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ABSTRACT. -The first verse of the parodos of Euripides’ Orestes (140) is handed down
to us in the ms. tradition with a slight variant reading, which nonetheless affects the metri-
cal responsion and has been therefore exposed to editorial assaults from the Paleologan age
onwards. This paper aims to delve into the question, re-examining the different steps of the
ecdotic practice on the tragic text: to this purpose new evidence is taken into account, drawn
from the well-known quotation of the Euripidean verses offered by Dionysius of Halicarnas-
sus in his De compositione verborum.
Secondo una nota immagine demistificatoria offerta da Karl Popper (pp. 75-
76), la scienza empirica si può paragonare a una costruzione su palafitte di
solo apparente solidità, eretta in realtà su un terreno paludoso («ein Pfeilerbau,
dessen Pfeiler sich von oben her in den Sumpf senken»). In tale illusione scien-
tista sembra rientrare a pieno titolo la tensione della filologia classica a basare
le proprie indagini su un sostrato di dati desunti da discipline collaterali, cui si
vorrebbe candidamente delegare la produzione di nozioni pretese a priori non
oppugnabili: gli ambiti disciplinari che assolvono questa funzione ‘obiettivan-
te’ sono elettivamente quello paleografico e quello metrico.
Spesso, tuttavia, è solo la distanza da quelle metodologie e la difficoltà di di-
scuterne in profondità assunti e risultati a infondere nel filologo la fede che esse
siano sottratte alla assoluta relatività dei metodi che gli pare invece pervicace-
mente (e più assennatamente) regnare nella ricerca di sua più stretta competenza.
Si vorrebbe qui proporre all’attenzione un risultato paradosso di questo ab-
baglio: una minuta istanza in cui la fede ‘scientifica’ incongruamente attribuita
alla disciplina esterna, la metrica in questo caso, concorre a sviare l’attenzione
degli interpreti dall’oggetto stesso cui la cura filologica si dovrebbe applicare,
il (qui palmare) significato del testo greco.
Si riesamini infatti il primo verso della parodos dell’Oreste euripideo e la
sua citazione da parte di Dionigi di Alicarnasso. Questo lo stato della tradizione
nel testo drammatico:
140. si`ga si`ga, lepto;n i[cno" ajrbuvlh"
si`ga si`ga LPRyXTz: sivga sivga WZ et V2 et lSv: siga` siga` V1(1).
(*)
Le indicazioni bibliografiche presentate in forma abbreviata rinviano alle 'Abbreviazioni bib-
liografiche' poste alla fine del contributo. Ringrazio B. Gentili per aver agevolato la pubblicazione
di questa nota.
(1)
Testo, apparato ad l. e sigla sono quelli di Diggle (b), che tuttavia nella sua dissertazione
[Diggle (a)] ignora del tutto il problema. Si può confermare ad abundantiam che L (Laur. plut. XX-
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XII, 2) reca effettivamente a f. 205v il si'ga si'ga correttamente riportato da Diggle, e prima di lui da
Di Benedetto e Biehl, e non sivga sivga, come inspiegabilmente affermano Murray e Chapouthier;
l'apparato iperselettivo di West omette questo lemma.
(2)
Ringrazio per le autopsie oxoniensi Daniela Colomo e Lorenza Savignago.
(3)
Turyn, p. 42sq.; Diggle (a), p. 10.
(4)
Alla stregua di Turyn (p. 85 n. 137), Diggle adotta per il citato Taurinensis il siglum C invece
di T di Schwartz, suscettibile di ambiguità con quello usuale per l’esemplare magistrale tricliniano.
Ringrazio per l’autopsia Amedeo A. Raschieri.
Piccola storia di un accento euripideo 87
Anche qui la tradizione è tuttavia, per l'espressione che interessa, non una-
nime: l’apparato dell'ed. Usener-Radermacher (p. 42, 1) recita infatti: «sivga
sivga libri (item 4) si`ga si`ga M2 [è la seconda porzione del 'compositus' Marc.
Gr. 508, sec. XIV in., f. 180r] unus, at schol. testatur hJ tou' rJuqmou' ajgwgh; do-
cmiavzousa» (5).
Sulla base dell’affermazione dello scoliasta a Euripide, Usener e Rader-
macher si spingono poi a introdurre anche nel testo dionisiano (a fortiori,
com’è ovvio, in quello tragico) la congettura ‘per combinatio’ sivga si`ga. Va
detto tuttavia che riesce assai arduo al lettore di oggi divinare cosa intendesse
lo scoliasta con ajgwgh; docmiavzousa, e forse non sarà prudente mutare conget-
turalmente un testo nella pretesa che un esordio ‘ipodocmiaco’ avrebbe com-
promesso a un orecchio antico la percezione come ‘docmiaco’ di un contesto
altrimenti complessivamente tale (6).
Esaminando da ultimo questa proposta e riflettendo alle sue implicazioni
per il testo drammatico, Prauscello (p. 117 e n. 372) crede poterla recisamente
escludere, argomentando che essa comporterebbe «a problematic responsion
d~hypd with the first colarion of 152 (pw`" e[ceiÉ lovgou ktl.)».
La questione si rivela, tuttavia, più complessa e l’argomento, come si tenterà
di motivare, suona da un punto di vista affatto insussistente, dall’altro molto
debole. La semplice lettura del testo trattatistico, innanzitutto, non dovrebbe
(5)
Una possibile ambiguità di questa notazione va eliminata: la nostra citazione euripidea ha
anche nel citato Marc. Gr. 471 il doppio acuto, la correzione riservandosi solo alla prima. Non per
complicare ulteriormente la già complicata situazione, ma va ancora aggiunto che il primo cir-
conflesso sembra da addebitarsi alla seconda mano, in inchiostro più scuro, la prima si direbbe dello
scriba medesimo (a detta del catalogo Marciano di Mioni «italo-graecus»).
