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«Nessuno mi crede»

di Daniele Imperi - https://pennablu.it/nessuno-mi-crede/

«Nessuno mi crede»

Remo Magnani entrò in casa e chiuse la porta. La luce accesa, che non spegneva da quasi tre settimane, gli
diede un minimo di conforto. Al diavolo la bolletta, si ripeteva ogni volta, ci sono cose peggiori che accadono.

Cose che neanche la luce tiene lontano.

Si cambiò, si diresse in cucina e preparò la cena. Guardò un po’ di TV seduto sul divano in sala, in attesa che
l’orologio sulla parete segnasse le 22.

Si ripromise che non avrebbe più sussultato, che finalmente ce l’avrebbe fatta a contenersi, a dominare i nervi,
a…

Una sedia in cucina si mosse, allontanandosi dal tavolo.

Remo balzò dal divano e urlò. Dalla sua posizione aveva visto chiaramente tutto, questa volta non era stato solo
un rumore nel silenzio. Un oggetto fuori posto scoperto per caso. Un fruscio vicino. Un alito sul suo viso.

No.

Questa volta, assieme al rumore insolito, aveva visto la sedia indietreggiare, come se qualcuno si fosse alzato –
qualcuno di invisibile.

Alzati.

Non ascoltò la voce dei suoi pensieri e cercò di concentrarsi sulla partita in televisione.

Sei solo in casa, va’ a vedere.

Remo non ci pensava nemmeno. Non sarebbe mai entrato in cucina, non dopo quello che era successo qualche
giorno prima, quando…

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Un fracasso di legno e metallo lo fece quasi impazzire.

Il cassetto delle posate. Va’ a vedere. Qualcuno ha rovesciato in terra il cassetto delle posate.

«Non me ne frega niente di quel fottuto cassetto!», urlò.

Si afferrò i capelli, mentre singhiozzava un pianto senza lacrime, completamente in balia dei nervi.

No, non sarebbe andato a vedere, che quel cassetto rimanesse lì per l’eternità. Si sdraiò sul divano e attese.

Perché presto sarebbe stata mezzanotte. E allora…

Si addormentò.

Quando la luce del giorno inondò la sala, Remo aprì gli occhi. Si guardò intorno, come se vedesse per la prima
volta quella stanza. La visuale gli parve diversa dalla sera prima e si accorse di essere sdraiato sul pavimento.
Non ricordava di essere caduto. Si alzò e controllò di non avere lividi. È tutto ok, si disse. Va tutto bene.

Entrò in bagno e osservò l’altro Remo che gli restituì lo sguardo dall’altra parte dello specchio. «No, non va per
niente bene», disse. Il contro-Remo aveva occhiaie profonde, occhi stanchi, velati, volto segnato da una
sofferenza interiore che lo stava dilaniando come un branco di cani affamati.

Si lavò, si vestì e uscì senza neanche guardare la cucina dove la sera prima…

Ricordò.

La sedia che si scostava dal tavolo.

Il cassetto delle posate che si rovesciava a terra.

Ma c’era dell’altro, Remo ne era sicuro. Si sforzò di ricordare mentre si dirigeva al lavoro, scendeva le scale
della metropolitana, passava i tornelli, entrava nel vagone. Non si curò delle occhiate dei viaggiatori e continuò a
rimuginare su ciò che era accaduto.

Finché le immagini tornarono nella sua mente con la violenza di una catastrofe.

Non era caduto in terra quella notte.

No.

Qualcuno ce l’aveva buttato. Una forza l’aveva fatto cadere giù dal divano e Remo non aveva avuto il coraggio
neanche di aprire gli occhi. Aveva solo atteso, come sempre. Che la fine giunga presto, aveva pregato dentro di
sé.

Ma quella fine non era giunta, non c’era più stata nessun’altra attività quella notte e Remo era riuscito infine a
riprendere sonno, là, sul pavimento.

