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Torino 2016 CSP art/2/2016

L’Ultima Cena.
Un’indagine ancora in corso su uno degli
avvenimenti chiave per la cultura
occidentale e per tutta l'umanità
di
Marta Berogno e Generoso Urciuoli
Torino 2016 CSP art/2/2016
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Occupandoci di cibo e delle abitudini alimentari delle antiche civiltà, a


un certo punto della nostra ricerca è stato naturale imbattersi in un uno
degli avvenimenti chiave per la cultura occidentale e per tutta
l’umanità: l'Ultima Cena, evento presumibilmente accaduto all’inizio del
I secolo d.C. e inserito in un contesto ben preciso e articolato.
Abbiamo scritto un libro su questa ricerca dal titolo “Gerusalemme:
l’Ultima Cena” dove il cibo, come elemento di indagine, non è stato
l’unico ad essere sottoposto alla lente di ingrandimento: la Palestina,
Gerusalemme, l’ Impero Romano, il popolo eletto, le Sacre Scritture e non
solo, sono gli altri ingredienti, dal fascino fortissimo e dal sapore
esotico, che sono stati imbanditi sul tavolo di quella ricerca.
Abbiamo deciso di sintetizzare il lavoro fatto in questo articolo, come
se fosse una sorta di prova del nove e di verifica dell’iter svolto
durante la ricerca.
Il periodo storico che fa da sfondo all’Ultima Cena è caratterizzato da
un forte fermento sociale, religioso e politico, sia nel Vicino Oriente,
sia in tutto il bacino del Mediterraneo. L’ Impero Romano è in fase di
ascesa e pone le basi per quello che nei decenni a venire sarà il suo
periodo di massima espansione. Anche da un punto di vista alimentare,
soprattutto a Roma, si registra una vera rivoluzione, con un cambiamento
importante nelle abitudini e nella ricerca del gusto da parte degli
aristocratici
Parallelamente sta per definirsi il cristianesimo, fenomeno che vedrà
coinvolto tutto il bacino del Mediterraneo, ma anche le lontane province
dell’Impero Romano, dalla Britannia alla Bitinia. La nuova religione, che
si diffonderà ovunque, viaggia sulle stesse strade, rotte e percorsi dei

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mercanti e delle merci. A Gerusalemme, poi, avverrà la distruzione del


Secondo Tempio con conseguente stravolgimento della mappa sociale e
religiosa del popolo eletto.
Per molti studiosi, questa ricerca storica, archeologica, con sfumature
sociologiche e antropologiche e relative interpretazioni e formulazione
di scenari, potrebbe apparire riduttiva rispetto all’analisi di un
fenomeno religioso, ma il nostro scopo era investigare su un atto comune,
quotidiano, un momento conviviale, anche se regolamentato da una
tradizione.
Per cogliere fino in fondo gli avvenimenti dell’epoca in questione, siamo
partiti dal presupposto che Gesù fosse un vero Ebreo. Egli e i suoi
discepoli si consideravano veri Ebrei, rispettosi delle tradizioni
trasmesse dalla Toràh e attenti ai dettami, ma soprattutto ai divieti,
legati all’alimentazione, eppure il cristianesimo è l’unico monoteismo
privo di divieti alimentari. L’astensione dalle carni durante il venerdì
non è un divieto, il digiunare in alcuni giorni non è una proibizione;
infatti, nel mondo cristiano non esistono alimenti tabù e prescrizioni
alimentari. Ci si limita ad invitare all’astensione dalle carni, ma nulla
di più.
Cosa accadde quella sera? Durante la Cena, che cambiò i destini
dell’umanità, fu compiuto un atto rivoluzionario, condotto anche
attraverso il cibo o quella cena assunse un significato diverso nel corso
dei secoli a seguire?
Al tempo di Gesù il mondo giudaico non era un mondo compatto, monolitico,
la tradizione, non di rado, era soggetta ad adattamenti e interpretazioni
dei vari gruppi esistenti all’epoca. Le dispute sulla corretta
interpretazione della tradizione erano all’ordine del giorno e anche nei
Vangeli ne abbiamo ampia dimostrazione.
La difficoltà incontrata durante la ricerca è stata quella di “epurare”
tutte le interpretazioni sorte a posteriori su quell’evento, perché
un’interpretazione postuma non può cambiare nella realtà ciò che avvenne
in precedenza. Il nucleo fondamentale dei riti e delle tradizioni, alle
quali faceva riferimento Gesù, si è conservato nelle tradizioni ebraiche
fino ai nostri giorni, ma ha subito diverse modificazioni e soprattutto è
stato codificato diversi decenni dopo l’ipotetica presenza terrena di
Gesù. Il medesimo lavoro sulle fonti è stato compiuto anche nei confronti
dei Vangeli, “liberati” dalle tradizioni successive che si sono

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stratificate e sedimentate in quei testi. Abbiamo esaminato i Vangeli e i


relativi autori in modo critico, calandoli nel contesto sociale e
culturale nell’epoca nella quale furono composti. Gli studiosi sono tutti
concordi nel sostenere che i Vangeli siano stati compilati diversi
decenni dopo l’epoca di Gesù, con un contesto generale differente e, che,
elemento da non sottovalutare, nessun evangelista fu un testimone diretto
di quegli avvenimenti. Siamo consapevoli che le origini del
cristianesimo, nonostante i numerosi studi e pubblicazioni in epoca
moderna, restino ancora avvolte nella nebbia della storia. Le fonti
dirette sono scarse e, dove presenti, rivelano non pochi problemi di
ordine letterario, linguistico e storico; il cristianesimo
nacque, all'inizio del I secolo dell'era volgare, come una setta della
religione giudaica, si diffuse rapidamente, ma i suoi albori passarono
inosservati agli scrittori del tempo. Divenuta, in seguito, una religione
ben distinta, le fonti furono scritte ad uso e consumo interno con
finalità specifiche, per far sì che il nuovo credo mantenesse una propria
caratterizzazione precisa, e, per questo motivo, nei secoli successivi
fonti vennero eliminate, mentre altre furono codificate ed entrarono a
far parte del nuovo canone.
La ricerca necessariamente è passata attraverso l’esame del contesto
storico nel quale Gesù visse e, in base agli usi e costumi dell’epoca,
l’analisi di come si sia comportato e di come si sia nutrito.
La scelta delle fonti da cui attingere informazioni, per qualsiasi
ricerca, è fondamentale e più le fonti sono vicine cronologicamente
all’avvenimento d’interesse, più indizi di prima mano potrebbero
apportare, nonostante tutte le criticità dell’analisi di un documento.
Molte delle fonti da noi utilizzate sono ancora controverse, nonostante
costituiscano il pilastro di millenni di conoscenze e credenze. Nella
nostra ricerca abbiamo dato per scontato che le poche informazioni
sull’Ultima Cena contenute nei Vangeli siano attendibili, ma incomplete e
non così chiare; mentre, le notizie sul cibo presenti nella Bibbia sono
risultate attendibili, perché supportate dai dati archeologici.
Abbiamo affermato che Gesù, nonostante fosse un Ebreo praticante, avrebbe
potuto applicare un atteggiamento meno rigido nei confronti di
determinati dettami imposti dalla Legge; propensione che traspare dal
racconto dei Vangeli, soprattutto nelle dispute dialettiche con i
Farisei. Quale interpretazione diede Gesù alla Legge? In particolare, su

