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Fede e Ragione in S.

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e fede nel pensiero di San Tommaso, cardine della spiritualità medievale La
ragione è incompatibile con la fede? Secondo la tipica mentalità moderna, sì; e,
ad un filosofo che si arrischi a sostenere il contrario, non vengono di certo
risparmiati i sorrisetti ironici della maggior parte dei suoi colleghi, tutti
imbevuti di cultura materialista, scientista e positivista, secondo la quale
nulla esiste al di fuori i ciò che si può rappresentare il Logos strumentale e
calcolante. Per più di mille anni, tuttavia, la cultura cristiana medievale ha
ritenuto il contrario; e, prima di essa, lo ha creduto anche il filone
principale del pensiero classico, culminante nei grandiosi sistemi speculativi
di Platone e di Aristotele. Se, poi, diamo uno sguardo anche velocissimo alle
altre culture, l'indiana, la cinese, l'araba, subito ci rendiamo conto - pur
nella notevole diversità del quadro di riferimento generale - che nemmeno per
esse esiste conflitto o una contraddizione tra l'ambito del pensiero logico e
quello del sentimento religioso. È solo ed esclusivamente la modernità che ha
«inventato» l'aut-aut tra le due cose; e, da Marx e Freud in poi (due ebrei
atei: ma un ebreo è mai veramente ateo?), è diventato terribilmente fuori moda
affermare una posizione diversa. Il Medioevo, che non è stato affatto quell'età
oscura e barbarica che ai nipotini di Voltaire e di Gibbon piace immaginare, ma
che ha prodotto geni universali come Giotto, Dante, San Tommaso, per non parlare
della possente spiritualità di figure come Francesco d'Assisi, Santa Chiara e
Santa Caterina da Siena, ha raggiunto autentici vertici speculativi, come nella
«Summa Theologiae» dell'Aquinate, e ha illustrato con chiarezza esemplare e con
mirabile concisione gli argomenti razionali a favore dell'esistenza di Dio. Li
riassumiamo brevissimamente.
Prima prova: Dio è il Motore Immobile, origine del movimento di tutte le cose
(perché tutto ciò che
si muove è mosso da altro).
Seconda prova: Dio è la Causa Prima, perché nell'ordine delle cose sensibili,
niente è causa efficiente di se stesso. Terza prova: Dio è l'Essere necessario,
perché le cose possibili potrebbero anche non essere (ma è impossibile che tutte
le cose siano soltanto possibili, altrimenti ci sarebbe stato un tempo in cui
niente esisteva, e dunque niente esisterebbe ora). Quarta prova: Dio è la
Perfezione assoluta, dato che nelle cose esistono vari gradi di perfezione, i
quali presuppongono l'esistenza di un massimo (che, però, non esiste in natura).
Quinta prova: Dio è l'Intelligenza ordinatrice dell'universo, perché tutte le
cose naturali tendono a un fine, che è l'ottimo; ma non vi tenderebbero le cose
prive di conoscenza, se quel fine non esistesse fuori di loro. Certo, la cultura
e la spiritualità medievali avevano ben chiaro il concetto del limite: ossia che
la ragione umana può arrivare a comprendere certe cose, ma non tutte; e che,
davanti a quelle che la trascendono, essa deve porsi in un atteggiamento di
estrema umiltà, e cedere la mano ad una facoltà di lei più grande e più elevata:
la fede, appunto. Per dirla con il gran padre Dante, per bocca di Virgilio
(Purgatorio, III, 34-45): «Matto è chi spera che nostra ragione 1 possa
trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
perché, se possuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disiar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d'Aristotile e di Plato
e di molt'altri"; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.»
E, sul problema del rapporto tra ragione e fede, ci piace riportare cinque brevi
passi dell'opera di San Tommaso, il più grande filosofo del Medioevo e uno dei
più grandi nella storia del pensiero occidentale, nella «Summa contra Gentiles,
I, 39, 5, 7, 8», trad. Di Napoli e «In Boëtium» De Trinitate", a 3 (in: E. Paolo
Lamanna, «Letture filosofiche», Firenze, Le Monnier, 1969, vol. I, pp. 128-130).
