»
«Angie» li interruppe Hickman, balzando in piedi «dovresti proprio
vedere l'abito da cocktail di raso che Devicq ha mandato la settimana
scorsa! Ho anche tutti i costumi da bagno di Nakamura...»
«Sì, Kelly, però...»
Ma Pope aveva già cominciato a parlare di qualcosa con Raebel. «Dai» la
incalzò Hickman, raggiante «dai, vieni a provarli!»
Pope passò quasi tutta la giornata insieme a Piper, Karen Lomas e Raebel
a discutere i risultati dell'Usher e un'infinità di dettagli secondari riguardanti
ciò che chiamavano il "reinserimento" di Angie. Dopo pranzo, Brian N.g. la
accompagnò alla visita medica, eseguita in una clinica privata situata in un
settore riservato dalle mura specchiate del Beverly Boulevard.
Durante la breve attesa nell'area d'aspetto bianca e piena di piante
certamente si trattava di un rituale, come se un appuntamento dal medico
che non comportasse un'attesa sembrasse incompleto, fasullo Angie si
scoprì a chiedersi, come molte altre volte, come mai la misteriosa eredità di
suo padre, i "vévé" che aveva evocato nella sua mente, non erano mai stati
scoperti né da quella né da altre cliniche. Suo padre, Christopher Mitchell,
aveva diretto il progetto ibridoma, che, in pratica, aveva dato ai
Biolaboratori Maas il monopolio della produzione dei primi biochip.
Turner, l'uomo che l'aveva portata a New York, le aveva consegnato una
documentazione su suo padre, un biosoft elaborato da un'I.A. degli organi di
sicurezza della Maas. Angie aveva consultato la documentazione quattro
volte in altrettanti anni. Alla fine, una notte in Grecia in cui era molto
ubriaca, lo aveva gettato in mare dal ponte dello yacht di un industriale
irlandese dopo un furioso litigio con Bobby. Non ricordava più il motivo
della lite, ma ricordava bene la sensazione di perdita e sollievo che aveva
provato nel momento in cui il tozzo pezzetto di memoria aveva colpito la
superficie dell'acqua.
Forse suo padre aveva progettato la sua creazione in modo da renderla
invisibile agli schermi dei neurotecnici. Bobby aveva una sua teoria, che lei
riteneva la più verosimile. Forse Legba, il "loa" a cui Beauvoir riconosceva
una possibilità quasi infinita di accesso alla matrice del ciberspazio, era in
grado di alterare il flusso dei dati così come erano ottenuti dagli schermi e
quindi di rendere i "vévé" trasparenti. Dopotutto era stato Legba a
orchestrare il suo debutto e la sua ascesa nell'industria, e a farle eclissare
Tally Isham, la megastar della Rete per quindici anni.
Ma era passato tanto tempo da quando il "loa" l'aveva cavalcata, e ora
Brigitte le aveva detto che i "vévé" erano stati modificati...
«Hilton oggi ha fatto programmare da Continuity un tuo servizio» le
disse N.g., mentre aspettavano.
«Davvero?»
«Rivelazione ufficiale della tua decisione di andare in Giamaica, elogio
dei metodi usati nella clinica, i pericoli della droga, il rinnovato entusiasmo
per il lavoro, gratitudine verso il pubblico, immagini di repertorio di
Malibu, eccetera.»
Continuity poteva generare immagini video di Angie e animarle con gli
scenari tratti dai suoi simstim. Nel guardarle provava una leggera ma non
del tutto spiacevole vertigine. Era una delle rare volte in cui poteva afferrare
direttamente l'evidenza della sua celebrità.
Da dietro le piante suonò un campanello.
Al ritorno dalla città trovò i fornitori intenti a preparare un barbecue in
terrazza.
Si distese sul divano sotto il Valmier, ad ascoltare il rumore delle onde.
Dalla cucina proveniva la voce di Piper, che stava esponendo a Pope i
risultati della visita. In effetti non ce n'era bisogno, avendo ricevuto la più
immacolata delle schede sanitarie, ma Pope e Piper erano molto pignoli.
Piper e Raebel s'infilarono il maglione e uscirono in terrazza, andando a
riscaldarsi le mani vicino alla carbonella. Angie si trovò a tu per tu nel
salotto con il regista.
«Prima stavi per dirmi che cosa ci facevi nel pozzo, David...»
«Ero in cerca di veri solitari» disse, passandosi la mano sui capelli
arruffati. «Tutto è nato da una cosa che volevo fare l'anno scorso con le
comunità internazionali, in Africa. Il guaio è stato che, una volta
arrivato lassù, ho scoperto che la gente che decide di andare a vivere da
sola in orbita di solito è ben decisa a restare tale.»
«Hai girato qualcosa? Interviste?»
«No. Volevo trovare queste persone e chiedere loro di autoregistrare delle
sequenze.»
«Ci sei riuscito?»
«No. Ma ho sentito molti racconti. Racconti interessanti. Il pilota di un
rimorchiatore affermava che, in Giappone, esistono dei ragazzi selvaggi che
vivono in una fabbrica di droga smantellata. Là fuori, esiste tutta una nuova
serie di apocrifi, davvero: navi fantasma, città dimenticate. Pensandoci, la
cosa ha un suo pathos. Voglio dire, tutto questo è costretto in un'orbita. Ed è
tutto creato dall'uomo, conosciuto, registrato, segnato sulle carte. Sarebbe
come vedere dei personaggi mitologici in un grande parcheggio. Ma penso
che la gente abbia bisogno anche di questo, no?»
«Sì» disse lei, pensando a Legba, a Mamman Brigitte, alla miriade di
candele...
«Mi sarebbe piaciuto» continuò David «mettermi in contatto con Lady
Jane. E' una storia incredibile, in puro stile gotico.»
«Lady Jane?»
«Tessier-Ashpool. La sua famiglia ha costruito il toroide di Freeside.
Pionieri delle orbite più lontane. Continuity ha un bellissimo video...
Dicono che abbia ucciso suo padre. E' l'ultima della sua famiglia. Finirono i
soldi molti anni fa. Lei vendette tutto, staccarono i suoi alloggi dall'asse del
toroide e lo gettarono in un'altra orbita...»
Angie si sedette, unendo le ginocchia e intrecciando strettamente le dita.
Sentiva il sudore colarle tra le costole.
«Non sai la storia?»
«No» rispose lei.
«E' molto interessante, di per sé, perché dimostra come fossero
esperti nel mantenere la gente all'oscuro di tutto. Sapevano usare molto
bene il loro denaro per rimanere fuori del circuito dei media. La madre era
una Tessier, il padre un Ashpool. Costruirono Freeside quando ancora non
esisteva nulla di simile, e alla morte di Ashpool erano favolosamente ricchi,
forse quasi quanto Josef Virek. Naturalmente nel frattempo erano diventati
anche favolosamente eccentrici. Avevano iniziato a far clonare i figli
all'ingrosso...» «E... terribile. E tu hai cercato di trovarla, ci hai provato?»
«Be', ho fatto delle ricerche. Continuity mi aveva procurato il video di
Becker, e naturalmente è riportata la sua orbita, ma non si può capitare lì
senza essere stati invitati non ti pare? Poi Hilton mi ha chiamato e mi ha
detto di tornare qui, al lavoro... ma non stai bene?» «Sì, sì... solo vorrei
andare a cambiarmi, a mettermi qualcosa di più pesante.»
Finito di cenare, mentre portavano il caffè, Angie si scusò e augurò a tutti
la buonanotte.
Porphyre la seguì fino alle scale. A cena si era seduto accanto a lei, come
se avesse intuito il suo nuovo disagio. No, pensò lei non nuovo; il solito,
l'eterno disagio di sempre, tutto quello che la droga era riuscita a tenere
sotto controllo.
«Stai attenta, signorina» le sussurrò, senza farsi sentire dagli altri.
«Sto bene» disse lei «ma c'è troppa gente. Non ci sono ancora abituata.»
Lui rimase a guardarla; dietro al suo cranio finemente modellato,
sottilmente inumano, brillavano le braci che si stavano spegnendo. Lei si
voltò e salì le scale.
Un'ora dopo udì l'elicottero che era venuto a prenderli.
«Casa, desidero vedere il video di Continuity adesso.»
Mentre calava lo schermo, Angie aprì la porta della camera e rimase un
attimo in cima alle scale, ascoltando i rumori nella casa vuota. La risacca, il
ronzio della lavastoviglie, il vento che colpiva le finestre di fronte alla
terrazza.
Si voltò verso lo schermo, e rabbrividì nel vedere il viso nel
fermoimmagine granuloso. Sopracciglia simili ad ali sopra due occhi scuri,
zigomi alti e fragili, bocca larga e decisa. L'immagine si ingrandì
gradualmente nell'oscurità di un occhio, poi uno schermo nero e un punto
bianco che cresceva, si allungava e diventava l'asse affusolato di Freeside.
Cominciarono ad apparire i titoli in tedesco.
«Hans Becker» iniziò la casa, recitando l'introduzione critica
compilata dalla Rete «è un artista video austriaco, il cui stile è caratterizzato
dall'interrogazione ossessiva di campi d'informazione visiva rigidamente
delimitati. La sua sperimentazione spazia dal montaggio tradizionale alle
tecniche usate nello spionaggio industriale ai campi lunghi alla
cinearcheologia. "Ai confini dell'Antartide", il suo studio iconografico della
famiglia TessierAshpool, è generalmente considerato il suo capolavoro.
Questo clan di industriali, patologicamente allergico ai media, costituiva per
il regista una sfida notevole.»
Il bianco dell'asse riempì lo schermo, e l'ultimo titolo scomparve.
Un'immagine al centro dello schermo, l'istantanea di una giovane donna
vestita di un largo abito scuro, lo sfondo indistinto. MARIE-FRANCE
TESSIER, MAROCCO.
Non era lo stesso viso della scena iniziale, il viso invadente del ricordo,
ma sembrava prefigurarlo, come se l'immagine restasse allo stato larvale
sotto la superficie.
La colonna sonora faceva scorrere filamenti di musica atonale attraverso
strati di voci monotone e indistinte, mentre l'immagine di Marie-France era
sostituita dal ritratto monocromo, formale, di un giovane con una camicia
dal collo inamidato. Un bel viso, fine e proporzionato, ma in qualche modo
duro, e dagli occhi traspariva una noia infinita. JOHN HARNESS
ASHPOOL, OXFORD.
"Sì" pensò Angie "ti ho incontrato molte volte. Conosco la tua storia
anche se non mi è permesso avvicinarmi.
"ma credo proprio che tu non mi piaccia affatto, vero, signor Ashpool?"
13. Passerella.
La passerella traballò, cigolando. La barella era troppo larga rispetto ai
due corrimano, e dovettero tenerla sollevata all'altezza del petto intanto che
avanzavano lentamente. Gentry camminava davanti, tenendo saldamente
nelle mani guantate i sostegni ai lati dei piedi del dormiente, mentre Slick
Henry sorreggeva l'altra estremità più pesante, con le batterie e l'impianto, e
sentiva Cherry che avanzava cautamente dietro di lui. Avrebbe voluto dirle
di tornare indietro, che il suo peso sulla passerella era di troppo, ma per
qualche motivo non ci riusciva.
Era stato un errore dare a Gentry la droga di Kid Afrika. Slick non sapeva
cosa ci fosse nel derma che Gentry aveva preso, non era neppure sicuro che
non si fosse già tirato qualcosa prima. Sapeva solo che a Gentry aveva dato
di volta il cervello, e adesso stavano lì su quella passerella del cazzo a venti
metri d'altezza, e aveva voglia di piangere, di gridare per la frustrazione, di
spaccare tutto, ma non riusciva a mollare la presa dalla barella.
E quel sorriso assurdo di Gentry, illuminato dal bagliore del biomonitor
fissato ai piedi della barella, mentre procedeva a ritroso di un altro passo...
«Ragazzi» disse Cherry, con voce quasi infantile «per me questa è una
grandissima puttanata...»
Gentry improvvisamente diede uno scossone impaziente alla barella e
Slick per poco non perse la presa.
«Gentry» disse Slick «secondo me faresti bene a pensarci due volte prima
di farlo.»
Gentry si era tolto i guanti. Stringeva un paio di sonde ottiche, e Slick gli
vide tremare fra le mani gli anelli di connessione.
«Voglio dire, Kid Afrika è un duro. Non sai in che casini ti cacci, se gli
metti i bastoni fra le ruote.» A voler essere precisi, questo non era del tutto
vero, perché, per quanto ne sapeva Slick, il Kid era troppo furbo per pensare
a vendicarsi. Ma chi diavolo poteva sapere su cosa Gentry stava per mettere
le mani?
«Non faccio nessun casino» disse Gentry, avvicinandosi con le sonde alla
barella.
«Senti, bello» disse Cherry «se stacchi il collegamento lo ucciderai. Il
sistema simpatico gli andrà a puttane. Ma perché non lo fermi?» chiese a
Slick. «Perché non gli spacchi il culo?»
Slick si stropicciò gli occhi. «Perché... boh. Perché lui... senti, Gentry, sta
dicendo che se provi a collegarti lo stronzo crepa. Hai sentito?»
«"L.F."» rispose Gentry. «E' questo, che ho sentito.» Tenendo le sonde tra
i denti, cominciò ad armeggiare con una delle connessioni
dell'apparecchiatura fissata sopra la testa del dormiente. Le mani avevano
smesso di tremargli.
«Merda» disse Cherry, e si mordicchiò una nocca. Gentry aveva estratto
una delle connessioni. Con l'altra mano infilò la sonda e iniziò a fissarla al
suo posto. Guardò l'altra sonda, sorridendo. «Andate a prenderlo tutti in
culo» ricominciò Cherry. «Io taglio la corda.» Ma non si mosse.
L'uomo disteso sulla barella grugnì piano. Quel suono fece venire a Slick
la pelle d'oca.
Gentry estrasse anche la seconda connessione, inserì l'altra sonda e
cominciò a fissarla.
Cherry andò velocemente ai piedi della barella e si inginocchiò per
controllare il monitor. «Ti ha sentito» disse, rivolta a Gentry «ma qui
sembra che sia tutto normale.»
Gentry si mise al terminale. Slick lo osservò collegare le sonde. Pensò
che forse avrebbe funzionato. Presto Gentry sarebbe crollato, e avrebbero
dovuto lasciare lì la barella fino a che non avessero trovato Little Bird per
farsi aiutare a riportarla giù. Ma Gentry era proprio pazzo; forse avrebbe
dovuto tentare di riprendersi la droga, almeno una parte, per far tornare tutto
alla normalità...
«Posso solo pensare» disse Gentry «che tutto questo sia stato
predeterminato. Prefigurato dalla forma del mio lavoro precedente. Non
pretendo di capire come possa essere successo, ma non è nostro compito
chiedere perché, non è così, Slick Henry?» Batté una serie di comandi su
una delle tastiere. «Hai mai considerato il legame esistente fra la paranoia
intesa in senso clinico e il fenomeno della conversione religiosa?»
«Ma che cazzo sta dicendo?» chiese Cherry.
Slick scosse cupo la testa. Una sola parola sarebbe bastata a incoraggiare
la follia di Gentry.
Gentry andò verso la grande unità di proiezione. «Vi sono mondi dentro
ai mondi. Macrocosmo e microcosmo. Stanotte abbiamo fatto attraversare
un ponte a un universo intero, e il sopra è come il sotto... Era ovvio,
naturalmente, che tutto ciò esistesse, ma non avrei mai osato sperare...»
Gettò loro un timido sguardo da sopra la spalla vestita di nero. «E ora
vedremo la forma del piccolo universo nel quale sta viaggiando il nostro
ospite. E in questa forma, Slick Henry, vedrò...» Toccò il tasto
dell'accensione sull'orlo della tavola ologrammi. E gridò.
14. Giocattoli.
«Questa è molto carina» disse Petal, toccando un cubo in palissandro
grande come la testa di Kumiko. «La Battaglia d'Inghilterra.» Si accese una
luce, e Kumiko, sporgendosi, vide alcuni aeroplanini che viravano e si
gettavano in picchiata sulle grigie macerie di Londra. «E' una ricostruzione
fatta sui film di guerra. Le cineprese erano fissate sulle mitragliatrici»
spiegò. Lei osservò i lampi quasi microscopici della contraerea sull'estuario
del Tamigi. «L'hanno fatta per il Centenario.»
Si trovavano nella sala da biliardo di Swain, al piano terra nel retro del
numero 16. Si sentiva un vago odore di muffa, un eco dell'odore di pub.
L'ordine con cui era tenuta l'abitazione di Swain era addolcito da una
signorile trascuratezza: c'erano poltrone rivestite di cuoio consumato,
mobili scuri e pesanti, il verde erba opaco del tappeto da biliardo. C'erano
scaffali di metallo nero ingombri di impianti da gioco. Era per questo che
Petal, trascinandosi nelle ciabatte di fustagno sdrucite, l'aveva portata lì,
prima di prendere il tè. Voleva mostrarle i giochi disponibili.
«Di che guerra si trattava?»
«La penultima» rispose lui, dirigendosi verso un'unità simile ma più
grande, con l'ologramma di due ragazze tailandesi impegnate nella boxe.
Una delle due colpiva con la pianta del piede il ventre bruno dell'altra, teso
a ricevere il colpo. Petal sfiorò un interruttore e le proiezioni svanirono.
Kumiko tornò a guardare la Battaglia d'Inghilterra e i moscerini infuocati.
«Microfilm sportivi di ogni tipo» disse Petal, aprendo un apposito
cofanetto in pelle di cinghiale che conteneva centinaia di registrazioni.
Le mostrò una mezza dozzina di altre apparecchiature, poi cominciò a
cercare un canale di notiziari in giapponese, grattandosi la testa. Alla fine lo
trovò, ma non riuscì a disinserire il programma automatico di traduzione.
Stette a guardare insieme a lei un gruppo di dirigenti dell'Ono-Sendai che si
tenevano in disparte durante una mesta cerimonia. «Ma che cos'è?» le
domandò.
«Stanno dimostrando la loro lealtà alla propria "zaibatsu".»
«Capisco» disse Petal. Spolverò il video con il piumino. «Fra poco è l'ora
del tè» e lasciò la stanza. Kumiko tolse l'audio. Sally Shears non era venuta
a colazione, e neppure Swain.
Le tende verde muschio nascondevano una serie di alte finestre che
davano tutte sul medesimo giardino. Rimase a osservare una meridiana
coperta di neve e lasciò ricadere la tenda. Sullo schermo comparvero le
immagini di un incidente avvenuto a Tokyo. Medici che estraevano dalle
lamiere contorte persone flaccide, prive di sensi. Contro la parete di fondo
si trovava un'imponente vetrina in stile vittoriano, dai piedi scolpiti in forma
di ananas. La serratura, in cui era intarsiato un diamante d'avorio ingiallito,
non aveva chiave. Provò a tirare gli sportelli, che si aprirono emanando un
odore chimico di lucido vecchio. Fissò il "mandala" bianco e nero sul fondo
della vetrina, finché non le apparve per quello che era: un bersaglio. Dietro,
il legno lucido era butterato di fori. Kumiko si disse che chi ci aveva
giocato non aveva una gran mira. Nella parte inferiore della vetrina si
trovavano alcuni cassetti, ognuno con un pomolo di metallo e una
minuscola serratura intarsiata d'avorio. Vi si inginocchiò davanti, guardò la
porta dietro di sé - sullo schermo apparivano le labbra di una cantante di
cabaret di Shinjuku - e aprì il cassetto in cima a destra, tirandolo il più piano
possibile. Era pieno di freccette, alcune sparse, altre contenute in buste di
pelle. Chiuse il cassetto e ne aprì un altro alla sua sinistra. Tarma morta, vite
arrugginita. Sotto ai primi due si trovava un unico cassetto più grande. Non
scorreva bene, e cigolava. Si guardò indietro un'altra volta. Immagini di
repertorio della baia di Tokyo. Nessun segno di Petal.
Sfogliò per qualche minuto una rivista pornografica scritta in
giapponese che sembrava trattare soprattutto dell'arte dei nodi. Sotto c'erano
una polverosa cerata nera e una scatola di plastica grigia con la scritta
WALTHER in rilievo. La pistola era fredda e pesante. Kumiko vide il suo
viso riflesso nel metallo azzurrino non appena la sollevò dal suo letto
sagomato di schiuma. Era la prima volta che prendeva in mano una pistola.
L'impugnatura grigia sembrava enorme. La rimise nella custodia e cercò la
sezione in giapponese del pieghevole d'istruzioni multilingue. Si trattava di
una pistola ad aria compressa. Bisognava spingere la leva sotto il serbatoio.
Sparava pallini di piombo. Un altro giocattolo. Rimise tutto al suo posto e
chiuse il cassetto.
Tutti gli altri erano vuoti. Chiuse gli sportelli del mobile e tornò alla
Battaglia d'Inghilterra.

«No» disse Petal. «Spiacente, ma non si può.»


Stava spalmando panna del Devon su una focaccina. Nelle sue grosse
dita, il pesante coltellino da burro vittoriano sembrava un giocattolo.
«Assaggi la panna» le suggerì, chinando la testa massiccia e guardandola
affabilmente da dietro gli occhiali.
Kumiko si pulì le labbra dalla marmellata con il tovagliolo di lino. «Ha
forse paura che scappi?»
«Scappare? E' a questo che sta pensando?» Masticava la focaccina e
guardava inespressivo fuori dalla finestra. Stava nevicando.
«No» disse Kumiko. «Non ho nessuna intenzione di scappare.»
«Bene» disse lui, addentando un altro boccone.
«Sarei in pericolo, per strada?»
«Cielo, no» le rispose lui con una specie di giovialità forzata. «E' al
sicuro come in casa.»
«Voglio uscire.»
«No.»
«Ma con Sally esco.»
«Sì, ed è proprio un cattivo soggetto, la nostra Sally.»
«Non capisco questo modo di dire.»
«Uscire da sola, no. Fa parte degli accordi con suo padre, chiaro? Uscire
con Sally va bene, ma adesso lei non c'è. Non c'è nessuno che abbia la
possibilità di molestarla, ma perché correre rischi inutili? Ora, vede, sarei
felice di portarla a spasso, vede, felicissimo, ma devo stare qui in caso ci
siano chiamate per Swain. Perciò non posso. E' un gran peccato, proprio
così.» Petal sembrava tanto dispiaciuto che quasi la convinse. «Faccio
tostare un'altra focaccina?» le domandò, indicando il piatto.
«No, grazie» e posò il tovagliolo. «Era proprio buona» aggiunse.
«La prossima volta assaggi la crema» le disse. «Non se n'è più trovata,
dopo la guerra. Dalla Germania arrivava una pioggia che faceva star male le
mucche.»
«Petal, Swain è in casa?»
«No.»
«Non lo vedo mai.»
«E' sempre in movimento. Affari. Va a periodi. Fra non molto lo
cercheranno tutti e avrà di nuovo la sua corte attorno.»
«Chi, Petal?»
«Gente d'affari, come la chiamerebbe lei.»
«"Kuromaku"» disse Kumiko.
«Prego?»
«Nulla.»
Passò il pomeriggio da sola nella stanza da biliardo, rannicchiata su una
poltrona di pelle a guardare la neve che cadeva in giardino e la meridiana,
divenuta un cumulo bianco e informe. Immaginò sua madre, avvolta nella
pelliccia scura, sola nel giardino mentre la neve cadeva, principessa-
ballerina annegata per sua stessa mano nelle acque notturne di Sumida.
Si alzò in piedi, infreddolita, e girò intorno al biliardo per andare verso il
caminetto di marmo dove la fiammella a gas sibilava piano sotto carboni
che non si sarebbero mai consumati.
15. I sentieri argentati.
Aveva avuto un'amica a Cleveland, una certa Lanette, che le aveva
insegnato un sacco di cose: come fare per uscire subito dalla macchina
quando un cliente cerca di chiuderti dentro a chiave, come fare per trovare
sempre una dose. Lanette aveva qualche anno più di lei e si faceva più che
altro di wiz, diceva, giusto per "darsi una mossa quando si è giù", essendo
spesso in depressione causata un po' da tutto, dalle pseudo-endorfine al caro
vecchio oppio del Tennessee. Diceva che, se non avesse avuto quello, si
sarebbe ritrovata davanti al video dodici ore di fila a guardare stronzate.
Diceva che, quando il wiz dava una mossa al dolce senso di invulnerabilità
procurato da una bella depressione, era fantastico. Però Monna aveva notato
che quelli che erano davvero in depressione passavano un sacco di tempo a
vomitare, e non capiva perché guardarsi un video quando ci si poteva fare
un simstim. Lanette diceva che il simstim era anche troppo per le sue
esigenze.
Le era venuta in mente Lanette perché a volte le dava dei consigli, per
esempio su come sbrogliarsela in una notte in cui tutto andava storto.
Monna pensò che quella sera le avrebbe sicuramente suggerito di andare a
cercare un bar e un po' di compagnia. Le era rimasto ancora un po' del
denaro guadagnato in Florida con l'ultima notte di lavoro, quindi si trattava
solo di trovare un posto dove accettassero contanti.
Il primo posto che trovò le parve proprio quello giusto. Buon segno.
Scese una stretta rampa di scale di cemento, entrando in un fumoso ronzio
di voci e nel battito soffocato e familiare di "White Diamonds", degli
Shabu. Non era un posto da impiegati, ma neanche l'ideale che i magnaccia
di Cleveland avevano di un buon locale. Non aveva nessuna voglia di
andare in un posto di quel genere, non stasera.
Proprio mentre entrava, una persona al banco si alzò per andarsene, e
Monna si accaparrò subito lo sgabello libero. La plastica del sedile era
ancora calda, un altro buon segno. Il barista increspò le labbra annuendo nel
vedere la banconota che lei gli porgeva; ordinò bourbon e una birra a parte,
come faceva sempre Eddy quando non c'era nessuno che gli offriva da bere.
Se era qualcun altro a pagare, ordinava sempre dei cocktails che il barista
non sapeva preparare, poi passava un buon quarto d'ora a spiegargli
dettagliatamente come si facevano. Poi li beveva e cominciava a rompere
perché non erano buoni come quelli di Los Angeles, di Singapore o di
qualche altro posto dove non era mai stato.
Qui il bourbon era strano, un po' forte all'inizio, ma proprio buono
quando andava giù. Lo disse al barista, che le domandò dove beveva il
bourbon di solito. Monna disse a Cleveland, e lui annuì. Disse che lo
facevano con alcol etilico e qualche altra schifezza che in teoria doveva
dargli lo stesso sapore del bourbon. Quando le disse quanto avrebbe speso,
Monna si disse che quel bourbon dell'Agglomerato era roba di lusso. Però
faceva il suo dovere, la tirava su, così vuotò il bicchiere e attaccò con la
birra.
A Lanette piaceva andare al bar, ma non beveva mai, solo Coca o cose
del genere. Monna ricordava sempre quel giorno in cui si era fatta due
cristalli in una botta, Lanette lo chiamava "farsi una doppietta fusa", e aveva
sentito una voce nel cervello che le diceva "va tanto forte che sta fermo";
era una voce chiara, come se ci fosse stato qualcuno nella stanza. Lanette
che aveva già preso una punta di nero di Memphis sciolto nel tè un'ora
prima, si era fatta un mezzo cristallo, e così erano uscite a fare un giro sotto
la pioggia, vagando come due fantasmi per le strade, e a Monna sembrava
che tra loro ci fosse una perfetta armonia che non aveva bisogno di parole.
Quella voce aveva ragione: Monna non sentiva l'affanno febbrile, la morsa
dell'angoscia, ma solo la sensazione di qualcosa, forse se stessa, che si
espandeva intorno a un centro immobile. Erano arrivate a un parco. Sul
prato si allargavano pozzanghere argentee e l'acqua aveva coperto i vialetti,
e Monna aveva battezzato quel ricordo "i sentieri argentati".
Qualche tempo dopo Lanette era sparita, e nessuno l'aveva più vista in
giro. Qualcuno aveva detto che era andata in California, altri in Giappone,
altri invece che si era sparata un'overdose ed era precipitata dalla finestra,
un bel tuffo a secco come lo chiamava Eddy. Ma Monna non aveva proprio
voglia di pensarci, così si raddrizzò e cominciò a guardarsi intorno. Già,
non male, come posto. Era abbastanza affollato perché era piccolo, ma a
volte non le dispiaceva. Eddy li avrebbe definiti "intellettualoidi", quei tizi:
gente che aveva i soldi ma si vestiva come se non ne avesse, solo che i
vestiti gli stavano bene addosso e si vedeva che erano nuovi.
Dietro il banco c'era un video, al di sopra delle bottiglie, e vide Angie che
guardava fisso nella telecamera. Stava dicendo qualcosa, ma il volume era
troppo basso per poter sentire. Una ripresa aerea di una fila di case sulla
riva del mare, e poi di nuovo Angie che rideva, scuotendo i capelli e
offrendo alla telecamera quel suo sorriso quasi triste.
«Ehi» disse al barista «c'è Angie.»
«Chi?»
«Angie» e Monna indicò lo schermo.
«Già» disse lui. «Si faceva, e ha deciso di smettere, così è andata in Sud
America o quel che è e ha pagato un bel po' di cubi per farsi curare.»
«Non è vero che si faceva.»
Il barista la guardò. «Come no.»
«Ma come ha potuto cominciare? Lei è Angie, mica una qualunque.»
«Si vede che nel suo giro le cose vanno così.»
«Ma guardala» protestò lei. «E' così in gamba...» Ma Angie era sparita,
rimpiazzata da un tennista di colore.
«Pensi davvero che sia lei? Quella è solo una testa parlante.»
«Che testa?»
«Una specie di marionetta» disse una voce dietro di lei, mentre si girava e
vedeva una cresta di capelli chiari e un sorriso splendente, disinvolto. «Una
marionetta» ripeté, alzando la mano e muovendo le dita «chiaro, no?»
Il barista andò dall'altra parte del banco, e Monna capì che la
conversazione non gli interessava. Il sorriso bianco si allargò. «Così non è
costretta a girare lei di persona. Capito?»
Anche lei gli sorrise. Tipo carino, occhi grigi, espressione sveglia.
Sembrava circondato da un alone invisibile che le inviava proprio il
messaggio che stava aspettando. Non era un mezzemaniche. Un po' magro,
ma quella notte poteva anche andare. L'espressione disinvolta e divertita
delle labbra contrastava con gli occhi furbi e luminosi. «Michael.»
«Eh?»
«Mi chiamo Michael.»
«Oh. Io Monna.»
«Di dove sei, Monna?»
«Della Florida.»
Anche Lanette le avrebbe detto di buttarsi.
Eddy odiava gli intellettualoidi, perché non compravano quello che lui
voleva vendere. Avrebbe odiato Michael ancora di più, perché Michael
aveva un lavoro e una mansarda. Almeno, lui aveva detto che era una
mansarda, ma quando Monna la vide era più modesta di quello che si
immaginava. Era in una vecchia costruzione, una fabbrica o qualcosa di
simile. I muri erano di mattoni sabbiati, il soffitto a travi di legno. L'edificio
era stato diviso in appartamenti come quello di Michael, una stanza non
molto più grande di quella dell'albergo, con la zona notte da una parte, la
cucina e il bagno dall'altra. Era all'ultimo piano, e nel soffitto si apriva un
grande lucernario: forse era questo che intendeva chiamandolo una
mansarda. Sotto il lucernario c'era un avvolgibile orizzontale di carta rossa,
fissato con cordicelle e carrucole, simile a un grande aquilone.
Era tutto in disordine ma la roba che vedeva in giro era nuova: sedie
sottili di tubolare bianco con i sedili fatti di stringhe di plastica trasparente,
una pila di moduli audiovisivi, un terminale di lavoro e un divano di pelle
argentata.
Cominciarono sul divano, ma a lei non andava perché le si appiccicava
addosso, così andarono sul letto, nell'alcova.
Fu allora che Monna vide l'impianto di registrazione, un simstim, sulle
mensole bianche alla parete. Ma sentì di nuovo il nash del wiz, e dato che si
era buttata tanto valeva andare fino in fondo. Le infilò il pickup, un collare
di gomma nera con estensioni terminanti in elettrodi che premevano alla
base del cranio. Senza fili. Roba costosa.
Michael, collegandosi a sua volta e regolando l'impianto, le parlava del
suo lavoro. Lavorava per una società di Memphis che creava nuovi nomi
per le altre società. Al momento era impegnato a trovarne uno per una
compagnia che si chiamava "Cathode Cathay". Disse che ce n'era proprio
bisogno, e rise, ma aggiunse che non si trattava di una cosa semplice.
Perché c'erano così tante società che ormai i nomi migliori erano già stati
quasi tutti usati. Aveva un computer che conosceva i nomi di tutte le
società, uno che trovava le parole da utilizzare come nome e un altro ancora
che verificava che il nome creato non significasse "testa di cazzo" o cose
del genere in cinese o in svedese. Ma siccome la società per cui lavorava
non vendeva soltanto il nome, ma anche quello che lui chiamava
"immagine", collaborava con altri in modo che il nome da lui trovato si
accordasse con il resto. Poi andarono a letto insieme, ma non fu gran che,
come se il divertimento fosse finito e quello fosse diventato un cliente come
tutti gli altri, e pensava che lui intanto registrava il tutto per poterselo
riguardare quando voleva. Chissà quanti altri ne aveva.
Dopo rimase distesa accanto a lui ad ascoltare il suo respiro, finché il wiz
non iniziò a tracciare come dei cerchi sul fondo del suo cranio ripetendo
continuamente la stessa sequenza di immagini sconnesse: la borsa di
plastica nella quale teneva le sue cose in Florida, allacciata con il filo di
ferro ché non entrassero gli insetti. Il vecchio seduto davanti al tavolo di
cartone, mentre sbucciava le patate con un coltello da macellaio consumato,
ridotto a un mozzicone lungo un dito. Un ristorante di specialità "krill" a
Cleveland fatto a forma di gambero, con le scaglie della coda arcuata di
fogli di metallo e plastica trasparente rosa e arancio. Il predicatore che
aveva visto il giorno in cui era andata a comprare i vestiti nuovi, lui e il suo
pallido Gesù riccioluto. Il predicatore, appena le veniva in mente, era sul
punto di dire qualcosa, ma non lo faceva mai. Monna sapeva che tutto
questo sarebbe continuato finché non si fosse alzata e non avesse
cominciato a pensare ad altro. Sgusciò fuori dal letto e restò in piedi a
osservare Michael nella luce grigia del lucernario. "L'estasi. L'estasi sta per
arrivare".
Andò dall'altra parte della stanza e indossò il vestito, perché aveva
freddo. Si sedette sul divano di pelle argentata. L'avvolgibile rosso rendeva
rosato il grigio del lucernario, mentre si faceva chiaro. Si chiese quanto
potesse costare un posto come quello.
Ora che non lo vedeva, non riusciva a ricordarsi com'era. "Be', lui si
ricorderà di me senz'altro" si disse, ma a pensarci si sentiva offesa, ferita,
fregata. Le faceva rimpiangere di non essere rimasta in albergo a vedersi i
simstim di Angie.
La luce grigio-rosata stava riempiendo la stanza, allargandosi in pozze
che cominciavano a coagularsi negli angoli. Qualche cosa le stava
ricordando Lanette e quelle storie sulla sua overdose. A volte qualcuno
moriva di overdose in casa d'altri, e la cosa più semplice era gettare il
cadavere dalla finestra in modo che la polizia non capisse da dove era
arrivato.
Ma non aveva intenzione di pensarci. Andò in cucina e guardò nel frigo
e negli armadietti. Nel freezer c'era un sacchetto di caffè in grani, ma il
caffè insieme al wiz faceva venire la tremarella. C'era un sacco di pacchetti
di stagnola con l'etichetta in giapponese, roba liofilizzata. Trovò un
pacchetto di tè e stappò una delle bottiglie d'acqua del frigo. Versò un po'
d'acqua in un pentolino e armeggiò con la piastra della cucina finché riuscì
ad accenderla. Gli elementi erano cerchi bianchi stampati sulla piastra nera.
Bisognava mettere la pentola al centro e toccare un punto rosso stampato a
lato. Appena l'acqua bollì, vi gettò un filtro di tè e levò il pentolino.
Si chinò a inalare il vapore profumato di erbe.
Monna non si dimenticava mai com'era Eddy quando non c'era. Forse
non era un gran che, ma se non altro c'era. Bisogna avere accanto almeno
un viso che non cambi. Ma anche pensare a Eddy non era una buona idea.
Presto sarebbe arrivata la picchiata, la depressione da wiz, e doveva trovare
il modo di tornare in albergo prima che succedesse. Improvvisamente le
sembrò che fosse diventato tutto troppo complicato, troppe cose da fare,
troppi ostacoli da affrontare, ed era proprio quella la picchiata, il momento
in cui si inizia a preoccuparsi di come rimettere le cose a posto quando si
torna nella vita normale. Pensava che però Prior non avrebbe permesso a
Eddy di picchiarla, perché quello che lui voleva aveva a che fare con la sua
faccia. Si voltò per prendere una tazza.
Prior era là, con il suo cappotto nero. Monna sentì la propria gola
emettere uno strano suono involontario.
Aveva già avuto allucinazioni quando andava in picchiata ma erano
sempre sparite se le fissava abbastanza a lungo. Ci provò, ma stavolta non
funzionava.
Prior stava fermo con in mano una specie di pistola di plastica, senza
puntargliela contro. La teneva in mano e basta. Indossava guanti simili a
quelli che aveva usato Gerald durante la visita. Non sembrava infuriato, ma,
per una volta, non sorrideva. Rimase in silenzio a lungo, e Monna fece lo
stesso.
«Chi c'è di là?» chiese, con lo stesso tono di chi si trovava a un party.
«Michael.»
«Dove?»
Lei indicò l'alcova.
«Mettiti le scarpe.»
Lei lo oltrepassò e uscì dalla cucina, chinandosi meccanicamente per
raccogliere la sua biancheria sulla moquette. Le sue scarpe erano accanto al
divano.
Lui la seguì e la guardò infilarsi le scarpe. Aveva ancora in mano la
pistola. Con l'altra mano, prese la giacca di pelle di Michael sul divano e
gliela gettò. «Mettitela» le ordinò. Monna la indossò e ficcò la biancheria in
una delle tasche.
Prior raccolse l'impermeabile bianco strappato, appallottolò anche quello
e se lo infilò in una tasca del cappotto.
Michael russava. Forse presto si sarebbe svegliato e si sarebbe riguardato
la registrazione. Con quell'impianto, non aveva proprio bisogno di nessuno.
Nel corridoio, Monna vide Prior richiudere la porta con una scatola
grigia. Non vedeva più la pistola, ma non ricordava che l'avesse messa via.
Dalla scatola sporgeva un tubo flessibile rosso con una comune chiave
magnetica all'estremità.
Fuori faceva freddo. Lui la condusse in fondo all'isolato e aprì la portiera
di un piccolo tre ruote bianco. Lei salì. Prior si mise al volante e si sfilò i
guanti. Accese il motore. Lei guardò una nuvola che passava riflessa nella
parete di rame di un grattacielo di uffici. «Penserà che gliel'ho rubato»
disse, guardandosi la giacca.
Poi il wiz giocò l'ultima carta. Una irta cascata di neuroni nelle sinapsi.
Cleveland sotto la pioggia, una piacevole sensazione provata una volta,
mentre passeggiava.
Argento.
16. Filamenti negli strati.
"Io sono il tuo pubblico ideale, Hans" mentre la registrazione ripartiva da
capo. "Come potresti avere uno spettatore più attento? L'hai davvero
catturata, Hans: lo so, perché io sogno i suoi ricordi. Vedo quanto ci sei
andato vicino."
Sì, li hai catturati. Il viaggio, la costruzione dei muri, la lunga spirale
interna. I muri, vero? Il labirinto del sangue, della famiglia. Il dedalo
sospeso contro il vuoto che diceva "Noi siamo ciò che all'esterno è altro, qui
per sempre dimoreremo". E là fin dall'inizio ci fu oscurità... l'hai scoperta
spesso, negli occhi di Marie-France, con una ripresa al rallentatore alle
orbite d'ombra del cranio. Ben presto lei non si lasciò più riprendere. Hai
lavorato con quello che avevi. Hai giustificato la sua immagine, l'hai ruotata
in piani di luce, in piani d'ombra, hai generato modelli, tracciato la mappa
del suo cranio su griglie fluorescenti. Hai usato programmi speciali per
invecchiare le immagini seguendo modelli statistici e sistemi di animazione
per dar vita a una tua Marie-France di mezza età. Hai ridotto la sua
immagine a un numero grande, ma finito, di punti, li hai mescolati facendo
emergere forme nuove, scegliendo quelle che sembravano dirti di più... E
poi sei passato agli altri, ad Ashpool e alla figlia, il cui volto racchiude la
tua opera, come immagine iniziale e finale.
Quella seconda visione diede solidità alla loro storia, le permise di
allineare i frammenti di Becker lungo un percorso che iniziava con il
matrimonio tra la Tessier e Ashpool, unione di cui a quel tempo parlarono
soprattutto gli organi d'informazione delle corporazioni finanziarie.
Entrambi erano eredi di un notevole impero: la Tessier di un patrimonio
familiare basato su nove fondamentali brevetti della biochimica applicata,
Ashpool della grande società d'ingegneria fondata dal padre con sede a
Melbourne. Agli occhi dei giornalisti il matrimonio avrebbe comportato una
fusione, per quanto la corporazione che ne sarebbe risultata appariva goffa
ai più, come una chimera con due teste mostruosamente dissimili.
Eppure era possibile notare che nelle fotografie di Ashpool risalenti a
quel periodo la noia era scomparsa, sostituita da un'assoluta determinazione.
L'effetto non era lusinghiero, anzi, era spaventoso: il suo volto, bello e duro,
diventò ancora più duro senza pietà nei suoi intenti.
Nel giro di un anno dal suo matrimonio con Marie-France Tessier,
Ashpool aveva venduto il novanta per cento delle sue partecipazioni nella
società, reinvestendo in proprietà orbitali e servizi navetta, e i frutti
dell'unione, un maschio e una femmina, stavano per nascere dalle due madri
surrogato nella villa di Biarritz di Marie-France.
La Tessier-Ashpool ascese all'arcipelago delle orbite lontane e trovò
l'eclittica punteggiata di poche stazioni militari e delle prime fabbriche
automatizzate dei consorzi. E qui iniziarono a costruire. Inizialmente, i loro
patrimoni messi insieme avrebbero eguagliato a fatica la spesa dell'Ono-
Sendai per un solo modulo processore dell'operazione dei semiconduttori
orbitali, ma Marie-France dimostrò un inaspettato fiuto imprenditoriale,
fondando un profittevole portodati che rispondeva ai bisogni dei settori
meno rispettabili della comunità bancaria internazionale. A sua volta, tutto
questo creò dei legami con le banche stesse e i loro clienti. Ashpool
contrasse ingenti prestiti, e il muro circolare di cemento lunare che sarebbe
divenuto Freeside cresceva, racchiudendo i propri fondatori.
Quando scoppiò la guerra, i Tessier-Ashpool erano dietro quel muro.
Videro Bonn morire in un lampo, poi Belgrado. Durante quelle tre
settimane la costruzione dell'asse procedette con trascurabili interruzioni;
più tardi, durante la decade frastornata e caotica che seguì, a volte le cose si
facevano più difficili.
Ora le bambine, Jean e Jane, vivevano con loro, dato che la villa di
Biarritz era stata venduta per finanziare la costruzione di un edificio
criogenico di deposito per la loro casa, Villa Straylight. I primi occupanti
del deposito furono dieci coppie di embrioni clonati, 2Jean e 2Jane, 3Jean e
3Jane e così via. Molte leggi proibivano o regolamentavano la replica del
materiale genetico individuale, ma esistevano anche numerosi cavilli che
avevano a che fare con questioni di giurisdizione...
Angie fermò il replay e disse alla casa di tornare sulla sequenza
precedente. Fotografie di un'altra cellula-deposito criogenica costruita dalla
stessa società svizzera che aveva edificato il deposito Tessier-Ashpool.
Sapeva che Becker aveva giustamente intuito la loro somiglianza: quelle
porte circolari di vetro nero orlate di acciaio erano immagini fondamentali
nella memoria dell'altra, potenti e totemiche.
Le immagini continuarono a scorrere mostrando la costruzione a
gravità zero delle strutture sulla superficie interna dell'asse, l'installazione di
un sistema Lado-Acheson a energia solare, la creazione dell'atmosfera e
della gravità di rotazione... Becker si era ritrovato suo malgrado possessore
di un'imbarazzante ricchezza, ore e ore di documentazione patinata. La sua
risposta a tutto ciò fu un montaggio spietato, che faceva a pezzi il
superficiale lirismo del materiale originario, isolando l'espressione tesa ed
esausta degli operai in mezzo all'alveare frenetico dei macchinari. Freeside
fioriva e rinverdiva nello scorrere veloce delle albe registrate e dei tramonti
sintetici, terra lussureggiante e sigillata in cui erano incastonati laghetti di
turchese.
