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Introduzione

Questo lavoro è stato sollecitato da una visione scettica del contemporaneo; la politica,
l’economia, il mondo sociale e culturale, sono accumunati da forti cambiamenti e
tensioni che non fanno presupporre alcunché di positivo, se non la fine di un’epoca e
l’avvento di un tempo nuovo. Diversi gli epifenomeni che mostrano ciò: anzitutto la
mediocrità della leadership globale, incapace o refrattaria ad affrontare le urgenti
questioni ambientali, sociali ed economiche e di gestire gli enormi flussi di merci e
capitali, di informazioni e persone.1 Contestualmente si amplia la crisi di partecipazione
e legittimazione rispetto alle tradizionali forme dell’agire politico a cui si aggiunge un
iperliberismo globale, radicatosi socialmente e culturalmente, che potendosi muovere
liberamente e senza freni impedisce qualsiasi tipo di resistenza da parte di una comunità
politica, portando al ponte di comando decisionale tecnocrazie più o meno visibili, più o
meno elettive. L’incertezza sembra essere l’emozione predominante sia che si parli a
livello micro sia che si parli a livello macro, dovuta per buona parte alla rivoluzione del
modello produttivo, impiantata sulla base delle parole d’ordine di flessibilità e
precarietà del lavoro, che si tramutano quasi ovunque in matrici esistenziali; il sapere è
poi sempre più professionalizzato ed elitario, creando ed amplificando le già esistenti
disuguaglianze; il sistema scolastico obbligatorio ed uniforme è più funzionale alla
creazione di consumatori docili e disciplinati che ad un reale spirito critico;
l’ipermedicalizzazione priva gli individui del controllo cosciente sulla propria salute
portandoli ad una sorta di dipendenza psicologica da mezzi tecnici in continua
evoluzione. L’insieme di questi processi, se ricondotti alle pratiche quotidiane, fanno
pensare ad un individuo costretto a determinati comportamenti ed ignaro di queste
costrizioni, fino ad essere il promotore della propria schiavitù. Se questo lavoro, tuttavia
non intende fornire delle alternative, delle nuove vie, vuole almeno fornire chiavi di
interpretazione diverse da quelle classiche, che sembrano rivelarsi inefficienti nel
portare a galla e risolvere le problematiche contemporanee. Ciò che senza dubbio ha
quindi spinto questa ricerca è un intento critico nei confronti dell’attualità, e si è operato
grazie a quella che Michel Foucault chiamerebbe un’ontologia dell’attualità2, ossia
1

G. Barberis, M. Revelli, Sulla fine della politica. Tracce di un altro mondo possibile, Guerini,
Milano, 2005.

Michel Foucault, Che cos’è l’illuminismo?, in: Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste
( 1978-1985), a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 253-261.
“un’indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costituirci e a
riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo”3; si tratta della
ricerca sulle condizioni di possibilità di qualcosa, e cioè sulle condizioni di possibilità
del nostro essere, e l’oggetto dell’ontologia dell’attualità, quindi, non è l’attualità di per
se stessa, piuttosto, la condizione di possibilità del mondo attuale. Da ciò emerge
un’importante caratteristica dell’ontologia dell’attualità, essa non è una mera critica e
spiegazione degli eventi correnti, quasi a volerne produrre una qualche giustificazione
teorica, ma è più propriamente uno sguardo al presente che mostra l’artificiosità delle
sue condizioni e che quindi mostra una strada per una trasformazione e un superamento.
Una critica che, dove ce ne fosse bisogno, distrugge, ma in senso positivo, per ricreare;
“ciò a cui mira l’ontologia dell’attualità è l’inattuale” 4. Non c’è in questo lavoro un
unico senso di percorrenza e un unico angolo di visuale, gli stessi temi affrontati, seppur
considerati di enorme rilevanza – è difficile negare, ad esempio, che i mass media non
costituiscano uno strumento in grado di manipolare collettività ed individualità, e quindi
in grado di cambiare il volto vero e proprio delle realtà sociali – non potranno mai da
soli dare risposte incontrovertibili, e d’altra parte possono essere letti e interpretati in
maniera non univoca; l’intento è stato maggiormente quello di fornire un esempio di
come esistano visioni alternative, al di fuori degli schemi classici di ragionamento,
grazie alle quali poter analizzare e reinterpetare aspetti della vita quotidiana in maniera
più corretta, tramite l’ausilio di linee teoriche e pensatori di rilievo. Il tema di fondo di
questo lavoro non è circoscrivibile al potere od al rapporto potere-sapere, o agli effetti
dei mezzi di comunicazione o della razionalità tecnico-economica che permea le nostre
vite; è sulla libertà in senso lato, ampio, che ci si interroga, sul nostro libero arbitrio di
soggetti pensanti e quindi autonomi. Ciò detto, un filo conduttore per tutto il percorso è
stato Michel Foucault, perché il suo pensiero ha consentito di mettere a nudo le trame
oscure che relegano l’individuo a mero oggetto precostituito. Così, nel primo capitolo,
dopo aver introdotto l’approccio foucaultiano, il suo modus operandi, si illustra il
concetto di potere per l’autore francese, un’analitica del potere che permette di
distaccarsi dal modello del Leviatano, un modello che fabbrica a priori l’individuo ed il
potere che egli deterrebbe, per passare ad un’analisi che tenga conto della fitta rete in
3

Ivi, p.228.

Ibidem.
cui il potere non si cede, ma scorre, da un individuo all’altro, da un’istituzione ad
un’altra, modellando i vari punti di contatto in base ad esso. Quando si parla di potere in
Foucault, si parla anche di sapere, dei sistemi di sapere che circolano e che non sono
mai in posizione di esteriorità rispetto al potere, ma che si modellano a vicenda; ciò
detto è di fondamentale importanza il tema della verità, che sarà sottoposta ad una lotta
per la sua conquista tra vari apparati di potere. In tal modo si passa dal modello
giuridico e della sovranità del Leviatano al modello strategico, per poi sovvertire anche
la tesi di Clausewitz, affermando che la politica è la guerra continuata con altri mezzi, in
quanto il tempo della pace altro non è che il riflettersi degli squilibri affermatisi in
tempo di guerra; non esistono soggetti neutrali. Nella ricerca di un potere nuovo,
Foucault identifica le radici nel potere pastorale, pratica di potere peculiare della Chiesa
cristiana che aspira al governo delle condotte e che sarà il preludio verso la costituzione
del soggetto occidentale moderno, assoggettato da reti ininterrotte di obbedienza e verità
imposte. Da questa matrice storica, attorno al XVII secolo, si sviluppano due tecnologie
di potere che diverranno la base per una specifica razionalità di governo degli uomini, le
discipline, che permettono di assoggettare nello spazio e nel tempo il corpo di un
individuo, ed i dispositivi di sicurezza, che mirano a regolare le attività della
popolazione nell’insieme, servendosi di scienze nuove come la statistica e la biologia.
Grazie alla ricostruzione di queste due distinte tecnologie, che operano in simbiosi
seppur non nate contemporaneamente, Foucault ricostruisce un nuovo tipo di economia
e razionalità del potere, il biopotere, il potere sulla vita, una serie di fenomeni e
meccanismi grazie ai quali i tratti biologici diventano oggetto della politica, della
biopolitica. L’ultimo passo nell’evoluzione foucaultiana del (bio)potere si compie infine
quando l’economia politica entra ed anzi s’impossessa della razionalità di governo, della
gestione delle condotte degli uomini; ciò che è buono e giusto sarà dato dal mercato,
fonte di veridizione, e tutti gli altri apparati, a partire dal giuridico, serviranno da
cornice per il corretto funzionamento di principi come il laissez faire, con l’individuo
considerato mero prodotto biologico che esprime opportunità di valorizzazione e
cooperazione per un fine economico d’insieme; individualità e popolazione governate
quindi da specifiche razionalità e tecnologie di potere che creano soggettività.
Nel secondo capitolo, strettamente collegato al precedente, si è invece voluto descrivere
come la società attuale sia attraversata anche dalla razionalità tecnica, se non addirittura
preminentemente da essa; difatti la si può considerare più predominante della stessa
razionalità economica, in quanto quest’ultima “soffre ancora della passione umana, la
passione per il denaro”5. Questo tipo di razionalità consiste nella correlazione mezzo-
scopo, quella che viene denominata ragione strumentale – che consiste nell’utilizzo del
minor numero di mezzi per il raggiungimento del massimo degli scopi – ed oggi è
divenuta la forma mentis portando l’individuo e la collettività a non capire ed a non
domandarsi più cosa sia il bello, il buono, il sacro, ma a valutare solo in termini di
efficacia ed utilità. In tal modo, si assiste ad un cambiamento del modo di pensare, un
aumento quantitativo difatti induce ad un cambiamento qualitativo, “se ad esempio ci
strappiamo prima un capello, poi un secondo poi un terzo, alla fine ci ritroveremmo
senza, cambiando qualitativamente la situazione”6. Inoltre, si constata un’altra grande
trasformazione, la tecnica passa da mezzo a fine, in quanto se essa è condizione
universale per realizzare qualsiasi scopo, bisogno o bene, allora è già divenuta fine; ciò
si può constatare facilmente se spostiamo l’attenzione al dove del livello decisionale:
mentre nelle epoche pre-tecnologiche era la politica ad essere considerata la tecnica
regia grazie alla quale decidere se e come fare una cosa, oggi la politica guarda
all’economia ma non solo, la stessa economia nel decidere se fare o meno investimenti
guarda alle risorse tecnologiche, ed allora il processo decisionale si sposta dalla politica
all’economia, dall’economia alla tecnica; “quando diciamo che l’Italia può salvarsi dalla
concorrenza cinese solo investendo in ricerca, sviluppo e tecnologia, stiamo affermando
che è lì che si decidono le cose”7. O ancora la tecnica sta incidendo sul modus operandi
stesso della democrazia, in quanto tutti i giorni ci troviamo di fronte a processi di cui
ignoriamo i funzionamenti e questo porta a decidere non più sulla base di un sapere, del
sapere un funzionamento, un meccanismo, ma in base ad altre qualità quali la
persuasione e la retorica, permettendo l’entrata in gioco del mondo mediatico con le sue
distorsioni ed i suoi condizionamenti; il gioco è fatto, completo, la tecnica diviene
inarrestabile ed autoreferenziale. Il capitolo si chiude infine con una breve descrizione
della c.d. medicalizzazione della vita, quel processo con cui lo stato cerca di
appropriarsi dell’ambito della salute in modo se vogliamo totalitario, in quanto grazie a
determinate politiche ed operazioni di conquista dell’immaginario collettivo, cerca di

U. Galimberti, Dove andiamo?, in www.youtube.come/watch?v=4z_wXuIS4-g

Ibidem.

Ibidem.
caricare l’individuo della responsabilità di badare alla propria salute in ogni attimo del
quotidiano, stimolandolo ad attuare corretti stili di vita ed immettendo così un’ulteriore
razionalità.
Nel terzo ed ultimo capitolo, dopo una visione delle più influenti linee teoriche
sociologiche sul controllo sociale, si descrivono gli sviluppi delle tecnologie di controllo
assumendo come base l’idea benthamiana del Panopticon, analizzato
approfonditamente ancora da Foucault; questa, che all’inizio per lo stesso Bentham
doveva essere considerata una mera organizzazione architettonica per gestire al meglio
la sorveglianza nelle prigioni, in seguito viene applicata come una tecnologia politica
generale per imporre una determinata condotta: lo schema panottico dove tutti sono
guardati ed in cui il solo sguardo, la sola idea dello sguardo, interiorizzerà la
sorveglianza migliorando le microeconomie del controllo. Grazie alle esposizioni di
Deleuze, Lyon, G. Marx e Clarke si descrivono le estensioni del modello panottico
favorite dallo sviluppo delle nuove tecnologie informative, che permettono un controllo
molto più esteso e veloce, fino ad arrivare a quella che Lyon chiama simulazione, ossia
l’elaborazione dei dati che si ottengono finalizzata all’anticipazione del comportamento
del soggetto nel futuro; il problema, filosofico e non solo, è nel sapere e capire se ciò
permetterà solo di prevedere il comportamento umano oppure aggiustarlo in itinere.

Capitolo I: Il biopotere in Michel Foucault


Fedor Michajlovi Jean-François Brient, Sulla servitù moderna
Dostoevskij, Il grande inquisitore “La servitù moderna è una servitù volontaria,
“Noi abbiamo rettificato la tua opera e l’abbiamo consentita dalla massa degli schiavi che strisciano
fondata sul miracolo, il mistero e l’autorità. E gli sulla superficie terrestre. Comprano liberamente tutti
uomini si sono rallegrati di essere guidati come un i prodotti che li asservono ogni giorno di più. Si
gregge. […] Noi dimostreremo che sono deboli, che aggrappano spontaneamente ad un lavoro sempre
sono soltanto dei poveri bambini, ma che la loro più alienante, generosamente concesso soltanto se
felicità infantile è la più dolce di tutte. Essi fanno i bravi. Scelgono loro stessi i padroni che
diverranno timidi, ci seguiranno con gli occhi e si dovranno servire. Perché questa assurda  tragedia sia
stringeranno intorno a noi, come pulcini alla potuta accadere, prima di tutto è stato necessario
chioccia. […] Sì, noi li costringeremo a lavorare, ma sottrarre ai membri di questa classe ogni
nelle ore di riposo noi organizzeremo la loro vita consapevolezza del proprio sfruttamento e della
come un gioco di bimbi, con canzoncine, cori, danze propria alienazione. Questa è la strana modernità
innocenti. Oh, noi permetteremo persino che essi della nostra epoca. Contrariamente agli schiavi
commettano peccato – sono creature così deboli e dell’antichità, ai servi del Medioevo o agli operai
fragili – ed essi ci ameranno come bambini per il delle prime rivoluzioni industriali, oggi siamo di
fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi fronte ad una classe totalmente asservita ma che non
diremo loro che qualsiasi peccato sarà espiato a sa di esserlo, anzi, che non vuole saperlo. Ignorano
patto che venga compiuto con il nostro permesso… quindi la ribellione, che dovrebbe essere l’unica
E non avranno nessun segreto per noi. […] Anche i reazione legittima degli oppressi. Accettano senza
segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto essi fiatare la vita pietosa che è stata decisa per loro. La
ci riferiranno e noi troveremo una soluzione per tutto rinuncia e la rassegnazione sono le cause della loro
e loro confideranno nella nostra soluzione con gioia, disgrazia. Questo è il brutto sogno degli schiavi
poiché essa libererà loro dal grande assillo e dalle moderni che non chiedono, in definitiva, che di
tremende pene che adesso patiscono per giungere ad lasciarsi andare nella danza macabra del sistema
una decisione libera, personale.” dell’alienazione.”

I.1 Il modus operandi


In questo capitolo si cercherà di rintracciare tratti comuni, periodizzazioni, un sapere
concettuale in qualche modo organico, che rispecchi o quantomeno provi a rispecchiare
l’evoluzione del pensiero dello studioso Michel Foucault per ciò che concerne la nozione di
potere. Per questo sono d’obbligo alcune brevi premesse – che potremmo chiamare
“l’approccio alla genealogia del potere di Foucault” - che ci fanno capire la difficoltà di
suddetto intento e che ci proiettano subito nel complesso ed innovativo modo di operare del
filosofo francese; e queste stesse premesse ci indicano come nell’impostazione di questo
capitolo non si è operato nella maniera più foucaultiana possibile.
Innanzitutto è lui stesso che rifiuta, nell’ambito dell’analisi del potere, una sistematizzazione o
un paradigma del potere, per svincolarla da qualsiasi propria convinzione politica: “È questa la
ragione per cui io non cerco di descrivere un paradigma del potere. Ciò che mi piacerebbe è
indicare il modo in cui differenti meccanismi di potere funzionano nella nostra società […] in
che modo i nostri corpi, le nostre condotte quotidiane […] i nostri discorsi scientifici e teorici si
legano a diversi sistemi di potere, che sono essi stessi legati fra loro” 8; ma “ci sono dei
concetti, come l'ideologia, che funzionano da schermo a tutto ciò”9.
In secondo luogo rifiuta epistemologicamente un approccio unitario, totale, globale:
Le domande che tento di porre non sono determinate da una posizione politica
precostituita, né tendono alla realizzazione di un progetto politico definito. È senza
dubbio questo che si vuole dire quando mi si rimprovera di non proporre una teoria
complessiva. […] Al contrario, io cerco, al di là di qualsiasi totalizzazione – che sarebbe
al tempo stesso astratta e limitativa – di aprire dei problemi quanto più concreti e
generali […] che attraversano diagonalmente la nostra società […] bisognerebbe cercare
di porre questi problemi come questioni di attualità e di storia, come problemi morali,
epistemologici e politici10.

Allo stesso modo rifiuta, anzi stravolge, anche un approccio da lui stesso definito “storicista”;
non parte dagli universali per vedere in che modo la storia li moduli, bensì opera in maniera del
tutto opposta: “Io parto da una decisione, al tempo stesso teorica e metodologica, che consiste
nel dire: supponiamo che gli universali non esistano […] è possibile scrivere la storia senza
ammettere a priori che esistano cose quali lo stato, la società, il sovrano, i sudditi […] 11,” per
esaminare poi se la storia ci rimanda realmente quegli aspetti che prende come universali.
Secondo il pensiero del filosofo francese meglio affidarsi alla genealogia, intesa però come una
“forma di storia che renda conto della costituzione dei saperi, dei discorsi, dei campi di oggetti,
senza aver bisogno di riferirsi ad un soggetto o a dei valori trascendenti rispetto al campo di
avvenimenti che ricoprono”12.
Il suo approccio è da lui stesso definito “archeologia” non nel senso della riscoperta di fatti
dimenticati, bensì nell’intenzione di voler considerare i fatti storici nella loro singolarità di

Michel Foucault, Dialogo sul potere, in Biopolitica e liberalismo, detti e scritti su potere ed etica, 1975-
1984, traduzione e cura di Ottavio Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 50.

Michel Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, raccolta a cura di A. Fontana e P. Pasquino,
Einaudi, Torino, 1977, pp. 12-13.

10

Michel Foucault, Politica ed etica, in Biopolitica e liberalismo, detti e scritti su poteri ed etica, cit., pp.
197-198.

11

Michel Foucault, Nascita della biopolitica, Corso al Collége de France (1978-1979), Feltrinelli, 2004, p.
15.

12

Michel Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, cit., p. 11.


eventi13, rinunciando cioè a collocarli secondo una scansione ordinata ma fittizia. L’archeologo
non si occuperà di fare una storia delle idee o dei saperi, ma studierà piuttosto le condizioni di
insorgenza, le regole di formazione dei discorsi; “a quali condizioni alcuni discorsi diventano
“scientifici”? A quali condizioni dei saperi affermano la loro positività pur non essendo
scientifici? Queste sono le domande a cui si deve rispondere in quest’ottica” 14. Quindi il potere
come esercizio delle e sulle pratiche sociali, il potere in un approccio locale o meglio,
nell’opposizione tra locale e globale15, tra singolare e universale16, in cui s’assiste ad un
implicito rifiuto nei confronti delle organizzazioni teorico-sistematiche del sapere e delle loro
pretese di universalità; un tipo di analisi che non vede il discorso al di fuori del potere, ma che
vede quest’ultimo operare attraverso il discorso poiché è esso stesso un elemento di un
dispositivo strategico di relazioni di potere17; in questo senso l’essenziale non è tanto sapere se
si formulano divieti o autorizzazioni, se se ne afferma l’importanza o se ne negano gli effetti,
ma prendere in considerazione il fatto stesso che se ne parla, chi ne parla, i luoghi ed i punti di
vista da cui se ne parla, le istituzioni che ne incitano a parlarne, che accumulano, diffondono,
gerarchizzano, istituzionalizzano quel che se ne dice, ossia “il fatto discorsivo” globale 18. “Non
va nemmeno fatta una distinzione binaria fra ciò che si dice e ciò che non si dice, ma le diverse
maniere di non dire, come si distribuiscono quelli che possono e quelli che non possono

13

Per “evento” Foucault intende “la funzione assegnata al fatto che quella cosa è stata detta in quel
momento” in Michel Foucault, Dialogo sul potere, cit. p. 46.

14

Michel Foucault, Dialogo sul potere, cit., pp. 48-49.

15

Sulla “contrapposizione” locale/globale, specifico/generico, P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia, Ombre


corte edizioni, Verona 1999, pp.70-84 “[…] egli sin da subito contrapponeva al riassorbimento del locale nel
globale,, una necessità di articolare criticamente lo specifico e il generale o, se si preferisce, il micro e il macro-
politico” e Michel Foucault, Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, 2009, pp.
15-19.

16

Ottavio Marzocca, Introduzione, in Biopolitica e liberalismo, detti e scritti su potere ed etica cit., pp. 9-
10.

17

Michel Foucault, dialogo sul potere, cit., pp.43-44.

18

Michel Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità, a cura di P. Pasquino e G. Procacci,
Feltrinelli, Milano 2008, p. 16.
parlarne, quale tipo di discorso è autorizzato […] ci sono più tipi di silenzio, ed essi fanno
parte integrante delle strategie che sottendono ed attraversano i discorsi”19.
Un lavoro che si distacca dalle grandi ricostruzioni teoriche, poiché non mira né al
riconoscimento di un sistema logico né alla denuncia di uno schema ideologico, la razionalità
politica da individuare è qualcosa di “tecnico”, un qualcosa che opera in forme concrete,
specifiche, e che assume una sua generalità solo in un’effettiva ricorrenza storica 20; è una
“politica della verità21”; come è anche un lavoro – e lo vedremo più avanti - che nella ricerca
del suo scopo, oltre a distaccarsene nel metodo, prenderà le distanze dai sistemi classici
d’analisi - gli approcci “giuridico-economici”22 - anche nel merito, usandole spesso come
metro di comparazione .
Non bastasse, da menzionare le crisi23 dovute al suo estro, la disciplina ferrea con cui si
interrogava sui suoi stessi scritti24 e con cui cercava nuovi sbocchi verso il suo compito di
svelare il funzionamento del potere nelle società occidentali, cosa che lo tormentava non poco.
Tutto ciò per spiegare come l’approccio di Foucault sia disorganico, locale, contestuale al suo
oggetto di ricerca – che sia il contesto psichiatrico o della sessualità -, ricco di continue
ridefinizioni e stravolgimenti, ma che, allo stesso tempo segua un comune filo conduttore, ossia
smascherare i sistemi di dominio che oggettivizzano e dominano la vita di milioni di persone in
occidente, sistemi invisibili o quantomeno nascosti ai più.

19

Ivi, p. 28.

20

Ottavio Marzocca, Introduzione, in Biopolitica e liberalismo, detti e scritti su potere ed etica, cit., p. 17.

21

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), a cura di F.
Ewald e A. Fontana, Feltrinelli, p. 14. “[…] non è né storia, né sociologia, né economia […] qualcosa vicino alla
filosofia, cioè alla politica della verità […] non vedo altre definizioni della parola filosofia se non questa”.

22

Michel Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, cit. p. 11 o ancora Michel Foucault,
Biopolitica e liberalismo, detti e scritti su potere ed etica, cit. p. 10.

23

Gilles Deleuze, Pourparler, 1972-1990, traduzione di Stefano Verdicchio, Quodlibet, pp. 127-132 “Non
c’è grande pensatore che non attraversi delle crisi. Esse scandiscono le fasi del suo pensiero. […] il suo pensiero
ha avuto sì una crisi, ma era una crisi creatrice” .

24

M. Bertani e A. Fontana in, Nascita della biopolitica, nota dei curatori, p. 238: “Foucault non ha mai
smesso di rileggere i suoi precedenti lavori alla luce degli ultimi, in una sorta di incessante riattualizzazione”.
Se quanto detto finora, si può definire come l’approccio del pensiero foucaultiano al potere,
tenteremo ora di definire le proprietà di quest’ultimo.

I.2 L’analitica del potere-sapere


Come accennato in precedenza, Foucault criticava lo schema generale che faceva funzionare le
concezioni e le organizzazioni politiche dominanti – liberalismo e marxismo – per via della
loro comune matrice economicistica e per il fatto che questi, per via dei loro schematismo
teorici, trovavano facile convergenza nell’aderire alla concezione giuridica del potere. Questa si
prospettava come “un’idea che si esercita in un modo giuridico-negativo, ossia come potenza
del no, atto solo a interdire, a porre limiti” 25. In altre parole si tratta di superare un modello
centrato sul principio di sovranità, sull’enunciato della legge e sul funzionamento del divieto,
una teoria che vede il potere come un diritto di cui si sarebbe possessori alla maniera di un bene
e che si potrebbe quindi trasferire o alienare attraverso un atto giuridico, come nel contratto:
“un potere concreto che ogni individuo deterrebbe e cederebbe per formare una sovranità
politica”26. Sullo sfondo di un sistema di diritto, inteso non come mera legge, bensì come
insieme di apparati, istituzioni, regolamenti che applicano il diritto, che trasmette e mette in
opera rapporti non di sovranità ma di dominazione, intesi non come una dominazione unitaria e
globale, ma come le molteplici forme di dominazione all’interno di una società, tra soggetti
nelle relazioni reciproche27. Dalla sovranità alla dominazione, dall’obbedienza
all’assoggettamento. Cercando così di mettere in cortocircuito l’analisi giuridica, Foucault stila
delle “precauzioni di metodo” 28:
 Una visione che non parta dal centro – a partire cioè da quelli che possono essere i suoi
meccanismi generali e i suoi effetti di insieme – ma che colga il potere alle sue estremità,
dove è capillare, dove si estende in istituzioni e tecniche minuziose;

25

Vincenzo Sorrentino, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi editore, Roma, 2008, p. 63-64.

26

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit. p. 21.

27

Michel Foucault, Ivi, p. 31.

28

Michel Foucault, Ivi, pp. 31-42.


 Un’analisi che non parta dall’interno, dall’anima centrale – ciò che Hobbes fa nel
Leviatano29, dove l’uomo è fabbricato, il Leviatano altro non è che l’insieme di
individualità separate costituite su di un centro prestabilito, la sovranità – ma che indaghi la
sua faccia esterna, il suo campo di applicazione, il livello della procedura
d’assoggettamento;
 Che non si consideri il potere come un qualcosa di compatto ed omogeneo, qualcosa che si
detiene come proprietà esclusiva – dominazione di un individuo sugli altri, di una classe
sulle altre – ma come qualcosa che circola e funziona tramite un apparato reticolare, nel
quale esso non si applica agli individui ma transita attraverso essi; l’individuo non è figura
inerte che beneficia o subisce il potere, è al tempo stesso effetto e raccordo;
 Che si faccia un’analisi ascendente del potere, partendo dai meccanismi infinitesimali e
vedere come questi meccanismi di potere vengano catturati, trasformati, estesi da
meccanismi sempre più generali;
 Che si rifiuti, o quantomeno si guardi con sospetto il concetto di ideologia, perché quel che
si forma alla base, nei punti terminali dei reticoli dei poteri, sono più degli strumenti
effettivi di formazioni e di accumulazione di sapere, metodi di osservazione, tecniche di
registrazione, procedure di indagine e di ricerca, degli apparati di verifica; il potere si
esercita formando e organizzando apparati di sapere che non sono semplici ideologie.
Ci si sbarazza quindi del Leviatano, dell’uomo artificiale, automa, costruito ed unitario, che
avvolgerebbe tutti gli individui reali e di cui i cittadini ne sarebbero il corpo e la sovranità
l’anima. Si vanno a guardare gli operatori materiali, le forme di assoggettamento, le onnessioni
dei sistemi locali e i dispositivi di sapere; “ces quatre exigences se rassemblent en définitive
sous la proposition foucaldienne d’une géneéalogie”30.
Se questa disamina ha avuto come funzione quella di orientare per capire con che schemi
razionali Focuault sottoponga al vaglio il concetto di potere, questa definizione osserva:
“Con il termine potere mi sembra che si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei
rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro
organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti li trasforma, li rafforza,
li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da
formare una catena o un sistema, o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li

29

30

F. Caeymaex, Le concept de biopol itique est-il un concept critique?, in Medicalizzazione, sorveglianza e


biopolitica, a partire da Michel Foucault, a cura di Natascia Mattucci e Gianluca Vagnarelli, p. 27.
isolano gli uni dagli altri; le strategie infine in cui realizzano i loro effetti, ed il cui
disegno generale o la cui cristallizzazione istituzionale prendono corpo negli apparati
statali, nella formulazione della legge, nelle egemonie sociali”31.

Il potere è locale, discendente, mobile, molteplice, fluido; il potere è onnipresente, non perché
raggruppa tutto sotto la sua invincibile unità, ma perché si produce in ogni istante, in ogni
punto, o piuttosto in ogni relazione fra un punto ed un altro; il potere è dappertutto, non perché
inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove; e “il” potere, in quel che ha di permanente. Di
ripetitivo, di inerte, di autoriproduttore, non è che l’effetto d’insieme che viene a crearsi da tutte
queste mobilità32. Il potere non è una struttura, o un’istituzione, e nemmeno una potenza che
qualcuno deterrebbe, occorre essere nominalisti, è “il nome che si dà ad una situazione
strategica complessa in una società data33”, “par là neutraliser les universaux de l’analyse
sociologique, historique ou philosophique – tels l’Etat, le Peuple, la Sociéteé civile, le Sujet de
droits ou autres -, pour partire des pratiques concrétes et examiner les manierés dont celles-ci se
rationalisent34”.
Su questa linea si possono avanzare alcune proposizioni35:
 Il potere non è qualcosa che si acquista, strappa o condivide, il potere si esercita a partire da
innumerevoli punti, e nel gioco di relazioni disuguali e mobili;
 Le relazioni di potere non sono esteriori ad altri tipi di rapporti – processi economici,
rapporti di conoscenza, relazioni sessuali – ma sono immanenti a questi; sono gli effetti
immediati delle divisioni, delle ineguaglianze e dei disequilibri che vi si producono, e sono
reciprocamente le condizioni interne di queste differenziazioni; le relazioni di potere non
sono in posizioni di sovrastruttura bensì hanno un ruolo direttamente produttivo;
 Il potere viene dal basso, non c’è all’origine delle relazioni di potere, e come matrice
generale, un’opposizione binaria dominanti/dominati ripercuotendosi dall’alto fino a gruppi

31

Michel Foucault, La volontà di sapere, cit. p. 82.

32

Ibidem.

33

Ivi, p.83.

