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#2

Andrea Inzerillo /
Jacques Rancière
pubblicato il / publié le 20/04/2020

A
Andrea Inzerillo
vremmo quasi voglia di chiederle ancora una volta:
in che tempo viviamo? Questi tempi straordinari
sembrano accentuare ancor di più le diverse
temporalità che caratterizzano le nostre esistenze. Persone
che continuano a lavorare uscendo da casa quoti-
dianamente, privilegiati che invitano ad approfittare del
tempo ritrovato, persone che non hanno una casa... Non
c’è dubbio che la crisi aumenti le differenze che
costituiscono già le nostre società. E nello stesso tempo ci si
potrebbe chiedere, come fanno gli ottimisti, se i tempi
stravolti del periodo che stiamo vivendo non possano al
contrario costituire un’opportunità: alcuni dicono che
stiamo scoprendo una nuova solidarietà (nazionale o
internazionale), che riconosciamo l’esistenza di eroi
accanto a noi, che ci troviamo quasi al cospetto di una
rivoluzione umana e che bisogna approfittarne per
ripensare i tempi e cambiare tutto. Lei che ne pensa?
I
Jacques Rancière
l problema è che purtroppo il confinamento ci toglie la
possibilità di condividere queste temporalità se non per
frammenti – ad esempio le brevi confidenze dei piccoli
negozianti, meno impauriti dal passare la giornata nel loro
negozio che dal viaggio di ritorno verso le periferie lontane
in cui abitano. Applaudiamo a un’ora fissa il personale di
cura ma non abbiamo nessun modo di condividere la loro
quotidianità. Il risultato è che il discorso sul tempo è
monopolizzato da due tipologie di persone: da una parte i
governanti che gestiscono l’emergenza attraverso concetti e
metodi ben rodati: crisi da affrontare, sicurezza da
garantire, dispersione degli assembramenti ecc.; dall’altra
gli intellettuali abituati a pensare la fine della storia o quella
dell’antropocene. Questi ultimi amano ripeterci che
l’epidemia è l’occasione per ripensare tutto, per ribaltare la
logica capitalistica e mettere l’umano davanti al Capitale, o
per restituire alla Terra o al Pianeta i diritti usurpati dagli
umani. Ci dicono che alla fine dell’epidemia dovremo
trarne delle lezioni e cambiare tutto. Purtroppo
dimenticano di dirci chi dovrà occuparsi di “cambiare
tutto”, con che tempi dovrebbe avvenire questo
cambiamento. Un tempo politico si intesse attraverso
pratiche comuni che costruiscono agende e modi di
impiegare il tempo. Ed è precisamente questo ciò che
manca nella situazione del confinamento. Non c’è modo di
costruire temporalità che preparino questo “dopo” di cui
tutti parlano. La conseguenza è che le analisi che
pretendono di rispondere alla situazione presente e di
preparare l’avvenire sono di fatto analisi che erano già
pronte prima, dalle teorie dello stato di eccezione, della
critica alla società di controllo e del totalitarismo dei Big
Data fino alla necessità di ripensare da cima a fondo i
rapporti tra umano e non umano. Quel che il confinamento
rivela in modo più chiaro che mai è questa distribuzione
ben ordinata dei ruoli tra, da una parte, dei governanti che
hanno ricondotto all’emergenza il tempo della politica e
fatto di questa emergenza il loro mestiere senza piani
prestabiliti, e, dall’altra, degli intellettuali che collocano
qualsiasi situazione nel tempo plurisecolare del Capitale o
dell’antropocene e conoscono un’unica modalità efficace di
intervento, e cioè il “rovesciamento” radicale di questo
tempo. Questo faccia a faccia può durare un tempo
indefinito. Solo l’azione di chi lavora il tempo cambia il
corso delle cose: l’azione delle persone che fanno vivere
quotidianamente le nostre società dando le risposte che
bisogna dare momento per momento; ma anche quella di
coloro che, di tanto in tanto, invadono le piazze, le strade o
gli incroci per sospendere l’ordine normale delle opere e
dei giorni e inventare altri usi del tempo. Tutto il resto è
impostura. 