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quali regole, decise di applicare un atteggiamento meno rigido? La Bibbia


è una narrazione legata ad un popolo, che riceve precetti, soprattutto
alimentari, norme che gli consentono di elevarsi e di distinguersi dalle
altre popolazioni del Vicino Oriente. Questo fa di loro il popolo eletto!
Tale patto che inizia con Abramo, viene stipulato formalmente tra Dio e
Mosè, dopo l’uscita dall’Egitto con la consegna delle Tavole della Legge.
La condizione necessaria, affinché permanga l’alleanza con Yahweh, è il
rispetto delle norme che lo stesso Dio ha indicato, attraverso i suoi
intermediari. Per il popolo di Israele, il cibo assume una valenza
spirituale e culturale fondamentale, la quale va disciplinata con
numerose regole (kasherut), che rappresentano il fondamento della pratica
religiosa.
La scelta del singolo e del popolo di adeguarsi al complesso sistema
comportamentale, contemplato essenzialmente dalla Toràh (insegnamento di
tutta la Legge ebraica scritta ed orale), implica l’accettazione
dell’ordine imposto da Dio nel processo di creazione del mondo. Tutto,
nell’atto creativo, fu suddiviso in categorie e tutti gli elementi furono
distinti, compresa la differenziazione tra i cibi proibiti e i cibi
consentiti. “Nessun cibo impuro è transitato dalla mia bocca”, afferma
Pietro negli Atti degli Apostoli. E’ possibile, dunque, che Gesù, durante
la sua ultima cena, fatta coincidere dai Vangeli con la Pasqua ebraica,
non abbia rispettato il patto? E’ possibile che, nell’Ultima Cena, non
siano stati consumati i cibi tipici di quella ricorrenza, dal momento che
nelle fonti non vengono citati l’agnello, le erbe amare e tutto il
rituale previsto per celebrare la Pasqua? Perché, ad esempio, se pur
sottratto dalla documentazione ufficiale, l’agnello continua a essere
presente come cibo tradizionale della Pasqua cristiana, evidenziando una
chiara continuità con la tradizione ebraica? Perché non compaiono tracce
di alimenti, ma solo frasi generiche “dopo aver mangiato” senza
specificare che cosa? Perché far passare in secondo piano la celebrazione
della Pasqua rispetto ad altro? Se quella sera venne celebrata la Pasqua,
cosa è accaduto da quella cena fino alla stesura della prima lettera di
Paolo ai Corinzi o alla Didachè, insegnamento, fino alla composizione del
Vangelo di Marco? Gli scritti sopra citati contengono i riferimenti
cronologicamente più vicini al momento in cui avvenne quell’atto
conviviale. Per l’esattezza, solo il Vangelo di Marco e la lettera di San
Paolo si riferiscono in modo diretto alla Cena, mentre la Didachè, uno

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scritto suddiviso in 16 capitoli che stabilisce alcuni aspetti


fondamentali della vita e dell'organizzazione della nascente struttura
religiosa cristiana, riporta in modo generico le celebrazioni della cena
eucaristica, narrate in ben tre capitoli. Gli studiosi propendono per far
risalire la composizione della Didachè sul finire del I secolo d.C., in
Oriente; trattandosi di un documento di insegnamento, può rappresentare
per noi una sorta di codificazione rituale, anche se, con valore più
spirituale e teologico che di ricostruzione storica. A scanso di
equivoci, è utile precisare un concetto: nessun testimone diretto ha
raccontato l’Ultima Cena! Chi ne ha scritto, si è rifatto ad una
tradizione già esistente, ad un probabile racconto per “sentito dire”.
Può sembrare paradossale, ma è così.
Ritorniamo alle nostre fonti con i riferimenti diretti o indiretti alla
Cena e proviamo a leggerli partendo dal testo di San Paolo che si
avvicina di più, cronologicamente parlando, a quel momento: la Prima
lettera ai Corinzi. “Quando poi vi riunite per mangiare, non è la Cena
del Signore quella cui partecipate, ma soltanto la vostra. Infatti,
quando vi mettete a tavola, ognuno mangia a più non posso, senza
aspettare di dividere il cibo con gli altri. E così mentre uno patisce la
fame, l’altro è ubriaco perché ha bevuto troppo. Come mai? Non potreste
mangiare e bere a casa vostra?
Perché disprezzate così la Chiesa di Dio e offendete quelli che sono
poveri e non possono portarsi da mangiare? Che devo dire di queste cose?
Dovrei forse farvi i miei complimenti? No di certo! Questo è ciò che il
Signore stesso ha detto della sua Cena, ed io così vi ho insegnato: la
notte in cui fu tradito, il Signore Gesù prese del pane, e dopo aver
ringraziato Dio, lo spezzò e disse: « Questo è il mio corpo, che è dato
per voi. Fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver
cenato, prese il calice di vino e disse: « Questo calice è il nuovo patto
fra Dio e voi, un’alleanza fatta col mio sangue. Ogni volta che ne
berrete, fatelo in memoria di me.
Infatti, ogni volta che mangiate questo pane e bevete il vino di questo
calice, voi annunciate la morte del Signore. Fate questo finché non
tornerò di nuovo». Perciò, chi mangia questo pane o beve da questo calice
del Signore in modo indegno, è colpevole verso il corpo e il sangue del
Signore. Questa è la ragione per cui ciascuno deve esaminare se stesso
attentamente, prima di mangiare il pane e di bere dal calice. Perché chi

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mangia il pane e beve dal calice indegnamente, senza pensare al corpo di


Cristo e a ciò che significa, mangia e beve la propria condanna, perché
non dà la giusta importanza alla morte di Cristo. Ecco la ragione per cui
molti di voi sono infermi e malati, e ne muoiono parecchi!” (1 Corinzi
11, 20- 30). Anche l’evangelista Marco, di cui riporteremo il testo di
seguito, non fu testimone diretto. Eusebio di Cesarea (III sec. d.C)
indica Marco quale probabile interprete di Pietro, autore al quale viene
attribuito il suo vangelo omonimo e che compare, per la prima volta in
una fonte scritta, circa trecento anni dopo il famoso episodio: "Anche
questo il presbitero era solito dire. Marco, che fu interprete di Pietro,
scrisse con cura, ma non in ordine, ciò che ricordava dei detti e delle
azioni del Signore.
Poiché egli non aveva ascoltato il Signore nè era stato uno dei suoi
seguaci, ma successivamente, come ho detto, uno di Pietro. Pietro
adattava i propri insegnamenti all'occasione, senza preparare un
arrangiamento sistematico dei detti del Signore, cosicché Marco fu
giustificato a scrivere alcune delle cose come le ricordava. Poiché egli
aveva un solo scopo, non tralasciare nulla di quanto aveva ascoltato e di
non scrivere nulla di errato" (Papia, citato in Eusebio di Cesarea Storia
ecclesiastica, 3.39.15). Ed ecco il testo di Marco: “Mentre mangiavano
prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro,
dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».Poi prese il calice e rese
grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio
sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti. In verità vi dico che
io non berrò più del frutto della
vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio»” (Marco 14,
22- 25). Per ultima, citiamo la Didaché : “Quando all’eucarestia, rendete
grazia così: Prima, per il calice: “Noi ti rendiamo grazie, Padre nostro,
per le sante vite di Davide tuo servitore, che ci hai fatto conoscere per
mezzo di Gesù tuo servitore; a Te la gloria nei secoli””. E per il pane
spezzato: “Noi ti rendiamo grazie, O Padre nostro, per la vita e
conoscenza….” (Didaché 9, 1-5). Si tratta di un rito a tutti gli effetti,
durante il quale si nota la comparsa, già nel I secolo, della parola
“eucarestia” ( dal greco gratitudine, ringraziamento) che sostituisce
completamente il termine cena, nell’accezione alimentare. A distanza di
alcune decine di anni, l’atto concreto di mangiare si trasforma in un
atto simbolico, ma con valore diverso rispetto alla celebrazione della

