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A brief history of Jungian societies in Italy

Thesis · September 2014

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Marco Montanari
Sapienza University of Rome
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Indice

Introduzione p. 3

Cap 1

1.1 I numeri degli analisti junghiani nel panorama della psicoterapia italiana p. 7

1.2 Le associazioni junghiane oggi p. 9

1.3 L’associazione Internazionale per la Psicologia Analitica p. 10

1.4 I rapporti tra Carl Gustav Jung e l’associazionismo junghiano p. 12

Cap 2

2.1 Il pensiero di Carl Gustav Jung in Italia: gli inizi p. 17

2.2 Le difficoltà italiane nell’introduzione delle teorie della psicologia del profondo p. 21

2.3 La psicologia del profondo durante il fascismo p. 25

Cap 3

3.1 Ernst Bernhard p. 30

3.2 Nasce l’A.I.P.A. p. 35

3.3 La scissione: dall’A.I.P.A. al C.I.P.A. p. 38

3.4 Cronaca recente e ultime scissioni p. 43

Appendice

Testo integrale del discorso di presentazione dell’A.R.P.A. di Augusto Romano p. 48

Sitografia p. 53

Bibliografia p. 53


 
INTRODUZIONE

Nel panorama della storia della psicologia del profondo quelli che si possono considerare tra

i padri fondatori sono, o almeno dovrebbero essere, Sigmund Freud, Carl Gustav Jung e Alfred

Adler. Ognuno di loro ha dato un importante contributo per lo sviluppo di questa branca della

psicologia, sia in termini teorici che organizzativi. Tutti e tre, infatti, hanno costruito le proprie

scuole e associazioni destinate a sviluppare e diffondere il rispettivo pensiero: con successo, almeno

a giudicare dai risultati: le loro scuole sono oggi diffuse in molti paesi del mondo, senza confini

linguistici. Nel contesto multiforme delle scuole di psicoterapie italiane, le associazioni e scuole

afferenti a questi padri fondatori sono una presenza solida e consolidata. Mostrano, anzi, una forte

vitalità evidenziata dal crescente numero di nuovi soci e dal loro continuo moltiplicarsi attraverso

scissioni o espansioni.

La storia della più antica di queste scuole, la Società di Psicoanalisi Italian di estrazione

freudianaa, è stata affrontata da diversi autori, tra cui alcuni storici, anche per l’indiscusso ruolo di


 
Freud nella storia della cultura europea nel ventesimo secolo. Invece le vicende delle scuole e

associazioni società afferenti a Jung e Adler sono un argomento poco approfondito dai non

specialisti appartenenti alle rispettive correnti di pensiero. L’intento di questa breve tesi è quello di

proporre alcuni elementi che possano costituire una base futura per un’analisi storica

dell’associazionismo junghiano, nella convinzione che la storia delle idee possa essere intesa anche

come storia delle comunità professionali. Questo è ancora più vero nel caso degli psicoterapeuti, in

cui le associazioni esistenti hann, per loro stessa ragion d’essere, anche lo scopo di approfondire e

diffondere il pensiero dei loro fondatori.

La stesura di un testo storico permette, per la sua stessa natura, approcci e approfondimenti

molto diversi tra di loro e, potenzialmente, senza limiti. Si è scelto qui di disegnare una vicenda in

termini soprattutto organizzativi e di contestualizzare il più possibile il lento ingresso del pensiero

junghiano in Italia. L’unico individuo di cui vengono messe in risalto le vicende è Ernst Bernhard,

per via del suo indiscutibile ruolo avuto da noi. Per il resto, invece, si è preferito non approfondire

troppo le vicende personali e concentrarsi, invece, sul come le associazioni si sono andate

evolvendo negli anni in termini di struttura e organizzazione.

La tesi è strutturata su tre capitoli, ognuno dei quali contribuisce a dare un quadro della

situazione contestualizzandola da un punto di vista diverso. Il primo capitolo guarda alla situazioni

odierna in Italia e nel mondo, il secondo dà un quadro storico generale della situazione italiana nel

periodo tra la nascita del pensiero junghiano e la sua effettiva venuta in Italia, il terzo è dedicato alla

storia delle associazioni ufficialmente costituite e riconosciute dall’Associazione Internazionale.

Trattando eventi molto vicini a noi e quindi poco documentati, la parte dedicata alle associazioni

più giovani è minore rispetto a quello riservato alle due realtà più antiche.

Più specificatamente, nel primo capitolo si è voluto contestualizzare anche numericamente

l’impatto degli psicologi analisti italiani nel proprio paese e nel mondo. Si è poi voluto sottolineare

l’importante ruolo svolto dall’Associazione Internazionale per la Psicologia Analitica sia nei


 
confronti della realtà odierna che in quella storica. Su quest’ultimo punto si è colta l’occasione per

accennare all’atteggiamento del padre della psicologia analitica, Carl Gustav Jung, rispetto

all’associazionismo in generale e di come questo abbia ancora oggi i suoi effetti.

Il secondo capitolo è dedicato alla situazione italiana che va dai primi del novecento agli

anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale. Si è voluto qui analizzare il panorama

della psicologia in quegli anni, sia scientifica che professionale, specialmente riguardo la

psicoanalisi in quest’ultima accezione. Partendo dal fatto che Jung è stato inizialmente un esponente

di prestigio della psicoanalisi e che la sua figura si è sovrapposta a quella di Freud, si è poi

accennato al come venne accolto il pensiero freudiano e junghiano per poi dedicarsi alla

presentazione della realtà italiana ai tempi del fascismo e immediatamente prima all’arrivo di Ernst

Bernhard.

L’ultimo capitolo è destinato all’evoluzione storica delle associazioni junghiane e parte dalle

vicende del primo esponente del pensiero dello psichiatra svizzero in Italia, il tedesco Ernst

Bernhard. Grazie a lui in Italia fu fondata l’Associazione Italia di Psicologia Analitica (A.I.P.A.), la

prima associazione junghiana , e proprio in seguito alla sua morte ci fu la scissione e la nascita del

Centro Italiano di Psicologia Analitica (C.I.P.A.), la seconda associazione più antica in Italia.

Successivamente sono descritte le vicende di queste due associazioni fino a oggi, arrivando a

trattare le ultime divisioni che nel 1998 e nel 2013 hanno portato la nascita di altre due ulteriori

organizzazioni junghiane in Italia.

Vista la scarsità di documenti inerenti le ultime vicende, si è deciso poi di mettere in

appendice il discorso integrale del presidente dell’Associazione di Ricerche di Psicologa Analitica

(A.R.P.A.) Augusto Romano in occasione della prima presentazione pubblica della neonata

associazione tenuto nel 1998. Questo sia per permettere di fruire di una fonte originale sia,

soprattutto, per poter apprezzare come ci sia una continuità nel rapporto problematico nel concepire


 
la missione di fondo di un’associazione di psicologi analisti vedendola o come “scuola

professionalizzante” o come “diffusore di cultura della psicologia del profondo”.

Colgo poi l’occasione per ringraziare gli junghiani Antonietta e Francesco Donfrancesco,

Franco Castellana e Augusto Romano. Tutti loro hanno trovato del tempo da dedicarmi per poter

trovare nuovo materiale e ricostruire una storia, a suo modo, importante.


 
CAPITOLO 1

1.1 I numeri degli analisti junghiani nel panorama della psicoterapia italiana 

Il 31 dicembre 2013 erano iscritti all’albo A dell’Ordine degli Psicologi, in tutta l’Italia,

88951 professionisti.1 Questa iscrizione è, ricordiamolo brevemente, propedeutica all’accesso alle

scuole di psicoterapia, la cui frequenza è necessaria per ottenere l’abilitazione a esercitare come

psicoterapeuta. Questo dato indica, quindi, il totale teorico di psicoterapeuti che potrebbero

esercitare in Italia previa formazione. Per inciso, gli psicologi professionisti iscritti all’albo non

sono obbligati a intraprendere il lungo percorso necessario a diventare psicoterapeuti, quindi qui si

vuole solo fornire un dato di riferimento per verificare il peso numerico degli analisti junghiani nel

contesto italiano. In questa cifra non sono compresi i medici chirurghi con specializzazione in

psichiatri che decidessero di formarsi a loro volta in una data psicoterapia per poi potersi iscrivere

                                                       
1
  cfr. http://www.psy.it/numero_iscritti_31_12_2013.html 

 
all’albo in quanto psicoterapeuti. La cifra di 88951 indica gli psicologi e psicoterapeuti che

attualmente sono attivi, o dovrebbero esserlo, in Italia

A fronte di questa platea di psicoterapeuti e potenziali psicoterapeuti, il numero di persone

che hanno terminato con successo un percorso didattico riconosciuto per diventare psicologo

analista secondo le teorie e l’approccio da Carl Gustav Jung corrisponde a 426.2 Questo numero

indica quei professionisti che possono essere definiti ufficialmente come “analisti junghiani” in

quanto iscritti anche all’albo internazionale degli analisti junghiani, gestito dall’Associazione

Internazionale per la Psicologia Analitica con sede a Zurigo. A titolo di paragone, gli psicoterapeuti

di orientamento freudiano associati ufficialmente alla Società Psicoanalitica Italiana sono 4893 e

quelli affiliati all’Associazione Italiana di Psicoanalisi sono 434, per un totale di 532 psicoterapeuti

che possono ufficialmente definirsi come “psicoanalisti” in quanto riconosciuti dall’associazione

internazionale degli psicoanalisti freudiani. Alla luce di questi dati, in Italia abbiamo quindi un

numero quasi pari di psicoterapeuti ad orientamento junghiano e freudiano che, insieme, non

arrivano neanche a 1000 specialisti a fronte di un numero 100 volte superiore di psicologi iscritti

all’albo.

A fronte di queste cifre, che tradotte in percentuali rivelano come neanche lo 0,5% degli

psicologi professionisti operanti in Italia abbia svolto un training junghiano ufficialmente

riconosciuto, si osserva comunque un’importante presenza editoriale e culturale. Esistono infatti

almeno due case editrici specializzate nel pensiero junghiano (Vivarium e Moretti & Vitali) e altre

che hanno nei loro cataloghi un numero importante di titoli originali di Jung o dei suoi continuatori,

tra cui Astrolabio-Ubaldini, Bollati Borringhieri, Magi e Adelphi. Inoltre molti altri editori

propongono comunque libri che possono essere inseriti nell’area culturale junghiana.

                                                       
2
 Cfr. a cura di Emilija Kiehl, Iaap members’ list 2013, International Association for Analytical Psychology 2013 
3
 Cfr. http://www.spyweb/index.php?option=com_comprofiler&task=usersList&listid=6 
4
 Cfr. http://www.aipsi.it/www2/pagine/soci.html 

 
In conclusione, si può dire che gli analisti junghiani rappresentano una nicchia degli iscritti

all’Ordine ma che operano all’interno di una tradizione teorica della psicologica del profondo

culturalmente molto importante e capace di trascendere il loro piccolo numero.

1.2 Le associazioni junghiane in Italia

Il gruppo di psicoterapeuti con orientamento junghiano, a sua volta, si distribuisce

all’interno di quattro associazioni diffuse nel territorio nazionale: l’Associazione Italiana di

Psicologia Analitica (A.I.P.A.), il Centro Italiano di Psicologia Analitica (C.I.P.A.), l’Associazione

per la Ricerca in Psicologia Analitica (A.R.P.A.) e il Laboratorio Italiano di Ricerche in Psicologia

Analitica (L.I.R.P.A.). Di queste solo L’A.R.P.A. non ha la sede ufficiale a Roma. L’A.I.P.A. e il

C.I.P.A. sono le realtà con la diffusione nazionale più importante in termini di sedi e di provenienza

geografica degli loro membri. Queste due associazioni sono anche quelle a cui sono iscritte la

maggioranza degli analisti junghiani italiani in quanto ne fanno parte più di tre quarti del totale, 369

su 426. Inoltre, queste due associazioni hanno una storia di quasi cinquant’anni, al contrario

dell’A.R.P.A. e del L.I.R.P.A. che hanno un’origine molto più recente, con quello che comporta in

termini di limitata distribuzione geografica e minor numero di iscritti.

Malgrado l’attuale frammentarietà associazionistica, la storia dell’origine del movimento

junghiano in Italia è unitaria e molto locale. Tutto nasce, infatti, grazie alla presenza di una singola

figura carismatica che rappresentò il portavoce del pensiero junghiano in Italia: si tratta di Ernst

Bernhard. Questi era un ebreo tedesco che nel 1937, insieme alla moglie, aveva scelto di venire a

Roma per sfuggire alle persecuzioni antisemite di stampo nazista. Bernhard era un medico pediatra

berlinese che aveva svolto il training sia in patria che in Svizzera, dove aveva lavorato con Carl


 
Gustav Jung in persona. Negli anni si mantenne tra i due un rapporto epistolare, abbastanza blando

ma costante. 5

Una volta scappato in Italia e scampato agli orrori della guerra, Ernst Bernhard continuò la

sua attività di psicologo analista, radunando attorno a sé un gruppo crescente di pazienti ed

estimatori. Attorno alla sua figura nel 1961 fu fondata la prima associazione italiana di psicologia

analitica, l’A.I.P.A. appunto (Associazione Italiana di Psicologia Analitica). Questo gruppo di

persone era eterogeneo e caratterizzato da una preesistente conoscenza personale, almeno per alcuni

di loro. Infatti Bernhard invitava diversi pazienti-allievi in una sua villa sul lago di Bracciano per

partecipare a degli incontri a metà tra il formale e l’informale, dove il lato culturale degli eventi si

mischiava con atmosfere più rilassate e festaiole. 6 Di questi incontri è rimasto poco più che il

ricordo confuso di qualche testimone diretto, indice probabilmente di un’impostazione orientata ad

allargare la cerchia dei simpatizzanti delle teorie junghiane.

Nel 1961 da una scissione dell’A.I.P.A., è nato il C.I.P.A.. In seguito, nel 1998, un gruppo di

analisti del C.I.P.A. è uscito da questa associazione e ha fondaato l’A.R.P.A.. Infine, nel 2011,

alcuni soci dell’A.I.P.A. hanno a loro volta deciso di creare una nuova associazione, il L.I.R.P.A..