L
Andrea Inzerillo
ei ha molto lavorato sul nesso che lega le parole e le
immagini. Mi chiedevo come considerasse il
vocabolario che accompagna il momento storico che
stiamo vivendo, che tipo di rappresentazione ci offre il
discorso dominante. I termini di emergenza e di crisi (ai
quali siamo periodicamente sottomessi, fino a viverli come
termini ordinari) raccontano un’idea di tempo nel quale si
sente sempre più richiamare alla responsabilità collettiva, e
talvolta esplicitamente all’obbedienza, impiegando sempre
più metafore relative alla guerra e invocando persino
l’esercito non certo per contrastare la diffusione del virus,
ma forse per immaginare una certa condotta o pedagogia
delle masse. Una condotta o pedagogia che rischia di
influenzare il futuro più che il presente. 

M
Jacques Rancière
i perdonerà se faccio valere a mia volta il ruolo di
quello che aveva già analizzato la situazione
presente. Mi pare che malgrado tutto questa
situazione confermi due cose che provo a dire da molto
tempo. La prima è che, contrariamente a ciò che pensano
quelli che denunciano ritualmente il peso delle immagini
sugli spiriti deboli, siamo governati innanzitutto da parole,
parole che hanno effetto sugli spiriti forti, come ad esempio
quelle di crisi e di sicurezza. Ne Il disaccordo avevo provato
a definire con il nome di consenso questo assorbimento
della politica nella polizia che ci fa vedere un mondo in cui
c’è una sola realtà, un solo modo di percepirla e di
nominarla e di conseguenza una sola risposta da fornire.
Reagivo alla situazione degli anni Novanta in cui si creava la
retorica che mostrava la crisi come il baratro che ci avrebbe
minacciato al minimo passo di scarto, per poi presentarcela
come lo stato endemico delle nostre società in una crisi più
radicale. Essa diventava una realtà patologica permanente
che richiedeva una sempre più forte identificazione tra il
potere di Stato e l’azione dei medici, gli unici capaci di
conoscere i rimedi da adottare e il modo per amministrarli.
Questa medicalizzazione del potere interveniva,
significativamente, nel momento in cui i nostri stati
riducevano la spesa pubblica destinata ai settori della
sanità e della ricerca. Col pretesto della fine dello Stato
assistenziale si assisteva a una sostituzione: alle conquiste
sociali e alla solidarietà che nasceva dai movimenti di lotta
veniva sostituito un rapporto diretto tra ciascun individuo e
uno Stato che pretendeva di garantire la sicurezza di tutti. È
da molti anni che si è messa in atto una retorica securitaria
che copre tutte le situazioni – crisi finanziaria, terrorismo,
problemi climatici o epidemie – e che offre a tutte la stessa
soluzione globale: il rafforzamento di un potere di Stato che
copre senza interruzioni tutta la catena di parole, decisioni
e azioni che va dall’interpretazione scientifica delle
situazioni all’intervento armato nelle strade. È vero dunque
che tutta la griglia teorica impiegata oggi dai nostri stati per
gestire la situazione pandemica esisteva già, e si può dire
che questa situazione le assicuri un’efficacia massima. Ma è
difficile trarne conclusioni per il futuro e vedere nella
disciplina che stiamo osservando oggi nei nostri paesi
l’anticipazione di un futuro controllo dei nostri corpi e dei
nostri comportamenti simile a quello del tracciamento
informatico esercitato dal potere cinese. Non c’è dubbio
che gli ordini ufficiali si rispettano meglio quando si sa che
il rischio è onnipresente e impossibile da localizzare. Ma
questo è un semplice istinto di sopravvivenza e non
un’adesione alla retorica e alla pedagogia del potere.
Hobbes su questo ha detto l’essenziale: il contratto tra gli
individui e il sovrano si scioglie quando quest’ultimo non
assicura più la loro sopravvivenza.

