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Cosa intendiamo quando parliamo di “politicamente corretto””?
In prima battuta di quella forma addomesticata di comunicare, di parlare e agire che rubrichiamo
volentieri come normalità ma che in realtà non è che il camouflage e il soffocamento di ciò che
pensiamo davvero per non svegliare la bestia sorniona del perbenismo altrui.
Avete presente quando è affiorato nella vostra mente il fatidico e serio “perché?” di fronte
all’affermazione che una cosa deve essere fatta perché deve essere fatta, pena lo stigma sociale?
Quel “perché” e’ stata la prima emergenza di libertà da quello spazio di disagio, da quella cappa di
moralismo sbrigativo e sordo che annacqua e svilisce la vita sociale di ciascuno di noi; perché?
Perché la funzione del “politicamente corretto “ si svolge nella difesa di un bene, un vantaggio,
praticamente equivalente con il “quieto vivere” dell’establishment che difende i valori di
riferimento di una società.
L’uomo ha sempre dovuto misurarsi con questa categoria perché sempre ha dovuto pesare il
proprio atteggiamento all’interno del contesto sociale, e perciò con tutto quel retaggio di
comportamenti codificati, di ruoli definiti che ogni cultura assume a fondamento della propria
identità.
Appartiene in un certo senso alla dimensione antropologica della società: la pressione che ogni
cultura esercita, tenendo conto delle simmetrie stabilite in base ai rapporti di forza costituiti, con lo
scopo di conservare i suoi autori ci è passata sotto agli occhi con il nome di convenzioni sociali: un
cosa non sta bene perché la bontà di una cosa è stabilita dal consenso /dissenso raccolto
pubblicamente. Di qui l’abbrivio di quell’ipocrisia compiacente e machiavellica che liquida ogni
male come un errore nella valutazione di un’ opportunità o di adeguamento
Ogni cultura ha avuto poi il suo liquido di contrasto profetico per rivelare questa patologia: un
Wilde per la mentalità vittoriana, un Nietzsche per il filisteismo, cosi come un Marx che si scaglia
contro il borghese o il sessantottino contro il “sistema“.
Il fattore comune ? Avvertire il pericolo, il sonno del conformismo, il livellamento verso il basso
rappresentato dal “politicamente corretto” che sbarra l’accesso alla verità sull’uomo perché
semplicemente lo assorbe nel suo meccanismo di funzionamento.
Con Heidegger potremmo dire che il politicamente corretto è ciò che ci consegna alla cattività nella
dimensione del Man, al rimanere irretiti nella “pubblicità”, lontani dalla verità (avete presente la
“pompa diabuli” senza precedente costituita oggi dai media?)
C’è dunque l’immancabile relazione con la verità: una negazione, un accantonamento o la
banalizzazione della verità
perché deve presentarsi come qualcosa che non scontenti, né offenda o neghi il potere di chi lo
detiene o può farlo valere (maggioranze, minoranze qui non importa) tramite l’esercizio di un
certo tipo di discernimento, squisitamente politico: la valutazione dell’opportunità e della
correttezza (conformità al sistema) come condizioni preliminari assolute.
Oggi, la patologia del politicamente corretto dilaga su un tessuto sociale senza più anticorpi, dato
che la morte del vero che lascia il posto all’ambito neutro, nebuloso dell’opinione, nella cui
manipolazione sono esposti i masterpieces del “politicamente corretto“
Si può negare che il miglior bacino di incubazione del politicamente corretto sia il relativismo ? Si
può negare che lo spazio lasciato dall’oggettività e dall’universalità del vero venga occupato
rispettivamente dalla forza coercitiva e dall’estensione del consenso?
Nei Vangeli possiamo evidenziare almeno un paio di episodi rivelatori di ciò che stiamo mettendo
in luce
L’accento “politico” si coglie chiaramente in Caifa: nel “ è meglio che un solo uomo muoia,
piuttosto che perisca la nazione intera” c’è tutta la pretestuosa prudenza della ragione politica che
mette a morte la verità con la retorica del sacrificare il singolo per salvare il tutto: Gesù in croce
rappresenta molto bene chi è stato” politicamente corretto”, obliterato e bandito dal secolo