Oggi queste quattro associazioni sono ufficialmente riconosciute da Zurigo e coesistono

mantenendo dei rapporti di collaborazione tra di loro.

1.3 L’Associazione Internazionale per la Psicologia Analitica

La data di costituzione dell’A.I.P.A. è importante in quanto segue di pochi anni la nascita

dell’Associazione Internazionale per la Psicologia Analitica, meglio conosciuta per l’acronimo

inglese I.A.A.P. (Internatinal Association for Analytical Psychology). Quest’ultima inizialmente

comprendeva le associazioni della Svizzera, dell’Inghilterra, di New York, di San Francisco , di Los

                                                       
5
 Cfr. Giovanni Sorge (a cura di), Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarium 2001 
6
 Marcello Pignatelli. Psicologia analitica, percorsi italiani, Edizioni Magi 2007, p. 34 
 
10
 
Angeles, d’Istraele e il neonato C. G. Institute di Zurigo, quindi c’erano sette istituzioni a

rappresentare quattro nazioni più una costellazione di junghiani che aderivano in veste individuale,

mancando loro un’associazione nazionale a cui far riferimento. Era quest’ultimo il caso di Ernst

Bernhard che partecipò da subito alle attività della IAAP andando al suo primo congresso tenutosi a

Zurigo nell’agosto del 1958, come risulta da foto e documenti dell’epoca.7 In tale occasione fu

perfino nominato membro del Comitato Esecutivo della giovane IAAP.8

Per statuto lo IAAP organizza ogni tre anni il proprio congresso internazionale, che è il

momento più importante per la vita dell’Associazione. Durante quest’incontro ufficiale, tra l’altro,

vengono ufficialmente accettati nuovi soci individuali o nuove associazioni nazionali, che oggi sono

circa 57 distribuite in tutti i continenti9. In occasione del secondo congresso internazionale, che si

tenne a Zurigo nel 1961, la neonata A.I.P.A. fu accolta nella IAAP insieme al corrispettivo tedesco,

la Sudwestdeutche Gesellschaft. In questo modo le nazioni rappresentate all’interno della IAAP

passarono da quattro a sei. Come retaggio di quell’epoca, in cui l’A.I.P.A. rappresentò una delle

prime associazioni ad aderire alla IAAP, l’italiano mantiene ancora oggi lo status di lingua ufficiale,

anche in occasione dei congressi internazionali, almeno a livello formale, alla pari dei più diffusi

inglese, francese, tedesco e spagnolo,.

Il ruolo non secondario della comunità italiana nell’internazionale junghiana è dato, oltre

che dalla storia, dalla forza dei numeri. Infatti da sempre, il numero di soci è molto alto soprattutto

in rapporto alle altre associazioni europee: tra gli analisti del vecchio continente, il gruppo degli

italiani è oggi il più numeroso: 426 a fronte dei 338 soci tedeschi o dei 340 britannici. 10 La

situazione, nel 1976, era diversa anche se il gruppo italiano era comunque uno dei più numerosi:

soci italiani (A.I.P.A. più C.I.P.A.) 40, soci tedeschi 55 e soci inglesi 75.11 Questa situazione ha

                                                       
7
 Thomas B. Kirsch, The Jungians, a comparative and Historical Perspective, Routledge 2000, p. 135 
8
 Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 41.  
9
 Emilia Kiehl, ibidem p. vii 
10
 Cfr. Emilia Kiehl, idem 
11
 Composition of Delegates’ Meeting in Corrispondenza internazionale ’60 ’70, archivio Aipa  
 
11
 
portato a organizzare due congressi internazionali in Italia (a Roma nel 1977 e a Firenze nel 1998) e

all’elezione nel 1998 di un presidente italiano nella persona del dottor Luigi Zoja.

1.4 I rapporti tra Carl Gustav Jung e l’associazionismo junghiano

I dati di fatto forniti in precedenza riguardo i rapporti tra la IAAP e l’associazionismo

italiano porterebbero a concludere che l’Italia sia stata una delle nazioni pioniere del movimento

internazionale junghiano, eventualmente anche una delle protagoniste della sua diffusione a livello

internazionale. Questa impressione suona paradossale considerando il fatto che il pensiero

junghiano fu realmente introdotto in Italia solo nel 1937 da Bernhard, quindi con più di venti anni di

ritardo rispetto alla scissione Freud-Jung, e che la prima traduzione italiana di un’opera di Jung è

del 1942 per l’Einaudi. 12 In effetti queste circostanze furono rese possibili, più che altro, dalla

lentezza dello sviluppo organizzativo a livello internazionale dell’associazionismo junghiano. Infatti

si hanno notizia di club nazionali già nel 1916, ma si trattava di realtà locali e senza riconoscimenti

ufficiali: mancava cioè un’organizzazione centrale che avesse l’autorità di dire chi potesse definirsi

junghiano e chi no. Fino alla nascita della I.A.A.P. solo Jung in persona aveva questa facoltà.

Il paragone con la realtà associativa freudiana può essere utile: l’Associazione

Internazionale per la Psicoanalisi, di cui Jung stesso ne fu il primo presidente, nacque a Vienna nel

1910. All’epoca Sigmund Freud aveva 54 anni, mentre alla nascita della I.A.A.P. Jung aveva già 80

anni. E diverso fu l’atteggiamento dei due capostipiti: Freud ne intuì l’importanza e ne fu attivo

promotore, Jung piuttosto sembrò quasi subirla. Infatti la nascita della I.A.A.P. viene descritta dai

testimoni dell’epoca come una sorta di regalo di compleanno all’ottuagenario analista da parte dei

suoi colleghi più vicini13, evidenziando così un ruolo quasi passivo di Jung stesso, che non mostrava

                                                       
12
 Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Astrolabio 1978, p. 56 
13
 Murray Stain, The IAA in Midlife: Where Are We Now, Where Are We Going?, in Barcelona 04, Daimon Verlag 2006, 
p. 223 
 
12
 
di avere molto interesse nella cosa.14 Sicuramente il suo attivismo era stato molto relativo, almeno

rispetto a quello che aveva mostrato in occasione della nascita dell’Istituto C.G. Jung di Zurigo nel

1948 quando aveva scritto ad alcune personalità amiche dell’epoca per chiedergli di collaborare con

lui.15

Si tratta di un livello di coinvolgimento molto diverso, per esempio, rispetto a Sigmund

Freud che si occupò personalmente di scegliere l’organigramma dell’organizzazione, per esempio

scegliendo Jung come primo presidente. Inoltre le assegnò il compito preciso di mantenere

l’unitarietà della sua teoria e di diffonderla, non disdegnando di intervenire, se necessario, contro gli

eventuali eretici attaccandoli con parole e immagini forti. Questo appare chiaro nella parte che

dedica al “tradimento” di Jung nel libro dedicato alla storia del movimento psicanalitico:

(…) Gli uomini sono forti finché si fanno promotori di un’idea forte; diventano impotenti se

le si oppongono. La psicoanalisi sopravviverà a queste perdite e acquisterà nuovi adepti al posto di

costoro. Posso soltanto concludere con l’augurio che il fato riservi una comoda ascesa a tutti quelli

per cui il soggiorno negli inferi della psicoanalisi sia diventato sgradevole. A noialtri sia permesso

di portare a termine in pace il nostro lavoro nel profondo. (…) 16

È da sottolineare che Jung lasciò il movimento psicoanalitico senza avviare una qualche

forma di scissione, riconoscendo sempre il ruolo storico di Freud e dando delle ragioni teoriche

motivate.17 Queste ultime poi, riviste un secolo dopo, perdono molto della loro carica dirompente e

eversiva che avevano, tanto che è stato detto che sarebbero poche le figure di rilievo della

psicoanalisi di oggi che avrebbero qualcosa in contrario se un analista esprimesse idee identiche a

quelle che Jung aveva nel 1913. 18 Comunque, dopo aver lasciato la carica di presidente della

                                                       
14
 Thomas B. Kirsch, The Jungians, a comparative and Historical Perspective, Routledge 2000, p. 223 
15
 Carl G. Jung, Lettere 1906‐1961, Edizioni Magi 2006, p.100‐101 
16
 Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, Editore Boringhieri 1975, p. 88  
17
 Liliane Frey‐Rohm, Da Freud a Jung, Cortina Editore 1984,  p. 72 
18
 Samuels A., Jung e i neojunghiani, Borla  1985, pag. 25 
 
13
 
Società Internazionale di Psicoanalisi nel 1913, Jung si dedicò ad approfondire le sue teorie e i suoi

pensieri, tralasciando l’aspetto organizzativo e didattico inerente il suo pensiero.

L’atteggiamento di Jung verso la creazione di strutture non sembrava essere molto

favorevole: solo nel 1948 sarà creato l’Istituto Jung di Zurigo per seguire in modo sistematico

l’aspetto didattico della formazione alla psicologia analitica. E solo nel 1958, come visto, nascerà la

IAAP. In entrambi i casi le strutture nacquero più per il lavoro dei colleghi più vicini a Jung che

per sua spinta personale. Una spiegazione per questo suo atteggiamento si può trovare tra i suoi

scritti, in cui si possono trovare molti riferimenti anche espliciti a questo tema, di cui possiamo

leggere, per esempio:

(..) Poiché non esiste cavallo che possa essere cavalcato a morte, le teorie della nevrosi e i

metodi di trattamento sono faccende dubbie. Trovo quindi sempre divertente quando coscienziosi

medici alla moda asseriscono di praticare secondo “Adler”, “Kunkel”, “Freud”, o perfino

“Jung”. Non c’è e semplicemente non può esserci una cosa del genere e, anche se si potesse, si

sarebbe sulla strada che porta con più certezza al fallimento.19

Questo pensiero di Jung si accompagnava ad un’idea precisa sulle capacità che un analista

doveva avere, ovvero quella di poter affrontare con il paziente temi quali la vita, la morte o il

divino,20 il tutto all’interno di una psicologia analitica che diventava così vera e propria “Psicologia

complessa”, altro temine con cui viene definita la psicologia anlitica. Tutto questo in netto contrasto

con la tendenza preminente verso la massima specializzazione e separazione dei saperi, con il

correlato di una ricerca della semplificazione anche teorica in chiave positivista, tesi che Jung

voleva combattere proprio in nome della centralità dell’identità individuale, come mostra in un altro

stralcio di una sua lettera:

                                                       
19
 C.G.Jung, Psicologia clinica e educazione, in Opere, col. XII, p. 111 
20
Cfr.  C. G. Jung, Modern Man in Search of a Soul, p.223 e sgg.   
 
14
 
(…) Vi è nello specialismo, una sorta di ingenuo sentimento di onnipotenza associato a una

fantasia utopistica: che tanti specialisti, perfettamente coordinati, possano restituire un’immagine

perfetta del mondo. In questa prospettiva, il singolo uomo con le sue curiosità e il suo bisogno di

fare esperienze viene completamente dimenticato. (…)21

Alla luce di questa impostazione di fondo si può allora capire perché il primo embrione di

congresso internazionale di matrice junghiano fosse rappresentato dai cosiddetti incontri di Eranos,

tenuti ad Ascona, in Svizzera, dal 1932 in poi su base annuale. Lo stesso Jung definì questi incontri

come un’istituzione. 22 La genesi di questi veri e propri congressi era molto informale, basata

com’era su un comitato scientifico raccolto volta per volta e senza un appoggio istituzionale dietro

le spalle, almeno nei primi dieci anni di esistenza. In tutto quel periodo gli incontri di Eranos si

tennero unicamente grazie alla passione e all’abilità organizzativa di Olga Frobe Kapteyn, la

padrona di casa. Nel concreto si trattava di una serie di conferenze che si tenevano nell’arco di tre

giorni e in cui un dato argomento veniva affrontato da più punti di vista: di solito il tema per

accomunare gli interventi era quello dei simboli e Jung, proprio per questo, appariva come uno dei

protagonisti principali di questi incontri. Si può dire che questi costituirono un tentativo di

realizzare la psicologia complessa come immaginata dall’analista svizzera che, fin quando la salute

glielo permise, intervenne a quasi tutti gli incontri. 23 Fu proprio grazie a Eranos, in cui si

riconosceva la complessità dell’uomo davanti ai simboli che si riavvicinarono materie quali storia

delle religioni e psicologia che la psicoanalisi aveva allontanato in nome del positivismo, come

spiega uno dei più importanti studiosi della storia delle religioni, Mircea Eliade.24 Il ruolo degli

incontri di Eranos rimane importante per l’impatto culturale che ebbe, tanto che nel 1943, con

l’importante aiuto di Jung in persona, fu costituita una vera e propria fondazione Eranos e le sue

                                                       
21
 C. G. Jung, Opere, Vol. 12, pag. 159 
22
 Riccardo Bernardini, Jung a Eranos,Franco Angeli Editore 2011,  p.77 
23
 A cura di Gian Piero Quaglino, Augusto Romano e Riccardo Bernardini , Carl Gustav Jung a Eranos,Antigone Edizioni 
2007, p. 29 
24
 Mircea Eliade, Immagini e simboli, Jaca Books 2007, p.  17 
 
15
 
attività furono parzialmente finanziate dallo stato svizzero. Questa fondazione esiste tutt’oggi anche

se il forte legame che aveva con Jung e la sua psicologia complessa si è andato diluendo.

Eranos però non era sicuramente una possibile risposta alla crescente domanda di

organizzazione e coordinamento da parte degli analisti junghiani di tutto il mondo: il problema che

si poneva infatti era chi potesse definirsi junghiano e chi fosse autorizzato a preparare nuovi

analisti. Infatti, indipendentemente dalle idee di Jung, il graduale affermarsi del suo pensiero aveva

portato dagli anni ’40 in poi un fiorire di scuole a lui ispirate in vari paesi del mondo.25 Proprio per

evitare confusioni e tensioni, i colleghi di Jung a lui più vicino decisero di fondare un vero e proprio

istituto per la formazione, con un’impostazione accademica a partire dal nome: Istituto Jung. E poi

di costituire la I.A.A.P., destinata a regolare la diffusione del movimento junghiano nel mondo.

