Sei sulla pagina 1di 8

Elite&Storia nasce nel 1999 quale strumento di approfondimento scientifico

di tematiche contemporaneistiche, con particolare attenzione all'analisi del


ruolo e della formazione delle elite italiane e non solo. La rivista ha sempre
cercato di porsi in modo originale nell'odierno dibattito culturale e
storiografico, soffermandosi sui modi di enucleazione di gruppi intellettuali,
politici e imprenditoriali attraverso i quali interpretare le realtà della
complessa civiltà contemporanea.
Ora Elite&Storia ritorna in un contesto del tutto nuovo ma col medesimo
modulo che fu dell’edizione cartacea: frutto cioè di studiosi di lungo corso e
giovani principianti. Nessuna novità dunque rispetto al déjà vu: un “ben
trovati” ai lettori e via al lavoro con saggi e rubriche.

Editoriale febbraio 2008

La scomparsa di Pietro Scoppola induce a una riflessione sull’apporto fondamentale del


cattolicesimo democratico all’Italia civile.
Apparteneva per la sua formazione alla chiesa montiniana, radicata nel personalismo
comunitario del gruppo della rivista Esprit, sorta in Francia contro l’integralismo temporalista e
antimoderno di Maurras in pro di una chiesa auspicata invece come plebea e democratica per meglio
innervarsi nell’emergente società di massa contro ogni visione gerarchico-corporativa del messaggio
cristiano. Ed è ai temi di Esprit che l’allora assistente centrale della Fuci Montini, “don Battista”,
orienta i giovani fucini a rimedio dell’ignoranza fascista “della natura della Chiesa, di quella dello
Stato moderno (…) di tutta la realtà sociale, morale, intellettuale contemporanea”.
Ma fu nel secondo dopoguerra che, malgrado l’ecclesia triumphans di Pacelli e Gedda, il
pensiero di Maritain e Mounier stimola un cattolicesimo più impegnato nella ricerca
dell’autonomia del laicato nelle proprie scelte politiche. Ed è all’ombra di Montini, ormai tra i
maggiori collaboratori di Pio XII, che si sviluppano la ricerca e il dialogo da parte della cultura
cattolica con altre tradizioni civili del paese.
La stagione intellettuale di Scoppola inizia allora; nel 1948 infatti le sue prime prove
pubblicistiche. Nel paese il clima politico del 18 aprile provoca la frattura dell’unità creatasi negli
anni dalla Resistenza alla Costituente. Ormai le due chiese, la cattolica e la comunista, si
fronteggiano nella Penisola, nell’ambito di un contrasto di civiltà a livello mondiale: il dialogo cede
allo scontro ed il giovane Scoppola non se ne estranea. E tuttavia trova nel liberalismo cattolico di
Jemolo - il cattolicesimo liberale è una contraddizione in termini - lo stimolo ad un confronto dove la
fede nel dogma non fa da schermo alla libertà di ricerca. Donde la sua rivendicazione dell’autonomia
politica dei cattolici (1953), con qualche eco modernista, tra Fogazzaro e Bonaiuti, comunque critica
dell’interventismo politico ecclesiale.
Sin d’allora dunque Scoppola appare incline al dialogo piuttosto che all’anatema. Posizione
difficile da tenere nell’ideologia politica altrettanto che nella fede religiosa. Specie in questa se,
giusta la testimonianza di Giovagnoli, gli toccherà la qualifica di “cattolico a modo suo”, datagli
non da qualche papa mitteleuropeo ma da Paolo VI, il “don Battista” di un tempo.
La politica, si sa, è la croce e la delizia degli intellettuali, né Scoppola vi eccepì. La sua
esperienza di funzionario del Senato - un luogo istituzionale allora tutt’altro dall’infame bordello
mostratoci recentemente - affinò la sua passione avvicinandolo al processo di trasformazione delle
scelte politiche in comando legislativo. Oltre che contrasto civile di idee, la politica gli si rivelava
tecnica e confronto giuridico. Ma fu la storiografia a dargli il suo più autentico inveramento.
Passione civile pei confronti ideologici, cimento intellettuale, testimonianza morale e, non ultima,
vocazione al magistero di giovani. Insomma un ethos-kratos che ritrova appunto negli studi storici
il proprio compimento. Tali le sue maggiori ricerche dedicate alle questioni culturali e politiche che
hanno segnato l’esperienza sia civile che religiosa dei cattolici italiani tra l’Otto e il Novecento.
Ricerche difficili, di frontiera: sia che riguardassero pagine ancorchè chiuse della “questione
cattolica” nell’Italia post-Sillabo, come i processi di secolarizzazione innescati dalla rivoluzione
industriale - donde i saggi sui rapporti tra religione e politica culminati nello studio sulle vicende
del modernismo - sia quelle ancor più attuali riguardanti l’ideologia socio-politica e la prassi di
governo della Dc degasperiana. Saggio rivelatore dell’ormai compiuta integrazione dello studioso
col credente, di cui è prova l’analisi introspettiva delle motivazioni profonde dell’azione dello
statista trentino.
Una testimonianza di fede religiosa e d’impegno civile che richiama una cattolicità diversa
da quella oggi invalsa, giacchè Scoppola - la cui opera sarà oggetto di un seminario di studi
promosso da Elite&Storia - appartiene ad un’intera generazione d’intellettuali e politici di
formazione cattolica dei quali si è quasi smarrita la traccia. Una generazione che non mercava nel
tempio ma testimoniava invece una fede autenticamente vissuta piuttosto che sbandierata a viatico
di opportunismi caduchi o, peggio, affermata come segnacolo in vessillo di un onnipotente
integrismo.

