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Marco Montanari
Sapienza University of Rome
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Introduzione p. 3
Cap 1
1.1 I numeri degli analisti junghiani nel panorama della psicoterapia italiana p. 7
Cap 2
2.2 Le difficoltà italiane nell’introduzione delle teorie della psicologia del profondo p. 21
Cap 3
Appendice
Sitografia p. 53
Bibliografia p. 53
2
INTRODUZIONE
Nel panorama della storia della psicologia del profondo quelli che si possono considerare tra
i padri fondatori sono, o almeno dovrebbero essere, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Alfred
Adler. Ognuno di loro ha dato un importante contributo per lo sviluppo di questa branca della
psicologia, sia in termini teorici che organizzativi. Tutti e tre, infatti, hanno costruito le proprie
scuole e associazioni destinate a sviluppare e diffondere il rispettivo pensiero: con successo, almeno
a giudicare dai risultati: le loro scuole sono oggi diffuse in molti paesi del mondo, senza confini
linguistici. Nel contesto multiforme delle scuole di psicoterapie italiane, le associazioni e scuole
afferenti a questi padri fondatori sono una presenza solida e consolidata. Mostrano, anzi, una forte
vitalità evidenziata dal crescente numero di nuovi soci e dal loro continuo moltiplicarsi attraverso
scissioni o espansioni.
La storia della più antica di queste scuole, la Società di Psicoanalisi Italian di estrazione
freudianaa, è stata affrontata da diversi autori, tra cui alcuni storici, anche per l’indiscusso ruolo di
3
Freud nella storia della cultura europea nel ventesimo secolo. Invece le vicende delle scuole e
associazioni società afferenti a Jung e Adler sono un argomento poco approfondito dai non
specialisti appartenenti alle rispettive correnti di pensiero. L’intento di questa breve tesi è quello di
proporre alcuni elementi che possano costituire una base futura per un’analisi storica
dell’associazionismo junghiano, nella convinzione che la storia delle idee possa essere intesa anche
come storia delle comunità professionali. Questo è ancora più vero nel caso degli psicoterapeuti, in
cui le associazioni esistenti hann, per loro stessa ragion d’essere, anche lo scopo di approfondire e
La stesura di un testo storico permette, per la sua stessa natura, approcci e approfondimenti
molto diversi tra di loro e, potenzialmente, senza limiti. Si è scelto qui di disegnare una vicenda in
termini soprattutto organizzativi e di contestualizzare il più possibile il lento ingresso del pensiero
junghiano in Italia. L’unico individuo di cui vengono messe in risalto le vicende è Ernst Bernhard,
per via del suo indiscutibile ruolo avuto da noi. Per il resto, invece, si è preferito non approfondire
troppo le vicende personali e concentrarsi, invece, sul come le associazioni si sono andate
La tesi è strutturata su tre capitoli, ognuno dei quali contribuisce a dare un quadro della
situazione contestualizzandola da un punto di vista diverso. Il primo capitolo guarda alla situazioni
odierna in Italia e nel mondo, il secondo dà un quadro storico generale della situazione italiana nel
periodo tra la nascita del pensiero junghiano e la sua effettiva venuta in Italia, il terzo è dedicato alla
Trattando eventi molto vicini a noi e quindi poco documentati, la parte dedicata alle associazioni
più giovani è minore rispetto a quello riservato alle due realtà più antiche.
l’impatto degli psicologi analisti italiani nel proprio paese e nel mondo. Si è poi voluto sottolineare
l’importante ruolo svolto dall’Associazione Internazionale per la Psicologia Analitica sia nei
4
confronti della realtà odierna che in quella storica. Su quest’ultimo punto si è colta l’occasione per
accennare all’atteggiamento del padre della psicologia analitica, Carl Gustav Jung, rispetto
Il secondo capitolo è dedicato alla situazione italiana che va dai primi del novecento agli
anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Si è voluto qui analizzare il panorama
della psicologia in quegli anni, sia scientifica che professionale, specialmente riguardo la
psicoanalisi in quest’ultima accezione. Partendo dal fatto che Jung è stato inizialmente un esponente
di prestigio della psicoanalisi e che la sua figura si è sovrapposta a quella di Freud, si è poi
accennato al come venne accolto il pensiero freudiano e junghiano per poi dedicarsi alla
presentazione della realtà italiana ai tempi del fascismo e immediatamente prima all’arrivo di Ernst
Bernhard.
L’ultimo capitolo è destinato all’evoluzione storica delle associazioni junghiane e parte dalle
vicende del primo esponente del pensiero dello psichiatra svizzero in Italia, il tedesco Ernst
Bernhard. Grazie a lui in Italia fu fondata l’Associazione Italia di Psicologia Analitica (A.I.P.A.), la
prima associazione junghiana , e proprio in seguito alla sua morte ci fu la scissione e la nascita del
Centro Italiano di Psicologia Analitica (C.I.P.A.), la seconda associazione più antica in Italia.
Successivamente sono descritte le vicende di queste due associazioni fino a oggi, arrivando a
trattare le ultime divisioni che nel 1998 e nel 2013 hanno portato la nascita di altre due ulteriori
(A.R.P.A.) Augusto Romano in occasione della prima presentazione pubblica della neonata
associazione tenuto nel 1998. Questo sia per permettere di fruire di una fonte originale sia,
soprattutto, per poter apprezzare come ci sia una continuità nel rapporto problematico nel concepire
5
la missione di fondo di un’associazione di psicologi analisti vedendola o come “scuola
Colgo poi l’occasione per ringraziare gli junghiani Antonietta e Francesco Donfrancesco,
Franco Castellana e Augusto Romano. Tutti loro hanno trovato del tempo da dedicarmi per poter
6
CAPITOLO 1
1.1 I numeri degli analisti junghiani nel panorama della psicoterapia italiana
Il 31 dicembre 2013 erano iscritti all’albo A dell’Ordine degli Psicologi, in tutta l’Italia,
scuole di psicoterapia, la cui frequenza è necessaria per ottenere l’abilitazione a esercitare come
psicoterapeuta. Questo dato indica, quindi, il totale teorico di psicoterapeuti che potrebbero
esercitare in Italia previa formazione. Per inciso, gli psicologi professionisti iscritti all’albo non
sono obbligati a intraprendere il lungo percorso necessario a diventare psicoterapeuti, quindi qui si
vuole solo fornire un dato di riferimento per verificare il peso numerico degli analisti junghiani nel
contesto italiano. In questa cifra non sono compresi i medici chirurghi con specializzazione in
psichiatri che decidessero di formarsi a loro volta in una data psicoterapia per poi potersi iscrivere
1
cfr. http://www.psy.it/numero_iscritti_31_12_2013.html
7
all’albo in quanto psicoterapeuti. La cifra di 88951 indica gli psicologi e psicoterapeuti che
che hanno terminato con successo un percorso didattico riconosciuto per diventare psicologo
analista secondo le teorie e l’approccio da Carl Gustav Jung corrisponde a 426.2 Questo numero
indica quei professionisti che possono essere definiti ufficialmente come “analisti junghiani” in
quanto iscritti anche all’albo internazionale degli analisti junghiani, gestito dall’Associazione
Internazionale per la Psicologia Analitica con sede a Zurigo. A titolo di paragone, gli psicoterapeuti
di orientamento freudiano associati ufficialmente alla Società Psicoanalitica Italiana sono 4893 e
quelli affiliati all’Associazione Italiana di Psicoanalisi sono 434, per un totale di 532 psicoterapeuti
internazionale degli psicoanalisti freudiani. Alla luce di questi dati, in Italia abbiamo quindi un
numero quasi pari di psicoterapeuti ad orientamento junghiano e freudiano che, insieme, non
arrivano neanche a 1000 specialisti a fronte di un numero 100 volte superiore di psicologi iscritti
all’albo.
A fronte di queste cifre, che tradotte in percentuali rivelano come neanche lo 0,5% degli
almeno due case editrici specializzate nel pensiero junghiano (Vivarium e Moretti & Vitali) e altre
che hanno nei loro cataloghi un numero importante di titoli originali di Jung o dei suoi continuatori,
tra cui Astrolabio-Ubaldini, Bollati Borringhieri, Magi e Adelphi. Inoltre molti altri editori
propongono comunque libri che possono essere inseriti nell’area culturale junghiana.
2
Cfr. a cura di Emilija Kiehl, Iaap members’ list 2013, International Association for Analytical Psychology 2013
3
Cfr. http://www.spyweb/index.php?option=com_comprofiler&task=usersList&listid=6
4
Cfr. http://www.aipsi.it/www2/pagine/soci.html
8
In conclusione, si può dire che gli analisti junghiani rappresentano una nicchia degli iscritti
all’Ordine ma che operano all’interno di una tradizione teorica della psicologica del profondo
Analitica (L.I.R.P.A.). Di queste solo L’A.R.P.A. non ha la sede ufficiale a Roma. L’A.I.P.A. e il
C.I.P.A. sono le realtà con la diffusione nazionale più importante in termini di sedi e di provenienza
geografica degli loro membri. Queste due associazioni sono anche quelle a cui sono iscritte la
maggioranza degli analisti junghiani italiani in quanto ne fanno parte più di tre quarti del totale, 369
su 426. Inoltre, queste due associazioni hanno una storia di quasi cinquant’anni, al contrario
dell’A.R.P.A. e del L.I.R.P.A. che hanno un’origine molto più recente, con quello che comporta in
junghiano in Italia è unitaria e molto locale. Tutto nasce, infatti, grazie alla presenza di una singola
figura carismatica che rappresentò il portavoce del pensiero junghiano in Italia: si tratta di Ernst
Bernhard. Questi era un ebreo tedesco che nel 1937, insieme alla moglie, aveva scelto di venire a
Roma per sfuggire alle persecuzioni antisemite di stampo nazista. Bernhard era un medico pediatra
berlinese che aveva svolto il training sia in patria che in Svizzera, dove aveva lavorato con Carl
9
Gustav Jung in persona. Negli anni si mantenne tra i due un rapporto epistolare, abbastanza blando
ma costante. 5
Una volta scappato in Italia e scampato agli orrori della guerra, Ernst Bernhard continuò la
estimatori. Attorno alla sua figura nel 1961 fu fondata la prima associazione italiana di psicologia
persone era eterogeneo e caratterizzato da una preesistente conoscenza personale, almeno per alcuni
di loro. Infatti Bernhard invitava diversi pazienti-allievi in una sua villa sul lago di Bracciano per
partecipare a degli incontri a metà tra il formale e l’informale, dove il lato culturale degli eventi si
mischiava con atmosfere più rilassate e festaiole. 6 Di questi incontri è rimasto poco più che il
Nel 1961 da una scissione dell’A.I.P.A., è nato il C.I.P.A.. In seguito, nel 1998, un gruppo di
analisti del C.I.P.A. è uscito da questa associazione e ha fondaato l’A.R.P.A.. Infine, nel 2011,
alcuni soci dell’A.I.P.A. hanno a loro volta deciso di creare una nuova associazione, il L.I.R.P.A..
comprendeva le associazioni della Svizzera, dell’Inghilterra, di New York, di San Francisco , di Los
5
Cfr. Giovanni Sorge (a cura di), Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarium 2001
6
Marcello Pignatelli. Psicologia analitica, percorsi italiani, Edizioni Magi 2007, p. 34
10
Angeles, d’Istraele e il neonato C. G. Institute di Zurigo, quindi c’erano sette istituzioni a
rappresentare quattro nazioni più una costellazione di junghiani che aderivano in veste individuale,
mancando loro un’associazione nazionale a cui far riferimento. Era quest’ultimo il caso di Ernst
Bernhard che partecipò da subito alle attività della IAAP andando al suo primo congresso tenutosi a
Zurigo nell’agosto del 1958, come risulta da foto e documenti dell’epoca.7 In tale occasione fu
Per statuto lo IAAP organizza ogni tre anni il proprio congresso internazionale, che è il
momento più importante per la vita dell’Associazione. Durante quest’incontro ufficiale, tra l’altro,
vengono ufficialmente accettati nuovi soci individuali o nuove associazioni nazionali, che oggi sono
circa 57 distribuite in tutti i continenti9. In occasione del secondo congresso internazionale, che si
tenne a Zurigo nel 1961, la neonata A.I.P.A. fu accolta nella IAAP insieme al corrispettivo tedesco,
passarono da quattro a sei. Come retaggio di quell’epoca, in cui l’A.I.P.A. rappresentò una delle
prime associazioni ad aderire alla IAAP, l’italiano mantiene ancora oggi lo status di lingua ufficiale,
anche in occasione dei congressi internazionali, almeno a livello formale, alla pari dei più diffusi
Il ruolo non secondario della comunità italiana nell’internazionale junghiana è dato, oltre
che dalla storia, dalla forza dei numeri. Infatti da sempre, il numero di soci è molto alto soprattutto
in rapporto alle altre associazioni europee: tra gli analisti del vecchio continente, il gruppo degli
italiani è oggi il più numeroso: 426 a fronte dei 338 soci tedeschi o dei 340 britannici. 10 La
situazione, nel 1976, era diversa anche se il gruppo italiano era comunque uno dei più numerosi:
soci italiani (A.I.P.A. più C.I.P.A.) 40, soci tedeschi 55 e soci inglesi 75.11 Questa situazione ha
7
Thomas B. Kirsch, The Jungians, a comparative and Historical Perspective, Routledge 2000, p. 135
8
Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 41.