Recentemente, c’è stata un’ulteriore evoluzione nelle strutture associative con la nascita della

International Association for Jungian Studies (I.a.j.s.), una nuova associazione internazionale con

sede a Sussex nata con la benedizione ufficiale della I.A.A.P. Questa associazione, che nasce in

ambito accademico, che si caratterizza per non essere riservata ai soli clinici ma per essere aperta a

tutti gli studiosi del pensiero junghiano in qualunque campo essi operino, in nome di quella

complessità che caratterizza la metodologia e il pensiero junghiano.26

                                                       
25
Sonu Shamdasani, Jung e la creazione della psicologia moderna, edizioni Magi 2003, p. 402    
26
 Murray Stain, The IAA in Midlife: Where Are We Now, Where Are We Going?, in Barcelona 04, Daimon Verlag 2006, 
p. 231 
 
16
 
CAPITOLO 2

2.1 Il pensiero di Carl Gustav Jung in Italia: gli inizi 


La prima volta che il nome di Carl Gustav Jung apparve in Italia fu il 1 marzo 1903,

all’interno della rivista Luci e Ombre, specializzata nell’occultismo. Qui il nome del neo laureato

psichiatra svizzero era citato nell’articolo “Questioni ardenti” dove ne veniva presentata la tesi di

laurea intitolata: “Psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti”. 27 Questa prima

apparizione non ebbe molto rilievo, tanto che è completamente ignorata da Michel David, uno dei

primi storici di psicologia in Italia: per lui il primo ingresso ufficiale di Jung in termini di

pubblicazioni avvenne nel 1908 grazie ad alcuni articoli scritti da due importanti accademici

dell’epoca, Luigi Baroncini e Carlo Modena. Il primo contributo apparve nel terzo numero della

                                                       
27
 Aldo Carotenuto, ibidem, p. 11 
 
17
 
Rivista di Psicologia Applicata, si trattava dell’articolo “Il fondamento e il meccanismo della psico-

analisi”, ad opera di Baroncini. L’autore esaltava gli studi ad opera di Jung pubblicati poco prima in

Svizzera a proposito della demenza precoce, sottolineandone l’importante eco che avevano avuto a

livello europeo e preannunciando un articolo originale dello studioso svizzero per il numero

seguente. In effetti così avvenne e gli studiosi italiani poterono apprezzare la traduzione di Le nuove

vedute di psicologia criminale. Dopo questa fiammata, per i successivi trent’anni, non furono più

proposte traduzioni in italiano di scritti di Jung né la sua opera fu approfondita in forma di

monografia. Lascia perplessi osservare come sia Baroncini che Modena non approfondirono i loro

studi e non citarono più Jung, pur avendone apparentemente compreso l’importanza in quanto

esponente principali degli studi sulla psicologia del profondo dell’epoca, accostandone il nome a

quello di Sigmund Freud.28

Appare già all’epoca un tema che segnerà tutta la storia del pensiero junghiano in Italia: una

grande confusione tra le figure di Freud e di Jung, per cui quest’ultimo si ritrovava ad essere

assimilato al proprio maestro malgrado tutto. In effetti i loro nomi furono abbinati da subito,

addirittura nello stesso articolo di Baroncini di cui è accennato poco prima. Il nome di Sigmund

Freud e la psicoanalisi erano già apparso in pubblicazioni minori ma questo articolo del 1908 è il

primo a rivestire un’effettiva importanza storiografica nella narrazione dell’evoluzione del

movimento psicoanalitico freudiano in Italia, vista l’importanza della testata e degli autori. 29

L’evoluzione del pensiero di Jung e Freud non fu comunque molto seguita , almeno in quegli anni,

anche per via dello scarso successo della psicanalisi. Questa scarsa sensibilità non può non colpire

anche considerando come il nome di uno dei cattedratici dell’epoca, Sante De Sanctis, arrivasse

addirittura ad essere inserito da Freud stesso nel suo celeberrimo L’analisi dei sogni. Tra i saggi di

                                                       
28
 Aldo Carotenuto, idem, p. 14   
29
 David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966, p. 216 
 
18
 
riferimento, appare infatti anche il testo I sogni dell’italiano, lodato per la sua completezza dal

fondatore ella psicoanalisi ma criticato per la sua debolezza teorica.30 .

Per capire le possibili ragioni di queste difficoltà iniziali è utile tenere in considerazione il

particolare contesto storico-culturale in cui si trovava la psicologia italiana in quegli anni.

Storicamente parlando, la psicologia veniva da un periodo di crescita abbastanza importante che

aveva avuto il suo coronamento nel 1905, anno in cui si era tenuto a Roma l’annuale congresso

internazionale di psicologia. Inoltre, nello stesso anno, erano state istituite le prime tre cattedre

universitarie di Psicologia.31 Il lato meno positivo di questa situazione apparentemente indice di

buona salute sta nel fatto che tutto era stato possibile grazie all’abilità, oltre che scientifica,

soprattutto organizzatrice di alcune singole individualità che non erano però riuscite a costruire

delle vere e proprie scuole: le nuove cattefre erano poco più che ufficializzazioni di cattedre già

esistenti e il congresso stesso era stato in dubbio fino alla fine, stante l’arretratezza complessiva

degli studi di psicologia in Italia rispetto alla Germania o agli Stati Uniti, per esempio. Inoltre, la

ricerca accademica risultava, in questa realtà, legata agli interessi individuali dei vari studiosi

risultando priva di un progetto complessivo e organico, una realtà in cui ogni ricercatore poteva

interessarsi a un determinato argomento per un periodo salvo poi rivolgersi ad altro. Non solo, ma

l’egemonia che un singolo professore poteva arrivare ad avere in un tale contesto non era sinonimo

di competenza, come accadde per esempio con un altro accademico di riferimento dell’epoca,

Morselli, che scrisse nel 1926 il Trattato sulla psicoanalisi, uno dei primi testi universitari

sull’argomento, che fu però bocciato da Sigmund Freud in persona, che definì sprezzantemente

l’autore come “incapace”.32

Culturalmente parlando, invece, nell’Italia prefascista si assisteva a una convivenza tra il

pensiero crociano, quello cattolico e quello socialista. Croce e tutta la corrente filosofica nel neo-

                                                       
30
 Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana,  Mondadori 1990, p. 257 
31
 Cimino Guido e Dazzi Nino (a cura di), Gli studi di psicologia in Italia, aspetti scientifici, teorici e ideologici, Domus 
Galineana 19??, p. 35‐36  
32
 Aldo Carotenuto, Ibidem, p. 28 
 
19
 
idealismo, che furono egemoni per decenni in Italia, mostrava scarso interesse alla psicoanalisi in

quanto era tutta la psicologia ad essere ritenuta, per definizione, una non scienza.33 Il cattolicesimo,

nelle vesti soprattutto di Padre Gemelli, pur appoggiando una psicologia pratica che potesse servire

l’uomo, era tendenzialmente ostile alla psicoanalisi e alle teorie della scienza in cui l’uomo e il

ruolo divino venivano sminuiti.34 Infine il socialismo semplicemente ignorava il tema, con lo stesso

Gramsci che dichiarava di conoscerlo solo per sentito dire.35

Ci furono delle eccezioni felici in questo quadro generale generalmente ostico ad accettare la

psicoanalisi e lo studio della psicologia del profondo, la più importante delle quali è Trieste. Questa

città di confine, posta tra la cultura tedesca e quella italiana, rappresentò un’eccezione in questo

panorama, anche per via del suo essere parte dell’impero asburgico durante il periodo di iniziale

diffusione della psicoanalisi da Vienna. Tra i suoi cittadini ricordiamo Edoardo Weiss, che si può

ritenere il vero pioniere del movimento freudiano in Italia per la sua attività professionale di analista

e la sua conoscenza diretta con Freud. Questo triestino studiò a Vienna, operò a Trieste e poi a

Roma prima di emigrare, contribuendo così a una efficace diffusione del pensiero freudiano anche

nella capitale. Attraverso di lui si formarono alcuni dei primi psicoanalisti italiani di cui il più

importante, in vista degli sviluppi successivi della psicologia in Italia, fu sicuramente Cesare

Musatti.36 Altri triestini da ricordare per il loro ruolo nell’introduzione della psicoanalisi in Italia,

pur essendo parte dell’ambito letterario, sono Italo Svevo e Umberto Saba, i primi scrittori dell’”era

psicoanalitica” che si mostrano sensibili alle sue tematiche, tanto che Svevo è stato uno dei primi a

citare esplicitamente un’esperienza di analisi in un romanzo.37

Può essere indicativo del quadro italiano in cui si sarebbe andato a inserire il discorso

dell’associazionismo junghiano osservando brevemente le vicissitudini in cui versò il primo

                                                       
33
 Michel David, ibidem, p. 17 
34
 David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966, p. 91 e ssgg. 
35
 Antonio Gramsci, Opere, Editori Riuniti 1997, p. 205 
36
 Cesare Musatti conobbe la psicoanalisi con Weiss da cui fu in analisi   
37
 David Michel, Letteratura e psicoanalisi, Mursia 1967, p. 161  
 
20
 
tentativo di organizzare la Società Psicoanalitica Italiana. Essa nacque solo nel 1926, a Teramo.

L’organizzatore e primo presidente fu Levi-Bianchini, uno dei pochi cattedratici ad aver mostrato

interesse alla psicoanalisi ma la cui comprensione delle teorie freudiane era relativa.38 Questa prima

società, poco vitale di suo, fu rifondata nel 1932 con Weiss come presidente e sede ufficiale a

Roma. Nel 1935 fu riconosciuta ufficialmente dall’internazionale, diventando la prima realtà

freudiana in ambito nazionale ad avere questo riconoscimento. Tuttavia, dopo pochissimo, fu

soffocata dal crescente apparato fascista e costretta a chiudere anche per via delle montanti politiche

antisemite che coinvolsero alcuni esponenti del mondo della psicoanalisi, tra cui proprio Weiss e

Musatti.

2.2 Le difficoltà italiane nell’introduzione delle teorie della psicologia del profondo  
Alla luce di questa situazione non sembrerà strano che la psicologia analitica di Jung

arrivasse in Italia, praticamente parlando, con più di vent’anni di ritardo rispetto alla sua nascita e

grazie alla venuta a Roma di un analista junghiano tedesco. Allo stesso modo, sarà comprensibile il

fatto che, nel sentito comune, le figure di Freud e Jung si confondessero tra loro e fossero

accomunate entrambe alla psicoanalisi, malgrado tutto quello che era successo dal 1914 in poi con

la cruenta uscita di Jung dal movimento psicoanalitico e la conseguente veemente scomunica da

parte di Freud in persona. 39 Segno del permanere di questa confusione nel sentire comune è

osservare come uno dei più autorevoli rappresentanti accademici del pensiero junghiano in Italia,

Aldo Carotenuto, ancora nel 1994 si lamentasse del fatto che gli veniva in continuazione richiesta la

differenza tra Jung e Freud, anche se ormai erano passato quasi ottanta anni dalla loro

separazione.40 Perfino oggi questo tema sembra che continui a essere considerato attuale anche tra

                                                       
38
 David Michel, La psicoanalisi nella cultura italiana, Edizioni Boringhieri 1966,p. 188 
39
 Cfr. Sigmund Freud, Per la storia del movimento psicoanalitico, Editore Boringhieri 1975 
40
Ottavio Rosati,  Intervista multistrato a Carotenuto, Di Rienzo Editore 1994, p. 10  
 
21
 
gli specialisti se accade che nel 2005 Studi Junghiani, la rivista ufficiale dell’A.I.P.A., pubblichi un

articolo esplicitamente dedicato a questo argomento.41

Potrebbe sembrare strano questo insistere nel volere accomunare due teorici tra loro

distanti. Da un punto di vista storico, si può osservare che all’inizio non ci furono particolari dissidi

tra le due scuole di pensieri in Italia, probabilmente perché mancava abbastanza maturo e diffuso

per poter proporre e sostenere poi qualsivoglia dissidio teorico di questo livello. Fino agli anni 20,

infatti, gli psicoanalisti attivi in Italia erano pochissimi e mancavano perfino di un’associazione di

riferimento realmente funzionante. Durante il fascismo la situazione andò solo che peggiorando,

rendendo clandestina la vita della psicoanalisi italiana. Quest’ultima riuscì comunque a mantenersi

abbastanza vitale tanto che, nell’immediato dopoguerra, i pochi analisti sopravvissuti si trovarono

nella situazione di poter ripartire, anche se per questo preferirono tralasciare le differenze teoriche.42

Questa spiegazione ha valore nel ristretto ambito specialistico.

A livello generale, invece, le due figure risultano confuse per l’indiscutibile maggiore

notorietà di Sigmund Freud e delle sue teorie anche tra i non specialisti e, perfino, nel grande

pubblico. In effetti, nel parlato comune spesso si usa il termine psicanalisi per intendere tutto quello

che riguarda la psicologia, portando all’eccesso un dato di realtà che vede come tutte le teorie della

psicologia del profondo riconoscano in Freud uno dei padri della disciplina. È innegabile infatti che

quest’ultima si sia sviluppata grazie alla diffusione della psicoanalisi e all’opera del medico

viennese, che era riuscito a sistematizzare gli spunti e le ricerche a lui precedente in un insieme

coerente. Il punto di forza di questa costruzione teorica era di essere una disciplina ponte tra

filosofia e medicina che aveva le sue basi nel positivismo e si rifaceva alla teoria del darwinismo: la

psicoanalisi, appunto.