Tornò a casa che era già buio. Era stata una giornata terribile al lavoro, il capo ufficio l’aveva rimproverato
davanti ai colleghi. Remo aveva pratiche arretrate da evadere che stavano mettendo radici sulla sua scrivania,
come l’aveva schernito il capo, che l’aveva poi trattenuto oltre un’ora dopo l’orario di lavoro per una
memorabile lavata di testa. Remo era stato ad ascoltarlo con distacco, subendo senza reagire. Ma non per paura.

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Remo in realtà stava pensando al suo ritorno a casa. Alla notte che presto sarebbe scesa sulla città. A ciò che
l’aspettava come ogni giorno ormai da tre settimane.

Entra in cucina.

Ora avrebbe dovuto dar retta alla sua ragione, doveva cenare. Sì, avrebbe potuto mangiare fuori, ma per quanto
tempo?

Entrò.

La sedia era dove l’aveva lasciata. Più in là vide le posate sparpagliate sul pavimento e il cassetto mezzo rotto.
Raccolse tutto, aggiustò come poté il cassetto, lo rimise a posto con le posate, poi preparò la cena.

Più tardi sedette sul divano. L’orologio segnava le 21,30. Fuori, la città era avvolta dalle ombre.

Il televisore si accese.

Remo cercò il telecomando. Era ancora sul tavolinetto. Chi…

Le luci si spensero.

Remo urlò, si alzò, avanzò a tentoni, inciampò e cadde. La TV si spense, si riaccese, si spense di nuovo. Remo
strisciò per terra come un verme finché raggiunse la parete. La tastò in cerca dell’interruttore, accese la luce.

E vide.

Sentì ogni poro della pelle raggelarsi.

Avrebbe voluto gridare ancora, chiedere aiuto, ma la voce non uscì. Se ne restò lì paralizzato, mentre ogni
oggetto della sala fluttuava nell’aria come in assenza di gravità. Guardò a terra, convinto che per qualche oscuro
capriccio della fisica ogni cosa avesse perso peso, ma i suoi piedi erano ancora ben piantati sul pavimento.

Poi tutto lo colpì, come scagliato da una forza inumana. I quadri, la lampada, il tavolinetto di vetro, il televisore e il
telecomando, ogni soprammobile, persino il divano.

Remo crollò a terra privo di sensi.

Il campanello trillò, ma nessuno poté rispondere. Dopo qualche minuto dalla strada si sentirono le prime sirene.

Si svegliò dolorante e non riconobbe il posto. Era tutto così luminoso, accecante. Un via vai di gente vestita di
bianco si affaccendava attorno a lui. Sentì qualcuno parlargli, chiedergli qualcosa, ma non capì. Sulla soglia della
stanza riconobbe un poliziotto che lo guardava come se fosse un alieno.

Perse conoscenza di nuovo.

«Può parlare?»

«Credo di sì. Attendiamo che si svegli del tutto.»

Voci.

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Attorno a lui, quando riaprì gli occhi, vide un medico e il poliziotto di prima. Dov’era finito?, si chiese.

Poi, pian piano, i ricordi tornarono.

Rivide gli oggetti sospesi nell’aria, la loro distanza che in un attimo si azzerava, il dolore in tutto il corpo, poi più
nulla finché si svegliò in quella stanza sconosciuta.

Un ospedale.

Chi ce l’aveva portato?

«Mi sente, signor Magnani?»

Si voltò verso il poliziotto.

«Sono l’ispettore Varrone», si presentò l’uomo. «Può sentirmi? Riesce a parlare?»

Remo annuì.

«Ricorda qualcosa di quanto è successo tre giorni fa?»

Tre giorni.

Remo sbatté le palpebre, tentò di alzarsi, ricadde sul letto.

«Non si alzi», gli ordinò il medico. «Resti giù, signor Magnani, ha diverse fratture.»

«Io», iniziò, ma poi non disse più niente. Che cosa avrebbe dovuto raccontare? Che in casa sua, da diversi giorni,
c’era qualcosa che spostava gli oggetti? E che ora, per chissà quale motivo, aveva tentato di ammazzarlo?