9
Emilia Kiehl, ibidem p. vii
10
Cfr. Emilia Kiehl, idem
11
Composition of Delegates’ Meeting in Corrispondenza internazionale ’60 ’70, archivio Aipa
11
portato a organizzare due congressi internazionali in Italia (a Roma nel 1977 e a Firenze nel 1998) e
all’elezione nel 1998 di un presidente italiano nella persona del dottor Luigi Zoja.
italiano porterebbero a concludere che l’Italia sia stata una delle nazioni pioniere del movimento
internazionale junghiano, eventualmente anche una delle protagoniste della sua diffusione a livello
junghiano fu realmente introdotto in Italia solo nel 1937 da Bernhard, quindi con più di venti anni di
ritardo rispetto alla scissione Freud-Jung, e che la prima traduzione italiana di un’opera di Jung è
del 1942 per l’Einaudi. 12 In effetti queste circostanze furono rese possibili, più che altro, dalla
si hanno notizia di club nazionali già nel 1916, ma si trattava di realtà locali e senza riconoscimenti
ufficiali: mancava cioè un’organizzazione centrale che avesse l’autorità di dire chi potesse definirsi
junghiano e chi no. Fino alla nascita della I.A.A.P. solo Jung in persona aveva questa facoltà.
Internazionale per la Psicoanalisi, di cui Jung stesso ne fu il primo presidente, nacque a Vienna nel
1910. All’epoca Sigmund Freud aveva 54 anni, mentre alla nascita della I.A.A.P. Jung aveva già 80
anni. E diverso fu l’atteggiamento dei due capostipiti: Freud ne intuì l’importanza e ne fu attivo
promotore, Jung piuttosto sembrò quasi subirla. Infatti la nascita della I.A.A.P. viene descritta dai
testimoni dell’epoca come una sorta di regalo di compleanno all’ottuagenario analista da parte dei
suoi colleghi più vicini13, evidenziando così un ruolo quasi passivo di Jung stesso, che non mostrava
12
Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Astrolabio 1978, p. 56
13
Murray Stain, The IAA in Midlife: Where Are We Now, Where Are We Going?, in Barcelona 04, Daimon Verlag 2006,
p. 223
12
di avere molto interesse nella cosa.14 Sicuramente il suo attivismo era stato molto relativo, almeno
rispetto a quello che aveva mostrato in occasione della nascita dell’Istituto C.G. Jung di Zurigo nel
1948 quando aveva scritto ad alcune personalità amiche dell’epoca per chiedergli di collaborare con
lui.15
scegliendo Jung come primo presidente. Inoltre le assegnò il compito preciso di mantenere
l’unitarietà della sua teoria e di diffonderla, non disdegnando di intervenire, se necessario, contro gli
eventuali eretici attaccandoli con parole e immagini forti. Questo appare chiaro nella parte che
dedica al “tradimento” di Jung nel libro dedicato alla storia del movimento psicanalitico:
(…) Gli uomini sono forti finché si fanno promotori di un’idea forte; diventano impotenti se
costoro. Posso soltanto concludere con l’augurio che il fato riservi una comoda ascesa a tutti quelli
per cui il soggiorno negli inferi della psicoanalisi sia diventato sgradevole. A noialtri sia permesso
È da sottolineare che Jung lasciò il movimento psicoanalitico senza avviare una qualche
forma di scissione, riconoscendo sempre il ruolo storico di Freud e dando delle ragioni teoriche
motivate.17 Queste ultime poi, riviste un secolo dopo, perdono molto della loro carica dirompente e
eversiva che avevano, tanto che è stato detto che sarebbero poche le figure di rilievo della
psicoanalisi di oggi che avrebbero qualcosa in contrario se un analista esprimesse idee identiche a
quelle che Jung aveva nel 1913. 18 Comunque, dopo aver lasciato la carica di presidente della
14
Thomas B. Kirsch, The Jungians, a comparative and Historical Perspective, Routledge 2000, p. 223
15
Carl G. Jung, Lettere 1906‐1961, Edizioni Magi 2006, p.100‐101
16
Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, Editore Boringhieri 1975, p. 88
17
Liliane Frey‐Rohm, Da Freud a Jung, Cortina Editore 1984, p. 72
18
Samuels A., Jung e i neojunghiani, Borla 1985, pag. 25
13
Società Internazionale di Psicoanalisi nel 1913, Jung si dedicò ad approfondire le sue teorie e i suoi
favorevole: solo nel 1948 sarà creato l’Istituto Jung di Zurigo per seguire in modo sistematico
l’aspetto didattico della formazione alla psicologia analitica. E solo nel 1958, come visto, nascerà la
IAAP. In entrambi i casi le strutture nacquero più per il lavoro dei colleghi più vicini a Jung che
per sua spinta personale. Una spiegazione per questo suo atteggiamento si può trovare tra i suoi
scritti, in cui si possono trovare molti riferimenti anche espliciti a questo tema, di cui possiamo
(..) Poiché non esiste cavallo che possa essere cavalcato a morte, le teorie della nevrosi e i
metodi di trattamento sono faccende dubbie. Trovo quindi sempre divertente quando coscienziosi
medici alla moda asseriscono di praticare secondo “Adler”, “Kunkel”, “Freud”, o perfino
“Jung”. Non c’è e semplicemente non può esserci una cosa del genere e, anche se si potesse, si
Questo pensiero di Jung si accompagnava ad un’idea precisa sulle capacità che un analista
doveva avere, ovvero quella di poter affrontare con il paziente temi quali la vita, la morte o il
divino,20 il tutto all’interno di una psicologia analitica che diventava così vera e propria “Psicologia
complessa”, altro temine con cui viene definita la psicologia anlitica. Tutto questo in netto contrasto
con la tendenza preminente verso la massima specializzazione e separazione dei saperi, con il
correlato di una ricerca della semplificazione anche teorica in chiave positivista, tesi che Jung
voleva combattere proprio in nome della centralità dell’identità individuale, come mostra in un altro
19
C.G.Jung, Psicologia clinica e educazione, in Opere, col. XII, p. 111
20
Cfr. C. G. Jung, Modern Man in Search of a Soul, p.223 e sgg.
14
(…) Vi è nello specialismo, una sorta di ingenuo sentimento di onnipotenza associato a una
fantasia utopistica: che tanti specialisti, perfettamente coordinati, possano restituire un’immagine
perfetta del mondo. In questa prospettiva, il singolo uomo con le sue curiosità e il suo bisogno di
Alla luce di questa impostazione di fondo si può allora capire perché il primo embrione di
congresso internazionale di matrice junghiano fosse rappresentato dai cosiddetti incontri di Eranos,
tenuti ad Ascona, in Svizzera, dal 1932 in poi su base annuale. Lo stesso Jung definì questi incontri
come un’istituzione. 22 La genesi di questi veri e propri congressi era molto informale, basata
com’era su un comitato scientifico raccolto volta per volta e senza un appoggio istituzionale dietro
le spalle, almeno nei primi dieci anni di esistenza. In tutto quel periodo gli incontri di Eranos si
tennero unicamente grazie alla passione e all’abilità organizzativa di Olga Frobe Kapteyn, la
padrona di casa. Nel concreto si trattava di una serie di conferenze che si tenevano nell’arco di tre
giorni e in cui un dato argomento veniva affrontato da più punti di vista: di solito il tema per
accomunare gli interventi era quello dei simboli e Jung, proprio per questo, appariva come uno dei
protagonisti principali di questi incontri. Si può dire che questi costituirono un tentativo di
realizzare la psicologia complessa come immaginata dall’analista svizzera che, fin quando la salute
glielo permise, intervenne a quasi tutti gli incontri. 23 Fu proprio grazie a Eranos, in cui si
riconosceva la complessità dell’uomo davanti ai simboli che si riavvicinarono materie quali storia
delle religioni e psicologia che la psicoanalisi aveva allontanato in nome del positivismo, come
spiega uno dei più importanti studiosi della storia delle religioni, Mircea Eliade.24 Il ruolo degli
incontri di Eranos rimane importante per l’impatto culturale che ebbe, tanto che nel 1943, con
l’importante aiuto di Jung in persona, fu costituita una vera e propria fondazione Eranos e le sue
21
C. G. Jung, Opere, Vol. 12, pag. 159
22
Riccardo Bernardini, Jung a Eranos,Franco Angeli Editore 2011, p.77
23
A cura di Gian Piero Quaglino, Augusto Romano e Riccardo Bernardini , Carl Gustav Jung a Eranos,Antigone Edizioni
2007, p. 29
24
Mircea Eliade, Immagini e simboli, Jaca Books 2007, p. 17
15
attività furono parzialmente finanziate dallo stato svizzero. Questa fondazione esiste tutt’oggi anche
se il forte legame che aveva con Jung e la sua psicologia complessa si è andato diluendo.
Eranos però non era sicuramente una possibile risposta alla crescente domanda di
organizzazione e coordinamento da parte degli analisti junghiani di tutto il mondo: il problema che
si poneva infatti era chi potesse definirsi junghiano e chi fosse autorizzato a preparare nuovi
analisti. Infatti, indipendentemente dalle idee di Jung, il graduale affermarsi del suo pensiero aveva
portato dagli anni ’40 in poi un fiorire di scuole a lui ispirate in vari paesi del mondo.25 Proprio per
evitare confusioni e tensioni, i colleghi di Jung a lui più vicino decisero di fondare un vero e proprio
istituto per la formazione, con un’impostazione accademica a partire dal nome: Istituto Jung. E poi
di costituire la I.A.A.P., destinata a regolare la diffusione del movimento junghiano nel mondo.
