Il 29 settembre 2017 si è tenuto presso polo piagge un seminario
intitolato: ” vittimologia e vittime fragili” dedicato alla disciplina vittimologica non solo come ambito della criminologia sociale, ma anche come ambiente in cui il servizio sociale opera nella sua quotidianità. La relatrice in un primo momento si è concentrata nel delineare i tratti caratteristici della vittimolgia, per poi analizzare nello specifico quali sono i soggetti più esposti a vitimizzazione.La vittimologia, ritenuta da molti una branca della criminologia, ha, rispetto alle altre discipline, una storia piuttosto breve. I primi studi, infatti, fioriscono dagli anni quaranta. Nel 1948, per esempio, H. Von Hentig scrive un’opera dal titolo “The criminal and his victim”. Con Von Hentig l’attenzione, prevalentemente focalizzata fino a quel momento sull’autore del reato, sulle sue caratteristiche e sulla sua responsabilità, si concentra invece sul carattere duale dell’interazione criminale: reo e vittima, due soggetti che meritano la medesima considerazione affinché si possa intervenire in maniera adeguata nel percorso di recupero di entrambi. Per cui la vittimologia ha sicuramente il merito di aver messo in luce, nella diade criminale, la figura della vittima, da intendersi, non esclusivamente come un soggetto che subisce passivamente le conseguenze di un reato perpetrato a suo danno, ma come parte attiva, che può addirittura diventare preponderante durante un processo di vittimizzazione.La maggior parte degli studiosi che, nel corso degli anni, si è interessata a temi di natura vittimologica, ritiene che esistano delle caratteristiche personali, che possano, in determinate circostanze, contribuire al precipitare degli eventi. Sarebbero, infatti, alcune variabili individuali e sociali a condizionare il verificarsi dell’episodio criminoso e ad attirare fatalmente il responsabile a commettere il reato. Caratteristiche fisiologiche quali l’età e il genere, psicologiche come gli stati depressivi e psicopatologici, e sociali connesse all’attività professionale e alla condizione economica possono avere un ruolo predominante nell’eziologia del crimine. È possibile dunque che la vittima non sia completamente innocente, ma che in qualche modo partecipi alla dinamica criminale. Specifiche condizioni come l’appartenenza al genere femminile, la giovane età o l’anzianità, la debolezza mentale, l’appartenenza a minoranze etniche o razziali e ancora la depressione e la solitudine, attirino a sé il criminale che individua nella loro vulnerabilità un facile bersaglio, non a caso sono classificate con vittime fragili, i minori, gli anziani, le donne, i disabili e gli stranieri. Proprio in relazione a questi soggetti si è articolata la discussione svolta durante il seminario, evidenziando prima la loro peculiare condizione relativa al fatto che il minore cosi come il disabile o l’anziano oltre ad essere deboli dal punto di vista fisico, in molti casi non sono neppure in grado di comprendere quanto accade intorno a loro, per poi porre in evidenza le possibili strategie d’intervento da parte dei servizi sociali non solo per dar inizio ad un percorso di recupero della vittima ma anche per comprendere i segnali d’allarme di una possibile situazione d’abuso e violenza, e per intervenire preventivamente affinché determinate situazioni non si verifichino.Il servizio sociale deve dunque non solo mettere in atto azioni di protezione e sostegno, ma anche di promozione e integrazione andando dunque a rimuovere tutti quegli ostacoli che comportano un Isolamento del soggetto e che lo rendendo più fragile e maggiormente soggetto a violenze di qualsiasi tipo.Facendo riferimento allo scenario odierno, gli individui che maggiormente si trovano in condizione “d’isolamento” di “marginalità” sono gli extracomunitari ed in particolare quelli provenienti dal continente africano, i quali sono soggetti a continui atti discriminatori da parte della popolazione bianca, atti i quali possono condurre allo sviluppo di forme di criminalità più o meno gravi.A tal proposito mi sembra adeguato far riferimento al secondo seminario al quale ho potuto partecipare, tenutosi il 19 marzo del 2018 intitolato: “ “L’Islam è una minaccia? Gesti radicali come risposta alla marginalità sociale” Ad introdurre l’argomento è stato Izzeddin Elzir presidente della comunità islamica d'Italia, Egli ha esposto il tema partendo dalla definizione di ciò che è realmente l’Islam, ed ha voluto precisare che, a differenza di quello che sovente si sostiene, i mussulmani non sono solo arabi, anzi solo il 20% di questi è islamico, il restante 80% appartiene ad altre etnie. Il portavoce dell’Islam è Maometto, considerato dai suoi fedeli l’ultimo profeta inviato da Dio al mondo e incaricato di far conoscere all’umanità la sua parola. Per i fedeli dunque l’Islam è l’insieme delle rivelazioni fatte all’umanità da Allah, queste rivelazioni sono contenute all’interno del libro sacro, il Corano. Dopo tale premessa su quello che è realmente l’Islam, Izzeddin Elzir ha voluto occuparsi di un argomento molto sentito e dibattuto soprattutto nell’ultimo periodo, che riguarda quello che è definito comunemente come “ estremismo islamico” da distinguere secondo la prospettiva dell’Imam da quello che comunemente è definito come “fondamentalismo islamico”, ovvero il ritorno ai principi fondamentali della religione. L'estremismo islamico fa, infatti, riferimento per lo più ad un uso strumentale della relgione da parte d’individui senza scrupoli, uniti da sentimenti d’odio, razzismo e ambizione di dominio politico, ad un modo di vedere la religione che fa uso della violenza e del terrorismo, ben lontano da quanto è contenuto realmente all’interno del Corano. Partendo da questa prospettiva appare dunque evidente il ruolo marginale giocato dalla religione nel determinare il fenomeno del terrorismo islamico, fenomeno che nell’ultimo