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Pasqua ebraica. In questo testo, non troveremo cibo vero e proprio,


quindi tralasciamo la Didaché come possibile fonte utile.
L’interpretazione di San Paolo della Cena, considerata la diffusione del
messaggio paolino e l’autorità che ne traspare, sembra aver influenzato
gli autori della Didachè e del Vangelo di Marco. Lasciando questo compito
ai filologi o agli esegeti, a noi sembra chiaro il forte segnale espresso
dai compilatori di questi testi: la necessità, dopo alcuni anni di
convivenza all’interno della comunità giudaica, di una netta
differenziazione tra la nascente comunità cristiana e quella ebraica. E
il cibo, ancora una volta, viene utilizzato come segno di distinzione. Le
origini del cristianesimo coincidono con il giudaismo: entrambi
convissero per un centinaio di anni ed è giusto descrivere le comunità
del I e parte del II secolo, come giudaico-cristiane. La convivenza fu
forzata e difficile; il cristianesimo nacque in una società giudaica, i
primi cristiani furono Ebrei; e proprio perché il cristianesimo deriva
dalla matrice ebraica, si sentirà presto la necessità di distinzione, di
distacco. Potrebbe, però, essere vero anche l’opposto. Difatti, i gruppi
giudeo-cristiani rappresentarono un pericolo per il giudaismo che dopo la
distruzione del Tempio, nel 70 d.C., cercava di ricostruirsi, eliminando
all'interno della società ebraica quelle fazioni che deviavano dalla
corrente ortodossa. Fu l'ardua operazione eseguita durante il periodo di
Iamnia. Ritorniamo all'influenza di San Paolo sulla redazione dei
Vangeli. Quanto il messaggio di San Paolo condizionò gli evangelisti? San
Paolo fornisce una versione ormai teologica dell'Ultima Cena, nella quale
si abbandona completamente il valore materiale del cibo, enfatizzando,
per il pane e il vino, solo il valore simbolico. Una presa di distanza
evidente rispetto alla tradizione, dalla quale anche l’apostolo
proveniva: inizia qui la liturgia che dà vita all'eucarestia che tutti
noi ben conosciamo.
Fondamentale, infatti, ciò che San Paolo ribadisce nella Prima Lettera ai
Corinzi: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché
siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con il lievito
di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1
Corinzi 5,7-8).
Una domanda sorge spontanea: ma Paolo di Tarso, che epurò la Cena da
tutti gli elementi ebraici, non era ebreo anche lui? Una parziale

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risposta ci può essere fornita dalle influenze che l’ellenismo ebbe sul
giudaismo: l'educazione greca esercitò una forte attrattiva e la
traduzione della Bibbia in greco influenzò intere generazioni. Forse,
approfondendo, si potrebbe parlare di contiguità tra l'ellenismo e il
giudaismo. Non si esclude la presenza, in alcuni ambienti, di un
giudaismo più incline al confronto, a tal punto che comparvero in
Palestina gruppi che cercavano di fornire alla Bibbia un'interpretazione
più aperta, con argomenti filosofici, rispetto all'interpretazione
rigida e severa dei racconti e delle rigorose prescrizioni della
tradizione. Anche all’interno di una cerchia ristretta, come quella del
primo nucleo di cristiani, coesistevano diverse sensibilità che
sfociavano in dibattiti molto accesi. Un esempio di queste diverse
posizioni, all'interno di quella che ai nostri occhi appare come la prima
comunità cristiana, lo troviamo in Atti degli Apostoli, dove Pietro, con
un atteggiamento meno conservatore, cerca invano di convincere la
comunità di Gerusalemme che tutti i cibi, non solo quelli leciti,
potevano essere mangiati con mani impure, ovvero che tutti i cibi erano
ugualmente inutili ai fini della giustificazione morale davanti a dio
(Atti degli Apostoli 11,1-18). In un altro passo, invece, la storia ci
racconta che Giacomo, presunto fratello di Gesù, alla guida della
comunità di Gerusalemme, ribadì con forza la necessità di osservare le
tradizioni alimentari, quali ad esempio il vietare il consumo alimentare
del sangue e la macellazione per soffocamento (Atti degli Apostoli
15,20-29). Sempre Pietro, discepolo fondamentale, fornisce altri esempi
del suo atteggiamento 'aperto' nei confronti del cibo; infatti, durante
la sua permanenza a Cesarea, gli fu rinfacciato “di essere entrato in
casa di persone non circoncise e di avere mangiato con loro”: era un
comportamento inaudito per la comunità di Gerusalemme, che, come appena
ricordato, era imbrigliata nelle tradizioni giudaiche e poco propensa ad
abbandonarle. Il comportamento di Pietro, però, era in linea con gli
insegnamenti di Gesù, che era solito mangiare anche con i peccatori. Ci
troviamo ad avere, quindi, un Gesù rivoluzionario nei confronti del cibo
da un lato, e dall’altro, la comunità giudaica in senso ampio e alcuni
rappresentati della “scuola” di Gesù, fermi sulle tradizioni; in mezzo
una visione più aperta e contaminata del giudaismo, che, pur esistendo da
secoli, fu portata avanti da Paolo e gli procurò numerose difficoltà
nelle prime comunità giudeo-cristiane. A questo proposito, il dibattito

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teologico dei primi secoli del cristianesimo, giunto a noi solo da fonti
occidentali, si svolge sul terreno delle reciproche accuse di
interpolazione e di falsificazione. La visione vincente è quella che poi
formerà la base e la struttura della Chiesa Cattolica. Tertulliano,
apologeta cristiano, nato a Cartagine nel 155 d.C, vissuto durante
l'impero di Settimio Severo e Caracalla, primo teologo sistematico di
lingua latina, fornisce un quadro alquanto esemplificativo dei dibattiti
dell'epoca:"Io dico di avere la verità. Marcione dice di averla. Io dico
che quella di Marcione è falsificata; egli dice lo stesso di
me" (Adversus Marcionem IV.4).
Marcione, probabilmente, fu il più influente predicatore cristiano del II
secolo e a lui si fa risalire la formulazione del primo Canone dei
Vangeli, andato perduto. Per i Padri della Chiesa, però, Marcione era
Satana. A distanza di millenni non siamo in grado di comprendere la
portata del suo messaggio, che si propagò ovunque ed ebbe una grande
influenza sulla nascente struttura cristiano-cattolica. Sempre
Tertulliano afferma : “La tradizione eretica di Marcione ha riempito il
mondo intero!" (Adversus Marcionem V.19, cfr. anche Giustino, Apologia
1.58). Tornando ad un discorso che potrebbe interessare la nostra
indagine, Marcione affermava che la figura di Paolo, come formulata e
presentata negli Atti degli Apostoli, non ha nulla a che vedere con la
realtà e ribadiva con forza che Saulo fosse un fervente credente dello
stesso Dio del Vecchio Testamento, quello della tradizione giudaica.
Marcione, come la storia della chiesa ci insegna, fu bollato come
eretico.
Torniamo alle nostre fonti principali, i Vangeli. I Vangeli di Matteo,
Marco e Luca, che collocano l'Ultima Cena come celebrazione preparatoria
alla festa della Pasqua, non costituiscono tre fonti differenti e
indipendenti; nonostante le molte divergenze e contraddizioni nel testo,
essi vengono definiti sinottici, perché, in uno sguardo d'insieme
(sinossi), si notano facilmente le somiglianze nella narrazione, in
quanto gli stessi episodi riportati, spesso sono descritti con frasi
identiche.
Gli studiosi ipotizzano che la fonte originaria, probabilmente Marco,
venne ricopiata poi da Matteo e Luca. In realtà, negli ultimi decenni, si
sostiene l’ipotesi dell’identificazione di questa fonte con Q (da quelle
parola tedesca che significa fonte), ossia il più antico testo cristiano,