Recentemente, c’è stata un’ulteriore evoluzione nelle strutture associative con la nascita della
International Association for Jungian Studies (I.a.j.s.), una nuova associazione internazionale con
sede a Sussex nata con la benedizione ufficiale della I.A.A.P. Questa associazione, che nasce in
ambito accademico, che si caratterizza per non essere riservata ai soli clinici ma per essere aperta a
tutti gli studiosi del pensiero junghiano in qualunque campo essi operino, in nome di quella
25
Sonu Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, edizioni Magi 2003, p. 402
26
Murray Stain, The IAA in Midlife: Where Are We Now, Where Are We Going?, in Barcelona 04, Daimon Verlag 2006,
p. 231
16
CAPITOLO 2
all’interno della rivista Luci e Ombre, specializzata nell’occultismo. Qui il nome del neo laureato
psichiatra svizzero era citato nell’articolo “Questioni ardenti” dove ne veniva presentata la tesi di
laurea intitolata: “Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti”. 27 Questa prima
apparizione non ebbe molto rilievo, tanto che è completamente ignorata da Michel David, uno dei
primi storici di psicologia in Italia: per lui il primo ingresso ufficiale di Jung in termini di
pubblicazioni avvenne nel 1908 grazie ad alcuni articoli scritti da due importanti accademici
dell’epoca, Luigi Baroncini e Carlo Modena. Il primo contributo apparve nel terzo numero della
27
Aldo Carotenuto, ibidem, p. 11
17
Rivista di Psicologia Applicata, si trattava dell’articolo “Il fondamento e il meccanismo della psico-
analisi”, ad opera di Baroncini. L’autore esaltava gli studi ad opera di Jung pubblicati poco prima in
Svizzera a proposito della demenza precoce, sottolineandone l’importante eco che avevano avuto a
livello europeo e preannunciando un articolo originale dello studioso svizzero per il numero
seguente. In effetti così avvenne e gli studiosi italiani poterono apprezzare la traduzione di Le nuove
vedute di psicologia criminale. Dopo questa fiammata, per i successivi trent’anni, non furono più
monografia. Lascia perplessi osservare come sia Baroncini che Modena non approfondirono i loro
studi e non citarono più Jung, pur avendone apparentemente compreso l’importanza in quanto
esponente principali degli studi sulla psicologia del profondo dell’epoca, accostandone il nome a
Appare già all’epoca un tema che segnerà tutta la storia del pensiero junghiano in Italia: una
grande confusione tra le figure di Freud e di Jung, per cui quest’ultimo si ritrovava ad essere
assimilato al proprio maestro malgrado tutto. In effetti i loro nomi furono abbinati da subito,
addirittura nello stesso articolo di Baroncini di cui è accennato poco prima. Il nome di Sigmund
Freud e la psicoanalisi erano già apparso in pubblicazioni minori ma questo articolo del 1908 è il
movimento psicoanalitico freudiano in Italia, vista l’importanza della testata e degli autori. 29
L’evoluzione del pensiero di Jung e Freud non fu comunque molto seguita , almeno in quegli anni,
anche per via dello scarso successo della psicanalisi. Questa scarsa sensibilità non può non colpire
anche considerando come il nome di uno dei cattedratici dell’epoca, Sante De Sanctis, arrivasse
addirittura ad essere inserito da Freud stesso nel suo celeberrimo L’analisi dei sogni. Tra i saggi di
28
Aldo Carotenuto, idem, p. 14
29
David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966, p. 216
18
riferimento, appare infatti anche il testo I sogni dell’italiano, lodato per la sua completezza dal
Per capire le possibili ragioni di queste difficoltà iniziali è utile tenere in considerazione il
aveva avuto il suo coronamento nel 1905, anno in cui si era tenuto a Roma l’annuale congresso
internazionale di psicologia. Inoltre, nello stesso anno, erano state istituite le prime tre cattedre
buona salute sta nel fatto che tutto era stato possibile grazie all’abilità, oltre che scientifica,
soprattutto organizzatrice di alcune singole individualità che non erano però riuscite a costruire
delle vere e proprie scuole: le nuove cattefre erano poco più che ufficializzazioni di cattedre già
esistenti e il congresso stesso era stato in dubbio fino alla fine, stante l’arretratezza complessiva
degli studi di psicologia in Italia rispetto alla Germania o agli Stati Uniti, per esempio. Inoltre, la
ricerca accademica risultava, in questa realtà, legata agli interessi individuali dei vari studiosi
risultando priva di un progetto complessivo e organico, una realtà in cui ogni ricercatore poteva
interessarsi a un determinato argomento per un periodo salvo poi rivolgersi ad altro. Non solo, ma
l’egemonia che un singolo professore poteva arrivare ad avere in un tale contesto non era sinonimo
di competenza, come accadde per esempio con un altro accademico di riferimento dell’epoca,
Morselli, che scrisse nel 1926 il Trattato sulla psicoanalisi, uno dei primi testi universitari
sull’argomento, che fu però bocciato da Sigmund Freud in persona, che definì sprezzantemente
pensiero crociano, quello cattolico e quello socialista. Croce e tutta la corrente filosofica nel neo-
30
Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana, Mondadori 1990, p. 257
31
Cimino Guido e Dazzi Nino (a cura di), Gli studi di psicologia in Italia, aspetti scientifici, teorici e ideologici, Domus
Galineana 19??, p. 35‐36
32
Aldo Carotenuto, Ibidem, p. 28
19
idealismo, che furono egemoni per decenni in Italia, mostrava scarso interesse alla psicoanalisi in
quanto era tutta la psicologia ad essere ritenuta, per definizione, una non scienza.33 Il cattolicesimo,
nelle vesti soprattutto di Padre Gemelli, pur appoggiando una psicologia pratica che potesse servire
l’uomo, era tendenzialmente ostile alla psicoanalisi e alle teorie della scienza in cui l’uomo e il
ruolo divino venivano sminuiti.34 Infine il socialismo semplicemente ignorava il tema, con lo stesso
Ci furono delle eccezioni felici in questo quadro generale generalmente ostico ad accettare la
psicoanalisi e lo studio della psicologia del profondo, la più importante delle quali è Trieste. Questa
città di confine, posta tra la cultura tedesca e quella italiana, rappresentò un’eccezione in questo
panorama, anche per via del suo essere parte dell’impero asburgico durante il periodo di iniziale
diffusione della psicoanalisi da Vienna. Tra i suoi cittadini ricordiamo Edoardo Weiss, che si può
ritenere il vero pioniere del movimento freudiano in Italia per la sua attività professionale di analista
e la sua conoscenza diretta con Freud. Questo triestino studiò a Vienna, operò a Trieste e poi a
Roma prima di emigrare, contribuendo così a una efficace diffusione del pensiero freudiano anche
nella capitale. Attraverso di lui si formarono alcuni dei primi psicoanalisti italiani di cui il più
importante, in vista degli sviluppi successivi della psicologia in Italia, fu sicuramente Cesare
Musatti.36 Altri triestini da ricordare per il loro ruolo nell’introduzione della psicoanalisi in Italia,
pur essendo parte dell’ambito letterario, sono Italo Svevo e Umberto Saba, i primi scrittori dell’”era
psicoanalitica” che si mostrano sensibili alle sue tematiche, tanto che Svevo è stato uno dei primi a
Può essere indicativo del quadro italiano in cui si sarebbe andato a inserire il discorso
33
Michel David, ibidem, p. 17
34
David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966, p. 91 e ssgg.
35
Antonio Gramsci, Opere, Editori Riuniti 1997, p. 205
36
Cesare Musatti conobbe la psicoanalisi con Weiss da cui fu in analisi
37
David Michel, Letteratura e psicoanalisi, Mursia 1967, p. 161
20
tentativo di organizzare la Società Psicoanalitica Italiana. Essa nacque solo nel 1926, a Teramo.
L’organizzatore e primo presidente fu Levi-Bianchini, uno dei pochi cattedratici ad aver mostrato
interesse alla psicoanalisi ma la cui comprensione delle teorie freudiane era relativa.38 Questa prima
società, poco vitale di suo, fu rifondata nel 1932 con Weiss come presidente e sede ufficiale a
soffocata dal crescente apparato fascista e costretta a chiudere anche per via delle montanti politiche
antisemite che coinvolsero alcuni esponenti del mondo della psicoanalisi, tra cui proprio Weiss e
Musatti.
2.2 Le difficoltà italiane nell’introduzione delle teorie della psicologia del profondo
Alla luce di questa situazione non sembrerà strano che la psicologia analitica di Jung
arrivasse in Italia, praticamente parlando, con più di vent’anni di ritardo rispetto alla sua nascita e
grazie alla venuta a Roma di un analista junghiano tedesco. Allo stesso modo, sarà comprensibile il
fatto che, nel sentito comune, le figure di Freud e Jung si confondessero tra loro e fossero
accomunate entrambe alla psicoanalisi, malgrado tutto quello che era successo dal 1914 in poi con
parte di Freud in persona. 39 Segno del permanere di questa confusione nel sentire comune è
osservare come uno dei più autorevoli rappresentanti accademici del pensiero junghiano in Italia,
Aldo Carotenuto, ancora nel 1994 si lamentasse del fatto che gli veniva in continuazione richiesta la
differenza tra Jung e Freud, anche se ormai erano passato quasi ottanta anni dalla loro
separazione.40 Perfino oggi questo tema sembra che continui a essere considerato attuale anche tra
38
David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966,p. 188
39
Cfr. Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, Editore Boringhieri 1975
40
Ottavio Rosati, Intervista multistrato a Carotenuto, Di Rienzo Editore 1994, p. 10
21
gli specialisti se accade che nel 2005 Studi Junghiani, la rivista ufficiale dell’A.I.P.A., pubblichi un
Potrebbe sembrare strano questo insistere nel volere accomunare due teorici tra loro
distanti. Da un punto di vista storico, si può osservare che all’inizio non ci furono particolari dissidi
tra le due scuole di pensieri in Italia, probabilmente perché mancava abbastanza maturo e diffuso
per poter proporre e sostenere poi qualsivoglia dissidio teorico di questo livello. Fino agli anni 20,
infatti, gli psicoanalisti attivi in Italia erano pochissimi e mancavano perfino di un’associazione di
riferimento realmente funzionante. Durante il fascismo la situazione andò solo che peggiorando,
rendendo clandestina la vita della psicoanalisi italiana. Quest’ultima riuscì comunque a mantenersi
abbastanza vitale tanto che, nell’immediato dopoguerra, i pochi analisti sopravvissuti si trovarono
nella situazione di poter ripartire, anche se per questo preferirono tralasciare le differenze teoriche.42
A livello generale, invece, le due figure risultano confuse per l’indiscutibile maggiore
notorietà di Sigmund Freud e delle sue teorie anche tra i non specialisti e, perfino, nel grande
pubblico. In effetti, nel parlato comune spesso si usa il termine psicanalisi per intendere tutto quello
che riguarda la psicologia, portando all’eccesso un dato di realtà che vede come tutte le teorie della
psicologia del profondo riconoscano in Freud uno dei padri della disciplina. È innegabile infatti che
quest’ultima si sia sviluppata grazie alla diffusione della psicoanalisi e all’opera del medico
viennese, che era riuscito a sistematizzare gli spunti e le ricerche a lui precedente in un insieme
coerente. Il punto di forza di questa costruzione teorica era di essere una disciplina ponte tra
filosofia e medicina che aveva le sue basi nel positivismo e si rifaceva alla teoria del darwinismo: la
psicoanalisi, appunto.