***

Negli anni Sessanta del secolo scorso la DC annoverava tra i suoi leader un docente di storia
economica formatosi nell’università cattolica di Milano, dove aveva tenuto cattedra dagli anni
Trenta, prima del trasferimento alla Sapienza di Roma. Poco più di un metro e mezzo o giù di lì di
statura, calvo e ben piantato Amintore Fanfani, chè di lui si tratta, era una fonte inesausta di
energia realizzatrice e di tigna personale verso gli avversari interni. La vicenda della DC di quegli
anni s’intrecciava infatti con durissime lotte intestine che lo vedevano quale protagonista; talvolta
come cacciatore talaltra da preda. Due ruoli opposti che in lui si tenevano alla perfezione. Di norma
la faccenda andava così: Fanfani, capo del governo in carica, veniva disarcionato da congiure di
palazzo, quindi l’opinione pubblica ne perdeva le tracce. Il professore, radiofonato e teleripreso a più
non posso, scompariva per lunghi periodi dai mass media, onde i non addetti ritenevano di esserselo
levato per sempre dai piedi. Quando la speranza pareva oramai sicura certezza capitava un
congresso nazionale DC, una controcongiura di palazzo, una crisi non risolta coi partiti alleati,
insomma un qualcosa che rimetteva nel gioco politico l’attivissimo e tenace Fanfani; il quale
mostrava la prontezza di un misirizzi cui si toglie la molla che lo tiene fisso in terra. Insuperabile
nell’andare su e giù, dal trono alla polvere e viceversa, era detto perciò da Montanelli il “rieccolo”.
Il cavaliere Silvio Berlusconi “rieccolo” lo è per modo di dire, giacché non ha mai smesso la
sua presenza politica volta anzitutto a tutelare e sviluppare i propri interessi privati, in virtù di uno
strapotere mediatico, concessogli in modo ipocrita e senza farsi scrupolo dai governi di centro-
sinistra: si potrà mai dimenticare l’elogio di D’Alema a Mediaset quale “risorsa del paese”?
Il “rieccolo” si riferisce al probabile ritorno del cavaliere Berlusconi alla guida del governo
italiano; così almeno lasciano intendere sia le previsioni degli esperti sia lo sfacciato proposito del
medesimo Berlusconi di riportare gli italiani alle urne con l’ignobile e truffaldino sistema da lui già
patrocinato nella precedente legislatura e definito dal suo autore, il leghista Calderoli, una porcata.
Mercè la quale il cavaliere primeggia, grazie anche all’irrisolto conflitto d’interessi da cui ricava
l’ampia sfera del proprio potere che a sua volta lo tutela da qualsivoglia provvedimento. Come un
mostruoso polipo Berlusconi avviluppa coi suoi tentacoli l’intera società italiana nei gangli vitali:
l’informazione, l’economia, la politica. E che mai dovette essere il potere mussoliniano degli anni
belli (1927-1941) appetto a questo di Berlusconi?
Il primo, il cavaliere Benito Mussolini, giammai ebbe infatti la piena potestà del suo