Nel primo di essi, l'Aquinate distingue i rispettivi oggetti d'indagine della
fede e della ragione; nel secondo, espone la necessità della fede; nel terzo,
dimostra che la fede non è contraria alla ragione; nel quarto e nel quinto
(tratti da due opere diverse) illustra quale sia la funzione propria della
ragione di fronte alla fede. «In tutto ciò che affermiamo intorno a Dio abbiamo
due classi di verità. Alcune verità trascendono tutto il potere della ragione
umana, come la Trinità-Unità di Dio. Altre invece appartengono alla sfera della
ragione naturale, come l'esistenza di Dio, la sua unità e simili; e queste i
filosofi hanno affermato di Dio con processo dimostrativo alla luce della
ragione naturale. Che vi siano verità teologiche trascendenti essenzialmente la
ragione è di piena evidenza. E difatti, siccome la base di tutta la scienza, che
la ragione umana acquista di una cosa, è l'intelligenza della sua essenza, ne
segue che la misura della conoscenza dell'essenza sia anche la misura di ciò che
si conosce di quella cosa. Onde, se l'intelletto umano comprende l'essenza di
qualche cosa, come di una pietra o di un triangolo, nessuno dei suoi elementi
intelligibili trascende il potere della ragione umana. Ciò che però non è il
caso di Dio di fronte a noi. Poiché l'intelletto umano non può naturalmente
arrivare ad intuire la sua essenza, per il fatto che il suo conoscere in questa
vita parte dal senso. E pertanto ciò che cade sotto l'ambito del senso non può
essere conosciuto dall'intelletto umano se non nei limiti della conoscenza
sensibile. Ora le cose sensibili non possono elevare il nostro intelletto a un
piano tale in cui si scorga il ciò che è [l'essenza] della scienza divina, data
la loro inadeguatezza alla causa che le produce. Tuttavia il nostro intelletto è
guidato dalle cose sensibili a conoscere il che è [l'esistenza] di Dio e quanto
di simile sia da attribuire al Primo Principio. Vi sono dunque alcune verità
divine proporzionate alla ragione umana e altre che trascendono assolutamente il
potere della ragione umana. ( ) È necessario che quelle verità, le quali
trascendono la ragione, vengano proposte per fede divina all'uomo. Nessuno
difatti tende con appassionata volontà a qualche cosa senza prima conoscerla. E
siccome gli uomini sono ordinati per provvidenza divina ad un vene più alto di
quanto possa sperimentare nel tempo la vita umana, è stato necessario che
l'anima fosse chiamata a qualche cosa di più alto di quel che la nostra ragione
possa raggiungere in questa vita: e così imparare attendere appassionatamente a
qualche cosa che trascende lo stato della vita presente. Ciò è quanto conviene
in modo particolarissimo alla religione cristiana la quale promette specialmente
beni spirituali ed eterni. Onde in essa vengono proposte verità che trascendono
l'umano sentire... Perciò, benché la 2 ragione umana non possa pienamente
comprendere quelle verità che sono superiori alla ragione, tuttavia si
perfeziona notevolmente se comunque le accetta almeno per fede. (...) Benché la
verità della fede cristiana superi la capacità della ragione umana, quelle
verità, che sono essenzialmente connaturali alla ragione, non possono essere
contrarie alla verità di fede. Difatti quelle verità, che sono essenzialmente
connaturali alla ragione, ci constano essere verissime in tale maniera, che non
sia possibile pensarle false; né d'altra parte è possibile pensare falso ciò che
si tiene per fede dal momento che ha una così evidente conferma divina. Siccome
dunque il solo falso è contrario al vero, come appare manifestamente dai loro
concetti, è impossibile che la verità di fede sia contraria a ciò che la ragione
conosce naturalmente. ( ) Le cose sensibili da cui inizia la sua marcia