«No», rispose infine.

«C’era qualcuno con lei, quella sera?», gli chiese l’ispettore.

«No, ero solo. Come sempre.»

«È entrato qualcuno, senza che se ne accorgesse? Ha aperto a uno sconosciuto?»

Remo rispose di no.

«La sala era a soqquadro, signor Magnani», continuò l’ispettore. «I suoi vicini l’hanno sentita urlare, poi ci sono
stati forti rumori, hanno provato a suonare ma lei non ha risposto. Così hanno chiamato il 113. Quando siamo
arrivati, l’abbiamo trovata a terra, sotto il divano, come se qualcuno gliel’avesse lanciato contro. Assieme al resto
dell’arredamento.»

«Sì», sussurrò Remo. «Lo ricordo. Ma non ho visto chi è stato.»

«Va bene, signor Magnani, la lascio riposare», disse infine l’ispettore. «In attesa di completare le indagini in casa
sua sono stati apposti i sigilli.»

A Remo non importava. Prevedeva un lungo periodo di degenza. L’ispettore lo salutò, raccomandandosi di
avvertirlo se avesse ricordato altri dettagli.

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Restò in ospedale tre settimane. Nessuno venne a trovarlo, neanche i colleghi. Si domandò, mentre prendeva un
tassì per tornare a casa, se l’avessero licenziato. Qualcuno, l’ospedale o la polizia, aveva di sicuro avvertito
l’ufficio in cui lavorava, si disse Remo. Ma in realtà non gliene fregava niente.

Dentro, era rimasto tutto come l’aveva lasciato. In terra. Mentre osservava la scena, avvertì una presenza dietro
di lui. Si voltò.

«Buongiorno, signor Magnani.»

La vicina.

«Come si sente?»

Remo annuì, stancamente. «Meglio, grazie», rispose. «Ha chiamato lei la polizia.»

«Sì», disse la donna. «L’ho sentita gridare, poi tutto quel baccano e mi sono spaventata.»

«Ha fatto bene, la ringrazio.»

«Hanno scoperto qualcosa?»

«No, niente. Credo, almeno.»

«Le do una mano a rimettere a posto.»

Rimisero in ordine la stanza, spazzarono. Accantonarono a un angolo il televisore, il tavolinetto e la lampada:


ormai irreparabilmente rotti. Remo buttò tutto nei secchioni.

Poi chiamò l’ufficio.

Alla questura non gli credettero. Non che avesse sperato diversamente, ma i volti e le espressioni dei poliziotti lo
convinsero che ormai la sua vita avesse preso la via del non ritorno.

La prima notte trascorsa a casa dopo la degenza fu abbastanza tranquilla. Cenò in cucina con le altre sedie che
gli ruotavano attorno sospese nell’aria, ma nessun oggetto cadde in terra né lo colpì.

Era stato licenziato, come immaginava. Il contratto di collaborazione era carta straccia per il lavoratore, lo aveva
sempre saputo. La polizia aveva avvertito l’ufficio e l’ufficio aveva fatto recapitare a casa Magnani una lettera di
licenziamento.

Sedette sul divano. L’orologio sulla parete, senza più il vetro di protezione, segnava le 13. Remo aveva fame, ma
non pranzò.

Pianse in silenzio, mentre fuori il mondo andava avanti lo stesso.

Si svegliò che era pomeriggio inoltrato. Scese a comprare qualcosa al supermercato, tornò a casa, sedette in
cucina a pensare. Domani avrebbe comprato un giornale di annunci, si disse. Avrebbe trovato presto un nuovo
lavoro.

Domani.

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Alle 20 preparò da mangiare e cenò. Poi andò in sala, prese un libro e tentò di leggere qualche pagina. Non riuscì
però a concentrarsi, la mente vagava ai ricordi degli ultimi giorni.