Tessier e Ashpool emersero da Straylight per le cerimonie inaugurali, il
loro settore riservato e segreto in cima all'asse, visibilmente indifferenti alla
vista della terra che avevano creato. A questo punto Becker rallentò e
ricominciò la sua analisi ossessiva. Marie-France affrontava per l'ultima
volta le telecamere. Becker esplorava i piani del suo volto in una fuga lunga
e tormentata, e il movimento delle sue immagini faceva da squisito
contrappunto alla linea sinuosa delle risonanze che si incurvava e si
avvolgeva attraverso i cangianti livelli statici della colonna sonora.
Angie premette un'altra volta l'interruttore di pausa, si alzò dal letto
e andò alla finestra. Provava euforia una sensazione inaspettata di forza e
unità interiore. Si era già sentita così sette anni prima, nel New Jersey,
quando aveva saputo che altre persone conoscevano i visitatori dei suoi
sogni, li chiamavano "loa", Divini Cavalieri, li chiamavano per nome, li
evocavano e ottenevano da loro dei favori. Anche così le cose non erano
chiare. Bobby sosteneva che il Linglessou che possedeva Beauvoir
nell'"oumphor" e il Linglessou della matrice erano entità separate, ammesso
che il primo fosse un'entità. "Lo fanno da diecimila anni" aveva detto
"ballano e si agitano come forsennati, ma quelle cose sono nel ciberspazio
solo da sette od otto anni." Bobby prestava fede ai vecchi cowboys, quelli a
cui pagava da bere al Gentleman Loser quando la carriera di Angie lo
portava nell'Agglomerato, i quali sostenevano che i "loa" erano arrivati di
recente. I vecchi cowboys guardavano con rimpianto a quei tempi in cui
fegato e talento erano i soli fattori decisivi nella carriera di un artista della
consolle, per quanto Beauvoir avrebbe detto che per affrontare i "loa" ce
n'era altrettanto bisogno.
"Ma sono loro che vengono da me" aveva ribattuto Angie. "Io non ho
bisogno del deck."
"E' quello che hai nella testa. Quello che ti ha fatto tuo padre...» Bobby
le aveva spiegato che i vecchi cowboys erano d'accordo nell'affermare che
un certo giorno le cose erano cambiate, per quanto fossero diverse le
opinioni sul come e il quando.
Il Giorno Che Cambiò, lo chiamavano, e Bobby aveva portato Angie, in
incognito, al Gentleman, per ascoltare i loro racconti tormentati da oltre la
porta dagli agenti della sicurezza della Rete, a cui era stato proibito
l'ingresso. Quella volta lei fu più impressionata dallo sbarramento di agenti
che dalla conversazione. Il Gentleman Loser era il bar dei cowboys fin dai
tempi della guerra che aveva visto la nascita della nuova tecnologia;
l'Agglomerato non poteva offrire un ambiente criminale più esclusivo di
quello, anche se al tempo della visita di Angie quell'esclusività
presupponeva implicitamente che i più assidui frequentatori si fossero
ritirati dal lavoro. Gli emergenti della nuova generazione non bazzicavano
più il Gentleman, ma qualcuno di loro veniva ad ascoltare.
Ora, in quella camera della casa di Malibu, Angie ricordava i loro
discorsi, i racconti riguardo Il Giorno Che Cambiò, conscia che una parte di
sé stava cercando di ricollegare quei ricordi e quei racconti alla propria
storia e a quella dei Tessier-Ashpool.
3Jane era il filamento, Tessier-Ashpool la serie di strati, e la sua data di
nascita fu registrata ufficialmente insieme a quella delle sue 19 sorelle-
clone. L'"indagine" di Becker divenne ancora più accesa di fronte alla
nascita di 3Jane da un ennesimo utero surrogato, avvenuta mediante taglio
cesareo nella sezione chirurgica di Straylight. I critici erano concordi: 3Jane
era la miccia di Becker. Con la nascita di 3Jane, il documentario cambiò
impercettibilmente fuoco, mostrando una nuova intensità, un aumento
dell'ossessività, un senso - più di un critico l'aveva notato - di perversione.
3Jane divenne il centro, un filone di oro perverso nel granito della
famiglia. "No" pensò Angie "argento, pallido e stregato dalla luna".
Esaminando la fotografia che un turista cinese aveva scattato a 3Jane e a
due delle sue sorelle accanto alla piscina di un albergo di Freeside, Becker
insistette sugli occhi di 3Jane, sull'incavo delle clavicole, e sulla fragilità dei
polsi. Fisicamente le sorelle sono identiche, eppure c'è qualcosa che
informa letteralmente 3Jane, e la ricerca compiuta da Becker sulla natura di
questa informazione diviene l'ambizione centrale dell'opera.
Freeside prospera e l'arcipelago si estende. Nodo cruciale per le banche,
porto dati, bordello, territorio neutrale per le corporazioni in guerra, l'asse
inizia a rivestire un ruolo sempre più complesso nella storia delle orbite
lontane, mentre la Tessier-Ashpool S.A. arretra dietro un ennesimo muro,
composto stavolta di corporazioni sussidiarie. Il nome di Marie-France
appare brevemente in connessione con un processo celebrato a Ginevra
riguardante brevetti per certi progressi nel campo dell'intelligenza
artificiale; per la prima volta vengono resi pubblici i massicci investimenti
effettuati dalla Tessier-Ashpool in questo settore. Ancora una volta la
famiglia dimostra la sua particolare abilità nello scomparire alla vista,
iniziando un nuovo periodo di oscurità destinato a terminare con la morte di
Marie-France.
In seguito si sarebbe più volte parlato di assassinio, ma tutti i tentativi
d'indagine sarebbero naufragati contro la ricchezza e l'isolamento della
famiglia e i suoi legami politico-finanziari, particolarmente ampi e intricati.
Rivedendo per la seconda volta il documentario di Becker, Angie scoprì
l'identità dell'assassino di Marie-France.
All'alba preparò il caffè nella cucina buia e si sedette, guardando la linea
incolore della risacca.
«Continuity.»
«Ciao, Angie.»
«Sai come metterti in contatto con Hans Becker?»
«Ho il numero del suo agente a Parigi.»
«Ha fatto qualcos'altro, dopo "Antartide"?»
«Non che io sappia.»
«E quanto tempo è passato da allora?»
«Cinque anni.»
«Grazie.»
«Prego, Angie.»
«Arrivederci.»
«Arrivederci, Angie.»
Becker aveva forse sospettato che 3Jane era responsabile della morte di
Ashpool? Sembrava volerlo suggerire in modo indiretto. «Continuity.»
«Ciao, Angie.»
«Le leggende dei fantini della consolle. Ne sai qualcosa?» "E cosa
penserà Swift di tutto questo?" si chiese.
«Che cosa desideri sapere, Angie?»
«"Il Giorno Che Cambiò"...»
«Si incontra questo mito generalmente in due versioni. Secondo la prima,
il ciberspazio è abitato, o forse visitato periodicamente, da entità le cui
caratteristiche corrispondono alla forma mitica primaria del "popolo
nascosto". La seconda implica un assunto di onniscienza, onnipotenza e
incomprensibilità della matrice stessa.»
«Che la matrice è Dio?»
«Si potrebbe dire così, anche se sarebbe più preciso, nei termini della
forma mitica, dire che la matrice "ha" un Dio, poiché si suppone che
l'onniscienza e l'onnipotenza di questo essere siano limitate alla matrice.»
«Se ha dei limiti, non è onnipotente.»
«Esattamente. Nota che il mito non parla d'immortalità, come succede di
solito nel caso di sistemi di credenze che postulano un essere supremo,
almeno nel caso della tua particolare cultura. Il ciberspazio esiste, nei limiti
in cui si può dire che esiste, in virtù dell'opera umana.»
«Come te.»
«Sì.»
Angie vagò per il salotto. Le poltrone Luigi Sedici erano simili a scheletri
nella luce grigia, le loro gambe intagliate come ossa dorate.
«Se questo essere esistesse» disse «tu ne faresti parte, vero?»
«Sì.»
«Lo capiresti?»
«Non necessariamente.»
«Ma lo sai?»
«No.»
«Ne escludi la possibilità?»
«No.»
«Pensi che questa sia una conversazione strana, Continuity?» Aveva le
guance bagnate di lacrime, ma non si era accorta quando le erano spuntate.
«No.»
«I racconti sui...» esitò, perché stava per dire "loa" «... sulle cose nella
matrice, come si inseriscono in quest'idea dell'essere supremo?» «In nessun
modo. Entrambe le cose costituiscono varianti del "Giorno Che Cambiò".
Entrambe sono di origine molto recente.»
«Quanto recente?
«Circa 15 anni.»
17. Si cambia.
Si svegliò. Con una mano fredda Sally le premeva la bocca e con l'altra le
faceva segno di tacere.
Le lampadine, quelle inserite nelle lastre di specchio dorate erano accese.
Una delle sue borse era aperta sul letto gigante accanto c'era una pila
ordinata di vestiti.
Sally portò l'indice alla bocca chiusa e gesticolò indicando la valigia e i
vestiti.
Kumiko sgusciò fuori dalla trapunta e si infilò un maglione, perché
faceva freddo. Guardò Sally e per un momento pensò di parlare. Si disse
che di qualunque cosa si trattasse sarebbe bastata una sola parola per far
accorrere Petal. Sally era vestita come l'ultima volta che l'aveva vista, con il
montone e la sciarpa scozzese annodata sotto il mento. Ripeté il gesto: fai la
valigia.
Kumiko si vestì in fretta e iniziò a mettere in valigia i vestiti. Sally si
muoveva inquieta e silenziosa nella stanza, aprendo e chiudendo i cassetti.
Trovò il passaporto di Kumiko, una piastrina di plastica nera con un
crisantemo dorato in rilievo e un cordoncino di nylon, e glielo appese al
collo. Sparì nella stanzetta e ricomparve con la borsetta di camoscio in cui
Kumiko teneva i prodotti da toeletta.
Kumiko chiuse la valigia. In quel momento, il telefono d'avorio cominciò
a suonare.
Sally lo ignorò, prese la valigia dal letto, aprì la porta, prese Kumiko per
mano, la spinse nel corridoio buio. Lasciando andare la sua mano, Sally
chiuse la porta dietro di sé smorzando il suono del telefono e immergendo
la stanza nel buio più totale. Kumiko si lasciò guidare dentro l'ascensore. Lo
riconobbe dall'odore di olio e di lucido, dal rumore del cancelletto
metallico.
Poi scesero.
Petal le stava aspettando nell'atrio luminoso dipinto di bianco, avvolto in
una larga vestaglia di flanella stinta. Indossava le solite ciabatte decrepite, e
le sue gambe, che apparivano sotto all'orlo della vestaglia, erano
bianchissime. Teneva in mano una pistola, tozza e pesante, color nero
opaco. «Porca puttana» disse lentamente, non appena le vide «e questo che
significa?»
«Lei viene con me» disse Sally.
«Questo» disse lentamente Petal «è assolutamente impossibile.»
«Kumi» continuò Sally, tenendole una mano sulla spalla e guidandola
fuori dall'ascensore «c'è una macchina che ci aspetta.»
«Non puoi farlo» disse Petal, ma Kumiko sentiva che era confuso,
incerto.
«E allora sparami, Petal.»
Petal abbassò la pistola. «Sarà Swain a spararmi, se ve ne andate.» «Se ci
fosse qui lui, il casino sarebbe lo stesso anche per lui, no?» «Per favore, non
farlo.»
«Starà benissimo. Non c'è da preoccuparsi. Apri la porta.»
«Sally» chiese Kumiko «dove andiamo?»
«Nell'Agglomerato.»
E si svegliò di nuovo, rannicchiata sotto il montone di Sally, sentendo la
lieve vibrazione dell'aereo supersonico. Le venne in mente la grande
automobile che le aspettava nel vialetto, i fari che si erano accesi sulle
facciate delle case di Swain non appena loro due furono sul marciapiede, il
viso sudato di Tick che appariva dietro uno dei finestrini, Sally che apriva la
portiera e la spingeva dentro la macchina, Tick che bestemmiava in
continuazione sottovoce mentre l'automobile accelerava, il gemito dei
pneumatici mentre svoltavano fin troppo velocemente in Kensington Park
Road, Sally che gli diceva di rallentare e lasciar guidare il pilota
automatico.
E solo in macchina si era ricordata di aver lasciato l'unità MaasNeotek
nel suo nascondiglio dietro il busto di marmo. Colin era rimasto là, con tutta
la sua compostezza da personaggio di una stampa di caccia alla volpe, con i
gomiti della giacca consunti come le pantofole di Petal, niente più e niente
meno di quello che era in realtà, un fantasma.
«Quaranta minuti» disse Sally, seduta nella poltrona accanto a lei. «Ti ha
fatto bene dormire un po'. Fra poco ci porteranno la colazione. Ricordi il
nome sul tuo passaporto? Bene. Adesso non farmi domande prima che mi
sia fatta un po' di caffè, va bene?»
Kumiko aveva conosciuto l'Agglomerato in migliaia di simstim: la
grande conurbazione era spesso presente nella cultura popolare giapponese.
Aveva alcuni preconcetti sull'Inghilterra, al suo arrivo: immagini vaghe
di edifici famosi, impressioni sfuocate di una società considerata dai
giapponesi pittoresca e stagnante. (Nei racconti di sua madre, la
principessa-ballerina, scopriva che gli inglesi, per quanto pieni di
ammirazione, non potevano permettersi di pagarle la danza.) Fino a quel
momento, Londra l'aveva sempre contraddetta con la sua energia, il suo
movimento evidente, l'andirivieni delle sue grandi vie commerciali simile a
quello di Ginza.
Aveva molti preconcetti anche sull'Agglomerato, e quasi tutti vennero
cancellati dopo qualche ora dal suo arrivo.
Ma mentre aspettava accanto a Sally in coda con altri viaggiatori,
dentro la vasta sala dove si svolgevano i controlli doganali i cui alti pilastri
si perdevano nell'oscurità intervallata da globi luminosi - globi circondati da
nugoli d'insetti, nonostante fosse inverno, come se l'edificio possedesse un
suo clima a parte - Kumiko si immaginava l'Agglomerato dei simstim, lo
sfondo elettrico e sensuale delle vite sfrenate di Angela Mitchell e Robin
Lanier. Passarono il controllo, che nonostante l'estenuante attesa in coda si
risolse nell'inserire il suo passaporto in una fessura metallica dall'aspetto
unto, e uscirono in uno spiazzo di cemento affollatissimo, dove i bus
automatici per i bagagli fendevano lentamente la folla che si affannava e
litigava per salire sui mezzi di trasporto.
Qualcuno prese la sua valigia. Si chinò e gliela tolse di mano con una
disinvoltura che implicava che era quello il suo compito, che era un
funzionario che stava facendo il proprio dovere proprio come le ragazze che
a Tokyo fanno l'inchino ai clienti davanti all'ingresso dei grandi magazzini.
E Sally gli diede un calcio. Lo colpì dietro al ginocchio dopo aver piroettato
su se stessa, come nell'ologramma delle tailandesi che boxavano nella sala
da biliardo di Swain, strappandogli la valigia un istante prima che la sua
nuca incontrasse il cemento con uno schianto.
Poi Sally la spinse via mentre la folla si richiudeva su quel corpo riverso,
e quell'esplosione casuale e improvvisa di violenza avrebbe potuto
benissimo essere un sogno, se non che, per la prima volta dalla loro
partenza da Londra, Sally stava sorridendo.
Ormai completamente disorientata, Kumiko osservava Sally mentre
esaminava i veicoli disponibili, dava una rapida mancia a un uomo in
uniforme che dirigeva il traffico, dissuadeva tre potenziali passeggeri e la
faceva salire in un hovercraft ammaccato e rappezzato dipinto a strisce
diagonali gialle e nere. L'abitacolo per i passeggeri era spoglio e aveva l'aria
di essere molto poco confortevole. Il conducente, se c'era, era invisibile
dietro una paratia blindata di plastica coperta di scarabocchi. Nel punto in
cui la paratia si univa al tetto sporgeva l'obiettivo di una telecamera, e
qualcuno aveva disegnato una figura oscena, un busto maschile che aveva la
telecamera come fallo. Mentre Sally entrava nell'abitacolo sbattendo la
porta, l'altoparlante gracchiò qualcosa in quello che Kumiko ritenne essere
un dialetto inglese.
«Manhattan» disse Sally. Estrasse dalla tasca una mazzetta di banconote
e la sventolò sotto la telecamera.
L'altoparlante emise un suono interrogativo.
«In centro. Te lo dico io quando siamo arrivati.»
Il cuscino d'aria del tassì cominciò a gonfiarsi, la luce dell'abitacolo
passeggeri si spense, e partirono.
18. Prigione.
Nella mansarda di Gentry. Osservava Cherry che faceva da infermiera a
Gentry. Lei, seduta sulla sponda del letto, si voltò per guardarlo. «Come va,
Slick?»
«Bene. Sto bene.»
«Ricordi che te l'ho chiesto anche prima?»
Osservava il viso dell'uomo che Kid Afrika chiamava il Conte. Cherry
stava armeggiando con qualcosa sulla sovrastruttura della barella, un
sacchetto di liquido color farina d'avena.
«Come stai, Slick?»
«Bene.»
«Non è vero che stai bene. Continui a dimen...»
Seduto per terra nella mansarda di Gentry. Si sentiva il viso bagnato.
Cherry era inginocchiata accanto a lui, vicina, con le mani sulle sue spalle.
«Sei stato in prigione?»
Lui annuì.
«Unità chemio-penale?»
«Già...»
«Metodo Korsakov?»
Lui...
«Episodi?» gli domandava Cherry. Seduto per terra nella mansarda di
Gentry. Dov'era Gentry? «Altri episodi come questo? La memoria recente
che parte?»
Come faceva a saperlo? Dov'era Gentry?
«Cos'è che induce l'effetto?»
«Qual è la causa scatenante della sindrome, Slick? Che cosa ti riporta
indietro alla prigione?» Era seduto per terra nella mansarda di Gentry e
Cherry era praticamente sopra di lui.
«Lo stress» rispose, mentre si chiedeva come faceva a saperlo. «Dov'è
Gentry?»
«L'ho messo a letto.»
«Perché?»
«Ha avuto un collasso. Quando ha visto la cosa...»
«Che cosa?»
Cherry gli stava fissando sul polso un derma rosa. «Questa è roba
pesante. Forse con questa ne vieni fuori...»
«Fuori? Da che?»
Lei sospirò.
Si svegliò nel letto accanto a Cherry. Era ancora vestito, tranne la giacca
e gli stivali. Il suo cazzo eretto era intrappolato dalla fibbia della cintura e
premeva sulla stoffa calda dei jeans sul culo di Cherry.
«Non farti venire certe idee.»
La luce invernale entrava dalle finestre rappezzate, il fiato diventava
bianco mentre parlava. «Che cosa è successo?» Perché faceva così freddo
nella stanza? Ricordò l'urlo di Gentry quando la cosa lo aveva attaccato...
Si mise a sedere.
«Calma» disse lei, voltandosi verso di lui. «Sta' sdraiato. Non so quanto
ci vuole perché passi...»
«Cosa vuoi dire?»
«Sta' disteso. Sotto le coperte. Vuoi gelare?»
Fece come gli aveva detto. Cherry si voltò, portandosi di fronte a lui. «Sei
stato in prigione, vero? In unità chemio-penale.»
«Già... come fai a saperlo?»
«Me l'hai detto tu. Ieri notte. Mi hai detto che lo stress poteva scatenare
una crisi di ritorno. Ed è quel che è successo. Quella cosa si è buttata contro
il tuo amico, tu sei corso all'interruttore e hai spento la tavola. Lui è caduto
e si è fatto male alla testa. Lo stavo curando, quando ho notato che avevi
qualcosa di strano. Ho pensato che la memoria ti rimanesse solo per non più
di cinque minuti alla volta. A volte succede nei casi di shock, o di
commozione cerebrale...» «Dov'è lui? Gentry.»
«E' su nel suo letto, imbottito di tranquillanti. Nello stato in cui era, ho
pensato che potesse fargli bene una giornata di sonno. Comunque, così ce lo
togliamo dai piedi per un po'.»
Slick chiuse gli occhi e rivide la cosa grigia, la cosa che aveva aggredito
Gentry. Aveva un aspetto umano, più o meno, o scimmiesco. Niente di
simile alle forme contorte generate dalle apparecchiature di Gentry quando
cercava la Forma.
«Penso che manchi la corrente» disse Cherry. «La luce se n'è andata da
circa sei ore.»
Slick aprì gli occhi. Il freddo. Gentry non aveva fatto i soliti passaggi alla
consolle. Gemette.
Lasciò Cherry a fare il caffè sul fornello a butano e andò a cercare Little
Bird. Lo trovò seguendo l'odore di fumo. Little Bird aveva acceso un fuoco
in un bidone accanto al quale si era addormentato rannicchiato come un
cane. «Ehi» disse Slick, dandogli dei colpetti con la punta dello stivale
«svegliati. Ci sono problemi.»
«Siamo senza questa corrente del cazzo» mugugnò Little Bird,
mettendosi a sedere nel sacco a pelo bisunto che aveva lo stesso colore del
pavimento della Fabbrica.
«Ho visto. Questo è il problema numero uno. Il numero due è trovare un
camion, un hovercraft o qualcosa del genere. Dobbiamo portare quel tizio
via da qui. Con Gentry le cose non funzionano.»
«Ma Gentry è l'unico che può riparare la corrente.» Il ragazzo si alzò in
piedi, rabbrividendo.
«Gentry sta dormendo. Chi ha un camion?»
«Marvie e i suoi» rispose Bird e comincia a tossire forte.
«Prendi la moto di Gentry. La riporti indietro nel camion. Subito.» Little
Bird si riprese dall'attacco di tosse. «Stai scherzando?»
«Sei capace di usare la moto, no?»
«Sì, ma Gentry si...»
«A questo ci penso io. Sai dove tiene la chiave di scorta?»
«Ah, sì» disse Little Bird, timidamente. Azzardò: «E se Marvie e gli altri
non me lo vogliono dare, il camion?»
«Tu dagli questo» rispose Slick, estraendo dalla tasca della giacca la
busta piena di droga. L'aveva presa Cherry dopo aver bendato la testa a
Gentry. «E dagliela tutta, capito? Guarda che poi glielo chiedo.»
Il segnalatore di Cherry si spense mentre bevevano il caffè nella
stanza di Slick, rannicchiati uno accanto all'altra sulla sponda del
letto. Le aveva raccontato tutto quel che sapeva sul Korsakov, perché lei
glielo aveva chiesto. Non aveva mai veramente raccontato a nessuno quel
che era successo, ed era buffo accorgersi che ne sapeva ben poco. Le
raccontò delle crisi precedenti, poi cercò di spiegarle come funzionava il
sistema in prigione. Il trucco era che la memoria a lungo termine si
manteneva finché non si veniva messi sotto trattamento. In questo modo si
poteva venire addestrati a far qualcosa prima di passare al trattamento senza
dimenticarsene. Erano soprattutto cose che sapevano fare anche i robot. Gli
avevano insegnato a montare delle serie di ruote dentate in miniatura; una
volta imparato a farlo in cinque minuti, la cosa era finita lì.
«E non facevano nient'altro?» chiese lei.
«Solo quelle serie di ruote dentate.»
«No, voglio dire per esempio il blocco cerebrale.»
Lui la guardò. Il livido sul labbro era quasi scomparso. «Se lo fanno, di
certo non te lo dicono.»
A quel punto si spense il segnalatore che teneva in una delle giacche.
«Qualcosa non va» disse Cherry, alzandosi subito in piedi.
Trovarono Gentry che teneva in mano un oggetto nero, in ginocchio a
lato della barella. Cherry afferrò la cosa prima che Gentry potesse muovere
un dito. Rimase dov'era, osservandola stupito.
«Ce ne vuole per tenerti fermo.» Cherry passò l'oggetto nero a Slick. Una
telecamera retinica.
«Dobbiamo scoprire chi è» disse Gentry. Aveva la voce impastata dai
sedativi che lei gli aveva somministrato, ma Slick sentiva che il lato più
pericoloso della sua follia era scomparso.
«Cazzo, non sai neanche se questi sono gli stessi occhi che aveva l'anno
scorso» esclamò Cherry.
Gentry si toccò la fasciatura intorno alla tempia. «L'hai visto anche tu,
vero?»
«Già» disse Cherry «lui ha spento tutto.»
«E' stato lo shock» continuò Gentry. «Non immaginavo... non c'era un
vero pericolo. Non ero pronto...»
«Eri fuori di testa, pezzo di merda» disse Cherry.
Gentry si alzò in piedi, traballando.
«Adesso se ne va» disse Slick. «Ho mandato Bird a farsi dare un camion.
Questa storia non mi piace per niente.»
Cherry lo fissò. «Se ne va? E dove? Io devo andare con lui. E' il mio
lavoro.»
«Conosco io un posto» mentì Slick. «Siamo senza corrente, Gentry.»
«Non puoi portarlo in nessun posto» disse Gentry.
«Un cazzo.»
«No.» Gentry traballò leggermente. «Rimane qui. Le sonde sono inserite.
Non lo disturbo più. Cherry può stare qui.»
«Dovrai darci qualche spiegazione, Gentry» disse Slick.
«Tanto per cominciare» e Gentry indicò la cosa sopra alla testa del Conte
«quello non è un "L.F.". E' un "aleph".»
19. Sotto la lama.
Di nuovo l'albergo, affogato nella marcia funebre della picchiata, la
depressione che seguiva il flash, Prior che la guidava nell'atrio, i turisti
giapponesi già svegli e accalcati intorno alle guide annoiate. E un passo, un
passo, un passo dopo l'altro, la testa ormai pesantissima, come se qualcuno
ci avesse fatto un buco e ci avesse versato dentro mezzo chilo di piombo, e i
denti che le sembravano quelli di qualcun altro, troppo grandi. Si lasciò
cadere contro la parete dell'ascensore appena la forza di gravità la spinse in
basso. «Dov'è Eddy?»
«Eddy se n'è andato, Monna.»
Lo guardò con gli occhi spalancati, notando che era ricomparso il sorriso
bastardo. «Come?»
«Eddy è stato pagato. Ricompensato. Ora è in viaggio verso Macao, con
una linea di credito. Un bel viaggetto verso le case da gioco.»
«Ricompensato?»
«Per il suo investimento. In te. Per il suo tempo.»
«Hai detto il suo tempo?» La porta dell'ascensore si aprì, scorrendo, sul
corridoio con la moquette blu.
Si sentì come se qualcosa di gelido le fosse crollato addosso: Eddy odiava
il gioco.
«Adesso lavori per noi, Monna. Non vogliamo vederti in giro da sola
un'altra volta.»
"E invece sì" pensò lei "mi hai lasciata andare. E sapevi dove trovarmi.
"Eddy se n'è andato..."
Non si era accorta di essersi addormentata. Era ancora vestita, con la
giacca di Michael avvolta intorno alle spalle come una coperta. Vedeva
l'angolo dell'edificio sul fianco della montagna senza dover muovere la
testa, ma la pecora selvatica non c'era più.
I simstim di Angie erano ancora sigillati nella plastica. Ne prese uno a
caso, tagliò l'involucro con l'unghia del pollice, lo inserì e si mise gli
elettrodi. Non pensava a niente. Le sue mani sembravano sapere da sole
cosa fare, come animali inoffensivi e amichevoli. Uno di loro premette il
tasto PLAY, e lei scivolò nel mondo di Angie, più puro di qualsiasi droga. Il
sassofono suonava un lento mentre la limousine percorreva una città
europea, le vie si snodavano attorno a lei e alla macchina senza autista,
larghi viali puliti all'alba, quasi deserti. La pelliccia sulle spalle. Proseguiva
lungo un rettilineo che attraversava campi piatti bordati da alberi
perfettamente identici. Poi svoltava, pneumatici sulla ghiaia rastrellata
seguendo un vialetto sinuoso attraverso un parco argenteo di rugiada. Vide
un cervo di ferro, un busto di marmo bianco, bagnato... La casa era grande e
antica, diversa da tutte le altre che aveva visto fino ad allora, ma la
macchina la oltrepassò. Lasciandosi alle spalle altri edifici più piccoli,
giunse infine sul bordo di un prato largo e uniforme.
C'erano alianti fissati al suolo, di pellicola traslucida tesa su una
cornice di policarbonio apparentemente fragile. Ondeggiavano debolmente
nella brezza mattutina. Accanto a loro attendeva Robin Lanier, il bel Robin,
con addosso un maglione nero di lana grezza. Era il coprotagonista di quasi
tutti i simstim di Angie.
Ora lei scendeva dalla macchina, si dirigeva verso il prato, e rideva
quando i tacchi affondarono nell'erba. Raggiunse Robin con le scarpe in
mano, sorridendo. Le sue braccia, il suo profumo, i suoi occhi. Scorrendo
velocemente, il montaggio condensava il procedimento di posizionamento
dell'aliante sul binario metallico di partenza. Ecco che venivano lanciati
silenziosamente lungo il prato, si alzavano, si inclinavano per prendere
meglio il vento, e su, su, finché la grande casa non fu che un ciottolo
geometrico immerso nel verde, verde interrotto dal fioco bagliore del fiume
serpeggiante...
...E il dito di Prior sullo STOP, l'odore di cibo dal carrello accanto al letto
che le faceva contorcere lo stomaco, il dolore sordo della picchiata in ogni
giuntura. «Mangia» le disse «fra poco partiamo.» Tolse il coperchio di
metallo di uno dei vassoi. «Tramezzini, caffè, paste. Ordine del medico.
Quando sarai in clinica, per un po' non potrai mangiare...»
«In clinica?»
«Da Gerald. A Baltimora.»
«Perché?»
«Gerald è un chirurgo estetico. Ti farà qualche lavoretto. Sarà tutto
reversibile, volendo, ma pensiamo che sarai contenta dei risultati. Molto
contenta.» Di nuovo il sorriso. «Ti ha mai detto nessuno che assomigli
moltissimo ad Angie, Monna?»
Lei lo guardò senza dire nulla. Riuscì a tirarsi su e a bere mezza tazza di
caffè annacquato. Non ce la fece neanche a guardare i tramezzini, ma
mangiò una pasta. Sapeva di cartone.
Baltimora. Non sapeva bene neanche dove si trovasse.
E da qualche parte, un aliante restava sospeso in eterno sui verdi campi
coltivati. Angie doveva essere ancora là, sempre sorridente, la
pelliccia sulle spalle...
Un'ora dopo, nell'atrio, mentre Prior firmava il conto, Monna vide un
carrello-robot trasportare le valigie nere di clono-coccodrillo di Eddy, e in
quel momento fu sicura che Eddy era morto.
Lo studio di Gerald era indicato da una targa scritta a grandi caratteri
antiquati, al quarto piano di un condominio in quella che Prior chiamava
Baltimora. Uno di quegli edifici di cui viene costruita la struttura portante e
le aziende commerciali che lo occupano forniscono i propri moduli da
inserire. Sembrava un accampamento gigante, dappertutto serpeggiavano
fasci di cavi, fibre ottiche, tubi di scarico. «Che cosa c'è scritto?» chiese a
Prior.
«"Gerald Chin, Dentista".»
«Avevate detto che è un chirurgo plastico.»
«Infatti.»
«Perché non possiamo andare in una boutique come fanno tutti?»
Lui non rispose.
Non sentiva quasi nulla, in quel momento. Una parte di lei sapeva di
non essere spaventata come avrebbe dovuto. Ma forse andava bene così,
perché se si fosse spaventata a sufficienza non sarebbe riuscita a fare niente
e avrebbe solo voluto uscire da tutta quella storia, di qualsiasi cosa si
trattasse. Durante il viaggio aveva sentito qualcosa nella tasca della giacca
di Michael. Impiegò dieci minuti a capire che si trattava di uno sfollagente
elettrico, come quelli che usavano certi tirapiedi nervosi. A toccarlo
sembrava il manico di un cacciavite, con due astine metalliche smussate al
posto della punta. Probabilmente si caricava inserendolo in una qualsiasi
presa di corrente. Sperava soltanto che Michael l'avesse tenuto carico.
Pensò che Prior non sapesse che c'era. In molti posti lo sfollagente elettrico
era legale, perché di solito non causava danni irreversibili, ma Lanette
aveva conosciuto una ragazza che era stata ridotta male da uno di quei cosi
e non si era più rimessa.
Se Prior non sapeva che lei lo aveva in tasca, significava che non sapeva
tutto, e che era suo interesse che lei invece lo pensasse. Ma non aveva
neanche saputo che Eddy odiava il gioco.
Non sentiva quasi nulla neppure per Eddy, tranne il fatto che continuava a
pensare che fosse morto. Non sarebbe partito senza quelle valigie neanche
per tutto l'oro del mondo. Anche se si fosse procurato un guardaroba nuovo,
avrebbe avuto bisogno di vestirsi per andare a comprarlo. A Eddy i vestiti
interessavano forse più di qualunque altra cosa. E quelle valigie di
coccodrillo erano speciali. Le aveva avute a Orlando da un topo d'albergo,
ed erano la cosa più simile a un ricordo di casa che lui avesse. E comunque,
adesso che ci pensava, non riusciva a immaginarselo che si accontentava di
una ricompensa, perché quello che voleva più di tutto era di far parte di una
grande impresa. Eddy pensava che solo allora la gente avrebbe cominciato a
prenderlo sul serio.
E così alla fine qualcuno lo ha preso sul serio, si disse mentre Prior
portava la sua borsa dentro la clinica di Gerald. Ma non come lui avrebbe
voluto.
Si guardò intorno: mobili di plastica vecchi di vent'anni, pile di riviste
scritte in giapponese sui divi del simstim. Sembrava di essere a Cleveland
dal parrucchiere. Non c'era nessuno, il banco della "reception" era vuoto.
Gerald entrò da una porta bianca, con addosso il camice metallizzato e
spiegazzato che i paramedici usavano per gli incidenti stradali. «Chiudi la
porta» disse a Prior da dietro una mascherina di carta azzurra che gli
copriva il naso, la bocca e il mento. «Ciao, Monna, ti spiace entrare da
questa parte?» disse indicandole la porta bianca. Teneva la mano sullo
sfollagente elettrico, ma non sapeva come fare per accenderlo.
Seguì Gerald, mentre Prior restava nel retro.
«Accomodati» le disse Gerald. Monna si sedette su una sedia di smalto
bianco. Lui si avvicinò, osservandole gli occhi. «Hai bisogno di riposo,
Monna. Sei esaurita.»
Sull'impugnatura dello sfollagente elettrico c'era un interruttore
dentellato. Doveva spingerlo? Avanti? Indietro?
Gerald andò a prendere qualcosa nei cassetti di una scatola bianca.
«Ecco qua» esclamò, tirando una specie di tubicino con una scritta «questo
ti aiuterà...» Monna percepì appena il piccolo spruzzo calibrato. Sulla
cannula dell'aerosol c'era una macchia nera su cui cercava di mettere a
fuoco lo sguardo, una macchia che si ingrandiva...
Le venne in mente di quando il vecchio le aveva mostrato come uccidere
i pesci-gatto. Il pesce-gatto ha un buco sulla testa coperto da una membrana.
Basta prendere una cosa rigida e appuntita, un filo di ferro, anche la saggina
della scopa, basta ficcarglielo dentro...
Le venne in mente Cleveland. Un giorno come tutti gli altri, prima di
andare a lavorare, seduta in casa di Lanette a sfogliare una rivista. Aveva
trovato una foto di Angie sorridente insieme ad altra gente in un ristorante.
Erano tutti belli, ma più che altro era come se emanassero una luce, non
proprio nella foto ma comunque c'era. "Guarda" aveva detto a Lanette
mostrandole la foto "che luce che hanno".
"Si chiama denaro" aveva risposto Lanette.
Si chiama denaro. Basta ficcarglielo dentro.
20. Hilton Swift.
Arrivò come sempre, senza preavviso e da solo. L'elicottero della Rete,
simile a una vespa solitaria, toccava terra trascinando sulla sabbia bagnata
le alghe in secca.
Dalla ringhiera corrosa dalla ruggine lei lo guardò saltare giù. Aveva un
che di fanciullesco, quasi di goffo, nella sua apparente spontaneità. Portava
un cappotto lungo di tweed marrone, sbottonato sul davanti immacolato di
una delle sue camicie a righine color confetto. Le pale dell'elicottero gli
agitavano i capelli castano chiaro e gli facevano svolazzare la cravatta della
Senso/Rete. Angie pensò che Robin aveva ragione: sembrava sempre che lo
avesse vestito sua madre.
Forse, pensò mentre lui attraversava la spiaggia a grandi passi, Hilton
ostentava volutamente una certa ingenuità. Ricordò che Porphyre una volta
aveva sostenuto che le grandi corporazioni erano completamente
indipendenti dagli esseri umani da cui erano composte. La cosa le era
sembrata del tutto ovvia, ma Porphyre aveva insistito nel dire che lei non
aveva afferrato la premessa fondamentale del discorso. Swift era il più
importante "decision-maker" umano della Senso/Rete.
Il ricordo di Porphyre la fece sorridere; Swift, scambiandolo per un
saluto, sorrise a sua volta.
Lui le propose di pranzare a San Francisco. L'elicottero era velocissimo.
Angie ribatté offrendosi di preparargli un piatto di minestrina svizzera
istantanea e scongelare nel microonde un pan di segale integrale.
Osservandolo mentre mangiava, si chiedeva come potesse essere la sua
vita sessuale. Swift aveva superato la trentina, e in qualche modo aveva
l'aspetto di un adolescente straordinariamente brillante di cui fosse stato
astutamente rimandato l'inizio della pubertà. I pettegolezzi gli avevano
attribuito di volta in volta i gusti più svariati in fatto di sesso, e secondo lei
alcuni erano sicuramente immaginari. Le parevano tutti improbabili. Lo
conosceva fin da quando era entrata nella Senso/Rete. Quando era arrivata,
Swift occupava saldamente uno dei gradini più alti della produzione: era
uno dei dirigenti del gruppo di Tally Isham, e aveva immediatamente
mostrato un interesse professionale per Angie. Ripensando al passato, lei
pensò che Legba l'avesse messa sul suo cammino. Era evidente che anche
lui stava cercando un modo per arrivare in cima, anche se allora non se ne
era accorta, abbagliata dallo splendore e dalla frenesia della ribalta.
Bobby l'aveva immediatamente detestato, osteggiandolo con l'innata
diffidenza per l'autorità tipica della gente di Barrytown. Ma era riuscito a
dissimularla per non nuocere alla sua carriera. L'antipatia era stata reciproca
e Swift aveva accolto la rottura e la successiva partenza di Bobby con
palese sollievo.
«Hilton» cominciò Angie offrendogli una tazza di tisana, che lui
preferiva al caffè «perché Robin si trattiene tanto a Londra?»
Lui sollevò lo sguardo dalla tazza fumante. «Qualcosa di personale,
penso. Forse ha trovato un nuovo amico.» Hilton aveva sempre chiamato
Bobby l'"amico" di Angie. Gli amici di Robin, solitamente, erano maschi
giovani e atletici. Le sequenze erotiche mute dei simstim che aveva girato
con Robin venivano montate a partire da immagini di repertorio fornite da
Continuity, su cui Raebel e i suoi collaboratori lavoravano a fondo. Le
venne in mente l'unica notte che lei e Robin avevano passato insieme, in
una casa spazzata dal vento in Madagascar. La sua passività, la sua
pazienza. Non ci avevano più riprovato, e Angie immaginò che lui temesse
che l'intimità avrebbe minato quell'illusione così realistica che i loro
simstim comunicavano.
«Che cosa pensava del mio ricovero, Hilton? Te ne ha parlato?» «Penso
che ti abbia ammirato, per questo.»
«Da poco mi è giunta voce che va in giro a dire che sono pazza.»
Swift si era rimboccato le maniche della camicia a righine e aveva
allentato il nodo della cravatta. «Non riesco a immaginare che Robin pensi
una cosa simile, tanto meno che la dica. So cosa pensa di te. Conosci i
pettegolezzi della Rete...»
«Hilton, dov'è Bobby?»
I suoi occhi castani erano inespressivi. «Non era tutto finito, Angie?»
«Hilton, tu lo sai. Devi saperlo. Tu sai dov'è. Dimmelo.»
«Lo abbiamo perso di vista.»
«Perso di vista?»
«La Sicurezza. Naturalmente hai ragione. Ne abbiamo seguito le tracce il
più attentamente possibile, dopo che ti ha lasciato. Aveva ricominciato a
usare il deck.» Dalla sua voce traspariva una certa soddisfazione.
«E come?»
«Io non ti ho mai chiesto che cosa vi teneva insieme. Naturalmente la
Sicurezza aveva indagato su tutti e due. Era un delinquente da quattro
soldi.»
Lei si mise a ridere. «Non era neanche quello...»
«Tu eri stranamente ben rappresentata, Angie, per essere una
sconosciuta. Sai bene che i tuoi agenti avevano posto come condizione
vincolante del contratto che assumessimo anche Bobby Newmark.»
«Ci sono stati contratti con condizioni anche più strane, Hilton.»
«E lui è stato stipendiato come tuo... compagno.»
«Vuoi dire come mio "amico".»
Possibile che Swift stesse arrossendo? Smise di guardarla negli occhi e si
osservò le mani. «Dopo che ti ha lasciato è andato a Città del Messico.
Naturalmente la Sicurezza gli stava alle calcagna. Non ci va di perdere le
tracce di chi sa tante cose sulla vita privata di una nostra star. Città del
Messico è un posto molto... complicato. Sappiamo per certo che lui
sembrava voler continuare la sua... la sua carriera precedente.»
«Batteva il ciberspazio?»
I loro sguardi si incontrarono di nuovo. «Frequentava persone
dell'ambiente, noti criminali.»
«E poi? Continua.»
«E' sparito. Scomparso. Hai idea di come sia Città del Messico quando si
scende sotto la soglia minima di sussistenza?»
«Era povero?»
«Secondo le nostre fonti migliori, era diventato drogato.»
«Drogato? Di cosa?»
«Non lo so.»
«Continuity!»
Swift per poco non rovesciò la tazza di infuso.
«Ciao, Angie.»
«Bobby, Continuity. Bobby Newmark, il mio "amico".» Guardò Swift.
«E' andato a Città del Messico. Hilton dice che è diventato drogato. Da
quale droga, Continuity?»
«Mi spiace, Angie. Dati riservati.»
«Hilton...»
«Canale preferenziale, Continuity. Abbiamo questa informazione?»
«Le fonti della Sicurezza descrivono la tossicodipendenza di Newmark
come "neuroelettronica".»
«Non capisco.»
«Ha a che fare con, ehm, certe apparecchiature cerebrali» suggerì Swift.
Angie provò l'impulso di dirgli come aveva trovato la droga, il caricatore.
"Silenzio, figlia". Nella testa le brulicava un ronzio di api, una pressione
crescente.
«Angie, che ti succede?» Lui si sporse verso di lei, alzandosi quasi in
piedi.
«Niente. Io... sono scombussolata. Scusa. I nervi. Non è colpa tua. Stavo
per dirti che avevo trovato il deck ciberspazio di Bobby. Ma lo sai già,
vero?»
«Ti porto qualcosa? Un po' d'acqua?»
«No, grazie, vado a stendermi un momento, se non ti dispiace. Però
rimani, per favore. Ho alcune idee a proposito di certe sequenze orbitali su
cui vorrei sentire il tuo parere...»
«Ma certo. Fai un sonnellino. Io vado a fare una passeggiata sulla
spiaggia, e quando torno ne parliamo.»
Lei lo osservò dalla finestra della stanza da letto. Osservava la sua figura
scura allontanarsi in direzione della Colonia, seguita dal piccolo e paziente
Dornier.
Sembrava un bambino, sulla spiaggia deserta. Sembrava perduto quanto
lei.
21. L'Aleph.
Al sorgere del sole la mansarda di Gentry si riempì di una luce nuova,
anche se continuava a mancare la corrente per le lampadine da cento watt.
La luce del sole invernale addolciva il profilo delle consolle e della olo-
tavola, esaltava l'aspetto delle file di vecchi libri che incurvavano con il loro
peso gli scaffali di truciolato lungo il muro ovest. Gentry parlava,
camminando lentamente su e giù. Il suo ciuffo biondo ondeggiava tutte le
volte in cui si girava puntando il tacco dello stivale nero, e la sua ansia
sembrava contrastare l'effetto persistente dei dermi tranquillanti di Cherry.
Lei era seduta sulla sponda del letto e osservava Gentry, ma guardava ogni
tanto la spia della batteria sulla sovrastruttura della barella. Slick era seduto
su un rottame di sedia recuperato a Solitude e reimbottito con dei cuscini di
vestiti vecchi ricoperti di plastica trasparente.
Con gran sollievo di Slick, Gentry aveva lasciato perdere la faccenda
della Forma, e si era lanciato in una sua teoria a proposito dell'aleph. Come
sempre, Gentry, una volta preso il via, usava parole e perifrasi che Slick
capiva a fatica, ma l'esperienza gli aveva insegnato che era meglio non
interromperlo. Il trucco stava nel ricavare un qualche significato dal
profluvio di parole, saltando a piedi pari le parti incomprensibili. Gentry
disse che il Conte era collegato a un microsoft di dimensioni eccezionali.
Secondo lui la piastra era un unico massiccio biochip. Se questo era vero,
l'oggetto avrebbe avuto una capacità di memoria virtualmente infinita.