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che si presuppone sia stato utilizzato nella composizione dei Vangeli


sinottici. Perché sarebbe così importante la fonte Q, sempre se
considerata autentica e attendibile? Perché la sua stesura risalirebbe
alla Galilea degli anni 40-50, un arco cronologico molto vicino alle
vicende di Gesù, rispetto ai Vangeli che sono posteriori. La convinzione
comune che i Vangeli canonici siano stati scritti dai quattro dei
discepoli di Gesù, testimoni oculari, sarebbe da accantonare
definitivamente. Il quarto Vangelo, quello di Giovanni, non concorda con
i tre sinottici e colloca l’Ultima Cena durante un momento conviviale,
avvenuto il giorno prima della preparazione della Pasqua. A conferma di
ciò, fornisce un elemento temporale preciso, quando scrive della cattura
di Gesù: "Era la preparazione della Pasqua, ed era circa l’ora sesta. Ed
egli disse ai Giudei: Ecco il vostro Re!" (Giovanni 19.14).
La preparazione della Pasqua ebraica attualmente coincide con lo
svolgimento del Seder.
Il Seder è un rituale che scandisce pietanze e preghiere, secondo un
ordine preciso. Qual è, dunque, lo svolgimento del Seder di Pesach? Il
passo della Toràh dal quale si imparano le norme del Qorban Pesach
(sacrificio di Pasqua) e del Seder è essenzialmente il capitolo 12 di
Shemot(Esodo). Nella Mishnah e nel Talmud l’argomento è affrontato nel
trattato Pessachim, specialmente nel decimo e ultimo capitolo.
Nell'Ultima Cena troviamo diversi parallelismi con il Seder pasquale: il
pane e il vino, il discutere sul loro simbolismo, le benedizioni, l'inno,
i commensali sdraiati. Nonostante numerosi studiosi producano questi
elementi a supporto dell'Ultima Cena come Seder pasquale, a noi sembrano
troppo generici; una cena simile a Gerusalemme, con pane, vino, inni e
commensali sdraiati, avrebbe potuto essere una cena pasquale come un
qualsiasi altro pasto ebraico. Manca inoltre, come già detto, la menzione
degli alimenti tipici di una cena pasquale, l’agnello, le erbe amare, i
quattro bicchieri di vino, si parla solo di elementi di base di ogni
pasto ebraico. Anche la spiegazione da parte di Gesù sul simbolismo del
pane e del vino: “Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane, e la
benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli e disse: 'Prendete e
mangiate; questo è il mio corpo'. Poi prese il calice e, dopo aver reso
grazie, lo diede loro, dicendo:’ Bevetene tutti, perché questo è il mio
sangue dell'alleanza " (Matteo 26:26-28), (Marco 14:22), (Luca 22:
19-20), descritta come avrebbero fatto gli Ebrei al Seder della cena

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pasquale, alla luce dell'Esodo dall'Egitto, non ci sembra un parallelismo


valido. Alcuni elementi portano a considerare anche l'idea che la cena
non fosse un Seder di Pesach, tesi sposata da numerosi studiosi, anche ad
alto livello ecclesiale (John Meier, Joseph Ratzinger); oltre alla
mancanza degli alimenti tipici, viene citata, come prova, l'incongruenza
temporale del quarto Vangelo, quello di Giovanni, il quale anticipa tutto
di un giorno. Inoltre, se si fosse trattato di una
cena pasquale, il processo a Gesù e la crocifissione avrebbero avuto
luogo durante i sette giorni di riposo e le autorità ebraiche avrebbero,
così, disobbedito alla Legge, dal momento che si erano impegnate in
attività vietate durante quel periodo. Resta poi da dire che, negli Atti
degli Apostoli 2,46-47, si parla dell'eucarestia, derivante dall'Ultima
Cena, come di un evento quotidiano e non annuale, come potrebbe essere la
cena pasquale: "Ogni giorno, tutti insieme, frequentavano il Tempio.
Spezzavano il pane nelle loro case e mangiavano con gioia e semplicità di
cuore. Lodavano Dio ed erano ben visti da tutta la gente. Di giorno in
giorno il Signore aggiungeva alla comunità quelli che egli salvava". Vi è
poi l’aspetto esegetico, l'analisi del testo in greco, la valenza delle
singole parole; basti pensare che, la parola greca utilizzata nei Vangeli
per indicare il pane, è il termine generico 'àrtos', che indica un pane
lievitato e non 'azùme', che indicherebbe il pane senza lievito e quindi
azzimo. La questione del pane dell'Ultima Cena, azzimo o non azzimo, per
l’eucarestia fu uno degli argomenti che portò nel 1054 al Grande Scisma
tra la Chiesa d'Oriente e la Chiesa d'Occidente! Tra le varie ipotesi si
sostiene anche che Gesù seguisse un altro calendario, come quello degli
Esseni, e si cita anche la loro 'Pasqua fiorita', senza
l’immolazione dell'agnello; altra teoria è che Gesù, conoscendo il
proprio destino, abbia voluto anticipare di un giorno la celebrazione
della Pasqua e c’è chi sostiene che il Vangelo di Giovanni non sia in
contraddizione con gli altri tre: il dibattito tra gli studiosi e gli
esegeti è ancora aperto.
La molteplicità e la diversità di tutte queste ipotesi accreditano solo
un’incertezza alla base. Noi non entreremo nel merito della questione,
perché ci limitiamo a parlare di cibo, ma considerata la controversia tra
Seder o non Seder, ci sembra doveroso segnalare che, dopo la distruzione
del Secondo Tempio, il fulcro della vita ebraica si ricostituì nella
città di Iamnia, dove i Saggi, che governavano il popolo dei credenti,