L
Andrea Inzerillo
a pandemia sembra replicare sequenze che abbiamo
già visto in certi film (penso a un film che mi è
capitato di vedere di recente come Contagion di
Steven Soderbergh), ma il ricorso a quelle immagini non ci
permette di pensare adeguatamente il presente, limitandosi
semmai a duplicarlo. Da qualche settimana assistiamo
inoltre a una proliferazione inaudita di prodotti culturali su
internet, che avrebbe l’intenzione di aiutarci a
comprendere meglio quel che succede ma che sembra
mostrare più che altro una concezione della cultura come
accompagnamento e consolazione, un modo per non farci
percepire un silenzio che farebbe ancora più paura. Nei
suoi scritti lei ha spesso mostrato come una maggiore
distanza permette di guardare diversamente la situazione
che abbiamo davanti agli occhi. Senza alcuna pretesa
didascalica, mi chiedevo a quali letture o visioni si
dedicasse di questi tempi, che cosa avrebbe voglia di
evocare non già per spiegare, ma per aprire il campo
troppo chiuso nel quale ci troviamo. 

È
Jacques Rancière
vero che la situazione presente rievoca una nozione
che per me è stata centrale, quella della distanza:
non certo la precauzione che vuole che ci teniamo a
distanza dagli altri ma lo scarto rispetto alla posizione
dell’intellettuale che sarebbe tenuto a rispondere a ogni
richiesta dell’attualità. La condizione per dire cose giuste è
parlare di ciò che si è visto, di ciò che si è studiato, di ciò su
cui si è riflettuto e di farlo con un tono che si è nutrito di
questo lavoro. Per questo mi riesce sempre difficile capire
perché tanti nostri colleghi abbiano tanta fretta di
rispondere alla domanda giornalistica di “decriptare”
l’attualità così su due piedi, di banalizzare l’inatteso
rinchiudendolo in una catena causale che lo rende
retrospettivamente prevedibile e di fornire le formule
grazie alle quali la gestione quotidiana dell’informazione si
vede innalzata all’altezza di una visione della storia del
mondo. E mi stupisce vedere oggi tanti di noi spiegare il
senso storico, se non addirittura ontologico della
pandemia, mentre non vediamo niente della sua realtà e
non sappiamo nulla di quel che succede al di là del nostro
ambiente immediato se non attraverso gli schermi dei
nostri computer. Preferisco attenermi alla realtà nella quale
vivo, che è quella di un tempo sospeso. In un certo senso
vivo questa sospensione in continuità con la pratica che mi
ha fatto passare tanti anni nelle biblioteche e negli archivi a
occuparmi di storie antiche e dimenticate, apparentemente
senza rapporti con l’attualità: le passeggiate domenicali di
operai saint-simoniani negli anni Trenta dell’Ottocento o le
provocazioni dell’incredibile Joseph Jacotot, che
proclamava la possibilità che qualsiasi ignorante imparasse
da solo e senza maestro. Ho proiettato queste storie in un
presente che non le aspettava, un presente preoccupato di
sapere cosa succedesse al proletariato nell’epoca
postfordista o come la scuola dovesse ridurre le
disuguaglianze. Le ho proiettate nel presente pur
mantenendole nella loro distanza, nella loro estraneità che
resisteva alle nozioni e alle immagini at-traverso le quali la
macchina mediatica e quella accademica creano per noi dei
presenti omologati. Prendere le cose un po’ da lontano
aiuta a sbarazzarsi dell’attitudine del maestro e del padrone
che vuole impadronirsi di ogni cosa e di ogni senso. È con
questo spirito che vivo questo presente radicalmente
inatteso. Non ho alcuna conoscenza epidemiologica, né
informazioni dirette su quel che succede oggi negli
ospedali. Mi sono quindi dispensato dall’aggiungere la mia
“analisi” a tutte quelle che ci spiegano le cause lontane, il
senso profondo e gli effetti radicali della situazione che
viviamo. Ho semplicemente continuato a portare avanti il
lavoro che mi occupava nel momento in cui l’epidemia mi
ha sorpreso. Da diversi anni provo a comprendere meglio
quel che percepiamo con il nome di arte e il modo in cui
arte e vita si sono intrecciate da due secoli a questa parte.
Ho da poco pubblicato un libro sulla storia del paesaggio.
Di recente mi è stato chiesto di parlare di due arti che erano
rimaste ai margini della mia ricerca, l’architettura e la
musica. È stata per me l’occasione di rituffarmi in diversi
capitoli dell’Estetica di Hegel. Privato di qualsiasi altra
biblioteca che non fosse la mia, ho approfittato
dell’immobilità forzata per riprendere di traverso l’insieme
del libro e ripensare cosa aveva da dirci sul modo in cui
l’arte coniuga prossimità e distanza. In alternativa, visto
che non si finisce mai di imparare a parlare con giustezza,
rileggo gli scritti di alcuni poeti e poetesse — Mandel’štam,
Akhmatova, Cvetaeva — che hanno trovato le parole per
esprimere un altro disastro di cui sono stati testimoni e
vittime, un disastro causato stavolta soltanto dagli esseri
umani, per la sola sete di dominare le vite e di conoscerle
da tutti i punti di vista. È solo quel che faccio, non è una
lezione per nessuno. 
 