periodo si è rafforzato sempre di più conducendo alla nascita di un nuovo gruppo di terroristi chiamato Isis. Per lo più ad immolarsi sotto il simbolo forte e identitario dell’isis sono i giovani, che non si riconoscono nei valori della propria famiglia di provenienza né in quelli della società occidentale in cui vivono. Riemerge dunque con evidenza come il disagio, la marginalità possano condurre allo sviluppo di forme particolari di devianza. In particolar modo rilevante è il caso francese in cui i giovani delle banlieue, spazi urbani che sono un concentrato di marginalità e devianza, di disuguaglianze e ghettizzazione culturale, nell'islam radicale paiono trovare l'unica ideologia che offre loro un'identità antagonista e che esprime una critica totale all’Occidente. Quello stesso Occidente che ha fatto balenare loro la promessa dell'integrazione attraverso il consumo e la mobilità sociale, ma che non ha saputo, o potuto, realizzarla.Tale tematica è poi stata inserita nel corso del seminario nel tema generale delle migrazioni, tema che nel corso del tempo si è consolidato sempre più assumendo ad oggi una rilevanza notevole. Tale fenomeno si presenta, infatti, come una sfida da fronteggiare la quale difficilmente è accettata da parte della popolazione che invece di collaborare al fine di garantire una corretta integrazione sociale e culturale, si oppone ad ogni possibile forma d’interazione con lo straniero considerandolo come diverso, creando forme d’emarginazione tali da fomentare lo sviluppo di radicalismi. Fondamentale in relazione al tema dell’immigrazione è anche il ruolo svolto dalle varie istituzioni della società.Nel nostro caso è di fondamentale importanza far leva sul ruolo svolto da parte del servizio sociale, è evidente, infatti, che la domanda d’aiuto della popolazione straniera verso tali servizi si stia facendo più cospicua, complessa e diversificata e come dunque la formazione degli operatori sociali debba tenere il passo con questi cambiamenti, questo porta all’esigenza di percorsi di formazione attenti agli atteggiamenti e alla riflessività professionale, in relazione a questa tematica mi sembra adeguato far riferimento all’ultimo seminario a cui ho potuto partecipare, tenutosi il 23 marzo 2018 intitolato: “L’ etica professionale negli odierni scenari di welfare”, in cui è emerso come l'assistente sociale sia una figura fondamentale per l’integrazione dei soggetti all’interno della società e proprio per questo come debba incentrare il suo scopo su quello che è il vero bene delle persone, individuando un punto in comune tra lui e il soggetto ed iniziando un percorso di miglioramento, senza avere comportamenti discriminatori o cercando di imporre quella che è la sua soluzione al problema. Inoltre è emerso come la “riflessività” sia fondamentale per operare in modo coerente con i principi e i fondamenti etici della professione, e come il professionista debba fare riferimento a quello che è il codice deontologico, che è lo strumento attraverso cui si presenta alla società e che lo guida nelle scelte di comportamento, nel fornire i criteri per affrontare i dilemmi etici e deontologici e nel dare pregnanza etica alle azioni professionali. Dopo una trattazione relativa al tema dell'etica professionale, si è giunti a delineare i tratti salienti della professione d’assistente sociale, discutendo poi sull’importanza del codice deontologico e sui principi e i valori che ispirano la professione. In ultimo la relatrice si è dedicata all'illustrazione dello scenario di welfare odierno, evidenziando come, Il welfare italiano, nel contesto sociale attuale, si caratterizza per alcuni aspetti che ne vanificano spesso gli effetti protettivi, amplificando le differenze e le contraddizioni generando disuguaglianza sociale e compressione dei diritti, in una polarizzazione del fenomeno che caratterizza il divario crescente tra redditi alti e redditi bassi, tra nord e sud e incide e amplifica le fragilità già presenti nella popolazione quali invecchiamento, aumento della non autosufficienza, vulnerabilità delle famiglie e povertà infantile, immigrazione, disabilità, dipendenze, marginalità di particolari etnie, condizioni di povertà estrema, devianza minorile e degli adulti. In conclusione sono state poi proposte possibili prospettive da adottare al fine di poter giungere ad un miglioramento di tale situazione, in modo tale che sia possibile realmente realizzare un sistema efficace ed efficiente in grado di porre in essere politiche volte ad un contrasto della disuguaglianze, politiche che indirettamente favoriscano il benessere complessivo della società perché mirando al sostegno e all’integrazione dei soggetti più deboli sono in grado di ridurre quelle condizioni di marginalità a cui nella maggioranza dei casi è strettamente consesso il fenomeno della devianza. Nella redazione di tale relazione ho voluto concentrarmi per lo più sul tema della marginalità con riferimento principalmente al tema dell’immigrazione, questo in quanto tale tematica appare essere estremamente rilevante nello scenario attuale, e soprattutto perché penso che il ruolo dell’assistente sociale in tale ambito sia di fondamentale importanza. Infatti, solitamente gli esercenti tale professione si trovano ad operare con persone che si trovano in condizioni di difficoltà e una gran parte di tale categoria d’individui è rappresentata proprio dagli stranieri.Inoltre ritengo opportuno che tale tematica possa portare a riflettere sulle capacità che l’assistente sociale deve essere in grado di sviluppare per operare in una società che va sempre più a configurarsi come multiculturale, evidenziando l’importanza di una processo formativo che permetta agli assistenti sociali di aggiornare continuamente le proprie competenze, permettendo loro di poter relazionarsi con maggior destrezza con persone appartenenti a culture e nazionalità diverse.