La psicoanalisi era presentata come una scienza nuova creata da zero dal Freud stesso, che
giustificava le sue intuizioni con l’esperienza clinica e che aspirava per ad un riconoscimento
41
Cfr. Piergiacomo Migliorati, Freud e Jung nell’esperienza analitica, in Studi junghiani, vol. 11, n. 2. 2005
42
Michel David, ibidem, p.221
22
accademico. Per ottenere questo, in un’epoca dominata dal positivismo, l’approccio scelto fu quello
di costruire un contenitore teorico tale da permettere di mantenere una qualche unità teorica a una
disciplina che voleva occuparsi di un mondo complesso e oscuro, dai tratti che rischiavano di cadere
nel parascientifico e a sminuirne il valore. Anche per questo Freud arrivò a negare tutte le influenze
non abbastanza scientifiche come quella provenienti dalla filosofia, come Arthur Schopenauer o
Platone. 43 Alcuni elementi fondamentali della sua teoria sembrano legati a questa necessità di
accettazione scientifica, come Freud stesso riconobbe in occasione dell’ultimo incontro-scontro con
Jung. In occasione del loro ultimo diverbio, il medico viennese disse chiaramente che era
importante difendere la sua impostazione teorica, in quanto l’allontanarsi da essa poteva portare il
rischio di cadere nel misticismo. Quest’ultima accusa è ancora oggi ripresa da molto freudiani nei
La fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo è, ricordiamo brevemente,
il periodo in cui in parte viene abbandonano il canone romantico che aveva fino ad allora dominato
dalle nuove teorie dell’evoluzionismo. Queste ultime erano sempre più usate in campi diversi dalla
sola biologia da cui erano partire. Per esempio sono gli anni in cui l’etologia compie i suoi primi
passi con Konrad Lorenz che diventa lui stesso una mamma anatroccolo45 che continuano fino ad
oggi con testi come quello di Morris in cui l’uomo viene indicato come “scimmia nuda”46. È in
questo contesto che si può inquadrare meglio la forza teorica di una libido come principale fonte
vitale dell’agire umano, così come inizialmente teorizzato da Freud, con una forte assonanza con
l’evoluzionismo che interpreta l’agire animale come spinto incessantemente a trovare il modo di far
sopravvivere la propria specie attraverso la riproduzione. Poi questa teoria conoscerà dei
cambiamenti anche importanti, tuttavia bisogna qui sottolineare come abbia rappresentato o uno dei
43
Solinas Marco, Psiche: Platone e Freud, Firenze University Press 2008. p. 23
44
Cfr. David A. Staat, Breve Dizionario di psicologia, Kappa Edizioni 1998
45
Cfr. Konrad Lorenz, L’aggressività, il Saggiatore Tascabili 2008
46
Cfr. Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani 1967
23
principali punti di divergenza insanabile tra Freud e Jung, e non solo.47 Allo stesso tempo, però, ha
rappresentato il mezzo per cui insigni etnologi, come per esempio Lorenz e Morris, riconoscono
Oltre alla forza della teoria in sé, l’affermazione della psicanalisi sul piano accademico e
pubblico è sicuramente legata alla complessa e affascinante personalità di Freud e dalle sue
innegabili capacità organizzative e relazionali. Suona, in questo senso, curioso come lui stesso si sia
sempre descritto isolato e irriso, quando è appurato che la società dell’epoca accettasse e
apprezzasse lui e le sue idee. 48 Sintomatico di questa sua abilità è il fatto di essere riuscito a
costruirsi una rete di relazioni importanti a livello veramente internazionale, tanto da arrivare a
sognare di ottenere il nobel.49 Tuttavia, il ruolo diretto avuto dal tedesco nella diffusione planetaria
del suo pensiero fu sicuramente secondario in Italia, dove la sua presenza in termini di lezioni,
Uno degli altri elementi a aver favorito l’influenza del pensiero freudiano in Italia, e non
solo, è nella sua innegabile capacità di scrivere. I libri di Freud, malgrado il loro spessore teorico,
sono scorrevoli e riescono a farsi leggere anche da non addetti ai lavori. La lingua usata è tale da
risultare comprensibile e ha lo scopo di costruire un dialogo tra autore e lettore. A questo dato
tecnico si aggiunge l’abbondante uso di esempi di casi clinici che aiutano a concretizzare e a
comprendere le idee proposte. Tali capacità gli furono ufficialmente riconosciuta nel 1932 quando
ricevette il premio letterario Goethe da parte della città di Monaco. Al contrario, Jung è, da questo
punto di vista, molto più complesso e oscuro.50 Oltre ad usare un linguaggio complesso e ambiguo,
le opere dello psichiatra svizzera contengono relativamente pochi casi clinici e sono quindi più
teorici e astratti dei libri freudiani. Questo, oltre a rendere complessa la traduzione delle opere
47
Anche rispetto a Adler il tema di divergenza era simile, ma il presente lavoro si vuole concentrare su Jung
48
Cfr. Henri F. Ellenberg, La scoperta dell’inconscio, Bollati Borringheri 1980
49
Helmutt Lück, Breve storia della psicologia, Il Mulino 1991, p. 83
50
Duane P. Shultz, Storia della psicologia moderna, Giunti 1974, p. 348
24
junghiane, non ha molto aiutato la diffusione della psicologia analitica tra i non addetti al lavoro o
Si è visto quindi che il pensiero di Freud risultasse più popolare in quanto più facile da
affrontare in termini di rispetto del canone scientifico dominante, di facilità di lettura e di carisma
leaderistico dell’autore. Tutti tratti che mancavano all’opera di Jung. A questi punti oggettivi e
validi per tutte le nazioni, si aggiungeva una specificità italiana dell’epoca: il relativo
dell’epoca erano isolati tra loro e, in fondo, poco interessati da queste diatribe teoriche tra Freud e
Jung.
della psicologia analitica risentiranno moltissimo della situazione politica. In quel periodo infatti
Benito Mussolini arriva al potere tramite un colpo di stato e, gradualmente, impone il regime
conservatori molto importanti. Segno di questa ambiguità è la coesistenza in Italia per tutto il
ventennio fascista di una triarchia di fatto costituita da monarchia, sistema fascista e Santa Sede. 51
Questa situazione permise, soprattutto nei primi anni, di mantenere una relativa libertà
scientifica all’interno dell’accademia e del mondo culturale. A questo aspetto positivo faceva però
da contraltare una crescente spinta conformista proveniente soprattutto dagli ambienti cattolici e
l’affermarsi del pensiero neoidealista. Infatti, uno dei suoi maggiori esponenti, Giovanni Gentile,
era anche un importante intellettuale di riferimento del movimento fascista e divenne ministro
dell’Istruzione: grazie a questo ruolo, ebbe modo orientare la cultura italiana secondo le proprie
51
Cfr. Romolo Gobbi, Fascismo e complessità, Il Saggiatore 1998
25
idee. Questo portò, nella pratica, a un forte indebolimento di fatto della psicologia scientifica e un
A tale situazione, già critica, si aggiunsero poi le leggi razziali che colpirono gli ebrei e
ebbero un effetto notevole a livello accademico, in quanti molti docenti dovettero lasciare le
Cesare Musatti, uno dei pochi accademici italiani interessati alla psicoanalisi che nell’anno
accademico 1933-34 arrivò a tenere un corso di psicoanalisi nell’università di Padova. Nel 1938,
però, dovette rinunciare alla carriera accademica presso l’Università di Padova in quanto figlio di
ambiguità del regime fascista e della triarchia di fatto vigente: poco tempo prima di questa
defenestrazione Farinacci, un gerarca fascista, cercò il suo aiuto all’interno del “caso dello
smemorato di Collegno” e, subito dopo l’uscita dal mondo universitario, fu Padre Gemelli in
persona a cercare di aiutarlo a continuare gli studi e la ricerca trovandogli una cattedra da dove
continuare a insegnare.53 In effetti esponenti di spicco del fascismo e del cattolicesimo trovarono
La lotta agli ebrei e al loro supposto dominio intellettuale ingaggiata dal regime nazista in
Germania ebbe una nefasta influenza in tutta Europa. Fu in quegli anni che lo svizzero Carl Gustav
Jung, in quanto ariano, divenne il rappresentante accettabile della psicologia del profondo in tutti gli
ambienti in cui l’antisemitismo si affermava sempre di più: anche, ma non solo, per questo fu
nominato dal 1933 presidente onorario dell’Associazione Internazionale degli psicologi tedeschi
oltre che direttore della rivista in lingua tedesca Zentralblatt fur Psychoterapie, quest’ultima di
chiara matrice nazista. Si tratta di uno degli aspetti ambigui della figura di Jung che fu accusato, a
52
Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana, Mondadori 1990, p. 258
53
Cfr. Rodolfo Reichmann, Cesare Musatti, psicologo, Arpa Edizioni 1996
26
torto, di antisemitismo nel dopoguerra. 54 In effetti si era arrivati tra gli studiosi italiani, per
esempio filiofi, al paradosso di parlare di psicoanalisi citando Jung, pur senza realmente conoscerlo,
solo per evitare di dover nominare Freud e essere così accusati di vicinanza al nemico ebreo, con il
non riuscì a sopravvivere: nel 1934 fu vietata la pubblicazione della rivista ufficiale della Società
Psicoanalitica Italiana e nel 1938 l’associazione venne sciolta.56 È utile qui ragionare sul come il
movimento freudiano dell’epoca si fosse riuscito a diffondere in Europa e sul ruolo che potevano
avere le associazioni nazionali. Queste non erano importanti solo intermini di prestigio, come
dimostra il caso specifico di Londra. La Società per la Psicoanalisi inglese aveva seguito da vicino
le vicissitudini tra Freud e Jung tanto che era stata sciolta una prima volta nel 1914 per poi essere
rifondata nel 1919, a opera di un fedelissimo di Freud, Ernest Jones. Uno dei suoi compiti più
importanti fu la traduzione e diffusione delle opere freudiane, che venivano proposte da subito nella
loro completezza in lingua inglese. Nel far questo lavoro, molto apprezzato da Freud stesso, la
società londinese acquisì anche un ruolo in termini di editing che ebbe anche dei riflessi
nell’edizione originale tedesca che fu resa più coerente grazie a questo lavoro. La venuta della figlia
Oltre al ruolo scientifico, Londra divenne sempre più importante per il crescente
popolazione inglese.57 Per i molti psicanalisti ebrei sparsi nel continente, il clima sociale che si
andava creando rendeva difficile continuare il loro lavoro in pace e Londra divenne una meta
54
Questa situazione in cui Jung accettò l’ambiguità per aiutare i suoi colleghi ebbe degli strascichi anche nel
dopoguerra con l’accusa di razzismo rivolta allo psichiatra svizzero. Cfr. Von Franz Marie‐Luise, Il mito di Jung, Bollati
Borringhieri 1978, p. 62 e ssgg.