L
Andrea Inzerillo
a question que nous aimerions vous poser une fois
de plus est : en quel temps vivons-nous ? Ce temps
extraordinaire semble accentuer encore davantage
les temporalités différentes qui caractérisent nos vies. Des
gens qui continuent à travailler en sortant quotidiennement
de chez eux, des privilégiés qui nous invitent à profiter du
temps que nous avons retrouvé, des gens qui n'ont pas de
foyer... Il ne fait aucun doute que la crise accentue les
différences qui constituent déjà nos sociétés. Et en même
temps, on pourrait se demander, comme le font les
optimistes, si les bouleversements de la période que nous
vivons ne sauraient, au contraire, constituer une
opportunité : certains disent que nous découvrons une
nouvelle solidarité (nationale ou internationale), que nous
reconnaissons l'existence de héros à nos côtés, que nous
sommes presque en présence d'une révolution humaine et
que nous devons en profiter pour repenser les temps et
tout changer. Qu'en pensez-vous ?

L
Jacques Rancière
e problème est malheureusement que le con-
finement nous ôte le moyen de partager ces
temporalités sinon par bribes – par exemple les
brèves confidences des petits commerçants qui craignent
moins la journée dans leur boutique que le transport du
retour vers les lointaines banlieues où ils habitent. On
applaudit à heure fixe les personnels soignants mais on n’a
aucun moyen de partager leur quotidien. Le résultat est
que le discours sur le temps est monopolisé par deux sortes
de gens  : d’une part, les gouvernants qui gèrent
l’urgence  selon les concepts et les méthodes bien rodés  :
crise à affronter, sécurité à assurer, dispersion des
rassemblements, etc.  ; d’autre part, les intellectuels
habitués à penser la fin de l’histoire ou celle de
l’anthropocène. Ceux- ci nous disent volontiers aujourd’hui
que l’épidémie est l’occasion de tout repenser, de renverser
la logique capitaliste, de mettre l’humain avant le Capital
ou de rendre à la Terre ou à la Planète les droits usurpés
par les humains. Ils nous disent que, à la fin de l’épidémie,
il va falloir en tirer les leçons et tout changer. Ce qu’ils
oublient de nous dire, c’est qui se chargera de «  tout
changer  » et en quel temps cela se passera. Un temps
politique se tisse par des pratiques communes qui
construisent des emplois du temps et des agendas. Or c’est
précisément ce qui manque dans les conditions du
confinement. Il n’y a pas de moyen de construire des
temporalités qui préparent cet « après » dont tout le monde
parle. En conséquence, les analyses   qui prétendent
répondre à la situation présente et préparer l’avenir sont en
fait des analyses qui étaient toutes constituées avant,
depuis la théorie de l’état d’exception et la critique de la
société de contrôle et du totalitarisme des Big Data jusqu’à
la nécessité de repenser de fond en comble les rapports de
l’humain et du non-humain. Ce que le confinement révèle
plus clairement que jamais c’est cette distribution bien
réglée des rôles   entre des gouvernants qui ont réduit le
temps de la politique à l’urgence et fait de cette urgence
leur métier à la petite semaine, et des intellectuels qui
placent toute situation dans le temps multiséculaire du
Capital ou de l’anthropocène et ne connaissent qu’une
seule manière efficace d’y intervenir, à savoir le
«  retournement  » radical de ce temps. Ce face-à-face peut
durer indéfiniment. Le cours des choses ne change jamais
que par l’action de ceux et celles qui travaillent le temps  :
ceux et celles qui font vivre quotidiennement nos sociétés
en donnant les réponses qu’il faut donner à tout moment ;
ceux et celles aussi qui, de temps en temps, envahissent les
places, les rues ou les ronds-points pour suspendre l’ordre
normal des travaux et des jours et inventer d’autres usages
du temps. Tout le reste est imposture.