pedissequo, in quanto cavaliere, Silvio Berlusconi. Era indifferente al denaro il primo cavaliere,
laddove il pedissequo ne impazzisce e mercanteggia il centesimo. Amante del potere politico
assoluto, il primo non ebbe giammai in cale i quattrini che potevano meglio garantirglielo. Il
pedissequo nel denaro ci sguazza, desidera averne quanto più ne può, lo concede o lo nega secondo
dove la batte. Negli anni del potere Mussolini abitò coi suoi in una villa concessagli in utenza. Il
pedissequo invece colleziona o erige dimore fastose. La vendita de Il Popolo d’Italia fu l’unico affare
di Mussolini. Il pedissequo, che negli affari c’è nato, continua a farne, arricchendosi all’infinito.
Entrambi nocivi all’Italia, Mussolini pratica nondimeno antiche virtù contadine: la
frugalità, l’assenza di qualsiasi ostentazione di censo, il disagio pei fasti mondani del potere;
laddove il pedissequo non sa stare senza l’esibizionismo mondano, balneare o meno.
Del tutto fuori luogo perciò il paragone tra i due, richiamato dalla stampa italiana dopo la
dichiarazione del pedissequo di voler far giungere a Roma “milioni e milioni d’italiani” se
Napolitano, sciolto il parlamento, non avesse indetto nuove elezioni (Il Giornale 28/I/08). Povero
Musslen! Vien voglia di dire a noi antifascisti.
Indice della rivista
Febbraio 2008

Editoriale di Giovanni Aliberti

Lavori in corso

 G. Salice, Spopolamento e colonizzazione in Sardegna: appunti per una storia


dell’emancipazione contadina in Sardegna
 F. Carbone, Formazione e reclutamento degli ufficiali dei Carabinieri Reali (1906-1911)

Biografico

 E. Venuti, Una nobildonna alla Società delle Nazioni

Dal Mondo

 L. Capuzzi, Emigranti d’elite. Italiani in Argentina


 B. Onnis, La nascita della nuova classe media nella Cina contemporanea

Note e rassegne

 L. Ciglioni, Il centrosinistra nella recente storiografia

Scaffali Aperti

 AA.VV., L’altro Mediterraneo. Uomini merci idee dall’Africa e dall’Asia, Roma, Carocci,
2007 [Cecilia Dau Novelli]
 Alberto Giordano, Il pensiero politico di Luigi Einaudi, Genova, Name edizioni, 2006
[Roberto Bonuglia]
 Antonio Santoni Rugiu, La lunga storia della scuola secondaria, Roma, Carocci, 2007
[David Rettura]
 Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò,
Torino, Einaudi, 2005 [Francesca Cannavò]
 Massimo L. Salvadori, Italia divisa. La coscienza tormentata di una nazione, Roma,
Donzelli, 2007 [Leonardo Campus]
 Carlo Carboni (a cura di), Elite e classi dirigenti in Italia, Roma, Laterza, 2007 [Laura
Daga]
 Guido Crainz, L’ombra della guerra. Il 1946, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007 [Francesca
Santoro]

Clio in redazione a cura di Monica Masutti


Novità

Giovanni Aliberti

Michelangelo Schipa e la storiografia dei


valori
Storici italiani tra l’Otto e il Novecento
Roma, Nuova Cultura, 2007, pp. 250.

