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Il benessere questo sconosciuto

Questa questione del benessere, così ripetuta e riecheggiante da bocca a bocca


indirizzata verso un ascolto attento e coinvolto, mi sembra ancora un’area di
pensiero piuttosto vaga un po’ per tutti noi. Se venisse la fata delle fiabe, il
genio di Aladino a chiederci che benessere vorremmo, quali i nostri desideri,
temo che il primo nostro desiderio sarebbe del tipo “non avere più problemi/
preoccupazioni/ noie…”, essere liberati dalle piccole e grandi grane del
quotidiano, quando, addirittura, con animo ben consapevole di non dover
chiedere troppo, con voce rassegnata e timorosa non chiediamo “solo essere
appena un po’ più sereno/ meno stressato/ potermi rilassare”. Ma non avere
più mal di denti o essere liberati dal capufficio pedante, dalla suocera
invadente, dal partner assillante o insoddisfacente, non garantisce per nulla
l’accesso al benessere. Molto più banalmente, e anche in termini assai più
deludenti, forse ci aiuterebbe a mettere fuori il capo da una strettoia faticosa,
magari a uscire da una botola in cui stranamente eravamo finiti senza
sapercene accorgere. Allora, sì, è questa l’invocazione: fata o genio, disfa per
me questa rete in cui mi ritrovo impigliato, non era questo che volevo, sono
stanco, pressato, lascia che ritrovi anch’io un po’ di serenità.

Se ci poniamo attenzione, è abbastanza questa la sequenza in cui nelle fiabe si


svolgono le trattative per i canonici tre desideri da esprimere e cui assicurare
soddisfacimento: così no, ma non intendevo che succedesse proprio questo,
così, torniamo alla situazione iniziale, cancelliamo la magia. Ricordate?
“Rombo, rombetto che principe sei” invoca il pescatore che ha pescato e
rimesso in mare il pesce, dammi una casa al posto della mia capanna, anzi
dammi una villa, anzi un palazzo, rombo rombetto fammi re, anzi imperatore,
anzi papa. Ma quando la richiesta da avanzare è di “essere Dio”, il pescatore
ripete, a scanso di equivoci e per non pagare il costo altissimo di una pretesa
inammissibile, “fosse per me non lo vorrei, ma è tutta colpa della mi’ moglie,
della mi’ moglie che ha tutte le voglie”. Ovviamente, si scatena il temporale
con lampi e tuoni che sottolineano lo scandalo dell’avidità inaccettabile e il
pescatore si ritroverà bagnato e affranto con la moglie nella capanna di
partenza.

Ci mancano le parole

Perché fare riferimento alle fiabe? Ma perché ci dicono chiaramente che non
sappiamo formulare davvero dei desideri: li confondiamo con il
soddisfacimento di un bisogno, con l’allontanamento di una sofferenza, con il
quietarsi di un disagio. Non conosciamo le parole per il desiderio, la
grammatica, la sintassi, la semantica dello stato di pienezza, di appagamento
vitale e denso di speranza e di voglie che potremmo chiamare “benessere”.
E se non conosciamo le parole per dirlo, come pensarlo? Come esprimerlo,
come realizzarlo? Come verificare che l’abbiamo ottenuto e che ci fa stare
bene?

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Sono tante le parole che ci mancano: come definire un uomo che attende un
figlio? E il compagno della mamma che non è il mio papà? Terrificanti i termini
come matrigna, figliastro o ancora il più spaventevole fratellastro che offende e
imbriglia i rapporti fra bambini fratelli. Se non abbiamo le parole, non abbiamo
ancora la possibilità di pensarli come pensieri nostri, adeguati a noi. Eredi di
una società antiquata, tutt’al più novecentesca, ancora non abbiamo posto
attenzione a dare voce e spazio a costumi, abitudini, realtà forse un tempo
innovative, oggi semplicemente attuali. Basti pensare, ad esempio, agli
psicoterapeuti che si definiscono “familiari”: ma di quale idea e prassi di
famiglia? Dov’è mai oggi la famiglia composta di papà e mamma (sempre gli
stessi nel tempo!) con il figlio maschio (più grande) e la figlia femmina? L’etica
immaginata nei libri per queste strutture oggi sempre meno frequenti, la prassi
più salutare indicata per la crescita dei figli risulta composta di parole,
suggerimenti, idee del tutto inattuali. Oggi le domande da porsi in quell’ambito
sono piuttosto di questo tenore: è bene che passino le vacanze assieme i due
nuclei ricostituiti? Bisogna informare il proprio ex partner del nuovo
matrimonio? Invitarlo? Con i bambini con cui vive anche se non sono figli suoi?
Far frequentare ai nostri figli i figli del mio ex partner Far l’amore con il proprio
ex partner è un autentico tradimento nei confronti del partner attuale?