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una volta scomparso il Tempio, intesero creare un'unica identità


giudaica, tentando di eliminare le varie fazioni e i vari gruppi
esistenti. Allontanato tutto ciò che poteva dividere, venne realizzata
un'unica halakhah (tradizione normativa).
Per quanto riguarda la Pasqua, che, all'epoca del Tempio, si celebrava
per il sacrificio, al quale ciascuna famiglia partecipava nel Tempio o
all'esterno del santuario, i Saggi, dopo il 70 d.C., istituirono in
sostituzione la cerimonia familiare della sera di Pasqua, ovvero il
Seder.
Il Seder fu istituito a Iamnia, durante l'etnarcato di R.Gamaliel II, tra
la fine del I secolo e l'inizio del II secolo d.C. Quindi, l’Ultima Cena,
non può essere stata un Seder di Pesach, perché Gesù e i suoi non
potevano essere a conoscenza di un rituale introdotto decenni dopo, anche
se, l’assenza dai testi dell’agnello, non è una prova sufficiente per
dichiarare che non fosse Pesach.
Il cibo è solo uno degli elementi che compongono il quadro dell’Ultima
Cena. Informazioni da reperire o ipotesi da costruire sull’ubicazione
della casa, dove fu consumata la Cena o sul proprietario, la lingua
parlata durante la celebrazione del rito, la disposizione e il numero dei
commensali, sono elementi appassionanti, alla stregua di comprendere
quali portate potevano essere presenti su quella tavola.
Mentre ci soffermiamo a contemplare il Cenacolo di Leonardo da Vinci,
pensiamo che tutto sia molto chiaro: esiste un’ ambientazione, una
disposizione, i piatti, un tavolo; invece, non tutto è ciò che appare.
Il capolavoro vinciano, realizzato nel 1497, ha segnato un passaggio
decisivo nell’iconografia dell’Ultima Cena e ne ha fortemente
condizionato l’immaginario collettivo, anche solo per la sua fama,
rispetto ad altri quadri sul medesimo tema. Il quadro proposto da
Leonardo è stata una fonte utile per la nostra indagine? La risposta è
no! La scena proposta da Leonardo è ben lontana da quello che sarebbe
potuto avvenire in una casa di Gerusalemme nel I secolo d.C. La
realizzazione della narrazione, all’interno del tema pittorico,
dell’Ultima Cena è frutto di secoli di codificazione iconografica: “Una
casa. Al suo interno c’è una tavola con focacce e piatti colmi di cibo;
c’è una coppa e un grande recipiente per il vino. Cristo è seduto a
tavola con gli apostoli. Sul lato sinistro, Giovanni è disteso sul suo
grembo; a destra Giuda allunga la mano nel piatto e guarda Cristo".

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Il testo sopra riportato descrive le le indicazioni che un un manoscritto


di iconografia bizantina, redatto intorno al X secolo d.C. fornisce per
la realizzazione di scene come il Pasto Sacro e tanti altri episodi della
vita di Cristo. Dall' XI secolo, all’interno delle forti controversie
eucaristiche della fine del Medioevo, andrà a fissarsi l’immagine
tradizionale dell’Ultima Cena, simbolo del tema del Sacramento, al quale
verrà affiancato un altro elemento fondamentale, il tradimento di Giuda.
Nelle pagine dei Vangeli, i due temi vengono raccontati nell’ambito della
stessa unità narrativa. Fissate le regole generali per la
rappresentazione, ciascun artista all’interno della scena ha voluto
evidenziare un aspetto piuttosto che un altro, una sfumatura, un
messaggio sotteso; ognuno ha pensato di fornire l'interpretazione
corretta di quanto riportato dai Vangeli, spesso contestualizzando il
tutto nella propria quotidianità, arricchendo il tavolo di alimenti
comuni o con forte valore simbolico, ma senza una corrispondenza con lo
svolgimento reale che ebbe la Cena. Le variazioni sul tema riguardano
anche le diverse portate presenti sulle tavole.
Le prime rappresentazioni dell’Ultima Cena compaiono solo nel VI secolo,
quasi cinquecento anni dopo quel fatidico momento, nel mosaico di S.
Apollinare Nuovo a Ravenna, nel codice di Rossano Calabro e nel codice di
Cambridge. Troviamo qualche traccia anche nel III secolo in ambiente
catacombale e, nello specifico, la fractio panis delle Catacombe di
Priscilla. Un fenomeno interessante da un punto di vista anche
iconografico, che si sviluppa all'inizio del cristianesimo e che
troveremo raffigurato all'interno di catacombe, accanto alla fractio
panis, lo spezzare il pane, rito che precederà quello dell'Eucarestia, è
l'agape.
Parola che dal significato originale in greco, amore, assumerà, nel mondo
romano, l'accezione di 'carità', intesa come un banchetto comunitario,
una cena tra i fedeli cristiani, basata sul sentimento di amore fraterno.
Talvolta si trattava di una vera e propria pratica caritatevole, una cena
alla quale un membro facoltoso invitava poveri e vedove. In questi
banchetti, all'inizio, era presente anche il rito dell' Eucarestia e un
vescovo o un diacono ne regolavano il buon andamento. Non sappiamo se le
origini del pasto sacro, siano da ricondurre al cristianesimo della prima
ora, ovvero a quella fractio panis o alla 'Cena del Signore', che nelle
chiese dei Gentili, come a Corinto, si celebrava la sera della Domenica,

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come ripetizione dell'Ultima Cena.


Ma Gesù che atteggiamento aveva nei confronti del cibo?
A Gesù piaceva stare a tavola, o meglio apprezzava il cibo; forse non
aveva nei confronti degli alimenti un atteggiamento così ortodosso, a tal
punto che, per sua stessa ammissione, è consapevole che i suoi avversari
lo avrebbero etichettato: “Ecco un mangione e un beone…” (Matteo 11,19).
Nei Vangeli vengono riportati molti momenti in cui Gesù è a contatto con
il cibo o si trova in momenti conviviali come i banchetti: le nozze di
Cana, il banchetto di Matteo – Levi e di Simone il fariseo,
all’apparizione dopo la sua morte a Emmaus(Luca 24). Attraverso i
dipinti, siamo abituati a vedere Gesù e gli apostoli seduti dietro ad un
tavolo, ma i Greci e i Romani erano soliti mangiare semidraiati e
adagiati, come gli abitanti della Palestina all’epoca di Gesù. Non in
tutte le case avremmo trovato i triclini, ma ovunque tappeti e cuscini
con una serie di tavolini bassi, dove veniva appoggiato il cibo. La
posizione semisdraiata sembra essere la modalità assunta anche dagli
Ebrei, mentre consumavano i loro pasti, Pasqua compresa, a tal punto da
essere ricordata nella codificazione del Seder.
L’ordine dei commensali si basava su una precisa gerarchia: le posizioni
d’onore erano le prime alla sinistra e alla destra dell'ospite
principale, come specificato anche dall’evangelista Matteo: "ma quanto al
sedersi alla mia destra e alla [mia] sinistra, non sta a me concederlo,
ma sarà dato a quelli per cui è stato preparato dal Padre mio” (Matteo
20, 23; Marco 10, 40). La frase non è direttamente riconducibile
all’Ultima Cena, ma aiuta a comprendere, se non a confermare, come le
postazioni più vicine al Dominus fossero le più prestigiose e anche e le
più ambite. Per collocare gli altri commensali, sappiamo che: “Ora, a
tavola, inclinato sul petto di Gesù, stava uno dei discepoli, quello che
Gesù amava”(Giovanni 13,23). Partendo dal presupposto che mangiassero
semisdraiati e che fosse costume stare appoggiati sul lato sinistro, per
accedere al cibo con la destra, la mano libera, il discepolo amato non
poteva che essere alla destra di Gesù. Il vero posto d’onore, sulla
sinistra, da chi era occupato? Possiamo ipotizzare Pietro, in virtù del
fatto che:"Gesù mandò Pietro e Giovanni, dicendo: «Andate a prepararci la
cena pasquale, affinché la mangiamo»” (Luca 22,8). Trattandosi di un
compito importante, affidato ai due apostoli, verrebbe da pensare che
tale riconoscimento avesse anche un corrispettivo nella gerarchia a