55
Aldo Carotenuto, ibidem, p. 61
56
Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana, Mondadori 1990, p. 259
57
Cfr. Orwell George, Essays, Penguin Classic 2000, p. 278
27
ambita, una specie di seconda patria elettiva.58 Tanto più che la Società per la Psicanalisi londinese
si era presa l’incarico di assistere i colleghi nel loro stabilirsi in terra inglese. Viste il numero di
richieste, il governo inglese incaricò una commissione di psicanalisti per selezionare le domande di
asilo degli ebrei sedicenti psicoanalisti. L’esempio sicuramente più noto di emigrazione riuscita è
quello della Klein. Uno invece negativo è quello dello stesso Bernhard, la cui richiesta di asilo a
Londra fu bocciata costringendolo a ripiegare altrove. In ogni caso, alla fine lo stesso Sigmund
Freud andò a Londra nel 1938. Fu così che tra l’importanza dei nuovi soci (tra tutti Anne Freud) e
creatività di pensieri (tra tutti Melanie Klein), di fatto il movimento psicoanalitico non morì nella
culla soffocato dalle politiche naziste ma, più pragmaticamente, trasferì il proprio centro da Vienna
a Londra. 59
In contrasto alla vita delle Società Internazionale per la Psiconalisi e delle sue sedi nazionali,
il movimento junghiano brillava per la mancanza di un’organizzazione sistematica. Jung era infatti
convinto che ognuno dovesse seguire il proprio metodo esaltando le differenze inter-individuali in
polemica con un atteggiamento dogmatico di validità esclusiva che lui vedeva come tratto
dell’associazionismo freudiano dell’epoca.60 Accadeva così che le varie società junghiane, che si
erano subito formate all’indomani della rottura tra Freud e Jung e che riunivano quindi persone
osteggiate dai colleghi freudiani. Lo psichiatra svizzero, in effetti, era più interessato a sviluppare il
lato teorico della sua psicologia del profondo piuttosto che quello organizzativo. Arrivando al punto
che, nel pieno delle persecuzioni antisemite in Germania, non riuscì a trovare il modo per aiutare il
collega tedesco Bernhard che gli aveva scritto apposta una lettera molto esplicita.61 Colpisce questa
58
Silvia Veggetti Finzi, Ibidem, p. 247
59
Cfr. De Coro Alessandra e Ortu Francesca, Psicologia dinamica, Editori Laterza 2010
60
Jung C.G., Lettere 1906‐1961, Edizioni Magi 2006, p. 1934
61
Giovanno Sorge (a cura di), 1934/1959 Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarium 2001, p. 30
28
diversità di atteggiamento tra Freud e Jung, una differenza legata soprattutto al carattere personale,
Nel complesso, il rapporto tra psicoterapia e regime fascista fu negativo per molti aspetti,
ma è sicuramente più sfumato rispetto al caso nazista, in quanto l’antisemitismo non ebbe, almeno
fino alle leggi razziali, un ruolo preponderante nella propaganda fascista. Storicamente risulta
addirittura un intervento diretto da parte di Mussolini per proteggere Freud dal regime nazista: si
tratta della lettera scritta dal presidente americano Roosvelt e dal duce italiano in cui veniva chiesto
hitleriana.63 È difficile valutare quanto questo atto politico fosse mera propaganda oppure genuina
volontà di proteggere una personalità importante come quella di Freud, sicuramente è una
Si tratta comunque di interventi episodici e soggettivi che non possono evitare di concludere
come la psicologia analitica, alla pari della psicoanalisi, anche se non fu apertamente osteggiata dal
regime fascista, non fu neanche favorita. Inoltre le leggi razziali e la persecuzioni antisemite
sopravvivere. La rappresentazione plastica di questa situazione si può ben dire che fu rappresentata
da Bernhard in persona: nel 1943 il tedesco chiuse con i mattoni la porta della propria camera nella
sua Roma e scelse di vivere letteralmente murato in casa per un intero anno per paura dei
rastrellamenti nazisti e della conseguente deportazione. Alla fine della guerra però, malgrado tutto,
riuscì a tornare alla vita normale e a riprendere la diffusione del pensiero junghiano, ponendo le basi
62
Cfr. Von Franz Marie‐Luise, Il mito di Jung, Bollati Borringhieri 1978
63
Reisman John M., Storia della psicologia clinica, Raffaele Cortina Editore 1991, p. 185
29
CAPITOLO 3
3.1 Ernst Berhnard
La figura di Bernhard, così importante per la nascita della psicologia analitica italiana, è
circondata dalla leggenda in Italia così come a Zurigo.64 Questo è dovuto alla carenza di suoi scritti:
in pratica l’unico libro pubblicato arrivato a noi è Mitobiografia (Bompiani 1977). Anch’esso, poi, è
una raccolta dei suoi scritti sparsi negli anni, curato da Bernhard stesso poco prima deella sua morte
ma pubblicato postumo. In questo libro troviamo anche uno dei suoi più importanti articoli
pubblicati in una rivista e titolato Il complesso della Grande Madre, problemi e possibilità della
psicologia analitica in Italia. Questa scarsa produzione è spiegata con un suo personale blocco
64
Giovanni Sorge, Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarum 2001, p. 16
30
dello scrittore65, a cui le testimonianza contrappongono un Bernhard che comunque scriveva molto
in termini di note a casi clinici, di riflessioni o di abbozzi di saggi: in ogni caso, nulla gli è
sopravvissuto.66 Sembra che tutti i suoi scritti, conservati in un baule, siano stati dati alle fiamme
alla moglie dopo la sua morte.67 In effetti, piuttosto che la sua produzione come autore, quello che
ci rimane di lui è l’ampia produzione presso l’Astrolabio come direttore della collana, da lui stesso
fondata nel 1947, “Psiche e coscienza” in cui curò la pubblicazione di diversi titoli importanti per la
psicologia del profondo, senza essere per forza specialisti. Tra essi ricordiamo l’edizione de i Ching
del 1947 in cui l’introduzione era di Jung in persona. Questi approfittò dell’occasione per
ringraziare l’editore sottolineando come in quegli anni il suo pensiero si stesse sempre più
diffondendo in Italia.68
Ernst Bernhard, nato a Berlino nel 1896, era un pediatra con un passato di militante del
partito sionista socialista. Oltre alla medicina aveva altri interessi scientifici o comunque
affrontato a Berlino la sua analisi personale con Otto Fenichel e Sandor Radò, due freudiani. Fu
dopo questa esperienza che avvenne il suo primo contatto con il pensiero junghiano, nel 1932,
attraverso l’introduzione fatta dallo psichiatra svizzera all’edizione tedesca del testo buddhista
cinese Il mistero del fiore d’oro, che il pediatra tedesco si trovò casualmente tra le mani.69 Colpito
da questo scritto, Bernhard decise di approfondirne i contenuti lì accennati tanto che, l’anno
seguente, partecipò all’annuale conferenza di Ascona nell’ambito di Eranos, il cui tema erano
proprio i King e in cui intervenne Jung stesso, che tra l’altro aveva contribuito in modo decisivo a
organizzare l’evento. Dopo queste esperienze il pediatra tedesco cominciò un’analisi junghiana con
Toni Saussmann, una delle principali esponenti di questa corrente di pensiero nella Germania
65
Thomas B. Kirch, ibidem, p. 150
66
Marcello Pignatelli, ibidem, p. 32
67
Testimonianza personale all’autore resa da Franco Castellana
68
Cfr. C. G. Jung, Prefazione all’edizione italiana, in Veneziani Bruno e Ferrara A. G. (a cura di), I king, Astrolabio 1950
69
E. Bernhard, Discorso commemorativo per la morte di Jung, Casa Sabatina di Bracciano, Minerva Medicopsicologica
n.2, 1961, p. 94
31
dell’epoca Spinto dal desiderio di approfondire questo orientamento psicoterapeutico, nel gennaio
del 1934 Berhard riuscì a incontrare in modo informale Jung per parlare di Mandala e, nell’ottobre
dello stesso anno, gli chiese di poter fare un’analisi direttamente con lui, come in effetti avvenne
nell’autunno successivo.
La prima seduta tra Bernhard e Jung avvenne nella località svizzera di Küssnacht, il 14
ottobre 1935. Ad esso seguirono altri incontri, tre volte a settimana, fino al mese successivo quando
tornò in patria. Una volta venduto il proprio studio medico, Bernhard volle riprendere il lavoro di
analisi personale e approfondire l’approccio della psicologia analitica. Per questo andò a Zurigo,
dove, da gennaio a marzo del 1936, continuò l’analisi con un’assistente di Jung e frequentò i suoi
seminari. Una volta rientrato a Berlino, Bernhard scrisse una lettera a Jung in cui si lamentava della
qualità dell’analisi chiedendo di poter tornare a fare analisi direttamente con lui.70
Bernhard non tornò a Berlino da solo: proprio a Zurigo aveva trovato una nuova compagna
che l’avrebbe seguito fino alla morte, Dora. A Berlino l’ormai ex pediatra cominciò l’attività di
analista aprendo uno studio e ricevendo qualche soddisfazione economica. Tuttavia le politiche
antisemite del regime nazista e il clima sociale erano tali che decise di cercar rifugio altrove,
temendo per sé e per Dora, ariana ma pur sempre coniugata con un ebreo.71 Aggiornando per lettera
Jung, Bernhard inizialmente programmò di andare a Londra, uno dei poli di attrazione dell’epoca,
come visto in precedenza. Il tedesco, in questo periodo difficile, chiese aiuto allo psichiatra svizzero
chiedendogli anche un incontro di persona o una raccomandazione per qualcuno che potesse
essergli d’aiuto in loco. Le risposte provenienti dalla Svizzera furono molto formali, nel senso che
Jung si rendeva disponibile a scrivere tutti gli attestati di cui avrebbe potuto aver bisogno il collega,
Intanto la domanda di asilo nel Regno Unito fu bocciata dall’apposita commissione poiché,
nella lettera di accompagnamento mandata, Bernhard aveva spiegato che una volta a Londra
70
Giovanni Sorge, Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarum 2001, p. 29
71
Idem, p.31
32
avrebbe praticato la chirologia, affermazione che spinse alcuni psicoanalisti a mettere il veto.72 Fu
così che, d’accordo con l’ormai moglie Dora, il tedesco decise di trasferirsi a Roma, dove arrivò nel
dicembre del 1936. Una volta sistematosi, Bernhard riscrisse a Jung ringraziandolo per quello che
aveva fatto per lui: siamo al 29 gennaio 1937 e sarà l’ultima lettera spedita a Zurigo fino a dopo la
seconda guerra mondiale. Nel testo della missiva non ci sono accenni polemici per il
comportamento di Jung, prova del un tono rispettoso che Bernhard usò sempre nella sua
corrispondenza con quello che lui considerava essere, in ogni caso, il suo maestro.73
Come si è visto, l’arrivo di Ernst Bernhard a Roma fu abbastanza fortuito visto che lui stesso
pensava inizialmente di andare a Londra. Vista questa situazione, sembra chiaro che la coppia
Bernhard avrebbe preferito emigrare a Zurigo, dove sembrerebbe che Carl Gustav Jung in persona
avesse promesso un ruolo come assistente al collega tedesco, salvo poi non mantenere la parola. O
almeno così ha lasciato scritto nei suoi appunti Bernhard, dando della vicenda un accenno veloce e
senza dare troppi chiarimenti.74 In ogni caso, visto che sia Londra che Zurigo non si rivelarono
Nella capitale Bernhard si mise in contatto con l’esigua cerchia di psicoterapeuti all’epoca
operanti, tra cui lo stesso Weiss, riuscendo così a cominciare a lavorare a sua volta. I primi mesi del
soggioro romano furono dedicati allo studio della sconosciuta lingua italiana e i primi pazienti
furono solo, giocoforza, germanofoni. Come detto in precedenza, il fatto di essere junghiano
piuttosto che freudiano era un particolare secondario, in quel momento, in Italia: Weiss non esitò ad
aiutarlo per via delle differenze teoriche. Anzi, fu un sollievo per lui avere un collega capace di
aiutarlo e con cui condivideva anche la lingua. Non solo, la signora Weiss cominciò a sua volta
un’analisi con Bernhard per poi divenire lei stessa analista junghiana. In questo modo i Weiss
andarono a formare una delle rare coppie dell’epoca formate da un freudiano e uno junghiano.
72
A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Asttrolabio‐Ubaldini 1977, p.45
73
Idem, p.. 38
74
Ernst Bernhard, Mitobiografia, Bompiani 1977, p. 12
33
I coniugi Weiss, così importanti per Bernhard nel suo inserimento nella vita romana, presto
fuggirono negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali del 1938. Il tedesco scelse di rimanere a
Roma malgrado che la sua libertà di azione andasse diminuendo sempre più. Lo scoppio della
guerra e il graduale irrigidimento delle leggi razziali gli resero sempre più difficile vivere da uomo
libero fino a quando fu addirittura deportato in un campo di concentramento in Calabria nel 1940.