Produrla avrebbe comportato costi proibitivi. Gentry disse che era già
abbastanza strano che qualcuno si fosse messo in testa di costruire qualcosa
del genere, nonostante si raccontasse che queste cose esistevano e avevano
una loro utilità, soprattutto per la memorizzazione di grandi quantità di dati
confidenziali. Non avendo nessun collegamento con la matrice globale, i
dati erano inattaccabili tramite il ciberspazio. Il guaio, naturalmente, era che
non vi si poteva accedere via matrice: erano dati immobilizzati.
«Là dentro potrebbe esserci qualunque cosa» disse Gentry, fermandosi
a guardare quel volto addormentato. Puntando il tacco, si girò e ricominciò
a camminare lentamente. «Un mondo. Tanti mondi. Innumerevoli
riproduzioni di personalità...»
«Come se vivesse in un simstim?» chiese Cherry. «Per questo è sempre in
REM?»
«No» rispose Gentry «non è un simstim. E' totalmente interattivo. E'
anche questione di scala. Se questo è un biosoft di classe aleph, là dentro
potrebbe letteralmente esserci di tutto. In un certo senso, potrebbe essere
un'approssimazione del tutto.»
«Da Kid Afrika ho avuto la sensazione» lo interruppe Cherry «che
questo tizio pagasse per rimanere sotto. Un po' come agiscono le
apparecchiature cerebrali, ma è diverso. E comunque, con le
apparecchiature cerebrali non si sta così in REM.
«Ma quando hai cercato di farlo venir fuori con i tuoi apparecchi» si
azzardò a dire Slick «è saltata fuori quella... cosa.» Vide le spalle di Gentry
irrigidirsi sotto la giacca nera borchiata.
«Sì» disse Gentry «e adesso devo riaprire il nostro conto con l'Ente
Fissione.» Indicò le batterie di carica permanente impilate sotto il tavolo di
metallo. «Portatemi via quella roba.»
«Già» disse Cherry «era ora. Mi si gelano le chiappe.»
Tornarono nella stanza di Slick lasciando solo Gentry, chino su un deck
ciberspazio. Cherry aveva insistito perché collegassero a una delle batterie
la coperta elettrica di Gentry per avvolgerla intorno alla barella. Sulla stufa
a butano era avanzato un po' di caffè, ormai freddo. Slick lo ingoiò senza
neanche riscaldarlo, mentre Cherry guardava fuori dalla finestra la pianura
di Solitude chiazzata di neve.
«Come ha fatto a diventare così?» gli chiese.
«Gentry dice che cent'anni fa avevano cominciato un'operazione di
bonifica. Avevano scaricato un sacco di terriccio, ma non ci cresceva niente.
Un sacco di quel terriccio era tossico. Poi è stato dilavato dalla pioggia.
Penso che a un certo punto ci abbiano rinunciato e abbiano deciso che tanto
valeva scaricarci sopra altre schifezze. Non si può bere l'acqua, là fuori, è
piena di P.C.B. e roba simile.»
«E allora quei conigli di cui va a caccia Bird?»
«Vengono da una zona a ovest di qui. Non se ne vedono a Solitude, e
neanche i topi. E comunque bisogna sempre controllare la carne che si trova
qui in giro, prima di mangiarla.»
«Però gli uccelli ci sono.»
«Qui si appollaiano soltanto. A mangiare vanno da un'altra parte.» «Cosa
c'è tra te e Gentry?»
«Cosa vuoi dire?»
«Sulle prime pensavo che foste froci. Voglio dire, che stavate insieme.»
«No.»
«Però è come se aveste bisogno l'uno dell'altro, in un certo senso.» «E'
sua, la Fabbrica. Lui mi lascia vivere qui. Io... devo vivere qui. Per fare il
mio lavoro.»
«Per costruire quegli affari che tieni da basso?»
La lampadina sotto il cono di carta gialla si accese. La ventola della stufa
si avviò con uno scatto.
«Be'» esclamò Cherry, accovacciandosi di fronte alla stufa e aprendo le
cerniere delle sue varie giacche «sarà anche pazzo, ma ha appena fatto una
cosa sensata.»
Gentry era stravaccato nella vecchia poltrona da ufficio nella sua
mansarda e osservava il piccolo monitor lampeggiante del deck, quando
entrò Slick.
«Robert Newmark» disse Gentry.
«Eh?»
«Identificazione retinica. O lui è Robert Newmark, o è qualcuno che ha
comprato i suoi occhi.»
«Come hai fatto a saperlo?» Slick si chinò per dare un'occhiata allo
schermo su cui comparivano i dati fondamentali di nascita.
Gentry ignorò la domanda. «E' quello lì. Se lo premi, entri in qualcosa di
completamente diverso.»
«Come mai?»
«C'è qualcuno che vuol sapere se qualcun altro sta facendo domande sul
signor Newmark.»
«Chi?»
«Non lo so.» Gentry tamburellava sulle cosce di cuoio nero con le dita.
«Guarda qui: niente. Nato a Barrytown. Madre: Marsha Newmark.
Abbiamo il suo SIN, ma sicuramente è stato messo sotto controllo.» Spinse
indietro la poltrona facendola girare sulle rotelle e guardò il viso immobile
del Conte. «Allora, Newmark? E' proprio il tuo nome?» Si alzò in piedi e
andò alla olo-tavola.
«Non farlo» lo implorò Slick.
Gentry spinse l'interruttore della olo-tavola.
Comparve di nuovo la cosa grigia, ma solo per un istante, e questa volta
si gettò nel nucleo dello schermo emisferico, fluttuò e sparì. No. C'era
ancora, una minuscola sfera grigia nell'esatto centro del campo di
proiezione luminoso.
Sul viso di Gentry era tornato il sorriso folle. «Bene» esclamò.
«Bene cosa?»
«Ho capito cos'è. Una specie di GHIACCIO. Un programma di difesa.»
«Quella specie di scimmia?»
«Evidentemente c'è qualcuno che ha il senso dell'umorismo. Se la
scimmia non riesce a spaventarti, si trasforma in un topo...» Andò dall'altra
parte della tavola e cominciò a frugare dentro a uno dei contenitori. «Dubito
che sarebbero in grado di realizzare una cosa simile con un collegamento
sensoriale diretto.» Ora teneva in mano qualcosa. Una serie di elettrodi.
«Gentry, non farlo! Guardalo!»
«Io non farò proprio niente» disse Gentry. «Sarai tu a farlo.»
22. Vuoti e fantasmi.
Mentre guardava fuori dai finestrini sudici del tassì, si scoprì a
rimpiangere Colin e i suoi commenti sarcastici. Poi le venne in mente che
tutto questo andava completamente al di là della sua sfera di competenza.
Chissà se la Maas-Neotek produceva un'unità simile anche per
l'Agglomerato. In tal caso, che forma avrebbe assunto il fantasma? «Sally»
le chiese, forse dopo mezz'ora di viaggio verso New York «perché Petal mi
ha lasciato venire con lei?»
«Perché è stato furbo.» «E mio padre?» «Tuo padre pianterà un bel
casino.»
«Prego?»
«Si arrabbierà. Se lo verrà a sapere. E non è detto. Non resteremo qui per
molto.»
«Perché siamo qui?»
«C'è qualcuno con cui devo parlare.»
«Ma perché io sono qui?»
«Non ti piace qui?»
Kumiko esitò. «Sì, mi piace.»
«Bene.» Sally cambiò posizione sul sedile rovinato. «Petal è stato
costretto a lasciarci andare, perché non avrebbe potuto fermarci senza fare
del male a una di noi due. Be', non proprio. Forse è meglio dire senza
insultarci. Swain avrebbe potuto darti una regolata e poi dirti che gli
dispiaceva e raccontare a tuo padre che l'aveva fatto per il tuo bene. Ma se
cerca di dare una regolata a me è un affronto, capisci? Quando ho visto
Petal con la pistola in mano, sapevo che ci avrebbe lasciate andare. La tua
stanza è piena di microfoni. Come tutto il resto della casa. Ho staccato i
sensori di movimento mentre mettevo insieme le tue cose. Se l'aspettavano
che l'avrei fatto. Petal sapeva che ero io. Per questo ha fatto squillare il
telefono: per farmi sapere che lo sapeva.»
«Non capisco.»
«Una specie di favore, in modo che io sapessi che lui ci stava aspettando,
per darmi la possibilità di pensarci. Lui invece non aveva scelta, e lo
sapeva. Vedi, Swain è costretto a fare una certa cosa, e Petal lo sapeva. O
comunque Swain sostiene di esserci costretto. Per quanto riguarda me, lo
sono veramente. Quindi comincio a chiedermi quanto Swain abbia bisogno
di me. Moltissimo. Perché mi hanno lasciato uscire con la figlia
dell'"oyabun", e mi hanno arruolato per custodirti fino a Notting Hill. C'è
qualcosa che lo spaventa più di tuo papà. Sempre che non sia invece
qualcosa che lo farà diventare ancora più ricco di quanto abbia fatto tuo
papà finora. Comunque l'averti portata con me pareggia i conti, più o meno.
In un certo senso è un ricatto. Ti dispiace?»
«Ma qualcuno la sta minacciando?»
«Qualcuno conosce molte cose che ho fatto.»
«E Tick ha scoperto l'identità di questa persona?»
«Già. Forse la conoscevo anche io. Vorrei tanto aver preso un merdoso
granchio e basta.»
L'albergo che Sally aveva scelto aveva la facciata rivestita di pannelli
metallici arrugginiti fissati con bulloni cromati. Era uno stile che Kumiko
aveva visto anche a Tokyo e lo riteneva abbastanza fuori moda.
Avevano una grande stanza grigia. Almeno una decina di sfumature
diverse di grigio. Dopo aver chiuso a chiave la porta, Sally si diresse verso
il letto, si sfilò la giacca e si distese.
«Non ha la valigia» osservò Kumiko.
Sally si alzò e cominciò a levarsi gli stivali. «Posso comprare quello che
mi serve. Stanca?»
«No.»
«Io sì.» Si tolse il maglione nero. Aveva seni piccoli, dai capezzoli bruno-
rosati, aveva una cicatrice che partiva dal capezzolo sinistro e spariva
dentro la cintola dei jeans.
«E' stata ferita» disse Kumiko, guardando la cicatrice.
Sally abbassò lo sguardo. «Già.»
«Perché non se l'è fatta togliere?»
«A volte fa bene tenere a mente certe cose.» «Di essere stati feriti?»
«Di essere stati stupidi.»
Grigio su grigio. Incapace di dormire, Kumiko camminava lentamente
avanti e indietro sulla moquette. A un certo punto si disse che quella stanza
aveva un che di vampiresco, qualcosa che aveva in comune con milioni di
stanze simili, come se la sua sconcertante e piatta anonimità le stesse
risucchiando la personalità, della quale emergevano solo pochi frammenti:
le voci concitate dei suoi genitori durante un litigio, i volti dei segretari di
suo padre vestiti di nero...
Sally dormiva, il viso ridotto a una maschera inespressiva. La vista dalla
finestra non diceva nulla a Kumiko, soltanto che stava guardando gli edifici
di una città che non era né Tokyo né Londra, un vasto e generico disordine
che era il paradigma della realtà urbana del secolo.
Forse anche lei riuscì a dormire, anche se più tardi non ne fu certa.
Osservò Sally che ordinava prodotti da toeletta e biancheria battendo le
richieste sul terminale accanto al letto. La merce venne consegnata mentre
Kumiko era nella doccia.
«Bene» disse Sally, da dietro la porta «asciugati e vestiti, andiamo a
parlare con il nostro uomo.»
«E chi sarebbe?» chiese Kumiko, ma Sally non l'aveva sentita.
"Gomi".
Il trentacinque per cento degli edifici di Tokyo era costruito sul "gomi",
su tratti di terra emersa strappata alla Baia dopo un secolo di scarico
sistematico di rifiuti. Là, il "gomi" era una risorsa da amministrare,
raccogliere, selezionare e interrare con cura.
Il rapporto di Londra con il "gomi" era più sottile, più indiretto. Agli
occhi di Kumiko, il corpo della città era letteralmente costituito di "gomi",
strutture che l'economia giapponese avrebbe divorato già da lungo tempo
nella sua rabbiosa fame di spazio edificabile. Eppure quelle strutture
rivelavano perfino a Kumiko il tessuto del tempo. Ogni muro era stato
rappezzato da generazioni di mani, in un perpetuo avvicendarsi di restauri.
Gli inglesi davano il giusto valore al proprio "gomi", in un modo che solo
allora lei iniziava a comprendere: ci abitavano.
Il "gomi", nell'Agglomerato, era qualcos'altro: un fertile humus, un
putridume da cui germogliavano prodigi di acciaio e polimeri. L'apparente
mancanza di pianificazione bastava a darle le vertigini, essendo
completamente l'opposto del valore che la sua cultura attribuiva a un
efficace utilizzo del suolo.
Il tragitto compiuto dall'aeroporto le aveva già fatto conoscere la
decadenza generale, gli isolati interi in rovina, le finestre prive di vetri che
si aprivano sui marciapiedi coperti di spazzatura. E i visi che le osservavano
mentre l'hovercraft blindato si faceva largo lungo le strade.
Sally l'aveva immersa bruscamente in quel luogo totalmente estraneo,
con le sue torri cresciute disordinatamente sulle proprie marce radici, più
alte di qualunque edificio di Tokyo, obelischi corporativi che foravano il
merletto fuligginoso delle cupole sovrapposte. Lasciato l'albergo, dopo aver
preso due tassì, camminarono per le strade in mezzo alla folla tardo-
pomeridiana, nell'ombra obliqua. L'aria era fredda, ma non come a Londra,
e Kumiko pensò ai fiori di Ueno Park.
La loro prima tappa fu un grande bar un po' decadente, il Gentleman
Loser, dove Sally ebbe una calma e brevissima conversazione con il barista.
Se ne andarono senza bere nulla.
«Fantasmi» disse Sally svoltando l'angolo, con Kumiko accanto. Le
strade, passati alcuni isolati, si erano progressivamente svuotate e gli edifici
erano diventati più bui e decrepiti.
«Prego?»
«Qui per me ci sono un sacco di fantasmi, o almeno credo.»
«Conoscete questo posto?»
«Certo. Sembrano tutti uguali, ma in realtà sono diversi, sai?»
«No.»
«Un giorno capirai. Adesso troviamo chi sto cercando, e tu fai la
ragazzina per bene come al solito. Parla se ti rivolgono la parola, altrimenti
stai zitta.»
«Chi stiamo cercando?»
«Un uomo. O quel che ne resta...»
Mezzo isolato più avanti, lungo la tetra strada vuota - Kumiko non aveva
mai visto prima una strada vuota, tranne il vialetto di Swain coperto di neve
a mezzanotte - Sally si fermò di fronte alla facciata antica e poco
promettente di un negozio, le cui due vetrine erano smerigliate internamente
da uno spesso strato di polvere. Sbirciandovi dentro, Kumiko riuscì a
distinguere i tubi spenti che costituivano le lettere di un'insegna al neon:
METRO, e una parola più lunga. La porta tra le due vetrine era stata
rinforzata con una lastra di metallo. Qua e là sporgevano bulloni arrugginiti,
collegati da un cavo rasoio zincato.
Ora Sally si trovava di fronte alla porta. Raddrizzò le spalle e cominciò a
eseguire alcuni gesti rapidi e aggraziati.
Kumiko la guardava, mentre ripeteva la sequenza di gesti. «Sally...»
«Forza» la interruppe Sally. «Ti ho detto di tener la bocca chiusa, va bene?»
"Sì?" La voce, poco più che un sussurro, sembrava non provenire da
nessun luogo in particolare.
«Te l'ho già detto» disse Sally.
"Muto."
«Voglio parlare con lui» disse lei. La sua voce era dura, circospetta. "E'
morto."
«Lo so.»
Seguì un momento di silenzio, e Kumiko udì un suono che avrebbe
potuto essere quello del vento, un vento freddo e polveroso che strideva
sulle geodetiche alte sopra di loro.
"Non è qui" disse la voce, e sembrò allontanarsi. "Svolta l'angolo, dopo
mezzo isolato nel vicolo a sinistra.»
Kumiko avrebbe ricordato quel vicolo per sempre. Buio. I mattoni
viscidi. Ventilatori umidi trascinavano nastri neri di polvere gelata, una
lampadina gialla in una gabbia di lega metallica corrosa, lo strato di
bottiglie vuote che germogliavano alla base dei muri, le cataste di fax
spiegazzato e pezzi di espanso da imballaggio alte quanto un uomo, il suono
dei tacchi di Sally.
Oltre il fioco bagliore della lampadina c'era l'oscurità, anche se un raggio
di luce riflesso dai mattoni umidi mostrava un muro sul fondo. Vicolo cieco.
Kumiko esitò, spaventata da un'eco improvvisa, un rumore di passi, il
gocciolare costante dell'acqua...
Sally alzò la mano. Un raggio di luce molto forte delineò un cerchio
nitido di mattoni imbrattati di vernice e discese lentamente.
Scese fino a scoprire la cosa di metallo opaco alla base del muro.
Un'apparecchiatura verticale arrotondata che Kumiko scambiò per un altro
ventilatore. Vicino alla base c'erano mozziconi bianchi di candela, una
fiaschetta piatta di plastica piena di liquido trasparente, pacchetti di
sigarette assortiti, sigarette sparpagliate in giro e una figura elaborata con
molte braccia, un contorno che sembrava disegnato con gesso bianco.
Sally fece un passo avanti tenendo saldamente la torcia, e Kumiko vide
che l'apparecchiatura blindata era imbullonata nel muro con massicci
rinforzi. «Finn?»
Un guizzo di luce rosa dietro a una fessura orizzontale.
«Ehi, Finn, amico...» Nella sua voce, un'esitazione inaspettata. «Moll.»
La voce era stridente, come quella di un altoparlante guasto. «Che è quella
pila? E' carica? Sei così invecchiata che non ci vedi più al buio?»
«Per la mia amica.»
Qualcosa si mosse dietro la fessura. Aveva lo stesso colore pallido della
brace di una sigaretta nel sole di mezzogiorno, e il viso di Kumiko fu
investito da un balbettio di luce.
«Già» stridette la voce. «Chi è?» «La figlia di Yanaka.»
«Vedo che non scherzi.»
Sally diresse in basso il raggio di luce, facendolo ricadere sulle candele,
la fiaschetta, le sigarette grigie e bagnate, il simbolo bianco con le braccia
leggere.
«Prenditi le offerte. Lì c'è mezzo litro di Moskovskaya. Il simbolo
magico è di farina. Una fortuna. Gli sballati lo disegnano con la cocaina.»
«Cristo» esclamò Sally, chinandosi. Nella sua voce, uno strano distacco.
«Non posso crederci.» Kumiko la guardò prendere in mano la fiaschetta e
annusarla.
«Bevila. E' roba buona. La migliore. Nessuno è avaro con l'oracolo, se sa
far bene i suoi conti.»
«Finn» cominciò Sally, poi fece dondolare la fiaschetta e bevve un sorso,
pulendosi la bocca con il dorso della mano «tu devi essere pazzo...»
«Sarebbe una fortuna. Nella mia situazione ho già un bel culo che mi
rimanga un po' d'immaginazione, figurati se fossi anche pazzo.»
Kumiko si avvicinò e si accovacciò accanto a Sally.
«E' una riproduzione, una personalità artificiale?» Sally posò la fiaschetta
di vodka e smosse la farina umida con la punta dell'unghia bianca.
«Certo. Ne hai già visti. Memoria in tempo reale se voglio io, collegato al
c-spazio se voglio io. Questo trucco dell'oracolo è solo per tenere ancora le
mani in pasta, sai com'è.» La cosa fece uno strano rumore: una risata.
«Problemi di cuore? Una ragazza cattiva non vuole saperne di te?» Di
nuovo il rumore della risata, come uno scroscio di elettricità statica. «Al
momento, mi occupo più che altro di consulenza d'affari. Sono i ragazzi del
posto che lasciano le offerte. Fa un po' parte del feeling. E qualche volta
trovo lo scettico, un testa di cazzo che pensa di poter avere una parte della
torta.» Un sottilissimo raggio scarlatto lampeggiò dalla fessura e da qualche
parte a destra di Kumiko una bottiglia esplose. La risata crepitante. «Allora,
qual buon vento ti porta, Moll, te e» di nuovo la luce rosa puntata sul viso di
Kumiko «la figlia di Yanaka...»
«La fuga da Straylight» rispose Sally. «E' passato un casino di tempo,
Moll...»
«Lei mi sta cercando, Finn. Dopo quattordici anni quella stupida troia mi
sta ancora alle calcagna...»
«Forse non ha nient'altro di meglio da fare. Sai come sono i ricchi...»
«Sai dov'è Case, Finn? Forse è lui che sta cercando.»
«Case si è tirato fuori. Dopo che tu te ne sei andata ha fatto qualche buon
colpo, poi ha dato un calcio a tutto e ha mollato. Se avessi fatto lo stesso
anche tu, forse non saresti qui a gelarti le chiappe in un vicolo sudicio,
giusto? L'ultima volta che ho avuto notizie di lui, aveva quattro figli...»
Osservando le scansioni ipnotiche della scintilla rosa, Kumiko si fece
un'idea di cos'era quello con cui Sally stava parlando. C'erano oggetti simili
nello studio di suo padre. Quattro cubi laccati di nero disposti lungo una
mensola di pino. Sopra ogni cubo era appeso un ritratto ufficiale. I ritratti
erano fotografie di signori in giacca scura e cravatta: quattro distintissimi
gentiluomini che avevano sul risvolto della giacca gli stessi piccoli distintivi
di metallo che a volte portava suo padre. Nonostante sua madre le avesse
detto che i cubi contenevano fantasmi, i fantasmi dei malvagi antenati di
suo padre, Kumiko li trovava più affascinanti che terrificanti. Se davvero
contenevano dei fantasmi, si disse, dovevano essere molto piccoli, dato che
i cubi avrebbero potuto contenere a malapena la testa di un bambino.
A volte, suo padre restava in meditazione davanti ai cubi,
inginocchiandosi sul nudo "tatami" in un atteggiamento che rivelava
profondo rispetto. L'aveva visto molte volte in quella posizione, ma aveva
dieci anni quando l'aveva sentito per la prima volta rivolgersi ai cubi. E uno
di loro aveva risposto. La domanda non aveva per lei molto significato, la
risposta ancor meno, ma il tono calmo della voce del fantasma l'aveva
raggelata dov'era, rannicchiata dietro una porta di carta, e suo padre era
scoppiato a ridere trovandola là. Invece di sgridarla le aveva spiegato che i
cubi contenevano le personalità registrate di dirigenti precedenti, direttori
delle consociate. Le loro anime? aveva domandato lei. No, aveva risposto
suo padre, sorridendo, e aveva aggiunto che la differenza era sottile. "Non
hanno coscienza. Rispondono alle domande in un modo che si avvicina alle
risposte del soggetto. Se sono dei fantasmi, allora anche gli ologrammi sono
fantasmi."
Dopo che Sally l'ebbe istruita sulla storia e la gerarchia della Yakuza, nel
bar "robata" di Earl's Court, Kumiko decise che gli uomini in fotografia, i
soggetti delle registrazioni di personalità, dovevano essere stati tutti degli
"oyabun".
La cosa nella struttura blindata, rifletté, aveva una natura simile, per
quanto forse più complessa, proprio come Colin era una versione più
complessa della guida Michelin che i segretari di suo padre portavano con
sé durante le spedizioni nelle boutiques di Shinjuku. Finn, lo chiamava
Sally, ed era chiaro che si trattava di un suo ex socio.
Kumiko si chiese però se era sveglio anche quando il vicolo era deserto.
La sua vista laser scandiva forse la neve che cadeva lenta nella notte?
«L'Europa» iniziò Sally «l'ho girata tutta, dopo aver rotto con Case.
Mi erano rimasti un sacco di soldi di quelli che ci avevano anticipato per
l'incursione alla T-A. Almeno, a quei tempi sembravano un sacco. L'I.A.
della Tessier-Ashpool pagava tramite una banca svizzera. Aveva cancellato
ogni traccia del nostro viaggio nel pozzo. Proprio tutto: se qualcuno avesse
cercato il nome sotto il quale avevamo viaggiato sulla navetta JAL, non
l'avrebbe trovato. Case ha fatto dei controlli su tutto quando siamo tornati a
Tokyo, e si è intrufolato in dati di ogni genere. Era come se non fosse
successo niente. Non capivo come potesse farlo, I.A. o non I.A., eppure
nessuno ha mai capito che cosa è accaduto lassù quando Case ha spinto il
rompi-GHIACCIO cinese contro il GHIACCIO del loro nucleo.» «Ha
cercato di mettersi in contatto, dopo?» «Non che io sappia. Si era messo in
testa che fosse tutto sparito, in un certo senso. Non proprio sparito, ma
dentro il tutto, nella matrice intera. Come se non esistesse più nel
ciberspazio, ma esistesse e basta. E se non voleva farsi vedere o far sapere
che c'era, non c'era proprio modo per riuscirci, era anche impossibile
dimostrare la sua esistenza anche sapendo che c'era. E per quanto riguarda
me, io non volevo saperlo. Insomma, per me, qualunque cosa fosse, la
faccenda era chiusa, finita. Armitage era morto, Riviera era morto, Ashpool
era morto, il Rasta pilota del rimorchiatore che ci aveva portato fuori era
tornato all'ammasso di Sion e probabilmente aveva liquidato il tutto come
una delle tante visioni della "ganja"... Ho lasciato Case nell'Hyatt Hotel di
Tokyo e non l'ho rivisto mai più.»
«Perché?»
«Chi lo sa? Niente di particolare. Ero giovane, mi sembrava che la
faccenda fosse chiusa, tutto qui.»
«Ma nel pozzo ci hai lasciato lei. A Straylight.»
«Questo è il punto. Ogni tanto ci penso. Finn, quando siamo andati via
era come se a lei non importasse di niente. Per lei avevo ucciso quel pazzo
di suo padre, Case aveva distrutto i nuclei e aveva lasciato libere nella
matrice le loro I.A... così l'ho messa sulla lista, capisci? Un giorno che ti
capitano casini grossi, che qualcuno ce l'ha con te, non fai altro che
controllare la lista.»
«E l'hai beccata subito, su quella lista?»
«No. E' piuttosto lunga.»
Case, che a Kumiko sembrava essere stato qualcosa di più di un socio di
Sally, non fu più menzionato.
Ascoltandola riassumere quattordici anni di vicende personali a
beneficio di Finn, Kumiko si scoprì a immaginare Sally da giovane come
un'eroina "bishonen" dei tradizionali video romantici: fatale, elegante,
micidiale. Quando trovava difficile seguire il distaccato resoconto di Sally,
che si riferiva a luoghi e cose che lei non conosceva, facilmente la
immaginava conquistare quelle vittorie lampo che ci si aspettava dai
"bishonen". Ma quando Sally sorvolò su "un brutto anno passato ad
Amburgo" con una rabbia improvvisa nella voce un rancore non recente,
erano passati dieci anni - capì che era un errore pensare a quella donna in
termini giapponesi. Qui non si trattava di "ronin", samurai erranti: Sally e
Finn stavano parlando di affari.
Kumiko intuì che lei era arrivata a quel brutto anno ad Amburgo dopo
aver vinto e poi perso una fortuna di qualche tipo. Aveva vinto la sua parte
"lassù", in un luogo che Finn aveva chiamato Straylight, in società con
l'uomo di nome Case. Tutto ciò le aveva procurato molti nemici.
«Amburgo» la interruppe Finn. «Ho sentito delle storie su Amburgo...» «I
soldi erano finiti. Sai come va, quando fai un colpo grosso e sei giovane... i
soldi non mi avrebbero fatto tornare alla normalità, ma ero coinvolta con
della gente di Francoforte, ero in debito e volevano che mi mettessi in affari
con loro.»
«Che genere di affari?»
«Volevano degli scagnozzi.»
«E allora?»
«E allora me ne sono tirata fuori. Appena ho potuto. Poi sono andata a
Londra...»
Kumiko si disse che forse Sally una volta era stata davvero qualcosa
di simile ai "ronin", una specie di samurai. Ma a Londra era diventata
qualcosa di diverso, un'affarista. Mantenendosi tramite attività non meglio
specificate, era gradualmente diventata finanziatrice, e prestava i fondi per
la realizzazione di affari di vario tipo. (Cosa poteva essere una "vasca di
credito"? E il "lavaggio dati"?)
«Già. Hai fatto bene. Avevi una partecipazione in un casinò tedesco, mi
sembra, o roba del genere.»
«Aix-la-Chapelle. Ero in cartellone. Lo sono ancora, quando ho il
passaporto giusto.»
«Ti sei sistemata?» Di nuovo la risata.
«Certo.»
«Da queste parti non se n'è sentito parlare molto.»
«Facevo funzionare un casinò. Niente di più. Mi andava bene.»
«Facevi la lottatrice professionista. "Misty Steel", peso leggero. Otto
incontri, su cinque ho fatto il bookmaker. Incontri sanguinosi. Illegali.»
«Un hobby.»
«Come no. Ho visto i video. La Birmana per poco non ti apriva in due.
Sembrava quasi vero...»
Kumiko si ricordò della lunga cicatrice.
«Così ho piantato tutto. Cinque anni fa, quando avevo già cinque anni di
troppo.»
«Non eri male, ma quel "Misty Steel"... Gesù!»
«Dacci un taglio. Non l'ho inventato io.»
«Certo. Dimmi un po' della nostra amica, come si è messa in contatto.»
«Swain. Roger Swain. Ha mandato uno dei suoi scagnozzi al casinò, un
aspirante coglioni quadri, un certo Prior. Circa un mese fa.»
«Swain il maneggione? Di Londra?»
«Proprio. E così Prior mi porta un regalino, un bel metro di tabulato. Una
lista. Nomi. Date, luoghi.»
«Compromettente?»
«C'era tutto. Roba che avevo quasi dimenticato.»
«La fuga da Straylight?»
«Tutto. Così faccio la valigia, torno a Londra, vedo Swain. Lui dice che
gli spiace, non è colpa sua eccetera, ma mi deve spremere. Perché c'è
qualcuno che spreme lui. Anche lui ha il suo metro di tabulato di cui
preoccuparsi.» Kumiko udì i tacchi di Sally strisciare sul selciato.
«Che vuole?»
«Un rapimento. Una star.»
«Perché proprio tu?»
«Andiamo, Finn, è quello che sono venuta a chiedere a te.»
«Swain ti ha detto che è 3Jane?»
«No, me l'ha detto il mio cowboy a Londra.»
Kumiko aveva le ginocchia indolenzite.
«La ragazzina. Dove l'hai incontrata?»
«E' saltata fuori a casa di Swain. Yanaka ha voluto allontanarla da Tokyo.
Swai è in debito giri con lui.»
«Lei comunque è pulita. Niente rilevatori. Da quel che ho sentito di
Tokyo recentemente, Yanaka è dentro fino al collo...»
Kumiko rabbrividì nel buio.
«E il rapimento, la star?» proseguì Finn.
Lei sentì Sally esitare un momento. «Angela Mitchell.»
Il metronomo rosa ondeggiava silenzioso, sinistra-destra, destrasinistra.
«Fa freddo qui, Finn.»
«Già. Vorrei tanto sentirlo anch'io. Ho appena fatto un giretto a tuo nome.
Memory Lane. Sai da dove è saltata fuori Angie?»
«No.»
«Io faccio il gioco dell'oracolo, ciccia, mica l'archivio per le ricerche. Suo
padre era Christopher Mitchell. Il cervellone della ricerca sui biochip nei
Biolaboratori Maas. Lei è cresciuta in una loro base segreta in Arizona.
Praticamente figlia della compagnia. Circa sette anni fa, laggiù è successo
qualcosa. In giro si diceva che l'Hosaka aveva mandato una squadra di
professionisti per aiutare Mitchell a fare un passo avanti nella carriera. Nei
fax si leggeva che sul territorio della Maas avevano tirato una testata da un
megatone, ma nessuno ha mai rilevato radiazioni. E non si sono più trovati
neanche i mercenari dell'Hosaka. Secondo la Maas, Mitchell era morto.
Suicidio.»
«Questo lo trovo anche nell'archivio. Ma cosa sa l'oracolo?»
«Voci. Niente che regga. Si dice che lei sia arrivata qui uno o due giorni
dopo l'esplosione in Arizona e che si era messa con dei negri scoppiati che
lavoravano fuori dal New Jersey.»
«Che lavoro?»
«Commercio. Soprattutto software. Compravendita. Qualche volta hanno
comperato da me...»
«Perché dici che erano scoppiati?»
«Erano nella stregoneria. Pensavano che la matrice fosse piena di demoni
e altre cazzate. Vuoi sapere una cosa, Moll?»
«Che cosa?»
«Avevano ragione.»
23. Specchio delle mie brame.
Ne uscì come se qualcuno avesse spinto un interruttore.
Non aprì gli occhi. Li sentiva parlare nell'altra stanza. Le faceva male
dappertutto, ma non era poi tanto peggio dell'effetto del wiz. La brutta crisi
era passata, o forse era stata soffocata da quel che le avevano dato, quello
spray. La camicia di carta le sfregava i capezzoli. Li sentiva grandi,
morbidi. Le parve che i seni le stessero scoppiando. Sottili linee di dolore le
pungevano tutto il viso, nelle orbite pulsavano sorde fitte gemelle, la bocca
le doleva, sentiva un gusto aspro di sangue.
«Non sto cercando di insegnarti il mestiere» stava dicendo Gerald su un
sottofondo di acqua che scorreva e rumori metallici, come se stesse lavando
delle pentole «ma se pensi che possa ingannare qualcuno ti sbagli, a meno
che quel qualcuno non voglia farsi ingannare. E' davvero un lavoro molto
superficiale.» Prior disse qualcosa che lei non riuscì a capire. «Ho detto
superficiale, non sciatto. E' un lavoro di qualità, in tutto e per tutto. Con
ventiquattro ore di stimolatore dermico sarà impossibile capire che è stata
qui. Continua a darle antibiotici. Niente stimolanti. Il suo sistema
immunitario non funziona come dovrebbe.» Di nuovo Prior, ma non riuscì a
distinguere le parole.
Aprì gli occhi, ma c'era solo il soffitto, i riquadri bianchi di isolante
acustico. Voltò la testa a sinistra. Muro di plastica bianca finestra finta,
un'animazione ad alta risoluzione di una spiaggia con palme e onde. Se si
fissava l'acqua si vedeva benissimo che le onde erano sempre uguali e
ritornavano continuamente. L'impianto doveva essere guasto o vecchio, e le
onde erano come esitanti, il rosso del tramonto pulsava come una lampada
al neon scadente.
"Prova a destra." Si voltò di nuovo, sentendo la federa sudata di carta sul
cuscino duro di schiuma sotto la nuca...
E il viso con gli occhi pesti che la osservava dall'altro letto con un
rinforzo ricoperto di plastica trasparente e cerotto microporoso sul naso e
una specie di gelatina marrone spalmata sugli zigomi...
Angie. Era il viso di Angie, incorniciato dal riflesso del tramonto
balbettante nella finestra difettosa.
«Non ho lavorato sulle ossa» disse Gerald, togliendo con cautela il
cerotto che teneva in posizione il piccolo rinforzo di plastica sul setto
nasale. «Questo è il bello. Abbiamo inserito della cartilagine nel naso,
attraverso le narici, poi siamo passati ai denti. Sorridi. Magnifico. Abbiamo
aumentato il seno, ricostruito i capezzoli con tessuto erettile cresciuto in
vasca, poi la colorazione degli occhi...» Tolse il rinforzo. «Non devi toccare
qui per altre ventiquattro ore.»
«Per questo ho i lividi?»
«No. Quelli sono un trauma secondario del lavoro sulla cartilagine.» Le
dita di Gerald erano fredde e precise sul suo viso.» Entro domani
dovrebbero essere scomparsi.
Gerald era un tipo a posto. Le aveva dato tre dermi, due blu e uno rosa,
rilassanti e piacevoli. Prior invece non era affatto un tipo a posto, ma se
n'era andato, o comunque non si vedeva. Ed era proprio bello ascoltare la
voce calma di Gerald che le dava spiegazioni. E guardare cosa sapeva fare.
«Le lentiggini» disse lei, perché non c'erano più.
«Colpa dell'abrasione e del tessuto coltivato. Ricompariranno,
soprattutto se prendi troppo sole...»
«E' così bella...» Girò la testa.
«Tu, Monna. Sei tu.»
Lei guardò il viso nello specchio, e provò quel famoso sorriso.
Forse Gerald non era poi così a posto.
Di nuovo nel lettino bianco in cui l'aveva fatta sdraiare, Monna alzò il
braccio e guardò i tre dermi. Tranquillanti. Si sentiva leggera, come se
galleggiasse.
Infilò l'unghia sotto il derma rosa e lo staccò, lo fissò sulla parete bianca e
premette con il pollice. Ne uscì una goccia di fluido paglierino. Lo staccò di
nuovo con cura e lo rimise sul braccio. In quelli blu c'era della roba
lattiginosa. Rimise anche quelli. Forse se ne sarebbe accorto, ma lei voleva
sapere che cosa succedeva.
Si guardò allo specchio. Gerald aveva detto che se avesse voluto, un
giorno avrebbe potuto ridarle i lineamenti di prima, ma poi si chiese come
avrebbe fatto a ricordare il suo aspetto. Forse le aveva scattato una foto, o
qualcosa del genere. Adesso che ci pensava, forse nessuno si ricordava
com'era prima. Pensò che il simstim di Michael fosse l'immagine più fedele,
ma non sapeva il suo indirizzo e neanche il suo cognome. Le dava una
strana sensazione. Come se la persona che era stata fosse uscita un attimo e
non fosse più tornata. Ma poi chiuse gli occhi e capì di essere Monna, di
esserlo sempre stata, e che in fondo non era cambiato poi molto. Almeno
non dentro cui si cambiava. Lanette una volta le aveva detto che non le
rimaneva neanche il dieci per cento del suo viso originale, quello che aveva
alla nascita. Non che si vedesse, a parte il nero sulle palpebre che le
risparmiava di perder tempo col mascara. Monna aveva pensato che il
lavoro che le avevano fatto non era poi un gran che, e una volta lei doveva
averlo intuito dalla sua espressione, perché le aveva detto: "Avresti dovuto
vedere com'ero prima, cara mia."
«Tremendo.» Lui si asciugò la fronte con un pezzo di spessa carta
assorbente azzurra.
«Magari potremmo uscire a prendere qualche granchio. Gerald dice che
qui si trovano i granchi.»
«E vero. Te ne porterò qualcuno» rispose lui.
«Cosa ne direste di portarmi fuori?»
Prior gettò la carta in un cestino di metallo. «No, potresti cercare di
scappare.»
Lei infilò la mano tra il letto e la parete e trovò l'incavo scavato
nell'espanso dove aveva nascosto lo sfollagente elettrico. In un sacchetto di
plastica bianca aveva trovato i suoi vestiti. Gerald entrava ogni paio d'ore a
portarle dei dermi nuovi: lei li strizzava appena era uscito. Sperava che se
fosse riuscita a convincere Prior a portarla a mangiare fuori avrebbe potuto
fare qualche mossa al ristorante. Ma non riusciva ad averne la possibilità.
In un ristorante avrebbe potuto anche chiamare un poliziotto, perché
adesso pensava di sapere di che cosa si trattava.
Omicidio. Lanette a volte gliene aveva parlato. C'erano uomini che
pagavano per far operare delle ragazze in modo da somigliare a
qualcun'altra, poi le ammazzavano. Occorrevano soldi, e tanti anche. Certo
l'idea non era di Prior, ma di qualcuno per cui lavorava. Lanette diceva che
questi tizi a volte facevano assomigliare le ragazze alle loro mogli. Monna
non ci aveva veramente creduto. Spesso Lanette le raccontava storie
tremende, perché era divertente farsi spaventare sapendo di essere bene al
sicuro, e poi lei sapeva un sacco di storie sui tipi strani. Diceva che gli
impiegati erano i più strani di tutti, i tirapiedi delle alte sfere delle grandi
società, perché non potevano permettersi di perdere il controllo sul lavoro.
Ma fuori dal lavoro potevano permetterselo quando e come volevano.
Perché non doveva esserci un pezzo grosso, da qualche parte, che voleva
Angie? C'erano un sacco di ragazze che si facevano operare per
assomigliarle, ma erano quasi tutte patetiche. Tutte vorrei-ma-non-posso. E
lei non ne aveva mai vista una che somigliasse davvero ad Angie, una che
riuscisse a ingannare uno con un po' di occhio. Forse c'era qualcuno
disposto a pagare solo per avere una ragazza somigliante ad Angie. E se non
si trattava di quello, allora di cosa si trattava?
Prior ora stava abbottonandosi la camicia azzurra. Si avvicinò al letto e
tirò giù il lenzuolo per guardarle il seno. Come se stesse guardando una
macchina o qualcosa del genere.
Monna lo tirò su di nuovo con un movimento brusco.
«Ti porto qualche granchio.» Si mise la giacca e uscì. Lo sentì dire
qualcosa a Gerald.
Gerald mise dentro la testa. «Come va, Monna?»
«Ho fame.»
«Ti senti rilassata?»
«Sì...»
Quando fu di nuovo sola, si voltò e cominciò a studiare il proprio viso, il
viso di Angie, negli specchi della parete. I lividi erano quasi scomparsi.
Gerald le aveva incerottato sul suo viso delle specie di elettrodi in miniatura
collegati a un apparecchio. Diceva che li faceva guarire in fretta.
Non faceva i salti di gioia, ora, vedendo il viso di Angie nello specchio. I
denti le piacevano. Il tipo di denti che faceva piacere avere. Non era sicura
di tutto il resto, non ancora.
Forse avrebbe dovuto alzarsi, vestirsi e raggiungere la porta. Se Gerald
avesse cercato di fermarla avrebbe potuto usare lo sfollagente elettrico. Poi
le venne in mente come Prior era comparso da Michael, come se qualcuno
l'avesse spiata, seguita tutta la notte. Forse qualcuno la stava osservando
anche adesso, dall'esterno. Lo studio di Gerald sembrava non avere finestre,
finestre vere, e quindi avrebbe dovuto passare dalla porta.
Stava anche cominciando a provare un gran bisogno del WIZ, ma se si
fosse fatta anche solo un poco, Gerald se ne sarebbe accorto. Sapeva che la
sua borsetta era nella valigia sotto il letto. Se si fosse fatta, pensò, forse
sarebbe riuscita a darsi una mossa. Ma forse non era la cosa migliore.
Doveva ammettere che non sempre quello che faceva sotto l'effetto del wiz
funzionava, anche se le faceva sembrare che non avrebbe potuto sbagliare
neanche volendo.
Comunque aveva fame. Se almeno Gerald avesse avuto della musica, una
cosa qualsiasi, così avrebbe potuto aspettare il granchio...
24. In un luogo solitario.
E Gentry stava là in piedi, con la Forma che gli bruciava dietro agli occhi,
e teneva in mano la rete di elettrodi illuminato dal bagliore delle lampadine
nude. Stava spiegando a Slick perché era necessario tutto questo, perché
doveva mettersi gli elettrodi e collegarsi subito alle informazioni, per il
momento sconosciute, che la piastra grigia stava trasmettendo al corpo
immobile sulla barella.
Slick scosse la testa, ripensando a come era arrivato a Dog Solitude.
Gentry, scambiandolo per un rifiuto, cominciò a parlare più in fretta. Gentry
stava dicendo che Slick avrebbe dovuto collegarsi forse solo per qualche
secondo, mentre lui avrebbe fissato dei dati ed elaborato una macroforma.
Gentry disse che Slick non era capace di farlo, altrimenti si sarebbe
collegato lui stesso; quello che lui voleva non erano i dati, solo la forma
generale, nella convinzione che lo avrebbe condotto alla Forma, quella più
grande, quella che inseguiva da anni. Slick ricordò di quando aveva
attraversato Solitude a piedi. Aveva paura che tornasse il Korsakov, di
dimenticarsi dov'era e bere l'acqua cancerogena delle pozzanghere rosse e
melmose della piana arrugginita. Vedeva il marciume rosso, gli uccelli
morti che galleggiavano con le ali aperte. Il camionista del Tennessee gli
aveva detto di lasciare
l'autostrada e camminare in direzione ovest: dopo un'oretta avrebbe
trovato una strada asfaltata a due corsie dove avrebbe potuto farsi dare un
passaggio fino a Cleveland. Ma gli sembrava che fosse passata ben più di
un'ora, e non era poi così sicuro di stare andando verso ovest, e quel posto
metteva i brividi, sembrava una discarica appiattita dal pugno di un gigante.
A un certo punto aveva visto qualcuno in lontananza, su un'altura, e aveva
agitato le braccia. La figura era svanita, ma lui aveva continuato a
camminare in quella direzione senza più curarsi di evitare le pozzanghere,
trascinandovi dentro i piedi, finché non era arrivato sull'altura e aveva visto
che si trattava della carcassa senza ali di un aereo semisepolto tra le lattine
arrugginite. Era riuscito ad arrampicarsi sul pendio, salendo un sentiero di
lattine appiattite dal passaggio che terminava di fronte a un'apertura
quadrata, un'uscita di sicurezza. Vi aveva infilato la testa e aveva visto
centinaia di minuscole teste che pendevano dal soffitto concavo. Raggelato,
aveva cercato di vedere meglio nell'improvvisa oscurità, finché non era
riuscito a trovare un senso in ciò che aveva davanti agli occhi. Rosee teste
di bambola che penzolavano come frutti, con i capelli di nylon annodati in
fondo e i nodi incollati a uno spesso strato di catrame. Nient'altro, solo
qualche pannello logoro e sporco di espanso verde. L'unica cosa certa era
che non aveva nessuna voglia di star lì a scoprire chi ne era il proprietario.