La psicoanalisi era presentata come una scienza nuova creata da zero dal Freud stesso, che

giustificava le sue intuizioni con l’esperienza clinica e che aspirava per ad un riconoscimento
                                                       
41
Cfr.  Piergiacomo Migliorati, Freud e Jung nell’esperienza analitica, in Studi junghiani, vol. 11, n. 2. 2005 
42
 Michel David, ibidem, p.221 
 
22
 
accademico. Per ottenere questo, in un’epoca dominata dal positivismo, l’approccio scelto fu quello

di costruire un contenitore teorico tale da permettere di mantenere una qualche unità teorica a una

disciplina che voleva occuparsi di un mondo complesso e oscuro, dai tratti che rischiavano di cadere

nel parascientifico e a sminuirne il valore. Anche per questo Freud arrivò a negare tutte le influenze

non abbastanza scientifiche come quella provenienti dalla filosofia, come Arthur Schopenauer o

Platone. 43 Alcuni elementi fondamentali della sua teoria sembrano legati a questa necessità di

accettazione scientifica, come Freud stesso riconobbe in occasione dell’ultimo incontro-scontro con

Jung. In occasione del loro ultimo diverbio, il medico viennese disse chiaramente che era

importante difendere la sua impostazione teorica, in quanto l’allontanarsi da essa poteva portare il

rischio di cadere nel misticismo. Quest’ultima accusa è ancora oggi ripresa da molto freudiani nei

confronti degli junghiani. 44

La fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo secolo è, ricordiamo brevemente,

il periodo in cui in parte viene abbandonano il canone romantico che aveva fino ad allora dominato

il dibattito culturale e scientifico in Europa. Al suo posto si afferma il positivismo accompagnato

dalle nuove teorie dell’evoluzionismo. Queste ultime erano sempre più usate in campi diversi dalla

sola biologia da cui erano partire. Per esempio sono gli anni in cui l’etologia compie i suoi primi

passi con Konrad Lorenz che diventa lui stesso una mamma anatroccolo45 che continuano fino ad

oggi con testi come quello di Morris in cui l’uomo viene indicato come “scimmia nuda”46. È in

questo contesto che si può inquadrare meglio la forza teorica di una libido come principale fonte

vitale dell’agire umano, così come inizialmente teorizzato da Freud, con una forte assonanza con

l’evoluzionismo che interpreta l’agire animale come spinto incessantemente a trovare il modo di far

sopravvivere la propria specie attraverso la riproduzione. Poi questa teoria conoscerà dei

cambiamenti anche importanti, tuttavia bisogna qui sottolineare come abbia rappresentato o uno dei

                                                       
43
 Solinas Marco, Psiche: Platone e Freud, Firenze University Press 2008. p. 23 
44
 Cfr. David A. Staat, Breve Dizionario di psicologia, Kappa Edizioni 1998 
45
 Cfr. Konrad Lorenz, L’aggressività, il Saggiatore Tascabili 2008 
46
 Cfr. Desmond Morris, La scimmia nuda, Bompiani 1967 
 
23
 
principali punti di divergenza insanabile tra Freud e Jung, e non solo.47 Allo stesso tempo, però, ha

rappresentato il mezzo per cui insigni etnologi, come per esempio Lorenz e Morris, riconoscono

esplicitamente un ruolo importante alla psicoanalisi nello studio dell’animale uomo.

Oltre alla forza della teoria in sé, l’affermazione della psicanalisi sul piano accademico e

pubblico è sicuramente legata alla complessa e affascinante personalità di Freud e dalle sue

innegabili capacità organizzative e relazionali. Suona, in questo senso, curioso come lui stesso si sia

sempre descritto isolato e irriso, quando è appurato che la società dell’epoca accettasse e

apprezzasse lui e le sue idee. 48 Sintomatico di questa sua abilità è il fatto di essere riuscito a

costruirsi una rete di relazioni importanti a livello veramente internazionale, tanto da arrivare a

sognare di ottenere il nobel.49 Tuttavia, il ruolo diretto avuto dal tedesco nella diffusione planetaria

del suo pensiero fu sicuramente secondario in Italia, dove la sua presenza in termini di lezioni,

convegni o presentazioni fu scarsa, come lo fu quella di Jung.

Uno degli altri elementi a aver favorito l’influenza del pensiero freudiano in Italia, e non

solo, è nella sua innegabile capacità di scrivere. I libri di Freud, malgrado il loro spessore teorico,

sono scorrevoli e riescono a farsi leggere anche da non addetti ai lavori. La lingua usata è tale da

risultare comprensibile e ha lo scopo di costruire un dialogo tra autore e lettore. A questo dato

tecnico si aggiunge l’abbondante uso di esempi di casi clinici che aiutano a concretizzare e a

comprendere le idee proposte. Tali capacità gli furono ufficialmente riconosciuta nel 1932 quando

ricevette il premio letterario Goethe da parte della città di Monaco. Al contrario, Jung è, da questo

punto di vista, molto più complesso e oscuro.50 Oltre ad usare un linguaggio complesso e ambiguo,

le opere dello psichiatra svizzera contengono relativamente pochi casi clinici e sono quindi più

teorici e astratti dei libri freudiani. Questo, oltre a rendere complessa la traduzione delle opere

                                                       
47
 Anche rispetto a Adler il tema di divergenza era simile, ma il presente lavoro si vuole concentrare su Jung 
48
 Cfr. Henri F. Ellenberg, La scoperta dell’inconscio, Bollati Borringheri 1980 
49
 Helmutt Lück, Breve storia della psicologia, Il Mulino 1991, p. 83 
50
 Duane P. Shultz, Storia della psicologia moderna, Giunti 1974, p. 348 
 
24
 
junghiane, non ha molto aiutato la diffusione della psicologia analitica tra i non addetti al lavoro o

all’interno di un contesto culturale e politico addirittura ostile a queste tematiche.

Si è visto quindi che il pensiero di Freud risultasse più popolare in quanto più facile da

affrontare in termini di rispetto del canone scientifico dominante, di facilità di lettura e di carisma

leaderistico dell’autore. Tutti tratti che mancavano all’opera di Jung. A questi punti oggettivi e

validi per tutte le nazioni, si aggiungeva una specificità italiana dell’epoca: il relativo

provincialismo degli specialisti nell’accogliere le idee freudiane e junghiane apprezzandone le

differenze e valorizzandone la portata innovativa. Infatti gli accademici o i professionisti italiani

dell’epoca erano isolati tra loro e, in fondo, poco interessati da queste diatribe teoriche tra Freud e

Jung.

2.3 La psicologia del profondo durante il fascismo 


Dal 1922 al 1943 la storia della psicologia italiana e, soprattutto, la storia della psicoanalisi e

della psicologia analitica risentiranno moltissimo della situazione politica. In quel periodo infatti

Benito Mussolini arriva al potere tramite un colpo di stato e, gradualmente, impone il regime

fascista caratterizzandolo per una coesistenza di istanze rivoluzionarie temperate da elementi

conservatori molto importanti. Segno di questa ambiguità è la coesistenza in Italia per tutto il

ventennio fascista di una triarchia di fatto costituita da monarchia, sistema fascista e Santa Sede. 51

Questa situazione permise, soprattutto nei primi anni, di mantenere una relativa libertà

scientifica all’interno dell’accademia e del mondo culturale. A questo aspetto positivo faceva però

da contraltare una crescente spinta conformista proveniente soprattutto dagli ambienti cattolici e

l’affermarsi del pensiero neoidealista. Infatti, uno dei suoi maggiori esponenti, Giovanni Gentile,

era anche un importante intellettuale di riferimento del movimento fascista e divenne ministro

dell’Istruzione: grazie a questo ruolo, ebbe modo orientare la cultura italiana secondo le proprie
                                                       
51
 Cfr. Romolo Gobbi, Fascismo e complessità, Il Saggiatore 1998 
 
25
 
idee. Questo portò, nella pratica, a un forte indebolimento di fatto della psicologia scientifica e un

ostracismo crescente verso la psicoanalisi.52

A tale situazione, già critica, si aggiunsero poi le leggi razziali che colpirono gli ebrei e

ebbero un effetto notevole a livello accademico, in quanti molti docenti dovettero lasciare le

cattedre o comunque rinunciare alla carriera universitaria. Un esempio importante è quello di

Cesare Musatti, uno dei pochi accademici italiani interessati alla psicoanalisi che nell’anno

accademico 1933-34 arrivò a tenere un corso di psicoanalisi nell’università di Padova. Nel 1938,

però, dovette rinunciare alla carriera accademica presso l’Università di Padova in quanto figlio di

un ex deputato socialista di origine ebrea. Il caso di Musatti è esemplare anche nell’osservare le

ambiguità del regime fascista e della triarchia di fatto vigente: poco tempo prima di questa

defenestrazione Farinacci, un gerarca fascista, cercò il suo aiuto all’interno del “caso dello

smemorato di Collegno” e, subito dopo l’uscita dal mondo universitario, fu Padre Gemelli in

persona a cercare di aiutarlo a continuare gli studi e la ricerca trovandogli una cattedra da dove

continuare a insegnare.53 In effetti esponenti di spicco del fascismo e del cattolicesimo trovarono

normale collaborare o aiutare un giudeo, malgrado il clima antisemita dell’epoca.

La lotta agli ebrei e al loro supposto dominio intellettuale ingaggiata dal regime nazista in

Germania ebbe una nefasta influenza in tutta Europa. Fu in quegli anni che lo svizzero Carl Gustav

Jung, in quanto ariano, divenne il rappresentante accettabile della psicologia del profondo in tutti gli

ambienti in cui l’antisemitismo si affermava sempre di più: anche, ma non solo, per questo fu

nominato dal 1933 presidente onorario dell’Associazione Internazionale degli psicologi tedeschi

oltre che direttore della rivista in lingua tedesca Zentralblatt fur Psychoterapie, quest’ultima di

chiara matrice nazista. Si tratta di uno degli aspetti ambigui della figura di Jung che fu accusato, a

                                                       
52
 Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana,  Mondadori 1990, p. 258 
53
 Cfr. Rodolfo Reichmann, Cesare Musatti, psicologo, Arpa Edizioni 1996 
 
26
 
torto, di antisemitismo nel dopoguerra. 54 In effetti si era arrivati tra gli studiosi italiani, per

esempio filiofi, al paradosso di parlare di psicoanalisi citando Jung, pur senza realmente conoscerlo,

solo per evitare di dover nominare Freud e essere così accusati di vicinanza al nemico ebreo, con il

risultato di evitare di approfondire le loro differenze teoriche.55

In questo clima anche l’unica presenza organizzata in Italia di associazione di psicoanalisti

non riuscì a sopravvivere: nel 1934 fu vietata la pubblicazione della rivista ufficiale della Società

Psicoanalitica Italiana e nel 1938 l’associazione venne sciolta.56 È utile qui ragionare sul come il

movimento freudiano dell’epoca si fosse riuscito a diffondere in Europa e sul ruolo che potevano

avere le associazioni nazionali. Queste non erano importanti solo intermini di prestigio, come

dimostra il caso specifico di Londra. La Società per la Psicoanalisi inglese aveva seguito da vicino

le vicissitudini tra Freud e Jung tanto che era stata sciolta una prima volta nel 1914 per poi essere

rifondata nel 1919, a opera di un fedelissimo di Freud, Ernest Jones. Uno dei suoi compiti più

importanti fu la traduzione e diffusione delle opere freudiane, che venivano proposte da subito nella

loro completezza in lingua inglese. Nel far questo lavoro, molto apprezzato da Freud stesso, la

società londinese acquisì anche un ruolo in termini di editing che ebbe anche dei riflessi

nell’edizione originale tedesca che fu resa più coerente grazie a questo lavoro. La venuta della figlia

di Freud a Londra ne rappresentò l’investitura ufficiale.

Oltre al ruolo scientifico, Londra divenne sempre più importante per il crescente

antisemitismo imperante in tutta Europa all’epoca, creando perfino un risentimento tra la

popolazione inglese.57 Per i molti psicanalisti ebrei sparsi nel continente, il clima sociale che si

andava creando rendeva difficile continuare il loro lavoro in pace e Londra divenne una meta

                                                       
54
 Questa situazione in cui Jung accettò l’ambiguità per aiutare i suoi colleghi ebbe degli strascichi anche nel 
dopoguerra con l’accusa di razzismo rivolta allo psichiatra svizzero. Cfr. Von Franz Marie‐Luise, Il mito di Jung, Bollati 
Borringhieri 1978, p. 62 e ssgg.   
55
 Aldo Carotenuto, ibidem, p. 61 
56
 Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana,  Mondadori 1990, p. 259 
57
 Cfr. Orwell George, Essays, Penguin Classic 2000, p. 278  
 
27
 
ambita, una specie di seconda patria elettiva.58 Tanto più che la Società per la Psicanalisi londinese

si era presa l’incarico di assistere i colleghi nel loro stabilirsi in terra inglese. Viste il numero di

richieste, il governo inglese incaricò una commissione di psicanalisti per selezionare le domande di

asilo degli ebrei sedicenti psicoanalisti. L’esempio sicuramente più noto di emigrazione riuscita è

quello della Klein. Uno invece negativo è quello dello stesso Bernhard, la cui richiesta di asilo a

Londra fu bocciata costringendolo a ripiegare altrove. In ogni caso, alla fine lo stesso Sigmund

Freud andò a Londra nel 1938. Fu così che tra l’importanza dei nuovi soci (tra tutti Anne Freud) e

creatività di pensieri (tra tutti Melanie Klein), di fatto il movimento psicoanalitico non morì nella

culla soffocato dalle politiche naziste ma, più pragmaticamente, trasferì il proprio centro da Vienna

a Londra. 59

In contrasto alla vita delle Società Internazionale per la Psiconalisi e delle sue sedi nazionali,

il movimento junghiano brillava per la mancanza di un’organizzazione sistematica. Jung era infatti

convinto che ognuno dovesse seguire il proprio metodo esaltando le differenze inter-individuali in

polemica con un atteggiamento dogmatico di validità esclusiva che lui vedeva come tratto

dell’associazionismo freudiano dell’epoca.60 Accadeva così che le varie società junghiane, che si

erano subito formate all’indomani della rottura tra Freud e Jung e che riunivano quindi persone

genuinamente interessate a sviluppare il pensiero junghiano, si ritrovavano isolate tra di loro e

osteggiate dai colleghi freudiani. Lo psichiatra svizzero, in effetti, era più interessato a sviluppare il

lato teorico della sua psicologia del profondo piuttosto che quello organizzativo. Arrivando al punto

che, nel pieno delle persecuzioni antisemite in Germania, non riuscì a trovare il modo per aiutare il

collega tedesco Bernhard che gli aveva scritto apposta una lettera molto esplicita.61 Colpisce questa

                                                       
58
 Silvia Veggetti Finzi, Ibidem, p. 247 
59
 Cfr. De Coro Alessandra e Ortu Francesca, Psicologia dinamica, Editori Laterza 2010 
60
 Jung C.G., Lettere 1906‐1961, Edizioni Magi 2006, p. 1934  
61
Giovanno Sorge (a cura di), 1934/1959 Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarium 2001, p. 30  
 
28
 
diversità di atteggiamento tra Freud e Jung, una differenza legata soprattutto al carattere personale,

decisamente introverso, dello psichiatra svizzero.62

Nel complesso, il rapporto tra psicoterapia e regime fascista fu negativo per molti aspetti,

ma è sicuramente più sfumato rispetto al caso nazista, in quanto l’antisemitismo non ebbe, almeno

fino alle leggi razziali, un ruolo preponderante nella propaganda fascista. Storicamente risulta

addirittura un intervento diretto da parte di Mussolini per proteggere Freud dal regime nazista: si

tratta della lettera scritta dal presidente americano Roosvelt e dal duce italiano in cui veniva chiesto

di permettere al padre della psicoanalisi di lasciare la sua Vienna in seguito all’annessione

hitleriana.63 È difficile valutare quanto questo atto politico fosse mera propaganda oppure genuina

volontà di proteggere una personalità importante come quella di Freud, sicuramente è una

testimonianza di un antisemitismo meno organico al regime rispetto al nazismo.