34

F. Caeymaex, Le concept de biopol itique est-il un concept critique?, cit. p.27.

35

Michel Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 82-85.


sempre più ristretti e profondi nel campo sociale, ma questi rapporti – familiari,
istituzionali, ecc. – servono da supporto a divisioni più ampie, collegando, redistribuendo,
omogeneizzando, in un continuo e incessante feedback;
 Le relazioni di potere sono sia intenzionali sia non soggettive, nel senso che sono
attraversate da un calcolo – non c’è potere esercitato senza un obiettivo -, ma questo calcolo
è sotteso, nascosto, è dotato di una razionalità implicita;
 Se c’è potere, c’è resistenza, ed essa stessa non è mai in posizione d’esteriorità al potere; si
può essere bersaglio o avversario, ma questi punti di resistenza sono al massimo una
sporgenza, un appiglio dentro alla morsa del potere.
Come già accennato inoltre, nel potere è in gioco anche il sapere, in una continua ed incessante
relazione che ridefinisce, costituisce, potenzia il potere stesso; per ciò si può delineare un’altra
serie di proposizioni36:
 Regola d’imminenza. Fra tecniche di sapere e strategie di potere non v’è nessuna
esteriorità, anche se hanno ciascuna il loro ruolo specifico e si articolano l’una con l’altra a
partire dalla loro differenza; il punto di partenza sarà dunque quel che potremmo chiamare i
“centri locali” di potere-sapere – come nella direzione di coscienza tra fedele e confessore
gli interrogatori, le confessioni, le interpretazioni ecc. costituiscono forme di
assoggettamento e schemi di conoscenza -.
 Regola delle variazioni continue. Le distribuzioni di potere o le appropriazioni di sapere
sono dei tagli istantanei su processi di rafforzamento continuativo dell’elemento più forte o
d’inversione del rapporto o di crescita simultanea dei due termini; le relazioni potere-sapere
non sono forme determinate di ripartizione bensì “matrici di trasformazione”.
 Regola del doppio condizionamento. Nessun “centro locale” potrebbe funzionare se non
s’iscrivesse in una strategia d’insieme, e viceversa, nessuna strategia potrebbe assicurare
effetti globali se non poggiasse su relazioni precise e sottili che le servono da supporto; ma
tra questi due livelli non c’è nessuna discontinuità – non c’è un macroscopico ed un
microscopico – né omogeneità – come se l’uno fosse solo la proiezione ingrandita dell’altro
e viceversa – ma doppio condizionamento tra strategia e tattica in una visione d’insieme;
 Regola della polivalenza tattica dei discorsi. Non c’è binarietà tra discorso approvato e
discorso rifiutato, tra discorso dominante e dominato, ma qualcosa come una molteplicità di
elementi discorsivi che possono entrare in gioco in situazioni diverse; il discorso trasmette e

36

Ivi, pp. 87-91.


produce potere, lo rafforza ma lo mina anche, l’espone e lo rende fragile; i discorsi sono
elementi tattici nel campo dei rapporti di forza, bisogna interrogarli su quali effetti reciproci
di potere e sapere garantiscono e quali rapporti di forza rendono necessari.
Si passa cioè dal modello del diritto al modello strategico: al privilegio della legge si sostituisce
l’obiettivo, al divieto l’efficacia tattica, alla sovranità un campo multiforme e mobile di rapporti
di forza in cui si producono effetti di dominio complessivi ma mai stabili. Questo spostamento
avviene non per una preferenza teorica ma perché effettivamente uno dei caratteri fondamentali
delle società occidentali è che i rapporti di forza, che per molto tempo trovavano nella guerra la
loro espressione principale, hanno investito a poco a poco il campo politico.
In questa cornice del potere, che si forma grazie ad una strettissima correlazione con le forme
di sapere, è di fondamentale importanza, per Michel Focuault, il tema della verità. La verità
anch’essa non è al di fuori del potere né senza potere, “la verità è di questo mondo” 37 ed è
prodotta dall’uomo. Ogni società ha il suo regime di verità, la sua politica generale: ossia i tipi
di discorsi che accoglie e fa funzionare come veri, i meccanismi e le istanze che permettono di
distinguere gli enunciati veri o falsi, il modo in cui si sanzionano gli uni e gli altri, le tecniche
ed i procedimenti che sono valorizzati per arrivare ad una verità, lo statuto di coloro che
l’hanno incaricato di designare quel che funziona come vero. Questa economia politica della
verità è caratterizzata da cinque punti importanti38:
 La verità è centrata sulla forma del discorso scientifico e sulle istituzioni che lo producono;
 Si sottomette ad una costante sollecitazione economica e politica;
 Sotto forme diverse, è oggetto d’una diffusione e d’un consumo spropositato, circolando in
apparati educativi e d’informazione;
 Viene prodotta sotto il controllo dominante di pochi grandi apparati politici ed economici
come università, stampa e mass media.
Chiaro quindi che c’è una lotta per la verità in quanto potere, o almeno intorno alla verità ed al
ruolo politico-economico che gioca, una verità intesa come “l’insieme delle regole secondo le

37

Michel Foucault, Microfisica del potere: interventi politici, cit. p. 25.

38

Ibidem.
quali si separa il vero dal falso degli effetti specifici di potere” 39. Anche in questo caso Foucault
avanza delle proposizioni in merito40:
 Per verità intendere l’insieme dei procedimenti regolamentati per la produzione, la legge, la
messa in circolazione ed il funzionamento degli enunciati;
 La verità è legata circolarmente a sistemi di potere che la producono e la sostengono, e ad
effetti di potere ch’essa induce e che la riproducono – il regime della verità -;
 Questo regime non è sovrastrutturale o ideologico, ma costitutivo di tutte le realtà sociali,
capitalistiche o meno;
 L’intento è quello di staccare il potere della verità dalle forme di egemonia all’interno delle
quali funziona.
La verità quindi, e su questo Foucault si avvicina e riprende Nietzsche 41 - secondo cui la verità
è un qualcosa di derivato, di arbitrario e sostanzialmente falso42 -, è la questione politica
principe, anzi, la sola in gioco.
Proprio con Nietzsche43 ci sono vari punti di contatto, ed un altro, accennato poco fa, ci
permette di chiudere il discorso su ciò che può essere definito l’approccio foucaultiano al
potere e le proprietà che questo detiene; si parla cioè del potere come “guerra sociale”, guerra
che passa dal confine militare a quello politico. “Se il potere in se stesso, è la messa in atto e il
dispiegamento di un rapporto di forza, non dovrebbe forse essere analizzato innanzitutto in
termini di lotta, di scontro e di guerra, invece che in termini di cessione, contratto, alienazione,
o in termini funzionali di mantenimento dei rapporti di produzione?”.44 Si assiste, così

39

Ivi, p. 26.

40

Ibidem.

41

“[…] Che cosa è allora la verità? Un esercito in movimento di metafore, metonimie, antropomorfismi, in
breve, una somma di relazioni umane, che sono state poeticamente e retoricamente ingigantite, trasposte,
ingioiellite, imbellettate, e che, per essere state usate a lungo, appaiono ad un popolo salde, canoniche e vincolanti:
le verità sono illusioni di cui si è dimenticato che sono tali”, Friedrich Nietzsche, Verità e Menzogna in senso
extramorale, traduzione italiana di G. Colli, OFN, p. 361.

42

Cristian Fuschetto, La verità in Nietzsche, http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/fuschetto-2.htm

43

Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere: interventi politici, cit.,pp. 47-54; Foucault
riprende Nietzsche, in cui la guerra si identifica con la molteplicità dei conflitti tra forze; lo stesso Foucualt, in
Bisogna difendere la società, la definisce come “ipotesi Nietzsche”.

44
ragionando, al rovesciamento della tesi di Clausewitz45, secondo la quale “la guerra non è che la
continuazione della politica con altri mezzi”46, per arrivare alla tesi per cui “la politica è la
guerra continuata con altri mezzi”47. Se è vero che il potere politico arresta la guerra, non è
affatto per neutralizzare lo squilibrio che si è manifestato nella battaglia finale, ma per
reiscrivere perpetuamente, attraverso una guerra silenziosa, il rapporto di forze nelle istituzioni,
nelle disuguaglianze economiche, nel linguaggio, fino nei corpi degli individui 48. La guerra non
è mai scongiurata perché ha presieduto alla nascita degli stati, avvenuta col sangue e le
battaglie, la legge nasce da città incendiate, per cui cristallizza ingiustizia, disuguaglianza; la
guerra è la stessa cifra della pace, ponendoci continuamente e ininterrottamente l’uno contro
l’altro: “non esiste un soggetto neutrale, siamo necessariamente l’avversario di qualcuno” 49.
Sotto questo punto di vista la verità può essere introdotta solo che si cambi punto di vista, si
guardi alle lotte, si guardi “dal punto di vista degli oppressi”50.
La visione foucaultiana di potere, come annunciato e visto, è innovativa e ricca di rotture con le
visioni classiche, ma non si è fermata ad una semplice discontinuità, si è spostata più avanti,
fino ad arrivare al biopotere.

I.3 Le radici storiche del biopotere


Il biopotere spesso citato e ancora non descritto, può anche essere avvicinato facendo venire
prima a galla il concetto di governamentalità in Foucault; “con la parola governamentalità
intendo tre cose. Primo, l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit.,p. 22.

45

Carl von Clausewitz, Della guerra, a cura di Giacinto Cardona, Rizzoli, 2009, Milano, pp. 29-31.
Chiarificatrice, in rapporto al nostro lavoro, la definizione che Clausewitz dà della guerra a p. 7: “La guerra è
dunque un atto di forza per ridurre l’avversario al nostro volere”.

46

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 22.

47

Ivi, p. 23.

48

Ivi, p. 49.

49

Ibidem.

50

Ivi, pp. 55-56.


che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella
popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere e nei
dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale. Secondo, per governamentalità intendo
la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare
la preminenza di questo tipo di potere che chiamiamo “governo” su tutti gli altri – sovranità,
disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato, di una serie di apparati specifici di governo,
e, dall’altro, di una serie di saperi. Infine, per governamentalità bisognerebbe intendere il
processo, o piuttosto il risultato del processo, mediante il quale lo stato di giustizia del
Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato
gradualmente “governamentalizzato”. 51
La matrice storica52 di questa razionalità, è rintracciabile, secondo l’autore francese, nel c.d.
potere pastorale. Questo proviene dall’organizzazione gerarchica delle comunità cristiane e nel
rapporto di obbedienza che vi si instaura tra le “pecore” e i “pastori”, specialmente attraverso le
pratiche della confessione e della direzione di coscienza; in poche parole tecnica di potere
orientata verso gli individui e destinata a guidarli in modo continuo e permanente 53. Seppur
trovasse anche nelle comunità orientali e giudaiche delle tracce all’approccio pastorale 54, come
detto, è nell’elaborazione teorica cristiana che ne vede propriamente le basi e le caratteristiche
peculiari55:
 La responsabilità del pastore. Egli deve assumersi la responsabilità del destino del gregge
nella sua totalità e di ogni pecora in particolare, di tutte le loro azioni, di tutto ciò che
accade loro; c’è uno scambio e una circolazione complessa di meriti e peccati, con il

51

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 88.

52

Ivi, p. 98. Ne delinea una storia in tre grandi vettori: la pastorale cristiana - cioè il modello antico -, il
nuovo regime delle relazioni diplomatico-militari – cioè le strutture di appoggio -, e il problema della polizia
interna – cioè il supporto interno -.

53

Michel Foucault, Omnes et singulatim, in Biopolitica e liberalismo: detti e scritti su poteri ed etica, cit.,
p. 111.

54

Ivi, pp. 112-116. Foucault cita alcuni passi egizi: “O Ra che vegli quando tutti gli uomini dormono, Tu
che cerchi ciò che è buono per il tuo armento..” ; o ancora: “Insigne compagno di pastura, Tu che ti prendi cura
della tua terra e la nutri, pastore di abbondanza..”.

55

Ivi, pp. 122-129.


peccato della pecora imputabile anche al pastore e con quest’ultimo che per la salvezza
deve ottenere la salvezza degli individui; ci sono quindi forti e complessi legami morali;
 L’obbedienza. C’è un legame individuale, di sottomissione personale al pastore;
l’obbedienza è una virtù in sé, un fine in sé, uno stato permanente che permetterà la
salvezza;
 La conoscenza del gregge. Il pastore deve conoscere ciascuna delle sue pecore, informato
dei bisogni materiali, di ciò che fanno e di ciò che accade nella loro anima. Per accaparrarsi
questa conoscenza il Cristianesimo si appropriò di due strumenti: la direzione di coscienza,
per dirigere in ogni istante l’individuo – essere guidati era una condizione per la salvezza,
chi tentava di fuggirvi era perduto - , e l’esame di coscienza, per permettere ad essa di
aprirsi completamente al proprio direttore;
 La mortificazione. Tutte queste tecniche di obbedienza, di direzione, hanno lo scopo di
portare l’individuo alla rinuncia di questo mondo e di se stessi, una morte che possa dare la
vita nell’altro mondo.
Ad essere precisi il pastorato, come specifica tipologia di potere sugli uomini, comincia non
tanto col Cristianesimo, ma grazie alla Chiesa, un’istituzione cioè che aspira al governo degli
uomini nella loro vita quotidiana, col pretesto di condurli alla vita eterna e rivolgendosi
all’umanità intera56; un’immensa rete istituzionale che non troviamo in nessun’altra parte,
densa, complicata, fitta, che ha dato luogo a un’arte del condurre, del dirigere,
dell’accompagnare, del prendere per mano, del manipolare gli uomini individualmente e
collettivamente che è la base del “governo degli uomini”57 . In linea teorica ciò che è in
relazione col pastorato cristiano è il tema della salvezza – visto che il suo obiettivo principale è
guidare gli individui verso essa -, con la legge – in quanto il pastore deve vigilare sulla condotta
degli uomini -, e con la verità – visto che la salvezza si ottiene solo credendo e professando una
certa verità-. Ma “se fosse solo questo non avrebbe originalità, dopotutto qualsiasi potere non fa
che guidare, prescrivere, insegnare, salvare, educare, fissare lo scopo comune, imporre opinioni
vere e giuste”58. Il punto veramente peculiare sta nel fatto che mediante l’introduzione della
questione della salvezza nella prospettiva generale, fa scivolare in questo rapporto complessivo
56

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 115-116.

57

Ivi, pp.124-125.

58

Ivi, p.126.
tutta un’economia e una tecnica di circolazione, di trasferimento, di inversione dei meriti; che
nel rapporto con la legge instaura un rapporto di obbedienza individuale pervasivo, totale e
permanente; che nel rapporto con la verità costituisce tutta una serie di strutture e tecniche di
investigazione, di potere, di esame di sé che farà venire a galla una verità nascosta. Una tecnica
di potere quindi nuova, che porta ad un nuovo tipo di individualizzazione, non più definita
dallo status o dalle azioni di un soggetto, ma tramite un gioco complesso di meriti e demeriti ,
tramite assoggettamento e tramite soggettivazione59.
Il pastorato da questo punto di vista, sembra al filosofo francese, “il preludio verso la
costituzione del soggetto occidentale moderno, assoggettato da reti ininterrotte di obbedienza e
soggettivato con una verità a lui imposta” 60. Si è poi disperso ed ha preso la dimensione della
governamentalità grazie alle “controcondotte”61 nel Medioevo, ossia le lotte attive contro i
procedimenti impiegati per condurre gli altri – la riforma protestante è stata la più radicale di
queste - alla cui base si possono collocare l’ascetismo, la comunità, la mistica, la scrittura e la
credenza escatologica62.
È nel XVI secolo che il pastorato, prende effettivamente la forma della governamentalità, e non
perché scompaia, bensì proprio per una sua estensione nelle sue dimensioni spirituali, temporali
ed istituzionali: moltiplicazione e proliferazione della condotta delle anime per arrivare al
governo politico degli uomini63. Proprio con l’avvento del pubblico, viene in superficie una
nuova preoccupazione: come può il sovrano adempiere a problemi nuovi come quello della
conduzione? Innanzitutto, secondo quale razionalità? Foucault per rispondere a queste
domande riprende il pensiero di san Tommaso64: “il Re è colui che governa il popolo […] in
vista del bene comune […] che non fa che riprodurre un certo modello, il governo di Dio sulla

59

Ivi, pp.140-141.

60

Ibidem.

61

Ivi, p.151.

62

Per una trattazione completa, Ivi, pp. 142-163.

63

Ivi, p.168.

64

San Tommaso d’Aquino, De regno, in Opera Omnia, vol. XLII, Roma, 1979, pp. 449-471.
terra […] nella misura in cui imita la natura 65”. Tutto in natura è attraversato da una forza vitale
che tiene assieme i diversi elementi e che li porta al raggiungimento del bene comune, “lo
stesso vale per il regno”66, ed il fine ultimo dell’uomo è la felicità in questo mondo. Si opera
quindi una trasposizione del pastorato nell’ordine politico; ma tutto ciò, tra il 1580 e il 1650, in
concomitanza con la fondazione dell’episteme classica67, avviene sotto un’altra economia, sotto
una propria specificità. Si assiste al fatto che l’esercizio della sovranità non è più un
prolungamento dell’attività divina o della natura, è un qualcosa di specifico, un qualcosa d’altro
dal pastorale; questo qualcosa d’altro sarà l’arte del governo degli uomini, della vita in quanto
tale, una vita immanente, che trova in sé stessa un fine illimitato.

I.4 Le tecnologie di potere


Questo governo degli uomini è suddiviso in due tecnologie distinte, ma correlate:
“Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due forme principali a
partire dal XVII secolo; esse non sono antitetiche; costituiscono piuttosto due poli di
sviluppo legati da tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo ad
essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto macchina: il suo dressage, il
potenziamento delle sue attitudini, l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela
della sua utilità e della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci
ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere che caratterizzano
le discipline: anatomo-politica del corpo umano. Il secondo, che si e formato un
po’più tardi, verso la meta del XVIII secolo, e centrato sul corpo-specie, sul corpo
attraversato dalla meccanica del vivente e che serve da supporto ai processi
biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di
vita, la longevità con tutte le condizioni che possono farle variare; la loro assunzione
si opera attraverso tutta una serie d’interventi e di controlli regolatori: una bio-
politica della popolazione. Le discipline del corpo e le regolazioni della popolazione
costituiscono i due poli intorno ai quali si e sviluppata l’organizzazione del potere
sulla vita. La creazione, nel corso dell’età classica, di questa grande tecnologia a due
facce – anatomica e biologica, agente sull’individuo e sulla specie, volta verso le
attività del corpo e verso i processi della vita – caratterizza un potere la cui funzione

65

Ibidem.

66

Ibidem.

67

Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1996, pp.
31-44; Foucault ritorna su questa fase nella lezione del 1 Febbraio 1978; il cambiamento avviene grazie a due
processi: demolizione delle strutture feudali, ossia formazione degli Stati moderni, e sotto quelle che chiama
controcondotte, nello specifico la Riforma e la Controriforma, che cercano una via per assicurare la salvezza in
questo mondo, in Michel Foucualt, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 71.
più importante ormai non è forse più di uccidere ma d’investire interamente la
vita68”.

Sono queste due distinte tecnologie, “présentes a tous les niveaux du corps social, que
constituent les deux poles autour desquels s’est déployée l’organisation des pouvoirs sur la
vie”69. Potere sulla vita, dunque, ecco una prima definizione di ciò che sarebbe il biopotere; ma
nella pratica, queste due tecnologie, come hanno operato?

I.4.1 Le discipline

Le discipline nascono per regolamentare la molteplicità umana in una congiuntura storica che
vede grande spinta demografica, aumento della popolazione scolastica e la crescita
dell’apparato produttivo; al vecchio principio prelevamento-violenza che reggeva l’economia
del potere si sostituisce il principio dolcezza-produzione-profitto: le discipline assicurano la
regolamentazione delle molteplicità, rendendo l’esercizio del potere meno costoso, aumentare
al massimo l’efficacia del potere e collegare questa crescita al rendimento degli apparati interni
nel quale si esercita70. Esse devono far crescere l’utilità singola di ogni elemento – con mezzi
che siano i più rapidi e i meno costosi – per estrarre dal corpo il massimo dei tempi e delle
forze: quei metodi d’insieme che sono gli impieghi del tempo, l’addestramento collettivo, le
esercitazioni, la sorveglianza globale e dettagliata 71. Si viene così a delineare un corpo
direttamente immerso in un campo politico con i rapporti di potere che operano su di lui una
presa immediata, l’investono, lo marchiano, lo addestrano; il corpo umano esiste dentro e
attraverso un sistema politico, col potere politico che assegna all’individuo uno spazio in cui
assumere un comportamento, adottare una postura particolare, sedersi in un certo modo,
lavorare continuamente72. Quest’investimento politico del corpo è legato alla sua utilizzazione

68

Michel Foucault, La volontà di sapere, cit., pp. 182-183.

69

F. Caeymaex, in Medicalizzazione, sorveglianza e biopolitica, a partire da Michel Foucault, cit., p. 15.

70

Michel Foucault, Sorvegliare e punire, traduzione di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino, 1776, p.238-239.

71

Ibidem.

72

Michel Foucault, Dialogo sul potere, cit., p. 75


economica73; si sviluppa una propensione a disciplinare il comportamento umano per
aumentarne produttività ed efficacia74. Inoltre la disciplina fa giocare i rapporti di forza non al
di sopra, ma nel tessuto stesso della molteplicità, nel modo più discreto possibile ed il meno
costoso: insomma sostituire a un potere che si manifesta con lo splendore di coloro che lo
esercitano, un potere che oggettivizza coloro sui quali si esercita, formarne un sapere piuttosto
che dispiegare i segni fastosi della sovranità 75. Queste tecniche sul corpo certamente non sono
nuove, ma cambia la scala del controllo, più dettagliata e di più lunga durata – potere
infinitesimale sul corpo - cambia l’oggetto, non più la condotta ma l’economia dei movimenti –
la loro organizzazione interna –, e cambia infine la modalità, implicando una coercizione
ininterrotta che veglia sui processi piuttosto che sul risultato. “Metodi che permettono il
controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano l’assoggettamento costante delle
sue forze e ne impongono un rapporto di docilità-utilità: è questo ciò che possiamo chiamare le
discipline”76. Esse mirano alla formazione di una relazione che rende l’individuo tanto più utile
quanto più obbediente, formano dei corpi docili. Operano negli ospedali, nelle scuole,
nell’organizzazione militare e circolano velocemente da un punto all’altro.
La disciplina opera innanzitutto alla ripartizione degli individui nello spazio77:
 esige la clausura, la specificazione di un luogo eterogeneo rispetto a tutti gli altri e chiuso
su se stesso;
 lavora secondo il principio della localizzazione elementare, il quadrillage: ad ogni
individuo il suo posto ed in ogni posto il suo individuo: evitare le disposizioni a gruppi,
scomporre le strutture collettive, annullare gli effetti delle ripartizioni indecise, la
scomparsa incontrollata degli individui, sapere dove e come ritrovare gli individui,
instaurare comunicazioni utili, sorvegliare e sanzionare condotte; padroneggiare uno spazio
analitico;
73

Michel Foucault, sorvegliare e punire, cit., p. 29.

74

Patrick H. Hutton, Foucault, Freud, in Tecnologie del sé, un seminario con Michel Foucault, a cura di H.
Martin, Huck Gutman, Patrick H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, p. 118.

75

Michel Focuault, Sorvegliare e punire, cit., p. 240.

76

Ivi, p. 149.

77

Ivi, p. 154-162.
 regola delle ubicazioni funzionali per dissolvere le confusioni, far aumentare l’efficacia del
processo scomponendolo in fasi o operazioni elementari;
 elementi intercambiabili poiché ciascuno è definito in base al posto che occupa in una serie
e dallo scarto che lo separa dagli altri; l’unità è perciò il rango, il posto occupato in una
classificazione; il rango permette competizione, distinzione, economia delle condotte.
Le discipline organizzando le celle, i posti e i ranghi fabbricano spazi complessi: architettonici,
funzionali e gerarchici allo stesso tempo; ritagliano spazi individuali e legami operativi,
segnano dei posti e indicano dei valori, garantiscono l’obbedienza ma anche una migliore
economia del tempo e dei gesti. La prima grande operazione delle discipline è quella di
costituire quadri viventi che trasformano le moltitudini confuse, inutili o pericolose, in
molteplicità ordinate.
Dopodiché controlla le attività78:
 L’impiego del tempo, che è caratterizzato in tre grandi procedimenti – stabilire delle
scansioni, costringere a determinate operazioni e regolare il ciclo di ripetizione – si raffina
sempre più con le discipline: si parla di quarti d’ora, di minuti, di secondi; poi si si collega
l’attività temporale ad una sanzione ed infine si cerca la qualità del tempo;
 Elaborazione temporale dell’atto, che permette un nuovo fascio di costrizioni, un altro
grado di precisione nella scomposizione dei gesti e dei movimenti, un’altra maniera di
adattare il corpo ad imperativi temporali; non è un mero impiego del tempo né un ritmo
collettivo ed obbligatorio imposto dall’esterno, è un programma che assicura l’elaborazione
dell’atto e controlla dall’interno il suo svolgimento e le sue fasi; ad ogni movimento è
assegnata un’ampiezza, una durata, il tempo penetra il corpo;
 Correlazione corpo e gesto, si impone cioè tra il gesto e l’attitudine globale del corpo la
relazione migliore in termini di efficacia e rapidità; niente deve rimanere ozioso o inutile;
 Articolazione corpo e oggetto; la disciplina definisce uno per uno i rapporti che il corpo
deve tenere con l’oggetto che manipola, scomponendo il processo in due serie, quella degli
elementi del corpo da mettere in gioco e quella degli elementi dell’oggetto che viene
manipolato, per poi metterli in correlazione secondo un certo numero di gesti semplici – la
manovra -;

78

Ivi, pp. 162-170.


 L’utilizzazione esaustiva, s’instaura un’economia positiva e sempre crescente col tempo,
esaustione quindi e non impiego, come se si potesse tendere verso un punto ideale in cui il
massimo della rapidità raggiunge il massimo dell’efficacia.
Queste nuove tecniche fanno sì che il corpo sia l’oggetto di nuove forme di sapere in cui la sua
natura viene sottoposta ad operazioni specifiche che hanno il loro ordine, il loro tempo, le loro
condizioni interne; si cominciano a scoprire i meccanismi specifici dell’organismo umano.
Le tecniche di disciplina che analizzano lo spazio e compongono le attività devono essere
intese anche come una forma di capitalizzare il tempo; ciò attraverso quattro processi79:
 Dividere la durata in segmenti, successivi o paralleli, di cui ciascuno deve pervenire ad un
termine specifico, mai mostrare tutto di una volta;
 Organizzare queste trafile secondo uno schema analitico, ossia con una successione di
elementi i più semplici possibili che si combinino secondo una difficoltà crescente;
 Finalizzare questi segmenti temporali, dandogli un termine che si conclude con una prova,
che ha tre funzioni: garantire uniformità d’apprendimento, differenziare le capacità di
ognuno e verificare il livello individuale;
 Porre in essere delle serie di serie, prescrivere cioè ad ognuno, secondo il suo grado, il suo
livello, la sua anzianità, gli esercizi che gli convengono, in modo tale che ognuno sia
immerso nel suo rango e nel suo livello.
La messa in serie di attività successive permette un completo investimento della durata da parte
del potere: controllo dettagliato e intervento puntuale – correzione, punizione, castigo – in ogni
momento del tempo che permette di organizzare in maniera efficace il fine ultimo, la capacità
finale di un individuo.
Infine, ciò che le discipline fanno è cercare di costituire una forza il cui effetto sia superiore alla
somma delle forze elementari che la compongono80:
 Il corpo singolo viene visto come un elemento che può articolarsi su altri, il suo valore o la
sua forza non sono più le variabili principali che lo definiscono, ma il posto che occupa,
l’intervallo che ricopre, il buon ordine degli spostamenti; corpo come elemento di una
macchina multisegmentata;
 Il tempo degli uni deve accordarsi con quello degli altri per un risultato ottimale;

79

Ivi, pp. 170-177.

80

Ivi, pp. 177-183.


 Questo combinazione accurata di forze esige un sistema preciso di comando, tutta l’attività
individuale dev’essere disciplinata mediante continue ingiunzioni, la cui efficacia dipende
dalla brevità e dalla chiarezza; l’ordine non dev’essere spiegato, è sufficiente che faccia
scattare il comportamento desiderato; si crea un rapporto di segnalizzazione, si percepisce il
segnale e si immerge il corpo al rifiuto della minima rappresentazione.
In definitiva possiamo dire che la disciplina fabbrica, partendo dai corpi che controlla, quattro
tipi di individualità, o meglio, un’individualità composta da quattro caratteristiche: essa è
cellulare – attraverso il gioco delle ripartizioni spaziali -, è organica – attraverso la
codificazione delle attività -, è genetica – attraverso il cumulo del tempo – ed è combinatoria –
attraverso la combinazione delle forze -; e per far questo costruisce dei quadri, prescrive delle
manovre, impone degli esercizi ed organizza delle tattiche.
Il successo del potere disciplinare deriva dall’utilizzazione di strumenti semplici: il controllo
gerarchico, la sanzione normalizzatrice e l’esame, ossia la combinazione delle prime due. Per
quanto riguarda la sorveglianza gerarchica, essa costituisce un apparato in cui le tecniche che
permettono di vedere inducono effetti di potere ed i mezzi di coercizione rendono chiaramente
visibili coloro sui quali si applicano; l’apparato disciplinare perfetto avrebbe permesso con un
solo sguardo di vedere tutto e non essere visti 81; anche se il controllo così inteso non può essere
percepita come una vera innovazione disciplinare, nel XVIII secolo si estende fino a divenire
integrato nell’economia e nei fini del dispositivo in cui esercita; i sorvegliati si sentiranno
perennemente sorvegliati e il potere è un meccanismo che si autoriproduce e si distribuisce tra
gli individui in maniera automatica e silenziosa. Per ciò che concerne invece la sanzione
normalizzatrice, si tratta di costituire tutta una micropenalità del tempo – ritardi, assenze -,
dell’attività – disattenzione, negligenza -, del modo di comportarsi – disobbedienza,
maleducazione -, dei discorsi – chiacchiere, insolenza – o ancora del corpo – gesti non
conformi, scarsa pulizia -, a cui corrispondono tutta una serie di sottili procedimenti di
punizione, dal castigo fisico alle umiliazioni. Si rendono penalizzabili le più minuscole frazioni
della condotta ed ogni soggetto sarà sommerso da un universalità punibile-punente 82. Ma la
specificità punitiva della disciplina è la correlazione con l’osservanza, il non conforme, lo
scarto da una regola, col castigo che ha la funzione di ridurre questi scarti, una funzione

81

Foucault ne vede un esempio nel Panopticon di Bentham, descritto in Sorvegliare e punire, pp. 213-242.