«Non c’era nessuno in casa?», gli avevano chiesto per l’ennesima volta in questura.

E allora Remo aveva provato a raccontare tutto, scegliendo con cura le parole. Aveva detto degli oggetti fuori
posto che trovava, delle porte che si aprivano e chiudevano da sole, del televisore che s’era accesso e spento
d’improvviso, come le luci. Degli oggetti che aveva visto galleggiare nell’aria.

«Ha vissuto una brutta esperienza, signor Magnani», era stata la semplice reazione dell’ispettore.

Magari erano abituati a sentire storie come quelle. Storie senza senso.

Dopo un’ora aveva letto sì e no due tre pagine. Chiuse il libro e si alzò per riporlo nella libreria.

Il televisore si accese.

Remo si voltò di scatto, ma non c’era più una TV in casa, non l’aveva ricomprata.

E infatti sul mobile non c’era niente.

L’ho immaginato. Ho ancora i nervi a pezzi, si disse.

Le luci lampeggiarono come un semaforo impazzito. Non è niente, pensò. Un contatto, un guasto. Scenderò a
dare un’occhiata al contatore.

Prese le chiavi di casa, afferrò la maniglia della porta e fu scaraventato a terra, come se dall’altra parte qualcuno
avesse voluto entrare a forza.

Non c’è nessuno, alzati.

Remo si rialzò con una smorfia.

Esci. Esci da questa casa.

No, non voleva dar retta alla sua coscienza.

Esci, non è più casa tua, questa.

«Questa è casa mia!», urlò.

Cercò di calmarsi, sperando non l’avesse sentito nessuno.

Si avvicinò di nuovo alla porta e fu ancora scagliato via, come se fosse stato uno straccio.

Il telefonò squillò.

Remo provò ad alzarsi. I dolori lo afferrarono, risvegliando le vecchie fratture.

Il telefono squillava.

Remo raggiunse l’apparecchio, rispose.

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«Signor Magnani?»

La vicina.

«Pronto?»

«Sì, dica, signora.»

«Va tutto bene? Ho sentito dei rumori che»

«Sono solo caduto, sto bene. Grazie.»

Attaccò.

Si lasciò cadere sul divano e guardò l’ora. Le lancette dell’orologio sulla parete correvano impazzite. Chiuse gli
occhi.

La porta della cucina sbatté con violenza e dal telaio caddero pezzi di intonaco. Remo riaprì gli occhi, ma restò
impassibile. La porta si aprì e si richiuse ancora sbattendo per una decina di volte, lasciando in terra polvere e
pezzi di calce. Una rete di crepe si formò sul telaio.

Alla porta suonò il campanello, ma Remo non rispose. Cercò di dormire, là, sul divano.

Si svegliò alle sei e mezzo. Si alzò e andò in bagno. Si stava radendo quando la porta si aprì e colpì la parete. La
mano di Remo scattò e da una guancia si disegnò una sottile linea rossa. Bestemmiò.

Si sciacquò il viso e lo tamponò con l’asciugamano. Poi applicò un po’ di carta igienica per bloccare il sangue.

Si vestì e uscì.

Aveva bisogno di camminare.

Fuori, la città era già sveglia. Fece un giro per il quartiere, si allontanò procedendo verso il centro, si fermò a un
bar a bere un caffè, tornò indietro.

Nell’androne incontrò l’amministratore.

«Buongiorno.»

«Buongiorno», rispose Remo.

«Si è ripreso? Ho saputo dell’incidente.»

«Sì, grazie.»

«Senta», cominciò l’uomo e Remo capì subito. «Alcuni condomini si sono lamentati di strani rumori che
provengono da casa sua. E hanno sentito anche urlare.»

«La polizia sta ancora indagando sull’incidente…»

«No, non mi riferivo a quel fatto. Ma a quelli precedenti. Hanno sentito spesso lei urlare e dei rumori forti venire
dal suo appartamento.»

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«Non so, non ricordo.»

