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Ci mancano le parole
Perché fare riferimento alle fiabe? Ma perché ci dicono chiaramente che non
sappiamo formulare davvero dei desideri: li confondiamo con il
soddisfacimento di un bisogno, con l’allontanamento di una sofferenza, con il
quietarsi di un disagio. Non conosciamo le parole per il desiderio, la
grammatica, la sintassi, la semantica dello stato di pienezza, di appagamento
vitale e denso di speranza e di voglie che potremmo chiamare “benessere”.
E se non conosciamo le parole per dirlo, come pensarlo? Come esprimerlo,
come realizzarlo? Come verificare che l’abbiamo ottenuto e che ci fa stare
bene?
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Sono tante le parole che ci mancano: come definire un uomo che attende un
figlio? E il compagno della mamma che non è il mio papà? Terrificanti i termini
come matrigna, figliastro o ancora il più spaventevole fratellastro che offende e
imbriglia i rapporti fra bambini fratelli. Se non abbiamo le parole, non abbiamo
ancora la possibilità di pensarli come pensieri nostri, adeguati a noi. Eredi di
una società antiquata, tutt’al più novecentesca, ancora non abbiamo posto
attenzione a dare voce e spazio a costumi, abitudini, realtà forse un tempo
innovative, oggi semplicemente attuali. Basti pensare, ad esempio, agli
psicoterapeuti che si definiscono “familiari”: ma di quale idea e prassi di
famiglia? Dov’è mai oggi la famiglia composta di papà e mamma (sempre gli
stessi nel tempo!) con il figlio maschio (più grande) e la figlia femmina? L’etica
immaginata nei libri per queste strutture oggi sempre meno frequenti, la prassi
più salutare indicata per la crescita dei figli risulta composta di parole,
suggerimenti, idee del tutto inattuali. Oggi le domande da porsi in quell’ambito
sono piuttosto di questo tenore: è bene che passino le vacanze assieme i due
nuclei ricostituiti? Bisogna informare il proprio ex partner del nuovo
matrimonio? Invitarlo? Con i bambini con cui vive anche se non sono figli suoi?
Far frequentare ai nostri figli i figli del mio ex partner Far l’amore con il proprio
ex partner è un autentico tradimento nei confronti del partner attuale?
Non aver preso atto delle trasformazioni della nostra società, non esserci
aggiornati scegliendo nuove parole per vestire le nostre nuove abitudini, ci
rende inabili a immaginare con naturalezza pensieri freschi per situazioni non
ancora attuate: come dire, ci rende inabili e impacciati nell’abitare l’intero
universo dell’immaginario e del non ancora attuato ma desiderabile. Accade,
così, che sentendoci goffi e incapaci, ci ritroviamo a usare le parole, le
situazioni, i pensieri e le regole già note, abituali e, soprattutto, garantite
capaci di essere condivise e condivisibili. E, per maggiore nostra sicurezza,
quanto più forte è il salto logico ed esperienziale che ci vien proposto, tanto più
indietro andiamo nel tempo fino ad attingere ai pensieri, alle massime e ai
costumi dei nostri genitori o nonni. Quell’insieme che sinteticamente viene
espresso dai proverbi o dai modi di dire. Senza soffermarci a leggerne il
contesto completo in cui la moderazione era sobrietà, saggezza che pensava
ad assicurare il domani non dieta ipocalorica per non ingrassare, in cui
l’austerità non era mortificazione in sé ma base per il futuro, capace di
garantire forza e resistenza per ottenere il proprio risultato, il sacrificio
esercizio e allenamento per la propria capacità di vivere.