Il potere dell’erba voglio

Non aver preso atto delle trasformazioni della nostra società, non esserci
aggiornati scegliendo nuove parole per vestire le nostre nuove abitudini, ci
rende inabili a immaginare con naturalezza pensieri freschi per situazioni non
ancora attuate: come dire, ci rende inabili e impacciati nell’abitare l’intero
universo dell’immaginario e del non ancora attuato ma desiderabile. Accade,
così, che sentendoci goffi e incapaci, ci ritroviamo a usare le parole, le
situazioni, i pensieri e le regole già note, abituali e, soprattutto, garantite
capaci di essere condivise e condivisibili. E, per maggiore nostra sicurezza,
quanto più forte è il salto logico ed esperienziale che ci vien proposto, tanto più
indietro andiamo nel tempo fino ad attingere ai pensieri, alle massime e ai
costumi dei nostri genitori o nonni. Quell’insieme che sinteticamente viene
espresso dai proverbi o dai modi di dire. Senza soffermarci a leggerne il
contesto completo in cui la moderazione era sobrietà, saggezza che pensava
ad assicurare il domani non dieta ipocalorica per non ingrassare, in cui
l’austerità non era mortificazione in sé ma base per il futuro, capace di
garantire forza e resistenza per ottenere il proprio risultato, il sacrificio
esercizio e allenamento per la propria capacità di vivere.

E con una frettolosità che sconfina nell’arbitrio, ci rifacciamo al modo di vivere


sano e giusto che, signora mia, oggi non c’è più ma allora, bastava una stretta
di mano per siglare un patto, mica c’era bisogno di tutte queste carte. La bontà
e la validità di quel mondo d’altro tempo era il capovolto di quello che c’è oggi.
E in quel mondo di allora, che i più giovani possono oggi soltanto immaginare,
proprio come nelle fiabe, ma che, proprio come accade nelle fiabe, antichi
motti diventano cristalli di saggezza indiscutibile. Chi di noi non si è sentito

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ammonire, davanti a un capriccio, che “l’erba voglio non cresce neppure nel
giardino del re”? E se quello è il pensiero giusto e sano, come posso
azzardarmi a volere di più, molto, tutto ciò che mi dà piacere? E da quando in
qua il piacere è legittimo, da quando in qua si può dichiararne apertamente il
desiderio e la voglia senza doverlo camuffare sotto vestaglie abbondanti di
dovere e magari di sacrificio che ne celino le forme appetitose? Le frasi che le
donne siciliane ricamavano sulle lenzuola della dote “non lo fo per piacer mio
ma per dare un figlio a Dio” ci fanno sorridere per l’incredibile e tenera e forse
irritante ingenuità ma quanti di noi oggi si danno il diritto di progettare
dichiaratamente alla ricerca del proprio piacere? Perfino quando si
programmano vacanze esotiche o molto dispendiose si corregge
immediatamente adducendo stanchezza, stress, necessità/ bisogno di staccare
un po’ per tornare a lavorare meglio. Non che questo non sia vero, ma perché,
se è così legittimo e notoriamente, socialmente saggio fare vacanze dobbiamo
aggiungere spiegazioni che sanno così tanto di giustificazione?