82

Michel Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 195.


correttiva, ma che è anche l’altra faccia di un sistema duplice, quello della gratificazione-
sanzione; questo permette la qualificazione delle condotte e delle prestazioni tra due valori
opposti del bene e del male – e quindi non c’è il solo proibito come nella giustizia penale – che
permette anche un’economia dei crediti e dei debiti con esattezza, sanzionando gli individui
con parametri “veri”. Insomma:
“l’arte di punire, nel regime disciplinare, non tende né all’espiazione né alla
repressione, ma ascrive gli atti, le prestazioni, le condotte singole ad un insieme che è
allo stesso tempo campo di comparazione, spazio di differenziazione e principio di una
regola da seguire. Differenziare gli individui in riferimento ad una soglia minimale o ad
una media da rispettare o come livello ottimo a cui avvicinarsi; misurare in termini
quantitativi e gerarchizzare in termini di valore le capacità, il livello, la “natura” degli
individui. Far giocare, attraverso questa misura valorizzante, la costrizione di una
conformità da realizzare. Tracciare il limite per stabilire l’anormale. In una parola,
normalizza […] il potere di normalizzazione costringe all’omogeneità”.83

L’esame infine, come accennato, combina le caratteristiche della sanzione normalizzatrice e


quella della sorveglianza gerarchica: è un controllo normalizzatore, una sorveglianza che
permette di qualificare, classificare, punire. Nell’esame l’intreccio tra rapporti di potere e
relazioni di sapere è visibile all’ennesima potenza84:
 L’esame inverte l’economia della visibilità nell’esercizio del potere. Paradossalmente e
solitamente, coloro sui quali si esercita potere rimangono nell’ombra; nelle discipline è il
fatto di poter essere visto incessantemente che mantiene in soggezione l’individuo, il potere
si palesa con uno sguardo;
 L’individualità entra in un campo documentario, un archivio costituito a livello dei corpi e
dei giorni, in una serie di documenti che capta e fissa l’individuo grazie ad un sapere su di
esso permanente e che costituisce una misura di comparazione per la misurazione di
fenomeni globali e delle loro condotte;
 L’esame fa di ogni individuo un caso, un caso che allo stesso tempo è oggetto di una
conoscenza e una presa per un potere; il caso rappresenta l’individuo da descrivere e
misurare ma il caso è anche l’individuo che sarà da addestrare o da correggere.
Nei secoli XVII e XVIII, oltre al modello del contratto e dello scambio, è esistita una tecnica
per costruire gli individui come elementi correlativi di un potere e di un sapere, una realtà
fabbricata da quella tecnologia specifica del potere che si chiama disciplina. “Bisogna smettere
83

Ivi, p. 200.

84

Ivi, pp. 205-212.


di descrivere il potere come un qualcosa di negativo, che respinge, che maschera, che nasconde,
che censura […] il potere produce, produce il reale, produce campi di oggetti e rituali di verità.
L’individuo e la nostra conoscenza derivano da questa produzione”. 85 Su questo stesso tema,
riattualizzato, Hardt e Negri dicono che tutt’ora le soggettività vengono prodotte nelle
fabbriche sociali, anzi, pur con la crisi delle istituzioni sociali – famiglie nucleari, prigioni -, ciò
accade in maniera più intensa; la crisi ha solo abbattuto le recinzioni che circoscrivevano gli
spazi limitati delle istituzioni, ma la logica permane ed anzi ha la possibilità che ciò che
accadeva al loro interno ora dilaga in tutto il sociale; più crollano le istituzioni e meglio
operano: l’impossibilità di identificare il luogo della produzione della soggettività porta ad
un’indeterminazione della forma di questa, il che permette un’applicazione pressoché totale.86

I.4.2 I dispositivi di sicurezza


A tal proposito ci ricolleghiamo al momento in cui parlavamo della trasformazione del potere
pastorale, un potere che si svincola da Dio e dalla natura per diventare un qualcosa di specifico;
governo degli uomini abbiamo detto, ma soprattutto razionalità politica, razionalità statale, e
questa si sviluppa all’interno di due insieme di dottrine: la ragion di Stato e la teoria della
polizia87.
Nel XVII secolo l’arte di governo, il governare, aveva un’accezione ampia che variava dal
governo della famiglia, a quello delle anime o a quello di un convento; ci si chiedeva difatti, e
in special modo, come poter estendere allo stato una forma di sorveglianza e di controllo non
meno attenta di quella praticata dal padre sulla famiglia e i suoi beni88.
Foucault, tracciando quest’interpretazione teorica, opera una rottura soprattutto con il concetto
di sovranità in Machiavelli - pur condividendone i presupposti di una fondazione razionale de
l'arte del governo - che si esplicita come ciò che governa territorio e sudditi, i quali obbedendo
alla legge, non comprometteranno il potere del Principe concorrendo così alla costruzione del

85

Ivi, p. 212.

86

M. Hardt, A. Negri, Impero/Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2001, p. 160.

87

Michel Foucault, Omnes et singulatim, cit.,p. 130.

88

Michel Foucualt, Sicurezza, territorio, popolazione, cit.,p. 76.


bene comune89; non accetta che il fondamento della razionalità governamentale sia imperniata
sulla figura del regnante.
“[…]il Principe quale appare in Machiavelli, e piuttosto nelle rappresentazioni che se
ne danno, è per definizione unico nel suo principato ed in una posizione di esteriorità e
di trascendenza. Mentre vediamo che le pratiche del governo sono da una parte, delle
pratiche molteplici che coinvolgono molta gente: il padre di famiglia, il superiore del
convento, il pedagogo e il maestro rispetto al bambino o al discepolo; ci sono pertanto
molti governi rispetto ai quali quello del Principe nei confronti del suo Stato non è che
una delle modalità, e, d'altra parte, tutti questi governi sono interni alla società o allo
Stato […]”.90

Foucault, a sostegno della sua teoria “ascendente-discendente” – si avrà una continuità


discendente nel senso che quando uno Stato è ben governato, allora il padre di famiglia sa
accudire alla famiglia, ai beni, al patrimonio, e gli individui, a loro volta, si comportano come
si deve, e all’inverso91 - cita autori come Guillame de La Perrière che, nella sua Miroir
Politique, ci dice come “il governo è la retta disposizione delle cose di cui ci si occupa per
indirizzarle ad un fine conveniente” o come Pufendorf “un sovrano non deve perseguire nulla
di vantaggioso per se stesso se non lo è anche per lo stato”; e mentre nella sovranità questo
bene di utilità pubblica, il fine ultimo, veniva realizzato con l’obbedienza alla legge e al
sovrano – il bene è quindi la sottomissione e l’obbedienza – con questa nuova linea teorica il
“fine conveniente” può essere molteplice, è nella massimizzazione e nella perfezione dei
processi che dirige;92
“[…]nel testo di La Perrière, vi accorgete che la definizione del governo non si
riferisce in alcun modo ad un territorio. Si governano le cose. Ma cosa significa questa
espressione? Non credo che si tratti di opporre le cose agli uomini, ma di mostrare
piuttosto che ciò a cui si riferisce il governo non è il territorio, ma una specie di
complesso costituito dagli uomini e dalle cose. Pertanto le cose di cui deve occuparsi il
governo sono gli uomini, ma nei loro rapporti, legami, imbricazioni con queste altre
cose che sono le ricchezze, le risorse, i mezzi di sussistenza, il territorio, certo, nelle sue
frontiere, con le sue qualità, il suo clima, la sua siccità, la sua fertilità; sono gli uomini
nei loro rapporti con queste altre cose che sono gli usi, le abitudini, i modi di fare o di

89

Ivi, pp. 70-83.

90

Michel Foucault, Poteri e strategie, a cura di Pierre della Vigna, Memesis, Milano, 1994, p. 48.

91

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 75-76.

92

Ivi,p.81.
pensare, ecc., e infine gli uomini nei loro rapporti con queste altre cose ancora che
possono essere gli incidenti o le disgrazie come la carestia, l'epidemia, la morte […]”.93

Lo Stato è ciò che comanda il governo in modo razionale secondo necessità: si chiede cos’è un
territorio, che sono gli abitanti, come raggiungere la ricchezza; la nuova ragione di governo si
svincola dalla ragione di Stato classica; una nuova razionalità di governo quindi, che, con lo
sviluppo di dottrine come il mercantilismo 94 e di scienze come la statistica, pone le basi per una
propria sfera di autonomia e permette allo Stato una propria griglia d’intelligibilità, che si
sviluppa secondo due direttrici: esternamente, con le tecniche diplomatico-militari –
concorrenza fra stati, bilancia commerciale, eserciti – e internamente, come diretta conseguenza
della nuova razionalità statale che trova un proprio fine e una propria storia in se stessa e come
diretta conseguenza del vincolo esterno – in poche parole, lo Stato di polizia -; per raggiungere
la potenza esterna, occorre un’organizzazione interna. E Foucualt a sostegno della sua tesi
prende come esempio autori come Turquet, De Lamare, Von Justi: per loro il termine polizia
designa complessivamente il nuovo campo d’azione sul quale il potere politico può intervenire,
“la polizia vigila sul vivente”95, “la polizia deve garantire la felicità della gente, la
sopravvivenza, la vita, il suo miglioramento […] è ciò che permette allo Stato di accrescere il
suo potere e di esercitare la forza al suo massimo livello” 96. Proprio in quest’ultimo autore
troviamo lo snodo dell’elaborazione teorica di Foucault, per due motivi: la differenziazione tra
Politik – che consiste nel combattere i nemici interni ed esterni, ed ha quindi una funzione
negativa – e Polizei – che consiste nel favorire al tempo stesso la vita dei cittadini e la potenza
dello Stato ed ha quindi valenza positiva – ed il concetto di popolazione 97, intesa come un
93

Michel Foucault, Poteri e strategie, cit. p. 52.

94

Descritta da Focuault come tecnica e calcolo di rafforzamento del rafforzamento della potenza statale
nella competizione europea attraverso il commercio, in Michel Foucualt, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p.
243.

95

Nicolas De Lamare, Traité de la police, p.4. Citato in Michel Focuault, Omnes et singulatim, cit., pp.
140-141.

96

J.H.G. von Justi, Elementi generali dello Stato, citato in Michel Foucault, Sicurezza, territorio,
popolazione, cit., p. 226-258.

97

Non è un concetto nuovo ma è il primo a considerare l’assetto fisico ed economico dello Stato come un
ambiente con il quale la popolazione interagisce reciprocamente, Michel Foucault, Tecnologie del sé: un
seminario con Michel Foucault, cit., p. 150.
gruppo di viventi le cui caratteristiche sono quelle di tutti gli individui che appartengono ad una
stessa specie, presentando così tassi di mortalità e di fecondità, sono esposti ad epidemie, a
problemi di sovrappopolazione ed hanno un certo tipo di distribuzione territoriale 98. Entra in
gioco un’altra economia del potere ed un personaggio politico nuovo, si smette di vedere la
popolazione come suddito di diritto e viene vista come una parte dell’insieme dei processi da
gestire sulla base della loro naturalità; nel senso che essa non è referente immediato all’azione
del sovrano ma dipende da diverse variabili come l’intensità dei traffici commerciali, come il
clima, come i valori morali o religiosi, come certamente anche in base alle leggi. Tutto ciò
permette di dire che questa naturalità può essere constatata nella costanza dei fenomeni e che
questi avvengono grazie a delle variabili le quali possono essere modificate grazie a tecniche di
governo specifiche; siamo di fronte ad una nuova razionalità politica: popolazione è
quell’insieme che si estende dal radicamento biologico della specie fino alla superficie di presa
del potere pubblico99, la popolazione si costituisce come il “mero” fattore di correlazione del
moderno meccanismo di potere100. Ecco qui che si riuniscono le due tecnologie di potere che
formano la presa sulla vita:
“Si tratta di una tecnologia che non esclude la prima, la tecnica disciplinare vera e
propria, ma la incorpora, la integra, la modifica parzialmente e che, soprattutto, la
utilizza installandosi al suo interno […] questa nuova tecnica non si applica alla vita
degli uomini, o meglio, investe non tanto l’uomo-corpo, quanto l’uomo che vive,
l’uomo in quanto essere vivente, l’uomo specie. Direi anzi con più precisione, che la
disciplina governa la molteplicità che deve risolversi in corpi individuali da sorvegliare,
addestrare, eventualmente da punire. Anche la nuova si rivolge alla molteplicità, ma
come una massa globale investita da processi di insieme che sono specifici della vita,
come la nascita, la morte, la produzione, la malattia, e così via. […] dopo l’anatomia-
politica del corpo umano nel settecento, alla fine del secolo si vede apparire qualcosa
che chiamerei una biopolitica”101.

Un qualcosa di simile alle discipline, non un tutt’altro bensì un altro livello d’analisi e di
strumenti; ebbene questi nuovi strumenti con cui far presa sulla vita in quanto specie sono i
dispositivi di sicurezza. Non esiste un’età disciplinare né un’età della sicurezza – né un’età

98

Ibidem.

99

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 67.

100

Ivi, p.69.

101

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 209.


legale -, si tratta di una serie di edifici in cui cambia il modo di strutturare le cose su diversi
aspetti. In primo luogo lo spazio: mentre le discipline danno forma architettonica ad uno spazio
e pongono come problema essenziale una distribuzione gerarchica e funzionale degli elementi,
i dispositivi di sicurezza cercano di strutturare un ambiente in funzione di serie di eventi o
elementi possibili ed aleatori, e che bisogna iscrivere in uno spazio dato; l’ambiente designa
quella zona di interferenza tra gli eventi prodotti da individui, popolazioni e gruppi, e gli eventi
naturali che accadono intorno ad essi102. La disciplina è centripeta, funziona solo se isola uno
spazio, i dispositivi sono centrifughi, integrano in continuazione nuovi elementi, dilatano il
raggio d’azione. Altra differenza consiste nel fatto che la disciplina cerca di impedire tutto, e lo
fa nel dettaglio, la sicurezza invece ci si appoggia sui dettagli, non li considera benevoli o
malevoli, bensì naturali, necessari, inevitabili, e vede come operano sulla popolazione per
andare ad agire attivamente su questa. Terza differenza è che la disciplina suddivide le cose
secondo il codice del lecito e del vietato ed all’interno di questo range specifica ciò che è
obbligatorio; nella sicurezza si prende una distanza sufficiente dagli eventi per vedere come si
determinano, siano essi graditi o indesiderati, si appoggia sulla realtà103 per cercare di annullarla
o regolarla. La quarta differenza verte sulla norma: mentre la disciplina parte da essa e alla luce
di questa perviene a distinguere il normale dall’anormale, nei dispositivi di sicurezza si procede
all’identificazione del normale e dell’anormale, delle differenti curve di normalità, e
l’operazione di normalizzazione vera e propria consiste nello studiare queste distribuzioni e
ricondurre le più sfavorevoli al livello delle altre; dalla normazione alla normalizzazione 104.
Inoltre c’è uno scivolamento nello sfondo da parte della legge e la sua minaccia della morte
come minaccia assoluta; non che scompaia ma questa funziona sempre più come una norma e
collabora quindi ad una distribuzione di ciò che è vivente in un dominio di valore ed utilità.
Ciò che complessivamente è posto in questione è un diverso rapporto individuo/molteplicità,
si delinea un potere che non attua una costante sorveglianza, ma che cerca di far emergere il
livello in cui la sovranità diviene giustificabile, applicando i dispositivi di sicurezza in ciò che è
aleatorio nei processi della popolazione; e lo fa grazie a conoscenze e saperi esperti, prodotti da

102

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 30.

103

Torniamo circolarmente su ciò che dicevamo prima: non c’è più un governo politico di Dio, la politica ha
a che fare con la realtà; dalla teologia alla fisica.

104

Michel Foucualt, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp.55-56.


istituzioni che si differenziano dallo Stato, come la statistica, l’economia politica, la biologia, la
medicina, la criminologia105.
Rimane il fatto che, a partire dal XVII secolo, queste due tecnologie che si compenetrano
formano un nuovo tipo di economia e razionalità del potere; è un potere che prende in carico la
vita, singolarmente e collettivamente, imponendo e regolando.

I.5 Il razzismo di stato


Partendo da lontano siamo così arrivati a descrivere l’applicazione di un nuovo potere, il
biopotere, il potere sulla vita: una serie di fenomeni e meccanismi grazie ai quali i tratti
biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una
biopolitica106, termine con cui si designano quei meccanismi che fanno entrare la vita e i suoi
processi biologici nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere-sapere un agente di
trasformazione della vita umana107; “per millenni, l’uomo è rimasto quel che era per Aristotele:
un animale vivente ed inoltre capace di un’esistenza politica, l’uomo moderno è un animale
nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente”.108
Nella teoria classica della sovranità, il sovrano aveva diritto di vita e di morte 109, con il soggetto
quale elemento neutro, dacché esso, nei confronti del potere, non ha pieno diritto di essere né
vivo né morto; solo il sovrano dispone di questi due diritti e solo egli permette al soggetto di
essere vivo o morto; quest’esercizio sovrano presenta però uno squilibrio dalla parte della
morte: l’effetto del potere sovrano sulla vita non si esercita che a partire dal momento in cui si
stabilisce che egli può uccidere; è il diritto di uccidere a detenere in sé l’essenza stessa del
diritto di vita. “Si tratta essenzialmente di un diritto di spada, del diritto di far morire o lasciar
vivere”.110 La trasformazione che abbiamo descritto nei paragrafi precedente è stata quella di
105

A. Molteni, La biologizzazione della “sicurezza”, in Medicalizzazione, sorveglianza, biopolitica, cit.,


p.150.

106

Ivi, p. 13.

107

Michel Foucault, La volontà di sapere, cit. p. 126.

108

Ibidem.

109

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit., pp. 206-207.

110
completare questo diritto, se non proprio sostituirlo, con quello di far vivere e lasciar morire.
Da quando il potere si prende il diritto di intervenire sul come della vita, per controllarla, per
potenziarla, per valutarne rischi e deficienze, la morte intesa come termine della vita diventa
allora il punto terminale del potere, in una relazione d’esteriorità in quanto non ha una presa; la
morte si sposta sul privato. Un potere che conosce solo la vita e che applica nello stesso tempo
la tecnologia della disciplina e quella della regolazione, un potere che, nelle mani dello Stato,
ha potuto operare solo facendosi attraversare dal razzismo; cosa c’entra il razzismo? “Il
discorso razzista è intervenuto offrendo al nascente bio-potere un’unità di misura, una
catalogazione all’interno di quel continuum biologico costituito dalla specie umana” 111; è in
primo luogo la separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire, è una cesura
all’interno del biologico, dividendo in sottogruppi la popolazione; in secondo luogo ha la
funzione di far dire “più lascerai morire, più, per ciò stesso, tu vivrai” 112 visto che si instaurerà,
tra la vita di uno e la morte di un altro, una relazione biologica: più l’anormale, la specie
inferiore tenderà a scomparire più io in quanto specie forte tenderò ad essere vigoroso e
prolificare; nello specifico comunque, la morte dell’altro non coinciderà semplicemente con la
mia vita, ma renderà la mia vita più sana e pura. Ovunque sarà presente un biopotere lo Stato
potrà mettere a morte, manterrà il diritto di uccidere, grazie alla presenza del razzismo; quando
si parla di messa a morte se ne parla in senso lato, si intende tutto ciò che può essere morte
indiretta: anche solo il fatto di far aumentare per certi il rischio di morte o più semplicemente la
morte politica, il rigetto, l’espulsione, l’esclusione113. Se al sovrano compete in ogni tempo il
diritto di decidere quale vita possa essere uccisa senza commettere omicidio, nell’età della
biopolitica questo potere diventa decisione di impartire il punto in cui la vita cessa di essere
politicamente rilevante, sovrano è colui che decide sul valore e disvalore della vita in quanto
tale114. Guerra per rafforzare e guerra per rigenerare la propria razza eliminando l’altra; si

Ibidem.

111

Natascia Mattucci, Ideologia totalizzante e frammentazione biologica, in Medicalizzazione,


sorveglianza, biopolitica, cit., p. 106.

112

Michel Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 220.

113

Ivi, p. 222.

114

Giorgio Agamben, Homo sacer, il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995, p. 158.
ripresenta il tema della guerra sociale insita nell’elaborazione teorica di Foucault sul potere.
Ciò che costituisce la specificità di questo “nuovo” razzismo, del razzismo moderno, non è
collegato ad una sorta di mitizzazione ideologica di uno Stato per scaricare ostilità o ad un odio
tra razze, bensì è il legame con il potere, alla tecnologia del potere, ad un meccanismo che
autoriproduce e fa funzionare il biopotere. Se il razzismo di Stato può essere considerato come
il punto più alto, l’estremizzazione della presa politica sulla vita e della stessa teorizzazione del
biopotere di Michel Fouault, egli non è l’unico a sospettare della pericolosità di quest’irruzione
nella sfera biologica:
“Mentre all’inizio dell’età moderna il governo si identificava con tutto il complesso
politico, adesso diventava il protettore designato non tanto della libertà quanto del
processo vitale, degli interessi della società e dei membri di questa. La sicurezza resta il
criterio decisivo: ma non è più la sicurezza dell’individuo contro una morte violenta,
come per Hobbes, bensì una sicurezza che permetta al processo vitale della società nel
suo insieme di svolgersi senza intoppi”115.

O ancora c’è chi vede nella vita stessa un principio inarrestabile, una deriva:
“La vita non si evolve da un deficit iniziale, ma da un eccesso […] da un lato rivolta alla
sopraffazione e all’incorporamento di tutto ciò che incontra; dall’altro, una volta
colmata fino all’orlo la propria capacità acquisitiva, portata a rovesciarsi fuori di sé, a
dilapidare i propri beni eccedenti ed anche se stessa; la vita non cade in un abisso; è
piuttosto l’abisso in cui rischia essa stessa di cadere”116.

Non mancano inoltre pericolose analogie:


“In quanto i suoi abitanti sono stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti
integralmente a nuda vita, il campo di concentramento è anche il più assoluto spazio
biopolitico che sia mai stato realizzato, in cui il potere non ha di fronte a sé che la pura
vita senz’alcuna mediazione. Il corpo biopolitico, che costituisce il nuovo soggetto
politico fondamentale […] diventa la posta di una decisione politica che opera
nell’assoluta indifferenza di fatto e di diritto”117.

Si va incontro, in poche parole, ad un rischio di un rovesciamento della politica, o meglio


biopolitica, in tanatopolitica, come conseguenza di una presa di potere sulla vita, intesa però
nella sovrapposizione della zoé, vale a dire alla vita nella sua semplice tenuta biologica, sul

115

H. Arendt, Che cos’è la libertà, in Tra passato e futuro, a cura di A. Dal Lago, Milano, 1991, p. 208.

116

F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, cit., p. 369.

117

Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., p. 192.


bios, inteso come vita qualificata118 ; la nuda vita119, la pura e semplice sopravvivenza, il puro
dato biologico che diventa immediatamente politico120, che prende autocoscienza e diventa
partecipazione attiva della specie. “Il deserto del reale rivela che quando il metabolismo ciclico
della vita occupa tutto lo spazio pubblico, giocato intorno al cerchio inderogabile della
produzione, si sta sotto il segno della necessità e della sopravvivenza, che non è libertà umana e
politica”121.

I.6 Il potere-sapere liberista


Dal pastorato alla ragion di Stato e grazie a questa lo stato di polizia; nel mezzo discipline e
dispositivi di sicurezza, governo delle anime, dei corpi e della specie, il tutto attraversato e
percosso dal minimo comun denominatore del biopotere. Ma non è tutto, lo stato di polizia
entra in crisi a partire dalla prima metà del XVII secolo come conseguenza di una critica serrata
da parte degli economisti. Essi spostano dapprima l’attenzione dalla commercializzazione alla
produzione, dopodiché immettono il principio del giusto prezzo – mettendo in crisi la
regolamentazione onnipresente dello stato di polizia, una regolamentazione che postulava
un’indefinitezza delle cose ed un sovrano che tutto poteva aggiustare –, ossia la
cristallizzazione di una visione che vede nel modificare il corso delle cose e degli eventi come
un peggioramento: si pensa ad una regolamentazione spontanea di cose ed venti. Altro punto di
critica è il fatto di vedere nella popolazione non un bene in sé o un valore assoluto, essa è
relativa all’ambiente e tenderà ad un aggiustamento naturale; infine il bene di tutti, e questo è il
punto cruciale per la nostra analisi, sarà assicurato dal comportamento di ognuno, se Stato e
governo sapranno lasciar giocare i meccanismo dell’interesse privato. Lo stato quindi come
regolatore di interessi e non più come principio della felicità di uno e tutti, uno Stato che dovrà
rispettare come principio fondamentale i processi naturali: bisogna manipolare, suscitare,
facilitare, lasciar fare, in altre parole gestire e non più regolamentare; inquadrare i fenomeni

118

Roberto Esposito, Bios, Einaudi, Torino, 2004, p. 4.

119

Giorgio Agamben, Homo sacer, cit., p. 12.

120

Ivi, p.164

121

Laura Bazzicalupo, Ambivalenze della biopolitica, in L. Bazzicalupo – R. Esposito, Politica della vita.
Sovranità, biopotere, diritti, Laterza, Roma-Bari, 2003, p. 138.
naturali in maniera tale che non vengano deviati o che un intervento inappropriato li devii 122. Di
certo, la polizia non scompare, si avrà un sistema a doppia entrata, con da una parte un insieme
di meccanismo che dipendono dall’economia e che avranno la funzione positiva di far crescere
le forze di Stato e popolazione, dall’altra parte un apparato negativo, nel senso che si deve
impedire il disordine, le irregolarità, le illegalità.
Come i politici definirono una nuova arte di governo fissando principi razionali e forme di
calcolo specifiche - staccandosi dalla “cosmo-teologia” medievale -, stessa cosa fecero gli
economisti, si staccarono dallo stato e dalla sua razionalità, mettendo alla base la ragione
economica e la naturalità dei rapporti tra gli uomini quando coabitano, quando fanno scambi,
quando producono123. Con gli economisti nasce una nuova governamentalità, più di un secolo
dopo la comparsa di un’altra governamentalità che risale al XVII secolo: il pensiero politico-
economico-liberale parte dal presupposto di un potere cieco, costretto dalla sua irriducibile
ignoranza, ad autolimitarsi124. Nella logica del governo foucaultiano, al pari della biologia,
s’innesca un secondo elemento che fa epoca nell’interpretazione della modernità in termini di
biopolitica, il liberalismo, il governo tra un massimo e un minimo - e l’economia politica -.125
Il principio di regolazione di questo governo si basa su un certo regime di verità, che trova la
sua espressione e formulazione teorica nell’economia politica: governo minimo ed economia
politica sono due cose collegate tra loro, ma il vero regime di verità non sta prettamente nella
sua teoria, ma in un luogo preciso, il mercato. Certamente, è dalla testa degli economisti che si
permette questa trasformazione: la teoria del giusto prezzo – un prezzo naturale, buono,
normale, che esprime un rapporto adeguato tra costo di produzione ed ampiezza della domanda
– sarà il rivelatore di una conformità ai meccanismi naturali che porterà a vedere nel mercato
un elemento di veridizione e di controllo dell’attività di governo; l’economia politica indicherà
al governo il luogo in cui andare a cercare il principio di verità della sua pratica specifica 126;
122

Michel Foucualt, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 252

123

Ivi, p. 254.

124

M. Senellart, Governamentalità e ragion di stato, in http://www.filosofia.unina.it/ars/senellart.html.

125

Renata Badii, La lettura foucaultiana della biopolitica, in Biopolitica, bioeconomia e processi di


soggettivazione, a cura di A. Amendola, L. Bazzicalupo, F. Chicchi, A. Tucci, Quodlibet, Macerata, 2009, p. 47.

126

Michel Foucault, Nascita della biopolitica, cit.,p. 40.


“ciò che permette di rendere intelligibile il reale è semplicemente il fatto di mostrare ciò che è
possibile: che il reale sia possibile”.127 In sintesi, si tratta di far emergere ciò di cui sarebbe
inutile interessarsi per il governo, e i limiti di questo saranno quindi definiti dai confini
dell’utilità del suo intervento, dal raggiungimento degli interessi dell’individui e della
collettività.
Foucault nella sua analisi del liberismo compie un balzo di duecento anni e prende sotto esame
gli ordoliberali tedeschi, in auge a partire dalla metà del XX secolo circa; mentre nel XVIII
secolo si chiedeva allo stato che dopo un certo limite esso non sarebbe potuto intervenire, essi
posero le basi per un’economia di mercato che non doveva fungere da mera limitazione bensì
da vero e proprio principio regolatore; lo stato aveva prodotto guerre, carestie, il nazismo, nulla
prova invece che il mercato sia dotato di altrettanta difettosità 128; uno stato sotto la sorveglianza
del mercato, anziché il contrario. Per realizzare quest’“utopia” han messo in atto determinate
trasformazioni:
 Innanzitutto cambia la logica del laissez-faire: mentre prima si pensava che la concorrenza
potesse essere, nel suo ruolo di organizzatrice del mercato, una naturalità, un processo
spontaneo, ora si vede in ciò “un’ingenuità naturalista” 129, essa è considerata una logica
economica che può produrre i suoi effetti a patto che ci siano determinate condizioni
artificialmente predisposte; una governamentalità attiva a partire dall’indice generale del
mercato. Ma c’è di più: i meccanismi della concorrenza devono essere applicati nel modo
più esteso possibile, a tutta la società; non una società sottomessa all’effetto merce bensì
all’effetto impresa; una società dell’ homo oeconomicus concorrenziale, dove ogni unità di
base ha la forma dell’impresa;
 In secondo luogo, data una società di mercato concorrenziale, c’è la ridefinizione
dell’istituzione giuridica; difatti, analogamente a come si è trattato il tema della
concorrenza, cosa come il regime della proprietà, il contratto o il brevetto, non sono dati
naturali perciò occorrono creazioni contingenti del legislatore, serve la cornice legislativa
adeguata. Il giuridico non è sovrastruttura, ossia non è mero impianto asservito
all’economia, esso invece ne modella la forma; l’economico non è un processo naturale o
127

Ibidem.

128

Ivi, pp. 102-108.

129

Ivi, p. 111.
meccanico, ma è un insieme di attività regolate, perciò siamo di fronte ad un ordine
economico-giuridico130. E come deve agire l’impianto giuridico? Esso deve innanzitutto
formulare delle misure di carattere generale, formali, ma non iscriversi all’interno di una
scelta economica globale, misure che permetteranno agli individui di agire liberamente
all’interno di esse, e misure che vincoleranno i soggetti come lo stato stesso; lo stato non
deve prendere decisioni, dev’essere cieco rispetto ai processi economici131.
 Il lavoro, che nell’impostazione classica – o marxiana - era un elemento neutro, ridotto a
mero fattore tempo e quindi amputato di tutta la sua realtà umana; la colpa stava nella
formulazione teorica, nel modo di analizzare l’economia; questa viene ora vista come la
scienza del comportamento umano che in una situazione di scarsità compie una scelta tra
fini alternativi132, perciò l’analisi deve mettere in evidenza quale sia il calcolo che
l’individuo compie. Da qui il lavoro viene visto come un’attività svolta per produrre un
salario, un reddito, un capitale, una propria competenza; si delinea un homo oeconomicus
come imprenditore di se stesso, si delinea la nozione di capitale umano.
 Proprio grazie al concetto di capitale umano si assiste ad uno spostamento dell’economico
nel sociale: qualsiasi attività umana finanche psicologica può essere letta in termini di
utilità/disutilità, ogni condotta umana, anche non razionale, può essere attraversata
dall’analisi economica, l’importante è che questa condotta risponda in maniera sistematica a
delle modifiche nelle variabili dell’ambiente, deve cioè accettare la realtà. Il soggetto
diviene quindi un oggetto da poter maneggiare visto che si muove in base ad un interesse
soggettivo.133 Inoltre tutto ciò porta anche alla possibilità di una critica permanente
all’azione di governo, si filtra la potenza pubblica in termini di efficacia. 134 Il laissez-faire
diventa un non lasciar fare al governo con il mercato che diventa una sorta di tribunale
permanente.