Tucci, Bernhard tornò libero promettendo però di abbandonare la vita pubblica. Una volta a Roma
visse rinchiuso in casa e dedicandosi ai suoi studi. Alla caduta del fascismo e durante il dominio
nazista a Roma, Bernhard prese la drastica decisione di murarsi vivo nella propria camera fidando
dei rifornimenti dati dalla moglie per sopravvivere ai rastrellamenti nazisti. Ce la fece, mentre il
Alla fine della seconda guerra mondiale, grazie alla libertà riconquistata, sia a livello
individuale che generale, Bernhard potè riprendere il suo lavoro di analista. Nel 1949 anche la
moglie Dora divenne, a sua volta, analista. Sono gli anni in cui venivano dai Bernhard personalità
come Fellini, Ginzburge altri. Alla fine, nei primi anni 50, i due poterono permettersi di acquistare
una villa sul lago di Bracciano dove riunirsi con amici e pazienti, creando un circolo informale di
Al di là della formazione di questo nucleo italiano, già nel 1947 Bernhard riprese i contatti
con la Svizzera scrivendo una calorosa lettera a Jung dopo un silenzio decennale e ricevendo una
pronta risposta dai contenuti molto formali.75 Fu così che il tedesco riprese i contatti con Zurigo e
Analitico. Infatti partecipò al suo primo congresso internazionale nel 1958 pur non facendo alcun
intervento. Nell’occasione gli fu comunque riconosciuto un ruolo di primo piano e venne scelto, tra
i 120 junghiani presenti a Zurigo, a far parte del primo comitato esecutivo.
75
Giovanni Sorge, ibidem, pp 38‐39
34
3.2 Nasce l’Associazione Italiana per la Psicologia Analitica (A.I.P.A)
Già in occasione del primo congresso internazionale Bernhard era andato a Zurigo insieme a
alcuni colleghi italiani che lui stesso aveva formato. Appena tornato in patria, insieme a loro,
cominciò le pratiche per formare quella che sarà l’Associazione Italiana per la Psicologia Analitica.
Questa fu originariamente fondata a Bracciano, il 26 maggio del 1961, con 12 soci fondatori, oltre
al presidente Bernhard: Dora Bernhard, Mirella Bonetti, Giuseppe Donadio, Enzo Lezzi, Mario
Moreno, Gianfranco Tedeschi, Francesco Montanari, Gianfranco Draghi, Silvia Montefoschi, Carlo
Iandelli, Mario Trevi e Vittoria Braccialarghe.76 A loro si unirono da subito altri soci, compresi gli
allievi, per cui il totale arrivò a 16 membri ordinari promotori più altri 10 membri aderenti
promotori.77 Tra essi ricordiamo la presenza di Marcello Pignatelli. A titolo di confronto, nel 1963,
All’interno di ogni associazione di psicologia analitica uno dei ruoli più importanti per la
vita associativa era ed è quella degli analisti-trainer o didatti. Questi, infatti, sono i soci autorizzati a
fare la cosiddetta seconda analisi o analisi didattica, parte fondamentale dei percorsi di formazione
classica per diventare psicoterapeuta. In teoria ogni nuova associazione dovrebbe nascere proprio
attorno a un nucleo di didatti o analisti trainer che si associano, appunto, tra di loro anche per
minimo di analisti-trainer già abilitati per avviare l’iter per il riconoscimento internazionale di una
data associazione.
per nome, salvo aggiungere che chiunque lo sarebbe potuto diventare successivamente dopo almeno
cinque anni di partecipazione alle attività associative come membro ordinario anche se non in
maniera automatica ma in virtù delle esigenze dell’associazione stessa. Oltre alla coppia Bernhard,
76
Aldo Carotenuto, Ibidem, p. 154
77
Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 42
78
Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana, Mondadori 1990, p. 259
35
gli analisti-trainer erano Gianfranco Tedeschi e Mario Moreno per Roma, Fabio Minozzi e Silvia
Montefoschi per Milano, Vittoria Braccialarghe e Carlo Iandelli a Firenze.79 I due analisti-trainer
romani erano ambedue docenti universitari. Si può già notare cone l’A.I.P.A. nascesse da subito a
livello nazionale e con una forte concentrazione nel centro e nel nord. In un secondo tempo fu
seminari del mercoledì sera, presso la sede storica di via Cola di Rienzo 8. Le conferenze, sempre
con tema di psicologia analitica erano aperte a soci e semplici curiosi e si concludevano con una
cena in comune.80 Questo aspetto mondano della vita associativa, , che aveva l’obbiettivo di creare
un ambiente di sana amicizia e collaborazione, veniva riflesso anche nello statuto in quanto non era
previsto il possesso di una laurea specifica per chiedere di essere ammessi nell’associazione. L’idea
fondamentale era di mantenere la più grande libertà intellettuale senza rinchiudersi in una
specializzazione, concetto portato avanti con coerenza da Bernhard ma di cui Jung stesso aveva più
In effetti, i primi anni dell’A.I.P.A. furono dominati dalla personalità di Bernhard, giusto
riconoscimento alla sua persistenza in tutti quegli anni nel portare in Italia la psicologia analitica.
Lo statuto, come accennato in precedenza, prevedeva per lui la carica a vita e il diritto di veto su
convivenza di personalità forti, come quelle dei due cattedratici, o provenienti da storie ed
esperienze tragiche come quelle legate alle recenti persecuzioni antisemite, di cui avevano subito
L’associazione non si dotò di una rivista e non avviò attività istituzionali definite oltre a
questi incontri del mercoledì. Il suo sviluppo fu abbastanza rapido, anche perché il nome di Jung era
79
Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 42
80
Idem, p. 43
81
Articoli 3 e 4 dello Statuto del 1961
36
sempre più noto al grande pubblico, anche in seguito alla sua morte nel 1961. Ormai i libri che
diffondevano sempre più. 82 I curiosi quindi aumentavano e sempre più persone si avvicinavano
premessa per alcuni problemi che si crearono in seguito e che portarono a criticare alcuni
atteggiamenti di Bernhard, soprattutto il fatto che non sembrasse prestare troppa attenzione alle
qualità dei nuovi allievi, sull’accettazione dei quali aveva l’ultima parola e in cui sembrava, a volte,
confidare più sul suo istinto che su dati di realtà.83 Sicuramente il ruolo centrale del presidente-
e delle tensioni che covavano sotto le ceneri: Mario Trevi aveva presentato una sua relazione sulla
storicità della psicologia analitica dandole un’impostazione umanistica e facendo riferimento alle
teorie del filosofo tedesco Wilhelm Dilthey. Nel momento in cui si aprirono gli interventi il relatore
fu attaccato da un collega analista, Gugliemo Arcieri, che lo accusò di aver esposto un intervento
inutile ai fine della terapia e della clinica. La cosa più grave, secondo Carotenuto, fu che una parte
degli ascoltatori appoggiarono l’intervento del contestatore, rinnegando ogni valore a questo genere
di approfondimenti culturali.84
In effetti l’A.I.P.A. era nata con un’ambiguità alle origini, figlia anche dell’impostazione
un’associazione aveva uno scopo culturale oppure professionale? Questa dicotomia, faticosamente
tenuta insieme dalla personalità del fondatore, esplose in seguito alla sua morte.
82
Cfr. Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, p. 154
83
Aldo Carotenuto, Idem, p.114
84
Idem, p.154
37
3.3 L’A.I.P.A. e il C.I.P.A.
L’A.I.P.A. si andò allargando e nel 1965, al momento della morte di Bernhard, era formata
da 50 soci. Tra di essi i didatti rimanevano gli stessi dello statuto e tra di loro i più uguali degli altri
erano Tedeschi e Moreno, entrambi docenti presso la prima e la seconda università romana. I due
avevano il grande merito di aver introdotto la psicologia analitica all’università e di aver così fatto
conoscere a molti dei loro studenti l’esistenza dell’A.I.P.A.. Il delfino del presidente dell’A.I.P.A.,
fin quando era in vita, sembrava essere stato comunque Tedeschi, anche se non era stata espressa
All’inizio del 1965 Bernhard ebbe due infarti, a cui sopravvisse rimanendo però molto
debole. In breve le sue forze diminuirono sempre più fino a condurlo alla morte. Fu un processo
relativamente lento che diede la possibilità a Bernhard di completare e curare la sua Mitobiografia,
l’unico suo libro giunto a noi e che è una raccolta dei testi di quest’ultimo periodo, più qualche
appunto ritrovato e il suo articolo più importante. Durante questo periodo l’A.I.P.A. continuava le
seguito alla quale nacque il C.I.P.A. Questo evento è rimasta nella storia della I.A.A.P. in quanto
per la prima volta un’associazione nazionale si divideva. L’orientamento di Zurigo era di evitare
questo genere di separazioni tanto che fu inviato appositamente uno dei membri dell’esecutivo
internazionale Adolf Guggenbühl-Craig con lo scopo di far rientrare la rottura. Questi però arrivò
quando la frattura era già consumata e non poté fare nulla. Non restò altro allora che far applicare il
principio per cui ogni nuova associazione nazionale, creata in un luogo dove già era presente
un’associazione già dentro la I.A.A.P., necessitava del benestare di quest’ultima per essere a sua
volta ammesso nella stessa I.A.A.P. L’A.I.P.A. ingaggiò così un braccio di ferro estenuante con il
85
Idem, p.179
38
C.I.P.A., rifiutando di dare il benestare e cercando di assorbirla attraverso una riunificazione.86 La
situazione impiegò qualche anno a decantare e traspare, nella corrispondenza tra i rispettivi
nel 1977 i rapporti tra le associazioni pur non più conflittuali fossero comunque difficili.87
Le motivazioni vere di questa prima frattura non sono ben chiarite e le testimonianze dirette
di Aldo Carotenuto e Marcello Pignatelli, entrambi nell’A.I.P.A. all’epoca dei fatti e entrambi
destinati in seguito a rivestirne le massime cariche, sono poco loquaci su questo punto e
esplicitamente imbarazzate. Si possono indicare due aspetti che interagirono tra di loro: uno relativo
a aspirazioni personali ed uno legato invece all’impostazione che si stava dando alle attività
associative. Mancano invece del tutto, in questa scissione, dissidi teorici simili a quelli che
agitarono, per esempio la società freudiana di Londra riguardo le teorie di Melanie Klein.88 Da qui
vennero anche le difficoltà per appianare una diatribe dai contorni troppo sfumati per essere risolta
La questione scatenante sembra sia stata quella della successione al presidente a vita
dell’A.I.P.A. Bernhard: Tedeschi o Moreno? La moglie di Bernhard, Dora, non sembrava potesse
essere una figura tale da succedere al marito e quindi la scelta era aperta. I due aspiranti alla
successione avevano una biografia simile, entrambi docenti universitari ed ebrei, 89 eppure non
trovarono un accordo per risolvere questo problema pratico. Si avviò quindi un breve un periodo
fatto di conflitti sottotraccia a base, perfino, di chiavi della sede non date o incomprensioni simili.90
Alla fine Tedeschi divenne presidente provvisorio dell’A.I.P.A., in attesa di una modifica dello
statuto per modificarne i poteri. Questi, infatti, non potevano mantenersi uguali a quelli riconosciuti
a Bernhard, come non poteva rimanere la carica a vita del presidente. Mario Moreno, invece, uscì
86
Pignatelli, ibidem, p. 46
87
Lettera protocollata n. 20 in Corrispondenza Internazionale anni 60’ ‐ 70’, archivio dell’A.I.P.A.