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ammonire, davanti a un capriccio, che “l’erba voglio non cresce neppure nel
giardino del re”? E se quello è il pensiero giusto e sano, come posso
azzardarmi a volere di più, molto, tutto ciò che mi dà piacere? E da quando in
qua il piacere è legittimo, da quando in qua si può dichiararne apertamente il
desiderio e la voglia senza doverlo camuffare sotto vestaglie abbondanti di
dovere e magari di sacrificio che ne celino le forme appetitose? Le frasi che le
donne siciliane ricamavano sulle lenzuola della dote “non lo fo per piacer mio
ma per dare un figlio a Dio” ci fanno sorridere per l’incredibile e tenera e forse
irritante ingenuità ma quanti di noi oggi si danno il diritto di progettare
dichiaratamente alla ricerca del proprio piacere? Perfino quando si
programmano vacanze esotiche o molto dispendiose si corregge
immediatamente adducendo stanchezza, stress, necessità/ bisogno di staccare
un po’ per tornare a lavorare meglio. Non che questo non sia vero, ma perché,
se è così legittimo e notoriamente, socialmente saggio fare vacanze dobbiamo
aggiungere spiegazioni che sanno così tanto di giustificazione?
E che fare del detto: prima il dovere e poi il piacere? Il presupposto che
ingoiamo in un sorso inconsapevole come fosse un uovo all’ostrica è che
dovere e piacere sono, hanno da essere mondi lontanissimi, incompatibili.
Contrapposti e sempre da tenere distinti. Dunque, che farne dell’idea di
cercarsi un lavoro che piaccia? Non sarà una delle solite pretese della gioventù
d’oggi, notoriamente senza valori, cresciuta con il televisore a colori e il mouse
incorporato assieme al cellulare? Che, se avessimo dato retta noi alla voglia di
un lavoro che ci piacesse, non saremmo oggi tutti qui e loro altro che cercarsi
un lavoro che piaccia, il lavoro è lavoro, serve ad assicurare il mangiare e la
vita, mica a farci divertire che il piacere è roba da bambini. Bisogna essere
responsabili e fare i sacrifici perché senza sacrifici non si ottiene nulla, perfino
“chi bella vuole apparire un poco deve soffrire” oggi trova conferma nelle
sfiancanti sedute in palestra cui deve dedicarsi chiunque “si voglia un po’ di
bene” per correggere con una stupenda tartaruga le lunghe ore in ufficio o la
fatica dei tanti viaggi e gli ineliminabili pasti in piedi o spuntini raffazzonati
quando non, addirittura, la pizza o il piatto a fianco del blocco degli appunti
mentre si mangia tutti insieme attorno al tavolo, ad e dirigenti mentre tutti
insieme si analizza una situazione importante di lavoro e si prendono decisioni
di sottile strategia.
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E prima di ogni altra componente, mi sembra essenziale un diritto a una buona
autostima, diritto che a me appare sostanzialmente e diffusamente
troppo negato, sì che talvolta penso non si abbia neanche la nozione di
questo diritto.
Nessuno, infatti, può attribuire o riconoscere il piacere di una buona stima ad
altri se non ne possiede una sua buona, di autostima. E probabilmente si può
vivere o sopravvivere anche facendo a meno di quello che viene chiamato
amore ma senza stima è come non avessimo radicalmente diritto a esistere.
Sono vicini, spesso fortemente intrecciati ma la stima è altra cosa dall’amore.
Ora, mi sembra che la stima sia un attributo che va appoggiato su persone
adulte e la tragica e un poco patetica rincorsa verso la giovinezza da
conservare a ogni costo oppone un ostacolo serio allo scollinamento nell’età
adulta. Età da cui rifuggire fors’anche perché si teme di non poter più tornare
indietro se si lascia la presa sulla giovinezza, e l’età adulta è davvero
pericolosamente vicina allo scivolare verso la vecchiaia, questa sì
definitivamente considerata inaccettabile: è triste che in questa stagione in cui,
grazie a tante ricerche e investimenti significativi, la persona nel mondo ricco
ha un’attesa di vita così prolungata, in questa stagione appunto si finisca per
rivolgersi alla persona anziana per convincerla che può ancora far come se
avesse un’altra età, meno anni , o all’opposto, per assisterne il disagio fisico e
psichico verso l’attesa della morte. Ma non sappiamo pensare, immaginare,
concepire un vero progetto per la vecchiaia dopo averne saputo prolungare il
tempo. E, di rimbalzo, questa mancanza priva di valore anche l’età adulta,
allungandosi a sfiorare e minacciare perfino la tarda giovinezza, i famosissimi
‘anta, oggi definiti così spesso, leggermente, ragazzi. A quarant’anni. Sempre
ragazzi, come i cosiddetti tossicomani, carcerati in un perenne fermo
dell’azione che si sfoca piano piano.