130

Ivi, p. 136.

131

Ivi, p. 146.

132

Ivi, p. 183.

133

Ivi, p. 223.

134

Ivi, p. 201.
 Centrale e peculiare poi il tema della libertà per Foucault; la nuova arte di governo non è la
garanzia dell’imperativo “sii libero”, è un governo liberale nel senso che non pensa a
garantire o rispettare questa o quella libertà, ma consuma libertà; per questo è obbligata a
produrne e di conseguenza ad organizzarla. Il liberalismo ti procurerà di essere libero, non
può funzionare difatti se non là dove ci sono libertà, di mercato, del venditore,
dell’acquirente, di espressione ecc.135 Se quindi non corrisponde all’imperativo della libertà,
ma alla gestione ed organizzazione delle condizioni alle quali si può essere liberi, si instaura
un rapporto perverso tra tutto ciò che la produce e tutto ciò che al tempo stesso la limite e la
pregiudica, perciò sono necessari controlli e coercizioni. Così il criterio per calcolare il
costo di produzione della libertà sarà la sicurezza, determinare cioè quando gli interessi di
“uno e tutti” si trasformino in qualcosa di pericoloso; libertà e sicurezza, l’economia di
potere specifica del liberalismo, portando i soggetti ad una continua cultura del pericolo, il
correlato culturale e psicologico interno al liberalismo.

Si è visto quindi che oltre alla biologia subentra l’economia politica come sapere che guida
l’esercizio del potere sulla popolazione, il pilastro di una razionalità che pensa la politica come
una regolamentazione della vita e che per tale ragione si rivela sempre più “un’economica
piuttosto che una politica”.136 La natura biologica dell’umano è presentata come dato di
partenza, sul quale adottare misure cultural-politico-economiche, sotto l’esigenza di prevedere
e condizionare i comportamenti umani in chiave utilitaria; la biopolitica, il progetto di
miglioramento socio-biologico, descrive l’uomo per oggettivarlo, sia in quanto essere
biologico-vivente che come attore produttivo-consumante, attraverso quelli che Foucault
chiama “discorsi di veridizione”, quello della biologia e quello dell’economia, veri e propri
regimi di potere-sapere.137 Un biopotere e una biopolitica che agiscono con tecnologie di
governo che si rapportano al processo sociale e agli individui che lo sostengono,
preoccupandosi di adattare gli uni all’altro senza invadere gli spazi di esercizio delle libertà
individuali e senza potersi tuttavia astenere da un intervento di regolazione necessario, tra una
carenza ed un eccesso che non può pianificare né prevedere perché innestati sul libero esercizio
135

Ivi, pp. 65-68.

136

Laura Bazzicalupo, il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 8.

137

Ivi, pp. 33-34.


della volontà.138 Un’inquietante similitudine della governamentalità foucaultiana con il
modernissimo concetto di governance, entrambi processi di guida delle condotte individuali e
collettive che pervadono lo spazio sociale articolando conflitto e cooperazione in maniera
pragmatica ed in termini di efficienza, entrambi nati, seppur a distanza di secoli, in simbiosi
con il liberalismo, un potere-sapere circolare dove le istanze della competitività e del
consumatore hanno sostituito le norme del servizio pubblico, dove le funzioni di governance-
tecnologie di potere sono costruzioni artificiali per cercare di governare una società che vuole
essere governata, cristallizzazione di una cooperazione trasversale e reticolare che
trasversalmente va dal basso verso l’alto per la formazione di una cultura di mercato
transnazionale.139 In questo senso del discorso, in cui l’economia rifiuta qualsiasi spazio di
mediazione e diventa immanente alla vita, la cattura, producendola normativamente,
trasformandola e modellandola; sembra così perdere di senso la nozione di governamentalità
biopolitica: a primo acchito, pare che questa sia in qualche modo contenuta e fatta giocare
intorno al concetto di governamentalità bioeconomica, quella modalità di governo delle
condotte che si esercita a prescindere dai rapporti politici di sovranità e dai rapporti sociali di
produzione, dove gli individui non sono né soggetti di diritto né soggetti produttivi ma mere
unità biologiche che in quanto viventi esprimono opportunità di valorizzazione e cooperazione
per un fine economico. In tal senso per bioeconomia si può intendere una “nuova sintassi dello
sfruttamento intesa non più come arbitrario intrattenimento di sovrappiù ma anche come
suadente e consensuale disposizione della vita nella cifra dell’utile140, in qualità di un discorso
sui desideri che agisce attraverso i media attuando una vera e propria colonizzazione
dell’immaginario collettivo; il liberalismo degli interessi non è altro che una forma di capillare
autocontrollo da parte dei singoli individui141.

138

Sandro Chignola. Sull’epoca della biopolitica. Un commento, in Biopolitica, bioeconomia e processi di


soggettivazione, cit., p. 67.

139

Salvo Vaccaro, Governance e governo della vita, in Biopolitica, bioeconomia e processi di


soggettivazione, cit., pp. 113-118.

140

Federico Chicchi, Bioeconomia: ambienti e forme della mercificazione del vivente, in Biopolitica,
bioeconomia e processi di soggettivazione, cit., p. 153.

141

Elettra Stimilli, Metodica dell’esistenza e capitale umano, in Biopolitica, bioeconomia e processi di


soggettivazione, cit., p. 197.
“Il discorso neoliberale non è un discorso come gli altri. è un "discorso forte"; che però
è tanto forte, e difficile da controbattere, soltanto perché ha dalla sua tutte le forze di
quel mondo di rapporti di forze che esso stesso contribuisce a far diventare ciò che è,
orientando in particolare le scelte economiche di chi domina i rapporti economici, e
aggiungendo così a questi rapporti di forze la propria forza, propriamente simbolica. In
nome di questo programma scientifico di conoscenza, convertito in programma politico
d'azione, si compie un immenso lavoro politico (negato, poiché in apparenza puramente
negativo) mirante a creare le condizioni di realizzazione e di funzionamento della
"teoria"; un programma di distruzione metodica dei collettivi.[…] una sorta di macchina
logica che si presenta come una concatenazione di vincoli, con effetti di trascinamento
sugli agenti economici. L'istituzione pratica di un mondo darwiniano della lotta di tutti
contro tutti, a tutti i livelli della gerarchia, in cui si fa leva sull'insicurezza, sulla
sofferenza e sullo stress per ottenere il massimo impegno sul lavoro e al servizio
dell'impresa, non potrebbe indubbiamente riuscire in maniera così completa senza la
complicità delle predisposizioni alla precarietà prodotte dall'insicurezza e dall'esistenza,
a tutti i livelli di gerarchia, anche quelli più elevati, di un esercito di riserva di
manodopera resa docile dalla precarizzazione e dalla permanente minaccia della
disoccupazione. Il fondamento ultimo di tutto quest'ordine economico, che pure si pone
sotto il segno della libertà, è in effetti la violenza strutturale della disoccupazione, della
precarietà e dell'implicita minaccia di licenziamento. […] Eppure, sono lì, sotto gli
occhi di tutti, gli effetti della grande utopia neoliberale realizzata: non soltanto la
miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate, lo
straordinario aumento dei divari tra i redditi, la progressiva scomparsa degli universi
autonomi di produzione culturale (cinema, editoria ecc.), in seguito all'imperiosa
intrusione dei valori commerciali, ma anche e soprattutto la distruzione di tutte le
istanze collettive e in primo luogo dello stato depositarie di tutti i valori universali
associati all'idea di pubblico, in grado di contrastare gli effetti della macchina infernale.
Dovunque, nelle alte sfere dell'economia e dello stato come in seno alle imprese,
assistiamo all'imposizione di quella sorta di darwinismo morale, con il culto del winner
formato alla matematica superiore e al salto con l'elastico, che instaura la lotta di tutti
contro tutti e il cinismo come norma di tutte le prassi142.

Il dominio attuale dell’economia rivela una contraddizione essenziale riscontrabile nella vita
concreta e reale: la sua fonte di legittimazione ed il suo unico fine, il viver bene, il benessere, si
compie, o meglio, è in potenza d’attuazione sotto la spinta di un’ossessione acquisitiva che
pregiudica il luogo del godere – l’eudaimonia –, il sentirsi soddisfatti, sazi, pacificati, protetti;
flussi di denaro che scorrono, flussi di proprietà che si vendono, flussi di lavoratori che si
deterritorializzano, ossessione dell’innovazione tecnologica, alienazione, sono tutte spinte che
sono l’esatto contrario e la morte stessa del desiderio del bene-stare.143

142

Pierre Bordieu, L’utopia, in via di realizzazione, dello sfruttamento, in http://www.monde-


diplomatique.it/LeMonde-archivio/Marzo-1998/pagina.php?cosa=9803lm03.01.html&titolo=L%27essenza%20del
%20neoliberalismo

143

Laura Bazzicalupo, Il governo delle vite, cit., p. 16.


Capitolo II: Razionalità tecniche

Deleuze- Gattari, L’anti-Edipo Ivan Illich, Nello specchio del passato

“Perché gli uomini combattono per la loro “Se qualcuno mi domandasse: Ivan, che
servitù come se si trattasse della loro cos’è che ti potrebbe stimolare di più nel
salvezza?” prossimo anno e mezzo? – è questo il tipo
di orizzonte nel quale inquadro la mia vita –
risponderei che mi piacerebbe convincere
un certo numero di persone a riflettere più
su come gli strumenti influiscano sulla
nostra percezione che su ciò che possiamo
fare con essi, a indagare su come gli
strumenti modellino la nostra mente, come
il loro uso modelli la nostra percezione
della realtà ben più di quanto noi si modelli
la realtà applicandoli o utilizzandoli”.
II.1 Tecnica come razionalità

In modo analogo ai processi che hanno accompagnato la nascita della ragione di governo, fino
ad arrivare al biopotere, la modernità, come detto, è caratterizzata dal distacco dell’uomo dalla
natura e da Dio; seguendo una direttrice diversa da quella foucaultiana della razionalità
governamentale, in questo periodo si profila un altro processo legato a questa trasformazione
antropologica. Si viene a formare, nello specifico, la figura dello scienziato, che non solo vuole
conoscere la natura, bensì trasformarla, usarla a scopi di utilità; il distacco dell’uomo da Dio, la
secolarizzazione del mondo, sono i principi che consentono la nascita di una scienza che vede
nella natura l’oggetto del suo dominio, e sono gli stessi principi che, sviluppandosi, conducono
a un mondo meccanico dominato dalla tecnica.
Le tecniche anteriori erano empiriche, poggiavano sulle esperienze personali, si tramandavano
da una generazione all’altra, si rispettavano i tempi e ritmi naturali; ma con il XVII secolo,
invece dell’esperienza, si pone a fondamento della tecnica la conoscenza delle scienze naturali,
si passa dall’empirismo al razionalismo144; con la sottomissione della natura, oltre a plasmare
un ambiente nuovo, cambia l’uomo stesso, passando dal tipo organico a quello meccanico: la
comparsa delle macchine porta allo sradicamento dell’uomo dalle viscere della natura ed un
cambiamento del suo ritmo di vita; la macchina si frappone tra l’uomo e la natura,
sottomettendo l’uomo stesso; se prima dipendeva dalla natura, ora, per un verso, grazie alla
tecnica si arricchisce, per un altro, prova una schiavitù mai provata prima, viene smembrato,
144

W. Sombart, La tecnica scientifica e lo spirito borghese, in M. Nacci, Tecnica e cultura della crisi,
Loescher, Torino, 1982, p.151.
diviso e risponde a principi inferiori – non trascendenti, legati a Dio -, subumani 145. La tecnica
diventa quell’orizzonte da cui si schiudono tutti i campi d’esperienza, auto-ponendosi come
soggetto della storia e scalzando così l’uomo. Principio d’astrazione massimo e quindi
incontrollabile dall’uomo stesso, diventa un meccanismo ‘naturale’ iscritto tra un positivo,
l’esercizio della potenza tecnica, ed un negativo, circoscritto nell’errore tecnico; la tecnica
è autoreferenziale.146
La tecnica non è più un mezzo per fare – come l’aratro, il martello – la tecnica è oggi
prevalente, predominante rispetto ad ogni altro potere e sapere; la tecnica ha creato un mondo,
il suo mondo autoreferenziale, la tecnica è la società, la tecnica è la vita: per accrescere se
stessa la tecnica deve sempre più entrare nella vita delle persone, ma non solo con le varie
tecnologie e con la cura tecnologica dei nostri corpi, ma con la produzione/modificazione dei
nostri comportamenti, delle nostre psicologie individuali e sociali, dei nostri bisogni e delle
nostre emozioni. La tecnica governa la vita, le dà una ragione di senso, di comportamento, di
azione, indirizzandone il fare attraverso saperi, poteri e soprattutto connessioni funzionali. 147
Difatti la tecnica è da intendere sia come insieme dei mezzi, ossia le tecnologie, sia come
razionalità che presiede al loro impiego in termini di efficienza e funzionalità, ossia il fine. 148
La tecnica oggi è il nomos, la norma, la legge, il normale e il normato, produce e distribuisce
saperi, cose, idee, modi di vivere secondo la propria regola/norma di organizzazione, ma
soprattutto governa, amministra, distribuisce gli uomini nello spazio e nel tempo; razionalità
tecnica che precede ed ingloba la razionalità del mercato; la tecnica è già sempre economia:
dispone della natura, antepone le cose utili, post-pone quelle meno vantaggiose, si oppone a
quelle che ostacolano la sua corsa, espone quelle che vuole proporre al consumo; la sua
razionalità è la gestione calcolante della vita, prende ad oggetto il corpo vivente per fornirgli/si
le cose utili, la protezione, il potenziamento149. Presiede difatti tanto alla produttività

145

N. Berdjaev, Il senso della storia, cit.,, pp.170-174.

146

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999, pp.39-41.

147

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, Liguori, Napoli, 2008, p. 5.

148

Ibidem.

149

Laura Bazzicalupo, Il governo delle vite, cit., p. 108.


capitalistica quanto alla politica, anch’essa tecnicizzata, indirizzata a quel fine che costituisce
l’unica fonte di legittimazione, l’eudaimonia, il viver bene, il ben-essere150; la tecnica oggi è il
vero biopotere, prevalente e dominante su ogni altro, che cresce e si rafforza grazie a specifiche
biopolitiche; oggi la società produce, consuma, si diverte, comunica, impara, è informata
mediante la tecnica, attraverso di essa; la società funziona con le modalità d’uso e di
funzionamento della tecnica; la società, in quanto popolazione e in quanto insieme di individui,
ha la forma della tecnica.151 È con essa che oggi la società viene divisa in normale e patologico,
è con essa che si stabilisce il vero dal falso; è essa e non più la scienza a prevalere – la tecnica
prevale sulla scienza e la piega ai suoi scopi, si serve della politica, agisce in modo
economico152–, è essa a costituire il sistema di veridizione di cui parlava Foucault.

“Bio-tecnica è la rete informatica, i motori di ricerca, il lavoro immateriale come


quello flessibile e precario, sono bio-tecnica la televisione, i videogiochi, il telefonino,
la pubblicità, i blog e le e-mail, bio-tecnica è la new economy, è la finanziarizzazione
dell’economia, bio-tecnica sono le politiche per i fondi pensione e il credito al consumo,
Youtube e Second Life […] bio-tecnica è come e cosa mangiamo, sono i manuali su
come fare sesso, su come fare soldi, come educhiamo i bambini, è il nichilismo sociale
diffuso, bio-tecnica è la morte della politica e la sua verticalizzazione in forma di a-
politica e di anti-politica […] bio-tecnica: un insieme di procedure da eseguire, di
programmi da scaricare, di modi d’uso sociale da vivere, di conformismo e di
conformità, di disciplina ed auto-disciplina, di stili di vita, di consumi da produrre, di
incessante messa in sicurezza della società, di paranoica ricerca di immunizzazione dal
contagio della morte”.153

La bio-tecnica qui espressa è la premessa e l’intensificazione della bio-politica foucaultiana,


perché senza la tecnica non ci sarebbero state discipline e dispositivi di sicurezza e perché
questa è la traduzione continua delle norme tecniche in norme sociali, ma mentre prima si
misurava, controllava, disciplinava e regolava attraverso i corpi, ora si disciplinano ed insieme
150

Ivi, p.102.

151

L. Demichelis, Discipline e biopolitiche, in Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, cit.,


p.266.

152

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, cit., p.10.

153

Ivi, pp.11-13.
governano bio-tecnicamente gli uomini attraverso le loro emozioni, la loro psiche, producendo
e vendendo immagini e immaginari che permettono di modificare artificialmente la percezione
della realtà; oggi è bio-tecnica sempre più positiva, è bio-tecnica del piacere154: la sua offerta,
produzione e promozione attraverso i luoghi del consumo/piacere, attraverso i media e la
spettacolarizzazione della vita, formano la disciplina sociale prevalente che tiene insieme
persone e popolazioni.155
Un potere pastorale bio-tecnico che si basa sull’esaltazione dell’io, dell’ego, sulla rimozione
dei limiti, un potere che dirige le coscienze, governa le condotte degli uomini, manipola le idee
del gregge come dell’opinione pubblica mediante l’organizzazione del lavoro – di produzione,
di conoscenza, di divertimento -, mediante pubblicità, marketing, spettacolo, informazione; si
rende illusoriamente partecipe l’individuo per farlo entrare nella produzione incessante di un
156
più per la società, basandosi sull’assunto della sua innata volontà di potenza , che però viene
incorporata e trasformata in volontà di potenza della tecnica, di cui l’uomo diviene mero
strumento e prodotto157.

“La socievolezza dell’uomo nasce solo da queste due cose, e cioè dalla molteplicità dei
suoi desideri e dai continui ostacoli che egli incontra nei suoi sforzi per soddisfarli, e
[…] con la parola società voglio significare un corpo politico nel quale l’uomo, o
soggiogato da una forza superiore o tolto dal suo stato selvaggio dalla persuasione, è
divenuto una creatura disciplinata, capace di realizzare i propri fini lavorando quelli
altrui, e dove, sotto la guida di un capo o retti da qualche altra forma di governo, ciascun
membro è reso utile al tutto e, con un’abile direzione, tutti sono spinti ad agire come se
si trattasse di un sol uomo”.158

154

Su tale argomento vedere anche G. Anders, L’uomo è antiquato Vol. II, sulla distruzione della vita
nell’epoca della terza rivoluzione industriale, traduzione di M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p.124 :
“Fra le potenze che oggi ci formano e deformano non ce n’è più neanche una che possa gareggiare con quella del
divertimento”.

155

Ivi, p. 18.

156

E. Junger – M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1989, p.131.

157

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, cit., p.20.

158

B. Mandeville, La favola delle api, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp.245-248.


La tecnica come macchina, come apparato, come apparato di apparati, come totalità, funziona e
chiede alle sue parti suddivise ed individualizzate di funzionare sempre più e sempre meglio e
con sempre maggiore inconsapevolezza159;

“I singoli apparati restano incapaci di funzionare in modo sensato finchè non vengono
coordinati in un tutto perfettamente funzionante come l’apparato […] il funzionamento
dei macroapparati è la condizione per la riuscita dei microapparati […] ma, allo stesso
modo, anche ogni macroapparato, se vuol funzionare e funzionare bene, deve accordarsi
ad altri macroapparati. Con ciò si afferma […] che gli apparati mirano
fondamentalmente ad uno stato ideale, uno stato nel quale esista un apparato unico e
perfetto, dunque l’apparato, quello che raccoglie in sé tutti gli apparati, quello nel quale
tutto funziona bene”.160

Quindi il mondo e la società che diventano apparato, che diventano il fine ultimo dell’insieme
degli altri (micro) apparati, con l’individuo addestrato ininterrottamente per funzionare
attraverso esso e farlo funzionare, un potere che le persone non controllano;

“Il principio di prestazione, che è il principio di una società acquisitiva e antagonistica


in processo di espansione costante, presuppone un lungo sviluppo durante il quale il
dominio è stato sempre più razionalizzato […] gli interessi del dominio e gli interessi
dell’insieme coincidono: l’utilizzazione vantaggiosa dell’apparato produttivo soddisfa
pienamente i bisogni e le facoltà degli individui. Per la grande maggioranza della
popolazione, la misura e il modo della soddisfazione sono determinati dal loro lavoro;
ma questo lavoro è lavoro per un apparato che essi non controllano, che opera come un
potere indipendente.
A questo potere gli individui, se vogliono vivere, devono sottomettersi, ed esso diventa
tanto più estraneo quanto più specializza la divisione del lavoro. Gli uomini non vivono
più per la loro vita, ma eseguono funzioni prestabilite; mentre lavorano non soddisfano i
propri bisogni e le proprie facoltà, ma lavorano in uno stato di alienazione. La libido è
stata deviata per consentire prestazioni socialmente utili, e l’individuo lavora per se
stesso soltanto in quanto lavora per l’apparato, impegnato in attività che in massima
parte non coincidono con le sue facoltà ed i suoi desideri […] le restrizioni agiscono
sull’individuo come leggi oggettive e come una forza interiorizzata: l’autorità della
società è assorbita dalla coscienza e dall’inconscio dell’individuo e opera sotto forma
dei suoi desideri, della sua moralità, e delle sue soddisfazioni. Nello sviluppo ‘normale’
l’individuo vive liberamente la sua repressione come vita propria: egli desidera ciò che
si ritiene debba desiderare”.161

159

E. Severino, La filosofia futura, BUR Saggi, Milano, 2006, p.71.

160

G. Anders, L’uomo è antiquato vol. II, cit, p.99.

161

H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2001, p.88.


Ritroviamo così sistematicamente la vecchia formula foucaultiana omnia et singulatim162,
l’agire singolo e collettivo per un più di profitto dello scopo ultimo, qui ora, nell’accezione del
‘principio di prestazione’ di Marcuse, anima e corpo delle persone ridotte a meri strumenti di
lavoro alienato, e queste, in qualità di esseri viventi, possono adeguarsi soltanto se rinunciano
all’originaria libido che è nell’organismo umano. L’individuo perciò non va lasciato solo,
perché in tal caso la sua intelligenza non ignorerà la possibilità di liberarsi da una realtà
repressiva, ed allora ecco il controllo e l’organizzazione del lavoro, del tempo libero, della
sessualità, del piacere e del divertimento.163 Tecnica della tecnica delle tecniche, apparato di
apparati, razionalità; nonché auto-accettazione, auto-adesione, introiezione delle procedure e
norme imposte dal sistema. Le nuove tecnologie alterano la struttura dei nostri interessi, le cose
a cui pensiamo, ed il carattere dei nostri simboli, le cose con cui pensiamo.164 Svolgiamo le cose
senza alcun pensiero sul come e sul perché – la cultura del button pushing –, siamo attivamente
passivi, efficienti, razionali, coinvolti: l’autorità ha mutato il suo carattere, non è più manifesta
bensì anonima ed invisibile, però tutti ci conformiamo maggiormente che in una società
autoritaria visto che le nostre autorità sono ora il guadagno, la necessità, il mercato, l’opinione
pubblica; “chi può attaccare l’invisibile? Chi può ribellarsi contro nessuno?”.165
Da qui si produce il conformista, quel soggetto che Anders definisce come “l’uomo che, per
ragioni di comodo o di viltà, decide di omologare le sue azioni, le sue azioni, i suoi sentimenti,
in breve tutto il suo stile di vita” 166; quest’individuo nella società attuale prende sempre più
corpo, è un soggetto sempre più passivo; mentre il potere autoritario lasciava uno spazio,
seppur minimo, alla personalità ed alla resistenza , oggi tutto ciò scompare grazie al
conformismo soft, quello istigato dal piacere, persino divertente; c’è l’illusione della libertà,
162

A tal proposito importante anche il pensiero di E. Fromm in, Anima e società, Mondadori, Milano, 1993,
pp.62-63 o Psicanalisi della società contemporanea: “La società non può nulla senza gli individui concreti e
l’individuo non vive se non come socializzato […] con gli individui che mostrano di avere un carattere
socialmente tipico” ossia una struttura caratteriale costruita dall’esterno che l’individuo si sforzerà di raggiungere.

163

Ivi, p.90.

164

N. Postman, Technopoly, Bollati Beringhieri, Torino, 1993, p.25.

165

E. Fromm, Psicanalisi della società contemporanea, Mondadori, Milano, 1996, p.151.

166

G. Anders, L’uomo è antiquato vol. II, cit., pp.177 e ss.


ma se si gira la medaglia c’è la tecnocrazia, una tecnica autoritaria-totalitaria; il tutto e il niente.
E come ci diceva anche Foucualt, un potere più è muto ed impercettibile e più è al colmo della
potenza, assicura al meglio il suo dominio. E questo potere invisibile che attraversa economia,
politica, cultura, individuo e società si accosta e fa avanzare delle analogie con la definizione di
totalitarismo data da Hannah Arendt167, che lo considera come una forma di dominio nuova che
non si limita a trasformare la politica, ma propone una modificazione nel profondo della stessa
natura umana, trasformando gli individui in automi assolutamente obbedienti, senza autonomia,
senza responsabilità per ciò che fanno, avendo di fatto introiettato il totalitarismo stesso.
Quest’ultimo, secondo l’autrice, agisce essenzialmente attraverso ideologia e terrore; e se il
terrore è sostituito dalla paura e dall’incertezza, che permettono di far accettare supinamente
nuovi controlli e nuove norme, è nella prima – l’ideologia – che si costituisce un elemento
essenziale per un potere totalitario; essa è sostanzialmente la trattazione della storia in base alla
stessa esposizione logica dell’idea, è da questa cioè che pretende di ricavare i misteri del
passato e risolvere le incertezze del futuro, ma in realtà è pura illusione, modificazione della
percezione reale, ma coerente con se stessa: una falsificazione convincente che costruisce la
realtà e che opera quindi come addestramento dell’uno per legarlo al tutto; e la tecnica lo è nel
modo in cui offre incessantemente fughe dalla realtà, sistemazione razionale dell’irrazionale,
168
dove ogni cosa ha un senso, una logica propria e fine a se stessa ; perché quando si
producono regimi di veridizione e si controlla l’immaginario collettivo – tramite pubblicità o
propaganda -, quando si controlla il vero, il linguaggio, i simboli, allora siamo in ambiente
prefoggiato, lo siamo noi stessi, mentre invece siamo convinti di controllare e possedere.
A ben vedere però, c’è chi, come Galimberti, nega che la tecnica sia ideologia, e soprattutto
perché “a differenza dell’ideologia che pensa se stessa come immutabile, essa vive e si alimenta
del superamento delle proprie ipotesi teoriche, non si estingue nel momento in cui un nucleo
teorico si rivela inefficace, perché non ha legato la verità a quel nucleo, ma alla sua efficacia
produttiva, che può essere benissimo garantita da altri nuclei teorici”169; in sintesi non basa la
verifica delle sue idee in rapporto ad una verità immutabile ma fissa dei sistemi ipotetici da
verificare tramite la loro efficacia; si basa cioè su una rivoluzione permanente che è neutrale
167

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004, pp. 640-645.

168

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, cit., p.126.

169

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, cit., pp.409-410.


rispetto al sistema, “ciò che unisce Washington a Mosca non è di certo un qualcosa chiamato
‘filo rosso’, bensì il fatto che entrambe non possono più esistere senza la tecnologia del
telefono; il fatto che entrambe sono sotto il dettato della tecnica” 170. E Anders continua, visto
che l’ideologico si è introdotto nel mondo stesso degli apparati siamo in un’era postideologica;
si assiste nella pratica ad un qualcosa di più di un’ideologia, ma la morte di tutte le ideologie e
la trasformazione della tecnica da mezzo a fine di se stessa: “se il mezzo tecnico è la
condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine, che non può essere raggiunto prescindendo
dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé,
perché tutti gli scopi che gli uomini si propongono non si lasciano raggiungere se non
attraverso la mediazione tecnica”171. C’è il trionfo dell’ideologia-non-ideologia della tecnica 172
perché pur basandosi su un sistema di ipotesi, è comunque un insieme di idee che fa di se stesso
l’unica logica possibile, muta la forma dei propri contenuti per poter mantenere stabile il
proprio contenitore di senso, senza fissare un limite.

“La tecnica inaugura quell’agire in conformità a uno scopo in cui è riconoscibile il


tratto tipico della razionalità, il cui procedere è regolato dal calcolo che valuta l’idoneità
dei mezzi in ordine a fini prefissati. In questo quadro si visualizza l’uomo come
soggetto d’azione e la tecnica come strumento a sua disposizione. Accade però che
l’ordine degli strumenti condiziona la scelta dei fini, rigidamente vincolata dalla
quantità e dalla qualità dei mezzi a disposizione, con la conseguenza che il
perseguimento dei mezzi, senza di cui nessun fine è raggiungibile, diventa il primo fine,
per il conseguimento del quale tutti gli altri fini vengono subordinati e, se necessario,
sacrificati. Così, se la tecnica dovesse diventare come sembra, la condizione universale
(mezzo) per la produzione dei beni e la soddisfazione dei bisogni, il raggiungimento di
un adeguato apparato tecnico diventa il primo fine […] è questo il modo in cui la
tecnica, autonomizzandosi dai bisogni, dai desideri e dai motivi che sono alla base dell’
azione umana, si pone come il primo bisogno, il primo desiderio ed il primo motivo
orientante […] detta legge prende il nome di ragione strumentale, il cui principio
regolatore è l’efficienza che vale da criterio selettivo per le azioni da compiere e per le
realtà da porre in essere”173.

170

G. Anders, L’uomo è antiquato vol. II, cit., p.97.

171

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, cit., p.37.

172

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, cit., p.137.

173

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, cit., pp.251-252.