88
Thomas B. Kirch, idem, p. 151
89
Idem, p. 152
90
Marcello Pignatelli, ibidem, p. 44
39
dall’associazione seguito da Mario Trevi, Francesco Montanari, Vittoria Braccia larghe ed Enzo
Lezzi: in pratica metà dei soci fondatori lasciò l’A.I.P.A. Questo gruppo se ne andò sbattendo la
Un’altra spiegazione di questa scissione data all’epoca stava nelle differenti sensibilità sul
approccio culturale più ampio, mentre Tedeschi tendeva a privilegiare un taglio più clinico. Queste
due impostazioni, a volte, si scontravano come risulta dall’episodio riportato in precedenza e riferito
da Carotenuto, e sembrerebbe che non potessero più accettare di convivere sotto lo stesso tetto
associativo dopo la morte di Bernhard. In effetti era una diatriba di fondo, una antinomia tra il voler
scuotere il movimento junghiano in Italia fino ad oggi e che si riflette nelle recenti scissioni che
Il C.I.P.A. nacque a Roma nel 1966 con presidente Mario Moreno che diede nel primo
periodo una sua forte impronta personale alla neonata associazione, forte della sua cattedra in
psichiatria presso l’Università di Roma: lui ed Enzo Lezzi, fino a metà degli anni 70, si succedettero
alla carica di presidente. Poi, con la nomina a questa carica di Francesco Carracciolo, il C.I.P.A.
comincia a rendere più evidenti i suoi collegamenti con la vicina Zurigo e l’Istituto Jung:
Caracciolo era infatti un analista formatosi proprio lì. Caracciolo, insieme a Trevi e a Moreno, può
essere indicato come uno dei referenti del primo periodo del C.I.P.A. 91 Dal 1984 poi diventa
presidente Luigi Zoja, altro analista formato a Zurigo, il cui ruolo diventerà tale da portarlo alla
vicepresidenza della IAAP e poi, in occasione del congresso internazionale tenuto a Firenze nel
1998, alla sua nomina a presidente della IAAP stessa. In questo modo il C.I.P.A. ha rafforzato negli
91
Thomas B Kirsh, ibidem, p. 153
40
anni la sue sede milanese, che è oggi più importante rispetto a quella romana, a differenza
vista esecutivo: fino quel momento la figura di Bernhard aveva centralizzato tutto e ora non c’era
un valido erede, lo stesso Tedeschi non poteva esserlo. Così negli anni seguenti il ruolo di
presidente veniva esercitato da più persone con cadenza quasi annuale. Questo, in presenza di
un’associazione che andava sempre più allargandosi e con personalità forti come Aldo Carotenuto o
Paolo Aite che dovevano convivere con figure almeno formalmente di prestigio come Dora
Bernhard, creava un clima associativo ricco di tensioni interne tra i vari soci e allievi. Inoltre si
aggiungevano le tensioni con il C.I.P.A. e su che tipo di atteggiamento prendere nei suoi confronti,
con il desiderio di recuperare la scissione da una parte e di evitarne altre dall’altra, cosa sempre
possibile. Uno dei presidenti dell’epoca, Mario Pignatelli, ascrive a suo merito proprio i tentativi
fatti per riparare la scissione. Lo stesso spiega poi i difficili rapporti con il gruppo di Firenze,
guidato da Iandelli, e i timori di nuove scissioni nella logica “Roma contro Firenze”.92
Questo clima interno, ricco di personalità forti e tra loro non sempre collaborative, si può
osservare nelle vicende legate alla pubblicazione di una rivista ufficiale. Nel caso dell’A.I.P.A.
bisogna arrivare al 1995 per veder nascere Studi Junghiani, la pubblicazione dell’associazione
destinata a diffondere il pensiero junghiano. In precedenza non c’era in quanto alcuni soci, che si
erano auto organizzati, ne pubblicavano di proprie e quindi non si era ritenuto importante averne
una ufficiale. Già nello statuto del 1971 erano così elencati 2 periodici che, in assenza di una
dell’A.I.P.A.. Tra essi ricordiamo qui La rivista di Psicologia Psicoanalitica che contuna a esistere
tutt’oggi e vedeva nella redazione originaria, tra gli altri, Aldo Carotenuto e Paolo Aite. Al
contrario, il C.I.P.A. sin dal’inizio pubblicò una propria rivista ufficiale, chiamata Quaderni di
92
Mario Pignatelli, idem, p. 47 e ssgg.
41
cultura junghiana. Questo quadrimestrale continua ancora oggi ad essere pubblicato e a contribuire
trovare quello che successivamente è stato definito un “minimo comun denominatore junghiano”93
per poter convivere a livello teorico e, specialmente, in rapporto al mondo esterno. In primo luogo
rispetto alla I.A.A.P., di cui facevano entrambi parte e nel cui comitato direttivo poteva far parte un
rappresentante comune. Le difficoltà del caso si resero esplicite quando fu richiesto loro di
organizzare il primo congresso internazionale tenuto in Italia, con sede a Roma nel 1977. Il
congresso di Roma fu organizzato presso la sede del CNR grazie all’azione di Carotenuto, docente
dell’Università la Sapienza, ma nella corrispondenza che precede l’evento si assiste a una sorta di
dialogo tra sordi. Scrive infatti Nino Lo Cascio, allora presidente dell’A.I.P.A., in una lettera rivolta
al collega Enzo lezzi, suo corrispettivo del C.I.P.A., e datata 18 aprile 1975:
Caro Enzo,
ti scrivo per tentare un discorso più conclusivo e forse per precisarmi i
pensieri e controllare le mie ansie.
Infatti nel nostro incontro a cena dell’8 gennaio, che tu hai accettato con
grande spontaneità e simpatia, e nel quale avevi convenuto con me sulla
necessità di una riunione più formalizzata, sono ormai passati tre mesi.
Frattanto ulteriori mie iniziative telefoniche sia rivolte a te che a Francesco
Montanari, oltre ai discorsi scambiati con Mario Trevi durante incontri di
ordine culturale, non hanno portato a quella riunione nella quale membri
del C.I.P.A. e dell’A.I.P.A. potessero concretamente a livello di lavoro
discutere sul problema in comune, e cioè sul prossimo congresso IAAP, ed
eventualmente anche sulla proposta da me rilanciata di costituire una
federazione quale unico organo rappresentativo italiano nei confronti
dell’Internazionale.
Recentemente nel corso di una telefonata che ho ricevuto da Montanari, e
che faceva seguito e riferimento alla mia lettera con la quale ti avevo
comunicato dell’elezione da parte dell’Assemblea Generale dell’A.I.P.A. di
Helene Erba quale rappresentante nel contempo di A.I.P.A. e C.I.P.A. mi è
stato detto di un incontro da aversi “dopo Pasqua” e da fissarsi
successivamente.
Ancora oggi non ho avuto comunicazioni e così temo che questa telefonata
si situi allo stesso livello di quegli assensi generici e di buona volontà, che
in verità non mi sono quasi mai stati lesinati.
93
Gianni Nagliero, Dalla scissione alla collaborazione: il processo di riparazione del conflitto fra associazioni, atti del
congresso di Copenhagen, in corso di stampa
42
Voglio sperare che questo mio insistere possa fruttare, e che questa mia
lettera possa mettere in moto in te un atteggiamento più attivo, o che porti
alla precisazione di un rifiuto.
Ti ricordo che la riunione internazionale cui parteciperà la Erba è fissata
per il 19 aprile a Zurigo, e che sarebbe opportuno più di un incontro
insieme per precisare concretamente il mandato da affidarle.
Con l’augurio di incontrarci presto, le mie scuse per questo sfogo, e la
fiducia che mi giungono precise proposte di incontro, ti invio i miei migliori
saluti. 94
Questa collaborazione poi si sviluppò abbastanza per dare risultati positivi come il poter
organizzare un altro congresso internazionale in Italia, più esattamente a Firenze nel 1998, a cui
seguì la nomina del primo presidente dello I.A.A.P. stesso, nella persona di Luigi Zoja, conferma
soprattutto, la conseguente istituzione della figura dello psicoterapeuti come qualifica aggiuntiva a
quella di psicologo, ha rappresentato uno spartiacque nel mondo della psicoterapia tutta e della
psicologia analitica in particolare. Un mondo autogestito che seguiva le sue logiche interne
improvvisamente è stato costretto a confrontarsi con un controllore esterno, accettando una sorta di
concorrenza con altre scuole e istituzioni. Accadde infatti che la figura dello psicoterapeuta fosse
definita per legge come il suo iter formativo, da farsi obbligatamente presso enti riconosciuti con
corsi di almeno 4 anni. Inizialmente era previsto che gli enti riconosciuti fossero unicamente quelli
pubblici, poi invece furono ammessi anche gli istituti privati, come erano (e sono) l’A.I.P.A. e il
C.I.P.A..
Questa situazione non arrivò inaspettata: la legge fu approvata nel 1989 dal parlamento
italiano ma ebbe un percorso tormentato, visto che se ne cominciò a parlare già all’inizio degli anni
94
Lettera protocollata n. 20 in Corrispondenza Internazionale anni 60’ ‐ 70’, archivio dell’A.I.P.A.
43
mondo degli psicologi, in questo lento percorso, discusse al suo interno la legge nelle sue varie
componenti e nei vari settori. Il mondo accademico italiano, che si era andato rafforzando di molto
rispetto a quello del dopoguerra in conseguenza del grande successo delle facoltà di psicologia,
discusse pubblicamente della cosa cercando anche di influenzarla, inutilmente visti gli ampi
dissensi sulla materia esistenti al suo interno.95 Un limite di queste assemblee era la loro grande
varietà di realtà rappresentate: accanto a uno dei padri della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti,
sedeva uno dei più noti psicologi gestaltisti nostrani, Gaetano Kanizsa, che ammetteva di non
conoscere per nulla il mondo della psicoterapia, come se non facesse parte delle scienze
psicologiche.96 All’interno delle associazioni come l’A.I.P.A. e il C.I.P.A. il tema dell’albo degli
psicologi ebbe un impatto più importante in quanto andava a toccare alcune elementi sensibili che
durate del corsi e i contenuti. Poi i requisiti di ammissione alle associazioni: gli statuti dell’A.I.P.A.
e del C.I.P.A. permettevano comunque l’ammissione di non laureati in psicologia e medicina. Infine
la natura stessa dell’associazione, che alcuni temevano si sarebbe ridotta a mera scuola
professionalizzante e non più associazione per la diffusione della cultura junghiana. Simili dubbi
In effetti, non furono necessari troppi cambiamenti organizzativi rispetto a prima, tanto che la
struttura dei corsi, in fondo, si mantenne così come l’aveva impostata Bernhard quasi quarant’anni
prima: una seconda analisi a cui accostare dei seminari con frequenza obbligatoria una volta a
settimana. L’effetto parzialmente inaspettato di questa novità è stato invece il rapido fiorire di
nuove scuole di psicoterapia di varia estrazione che, per la loro solo presenza e l’aggressivo
marketing usato, hanno reso più confuso il panorama della formazione psicoterapeutica in generale.