Si tratta comunque di interventi episodici e soggettivi che non possono evitare di concludere

come la psicologia analitica, alla pari della psicoanalisi, anche se non fu apertamente osteggiata dal

regime fascista, non fu neanche favorita. Inoltre le leggi razziali e la persecuzioni antisemite

indebolirono il movimento costringendolo a basarsi sull’autorganizzazione per sperare di

sopravvivere. La rappresentazione plastica di questa situazione si può ben dire che fu rappresentata

da Bernhard in persona: nel 1943 il tedesco chiuse con i mattoni la porta della propria camera nella

sua Roma e scelse di vivere letteralmente murato in casa per un intero anno per paura dei

rastrellamenti nazisti e della conseguente deportazione. Alla fine della guerra però, malgrado tutto,

riuscì a tornare alla vita normale e a riprendere la diffusione del pensiero junghiano, ponendo le basi

per la costituzione della prima associazione junghiana in Italia, l’A.I.P.A.

                                                       
62
 Cfr. Von Franz Marie‐Luise, Il mito di Jung, Bollati Borringhieri 1978 
63
 Reisman John M., Storia della psicologia clinica, Raffaele Cortina Editore 1991, p. 185 
 
29
 
CAPITOLO 3

3.1 Ernst Berhnard 
La figura di Bernhard, così importante per la nascita della psicologia analitica italiana, è

circondata dalla leggenda in Italia così come a Zurigo.64 Questo è dovuto alla carenza di suoi scritti:

in pratica l’unico libro pubblicato arrivato a noi è Mitobiografia (Bompiani 1977). Anch’esso, poi, è

una raccolta dei suoi scritti sparsi negli anni, curato da Bernhard stesso poco prima deella sua morte

ma pubblicato postumo. In questo libro troviamo anche uno dei suoi più importanti articoli

pubblicati in una rivista e titolato Il complesso della Grande Madre, problemi e possibilità della

psicologia analitica in Italia. Questa scarsa produzione è spiegata con un suo personale blocco

                                                       
64
 Giovanni Sorge, Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarum 2001, p. 16 
 
30
 
dello scrittore65, a cui le testimonianza contrappongono un Bernhard che comunque scriveva molto

in termini di note a casi clinici, di riflessioni o di abbozzi di saggi: in ogni caso, nulla gli è

sopravvissuto.66 Sembra che tutti i suoi scritti, conservati in un baule, siano stati dati alle fiamme

alla moglie dopo la sua morte.67 In effetti, piuttosto che la sua produzione come autore, quello che

ci rimane di lui è l’ampia produzione presso l’Astrolabio come direttore della collana, da lui stesso

fondata nel 1947, “Psiche e coscienza” in cui curò la pubblicazione di diversi titoli importanti per la

psicologia del profondo, senza essere per forza specialisti. Tra essi ricordiamo l’edizione de i Ching

del 1947 in cui l’introduzione era di Jung in persona. Questi approfittò dell’occasione per

ringraziare l’editore sottolineando come in quegli anni il suo pensiero si stesse sempre più

diffondendo in Italia.68

Ernst Bernhard, nato a Berlino nel 1896, era un pediatra con un passato di militante del

partito sionista socialista. Oltre alla medicina aveva altri interessi scientifici o comunque

parascientifici, come la chirologia o l’astrologia. Attratto dalla psicoanalisi, Bernhard aveva

affrontato a Berlino la sua analisi personale con Otto Fenichel e Sandor Radò, due freudiani. Fu

dopo questa esperienza che avvenne il suo primo contatto con il pensiero junghiano, nel 1932,

attraverso l’introduzione fatta dallo psichiatra svizzera all’edizione tedesca del testo buddhista

cinese Il mistero del fiore d’oro, che il pediatra tedesco si trovò casualmente tra le mani.69 Colpito

da questo scritto, Bernhard decise di approfondirne i contenuti lì accennati tanto che, l’anno

seguente, partecipò all’annuale conferenza di Ascona nell’ambito di Eranos, il cui tema erano

proprio i King e in cui intervenne Jung stesso, che tra l’altro aveva contribuito in modo decisivo a

organizzare l’evento. Dopo queste esperienze il pediatra tedesco cominciò un’analisi junghiana con

Toni Saussmann, una delle principali esponenti di questa corrente di pensiero nella Germania

                                                       
65
 Thomas B. Kirch, ibidem, p. 150 
66
 Marcello Pignatelli, ibidem, p. 32 
67
 Testimonianza personale all’autore resa da Franco Castellana 
68
 Cfr. C. G. Jung, Prefazione all’edizione italiana, in Veneziani Bruno e Ferrara A. G. (a cura di), I king, Astrolabio 1950 
69
 E. Bernhard, Discorso commemorativo per la morte di Jung, Casa Sabatina di Bracciano, Minerva Medicopsicologica 
n.2, 1961, p. 94 
 
31
 
dell’epoca Spinto dal desiderio di approfondire questo orientamento psicoterapeutico, nel gennaio

del 1934 Berhard riuscì a incontrare in modo informale Jung per parlare di Mandala e, nell’ottobre

dello stesso anno, gli chiese di poter fare un’analisi direttamente con lui, come in effetti avvenne

nell’autunno successivo.

La prima seduta tra Bernhard e Jung avvenne nella località svizzera di Küssnacht, il 14

ottobre 1935. Ad esso seguirono altri incontri, tre volte a settimana, fino al mese successivo quando

tornò in patria. Una volta venduto il proprio studio medico, Bernhard volle riprendere il lavoro di

analisi personale e approfondire l’approccio della psicologia analitica. Per questo andò a Zurigo,

dove, da gennaio a marzo del 1936, continuò l’analisi con un’assistente di Jung e frequentò i suoi

seminari. Una volta rientrato a Berlino, Bernhard scrisse una lettera a Jung in cui si lamentava della

qualità dell’analisi chiedendo di poter tornare a fare analisi direttamente con lui.70

Bernhard non tornò a Berlino da solo: proprio a Zurigo aveva trovato una nuova compagna

che l’avrebbe seguito fino alla morte, Dora. A Berlino l’ormai ex pediatra cominciò l’attività di

analista aprendo uno studio e ricevendo qualche soddisfazione economica. Tuttavia le politiche

antisemite del regime nazista e il clima sociale erano tali che decise di cercar rifugio altrove,

temendo per sé e per Dora, ariana ma pur sempre coniugata con un ebreo.71 Aggiornando per lettera

Jung, Bernhard inizialmente programmò di andare a Londra, uno dei poli di attrazione dell’epoca,

come visto in precedenza. Il tedesco, in questo periodo difficile, chiese aiuto allo psichiatra svizzero

chiedendogli anche un incontro di persona o una raccomandazione per qualcuno che potesse

essergli d’aiuto in loco. Le risposte provenienti dalla Svizzera furono molto formali, nel senso che

Jung si rendeva disponibile a scrivere tutti gli attestati di cui avrebbe potuto aver bisogno il collega,

non accennando nulla però riguardo le altre richieste.

Intanto la domanda di asilo nel Regno Unito fu bocciata dall’apposita commissione poiché,

nella lettera di accompagnamento mandata, Bernhard aveva spiegato che una volta a Londra
                                                       
70
 Giovanni Sorge, Lettere tra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, Vivarum 2001, p. 29 
71
 Idem, p.31 
 
32
 
avrebbe praticato la chirologia, affermazione che spinse alcuni psicoanalisti a mettere il veto.72 Fu

così che, d’accordo con l’ormai moglie Dora, il tedesco decise di trasferirsi a Roma, dove arrivò nel

dicembre del 1936. Una volta sistematosi, Bernhard riscrisse a Jung ringraziandolo per quello che

aveva fatto per lui: siamo al 29 gennaio 1937 e sarà l’ultima lettera spedita a Zurigo fino a dopo la

seconda guerra mondiale. Nel testo della missiva non ci sono accenni polemici per il

comportamento di Jung, prova del un tono rispettoso che Bernhard usò sempre nella sua

corrispondenza con quello che lui considerava essere, in ogni caso, il suo maestro.73

Come si è visto, l’arrivo di Ernst Bernhard a Roma fu abbastanza fortuito visto che lui stesso

pensava inizialmente di andare a Londra. Vista questa situazione, sembra chiaro che la coppia

Bernhard avrebbe preferito emigrare a Zurigo, dove sembrerebbe che Carl Gustav Jung in persona

avesse promesso un ruolo come assistente al collega tedesco, salvo poi non mantenere la parola. O

almeno così ha lasciato scritto nei suoi appunti Bernhard, dando della vicenda un accenno veloce e

senza dare troppi chiarimenti.74 In ogni caso, visto che sia Londra che Zurigo non si rivelarono

essere mete realizzabili, l’ebreo tedesco scelse di scappare a Roma.

Nella capitale Bernhard si mise in contatto con l’esigua cerchia di psicoterapeuti all’epoca

operanti, tra cui lo stesso Weiss, riuscendo così a cominciare a lavorare a sua volta. I primi mesi del

soggioro romano furono dedicati allo studio della sconosciuta lingua italiana e i primi pazienti

furono solo, giocoforza, germanofoni. Come detto in precedenza, il fatto di essere junghiano

piuttosto che freudiano era un particolare secondario, in quel momento, in Italia: Weiss non esitò ad

aiutarlo per via delle differenze teoriche. Anzi, fu un sollievo per lui avere un collega capace di

aiutarlo e con cui condivideva anche la lingua. Non solo, la signora Weiss cominciò a sua volta

un’analisi con Bernhard per poi divenire lei stessa analista junghiana. In questo modo i Weiss

andarono a formare una delle rare coppie dell’epoca formate da un freudiano e uno junghiano.

                                                       
72
 A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Asttrolabio‐Ubaldini 1977, p.45 
73
 Idem, p.. 38 
74
 Ernst Bernhard, Mitobiografia, Bompiani 1977, p. 12  
 
33
 
I coniugi Weiss, così importanti per Bernhard nel suo inserimento nella vita romana, presto

fuggirono negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali del 1938. Il tedesco scelse di rimanere a

Roma malgrado che la sua libertà di azione andasse diminuendo sempre più. Lo scoppio della

guerra e il graduale irrigidimento delle leggi razziali gli resero sempre più difficile vivere da uomo

libero fino a quando fu addirittura deportato in un campo di concentramento in Calabria nel 1940.

Dopo meno di un anno di internamento, grazie all’interessamento diretto dell’orientalista

Tucci, Bernhard tornò libero promettendo però di abbandonare la vita pubblica. Una volta a Roma

visse rinchiuso in casa e dedicandosi ai suoi studi. Alla caduta del fascismo e durante il dominio

nazista a Roma, Bernhard prese la drastica decisione di murarsi vivo nella propria camera fidando

dei rifornimenti dati dalla moglie per sopravvivere ai rastrellamenti nazisti. Ce la fece, mentre il

padre moriva deportato in Polonia e la madre suicida a Parigi.

Alla fine della seconda guerra mondiale, grazie alla libertà riconquistata, sia a livello

individuale che generale, Bernhard potè riprendere il suo lavoro di analista. Nel 1949 anche la

moglie Dora divenne, a sua volta, analista. Sono gli anni in cui venivano dai Bernhard personalità

come Fellini, Ginzburge altri. Alla fine, nei primi anni 50, i due poterono permettersi di acquistare

una villa sul lago di Bracciano dove riunirsi con amici e pazienti, creando un circolo informale di

persone interessate alla psicologia analitica.

Al di là della formazione di questo nucleo italiano, già nel 1947 Bernhard riprese i contatti

con la Svizzera scrivendo una calorosa lettera a Jung dopo un silenzio decennale e ricevendo una

pronta risposta dai contenuti molto formali.75 Fu così che il tedesco riprese i contatti con Zurigo e

poté seguire da vicino tutta la formazione dell’Associazione Internazionale per la Psicologia

Analitico. Infatti partecipò al suo primo congresso internazionale nel 1958 pur non facendo alcun

intervento. Nell’occasione gli fu comunque riconosciuto un ruolo di primo piano e venne scelto, tra

i 120 junghiani presenti a Zurigo, a far parte del primo comitato esecutivo.

                                                       
75
 Giovanni Sorge, ibidem, pp  38‐39  
 
34
 
 
3.2 Nasce l’Associazione Italiana per la Psicologia Analitica (A.I.P.A) 
Già in occasione del primo congresso internazionale Bernhard era andato a Zurigo insieme a

alcuni colleghi italiani che lui stesso aveva formato. Appena tornato in patria, insieme a loro,

cominciò le pratiche per formare quella che sarà l’Associazione Italiana per la Psicologia Analitica.