conoscitiva la ragione umana, posseggono un tal quale vestigio imitativo del
divino (in quanto sono buone), imperfetto tuttavia, ed insufficiente a chiarire
l'essenza di Dio. Poiché gli effetti hanno a loro modo una somiglianza con le
loro cause per il fatto che ogni agente produce un simile a sé; però l'effetto
non assurge alla perfetta somiglianza con l'agente. La ragione umana quindi, per
conoscere la verità di fede, la quale può essere notissima soltanto a coloro che
intuiscono l'essenza divina, non può che fissare delle analogie con essa; ; le
quali tuttavia non bastano a ciò che la predetta verità [di fede] venga compresa
quasi dimostrativamente o analiticamente. È utile tuttavia che lo spirito umano
si esercirti in queste ragioni pur deboli, a patto che sia assente ogni
presunzione di comprendere o di dimostrare. ( ) Possiamo nelle nostra dottrina
usare la filosofia per tre fini: 1) per dimostrare i preamboli della fede, che
sono necessari alla conoscenza per fede; quali sono le cose che si dimostrano
intorno a Dio con la ragione naturale: che Dio esiste, che Dio è uno, e altre
simili verità d Dio e della creature, che in filosofia vengono dimostrate e
dalla fede sono presupposte; 2) per chiarire, mediante similitudini, cose che
sono di pertinenza della fede; così sant'Agostino nel "De Trinitate" si serve di
molte similitudini tratte da dottrine filosofiche per chiarire la Trinità; 3)
per confutare le obiezioni che si muovono alla fede mostrando o che sono false o
non sono necessarie. - D'altra parte, quelli che si servono della filosofia
nella dottrina sacra possono errare in due modi: in primo luogo introducendo
nozioni contrarie alla fede, e queste non appartengono alla filosofia ma sono
piuttosto errori o abusi di essa, come fece Origene; in secondo luogo,
includendo nel dominio della filosofia cose che sono di pertinenza della fede,
come se non si intendesse credere altro che quello che la filosofia può
dimostrare; mentre invece la filosofia deve essere ricondotta ai fini della
fede, secondo il detto di paolo (I Corinti, X): "portano in cattività tutta
l'intelligenza per ossequio a Cristo".» Questo è il modo di ragionare dell'uomo
medievale: limpido, conseguente, rigoroso; e, al tempo stesso, perfettamente
coerente con la convinzione che la ragione possa e debba esplorare solo una
parte dell'intelligibile. Due sono gli ordini che abbracciano il piano della
realtà: l'ordine della natura e l'ordine del soprannaturale: al primo è
preposta, quale strumento d'indagine, la ragione; al secondo è riservata la
fede. La ragione non viene sminuita, né, tanto meno, mortificata, se le si
pongono dei limiti: perché quei limiti non sono un ostacolo a ciò che l'uomo può
comprendere, ma solo il riconoscimento che l'uomo non può comprendere tutto. La
ragione dell'uomo medievale non sa nulla di scissione dell'io, di disgregazione
delle certezze, di conflitto tra ragione e fede, perché colloca ogni cosa
nell'ambito che le è proprio, ordinatamente e serenamente. Il senso del limite
ed il senso del mistero, questi due pilastri dell'«animus» religioso, le sono
profondamente connaturati; perciò non li vive come fonte di frustrazione e di
sconfitta, ma come doveroso riconoscimento dell'ordine soprannaturale, cui la
ragione può accostarsi solo in parte, fermandosi sulla soglia. La lacerazione
dell'io e il conflitto tra fede e ragione è una malattia tipica della modernità:
una nevrosi che scaturisce dalla «hybris» di un Logos che non accetta limiti e
vorrebbe infrangere ogni barriera; Logos che è, a sua volta, il risultato di una
radicale laicizzazione della cultura, di una visione ormai pienamente
immanentistica e desacralizzata della vita. 3 Fede e Ragione in S.
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