Quando il progresso tecnico non ha altra finalità che il proprio progredire, l’individuo non ha
altra giustificazione per la propria esistenza se non quella di declinare se stesso in termini di
funzionalità, subordinando il proprio spirito all’oggettività, all’efficienza, riconoscendo come
unico valore l’abilità tecnica e la capacità produttiva.174 Gli uomini hanno oggi a che fare in
primo luogo con un mondo di cose e apparati tecnici nel quale esistono anche altri uomini, e
non il contrario, e se aggiungiamo che le condizioni e la finalità di ogni (micro) apparato sta nel
coordinamento col suo macroapparato – dove risiede il senso, il fine ultimo – allora è lo stesso
mondo ad essere visto come apparato unico da inglobare; e siccome l’apparato guarda il mondo
esclusivamente in termini di utilizzabilità, gli uomini acquistano dignità solo se si inseriscono
nell’apparato come macchina175; ciò lo si può notare benissimo nel lavoratore, che non dispone
più del prodotto finale della sua arte ma è servo dei ritmi del lavoro della macchina,
dell’innovazione, della specializzazione176: sono le macchine che dicono all’uomo cosa fare e
per giunta l’uomo è inconsapevole di tale inferiorità. Quest’inconsapevolezza unita alla volontà
di dominio della tecnica ci porta ad un’implosione, ad una mancanza di senso, che si traduce in
“si deve fare tutto ciò che si può fare” e di conseguenza in “si deve impiegare tutto ciò di cui si
dispone”177, e così gli uomini approdano con il loro agire alla forma più alta di razionalità
tecnica, in cui sono le cose a dettare i principi etici e in cui l’individuo sprofonda nel nichilismo
più totale;
“L’esistenza, così com’è, senza scopo e senza senso, ma inevitabilmente ritornante,
senza un finale nel nulla: l’eterno ritorno. Questa è la forma estrema del nichilismo: il
nulla (la mancanza di senso) eterno! […] La più scientifica di tutte le ipotesi possibili.
Noi neghiamo i traguardi finali: se l’esistenza ne avesse uno, esso sarebbe già stato
raggiunto; il nichilismo della tecnica mette in gioco l’essere stesso dell’uomo e del
mondo nella sua totalità”.178

174

M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino, 1969, pp.123-
124.

175

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, cit., p.600.

176

G. Anders, L’uomo è antiquato, Vol. II, cit., p.80.

177

U. Galimberti, Psiche e techne, l’uomo nell’età della tecnica, cit., p.707.

178

F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887 in Opere, Adelphi, Milano, 1972, vol. VIII, pp. 201-202
Se il nichilismo si aggira come sentimento diffuso nell’età della tecnica, ciò significa per
Anders che il nostro sentire è rimasto ancorato a schemi pre-tecnologici, e perciò detta un
comportamento adatto a quegli schemi; “l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e
il mondo dei suoi prodotti risponde al nome di dislivello prometeico”179; a paralizzare l’uomo
oltre alla grandezza delle prestazioni tecniche è anche l’infinita parcellizzazione dei processi
lavorativi, nota come divisione del lavoro, che impedisce di seguire una trama globale e
destituisce qualsiasi ordine di senso; effetti così smisurati che impediscono al sentimento
umano di reagire; “non si possono trasformare i ceti in pure funzioni e poi aspettarsi che il loro
ethos rimanga intatto”180.

II.2 Tecnica come razionalità e mezzo: la televisione


Come detto nel paragrafo precedente, tecnica significa anche organizzazione del piacere, ma
perché il divertimento ha tanto successo? “Il divertimento è terrore, ci disarma totalmente”181, la
non serietà fa sì che l’individuo si abbandoni allo stimolo senza difese facendogli assorbire
tutto ciò che gli è somministrato, è vinto prima ancora di scendere in campo.
Il modo in cui oggi noi ridiamo, camminiamo, amiamo, parliamo, pensiamo o non pensiamo,
l’abbiamo imparato solo in minima parte nella casa paterna o le altre agenzie di socializzazione
classiche – scuola o istituzione religiosa – ma piuttosto proviene quasi esclusivamente
attraverso la radio, i film, la televisione, in breve, attraverso il divertimento; questo sta
monopolizzando la vita di milioni, miliardi di persone, assomigliando ad una bestia onnivora
che tutto divora e tutto restituisce come un dolce escremento, che si tratti di scimpanzè che
fumano, di catastrofi navali o di sfilate di moda, niente la disgusta, non ha tabù, e d’altro canto,
non trova resistenze; gli individui inghiottono tutto ma contemporaneamente buttano giù un
tantino di privazione di libertà182. Tanto per citare una delle molte ricerche sul tema, è rilevato
che, in Italia nel 2010, un bambino su due ha la televisione in camera, un bambino su due vede
la televisione o usa un videogioco per più di tre ore al giorno e ce n’è una fetta consistente – il
179

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione
industriale, cit., p.24.

180

E. Junger – M. Heidegger, Oltre la linea, cit., p.64.

181

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione
industriale, cit., pp. 123-124.

182

Ibidem.
15% - che occupa ben 5 ore al giorno davanti ad uno schermo 183; si può capire bene il ruolo
educatore delle nuove tecnologie di comunicazione e di svago; Pier Paolo Pasolini si sa, è stato
premonitore sulla funzione di mediazione svolta dalla televisione, e ne affermava:
“Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a
proposito della scuola d'obbligo va moltiplicato all'infinito, dato che si tratta non di un
insegnamento, ma di un "esempio": i "modelli" cioè, attraverso la televisione, non
vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che
la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E' stata la
televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l'era della pietà, e
iniziato l'era dell'edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa
della stupidità e insieme dell'irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e
dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza
o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).”184

Nuove tecnologie, o meglio nuove bio-tecnologie, nuove bio-politiche per far agire sempre più
le persone sulla base di elaborazioni automatiche di accettazione del pensare sociale, grazie a
parole, un linguaggio-sapere, e soprattutto immagini, permettendo l’organizzazione di consumi
e produzione, ruoli sociali, idee politiche e comportamenti quotidiani; tecniche per manipolare
la costruzione dell’identità e della personalità di ciascuno e tecnica principe la televisione
“investita del potere di usare tutti i simboli disponibili per secondare gli interessi del
commercio divorando la psiche dei consumatori”185;
“La produzione biopolitica dell’ordine risulta immanente ai nessi immateriali della
produzione del linguaggio, della comunicazione e dei simbolismi che vengono
sviluppati dalle industrie della comunicazione. Essa non solo esprime ma organizza il
movimento della globalizzazione e il nuovo ordine mondiale […] l’immaginario viene
guidato e canalizzato all’interno della macchina comunicativa. Ciò che le moderne
teorie del potere consideravano trascendente, e cioè esterno alle relazioni produttive e
sociali, oggi si forma all’interno, nell’immanenza di queste relazioni. La mediazione è
assorbita nella macchina produttiva, la sintesi politica del sociale è fissata nello spazio
della comunicazione […] producendo, il potere organizza; organizzando, il potere parla
esprimendosi come autorità; comunicando, il linguaggio produce merci, ma soprattutto,
crea delle soggettività, le mette in relazione e le ordina”.186

183

Dati ISTAT, in http://www.ccm-network.it/azioni/numeri_Italia

184

Pier Paolo Pasolini, Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo, Corriere della Sera, 18 ottobre 1975.

185

N. Postamn, Technopoly, cit., p.156.

186

M. Hardt / A. Negri, Impero, il nuovo ordine della globalizzazione, cit., pp.53-54.


Ciò che è in dubbio, come d’altronde era il tema sottostante (e neanche tanto) nelle analisi di
Michel Foucault, è il nostro libero arbitrio, semmai ce ne sia uno; sembra piuttosto che siamo
schiacciati tra un intervallo di costrizione/libertà: scegliere tra essere consumatori di
trasmissioni radiofoniche o televisive, in qualità dunque di esseri che, invece di un’esperienza
diretta del mondo, sono condannati a lasciarsi nutrire di fantasmi e che ormai non desiderano
quasi più nient’altro, come se nemmeno immaginassero altre libertà. E come quando i difensori
della tecnica sostengono che essa può essere benevola o malevola, che se ne può fare buono o
cattivo uso, i sostenitori delle nuove comunicazioni ugualmente sostengono che si può chiudere
l’apparecchio o addirittura non comprarlo; ma le cose non stanno così, che si voglia o meno
siamo fatti partecipare, perché il mondo stesso è diventato un fantasma, perché non si può
ignorare la sottile costrizione al consumo, non ci si può opporre con uno sciopero. 187 Gli
apparecchi non sono mezzi, ma decisioni preliminari, decisioni che vengono prese prima che
tocchi a noi decidere, anzi, la decisione preliminare, perché esiste solo l’apparecchio,
l’apparato, il macroapparato totale.
Nell’economia di questo potere l’ingranaggio essenziale è senz’altro l’immagine, ne siamo
inondati con tutti i mezzi della tecnica riproduttiva; con essa siamo apparentemente resi
partecipi delle azioni del mondo intero, ma in verità proprio in tal modo queste ci vengono
nascoste, perché a differenza dei testi, i nessi non sono spiegati e tutto è contestualizzato:
mentre mostrano il mondo lo nascondono.188 Quel che ci plasma comunque non sono solo gli
oggetti mediati dai ‘mezzi’, ma i mezzi stessi, i congegni stessi, i quali non sono soltanto
oggetti di un possibile impiego ma hanno una loro struttura e funzione determinata, che
determina il loro impiego e quindi la vita dell’uomo; celebre a tal proposito è la frase del
sociologo canadese Marshall McLuhan “il medium è il messaggio”, 189 indicando appunto con
ciò che non è solo il contenuto a lusingarci ma anche la struttura. E attenzione, non c’è
contrapposizione, non c’è l’operaio e il padrone o l’uomo di sinistra e quello di destra, tutti
sono in pericolo, tutti sono un prodotto, il tema è neutralizzato, trasversale.
Ma come siamo plasmati concretamente? Ecco che ritornano le immagini. Esse permettono
allo stesso tempo una presenza concreta, una situazione in cui l’uomo è in contatto dialettico
187

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p.11.

188

Ivi, p.13.

189

M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, a cura di E. Capriolo, Il saggiatore, Milano, 1999, p.15.
con il mondo e con cui condivide un dato attimo in simultaneità, e una non presenza, una
presenza-fantasma, in quanto il nostro orizzonte è dissolto completamente e anche le cose che
ci dovrebbero oggettivamente interessare prendono la forma della presenza apparente, quella
fornitaci a domicilio dall’apparecchio; siamo meri compresenti.190 Ciò che ci viene incontro,
standocene seduti sopra la poltrona, è un fantasma di mondo che funziona da matrice nel senso
che ci modifica interiormente come modifica il corso degli eventi; il mondo stesso è
un’immagine, è cosi grande che rende necessari dei modelli, e così il contemporaneo si
presenta come la più grande chance della menzogna mai esistita.191 E se l’immagine è diventata
la categoria principale della nostra vita, quali sono gli effetti che si producono? 192
 Innanzitutto veniamo defraudati dell’esperienza e della capacità di prendere posizione
in quanto incontriamo tutto sotto forma di apparenza e fantasma, dunque in versione
rimpicciolita, se non addirittura svuotata di realtà; non come mondo bensì come oggetto
di consumo perché in fondo non esiste più un mondo esterno dato che questo è soltanto
l’occasione di una possibile rappresentazione a domicilio.
 In secondo luogo siamo defraudati della capacità di distinguere tra realtà e apparenza;
nelle trasmissioni televisive l’apparenza viene rappresentata in modo realistico perciò la
realtà si trasforma nel suo contrario, assume carattere di esibizione; non solo, lo
spettatore dovrebbe prendere in considerazione la validità delle immagini stesse in
quanto chi partecipa allo show è il più delle volte incline a voler dare una certa
rappresentazione;
 Andiamo a formare il nostro mondo sulla base delle immagini del mondo, si assiste ad
un’imitazione invertita, in quanto non esiste alcuna immagine che non agisca da
modello; formiamo il mondo perciò secondo l’immagine delle sue illustrazioni ed esso
diventa illustrazione delle illustrazioni;
 Veniamo passivizzati; col rifornimento permanente siamo trasformati in consumatori
permanenti, seguendo il ritmo stesso del rifornimento, senza pause, il che significa
mancanza di autonomia, si crea un rapporto uomo-mondo addestrato unilateralmente;
chi ascolta e non parla è passivizzato e reso schiavo;
190

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., pp. 135-136.

191

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, cit., p.232.

192

Ivi, pp. 232-234.


 Non avvertiamo di essere schiavi in quanto tutto scorre in modo naturale e sotto forma
di svago;
 Veniamo ideologizzati dalle immagini, che ci forniscono l’idea del mondo che loro
vogliono e ci sottraggono dall’accorgerci della mancanza di questa idea; “siamo
sopraffatti da una tale abbondanza di alberi perché ci venga impedito di vedere la
foresta”;
 Veniamo infantilizzati, siamo come i neonati attaccati alle mammelle delle madri; il
mondo ci è dato allo stato liquido, da poter essere immediatamente usato e consumato e
subito liquefatto; il sottofondo musicale serve proprio per non percepire nemmeno
questo processo e ricominciare in modo infinitesimale a ri-consumare.
Le immagini, che si sono staccate da ciascun aspetto della vita, si fondono in un corso comune,
in cui l’unità di questa vita non può essere ristabilita; la realtà considerata parzialmente si
afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo, oggetto della sola
contemplazione; lo spettacolo si presenta come la società stessa, è una visione del mondo che si
è oggettivata, e queste due nozioni non sono diametralmente opposte ma si attraversano e
sdoppiano a vicenda. In quanto indispensabile ornamentazione degli oggetti attualmente
prodotti, in quanto esposizione generale della razionalità del sistema, e in quanto settore
economico avanzato che foggia direttamente una moltitudine crescente di oggetti-immagine, lo
spettacolo è anche la maggiore produzione della società attuale.193

“Quando l’immagine scelta e costruita da qualcun altro è diventata il rapporto principale


dell’individuo col mondo, non s’ignora che l’immagine reggerà tutto; perché all’interno
di una stessa immagine si può giustapporre senza contraddizioni qualunque cosa. Il
flusso delle immagini travolge tutto, e analogamente è qualcun altro a dirigere a suo
piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile; a scegliere dove andrà la
corrente e anche il ritmo di ciò che dovrà manifestarsi in essa, come eterna sorpresa
arbitraria, e prescindendo completamente da ciò che lo spettatore ne può capire o
pensare. In questa esperienza concreta della sottomissione permanente sta la radice
psicologica dell’adesione così generale a ciò che è presente. Ovviamente il discorso
spettacolare tace, oltre a ciò che è propriamente segreto, tutto ciò che non gli conviene.
Isola sempre da ciò che mostra la cornice, il passato, le intenzioni, le conseguenze. Dato
che nessuno può contraddirlo, lo spettacolo ha il diritto di contraddirsi da sé, di
rettificare il suo passato […] così l’individuo, impoverito e segnato nel profondo da
questo pensiero spettacolare più che da ogni altro elemento della sua formazione, si

193

Guy Deborde, La società dello spettacolo, commentari sulla società dello spettacolo, Baldini – Castoldi,
Milano, 1998, pp.53-60
mette subito al servizio dell’ordine costituito, seguirà il linguaggio dello spettacolo,
perché è l’unico che gli è familiare: quello in cui gli è stato insegnato a parlare”.194

Di certo non è solo l’immagine ad influire sulla psiche degli individui, anche se è un fattore di
primo ordine; e di certo non ci sono solo i risvolti descritti sopra, che sintetizzano il rapporto
che intrattiene l’uomo col mondo, con l’immagine-mondo e con lo spettacolo-mondo. Ci sono
anche altri processi, in parte accennati all’inizio di questo capitolo, che toccano l’individuo
come singolo e come massa. Uno è il modo in cui diventiamo consumatori/produttori in ogni
singolo momento in cui ci sediamo davanti all’apparecchio. Innanzitutto, per i produttori non
si presenta alcuna differenza se il consumo costituisce una reale esperienza comune o soltanto
la somma di molte esperienze individuali; loro sono interessati ad una massa suddivisa nel
maggior numero di acquirenti, e ciò è stato raggiunto facendo del cinematografo un residuo
del passato, smerciando gli apparecchi a quasi ogni unità familiare; e ognuno poteva avere la
sua merce a domicilio. Ciò ha portato a poter trattare ogni singolo individuo come uomo di
massa, come articolo indeterminato, ognuno è stato rafforzato in questa sua qualità o assenza
di qualità: nasce l’eremita di massa.195 La peculiarità di questo nuovo rapporto sta nel fatto che
davanti ad ogni radio o televisione, visto che la produzione ha luogo ovunque abbia luogo il
consumo, tutti sono impiegati o occupati, si è creato il lavoratore a domicilio; egli presta la
sua opera, si trasforma in uomo di massa, consuma la merce di massa, e per fare tutto ciò
paga, paga per vendersi, per diventare merce, per asservirsi. Ed oltre a questa novità si vede
chiaramente come non ci sia più bisogno delle strategie di massa usata dai totalitarismi nel XX
secolo per forgiare a proprio comodo le identità, difatti se il processo di condizionamento ha
luogo per ognuno separatamente nella propria casa, in solitudine, addirittura sarà più efficace:
dato che si presenta come divertimento, dato che non fa sapere alla vittima che pretende da lei
dei sacrifici, dato che le lascia l’illusione della sua vita privata; avviene così il consumo
solistico di massa, il cui motore è costituito dalla pubblicità, una tecnica che realizza i suoi
obiettivi con studiata discrezione, apparente invisibilità e mutismo, agendo a livello
subliminale, a livello dell’inconscio-subconscio della mente umana 196 – immagini, simboli,
194

Ivi, pp.207-209.

195

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p.108.

196

L. Demichelis, Bio-tecnica, la società nella sua forma tecnica, cit., p.152.


emozioni - e qualificandosi come una non violenta aggressione. 197 Noi viviamo come se
fossimo ingaggiati dalla pubblicità a collaborare.
“Alla servitù precontrattuale si è sostituita quella post-contrattuale […] quando le
sirene delle fabbriche annunciano la fine del lavoro, contemporaneamente annunciano
che inizia l’inevitabile monopolio del mondo sirenico dei mass media e della
pubblicità; che ora dipendiamo da esso, che cominciano le ore del nostro essere
impiegati senza limiti e senza contratto, le ore melmose che dobbiamo attraversare,
con il sudore dell’ozio sul volto […] nessuna clausola regola ciò che le potenze
pubblicitarie possono o no pretendere da noi. Quando il raccoglitore negro di cotone,
vinto dalla pubblicità che gli è stata fornita sotto forma di divertimento, finisce per
installare nella sua baracca il più splendido dei televisori a colori, si sottomette in
modo così incondizionato, così coerente e così gravido di conseguenze, come mai lo
farebbe nelle ore che ingenuamente considera come le sue uniche ore lavorative.
Piuttosto, con l’acquisto diventa altrettanto insulso, altrettanto sciocco e altrettanto
volgare di ciò ch’è diventato sua proprietà […] siamo doppiamente non liberi: cioè
defraudati persino della libertà di soffrire della nostra illibertà, adempiamo agli
incarichi a cui la pubblicità ci costringe corteggiandoci con i suoi raggiri, senza
neppure riconoscerli come incarichi, senza neppure brontolare […] naturalmente si
obietterà che adempiamo con piacere: che godiamo se la Coca-cola ci spumeggia
davanti […] tuttavia questa non è un’obiezione, o meglio, questa è l’obiezione
desiderata, cioè quella che siamo costretti a fare in quanto ingannati, l’esecuzione degli
incarichi ci riempie di piacere solo perché abbiamo obbedito all’ordine di desiderare
ciò che ci è stato ordinato [… ] ma se godiamo della merce che ci viene fornita, i
beneficiari del nostro godimento non siamo noi, bensì quelli che ci ordinano di
godere”.198

Come consumatori siamo agenti segreti, perché noi stessi non dobbiamo conoscere il motivo
del nostro agire, perché a noi stessi viene tenuto segreto per chi e per cosa esercitiamo la
nostra attività.
Tutte queste riflessioni ci fanno arrivare e concludere che c’è un processo oliato e ciclico, che
immette l’individuo in un contesto prestabilito, dove, mediante tecniche – immagini,
rappresentazioni parziali di mondo costruite ad hoc, tecniche comunicative – lo si spinge a
reazioni anch’esse programmate a priori; gli individui vengono incastrati e si incastrano da
soli nel sistema conformista; cosa ci rende schiavi in questo sistema? Potremmo rispondere
con tutto o con niente199: con tutto in quanto basta che usciamo di casa per trovarci accerchiati

197

G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, cit., p.148.

198

Ivi, pp.154-158.

199

Ivi, p.130.
da milioni di apparecchi, modi di dire, usanze, opinioni, stili di vita che ci affascinano
inconsapevoli della loro implicita violenza e in cui ci lasciamo appunto trascinare senza
resistenza; tuttavia con niente, in quanto non sentiamo mai la voce di un’istanza centrale.

II.3 Medicalizzazione della vita


Il tema ricorrente, che si tratti di (bio) politica, (bio) economia, scienza o tecnica, è
senz’ombra di dubbio, un potere onnipresente e pervasivo, che ci modella, un potere
autoreferenziale che usa la sua forza per creare nell’individuo una matrice di comportamento
che lo induca e lo orienti allo sviluppo di logiche razionali, economiche, che vadano nella
stessa direzione del fine ultimo della società e che ne rafforzino circolarmente la logica e la
sua capacità di autoriproduzione in termini maggiorati; schemi comportamentali che
intaccano l’autonomia dell’individuo, nelle sue funzioni psichiche e biologiche. In questo
senso si muove sicuramente anche il fenomeno crescente della medicalizzazione, a cui si
danno vari significati200: esso è visto infatti come un processo di lunga durata nato
dall’alleanza tra le autorità pubbliche e l’élite medica che ha portato un rafforzamento della
professionalizzazione della salute e l’accesso di una parte crescente della popolazione alla
medicina ufficiale; o come un processo che ha portato un’estensione abnorme delle
competenze della medicina, fenomeni come patologizzazione del dolore o delle difficoltà
relazionali denotano lo sconfinamento della medicina verso problemi di ordine sociale e
psicologico; infine se ne può offrire anche un altro significato, ossia quello di
medicalizzazione della vita, che investe la società e non direttamente la scienza medica, in
quanto è diretta conseguenza della nozione di salute in relazione all’esistenza, e quindi
alimentazione, tempo libero, lavoro, habitat e più in generale le relazioni interpersonali e il
modo di vivere; quindi più che chiamare in causa la medicina si pone l’enfasi sulla
prevenzione dei fattori di rischio delle malattie, assumendo appunto che un corretto stile di
vita – esercizio fisico, rinuncia ad abitudine malsane, ricorso a controlli regolari medici,

200

G. Vagnarelli, Medicalizzazione e colpevolizzazione, in Medicalizzazione, biopolitica e sorveglianza, cit.,


pp.53-54.
ossessioni dietetiche – porti ad eliminare quest’ultimi. Con il supporto di Foucualt, cercherò
di caratterizzarla più specificatamente come:
“Parlare di medicalizzazione significa innanzitutto parlare di un processo di
sconfinamento da parte di una scienza, la medicina, che va al di là dei suoi limiti: non
più solo arte di guarigione del singolo o sistematizzazione di conoscenze utili per
affrontare la malattia dell’individuo, ma sviluppo pervasivo di saperi e di pratiche che
a partire dal XVIII secolo incomincia ad applicarsi a problemi collettivi, storicamente
non considerati di natura medica, muovendosi in direzione di una tutela su larga scala
della salute del corpo sociale. Il benessere fisico della popolazione e la salvaguardia e
il miglioramento del suo livello di salute diventano uno dei principali progetti del
potere politico, ai fini non solo di una presa in carico dell’emarginazione sociale e
della povertà per renderle produttive, ma anche di una pianificazione della società
come ambito di benessere fisico, di salute ottimale e di longevità.”201

Per Foucault siamo davanti all’era della medicalizzazione infinita quale epoca di un dominio
totalizzante esercitato dalla scienza medica cui è impossibile sottrarsi; medicina come corpo di
conoscenze scientifiche e pratiche professionali ma anche come ruolo di controllo sociale, in
quanto agisce sulle norme che influenzano le mentalità delle classi sociali e ne strutturano il
comportamento; in particolare essa – la medicalizzazione – testimonierebbe non solo la
centralità assunta dal corpo e dalla vita nelle dinamiche del potere, ma renderebbe evidente il
superamento del paradigma giuridico-discorsivo centrato sulla legge, a favore di una società
che si basa sulla norma e sulla sorveglianza.202 Il momento determinante per tale svolta è dato,
secondo l’autore francese, negli anni Settanta col piano Beveridge che ha fondato il modello
sul quale si sono poi sviluppati i sistemi di welfare successivi, imperniato sui principi
dell’universalità dell’assistenza pubblica e sui servizi sociali come diritti per tutti; questo
progetto assume valore simbolico perché identifica il passaggio da una fase caratterizzata
dall’attenzione al diritto alla vita ad una nella quale si afferma un diritto più complesso, il
diritto alla salute, della vita in buona salute presa in carico dallo stato; 203
da qui si dà vita alla cosiddetta medicalizzazione indefinita sul corpo sociale, ossia che la
medicina non ha più limiti esterni, in quanto è la salute e non più la malattia ad essersi

201

M. Foucault, La politica della salute nel XVIII secolo, (1976), in Archivio Foucault, Feltrinelli, Milano,
1997, vol. 2, p. 191.

202

G. Vagnarelli, Medicalizzazione e sorveglianza, cit., p.58.

203

Michel Foucualt, La nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault 2, cit., p. 222 ; anche
Bazzicalupo concorda su questo punto in Governo delle vite, vedendolo come punto di svolta.
trasformata in oggetto di intervento medico, o meglio, tutti quei comportamenti che possono
avere influenza, diretta o indiretta, sulla salute degli individui. Cambiamento di prospettiva
avviene poi col rapporto Lalonde, che introdusse alcuni principi che cambiarono le politiche di
vari stati: esso partiva dalla necessità di rimodellare le politiche centrandole sugli ambiti della
salute, ossia biologia, ambiente e stili di vita; il tasso di mortalità ad esempio non poteva che
essere ridotto se non attraverso l’analisi di fattori comportamentali come obesità, stress,
tabagismo, alimentazione, in definitiva attraverso le abitudini ed attraverso l’innesto di una
responsabilità individuale dei cittadini. Il rapporto Lalonde va a formare quindi l’esistenza di
una responsabilità morale nel mantenere la propria salute e lo fa promuovendo specifiche
biopolitiche, come marketing sociale, ossia insieme di tecniche mutuate dal mondo degli affari
che agiscono sull’immaginario collettivo come stimolo alla modifica dei propri comportamenti,
politiche fiscali che riducono il costo di beni e servizi in grado di favorire attività salutari o
tassando prodotti nocivi come il tabacco o l’alcool, interventi legislativi di tipo proibitivo o che
costringono a screening sistematici ecc. Questo carattere autoritario della tutela alla salute non
deve comunque ingannare, non è solo un subire da parte degli individui visto che in parte
sempre maggiore sono loro stessi a creare una domanda, a sollecitare un intervento sul sociale
del medico; così la salute diviene una merce prodotta da laboratori farmaceutici e acquistabile
sul mercato da nuovi soggetti che divengono garanti del proprio destino biologico; è dunque
questo intreccio tra potere e desiderio a rendere possibile la trasformazione del potenziale
paziente in colui che partecipa attivamente alla gestione dei propri processi vitali: una dinamica
di soggettivazione di massa medicalmente assistita che si avvale di strumenti di autocontrollo
sorvegliato, di condizionamento autoprodotto che assume forma di opportunità e non di
limite.204 L’aprirsi del corpo e della naturalità destinale ha inaugurato un immenso ambito di
consumi, di influenze e di esigenze da soddisfare; “durata, resistenza, benessere, bellezza,
giovinezza di anima e corpo: tutto si compra e tutto viene fatto comprare”205.
“La governamentalità biopolitica – la cui ratio induceva comportamenti disciplinati di
salute, di crescita, di igiene, di riposo e di stimolo – si scioglie, nella fase bioeconomica,
nel desiderio diffuso di ciascuno di poter esercitare attivamente condotte sane
determinanti per la autorealizzazione del sé. Si assume in proprio la responsabilità
olistica del corpo, scegliendo terapie morbide in luogo del dirigismo ospedaliero,
praticando sport liberi dalla competizione, in ascolto euforico al proprio corpo. La
biopolitica sanitaria, anche quando incrementata e gestita dall’apparato politico, ha
204

E. Greblo, Sorveglianza a bassa intensità, in <<aut aut>>, n.340, 2008, p.22.

205

L. Bazzicalupo, Il governo delle vite, cit., p.113.


raggiunto livelli tanto pervasivi e perversi proprio perché va incontro alla esigenza
sociale – certo sollecitata e strumentalizzata, ma comunque diffusa e popolare – di
salute, di miglioramento delle condizioni di vita. Oggi questo processo […] ha una
espansione attiva e autonoma che va ben oltre la medicina, incorporando una serie di
consumi attinenti la promozione e il perfezionamento del proprio corpo”.206

La promessa di salute dunque comporta dunque un decalogo di regole e comportamenti, ma è


anche un dispositivo di responsabilizzazione che è sempre pronto a rovesciarsi in
colpevolizzazione: se ti ammali non è perché il caso avverso ti colpisce, ma perché non hai
fatto abbastanza per non ammalarti, abbastanza sport, abbastanza resistenza allo stress,
abbastanza diete, abbastanza prevenzione; in sostanza, se ti ammali è in gran parte colpa tua: te
la sei voluta. Colpevolizzazione, ricorso al sapere medico, sovra-diagnosi, ricorso al mercato,
creazione di nuova offerta medica, normalizzazione dell’individuo e della società attorno a dei
parametri medici a volte fasulli. E questo è solo uno dei possibili vari processi che le nuove
pratiche della medicina e della scienza medica produce e con cui sottomette l’individuo; la
presunta neutralità dell’approccio medico, produce nuove e più subdole violenze e partecipa a
quel generale processo di sottrazione di senso e di disumanizzazione proprio del primato della
tecnica nel tempo della globalizzazione.