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Ma se la dimensione religiosa non deve tollerare di essere ridotta banalmente
al moralismo, così anche la psicologia dovrebbe tornare a costituirsi sul serio
come disciplina della persona umana nel suo intero, articolato e unico, e non
come studio piatto del disagio. Un malsano uso della prima psicosomatica e
certe ovvie connessioni che riguardano il nostro essere ciascuno un tutt’uno
che collega il corpo, la mente, la psiche, le emozioni, l’ambiente, la nostra
storia sono finite spesso per stravolgersi in colpe. Quante persone ammalate di
cancro hanno dovuto affrontare perfino l’accusa più o meno larvata di
esserselo un po’ voluto? Con lo stile di vita, con il modo di mangiare, con la
incapacità di gestire le proprie emozioni… sono infiniti i modi in cui si articolano
le imputazioni e le attribuzioni di colpe, forse semplicemente perché l’unica
cosa cui la persona umana non può rinunciare, dopo il suo essere sociale, è la
ricerca delle cause, è il tentativo inesausto di darsene una ragione, di
organizzare in un insieme riconoscibile e complesso il mucchio complicato degli
eventi e dei dati. Ma attenzione a non renderlo un’arma letale che faccia della
responsabilità, massima caratteristica della persona libera e adulta che ne
garantisce l’autentico status di protagonista della propria esistenza, la
maggiore causa del malessere di oggi, quello cui ci riferiamo con il termine di
stress.
Il lavoro stressante
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è la scelta del punto di vista da cui considerarli, ordinarli, leggerli cercandovi
un senso compiuto.
Perché mai dobbiamo rinunciare, avendo oggi così tante risorse a disposizione,
a immaginare, pensare, volere per noi un Rinascimento rinnovato? Perché
dovremmo sentire più inestricabili i vincoli dell’oggi, riguardare alla storia
sempre per constatare la nostra pervicacia nel ripetere gli stessi, esasperanti
errori di guerra, violenza, sopraffazione, corruzione? E se ci prendessimo
l’ardire di considerare le macerie in cui viviamo come la testimonianza che un
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ciclo si è concluso, con il nostro permesso o senza, che abbiamo il privilegio di
esserci oggi per inventare qualcosa per domani?
Penso proprio che il tema più rilevante che ci coinvolge tutti a vari livelli e in
più modi sia come fare a collaborare restando ciascuno sempre di più unico e
inimitabile, irriducibile a qualsiasi tipo di etichette e stereotipi. E questa non è
l’essenza del lavoro? Non è questa l’impresa? Tante persone che condividono
un progetto comune e si danno da fare per realizzarlo. Ognuno rileggendo il
progetto comune a suo modo sì che risulti per ognuno a suo modo pienamente
appagante, di dare gioia, tale per cui valga la pena di investire, di palpitare, di
essere in tensione estenuata verso il risultato: la sua idea di benessere. Perché
è il futuro a dotare di senso e significato il quotidiano. La verifica ecologica che
pretende rigore e che non tollera superficialità o pressapochismo:
un’organizzazione che abbia tanto bisogno di vivere e di funzionare che sia
costretta a difendere la vita e la funzionalità di ogni elemento. Un progetto
che, come abbiamo imparato vivendo in uno Stato di diritto, mi appartiene ma
che posso raggiungere solamente se gli altri lo sceglieranno come loro progetto
personale, affiancando alla mia passione la loro energia: è nelle dittature che
non si ha bisogno della libertà degli altri, di ciascuno degli altri, per custodire la
mia.
Certo, è difficile, ma come mai abbiamo potuto pensare che non lo fosse?