«Ecco, dovrebbe fare più attenzione.»

«Sì, proverò. Ma non c’entro io. C’è qualcosa in casa.»

«Come, scusi?»

«C’è qualcosa, le cose si muovono da sole. L’ho detto anche alla polizia.»

Lo sguardo che lesse negli occhi dell’amministratore gli fece capire che l’uomo lo credeva impazzito. Forse
pensa che non mi sono ancora ripreso, si disse.

«Faccia attenzione», ripeté l’uomo. «Arrivederci.»

Non mi crede neanche lui, disse fra sé. Non mi crede nessuno.

Trascorse i giorni seguenti cercando lavoro di mattina – chiedeva a negozi, supermercati, ristoranti se avessero
bisogno di personale, ma sempre invano – e nel pomeriggio se ne stava seduto in sala in attesa che finisse la
giornata. I fenomeni, prima limitati alle ore serali, avvenivano da un po’ in qualsiasi momento. Imprevedibili nella
loro assurdità.

Era una sera di fine marzo quando se ne stava a leggere un libro sul divano e la mano cominciò a tremare. In
realtà s’accorse subito che non era un tremore, ma un movimento. Un movimento involontario. O, meglio, non
era la sua volontà a comandare la mano.

L’arto si alzò, mostrando il palmo, chiudendosi e aprendosi di scatto. Poi ricadde sul divano, stringendo la stoffa
come se volesse strapparla. Remo vide i nervi tendersi, poi il pugno partì e lo colpì in un occhio.

Urlò.

Corse in cucina, prese del ghiaccio, lo avvolse con un canovaccio e lo mise sull’occhio. Tornò in sala e sedette
con la mano che premeva sul viso. Mi verrà nero, disse fra sé. Chi se ne frega.

Il mattino dopo, in bagno, osservò la sua immagine allo specchio, la barba di tre giorni, le occhiaie sempre più
profonde, i capelli bianchi che aumentavano e la macchia scura sull’occhio. Si lavò e tornò in camera a vestirsi.

Decise di non uscire finché l’occhio non sarebbe guarito. Non avrebbe fatto una buona impressione conciato a
quel modo.

Bevve un caffè per colazione e andò in sala. La giornata trascorse senza apparenti incidenti, eccetto qualche
oggetto che si spostava o rumori in altre stanze. Lesse un libro sdraiato a letto e intorno alle 23 si mise a dormire.

La sveglia del cellulare squillò. Ricordava di averla disattivata dopo esser tornato dall’ospedale. Controllò l’ora.
Erano le 3.

«Merda.»

Spense il telefono.

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Sentì la mano muoversi nuovamente per conto suo. Imprecò sottovoce. I movimenti si estesero anche all’altra e
poi alle gambe. Sul letto sembrava preso da convulsioni, con gli arti che si muovevano ognuno per conto proprio,
indipendenti.

Poi si alzò.

No.

Non fu lui ad alzarsi. Remo tentò di resistere, di comandare i suoi arti, ma il suo corpo non rispondeva più. Remo
Magnani era divenuto un automa. Camminava per la stanza da letto senza una meta fissa, poi uscì e si diresse
verso la porta di casa. La mano tolse il chiavistello e afferrò la maniglia.

No. Fermo.

Remo uscì sul pianerottolo. Adesso piangeva in silenzio, le lacrime parevano ancora sotto il suo diretto controllo.

Cercò di urlare, di farsi sentire da qualcuno, ma non vi riuscì.

Le gambe si mossero ancora, verso la casa della sua vicina, all’appartamento a fianco. Un braccio si sollevò
dritto verso il campanello.

No!

Poteva sentire i nervi irrigidirsi, ma non riuscì a impedire i movimenti. L’indice premette il bottone e un suono
squillante ruppe il silenzio.

Un suono continuo.

Lacerante nel vuoto notturno.

Una voce sommessa giunse da dentro. Passi, rumori. Qualcuno che s’avvicinava.