Capitolo 3: Le società di controllo


Tecnica e medicalizzazione sono stati gli ultimi due argomenti trattati ma a ben vedere, o
meglio, in un’ottica di razionalità, non sono dissimili dai temi più prettamente foucaultiani
206

Ivi, p.117.
incentrati sul potere e visti nel primo capitolo: in comune si ha una logica che mira ad
intrappolare l’individuo in una rete occulta di desideri prefabbricati, emozioni guidate ad arte,
schemi logici che fungono da matrice per ogni successivo agire, discipline ferree e inconsce.
Quella che Foucault definiva la nuova arte di governo a partire dal XVII-XVIII secolo, si
raffina e moltiplica sempre più, con gli obiettivi che sempre meno si raggiungono tramite
ordinanze, regolamenti o leggi e sempre più tramite la sottomissione più o meno volontaria a
slogan e spot pubblicitari; insomma ciò che in definitiva cambia è che il sistema di controllo
sociale ed i modelli di riferimento che guidano ed influenzano il comportamento nel XXI
secolo sono profondamente cambiati ed evoluti rispetto a secoli precedenti nel loro dispiegarsi,
seppur abbiano l’identica volontà di forgiare a piacimento l’individuo a seconda del senso che
si vuole imporre; le società di controllo non sono di certo scomparse, si nascondono dietro
l’industria del piacere.
“Sarebbe un errore vedere e considerare il controllo sociale come un mero strumento di
conservazione e di tradizionalismo sociale. Anzi il rinnovamento continuo dei simboli,
la proposizione di nuovi valori e di nuovi ideali sono fondamentali elementi del
controllo sociale. È infatti grazie al possesso delle nuove tecnologie e alla capacità di
immettere nel circuito mediatico nuovi simboli e valori a cui far adeguare la moltitudine
che la nuova flessibile élite esercita il suo controllo sociale. Non si tratta dunque di una
rivoluzione nel controllo, ma più semplicemente di un utilizzo di mezzi tecnici che
offrono numerosi vantaggi da un duplice punto di vista: economico e temporale. Questi
due aspetti, economicità e velocità, sono di fondamentale importanza in una società,
come quella postmoderna, cavalcata dall’ideologia neoliberale e dalla dinamicità degli
scambi e della comunicazione”.207

3.1 Uno sguardo sociologico


Studiare il controllo sociale per i sociologi significa proprio porre al centro del dibattito quei
meccanismi che tendono ad uniformare la condotta dei singoli individui e che si pongono come
fine ultimo il cercare di far rispettare le aspettative del gruppo e le norme di cui la società di
riferimento si è dotata.208 Ogni comunità o aggregazione di individui, difatti, si è sempre dotata
di un meccanismo di controllo sociale che operasse nella direzione di dare uniformità e
coerenza al comportamento dei singoli membri del gruppo e già dai primi lavori sul tema si
indaga in questa direzione: il sociologo statunitense Edward A. Ross a cavallo tra il XIX e il
207

M. Lianos, Il nuovo controllo sociale, Elio Sellino, Avellino, 2005, pp. 43-44.

208

G. Gurvitch, Il controllo sociale, a cura di A. Giansanti, Armando, 1997, pp. 62-68.


XX secolo parla di controllo sociale in riferimento ad un meccanismo che viene volutamente
esercitato dalla collettività sull’individuo, con l’obiettivo manifesto di indurlo alla conformità
rispetto all’insieme di valori di cui una società si è dotata, la cui funzione è quella di mantenere
l’ordine sociale;209 in questa accezione di controllo sociale vengono ad identificarsi diversi
elementi che spaziano dalla morale alla religione, dal diritto ai costumi, passando per
l’educazione, le rappresentazioni collettive, i valori, gli ideali, l’opinione pubblica ecc. andando
a formare il “sistema integrato di controllo sociale”, ossia dei mezzi che operano pressioni sui
membri della società facendo leva sull’applicazione di sanzioni che possono avere carattere
religioso, giuridico, sociale e morale, in modo tale da ridurre i conflitti tra le diverse visioni
utilitaristiche dei singoli; emerge il problema di come il cittadino attraverso il controllo sociale
tenda ad accettare ed assorbire i valori che danno stabilità e coerenza all’ordine, riducendo così
le potenzialità di deviare. In particolar modo egli vedeva nell’arte lo strumento di influenza
morale maggiore, e se all’interno di essa si fa rientrare il cinema e tutta la produzione destinata
ai piccoli e grandi schermi, allora l’opera di Ross sembra aver colto nel segno, visto che serial
televisivi, soap opera, telefilm e film con i loro messaggi più o meno subliminali e con i loro
“buon esempi” da seguire sono oggi probabilmente il principale strumento di influenza sociale.
Sempre su questa lunghezza d’onda si inserisce la posizione di Durkheim, che si riferisce alla
società come ad un’autorità morale che tende a conferire a determinati precetti di condotta un
carattere vincolante;210 la società dunque impone e regola la vita degli individui sulla base di
modelli e condotte che le stanno particolarmente a cuore. Oppure ancora Cooley211, che
analizza il fenomeno del controllo sociale all’interno di una più generale teoria del processo
sociale, notando una società in continua evoluzione verso modelli sempre più sofisticati del
vivere sociale e delle sue strutture organizzative per arrivare a coinvolgere l’intera umanità non
sulla base di macro cambiamenti sociali bensì tramite infinitesimali modificazioni del
comportamento umano nella vita di ogni giorno – e in questa preminenza del carattere micro su
quello macro possiamo scorgere un interessante affinità con l’approccio e le intuizioni di
Michel Foucualt -; la società, secondo l’autore statunitense, è appunto in continua evoluzione e
209

E. A. Ross, Social control: a survey of the foundations of order, The press of case Western Reserve
University, Cleveland, 1969.

210

E. Durkheim, La determinazione del fatto morale, in Le regole del metodo sociologico. Sociologia e
filosofia, Comunità, Milano, 1979, pp. 165-168.

211

C. H. Cooley, Social process, Schoken Books, New York, 1964.


ad essa si accompagna anche l’evoluzione di sottosistemi della personalità visto l’inestricabile
legame che vi è tra singolo individuo e società di appartenenza: essa infatti, in un’ottica di
“darwinismo sociale”, tenderà attraverso un processo selettivo, a selezionare determinati
comportamenti ed a scartarne altri sulla base della loro produttività sociale; quei modelli che
risulteranno utili e funzionali alla crescita sociale verranno stimolati, al contrario degli altri che
verranno invece scoraggiati. Si tratta di una sorta di controllo inconscio per Cooley, che deve
però essere necessariamente accompagnata da una forma di controllo sociale più razionale e
premeditata, ovvero posta in essere in maniera cosciente dagli individui, quella che definisce
Public intelligence, ossia quell’insieme di individui che per particolari doti e formazione
professionale dovrebbe essere preposto alla formazione dell’opinione pubblica: docenti
universitari, filosofi, esperti di vario genere.
Dalle concezioni primordiali di Ross si passa a definizioni sempre più empiriche, settoriali,
versatili, relegando il controllo sociale in ambiti disciplinari sempre più specialistici; nelle
versioni postmoderne si tende difatti a scomporre il fenomeno, e le principali specie di
controllo sociale in sette – per comodità visto che potrebbero essere suddivise ancora -, ossia la
religione, il diritto, l’educazione, la cultura, la dottrina neoliberale e i mass media. 212 Per ciò
che riguarda la religione, essa è stata sostituita nella modernità dalla fede nella scienza e nel
progresso ma sta ora riacquistando importanza visto che la prima si è dimostrata fallibile, la
modernità non sta mantenendo le promesse e l’immigrazione in qualche modo porta a
riabbracciare per riflesso le proprie tradizioni213; essa ha agito da controllo sociale soprattutto
tramite la sorveglianza interiore e la registrazione di dati personali, andando spesso a
sovrapporsi allo Stato. Per quanto riguarda il diritto, in molti sono d’accordo sulla sua funzione
di controllo ma si diverge nell’impostazione teorica; ad esempio tra il citato Ross che vede in
essa più un meccanismo sociale coercitivo e repressivo e chi, come Talcott Parsons tiene
maggiormente in considerazione gli aspetti psicologici e motivazionali e quindi la sua azione
preventiva;214 sono pressoché d’accordo comunque sul fatto che il diritto, trasformando norme
tacite in norme codificate, si rafforza sempre più fino a divenire pratica sociale consolidata; da

212

M. Ragnedda, La società postpanottica, Aracne, Roma, 2008, p.36.

213

Ivi, p. 37.

214

T. Parsons, The law and social control, a cura di W. M. Evan, in Law and sociology: exploratory essay,
Free press, New York, 1962.
questo punto di vista è interessante notare come tra controllo sociale e criminalità non esiste
netta opposizione, ma anzi sono concetti che si tengono insieme:
“[…] controllo sociale e criminalità non sono affatto antitetici; al contrario, potremmo
pensare che, per un certo sistema di rapporti sociali dato, l’esercizio del controllo
sociale in tale contesto significhi la riproduzione dei fondamentali rapporti sociali,
unitamente a quella quota di illegalità, illiceità, violenza, criminalità o come la si voglia
chiamare, che permette al sistema di riprodursi. Le élites del potere di quella
determinata situazione – che per definizione esercitano un controllo rilevante sulla
produzione e il processo di enforcement del diritto, – saranno portate a gestire e
mantenere tale quota di illegalità, illiceità, violenza, criminalità, in quanto essa è una
componente dello status quo sul quale si erge il loro potere.”

Per ciò che riguarda l’educazione, essa è vista come cruciale dal momento che è fondamentale
nel processo di integrazione e di acquisizione di principi e valori che guidano una società; è da
bambini che si apprendono schemi mentali e perciò va da sé che tutto dipenderà da essa.215
Ulteriore elemento è la tecnologia, che è parte integrante nella vita dell’uomo occidentale e ne
scandisce i ritmi e le mansioni,

“il quotidiano consiste principalmente in atti che non hanno senso che come elementi di
sistemi resi possibili dalla tecnologia […] il modo organizzazionale del controllo si
fonda su strutture che configurano l’azione verso finalità definite e perseguite dalle
istituzioni. L’attore si integra nel contesto preregolato ogni volta offerto: le vie
dell’autostrada, gli ingressi e le uscite dei supermercati, i semafori rossi e i passaggi
pedonali, i comandi ammessi dal software, le passwords date dal proprio provider per
internet.”216

Mannheim spiega a tal proposito che non può esservi ordine sociale se il controllo razionale e il
dominio individuale dei propri impulsi non riescono a procedere simultaneamente con lo
sviluppo tecnologico ed introduce il concetto di “democratizzazione di fondo”, ovvero quel
processo che permette di fornire a tutti gli individui gli strumenti per portare avanti i compiti di
analisi razionale delle decisioni, allargandone così a dismisura l’influenza.217

215

M. Ragnedda, cit., p. 41.

216

M. Lianos, cit., p. 44.

217

K. Mannheim, Libertà, potere e pianificazione, Armando, Roma, 1968.


Per la cultura il discorso è abbastanza complicato per via delle numerose accezioni che il
termine comprende, ma da un punto di vista sociologico si sottolinea come essa sia
essenzialmente un processo che produce i propri significati nel tessuto delle interazioni sociali,
e come quindi esista un rapporto di influenza costante e reciproca tra la società e la cultura, con
quest’ultima appunto che influisce sull’agire sociale nel processo di definizione dei
significati218; ogni cultura stabilisce i suoi valori di riferimento da promuovere e preservare e gli
stessi valori sono il prodotto dell’interazione tra gli individui; si può dunque dedurre che la
cultura agisce da controllo sociale nella formazione della personalità degli individui. Visto che
ogni epoca è pervasa da grandi idee collettive che attraversano la società dandole coerenza e
unità di visione ed intenti, ci si può collegare dalla cultura all’altro strumento di controllo
sociale che è l’ideologia neoliberista e la fede nel mercato, influenzando il comportamento
della moltitudine e delle sue istituzioni;

“La rivoluzione degli anni ’90 ha rianimato quell’antico fervore religioso, che oggi,
secolarizzato in fede laica nelle virtù taumaturgiche del mercato e del progresso
tecnologico, torna a dispiegare la sua potenza, assumendo l’aspetto di vera e propria
missione ecumenica: la globalizzazione economica come evangelizzazione dell’intero
pianeta, come conversione universale alle divinità del nuovo mercato e delle nuove
tecnologie.”219

Tale nuova fede secolarizzata si pone come formidabile mezzo di controllo sociale, chi non si
adegua al mercato è perso ed escluso, e vale sia per individui che per società, poiché non
credere nel nuovo Dio significa emarginazione e ritorsione; “come ogni religione anche il
neoliberismo ha bisogno di profeti (economisti), luoghi di culto (Istituzioni internazionali),
predicatori (esperti), pulpiti da cui sentire la preghiera quotidiana (i mass media) e infine i suoi
fedeli e pellegrini (l’opinione pubblica) da indottrinare e controllare”220.
Ultimo strumento di controllo sociale sono i mass media, struttura che tende a centralizzare il
comportamento umano intorno alla sua esistenza ed intorno ai suoi progetti, ideali e valori; si
parla in altri termini d’un’istituzione sociale che intensifica i contatti indiretti tra gli individui
fungendo da mediatore delle interazioni sociali, prendendosi cura degli individui, gestendo il
218

M. Ragnedda, cit., p. 45.

219

C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net economy, Einaudi, Torino 2002, p.140.

220

M. Ragnedda, cit., p.45.


loro tempo e il loro spazio, ponendosi come modello e punto di riferimento a cui adeguarsi. Per
questo motivo è possibile asserire che da qualche decennio a questa parte i mass media stiano
sostituendo le principali agenzie di socializzazione ed educazione – scuola e famiglia su tutte -,
e ciò presenta ricadute importanti sul controllo sociale: in primo luogo perché permettono il
contatto con altri individui sempre più isolati, in secondo luogo perché propongono valori
universali a cui ispirarsi ed infine perché permettono alle élites al potere la possibilità
semplificata di fornire alla moltitudine un modello comportamentale.221
Viene così ad emergere un elemento spiegato appieno da Wright Mills, la manipolazione,
caratteristica essenziale della società di massa e della democrazia che si manifesta
principalmente attraverso i media:

“Il problema della manipolazione sorge ovunque gli uomini hanno il potere accentrato e
incondizionato, ma non autorità, oppure quando, per una ragione qualsiasi, non
desiderano fare uso apertamente del loro potere, non vogliono far mostra della loro
forza. Vogliono dominare, per così dire, segretamente, senza un’esplicita affermazione
del potere. In questo caso ibrido – come nell’incerta realtà americana di oggi – la
manipolazione è un modo primario per l’esercizio del potere.”222

Alla luce di queste spiegazioni è possibile ritornare ad un’analisi che prenda in considerazione
il concetto di controllo sociale in modo più generale e totale e, per farlo, si può prendere spunto
dalla definizione fornita da Luciano Gallino, che mette in evidenza come “il controllo sociale si
identifichi con tutti i fenomeni ed i processi che contribuiscono a regolare il comportamento
umano e ad organizzarlo” tra cui fa rientrare “la morale, la religione, il diritto, i costumi,
l’educazione, le rappresentazioni collettive, i valori, gli ideali, i modelli di cultura, l’opinione
pubblica, le forme di suggestione e convinzione” 223. Ma chi impone questi precetti? E perché lo
fa? Per rispondere a questi quesiti è più adeguata una seconda definizione, quella di Ragnedda,
più pertinente al contesto storico, sociale e culturale in cui ci si trova immersi: “quell’insieme
di strategie, tecniche, poteri, saperi e istituzioni utilizzate dall’élite al potere con l’obiettivo di
preservare e giustificare un determinato ordine sociale, rendendolo il più naturale possibile. I

221

Ivi, pp. 46-47.

222

C. W. Mills, La élite al potere, Feltrinelli, Milano, 1955, pp.297-298.

223

L. Gallino, voce controllo sociale, in Dizionario di sociologia, UTET, Torino, 1978, p.178.
mezzi attraverso il quale esso si esplica sono: la religione, il diritto, l’educazione, la cultura, la
tecnologia, la dottrina neoliberale e i mass media.”224

“L’élite al potere cerca di utilizzare tutte le strategie e gli strumenti che il sapere, la
tecnica
e le istituzioni pongono a loro disposizione per ridurre la devianza e garantire il più
possibile la normalità, così come viene da loro intesa in quel particolare frangente
storico. Questa nuova élite, transnazionale e flessibile, difende i propri interessi
trasmettendo in maniera trasversale i valori, le pratiche culturali e i modelli di
riferimento che sopportano la loro visione del mondo e lo fanno principalmente
attraverso il loro strumento più efficace: i mass media. La nuova élite non può usare il
diritto per regolare ed organizzare il comportamento sociale, o meglio non può farlo
direttamente, poiché non ha gli strumenti tecnici e giuridici per farlo. La nuova élite non
è eletta e come tale non ha potere legislativo; non governa uno Stato e come tale non
può governarne le istituzioni; non può usare lo strumento coercitivo, saldamente in
mano agli Stati nazione. Paradossalmente questa è la sua forza.”225

L’attenzione della sociologia non è fissata comunque solo sulle modalità strutturali con cui si
rende possibile una società del controllo, ma è attenta anche ad osservare le cause che
permettono ai soggetti di renderla possibile; come gli individui possano acquisire valori e
modelli comportamentali. Si nota innanzitutto come, a differenza degli animali, l’essere umano
non è provvisto di un modello comportamentale stabile e fisso ma tende ad acquisirlo dal
contesto sociale e culturale in cui è inserito e ciò avviene in primo luogo attraverso il processo
di socializzazione nella sua triplice accezione: socializzazione primaria, secondaria e
terziaria;226 in realtà tale processo non termina mai ma è in perenne movimento, essendo
l’individuo continuamente sottoposto a pressione, diretta o indiretta, da parte dei gruppi sociali
a cui appartiene, affinché possa assumere comportamenti ed idee in sintonia con le opinioni
collettive. Ricollegandoci al controllo sociale in un’accezione più ampia, è qui utile poi la
distinzione tra controllo sociale informale e formale227, dove la prima forma viene esercitata in
224

M. Ragnedda, cit., p. 50.

225

Ibidem.

226

F. Garelli, A. Palmonari, L. Sciolla, La socializzazione flessibile. Identità e trasmissione dei valori tra i
giovani, Mulino, Bologna, 2006.

227

M. Ragnedda, cit., p.53.


maniera quasi inconscia attraverso usi e costumi, giudizi morali e tutti quei meccanismi e
tradizioni che tendono a preservare modelli caratteristici e tramandati da generazioni; ora, si
tratta non tanto di preservare valori, ma soprattutto di immetterne nuovi nel libero mercato
delle idee e quelle più forti sopravvivono, rimangono a galla divenendo tendenza ed
influenzando nuove e vecchie generazioni; di nuovo fondamentale importanza in relazione a
questo scopo, rivestono i media in quanto chi ha la capacità di suggestionare ed affascinare
avendo gli strumenti tecnici e materiali per farlo, ha in mano uno strumento cruciale che
consente di gestire il fluire della società, il suo movimento, indirizzandolo in un percorso
piuttosto che in un altro. Il controllo sociale formale invece viene affidato ad istituzioni
“imparziali” che sorvegliano la condotta dell’individuo, pronti a sanzionarla qualora dovesse
trasgredire o deviare; a questo fine la società si è dotata di istituti correttivi, norme penali e
sanzioni per dissuadere e punire i devianti, ma anche per far interiorizzare delle norme e dei
modelli di comportamento; conformarsi alla norma, alla media, significa non avvertire il peso
della coercizione, vederlo come naturale verificarsi delle cose, coercizione però che tende ad
emergere qualora si cerchi di resisterle.

“La particolarità del controllo postindustriale è che esige tanto l’autonomia che la
conformità. Coloro che non possono costituirsi come soggetti individuali e autonomi
sono i nuovi delinquenti. Condannati a inventare dei conflitti collettivi tra loro stessi
[…] per ricostruire delle formazioni di gruppo, i delinquenti ossessionano il quotidiano
dei loro vicini e motivano tutte le cose che possono evitarli. Non vi è nulla come
l’immagine televisiva di una rivolta nella banlieue o di una riunione razzista del Front
National per convincere il cittadino postindustriale che il suo ultimo dovere civico e
sociale è oggi di condurre un’esistenza sempre più isolata collaborando con le istituzioni
che lo circondano”.228

Autonomia e conformità da una parte e isolamento e collaborazione con le istituzioni dall’altra,


secondo Lianos sono queste le qualità che spingono gli individui a non deviare
ed avere una condotta sociale “normale”. Viene a questo punto ad emergere un’altra figura,
quale appunto quella del deviante, che in una sua definizione generale potrebbe essere intesto
come colui che con il suo comportamento tradisce le aspettative del gruppo o della società
di riferimento; il suo tradimento può avvenire in vario modo e in vario modo può essere
sanzionato e esso comporta come prima conseguenza quella di far perdere efficacia alla norma
istituzionalizzata con ripercussioni all’interno del contesto sociale con il quale l’individuo

228

M. Lianos, cit., p.15.


interagisce. Conseguenze che possono minare alla base il normale vivere sociale, per questo
ogni organizzazione sociale si dota di un apparato per reprimere e punire chi devia, chi tradisce
le norme e le regole destabilizzando il sistema sociale nel quale vive. La norma, fissata e
sancita da un’istituzione super partes, serve a garantire la coesione all’interno del gruppo o
società e deve essere trasversalmente accettata e rispettata. Lo stesso Durkheim lo aveva messo
in evidenza:

“La pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il colpevole o a
intimidire i suoi possibili imitatori; da questo duplice punto di vista è giustamente
dubbia, e in ogni caso mediocre. La sua funzione e di mantenere intatta la coesione
sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità […] il castigo è
destinato soprattutto ad agire sulle persone oneste; infatti, poiché serve a guarire le ferite
inferte ai sentimenti collettivi, può adempiere a questa funzione soltanto dove questi
sentimenti esistono, e nella misura in cui sono vivi”.229

Concentrandoci sulla norma, essa agisce attraverso due canali, da una parte attraverso
l’adesione, dall’altra grazie alla sanzione. Nel primo caso si tratta, per mezzo delle agenzie di
socializzazione, di far accettare ed interiorizzare all’attore sociale, la norma, in modo tale che il
suo comportamento sia in linea con le aspettative della società con la quale interagisce. Nel
secondo caso invece, qualora un’azione deviante si sia verificata, la società reagisce attraverso
gli apparati di controllo, erogando sanzioni sugli attori sociali che hanno deviato e tradito le
aspettative, con l’obiettivo di ripristinare lo stato di conformità antecedente al comportamento
deviante. Mentre le forme di repressione e di erogazione della sanzione sono palesi e sotto gli
occhi di tutti, le modalità con le quali le norme vengono interiorizzate risultano meno evidenti e
per questo qui ritenute di particolare importanza; coinvolge le agenzie di socializzazione, gli
apparati disciplinari, il ruolo degli opinion leader e i mezzi di comunicazione di massa.
Particolare importanza riveste il mondo mass mediatico, in tutte le sue forme e manifestazioni,
poiché diventa, come si è visto, sempre più importante nel suo ruolo di agenzia di
socializzazione, rosicchiando spazio e ruolo alle altre classiche agenzie di socializzazione quali
la famiglia e la scuola. Il potere sanzionatorio, ovvero il secondo canale, rimane saldamente in
mano allo Stato, anche se è sempre più succube delle logiche del mercato e delle grandi
multinazionali. Allo Stato rimane la sovranità, ovvero la capacità, di punire. La postmodernità
sembra però paventare un altro scenario, si assiste ad una suddivisione di ruoli e competenze

229

E. Durkheim, cit., p.180.


nella gestione del controllo sociale: chi in qualche maniera tenta di imporre un nuovo ordine
sociale, cercando di far introiettare nell’immaginario collettivo modelli di condotta e valori di
riferimento a cui far uniformare il comportamento umano non ha, non può avere e soprattutto
non è interessato ad avere, i mezzi materiali attraverso cui rendere operative le norme, le
istituzioni e gli apparati del controllo sociale. La repressione e punizione coercitiva della
devianza spettano allo Stato-nazione; alle multinazionali spetta il compito di rendere “normale”
lo status quo, imponendo un percorso all’interno del quale far muovere, autonomamente, gli
individui. Si tratta di costruire un percorso obbligatorio, come si trattasse di un letto di un
fiume, in cui far scorrere il comportamento della moltitudine. Ci si trova di fronte ad uno dei
più evidenti segni di transizione da un’epoca ad un’altra che impone un ripensamento di
concetti e categorie con i quali analizzare il presente. Si pensi in primo luogo a nozioni quali
territorio, inteso con la categoria concettuale offerta dalla modernità, ovvero come perimetro
nazionale di vigenza all’interno del quale poter applicare la norma, o concetti come sovranità
nazionale, intesa come decisione fondamentale sulle forme e sulle regole da imporre per
stabilire l’ordine sociale. Concetti superati, solo in parte validi, e che ci spingono a ripensare i
processi di comando che investono uno Stato-nazione in epoca postmoderna. 230 Vengono ad
emergere nuovi contesti che tendono ad integrare i comportamenti umani in finalità
organizzative
differenti, rendendo così necessaria un’attenta analisi sulla produzione di queste nuove
istituzioni e il loro dominio o controllo. Se alcune istituzioni, tipicamente moderne, perdono
importanza e peso, lo fanno per lasciare spazio ad altri contesti organizzativi con finalità
diverse. Oltre allo Stato dunque, anche le altre istituzioni chiave attraverso le quali il controllo
sociale si esercitava, ovvero la famiglia, la scuola, la chiesa e la fabbrica sono entrate
profondamente in crisi con la fine della modernità 231, spodestate cioè di quella funzione che la
società moderna le aveva attribuito. Si assiste così al primo paradosso della postmodernità:
da una parte aumenta l’esigenza dell’ordine pubblico, dell’ordine sociale e della sicurezza e
dall’altra le istituzioni classiche, che avrebbero dovuto permettere il passaggio della norma
dall’esterno all’interno, perdono la propria capacità d’azione. La famiglia, principale agente di
socializzazione primaria, si scontra, in un conflitto di socializzazione, con la nuova e forte
agenzia socializzante costituita dai mass media; stesso discorso tocca alla scuola che perde il
230

M. Ragnedda, cit., pp. 60-61.

231

Ivi, p.63.
suo timone di guida sia nell’istruzione che nell’educazione e all’università il cui ruolo critico e
di impegno intellettuale viene sempre più sostituito dal ruolo di esamificio e dispensatore di
attestati per lavorare. Aspetto quest’ultimo funzionale alla nuova società che necessita di
individui sempre più specializzati e al contempo sempre più ignoranti e disimpegnati.
Le chiese, a loro volta, perdono la funzione di guida morale e i vecchi dogmi e certezze
vengono sostituiti dal relativismo e spesso dal nichilismo più bieco. La fabbrica fordista,
simbolo di oppressione ma anche di sicurezza, muore e tracolla sotto i colpi della flessibilità.
Nella società postmoderna invece, le norme sono direttamente o indirettamente dettate dalle
multinazionali, che non avendo un’investitura democratica e non avendo la capacità né di
codificare né tanto meno di sanzionare, delegano allo Stato nazione questo compito; ad esso il
compito di aumentare i mezzi a disposizione delle forze di polizia prelevandoli dai cittadini,
mentre alle multinazionali, attraverso l’industria culturale, preme invece orientare l’azione
civica verso il controllo sociale e l’acquisizione delle norme. Il controllo sociale diviene
dunque extra-centrato per via del fatto che viene trasferito all’esterno degli Stati nazione. È la
dinamica del potere che cambia, le multinazionali che tengono in mano le redini del controllo
sociale, trascendendo lo stato nazione e i suoi confini, ma non potendo prescindere da esso. Il
potere delle grosse società economiche tende a diventare assoluto, sotto gli imperativi della
dottrina neoliberista, ma al contempo non facilmente ed immediatamente visibile. In altri
termini il loro potere è (quasi) assoluto, nel senso che influenzano sia la vita politica degli Stati
nazione sia i singoli individui prescrivendo modelli comportamentali a cui attenersi ed
uniformarsi. Con abili operazioni di marketing si avvicina virtualmente al cittadino, mentre se
ne allontana fisicamente, diventa più trasparente, mentre i meccanismi che lo governano sono
sempre più oscuri e dettati da logiche che stanno al di sopra della politica e dei suoi confini.232

3.2 Tecnologie della società di controllo: a partire dal Panopticon


Dall’esposizione del paragrafo precedente, seppur a grandi linee, abbiamo potuto constatare
come anche la sociologia guardi al fenomeno del controllo sociale come una forza quasi oscura,
subdola e manipolatrice, che adatta funzionalmente le istituzioni e le stesse coscienze degli
individui alle trasformazioni socio-economiche in qualche modo pianificate a priori. In questi
approcci però, seppur nella visione d’insieme si possano trovare varie analogie, ci si discosta in
qualche modo da quel filo conduttore che ha guidato questo lavoro, Michel Foucault; si è

232

Ivi, pp. 68-79.


potuto vedere difatti come i vari autori qui descritti siano legati ad un’impostazione analitica
classica, dove il metro di riferimento è ancora lo Stato, il macro.
L’autore francese ha come punto di riferimento, per ciò che riguarda il funzionamento di una
società che controlla, l’idea di Jeremy Bentham su una possibile struttura penitenziaria, il
Panopticon; dalla fine del XVIII sec. si è messo in atto un potere che non tende più
all’esclusione bensì all’inclusione all’interno di un sistema in cui ciascuno dev’essere
localizzato, sorvegliato e osservato giorno e notte;

“Si sa che Bentham ha immaginato la prigione ideale, ovvero il tipo di edificio che
poteva essere tanto un ospedale che una prigione, un manicomio, una scuola o una
fabbrica: al centro una torre circondata da finestre, poi uno spazio vuoto ed un altro
edificio circolare comprendente delle celle dotate di finestre. In ciascuna di queste celle
può trovare posto, a seconda dei casi, un operaio, un folle, uno scolaro o un carcerato.
Basta un’unica persona, appostata nella torre centrale, per osservare in modo
estremamente preciso ciò che le persone fanno in ogni momento, nelle loro piccole
celle. Per effetto del contro luce, si possono cogliere dalla torre le piccole silhouettes
prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni
attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo
panottico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di
riconoscere immediatamente. Insomma, il principio della segreta viene rovesciato; o
piuttosto delle sue tre funzioni – rinchiudere, privare della luce, nascondere – non si
mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena luce e lo sguardo di un
sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra, che, alla fine, proteggeva. La
visibilità è una trappola. Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in una cella, è visto di faccia
dal sorvegliante, ma i muri laterali gli impediscono di entrare in contatto coi compagni.
È visto, ma non vede; oggetto di una informazione, mai soggetto di una comunicazione.
Questo rappresenta per Bentham la formula ideale di reclusione di tutti questi individui
all’interno delle istituzioni. Ho trovato in Bentham il Cristoforo Colombo della politica.
Credo che il panopticon costituisca una sorta di motivo mitologico di un genere nuovo
di sistema di potere, quello di cui oggi si serve la nostra società.”233

Il Bentham giovane lo presentava come il metodo per sorvegliare gli individui accrescendo il
rendimento, la stessa produttività della loro attività; il Bentham al termine della sua vita lo
presentava invece come la formula del governo liberale nella sua globalità visto che esso deve
lasciare spazio a tutto ciò che può costituire la meccanica naturale sia dei comportamenti che
della produzione e non deve operare nessun tipo di intervento se non quello della sorveglianza;
solamente quando vedrà che qualcosa non funziona secondo la meccanica generale dei
comportamenti e degli scambi allora dovrà intervenire. Il panoptismo non rappresenta una

233

Michel Foucault, Dialogo sul potere, cit., p. 44.


meccanica regionale e circoscritta a certe istituzioni, ma è una formula politica generale. 234 Si
parte dall’architettura per arrivare ad un più profondo effetto del Panopticon: indurre nel
detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere,
far sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti anche se discontinua nella sua azione;
che la perfezione del potere tenda a rendere inutile la continuità del suo esercizio e sostenga un
rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita: in breve, che i detenuti siano presi in
una situazione di potere di cui sono essi stessi portatori. Per questo, è nello stesso tempo troppo
e troppo poco che il prigioniero sia incessantemente sorvegliato da un sorvegliante: troppo
poco, perché l’essenziale è che egli sappia di essere osservato, troppo, perché egli non ha
bisogno di esserlo effettivamente; perciò Bentham pose il principio che il potere doveva essere
visibile e inverificabile.235 Visibile in quanto il detenuto di continuo ha davanti agli occhi la
sagoma della torre centrale da dove è spiato, inverificabile in quanto egli non deve mai sapere
se è guardato ma dev’essere sicuro che può esserlo continuamente. Il Panopticon è una
macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, dispositivo importante, perché
automatizza e deindividualizza il potere; un assoggettamento reale nasce da una relazione
fittizia in modo che non è necessario far ricorso a mezzi di forza per costringere il condannato
alla buona condotta, il pazzo alla calma, l’operaio al lavoro, lo scolaro all’applicazione,
l’ammalato all’osservanza delle prescrizioni.236 Alla potenza della vecchia architettura da
fortezza si sostituisce la geometria semplice ed economica di una “casa di certezza”, dove colui
che è sottoposto ad un campo di visibilità, e che lo sa, prende a proprio conto le costrizioni del
potere, inscrivendo in se-stesso il rapporto di potere nel quale gioca simultaneamente due ruoli
ed in cui diviene il garante del proprio assoggettamento; un potere che tende all’incorporeo e
che più lo diventa più i suoi effetti sono costanti, profondi e non riconducibili ad uno scontro. Il
Panopticon può essere poi anche un apparecchio di controllo sui propri meccanismi visto che
nella torre centrale il direttore può spiare tutti gli impiegati che sono ai suoi ordini, infermieri,
medici, guardiani, potrà giudicarli continuamente, modificare la loro condotta, imporre loro i
metodi che giudica migliori, e lui stesso a sua volta potrà essere osservato facilmente. Il
Panopticon funziona come una sorta di laboratorio del potere: grazie ai suoi meccanismi di
234

Ivi, pp. 163-164.