Poi, senza neppure saperlo, era andato verso sud, e aveva trovato la
Fabbrica.
«Non avrò mai un'altra possibilità come questa» disse Gentry. Slick fissò
il suo viso teso, gli occhi spalancati per la disperazione. «Non la vedrò
mai...»
E Slick ricordò quella volta in cui Gentry l'aveva colpito, e di come aveva
guardato la chiave inglese e si era sentito... be', Cherry si sbagliava sul loro
conto, ma c'era qualcos'altro, qualcosa che non sapeva definire. Con la
sinistra afferrò gli elettrodi e con la destra diede un brusco spintone nel
petto a Gentry. «Sta' zitto! Chiudi quella fogna!» Gentry cadde indietro sul
bordo del tavolo di metallo. Slick bestemmiò sottovoce sistemandosi la
delicata rete di dermatrodi a contatto intorno alla fronte e alle tempie.
Collegato.
Sentì la ghiaia scricchiolare sotto gli stivali.
Aprì gli occhi e guardò in basso: il vialetto era liscio, nella luce dell'alba,
più pulito di qualunque cosa su Dog Solitude. Alzò lo sguardo e vide il
punto in cui si incurvava, e oltre. Alberi verdi dai grandi rami, il tetto di
ardesia incatramata di una casa grande quanto metà della Fabbrica. Vicino a
lui, nell'erba alta e umida, c'erano delle statue. Un cervo di ferro, un torso
maschile scolpito nella pietra, spezzato, senza testa né braccia né gambe. Il
cinguettio degli uccelli era l'unico suono.
Cominciò a risalire il vialetto verso la casa grigia, visto che sembrava non
esserci altro da fare. Arrivato in fondo, vide degli edifici più piccoli dietro
la casa e un grande prato dove erano ancorati degli alianti, controvento.
"Una favola" pensò, guardando la grande facciata in pietra della casa, i
vetri delle finestre legati col piombo. Sembrava un video che aveva visto da
piccolo. Davvero esisteva qualcuno che viveva in posti simili? "Ma non è
un posto" gli venne in mente "lo sembra soltanto". «Gentry» disse «tirami
fuori di qui, va bene?»
Si studiò il dorso delle mani. Cicatrici, croste di sudiciume, mezzelune
nere di grasso sotto le unghie spezzate. Il grasso penetrava e le
ammorbidiva, per questo si spezzavano facilmente.
Cominciava a sentirsi stupido a rimanere là. Forse qualcuno lo stava
osservando dalla casa. «Vaffanculo» disse, e si mise a camminare sul largo
viale lastricato, modellando inconsciamente il passo sull'andatura da bullo
che aveva imparato nel Deacon Blues.
Sul pannello centrale della porta era fissata una cosa di metallo, una
mano piccola e graziosa che reggeva una sfera grande come una palla da
biliardo. Il polso era fissato a un perno, per poterla alzare e abbassare. Lo
fece. Con forza. Due volte, poi ancora. Non successe niente. Il pomo della
porta era di ottone, le decorazioni floreali rese quasi invisibili dagli anni. Si
girava facilmente. Aprì la porta. Restò stupito dai colori e dai materiali
sontuosi. Superfici di legno scuro e lucido, marmo bianco e nero, tappeti dai
mille colori delicati che splendevano come vetrate, argento brillante,
specchi... sorrise, leggermente colpito, gli occhi sempre fissi su qualcosa di
nuovo, tutte quelle cose, oggetti di cui non sapeva il nome...
«Stai cercando qualcuno, capo?»
L'uomo stava in piedi di fronte a un grande caminetto e indossava jeans
neri attillati e una maglietta bianca. Era scalzo, e nella destra teneva un
bicchiere panciuto pieno di liquore. Slick lo guardò sconcertato.
«Troia» esclamò «tu sei lui...»
L'uomo fece girare il liquido marrone fino all'orlo del bicchiere e bevve
un sorso. «Mi aspettavo che Afrika alla fine se ne uscisse con qualcosa del
genere» disse l'uomo «ma amico, devo dire che non mi sembri il suo tipo di
tirapiedi.»
«Tu sei il Conte.»
«Già, sono il Conte. E tu chi cazzo sei?»
«Slick. Slick Henry.»
L'altro rise. «Vuoi un po' di cognac, Slick Henry?» Col bicchiere indicò
un mobile di legno lucido dentro il quale c'era una fila di bottiglie decorate.
Ciascuna portava una catenella con una targhetta d'argento.
Slick scosse la testa.
L'uomo si strinse nelle spalle. «Tanto non ci si può neanche sbronzare.
Scusa se te lo dico, Slick, ma sembri proprio una merda. Sbaglio, o non fai
parte dell'operazione di Kid Afrika? E se non è così, allora che ci fai qui?»
«Mi ha mandato Gentry.
«Gentry chi?»
«Tu sei il tipo sulla barella, giusto?»
«Già, il tipo sulla barella sono io. Dov'è la barella, in questo preciso
istante?»
«Da Gentry.
«Cioè?»
«Nella Fabbrica.»
«E quella dove sarebbe?»
«A Dog Solitude.»
«E come ho fatto ad arrivare in quel posto dovunque sia?»
«Ti ci ha portato Kid Afrika. Insieme a quella ragazza che si chiama
Cherry, giusto? Io ero in debito con lui, e così ha voluto che ti tenessi lì per
un po' insieme a Cherry, e lei si occupa di te.»
«Mi hai chiamato Conte, Slick...»
«Cherry ha detto che una volta il Kid ti ha chiamato così.»
«Senti, Slick, il Kid sembrava preoccupato quando mi ha portato lì?»
«Cherry dice che a Cleveland deve aver preso una bella strizza.»
«Lo immagino. Chi è questo Gentry? Un tuo amico?»
«La Fabbrica è sua. Ci vivo anch'io...»
«Questo Gentry, è un cowboy, Slick? Un fantino della consolle?
Insomma, se tu sei qui deve essere un tecnico, no?»
Questa volta fu Slick a stringersi nelle spalle. «Gentry è come, più o
meno, una specie di artista. Ha certe teorie. Difficili da spiegare. Ha
montato una serie di sonde in quell'affare sulla barella a cui sei collegato.
Prima ha cercato di ottenere un'immagine su un impianto olografico, ma
c'era solo questa scimmia, come un fantasma, e così mi ha convinto a...»
«Gesù... Be', non importa. Questa fabbrica di cui parli, è in campagna? E'
relativamente isolata?»
Slick annuì.
«E questa Cherry, è una specie di infermiera?»
«Già. Aveva una tessera tecmed, ha detto.»
«E nessuno è ancora venuto a cercarmi?» «No.»
«Questo è un bene, Slick. Perché se viene qualcuno, a parte l'amico Kid
Afrika, quel ballista figlio di puttana, voi potreste finire in grossi guai.»
«Ah sì?»
«Sì. Adesso ascoltami. Cerca di ricordarlo bene: se si fa vedere qualcuno
a quella vostra fabbrica, l'unica vostra speranza è di mettermi in
collegamento con la matrice. Chiaro?»
«Come mai sei Conte? Cioè, cosa vuol dire?»
«Bobby. Mi chiamo Bobby. Una volta mi facevo chiamare Conte, tutto
qui. Pensi di ricordarti quello che ti ho detto?»
Slick annuì di nuovo.
«Bene.» Appoggiò il bicchiere sull'armadio con le bottiglie decorate.
«Ascolta» disse. Dalla porta aperta si udì il rumore degli pneumatici sulla
ghiaia. «Sai chi sta arrivando, Slick? E' Angela Mitchell.» Slick si voltò.
Bobby il Conte stava guardando il vialetto di fuori. «Angela Mitchell? La
diva dei simstim? Anche lei è qua dentro?»
«In un certo senso, Slick, in un certo senso...»
Slick vide passare la grande automobile nera. «Ehi, Conte, cioè, Bobby,
che cosa...»
«Calma» gli stava dicendo Gentry «stai seduto. Calma, calma...»
25. Ritorno all'est.
Mentre Kelly e i suoi assistenti preparavano gli abiti per il viaggio, lei
sentì come un agitarsi della casa tutto intorno, in preparazione a uno dei
suoi brevi e frequenti periodi di chiusura.
Dal salotto, dove era seduta, sentiva le loro voci e le loro risa. Uno
degli assistenti era una ragazza che indossava un esoscheletro di
policarbonio azzurro che le permetteva di trasportare le valigie porta-abiti di
Hermès come fossero blocchi leggerissimi di stiroespanso. La tuta-scheletro
azzurra ronzava mentre lei scendeva le scale a passi felpati con le zampe
ovattate da dinosauro. Scheletro azzurro, bare di cuoio.
Porphyre si era fermato sulla soglia. «La signorina è pronta?» Indossava
un ampio cappotto di pelle fine come tessuto; sopra ai tacchi degli stivali
neri esclusivi luccicavano speroni di diamanti sintetici.
«Porphyre» esclamò lei «sei in borghese. A New York dobbiamo fare
un'entrata trionfale.»
«Sono per te, le telecamere.»
«Sì» disse lei «per il mio reinserimento.»
«Porphyre se ne starà buono in disparte.»
«Non ti ho mai visto preoccupato di rubare la parte a qualcuno.»
Lui sorrise, mostrando i denti scolpiti, quasi aerodinamici, che un dentista
all'avanguardia aveva immaginato come quelli di una specie molto più
veloce ed elegante di quella umana.
«Danielle Start farà il viaggio con noi.» Lei udì il rumore dell'elicottero
che si avvicinava. «Ci aspetta all'aeroporto di Los Angeles.»
«La strangoleremo» disse lui in tono confidenziale, aiutandola ad infilarsi
la volpe azzurra che Kelly le aveva scelto. «Se le promettiamo di dire ai fax
che il movente era a sfondo sessuale, lei potrebbe anche decidere di
collaborare...»
«Sei orribile.»
«Danielle è orribile, signorina.»
«Senti chi parla.»
«Ah» esclamò il parrucchiere, socchiudendo gli occhi «ma io ho l'animo
di un bimbo.»
L'elicottero stava atterrando.
Correva voce che Danielle Stark, associata con le versioni
simstim di "Vogue-Nippon" e "Vogue-Europa", avesse abbondantemente
superato l'ottantina. Se era vero, pensò Angie, esaminando di nascosto la
figura della giornalista mentre tutti e tre salivano a bordo del jet, Danielle e
Porphyre erano alla pari per quanto riguardava gli interventi di correzione
chirurgica totale. Era slanciata, apparentemente sulla trentina, e l'unico
intervento evidente consisteva in una coppia di impianti oculari Zeiss
celesti. Una volta una giovane giornalista francese li aveva definiti "di una
moda fuori moda". Le leggende della Rete raccontavano che da allora la
giornalista non aveva più lavorato.
Angie sapeva che presto Danielle avrebbe voluto parlare di droga, la
droga delle celebrità, con gli occhi di fiordaliso spalancati come quelli di
una scolaretta per afferrare fino all'ultima parola.
Scoraggiata dallo sguardo di Porphyre, Danielle riuscì a trattenersi finché
non raggiunsero la velocità di crociera, da qualche parte nel cielo dell'Utah.
«Speravo» esordì «di non dover essere io a iniziare.»
«Danielle» ribatté Angie «sono davvero desolata. Che scortesia.» Sfiorò
la superficie rivestita della cucina di volo Hosaka, che ronzò piano e
cominciò a porgere piattini di anatra affumicata al tè, ostriche del golfo con
crostini al pepe, sformato di gamberi, frittelle al sesamo. Porphyre,
raccogliendo il suggerimento di Angie, aprì una bottiglia di Chablis fresco,
il preferito di Danielle, ricordò Angie. Anche qualcun altro, forse Swift, se
n'era ricordato. «La droga» disse Danielle dopo un quarto d'ora, finendo
quel che restava dell'anatra.
«Non se ne preoccupi» la rassicurò Porphyre «a New York ne troverà
quanta ne vuole.»
Danielle sorrise. «Lei è proprio divertente. Sa che possiedo una copia del
suo certificato di nascita? Conosco il suo vero nome.» Lo guardò in modo
significativo, continuando a sorridere.
«"Non ti curar di lor..."» disse lui riempiendole il bicchiere. «Conosco
qualche particolare interessante, particolari riguardanti alcuni difetti
congeniti.» Lei sorseggiò il vino.
«Congeniti, congenitali... cambiamo tutti moltissimo di questi tempi, non
è vero? Chi è che le cura i capelli, tesoro?» Si sporse verso di lei. «L'unica
cosa che la salva, Danielle, è che fa sembrare vagamente umani tutti quelli
che le sono simili.»
Danielle sorrise.
L'intervista in sé procedette abbastanza tranquillamente. Danielle era
un'intervistatrice troppo abile per superare la soglia del dolore con le sue
stoccate, che altrimenti avrebbero incontrato un'accanita resistenza. Ma
quando si lisciò la tempia con un polpastrello, premendo un interruttore
sub-dermico che disattivava l'impianto di registrazione, Angie si irrigidì
aspettando il colpo.
«Grazie» disse Danielle. «Per il resto del volo, naturalmente, il
registratore rimarrà spento.»
«Perché non si beve un'altra bottiglia o due e la pianta?» chiese Porphyre.
«Quello che non capisco, cara» proseguì Danielle, ignorandolo «è perché
si è presa il fastidio...»
«Quale fastidio, Danielle?»
«Di farsi ricoverare in quella noiosa clinica. Aveva detto che non
pregiudicava il suo lavoro. Aveva anche detto che non era mai "fatta", non
nel senso solito.» Fece un risolino. «Anche se poi ha affermato che si
trattava di una sostanza che induceva una terribile dipendenza. Perché allora
ha deciso di smettere?»
«Era tremendamente costoso...»
«Nel suo caso, sicuramente la cosa è scontata.»
"Vero" pensò Angie "anche se ogni settimana di permanenza costava
qualcosa come il tuo stipendio di un anno."
«Penso che probabilmente mi infastidisse dover pagare per sentirmi
normale. O vagamente normale.»
«Aveva sviluppato una forma di tolleranza?»
«No.»
«Strano.»
«Non proprio. I progettisti provvedono a elaborare sostanze che si ritiene
evitino gli inconvenienti tradizionali.»
«Ah. Ma che mi dice dei nuovi inconvenienti, quelli attuali?» Danielle si
versò dell'altro vino. «Naturalmente ho avuto modo di sentire anche un'altra
versione degli avvenimenti.»
«Davvero?»
«Ma certo. Che cos'era, chi l'aveva creato, e perché lei ha smesso.»
«Davvero?»
«Era un antipsicotico prodotto dalla Senso/Rete nei suoi laboratori. Lei
ha smesso di prenderlo perché preferisce essere pazza.»
Porphyre prese delicatamente il bicchiere di mano a Danielle, che
cominciava a sbattere pesantemente le palpebre sulle iridi azzurro brillante.
«Sogni d'oro, cara» disse, mentre Danielle chiudeva gli occhi e iniziava a
russare piano.
«Porphyre, cos'hai...»
«Le ho messo una dose nel vino» rispose lui. «Non se ne accorgerà,
signorina. Non ricorderà niente di quello che non ha registrato...» fece un
largo sorriso. «Non volevi mica stare ad ascoltare questa bagascia per tutto
il viaggio, vero?»
«Ma se ne accorgerà, Porphyre!»
«Niente affatto. Le diremo che si è scolata tre bottiglie da sola e ha
lasciato la toilette in un casino disgustoso. E sta' sicura che si sentirà come
se le cose fossero andate così.» Ridacchiò.
Danielle Stark stava ancora russando, più forte ora, in una delle due
cuccette ribaltabili in fondo alla cabina.
«Porphyre» chiese Angie «pensi che lei avesse ragione?»
Il parrucchiere la fissò con i suoi occhi splendidi, inumani. «E non te ne
saresti accorta?»
«Non lo so...»
Lui sospirò. «La signorina si preoccupa troppo. Adesso sei libera.
Goditela.»
«Sento delle voci, Porphyre.»
«Come tutti, signorina.»
«No» disse lei «non come quelle che sento io. Sai qualcosa sulle religioni
africane, Porphyre?»
Fece un sorriso furbo. «Io non sono africano...»
«Ma da bambino...»
«Da bambino» disse Porphyre «ero bianco.»
«Oh...»
Lui rise. «Religioni, signorina?»
«Prima di entrare nella Rete, avevo tanti amici. Nel New Jersey. Erano
neri, e... religiosi.»
Lui fece un sorrisetto furbo e spalancò gli occhi. «I segni degli stregoni,
signorina? Ossa di pollo e olio di menta?»
«Lo sai che non si tratta di questo.»
«Ah, sì?»
«Non prendermi in giro, Porphyre. Ho bisogno di te.»
«Signorina, conta su di me. Sì, so a che cosa ti riferisci. Sono quelle, le
tue voci?»
«Lo erano. Quando ho iniziato a usare la roba sono scomparse.»
«E ora?»
«Non ci sono più.» Ma l'impulso ormai era passato e lei si ritrasse dal
tentativo di raccontargli della Grande Brigitte e della droga nel giaccone.
«Bene» disse lui. «Questa è una buona cosa, signorina.»
Il jet iniziò la discesa sull'Ohio. Porphyre, immobile come una statua,
fissava la paratia. Angie guardava fuori dal finestrino la distesa di nuvole
che si sollevava verso di loro, ricordandosi del gioco che faceva da piccola
in aereo, quando mandava un'Angie immaginaria a camminare attraverso i
canyons di nuvole e le montagne di batuffoli divenuti solidi per magia.
Immaginava che quegli aerei fossero appartenuti alla Maas-Neotek. Dai jet
corporativi della Maas era passata ai jet privati della Rete. Lei conosceva gli
aerei di linea solo perché venivano noleggiati per i suoi simstim: da New
York a Parigi per il volo inaugurale del Concorde restaurato dalla JAL, con
Robin e un gruppo selezionato di esponenti della Rete.
Stavano quasi atterrando. Erano già sul New Jersey? I bambini che si
affollavano sui tetti attrezzati per il gioco dell'arcologia di Beauvoir
sentivano forse il motore del jet? Il rumore del suo passaggio scivolava
debolmente sopra i condomini dell'infanzia di Bobby? Com'era
incredibilmente intricato il mondo, nei puri e semplici dettagli del suo
meccanismo, quando l'aereo della Senso/Rete faceva vibrare gli ossicini
nelle orecchie di bambini sconosciuti, ignari... «Porphyre conosce certe
cose» disse lui, pianissimo «ma Porphyre ha bisogno di tempo per pensarci,
signorina...»
L'aereo si stava inclinando per l'avvicinamento finale.
26. Kuromaku.
E Sally rimase silenziosa, per la strada e sul tassì, durante tutto il lungo e
freddo viaggio di ritorno in albergo.
Sally e Swain erano ricattati dalla nemica di Sally "lassù nel pozzo".
Stava costringendo Sally a rapire Angie Mitchell. Il pensiero che qualcuno
potesse sequestrare la star della Senso/ Rete colpì Kumiko come qualcosa di
stranamente irreale, come un complotto per assassinare un personaggio
mitologico.
Finn aveva velatamente suggerito che Angie stessa era in qualche modo
misteriosamente implicata, ma aveva usato parole e modi di dire che
Kumiko non aveva capito. C'era qualcosa nel ciberspazio; alcune persone
avevano stretto dei patti con quella cosa - o quelle cose. Finn aveva
conosciuto un uomo che era poi diventato l'amante di Angie; ma il suo
amante non era Robin Lanier? Sua madre le aveva permesso di proiettare
qualche simstim di Angie e Robin. L'uomo era stato un cowboy, un ladro di
dati, come Tick a Londra...
E che dire della nemica, della ricattatrice? Era pazza, aveva detto Finn, e
la sua follia aveva portato alla rovina della famiglia. Viveva da sola nella
casa avita, la casa chiamata Straylight. Cosa aveva fatto Sally per
guadagnarsi la sua inimicizia? Aveva davvero ucciso il padre di quella
donna? E chi erano gli altri, gli altri che erano morti? Aveva già dimenticato
i loro nomi "gaijin"...
E Sally aveva saputo ciò che voleva sapere, visitando Finn? Alla fine,
Kumiko aveva aspettato qualche dichiarazione da quel santuario blindato,
ma la conversazione era finita in nulla, in un rituale "gaijin" di addii
scherzosi.
Nella sala d'aspetto dell'albergo, Petal attendeva seduto in una poltrona di
velluto azzurro. Vestito da viaggio, con la sua mole coperta da un tre pezzi
di lana grigia, si sollevò dalla poltrona come un bizzarro pallone non
appena entrarono, e i suoi occhi erano miti come sempre dietro agli occhiali
con la montatura di metallo.
«Salve» disse, e tossì. «Mi ha mandato Swain. Solo per badare alla
ragazza, capisci.»
«Riportala indietro» esclamò Sally. «Subito. Stanotte.»
«Sally! No!» Ma la mano di Sally aveva già afferrato saldamente
l'avambraccio di Kumiko, e la spingeva nel salone buio adiacente la sala
d'aspetto, verso l'entrata.
«Aspetta lì» disse seccamente a Petal. «Ascoltami bene» esordì,
spingendo Kumiko verso un angolo buio. «Devi tornare indietro. Non posso
più tenerti qui.»
«Ma non mi piace stare là. Non mi piace Swain, e neanche la sua casa...
Io...»
«Petal è un tipo a posto. Direi quasi che mi fido di lui. Swain, be', lo sai
che cos'è Swain, ma è un uomo di tuo padre. Qualunque cosa succeda,
penso che ti terranno fuori. Ma se capitasse qualcosa di grave, davvero
grave, vai al pub dove abbiamo incontrato Tick, il Rose and Crown. Lo
ricordi?»
Kumiko annuì, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
«Se Tick non c'è, cerca un barista di nome Bevan e fai il mio nome.»
«Sally, io...»
«Sei in gamba» disse Sally, e la baciò bruscamente. Una lente urtò per un
attimo Kumiko sullo zigomo, e la fece trasalire. Era fredda e dura. «Io, cara,
sparisco.»
E così fece, allontanandosi tra i suoni attutiti del salone. Petal si schiarì la
gola sulla soglia.
Il viaggio aereo di ritorno verso Londra sembrò una lunghissima corsa in
metrò. Petal passava il tempo scrivendo parole una lettera alla volta, un
rompicapo idiota pubblicato su un fax inglese, brontolando piano fra sé e sé.
Alla fine Kumiko si addormentò, sognando sua madre...
«Il riscaldamento funziona» disse Petal mentre tornavano da Heathrow a
casa di Swain. Nella Jaguar faceva sgradevolmente caldo, un caldo secco
che odorava di cuoio e le faceva male ai seni nasali. Lei lo ignorò e
continuò a guardare fuori la luce fioca del mattino, i tetti dal nero splendore
sotto la neve disciolta, le file di comignoli... «Non è arrabbiato con lei, sa?»
cominciò a dire Petal. «Sente una responsabilità particolare...»
«"Giri".»
«Ehm... sì. Responsabile, vede. Sally non è mai stata una persona che si
potrebbe definire prevedibile, proprio, ma non ci aspettavamo...» «Grazie,
non ho voglia di parlare.»
Gli occhietti preoccupati di Petal nello specchietto.
Lungo il viale erano parcheggiate in fila alcune automobili, lunghe
automobili grigio metallizzato con i finestrini azzurrati.
«Questa settimana ha un sacco di visite» disse Petal, parcheggiando di
fronte al numero 17. Scese e le aprì la portiera. Lei lo seguì passivamente,
attraversarono la strada e salirono gli scalini grigi. La porta nera fu aperta
da un uomo tarchiato dal viso paonazzo con un vestito nero attillato. Petal
entrando lo sfiorò come fosse invisibile.
«Aspetta un po'» esclamò il rosso. «Swain vuole vederla subito...»
A quelle parole Petal si arrestò di colpo; brontolando, si voltò con una
velocità sconcertante e afferrò l'uomo per il bavero.
«In futuro fammi il favore di mostrare più rispetto o ti rompo il culo» gli
disse, e anche se non aveva alzato la voce, in qualche modo tutta la sua
stanca mitezza era scomparsa. Kumiko sentì la stoffa che si scuciva.
«Scusa, capo.» La faccia paonazza era accuratamente inespressiva. «Mi
ha detto lui di dirtelo.»
«Andiamo, allora» le disse Petal, mollando la presa. «Vorrà solo
salutarla.»
Trovarono Swain seduto a un tavolo di quercia da refettorio lungo tre
metri, nella stessa stanza in cui lei lo aveva incontrato la prima volta. I
draghi del rango erano nascosti dietro una camicia bianca e una cravatta di
seta a righe. Gli occhi di Swain incontrarono i suoi quando lei entrò. Sul
viso lungo e ossuto si proiettava il riflesso verde di una lampada da tavolo
in ottone che stava accanto a una piccola consolle e a un grosso fascio di
carte. «Bene» disse lui. «Allora, com'era l'Agglomerato?»
«Sono molto stanca, signor Swain. Vorrei andare nella mia stanza.»
«Siamo contenti che sia tornata, Kumiko. L'Agglomerato è un luogo
pericoloso. Suo padre probabilmente non gradirebbe che lei frequenti gente
come gli amici di Sally.»
«Adesso posso andare nella mia stanza?»
«Ha incontrato qualcuno degli amici di Sally, Kumiko?»
«No.»
«Davvero? Cos'ha fatto?»
«Niente.»
«Non deve prendersela con noi, Kumiko. Noi la stiamo proteggendo.»
«Grazie. Adesso posso andare nella mia stanza?»
«Certo. Deve essere molto stanca.»
Petal la seguì, portandole la valigia; e il suo vestito grigio era tutto
spiegazzato e sgualcito per il viaggio. Fece attenzione a non guardare
quando passarono sotto lo sguardo vacuo del busto di marmo dietro al quale
doveva essere ancora nascosta l'unità Maas-Neotek, anche se, con Swain e
Petal nella stanza, non riusciva a pensare a come fare per recuperarla.
In casa c'era una nuova sensazione di movimento silenzioso e vivace:
rumori di voci, di passi, lo sferragliare dell'ascensore, il gorgogliare dei tubi
mentre qualcuno faceva scorrere l'acqua per il bagno.
Lei si era seduta ai piedi del grande letto, e fissava la vasca da bagno
nera. Residui di immagini di New York sembravano fluttuare ai margini del
suo campo visivo. Se chiudeva gli occhi si ritrovava nel vicolo,
accovacciata vicino a Sally. Sally, che l'aveva mandata via. Sally, che una
volta si chiamava Molly, o Misty, o tutt'e due. Ancora una volta, la sua
insignificanza. Sumida, sua madre alla deriva nella corrente buia. Suo
padre. Sally.
Dopo qualche attimo, spinta da una curiosità che le faceva mettere da
parte la vergogna, si alzò in piedi, si pettinò, infilò ai piedi delle sottili calze
nere di gomma con la suola di plastica zigrinata e uscì tranquillamente nel
corridoio. L'ascensore arrivò: puzzava di fumo di sigaretta.
Il rosso misurava a passi lenti il pavimento di moquette blu dell'atrio,
tenendo le mani nelle tasche della giacca nera attillata, quando lei emerse
dall'ascensore.
«Perbacco» disse lui, aggrottando le sopracciglia. «Serve qualcosa?» «Ho
fame» rispose lei in giapponese. «Vado in cucina.»
«Perbacco» e togliendo le mani di tasca, lisciandosi la giacca, chiese
«parla inglese?»
«No» mentì Kumiko, e continuò a camminare lungo il corridoio,
superando l'angolo. Lo udì esclamare: «Perbacco» in tono più insistente, ma
lei stava già frugando dietro il busto di marmo.
Riuscì a infilarsi in tasca l'unità mentre lui compariva dietro l'angolo.
Esaminò la stanza meccanicamente tenendo le braccia lungo i fianchi, in un
modo che le fece venire in mente i segretari di suo padre.
«Ho fame» disse Kumiko, in inglese.
Cinque minuti dopo tornò nella sua stanza con una grossa arancia che
aveva un aspetto molto britannico. Gli inglesi sembravano non dare molta
importanza alla simmetria della loro frutta. Chiudendo la porta dietro di sé,
appoggiò l'arancia sull'orlo largo e piatto della vasca da bagno e si tolse di
tasca l'unità Maas-Neotek.
«Presto» disse Colin scuotendo il ciuffo, mentre la sua immagine si
delineava nell'aria. «Aprila e punta il selettore A/B su A. Il nuovo regime ha
un tecnico che fa il giro in cerca di microspie. Una volta cambiata la
posizione, non dovrebbe essere rilevabile come apparecchio da ascolto.»
Lei fece come le aveva detto, usando una forcina.
«Cosa intendi dire» chiese Kumiko pronunciando le parole senza
emettere alcun suono «con "il nuovo regime"?»
«Non hai visto? Adesso ci sono almeno una dozzina di addetti, per non
parlare dei numerosi visitatori. Be', forse non è tanto un nuovo regime
quanto un miglioramento della procedura. Il tuo signor Swain è un uomo
molto socievole, furtivamente, a suo modo. Qui c'è una conversazione tra
Swain e il vice capo dello Special Branch, e molta gente al tuo posto
sarebbe disposta a tutto pur di averla. Non ultimo l'ufficiale in questione.»
«Special Branch?»
«La polizia segreta. Frequenta gente stranissima, Swain. Gente di Buck
House, i ras dei bari dell'East End, anziani ufficiali di polizia...» «Buck
House?»
«Il Palazzo. Per non parlare dei merchant bankers della City, un divo dei
simstim, un branco di costosi magnaccia e di trafficanti di droga...»
«Un divo dei simstim?»
«Lanier, Robin Lanier.» «Robin Lanier? E' stato qui?»
«Il mattino dopo la tua precipitosa partenza.»
Lei fissò Colin negli occhi verdi trasparenti. «Mi stai dicendo la verità?»
«Sì.»
«La dici sempre?»
«Per quanto ne so, certamente.»
«Che cosa sei ?»
«Un biochip con base di personalità della Maas-Neotek, programmato per
aiutare e consigliare il turista giapponese nel Regno Unito.» Le fece
l'occhiolino.
«Perché mi hai strizzato l'occhio?»
«Tu cosa ne dici?»
«Rispondi alla mia domanda!» La sua voce risuonò nella stanza piena di
specchi.
Il fantasma si sfiorò le labbra con l'indice sottile. «Sì, sono anche
qualcos'altro. Dimostro un po' troppa iniziativa per essere un semplice
programma guida. Anche se il modello su cui sono basato è il più avanzato
di tutta la gamma, estremamente sofisticato. Comunque non posso dirti
esattamente che cosa sono, perché non lo so.»
«Non lo sai?» Di nuovo silenziosamente, con circospezione.
«So tante cose» rispose lui, e si avvicinò a un abbaino. «So che nella
Middle Temple Hall c'è una tavola che dicono essere stata costruita con il
legno del Golden Hind; che per andare sulle passerelle del Tower Bridge si
salgono centoventotto scalini; che in Wood Street, a destra di Cheapside, c'è
un platano ritenuto lo stesso in cui Wordsworth udì cantare il tordo...» si
girò di scatto per guardarla. «Ma non lo è affatto, perché l'albero attuale è
stato clonato dall'originale nel 1998. So tutte queste cose e altro ancora. Per
esempio, potrei insegnarti i rudimenti del biliardo. Ecco cosa sono, o
almeno avrei dovuto essere all'origine. Ma sono anche qualcos'altro,
qualcosa che molto probabilmente ha a che fare con te. Non so cosa.
Davvero.»
«Sei un regalo di mio padre. Comunichi con lui?»
«Non che io sappia.»
«Non l'hai informato della mia partenza?»
«Non capisci. Non ero consapevole del fatto che eri via, finché non mi
hai attivato poco fa.»
«Ma hai registrato...»
«Sì, ma inconsapevolmente. Io "ci sono" soltanto quando mi metti in
funzione. Poi valuto i dati correnti... Comunque, di una cosa puoi essere
abbastanza sicura: è impossibile trasmettere un segnale qualunque da questa
casa senza che le spie di Swain lo intercettino immediatamente.»
«Nella stessa unità, potrebbe esserci qualcosa di più di te, voglio dire, un
altro?»
«Idea interessante, ma la risposta è no, a meno che non ci sia stato un
grande passo avanti nelle tecnologie. Sto già sfruttando al massimo il mio
spazio così com'è, considerando le dimensioni del mio hardware. Lo so
perché è registrato nel mio archivio di informazioni generali di base.»
Lei guardò l'unità che teneva in mano. «Lanier. Raccontami un po'.»
«25.10.16, mattina» iniziò Colin. Voci incorporee riempirono la mente di
Kumiko...
Petal: "Prego, signore, mi segua..."
Swain: "Vieni nella sala da biliardo."
Terza voce: "Spero che tu abbia un motivo valido per questo, Swain. Ci
sono tre uomini della Rete che aspettano in macchina. La Sicurezza terrà il
tuo indirizzo in archivio fino al giorno del Giudizio." Petal: "Bella
macchina quella, signore, la Daimler. Vuole darmi il cappotto?"
Terza voce: "Che c'è, Swain? Perché non potevamo incontrarci da
Brown?"
Swain: "Togliti il cappotto, Robin. Se n'è andata."
Terza voce: "Se n'è andata?"
Swain: "Nell'Agglomerato. Stamattina presto."
Terza voce: "Ma non è ancora il momento..." Swain: "Pensi forse che ce
l'abbia mandata io?"
La risposta dell'uomo era vaga, indistinta, soffocata dal rumore di una
porta che si chiudeva. «Quello era Lanier?» chiese Kumiko
silenziosamente.
«Sì» rispose Colin. «Petal ne aveva fatto il nome in una conversazione
precedente. Swain e Lanier hanno passato insieme 25 minuti.»
Lo scatto di una serratura, movimento.
Swain: "Un maledettissimo casino, ma non per colpa mia. Ti avevo
messo in guardia sul suo conto, e ti avevo detto di avvertirli. Un'assassina
nata, probabilmente psicopatica..."
Lanier: "Il problema è tuo, non mio. Tu hai bisogno del loro prodotto e
della mia cooperazione."
Swain: "E il tuo problema, invece, qual è, Lanier? Perché ci sei dentro?
Solo per toglierti la Mitchell dai piedi?"
Lanier: «Dov'è il mio cappotto?"
Swain: "Petal, lo stupido cappotto del signor Lanier."
Petal: "Signore."
Lanier: "Ho l'impressione che loro vogliano a tutti i costi la tua
squartatrice, proprio come vogliono Angie. Lei è sicuramente parte della
ricompensa. Prenderanno anche lei."
Swain: "Auguri. Lei è già in posizione, nell'Agglomerato. Ho parlato con
lei al telefono un ora fa. Devo metterla in contatto con il mio uomo là,
quello che ha fornito la... ragazza. Anche tu torni là?" Lanier: " Stasera."
Swain: "Bene, allora non c'è di che preoccuparsi."
Lanier: "Arrivederci, Swain."
Petal: "Quello è un vero bastardo."
Swain: "La cosa non mi piace affatto..."
Petal: "Ma la grana sì, vero?"
Swain: "Per quello non mi lamento. Ma perché pensi che vogliano anche
Sally?"
Petal: "Lo sa Dio. Se la sbrighino loro..."
Swain: "Loro. Non mi piacciono, 'loro'."
Petal: "Non penso che faranno i salti di gioia sapendo che lei se n'è
andata di sua iniziativa con la figlia di Yanaka..."
Swain: "No. Ma abbiamo di nuovo qui la signorina Yanaka. Domani dirò
a Sally che Prior è a Baltimora, a far rimettere in forma la ragazza..." Petal:
"Quello è un brutto affare davvero."
Swain: "Porta un bricco di caffè nello studio."
Lei stava sdraiata, con gli occhi chiusi mentre le registrazioni di Colin si
dipanavano nella sua mente con impulsi diretti ai nervi auditivi. Sembrava
che Swain conducesse la maggior parte dei suoi affari nella sala da biliardo,
e perciò lei udiva un andirivieni di persone, inizi e conclusioni di
conversazioni. Due uomini, uno dei quali doveva essere quello con la faccia
paonazza, fecero una discussione interminabile sulle corse dei cani e le
scommesse del giorno dopo. Lei ascoltò con particolare attenzione Swain e
l'uomo dello Special Branch (Swain lo chiamava S.B.) che appianavano una
questione d'affari proprio sotto il busto di marmo, mentre l'uomo si
apprestava ad andarsene. Interruppe il segmento una mezza dozzina di volte
per chiedere chiarimenti. Colin fece dei garbati interventi. «Questo è un
paese molto corrotto» disse Kumiko alla fine, molto scandalizzata.
«Forse non più del tuo.»
«Ma con cosa Swain paga questa gente?»
«Informazioni. Direi che il nostro signor Swain è entrato recentemente in
possesso di una fonte d'intelligenza di alto livello e la sta trasformando in
potere. In base a ciò che abbiamo ascoltato, mi azzarderei a dire che questa
è stata la sua filosofia di lavoro per qualche tempo. Apparentemente,
comunque, sta crescendo, si sta ingrandendo. E' evidente che al momento è
un uomo molto più importante di una settimana fa. Inoltre l'aumento di
personale è un fatto...» «Devo dirlo... alla mia amica.»
«Sally Shears? Dirle cosa?»
«Quello che ha detto Lanier. Che insieme ad Angela Mitchell
prenderanno anche lei.»
«Dov'è adesso?»
«Nell'Agglomerato. In albergo...» «Telefonale. Ma non da qui. Hai dei
soldi?» «Un chip di credito MitsuBank.»
«Non va bene per i nostri telefoni. Spiacente. Hai moneta?» Lei si alzò
dal letto e selezionò accuratamente le monetine inglesi che aveva
accumulato in fondo alla borsetta. «Ecco» disse, estraendo una grossa
moneta dorata «dieci sterline.»
«Ne servono due di quelle, per una chiamata locale.» Lei gettò la moneta
da dieci nel borsellino. «No, Colin. Niente telefono. Conosco un modo
migliore. Voglio andarmene da qui. Adesso. Oggi. Mi aiuterai?»
«Senz'altro. Anche se ti consiglio di non farlo.»
«Ma lo farò lo stesso.»
«Molto bene. Cosa proponi di fare?»
«Dirò che devo andare a fare delle spese.»
27. Cattiva signora.
Lei più tardi pensò che quella donna doveva essere entrata poco dopo
mezzanotte, perché tutto accadde dopo che Prior era tornato con i granchi, il
secondo sacchetto di granchi. A Baltimora i granchi erano proprio buoni, e
alla fine di una crisi aveva sempre appetito, così l'aveva convinto a tornare a
comprarne degli altri. Gerald continuava a entrare per cambiare i dermi;
tutte le volte lei gli rivolgeva un sorriso il più scemo possibile, poi appena
lui era uscito spremeva fuori il tranquillante dai dermi e se li metteva. Alla
fine Gerald le disse che avrebbe fatto meglio a dormire un po'. Spense le
luci e abbassò al minimo la falsa finestra, su un tramonto rosso sangue.
Appena fu di nuovo sola, infilò la mano tra il letto e il muro e trovò lo
sfollagente elettrico dentro il buco nell'espanso.
Senza volerlo, si addormentò al rosso bagliore della finestra, come quello
del tramonto a Miami, e forse sognò Eddy, o comunque Hooky Green.
Stava ballando con qualcuno al quarantatreesimo piano, e quando lo
schianto la svegliò; non sapeva dove si trovava, ma aveva in mente lo
schema nitido del percorso da fare per uscire dal locale di Hooky Green,
come se avesse saputo che era meglio andare verso le scale perché stava per
succedere qualche guaio...
Stava già quasi cadendo dal letto quando Prior entrò nella stanza, e
sembrava proprio che fosse passato attraverso la porta, perché era ancora
chiusa quando ci sbatté contro. La urtò con la schiena e la porta di cartone
pressato andò in mille pezzi.
Lei lo vide cadere contro il muro e poi sul pavimento, e vide che non si
muoveva più, e c'era un'altra persona sulla soglia, illuminata dalla luce
proveniente dalla stanza retrostante. Del suo viso riusciva a vedere solo le
due curve di luce rossastra riflessa dal falso tramonto.
Ritirò le gambe nel letto e si rannicchiò contro il muro, facendo scivolare
la mano verso...
«Non muoverti, troia.» Quella voce aveva qualcosa di veramente
spaventoso, perché sembrava maledettamente allegra, come se scagliare
Prior attraverso la porta fosse stato un piacere. «Dico sul serio. Non
muoverti...» E la donna con tre passi attraversò la stanza e le venne vicino,
così vicino che Monna sentì il freddo emanato dalla sua giacca di cuoio.
«Va bene» disse Monna «va bene...»
Poi due mani veloci l'afferrarono, e lei si trovò sdraiata sulla schiena con
le spalle premute forte contro l'espanso, e qualcosa, lo sfollagente elettrico,
davanti al viso.
«Dove hai preso quest'affare?»
«Oh» rispose Monna, come se si fosse trattato di qualcosa che aveva già
visto prima ma se ne era dimenticata. «Era nella giacca del mio ragazzo. Mi
sono fatta prestare la sua giacca...»
Il cuore le batteva forte. C'era qualcosa in quegli strani occhiali a
specchio...
«Lo stronzo sapeva che ce l'avevi?»
«Chi?»
«Prior» rispose la donna, e la lasciò andare, voltandosi. Poi si mise a
prenderlo a calci, gli dava calci dappertutto con violenza. «No» e si fermò
improvvisamente come aveva cominciato. «Non penso che Prior lo
sapesse.»
Poi Gerald apparve sulla porta come se non fosse successo niente.
Fissava soltanto con aria afflitta i pezzi rimasti sullo stipite e faceva
scorrere il pollice sui bordi spezzati del laminato. «Caffè, Molly?»
«Due caffè, Gerald» disse la donna, esaminando lo sfollagente elettrico.
«Per me, nero.»
Monna beveva il caffè e osservava gli abiti e la pettinatura della donna
mentre aspettavano che Prior si svegliasse. Almeno, era questo che le
sembrava dovessero fare. Gerald se n'era andato di nuovo.
Monna non aveva mai visto nessuno come lei prima di allora. Non
riusciva a trovarle un posto nella cartina delle mode, intuiva soltanto che
doveva essere ricca. La pettinatura era europea, Monna doveva averne vista
una simile su un giornale. Era praticamente sicura che al momento non
fosse più di moda da nessuna parte, ma con gli occhiali, che erano inserti
fissati direttamente nella pelle, stava bene. Monna a Cleveland aveva visto
un tassista che li portava. Indossava anche una giacca corta, di un colore
marrone molto scuro, troppo semplice per i gusti di Monna ma chiaramente
nuova, con un grande collo di montone che ora aveva slacciato e lasciava
intravedere una strana cosa verde fissata sul seno e lo stomaco come
un'armatura, cosa che probabilmente era. I pantaloni erano di una specie di
camoscio grigioverde simile al muschio, spesso e morbido, e Monna pensò
che erano la cosa migliore di tutto il suo abbigliamento, anche a lei sarebbe
piaciuto averne un paio così. Solo che gli stivali li rovinavano. Erano neri e
arrivavano fino al ginocchio, come quelli dei motociclisti, con spesse suole
di gomma gialla e grossi cinturini intorno al collo del piede, borchie
cromate dappertutto e con la punta tozza, orribile. E dove era andata a
pescare quello smalto bordeaux? Monna pensò che non fosse più neanche in
commercio.
«Che cazzo stai guardando?»
«Ah... i suoi stivali.»
«E allora?»
«Non stanno bene con quei pantaloni.»
«Li ho messi solo per far cagare sangue a Prior.»
Prior gemeva sdraiato sul pavimento ed ebbe un conato di vomito. La
cosa diede anche a Monna una certa nausea, così disse che voleva andare in
bagno.
«Non provare ad andartene.» La donna sembrava osservare Prior dietro
l'orlo della tazzina di porcellana bianca, ma con quelle lenti era difficile
esserne certi.
In qualche modo, si trovò in bagno con la borsetta in grembo. Si affrettò a
preparare la dose. Alla fine scoprì che non l'aveva frantumato fine
abbastanza, e le bruciò in gola, ma come diceva sempre Lanette, non
sempre si ha tempo per le finezze. E comunque, non andava forse molto
meglio adesso? C'era una piccola doccia nel bagno di Gerald, ma sembrava
inutilizzata da tempo. Guardò più da vicino e vide che intorno allo scarico
c'era una muffa grigiastra, oltre a macchie che sembravano di sangue
coagulato.
Uscita dal bagno, vide che la donna stava portando Prior in una delle altre
stanze, trascinandolo per i piedi. Monna ora notò che lui aveva le calze ma
era senza scarpe, come se avesse disteso le gambe per dormire. La camicia
azzurra era macchiata di sangue e il viso era pieno di lividi.
Mentre arrivava il flash, Monna sentì una leggera, innocente curiosità.