E che fare del detto: prima il dovere e poi il piacere? Il presupposto che
ingoiamo in un sorso inconsapevole come fosse un uovo all’ostrica è che
dovere e piacere sono, hanno da essere mondi lontanissimi, incompatibili.
Contrapposti e sempre da tenere distinti. Dunque, che farne dell’idea di
cercarsi un lavoro che piaccia? Non sarà una delle solite pretese della gioventù
d’oggi, notoriamente senza valori, cresciuta con il televisore a colori e il mouse
incorporato assieme al cellulare? Che, se avessimo dato retta noi alla voglia di
un lavoro che ci piacesse, non saremmo oggi tutti qui e loro altro che cercarsi
un lavoro che piaccia, il lavoro è lavoro, serve ad assicurare il mangiare e la
vita, mica a farci divertire che il piacere è roba da bambini. Bisogna essere
responsabili e fare i sacrifici perché senza sacrifici non si ottiene nulla, perfino
“chi bella vuole apparire un poco deve soffrire” oggi trova conferma nelle
sfiancanti sedute in palestra cui deve dedicarsi chiunque “si voglia un po’ di
bene” per correggere con una stupenda tartaruga le lunghe ore in ufficio o la
fatica dei tanti viaggi e gli ineliminabili pasti in piedi o spuntini raffazzonati
quando non, addirittura, la pizza o il piatto a fianco del blocco degli appunti
mentre si mangia tutti insieme attorno al tavolo, ad e dirigenti mentre tutti
insieme si analizza una situazione importante di lavoro e si prendono decisioni
di sottile strategia.

Il diritto di essere adulti

So bene che molti si sentono inseguiti e obbligati dalle necessità quotidiane,


dalla scarsezza del tempo, so bene che scrollerebbero infastiditi le spalle
escludendosi da chi abita questo mondo antiquato, grigio, per fortuna oggi
ormai del tutto superato. Mi limito a notare che questo mondo d’antan non è
stato ancora sostituito da un corpus di pensieri e di parole che sappia rendere
giustizia alle esigenze di oggi e di domani innervandole di speranza, vitalità,
capacità di gioia, voglia di vivere appieno, fiducia in se stessi e nella propria
capacità di trovare e usare le risorse per sognare, se è vero che un progetto è
un sogno cui sono state allocate delle risorse.

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E prima di ogni altra componente, mi sembra essenziale un diritto a una buona
autostima, diritto che a me appare sostanzialmente e diffusamente
troppo negato, sì che talvolta penso non si abbia neanche la nozione di
questo diritto.
Nessuno, infatti, può attribuire o riconoscere il piacere di una buona stima ad
altri se non ne possiede una sua buona, di autostima. E probabilmente si può
vivere o sopravvivere anche facendo a meno di quello che viene chiamato
amore ma senza stima è come non avessimo radicalmente diritto a esistere.
Sono vicini, spesso fortemente intrecciati ma la stima è altra cosa dall’amore.
Ora, mi sembra che la stima sia un attributo che va appoggiato su persone
adulte e la tragica e un poco patetica rincorsa verso la giovinezza da
conservare a ogni costo oppone un ostacolo serio allo scollinamento nell’età
adulta. Età da cui rifuggire fors’anche perché si teme di non poter più tornare
indietro se si lascia la presa sulla giovinezza, e l’età adulta è davvero
pericolosamente vicina allo scivolare verso la vecchiaia, questa sì
definitivamente considerata inaccettabile: è triste che in questa stagione in cui,
grazie a tante ricerche e investimenti significativi, la persona nel mondo ricco
ha un’attesa di vita così prolungata, in questa stagione appunto si finisca per
rivolgersi alla persona anziana per convincerla che può ancora far come se
avesse un’altra età, meno anni , o all’opposto, per assisterne il disagio fisico e
psichico verso l’attesa della morte. Ma non sappiamo pensare, immaginare,
concepire un vero progetto per la vecchiaia dopo averne saputo prolungare il
tempo. E, di rimbalzo, questa mancanza priva di valore anche l’età adulta,
allungandosi a sfiorare e minacciare perfino la tarda giovinezza, i famosissimi
‘anta, oggi definiti così spesso, leggermente, ragazzi. A quarant’anni. Sempre
ragazzi, come i cosiddetti tossicomani, carcerati in un perenne fermo
dell’azione che si sfoca piano piano.

Responsabili non vuol dire colpevoli

Gira insistente e si diffonde da tempo il refrain che, in analogia con il definire


l’età infantile o adolescenziale spensierata, l’avere dei pensieri significhi avere
preoccupazioni e rischiare di restarne sconfitti, sostanzialmente per la nostra
incapacità a farvi fronte. Se piove, non sono tenuta ad avere pensieri di
preoccupazioni a meno che debba guidare (e potrei mettermi in pericolo)
oppure sia uscita imprudentemente senza copertura o, che so, magari perché
ricordo di non aver ben chiuse le finestre o perché rischio di far tardi a un
appuntamento importante. Voglio dire che si avvita rapidamente il circuito
infernale in cui avere delle responsabilità richiede una capacità fronteggiare
circostanze non tutte pienamente preventivabili o controllabili ma la nostra
bassa autostima ci induce a pensare che non sapremo farvi fronte e che questo
provocherà dei danni e che non potremo che esserne chiamati responsabili-
colpevoli: era tua la responsabilità, hai fallito, il tuo credito si scarica tutto d’un
colpo. Disastro senza riparo alcuno che si abbatte tanto più facilmente perché
aiutato dalla forte componente moralistica che permea così spesso il nostro
modo di ragionare: basta ricordare che riusciamo a parlare di intestino pigro!
Colpevolmente responsabile del nostro malessere.