235

M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 219.

236

Ibidem.
osservazione guadagna in efficacia e in capacità di penetrazione nel comportamento degli
individui, un accrescimento di sapere viene a istituirsi su tutte le avanzate del potere scoprendo
mano a mano nuovi oggetti su cui applicarsi. Ma esso non dev’essere inteso solamente come un
edificio onirico, è il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale, il
suo funzionamento, astratto da ogni ostacolo, resistenza o attrito, può essere ben rappresentato
come un puro sistema architettonico ed ottico, è una figura di tecnologia politica che si può e si
deve distaccare da ogni uso specifico.237 Ogni volta che si avrà a che fare con una molteplicità
di individui cui si dovrà imporre un compito o una condotta, lo schema panottico può essere
utilizzato presentando polivalenza massima. Bentham propone il problema della visibilità, una
visibilità organizzata interamente attorno ad uno sguardo che domina e sorveglia, fa funzionare
il progetto di una visibilità universale che gioca a favore di un potere rigoroso ed esercitato per
il solo fatto che le cose sono conosciute e le persone sono guardate, siamo di fronte ad una sorta
di regno dell’opinione.238 Grazie allo sguardo non c’è bisogno di armi, di violenze fisiche, di
costrizioni materiali, uno sguardo che finirà con l’interiorizzazione al punto di osservarsi da sé:
ciascuno eserciterà questa sorveglianza su e contro se stesso, potere continuo e costo irrisorio;
certamente non tutti occupano lo stesso posto in questo meccanismo, possono crearsi delle
supremazie, ma è una macchina in cui sono presi tutti e in cui il potere non appartiene
interamente e non rimane infinitamente; tutti sono sorvegliati da tutti, si è di fronte ad un
apparato del sospetto totale e circolante, poiché non vi sono punti assoluti e la perfezione
sorvegliante si raggiunge come somma di malanimi.239 Certo,

“bisogna fare una distinzione, chiaramente è evidente che in un dispositivo come


un’officina o un esercito, segua una forma piramidale e c’è dunque un vertice, tuttavia
questo non è una sorgente o il principio donde tutto deriverebbe come da una fonte
luminosa; il vertice e gli elementi inferiori della gerarchia sono in un rapporto di
sostegno e di condizionamento reciproci, sono legati fra loro come in un ricatto mutuo e
indefinito […] queste tattiche sono state inventate e organizzate a partire da condizioni
locali e da urgenze particolari, hanno preso forma pezzo per pezzo prima che una
strategia di classe la solidificasse in vasti insiemi coerenti.”240
237

Ivi, p. 224.

238

M. Foucault, in J. Bentham, Panopticon, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, Venezia, 1983, p.


16.

239

Ivi, pp. 21-22.

240
Un nuovo modo di ottenere il dominio di una mente su di un’altra mente, lo schizzo geometrico
di una società razionale dove individui attanagliati da un’insicurezza di fondo assoggettano il
loro corpo alla norma autodisciplinandosi.
Il modello panottico, così come inizialmente concepito, può essere però in qualche modo
considerato obsoleto nella società postmoderna, per questo ha bisogno di essere aggiornato e
integrato; con la dinamicità e liquidità della nuova società ha bisogno di nuovi dispositivi
sempre più informatici ed anonimi ma capaci di rendere il corpo sempre più docile241. Per
Foucault in una società disciplinare, i dispositivi mirano, attraverso una serie di pratiche e di
discorsi, di saperi e di esercizi, alla creazione di corpi docili, ma liberi, che assumono la loro
identità di soggetti nel processo stesso del loro assoggettamento 242; perciò è di fondamentale
importanza vedere quali dispositivi si adattino meglio alla società postmoderna che ha una
natura diversa da quella analizzata da Foucault. Il problema oggi si sta spostando su una
sorveglianza e gestione dei flussi di movimento e non solo degli individui, ma anche della
merce e dei dati personali. Secondo Deleuze le società disciplinari toccano l’apice nel XX sec.
e procedono all’organizzazione di grandi ambienti di reclusione, con l’individuo che non cessa
di passare da un ambiente chiuso all’altro, ciascuno dotato di proprie leggi: dapprima la
famiglia, poi la scuola (non sei più in famiglia), poi la caserma (non sei più a scuola), poi la
fabbrica, ogni tanto l’ospedale, eventualmente la prigione che è l’ambiente di reclusione per
eccellenza.243 Con l’avvento della società del controllo, come sostituto della società
disciplinare, prorompente dal secondo dopoguerra quando buona parte delle istituzioni
disciplinari entrano in crisi, e soprattutto con l’avvento della nuova tecnologia, le cose
cambiano:

“Le società disciplinari hanno due poli: la firma che indica l’individuo, e il numero o
matricola che indica la sua posizione in una massa. Il punto è che per le discipline non
esiste incompatibilità tra i due poli, che il potere è allo stesso tempo massificante ed
Ivi, pp. 22-23.

241

M. Ragnedda, cit., p. 98.

242

G. Agamben, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma, 2006, p. 29.

243

G. Deleuze, cit., pp. 234-235.


individualizzante, cioè costituisce come corpo coloro sui quali si esercita, e modella
l’individualità di ciascun membro del corpo. Nelle società di controllo viceversa, la cosa
essenziale non è più una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è un lasciapassare,
mentre le società disciplinari sono regolate da parole d’ordine. Il linguaggio numerico
del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l’accesso all’informazione o il diniego.
Non si ha più a che fare con la coppia massa-individuo. Gli individui sono diventati dei
dividuali e le masse dei campioni, dati, mercati o banche”244

È la rivoluzione tecnologica che più di tutte marca la differenza tra queste due forme societarie,
o meglio il rapporto tecnologia-potere; ancora Deleuze:

“Le vecchie società di sovranità maneggiavano delle macchine semplici, leve, pulegge,
orologi; mentre le più recenti società disciplinari avevano per equipaggiamento delle
macchine energetiche, con il rischio passivo dell’entropia e il pericolo attivo del
sabotaggio; le società del controllo operano per macchine di terzo tipo, macchine
informatiche e computer, il cui pericolo passivo è l’annebbiamento e quello attivo il
pirataggio e l’introduzione di virus”.245

Ma non basta parlare di rivoluzione tecnologica, di pari passo c’è la rivoluzione capitalistica
che investe la società; la fabbrica come istituzione disciplinare cede il passo all’impresa, non è
la produzione di beni materiali ad essere al centro del ciclo produttivo ma la vendita di servizi,
perciò la fabbrica perde importanza e non è più il luogo del controllo sociale, è il marketing ad
assumerne la funzione. Cambia però la dimensione del controllo, “esso è a breve termine e a
rotazione rapida, ma anche discontinuo ed illimitato, come la disciplina era di lunga durata,
infinita e discontinua. L’uomo non è più recluso ma indebitato”. 246 Si profila il dominio, sempre
più evidente e apparentemente inevitabile, da parte delle corporation mediante le nuove
tecnologie, e contemporaneamente diminuiscono le forze per opporsi a questo sistema.
Perdendo sempre più importanza la fabbrica, perde importanza anche la solidarietà e la
compattezza della forza lavoro come strumenti di resistenza. Questi valori sembrano lasciare il
posto alla competizione, all’egoismo e all’individualismo che imprigiona

244

Ivi, p. 237.

245

Ivi, p. 238.

246

Ivi, pp. 238-240.


l’uomo nella sua disperata ricerca del successo mortificando l’individuo. Il nuovo controllo
sociale è continuo e illimitato e passa attraverso l’accettazione dei valori imposti dalla nuova
élite. Più il cittadino si individualizza, rinchiudendosi nel suo mondo mediale e virtuale
perdendo così i contatti con la società reale, e più tenderà ad accettare come inevitabile e
naturale lo stato di cose. Tenderà cioè ad autocontrollarsi, normalizzando il suo
comportamento, ovvero rendendolo uniforme alla media o normalità, senza deviare.247 Le
nuove tecnologie informatiche permettono un controllo molto più capillare ed esteso di quanto
sinora sia stato immaginabile; Telecamere a circuito chiuso ai bordi delle strade, nei negozi,
negli aeroporti, nelle metropolitane; possibilità di intercettazioni telefoniche e informatiche;
raccolta ed elaborazione di tutti quei dati e informazioni che si lasciano alle spalle in seguito
all’acquisto di prodotti e merci con le varie carte di credito, carte di debito o carte fedeltà, che
permettono di ricostruire perfettamente la storia “commerciale” di ogni singolo consumatore. E
mezzi ancora più sofisticati quali il passaporto biometrico, i vari satelliti o le piccole tracce che
una “navigata” in Internet lascia. A tal riguardo, David Lyon
ha fatto notare come:

“la sorveglianza sia oggi da considerarsi come il mezzo essenziale dell’ordine e delle
orchestrazioni sociali. Le società dell’informazione sono società sorvegliate. I mezzi di
gestione sociale attualmente disponibili e in uso servono in varia maniera a classificare,
coordinare e controllare le popolazioni in modi che trascendono le più moderne
divisioni fondate sulla posizione di classe o sui processi burocratici di classificazione
basati sulla documentazione cartacea. Iniziamo solo ora a capire come i profili
biografici, le informazioni inerenti alla popolazione e i dati biometrici stiano emergendo
quali fonti dinamiche di potere nel mutato ambiente sociale globale”248

All’interno delle società sorvegliate, il potere sembra fluire lungo una molteplicità di canali,
nessuna torre di guardia centrale domina il paesaggio sociale, poche persone si sentono
vincolate, e ancor meno controllate, da regimi di sorveglianza; la maggior parte delle persone
accetta tranquillamente di rivelare la propria identità o dichiara di acconsentire a rendere noti i
propri dati personali alle aziende; per coloro che non desiderano essere esclusi o emarginati, la

247

M. Ragnedda, cit., pp. 101-102.

248

D. Lyon, La società sorvegliata, tecnologie di controllo della vita quotidiana, Feltrinelli, Milano, 2002,
pp. 13-14.
partecipazione sociale implica un attivo coinvolgimento nei meccanismi che tengono d’occhio
e monitorano le loro vite quotidiane.
Gary T. Marx249 indica nove caratteristiche che differenziano la vecchia e la nuova
sorveglianza: la prima differenza consiste nel fatto che la nuova sorveglianza “trascende la
distanza, l’oscurità e le barriere fisiche” e ciò significa che grazie alle nuove tecnologie
vengono superati i limiti tecnici che rendevano impossibile estendere la sorveglianza sia
all’esterno dei confini dello Stato-nazione sia all’interno della vita degli individui. Il secondo
elemento di differenziazione è dovuto al fatto che la nuova sorveglianza “trascende il tempo e i
suoi dati possono essere facilmente immagazzinati, recuperati, analizzati e comunicati”250, in
alti termini non vi è rapporto necessario e immediato tra la raccolta e l’utilizzo delle
informazioni senza pregiudicarne l’attendibilità. Il terzo elemento coincide con la rivoluzione
strutturale dell’apparato di sorveglianza, essa “è ad alta intensità di capitale più che di lavoro:
gli sviluppi tecnici hanno decisamente modificato l’economia della sorveglianza; con una certa
semplicità è possibile rimandare l’informazione ad una fonte centrale, rendendo così possibili
economie di scala”251. Grazie a questa rivoluzione tecnologica, relativamente poche
possono controllare diversi luoghi e individui ed in più, elemento decisamente nuovo, gli
individui possono diventare volontariamente o meno, fruitori di sorveglianza. Il quarto
elemento si riferisce al cambiamento paradigmatico che la nuova sorveglianza ha innescato
poiché si passa dal sorvegliare individui specifici a sorvegliare potenzialmente tutti. Le nuove
tecnologie consentono un monitoraggio continuo - dalle telecamere alle carte d’identità, dai
metal-detector ai moduli obbligatori delle tasse - che fa di ciascuno un obiettivo di
sorveglianza. Il quinto elemento tratta della crescente prevenzione, “tutto è fatto per prevenire
le violazioni, la stessa pubblicizzazione della onnipresente sorveglianza serve da deterrente” 252.
Il sesto elemento riguarda la sua decentralizzazione e il meccanismo di autovigilanza, gli
individui sono spesso motivati a dare informazioni su se stessi in cambio di benefici o evitare di

249

G. T. Marx, The iron fist and the velvet glove: totalitarian potentials within democratic structures, in
http://web.mit.edu/gtmarx/www/iron.html

250

Ibidem.

251

Ibidem.

252

Ibidem.
essere penalizzati. Il settimo è il fatto di essere invisibile e depersonalizzata; risulta infatti
“difficile accertarsi di quando siamo sorvegliati e di chi ci sta osservando, anche perché spesso
la sorveglianza è depersonalizzata e viene praticata grazie a dispositivi elettronici sempre più
difficilmente individuabili”.253 L’ottavo è la profondità delle informazioni a cui riesce ad
accedere grazie agli strumenti sempre più invasivi che la tecnica mette a disposizione ed infine
l’ultimo elemento è l’estensione della nuova sorveglianza; ampie e nuove categorie di persone
diventano soggetti per raccolta e analisi delle informazioni e, come aumenta il numero delle
persone osservate, così cresce quello dei potenziali controllori; chiunque può essere osservato e
ognuno è un potenziale osservatore. La creazione di incertezza sul fatto di essere o no
sorvegliati è un importante elemento strategico. Alcuni degli elementi identificati da Marx
possono essere visti come una naturale estensione del modello panottico supportato
dall’evoluzione tecnologica; altri elementi invece sono vere e proprie rivoluzioni
paradigmatiche e sono frutto e causa della nuova società: non più statica e rigida - moderna -,
ma dinamica e liquida - postmoderna -. Si potrebbe dire che queste differenziazioni, ma altre se
ne possono aggiungere e qui di seguito verranno proposte,
sono dovute a due macro fattori: la rivoluzione tecnologica e l’estensione tecnologica del
modello panopticon a tutta la società.254 Il problema però, secondo Bauman255, non è tanto
sapere o non sapere di essere sotto controllo, ma di non preoccuparsene affatto; a questo punto
scatta una rivoluzione cognitiva e di percezione che investe il ruolo della sorveglianza.
Prima esso era limitato a persone ben identificate, circoscritto a determinati ambienti ed era
considerato un elemento di repressione; il controllo oggi in cambio può paradossalmente essere
considerato come una duplice garanzia: di inclusione sociale e di libertà. Da una parte infatti
non essere controllati significa essere emarginati, non essere degni di nota, non essere
importanti - chi per eccellenza non è controllato è il clandestino, l’escluso, persona ai margini
della società e che impersonifica il pericolo, in quanto fuori controllo -. Ecco allora che il
controllo diviene anche garanzia di libertà perché maggiori e più intensificati si faranno i
controlli e più protetti ci si sente. Aumentando la percezione di sicurezza aumenta anche la

253

Ibidem.

254

M. Ragnedda, cit., p. 108.

255

Z. Bauman, Cambia il mondo cambia il vento, in http://www.lostraniero.net/archivio-2008/14-febbraio-


n-92/165-cambia-il-mondo-cambia-il-vento.html
libertà, la possibilità di non essere schiavi della paura e del terrore. Sentirsi sotto controllo
dunque ci rende liberi. Questa è la vera rivoluzione cognitiva apportata dalla nuova
sorveglianza e dalla postmodernità; e questo è quanto la nuova élite al potere è riuscita a farci
interiorizzare ed accettare come un dato di fatto.256 Ci troviamo così di fronte ad un chiaro e
manifesto superamento del modello panottico classico, cosa che caratterizza la nostra società
come “società superpanottica”257, ovvero quel complesso di sorveglianza in grado di controllare
ogni dettaglio e in ogni momento la vita quotidiana degli individui grazie al sistema di
controllo che prende il nome di “dataveglianza”; l’avvento dell’era informatica, dove grazie ai
database è possibile reperire e registrare un numero sempre più elevato di dati, permette di
ricostruire un profilo sempre più accurato di ogni singolo cittadino. Spesso infatti si sottovaluta
che queste immense banche dati non contengono solo informazioni sull’identità, ma anche sulle
inclinazioni, gli acquisti, le proprie attività e gusti.258 Chi per primo ha analizzato le potenzialità
della nuova sorveglianza è stato Clarke, che intende “l’uso sistematico di insiemi di dati
personali allo scopo di controllo e monitoraggio delle azioni e comunicazioni di una o più
259
persone” . La dataveillance è alla base di una nuova forma di sorveglianza basata
sull’elaborazione di dati e informazioni e sul sistematico monitoraggio degli individui; la
caratteristica principale di questa sorveglianza diviene la sistematicità con la quale scruta e
osserva la vita dei singoli individui. La sorveglianza non è l’eccezione ma la regola che diventa
onnipresente raccogliendo dati che potranno essere utilizzati anche in futuro. La sorveglianza è
infatti, secondo la definizione da lui adottata, “la sistematica investigazione o monitoraggio
delle azioni o delle comunicazioni di una o più persone. Lo scopo primario è, generalmente,
quello di collezionare informazioni sulle loro attività e associazioni. E, potenzialmente,
dissuadere l’intera popolazione dall’intraprendere determinati generi d’attività”. Grazie ad essa
si assiste ad un salto di qualità nella sorveglianza, e non solo da un punto di vista quantitativo,
infatti, non è solo la quantità di informazioni e dati raccolti ed elaborati,

256

M. Ragnedda, cit., pp. 111-112.

257

M. Poster, Foucault, marxism and history. Mode of production versus mode of information, Polity press,
Cambridge, 1984, pp. 102-104.

258

Ibidem.

259

R. Clarke, Information technology and dataveillance, in http://www.rogerclarke.com/DV/CACM88.html


incommensurabilmente più alti di quanto in precedenza sia mai stato fatto, che cambia, ma è la
qualità stessa della sorveglianza a subire un cambiamento. La sorveglianza è ora molto più
invasiva, onnipresente, sistematica. La sorveglianza come conseguenza diretta del compimento
del Leviatano toglieva il fiato, la postmodernità e il suo controllo invece rilassa, diverte, svaga.
Il grande fratello moderno è tramontato, superato, troppo costoso poiché rivelatosi
improduttivo e inattuabile; dispendioso in termini di tempo e denaro, di fronte al vantaggio
della decentralizzazione, alla condivisione di dossier informatici e dati su individui e gruppi.
Diversi settori e istituzioni, pubbliche o private, hanno specifici database, che all’occorrenza si
scambiano e si incrociano, grazie alla
rivoluzione strutturale che ha profondamente modificato il supporto materiale su cui viaggia la
merce-informazione, istantanea, rapida e immediata, dislocata e snella. Ognuno gestisce il
profilo personale a cui è maggiormente interessato: quello commerciale e/o burocratico; sarà
poi il controllo incrociato dei dati, quello che in termini tecnici viene chiamato computer
matching, a fornire un profilo molto dettagliato di ogni singolo individuo. 260

“Il cedere informazioni volontariamente, tipico della postmodernità, significa spogliarci,


diventando sempre più visibili e trasparenti ad un occhio che invece resta invisibile,
aspetto tipico invece del panopticon. Stesse caratteristiche ma calate in uno scenario
nuovo e con diverse tecniche: un panopticon super. Il Superpanopticon porta ad un
livello più elevato le capacità di sorveglianza del panopticon benthamiano. Infatti, da un
unico punto di osservazione, esso è in grado di registrare ed elaborare un numero
elevato di dataimmagini, cosa che permette la costruzione di profili virtuali
individualizzati. Il Superpanopticon non costituisce però solo un perfezionamento del
modello panottico, ma è anche un elemento essenziale per un miglior funzionamento del
biopotere, ovvero la presenza del potere fin nelle più piccole particelle del corpo della
persona. Il superpanottico tende a racchiudere in un unico dispositivo le due funzioni, o
assi, che secondo Foucault stanno alla base del biopotere: il controllo individualizzante
e la gestione massificante”.261

Ma ad un’attenta visione il Superpanopticon non sembra reggere; certo, ci sono grandi


intuizioni, ma esso è reclusione e confinamento e perciò difficilmente identificabile in una
società fluida e dinamica come quella moderna; ciò è riscontrabile soprattutto osservando le
nuove tecnologie elettroniche e la funzione di questa sorveglianza: il compito è quello di far
sentire sicuri gli utenti del cyberspazio, ovvero a chi frequenta un luogo che per sua stessa
260

Ibidem.

261

M. Ragnedda, cit., pp. 116-117.


natura trascende i confini nazionali e l’idea stessa di territorio; la vigilanza elettronica è quindi
innanzitutto veicolo di mobilità al contrario del Panopticon che legava il sorvegliato ad uno
spazio fisico. Così, due secoli dopo l’elaborazione del modello benthamiano, il norvegese
Thomas Mathiesen afferma che il modello panottico sia stato sostituito ed integrato dal
Synopticon262 dove i fattori sono completamente capovolti; Mathiesen parte dal presupposto
che la società attuale sia la società dello spettatore, riprendendo i lavori trattati
antecedentemente – tra cui spiccano Deborde e Anders -, secondo i quali lo spettacolo è in
qualche modo una forma disciplinante; questo modello è stato fatto da Baumann 263 quale
metafora per descrivere la società liquida, o postmoderna, caratterizzata da un sistema di potere
fluido, mobile, morbido, e leggero che si insinua in ogni singolo interstizio della società, la cui
principale tecnica diviene ora la fuga, l’evasione, il distacco: esattamente il contrario di quanto
prevede il panottico che vuole invece un centro fisso e immobile in grado di controllare tutto e
tutti. Ci si trova così al tramonto del panottico benthamiano, ma non delle istituzioni
disciplinari foucaultiane.264 In realtà, come accennato precedentemente, Foucault va oltre la
concezione benthamiana del Panopticon, considerando quest’ultimo non come un luogo chiuso
e definito una volta per tutti, ma come uno spazio che si adatta perfettamente all’interno della
società; il Panopticon è perciò uno spazio riproducibile che tende a permeare ogni singolo
aspetto del vivere quotidiano. Anche Hardt e Negri sono di quest’avviso:

“La società disciplinare è la società nella quale il controllo sociale viene costruito
attraverso una rete sociale ramificata di dispositivi che producono e controllano
costumi, abitudini e pratiche produttive. Mettere questa società al lavoro ed assicurarne
l’obbedienza al suo potere e ai suoi meccanismi d’integrazione e/o di esclusione si
ottiene tramite istituzioni disciplinari – la prigione, la fabbrica, il manicomio,
l’ospedale, l’università, la scuola, etc - che strutturano il terreno sociale e offrono una
logica propria alla “ragione” della disciplina. Il potere disciplinare governa in effetti,
strutturando i parametri e i limiti di pensiero e di pratica, sanzionando e/o prescrivendo i
comportamenti devianti e/o normali”265.

262

T. Mathiesen, The viewer society. Michel Foucault’s panopticon revisited, in Theoretical criminology,
SAGE, Londra, 1997, pp. 215-234.

263

Z. Baumann, Modernità liquida, Laterza, Bari/Roma, 2002, p.XVIII.

264

M. Ragnedda, cit., p. 121.

265

M. Hardt e T. Negri, Impero, cit., p. 23.


Non è quindi necessario rinchiudere gli individui in spazi chiusi per omogeneizzarli, ma è la
disciplina che lo fa; la società disciplinare con la sua ramificata rete di dispositivi produce e
controlla abitudini e costumi. E a costo di essere ridondanti, da qui si passa a quella che
Deleuze chiama società del controllo e che Hardt e Negri considerano come:

“la società che si sviluppa alla fine ultima della modernità e apre sul post-moderno, e
nella quale i meccanismi di controllo si fanno vieppiù “democratici”, sempre più
immanenti al campo sociale, diffusi nel cervello e nel corpo dei cittadini. I
comportamenti d’integrazione e di esclusione sociale propri del potere sono anche
sempre più interiorizzati dai soggetti stessi. Il potere si esercita a questo punto tramite
macchine che organizzano direttamente i cervelli (grazie a sistemi di vantaggi sociali, di
attività inquadrate, etc) verso uno stato di alienazione autonoma, partendo dal senso
della vita e dal desiderio di creatività. La società di controllo potrebbe anche essere
caratterizzata da una intensificazione ed una generalizzazione di apparecchi(sistemi)
della disciplinarietà che animano dall’interno le nostre pratiche comuni e quotidiane; ma
al contrario della disciplina, questo controllo si estende ben al di là dei luoghi strutturati
delle istituzioni, tramite reti flessibili, modulabili e fluttuanti.”266

Società liquida, sorveglianza e tecniche di disciplina e controllo liquide; più nello specifico una
nuova tecnologia che non è più solo repressiva ma anche e soprattutto propositiva: le nuove
forme di controllo si basano non solo sulla repressione di condotte sbagliate e non conformi
agli standard, ma alla proposizione di nuovi modelli di comportamento in una società in cui i
modelli tradizionali sono entrati in crisi, insieme alle sue istituzioni. A proporre condotte,
dunque, non sono le vecchie istituzioni socializzanti, ma in maniera crescente la nuova e
onnicomprensiva istituzione: i mass media ed in particolare la televisione; il carattere
disciplinatorio si impone sempre più attraverso la seduzione che non con la mera sorveglianza.
“Oggi l’obbedienza agli standard […] tende ad essere raggiunta attraverso la lusinga e la
seduzione anziché la coercizione, e si mostra mascherata da esercizio del libero arbitrio anziché
rivelarsi come una forza esterna”.267 Secondo questa impostazione, l’ubbidienza agli standard
avviene grazie alla lusinga, grazie alla spettacolare proposta e continua riproposta di modelli di
riferimento vincenti. Modelli incarnati dalle personalità di successo, da poche persone che
grazie al proprio carisma, ruolo o storia personale sono al centro dell’attenzione e si pongono,
266

Ibidem.