La prima parte del volume riguarda la storiografia


di Michelangelo Schipa studioso eminente del
sud Italia nell’età medievale e moderna. L’autore
ne ricostruisce anche la vicenda umana sulla base
di un’ampia e inedita documentazione. La
seconda parte è dedicata a Giuseppe Ferrari e al
gruppo dei cosiddetti “antitaliani” (Colamarino,
Cusin e Fenoaltea). Segue l’analisi dell’azione del
Salvemini meridionalista e militante nel Psi
turatiano mentre l’origine storiografica delle
storie d’Italia di Croce e Volpe viene esaminata con dei precisi confronti filologici tra le
due opere. Concludono il volume la rilettura di alcuni scritti sociopolitici di Giacomo
Perticone e una riflessione metodologica sulla storiografia di Renzo De Felice.

Prefazione

Malgrado il prestigio e una scuola ad almeno due generazioni di storici


meridionali, Michelangelo Schipa (1854-1939), studioso eminente del sud Italia nell’età
medievale e moderna, è stato finora solo una biblioteca. Una somma di volumi, saggi ed
altra cospicua poligrafia, frutto di una laboriosa fatica quotidiana per oltre sessanta
degli ottantacinque anni che gli toccarono. Ne ho ripercorso gli aspetti salienti unendoli
ai casi della sua vicenda umana, donde luci ed ombre come ogni altra umana vicenda, col
solerte concorso di Francesca Cannavò e Laura Ciglioni nel reperimento della
documentazione. Devo aggiungere che l’esito positivo della ricerca è stato reso tale in
virtù del centralismo dello Stato italiano dell’epoca, grazie al quale la maggior parte
della suddetta documentazione si trova nell’Archivio centrale dello Stato. Se il
decentramento amministrativo e il suo connesso scialo autonomistico fossero esistiti
anche allora, oggi avremmo smarrito qualsiasi ricordo di Schipa. Infatti l’università di
Napoli, dov’egli studiò e tenne cattedra, non ha, a quanto dichiarato dagli addetti, alcun
documento che lo riguardi. E sarebbe anche peggio se ciò dovesse configurarsi soltanto
come un miserabile pretesto per evitare il fastidio della consultazione.
Dunque Michelangelo Schipa: tante luci e qualche ombra tra cui il cedimento al
fascismo. Non per scelte politiche, che egli stesso riconosceva essergli estranee, ma per
un’umana debolezza. Rivelatrice di un modo d’essere degli intellettuali italiani, sebbene
non di tutti.
Tra quest’ultimi, Giuseppe Ferrari. Incasinato e dissimmetrico dal ceto professorale
cui pure appartiene, ma affascinante per quei lampi geniali che illuminano d’un tratto
oscuri paesaggi culturali e politici per spegnersi lì lì, lasciandoci abbacinati e tuttavia
consapevoli delle alternative esistenti purché si sappia correrne il rischio. Ferrari non è da
mezze misure nè da compromessi all’italiana: o lo si ama, magari all’idolatria, o lo si
spregia fino all’esecrazione. Qui figura come padre nobile dei cosiddetti “antitaliani”,
Colamarino, Cusin, Fenoaltea, ai quali l’8 settembre ‘43 esplode dentro inducendo
ciascuno ad un’invettiva contro i connazionali mercè un riesame della storia d’Italia,
differenziato però da tre diversi approcci: panflettistico per Colamarino, satirico in
Fenoaltea, saggistico e articolato in ben due volumi quello di Cusin. Uomini diversi per
esperienze di vita e di lavoro, ma uniti, con fondate riserve per il solo Fenoaltea,
dall’ispirazione appunto ferrariana. La quale ci conduce altrove: a Croce, a Missiroli, ad
Alessandro Levi, a Schinetti e via via fino agli anni Settanta del secolo scorso quando,