Guarda dallo spioncino. Sono io, aiutami!

La porta si aprì.

«Signor Magnani, che è successo? La smetta, smetta di suonare. Che è successo?»

Remo Magnani piangeva, piangeva mentre continuava a suonare il campanello. La donna staccò la corrente e il
silenzio tornò.

«Signor Magnani, ma mi sente?»

Remo restò fisso in quella posizione, senza rispondere, col dito che premeva, premeva, premeva.

Quando arrivò la polizia, diversi minuti dopo, occorsero due agenti per toglierlo di lì e portarlo in casa.

«Mi racconti tutto dall’inizio», disse il dottore. «Non tralasci nulla, si rilassi e cominci a raccontare.»

Dopo l’incidente del campanello l’ispettore aveva raccomandato a Remo di rivolgersi a uno psicoterapeuta. Gli
fornì il nome di un medico che collaborava con la questura e Remo promise di chiamarlo. In realtà ci pensò su
qualche giorno, poi si decise e prese un appuntamento.

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E adesso se ne stava seduto davanti a uno sconosciuto, pronto a confessare cose a cui la gente normale di solito
non crede.

Mi racconti tutto dall’inizio.

Remo non sapeva davvero da dove iniziare. Da quel giorno in cui, a mezzanotte, sentì qualcuno frugare
nell’armadio in camera da letto? Quando, svegliandosi, aveva visto le ante spalancate, vestiti e asciugamani in
terra e nessuno – nessuno – in casa?

O quando sentì la prima volta oggetti spostarsi in altre stanze, rumori provenire dal nulla?

Oppure quando, sentendo rumore di stoviglie, s’era fatto coraggio, era entrato in cucina e… no, quel particolare
era meglio tenerlo segreto.

Raccontò. Parlò per due ore, pianse a volte, balbettò nei momenti in cui fu costretto a chiamare le cose col loro
vero nome.

Presenze.

Ne parlò come se non vi desse peso, cercando di non dare enfasi alla parola.

Fenomeni.

Accadevano. Casa sua sembrava preda di attività paranormali, non riconducibili a qualcosa di scientificamente
provato.

Poltergeist.

Conosceva quel termine. Dapprima non l’aveva preso in considerazione, ma poi s’era dovuto ricredere.

Il dottore l’ascoltò pazientemente, senza lasciar trasparire meraviglia né incredulità. Infine prescrisse a Remo un
farmaco.

Quando uscì dallo studio, Remo gettò la ricetta in un cestino e tornò a casa.

Stress emotivo. Solitudine.

Quell’idiota non ha capito niente. Non m’ha creduto, disse fra sé Remo.

Dopo cena andò a letto presto. Lasciò vagare i pensieri e infine d’addormentò.

Fu un sonno agitato. Sognò di volare, di galleggiare in aria come i mobili di casa sua giorni prima. Poi la gravità
tornò. Remo ebbe la sensazione di cadere. Precipitò nel vuoto.

Si svegliò di soprassalto. Era sudato, il cuore batteva come se avesse corso per chilometri e chilometri. Quello
strano sogno gli era parso reale, aveva perfino avvertito l’impatto con il letto.

Guardò l’ora sul cellulare. Erano solo le 23.

Si riaddormentò dopo alcuni minuti.

Fece lo stesso sogno. Fluttuava nell’aria. Le coperte scivolarono e caddero giù. Sentì freddo e aprì gli occhi. Il
soffitto era a pochi centimetri dal suo viso. Il sogno…

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Era sveglio. Tutto reale.

Levitazione.

L’aveva letto online, in ufficio tempo prima. Era accaduto in altre case che qualcuno si sollevasse senza il suo
controllo. Remo ebbe paura. Non riuscì a dire nulla, avrebbe voluto gridare, chiedere aiuto, chiamare. Fluttuava
invece nell’aria come in assenza di peso.

Poi cadde.

Si tirò su, sconvolto. Imprecò a bassa voce, restandosene seduto sul letto senza sapere cosa fare.