(6)
Ci si potrà inoltre chiedere se la sequenza — ∪ — ∪ — sarebbe in ogni caso stata perce-
pita come (ipo)docmiaca: le fonti antiche interpretano infatti il colarion come monometro trocaico
ipercataletto, l’unica attestazione sicura di uJpodovcmio", termine a nostra scienza ignoto alla grecità,
offrendo Diomed. GLK I 482, 7 (vd. Gentili-Lomiento, p. 235 n. 9).
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E così infatti rettamente intendono, tra i molti, Dale (a), p. 205; Pöhlmann-West, p. 10sq.;
(7)
Frobert, p. 19sq. Curioso peraltro il lapsus di Pöhlmann e West, che giustappongono a un testo greco
con l’acuto (p. 10 e n. 1) una traduzione inglese dove il lemma euripideo ha il doppio circonflesso
(p. 11).
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gou metavdo", quod metricis debebatur, verba ad si`ga si`ga, quod in strophico
legebant, accomodantibus». Egli, insomma, non esita a ‘docmizzare’ comple-
tamente la coppia strofica col debole argomento che l’antistrofe presenterebbe
un apparente ‘ipodocmio’ solo per l’impulso ad accomodarla con una erronea
lezione strofica di questo tenore: l’analisi storica dei ms prova che in realtà è
probabilmente successo proprio l’opposto, se è vero che nella variante col dop-
pio circonflesso si cela una congettura di età paleologa.
Potrà suonare singolare il radicale capovolgimento rispetto a quanto lo stes-
so filologo aveva scritto al proposito cinque lustri anni prima (Hermann (a), p.
231), giustificando proprio il testo col circonflesso: «etiam trochaici versus in
arsin exeuntes dochmiis praemittuntur: quod tamen rarius factum est. Euripides
in Oreste v. 140. 153. si`ga, si`ga lepto;n i[cno" ajrbuvlh". pw`" e[cei, lovgou
metavdo", w\ fivla».
Atteso dunque che Dionigi conosceva la variante col doppio acuto e solo su
di essa disquisiva nei propri argomenti musicali, ci si potrà chiedere se possa
comunque risultare migliorativo del testo di Euripide accogliere nella strofe la
congettura di Hermann sivga, si`ga lep€to;n lasciandovi immutata l’antistrofe
(pare questa al fondo la libera responsione criticata da Prauscello quantunque,
come si è sopra argomentato, l’obiezione che essa muove, rivolgendosi al testo
del trattato dionisiano, vada eliminata alla radice). Questa modifica offrirebbe
infatti un docmio del tipo — — — ∪ — (c. 21 di Gentili-Lomiento), forse,
con le sue nove more, di ‘gravità’ apparentemente più confacente alle otto more
dell’antistrofe rispetto alle dieci del pentamakron sivga, sivga lep€to;n che sta
in tanta parte della tradizione euripidea antecedente il XIV secolo.
Ora, innanzitutto non è poi neppur vero che la libera responsione
docmio~ipodocmio sarebbe senza paralleli (8). Abbiamo infatti, limitandoci al
solo Euripide, almeno:
Hipp. 832 tuvcan daimovnwn~850 fevggo" ajelivou.
(8)
Ringrazio qui Luisa Andreatta, che mi ha voluto anticipare alcuni risultati di una sua nuova
ricerca sulla responsione docmio-ipodocmio, in corso di stampa nei «QUCC» 2012.
(9)
Quale ulteriore istanza euripidea di responsione docmio ~ ipodocmio Parker (pp. 66) cita poi
Med. 1252~1262, luogo che Prauscello (p. 117 n. 372) giudica «not convincing», mentre chi scrive
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* * *
sarebbe incline a definirlo affatto insussistente. Nel passo si ha infatti ajkti;~ ÆAeilivou ~ mavtan
a[ra gevno~ (dove mavtan a[ra è congettura di Musgrave che si è creduta confermata poi, in qualche
modo, da P. Stras. W.G. 306 mathnara. [±6]. knwngeno), che produrrebbe, supponendo anche
qui la sinizesi in ÆAeilivou, un’elementare responsione tra docmi ‘attici’ — — — ∪ — (c. 21
Gentili - Lomiento) ~ ∪ — ∪ ∪ ∪ — (c. 3), ossia con alternanza alla prima anceps e soluzio-
ne antistrofica del secondo longum. Chi preferisca a quel testo la lezione dei mss medievalim a[ra
mavtan riassunta in w (ma omisso a[ra LP) – non sarà il caso di scrivere a\ra mavtan di Weil – vedrà
invece un’altrettanto ovvia corrispondenza — — — ∪ — (c. 21) ~ ∪ ∪ ∪ — ∪ — (c. 2).
Ci si potrà chiedere dunque dove precisamente la studiosa abbia potuto ravvisare un ipodocmio nel
contesto.
(10)
Dale (b), che sempre secondo Prauscello si pronuncerebbe in senso contrario alla libertà
responsiva nell’Ippolito, in realtà pare ammettere (p. 50) questa istanza, quantunque la nota del
curatore (il lavoro è, com’è noto, postumo) annoti ad l.: «the responsion of hypodochmiac with
resolution to unresolved dochmiac is remarkable. AMD told me, without reference to any specific
passage, that she thought responsion of dochmiac to hypodochmiac improbable».
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Abbreviazioni bibiografiche
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