267

Z. Baumann, Modernità liquida, cit., p. 92.


spesso involontariamente, come modelli di riferimento, scavalcando così, come si è più volte
sottolineato, i modelli di riferimento classici dell’epoca moderna; è il modello di riferimento
dei pochi ad essere osservato dai molti e quindi “non è più un centro che dà uniformità che
controlla i soggetti contemporanei, ma la capacità di attirare i loro sguardi, attraverso questa
focalizzazione comune, ma atomizzata, a stabilire e legittimare il loro punto di convergenza
come un centro de facto di normatività”.268 Si passa quindi dalla torre centrale che osserva tutti
ad un modello dove sono i molti che osservano i pochi situati nella nuova torre o palcoscenico:
i media. I pochi sono coloro che appaiono sullo schermo, coloro che attraverso lo spettacolo si
impongono ai cittadini-spettatori e che hanno la capacità di attirare a sé gli sguardi dei molti; è
la periferia dunque che osserva il centro e non come previsto dal panottico il centro che
dall’alto della sua torre osserva il basso, che dal centro osserva l’esterno. È da qui che i
desideri, le aspirazioni e i sogni vengono insinuati nella mente della moltitudine.
“Il modello panopticon si rende dunque obsoleto in questo nuovo scenario, esso ancora i
soggetti ad uno spazio fisico, evitando l’evasione, la fuga; controllori e controllati legati
ad un luogo. Il synopticon trasforma i guardati in guardanti svincolandoli, con l’atto
stesso del guardare, dal luogo fisico, trasportandoli nel cyberspazio, dove la distanza
semplicemente non esiste, dove lo spazio è azzerato dal tempo e dove i molti guardano i
pochi, e i pochi sono coloro che sono autorizzati a penetrare i media dall’esterno. La
moltitudine guarda, osserva, ascolta, invisibile, fuggevole, ammirata e invidiata, assume
le sembianza di una monarchia senza corona, che guida. Spesso lo fa direttamente,
quando incontra la moltitudine comodamente seduta a casa loro, e spesso lo fa
indirettamente mettendo in vetrina eroi e veline, affinché il messaggio arrivi con più
forza”.269

In ultima analisi non si tratta quindi di imporre una condotta, ma d’indurre arbitrariamente
determinati tipi di comportamento, che possono facilmente far presa nelle menti dei cittadini
poiché legati ai nuovi valori del vivere sociale. Sarebbe tuttavia errato però presupporre che il
modello synopticon abbia completamente scalzato la necessità di una sorveglianza dall’alto, di
un controllo capillare; esso ne è casomai una integrazione, un aiuto complementare, sempre più
importante, in una società molto frammentata e senza forti punti di riferimento. Lo stesso
Mathiesen afferma come “in tempi recenti l’interazione ha preso nuove forme e concrete
fusioni […] panoptismo e synoptismo si sono sviluppati sulla base di nuove tecnologie

268

M. Lianos, cit., p. 26.

269

M. Ragnedda, cit., pp. 126-127.


comuni”.270 E se è vero, continua, che la Radio, la Tv o i satelliti usano entrambi questi modelli
è vero anche che solo Internet permette la raccolta di un così alto numero di informazioni circa
i suoi utenti e ne ricostruisce un profilo sempre più accurato e preciso – modello panottico -, ma
al tempo stesso offre sempre più vantaggi disciplinanti-sinottici grazie alla sempre più veloce e
continua infusione di messaggi e modelli di riferimento. Navigando in rete è vero che sono i
molti che osservano i pochi, dunque un modello synopticon, ma è soprattutto vero che le nuove
tecnologie di controllo elettronico permettono di erigere una torre panottica al centro che tutto
vede senza essere vista; o perlomeno dà questa impressione: esattamente quanto prevedeva il
panottico. I vari terminali che quotidianamente usiamo possono metaforicamente essere visti
come le singole celle del Panopticon così come immaginate da Bentham, con lo stesso gioco di
luci che non permette angoli scuri. In realtà questi due modelli, il panopticon e il synopticon,
non si escludono ed anzi, nella postmodernità, si richiedono vicendevolmente, poiché si
integrano e si completano. Focalizzando ora, più specificamente l’attenzione sul medium
internet, si rende necessaria una puntualizzazione, in rete più che l’aspetto del synopticon
prevale quello del panopticon; inoltre è sempre più diffusa la tendenza dei pochi che guardano i
pochi, venendo così a crearsi delle piccole comunità, dove i singoli utenti si possono ritrovare e
crescere assumendo come modello di riferimento la sua comunità virtuale. Le differenze
rispetto al panopticon sono evidentemente molteplici: cambia la geometria spaziale e la staticità
del modello.271 Nessuno infatti è costretto a stare rinchiuso al proprio terminale-cella; non esiste
una torre centrale visibile e data una volta per tutte; la disciplina da imporre non è chiara e
monodirezionale. La differenza principale però, è probabilmente l’esistenza di una molteplicità
di torri con scopi diversi: commerciali, burocratici e investigativi; la torre, o meglio le torri, che
presiedono alla sorveglianza commerciale non necessariamente sono interessate, e legalmente
non potrebbero, compiere azioni di spionaggio, osservare e catalogare dati riguardanti
l’anagrafe, la situazione patrimoniale e altre violazioni che ledono la privacy. Inoltre, cosa
ancora più importante, spesso volontariamente, è il cittadino-consumatore che affida a questa
torre le informazioni di cui essa necessita per costruire un profilo del suo stile di consumo:
profilo che verrà poi rivenduto ad altre società divenendo così fonte di successivi guadagni. È
dal consumo che proviene in questo secolo uno dei dispositivi più importanti per il controllo
sociale, Lyon a proposito spiega che:
270

T. Mathiesen, cit., p. 223.

271

M. Ragnedda, cit., p. 131.


“I metodi coercitivi per il mantenimento dell’ordine sociale all’interno degli Stati-
nazione capitalistici si sono ridotti, fino al punto di assumere un ruolo marginale. Però il
margine è ancora necessario, perché lascia inalterato un gruppo di riferimento, un
sottoproletariato, se preferiamo chiamarlo così, il cui destino di non consumatore è bene
evitare a tutti i costi. Però per la maggioranza, il consumo è diventato l’aspetto
assorbente della vita contemporanea nelle società affluenti, la guida morale e
l’integratore. L’ordine sociale, e di conseguenza una forma morbida di controllo, viene
preservato stimolando ed incanalando il consumo, ed è a questo punto che entra in gioco
la sorveglianza dei consumi”272

Profili del consumatore sempre più affidabili e precisi in modo tale da indirizzare in modo
sempre più preciso la merce e spingere il consumatore nelle sue braccia; avere un profilo
sempre più accurato permette di indirizzare in maniera sempre più precisa l’informazione, con i
dati che sarà lo stesso consumatore a fornire, perché più consuma e più si scopre alle aziende e
più è vulnerabile. La torre burocratica snellisce le pratiche ed è molto più accurata e completa,
offrendo vantaggi in termini di tempo e comodità a tutti i cittadini; la torre investigativa invece
racchiude tutte le informazioni e tracce che si lasciano in rete divenendo un’unica grande torre
centrale. Essa è in grado, con sistemi noti e meno noti, di catalogare, registrare ed elaborare dati
che riguardano la vita commerciale, burocratica e strettamente privata di ogni cittadino e
servirsene per scopi di prevenzione e repressione. La prevenzione
sarà tanto più efficace tanto maggiori e accurate saranno le capacità di monitoraggio e
sorveglianza. Grazie all’incrocio di dati raccolti trasversalmente su tutti i cittadini-navigatori e
poi incasellando ogni cittadino all’interno di categorie di rischio e possibile tenere
costantemente sotto controllo i soggetti potenzialmente più pericolosi. È evidente infatti che un
soggetto che si serve della rete solo per leggere la posta elettronica e guardare le ultime notizie
è potenzialmente meno pericoloso di un soggetto che naviga in rete cercando informazioni sul
come costruirsi una bomba.273 Su quest’ultimo si intensificheranno le operazioni di
sorveglianza, anche grazie, qualora sia ritenuto necessario ed utile, all’ausilio di altre tecniche
quali, intercettazioni telefoniche ed ambientali sino ad arrivare al pedinamento
fisico; ancora una volta per avere maggiore sicurezza si deve rinunciare ad un po’ di privacy. Si
arriva poi a quello che Bigo ha chiamato Banopticon274, neologismo nato dall’unione del
272

D. Lyon, L’occhio elettronico, privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano, 1997, p.196.

273

M. Ragnedda, cit., p. 134.

274
termine inglese Ban - proibire, mettere all’indice - e il greco opticon - guardare, osservare - e
che significa un sistema di sorveglianza dove il profilo tecnologico determina chi deve essere
tenuto sotto controllo, interrogato, detenuto o allontanato e chi invece è libero di intervenire;
questo modello teorizza che, nell’ottica del prevenire, non si indirizzano delle indagini verso un
gruppo o un reato, ma verso dei sospetti, e così i “profili incrociati” divengono fondamentali.
Con la rete comunque c’è la necessità di estendere anche nel virtuale quell’insieme di attività
dirette ad uniformare la condotta degli individui con l’obiettivo di far rispettare le norme e le
aspettative del gruppo; e si assiste ad una nuova fenomenologia del controllo sociale. Le nuove
relazioni sociali infatti sono il frutto della combinazione tra Internet, chat, telefoni di ultima
generazione e relazioni face to face; quest’intreccio fa si che reale e virtuale si fondono e
confondono, dando luogo a nuove modalità di interazione sociale, con la vita reale che si sposta
sempre più in rete e quello virtuale ha sempre maggiori ricadute sul reale. Alla luce di ciò non
bastano più forme panottiche o superpanottiche di controllo, ma queste devono combinarsi a
forme sinottiche che sorvegliano e seducono. La nostra identità tende sempre di più ad essere
compresa dagli altri sulla base della nostra data-immagine piuttosto che dalle comunicazioni
interpersonali, così l’aspetto al centro dell’attenzione è quello che qui si definisce il controllo
dell’immaginario collettivo attraverso la simulazione
del reale.275 Controllare l’immaginario e l’immateriale, significa anche controllare l’immissione
nell’ecologia dei valori, di nuovi modelli comportamentali da assumere come punti di
riferimento; secondo la famosa teoria dell’Agenda Setting 276, noi conosciamo o tendiamo ad
escludere dal nostro orizzonte conoscitivo quello che i media dicono o non dicono. Partendo da
questa semplice concezione e aggiungendo il fatto che ora Internet diviene sempre più una
fonte di conoscenza della realtà circostante, riuscire a gestire i filtri della rete significa chiudere
i cancelli ad alcune informazioni scomode. La censura allora si sposta su un altro piano; ciò che
le grosse multinazionali dell’informazione cercano di fare non consiste solo nel gestire buona
parte dei flussi della comunicazione anche in rete, gerarchizzando, secondo le proprie logiche, i
temi di pubblico interesse e cercando di modellare un mondo - o cyber-mondo - più vicino e in
linea con il proprio modello o ideale, ma danno luogo ad una sorta di censura, che non

D. Bigo, Security and immigration: toward a critique of the governmentality of unease, Alternatives,
2002, p. 82.

275

M. Ragnedda, cit., p. 136.

276

www.it.wikipedia.org/wiki/Agenda_setting
necessariamente risponde a modelli repressivi, ma è dovuta a ragioni che possiamo definire
tecniche. Per questioni di marketing infatti, si rende spesso inevitabile omologare i gusti e le
idee dei cyber utenti; in una parola è necessario predefinire, ovvero definire in anticipo le scelte
dei consumatori. Le nuove forme del controllo sociale difatti non si limitano a vedere ciò che
l’individuo fa, ma tendono a prevedere quello che farà. 277 Si cerca di creare un percorso
prestabilito, in modo tale da lasciare immutata, all’interno di percorsi standard, l’autonomia
dell’individuo, facendogli credere che sia veramente lui a scegliere il suo destino, ma il suo
comportamento è già stato ampiamente previsto. Questo è ciò che Lyon chiama
“simulazione”278, ossia l’elaborazione dei dati finalizzata all’anticipazione del comportamento
del soggetto osservato in un tempo che non è più il presente o il passato, bensì il futuro; queste
previsioni si basano su modelli psicologici sempre più elaborati, che creano le categorie, cioè i
ruoli nei quali ogni giorno veniamo confinati; più informazioni si avranno sull’identità di ogni
singolo individuo e, teoricamente, più facile sarà prevederne il comportamento futuro e il suo
range d’azione. Illuminante l’esempio fornito sempre da Lyon:

“Una delle prime e note applicazioni è quella ideata e messa a punto da Sergio Velastin
del King’s College di Londra, noto come Cromatica, ovvero un dispositivo di
rilevazione e controllo dei flussi, attivo in alcune stazioni metropolitane inglesi. Il
sistema, ideato per monitorare il grado di affollamento della metropolitana, allerta, con
un cambiamento dei colori dello schermo, in caso di anomalie dei passeggeri, ovvero in
caso di comportamenti ritenuti non normali e non in linea con le aspettative. Un
comportamento deviante, quale quello di soffermarsi troppo a lungo sui binari, viene
considerato potenzialmente a rischio, perciò l’allerta scatta. Secondo alcuni studi infatti,
le persone che intendono suicidarsi, seguono uno schema invariabile, uno schema che
possiamo definire standard. Cromatica è in grado di individuare persone che ricalcano
questi schemi e segnalare la cosa agli organi preposti alla sicurezza. È evidente come
questa sorveglianza sia oggi possibile solo grazie alle nuove tecnologie e alla loro
capacità di catalogare, incrociate ed elaborare informazioni sugli individui. La
ricostruzione dello schema standard che pare gli aspiranti suicidi seguano e la sua
successiva identificazione da parte dell’occhio elettronico è una delle tante modalità di
prevenzione del comportamento sociale deviante, in chiave repressiva.”279

277

M. Ragnedda, cit., p.139.

278

D. Lyon, La società sorvegliata, cit., p. 206.

279

Ivi, pp. 79-82.


Le neuroscienze e gli ingegneri informatici paiono mirare all’elaborazione di sistemi di
sorveglianza che anticipino i comportamenti degli esseri umani. Il problema è, e non può essere
sottovalutato, vedere se si tratta solo di anticipare ovvero prevedere il comportamento umano o
aggiustarlo in itinere?280 Diventa così fondamentale il problema della costruzione, ipotetica o
meno, di una realtà; divengono perciò fondamentali i media. Come sostiene Baudrillard essi
costruiscono l’iperrealtà281, ossia una realtà che pur non essendo reale è più realtà del reale
perché è con essa che l’essere umano interagisce, il momento in cui l’utente-consumatore
scambia il modello con l’oggetto modellato, la simulazione con l’originale; in cui si sostituisce
un ordine sociale di valori e classificazioni a un mondo contingente di bisogni e piaceri. Essa
fornisce i segni della realtà ma da essa se ne distanzia perché ciò che si vede è derealizzato
dalla società dello spettacolo e ridotta a simulacro; viene proposta e accettata come sostituta
della realtà, con quest’ultima filtrata dagli interessi e dalle idee di chi la propone. Chi crea la
realtà la domina, proprio perché la modella secondo i suoi voleri, le sue aspirazioni e ideali,
cercando di far confrontare l’opinione pubblica con essa e non con altre realtà, escluse a priori
dall’orizzonte percettivo. Emblematico l’esempio offerto da Queau sulla bolla economica:

“È evidente infatti come il 99% dei capitali che circolano nel mondo sono pura
speculazione, ovvero solo l’1% dei capitali corrisponde all’economia reale. Il giro di
affari è impressionante, dell’ordine di diverse migliaia di miliardi di dollari che
quotidianamente circolano nel virtuale, con conseguenze più che reali. In questo caso la
distinzione tra reale e virtuale è effimera, illusoria e realtà e virtualità si confondono
vicendevolmente. Il problema dunque non consiste tanto nel chiedersi se un’immagine
sia reale o fittizia, vera o falsa; il vero problema è vedere chi ha gli strumenti
intellettuali per decifrarla, per analizzarla.”282

Queau arriva a teorizzare addirittura che chi possiede questi strumenti intellettuali sarà
arruolabile nell’élite virtuale, al contrario chi non ne disporrà rappresenterà il proletariato.
Con i nuovi media, come appunto internet, però, ci si discosta molto dall’iperrealtà fornita dalla
televisione; se questa difatti forniva una o poche versioni, ora la rete, che fa di ognuno

280

M. Ragnedda, cit., p. 142.

281

J. Baudrillard, La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Mulino, Bologna, 1976, p. 40.

282

P. Queau, La rivoluzione del virtuale, in http://www.emsf.rai.it/interviste(interviste.asp?d=61


destinatario, ma anche mittente di informazione, permette una molteplicità di versioni
dell’iperrealtà e dunque della realtà con la quale interagire. Internet dunque, permette agli
utenti di navigare liberamente e costruirsi un proprio percorso, un proprio viaggio, spostandosi
liberamente da uno spazio all’altro alla ricerca di informazioni più vicine ai propri gusti e
visioni del mondo; elaborando un proprio autonomo percorso egli si costruisce così una sua
visione della realtà, non meno coerente e vera delle altre realtà. Così tutti possono divulgare ed
elaborare la propria realtà, ma pochi riescono a proporla e renderla credibile. Secondo lo
scrittore francese Pierre Lévy, però, realtà e virtuale non devono essere considerati due elementi
in contrapposizione; la virtualizzazione è sempre presente nella storia dell’uomo, è linguaggio,
tecnica, arte. È per lui “il movimento contrario all’attualizzazione, l’elevare a potenza l’entità
considerata, è un cambiamento di identità”283, ma al di là di questioni concettuali rimane il
fatto che la strategia della nuova élite agisce “producendo, proponendo e imponendo realtà”. 284
Internet stesso inoltre si è evoluto ed è ora denominato Internet 2.0, con cui si intendono le
tecnologie che permettono ai dati e alle informazioni, inseriti in un sito, di diventare
indipendenti dal suo ideatore o dal sito stesso che li contiene, col dato che si distacca
dall’autore andando a divenire un qualcos’altro di nuovo; il Web 2.0 “non ha confini rigidi ma
un’anima gravitazionale, un insieme di principi e di procedure che collegano un autentico
sistema solare di siti che dimostrano in toto o in parte
di questi principi, a una distanza variabile dal centro stesso”; 285 in poche parole non si offrono
prodotti incontrovertibili come verità assolute ma pensieri deboli che tengono conto della
pluralità di verità relative, con la possibilità per questi di adeguarsi e migliorarsi, con Wikipedia
che ne è l’esempio più famoso ed eclatante. Si abbandona la modernità ed alcune sue
caratteristiche di derivazione illuminista quali centralità, suddivisione netta dei saperi e delle
conoscenze, categorizzazione; si passa dall’approccio top-down ad un sapere dinamico e
flessibile286 caratterizzato da un illusorio concetto di democrazia dal basso, dove sono gli utenti

283

P. Lévy, Il virtuale, Cortina Raffaello, Milano, 1996, pp. 7-8.

284

M. Ragnedda, cit., p. 152.

285

T. O’Reilly, What Is Web 2.0. Design Patterns and Business Modelsfor the Next Generation of Software,
http://oreillynet.com/pub/a/oreilly/tim/news/2005/09/30/what-is-web-20.html

286

M. Ragnedda, cit., p. 155.


a poter stabilire l’agenda; tutto ciò sarebbe anche vero se non fosse che prima di iniziare a
leggere o scrivere ognuno di noi ha ricevuto milioni di messaggi dettati dall’industria culturale
che veicola così la percezione degli individui. “Dietro il detersivo o lo yogurt dietetico il
messaggio che si cela è pressoché identico, un messaggio che incita al consumismo, che mostra
l’idea di felicità celata dietro l’acquisto di un prodotto, che porta a valore universale i valori
imposti da un élite. Successo, arrivismo, egoismo, sono valori imposti dal mercato e vengono
lentamente acquisiti grazie ad un’abile e costante opera di propaganda”. 287 Più in generale
Melossi mette in evidenza come:

“la coscienza si crea attraverso lo scambio linguistico, cioè che noi apprendiamo la
coscienza dall’esterno. Essa non è qualcosa di dato all’interno e quindi espresso
attraverso il linguaggio; è semmai l’opposto: attraverso il linguaggio e lo scambio
linguistico noi impariamo a pensare. […] La conversazione, la parola, non è mai
disgiunta da una situazione di organizzazione sociale, da una situazione pratica […] non
è possibile pensare a una forma di organizzazione sociale che si disgiunta dal discorso
che la descrive”.288

Impariamo a pensare attraverso il linguaggio e lo scambio linguistico e a loro volta questi li


apprendiamo dal contesto sociale dove veniamo a crescere. Maggiore sarà il tempo trascorso in
un ambiente sociale, maggiore sarà la possibilità di acquisirne un linguaggio; è con quello che
pensiamo, descriviamo e infine capiamo la realtà. Se il tempo trascorso con i mass media
aumenta, aumenterà anche la possibilità di assorbirne i valori e il linguaggio. E la cosa si è
aggravata dal fatto che, come detto, questa nuova agenda è dettata dal basso, facendone
aumentare il valore. Per quanto Internet si diffonderà, il rito del guardare la TV mentre si
mangia o la scaletta del telegiornale che fissa la priorità delle notizie, difficilmente verrà
scalzato. Poi si potrà accedere al Web 2.0, stabilire le nostre priorità in base ai nostri gusti, ma
questi saranno inevitabilmente influenzate da questo sistema di propaganda del neoliberismo e
di imposizioni di modelli e valori.289 È l’economia, o meglio il sapere neoliberista – per tenere
sempre sullo sfondo Foucault – che controlla la società cercando di imporre un universo di
senso da seguire; un controllo sociale non più rigido e invadente ma sottile e onnipresente che
287

Ivi, pp. 157-158.

288

D. Melossi, cit., p. 176.

289

M. Ragnedda, cit., p. 159.


permea e forma con automatismo e disinvoltura; il perfezionamento del modello synopticon da
una parte e superpanottico nel monitoraggio nel corso della vita dell’individuo. Tanto più sarà
efficace il primo tanto meno importante sarà il secondo. Non seguire il messaggio imposto
significherà esclusione, devianza, ribellione, e quindi monitoraggio, catalogazione,
classificazione. Il tutto nella solita strategia massificante ed allo stesso tempo individualizzante
su cui puntava il dito Foucault. Proprio il modello reso celebre dall’autore francese - il
panopticon -, in definitiva, si può dire tramontato; non può più essere visto come metafora della
nostra società, che è sempre meno rintracciabile in uno schema così rigido e statico; neanche la
sua evoluzione elettronica, il modello superpanottico, può essere sufficiente vista l’evoluzione
dei media. C’è bisogno del superamento della dicotomia controllo sociale/libertà, in quanto non
sono più elementi in contrapposizione ma che si integrano a vicenda: il nuovo controllo sociale
richiede sia uno sguardo che controlla sia uno che affascina; in tutto ciò i media costituiscono
quel centro gravitazionale di cui parlavamo precedentemente a cui le persone si ispirano per
conformarsi; il loro sguardo è rivolto al centro per cui la conformazione al sistema avviene più
che per imposizione per seduzione; inoltre i nuovi media fanno sì che si sviluppi un utente-
cittadino che dialoga con il medium stesso, rendendosi partecipe ed attivo e non semplice
destinatario dell’informazione, anche se, nella realtà, la sua capacità di influenzare il contesto
sociale sarà nulla.290 Il nuovo controllo sociale, dunque, deve fare i conti da una parte con il
superpanottico e dall’altra con il synopticon, con la reclusione/esclusione e con la seduzione,
con la sorveglianza elettronica e con l’iperrealtà. La società postpanottica impone la conformità
alle regole non tanto con la reclusione ma cercando di incanalare le “libere” scelte
dell’individuo all’interno di opzioni predeterminate e prefissate che rinforzano lo status quo. Si
sposa la visione foucaultiana secondo la quale è attraverso il potere che si ottiene conoscenza, e
questo si è spostato dagli Stati moderni alle multinazionali, con i primi divenuti semplici
garanti della sicurezza e con le seconde che propongono modelli vincenti e la dottrina
neoliberale come unica via percorribile e giusta.291

290

Ivi, p. 187.

291

Ivi, p. 189.
Conclusioni
Racconta lo scrittore danese Hans Christian Andersen in una delle sue più celebri fiabe che, un
giorno, un grande imperatore ricevette a corte due forestieri che erano dei tessitori e che erano
in grado di saper tessere la stoffa più incredibile mai vista. Oltre a disegni e colori meravigliosi,
gli abiti prodotti con quella stoffa avevano un curioso potere: diventavano invisibili agli occhi
degli uomini che non erano all'altezza della loro carica o che erano semplicemente molto
stupidi. L'imperatore vi credette e ordinò loro di confezionargli, con quella stoffa portentosa, un
vestito nuovo per la Grande Parata. Pensava che in questo modo avrebbe riconosciuto con
facilità gli incapaci che lavoravano nel suo impero e avrebbe potuto distinguere gli stupidi dagli
intelligenti. I funzionari di palazzo inviati dall'imperatore a visionare i lavori di tessitura
rimasero sconcertati trovandosi di fronte ad un telaio vuoto e così, per non voler apparire
stupidi o incompetenti, si misero ad elogiare le fattezze di una stoffa inesistente. E la stessa
cosa fece l’imperatore il giorno della Grande Parata, quando andò di persona a provare il
magnifico vestito; per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a vedere nulla. Anch'egli, per
non apparire da meno, si mise a lodare la precisione del taglio e la lucentezza dei colori. La
reazione delle persone, ammassate sulle strade per accogliere l'arrivo del proprio imperatore,
quando si accorsero immediatamente che il loro sovrano stava sfilando completamente nudo, fu
nuovamente di sconcerto. Ma, non osando ovviamente confessare la propria stupidità, si misero
tutti ad acclamare lui e il suo fantastico vestito nuovo. Solo un bambino, a un certo punto, non
credendo ai propri occhi urlò che l'imperatore era nudo. Allora la voce si sparse e dopo un po'
tutti si convinsero che effettivamente l'imperatore non aveva nulla addosso. Racconta Andersen
che il sovrano rabbrividì perché capì che il bambino aveva ragione. Ma, essendo un tipo molto
orgoglioso, decise di concludere lo stesso la Grande Parata drizzandosi ancora più fiero. Se
questa a primo acchito può essere presa solo per ciò che è, ossia una semplice storiella, in verità
nasconde un po’ tutto il filo conduttore di questa ricerca: le opinioni che noi abbiamo della
realtà che ci circonda sono frutto di una libera e critica interpretazione della nostra intelligenza
o sono invece solamente frutto di un auto-convincimento indotto? Siamo veramente liberi di
avere un’opinione oppure inconsciamente siamo spinti a credere ciò che, per vari motivi
vogliamo credere? La domanda è ostica perché mette in discussione un caposaldo del nostro
vivere quotidiano: se le nostre azioni e il nostro modo di comportarci sono una conseguenza
diretta delle nostre idee e del nostro modo di pensare e, qualora si scoprisse che queste idee
sono tutt’altro che spontanee, bensì suggerite e in qualche modo a noi imposte
inconsapevolmente, chi potrebbe ancora dire con certezza che le proprie azioni sono frutto di
scelte libere? Chi potrebbe avere il coraggio di definirsi libero? Abbiamo sì parlato di approcci
classici e non, del potere, di sovranità e di diritti, di vecchi e nuovi media, di medicalizzazione
e di tecnica, ma tutti questi temi che all’apparenza appaiono carichi di significati diversi, in
realtà nascondono dietro di sé la questione del nostro libero arbitrio; e non ha senso parlare di
libertà, quantomeno in un’accezione positiva, senza di esso. Questo è il punto di appoggio di
questa ricerca, un senso critico e pessimistico sul modus operandi della politica contemporanea
che si riflette negativamente sulla vita quotidiana di miliardi di persone. Nel fare ciò non si
sono certamente seguite le orme semi-apocalittiche, ad esempio, di Hardt e Negri, ma anche in
Foucault si nega la costituzione autonoma del soggetto, che in realtà è un a-priori non più
artefice del suo destino, quindi, un oggetto; diviene un oggetto penetrato da relazioni di potere
che lo plasmano nei pensieri e nei comportamenti, nei desideri, nel corpo, è prodotto dai saperi
che gli fissano un’identità. Fra sapere e potere inoltre, il nesso è fortissimo, non c’è verità che
non sia presa in un rapporto di forza; sapere e scienza sono esse stesse forme di dominio,
microsistemi di potere che si condizionano a vicenda e incatenano l’uomo dentro il loro circolo,
un uomo che si illude di essere soggetto sovrano dei propri atti cognitivi e linguistici, della
storia, di cui crede si riconoscerne e saperne il senso, ma che in realtà è il prodotto di una
decisione politica. “Il sapere non è fatto per comprendere, ma per prendere posizione”.292
Ci viene costruito un unico senso di percorrenza in cui il soggetto ha sì l’opportunità di
costruirsi spazi di resistenza e opposizione, ma questi stessi spazi non faranno che risultare
funzionali al sistema creato, dando in qualche modo l’illusione di essere effettivamente
combattivi; e il liberalismo è la chiave ermeneutica attraverso la quale si esperisce il reale, il
contenitore di senso; come già detto, questo potere non obbliga, regola e struttura. Per ciò detto
non sembra possibile far finta che bastino ‘resistenze ed opposizioni riformatrici” ma
bisognerebbe muoversi a livello di rivoluzione, una rivoluzione di senso che Michel Foucault
nelle sue ultime opere aveva suggerito di trovare all’interno di ognuno di noi stessi tramite
pratiche ascetiche volte al raggiungimento della Verità, intesa come meta-livello trascendentale,
lo spazio entro cui si determinano gli universi di senso in cui viviamo; come precisa lo stesso
Foucault, “l’accento viene messo sul rapporto con se stessi che permette di non lasciarsi
trasportare dalla concupiscenza e dai piaceri, di mantenere padronanza e superiorità nei loro
confronti, di conservare i propri sensi in uno stato di quiete, di affrancarsi da ogni schiavitù
interiore rispetto alle passioni e di raggiungere un modo d’essere che può essere definito di
pieno appagamento di sé o all’assoluta sovranità di sé su di sé”. 293 Molto più di quanto non sia
costituito dai dispositivi del potere o dalle tecniche discorsive del sapere, il soggetto può auto-
costituirsi attraverso le pratiche del sé, col soggetto che assume sé stesso come campo d’azione
e riflessione nel tentativo di auto-formarsi; ed auto-formandosi, producendo queste nuove
soggettività, i soggetti ed il loro modo di pensare retroagiranno con l’esterno, con l’ambiente,
con l’evento e con gli eventi, conferendo loro un nuovo universo di senso; una rivoluzione
interiore, quella indicata dallo scrittore francese, e come dissentire se a livello macro è
impossibile scalfire il potere-sapere organizzato? Semmai un interrogativo rimane aperto: per
292

M. Foucualt, Microfisica del potere, cit., p.29.

293

M. Foucault, Storia della sessualità, Vol. 2: L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 35.
far divenire dominanti o quantomeno diffuse le pratiche suggerite da Foucault, non v’è
necessità ancora una volta di divulgare un sapere specifico, di appropriarsene? E se così fosse,
chi ha interessi e risorse tali per scontrarsi contro un sistema discorsivo-organizzativo ormai
così radicato e potente?
Se questa illustrata può essere vista come un’opzione addirittura di superamento della soglia
biopolitica da parte di un soggetto dotato di un’auto-coscienza – anche se il termine può
sembrare paradossale -, ci sono altre proposte che si collocano all’interno del contesto
biopolitico, ma con valenza positiva, quasi riformista; un esempio è dato da Francesco
d’Agostino294 che propone come base del proprio ragionamento “un deciso rifiuto di
qualsivoglia qualificazione pubblica di qualsivoglia categoria biologica, a partire da quelle,
costitutive, di vita e di morte”; significa riconoscere il valore pre-politico del bios, pur non
delegittimando interventi istituzionali in ambito sociale o sanitario o medico-scientifico, a
favore ad esempio dei portatori di handicap o di soggetti marginali, significa più che altro che
la lotta contro ogni forma di discriminazione biopolitica non può radicarsi in una intenzionalità
politica; anche qualora essa sia illuminata e corretta, se la si fonda esclusivamente sulla volontà
politica è chiaramente un affidarsi all’arbitrio politico e non radica nella vita stessa le proprie
ragioni. E se togliere dall’agenda politica determinati ambiti significhi quasi rivoluzionare il
linguaggio politico-giuridico, D’Agostino indica anche come sia possibile positivizzare o
ridurre gli effetti negativi della biopolitica a partire da schemi preesistenti; basterebbe secondo
l’autore inserire e rivalutare giuridicamente la categoria della fragilità; difatti sostiene, che in
una prospettiva dominata dalla volontà di potenza, cioè dal principio della assoluta disponibilità
del bios, rivendicare la fragilità come principio antropologico fondamentale può darci la
possibilità di attivare all’interno della modernità stessa forme alternative di rispetto per la vita;
la fragilità difatti ha assunto una valenza prettamente negativa sia da un punto di vista biologico
che antropologico, tantoché si affermano nuove mitologie, come quella del cybernetic
organism, un essere di problematica identità, ma di forma umanoide, costituito da un insieme di
organi artificiali e organi biologici caratterizzato da un’immane potenza materiale che trascende
ogni limite naturalistico; proprio quest’inclusione del meccanico nel biologico, secondo
l’autore, fa dilagare l’illusione scientista di poter spostare sempre più in avanti i limiti
dell’efficienza e della sopravvivenza biologica, creando sempre più distacco tra il normale ed il
patologico, ricordando, o forse ponendo le basi per nuovi genocidi improntati alla purezza del
294

F. D’Agostino, Le prospettive della biopolitica, in www.fidae.it/AreaLibera/AreeTematiche/Scienza e


Fede/F. D’Agostino, Le prospettive della biopolitica.pdf
bios; rivendicare la fragilità come principio identitario potrebbe così far saltare o almeno
risanare il paradigma biopolitico.
Che si tratti di rivoluzione interiore del soggetto o di modifiche a livello meta-giuridico si può
osservare da questi esempi come i vari pensatori partano sempre da un livello d’analisi e
d’azione particolare, locale, mai globale, come se avvertissero un’impossibilità nel modificare
le relazioni di potere a tale livello. In definitiva, anche da queste proposte di cambiamento,
s’avverte che la posta in gioco maggiore è il sapere, esso è potere, è dappertutto e si riproduce a
partire da una “matrice”; probabilmente per porre le basi di una libertà propria, positiva,
occorre liberarlo dall’influenza di subdoli poteri.

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