grazie a Sestan, le contraddizioni di Ferrari trovano un riequilibrio interpretativo.
Tra gli estimatori di Ferrari c’è Salvemini, qui come meridionalista militante, nel
Psi turatiano, a pro dei contadini del sud Italia; sfruttati dagli agrari grazie alla minuta
borghesia intellettuale del Mezzogiorno, la sua bestia nera di sempre. L’amicizia ed anche
l’affetto paterno di Giustino Fortunato, negatosi a una propria famiglia, per il giovane
socialista, malgrado egli fosse liberale moderato, testimonia la forza coesiva del
meridionalismo di allora riguardo al postfascista. Cui Salvemini, ultraottantenne,
contribuisce coi suoi scritti meridionalistici da quel tempo lontano in poi; raccolti dalla
Einaudi con un’introduzione dell’autore, sgradita quant’altra mai allo Zdanov nostrano
Alicata. Censore altresì di Carlo Levi, della Ortese e di quanti sviassero dallo stalinismo
estetico altrimenti noto come realismo socialista.
Salvemini è anche l’autore de L’Italia politica nel secolo XIX, edito nel 1925, egli
ormai in procinto di emigrare per sottrarsi alle grinfie fasciste. Il volume precede di
qualche anno la crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e L’Italia in cammino di Volpe.
Opere dalle origini diverse ma entrambe col medesimo fine: riflettere sull’ieri per meglio
intendere l’oggi. Dove l’intendere è nel loro opposto incrocio tra l’Italia liberale e quella
fascista. Su questa c’è il significativo silenzio di Croce e il convinto parteggiare di Volpe.
Sull’altra, l’Italia liberale, la limpida rivendicazione elitaria crociana contrasta col
sanguigno populismo volpiano. Certo, la Storia d’Italia dette nel Ventennio migliori
risultati editoriali de L’Italia in cammino. Ma fu poca cosa di fronte ai trionfi di massa
del dittatore. E viene in mente la beffarda onomatopea del Gadda di Eros e Priapo: “Kù-
cè, Kù-cè, Kù-cè”.
Sebbene antipatico a Mussolini, Volpe ama impegnarsi in politica nell’ambito del
regime fascista – “mi sono molto affacciato alla finestra” dice di sé - pur senza averne
attitudine. Croce invece, per quanto ne fosse schivo, vi riesce bene come dimostrano la sua
attività di ministro con Giolitti e quella svolta nei difficili giorni del 1943-45. Avviatasi
negli anni verdi de La Critica, la loro amicizia termina congiuntamente all’edizione delle
rispettive storie d’Italia.
Critico di Croce ma dal versante antifascista, Giacomo Perticone è più incline alla
sociologia politica di Pareto e di Mosca che allo storicismo. In realtà è un eclettico giunto
dalla filosofia del diritto alla storia sociopolitica dell’Italia contemporanea, talvolta
come epigono talaltra da antesignano, ma sempre quale lettore polemico della crociana
Storia d’Italia. Donde nel dopoguerra (1952) l’iscrizione d’ufficio alla storiografia
marxista da parte di Nino Valeri. Che era quanto più lontano vi fosse dalle sue idee.
L’applicazione della teoria delle elite e delle tesi antiparlamentariste ai casi dello
Stato liberale italiano, rende i contributi di Perticone stimolanti epperò, almeno in parte,
discutibili anche alla luce degli studi posteriori. Accanto alle sue benemerenze di pioniere
vanno anche considerati spunti di eresia storiografica che ne fanno un epigono degli
“antitaliani”, a lui peraltro ben noti. Ma Perticone non è un maudit sullo stampo di
Colamarino e soprattutto di Cusin. Del quale bisogna pur ricordare il giudizio di Bobbio