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Ma se la dimensione religiosa non deve tollerare di essere ridotta banalmente
al moralismo, così anche la psicologia dovrebbe tornare a costituirsi sul serio
come disciplina della persona umana nel suo intero, articolato e unico, e non
come studio piatto del disagio. Un malsano uso della prima psicosomatica e
certe ovvie connessioni che riguardano il nostro essere ciascuno un tutt’uno
che collega il corpo, la mente, la psiche, le emozioni, l’ambiente, la nostra
storia sono finite spesso per stravolgersi in colpe. Quante persone ammalate di
cancro hanno dovuto affrontare perfino l’accusa più o meno larvata di
esserselo un po’ voluto? Con lo stile di vita, con il modo di mangiare, con la
incapacità di gestire le proprie emozioni… sono infiniti i modi in cui si articolano
le imputazioni e le attribuzioni di colpe, forse semplicemente perché l’unica
cosa cui la persona umana non può rinunciare, dopo il suo essere sociale, è la
ricerca delle cause, è il tentativo inesausto di darsene una ragione, di
organizzare in un insieme riconoscibile e complesso il mucchio complicato degli
eventi e dei dati. Ma attenzione a non renderlo un’arma letale che faccia della
responsabilità, massima caratteristica della persona libera e adulta che ne
garantisce l’autentico status di protagonista della propria esistenza, la
maggiore causa del malessere di oggi, quello cui ci riferiamo con il termine di
stress.

Il lavoro stressante

E se stress c’è, il primo cui guardiamo (il primo responsabile, il primo


colpevole) è certamente il lavoro. Il lavoro in sé, l’ambiente di lavoro, il tempo
che richiede, anzi pretende, la competizione con il fantomatico “tempo libero”
(percepito assai più come libero dal lavoro che libero di fare dell’altro), il
rapporto defatigante con il proprio capo, con i colleghi, i più anziani, quelli
appena entrati. Ogni particolare, ogni dettaglio può farsi una spina urticante in
modo insopportabile sì da finire per lacerare la pelle psichica della persona e
spesso per lacerare anche il suo sistema immunitario. Ansia, attacchi di panico,
fibrillazioni, insonnia, fobie di ogni tipo, perdita di rapporti affettivi, amorosi o
amicali ma anche di capelli, viso affaticato e invecchiato, possono essere
moltissimi i segni che denunciano uno stato che chiamiamo stress.
Penso, però, che nell’indiscutibile e diffusa realtà di questo malessere spesso ci
accaniamo sull’ultimo anello della catena. Fare una malattia, come si dice, del
proprio modo di stare sul e nel lavoro, permettere al lavoro inteso
genericamente di farci ammalare, di bucare le nostre difese non può ridursi
solamente all’ultima strigliata del capo, al cliente che non abbiamo saputo
convincere della bontà della nostra offerta, al collega che ha avuto una
promozione, a subire la competizione con altri dentro e fuori dall’ambiente
fisico di lavoro. Trovo pericoloso diagnosticare, ordinandoli appunto in una
sequenza riconoscibile, i cosiddetti sintomi che delineano la sindrome.
Nuovamente, non perché non risulti vero questo modo di ordinare ma perché
mi appare difficilmente capace di suggerire degli interventi. Il fatto che una
cosa sia vera non la rende di per sé importante. Certamente riconoscere dei
segnali è più che utile indispensabile ma il punto che mi sembra fondamentale

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è la scelta del punto di vista da cui considerarli, ordinarli, leggerli cercandovi
un senso compiuto.