V
Andrea Inzerillo
ous avez beaucoup travaillé sur le lien entre les
mots et les images. Je me demandais comment vous
envisagiez le vocabulaire qui accompagne le
moment historique que nous vivons, quel type de
représentation nous propose le discours dominant. Les
termes d'urgence et de crise (auxquels nous sommes
périodiquement soumis, jusqu'à ce que nous les vivions
comme des termes ordinaires) donnent une idée du temps
dans lequel nous nous sentons de plus en plus appelés à la
responsabilité collective, et parfois explicitement à
l'obéissance, en utilisant de plus en plus de métaphores
liées à la guerre et en invoquant même l'armée non pas
pour combattre la propagation du virus, mais peut-être
pour imaginer une certaine conduite ou pédagogie des
masses. Une conduite ou une pédagogie qui risque
d'influencer l'avenir plus que le présent. 

P
Jacques Rancière
ardonnez-moi de jouer à mon tour le rôle de celui
qui avait analysé par avance la situation présente. Il
me semble malgré tout que cette situation confirme
deux choses que j’ai essayé de dire depuis longtemps. Tout
d’abord elle confirme que, contrairement à ceux qui
dénoncent rituellement le poids des images sur les esprits
faibles, nous sommes d’abord gouvernés par des mots et
par des mots qui font effet sur les esprits forts, notamment
ceux de crise et de sécurité. J’avais essayé, dans La
Mésentente, de définir, sous le nom de consensus, cette
absorption de la politique dans la police qui nous fait voir
un monde où il y a une seule réalité, une seule manière de
la percevoir et de la nommer et finalement une seule
réponse à lui apporter. Je réagissais à cette situation des
années 1990 où se mettait en place la rhétorique qui nous
montrait la crise comme le gouffre qui nous menaçait au
moindre pas de côté avant de nous la présenter comme
l’état endémique de nos sociétés qu’il fallait savoir gérer au
jour le jour. La crise économique menaçante se voyait ainsi
absorbée dans une crise plus radicale. Elle devenait une
ré a l i t é p a t h o l o g i qu e p e r m a n e n t e qu i re qu é r a i t
l’identification toujours plus forte du pouvoir d’Etat à
l’action de médecins seuls capables de connaître les
remèdes à apporter et la manière de les administrer. Cette
médicalisation du pouvoir intervenait, d’une manière
significative, au moment où nos Etats réduisaient les
dépenses publiques pour la santé et la recherche. Sous
couleur de fin de «  l’Etat-providence  » on voyait en fait
s’opérer une substitution  :  aux acquis sociaux et aux
solidarités nées de la lutte sociale se substituait un rapport
direct de chaque individu à un Etat prétendant assurer la
sécurité de tous. Il y a donc des années que s’est mise en
place cette rhétorique sécuritaire qui couvre toutes les
situations – crise financière, terrorisme, problèmes
climatiques ou épidémies-  et qui donne à toutes la même
solution globale  : le renforcement d’un pouvoir d’Etat qui
couvre sans interruption toute la chaîne de paroles, de
décisions et d’actions qui va de l’interprétation savante des
situations à l’intervention armée dans les rues.  Il est donc
bien vrai que toute la grille rhétorique employée
aujourd’hui par nos Etats pour gérer la situation
pandémique existait déjà et l’on peut dire que cette
situation lui assure une efficacité maximum. Mais il est
difficile d’en tirer des conclusions pour le futur et de voir
dans la discipline aujourd’hui observée dans nos pays
l’anticipation d’un contrôle à venir de nos corps et de nos
comportements  semblable à celui du traçage informatique
exercé par le pouvoir chinois. On suit certes mieux les
consignes officielles quand on sait le risque omniprésent et
impossible à localiser. Mais c’est là un simple instinct de
survie qui ne s’identifie pas à une adhésion à la rhétorique
et à la pédagogie du pouvoir. Hobbes a dit l’essentiel là-
dessus  : le contrat entre les individus et le souverain se
dénoue quand celui-ci ne leur assure plus la vie. 
L
Andrea Inzerillo
a pandémie semble reproduire des séquences que
nous avons déjà vues dans certains films ( je pense à
un film que j'ai vu récemment comme Contagion de
Steven Soderbergh), mais l'utilisation de ces images ne
nous permet pas de réfléchir correctement au présent, car
elles ne font que le dupliquer. Depuis quelques semaines,
nous assistons également à une prolifération sans
précédent de produits culturels sur Internet, qui aurait
pour but de nous aider à mieux comprendre ce qui se
passe, mais qui semble montrer davantage une conception
de la culture comme accompagnement et consolation, une
manière de ne pas nous laisser percevoir un silence qui
serait encore plus effrayant. Dans vos écrits, vous avez
souvent montré comment une plus grande distance nous
permet de regarder différemment la situation qui se
présente à nous. Sans aucune prétention didactique, je me
demandais à quelles lectures ou visions vous vous
consacriez ces jours-ci, ce que vous aimeriez évoquer non
pas pour expliquer, mais pour ouvrir le champ trop fermé
dans lequel nous nous trouvons. 