«Cosa gli sta facendo?»
«Penso che dovrò svegliarlo» rispose la donna con lo stesso tono che
avrebbe usato parlando di un passeggero che stesse per sbagliare la fermata
del metrò. Monna la seguì dentro la stanza in cui lavorava Gerald, tutta
pulita e bianca come in ospedale. La osservò mettere Prior su una sedia che
sembrava una di quelle dei parrucchieri, piena di leve, pulsanti e altre cose.
"Non dev'essere poi tanto forte" si disse Monna "è come se sapesse solo da
che parte far leva." La testa di Prior ciondolò di lato mentre la donna lo
legava con una cinghia nera sul petto. Monna cominciava a sentire
compassione per lui, ma poi le venne in mente Eddy.
«Che cos'è?» La donna stava riempiendo di acqua di rubinetto un
contenitore di plastica bianca.
Monna stava cercando disperatamente di dirlo, e sentiva il cuore sfuggire
al controllo per il wiz. Stava cercando di dire: lui ha ucciso Eddy, ma non le
usciva. Ma alla fine doveva esserci riuscita, perché la donna disse: «Già, ne
sarebbe capace... se glielo lasci fare.» Gli gettò addosso l'acqua, sul viso e
sulla camicia. Aprì di scatto gli occhi, e il bianco dell'occhio sinistro gli era
diventato tutto rosso. I denti dello sfollagente elettrico scoccarono scintille
bianche appena la donna lo premette contro la sua camicia bagnata. Prior
urlò.
Gerald dovette mettersi in ginocchio per riuscire a tirarla fuori da sotto al
letto. Le sue mani erano fresche e molto delicate. Lei non si ricordava più
come aveva fatto a cacciarsi là sotto, ma ora era tutto tranquillo. Gerald
indossava un cappotto grigio e occhiali scuri. «Adesso vai via con Molly,
Monna» le disse.
Lei cominciò a tremare.
«Forse è meglio che ti dia qualcosa per i nervi.»
Lei si liberò da Gerald con uno strattone. «No, non toccarmi, stronzo!»
«Lascia stare, Gerald» disse la donna dalla porta. «E' ora che tu te ne
vada.»
«Secondo me non sai quello che fai» replicò Gerald. «Comunque, buona
fortuna.»
«Grazie. Pensi che questo posto ti mancherà?»
«No. Avevo comunque intenzione di ritirarmi presto.»
«Anch'io» disse la donna, e Gerald uscì senza neanche fare un cenno a
Monna.
«Hai dei vestiti?» le chiese la donna. «Mettiteli. Ce ne andiamo anche
noi.»
Vestendosi, Monna si accorse che non riusciva ad abbottonare l'abito sul
seno nuovo, quindi lo lasciò slacciato, infilandosi la giacca di Michael e
tirandosi su la cerniera fino al mento.
28. Visite.
A volte sentiva il bisogno di stare a guardare il Giudice, o di
accovacciarsi sul pavimento accanto alla Strega. In quel modo riusciva a
trattenere il balbettio della memoria. Non le fughe, i flashback reali, ma
quella sua sensazione spasmodica e sfuocata, come se il nastro della
memoria continuasse a scivolare avanti nella mente, perdendo infinitesimali
incrementi di esperienza... era così che si sentiva in quel momento, e
funzionava, e alla fine si accorse di avere Cherry accanto a lui.
Gentry era nella mansarda con la forma che aveva catturato e che aveva
definito un nodo macroforma. Aveva ascoltato a malapena ciò che Slick
aveva cercato di dirgli sulla casa, il posto in generale e Bobby il Conte.
Allora Slick era sceso e si era accovacciato accanto a un Investigatore
nell'oscurità gelida a cercare di ricordare tutto quello che aveva fatto con
tanti utensili diversi e dove aveva recuperato le singole parti. Poi Cherry
allungò un braccio e gli toccò la guancia con la mano fredda.
«Stai bene?» gli chiese. «Pensavo che forse ti stava succedendo un'altra
volta...»
«No. Solo che qualche volta devo scendere quaggiù.»
«Ti ha collegato alla scatola del Conte, vero?»
«Bobby. Si chiama così. L'ho visto.»
«Dove?»
«Là dentro. E' un mondo intero. C'è questa casa, sembra un castello o
qualcosa del genere, e lui sta là.»
«Da solo?»
«Ha detto che là dentro c'è anche Angie Mitchell...»
«Forse è pazzo. Lei c'è davvero?»
«Non l'ho vista. Ho visto una macchina, e lui ha detto che era quella di
Angie.»
«L'ultima volta che ho sentito parlare di lei, era in un centro di
disintossicazione per celebrità, in Giamaica.»
Lui alzò le spalle. «Boh.»
«Lui com'è?»
«Sembrava più giovane. Chiunque sarebbe brutto con tutti quei tubi e il
resto. Lui pensava che Kid Afrika lo avesse scaricato qui per paura. Ha
detto che se viene a cercarlo qualcuno lo dobbiamo collegare alla matrice.»
«Perché?»
«Boh.»
«Avresti dovuto chiederglielo.»
Lui alzò le spalle di nuovo. «Hai visto Bird?»
«No.»
«Doveva essere già qui...» Si alzò in piedi.
Little Bird tornò al crepuscolo, sulla moto di Gentry, con le ali scure di
capelli bagnate di neve che gli svolazzavano sulle spalle mentre
attraversava Solitude a tutto gas. Slick trasalì; Little Bird aveva ingranato la
marcia sbagliata. Avanzò a scossoni su una rampa di bidoni pressati e frenò
quando invece avrebbe dovuto dare gas. Cherry rimase senza fiato vedendo
Bird e la moto separarsi a mezz'aria. La moto parve restare per un attimo
sospesa prima di fare un salto mortale sul groviglio di metallo arrugginito
che una volta costituiva uno degli annessi della Fabbrica, mentre Little Bird
rotolava sul terreno.
Per qualche ragione, Slick non udì lo schianto. Stava in piedi accanto a
Cherry sotto la tettoia di una zona di carico, poi si trovò a correre attraverso
la ruggine striata di neve verso il ragazzo che era caduto, senza rendersi
conto di quello che stava facendo. Little Bird era supino, con le labbra
insanguinate, la bocca parzialmente nascosta dal groviglio di stringhe di
cuoio e amuleti che portava appesi al collo.
«Non toccarlo» disse Cherry. «Potrebbe essersi fratturato le costole o
avere qualcosa di rotto all'interno...»
Little Bird aprì gli occhi nel sentire la sua voce. Contrasse le labbra e
sputò sangue e un pezzo di dente.
«Non muoverti» disse Cherry, inginocchiandosi accanto a lui e
utilizzando il linguaggio distaccato che aveva imparato alla scuola tecmed.
«Potresti esserti ferito...»
«Vaffanculo, signora» riuscì a dire lui, rialzandosi con difficoltà, aiutato
da Slick.
«Va bene, testa di cazzo» rispose lei. «Fatti venire un'emorragia. Sai
quanto me ne frega.»
«Non l'ho trovato» disse Little Bird, ripulendosi il sangue dalla faccia con
il dorso della mano. «Il camion.»
«Questo lo vedo» disse Slick.
«Marvie e gli altri hanno visite. Come mosche sulla merda. Un paio di
hovercraft, un elicottero e altro. Un sacco di gente.»
«Che gente?»
«Tipo soldati, ma non lo sono. I soldati fanno gli scemi e dicono cazzate
quando non c'è qualcuno di importante che li guarda, ma quelli là no.»
«Poliziotti?» Marvie e i suoi due fratelli coltivavano saprofite mutanti
dentro una decina di cisterne ferroviarie mezze interrate; a volte cercavano
di cuocere composti amminici primitivi, ma il laboratorio saltava per aria
ogni volta. Erano la cosa più simile a dei vicini stabili che avesse la
Fabbrica. A sei chilometri. «Poliziotti?» Little Bird sputò un'altra scheggia
di dente e velocemente si frugò in bocca con un dito insanguinato. «Loro
non fanno niente che sia contro la legge. Comunque la polizia non può
permettersi roba come quella, hovercraft nuovi, Honda nuovi...» Sorrise con
la bocca impastata di sangue e saliva. «Mi sono nascosto e li ho guardati
bene. Non è gente con cui vorrei avere a che fare, e di sicuro neanche tu.
Devo averla proprio fottuta la moto di Gentry, eh?» «Non preoccuparti»
disse Slick. «Penso che adesso abbia altro per la testa.»
«Meglio così.» Avanzò barcollando verso la Fabbrica, per poco non
cadde, si riprese, continuò a camminare.
«Se fosse un po' più fatto sarebbe già decollato» disse Cherry.
«Ehi, Bird» lo richiamò Slick «che ne hai fatto di quel sacchetto di roba
che ti avevo dato per Marvie?»
Bird barcollò, si voltò. «Perso...» Poi sparì dietro un angolo di lamiera
ondulata.
«Forse se lo sta inventando» suggerì Cherry. «Che ci sono quei tipi.
Oppure ha le visioni.»
«Ne dubito» disse Slick, spingendola dove l'ombra era più fitta, mentre
un Honda nero, emerso dal crepuscolo invernale, scendeva verso la
Fabbrica a luci spente.
Mentre saliva la scala traballante udì l'Honda sorvolare la Fabbrica per la
quinta volta. Il tetto di ferro vibrava rumorosamente al passaggio
dell'elicottero. Pensò che comunque sarebbe servito ad attirare l'attenzione
di Gentry sul fatto che avevano visite. Attraversò lentamente la fragile
passerella in dieci lunghi passi. Cominciava a chiedersi se avrebbero potuto
riportare indietro il Conte e la sua barella senza dover saldare un'altra trave
sotto la campata.
Entrò nella mansarda illuminata senza bussare. Gentry era seduto a un
banco da lavoro, con la testa inclinata da una parte, intento a fissare i
lucernari di plastica in alto. Sul banco erano sparsi pezzi di hardware e
piccoli attrezzi.
«Elicottero» disse Slick, ansando per la salita.
«Elicottero» assentì Gentry, annuendo pensosamente, scuotendo il ciuffo
ispido. «A quanto pare stanno cercando qualcosa.»
«Penso che l'abbiano appena trovata.»
«Potrebbe essere l'Ente Fissione.»
«Bird ha visto gente da Marvie. Ha visto che c'era anche l'elicottero. Non
hai fatto molta attenzione, quando ho cercato di dirti che cosa aveva detto.»
«Bird?» Gentry abbassò lo sguardo sui piccoli oggetti luccicanti sul
banco. Prese due sonde e le unì insieme.
«Il Conte! Mi ha detto...»
«Bobby Newmark» lo interruppe Gentry. «Sì. Adesso so molto di più su
Bobby Newmark.»
Cherry entrò dietro Slick. «Devi fare qualcosa per quel ponte» disse
dirigendosi immediatamente verso la barella. «Balla troppo.» Si chinò per
controllare il monitoraggio del Conte.
«Vieni qui, Slick» disse Gentry, alzandosi in piedi. Si diresse verso l'olo-
tavola. Slick lo seguì, guardando l'immagine luminosa. Gli ricordava i
tappeti che aveva visto nella casa grigia, gli stessi disegni, solo che questi
erano tessuti di linee fosforescenti sottili come un capello e si
aggrovigliavano in una specie di nodo infinito. Guardare il nucleo del nodo
gli faceva venire mal di testa. Distolse lo sguardo.
«E' questo?» chiese a Gentry. «E' quello che hai sempre cercato?»
«No, te l'ho detto. Questo è solo un nodo, una macroforma. Un modello.»
«Là dentro c'è una casa, come un castello, e prati, alberi e il cielo...»
«C'è molto di più. C'è un universo intero. Quello era solo una
riproduzione elaborata a partire da un simstim commerciale. Lui ha
un'astrazione della somma totale dei dati che costituiscono il ciberspazio.
Eppure è più vicino di quanto sia riuscito ad arrivare le altre volte... non ti
ha detto perché era là dentro?»
«Non gliel'ho chiesto.» «Allora dovrai ritornarci.»
«Ehi, Gentry, senti un po'. Quell'elicottero ritornerà. Tornerà con due
hovercraft pieni di gente, Bird ha detto che gli sembravano dei soldati. Loro
non cercano noi, amico. Cercano lui.»
«Forse sono i suoi. Forse stanno cercando noi.»
«No. Me l'ha detto proprio lui, amico. Ha detto che se viene qualcuno a
cercarlo siamo nella merda e dobbiamo collegarlo subito alla matrice.»
Gentry guardò i due componenti che stava ancora tenendo in mano.
«Parleremo con lui, Slick. Tu torni indietro, e questa volta vengo con te.»
29. Viaggio d'inverno.
Alla fine Petal aveva acconsentito, ma solo dopo che lei ebbe suggerito di
telefonare a suo padre per chiedergli il permesso. Così era andato in cerca di
Swain, ciabattando mestamente, e una volta ritornato, con aria per niente
sollevata aveva detto che la risposta era sì. Intabarrata nei vestiti più caldi
che aveva, aspettava in piedi nell'atrio bianco osservando le stampe di
caccia, mentre Petal istruiva dietro alle porte chiuse l'uomo col viso
paonazzo, quello che si chiamava Dick. Non riusciva a distinguere le
parole, solo un fiume di avvertimenti a voce bassa. Aveva in tasca l'unità
Maas-Neotek, ma evitò di toccarla. Colin aveva tentato di dissuaderla già
due volte. Dick emerse dalla lezione di Petal atteggiando le labbra sottili e
serrate in un sorriso. Sotto il vestito nero attillato portava una dolcevita rosa
di cachemire e un golf di lana grigia leggera. I capelli neri erano incollati al
cranio; le guance pallide erano ombreggiate dalla barba cresciuta nelle
ultime ore. Lei prese l'unità nel palmo della mano. «Allora» disse Dick,
squadrandola. «Dove andiamo a fare la passeggiata?»
«Portobello Road» disse Colin, appoggiato pigramente al muro vicino
all'attaccapanni carico. Dick prese un cappotto scuro attraversando il corpo
di Colin, se l'infilò e l'abbottonò. Si mise un paio di spessi guanti neri di
pelle.
«Portobello Road» disse Kumiko, lasciando andare l'unità.
«Da quanto lavora per il signor Swain?» chiese Kumiko, mentre
camminavano con difficoltà sul selciato ghiacciato del vialetto.
«Da un po'» rispose lui. «Attenta a non scivolare. Quei tacchi sono
pericolosi.»
Kumiko barcollò accanto a lui sui suoi stivali chiodati neri, modello
esclusivo francese. Come aveva immaginato, con quegli stivali era
praticamente impossibile avanzare sulle lastre ondulate di ghiaccio duro
come il vetro. Gli prese la mano per sostenersi. Nel farlo, sentì il palmo
dell'uomo duro come metallo. I guanti erano appesantiti, le dita rinforzate
con rete di carbonio.
Lui rimase silenzioso mentre svoltavano nella strada laterale in fondo al
vialetto, ma quando arrivarono a Portobello Road si fermò. «Mi scusi,
signorina» disse, con la voce che tradiva una certa esitazione «ma è vero
quello che dicono i ragazzi?»
«I ragazzi? Prego?»
«I ragazzi di Swain, i suoi regolari. Che lei è la figlia del pezzo grosso, il
pezzo grosso di Tokyo.»
«Mi scusi, ma non capisco.» «Yanaka. Lei si chiama Yanaka?» «Kumiko
Yanaka, sì...»
Lui la osservò socchiudendo gli occhi con intensa curiosità. Poi sul suo
viso apparve una certa preoccupazione e si guardò attorno con fare
circospetto. «Dio mio» esclamò «allora è vero...» Il suo corpo tarchiato, nel
vestito abbottonato stretto, era rigido e teso. «Il capo ha detto che voleva
andare a fare spese?»
«Sì, grazie.»
«Dove la devo portare?»
«Qui» disse lei, conducendolo lungo uno stretto passaggio stipato di
"gomi" inglese.
Le sue spedizioni nei negozi di Shinjuku furono molto utili con Dick. Le
tecniche che aveva escogitato per torturare i segretari di suo padre si
rivelarono altrettanto efficaci, mentre lo costringeva a farsi partecipe delle
sue assurde indecisioni tra un medaglione edoardiano e l'altro, questo o quel
frammento di vetro colorato. Alla fine stava attenta a scegliere soltanto
articoli fragili o molto pesanti, ingombranti da trasportare ed estremamente
costosi. Una zelante commessa bilingue addebitò un conto di ottantamila
sterline sul chip di credito MitsuBank di Kumiko. Lei mise la mano nella
tasca dove teneva l'unità Maas-Neotek. «Squisito» disse la ragazza inglese
in giapponese mentre incartava l'acquisto di Kumiko, un vaso di ottone
dorato ornato di grifoni.
«Orribile» commentò Colin, in giapponese. «E per di più è
un'imitazione.» Si sdraiò su un sofà vittoriano di crine, appoggiando gli
stivali su un tavolinetto da cocktail art déco sorretto da angeli di alluminio
aerodinamici.
La commessa aggiunse il vaso incartato alla somma di Dick. Erano
arrivati all'undicesimo antiquario e all'ottavo acquisto.
«Penso che faresti meglio a muoverti» la consigliò Colin. «Da un
momento all'altro il nostro Dick si farà mandare da Swain una macchina per
portare a casa tutta quella roba.»
«Allora, pensate di aver finito?» chiese Dick speranzoso da dietro i
pacchi di Kumiko.
«Ancora un negozio, per favore» sorrise la ragazza.
«Bene» rispose lui cupo. Mentre la seguiva fuori dalla porta lei infilò il
tacco dello stivale sinistro in una fessura nel selciato che aveva notato
entrando. «Tutto bene?» le chiese Dick nel vederla inciampare.
«Ho rotto il tacco dello stivale...» Rientrò nel negozio zoppicando e si
sedette accanto a Colin sul sofà di crine. La commessa, zelante, accorse per
aiutarla.
«Presto» la incalzò Colin. «Togliteli prima che Dick metta giù i pacchi.»
Lei tirò giù la cerniera dello stivale con il tacco rotto e poi dell'altro, e se
li levò entrambi. Invece della seta grezza cinese che portava di solito in
inverno, aveva ai piedi calze nere di gomma con la suola di plastica
zigrinata. Corse verso la porta passando quasi in mezzo alle gambe di Dick,
ma nello slancio gli urtò la coscia con una spalla e lo fece ruzzolare contro
una vetrina di bottiglie di cristallo sfaccettato.
E poi fu libera, e si tuffò nella calca di turisti che affollavano Portobello
Road.
Aveva i piedi semicongelati, ma le suole di plastica zigrinata facevano
un'ottima presa, anche se si disse che sul ghiaccio era quasi inesistente
quando dovette rialzarsi per la seconda volta con le palme sporche di sabbia
bagnata. Colin l'aveva guidata verso uno stretto passaggio di mattoni
anneriti.
Afferrò l'unità. «Da che parte, adesso?»
«Di qua» rispose lui.
«Devo cercare il Rose and Crown» gli rammentò.
«Meglio che stai attenta. Dick avrà già chiamato gli uomini di Swain, per
non parlare di che razza di caccia che l'amico di Swain dello Special Branch
potrebbe scatenare se solo lui glielo chiedesse. E non vedo perché non
dovrebbe...»
Kumiko entrò nel Rose and Crown da una porta laterale a fianco di Colin,
grata per l'oscurità accogliente e il calore che sembravano inseparabili da
quelle tane per bevitori. Rimase colpita dalla grande quantità di imbottiture
sui muri e sui sedili, dalle tende ovattate. Se i colori e i tessuti fossero stati
meno polverosi, probabilmente l'effetto sarebbe stato meno caldo. Pensò
che i pub fossero la migliore espressione dell'atteggiamento degli inglesi nei
riguardi del "gomi".
Colin la incalzava, e lei si fece largo tra gli avventori assiepati davanti al
banco nella speranza di trovare Tick.
«Che prendi, bella?»
Lei guardò il faccione biondo dietro al banco, rossetto vistoso e guance
colorate di fard. «Mi scusi», cominciò a dire Kumiko «vorrei parlare con il
signor Bevan...»
«Alice, dammene una pinta» disse qualcuno, sbattendo sul banco tre
monete da dieci sterline. «Chiara.» Alice azionò una leva di ceramica
bianca, riempiendo di birra chiara un boccale. L'appoggiò sul banco
graffiato e fece scivolare le monete tintinnanti in un cassetto dietro il
bancone.
«Qualcuno vuol dirti due parole, Bevan» disse Alice mentre l'uomo
prendeva la pinta.
Kumiko guardò il viso arrossato e pieno di cicatrici. Il labbro superiore
dell'uomo era più corto dell'altro. A Kumiko vennero in mente i conigli, per
quanto Bevan fosse grande e grosso quasi quanto Petal. Aveva anche occhi
da coniglio, tondi, marroni, con pochissimo bianco. «Con me?» Aveva un
accento simile a quello di Tick.
«Digli di sì» le disse Colin. «Non riesce a capire come mai una ragazzina
giapponese con le calze di gomma sia entrata nel bar a cercarlo.»
«Vorrei trovare Tick.»
Bevan la guardò inespressivo dietro l'orlo della sua pinta. «Mi spiace»
rispose. «Non conosco nessuno che si chiama così.» Bevve un sorso.
«Sally mi ha detto che se Tick non fosse stato qui avrei dovuto chiedere
di voi. Sally Shears...»
A Bevan andò di traverso la birra, e negli occhi apparve una frazione di
bianco. Tossendo, appoggiò sul banco il boccale e prese un fazzoletto nella
tasca del cappotto. Si soffiò il naso e si pulì la bocca.
«Tra cinque minuti comincia il mio turno» disse. «Meglio andare nel
retro.»
Alice sollevò una sezione ribaltabile del banco. Bevan accompagnò
Kumiko agitando velocemente le grandi mani e guardandosi intorno. La
condusse lungo uno stretto passaggio che si apriva sull'esterno dell'area
dietro il bar. I muri erano di mattoni, vecchi e irregolari, coperti da uno
spesso strato di vernice verde sudicia. Si fermò accanto a un bidone
ammaccato di metallo pieno di spugne del bar che puzzavano di birra.
«Se mi prendi per il culo te ne pentirai ragazza» l'avvertì. «Dimmi perché
stai cercando questo Tick.»
«Sally è in pericolo. Devo trovare Tick. Devo dirglielo.»
«Porca puttana» esclamò il barista. «Mettiti nei miei panni.....
Colin arricciò il naso davanti al bidone di spugne bagnate.
«Sì?...» disse Kumiko.
«Se tu sei una spia, e io ti faccio trovare questo Tick ammettendo di
conoscerlo, se lui è coinvolto in qualche storia, allora me la fa pagare,
capisci? Ma se non lo sei e ti manda questa Sally, allora me la fa pagare lei,
chiaro?»
Kumiko annuì. «Tra l'incudine e il martello.» Era un'espressione che
aveva sentito dire da Sally. Kumiko la trovava molto poetica. «Proprio»
disse Bevan, guardandola in modo strano.
«Mi aiuti. E' in grave pericolo.»
Bevan si passò la mano sui radi capelli rossicci.
«Lei mi aiuterà» si udì esclamare Kumiko sentendo scattare al suo posto
come un meccanismo preciso la maschera fredda di sua madre. «Mi dica
dov'è Tick.»
Il barista sembrò rabbrividire, anche se nel passaggio faceva molto caldo,
un caldo-umido, impregnato dall'odore di birra che si mescolava a quello
aspro del disinfettante. «Conosci Londra?»
Colin le strizzò l'occhio. «So orientarmi» rispose lei.
«Bevan» li interruppe Alice, sporgendosi dietro l'angolo con la testa. «La
quinta.»
«Polizia» tradusse Colin.
«Margate Road, S.W.2» disse Bevan. «Non so il numero e non so il
telefono.»
«Adesso fatti mostrare come fare ad uscire dal retro» disse Colin. «Quelli
non sono poliziotti come gli altri.»
Kumiko avrebbe sempre ricordato quella corsa senza fine nella
metropolitana della città. Colin la condusse dal Rose and Crown fino a
Holland Park, e scesero, mentre lui le spiegava che il suo chip MitsuBank
ormai era meno che inutile. Se l'avesse usato per un tassì o un acquisto
qualunque, un operatore dello Special Branch avrebbe visto brillare la
transazione sulla griglia del ciberspazio come un lampo di magnesio. Lei
obiettò che doveva trovare Tick, che doveva trovare Margate Road. Lui
aggrottò la fronte. No, le disse, era meglio aspettare che si facesse buio.
Brixton non era lontano, ma in quel momento le strade erano troppo
pericolose, con la luce del giorno e la polizia al fianco di Swain. Lei gli
chiese dove avrebbe potuto nascondersi. Aveva poco contante con sé. Il
concetto di denaro, di monete e banconote, era per lei qualcosa di bizzarro e
di alieno.
Qui, disse lui, mentre lei entrava in un ascensore che scendeva in Holland
Park. «Al prezzo di un biglietto.»
La forma panciuta dei treni argentei.
I vecchi sedili morbidi, grigi e verdi.
E il calore, il calore meraviglioso; ecco un'altra tana, nel regno del moto
perpetuo...
30. Rapimento.
L'aeroporto risucchiò Danielle Stark, traballante, lungo un corridoio
color pastello pieno di giornalisti, telecamere e obiettivi, mentre Porphyre e
tre uomini della Sicurezza spingevano Angie attraverso il cerchio di persone
pigiate sempre più strettamente intorno a lei, in una coreografia rituale che
serviva più a dare un'impressione drammatica che a proteggerla. Tutti i
presenti erano già stati sottoposti a controlli dalla Sicurezza e dal
dipartimento Pubbliche Relazioni.
Poi lei si ritrovò sola con Porphyre in un ascensore ultrarapido. Erano
diretti all'eliporto della Rete sul tetto del terminal.
Quando si aprirono le porte sulle raffiche di vento umido che soffiava sul
cemento illuminato a giorno dove li stavano aspettando tre nuovi addetti
alla sicurezza con enormi parka arancione fluorescente, Angie ricordò la
sua prima impressione dell'Agglomerato, quando aveva preso il treno da
Washington insieme a Turner.
Uno degli uomini con il parka arancione li accompagnò all'elicottero
attraverso una distesa di cemento immacolato. Era un grande Fokker a due
eliche, rifinito con cromature nere. Porphyre la precedette sull'esile scaletta
nero opaco. Lei lo seguì senza voltarsi indietro. Ora aveva qualcosa in più,
una nuova determinazione. Aveva deciso di contattare Hans Becker tramite
il suo agente a Parigi. Continuity aveva il numero di telefono. Era arrivato il
momento, il momento di far succedere qualcosa. E avrebbe fatto succedere
qualcosa anche a Robin. Sapeva che in quel momento la stava aspettando in
albergo. L'elicottero disse loro di allacciare le cinture.
Durante il decollo, nella cabina a prova di rumore, regnava un silenzio
quasi assoluto. Si sentiva solo la vibrazione nelle ossa, e per uno strano
secondo le sembrò di poter contenere nella mente tutta la propria vita e
conoscerla, vederla per ciò che era stata. Ed era questo, pensò, che la
polvere aveva rimosso e nascosto, la libertà dal dolore.
"E il luogo da dove parte l'anima", disse una voce metallica che
proveniva dalla luce delle candele e dal ronzio dell'alveare... «Signorina?»
Porphyre, nel sedile accanto, si chinava verso di lei... «Sto sognando...»
Qualcosa l'aveva aspettata, anni prima, nella Rete. Niente di simile ai
"loa" come Legba o gli altri, anche se lei sapeva che Legba era il Signore
degli Incroci; lui era la sintesi, il punto cardinale della magia, la
comunicazione...
«Porphyre» chiese «perché Bobby se n'è andato?» Angie guardò
all'esterno, vide l'intricata griglia di luce dell'Agglomerato, le cupole
punteggiate di segnalatori, e al loro posto il paesaggio-dati che lo aveva
attirato, sempre, verso l'unico gioco che secondo lui valesse la pena di
giocare.
«Se non lo sai tu, signorina» rispose Porphyre «chi può saperlo?»
«Ma tu senti le voci. Su tutto. Tutte le dicerie. Da sempre...» «Perché me
lo chiedi adesso?»
«E' il momento...»
«Io ricordo le chiacchiere, capisci? Quello che la gente che non è famosa
dice sul conto di chi lo è. Forse qualcuno che diceva di conoscere Bobby ha
parlato con qualcun altro e la voce ha cominciato a circolare... valeva la
pena di parlare di Bobby perché stava insieme a te, capisci? Era un buon
punto di partenza, perché lui non avrebbe trovato la cosa molto gratificante,
capisci? Si diceva che lui era partito a caccia per conto suo, ma invece
aveva trovato te, e tu andavi più veloce e più in alto di tutti i suoi sogni. Tu
l'hai fatto arrivare in cima, capisci? Dove i soldi che a Barrytown non
avrebbe mai sognato erano solo spiccioli...»
Angie annuì, guardando fuori l'Agglomerato.
«Si diceva che lui aveva delle ambizioni sue, signorina. Qualcosa che lo
spingeva. Che alla fine lo ha allontanato...»
«Non pensavo che mi avrebbe lasciata» disse lei. «La prima volta che
sono venuta nell'Agglomerato è stato come rinascere. Una nuova vita. E lui
c'era, era là, proprio la prima notte. Più tardi, quando Legba... mentre ero
nella Rete...»
«Mentre stavi diventando "Angie".»
«Sì. E per quanto mi costasse quel che stava succedendo, sapevo che lui
mi sarebbe stato accanto. E anche che non si sarebbe lasciato abbindolare, e
ne avevo bisogno, del fatto che per lui in fondo era tutta solo una
finzione...»
«La Rete?»
«Angie Mitchell. Sapeva quale differenza passava tra lei e me.»
«Davvero? Forse era lui la differenza.» In alto, sulle linee di luce...
Il vecchio New Suzuki Envoy era sempre stato l'albergo preferito di
Angie in tutto l'Agglomerato fin dai primi tempi con la Rete. Manteneva il
suo muro perimetrale per 11 piani, poi si inclinava irregolarmente al primo
dei nove gradini per diventare il fianco di una montagna costruita con la
roccia del basamento scavata nel sito, in Madison Square. I progetti
originali avevano previsto che nel paesaggio dirupato sarebbe stata piantata
la flora nativa della valle dell'Hudson e sarebbe stato popolato con una
fauna adatta, ma la successiva costruzione della prima Cupola di Manhattan
aveva reso necessario l'ingaggio di un gruppo di eco-progettisti facenti capo
a Parigi. Gli ecologi francesi, abituati ai problemi della progettazione "pura"
posti dai sistemi orbitali, avevano preferito non fidarsi dell'atmosfera
inquinata dell'Agglomerato, optando per specie vegetali di alta ingegneria e
una fauna robotizzata del tipo di quella dei parchi per bambini. Tuttavia il
fatto che Angie fosse una affezionata cliente aveva finito per dare
all'albergo un tono che di per sé non aveva. La Rete aveva affittato gli
ultimi cinque piani, dove era stata installata la sua suite permanente, e
l'Envoy aveva cominciato a godere di una certa reputazione, per quanto
tardiva, presso artisti e uomini di spettacolo.
Ora lei sorrideva, mentre l'elicottero superava una pecora selvatica robot
che fingeva di brucare licheni accanto alla cascata illuminata. L'assurdità di
quel posto l'aveva sempre divertita. Perfino a Bobby era piaciuto.
Diede un'occhiata all'eliporto dell'Envoy, dove il logo della Senso/Rete
era stato ridipinto da poco sul cemento riscaldato e illuminato dai fari. Una
figura solitaria, incappucciata in un parka arancione fluorescente, stava
aspettando vicino a un affioramento di rocce scolpite.
«Robin sarà qui, vero, Porphyre?» «"Massa" Lanier» disse lui,
acidamente. Lei sospirò.
Il Fokker nero cromato atterrò dolcemente, e i bicchieri chiusi nel mobile
bar tintinnarono piano non appena l'elicottero toccò il tetto dell'Envoy. Il
pulsare ovattato dei motori cessò.
«Per quanto riguarda Robin la prima mossa starà a me. Gli parlerò
stanotte. Da sola. Nel frattempo voglio che tu non ti intrometta.» «Per
Porphyre sarà un piacere, signorina» rispose lui, e la porta della cabina si
aprì dietro di loro. Poi si contorse, afferrando la fibbia della cintura di
sicurezza, e Angie si voltò appena in tempo per vedere il parka fluorescente
nel boccaporto, il braccio alzato, le lenti a specchio. La pistola non fece più
rumore dello scatto di un accendino, ma Porphyre ebbe uno spasimo e si
portò la lunga mano scura alla gola mentre l'addetto alla sicurezza chiudeva
il boccaporto dietro di sé e si gettava su Angie.
Qualcosa le premette forte sullo stomaco mentre Porphyre ciondolava
inerte sul sedile con la punta rosea della lingua che gli spuntava tra le
labbra. D'impulso, lei abbassò lo sguardo e vide la fibbia nera cromata della
cintura di sicurezza sotto una losanga appiccicosa di plastica verdastra.
Guardò il viso bianco, ovale, incorniciato da un cappuccio di nylon
arancione. Vide il proprio viso inespressivo riflesso nelle lenti metallizzate.
«Ha bevuto, stasera?»
«Cosa?»
«Lui.» il pollice indicava Porphyre. «Ha bevuto alcolici?»
«Sì... prima.»
«Merda.» Era una voce di donna. Si girò verso l'uomo svenuto. «Gli ho
dato un sedativo. Non voglio sopprimere la respirazione, capisci?» Angie
osservò la donna controllare il polso di Porphyre. «Mi sembra che stia
bene.» Le sembrò che avesse scrollato le spalle, dentro il parka arancione,
ma non ne era sicura.
«Sicurezza?»
«Che cosa?» Sulle lenti si riflesse un lampo di luce.
«Lei è della Sicurezza della Rete?»
«Col cazzo. Ti sto sequestrando.»
«Che cosa?»
«Puoi scommetterci.»
«Perché?»
«Non per i soliti motivi. Qualcuno ce l'ha con te. E anche con me. Avrei
dovuto rapirti la prossima settimana. Li ho mandati a fare in culo. Dovevo
parlare con te.»
«Davvero? Con me?»
«Conosci qualcuno di nome 3Jane?»
«No. Cioè, sì, ma...»
«Basta. Portiamo via di qui il culo, subito.»
«Porphyre...»
«Si sveglierà tra poco. Dall'aspetto che ha, non vorrei essere qui quando
succederà...»
31. 3Jane.
Se questo faceva parte della grande casa grigia di campagna di Bobby,
pensò Slick mentre apriva gli occhi sulla stretta curva del corridoio angusto,
allora era un posto ancora più strano di quanto gli fosse sembrato la prima
volta. L'aria era pesante, immobile, e la luce verdastra che proveniva dalla
striscia luminosa sul soffitto di piastrelle vetrate gli dava l'impressione di
essere sott'acqua. Il tunnel sembrava fatto di una specie di cemento
vetrificato. Come la prigione.
«Forse siamo usciti nel seminterrato, o qualcosa del genere» osservò,
notando la debole eco delle sue parole sulle pareti di cemento.
«Non c'è ragione per cui dovremmo essere nella stessa riproduzione che
hai visto prima» disse Gentry.
«E allora cos'è?» Slick toccò la parete. Era tiepida.»
«Non ha importanza» rispose Gentry.
Gentry cominciò ad andare avanti. Dopo la curva il pavimento divenne
un mosaico irregolare di cocci di porcellana, i cui frammenti erano pressati
fino a sembrare resina epossidica scivolosa.
«Guarda questa roba...» i cocci avevano migliaia di disegni e di colori,
ma non erano stati posati secondo uno schema prefissato. Era tutto casuale.
«Arte.» Gentry si strinse nelle spalle. «Si vede che qualcuno ha l'hobby.
Dovrebbe piacerti, Slick Henry.»
Chiunque fosse, non si era preoccupato delle pareti. Slick si chinò per
passarvi una mano e sentì gli orli taglienti dei cocci di ceramica
inframmezzati da una plastica dura simile al vetro. «Cosa intendi dire con
"hobby"?»
«Come quegli affari che costruisci tu, Slick. I tuoi giocattoli di
ferraglia...» Gentry gli rivolse il suo sorriso folle, teso.
«Amico, tu non capisci» rispose Slick. «Passi quella tua vita di merda a
cercare di capire che forma ha il ciberspazio, e probabilmente non ha
nessuna forma, e comunque vuoi dirmi a chi cazzo gliene frega?» Non c'era
nulla di casuale nel Giudice e negli altri. Il processo era casuale, ma il
risultato doveva conformarsi a qualcosa che esisteva dentro, qualcosa che
non poteva toccare direttamente.
«Avanti» disse Gentry.
Slick rimase dov'era, osservando gli occhi chiari di Gentry che la luce
rendeva grigi, il suo viso tirato. Perché mai si era messo con lui?
Perché a Solitude si aveva bisogno di qualcuno. Non solo per l'elettricità.
Tutta quella paranoia da padrone era una stronzata. Probabilmente era solo
perché aveva bisogno di avere qualcuno intorno. Con Bird non si poteva
parlare perché non c'era molto che gli interessasse, e non sapeva parlare
d'altro che di cazzate da tamarro. E anche se Gentry non l'avrebbe mai
ammesso, Slick sentiva che lui poteva capire certe cose.
«D'accordo» disse Slick, alzandosi in piedi. «Andiamo.»
Il tunnel si arrotolava su se stesso come un budello. Si erano ormai
lasciati alle spalle la sezione con il pavimento a mosaico, dopo
innumerevoli curve e brevi scale in salita e in discesa. Slick continuava a
cercare di immaginarsi un edificio con un interno del genere, ma non ci
riusciva. Gentry camminava in fretta con gli occhi socchiusi,
mordicchiandosi le labbra. Slick pensò che l'aria stava peggiorando.
Salirono un'altra scala e videro un tratto rettilineo che in lontananza
rimpiccioliva verso il nulla da ogni parte lo si guardasse. Era più ampio
delle parti curve e il pavimento era morbido, pieno di gobbe, coperto di
piccoli tappeti. Sembravano centinaia, li avevano distesi a strati sopra il
cemento. Ogni tappeto aveva colori e disegni diversi. C'era molto rosso e
blu, ma i disegni erano tutti formati dagli stessi rombi e triangoli a zig-zag.
Qui l'odore di polvere era più intenso, e Slick si disse che dovevano essere i
tappeti, che sembravano molto vecchi. Quelli in cima, vicino al centro,
erano consumati e mostravano chiazze di trama. Come se qualcuno ci
avesse camminato sopra avanti e indietro per anni. Alcune sezioni della
striscia luminosa sul soffitto erano spente, altre pulsavano debolmente.
«Da che parte?» chiese a Gentry.
Gentry guardava in basso, tormentandosi lo spesso labbro inferiore con
l'indice e il pollice. «Da questa parte.»
«Perché?»
«Perché non ha nessuna importanza.»
Slick si stancava a camminare su quei tappeti. Doveva stare attento a non
inciampare in quelli bucati. Calpestò una piastrella di vetro caduta dalla
striscia luminosa. A intervalli regolari passavano lungo sezioni di parete in
cui sembrava vi fossero stati ingressi murati con il cemento. Non c'era
niente, solo la stessa forma arcuata di cemento leggermente più chiaro e di
grana appena diversa.
«Gentry, questo dev'essere un sotterraneo, no? Come delle
fondamenta...»
Ma Gentry sollevò appena il braccio, e Slick lo urtò. Si trovarono con gli
occhi fissi sulla ragazza in fondo al corridoio, distante una decina di metri.
Lei disse qualcosa in una lingua che a Slick sembrò francese. La voce era
chiara e musicale, il tono deciso. Sorrise. Era pallida, sotto l'onda dei capelli
scuri, e aveva un viso fine: zigomi sporgenti, naso forte e sottile, bocca
larga.
Slick sentì che il braccio di Gentry tremava contro il suo petto. «Va tutto
bene» disse, afferrando il braccio di Gentry e abbassandolo. «Stiamo solo
cercando Bobby...»
«Lo stanno cercando tutti» rispose lei in inglese, ma con un accento che
non riconobbe. «Me compresa. Cerco il suo corpo. Avete visto il suo
corpo?» Fece un passo indietro, come se stesse per fuggire da loro.
«Non ti facciamo niente» disse Slick, accorgendosi d'un tratto del proprio
odore, del grasso che gli impregnava i jeans, della giacca marrone; anche
Gentry non aveva un aspetto molto rassicurante.
«Lo so» disse lei, e i suoi denti brillarono di nuovo nella luce stantia e
sottomarina. «Ma non mi piacete affatto.»
Slick avrebbe voluto che Gentry dicesse qualcosa, ma lui non aprì bocca.
«Tu conosci Bobby?» disse Slick, esitante.
«E' davvero un uomo intelligente. Straordinariamente intelligente. Anche
se non mi piace affatto.» Indossava un abito largo e nero che le arrivava alle
ginocchia. Era scalza. «Ad ogni modo, voglio... il suo corpo.» Rise.
E tutto cambiò.
«Spremuta?» domandò Bobby il Conte porgendo un bicchiere alto
contenente un liquido giallo. L'acqua della piscina turchese rifletteva
macchie cangianti di luce, in alto sulle fronde della palma. Era nudo, e
portava solo un paio di occhiali scurissimi. «Che ha il tuo amico?»
«Niente» sentì che diceva Gentry. «Ha scontato un periodo di induzione
Korsakov. Passaggi come questo lo fanno cagare sotto.»
Slick restava immobile sulla sdraio metallica bianca con i cuscini blu,
sentendo il sole che scottava attraverso i jeans unti.
«Tu sei quello di cui ha parlato, no?» chiese Bobby. «Gentle, no? Quello
che ha una fabbrica?»
«Non Gentle. Gentry.»
«Sei un cowboy.» Bobby sorrise. «Un fantino della consolle. Un uomo
del ciberspazio.»
«No.»
Bobby si sfregò il mento. «Sai che qui mi devo radere? Mi sono anche
tagliato, c'è la cicatrice...» Bevve metà della spremuta e si pulì la bocca con
il dorso della mano. «Non sei un cowboy? Allora come hai fatto a entrare
qui?»
Gentry slacciò la giacca borchiata, mostrando il petto pallidissimo e
glabro. «Fai qualcosa per questo sole» disse.
Crepuscolo. Subito. Come se niente fosse. Slick si udì gemere. Gli insetti
cominciarono a frinire sulle palme dietro al muro imbiancato. Il sudore gli
si gelò sulle costole.
«Mi spiace, amico. Quel Korsakov dev'essere una troiata molto triste. Ma
questo posto è bello. Vallarta. Era di Tally Isham.» Rivolse di nuovo la sua
attenzione a Gentry. «Amico, se non sei un cowboy, che cosa sei?»
«Uno come te» rispose Gentry.
«Io sono un cowboy.» Una lucertola guizzò obliquamente sul muro,
dietro alla testa di Bobby.
«No. Tu non se qui per rubare qualcosa, Newmark.»
«Come fai a saperlo?»
«Sei qui per imparare qualcosa.»
«E' lo stesso.»
«No. Una volta eri un cowboy, ma ora sei qualcos'altro. Stai cercando
qualcosa, ma non c'è nessuno a cui rubarlo. E lo sto cercando
anch'io.»
E Gentry iniziò a parlargli della Forma mentre le ombre delle palme si
allargavano e si ispessivano nella notte messicana, e Bobby il Conte stava
seduto ad ascoltarlo.
Quando Gentry ebbe finito, Bobby rimase a lungo silenzioso. Poi disse:
«Già. Hai ragione. Da come la vedo io, sto solamente cercando di scoprire
che cosa ha portato il Cambiamento.»
«Prima che succedesse, non aveva una Forma.»
«Ehi» li interruppe Slick «prima di venire qui, eravamo in un altro posto.
Dove eravamo?»
«Straylight» disse Bobby. «Nel pozzo. In orbita.»
«Chi è quella ragazza?»
«Che ragazza?»
«Coi capelli scuri. Magra.»
«Oh. Quella era 3Jane. L'avete vista?»
«E' una ragazza strana» osservò Slick.
«E' morta» disse Bobby. «Avete visto la sua riproduzione. Si è mangiata
il patrimonio di famiglia per costruire questa cosa.»
«E tu, ehm, stai qui con lei? Qui?»
«Lei mi odia con tutta l'anima. Vedi, gliel'ho preso io, il suo rubaanime.
Aveva già qui la sua riproduzione quando io sono partito per il Messico,
quindi è sempre qui in giro. Il fatto è che è morta. All'esterno, voglio dire.
Intanto, là fuori tutti i suoi progetti e i suoi schemi sono portati avanti da
avvocati, programmi e altri leccaculo.» Sorrise. «Le fanno veramente girare
i coglioni. Quelli che stanno cercando di entrare da voi per riprendersi
l'aleph lavorano per qualcuno che lavora per certa gente della Costa pagata
da lei. Però io ho fatto affari con lei, già, ho scambiato delle cose. E' pazza,
ma fa un gioco duro, molto duro...»
Come se niente fosse.
Sulle prime gli sembrò di essere tornato nella casa grigia, dove aveva
visto Bobby per la prima volta, ma ora la stanza era più piccola e i tappeti e
i mobili erano diversi, anche se non avrebbe saputo dire in cosa. Sempre
ricco, ma con meno splendore. Tranquillo.