Questa fu originariamente fondata a Bracciano, il 26 maggio del 1961, con 12 soci fondatori, oltre

al presidente Bernhard: Dora Bernhard, Mirella Bonetti, Giuseppe Donadio, Enzo Lezzi, Mario

Moreno, Gianfranco Tedeschi, Francesco Montanari, Gianfranco Draghi, Silvia Montefoschi, Carlo

Iandelli, Mario Trevi e Vittoria Braccialarghe.76 A loro si unirono da subito altri soci, compresi gli

allievi, per cui il totale arrivò a 16 membri ordinari promotori più altri 10 membri aderenti

promotori.77 Tra essi ricordiamo la presenza di Marcello Pignatelli. A titolo di confronto, nel 1963,

l’allora rinata Società di Psicoanalisi Italiana contava 36 soci.78

All’interno di ogni associazione di psicologia analitica uno dei ruoli più importanti per la

vita associativa era ed è quella degli analisti-trainer o didatti. Questi, infatti, sono i soci autorizzati a

fare la cosiddetta seconda analisi o analisi didattica, parte fondamentale dei percorsi di formazione

classica per diventare psicoterapeuta. In teoria ogni nuova associazione dovrebbe nascere proprio

attorno a un nucleo di didatti o analisti trainer che si associano, appunto, tra di loro anche per

coordinarsi con l’associazione internazionale. Infatti la IAAP prevede la presenza di un numero

minimo di analisti-trainer già abilitati per avviare l’iter per il riconoscimento internazionale di una

data associazione.

Lo statuto originale dell’A.I.P.A. specificava chi fossero questi analisti-trainer chiamandoli

per nome, salvo aggiungere che chiunque lo sarebbe potuto diventare successivamente dopo almeno

cinque anni di partecipazione alle attività associative come membro ordinario anche se non in

maniera automatica ma in virtù delle esigenze dell’associazione stessa. Oltre alla coppia Bernhard,
                                                       
76
 Aldo Carotenuto, Ibidem, p. 154 
77
 Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 42 
78
 Silvia Veggetti Finzi, Storia della psicoanalisi italiana,  Mondadori 1990, p. 259 
 
35
 
gli analisti-trainer erano Gianfranco Tedeschi e Mario Moreno per Roma, Fabio Minozzi e Silvia

Montefoschi per Milano, Vittoria Braccialarghe e Carlo Iandelli a Firenze.79 I due analisti-trainer

romani erano ambedue docenti universitari. Si può già notare cone l’A.I.P.A. nascesse da subito a

livello nazionale e con una forte concentrazione nel centro e nel nord. In un secondo tempo fu

aperta anche una sede a Napoli.

Le attività iniziali dell’associazione si focalizzano sull’analisi didattica degli allievi e i

seminari del mercoledì sera, presso la sede storica di via Cola di Rienzo 8. Le conferenze, sempre

con tema di psicologia analitica erano aperte a soci e semplici curiosi e si concludevano con una

cena in comune.80 Questo aspetto mondano della vita associativa, , che aveva l’obbiettivo di creare

un ambiente di sana amicizia e collaborazione, veniva riflesso anche nello statuto in quanto non era

previsto il possesso di una laurea specifica per chiedere di essere ammessi nell’associazione. L’idea

fondamentale era di mantenere la più grande libertà intellettuale senza rinchiudersi in una

specializzazione, concetto portato avanti con coerenza da Bernhard ma di cui Jung stesso aveva più

volte reiterato, come visto in precedenza.

In effetti, i primi anni dell’A.I.P.A. furono dominati dalla personalità di Bernhard, giusto

riconoscimento alla sua persistenza in tutti quegli anni nel portare in Italia la psicologia analitica.

Lo statuto, come accennato in precedenza, prevedeva per lui la carica a vita e il diritto di veto su

ogni decisione presa dall’assemblea. 81 Inoltre solo la presenza di Bernhard permetteva la

convivenza di personalità forti, come quelle dei due cattedratici, o provenienti da storie ed

esperienze tragiche come quelle legate alle recenti persecuzioni antisemite, di cui avevano subito

l’esperienza diversi soci oltre allo stesso tedesco.

L’associazione non si dotò di una rivista e non avviò attività istituzionali definite oltre a

questi incontri del mercoledì. Il suo sviluppo fu abbastanza rapido, anche perché il nome di Jung era

                                                       
79
 Marcello Pignatelli, Ibidem, p. 42 
80
 Idem, p. 43 
81
 Articoli 3 e 4 dello Statuto del 1961 
 
36
 
sempre più noto al grande pubblico, anche in seguito alla sua morte nel 1961. Ormai i libri che

presentavano il pensiero junghiano si riuscivano a trovare nelle librerie e le sue opere si

diffondevano sempre più. 82 I curiosi quindi aumentavano e sempre più persone si avvicinavano

all’A.I.P.A. partecipando alle attività o chiedendo l’ammissione. In quel momento si creò la

premessa per alcuni problemi che si crearono in seguito e che portarono a criticare alcuni

atteggiamenti di Bernhard, soprattutto il fatto che non sembrasse prestare troppa attenzione alle

qualità dei nuovi allievi, sull’accettazione dei quali aveva l’ultima parola e in cui sembrava, a volte,

confidare più sul suo istinto che su dati di realtà.83 Sicuramente il ruolo centrale del presidente-

padrone dell’associazione, se aveva un senso all’inizio, rischiava di soffocarne lo sviluppo

successivo a meno di interventi che però non ci furono..

D’altronde, proprio la presenza di Bernhard permetteva all’associazione di esistere e

svilupparsi malgrado tutto. Carotenuto descrive un episodio indicativo dell’atmosfera dell’A.I.P.A.

e delle tensioni che covavano sotto le ceneri: Mario Trevi aveva presentato una sua relazione sulla

storicità della psicologia analitica dandole un’impostazione umanistica e facendo riferimento alle

teorie del filosofo tedesco Wilhelm Dilthey. Nel momento in cui si aprirono gli interventi il relatore

fu attaccato da un collega analista, Gugliemo Arcieri, che lo accusò di aver esposto un intervento

inutile ai fine della terapia e della clinica. La cosa più grave, secondo Carotenuto, fu che una parte

degli ascoltatori appoggiarono l’intervento del contestatore, rinnegando ogni valore a questo genere

di approfondimenti culturali.84

In effetti l’A.I.P.A. era nata con un’ambiguità alle origini, figlia anche dell’impostazione

datele da Bernhard e, soprattutto, dal retropensiero junghiano riguardo la psicologia complessa:

un’associazione aveva uno scopo culturale oppure professionale? Questa dicotomia, faticosamente

tenuta insieme dalla personalità del fondatore, esplose in seguito alla sua morte.

                                                       
82
 Cfr. Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, p. 154 
83
 Aldo Carotenuto, Idem, p.114 
84
 Idem, p.154 
 
37
 
3.3 L’A.I.P.A. e il C.I.P.A. 
L’A.I.P.A. si andò allargando e nel 1965, al momento della morte di Bernhard, era formata

da 50 soci. Tra di essi i didatti rimanevano gli stessi dello statuto e tra di loro i più uguali degli altri

erano Tedeschi e Moreno, entrambi docenti presso la prima e la seconda università romana. I due

avevano il grande merito di aver introdotto la psicologia analitica all’università e di aver così fatto

conoscere a molti dei loro studenti l’esistenza dell’A.I.P.A.. Il delfino del presidente dell’A.I.P.A.,

fin quando era in vita, sembrava essere stato comunque Tedeschi, anche se non era stata espressa

chiaramente questa preferenza e nemmeno motivata.

All’inizio del 1965 Bernhard ebbe due infarti, a cui sopravvisse rimanendo però molto

debole. In breve le sue forze diminuirono sempre più fino a condurlo alla morte. Fu un processo

relativamente lento che diede la possibilità a Bernhard di completare e curare la sua Mitobiografia,

l’unico suo libro giunto a noi e che è una raccolta dei testi di quest’ultimo periodo, più qualche

appunto ritrovato e il suo articolo più importante. Durante questo periodo l’A.I.P.A. continuava le

sue normali attività anche se regnava un clima cupo.85

Nemmeno un anno dopo il decesso di Bernhard si consumò la scissione dell’A.I.P.A. in

seguito alla quale nacque il C.I.P.A. Questo evento è rimasta nella storia della I.A.A.P. in quanto

per la prima volta un’associazione nazionale si divideva. L’orientamento di Zurigo era di evitare

questo genere di separazioni tanto che fu inviato appositamente uno dei membri dell’esecutivo

internazionale Adolf Guggenbühl-Craig con lo scopo di far rientrare la rottura. Questi però arrivò

quando la frattura era già consumata e non poté fare nulla. Non restò altro allora che far applicare il

principio per cui ogni nuova associazione nazionale, creata in un luogo dove già era presente

un’associazione già dentro la I.A.A.P., necessitava del benestare di quest’ultima per essere a sua

volta ammesso nella stessa I.A.A.P. L’A.I.P.A. ingaggiò così un braccio di ferro estenuante con il

                                                       
85
 Idem, p.179 
 
38
 
C.I.P.A., rifiutando di dare il benestare e cercando di assorbirla attraverso una riunificazione.86 La

situazione impiegò qualche anno a decantare e traspare, nella corrispondenza tra i rispettivi

presidenti in occasione dell’imminente congresso internazionale junghiano a Roma, come ancora

nel 1977 i rapporti tra le associazioni pur non più conflittuali fossero comunque difficili.87

Le motivazioni vere di questa prima frattura non sono ben chiarite e le testimonianze dirette

di Aldo Carotenuto e Marcello Pignatelli, entrambi nell’A.I.P.A. all’epoca dei fatti e entrambi

destinati in seguito a rivestirne le massime cariche, sono poco loquaci su questo punto e

esplicitamente imbarazzate. Si possono indicare due aspetti che interagirono tra di loro: uno relativo

a aspirazioni personali ed uno legato invece all’impostazione che si stava dando alle attività

associative. Mancano invece del tutto, in questa scissione, dissidi teorici simili a quelli che

agitarono, per esempio la società freudiana di Londra riguardo le teorie di Melanie Klein.88 Da qui

vennero anche le difficoltà per appianare una diatribe dai contorni troppo sfumati per essere risolta

con un intervento che invitasse al dialogo e all’ascolto reciproco.

La questione scatenante sembra sia stata quella della successione al presidente a vita

dell’A.I.P.A. Bernhard: Tedeschi o Moreno? La moglie di Bernhard, Dora, non sembrava potesse

essere una figura tale da succedere al marito e quindi la scelta era aperta. I due aspiranti alla

successione avevano una biografia simile, entrambi docenti universitari ed ebrei, 89 eppure non

trovarono un accordo per risolvere questo problema pratico. Si avviò quindi un breve un periodo

fatto di conflitti sottotraccia a base, perfino, di chiavi della sede non date o incomprensioni simili.90

Alla fine Tedeschi divenne presidente provvisorio dell’A.I.P.A., in attesa di una modifica dello

statuto per modificarne i poteri. Questi, infatti, non potevano mantenersi uguali a quelli riconosciuti

a Bernhard, come non poteva rimanere la carica a vita del presidente. Mario Moreno, invece, uscì

                                                       
86
 Pignatelli, ibidem, p. 46 
87
 Lettera protocollata n. 20 in Corrispondenza Internazionale anni 60’ ‐ 70’, archivio dell’A.I.P.A. 
88
 Thomas B. Kirch, idem, p. 151 
89
 Idem, p. 152 
90
 Marcello Pignatelli, ibidem, p. 44  
 
39
 
dall’associazione seguito da Mario Trevi, Francesco Montanari, Vittoria Braccia larghe ed Enzo

Lezzi: in pratica metà dei soci fondatori lasciò l’A.I.P.A. Questo gruppo se ne andò sbattendo la

porte e seguito da uno solo degli allievi allora presenti.

Un’altra spiegazione di questa scissione data all’epoca stava nelle differenti sensibilità sul

come impostare lo studio di Jung e della psicoanalisi e le conseguenti attività proprie

dell’associazione. Moreno e Trevi, per esempio, tendevano a dare un’importanza maggiore a un

approccio culturale più ampio, mentre Tedeschi tendeva a privilegiare un taglio più clinico. Queste

due impostazioni, a volte, si scontravano come risulta dall’episodio riportato in precedenza e riferito

da Carotenuto, e sembrerebbe che non potessero più accettare di convivere sotto lo stesso tetto

associativo dopo la morte di Bernhard. In effetti era una diatriba di fondo, una antinomia tra il voler

lavorare in un’associazione culturale piuttosto che in una professionale, che ha continuato a

scuotere il movimento junghiano in Italia fino ad oggi e che si riflette nelle recenti scissioni che

hanno portato alla nascita prima dell’A.R.P.A. e poi del L.I.R.P.A..

Il C.I.P.A. nacque a Roma nel 1966 con presidente Mario Moreno che diede nel primo

periodo una sua forte impronta personale alla neonata associazione, forte della sua cattedra in

psichiatria presso l’Università di Roma: lui ed Enzo Lezzi, fino a metà degli anni 70, si succedettero

alla carica di presidente. Poi, con la nomina a questa carica di Francesco Carracciolo, il C.I.P.A.

comincia a rendere più evidenti i suoi collegamenti con la vicina Zurigo e l’Istituto Jung:

Caracciolo era infatti un analista formatosi proprio lì. Caracciolo, insieme a Trevi e a Moreno, può

essere indicato come uno dei referenti del primo periodo del C.I.P.A. 91 Dal 1984 poi diventa

presidente Luigi Zoja, altro analista formato a Zurigo, il cui ruolo diventerà tale da portarlo alla

vicepresidenza della IAAP e poi, in occasione del congresso internazionale tenuto a Firenze nel

1998, alla sua nomina a presidente della IAAP stessa. In questo modo il C.I.P.A. ha rafforzato negli

                                                       
91
 Thomas B Kirsh, ibidem, p. 153 
 
40
 
anni la sue sede milanese, che è oggi più importante rispetto a quella romana, a differenza

dell’A.I.P.A. che continua a essere romanocentrica.