Poi le ante dell’armadio si spalancarono e abiti e asciugamani presero vita. Si sollevarono e avanzarono verso di
lui afflosciandosi ai suoi piedi.

Le ante si richiusero.

E le luci si spensero.

«Remo.»

La sentì.

La voce era reale, non faceva parte della sua immaginazione. Un suono buio, che sembrava provenire dai recessi
del mondo animato.

«Remo.»

«Lasciami in pace!», urlò.

Poi si sentì nuovamente sollevare e cadde ancora.

Pianse, mentre il suo corpo era preda di un’occulta antigravità.

La mattina non giunse presto.

Riuscì a dormire un paio d’ore solo dopo le 10. Decise di uscire e pranzare fuori. Mentre rincasava passò davanti
a un centro commerciale e gli venne un’idea. Entrò e si fece consigliare un portatile con la webcam. Ne comprò
uno e tornò a casa.

«Adesso vediamo se non mi credete più», disse.

Dopo un paio d’ore era riuscito ad attivare tutto. Provò la telecamera, funzionava. Le immagini non erano certo
perfette, ma sufficientemente nitide. Decise di posizionare il computer in sala, sul mobile della TV che spostò
vicino al divano, in direzione della cucina.

E attese.

Il pomeriggio giunse e passò. La luce esterna si attenuò fino a sbiadire nella sera.

Remo andò a prepararsi qualcosa da mangiare. L’anteprima della webcam mostrò lui di spalle che entrava in
cucina.

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Qualcosa passò fra la telecamera e Remo. Evanescente, ma visibile.

L’uomo si voltò verso il portatile. Sullo schermo riuscì a vedere il suo volto accigliato, stanco, che scandagliava la
stanza, come se cercasse…

Finì contro il frigorifero, scagliato indietro da una forza sconosciuta. Sbatté la testa ma restò lucido. Scivolò a
terra, si rialzò dolorante, aprì la ghiacciaia e si mise una mattonella di ghiaccio sintetico sulla testa. Poi rientrò in
sala.

Armeggiò col portatile per guardare la scena registrata dalla webcam.

Le immagini partirono.

Remo vide se stesso allontanarsi dal computer, entrare in cucina. E poi qualcosa. Non seppe descriverla, ma vide
un’ombra trasparente, senza forma, passare alle sue spalle. Sfiorarlo. Vide se stesso girarsi, gli occhi che
cercavano invano. E poi…

Fu come se un’esplosione silenziosa e senza fiamme l’avesse lanciato contro la parete dietro di lui, addosso al
frigorifero. Si rivide storcere la bocca, alzarsi, prendere il ghiaccio, avvicinarsi al computer.

«Questa dovrà spiegarmela l’ispettore», disse.

Ma non andò mai alla polizia.

Perché le cose peggiorarono.

Accadde quella notte.

Quando le tenebre scesero sulla città, Remo chiuse il libro e spostò il portatile in camera da letto, attaccando la
spina per ricaricare la batteria. Lo poggiò sul comodino e si assicurò che la webcam fosse ancora in funzione.
L’ora segnava le 23,25.

Andò in bagno, uscì qualche minuto dopo e si mise a letto. Stava per prendere sonno quando le ante
dell’armadio si spalancarono e le coperte del letto si sollevarono.

Si tirò su a sedere e sentì chiari rumori provenire dalla cucina, come di chi rovistasse fra le stoviglie. La porta del
bagno si aprì e si chiuse e poi anche quella della camera. Le coperte ricaddero sul letto.

Remo si alzò. Dalla cucina i rumori si fecero più forti. Sedie che si spostavano, sportelli che si aprivano e
chiudevano, oggetti che cadevano. Era la stanza con l’attività più frenetica.

Decise di prendere il portatile e portarselo dietro. Staccò la spina, andò in cucina.

