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Londra esigeva che i sudditi americani contribuissero al pagamento delle spese del vasto "impero"

nord-americano. Dopo la guerra dei sette anni, infatti, l'Inghilterra si trovava in serie difficoltà
economiche (crisi finanziaria) a cui tentò di porre rimedio con due fondamentali provvedimenti: lo Sugar
Act (che imponeva alti dazi sui prodotti di importazione dall'estero, specialmente Caraibi) e lo Stamp
Act (che imponeva un bollo sui documenti ufficiali e sui giornali); inoltre la madrepatria ribadiva il
proprio monopolio industriale vietando di fatto lo sviluppo autonomo delle colonie, preoccupandosi,
com'era ovvio, non tanto dei loro particolari interessi, quanto degli interessi globali dell'impero. Né da
una parte né dall'altra esisteva di fatto un'aperta volontà di scontro e le colonie servivano come pura
fonte di materie prime utili allo sviluppo inglese.
Se si giunse alla completa rottura fra le colonie e la madrepatria, alla Dichiarazione d'indipendenza
degli Stati Uniti d'America e alla guerra, fu perché agivano ragioni profonde e oggettive da individuare
come cause reali della rivoluzione americana: le colonie non si sarebbero potute sviluppare sino a
diventare il primo nucleo degli Stati Uniti d'America, se fossero rimaste inquadrate e soffocate
nell'organizzazione monarchica inglese.
Fin dal 1743, Benjamin Franklin aveva proposto d'inventariare le risorse agricole, minerali, industriali
che la scienza avrebbe permesso di mettere a buon frutto. George Washington, per quanto
appartenente a una famiglia di ricchi proprietari di piantagioni della Virginia, aveva esperienza
sufficiente per ragionare non nei termini provinciali del profondo Sud, ma secondo prospettive globali di
sviluppo.

1775: Le Tredici colonie sono la zona rossa, i domini inglesi quella rosa, i domini spagnoli quella arancione
La guerra dei sette anni aveva posto fine alla dominazione francese sui territori canadesi, cosicché i
coloni non avevano più quella necessità di protezione che era stato uno dei principali motivi di
attaccamento alla patria di origine. Ciò li rendeva più insofferenti dei privilegi che l'Inghilterra si era
riservata, che risultavano tanto più odiosi in quanto la cultura illuministica, diffusasi anche
oltreoceano[6], denunciava l'assurdità delle restrizioni frapposte alla libertà di commercio.
La guerra era stata estremamente costosa per la Gran Bretagna che aveva dovuto ulteriormente
aumentare il debito pubblico fino a 139 milioni di sterline nel 1760; i britannici ritenevano assolutamente
logico che le spese per il mantenimento dell'Impero fossero condivise anche dalle colonie americane
che facevano integralmente parte di questa imponente struttura politica enormemente accresciuta dopo
la vittoria sulla Francia[7].
La conclusione del conflitto aveva deluso le colonie americane e soprattutto le classi mercantili più
ricche che avevano previsto un grande ampliamento delle loro attività economiche dopo la vittoria e
l'acquisizione dei territori francesi. Con un apposito proclama reale preparato da Lord Shelburne nel
1763 i territori a ovest dei Monti Allegheny invece erano stati interdetti alla colonizzazione americana[7].
Questa decisione era almeno in parte motivata dalla volontà di evitare uno scontro generale con le
popolazioni Native, ma aveva provocato la riprovazione di alcune potenti società commerciali come la
"Compagnia delle terre del Mississippi" costituita da ricchi piantatori tra cui George Washington, e una
società di Filadelfia di cui era partecipe anche Benjamin Franklin[7].
A ciò si aggiunsero molteplici iniziative del Parlamento, intese, come abbiamo detto, a imporre

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