La reazione all’interno dell’A.I.P.A. alla scissione fu problematica soprattutto da un punto di

vista esecutivo: fino quel momento la figura di Bernhard aveva centralizzato tutto e ora non c’era

un valido erede, lo stesso Tedeschi non poteva esserlo. Così negli anni seguenti il ruolo di

presidente veniva esercitato da più persone con cadenza quasi annuale. Questo, in presenza di

un’associazione che andava sempre più allargandosi e con personalità forti come Aldo Carotenuto o

Paolo Aite che dovevano convivere con figure almeno formalmente di prestigio come Dora

Bernhard, creava un clima associativo ricco di tensioni interne tra i vari soci e allievi. Inoltre si

aggiungevano le tensioni con il C.I.P.A. e su che tipo di atteggiamento prendere nei suoi confronti,

con il desiderio di recuperare la scissione da una parte e di evitarne altre dall’altra, cosa sempre

possibile. Uno dei presidenti dell’epoca, Mario Pignatelli, ascrive a suo merito proprio i tentativi

fatti per riparare la scissione. Lo stesso spiega poi i difficili rapporti con il gruppo di Firenze,

guidato da Iandelli, e i timori di nuove scissioni nella logica “Roma contro Firenze”.92

Questo clima interno, ricco di personalità forti e tra loro non sempre collaborative, si può

osservare nelle vicende legate alla pubblicazione di una rivista ufficiale. Nel caso dell’A.I.P.A.

bisogna arrivare al 1995 per veder nascere Studi Junghiani, la pubblicazione dell’associazione

destinata a diffondere il pensiero junghiano. In precedenza non c’era in quanto alcuni soci, che si

erano auto organizzati, ne pubblicavano di proprie e quindi non si era ritenuto importante averne

una ufficiale. Già nello statuto del 1971 erano così elencati 2 periodici che, in assenza di una

pubblicazione ufficiale dell’Associazione, diventavano implicitamente le voci ufficiose

dell’A.I.P.A.. Tra essi ricordiamo qui La rivista di Psicologia Psicoanalitica che contuna a esistere

tutt’oggi e vedeva nella redazione originaria, tra gli altri, Aldo Carotenuto e Paolo Aite. Al

contrario, il C.I.P.A. sin dal’inizio pubblicò una propria rivista ufficiale, chiamata Quaderni di

                                                       
92
 Mario Pignatelli, idem, p. 47 e ssgg. 
 
41
 
cultura junghiana. Questo quadrimestrale continua ancora oggi ad essere pubblicato e a contribuire

alla diffusione della cultura junghiana in Italia, insieme a Studi Junghiani.

Malgrado le differenti organizzazioni e le tensioni le due associazioni dovettero imparare a

trovare quello che successivamente è stato definito un “minimo comun denominatore junghiano”93

per poter convivere a livello teorico e, specialmente, in rapporto al mondo esterno. In primo luogo

rispetto alla I.A.A.P., di cui facevano entrambi parte e nel cui comitato direttivo poteva far parte un

rappresentante comune. Le difficoltà del caso si resero esplicite quando fu richiesto loro di

organizzare il primo congresso internazionale tenuto in Italia, con sede a Roma nel 1977. Il

congresso di Roma fu organizzato presso la sede del CNR grazie all’azione di Carotenuto, docente

dell’Università la Sapienza, ma nella corrispondenza che precede l’evento si assiste a una sorta di

dialogo tra sordi. Scrive infatti Nino Lo Cascio, allora presidente dell’A.I.P.A., in una lettera rivolta

al collega Enzo lezzi, suo corrispettivo del C.I.P.A., e datata 18 aprile 1975:

Caro Enzo,
ti scrivo per tentare un discorso più conclusivo e forse per precisarmi i
pensieri e controllare le mie ansie.
Infatti nel nostro incontro a cena dell’8 gennaio, che tu hai accettato con
grande spontaneità e simpatia, e nel quale avevi convenuto con me sulla
necessità di una riunione più formalizzata, sono ormai passati tre mesi.
Frattanto ulteriori mie iniziative telefoniche sia rivolte a te che a Francesco
Montanari, oltre ai discorsi scambiati con Mario Trevi durante incontri di
ordine culturale, non hanno portato a quella riunione nella quale membri
del C.I.P.A. e dell’A.I.P.A. potessero concretamente a livello di lavoro
discutere sul problema in comune, e cioè sul prossimo congresso IAAP, ed
eventualmente anche sulla proposta da me rilanciata di costituire una
federazione quale unico organo rappresentativo italiano nei confronti
dell’Internazionale.
Recentemente nel corso di una telefonata che ho ricevuto da Montanari, e
che faceva seguito e riferimento alla mia lettera con la quale ti avevo
comunicato dell’elezione da parte dell’Assemblea Generale dell’A.I.P.A. di
Helene Erba quale rappresentante nel contempo di A.I.P.A. e C.I.P.A. mi è
stato detto di un incontro da aversi “dopo Pasqua” e da fissarsi
successivamente.
Ancora oggi non ho avuto comunicazioni e così temo che questa telefonata
si situi allo stesso livello di quegli assensi generici e di buona volontà, che
in verità non mi sono quasi mai stati lesinati.

                                                       
93
 Gianni Nagliero, Dalla scissione alla collaborazione: il processo di riparazione del conflitto fra associazioni, atti del 
congresso di Copenhagen, in corso di stampa 
 
42
 
Voglio sperare che questo mio insistere possa fruttare, e che questa mia
lettera possa mettere in moto in te un atteggiamento più attivo, o che porti
alla precisazione di un rifiuto.
Ti ricordo che la riunione internazionale cui parteciperà la Erba è fissata
per il 19 aprile a Zurigo, e che sarebbe opportuno più di un incontro
insieme per precisare concretamente il mandato da affidarle.
Con l’augurio di incontrarci presto, le mie scuse per questo sfogo, e la
fiducia che mi giungono precise proposte di incontro, ti invio i miei migliori
saluti. 94
Questa collaborazione poi si sviluppò abbastanza per dare risultati positivi come il poter

organizzare un altro congresso internazionale in Italia, più esattamente a Firenze nel 1998, a cui

seguì la nomina del primo presidente dello I.A.A.P. stesso, nella persona di Luigi Zoja, conferma

del ruolo sempre più internazionale dell’associazionismo junghiano italiano.

3.4 Cronaca recente e ultime scissioni 


L’approvazione da parte del parlamento della legge sull’albo degli psicologi del 1989 e,

soprattutto, la conseguente istituzione della figura dello psicoterapeuti come qualifica aggiuntiva a

quella di psicologo, ha rappresentato uno spartiacque nel mondo della psicoterapia tutta e della

psicologia analitica in particolare. Un mondo autogestito che seguiva le sue logiche interne

improvvisamente è stato costretto a confrontarsi con un controllore esterno, accettando una sorta di

concorrenza con altre scuole e istituzioni. Accadde infatti che la figura dello psicoterapeuta fosse

definita per legge come il suo iter formativo, da farsi obbligatamente presso enti riconosciuti con

corsi di almeno 4 anni. Inizialmente era previsto che gli enti riconosciuti fossero unicamente quelli

pubblici, poi invece furono ammessi anche gli istituti privati, come erano (e sono) l’A.I.P.A. e il

C.I.P.A..

Questa situazione non arrivò inaspettata: la legge fu approvata nel 1989 dal parlamento

italiano ma ebbe un percorso tormentato, visto che se ne cominciò a parlare già all’inizio degli anni

70 e fu ripetutamente presentata in un parlamento che veniva sempre sciolto prima di discuterla. Il

                                                       
94
 Lettera protocollata n. 20 in Corrispondenza Internazionale anni 60’ ‐ 70’, archivio dell’A.I.P.A. 
 
43
 
mondo degli psicologi, in questo lento percorso, discusse al suo interno la legge nelle sue varie

componenti e nei vari settori. Il mondo accademico italiano, che si era andato rafforzando di molto

rispetto a quello del dopoguerra in conseguenza del grande successo delle facoltà di psicologia,

discusse pubblicamente della cosa cercando anche di influenzarla, inutilmente visti gli ampi

dissensi sulla materia esistenti al suo interno.95 Un limite di queste assemblee era la loro grande

varietà di realtà rappresentate: accanto a uno dei padri della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti,

sedeva uno dei più noti psicologi gestaltisti nostrani, Gaetano Kanizsa, che ammetteva di non

conoscere per nulla il mondo della psicoterapia, come se non facesse parte delle scienze

psicologiche.96 All’interno delle associazioni come l’A.I.P.A. e il C.I.P.A. il tema dell’albo degli

psicologi ebbe un impatto più importante in quanto andava a toccare alcune elementi sensibili che

caratterizzavano le associazioni stesse. Anzitutto il tema dell’organizzazione della didattica: la

durate del corsi e i contenuti. Poi i requisiti di ammissione alle associazioni: gli statuti dell’A.I.P.A.

e del C.I.P.A. permettevano comunque l’ammissione di non laureati in psicologia e medicina. Infine

la natura stessa dell’associazione, che alcuni temevano si sarebbe ridotta a mera scuola

professionalizzante e non più associazione per la diffusione della cultura junghiana. Simili dubbi

erano coltivati anche dai colleghi della S.P.I. freudiana.

In ogni caso, all’indomani dell’approvazione del disegno di leggere e dell’istituzione

dell’albo, entrambe le associazioni junghiane esistenti si adeguarono e avviarono la propria scuola.

In effetti, non furono necessari troppi cambiamenti organizzativi rispetto a prima, tanto che la

struttura dei corsi, in fondo, si mantenne così come l’aveva impostata Bernhard quasi quarant’anni

prima: una seconda analisi a cui accostare dei seminari con frequenza obbligatoria una volta a

settimana. L’effetto parzialmente inaspettato di questa novità è stato invece il rapido fiorire di

nuove scuole di psicoterapia di varia estrazione che, per la loro solo presenza e l’aggressivo

marketing usato, hanno reso più confuso il panorama della formazione psicoterapeutica in generale.
                                                       
95
 Cfr. Lombardo Giovanni Pietro, Storia e modelli della formazione dello psicologo, Franco Angeli 1994 
96
 Cfr. Gaetano Kanizsa, Ristrutturare il corso di laurea?, in Lombardo Giovanni Pietro, Storia e modelli della formazione 
dello psicologo, Franco Angeli 1994, p. 102 
 
44
 
La situazione che si è così creata ha avuto ripercussioni anche in quelle istituzioni con una storia più

antica, come l’A.I.P.A. e il C.I.P.A., ponendosi in concorrenza con loro nella formazione di nuovi

psicoterapeuti in un’ottica spesso di natura economica piuttosto che realmente formativa.

In ogni caso, in seno al movimento junghiano si è assistita a una relativa stabilità almeno

fino al 1998, facilitata dall’accettazione di più opinioni e orientamenti teorici all’interno della stessa

associazione, in nome del cosiddetto “minimo comun denominatore junghiano”, concetto purtroppo

vago ma importante per garantire un ombrello comune a tutti gli junghiani che permetteva e

permette, all’interno della stessa scuola, la convivenza di docenti che si contraddicono tra loro.97

Non si tratta, però, di un tratto del solo movimento junghiano italiano: dalla morte di Jung si sono

creati due filoni principali di interpretazione del suo pensiero, una che esalta il ruolo dei simboli e

che fa riferimento all’Istituto Jung di Zurigo in contrapposizione con un’altra corrente, con centro a

Londra, in cui viene considerato anche l’elemento oggettuale nelle relazioni. In Italia si è poi

assisitito a una forte influenza provenienti da scuole di pensiero e metodologie altre, in nome di una

pluralità e apertura giustificata dal pensiero junghiano, arricchita dal numero relativamente alto di

analisti attivi che ha portato a differenze teoriche anche notevoli.

Una risposta a queste tensioni interne è stata quella di valorizzare maggiormente le realtà

locali. Per questo il C.I.P.A. pronone oggi addirittura due riviste ufficiali, una per la sede di Roma

che è quella delle origini ed un’altra più recente che viene prodotta dalla sede di Milano. L’A.I.P.A.

invece ha rafforzato le sedi locali con una maggiore diffusione di attività di formazioni e di dialogo

con il territorio. La decentralizzazione organizzativa e l’ampliamento di offerta nel territorio sono

risposte che fanno comunque parte del DNA associativo junghiano in Italia, visto che già nel 1969

Iandelli, uno degli esponenti fiorentini dell’A.I.P.A., proponeva qualcosa di simile, forse

estremizzandolo nel proporre un insieme di binomi che purtroppo continuano a coesistere nella

                                                       
97
 Gianni Nagliero, idem 
 
45
 
logica di molti junghiani come, per esempio: organizzazione uguale a rigidità, mancanza di regole

come libertà, logica individuale contrapposta a ogni logica di gruppo. 98

Il cambiamento c’è comunque stato. Negli anni 80-90, in effetti, è avvenuto un passaggio

generazionale degli analisti come, per esempio, dimostra il caso di Umberto Galimberti, discepolo

di Mario Trevi, il cui nome è noto anche al di fuori degli specialisti.99 O come è successo per

Zoja.100

Tutto questo non è però bastato a evitare nuove scissioni nelle associazioni italiane. Nel

1998, proprio in occasione del secondo congresso internazionale tenuto in Italia dopo quello di

Roma del 1976, si è infatti formata l‘Associazione per la Ricerca in Psicologia Analitica (A.R.P.A.).

In questo caso la scissione si è originata dal C.I.P.A., da dove si è staccato un gruppo di dieci soci

che hanno dato vita alla nuova associazione con sede a Torino. Ad oggi l’A.R.P.A. ha sedi a Torino,

Milano, Firenze e Roma. La particolarità di questa associazione è quella di aver rifiutato di

costituire una scuola che portasse alla formazione di psicoterapeuti: i corsi che tengono in quanto

associazione sono destinati a psicoterapeuti già formati. In appendice viene proposto il testo

originale della presentazione dell’associazione da parte del suo presidentea Romano, che venne

letto in occasione della prima uscita pubblica dell’A.R.P.A. nella libreria Legolibri di Torino nel

1998.