La credenza e il frigorifero erano aperti. Così i cassetti. Due sedie galleggiavano in aria e le tende della finestra si
sollevavano come spinte dal vento, anche se chiuse.

Remo mise il portatile sul tavolo, attaccò la spina, chiuse il frigorifero, che si riaprì. Lo richiuse ma la porta si
spalancò di nuovo. Lasciò perdere e sedette. Che marcisca tutto, disse fra sé.

Le sue mani iniziarono a muoversi, dapprima lentamente, a scatti, poi si alzarono e sbatterono sul tavolo,
colpendolo con le nocche. Remo imprecò. Cercò di massaggiarsele, ma non ne aveva più il controllo.

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La sedia su cui stava seduto iniziò a sollevarsi, superando il tavolo, e Remo colpì il soffitto con la testa. Poi la
sedia precipitò giù. Remo cadde in terra urlando. Adesso quella chiamerà la polizia, si disse. Bene, che venga e
veda quello che succede.

Si rialzò, sedette, padrone ancora dei suoi nervi.

«Remo.»

La sentì di nuovo. Una voce spenta che gli penetrò nella mente frantumandogli i pensieri.

Avvertì i muscoli del collo irrigidirsi, la mandibola aprirsi. La bocca si spalancò e ne uscì un suono gutturale e
soffocato.

«Re-mo.»

Fu lui a parlare, senza la sua volontà, senza la sua voce. Fu lui a chiamarsi per mezzo della cosa che abitava la
sua casa.

La testa cominciò a ruotare e la visuale di Remo cambiò. Si era voltato verso destra lentamente senza riuscire a
impedirlo. Poi la testa ruotò dalla parte opposta, nonostante la resistenza di Remo. Infine tornò in posizione
frontale.

I cassetti della credenza si rovesciarono in terra e la porta della cucina si aprì e chiuse con forza parecchie volte.

Remo riprese il controllo del suo corpo. Allungò una mano a prendere il portatile e lo voltò verso di lui. «Riprendi
tutto», disse. «Riprendi il bastardo e quello che mi farà.»

Sentì altri rumori provenire dal resto della casa, porte che si chiudevano e qualcosa che cadeva. Un televisore si
accese e la sveglia del cellulare squillò.

Una delle sedie che fluttuavano colpì il vetro della finestra, che andò in pezzi. L’altra colpì Remo in faccia.

Si massaggiò uno zigomo, mentre le lacrime gli inondarono il volto. Poi entrambe le braccia ricaddero giù e Remo
non ebbe più modo di riacquistarne il controllo.

I mobili della cucina cominciarono a tremare come durante un terremoto.

La testa di Remo prese a ruotare di nuovo.

Si voltò verso il portatile.

Remo vide se stesso nello schermo, lo zigomo gonfio, arrossato, il volto velato di umido amaro. Vide la testa
girare piano, il suo volto di profilo, la visuale che si sfocava quando solo la coda dell’occhio poteva guardare.

Nervi e tendini del collo erano tesi al massimo e Remo se ne stava immobile, le braccia bloccate lungo i fianchi, le
lacrime che ripresero a sgorgare, la bocca semiaperta e un soffio che usciva senza suono.

«Hhhh…»

La testa continuò a girare.

Remo spalancò gli occhi, mentre un pensiero agghiacciante gli lacerò la mente come un rasoio. Oppose
resistenza con tutta la sua forza e la determinazione che gli era rimasta, ma non servì a nulla. Tese al massimo i
nervi del viso nello sforzo e nel terrore di quanto stava accadendo, mentre un dolore lancinante gli partì dal collo
fino al petto.

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«Nessuno mi crede»
di Daniele Imperi - https://pennablu.it/nessuno-mi-crede/

Poi un schianto spezzò il silenzio.

La mente di Remo si spense. Gli occhi senza più luce non registrarono più immagini.

Soltanto la webcam continuava a guardare, mentre la testa di Remo compiva un intero giro attorno al collo per
tornare col volto senza più sguardo di fronte allo schermo.

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