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tavola, e ammesso che il discepolo amato fosse Giovanni, che già abbiamo
collocato alla destra, alla sinistra avrebbe potuto prender posto Pietro.
Qui, però, subentra una complicazione:"Simon Pietro gli fece cenno (al
discepolo amato nda) di domandare chi fosse colui del quale parlava.
Egli, chinatosi così sul petto di Gesù, gli domandò: «Signore, chi è?»
Gesù rispose: «È quello al quale darò il boccone dopo averlo
intinto»” (Giovanni 13, 24-26). Da questo passo si evince che la
posizione di Pietro non dovesse essere tra le migliori, considerato che
non poteva rivolgersi direttamente a Gesù e necessitava di un
intermediario, il discepolo amato. Possiamo supporre qualcosa in più:
per poter attirare l'attenzione di Giovanni, il discepolo amato, Pietro
doveva trovarsi di fronte a quest’ultimo, quindi difficile immaginarlo
alla sinistra di Gesù. Naturalmente queste sono solo ipotesi, avvallate,
però, anche da un altro passo di Giovanni:“Poi mise dell’acqua in una
bacinella, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con
l’asciugatoio del quale era cinto. Si avvicinò dunque a Simon Pietro, il
quale gli disse: «Tu, Signore, lavi i piedi a me?»”(Giovanni, 13, 5-6).
Nei banchetti importanti, una volta preso posto, oltre a quello delle
mani, era d’uso il lavaggio dei piedi, affidato ad uno schiavo capace,
segno di 'gran lusso'.
Ripercorrendo i versetti, si evince chiaramente che Gesù inizia a lavare
i piedi ai suoi discepoli per arrivare fino a Pietro: quindi, Pietro non
poteva trovarsi alla sua sinistra, ma in posizione lontana, ammesso che
il lavaggio seguisse la stessa gerarchia e disposizione dei posti presi a
tavola. Nulla ci vieta di ipotizzare che, avendo Pietro un carattere
forte, caparbio e orgoglioso, non toccandogli il posto d’onore, abbia
preferito posizionarsi lontano, ma frontale al discepolo amato, Giovanni.
Se poi associamo un altro indizio a questo entusiasmante puzzle, ossia
alcuni versetti di Matteo: “Ma egli rispose: «Colui che ha messo con me
la mano nel piatto, quello mi tradirà.” (Matteo, 26, 23). A chi spettava
il posto d’onore? Azzardiamo addirittura a Giuda! Il boccone intinto,
direttamente offerto da Gesù a Giuda, fa presumere che i due fossero
molto vicini. Per poter dividere lo stesso piatto, la vicinanza doveva
essere condizione necessaria!
Un' altra domanda, nella nostra indagine, è venuta spontanea: i
partecipanti alla Cena furono tredici e tutti uomini? Nelle opere d’arte
sembrerebbe così, ma non siamo convinti del tutto. Forse, ed è giusto

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rimanere nel campo delle ipotesi, erano molti di più e non solo uomini.
Gesù, avrebbe potuto celebrare il suo ultimo pasto, in assenza della
madre e delle donne che lo seguivano ovunque?
La Pasqua ebraica era un momento di festa, di commemorazione, dove tutta
la famiglia si riuniva. Uomini, donne e bambini. L’uso greco e romano di
non far accomodare alla stessa tavola(sempre in senso virtuale) uomini e
donne, non era in voga tra gli abitanti della Giudea. Gli Ebrei erano
soliti mangiare tutti insieme, soprattutto nelle ricorrenze ufficiali. E’
anche vero che, nelle tre feste di pellegrinaggio (la Pasqua, la
Pentecoste e i Tabernacoli), l’obbligo esplicito di recarsi al Tempio di
Gerusalemme era rivolto ad ogni ebreo maschio, giunto ad una certa età.
Obbligo, però, che non esclude la presenza delle donne che seguivano
Gesù, la cui esistenza è attestata a Gerusalemme nei giorni successivi.
Non ci sono dubbi sul fatto che questa cena avvenne all’interno di una
casa, al primo piano, dentro le mura di Gerusalemme. Abitudine confermata
negli Atti degli Apostoli, quando le prime comunità si riunivano al primo
piano di una casa privata, messa a disposizione da qualche fedele per
commemorare quel rito.
Per la maggior parte della vulgata, l'Ultima Cena si verificò durante la
celebrazione della Pasqua. Tre Vangeli su quattro la indicano in questo
modo. Quindi su quella tavola sarà stata imbandita una tipica cena
pasquale, epurata dalle codificazioni successive. Non abbiamo testi
contemporanei di Gesù riguardanti la celebrazione della Pasqua ebraica;
il corpus di regole religiose e civili, che si chiama Mishnah, in
particolare il trattato sulla pasqua(Pesahim), risale al 200 d.C.
Possiamo riprendere l'Esodo dove si parla, però, solo di azzimi, agnello
ed erbe amare “con erbe amare mangeranno" (Esodo 12, 8). La salsa
charroset compare successivamente nella Mishnah. Il fatto che alcuni
alimenti tipici della Pasqua siano all'interno del corpus di regole del
200 d.C., e non nell'Esodo, non implica che all'epoca di Gesù fossero già
adottati: alcuni identificano la salsa nella quale Gesù intinse il
boccone come lo charroset. Lo charroset, che comprende frutta e spezie,
menzionate nel Cantico dei Cantici (melograno, uva, noci, vino zafferano,
cannella), ha numerose varianti locali o di famiglia, come altri piatti
tipici; è possibile che Gesù abbia seguito qualche variazione, forse una
semplice variante locale o forse una rivoluzione delle tradizioni
alimentari. Anche se già incontrati, proviamo a raccogliere tutti gli

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elementi che potrebbero far propendere per un approccio 'rivoluzionario'


da parte di Gesù nei confronti del cibo, anche per quanto riguarda una
nuova simbologia di alcuni alimenti: "In quel tempo i discepoli di
Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da
Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei
farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Gesù disse
loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con
loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno
giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno
cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il
rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E
nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli
otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi»” (Marco
2,18-22); "Dopo ciò egli uscì e vide un pubblicano di nome Levi seduto al
banco delle imposte, e gli disse: “Seguimi!”. Egli, lasciando tutto, si
alzò e lo seguì. Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa.
C'era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola. I
farisei e i loro scribi mormoravano e dicevano ai suoi discepoli: “Perché
mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Gesù rispose: “Non
sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto
a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi” (Luca 5, 27-32); "Uno
dei farisei lo invitò a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del
fariseo e si mise a tavola!” (Luca 7, 36.44).
"Allora gli dissero: «Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo
crederti? Quale opera compi? I nostri padri hanno mangiato la manna nel
deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo».
Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il
pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero; il
pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora
gli dissero: « Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose: « Io
sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in
me non avrà più sete(....) Io sono il pane della vita. I vostri padri
hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che
discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. lo sono il pane vivo,
disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane
che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si