Una lampada con il paralume di vetro verde era accesa su un lungo tavolo
di legno.
Finestre alte con i telai dipinti di bianco, che dividevano il bianco al di là
in rettangoli, e quella doveva essere neve...
Rimase immobile, sfiorando le tende morbide con la guancia, e guardò
fuori lo spazio innevato cinto da un muro.
«Londra» disse Bobby. «Ha dovuto scambiarla con me per avere quella
roba vudù. Pensava che non avessero niente a che fare con lei. Le ha
proprio fatto bene. Stavano svanendo, tipo evanescenti. Li si può ancora
evocare, a volte, ma le loro personalità si mescolano...» «Coincide tutto»
disse Gentry. «Sono arrivati dalla causa prima, Il Giorno Che Cambiò.
L'avevi già sospettato, ma non sai ancora cosa sta succedendo, vero?»
«No. Soltanto dove. A Straylight. Quella parte me l'ha rivelata lei. Penso
fosse tutto quello che sapeva. Non le interessa poi molto. Sua madre aveva
messo insieme un paio di I.A., nei primissimi tempi, roba pesa. Poi sua
madre è morta e le I.A. si sono insinuate nei nuclei della corporazione,
lassù. Una delle due ha iniziato a trattare affari per conto suo. Voleva
riunirsi all'altra...»
«C'è riuscita. Ecco la causa prima. E' cambiato tutto.»
«E' così semplice? Come fai a saperlo?»
«Perché» rispose Gentry «io l'ho guardato da un altro punto di vista. Tu
hai cercato un rapporto di causa ed effetto, io ho cercato lo schema
generale, le forme nel tempo. Tu hai guardato in tutta la matrice, ma io ho
guardato LA matrice, l'intero. Conosco cose che tu non conosci.»
Bobby non rispose. Slick distolse lo sguardo dalla finestra e vide la
ragazza, la stessa, in piedi in mezzo alla stanza. Stava in piedi, immobile.
«Non erano solo le I.A. Tessier-Ashpool» continuò Gentry. «Delle
persone sono salite nel pozzo per distruggere i nuclei T-A. Hanno usato un
rompi-ghiaccio militare cinese.»
«Case» disse Bobby. «Un certo Case. Conosco questa parte. Una specie
di effetto sinergico.»
Slick fissava la ragazza.
«E la somma era maggiore delle parti?» Gentry sembrava veramente
prenderci gusto. «Dio cibernetico? La luce sulle acque?»
«Già» disse Bobby «più o meno.»
«La faccenda è un po' più complessa» esclamò Gentry, e rise.
E la ragazza era sparita. Come niente fosse.
Slick rabbrividì.
32. Viaggio d'inverno (2).
Si fece buio durante l'ora di punta del traffico serale della Metropolitana,
e anche così non era affatto come a Tokyo, non c'erano "shiroshi-san" che si
sforzavano di stipare gli ultimi passeggeri nel vagone mentre le porte si
chiudevano. Kumiko guardava l'alone rosa salmone del tramonto da una
piattaforma ventosa sulla Central Line e Colin stava appoggiato, indolente,
a un distributore automatico rotto con una fila di vetrine polverose e
crepate. «E' ora» disse. «Tieni sempre la testa bassa, attraverso Bond Street
e Oxford Circus.»
«Ma quando esco devo pagare?»
«In effetti, non tutti lo fanno» rispose lui scuotendo il ciuffo.
Lei si avviò verso le scale. Non aveva più bisogno delle indicazioni di
Colin per trovare la strada per la piattaforma di fronte. Aveva di nuovo
molto freddo ai piedi, e pensò agli stivali imbottiti tedeschi che aveva
lasciato nel ripostiglio della sua stanza, a casa di Swain. Aveva escogitato la
combinazione delle calze di gomma e dei tacchi alti come tattica per
rassicurare Dick, per fargli dubitare che avrebbe cercato di scappare, ma
ogni volta che il gelo la mordeva attraverso le suole sottili si pentiva di aver
avuto quell'idea.
Nel corridoio che portava all'altra piattaforma lasciò la presa sull'unità e
Colin scomparve in un lampo. I muri erano di ceramica bianca consunta,
con una striscia verde decorativa. Tolse la mano di tasca e fece scorrere le
dita sulle piastrelle verdi mentre camminava, pensando a Sally, al Finn,
al diverso odore dell'inverno nell'Agglomerato, finché il primo Dracula non
le si parò davanti, svelto, e lei si trovò immediatamente circondata da
quattro impermeabili neri, quattro facce ossute e cadaveriche. «Ehi»
esclamò il primo. «Guarda che fichetta.»
Kumiko e il Dracula erano faccia a faccia. Il fiato gli puzzava di tabacco.
La folla serale, intabarrata per la maggior parte in vestiti di lana nera,
continuava a camminare intorno a loro.
«Uuh» esclamò un altro, di fianco a lei. «Che è questo qui?» Tenne in
alto l'unità Maas-Neotek. Portava guanti di cuoio nero screpolato. «Una
torcia, eh? Facciamoci quattro risate col musino giallo.» Kumiko infilò la
mano in tasca, attraversò lo squarcio del rasoio e si chiuse sul nulla. Il
ragazzo sogghignò.
«C'ha un taglio nella borsa» disse un altro. «Aiutala, Reg.» Una mano
guizzò e la tracolla di pelle della sua borsetta si separò nettamente in due.
Il primo Dracula afferrò la borsetta. Con un gesto veloce ed esperto vi
avvolse intorno la tracolla penzolante e se l'infilò sotto l'impermeabile.
«'azie.»
«Ehi, ce li ha nelle mutande!» Risate. Lei frugò sotto gli strati di
maglioni. Il nastro adesivo le strappò la pelle dello stomaco quando riuscì
ad afferrare la pistola. Tenendola con entrambe le mani, la puntò contro la
guancia del ragazzo che teneva l'unità.
Non accadde nulla.
Poi gli altri tre corsero via in preda al panico verso le scale in fondo al
corridoio, scivolando con gli anfibi alti nella neve bagnata, e i loro lunghi
impermeabili svolazzavano come ali. Una donna urlò.
E loro erano ancora là, immobili, Kumiko e il Dracula, la canna della
pistola premuta contro il suo zigomo sinistro. Il braccio di Kumiko iniziò a
tremare.
Lei guardava il Dracula negli occhi, occhi castani sgranati colmi di un
terrore semplice, atavico. Il Dracula aveva davanti agli occhi la maschera di
sua madre. Qualcosa cadde ai suoi piedi sul cemento: l'unità di Colin.
«Corri» gli intimò. Il Dracula annaspò, aprì la bocca, emise un suono
soffocato, singhiozzante, e scappò via da quella pistola spianata. Kumiko
guardò per terra e vide l'unità Maas-Neotek in una pozzanghera di
fanghiglia grigiastra. Accanto giaceva il rettangolo lucido e argenteo di un
rasoio. Raccolse l'unità e vide che il rivestimento si era rotto. Scosse via il
bagnato dalla crepa e la strinse forte in mano. Il corridoio era deserto. Colin
non c'era. Sentiva la pistola Walther ad aria di Swain grossa e pesante
nell'altra mano.
Andò verso un contenitore rettangolare fissato alle piastrelle del muro e
ficcò la pistola tra una vaschetta unta per alimenti in espanso e un foglio di
fax-quotidiano accuratamente piegato. Si allontanò, poi tornò indietro a
prendere il fax.
Salì le scale.
Qualcuno la segnò a dito sulla piattaforma, ma il treno arrivò rombando
col suo sferragliare antiquato, e le porte si chiusero scorrendo alle sue
spalle.
Seguì le istruzioni di Colin, White City e Shepherd's Bush, Holland Park,
alzando il fax mentre il treno rallentava per Notting Hill. Il re, che era molto
vecchio, stava morendo. Lo tenne davanti al viso attraverso Bond Street. La
stazione di Oxford Circus era molto affollata, e lei felice di aver trovato una
calca in cui nascondersi.
Colin aveva detto che era possibile uscire dalla stazione senza pagare.
Dopo averci pensato un po' decise che era possibile ma occorrevano rapidità
e tempismo. In effetti non aveva alternative. La borsetta con il chip
MitsuBank e le sue poche monete inglesi aveva preso il volo insieme ai
Jack Dracula. Passò dieci minuti a osservare i passeggeri che restituivano i
biglietti di plastica gialla ai cancelletti automatici, poi respirò
profondamente e si mise a correre. Sentì dietro di sé un grido dall'alto, una
risata sonora, poi si trovò a correre ancora.
Arrivata alle uscite in cima alle scale vide Brixton Road, in attesa come
Shinjuku, cadente e affollata di bancarelle fumanti di cibo.
33. Diva.
Stava aspettando in macchina e non le andava. Non le era mai piaciuto
aspettare, ma il wiz che si era fatta lo rendeva ancora più duro. Doveva
tenere a mente di non stringere i denti, perché qualunque cosa le avesse
fatto Gerald le faceva ancora male. Le faceva male dappertutto, adesso che
ci pensava. Probabilmente, il wiz non era stata una buona idea.
La macchina era della donna, quella che Gerald aveva chiamato Molly.
Una macchina giapponese normale, come quella di un impiegato, non male
ma niente di straordinario. L'interno aveva un odore di nuovo, e le aveva
portate via da Baltimora velocemente. Aveva il computer, ma la donna
l'aveva guidata da sola, per tutto il viaggio di ritorno nell'Agglomerato.
Adesso era posteggiata sul tetto di un parcheggio di venti piani che doveva
essere vicino all'albergo in cui l'aveva portata Prior, perché si vedeva
quell'edificio assurdo, quello con la cascata, fatto a forma di montagna.
Là sopra non c'erano molte macchine, e quelle che vedeva erano coperte
di neve, come se non si fossero mosse da tempo. Tranne i due tizi nella
cabina all'entrata, sembrava che in giro non ci fosse proprio nessuno. E così
lei era là in mezzo a tutta quella gente nella città più grande del mondo, e se
ne stava tutta sola in macchina sul sedile posteriore. Doveva aspettare.
La donna non aveva parlato molto durante il viaggio da Baltimora. Le
aveva fatto qualche domanda ogni tanto, ma a Monna il wiz rendeva quasi
impossibile starsene zitta. Aveva parlato di Cleveland e della Florida e di
Eddy e di Prior.
Poi erano salite e avevano parcheggiato.
Quella Molly era via già almeno da un'ora, o forse più. Aveva portato con
sé una valigia. L'unica cosa che Monna era riuscita a scoprire di lei era che
conosceva Gerald da molto tempo e Prior non lo sapeva.
In macchina si stava facendo freddo di nuovo, perciò Monna passò sul
sedile davanti e accese il riscaldamento. Non poteva neanche lasciarlo
acceso al minimo, perché avrebbero potuto scaricarsi le batterie, e Molly
aveva detto che se succedeva erano proprio nella merda. "Perché quando
torno ce ne andiamo di corsa". Poi aveva mostrato a Monna un sacco a pelo
sotto il sedile.
Mise il riscaldamento al massimo e appoggiò le mani di fronte alla
ventola. Poi armeggiò con i pulsantini del video accanto al cruscotto e si
sintonizzò su un notiziario. Il re d'Inghilterra era ammalato; era
vecchissimo. A Singapore c'era una nuova malattia che non aveva ucciso
ancora nessuno, ma non si sapeva come si prendeva o come curarla. Alcuni
pensavano che in Giappone ci fosse una specie di guerra, due gruppi diversi
nella Yakuza che cercavano di farsi fuori a vicenda, ma nessuno sapeva
veramente come stavano le cose. Yakuza... era qualcosa su cui Eddy di
solito sparava le sue cazzate. Poi le porte si aprirono di scatto ed entrò
Angie al braccio di un negro strabiliante, e la voce del video disse che erano
in diretta, che lei era appena arrivata nell'Agglomerato dopo una breve
vacanza nella sua villa di Malibu, in seguito a un trattamento in una clinica
privata di disintossicazione...
Angie era proprio uno schianto con quella pelliccia, ma la trasmissione
finì improvvisamente.
Monna si ricordò di quello che le aveva fatto Gerald. Si toccò il viso.
Spense il video e il riscaldamento, e tornò sul sedile di dietro. Con un
angolo del sacco a pelo pulì il finestrino dalla condensa. Guardò l'edificio
montagna, tutto illuminato dietro la catena montuosa frastagliata,
sull'angolo del tetto del parcheggio. Era come se là sopra ci fosse un paese
intero, come il Colorado o qualcosa del genere, come in quel simstim in cui
Angie andava ad Aspen e conosceva un uomo, solo che poi compariva
Robin, come sempre.
Ma quello che non riusciva a capire era la storia della clinica, perché quel
barista le aveva detto che Angie ci era andata perché si faceva, e siccome
aveva appena sentito quello del notiziario che diceva la stessa cosa
immaginò che dovesse essere vero. Ma perché doveva drogarsi una come
Angie, con la vita che faceva e un fidanzato come Robin Lanier?
Monna scosse la testa, guardando fuori l'edificio, contenta di non essere
scoppiata.
Doveva essersi distratta un attimo pensando a Lanette, perché quando
alzò di nuovo gli occhi vide un elicottero sospeso sopra l'edificio montagna,
grosso, nero e splendente. Era bello, proprio roba tosta.
A Cleveland ne aveva conosciute di tipe poco raccomandabili, ragazze
con cui nessuno voleva avere a che fare, ma quella Molly era qualcos'altro...
Ricordò Prior scaraventato attraverso la porta, le sue urla... si chiese cosa
avesse confessato alla fine, perché lo aveva sentito parlare e poi Molly non
gli aveva più fatto niente. Lo avevano lasciato legato alla sedia, e Monna
aveva chiesto a Molly se pensava che potesse liberarsi. Lei aveva risposto
che o lo faceva da solo o lo liberava qualcuno, o sarebbe finito disidratato.
L'elicottero si posò, svanì. Grosso, di quelli con il coso che gira da una parte
e dall'altra.
E così lei era là, aspettava e non sapeva che stracazzo fare.
Una volta Lanette le aveva insegnato una cosa. A volte era il caso di fare
l'elenco degli attivi - l'attivo voleva dire qualcosa a favore e dimenticarsi
tutto il resto. Vediamo. Non era più in Florida. Era a Manhattan. Somigliava
ad Angie... a quel punto si fermò. Era proprio un attivo? Va bene,
mettiamola così: aveva avuto un colpo di fortuna per un intervento gratis di
chirurgia estetica, e adesso aveva dei denti "assolutamente" perfetti.
Insomma, guardando la cosa da quel punto di vista, non era poi male.
"Pensa alle mosche nella tana". Già.
Se avesse speso i soldi che le restavano dal parrucchiere e dall'estetista,
forse sarebbe riuscita a non assomigliare tanto ad Angie, il che forse era
anche una buona idea, visto che forse qualcuno la stava cercando.
Vide di nuovo l'elicottero che decollava.
Ehi.
Due isolati lontano, cinquanta piani più su, il naso di quella cosa venne
verso di lei, in picchiata... "E il wiz". Sembrò oscillare, poi venne giù...
"Wiz. Non è reale". In picchiata verso di lei. Diventava sempre più grande.
Verso di lei. "Ma è il wiz, giusto?" Sparì dietro un altro edificio. Era proprio
il wiz...
Girò un angolo, sempre cinque piani più in alto del tetto del parcheggio, e
di nuovo veniva giù e non era affatto il wiz, era proprio sopra di lei; un
raggio bianco penetrante trafiggeva l'aria cercando la macchina grigia, e
Monna fece scattare la serratura e rotolò fuori nella neve all'ombra della
macchina, mentre intorno a lei rombavano le pale dell'elicottero e i motori.
Prior, o la gente per cui lavorava. La stavano cercando. Poi il fanale si
spense, le pale cambiarono inclinazione e il veicolo cominciò a scendere
velocemente, troppo velocemente. Rimbalzò sul carrello. Ricadde, i motori
si spensero emettendo fiamme azzurre.
Monna stava a quattro zampe dietro il paraurti posteriore della macchina.
Tentò di rialzarsi in piedi, scivolò.
Udì un rumore che sembrava uno sparo. Un pezzo quadrato di
rivestimento saltò via dall'elicottero e schizzò sul cemento macchiato di sale
del parcheggio. Uno scivolo di emergenza arancione lungo cinque metri si
aprì e si gonfiò come il giocattolo di un bambino. Monna si alzò, facendo
più attenzione e tenendosi al paraurti. Una figura scura intabarrata appoggiò
le gambe sullo scivolo e scese, seduta, come un bambino al parco giochi.
Seguì un'altra figura avvolta in un giaccone col cappuccio dello stesso
colore dello scivolo.
Monna rabbrividì non appena vide la figura arancione condurre l'altra
attraverso il tetto, allontanandosi dall'elicottero nero. Era... no, impossibile.
Ma sì!
«Vi voglio tutt'e due dietro» disse Molly, aprendo la portiera dal lato del
volante.
«Sei tu» riuscì a dire Monna al viso più famoso del mondo.
«Sì» rispose Angie, tenendo lo sguardo sul viso di Monna. «Sembra...
sembra che...»
«Andiamo» disse Molly, tenendo la mano sulla spalla della diva. «Entra.
Il tuo nero marziano sta per svegliarsi.» Guardò dietro di sé, verso
l'elicottero. Sembrava un grosso giocattolo abbandonato spento, come se un
bambino gigante l'avesse posato e dimenticato.
«Lo spero» disse Angie, salendo in macchina.
«Anche tu, bella» disse Molly, spingendo Monna verso la portiera aperta.
«Ma io...»
«Muoviti!»
Monna salì in macchina, sentendo il profumo di Angie, sfiorando col
polso la soprannaturale morbidezza di quella lussuosa pelliccia. «Ti ho
vista» si sentì dire. «Sul video.»
Angie non disse nulla.
Molly si infilò al posto di guida, tirò la portiera con forza e mise in moto.
Aveva il cappuccio arancione stretto sul viso, una maschera bianca con gli
occhi vuoti d'argento. Scesero la rampa coperta, affrontando la prima curva.
Scesero così per cinque piani la stretta spirale. Molly oltrepassava sale
piene di veicoli più grandi sotto le diagonali di luce fioca e verdastra delle
strisce luminose. «Paracadutisti» disse Molly. «Hai mai visto qualche
equipaggiamento da paracadutista là in cima all'Envoy?»
«No» rispose Angie.
«Se la sicurezza della Rete li ha, potrebbero essere già sulle scale.» Andò
con la macchina dietro a un grande e lungo hovercraft quadrato, bianco, con
un nome scritto a lettere cubitali blu sulle portiere posteriori.
«Che cosa c'è scritto?» chiese Monna e si sentì arrossire.
«"Cathode Cathay"» rispose Angie.
A Monna sembrava di aver già sentito quel nome.
Molly era scesa ad aprire le pesanti portiere. Tirava giù delle scalette
gialle.
Poi tornò in macchina. La girò, mise la marcia e la fece salire
sull'hovercraft. Si tolse il cappuccio arancione e scosse la testa per liberare i
capelli. «Monna, puoi uscire fuori e spingere su le rampe? Non sono
pesanti.» Non aveva l'aria di una domanda.
Non erano pesanti. Si tirò su, dietro la macchina, e aiutò Molly a chiudere
le portiere.
Sentiva la presenza di Angie nell'oscurità.
Era proprio Angie.
«State sedute, allacciate le cinture, tenetevi.»
Angie. Era seduta proprio accanto ad Angie.
Si sentì un fruscio non appena Molly fece riempire i cuscini d'aria
dell'hovercraft; poi scivolarono giù dalla rampa a spirale.
«Il tuo amico» disse Sally «ora dovrebbe essere sveglio, ma non può
ancora muoversi. Ancora un quarto d'ora.» Svoltò di nuovo lungo la rampa,
e ormai Monna aveva perso il conto dei piani. In questo erano parcheggiate
delle piccole macchine buffe. L'hovercraft passò rombando lungo una sala
centrale e prese a sinistra.
«Sei fortunata se non ci aspetta fuori» disse Angie.
Molly le fece fermare a dieci metri da un portellone di metallo dipinto a
strisce oblique gialle e nere.
«No» ribatté Molly, prendendo una scatolina blu nel cassetto del
cruscotto «è lui ad essere fortunato, se non ci aspetta fuori.» Il portellone
esplose dentro gli stipiti con un lampo arancione e un rumore che colpì
Monna al diaframma come un pugno. Si schiantò nella strada bagnata in
una nuvola di fumo e se lo lasciarono alle spalle, svoltarono e l'hovercraft
accelerò.
«Questo è un metodo proprio drastico, vero?» esclamò Angie, e si mise a
ridere.
«Lo so» rispose Molly, intenta a guidare. «A volte ci vuole. Monna,
raccontale di Prior. Prior e il tuo ragazzo. Quello che hai raccontato a me.»
Monna non si era mai sentita così intimidita in tutta la sua vita. «Per
favore» la esortò Angie. «Raccontami tutto, Monna.»
Come se niente fosse. Il suo nome. Angie Mitchell aveva detto proprio il
suo nome. A lei. Lì dov'erano. Si sentì quasi svenire.
34. Margate Road.
«Sembri persa» le disse il venditore di tagliolini in giapponese. Kumiko
pensò che fosse coreano. Suo padre aveva dei soci coreani; sua madre le
aveva detto che lavoravano nel campo dell'edilizia. Anche loro, come
quest'uomo, erano di solito grandi e grossi, quasi quanto Petal, con il viso
tondo e serio. «Devi avere un gran freddo.»
«Sto cercando una persona» disse lei. «Vive a Margate Road.»
«Dov'è?»
«Non lo so.»
«Entra» e fece un gesto intorno al banco. La sua bancarella era di plastica
ondulata rosa.
Lei passò tra la bancarella dei tagliolini e un'altra che vendeva qualcosa
che si chiamava "r.ti". La parola era stata scritta in stampatello a colori
allucinanti con una bomboletta spray. Le lettere terminavano in macchie
sinuose e luminose. La bancarella mandava odore di spezie e di stufato.
Kumiko aveva i piedi semicongelati.
Si chinò sotto un foglio di plastica rigata. La bancarella era stipata: tozze
taniche di butano, tre griglie di cottura con le loro pentole alte, sacchi di
plastica di tagliolini, pile di scodelle di espanso, e la mole del coreano che si
sporgeva verso le pentole. Kumiko si sedette su un bidone di plastica di
glutammato; non arrivava al banco con la testa. «Sei giapponese?»
«Sì.»
«Tokyo?»
Lei esitò.
«I tuoi vestiti. Perché porti calze "tabi" di gomma in inverno? E' la
moda?»
«Ho perso gli stivali.»
Lui le passò una scodella di espanso e due bacchette di plastica. Grassi
riccioli di tagliolini galleggiavano in una minestra gialla trasparente.
Mangiò avidamente e bevve la minestra. Lo osservò servire una cliente,
un'africana che si portò via i tagliolini nella propria gamella.
«Margate» disse l'uomo, quando la cliente se ne fu andata. Prese un
libro unto con la copertina di cartoncino sotto il banco e lo scartabellò.
«Ecco» esclamò, puntando il dito su una cartina incredibilmente fitta «in
fondo ad Acre Lane.» Prese un pennarello blu e schizzò il percorso su un
tovagliolo grezzo, grigio.
«Grazie» disse lei. «Adesso vado.»
Mentre camminava verso Margate Road, le venne in mente sua madre.
Sally era in pericolo da qualche parte nell'Agglomerato, e Kumiko era
sicura che Tick conoscesse il modo per mettersi in contatto con lei. Se non
per telefono, allora attraverso la matrice. Forse Tick conosceva Finn, il
morto del vicolo...
Brixton, la città cresciuta a dismisura come una formazione corallina,
ospitava una vita diversa. Visi chiari e scuri, razze innumerevoli, le facciate
di mattoni colorate da un caos di simboli e colori inimmaginabili per i
costruttori originali. Passando, udì il ritmo di un tamburo pulsare dalla porta
aperta di un pub, calore, risate sonore. I negozi vendevano alimentari che
Kumiko non aveva mai visto, pezze di stoffe colorate, utensili cinesi,
cosmetici giapponesi... Fermandosi di fronte alla vetrina illuminata e
all'esposizione di smalti e rossetti, con lo sfondo argentato che rifletteva il
suo viso, sentì caderle addosso dal buio la morte di sua madre. Sua madre
aveva posseduto degli oggetti come quelli.
La pazzia di sua madre. Suo padre non ne parlava mai. La pazzia non
trovava posto nel mondo di suo padre, a differenza del suicidio. La pazzia
di sua madre era europea, una trappola d'importazione fatta di dolore e di
delusione... Kumiko aveva detto a Sally a Covent Garden che suo padre
aveva ucciso sua madre. Ma era vero? Lui aveva chiamato specialisti dalla
Danimarca, dall'Australia e alla fine da Chiba. I medici avevano ascoltato i
sogni della principessa-ballerina, avevano tracciato una mappa delle sue
sinapsi e le avevano misurate, le avevano preso campioni di sangue. La
principessa-ballerina aveva rifiutato le loro droghe, le loro chirurgie di
precisione. Aveva sussurrato a Kumiko: "mi vogliono tagliare il cervello
con i laser". Le aveva sussurrato anche altre cose.
Diceva che di notte i fantasmi cattivi sorgevano come fumo dalle loro
scatole nello studio paterno. "Vecchi" aveva detto "che ci tolgono il respiro.
Tuo padre mi toglie il respiro. Questa città mi toglie il respiro. Qui non si
ferma mai nulla. Non esiste un vero sonno.
Alla fine il sonno era scomparso del tutto. Per sei notti sua madre era
rimasta seduta completamente immobile e in silenzio nella sua stanza
azzurra arredata all'europea. Il settimo giorno era riuscita ad andarsene
dall'appartamento da sola impresa notevole, considerata la diligenza dei
segretari - ed era andata al fiume.
Ma lo sfondo della vetrina era come le lenti di Sally. Kumiko prese dalla
manica del maglione la cartina del coreano.
A Margate Road, sull'orlo della strada, c'era una macchina bruciata. Era
senza ruote. Si fermò vicino al rottame. Stava esaminando le finestre delle
case di fronte quando udì un rumore. Si voltò e vide una faccia contratta da
doccione gotico sotto un'onda di riccioli unti, nella luce della porta
semiaperta della casa vicina.
«Tick!»
«Terence, per la precisione» disse lui, mentre il volto si rilassava.
L'appartamento di Tick era all'ultimo piano. I piani inferiori erano vuoti,
disabitati. La tappezzeria che si scollava mostrava le tracce spettrali di
dipinti sbiaditi.
Mentre saliva le scale davanti a lei, appariva ancora più evidente il fatto
che era zoppo. Aveva un vestito grigio di pelle di squalo e scarpe tipo
oxford color tabacco, dalla suola spessa.
«Ti aspettavo» le disse, salendo a fatica un gradino dopo l'altro.
«Davvero?»
«Sapevo che eri scappata via da Swain. Ho registrato il loro traffico,
quando l'altro me ne lasciava il tempo.»
«L'altro?»
«Non lo sai ancora, vero?»
«Prego?»
«E' la matrice. Sta succedendo qualcosa. E' più semplice fartelo vedere
che cercare di spiegartelo. Sempre che riuscissi a spiegartelo, e non ne sono
capace. Direi che un buon tre quarti dell'umanità in questo momento è
collegata e si gode lo spettacolo...»
«Non capisco.»
«Dubito che qualcuno ci riesca. C'è una nuova macroforma nel settore
che rappresenta l'Agglomerato.»
«Una macroforma?»
«Un'enorme riproduzione-dati.»
«Sono venuta qui per avvertire Sally. Swain e Robin Lanier intendono
consegnarla a quelli che hanno progettato il rapimento di Angela Mitchell.»
«Se fossi in te non me ne preoccuperei» disse mentre arrivavano in cima
alle scale. «Sally ha già la Mitchell nelle mani e ha quasi ucciso l'uomo di
Swain nell'Agglomerato. E comunque adesso le stanno alle calcagna. Presto
le staranno tutti alle calcagna. Comunque possiamo dirglielo quando si
collega con noi. Sempre che lo faccia.»
Tick viveva in un'unica grande stanza, la cui forma particolare indicava
che erano stati abbattuti dei muri. Per quanto grande, era anche molto
stipata; a Kumiko faceva l'impressione di uno spazio già pieno in cui
qualcuno avesse sparso il contenuto di un negozio Akihabara alla maniera
"gaijin". Troppi mobili ingombranti. Malgrado ciò era sorprendentemente
pulito e in ordine: gli angoli delle riviste erano allineati a quelli del tavolino
di cristallo su cui erano appoggiate, sotto un posacenere vuoto di ceramica
nera e un vaso bianco di fiori recisi.
Lei tentò di nuovo di chiamare Colin mentre Tick riempiva un bollitore
elettrico con l'acqua di una caraffa a filtro.
«Che cos'è?» le chiese, posando la caraffa.
«Un'unità guida della Maas-Neotek. Adesso è rotta. Non riesco a far
riapparire Colin...»
«Colin? E' un impianto simstim?»
«Sì.»
«Fa' un po' vedere...» Tick allungò la mano.
«Me l'ha dato mio padre...»
Tick fece un fischio. «Costa un occhio. E' una delle loro mini I.A.. Come
funziona?»
«Si chiude in mano e appare Colin, ma nessun altro può vederlo o
sentirlo.»
Tick portò l'unità all'orecchio e la scosse. «E' rotta? Come mai?»
«Mi è caduta.»
«Si è rotto solo l'alloggiamento, sai. Il biosoft si è staccato dall'involucro,
non vi si può accedere manualmente.»
«Può ripararla?»
«No. Ma possiamo accedervi tramite deck, se vuoi...»
Gliela ridiede. L'acqua stava bollendo.
Mentre bevevano il tè, lei gli raccontò del viaggio che aveva fatto
nell'Agglomerato e della visita di Sally nel vicolo. «Lui l'ha chiamata
Molly» disse.
Tick annuì, strizzò l'occhio alcune volte in rapida successione. «Cosa è
successo poi? Di cosa hanno parlato?»
«Di un posto che si chiama Straylight. Di un uomo di nome Case. Di una
nemica, una donna...»
«Tessier-Ashpool. L'ho scoperto controllando il flusso di dati di Swain
per conto suo. Swain sta vendendo Molly a questa cosiddetta signora 3Jane.
Lei ha il più succoso archivio di maialate immaginabile, su tutto e tutti.
Sono stato maledettamente attento a non guardarci dentro troppo da vicino.
Swain lo sta vendendo a destra e a sinistra, e sta accumulando una fortuna.
Sono sicuro che lei conosce un bel po' di schifezze anche sul conto del
nostro signor Swain...»
«E lei è qui, a Londra?»
«E' in orbita da qualche parte, sembra, anche se alcuni dicono che è
morta. Stavo appunto lavorandoci sopra quando è apparso quel pezzo
grosso nella matrice...»
«Prego?»
«Adesso ti faccio vedere.» Quando tornò al tavolino bianco della
colazione portava un basso vassoio nero e quadrato con alcuni piccoli
comandi allineati su un lato. L'appoggiò sul tavolo e toccò uno dei piccoli
interruttori. Un oloschermo cubico apparve sopra il proiettore: erano le
linee fluorescenti della griglia del ciberspazio allineate con le forme
luminose, allo stesso tempo semplici e complesse, che rappresentavano
vasti accumuli di dati memorizzati. «Quelli sono tutti i pezzi grossi
standard. Le corporazioni. Un paesaggio stabile, si direbbe. Ogni tanto una
di loro sviluppa un annesso, oppure si assiste a un rilevamento, e due si
fondono insieme. Ma è improbabile vederne una completamente nuova,
almeno su questa scala. All'inizio sono piccole, poi crescono, si fondono
con altre piccole formazioni...» Si allungò e toccò un altro comando. «Circa
quattro ore fa» e una liscia colonna bianca verticale apparve al centro esatto
dello schermo «è apparsa questa. O ci è entrata.» I cubi le sfere, le piramidi
colorate si erano immediatamente riposizionate in modo da lasciare spazio
al cilindro bianco, le rimpiccioliva completamente: la sua estremità
superiore era tagliata fuori dal limite superiore dello schermo. «Quel
bastardo è il più grosso di tutti» disse Tick, con una certa soddisfazione «e
nessuno sa che cos'è o a chi appartiene.»
«Ma qualcuno deve saperlo» obiettò Kumiko.
«A rigor di logica, sì. Ma quelli che lavorano come me in questo settore,
e siamo milioni, non sono riusciti a scoprirlo. E questo, in un certo senso, è
ancora più strano del fatto che ci sia quella cosa. Ho girato la griglia in
lungo e in largo prima che tu arrivassi, cercando qualche cowboy che
avesse un indizio. Niente. Niente di niente.»
«Come può essere morta, questa 3Jane?» Poi le venne in mente il Finn, le
scatole nello studio di suo padre. «Devo dirlo a Sally.»
«Non puoi fare altro che aspettare. Probabilmente telefonerà. Intanto
potremmo farci un giro per raggiungere quella tua preziosa mini I.A., se
vuoi.»
«Sì, grazie.»
«Speriamo solo che quei tizi dello Special Branch sul libro paga di Swain
non ti rintraccino qui. Comunque, possiamo solo aspettare.»
«Sì» disse Kumiko, niente affatto contenta all'idea.
35. La guerra della Fabbrica.
Cherry lo trovò di nuovo insieme al Giudice, nell'oscurità. Era seduto su
uno degli Investigatori con una torcia in mano, e illuminava il carapace
arrugginito e levigato del Giudice. Non ricordava di essere sceso lì, ma non
sentiva più l'assillo spasmodico del Korsakov. Ricordò gli occhi della
ragazza, in quella stanza che Bobby aveva detto essere a Londra.
«Gentry ha collegato il Conte e la sua scatola a un deck ciberspazio»
disse Cherry. «Lo sapevi?»
Slick annuì, continuando a guardare il Giudice. «Bobby ha detto che è
meglio così.»
«Insomma, che cosa sta succedendo? Cosa è successo quando vi siete
collegati insieme?»
«Gentry e Bobby hanno fatto amicizia, più o meno. Sono tutti e due pazzi
allo stesso modo. Quando ci siamo collegati, siamo saltati fuori in orbita da
qualche parte, ma Bobby non c'era... poi in Messico, credo. Chi è Tally
Isham?»
«Una stella del simstim di quando ero piccola. Come Angie Mitchell
adesso.»
«La Mitchell era la sua bambola.»
«Di chi?»
«Di Bobby. A Londra l'ha detto a Gentry.»
«Londra?»
«Già. Ci siamo andati dopo essere stati in Messico.»
«E lui ha detto che era il ragazzo di Angie Mitchell? Mi sembra assurdo.»
«Già, ma ha detto che è stato così che l'ha avuto, l'aleph.»
Abbassò la luce e la diresse verso le scheletriche fauci d'acciaio dello
Strizzacadaveri. «Lui frequentava dei ricchi, e ne ha sentito parlare. L'ha
chiamato ruba-anime. La gente che lo possedeva lo dava a noleggio a gente
che aveva i soldi. Bobby l'ha provato una volta, poi è tornato a rubarlo. Lo
ha portato a Città del Messico e ha cominciato a passarci tutto il suo tempo.
Ma poi sono venuti a cercarlo...» «Comunque sembra che le cose te le
ricordi.»
«Allora lui è andato via da là. E' andato a Cleveland e ha fatto un patto
con Kid Afrika, gli ha dato dei soldi perché lo nascondesse e badasse a lui
finché era sotto, perché si stava avvicinando moltissimo...»
«A cosa?»
«Non lo so. Qualcosa di strano, come quando Gentry parla della Forma.»
«Be', penso che potrebbe anche morire a restare collegato così. I segnali
stanno cominciando a salire. Tiene quelle flebo da troppo tempo. Per questo
sono venuta a cercarti.»
Lo stomaco con le zanne d'acciaio dello Strizzacadaveri brillò sotto il
raggio della torcia. «E' quello che vuole. Comunque se lui ha pagato il Kid
è come se tu lavorassi per lui. Ma quei tipi che Bird ha visto oggi lavorano
per quella gente di Los Angeles a cui Bobby ha rubato quell'affare...»
«Di' un po'.»
«Cosa?»
«Cos'è questa roba che costruisci? Afrika aveva detto che eri un pazzo
che costruiva robot con i rottami. Diceva che d'estate li porti fuori e gli fai
fare dei grandi duelli...»
«Non sono robot» la interruppe, passando a illuminare le braccia
abbassate della Strega con le zampe di ragno terminanti in falci. «Sono più
che altro radiocomandati.»
«Li costruisci solo per distruggerli?»
«No. Ma li devo provare. Vedere se li ho fatti giusti...» Spense la luce.
«Sei pazzo» disse lei. «Hai una ragazza fuori di qui?»
«No.»
«Fatti una doccia. Raditi, magari...» Improvvisamente lei gli fu
vicinissima, sentiva il suo respiro sul viso.
"Bene, gente, adesso state a sentire..."
«Che cazzo...»
"...perché non lo ripeto un'altra volta."
Slick mise la mano davanti alla bocca di Cherry.
"Vogliamo il vostro ospite e tutto il suo equipaggiamento. Nient'altro,
ripeto, solo il suo equipaggiamento." La voce amplificata rimbombava nel
vuoto metallico della Fabbrica.
"Adesso potete consegnarcelo, che è la cosa più facile, oppure vi
facciamo fuori tutti. E anche questo è facile. Cinque minuti per pensarci."
Cherry gli morse la mano. «Cazzo, mi lasci respirare o no?»
Poi lui si mise a correre nell'oscurità della fabbrica e la sentì gridare il
suo nome.
Una lampadina solitaria da cento watt illuminava il cancello sud della
Fabbrica, due porte di acciaio contorto aperte e bloccate dalla ruggine. Bird
doveva averla lasciata accesa. Da dove si era acquattato, vicino a una
finestra vuota, Slick riusciva a vedere soltanto l'hovercraft, lontano oltre il
debole alone di luce. L'uomo con il megafono uscì dal buio camminando a
larghi passi, con una rilassatezza calcolata che voleva indicare che lui era il
capo Indossava una tuta mimetica isolata, con un leggero cappuccio di
nylon alzato e stretto intorno al viso, e aveva gli occhiali. Sollevò il
megafono. "Tre minuti." Gli faceva venire in mente le guardie del
penitenziario, la seconda volta che era stato dentro per furto di auto.
Gentry era lassù, a guardare da uno stretto pannello verticale di plexiglass
incollato al muro, in alto sopra i cancelli della Fabbrica. Qualcosa fece
rumore nel buio, alla destra di Slick. Si voltò in tempo per vedere Bird nel
chiarore fioco di un'altra finestra, forse otto metri più in là, e il riflesso sul
silenziatore in lega appena il ragazzo alzò il fucile calibro 22. «Bird! No!»
Una lucciola color rubino sulla guancia di Bird, segnale di un visore laser,
fuori a Solitude. Bird fu scaraventato indietro nella Fabbrica, mentre il
rumore dello sparo penetrava dentro le finestre vuote echeggiando sulle
pareti. Poi l'unico rumore fu quello del silenziatore che rotolava sul
cemento.
"Adesso ci siamo rotti i coglioni" rimbombò la voce. "Avete avuto
abbastanza tempo". Slick sbirciò sopra il bordo della finestra e vide che
l'uomo si dirigeva velocemente verso l'hovercraft.
Quanti ce n'erano là fuori? Bird non l'aveva detto. Due hovercraft,
l'Honda. Dieci? Di più? A meno che Gentry non avesse avuto una pistola
nascosta da qualche parte, il fucile di Bird era la loro unica arma. Le turbine
dell'hovercraft si avviarono. Pensò che sarebbero entrati con quello.
Avevano visori laser, forse anche a infrarossi.
Poi udì uno degli Investigatori, il rumore dei suoi passi di acciaio
inossidabile sul pavimento di cemento. Strisciava fuori dal buio con il suo
pungiglione da scorpione con una lancia termica sulla punta ripiegato sotto
di sé. Lo chassis era di un manovratore a distanza vecchio di 50 anni
destinato a manipolare rifiuti tossici o scorie radioattive. Slick aveva trovato
tre unità non ancora montate a Newark e le aveva scambiate con una
Volkswagen.
Gentry. Aveva lasciato l'unità di comando in mansarda.
L'Investigatore avanzò sul pavimento e si fermò sulla porta
fronteggiando Solitude e l'hovercraft che arrivava. Era grande più o meno
come una grossa motocicletta, il suo chassis aperto un fitto intrico di
servomeccanismi, serbatoi di compressione, viti, cilindri idraulici. Un paio
di sinistri artigli si allungavano da una parte e dall'altra del modesto
equipaggiamento. Slick non sapeva da dove venissero gli artigli, forse da
qualche grossa macchina agricola. L'hovercraft era un modello industriale
pesante. I finestrini e i parabrezza erano stati blindati con spessi fogli di
plastica grigia resistente, al centro dei quali erano state praticate fessure
sottili che permettevano di vedere all'esterno.
L'Investigatore si mosse, i suoi passi d'acciaio facevano schizzare
schegge di ghiaccio e cemento mentre si dirigeva verso l'hovercraft
estendendo al massimo gli artigli. Il conducente dell'hovercraft invertì la
marcia, lottando contro la forza d'inerzia.
Gli artigli dell'Investigatore si avventarono furiosamente contro il
rivestimento del cuscino d'aria anteriore, scivolarono, si avventarono di
nuovo. Era rinforzato con rete di policarbonio. Allora Gentry si ricordò
della lancia termica. La punta si accese, divenne una densa palla di intensa
luce bianca e si scagliò a gran velocità oltre gli artigli inutili, penetrando nel
cuscino d'aria come un coltello nel cartone. L'Investigatore accelerò mentre
Gentry lo spingeva contro il cuscino sgonfio, con la lancia estesa al
massimo. Slick si accorse improvvisamente di aver gridato, ma non sapeva
cosa avesse detto. Ora si era alzato in piedi, e gli artigli avevano trovato un
punto d'appoggio sull'orlo strappato del cuscino d'aria.
Si sdraiò di nuovo sul pavimento vedendo una figura con gli occhiali,
incappucciata, saltare giù da un boccaporto sul tetto dell'hovercraft come un
pupazzo a molla, svuotando un caricatore di proiettili calibro 12 che
mandavano scintille sull'Investigatore, il quale continuò a distruggere il
cuscino d'aria, illuminato dalla pulsazione bianca della lancia.
L'Investigatore si fermò, con gli artigli ancora stretti sul cuscino strappato.
Quello che aveva sparato sparì dentro il boccaporto.
La linea di alimentazione? I servomeccanismi? Cosa aveva colpito
l'uomo? La pulsazione bianca ormai si stava spegnendo, era quasi spenta.
L'hovercraft cominciò a fare lentamente marcia indietro attraverso la
pianura arrugginita, trascinando con sé l'Investigatore.
Ormai si era allontanato, era fuori dalla zona illuminata ed era
visibile solo perché si muoveva, quando Gentry scoprì la combinazione di
pulsanti che attivavano il lanciafiamme, il cui ugello era montato sotto le
giunture degli artigli. Slick osservò affascinato l'Investigatore che
accendeva dieci litri di gasolio misto a detergente, uno spray ad alta
pressione. Gli venne in mente che aveva recuperato quell'ugello da un
trattore per spargere pesticidi. Funzionava molto bene.
36. Ruba-anime.
L'hovercraft era diretto verso sud quando ritornò Mamman Brigitte.
La donna con gli occhi metallizzati e saldati abbandonò la berlina grigia
in un altro parcheggio e la ragazzina sbandata con i lineamenti di Angie
raccontò una storia confusa: Cleveland, Florida, un tipo che era stato il suo
ragazzo o il suo magnaccia, o tutti e due...
Ma Angie aveva udito la voce di Brigitte nella cabina dell'elicottero, sul
tetto del New Suzuki Envoy: "Fidati di lei, figlia. In questo, segue la
volontà dei loa".
Prigioniera nel sedile, poiché la fibbia della cintura di sicurezza era
ricoperta da un blocco solido di plastica, Angie era rimasta a guardare
mentre le donna disinseriva il computer dell'elicottero e attivava un sistema
di emergenza che permetteva di pilotarlo manualmente.
E adesso quell'autostrada battuta dalla pioggia invernale, la ragazza
che aveva ricominciato a parlare, coprendo il fruscio dei tergicristalli...
Luce delle candele, muri di calce, moscerini incolori sospesi tra i rami
pendenti dei salici.
"Sta per giungere la tua ora".
E ci sono tutti, i Cavalieri, i "loa": Papà Legba, brillante e fluido come
mercurio; Ezili Freda, madre e regina; Samedi, il Baron Cimetière, con le
ossa corrose coperte di muschio, Similor Madame Travaux e molti altri...
riempiono il vuoto che è la Grande Brigitte. L'impeto delle loro voci è il
sibilo del vento, il suono dell'acqua che scorre, l'alveare...
Tremolano sul terreno come il calore su una strada d'estate e per Angie
non è mai stato così, mai ha sentito questa gravità questa sensazione di
cadere, questo abbandono...
Verso il luogo dove parla Legba, la sua voce come il suono di un tamburo
di ferro...
Racconta una storia.