I
Jacques Rancière
l est vrai que la situation présente fait écho à une notion
qui a été centrale pour moi, la distance :  non pas, bien
sûr, la précaution qui fait qu’on se tient à distance des
autres mais l’écart pris avec la position de l’intellectuel
censé répondre à la requête de l’actualité. La condition
pour dire des choses justes, c’est quand même de parler de
ce qu’on a vu, de ce qu’on a étudié, de ce sur quoi l’on a
réfléchi et de le faire avec le ton qui s’est nourri de ce
travail même. C’est pourquoi j’ai toujours du mal à
comprendre pourquoi tant de nos confrères sont si
empressés de répondre à la demande journalistique de
«  décrypter  » l’actualité au pied levé, de banaliser
l’inattendu en l’enfermant dans une chaîne causale qui le
rend rétrospectivement prévisible et de fournir les
formules grâce auxquelles la gestion au jour le jour de
l’information se voit élevée à la hauteur d’une vision de
l’histoire du monde. Et je m’étonne aujourd’hui de voir tant
d’entre eux nous expliquer le sens historique, voire
ontologique, de la pandémie alors même que nous ne
voyons rien de sa réalité et n’avons connaissance de ce qui
se passe au-delà de notre environnement immédiat que par
les écrans de nos ordinateurs. Je préfère m’en tenir à la
réalité dans laquelle je vis  qui est celle d’un temps
suspendu. D’une certaine façon, je vis ce suspens en
continuité avec la pratique qui m’a fait passer tant
d’années, dans des bibliothèques ou des archives, à
m’occuper d’histoires anciennes et oubliées, apparemment
sans rapport avec l’actualité  : les promenades dominicales
d’ouvriers saint-simoniens des années 1830 ou les
provocations de l’incroyable Joseph Jacotot, proclamant la
possibilité pour chaque ignorant d’apprendre tout seul et
sans maître. Ces histoires, je les ai projetées dans un
présent qui ne les attendait pas, un présent occupé de
savoir ce qui advenait du prolétariat dans l’époque
postfordiste ou comment l’Ecole devait réduire les
inégalités. Je les ai projetées tout en les gardant dans leur
distance, dans leur étrangeté résistante aux notions et aux
images par lesquelles les machines médiatique et
académique nous composent des présents homologués.
Appréhender les choses d’un peu loin, cela aide à se
débarrasser de l’attitude du maître et du propriétaire qui
veut s’emparer de toute chose et de tout sens. C’est dans
cet esprit que je vis ce présent radicalement inattendu. Je
n’ai pas de connaissances épidémiologiques, pas
d’information directe sur ce qui se passe aujourd’hui dans