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misero a discutere tra di loro: « Come può costui darci la sua carne da
mangiare?».
Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne dei
Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo
risusciterò nell'ultimo giorno…» ”(Giovanni 6, 30-54).
Mancherebbe l'agnello. I Vangeli, essendo stati redatti successivamente
alla morte di Gesù, possono essere stati sia epurati, sia 'arricchiti' di
simbologie tipicamente cristiane, come troviamo, nel passo già citato di
S. Paolo: "Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova,
poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!
Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di
malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di
verità” (1Lettera ai Corinzi 5, 7-8).
È possibile che, per rendere l'idea di Gesù come Pasqua, ovvero, colui
che viene sacrificato per redimere i peccati degli uomini, sia stato
tolto l'agnello, essendo lui stesso l'Agnus Dei che toglie i peccati dal
mondo.
Non dimentichiamoci che la celebrazione del Seder di Pesach, con la sua
ritualità e gli alimenti presenti, venne codificata successivamente. Se
consideriamo invece l'indicazione del Vangelo di Giovanni, la cena
sarebbe avvenuta il giorno prima, durante il 'Digiuno dei primogeniti':
Gesù era un primogenito e avrebbe dovuto eseguire il digiuno, come si
dice in Matteo (5,17-18), in quanto egli osservava la legge: “Non
crediate che io sia venuto ad abrogare la legge o i profeti (..) non uno
jota non un apice cadrà della legge, prima che tutto accada”. Ma la
Legge, in alcuni casi, consentiva di evitarlo. Se in quella occasione vi
fosse stata una riunione di preparazione, di studio, l'Ultima Cena
sarebbe avvenuta in sostituzione al digiuno, ma non siamo certi che
questa usanza fosse già codificata all'epoca.
Durante la nostra l’indagine è maturata un’ipotesi ben precisa: se
consideriamo l'evento dell'Ultima Cena come realmente accaduto, potrebbe
non essersi verificato a Pasqua. Nell’affermarlo non ci limitiamo
all’idea che l’assenza dell’agnello pasquale da quella tavola o la
mancata citazione delle erbe amare siano indizi preponderanti. La non
presenza di un elemento non è condizione necessaria e sufficiente per
affermare che qualcosa non esista.

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Lo svolgimento di un Seder di Pesach, codificato dopo la


distruzione del Secondo Tempio, prevede sulla tavola una serie di
alimenti, ma al tempo di Gesù, l’agnello, per esempio, doveva essere
sacrificato al Tempio; non tutti lo possedevano, quindi, il mancato
riferimento nei Vangeli, non dovrebbe stupirci. Gli unici alimenti
menzionati in quel pasto, come ben sappiamo, sono il pane ed il vino. Il
vino, come simbolo del sangue dell'agnello, e il pane, se inteso non
lievitato, a ricordo dell'abbandono frettoloso delle case in occasione
dell'uscita dall’Egitto, rientrano nella liturgia della Pasqua ebraica,
ma entrambi, inclusa la loro benedizione, potrebbero appartenere a
diversi atti conviviali, non solo al rito pasquale.
Partendo dal presupposto che nessuno fosse presente al fatto, considerate
valide le testimonianze dei Vangeli, come abbiamo già detto, pur
sottolineando che spesso sono incomplete o epurate, ci troviamo davanti
ad una cena svoltasi a Gerusalemme ad un piano superiore, pronto con
tappeti; durante la cena, nel racconto, non vi è traccia né dell'agnello
pasquale, né della presenza - tranne i discepoli- di altri personaggi,
tanto meno femminili, anche se ai pasti partecipavano uomini e donne.
Quindi, o i Vangeli hanno voluto incentrare l'attenzione su Gesù, o sono
stati epurati successivamente, sempre per dare importanza alla figura di
Gesù, inteso come agnello pasquale. C'è una terza ipotesi ma le strade
sarebbero due da percorrere: la prima è che si fosse trattato di una
“semplice” cena e che la presenza di Gesù a Gerusalemme fosse motivata da
una “normale” permanenza nel centro della religiosità ebraica; oppure
Gesù era presente per festeggiare una ricorrenza che prevedeva il
pellegrinaggio nella Città Santa. Le occasioni nelle quali si doveva
andare a Gerusalemme, erano, oltre la Pasqua, la festa di Pentecoste e la
Festa dei Tabernacoli.
La nostra ipotesi propende per una festività e in particolare la Festa
dei Tabernacoli.
La Festa dei Tabernacoli, chiamata anche Sukkot, Festa delle capanne o
Tabernacoli, insieme alla Pasqua e alla Pentecoste (o festa delle sette
settimane), era una delle tre ricorrenze, durante la quale, tutti gli
ebrei maschi erano obbligati a compiere il pellegrinaggio a Gerusalemme:
“..Tre volte all'anno ogni tuo maschio si presenterà davanti all'Eterno,
al tuo Dio, nel luogo che questi avrà scelto: nella festa de'pani azzimi,
nella festa delle settimane e nella festa delle Capanne…” (Deuteronomio

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16,16- 17). Cadeva in autunno, il quindici del mese di Tishrì (fine


Settembre inizio Ottobre) e durava sette giorni (o otto: nel brano del
Levitico 23:36, la durata della festa viene fissata in sette giorni, poi
si parla di un “ottavo giorno di radunanza”). Anticamente celebrata come
festa agricola, in cui si offrivano i frutti della terra a Dio:
"Celebrerai la festa delle capanne per sette giorni, quando raccoglierai
il prodotto della tua aia e del tuo torchio; gioirai in questa tua festa,
tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita,
il forestiero, l'orfano e la vedova che saranno entro le tue città.
Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore tuo Dio, nel luogo
che avrà scelto il Signore, perché il Signore tuo Dio ti benedirà in
tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani e tu sarai
contento” (Deuteronomio 16, 13-15), venne in seguito officiata in ricordo
della vita nel deserto durante il viaggio verso la terra promessa, dove
si viveva in capanne: "Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i
cittadini d'Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti
sappiano che io ho fatto dimorare in capanne
gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d'Egitto.” (Levitico
23,42-43). In questa occasione, venivano, difatti, costruite delle
capanne, sui tetti, nei cortili, e nelle strade più ampie; le strutture
venivano realizzate con rami, arredate con tappeti, e l'unico rito
speciale, per quanto riguarda il cibo, durante la festa, era quello di
consumare i pasti all'interno della sukkah (capanna) tranne in caso di
pioggia. Uno dei simboli della festa era il lulab, un ramo di palma
intrecciato a tre di mirto e due di salice, al quale, a parte, si
aggiungeva un frutto di cedro senza difetti, secondo quanto
prescritto:"prenderete per voi nel primo giorno, un frutto di
bell’aspetto, un ramo di palma, rami di mirto e di salice, e vi
rallegrate davanti il Signore vostro Dio per sette giorni”
(Levitico 23,49). Il frutto veniva scosso nelle quattro direzioni, dopo
le benedizioni e durante le processioni; nell'ottavo giorno la
processione con il lulab avveniva attorno all'altare. Era una festa di
gioia, dove si celebravano anche l'acqua e la luce. Il popolo con i
sacerdoti si recava in processione alla piscina di Siloe per attingere
con una brocca d’oro l'acqua che veniva poi versata sull'altare, insieme
al vino, durante il sacrificio del mattino, a ricordo dell'acqua che Mosè
fece scaturire dalla roccia nel deserto; inoltre, nel cortile delle