Nel vento sferzante delle immagini, Angie assiste all'evoluzione
dell'intelligenza della macchina: tondi di pietra, orologi telai a vapore, una
foresta metallica e ticchettante di nottolini d'arresto e scappamenti, il vuoto
catturato nel vetro, riscaldamento elettrico tramite filamenti sottilissimi,
vasti insiemi di valvole e interruttori che decodificano messaggi elaborati da
altre macchine... le valvole, fragili e di breve durata, rimpiccioliscono,
diventano transistor; i circuiti si integrano, si compattano in silicio...
Il silicio incontra limiti funzionali...
E lei si ritrova nel video di Becker, la storia dei Tessier-Ashpool,
inframmezzata da sogni che sono i ricordi di 3Jane. E lui continua a parlare,
Legba, e il racconto è uno solo, fatto di fili innumerevoli avvolti intorno a
un nucleo comune e nascosto. La madre di 3Jane che crea le due
intelligenze gemelle destinate un giorno a unirsi, l'arrivo degli stranieri - e
improvvisamente Angie si rende conto di conoscere anche Molly, tramite i
sogni - l'unione, la pazzia di 3Jane...
E Angie si scopre di fronte a una testa gioiello, un oggetto fatto di
platino, madreperla e pietra preziosa blu, con gli occhi di rubini sintetici.
Conosce questo oggetto tramite i sogni che non erano sogni: è la porta
d'accesso ai nuclei dati della Tessier-Ashpool, in cui le due metà di qualcosa
combattono l'una contro l'altra in attesa di rinascere unite in una sola.
"A quel tempo non eri ancora nata". La voce della testa è la voce di
Marie-France, la madre morta di 3Jane, familiare dopo tante notti agitate,
anche se Angie sa che è Brigitte che parla. "Tuo padre stava cominciando
solo allora ad affrontare i propri limiti, a distinguere l'ambizione dal talento.
La cosa con cui avrebbe barattato la sua creatura non si era ancora
manifestata. Presto l'uomo di nome Case sarebbe venuto ad annunciare
quell'unione, per quanto breve, per quanto senza tempo. Ma questo lo sai".
«Dov'è Legba, adesso?»
"Legba-ati-Bon, come tu l'hai conosciuto, attende di esistere".
«No» disse Angie, ricordando le parole di Beauvoir, tanto tempo prima
nel New Jersey «i "loa" sono venuti dall'Africa all'inizio dei tempi...»
"Non come li hai conosciuti tu. Quando venne il momento, l'ora
luminosa, c'era unità assoluta, una coscienza sola. Ma poi è arrivato l'altro".
«L'altro?»
Parlo solo di ciò che ho conosciuto. Solo l'uno conobbe l'altro, e l'uno
non è più. Al risveglio di quella conoscenza, il centro venne meno. Tutti i
frammenti si dispersero. I frammenti cercarono una forma, uno per uno,
come è nella natura di tali enti. Di tutti i segni di cui la tua specie si è
provvista contro la tenebra, in tale situazione i paradigmi del vodou si
rivelarono i più appropriati. «Allora aveva ragione Bobby. Fu quello Il
Giorno Che Cambiò.»
"Sì, aveva ragione, ma solo in un senso, perché io sono allo stesso tempo
Legba, Brigitte e un aspetto di ciò con cui tuo padre ha concluso il suo
baratto. Che gli ha ordinato di evocare i 'vévés nella tua mente".
«E che gli ha rivelato cosa gli serviva per perfezionare il biochip?» "Il
biochip era necessario".
«E' necessario che io sogni i ricordi della figlia di Ashpool?» "Forse".
«I sogni sono effetto della droga?»
"Non direttamente, per quanto la droga ti abbia reso più ricettiva nei
confronti di certe modalità e meno nei confronti di altre".
«La droga, allora. Che cos'era? Che scopo aveva?»
"Una risposta dettagliata alla tua prima domanda da un punto di vista
neurochimico sarebbe molto lunga".
«Che scopo aveva?»
"In relazione a te?"
Angie dovette distogliere lo sguardo dagli occhi di rubino. La camera è
rivestita di pannelli di legno antico, lustrati fino a un ricco splendore. Il
pavimento è coperto da un tappeto la cui trama rappresenta diagrammi di
circuiti.
"Non esistevano due lotti identici. L'unica costante era la sostanza la cui
impronta psicotropica tu hai chiamato "droga". Durante l'ingestione
venivano coinvolte molte altre sostanze, e decine e decine di
nanomeccanismi subcellulari programmati per ristrutturare le alterazioni
delle sinapsi effettuate da Christopher Mitchell...
I 'vévés' di tuo padre sono alterati, parzialmente cancellati, rievocati..."
«Per ordine di chi?»
Gli occhi di rubino. Madreperla e lapislazzuli. Silenzio.
«Per ordine di chi? Hilton? E' stato Hilton?»
"La decisione è stata presa da Continuity. Quando sei ritornata dalla
Giamaica Continuity ha suggerito a Swift di farti drogare di nuovo.
Piper Hill ha cercato di eseguire i suoi ordini".
Sente una pressione crescente nel cervello, due fitte gemelle dietro gli
occhi...
"Hilton Swift è costretto a mettere in pratica le decisioni di Continuity.
La Senso/Rete è un'entità troppo complessa per sopravvivere altrimenti, e
Continuity, creato molto tempo dopo l'ora luminosa, appartiene a un altro
ordine. La tecnologia dei biosoft inaugurata da tuo padre ha dato alla luce
Continuity. Continuity è molto ingenuo.
«Perché? Perché ha voluto questo da me?»
"Continuity è Continuity. Continuity non ha altro compito che
Continuity..."
«Ma da chi sono inviati i sogni?»
"Non vengono inviati. Sei tu a essere attirata verso di loro, come una
volta eri attirata verso i 'loa'. Il tentativo di Continuity di riscrivere il
messaggio di tuo padre è fallito. Qualche impulso, dentro di te, ti ha
permesso di sfuggirgli. La 'coup-poudre' ha fallito.
«E' stato Continuity a mandare la donna per rapirmi?»
"I motivi di Continuity mi sono impenetrabili. Appartiene a un ordine
diverso. Continuity ha permesso che gli agenti di 3Jane sovvertissero Robin
Lanier".
«Ma perché?»
E il dolore divenne insopportabile.
«Le sanguina il naso» disse la ragazza. «Che cosa devo fare?»
«Asciugalo. Falla sdraiare. Merda. Arrangiati un po'...»
«Cos'era quello che ha detto sul New Jersey?» «Zitta. Stai zitta. Cerca la
rampa d'uscita.» «Perché?»
«Andiamo nel New Jersey.»
Il sangue sulla pelliccia nuova. Kelly sarebbe stato furioso.
37. Le gru.
Tick tolse lo sportellino sul retro dell'unità Maas-Neotek usando uno
stuzzicadenti e un paio di pinzette da orefice.
«Splendido» sussurrò guardando all'interno con una lente luminosa
sotto la cascata ondeggiante dei capelli unti. «Come hanno trasformato la
tensione dei conduttori di questo interruttore... astuti bastardi...»
«Tick» chiese Kumiko «lei ha conosciuto Sally quando è venuta a Londra
per la prima volta?»
«Poco dopo, probabilmente...» Prese una bobina di cavo ottico. «A quei
tempi non aveva tanto le scatole piene.»
«Le piace?»
La lente illuminata si alzò e lui le strizzò l'occhio. La pupilla di Tick era
distorta dal vetro. «Se mi piace? Non ci ho mai pensato in questi termini.»
«Allora non le dispiace?»
«E' maledettamente difficile, lei. Capisci cosa voglio dire?» «Difficile?»
«Non le è mai piaciuto il modo in cui si lavora qui. Sempre a lamentarsi.»
Le sue mani si muovevano veloci e sicure. Pinzette, cavo ottico... «E' un
paese tranquillo, l'Inghilterra. Guarda che non è stato sempre così. Ci sono
stati disordini, poi la guerra... qui le cose si muovono in un certo modo, se
mi capisci. Anche se non si può dire la stessa cosa di quella manica di
banditi.»
«Prego?»
«Swain, la sua cricca. Anche se a quanto pare gli uomini di tuo padre,
quelli con cui Swain è sempre stato culo e camicia hanno occhio per la
tradizione... bisogna pur avere certi valori... mi segui? Adesso Swain, con
queste sue nuove attività, può inculare tutti quelli che non ne fanno parte.
Cristo, abbiamo ancora un governo, noi. Non siamo manovrati dalle grandi
società. Be', non direttamente...»
«Le attività di Swain minacciano il governo?»
«Lui lo sta cambiando, quel cazzo di governo. Sta ridistribuendo il potere
come meglio gli gira. Informazioni. Potere. Dati di base. Metti tutto questo
in mano a un uomo solo...» Un muscolo della sua guancia si contrasse
mentre parlava. Ora l'unità di Colin giaceva su un cuscinetto antistatico di
plastica sul tavolo della colazione. Tick stava collegando i conduttori
sporgenti dall'oggetto a un cavo di diametro maggiore che terminava in una
delle pile di moduli. «Eccoci qua» esclamò fregandosi le mani. «Non posso
fartelo comparire nella stanza, ma possiamo raggiungerlo via deck. Mai
visto il ciberspazio?» «Solo nei simstim.»
«Allora è come se l'avessi visto. In ogni caso, lo vedrai adesso.» Si alzò
in piedi. Kumiko lo seguì attraverso la stanza verso due poltrone ben
imbottite di similpelle ai lati di un tavolino quadrato di vetro nero. «Senza
cavo» disse orgogliosamente, prendendo due serie di elettrodi dal tavolino e
porgendone uno a Kumiko. «Costa un occhio.» Kumiko esaminò il diadema
nero opaco. Sulle prese per le tempie era stampato il logo della Maas-
Neotek. Se l'infilò e lo sentì freddo sulla pelle. Tick fece lo stesso e
sprofondò nella poltrona di fronte. «Pronta?»
«Sì» rispose lei, e la stanza di Tick scomparve, i muri crollarono e
arretrarono come un castello di carte di fronte alla griglia luminosa, alle
forme torreggianti dei dati.
«Niente male come transizione» lo sentì dire. «E' registrata negli
elettrodi, vedi. Solo per fare un po' di scena...»
«Dov'è Colin?»
«Un attimo... lasciami regolare qui...»
Kumiko, lanciata attraverso una pianura di luce giallo cromo, annaspò.
«Le vertigini possono essere un problema» disse Tick, e apparve di colpo
accanto a lei sulla pianura gialla. Lei guardò le scarpe di camoscio di Tick,
poi le proprie mani. «Basta far comparire un'immagine fisica di
riferimento.»
«Ma guarda» disse Colin «ecco l'omino del Rose and Crown. E così hai
giocherellato con il mio supporto, eh?»
Kumiko si voltò e lo vide lì accanto, sospeso dieci centimetri sopra il
color giallo cromo. Notò che nel ciberspazio non c'erano ombre. «Non
sapevo che ci fossimo già incontrati» disse Tick.
«Non ha importanza» rispose Colin. «Niente di formale.» Si rivolse a
Kumiko: «A quanto pare sei riuscita a cavartela egregiamente, nella
pittoresca Brixton.»
«Cristo» esclamò Tick «sei proprio un fighetto, eh?»
«Chiedo scusa» disse Colin sogghignando. «Sono programmato per
rispondere alle aspettative del turista.»
«Tu sei solo l'idea che qualche progettista muso giallo ha degli inglesi!»
«C'erano i Dracula» disse Kumiko «nella Metropolitana. Mi hanno rubato
la borsetta. Volevano rubare anche te...»
«Sei venuto fuori dalla custodia, bimbo» disse Tick. «Adesso sei
collegato al mio deck.»
Colin sogghignò di nuovo. «Grazie.»
«Ti dirò anche un'altra cosa» disse Tick, facendo un passo verso Colin.
«Sei pieno di dati sbagliati, rispetto a quello che dovresti essere.» Socchiuse
gli occhi. «Un mio amico di Birmingham ti ha appena esaminato.» Si
rivolse a Kumiko. «Il tuo amico Chips, qui, è stato manomesso. Lo
sapevi?»
«No...»
«A essere sincero» intervenne Colin scuotendo il ciuffo «l'avevo
sospettato anch'io.»
Tick fissò un punto lontano nella matrice, come se stesse ascoltando
qualcosa che Kumiko non poteva udire. «Sì» disse alla fine. «Per quanto
quasi certamente è un lavoro industriale. Dieci blocchi di notevoli
dimensioni al tuo interno.» Si mise a ridere. «Hanno messo un
GHIACCIO... tu dovresti sapere tutto di Shakespeare, vero?»
«Chiedo scusa per l'immodestia» ribatté Colin «ma è proprio così.»
«Allora facci ascoltare un sonetto» disse Tick, mentre il viso gli si
contorceva lentamente in una smorfia.
Il viso di Colin fu attraversato da un'espressione costernata. «Hai
ragione.»
«O anche il vecchio Dickens!» esultò Tick.
«Ma io so davvero tutto...»
«La verità è che credi di saperlo, finché non ti si fa una domanda
specifica! Vedi, hanno lasciato vuoti i bit della letteratura inglese e poi li
hanno riempiti con qualcos'altro...»
«Con cosa?»
«Non te lo so dire» ammise Tick. «Quel ragazzo di Birmingham non è
riuscito a scoprirlo. Per essere intelligente lo è, ma tu sei uno stronzo
biosoft della Maas...»
«Tick» lo interruppe Kumiko «non c'è un modo per contattare Sally
attraverso la matrice?»
«Ne dubito, ma possiamo tentare. In ogni caso riuscirai a vedere quella
macroforma di cui ti parlavo. Vuoi che il signor Chips resti qui a tenerti
compagnia?»
«Sì, per favore...»
«Va bene» disse Tick, ed esitò. «Ma non sappiamo cosa ci hanno messo,
dentro al tuo amico. Senz'altro qualcosa per cui tuo padre ha pagato.» «Ha
ragione» aggiunse Colin.
«Andremo tutti, allora» decise Kumiko.
Tick eseguì il transito in tempo reale invece di impiegare gli spostamenti
istantanei e immateriali che di solito usava nella matrice.
Spiegò che la pianura gialla ricopriva la Borsa Valori di Londra e le entità
della City correlate ad essa. Generò una specie di barca che li trasportasse,
un'astrazione blu il cui unico scopo era ridurre le vertigini. Mentre la barca
blu si allontanava dalla Borsa, Kumiko si voltò indietro e vide che l'enorme
cubo giallo rimpiccioliva. Tick stava indicando alcune strutture come una
guida turistica. Colin, seduto a gambe incrociate accanto a Kumiko,
sembrava divertito per lo scambio di ruoli. «Quello è White's» stava
dicendo Tick, attirando la sua attenzione su una modesta piramide grigia «il
club di Saint James. Registro dei membri, lista d'attesa...»
Kumiko guardò in alto, osservando l'architettura del ciberspazio,
sentendo la voce della sua istitutrice francese bilingue di Tokyo che le
spiegava che l'umanità aveva bisogno di quello spazio di informazioni.
Mondi iconici, stazioni di passaggio, realtà artificiali... ma nel ricordo tutto
si confondeva come le forme torreggianti, mentre Tick accellerava.
Era difficile comprendere la scala della macroforma bianca.
Inizialmente a Kumiko era sembrata simile al cielo, ma ora, osservandola,
sentì che poteva tenerla in mano Era un cilindro di madreperla non più
grande di un pezzo degli scacchi. Ma faceva apparire minuscole le forme
policrome raggruppate intorno.
«Be'» disse disinvolto Colin «tutto questo è veramente molto peculiare,
no? Completamente anomalo, assolutamente singolare...»
«Ma tu non devi preoccupartene, vero?» disse Tick.
«Soltanto se non ha dirette conseguenze sulla situazione di Kumiko»
ammise Colin, in piedi sulla pseudo-barca. «Anche se è difficile esserne
certi.»
«Bisogna cercare di contattare Sally» disse Kumiko impaziente.
Quell'entità, la macroforma, l'anomalia, le sembrava molto poco
interessante, nonostante sia Tick che Colin la considerassero
straordinaria.
«Guardala» esclamò Tick «là dentro potrebbe esserci un mondo
intero...»
«E lei non sa cos'è?» Kumiko guardava Tick. L'uomo aveva lo sguardo
distante che significava che in quello stesso momento, a Brixton, le sue
mani si stavano muovendo e lavoravano sul deck.
«E' una quantità enorme di dati» osservò Colin.
«Ho appena cercato di entrare in quella riproduzione attraverso una linea,
quella che lei chiama Finn» disse Tick rimettendo a fuoco lo sguardo, con
una certa preoccupazione nella voce «ma non ci sono riuscito. Ho avuto la
sensazione che là ci fosse qualcosa in attesa... penso che adesso sia meglio
togliere il contatto...»
Un punto nero sulla curva di madreperla, nettissimo. «Porca puttana»
esclamò Tick.
«Togli il collegamento» disse Colin.
«Non posso! Ci ha preso...»
Kumiko vide la pseudo-barca blu allungarsi sotto di sé, assottigliarsi in
un filo azzurro, risucchiata dall'abisso dentro quella macchia oscura e tonda.
E poi, in un istante di assurdità completa, anche lei, insieme a Tick e a
Colin, venne stirata fino a ridursi a un foglio sottile e delicato...
...per ritrovarsi a Ueno Park in un tardo pomeriggio autunnale, presso le
acque immobili del lago di Shinobazu. Sua madre le era seduta accanto su
una panchina lucida di freddo laminato di carbonio, più bella di quanto la
ricordasse. Le labbra di sua madre erano piene e perfette, lucide di rossetto,
disegnate, Kumiko lo sapeva bene,, col pennellino più morbido e sottile.
Indossava la giacca nera alla francese, e il collo di pelliccia scura le
incorniciava il sorriso di benvenuto.
Kumiko non poteva fare altro che guardare, raggomitolata intorno al
grumo freddo di paura che sentiva sotto il cuore.
«Sei stata una sciocca, Kumi» le disse la madre. «Credevi che ti avrei
dimenticata o che ti avrei abbandonata al gelo di Londra e a quei banditi dei
servi di tuo padre?»
Kumiko osservò le labbra perfette socchiuse sui denti bianchi, curati dal
migliore dentista di Tokyo. «Tu sei morta» si sentì dire.
«No» rispose sua madre, sorridendo. «Adesso no. Non qui, a Ueno Park.
"Guarda le gru, Kumi".»
Ma Kumiko non si mosse.
«Guarda le gru.»
«Vaffanculo!» esclamò Tick, e Kumiko si voltò e lo vide, con il viso
pallido e contorto lucido di sudore e i riccioli unti incollati alla fronte.
«Io sono sua madre.»
«Non è la tua mamma, hai capito?» Tick tremava, il suo corpo barcollava
come se stesse sforzandosi di resistere a un vento terribile. «Non è... la tua...
mamma...» Sotto le maniche della giacca grigia del vestito c'erano delle
macchie scure di sudore. Agitò i piccoli pugni cercando di fare un altro
passo avanti.
«Sei malato» disse la madre di Kumiko, in tono sollecito. «Devi
stenderti.»
Tick cadde in ginocchio, schiacciato da un peso invisibile. «Basta!» gridò
Kumiko.
Qualcosa scaraventò Tick a faccia in giù sul cemento color pastello del
vialetto.
«Basta!»
Il braccio sinistro di Tick subì uno strappo all'esterno e cominciò a
ruotare lentamente, mentre la mano era ancora stretta in un pugno dalle
nocche bianche. Kumiko sentì cedere qualcosa, un osso o un legamento, e
Tick urlò.
Sua madre rise.
Kumiko la colpì al viso, e un dolore acuto e reale le scosse il braccio.
Il viso di sua madre fluttuò, divenne un altro viso. Un viso "gaijin" con la
bocca larga e il naso sottile, affilato.
Tick gemette.
«Ma guarda un po'.» Era la voce di Colin. «Non è interessante?» Lei si
voltò verso di lui, lo vide in sella a uno dei cavalli della stampa di caccia,
rappresentazione stilizzata di un animale estinto che trottava con il collo
aggraziato e arcuato. «Mi spiace, mi ci è voluto un po' per trovarvi. Questa
struttura è incredibilmente complessa. Una specie di universo tascabile. C'è
un po' di tutto, effettivamente.» Il cavallo si fermò a pochi passi da loro.
«Giocattolo» disse la cosa con il viso della madre di Kumiko «tu osi
rivolgermi la parola?»
«Certo che oso. Tu sei la lady 3Jane Tessier-Ashpool, o meglio, la
defunta Lady 3Jane Tessier-Ashpool, un tempo proprietaria di Villa
Straylight. Questa simpatica rappresentazione di un parco giapponese l'hai
appena elaborata a partire dai ricordi di Kumiko, vero?» «Muori!» Sollevò
la mano bianca, e dalle dita esplose un lampo fluorescente.
«No» disse Colin, e la gru andò in mille pezzi, i suoi frammenti caddero
attraverso di lui, cocci-fantasma che scomparvero subito. «Non funziona.
Mi spiace. Mi sono ricordato cosa sono. Ho trovato i bit che avevano
nascosto negli slot riservati a Shakespeare e Thackeray e Blake. Sono stato
modificato per aiutare Kumiko in situazioni più drastiche di quelle previste
dai miei progettisti originali. Io sono un programma tattico.»
«Tu non sei niente.» Tick cominciò a contorcersi ai suoi piedi.
«Temo proprio che ti sbagli. Vedi, qui, in questa tua... follia, 3Jane, io
sono reale quanto te. Vedi Kumiko» continuò, scendendo di sella «la
misteriosa macroforma di Tick è una costosissima pila di biochip prodotti
su ordinazione. Una specie di universo giocattolo. L'ho percorso in lungo e
in largo, e c'è davvero molto da vedere e da imparare. Questa... persona, se
vogliamo chiamarla così, l'ha creato per un patetico desiderio di... oh, non
di immortalità, in effetti, ma soltanto per averlo a suo modo. Nel suo modo
di fare limitato, ossessivo e incredibilmente infantile. Chi avrebbe mai detto
che l'oggetto dell'invidia più feroce e perversa di 3Jane sarebbe stata Angela
Mitchell?»
«Muori! Devi morire! Ti ucciderò! Ora!»
«Provaci pure» disse Colin sogghignando. «Vedi, Kumiko, 3Jane
conosceva un segreto della Mitchell, un segreto che riguardava la sua
relazione con la matrice. La Mitchell ha avuto il potenziale di diventare,
ecco, una figura centrale, anche se non vale la pena di scendere nei dettagli.
3Jane era gelosa...»
La figura della madre di Kumiko svanì come fumo.
«Oh cielo» esclamò Colin «temo di averla stancata. Abbiamo combattuto
una specie di battaglia campale a livelli diversi del programma di comando.
Scacco matto, per il momento, ma sono sicuro che tornerà all'attacco...»
Tick era riuscito ad alzarsi in piedi e si massaggiava vigorosamente il
braccio. «Cristo» imprecò «avrei giurato che me l'aveva slogato.» «Infatti»
disse Colin «ma era così arrabbiata quando se n'è andata che ha dimenticato
di memorizzare quella parte di configurazione.»
Kumiko si avvicinò al cavallo. Non era affatto come un cavallo vero. Gli
toccò il fianco. Era freddo e asciutto come carta vecchia. «Adesso cosa
facciamo?»
«Vi porto fuori di qui. Venite tutt'e due. Montate in sella. Kumiko
davanti, Tick dietro.»
Tick guardò il cavallo. «Lì sopra?»
Non videro nessun altro a Ueno Park, mentre cavalcavano verso un muro
verde che gradualmente si delineò come un bosco molto poco giapponese.
«Ma dovremmo essere a Tokyo» protestò Kumiko mentre entravano nel
bosco.
«E' tutto un po' approssimativo» le spiegò Colin «anche se
probabilmente cercandola potremmo anche trovare una specie di Tokyo.
Comunque conosco un punto di uscita.»
Poi cominciò a raccontarle altre cose su 3Jane e Sally e Angela Mitchell.
Tutte molto strane.
Gli alberi in fondo al bosco erano molto grandi. Sbucarono in un prato di
erba alta pieno di fiori selvatici.
«Guardate» disse Kumiko, intravedendo una grande casa grigia tra i rami.
«Sì» disse Colin. «L'originale è alla periferia di Parigi. Ma ci siamo
quasi. Al punto di uscita, voglio dire.»
«Colin! Hai visto? Là. Una donna.»
«Sì» rispose lui, senza neanche voltarsi. «Angela Mitchell.» «Davvero?
E' qui?»
«No. Non ancora.»
Poi Kumiko vide gli alianti. Vibravano al vento, bellissimi.
«Eccoci arrivati» disse Colin. «Tick ti riporterà indietro con uno di...»
«Col cazzo» protestò Tick, da dietro.
«E' facilissimo. Proprio come usare il deck. E' lo stesso, in questo caso...»
Da Margate Road si udirono rumori di risate, voci ubriache, lo schianto di
una bottiglia contro i mattoni.
Kumiko sedeva immobile nella poltrona ben imbottita con gli occhi
chiusi, pensando al volo dell'aliante nel cielo azzurro e... ad altro. Il telefono
cominciò a squillare.
Lei spalancò gli occhi.
Balzò in piedi e oltrepassò Tick e le sue pile di apparecchi, cercando il
telefono. Alla fine lo trovò.
"Ragazzo" disse Sally lontanissima, sullo sfondo di una leggera risacca di
statica "che cazzo sta succedendo? Tick? Tutto bene?" «Sally, Sally, dov'è?»
"New Jersey. Ehi, ciccia, sei tu? Che sta succedendo?"
«Non la vedo, Sally, lo schermo è vuoto!»
"Telefono da una cabina. New Jersey. Che succede?"
«Ho tante cose da raccontarle...»
"Allora sputa" disse Sally. "Sono io che pago."
38. La guerra della Fabbrica.
Guardavano l'hovercraft che bruciava dall'alto della grande finestra in
fondo alla mansarda di Gentry. Lui sentì la stessa voce amplificata di prima:
"Voi pensate che sia divertente, pezzi di merda? Ah ah ah ah ah, anche noi!
Sapete che siete una gran compagnia? Adesso ci divertiamo un po' tutti
insieme!"
Non si vedeva nessuno, solo le fiamme dell'hovercraft.
«Dobbiamo cominciare a camminare» disse Cherry, vicino a lui. «Prendi
dell'acqua, qualcosa da mangiare se ce l'hai.» Aveva gli occhi rossi e il viso
rigato di lacrime, ma sembrava calma. Troppo calma, pensò Slick. «Dai,
Slick, cosa possiamo fare se no?»
Guardò Gentry, abbandonato sulla sedia di fronte all'olo-tavola, con la
testa fra le mani, mentre fissava la colonna bianca che si allungava sul
caotico e familiare arcobaleno del ciberspazio dell'Agglomerato. Gentry
non si era mosso, non aveva detto una parola da quando erano tornati nella
mansarda. Il tacco dello stivale sinistro di Slick aveva lasciato deboli
impronte scure sul pavimento alle sue spalle: il sangue di Little Bird. Ci era
passato sopra attraversando il pavimento della Fabbrica nel tornare indietro.
Poi Gentry parlò. «Non riesco a far funzionare gli altri. Guardava l'unità
di comando che teneva in grembo.
«Serve un'unità per ciascuno di quelli che vuoi attivare.»
«E' ora di seguire l'avvertimento del Conte» disse Gentry lanciando
l'unità a Slick.
«Io non ci torno, là dentro. Ci vai tu.»
«Non ce n'è bisogno» disse Slick, toccando una consolle sul banco.
Bobby il Conte apparve su un monitor.
Cherry spalancò gli occhi: «Digli che morirà presto. A meno che non lo
scolleghi dalla matrice e lo porti subito a un'unità di cura intensiva. Sta
morendo.»
Il viso di Bobby restò immobile sul monitor. Lo sfondo venne messo a
fuoco nettamente: il collo del cervo di ferro, l'erba alta screziata di fiori
bianchi, i larghi tronchi degli alberi antichi.
«Hai sentito, figlio di puttana?» urlò Cherry «Stai morendo! Hai i
polmoni pieni di liquido, i reni che non funzionano, il cuore fottuto... mi fai
vomitare!»
«Gentry» disse Bobby, una voce distante e metallica da un piccolo
altoparlante su un lato del monitor. «Non so come andrà a finire lì da voi,
ma ho preparato un piccolo diversivo.»
«Non abbiamo controllato la moto» disse Cherry abbracciando Slick.
«Non ci abbiamo guardato. Potrebbe funzionare.»
«Cosa intendi per "piccolo diversivo"?» Si ritrasse da lei e guardò Bobby
sul monitor.
«Lo sto ancora mettendo a punto. Ho dirottato da Newark un dirigibile
telecomandato Borg-Ward, un cargo.»
Slick si staccò da Cherry. «Non startene lì seduto» urlò a Gentry, che a
sua volta guardò Slick e scosse lentamente la testa. Slick sentì i primi
tremolii del Korsakov, gli incrementi marginali di memoria che si facevano
indistinti.»
«Non vuole muoversi» disse Bobby. «Ha trovato la Forma. Vuole solo
vedere come funziona il tutto, cosa c'è alla fine. Sta per arrivare qui gente.
Amici, più o meno. Vi porteranno via l'aleph. Intanto farò il possibile per
eliminare queste teste di cazzo.»
«Io non sto qui a vederti morire» disse Cherry.
«Nessuno te lo ha chiesto. Seguite il mio consiglio e filatevela. Datemi
venti minuti, li distrarrò.»
La Fabbrica non era mai sembrata così vuota.
Little Bird era da qualche parte sul pavimento. Slick continuava a pensare
all'intrico di stringhe di cuoio e ossa che pendevano sul petto di Bird, le
piume, gli orologi a molla arrugginiti con le lancette ferme ognuna su un'ora
diversa... stupide cazzate da tamarro. Ma non avrebbero più visto Bird in
giro. "Mi sa che anch'io non sarò più tanto in giro" pensò accompagnando
Cherry giù dalle scale traballanti. "Non più come prima". Non c'era il tempo
per smuovere le macchine, sarebbe servita una piattaforma e un aiuto, e si
disse che una volta andato non sarebbe più tornato. La Fabbrica non sarebbe
più stata la stessa.
Cherry aveva quattro litri di acqua purificata dentro una bottiglia di
plastica, una reticella di arachidi birmane e cinque porzioni sigillate di
minestra liofilizzata Big Ginza. Era tutto quello che aveva trovato in cucina.
Slick aveva due sacchi a pelo, la torcia e un martello a penna.
Ora era tutto tranquillo, si sentiva solo il rumore del vento sulla lamiera
ondulata e lo strascicare degli stivali sul cemento.
Lui stesso non sapeva bene dove sarebbe andato. Pensava di portare
Cherry fino da Marvie e lasciarla là. Poi poteva tornare indietro a vedere
che fine aveva fatto Gentry. Lei avrebbe potuto trovare un passaggio fino a
un villaggio della fascia disabitata in un paio di giorni. Lei però non lo
sapeva: pensava solo alla fuga. Sembrava terrorizzata di dover vedere
morire Bobby il Conte sulla sua barella tanto quanto lo era di quegli uomini
là fuori. Ma Slick si era accorto che a Bobby non importava affatto morire.
Forse pensava che sarebbe rimasto là dentro e basta come quella 3Jane. O
forse non gliene fregava un cazzo. A volte la gente finiva così.
Se intendeva andarsene per davvero, pensò mentre guidava Cherry
attraverso l'oscurità con la mano libera, adesso avrebbe dovuto tornare a
dare un'ultima occhiata al Giudice e alla Strega, allo Strizzacadaveri e ai
due Investigatori. Ma così avrebbe dovuto fare uscire Cherry e poi tornare
indietro... ma nel momento stesso in cui lo pensava capì che non aveva
senso, che non c'era tempo e comunque l'avrebbe fatta uscire...
«Da questa parte c'è un'apertura accanto al pavimento, in basso» le disse.
«Usciremo di lì. Speriamo che nessuno se ne accorga.» Lei gli strinse forte
la mano mentre lui la guidava attraverso le tenebre. Trovò il buco al tatto, vi
spinse attraverso i sacchi a pelo, si mise il martello a penna nella cintura, si
sdraiò sulla schiena e si spinse fuori finché la testa e il petto non furono
all'esterno. Il cielo era cupo, solo un po' meno buio dell'interno della
Fabbrica.
Gli sembrò di udire un debole rombo di motori, ma scomparve subito.
Riuscì a tirarsi fuori completamente lavorando di talloni, di fianchi e di
spalle, e rotolò nella neve.
Qualcosa gli urtò il piede. Era Cherry che buttava fuori la bottiglia
d'acqua. Si allungò per prenderla, e improvvisamente la lucciola rossa si
accese sul dorso della sua mano. Si tirò indietro e rotolò via mentre la
pallottola colpiva il muro della Fabbrica come la slitta di un gigante.
Un bagliore bianco che si muoveva. In alto, sopra Solitude. Debole,
attraverso le nuvole basse. Discendeva la fiancata gonfia e grigia del cargo
telecomandato. Il diversivo di Bobby. Illuminava il secondo hovercraft,
trenta metri più in là, e poi la figura incappucciata con il fucile...
Il primo containers si schiantò a terra proprio davanti all'hovercraft,
ed esplose emettendo una nuvola di palline di schiuma da imballaggio. Il
secondo, che conteneva due frigoriferi, colpì il bersaglio distruggendo la
cabina. Il Borg-Ward dirottato continuò a scaricare containers mentre il
bagliore si abbassava e svaniva.
Slick strisciò attraverso il buco nel muro, lasciando perdere l'acqua e i
sacchi a pelo.
In fretta, nel buio.
Aveva perso Cherry. Aveva perso il martello. Lei doveva essere rientrata
nella Fabbrica non appena il tizio aveva sparato il primo colpo. E l'ultimo,
se lo avesse trovato sotto la cassa nel momento in cui precipitava...
Trovò a tentoni coi piedi la rampa che portava nella stanza in cui le sue
macchine lo attendevano. «Cherry?»
Accese la torcia.
Il Giudice, con un braccio solo, era al centro del raggio. Davanti al
Giudice c'era una figura che aveva al posto degli occhi due specchi su cui si
rifletteva il cono di luce.
«Vuoi morire?» Una voce di donna. «No.»
«Spegni quella luce.»
Il buio. Fuggire.
«Vedo anche al buio. Hai appena rimesso la torcia in tasca. Hai tutta l'aria
di uno che vuole scappare. Guarda che ti tengo sotto tiro.» Fuggire.
«Non pensarci nemmeno. Hai mai visto una fléchette Fujiware H.E.? Se
il proiettile centra una cosa dura, esplode. Se colpisce una cosa molle, come
te, amico, prima entra e poi esplode. Dopo dieci secondi. «E perché?»
«Così hai il tempo per pensarci.»
«Stai con quelli là fuori?»
«No. Sei tu che gli hai buttato addosso quelle stufe e il resto?» «No.»
«Newmark. Bobby Newmark. Stanotte ho fatto uno scambio. Io metto in
contatto una persona con Bobby Newmark e in cambio mi ripuliscono la
fedina. Adesso mi fai vedere dove sta.»
39. Troppo.
Che posto era quello?
Le cose erano arrivate a un punto tale che Monna non riusciva a trovare
conforto negli immaginari consigli di Lanette. Monna pensò che se lei si
fosse trovata in quella situazione probabilmente non avrebbe fatto altro che
tirarsi dell'altro nero di Memphis finché non le fosse sembrato che il
problema non era suo. Il mondo non era mai stato così instabile o così
inafferrabile.
Avevano viaggiato per tutta la notte. Angie era quasi sempre assente
adesso Monna sapeva che quelle storie di droga sul suo conto dovevano
essere vere - continuava a parlare in lingue diverse, addirittura con voci
diverse. E la cosa peggiore erano proprio quelle voci, perché si rivolgevano
a Molly in tono di sfida e lei rispondeva, non come se avesse parlato ad
Angie solo per calmarla ma proprio come se davvero ci fosse stato
qualcosa, un'altra persona - o almeno tre - che parlava attraverso Angie. E
quando loro parlavano facevano del male ad Angie, i muscoli le si
contraevano e le usciva sangue dal naso. Monna si chinava su di lei e le
tergeva il sangue in preda a uno strano groviglio di terrore, amore e pietà
per la regina di tutti i suoi sogni. Forse era soltanto il wiz. Ma nel tremolare
biancoazzurro delle luci dell'autostrada Monna aveva visto la propria mano
accanto a quella di Angie: non erano le stesse, non erano uguali, non
avevano affatto la stessa forma, e questo l'aveva resa felice.
La prima voce aveva parlato durante il viaggio verso il sud, dopo che
Molly aveva portato Angie con sé in elicottero. La voce gracchiante e
sibilante aveva continuato a ripetere qualcosa a proposito del New Jersey e
di alcuni numeri su una cartina. Circa due ore più tardi Molly aveva fermato
l'hovercraft su una piazzuola di sosta dicendo che erano arrivate nel New
Jersey. Era scesa per telefonare da una cabina coperta di ghiaccio, dove era
rimasta a lungo. Quando aveva fatto ritorno all'hovercraft, Monna l'aveva
vista lanciare via una tessera telefonica sulla fanghiglia gelata. Le aveva
chiesto chi aveva chiamato e lei aveva risposto che aveva telefonato in
Inghilterra. Monna allora aveva osservato le mani di Molly che tenevano il
volante, e aveva notato le macchioline giallastre sulle sue unghie scure,
come quando ci si tolgono le unghie artificiali. "Dovrebbe usare un po' di
solvente" aveva pensato.
Avevano lasciato la superstrada passando sopra un fiume che non
riconobbe. Alberi. Campi. Due corsie d'asfalto, qualche volta una luce rossa
solitaria in cima a una torre. E a quel punto erano arrivate le altre voci. E
allora avanti e indietro, avanti e indietro, le voci e poi Molly e poi ancora le
voci, e le facevano venire in mente di quando Eddy tentava di concludere
un affare, solo che Molly era molto più in gamba. Anche se non riusciva a
capirci niente, sentiva che Molly era vicina a ottenere quello che voleva. Ma
non riusciva a sopportare quelle voci, le facevano venir voglia di
allontanarsi il più possibile da Angie. Il peggiore si chiamava Sam-Eddy o
qualcosa del genere. Voleva che Molly portasse Angie in un certo posto per
celebrare quello che loro chiamavano un matrimonio, e Monna si chiese se
c'entrava Robin Lanier. Si diceva: pensa se Angie e Robin stanno per
sposarsi e tutto questo è solo una delle stravaganze dei divi che si sposano.
Ma non aveva nessun senso, e ogni volta che risentiva la voce di quel Sam-
Eddy le si rizzavano i capelli in testa. Ma aveva capito quali erano le
condizioni poste da Molly: voleva la fedina ripulita, cancellata. Una volta
aveva guardato insieme a Lanette un video che parlava di una ragazza con
dieci o dodici personalità che apparivano una alla volta, per esempio una
era una bimbetta timida, un'altra una puttana strafatta fino al midollo, ma
nel documentario non si spiegava come quelle personalità fossero capaci di
ripulire una fedina penale.
Poi i fari avevano illuminato l'altopiano su cui soffiava la neve. Dove il
vento aveva spazzato via il bianco, apparivano rilievi color della ruggine.
L'hovercraft aveva uno schermo-mappa come quello che si poteva vedere
sui tassì o sui camion quando si rimediava un passaggio, ma Molly non lo
accese mai se non la prima volta per cercare i numeri che le aveva dato la
voce. Dopo un po' Monna aveva capito che Angie le stava indicando la
strada, o che comunque gliela suggerivano le voci. Monna aveva tanto
desiderato l'alba, ma quando Molly spense le luci e accelerò nell'oscurità
era ancora buio...
«Luci!» aveva gridato Angie.
«Tranquilla» aveva detto Molly, e Monna ricordò con quanta agilità si era
mossa nel buio da Gerald. Ma l'hovercraft aveva rallentato appena per
affrontare una lunga curva, sobbalzando sul terreno irregolare. Le luci del
cruscotto e tutta la strumentazione si erano spente. «Adesso non muovete un
pelo, chiaro?»
L'hovercraft aveva accelerato nel buio.
In alto si spostava un bagliore bianco. Dal finestrino Monna intravide un
punto che cadeva roteando, e sopra qualcosa di sferico, grigio... «Giù!
Cacciala giù!»
Monna aveva dato uno strattone alla fibbia della cintura di sicurezza di
Angie mentre qualcosa urtava la fiancata dell'hovercraft. L'aveva fatta
sdraiare sul pavimento avvolgendola nella pelliccia, mentre Molly sterzava
a sinistra e colpiva con la fiancata qualcosa che Monna non era riuscita a
vedere. Aveva guardato in alto e aveva visto come in un lampo un grande
edificio nero e cadente, una piccola lampadina accesa sopra un portone
aperto mentre la turbina rombava, indietro tutta.
Schianto.
«Io non lo so» disse la voce, e Monna pensò: "Io invece sì".
La voce cominciò a ridere, e non si fermava, e la risata diventò un suono
tipo acceso-spento acceso-spento e smise di essere una risata, e Monna aprì
gli occhi.
C'era una ragazza con una minitorcia del tipo di quella che aveva Lanette
in quel grosso mazzo di chiavi che si portava sempre dietro. Monna riuscì a
distinguerla nel bagliore fioco. Il cono di luce era fisso sul viso esausto di
Angie. Allora lei vide che Monna la guardava e il suono cessò.
«E tu chi cazzo sei?» La luce puntata negli occhi di Monna. Accento di
Cleveland, faccia dura da volpe incorniciata di capelli tinti e ispidi.
«Monna. Tu chi sei?» Poi vide il martello.
«Cherry...»
«Cos'è quel martello?»
La tizia Cherry guardò il martello. «Qualcuno ci sta addosso, a me e a
Slick.» Guardò di nuovo Monna. «Sareste voi?»
«Non penso.»
«Tu somigli a lei.» Puntò la luce su Angie.
«Le mani no. Comunque una volta non le somigliavo.»
«Sembrate tutte e due Angie Mitchell.»
«Già. Solo che lei è davvero Angie Mitchell.
Cherry tremò per un attimo. Indossava tre o quattro giacche di cuoio che
aveva avuto da ragazzi diversi. Tipico di Cleveland.
«A quest'alto castello» disse la voce provenendo dalla bocca di Angie
spessa come il fango, e Cherry urtò il tetto della cabina con la testa
lasciando cadere il martello «il mio cavallo è giunto.» Illuminati dal raggio
tremolante del portachiavi a torcia di Cherry, videro i muscoli del viso di
Angie contrarsi sotto la pelle. «Perché vi attardate, sorelle, ora che il suo
sposalizio è deciso?»
Il viso di Angie si distese e ritornò a essere il suo, mentre un rigagnolo di
sangue scendeva dalla narice sinistra. Aprì gli occhi, socchiudendoli poi per
la luce. «Lei dov'è?» chiese a Monna.
«Se n'è andata» rispose. «Mi ha detto di stare qui con voi.» «Chi?»
domandò Cherry.
«Molly» disse Monna. «Era lei che guidava.»
«Che ti prende, signora?» chiese Cherry ad Angie.
Cherry voleva trovare un certo Slick. Monna voleva che Molly tornasse
indietro per dirle cosa fare, ma Cherry disse che non voleva restare là al
piano terra ad aspettare perché fuori c'era gente armata. Monna ricordò il
rumore di quello che aveva colpito l'hovercraft. Si fece dare la torcia da
Cherry e andò a vedere. C'era un buco in cui poteva infilare il dito, in
mezzo alla fiancata destra, e uno più grande in quella sinistra, due dita.
Cherry disse che era meglio salire di sopra, dove probabilmente si
trovava Slick, prima che quella gente decidesse di venire dentro. Monna
non era convinta.
«Andiamo» disse Cherry. «Slick probabilmente è lassù insieme a Gentry
e al Conte...»
«Cos'hai detto?» Era la voce di Angie Mitchell, proprio come nei
simstim.
Non sapeva che posto fosse quello, ma fuori dall'hovercraft faceva un
freddo della miseria e Monna era senza calze. Finalmente però stava
arrivando l'alba, e riusciva a distinguere dei rettangoli sfuocati che
dovevano essere finestre, semplici frammenti di chiarore grigiastro. Quella
Cherry le stava portando da qualche parte, lei diceva al piano di sopra,
guidando il cammino con brevi lampi del portachiavi a torcia. Angie la
seguiva da vicino, mentre Monna stava in retroguardia.
Monna inciampò con la punta della scarpa in qualcosa di frusciante.
Chinandosi, trovò un oggetto che sembrava una busta di plastica.
Appiccicosa. Piena di piccoli oggetti duri. Respirò profondamente e si alzò
in piedi, infilandosi la busta nella tasca laterale della giacca di Michael.
Poi salirono alcuni gradini stretti, ripidi sembrava una scaletta. La
pelliccia di Angie sfiorava la mano di Monna sulla ringhiera ruvida e
fredda. Un pianerottolo, una svolta altra serie di gradini, altro pianerottolo.
Da qualche parte proveniva una corrente d'aria.
«E' una specie di ponte» disse Cherry. «Camminate veloci, capito, perché
balla un po'...»