95
Cfr. Lombardo Giovanni Pietro, Storia e modelli della formazione dello psicologo, Franco Angeli 1994
96
Cfr. Gaetano Kanizsa, Ristrutturare il corso di laurea?, in Lombardo Giovanni Pietro, Storia e modelli della formazione
dello psicologo, Franco Angeli 1994, p. 102
44
La situazione che si è così creata ha avuto ripercussioni anche in quelle istituzioni con una storia più
antica, come l’A.I.P.A. e il C.I.P.A., ponendosi in concorrenza con loro nella formazione di nuovi
In ogni caso, in seno al movimento junghiano si è assistita a una relativa stabilità almeno
fino al 1998, facilitata dall’accettazione di più opinioni e orientamenti teorici all’interno della stessa
associazione, in nome del cosiddetto “minimo comun denominatore junghiano”, concetto purtroppo
vago ma importante per garantire un ombrello comune a tutti gli junghiani che permetteva e
permette, all’interno della stessa scuola, la convivenza di docenti che si contraddicono tra loro.97
Non si tratta, però, di un tratto del solo movimento junghiano italiano: dalla morte di Jung si sono
creati due filoni principali di interpretazione del suo pensiero, una che esalta il ruolo dei simboli e
che fa riferimento all’Istituto Jung di Zurigo in contrapposizione con un’altra corrente, con centro a
Londra, in cui viene considerato anche l’elemento oggettuale nelle relazioni. In Italia si è poi
assisitito a una forte influenza provenienti da scuole di pensiero e metodologie altre, in nome di una
pluralità e apertura giustificata dal pensiero junghiano, arricchita dal numero relativamente alto di
Una risposta a queste tensioni interne è stata quella di valorizzare maggiormente le realtà
locali. Per questo il C.I.P.A. pronone oggi addirittura due riviste ufficiali, una per la sede di Roma
che è quella delle origini ed un’altra più recente che viene prodotta dalla sede di Milano. L’A.I.P.A.
invece ha rafforzato le sedi locali con una maggiore diffusione di attività di formazioni e di dialogo
risposte che fanno comunque parte del DNA associativo junghiano in Italia, visto che già nel 1969
Iandelli, uno degli esponenti fiorentini dell’A.I.P.A., proponeva qualcosa di simile, forse
estremizzandolo nel proporre un insieme di binomi che purtroppo continuano a coesistere nella
97
Gianni Nagliero, idem
45
logica di molti junghiani come, per esempio: organizzazione uguale a rigidità, mancanza di regole
Il cambiamento c’è comunque stato. Negli anni 80-90, in effetti, è avvenuto un passaggio
generazionale degli analisti come, per esempio, dimostra il caso di Umberto Galimberti, discepolo
di Mario Trevi, il cui nome è noto anche al di fuori degli specialisti.99 O come è successo per
Zoja.100
Tutto questo non è però bastato a evitare nuove scissioni nelle associazioni italiane. Nel
1998, proprio in occasione del secondo congresso internazionale tenuto in Italia dopo quello di
Roma del 1976, si è infatti formata l‘Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (A.R.P.A.).
In questo caso la scissione si è originata dal C.I.P.A., da dove si è staccato un gruppo di dieci soci
che hanno dato vita alla nuova associazione con sede a Torino. Ad oggi l’A.R.P.A. ha sedi a Torino,
costituire una scuola che portasse alla formazione di psicoterapeuti: i corsi che tengono in quanto
associazione sono destinati a psicoterapeuti già formati. In appendice viene proposto il testo
originale della presentazione dell’associazione da parte del suo presidentea Romano, che venne
letto in occasione della prima uscita pubblica dell’A.R.P.A. nella libreria Legolibri di Torino nel
1998.
Nel 2011, infine, è avvenuta l’ultima scissione nel mondo degli junghiani italiani, questa
volta all’interno dell’A.I.P.A.. Nell’occasione sono fuoriusciti 12 soci che hanno fondato il
Laboratorio Italiano di Ricerche in Psicologia Analitica (L.I.R.P.A.), con sede a Roma, che è entrata
ufficialmente a far parte della I.A.A.P. solo in occasione del congresso di Copenaghen del 2013.
italiano ma, all’interno della I.A.A.P. anche in altre nazioni ci sono più associazioni tanto da
98
Cfr. AA. VV., Una psicologia per la liberazione, L’individuale 1971
99
Silvia Veggetti Finzi, ibidem, p. 146
100
Murray Stein, ibidem, p. 226
46
stimolare la considerazione che si tratti di un elemento proprio della psicologia analitica. Di questa
tendenza ne viene data un’interpretazione ottimista dal dott. Gianni Nagliero, che nel suo intervento
101
Gianni Nagliero, idem
47
Appendice 1
Testo integrale dell’intervento tenuto presso la libreria Legolibri di Torino nel 1998 in
occasione della presentazione dell'A.R.P.A. da parte del presidente Augusto Romano, gentilmente
concesso dall’autore.
Non è casuale che questa sera noi presentiamo insieme una nuova società analitica e una riflessione
sul problema della didattica in psicoterapia. Il nesso sta in questo: che la nostra associazione si è
costituita staccandosi da un'altra associazione, il CIPA, proprio per divergenze sulla impostazione
dell'analisi didattica, che noi ritenevamo troppo burocratizzata, orientata cioè più verso una
preparazione culturale che verso una formazione personale. Naturalmente, ora che ci siamo dati una
struttura indipendente, ci troviamo anche noi alle prese con il problema della didattica. Un problema
-a mio avviso- che può essere assunto come esemplare per la messa a fuoco del particolare statuto
della psicoterapia.
di alcune coppie di opposti che riguardano intimamente la natura e la funzione dell'attività analitica.
Ne indicherò alcune, ma prima vorrei sgombrare il campo da una contrapposizione che, in questo
contesto, ritengo fuorviante. Si tratta della contrapposizione tra democrazia ed oligarchia. Alcuni
infatti motivano la richiesta di abolizione dell'analisi didattica, e quindi della figura del didatta,
sostenendo che la didattica è in realtà una questione di potere e non di sapere: i didatti formerebbero
una élite, cioè appunto una oligarchia, e ciò comporterebbe una antidemocratica differenziazione
degli analisti in due classi dotate di diversa autorità, con la conseguente formazione di gruppi di
potere, i quali svolgerebbero una funzione di remora nei confronti del libero sviluppo delle
personalità individuali.
L'argomentazione è suggestiva ma non pertinente. Per quel che so, la democrazia è un insieme di
48
regole del gioco che consente la partecipazione di tutti, ancorchè indiretta, alla formazione delle
decisioni politiche, nonché la possibilità di esercitare un controllo sulla gestione del potere. Dunque,
dal punto di vista della salvaguardia delle esigenze democratiche, è essenziale introdurre negli
statuti e regolamenti delle società analitiche delle norme volte a ridurre al minimo i rischi dell'abuso
di potere da parte dei didatti (ad esempio: indicazione del numero massimo di allievi per ciascun
didatta; divieto di svolgere la didattica con lo stesso analista con cui si è svolta l'analisi personale,
La salvaguardia della democrazia lascia però impregiudicato il problema della competenza. Nella
tesi volta a delegittimare l'analisi didattica è dunque evidenziabile una confusione di esigenze.
Intendo dire che ciò che viene presentato come tutela della democrazia è in realtà una radicale
opposizione all'esistenza di un'élite, cioè di un gruppo di persone che possa essere riconosciuto
portatore di una particolare competenza. Non di democrazia si tratta dunque, quanto piuttosto di una
forma estrema, per così dire “maoista” (in quanto tesa ad abolire ogni differenza), di egualitarismo.
Il discorso ci riporta ora inevitabilmente al punto di partenza: cos'è mai questa formazione, e
in cosa consiste la competenza didattica? Possiamo introdurre qui, al fine di delimitare il campo, le
coppie di opposti cui alludevo poco fa. La prima è quella tra formazione e istruzione o
addestramento. La formazione è un concetto più forte. Ha a che fare col dare e assumere forma, con
formazione è cioè compresa una trasformazione. Sembra allora inevitabile distinguere nella
quest'ultima parola i particolari significati storici che le si sono depositati addosso). Il primo
riguarda la trasmissione di un sapere teorico o tecnico, che si può effettuare tramite lezioni, corsi,
letture, discussioni, e così via. Naturalmente, questa preparazione culturale è importante. Ma di per
sé non garantisce niente. Molti la vedono come una scorciatoia, che ha il vantaggio di rassicurare
49
attraverso il possesso. E' come imparare una lingua: dà una sensazione di potere. Ma quali pensieri
penserai in quella lingua? Noi crediamo, con i fondatori della psicoanalisi, che il fattore di
trasformazione sta al di là della pur utile e necessaria preparazione tecnica: esso sta probabilmente
nel rapporto e nel confronto delle due personalità tra cui l'analisi si svolge. Non si spiegherebbe
altrimenti come mai terapeuti di scuole diverse, che praticano dunque approcci diversi, riescano ad
ottenere egualmente risultati positivi. Rispetto al patrimonio culturale codificato vi è dunque una
eccedenza. In questa eccedenza è la sostanza della psicoterapia. Il lato che ho detto esoterico della
formazione ha a che fare con questa eccedenza. In questa prospettiva, si può parlare di formazione
nello stesso senso in cui si dice che il “Wilhelm Meister” di Goethe o “Guerra e pace” di Tolstoj
sono romanzi di formazione. Questo tipo di formazione non è codificabile. Lo strumento che più la
favorisce è probabilmente la pratica analitica, ma neanche questa può essere considerata come una
garanzia assoluta, pur rappresentando un potente stimolo a entrare in rapporto con se stessi. In
realtà, questa via formativa, che è una sorta di iniziazione laica, si nutre spesso di esperienze che
poco hanno a che fare con lo studio della psicologia: romanzi e filosofia, amori, malattie, delusioni,
tra produzione artigianale e produzione di serie. La cura artigianale riguarda anzitutto l'assenza di
una regola imperativa e di una procedura standardizzata. Il lavoro artigianale si nutre di perplessità,
personale, affettivo, con il suo compito. Egli accudisce la sua opera, maternamente si potrebbe dire,
ma senza la voracità di certe madri. E' questa l'immagine che mi sembra più coerente con l'idea
essenziale democraticità della formazione analitica (e dell'analisi stessa) sta proprio in questa
Quale forma può assumere questo discorso all'interno di una società analitica? Una volta stabilito
50
che la formazione non ha a che fare con l'indottrinamento ma è un approfondimento del lavoro
interiore, si comprenderà che ciò che il didatta può trasmettere non è costituito soprattutto da
contenuti culturali. Jung ha scritto che nelle forme più avanzate di psicoterapia ciò che è essenziale
è “il confronto fra due sfere psichiche, vale a dire tra due esseri umani che si pongono l'uno di
fronte all'altro nella loro totalità”. Il che significa che alla fine ciò che conta soprattutto non è la
Poco fa ho parlato della formazione come di una iniziazione laica. Questo concetto si può applicare
sia al didatta, sia all'allievo. Il didatta, per essere riconosciuto come tale, deve ottenere una
concludere la formazione, deve confrontarsi con una personalità alla quale sia stata riconosciuta una
professione che espone costantemente al rischio e all'avventura della intimità spirituale e affettiva
profonda tra due persone. Ed è una professione che -diciamo così- si impara praticando appunto
questa intimità, che naturalmente non è fatta soltanto di consonanze ma anche di intensi contrasti. In
questo sta il carattere iniziatico della didattica, ed è per questo che dovremmo considerare normale
che l'allievo debba affrontare delle prove. Si potrebbe dire che l'analisi didattica rappresenta la
In conclusione:
professionale- di ridurre sia i pericoli dello spontaneismo acritico, sia quelli della rigidità
dommatica.
entrambi. Naturalmente, tutto ciò non è esente da rischi, tra cui quello che il didatta cerchi di
prevaricare l'allievo. Del resto, se l'analogia con l'iniziazione ha un senso, dobbiamo ricordare che
l'iniziazione è fatta di prove, e dunque di vittorie e di sconfitte, alcune delle quali definitive.
Per concludere, menzionerò una obiezione che viene fatta alla stessa esistenza del didatta. Si
chiede: quali sono le qualità richieste per svolgere la funzione didattica, e come si fa per accertarle?
In altre parole, in base a quali criteri selezionare i didatti? Posto in questi termini, il problema mi
sembra insolubile. In realtà, noi non sappiamo quali sono le qualità personali che un didatta
dovrebbe possedere. Allo stesso modo, non conosciamo i requisiti che definiscono generalmente un
buon analista. La mia risposta a questo problema segue un'altra strada. Secondo me, ciò che fa il
didatta o, se preferite, ciò che sancisce la sua autorevolezza, è il consenso. Perciò io sostengo che -
all'interno di una società analitica- per diventare didatti occorre essere designati dalla grande
maggioranza degli analisti. Questo procedimento potrebbe essere considerato come l'equivalente
Mi sono limitato, in questo intervento, a considerare alcuni problemi collegati con l'analisi didattica
in senso stretto. Il discorso ovviamente può essere allargato a considerazioni che riguardano sia i
presupposti teorici di questo modo di vedere, sia i limiti e le contraddizioni inerenti al concetto di
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