E il senso compiuto non può risultare da un accorpamento che accomuni tutti


quelli che manifestano questi segnali. Credo fortemente che ogni persona
debba poter essere considerata come assolutamente unica, il che
evidentemente non esclude per nulla la comunanza e la condivisione di segnali
e sintomi con altri. Ugualmente unici. Altrettanto ingenuo e francamente
sciocco sarebbe negare la capacità di ambienti fisici e relazionali, di stili e
attuazioni di organizzazioni di danneggiare la persona umana, limitandone la
libertà, mortificando il valore del suo pensiero, inducendola, appunto, ad avere
di sé una minima autostima. Si sarebbe detto, e a ragione, in altri tempi che
l’individualità della persona era pericolosa per il successo dell’impresa, che
occorrevano yesman che non obiettassero ma esecutori rapidi ed efficienti. Un
tema che conserva ancora molto credito e, soprattutto, conserva la grande
capacità di consolarci rimettendo, appunto, tutto in ordine. Mi sembra
superfluo confermare che sappiamo tutti benissimo che esistono interessi
diversi quando non contrapposti, che esiste la violenza nei rapporti umani (e
perché stupirsi che accada nel lavoro?), che la globalizzazione non l’abbiamo
ancora digerita (ma se pensiamo che i medici dicono che il nostro mal di
schiena dipende dal fatto che non abbiamo ancora ben capito fino in fondo che
non siamo più quadrumani!) e siamo tutti confusi e straniti, alla ricerca di un
modo nostro di stare in questo mondo. Voglio solamente dire che questo
nostro sconcerto può trasformarsi in una grandissima risorsa, l’energia per
modificare il nostro abituale punto di vista, per aggiungerne altri e altri ancora,
per aumentare le nostre scelte possibili.

Un nuovo Rinascimento alla nostra portata

Rinascimento perché? Ma perché nel Rinascimento che abbiamo studiato nei


libri un mondo permeabile era abitato da persone tutte uniche, capaci di
collaborare per progetti artistici e culturali senza per nulla attenuare le
differenze anzi accentuandole, persone interessate e appassionate di sapere,
condividere le conoscenze e costruirne una nuova da capire assieme, da
consumare, usare nei modi più diversi, investendo nello studio, fiere di
brandire alta la propria insopprimibile curiosità. E questo è accaduto quando il
mondo era chiuso in catene strette di ingiustizia e di violenza, quando l’attesa
di vita era estremamente bassa, quando la tecnologia, i viaggi, le
comunicazioni non erano in alcun modo paragonabili o simili a ciò che oggi
chiamiamo tecnologia, viaggi, comunicazioni.

Perché mai dobbiamo rinunciare, avendo oggi così tante risorse a disposizione,
a immaginare, pensare, volere per noi un Rinascimento rinnovato? Perché
dovremmo sentire più inestricabili i vincoli dell’oggi, riguardare alla storia
sempre per constatare la nostra pervicacia nel ripetere gli stessi, esasperanti
errori di guerra, violenza, sopraffazione, corruzione? E se ci prendessimo
l’ardire di considerare le macerie in cui viviamo come la testimonianza che un

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ciclo si è concluso, con il nostro permesso o senza, che abbiamo il privilegio di
esserci oggi per inventare qualcosa per domani?

Penso proprio che il tema più rilevante che ci coinvolge tutti a vari livelli e in
più modi sia come fare a collaborare restando ciascuno sempre di più unico e
inimitabile, irriducibile a qualsiasi tipo di etichette e stereotipi. E questa non è
l’essenza del lavoro? Non è questa l’impresa? Tante persone che condividono
un progetto comune e si danno da fare per realizzarlo. Ognuno rileggendo il
progetto comune a suo modo sì che risulti per ognuno a suo modo pienamente
appagante, di dare gioia, tale per cui valga la pena di investire, di palpitare, di
essere in tensione estenuata verso il risultato: la sua idea di benessere. Perché
è il futuro a dotare di senso e significato il quotidiano. La verifica ecologica che
pretende rigore e che non tollera superficialità o pressapochismo:
un’organizzazione che abbia tanto bisogno di vivere e di funzionare che sia
costretta a difendere la vita e la funzionalità di ogni elemento. Un progetto
che, come abbiamo imparato vivendo in uno Stato di diritto, mi appartiene ma
che posso raggiungere solamente se gli altri lo sceglieranno come loro progetto
personale, affiancando alla mia passione la loro energia: è nelle dittature che
non si ha bisogno della libertà degli altri, di ciascuno degli altri, per custodire la
mia.

Certo, è difficile, ma come mai abbiamo potuto pensare che non lo fosse?

Maria Cristina Koch

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