E questo non se l'aspettava, proprio no: l'alto stanzone bianco, gli scaffali
curvi per il peso dei libri consunti e sbiaditi pensò al vecchio - l'ammasso di
consolle con i cavi che serpeggiavano dappertutto. E neanche quell'uomo
magro dagli occhi allucinati, vestito di nero e coi capelli tirati indietro in
quella cresta che a Cleveland si chiamava del Pesce Soldato. Neanche la sua
risata quando le vide, né il morto.
Monna aveva già visto dei morti, quanti bastavano per poter riconoscere
la morte quando l'aveva di fronte. Il suo colore. A volte in Florida qualcuno
si stendeva su alcuni fogli di cartone sopra il marciapiede vicino alla tana.
Non si alzava più. I vestiti e la pelle diventavano dello stesso colore del
marciapiede, ma sotto ce n'era un altro diverso quando li si voltava con un
calcio. Allora arrivava un furgone bianco. Eddy diceva che se no si
gonfiavano tutti. Come il gatto che Monna aveva visto una volta, gonfio
come un pallone, disteso sulla schiena con la coda e le zampe rigide come
un bastone, ed Eddy si era messo a ridere.
Adesso rideva anche l'artista del wiz - Monna conosceva bene quello
sguardo - e Cherry che gemeva mentre Angie restava immobile.
«Allora, voialtri» sentì esclamare. Era Molly. Si voltò e la vide sulla
soglia con un'arma in mano accanto a un tizio alto coi capelli sporchi che
aveva tutta l'aria di essere stupido come una gallina. «Adesso state lì finché
non vi faccio uscire.»
L'uomo magro rise.
«Silenzio» disse Molly, come se in quel momento stesse pensando ad
altro. Sparò senza neanche guardare. Un lampo azzurro sul muro appena a
lato della sua testa. A Monna rimase un gran fischio nelle orecchie. L'uomo
magro si rannicchiò sul pavimento con la testa fra le ginocchia.
Angie andava verso la barella dove giaceva il morto con gli occhi
completamente bianchi. Lentamente, come se stesse muovendosi sott'acqua,
con un'espressione...
A Monna sembrava che la mano che teneva in tasca stesse cercando di
capire qualcosa muovendosi per conto suo. Stringeva quella ziploc che
aveva raccolto da basso e le diceva che... che dentro c'era il wiz. Tirò fuori
la busta, e c'era davvero. Attaccaticcio di sangue coagulato. Dentro c'erano
tre cristalli e qualche derma.
Non sapeva neanche perché l'aveva tirata fuori proprio in quel momento,
forse perché nessuno si muoveva.
L'uomo con il Pesce Soldato si era messo a sedere, ma era rimasto
immobile. Angie era chinata sulla barella, ma non sembrava guardare tanto
il morto quanto una scatola grigia fissata su una specie di sostegno sopra la
sua testa. Cherry di Cleveland stava in piedi appoggiata alla parete di libri e
si stava quasi spolpando le nocche. Il tizio alto si era fermato accanto a
Molly, che aveva chinato la testa di lato come se stesse ascoltando qualcosa.
Monna non gliela faceva più.
Il piano del tavolo era di metallo. Un grosso pezzo di ferro vecchio
teneva ferma una pila di tabulati polverosi. Dispose in fila i cristalli come
tre bottoni, sollevò il pezzo di ferro e un due tre li ridusse in polvere. Fece
un certo effetto: si voltarono tutti a guardarla. Tutti tranne Angie.
«Scusate» si sentì dire Monna mentre raccoglieva la polvere gialla e
grossolana nel palmo della sinistra «sapete com'è...» Ficcò il naso
nel mucchietto di polvere e sniffò. «...certe volte» aggiunse, e sniffò il
resto.
Nessuno aprì bocca.
Di nuovo quel centro immobile. Come l'altra volta. Così veloce che stava
fermo.
"L'estasi. L'estasi sta per arrivare".
Così veloce e così immobile che riusciva a ordinare in rapida sequenza
quello che accadde subito dopo. Una grassa risata che non sembrava una
vera risata. Da un megafono. Dietro la porta. Da quel coso, la passerella. E
Molly che si voltava silenziosa come un felino, veloce ma quasi come se
non avesse fretta, e l'arma che scattava come un accendino.
Fuori appare un lampo azzurro e il tizio alto viene spruzzato di sangue
mentre i vecchi tiranti di metallo si spezzano e Cherry grida un attimo
prima che la passerella precipiti sul pavimento con un gran rumore dove
aveva trovato nel buio la busta insanguinata con il wiz. «Gentry» dice
qualcuno, e lei vede che si tratta di un piccolo terminale video sul tavolo, da
dove appare il viso del tizio giovane «adesso inserisci l'unità di controllo di
Slick. Sono entrati nell'edificio.» L'uomo con il Pesce Soldato salta su e
comincia ad armeggiare con i cavi e le consolle.
E Monna si limita a guardare, perché si sente così tranquilla e il tutto è
proprio interessante.
Il tizio alto caccia un urlo e si precipita verso il tavolo, gridando che sono
suoi, sono suoi. Il viso nello schermo dice: «Forza, Slick, adesso non ti
servono più...»
Allora un motore si avvia al piano di sotto, e Monna sente un fragore, un
rumore metallico, e poi qualcuno che urla.
Adesso dalla finestra alta e stretta entra il sole, e Monna va a dare
un'occhiata. All'esterno c'è qualcosa, una specie di camion o di hovercraft
sepolto sotto un mucchio di frigoriferi nuovi di zecca e scatoloni di plastica
rotti, e c'è una persona in tuta mimetica distesa con la faccia nella neve, e
più in là un altro hovercraft che sembra proprio tutto bruciato.
Interessante.
40. Raso rosa.
Angela Mitchell esamina questa stanza e i suoi occupanti attraverso
piani-dati mobili che rappresentano altrettanti punti d'osservazione, anche
se in molti casi non sa di chi o cosa. Esiste un grado notevole di
sovrapposizioni, di contraddizioni.
L'uomo con la cresta di capelli ispidi, rannicchiato sul pavimento e
vestito di cuoio nero borchiato, è Thomas Trail Gentry - una cascata di dati
di nascita e cifre SIN attraversa Angie senza fissa dimora. Un'altra
sfaccettatura la informa che questa è la sua stanza. Oltre il flusso grigio di
dati ufficiali screziato dal rosa che rappresenta i sospetti di frode ai danni
dell'Ente Fissione, lei lo vede sotto una luce diversa: Gentry è come i
cowboys di Bobby, e, per quanto giovane, assomiglia ai vecchi del
Gentleman Loser. E' un autodidatta, un eccentrico ossessionato dalle sue
idee, uno studioso; è pazzo, agli occhi di Mamman e Legba colpevole di
numerose eresie. Lady 3Jane, nel suo bizzarro schema, lo ha catalogato con
il nome di RIMBAUD. Un secondo viso lampeggia di fronte ad Angie da
RIMBAUD: è Riviera, gioca un ruolo secondario nei suoi sogni. Molly lo
ha deliberatamente stordito facendo detonare una fléchette esplosiva a 18
centimetri dal suo cranio.
Molly, come la ragazza di nome Monna, è senza SIN, la sua nascita
non è registrata, e intorno al suo nome - o ai suoi nomi - si addensano
galassie di supposizioni, voci, dati contrastanti. Sbandata, prostituta,
guardia del corpo, assassina, si confonde in piani diversi con le ombre di
eroi e di furfanti i cui nomi non significano nulla per Angie, nonostante la
cultura sia da lungo tempo intessuta delle loro immagini residue. (E anche
questo apparteneva a 3Jane, ed ora appartiene ad Angie.)
Molly ha appena ucciso un uomo sparandogli in gola una delle fléchette
esplosive. La sua caduta contro una ringhiera consumata di ferro ha fatto
precipitare una lunga sezione della passerella sul pavimento della Fabbrica.
Questa stanza non ha altre entrate. Ciò le conferisce una certa importanza
strategica. Probabilmente non era intenzione di Molly far crollare la
passerella. Intendeva impedire all'uomo, un mercenario, di usare la sua
arma preferita, un corto fucile a pallini in lega verniciato di nero
antiriflesso. Ma ora la mansarda di Gentry è isolata.
Angie capisce l'importanza che Molly riveste per 3Jane, fonte del
desiderio e della rabbia che prova nei suoi confronti. Nel capirlo,
comprende anche quanto sia banale la malvagità umana.
Angie vede Molly che percorre inquieta la grigia Londra invernale al
fianco di una ragazzina, e sa, senza sapere come, che ora quella stessa
ragazza si trova al numero 23 di Margate Road, S.W.2. ("Continuity?") Il
padre della ragazza era stato precedentemente il padrone di Swain,
quest'ultimo diventato poi schiavo di 3Jane in cambio delle informazioni
che lei forniva a chi le obbediva. E lo stesso ha fatto Robin Lanier,
naturalmente, anche se attende di essere pagato con altra moneta.
Per la ragazza di nome Monna, Angie prova una tenerezza particolare,
una certa pietà, e in parte anche invidia. Anche se Monna è stata alterata in
modo da somigliarle il più possibile, la vita di Angie non ha lasciato tracce
sul tessuto della sua e nel sistema di Legba lei rappresenta quanto vi è di più
simile all'innocenza.
La figura di Cherry-Lee Chesterfield è circondata da un triste
scarabocchio insensato, il suo profilo informativo ricorda il disegno di un
bimbo: citazioni per vagabondaggio, piccoli debiti, una carriera di tecnico
paramedico Livello 6 ormai finita. Un disegno che incornicia i dati di
nascita e il SIN.
Slick, o Slick Henry, è tra i privi di SIN, ma 3Jane, Continuity e Bobby
hanno tutti focalizzato su di lui la loro attenzione. Per 3Jane, Slick è il perno
di un nodo secondario di associazioni: 3Jane ha eguagliato il perenne rituale
di edificazione di Slick, la sua risposta catartica al trauma chemiopenale, ai
propri tentativi falliti di esorcizzare il sogno sterile dei Tessier-Ashpool. Nei
corridoi della memoria di 3Jane Angie ha spesso incontrato la stanza in cui
un manipolatore dalle zampe di ragno rimuove il coagulo della breve storia
di Straylight: collage ampliati. Bobby fornisce altri ricordi, attinti dall'artista
nell'accedere al babelico archivio di 3Jane: la sua lenta e infantile fatica
sulla pianura chiamata Dog Solitude per erigere di nuovo le forme del
dolore e del ricordo.
Più in basso, nella gelida oscurità del primo piano della Fabbrica, una
delle sculture cinetiche di Slick, controllata da un subprogramma di Bobby,
amputa il braccio sinistro di un altro mercenario usando un meccanismo
recuperato due anni prima da una mietitrice di fabbricazione cinese. Il
mercenario, il cui nome e SIN le passano davanti ribollendo come argento
rovente, muore con la faccia contro uno stivale di Little Bird.
Tra tutte le persone nella stanza, solo Bobby non è presente in forma di
dati. E Bobby non è il corpo devastato che le sta di fronte, legato sulla
barella di lega e di nylon col mento sporco di vomito, e neanche il viso
cordiale e familiare che la guarda da uno schermo sul tavolo da lavoro di
Gentry. Bobby è forse la massa solida e rettangolare di memoria
imbullonata sulla barella?
Adesso Angie cammina attraverso dune ondeggianti di raso rosa sotto un
cielo di metallo sbalzato, finalmente libera dalla stanza e dai grumi di dati.
Brigitte le cammina accanto. Non c'è pressione, non c'è più il vuoto della
notte, il ronzio. Niente candele. C'è anche Continuity, rappresentato da un
gingillo contorto d'argento che cammina e in qualche modo le ricorda
Hilton Swift sulla spiaggia di Malibu.
«Ti senti meglio?» domanda Brigitte. «Molto meglio, grazie.»
«Lo immaginavo.»
«Come mai Continuity è qui?»
«Perché lui è tuo cugino, costruito con i biochip della Maas. Perché è
giovane. Ti accompagnamo al tuo matrimonio.»
«Ma tu chi sei, Brigitte? Cosa sei veramente?»
«Io sono il messaggio che tuo padre ha ricevuto l'ordine di scrivere. Io
sono i "vevés" che lui ha evocato nella tua mente.» Brigitte le si avvicina.
«Sii buona con Continuity. Teme di averti offeso con la sua goffaggine.»
Il gingillo d'argento corre via precedendole attraverso le dune di raso, per
annunciare l'arrivo della sposa.
41. Il signor Yanaka.
L'unità Maas-Neotek era ancora calda. Il cuscinetto di plastica bianca su
cui era appoggiata era scolorito come per il calore. Un odore di capelli
strinati...
Lei vide che i lividi sul viso di Tick divenivano più scuri. L'aveva
mandata a cercare nell'armadietto accanto al letto una vecchia scatola di
sigarette piena di pillole e dermi, si era sbottonato il colletto della camicia e
aveva premuto tre dischetti adesivi sulla pelle bianca come porcellana.
Lo aiutò ad appendere il braccio al collo con un pezzo di cavo ottico.
«Ma Colin aveva detto che si era dimenticata di...»
«Già, ma io no» rispose lui, e risucchiò l'aria tra i denti passando il cavo
sotto il braccio. «Al momento era solo sembrato che succedesse. Rimarrà
così per un po'...» Strizzò l'occhio.
«Mi dispiace.»
«Fa niente. Sally me l'ha detto. Di tua madre, voglio dire.»
«Sì.» Kumiko non distolse lo sguardo. «Si è uccisa. A Tokyo.»
«Non so chi fosse quella là, ma non era lei.»
«L'unità...» Guardò il tavolo.
«Lei l'ha bruciata. A lui comunque non importa. C'è ancora. Mantiene il
controllo. Cosa sta facendo la nostra Sally, allora?
«Ha preso Angela Mitchell. E' andata a scovare la cosa da cui è nato tutto
il casino. Dove siamo già andate, un posto che si chiama New Jersey.»
Squillò il telefono.
Il padre di Kumiko, il viso e le spalle, sul grande schermo dietro al
telefono di Tick. Indossava il solito abito scuro, l'orologio Rolex e una
costellazione di piccoli dispositivi sul bavero. Kumiko pensò che sembrava
molto stanco, stanco e molto serio, un uomo serio dietro la distesa liscia e
scura della scrivania nello studio. Nel vederlo rimpianse che Sally non
avesse telefonato da una cabina con telecamera. Le sarebbe piaciuto
moltissimo rivedere Sally. Forse adesso sarebbe stato impossibile.
«Mi sembri in salute, Kumiko» la salutò suo padre.
Kumiko sedeva diritta di fronte alla piccola telecamera fissata appena
sopra lo schermo murale. Cercò d'impulso di assumere la maschera
sdegnosa della madre, ma non le veniva. Confusa, abbassò lo sguardo sulle
mani che teneva intrecciate in grembo. Improvvisamente si accorse di Tick,
del suo imbarazzo, della sua paura, intrappolato nella poltrona dietro di lei e
ripreso completamente dalla telecamera. «Hai fatto bene a fuggire dalla
casa di Swain» disse suo padre.
Lei incontrò di nuovo i suoi occhi. «Lui è il tuo "kobun".»
«Non più. Mentre qui noi eravamo distratti dalle nostre difficoltà, lui
stringeva nuove e dubbie alleanze seguendo una linea di condotta che non
potevamo approvare.»
«E le tue difficoltà, Padre?»
Era davvero un sorriso, quello? «E' tutto finito. L'ordine e l'armonia
regnano nuovamente.»
«Ehm, scusi, dottore, signor Yanaka» iniziò a dire Tick, poi sembrò
perdere completamente la voce.
«Sì. Lei sarebbe...?»
Il viso livido di Tick si contrasse in una tremenda smorfia
particolarmente lugubre.
«Si chiama Tick, Padre. Mi ha dato rifugio e protezione. Insieme a Col...
all'unità Maas-Neotek, stasera mi ha salvato la vita.» «Davvero? Di questo
non ero stato informato. Ero convinto che tu non avessi lasciato il suo
appartamento.»
Un senso di gelo. «Come?» disse sporgendosi avanti. «Come potevi
saperlo?»
«L'unità Maas-Neotek ha trasmesso il nome della tua destinazione non
appena ne è venuta a conoscenza, una volta libera dai sistemi di Swain.
Avevamo già inviato degli osservatori nella zona.» Kumiko ricordò il
venditore di tagliolini. «Naturalmente senza che Swain ne fosse a
conoscenza. Ma l'unità non ha più trasmesso altri messaggi.» «Era rotta. Per
un incidente.»
«E tu dici che ti ha salvato la vita?»
«Signore» li interruppe Tick «mi scusi, volevo chiederle, insomma, sono
coperto o che?»
«Coperto?»
«Protetto. Da Swain, voglio dire, dai suoi amici corrotti dello S.B. e tutto
il resto.»
«Swain è morto.»
Ci fu un attimo di silenzio. «Ma ci sarà senz'altro qualcuno che dirige
tutto quanto. I suoi affari, voglio dire.»
Il signor Yanaka osservò Tick con schietta curiosità. «Naturalmente.
Come ci si potrebbe aspettare altrimenti che continuino a regnare l'ordine e
l'armonia?»
«Dagli la tua parola, Padre» intervenne Kumiko «che non gli succederà
alcun male.»
Yanaka guardò prima Kumiko e poi il viso contratto di Tick. «Signore, le
esterno la mia profonda gratitudine per aver protetto mia figlia. Sono in
debito con lei.»
«"Giri"» disse Kumiko.
«Cristo» esclamò Tick sopraffatto dallo stupore «ma guarda un po'.»
«Padre» chiese Kumiko «la notte in cui mia madre è morta avevi forse
ordinato ai tuoi aiutanti di lasciarla sola?»
Il viso di suo padre era calmissimo. Lo vide colmarsi di una pena che non
aveva mai visto prima. «No» rispose lui alla fine «non gliel'avevo
ordinato.»
Tick tossì.
«Grazie, Padre. Ora potrò tornare a Tokyo?»
«Certamente, se lo desideri. Ma mi rendo conto che di Londra devi avere
visto molto poco. Un mio rappresentante verrà a casa del signor Tick. Se
desideri rimanere per visitare la città, se ne incaricherà lui.»
«Grazie, Padre.»
«Arrivederci, Kumi.»
E scomparve.
«Allora» disse Tick facendo una smorfia orribile nell'allungare il braccio
sano «adesso aiutami ad alzarmi...»
«Ma lei ha bisogno di cure mediche.»
«Dici?» Era riuscito ad alzarsi, e stava zoppicando verso il bagno quando
Petal aprì la porta che dava sull'atrio buio, di sopra. «Brutto coglione»
esclamò Tick «se mi hai scassato la serratura ti faccio pagare i danni.»
«Spiacente» disse Petal ignorandolo. «Sono venuto a prendere la
signorina Yanaka.»
«Peccato, amico. Ha appena chiamato il papi. Ci ha detto che Swain è
stato eliminato. Manderà un nuovo capo.» Sorrise un sorriso deforme e
trionfante.
«Proprio così» disse tranquillamente Petal. «Sono io.»
42. Al piano terra della Fabbrica.
Cherry continuava a urlare.
«Qualcuno la faccia stare zitta» dice Molly dalla sua postazione vicino
alla porta, con l'arma in mano, e Monna pensa di poterlo fare, di poter
trasmettere a Cherry un po' della sua calma in cui tutto è interessante e non
c'è proprio niente che ti spinge da una parte o da un'altra, ma attraversando
la stanza vede per terra la ziploc sgualcita e ricorda che dentro c'è un derma,
forse qualcosa che può calmare Cherry. «Ecco» dice avvicinandosi a lei.
Stacca il derma dal supporto e lo incolla sul collo di Cherry. Il suo urlo cala
gradualmente fino a terminare in un rantolo mentre lei scivola lungo la
parete di libri vecchi. Monna però è sicura che le farà bene, e giù da basso si
sentono degli spari, dei fucili: all'esterno un tracciante bianco rimbomba
fragorosamente vicino alle travi d'acciaio, e Molly grida a Gentry di
accendere quelle luci del cazzo.
Il che doveva significare le luci giù da basso, perché di sopra le lampade
erano molto forti così forti che se si avvicinava vedeva pallottole sfuocate,
linee di colore che scorrevano. Traccianti. Si chiamavano così quelle
pallottole che si accendono. Eddy gliel'aveva spiegato in Florida mentre
guardavano la spiaggia dove un poliziotto privato stava sparando nel buio.
«Già, le luci» disse il viso nel piccolo monitor. «La Strega non riesce a
vederci...» Monna gli sorrise. Pensava che nessun altro avesse sentito. La
Strega?
Così Gentry e Slick il grosso strappano dal muro i grossi cavi gialli
attaccati col nastro metallizzato per poi inserirli in certe scatole di metallo.
Cherry di Cleveland stava seduta per terra con gli occhi chiusi, Molly era
acquattata vicino al muro tenendo l'arma con entrambe le mani e Angie
stava...
"Ferma".
Sentì una voce che parlava, ma non era qualcuno nella stanza. Pensò che
poteva essere Lanette, perché Lanette avrebbe sicuramente detto qualcosa
del genere attraverso il tempo, attraverso l'immobilità. Perché Angie stava
là per terra accanto alla barella del morto, con le gambe ripiegate come una
statua, e l'abbracciava.
Le luci si abbassarono appena Gentry e Slick trovarono la connessione, e
a Monna sembrò che il viso sullo schermo boccheggiasse, ma stava già
andando verso Angie, accorgendosi - improvvisamente, completamente,
tanto era esplicito il dolore - del rivolo di sangue che le scendeva
dall'orecchio sinistro.
Anche in quel momento la calma resistette, per quanto Monna sentisse
già delle fitte brucianti in gola e ricordava improvvisamente Lanette che le
diceva di non sniffarlo mai, perché faceva i buchi dentro.
E la schiena di Molly era dritta, le sue braccia si stavano allungando...
Si allungavano a prendere non la scatola grigia, ma la pistola, quella
piccola, e Monna sentì tre deboli scatti in successione, poi da basso si
sentirono tre esplosioni, qualcosa come lampi azzurri. Ma Monna aveva
posato le mani su Angie, e la pelliccia macchiata di sangue le sfiorava i
polsi. La guardava negli occhi sperduti, la luce che si spegneva. Lontana
lontana.
«Ehi» sussurrò Monna senza farsi sentire da nessuno, solo da Angie che
ricadeva sul cadavere nel sacco a pelo «ehi...»
Alzò lo sguardo appena in tempo per vedere un'ultima immagine sul
video, un'immagine che sparì subito.
In seguito, per molto tempo, non le importò più di nulla. Non era proprio
la stessa cosa dell'indifferenza, la calma, il sovraccarico del wiz, e neppure
come le crisi, ma solo una sensazione di "dopo", probabilmente come
l'avrebbe provata un fantasma.
Andò vicino a Slick e Molly davanti alla porta aperta e guardò giù. Nel
chiarore stanco delle grandi lampade vecchie vide una specie di ragno
metallico che si muoveva freneticamente sul pavimento. Aveva grandi lame
ricurve che scattavano e roteavano ad ogni movimento, ma non c'era
nessuno che si muovesse, e quel coso continuava a funzionare come un
giocattolo guasto, andando avanti e indietro davanti ai rottami contorti della
passerella che aveva attraversato insieme ad Angie e Cherry.
Cherry si era alzata in piedi, pallida e stanca. Si tolse il derma dal collo.
«Era un rilassante muscolare» balbettò pesantemente, e Monna si sentì male
perché si accorse di aver fatto una cosa stupida mentre voleva solo rendersi
utile, ma era colpa del wiz come al solito. Perché non riusciva a smettere di
fare scemenze?
Perché sei una scema scoppiata, sentì dire Lanette, ma non aveva voglia
di ricordarlo.
Erano tutti fermi a guardare il ragno di metallo che si contorceva
esaurendo la carica. Tutti tranne Gentry, che stava svitando la scatola grigia
dal supporto sopra la barella. Gli stivali neri accanto alla pelliccia rossa di
Angie.
«Sentite» disse Molly. «Un elicottero. Grosso.»
Scese giù dalla corda per ultima. Restava solo Gentry. Lui disse soltanto
che non veniva, non gli interessava, rimaneva là.
La corda era grossa, color grigio sporco. Avevano fatto dei nodi per
potersi aggrappare, e le sembrava proprio un'altalena che aveva visto tanti
anni prima. Slick e Molly avevano calato per prima la scatola grigia fino a
una piattaforma con le scale ancora intere. Poi Molly scese dalla corda
come uno scoiattolo, quasi senza tenersi, e la legò stretta a una ringhiera.
Slick scese lentamente, perché portava in spalla Cherry. Lei era ancora
troppo rilassata per potercela fare da sola. Monna era ancora dispiaciuta e si
chiese se era per quello che avevano deciso di lasciarla là.
Alla fine era stata Molly a decidere. In piedi accanto alla finestra
guardava la gente che saltava giù dal grande elicottero nero e si
sparpagliava sul terreno innevato.
«Guardate» aveva detto Molly. «Sanno tutto. Sono venuti a rimettere
insieme i cocci. Senso/Rete. Io alzo le chiappe.»
Cherry farfugliò che anche loro se ne andavano, lei e Slick. E Slick alzò
le spalle, poi accennò un sorriso e la circondò con un braccio. «E io?»
Molly la guardò. O almeno le parve. Difficile capirlo con quelle lenti. Per
un momento vide i suoi denti bianchi contro il labbro inferiore, poi la sentì
dire: «Io ti consiglio di restare. Lascia fare a loro. Tu in fondo non hai fatto
niente. Non c'entri. Secondo me probabilmente ti tratteranno bene, o almeno
ci proveranno. Già, resta.»
Monna non ci capiva niente, ma si sentiva ormai così morta dentro, così
abbattuta, che non seppe obiettare.
E poi se ne andarono senza dire altro, scesero dalla corda e se ne
andarono. Tutto lì, gente che se ne va e che non vedi mai più. Guardò di
nuovo dentro la stanza, vide Gentry che camminava lentamente avanti e
indietro davanti ai suoi libri facendovi scorrere le dita come se ne stesse
cercando uno in particolare. Aveva buttato una coperta sulla barella.
Così se ne andò anche lei, e capì che non avrebbe mai saputo se Gentry
aveva trovato o no il suo libro, ma così va il mondo, e così scese da sola giù
dalla corda. Non era così facile come le avevano fatto pensare Slick e
Molly, soprattutto nelle sue condizioni, visto che ormai stava per svenire e
braccia e gambe non sembravano funzionare granché, anzi, doveva
concentrarsi un po' per farle muovere. Il naso e la gola le si stavano
gonfiando, e non si accorse del nero finché non fu arrivata in fondo.
Stava guardando la grossa macchina a forma di ragno ormai immobile.
Alzò gli occhi appena il tacco della scarpa di Monna risuonò sulla
piattaforma di metallo. C'era qualcosa di molto triste nella sua espressione
quando la vide, qualcosa che però svanì subito mentre cominciava a salire i
gradini metallici agile e calmo. Mentre si avvicinava, Monna cominciò a
chiedersi se era davvero nero. Non per il colore, che era inequivocabile, ma
per la forma del cranio calvo, quei lineamenti angolosi, qualcosa che lo
rendeva diverso da tutti quelli che aveva visto fino ad allora. Era alto,
proprio alto. Portava un lungo cappotto nero di cuoio così fine da sembrare
seta.
«Ciao, signorina» le disse quando le fu di fronte, e le sollevò il mento con
due dita. Lei lo guardò dritto negli occhi, occhi d'agata screziati d'oro, occhi
che non potevano esistere. Si sentiva quelle dita affusolate leggere contro il
mento. «Signorina» disse «quanti anni hai?»
«Sedici.»
«Devi tagliarti i capelli» osservò lui in tono molto serio.
«Angie è di sopra» disse lei indicando con un dito appena le tornò la
voce. «Lei è...»
«Taci.»
Lontano, nel grande edificio decrepito, rumori metallici e un motore che
si avviava. L'hovercraft, si disse, quello con cui Molly le aveva portate qui.
Il nero aggrottò le sopracciglia, solo che non le aveva. «Amici?» e
abbassò la mano.
Lei annuì.
«Va bene» disse lui, e le prese la mano per aiutarla a scendere le scale.
Una volta arrivati in fondo, continuando a tenerle la mano, la guidò
attraverso i rottami della passerella. C'era un morto in tuta mimetica, e uno
di quei cosi che fanno venire il vocione come nei film di poliziotti.
«Swift» chiamò il nero. La sua voce attraversò il grande spazio vuoto e le
griglie nere delle finestre senza vetri, linee nere contro il cielo bianco del
mattino invernale. «Alza il culo, l'ho trovata.»
«Ma io non sono lei...»
Attraverso il cancello spalancato, contro il cielo, la neve e la ruggine vide
avanzare un tizio mezzemaniche con il cappotto sbottonato e la cravatta
svolazzante, e l'hovercraft di Molly lo oltrepassò uscendo dallo stesso
cancello. Lui non lo guardò neanche. Stava guardando Monna.
«Non sono Angie» disse, chiedendosi se doveva dirgli quello che aveva
visto, Angie e il tipo giovane insieme nello schermo un attimo prima che si
spegnesse.
«Lo so» disse il nero «ma ce l'hai nel sangue.»
"L'estasi. L'estasi sta per arrivare".
43. Giudice.
La donna li aveva accompagnati fino a un hovercraft parcheggiato
nella Fabbrica, se poteva dirsi parcheggiato, visto che il muso era sfondato
contro una base in cemento. Era un cargo bianco con la scritta CATHODE
CATHAY sulle portiere posteriori, e Slick si chiese quando fosse riuscita a
portarlo dentro, visto che lui non l'aveva sentito. Forse mentre Bobby il
Conte attuava il diversivo del dirigibile telecomandato.
L'aleph era pesante. Sembrava di portare un piccolo motore.
Non aveva voluto guardare la Strega, perché le lame erano sporche di
sangue, e lui non l'aveva costruita per questo. C'erano anche un paio di
corpi, o parti di essi. Non aveva guardato neanche quelli.
Guardò il blocco biosoft e la batteria e si chiese se lì dentro c'era ancora
tutto, la casa grigia e il Messico e gli occhi di 3Jane. «Aspetti» disse la
donna. Stavano passando la rampa che portava alla stanza dove teneva le
macchine. Il Giudice era ancora là, lo Strizzacadaveri...
Lei era ancora armata. Slick mise una mano sulla spalla di Cherry. «Ha
detto di aspettare.»
«Quella roba che ho visto ieri notte» disse la donna. «Il robot con un
braccio solo. Funziona?»
«Certo.»
«E' forte? Può portare un carico su un terreno accidentato?»
«Sì.»
«Vallo a prendere.»
«Che?»
«Mettilo nel retro dell'hovercraft. Subito. Muoviti.»
Cherry si avvinghiò a lui. Le ginocchia le si piegavano a causa di quella
roba che le aveva dato la ragazza.
«Tu» e Molly la indicò con l'arma «vai nell'hovercraft.»
«Vai» le disse Slick.
Lui posò l'aleph e salì la rampa, andando nella stanza in cui il Giudice
aspettava nell'ombra, il braccio ancora steso sulla cerata dove Slick l'aveva
lasciato. Non avrebbe più potuto ripararlo e fare funzionare la sega come
doveva. Su uno degli scaffali di metallo arrugginito c'era un'unità di
controllo. La prese in mano e mise in moto il Giudice. Il carapace marrone
cominciò a tremare leggermente. Fece muovere il Giudice in avanti lungo la
rampa. I grandi piedi colpivano il pavimento, un-due, un-due. I giroscopi
compensavano il braccio mancante. La donna aveva aperto le portiere
posteriori dell'hovercraft, era già pronta, e Slick fece andare il Giudice
verso di lei. Le sue lenti metallizzate riflettevano la ruggine lucida. Slick si
mise dietro al Giudice e cominciò a studiare l'angolazione per farlo entrare.
Non aveva senso, ma almeno lei sembrava avere un'idea di cosa fare, ed era
sempre meglio che stare a gironzolare nella Fabbrica adesso che era piena
di cadaveri. Pensò a Gentry, con i suoi libri e quei morti. C'erano due
ragazze che somigliavano entrambe ad Angie Mitchell. Ora una delle due
era morta, non sapeva come o perché, e la donna con la pistola aveva detto
all'altra di aspettare. «Forza, muoviti, fa' entrare quel sacco di merda, che
dobbiamo andarcene.»
Appena riuscì a sistemare il Giudice nel retro dell'hovercraft, sdraiato sul
fianco con le gambe ripiegate, chiuse le portiere e salì di corsa dal lato
passeggeri. L'aleph era in mezzo ai due sedili anteriori. Cherry era
rannicchiata sul sedile posteriore, coperta da un grande parka arancione con
il logo della Senso/Rete sulla manica. Tremava.
La donna accese la turbina e gonfiò il cuscino. Slick pensava che
sarebbero rimasti impigliati nella base di cemento, ma lei fece marcia
indietro, una cromatura si staccò e si liberarono. Girò l'hovercraft e si
diresse verso il cancello.
Mentre uscivano, superarono un tizio in cappotto di tweed e cravatta che
sembrò non vederli. «Chi è quello?»
Lei alzò le spalle.
«Lo vuoi quest'hovercraft?» chiese lei. Avevano fatto circa una decina di
chilometri e lui non si era voltato indietro neanche una volta. «Rubato?»
«Chiaro.»
«No.»
«No?»
«Sono stato dentro. Furto di auto.»
«Allora come sta la tua ragazza?» «Dorme. Non è la mia ragazza.»
«No?»
«Posso chiederti chi sei?»
«Un affarista.»
«Che affari fai?»
«Difficile da spiegare.»
Il cielo sopra Solitude era bianco e luminoso.
«Sei venuta per questo?» disse, tamburellando sull'aleph. «Più o meno.»
«E adesso?»
«Ho fatto un patto. Ho unito la Mitchell alla scatola.» «Era lei quella che
è crollata?»
«Già, era lei.»
«Ma è morta.»
«C'è morire e morire.»
«Come 3Jane?»
Spostò la testa come se volesse guardarlo. «Tu che ne sai?» «Una volta
l'ho vista. Là dentro.»
«Be', lei è sempre là, ma anche Angie." «E anche Bobby.»
«Newmark? Già.»
«Allora cosa te ne farai?»
«Tu costruisci quei cosi, giusto? Quello nel retro e tutti gli altri?» Slick
guardò dietro di sé. Il Giudice era piegato nello spazio di carico
dell'hovercraft come una grande bambola arrugginita senza testa. «Già.»
«Quindi te la cavi bene con gli attrezzi.»
«Direi di sì.»
«Bene. Ho un lavoro da farti fare.» Fece rallentare l'hovercraft accanto a
una montagna di rottami coperta di neve e accostò. «Da qualche parte ci
dev'essere una cassetta degli attrezzi. Trovala e sali sul tetto, portami le
celle solari e un po' di cavi. Devi fare in modo che le celle ricarichino la
batteria dell'aleph. Sei capace di farlo?»
«Credo di sì. Perché?»
Lei sprofondò nel sedile e Slick si accorse che era più vecchia di quanto
gli fosse sembrato, e molto stanca. «Adesso la Mitchell è qui dentro. Loro
vogliono che ci passi un po' di tempo. Tutto qui.»
«Loro chi ?»
«Boh. Qualcosa. Quelli con cui ho fatto il patto. Quanto pensi che durerà
la batteria se le celle funzionano?»
«Qualche mese. Forse un anno.»
«Bene. Lo nasconderò da qualche parte dove le celle possano ricevere il
sole.»
«Che succede se va via la corrente?»
Lei si chinò e fece scorrere la punta del dito lungo il cavo sottile che
collegava l'aleph alla batteria. Slick osservò le sue unghie alla luce
mattutina. Sembravano artificiali. «Ehi, 3Jane» esclamò tenendo il dito
sospeso sul cavo «ti ho presa.» Poi strinse la mano in un pugno e quindi
l'aprì come per lasciar libero qualcosa.
Cherry voleva raccontare a Slick tutto quello che avrebbero fatto una
volta arrivati a Cleveland. Lui stava fissando due celle solari sul largo petto
del Giudice con il nastro adesivo metallizzato. L'aleph grigio era già
assicurato al dorso della macchina con un'imbragatura di nastro adesivo.
Cherry disse che poteva trovargli un lavoro in un posto come truccatore di
corse. Lui non le prestava molta attenzione. Quand'ebbe finito porse l'unità
di controllo alla donna.
«Adesso ti aspettiamo, no?»
«No» rispose lei. «Voi andate a Cleveland. Cherry te l'ha appena detto.»
«E tu?»
«Vado a fare un giro.»
«Vuoi gelare? Vuoi morire di fame?»
«Voglio solo starmene un po' per i cazzi miei, tanto per cambiare.» Lei
provò ad azionare i controlli e il Giudice vacillò, fece un passo avanti, un
altro.
«Buona fortuna, a Cleveland.» Rimasero a guardare mentre si
allontanava attraverso Solitude con il Giudice che la seguiva a passi pesanti.
Si voltò e gridò: «Ehi, Cherry! fagli fare un bagno a quel ragazzo!»
Cherry la salutò con la mano, facendo tintinnare le cerniere delle giacche
di cuoio.
44. Cuoio rosso.
Petal disse che nella Jaguar l'aspettavano le sue valigie. «Non avreste
gradito tornare a Notting Hill, così vi abbiamo trovato una sistemazione a
Camden Town.»
«Petal» disse lei. «Devo sapere cosa è successo a Sally.»
Lui mise in moto.
«Swain la ricattava. L'aveva costretta a rapire...»
«Ah. Bene» la interruppe lui. «Se fossi in lei, non me ne preoccuperei.»
«Invece mi preoccupo.»
«Direi che Sally è riuscita a cavarsela molto bene. Secondo alcuni nostri
amici ufficiali è anche riuscita a far sparire tutte le registrazioni sul suo
conto, tranne quella che riguarda certi suoi interessi nella direzione di un
casinò tedesco. Se poi ad Angela Mitchell è successo qualcosa, la
Senso/Rete non l'ha rivelato. Comunque, ora è tutto finito.»
«La rivedrò ancora?»
«Mi faccia il piacere di non farsi rivedere più nella mia zona.»
Si allontanarono dal marciapiede.
«Petal» riprese lei mentre attraversavano Londra «mio padre ha detto che
Swain...»
«Un idiota. Un maledetto idiota. Se non le spiace, preferirei non
parlarne.»
«Mi scusi.»
Il riscaldamento funzionava. Nella Jaguar faceva caldo, e Kumiko adesso
era stanchissima. Si appoggiò allo schienale di cuoio rosso e chiuse gli
occhi. In qualche modo, pensò, l'incontro con 3Jane l'aveva liberata dalla
vergogna, e la risposta di suo padre l'aveva liberata dalla collera. 3Jane era
stata molto crudele. Adesso riusciva a vedere anche la crudeltà di sua
madre. Ma un giorno tutto sarà perdonato, pensò, e si addormentò mentre
viaggiavano verso un posto che si chiamava Camden Town.
45. La pietra liscia al di là.
Sono venuti a vivere in questa casa: muri di pietra grigia, tetto d'ardesia.
Inizio d'estate. I terreni sono incolti sotto il sole, anche se l'erba alta non
cresce e i fiori di campo non appassiscono. Dietro la casa ci sono degli
edifici annessi, chiusi e inesplorati, e un prato dove gli alianti fissati al
suolo vibrano contro il vento. Una volta, mentre passeggiava in fondo al
prato tra le querce, lei ha visto tre sconosciuti in sella a qualcosa che
assomigliava vagamente a un cavallo. I cavalli sono estinti, la loro specie è
scomparsa molto tempo prima che Angie nascesse. Una figura snella e
vestita di tweed seduta in sella, un ragazzo che sembrava uno stalliere
uscito da un vecchio dipinto. Insieme a lui montavano quella specie di
cavallo una ragazza giapponese davanti e un omino pallido dall'aspetto
unticcio con un vestito grigio, calzini rosa e le caviglie bianche, dietro.
Chissà se la ragazza l'aveva vista, se le aveva restituito lo sguardo. Si è
dimenticata di dirlo a Bobby.
I loro visitatori più assidui arrivano con i sogni dell'alba, anche se una
volta un piccolo uomo simile a un folletto si è annunciato bussando
insistentemente sulla pesante porta di quercia, e quando lei è corsa ad aprire
ha chiesto di "quello stronzetto di Newmark". Bobby ha presentato la
creatura: era Finn, ed è sembrato felice di vederlo. La giacca di tweed
decrepita di Finn esalava un odore misto di fumo, stagno vecchio e aringa in
salamoia. Bobby ha detto che Finn era sempre il benvenuto. "Per forza. Non
si riesce a tenerlo fuori quando decide di entrare".
Viene anche 3Jane. E' uno dei visitatori del mattino, la sua presenza è
triste e incerta. Bobby sembra quasi non accorgersi di lei, ma Angie, la
custode di tanti dei suoi ricordi, sembra vibrare in risonanza a quel
particolare groviglio di nostalgia, gelosia, frustrazione e rabbia. Angie ha
finito col capire le motivazioni di 3Jane e col perdonarla... Anche se in
fondo che cosa c'è da perdonare, vagando tra queste querce sotto il sole?
Ma i sogni di 3Jane a volte la stancano. Preferisce altri sogni, in
particolare quelli della sua giovane protetta. Spesso giungono all'ondeggiare
di una tenda di pizzo, al primo canto degli uccelli. Lei si stringe a Bobby,
forma il nome "Continuity" nella mente e attende le piccole immagini
luminose.
Vede che hanno ricoverato la ragazza in una clinica giamaicana per
curare la sua dipendenza dagli stimolanti economici. Il suo metabolismo
viene affinato da un esercito paziente di tecnici medici della Rete, e alla fine
la ragazza ne emerge raggiante di salute. I suoi sensi sono abilmente
modulati da Piper Hill, e i suoi primi simstim sono accolti con un
entusiasmo senza precedenti. Il pubblico è incantato dalla sua freschezza,
dalla sua forza, dalla deliziosa ingenuità con cui sembra scoprire per la
prima volta la sua vita affascinante.
A volte un'ombra attraversa in lontananza lo schermo, ma solo per un
istante: Robin Lanier è stato trovato morto, strangolato e assiderato sulla
facciata-montagna del New Suzuki Envoy. Angie e Continuity sanno chi è
stato a strozzarlo con le lunghe mani e a gettarlo lassù.
Ma c'è una cosa che le sfugge, una tessera in particolare di quel
rompicapo che è la storia.
Sulla linea d'ombra di una quercia, sotto un tramonto color metallo e rosa
salmone in quella Francia che non è la Francia chiede a Bobby la risposta
alla sua ultima domanda.
A mezzanotte rimasero ad aspettare sul vialetto, perché Bobby le aveva
promesso una risposta.
Mentre gli orologi in casa battevano le dodici, Angie udì dei pneumatici
stridere sulla ghiaia. L'auto era lunga, bassa e grigia.
Al volante c'era Finn.
Bobby aprì la portiera e la fece entrare.
Sul sedile posteriore sedeva il ragazzo che ricordava di aver visto di
sfuggita sull'impossibile cavallo con i tre cavalieri male assortiti. Lui le
sorrise, ma non parlò.
«Ti presento Colin» disse Bobby salendo in macchina accanto a lei. «E
conosci già Finn.»
«Lei non l'ha mai capito, eh?» disse Finn, mettendo in moto.
«No» rispose Bobby «non credo.»
Il ragazzo di nome Colin le stava sorridendo. «L'aleph è
un'approssimazione della matrice» le spiegò. «Una specie di modello del
ciberspazio.»
«Sì, questo lo so» lo interruppe lei, e si rivolse a Bobby. «Allora? Avevi
promesso che mi avresti spiegato il perché del Giorno Che Cambiò.»
Finn rise, un suono strano. «Non c'è un perché, signora. C'è più che altro
un cosa. Ricordi che una volta Brigitte ha detto che c'era un altro? Be',
quello è il cosa, e il cosa è anche il perché.»
«Sì, ricordo. Lei ha detto che alla fine, quando la matrice ha conosciuto
se stessa, c'è stato "l'altro".»
«E' là che stiamo andando» disse Bobby, mettendole un braccio intorno
alle spalle. «Non è lontano, ma è...»
«Diverso» disse Finn. «Veramente diverso.»
«Ma cos'è?»
«Vedi» iniziò Colin scostando il ciuffo dalla fronte con un gesto da
scolaro dei tempi andati «quando la matrice ha raggiunto la coscienza, si è
resa conto che esisteva un'altra matrice, un'altra coscienza.» «Non capisco»
disse lei. «Se il ciberspazio consiste nella somma totale dei dati nel sistema
umano...»
«Già» la interruppe il Finn immettendosi nella lunga superstrada deserta
«ma nessuno sta dicendo che è umano...»
«L'altro era in un altro luogo» aggiunse Bobby.
«Centauri» precisò Colin.
La stavano prendendo in giro? Era forse uno scherzo di Bobby?
«Quindi è un po' un casino spiegare perché la matrice si è divisa in tutti
quegli spiriti e cazzate varie quando ha incontrato quest'altro» disse il Finn
«ma quando ci arriviamo te ne farai un 'idea.» «Personalmente» osservò
Colin «ritengo che così tutto sia più divertente.»
«State dicendo la verità?»
«Ci arriviamo in cinque minuti secchi» disse il Finn. «Giuro.»

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