sulla sua contestatissima Antistoria d’Italia, considerata non un libro sbagliato ma
unicamente “troppo intempestivo per non essere troppo presto dimenticato”.
Ciò richiama la querelle sul fascismo nella storia d’Italia e le ricerche in proposito
di Renzo De Felice, che ebbi modo di frequentare, circa dal 1965 al 1970, per via della sua
periodica presenza nella mia città, Salerno, quale cattedratico dell’allora esistente
Magistero. Frequenza ripresa una volta a Roma come colleghi di Facoltà.
Passerà ancora tempo perché il suo contributo all’analisi storica del fascismo
possa essere valutato davvero: ossia oltre le polemiche politiche e ideologiche che l’hanno
accompagnato. Ciò è del tutto normale, del resto, lo scalpello del tempo chiedendo questi
lunghi intervalli. E tuttavia De Felice cercò nella filologia il correttivo alla propria
ideologia, tutt’altro che fascista o filofascista. La mole di documenti da lui maneggiata lo
rendeva talmente addentro alle vicende personali e politiche dei maggiori o minori
protagonisti da farne quasi parte di sé. Epperò c’è chi gli contesta il poco spazio dato alle
vicende personali di Mussolini, scordandosi che si tratta di una biografia politica, per cui
i fatti personali - poniamo, gli amori e gli amorazzi che ne accompagnarono l’esistenza -
rilevano solo per quel tanto che hanno o meno influito sulla sua azione politica.
La scelta filologica di De Felice è stata accusata tra l’altro di edulcorare il valore
etico-civile dell’antifascismo sciogliendolo in un ambiguo tessuto documentario, estraneo
in tutto o in parte alla pregiudiziale antifascista quale condizione stessa per una ricerca
fruttuosa sulla coeva storia italiana. Il bigottismo dell’argo-mento si commenta da sé.
Sarebbe però ingiusto ridurre la storiografia defeliciana soltanto ad un immane e
benemerito scavo filologico. Ciò vale senz’altro per la prima fase della sua ricerca, la
“cantimoriana”, come la si può definire essendo ispirata al concetto di Cantimori della
storia contemporanea come storia qua talis.
Per quanto riguarda invece la parte inerente al biennio 1943-45 essa si politicizza e
il suo revisionismo, stavolta anche ideologico, si fa evidente soprattutto tramite gli
interventi, le interviste e i dibattiti, divenuti frequenti nell’ultimo periodo della sua vita.
A dar loro incentivo c’erano stati il crollo dell’Unione Sovietica e la crisi politica e
ideologica del comunismo nei paesi europeo-occidentali. La sua analisi della guerra civile
italiana, volta a ridurre il ruolo della Resistenza, va riferita appunto a queste circostanze.
E tuttavia la precoce scomparsa gli ha impedito di maturare una conclusione
chiarificatrice. Anche per questo De Felice ha lasciato un vuoto nella storiografia e nella
cultura non solo italiane.

***

Elite&Storia.
Quadrimestrale di studi storici

Direttore: Giovanni Aliberti


Condirettore: Cecilia Dau Novelli
Direttore Responsabile: Piergiorgio Mori
Capo-Redattori: Roberto Bonuglia, Luca Giansanti
Redazione:
Leonardo Campus, Francesca Cannavò, Laura Ciglioni,
Laura Daga, David Rettura, Giampaolo Salice, Francesca Santoro
Segretaria: Monica Masutti

c/o Università degli Studi di Roma «La Sapienza»,


Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Studi Politici
Piazzale Aldo Moro,5 - 00185 Roma
Tel. 06.49.91.05.65 - Fax. 06.49.91.04.46
E-mail: elitestoria@email.it

Potrebbero piacerti anche