Nel 2011, infine, è avvenuta l’ultima scissione nel mondo degli junghiani italiani, questa

volta all’interno dell’A.I.P.A.. Nell’occasione sono fuoriusciti 12 soci che hanno fondato il

Laboratorio Italiano di Ricerche in Psicologia Analitica (L.I.R.P.A.), con sede a Roma, che è entrata

ufficialmente a far parte della I.A.A.P. solo in occasione del congresso di Copenaghen del 2013.

Questa frammentazione sicuramente caratterizza stabilmente il movimento junghiano

italiano ma, all’interno della I.A.A.P. anche in altre nazioni ci sono più associazioni tanto da

                                                       
98
 Cfr. AA. VV., Una psicologia per la liberazione, L’individuale 1971 
99
 Silvia Veggetti Finzi, ibidem, p. 146 
100
 Murray Stein, ibidem, p. 226 
 
46
 
stimolare la considerazione che si tratti di un elemento proprio della psicologia analitica. Di questa

tendenza ne viene data un’interpretazione ottimista dal dott. Gianni Nagliero, che nel suo intervento

in occasione del Congresso Internazionale di Copenaghen ha così commentato:

(…) La teorizzazione junghiana è stata ricca di spunti innovativi fin dalle


origini.
La mia riflessione dunque parte dal fatto che il pensiero che sta alla base
del nostro essere analisti junghiani, è un pensiero ampio, rivolto a molti e
diversi aspetti dello scibile umano, non oslo al metodo psicoterapeutico-
analitico. La vastità della riflessione junghiana non può che sollecitre una
altrettanta vasta riflessione da parte di tutti noi.
Lo riteniamo ovviamente una grande ricchezza che Jung ci ha lasciato in
eredità.
Una eredità che deve essere pensata come qualcosa da sviluppare e che ci
può portare a prendere strde diverse, arrivando a conclusioni non sempre
da tutti condivise.
In ambito junghiano, a mio parere, il disaccordo sembra essere
maggiormente sollecitato che in altre scuole, che hanno avuto una
riflessione più centrata sul metodo psicoanalitico. Il disaccordo tra noi
junghiani si è espresso con scisioni all’interno della famiglia: infatti, nel
nostro caso (di CIPA, ARPA e AIPA, ma anche della recentissima scissione
di alcuni colleghi dall’AIPA) non si è pensato di fondare un’altra scuola o
un’altra associazione con una differente teoria di riferimento: siamo tutti
rimasti nell’ambito del pensiero junghiano e della grande famiglia
junghiana, la IAAP.
Vorrei soffermarmi oggi su quello che ritengo il motivo principale di tutto
ciò: l’incastro tra la vastità del pensiero junghiano e la particolare
propensione di Jung a impersonare la figura di padre permissivo e
incoraggiante, piuttosto che un padre forte e intransigente con i suoi allievi.
(…)
Il nostro intento nel lavorare per la collaborazione fra associazioni non è
quello di amalgamare tante idee più o meno diverse per fanre uscire una
sola, non è quello di riunificarsi un una sola associazione italiana (ben
venga occiamente, ma non è il nostro scopo oggi).
Il nostro scopo primario è quello di lavorare costruttivamente insieme sulle
differenze tra noi non cercare le uguaglianze a tutti i costi.
(…)
Perché, per me, lo scopo più importante del nostro essere associati resta
quello di andare avanti nel migliorare le nostre teorie, di confrontare le
nostre esperienze cliniche, allo scopo primario di aiutare sempre meglio i
nostri pazienti nel loro (e nostro) cammino individuativo.101

                                                       
101
 Gianni Nagliero, idem 
 
47
 
Appendice 1

Testo integrale dell’intervento tenuto presso la libreria Legolibri di Torino nel 1998 in

occasione della presentazione dell'A.R.P.A. da parte del presidente Augusto Romano, gentilmente

concesso dall’autore.

RIFLESSIONI SULL'ANALISI DIDATTICA

Non è casuale che questa sera noi presentiamo insieme una nuova società analitica e una riflessione

sul problema della didattica in psicoterapia. Il nesso sta in questo: che la nostra associazione si è

costituita staccandosi da un'altra associazione, il CIPA, proprio per divergenze sulla impostazione

dell'analisi didattica, che noi ritenevamo troppo burocratizzata, orientata cioè più verso una

preparazione culturale che verso una formazione personale. Naturalmente, ora che ci siamo dati una

struttura indipendente, ci troviamo anche noi alle prese con il problema della didattica. Un problema

-a mio avviso- che può essere assunto come esemplare per la messa a fuoco del particolare statuto

della psicoterapia.

La questione dell'insegnamento dell'analisi può essere infatti circoscritto attraverso l'individuazione

di alcune coppie di opposti che riguardano intimamente la natura e la funzione dell'attività analitica.

Ne indicherò alcune, ma prima vorrei sgombrare il campo da una contrapposizione che, in questo

contesto, ritengo fuorviante. Si tratta della contrapposizione tra democrazia ed oligarchia. Alcuni

infatti motivano la richiesta di abolizione dell'analisi didattica, e quindi della figura del didatta,

sostenendo che la didattica è in realtà una questione di potere e non di sapere: i didatti formerebbero

una élite, cioè appunto una oligarchia, e ciò comporterebbe una antidemocratica differenziazione

degli analisti in due classi dotate di diversa autorità, con la conseguente formazione di gruppi di

potere, i quali svolgerebbero una funzione di remora nei confronti del libero sviluppo delle

personalità individuali.

L'argomentazione è suggestiva ma non pertinente. Per quel che so, la democrazia è un insieme di

 
48
 
regole del gioco che consente la partecipazione di tutti, ancorchè indiretta, alla formazione delle

decisioni politiche, nonché la possibilità di esercitare un controllo sulla gestione del potere. Dunque,

dal punto di vista della salvaguardia delle esigenze democratiche, è essenziale introdurre negli

statuti e regolamenti delle società analitiche delle norme volte a ridurre al minimo i rischi dell'abuso

di potere da parte dei didatti (ad esempio: indicazione del numero massimo di allievi per ciascun

didatta; divieto di svolgere la didattica con lo stesso analista con cui si è svolta l'analisi personale,

anche se questi è didatta, e così via).

La salvaguardia della democrazia lascia però impregiudicato il problema della competenza. Nella

tesi volta a delegittimare l'analisi didattica è dunque evidenziabile una confusione di esigenze.

Intendo dire che ciò che viene presentato come tutela della democrazia è in realtà una radicale

opposizione all'esistenza di un'élite, cioè di un gruppo di persone che possa essere riconosciuto

portatore di una particolare competenza. Non di democrazia si tratta dunque, quanto piuttosto di una

forma estrema, per così dire “maoista” (in quanto tesa ad abolire ogni differenza), di egualitarismo.

Il discorso ci riporta ora inevitabilmente al punto di partenza: cos'è mai questa formazione, e

in cosa consiste la competenza didattica? Possiamo introdurre qui, al fine di delimitare il campo, le

coppie di opposti cui alludevo poco fa. La prima è quella tra formazione e istruzione o

addestramento. La formazione è un concetto più forte. Ha a che fare col dare e assumere forma, con

l'idea di configurazione; non è un mero aggiungere nozioni, informazioni, abilità. In ogni

formazione è cioè compresa una trasformazione. Sembra allora inevitabile distinguere nella

preparazione dell'analista un aspetto essoterico ed uno esoterico (escludendo naturalmente da

quest'ultima parola i particolari significati storici che le si sono depositati addosso). Il primo

riguarda la trasmissione di un sapere teorico o tecnico, che si può effettuare tramite lezioni, corsi,

letture, discussioni, e così via. Naturalmente, questa preparazione culturale è importante. Ma di per

sé non garantisce niente. Molti la vedono come una scorciatoia, che ha il vantaggio di rassicurare
 
49
 
attraverso il possesso. E' come imparare una lingua: dà una sensazione di potere. Ma quali pensieri

penserai in quella lingua? Noi crediamo, con i fondatori della psicoanalisi, che il fattore di

trasformazione sta al di là della pur utile e necessaria preparazione tecnica: esso sta probabilmente

nel rapporto e nel confronto delle due personalità tra cui l'analisi si svolge. Non si spiegherebbe

altrimenti come mai terapeuti di scuole diverse, che praticano dunque approcci diversi, riescano ad

ottenere egualmente risultati positivi. Rispetto al patrimonio culturale codificato vi è dunque una

eccedenza. In questa eccedenza è la sostanza della psicoterapia. Il lato che ho detto esoterico della

formazione ha a che fare con questa eccedenza. In questa prospettiva, si può parlare di formazione

nello stesso senso in cui si dice che il “Wilhelm Meister” di Goethe o “Guerra e pace” di Tolstoj

sono romanzi di formazione. Questo tipo di formazione non è codificabile. Lo strumento che più la

favorisce è probabilmente la pratica analitica, ma neanche questa può essere considerata come una

garanzia assoluta, pur rappresentando un potente stimolo a entrare in rapporto con se stessi. In

realtà, questa via formativa, che è una sorta di iniziazione laica, si nutre spesso di esperienze che

poco hanno a che fare con lo studio della psicologia: romanzi e filosofia, amori, malattie, delusioni,

lutti, coltivazione di fantasie, dialoghi con le immagini interiori...

Un'altra coppia di opposti discende da quella che ho appena tematizzato, ed è la contrapposizione

tra produzione artigianale e produzione di serie. La cura artigianale riguarda anzitutto l'assenza di

una regola imperativa e di una procedura standardizzata. Il lavoro artigianale si nutre di perplessità,

di attenzione, di tentativi, di esperienza. Nella figura dell'artigiano c'è l'idea di un rapporto

personale, affettivo, con il suo compito. Egli accudisce la sua opera, maternamente si potrebbe dire,

ma senza la voracità di certe madri. E' questa l'immagine che mi sembra più coerente con l'idea

della formazione analitica. Se contrapponiamo democrazia e autoritarismo, vorrei dire che la

essenziale democraticità della formazione analitica (e dell'analisi stessa) sta proprio in questa

fedeltà alle molte strade che essa può imboccare.

Quale forma può assumere questo discorso all'interno di una società analitica? Una volta stabilito
 
50
 
che la formazione non ha a che fare con l'indottrinamento ma è un approfondimento del lavoro

interiore, si comprenderà che ciò che il didatta può trasmettere non è costituito soprattutto da

contenuti culturali. Jung ha scritto che nelle forme più avanzate di psicoterapia ciò che è essenziale

è “il confronto fra due sfere psichiche, vale a dire tra due esseri umani che si pongono l'uno di

fronte all'altro nella loro totalità”. Il che significa che alla fine ciò che conta soprattutto non è la

tecnica ma la personalità di chi la applica.

Poco fa ho parlato della formazione come di una iniziazione laica. Questo concetto si può applicare

sia al didatta, sia all'allievo. Il didatta, per essere riconosciuto come tale, deve ottenere una

investitura di qualche tipo (elezione, designazione, cooptazione). L'allievo, per proseguire e

concludere la formazione, deve confrontarsi con una personalità alla quale sia stata riconosciuta una

particolare competenza. La professione di analista non è una professione qualunque: è una

professione che espone costantemente al rischio e all'avventura della intimità spirituale e affettiva

profonda tra due persone. Ed è una professione che -diciamo così- si impara praticando appunto

questa intimità, che naturalmente non è fatta soltanto di consonanze ma anche di intensi contrasti. In

questo sta il carattere iniziatico della didattica, ed è per questo che dovremmo considerare normale

che l'allievo debba affrontare delle prove. Si potrebbe dire che l'analisi didattica rappresenta la

trama simbolico-rituale entro cui si snoda il processo di formazione.

In conclusione:

1) la didattica non è, se non marginalmente, trasmissione di elementi culturali. A questo fine

servono altri strumenti.

2) la didattica è un processo di trasformazione interiore, che dovrebbe permettere -sul piano

professionale- di ridurre sia i pericoli dello spontaneismo acritico, sia quelli della rigidità

dommatica.

3) la didattica consiste nell'incontro/scontro tra la personalità del didatta e quella dell'allievo.


 
51
 
Questo, nel migliore dei casi, dovrebbe condurre a un ampliamento dello spazio psichico di

entrambi. Naturalmente, tutto ciò non è esente da rischi, tra cui quello che il didatta cerchi di

prevaricare l'allievo. Del resto, se l'analogia con l'iniziazione ha un senso, dobbiamo ricordare che

l'iniziazione è fatta di prove, e dunque di vittorie e di sconfitte, alcune delle quali definitive.

Per concludere, menzionerò una obiezione che viene fatta alla stessa esistenza del didatta. Si

chiede: quali sono le qualità richieste per svolgere la funzione didattica, e come si fa per accertarle?

In altre parole, in base a quali criteri selezionare i didatti? Posto in questi termini, il problema mi

sembra insolubile. In realtà, noi non sappiamo quali sono le qualità personali che un didatta

dovrebbe possedere. Allo stesso modo, non conosciamo i requisiti che definiscono generalmente un

buon analista. La mia risposta a questo problema segue un'altra strada. Secondo me, ciò che fa il

didatta o, se preferite, ciò che sancisce la sua autorevolezza, è il consenso. Perciò io sostengo che -

all'interno di una società analitica- per diventare didatti occorre essere designati dalla grande

maggioranza degli analisti. Questo procedimento potrebbe essere considerato come l'equivalente

della teoria che, in ambito scientifico, sostituisce la intersoggettività alla oggettività.

Mi sono limitato, in questo intervento, a considerare alcuni problemi collegati con l'analisi didattica

in senso stretto. Il discorso ovviamente può essere allargato a considerazioni che riguardano sia i

presupposti teorici di questo modo di vedere, sia i limiti e le contraddizioni inerenti al concetto di

scuola, sia infine la stessa legittimità delle società analitiche.

 
52
 
Sitografia (link verificati nel giugno 2014)

http://www.psy.it/numero_iscritti_31_12_2013.html 
http://www.spyweb/index.php?option=com_comprofiler&task=usersList&listid=6 
http://www.aipsi.it/www2/pagine/soci.html 
 
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