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donne, si accendevano quattro enormi candelabri dorati a quattro braccia,


alti più di 20 metri.
Per capire l'importanza di questa festa, partendo dal presupposto, ormai
assodato che, celebrare la nascita di Gesù il 25 Dicembre sia un fatto
convenzionale, il periodo della Festa delle Capanne sembrerebbe essere
stato proprio quello in cui nacque Gesù, venuto alla luce sei mesi dopo
Giovanni Battista, nel mese di Marzo, secondo il sistema Gregoriano.
Visto che Gesù nacque a Settembre, è plausibile che Giuseppe e Maria
volessero andare Gerusalemme, in quel periodo, per celebrare la Festa
delle Capanne, fermarsi per il censimento a Betlemme e poi ripartire; ma
per la ricorrenza, la popolazione di Gerusalemme e dintorni era aumentata
vertiginosamente e non trovarono posto a Betlemme, che distava solo 3 km
dalla Città Santa. La famosa 'stalla' forse non era nient'altro che una
di quelle capanne che alla sera venivano messe a disposizione dei
forestieri.
La festa aveva anche forti connotazioni messianiche, come ricordato dal
passo biblico: "quelli che saranno rimasti di tutte le nazioni venute
contro Gerusalemme, saliranno d'anno in anno a prostrarsi davanti al Re,
all'Eterno degli eserciti, e a celebrare la festa delle
Capanne" (Zaccaria 14,16).
Invece la Pasqua era legata al ritorno di Elia. Infatti, durante la
celebrazione della Pasqua, veniva lasciata la porta aperta e un posto
vuoto con una coppa di vino, affinché il profeta potesse entrare e
partecipare: “Ecco, io vi mando Elia, il profeta, prima che venga il
giorno dell’Eterno giorno grande e spaventevole” (Malachia 4,5).
La Festa dei Tabernacoli era considerata l'ultima fase per la salvezza
dell'umanità; ed ecco che Giovanni Battista precursore del messia nasce
nel periodo di Pasqua, mentre Gesù durante la Festa delle Capanne!
Possiamo trovare altri collegamenti: quando nel Vangelo di Giovanni
troviamo scritto: “La parola è diventata carne e ha abitato fra di
noi” (Giovanni 1,14), il verbo 'ha abitato' letteralmente era 'si è
tabernacolizzato’. Concedeteci la licenza, ma l’espressione rende bene il
concetto della
venuta del messia e fornisce alla celebrazione dei Tabernacoli una
rilevanza maggiore. Se poi pensiamo all'ingresso trionfale di Gesù in
Gerusalemme, secondo il calcolo dei Vangeli, cinque giorni prima della

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Pasqua, troviamo simbologie più legate alla Festa dei Tabernacoli che
alla Pasqua: “Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la
festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e
uscì incontro a lui gridando:Osanna! Benedetto colui che viene nel nome
del Signore,il re d'Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra,
come sta scritto: Non temere, figlia di Sion! Ecco, il tuo re viene,
seduto sopra un puledro d'asina” (Giovanni 12, 12-15). Le acclamazioni al
grido di Osanna con rami di palma, i quali oggi vengono utilizzati nella
Domenica delle palme, erano elementi tipici delle processioni durante la
festa dei Tabernacoli: "Ti rendo grazie, perché mi hai esaudito, perché
sei stato la mia salvezza. La pietra scartata dai costruttori è divenuta
testata d'angolo; ecco l'opera del Signore: una meraviglia ai nostri
occhi. Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo
in esso. Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa
del Signore; Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami
frondosi fino ai lati dell'altare” (Salmo 118, 21-27). Gesù, spesso,
nelle parabole fa riferimenti a se stesso come al messia, utilizzando la
simbologia di questa festa (acqua e luce): “Chi ha sete venga a me e
beva” (Giovanni 7,37); “Io sono la Luce del mondo” (Giovanni 8,12). Se
vogliamo avere poi, un'ulteriore suggestione, prima del 70 d.C.,l'ottavo
giorno, ovvero l'ultimo giorno della festa, che era considerato il
preannuncio del Paradiso, i celebranti giravano attorno l'altare
"Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell'altare", con
corone vegetali sul capo, oltre che con il lulab in mano. Usanza che
troviamo riportata in testi sia ebraici:"Fu stabilito che essi celebrino
la festa dei Tabernacoli dimorando nelle capanne, portando delle corone
sulle loro teste e tenendo in mano rami frondosi e ramoscelli di
salice" (Giubilei, XVI), sia pagani: “Ma poiché i loro sacerdoti erano
soliti cantare con flauti e timpani e si cingevano (il capo) di
edera.." (Tacito, Hist., V,5). Nei Vangeli, il trascorrere del 'tempo' è
sempre relativo, probabilmente l'ingresso risale alla festa dei
Tabernacoli, ma viene associato alla Pasqua: proprio per questo, la
nostra è solo una ricostruzione ipotetica! Quindi, se mettiamo
alcuni elementi a confronto, ci ritroviamo a Gerusalemme per una grande
festa, dove solo gli uomini avevano l'obbligo di assistervi, anche se il
pellegrinaggio si svolgeva con le famiglie: nel racconto dei Vangeli è

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attestata la presenza di donne che seguivano Gesù, ma non le troviamo


durante la celebrazione della festa. L'ingresso di Gesù a Gerusalemme
vede l'acclamazione con rami di palma, presenti più in autunno che in
primavera, le grida di Osanna erano tipiche delle processioni della festa
dei Tabernacoli; un sacerdote con la brocca ricorda quell'uomo con la
brocca che i due discepoli devono seguire per trovare il luogo al 'piano
superiore', forse una terrazza, 'preparata' con le capanne e i tappeti.
Inoltre, la cerimonia del kiddush per la celebrazione della Pasqua si
applicava anche alla festa dei Tabernacoli... Durante la Crocifissione,
viene dato da bere a Gesù dell'aceto con un rametto di issopo: "Or c'era
là un vaso pieno d'aceto. Inzuppata dunque una spugna nell'aceto e
postala in cima ad un ramo d'issopo gliela accostarono alla
bocca" ( termine che troviamo solo in Giovanni 19,29). Citiamo questo
episodio, in quanto l’issopo è una di quelle piante amare presenti nella
celebrazione della Pesach, alla quale possiamo attribuire una valenza non
necessariamente in relazione alla simbologia pasquale. L'issopo ha un
gusto molto forte e pungente che ricorda la menta, oltre che come
medicamento, può essere utilizzato anche in cucina per insaporire
insalate, carni e minestre. Nella simbologia del Vangelo di Giovanni, l’
issopo, potrebbe essere associato alla pianta, utilizzata per tingere con
il sangue dell'agnello, gli stipiti delle porte, per salvare i
primogeniti; possiamo considerarla anche un semplice rituale di
purificazione, simboleggiato da questa pianta e come riportato nel libro
dei Numeri (Numeri 19), dove Dio la indica a Mosè, per purificare i
lebbrosi. Gesù, come messia, ha su di sé i peccati del mondo:
"Disprezzato ed evitato dalla gente, uomo dei dolori e uso alla
sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si copre la faccia;
disprezzato, lo considerano un nulla. Eppure, egli si è fatto carico
delle nostre infermità e si è addossato i nostri dolori (..) per le sue
piaghe noi siamo stati guariti" (Isaia 53,3-5). E viene purificato con il
ramo di issopo. Sempre volendo utilizzare un' esegesi escatologica!

generosourciuoli@gmail.com
martaberogno@gmaail.com

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