les hôpitaux. Je me suis donc dispensé d’ajouter mon
« analyse » à toutes celles qui  nous expliquent  les causes
lointaines, le sens profond  et les effets radicaux de la
situation que nous vivons. J’ai simplement continué le
travail que je menais au moment où l’épidémie m’a surpris.
Depuis des années j’essaie de mieux comprendre ce que
nous percevons sous le nom d’art et la manière dont art et
vie se sont noués depuis deux siècles. Je venais de terminer
un livre sur l’histoire du paysage. On m’a demandé
récemment parler de deux arts qui étaient restés aux
marges de ma recherche, l’architecture et la musique. Cela
avait été l’occasion de me replonger dans divers chapitres
de l’Esthétique de Hegel. Privé d’autres bibliothèques que
la mienne, j’ai profité de mon immobilité forcée pour
reprendre de biais l’ensemble du livre et repenser ce qu’il
avait à nous dire sur la manière dont l’art conjugue
proximité et distance. Autrement, comme on n’en finit
jamais d’apprendre à parler juste, je relis les écrits de
quelques poètes et poétesses — Mandelstam, Akhmatova,
Tsvetaieva — qui ont trouvé le langage pour dire un autre
désastre dont ils ont été les témoins et les victimes, un
désastre causé lui par les seuls humains, par la seule soif de
maîtrise et de savoir global sur les vies.  C’est juste ce que je
fais. Ce n’est une leçon pour personne.
Andrea Inzerillo (Palermo, 1982) ha curato l’edizione italiana di due libri di
Jacques Rancière (Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2011; Scarti. Il cinema
tra politica e letteratura, Pellegrini, Cosenza 2013) e tradotto in italiano, tra gli
altri, opere di Foucault, Bayard, Lipovetsky, Madame de Staël. Insegna 

storia e filosofia nei licei, è redattore delle riviste Gli Asini e Fata Morgana –
Quadrimestrale di Cinema e Visioni ed è direttore artistico del Sicilia Queer
filmfest. 

Jacques Rancière (Algeri 1940), filosofo, si occupa da molti anni dei rapporti
che legano strettamente l’estetica alla politica. Il suo ultimo libro, Le temps du
paysage. Aux origines de la révolution esthétique è uscito a febbraio per l'editore
francese La Fabrique. È autore di opere fondamentali del pensiero filosofico
contemporaneo, di cui sono disponibili tra le altre in italiano Il disaccordo (tr. it.
di Beatrice Magni, Meltemi, 2007), L'odio della democrazia (tr. it. di Antonella
Moscati, Cronopio, 2007), Il maestro ignorante (tr. it. di Andrea Cavazzini,
Mimesis, 2008), Il disagio dell'estetica (tr. it. di Paolo Godani, ETS, 2009), Lo
spettatore emancipato (tr. it. di Diletta Mansella, DeriveApprodi, 2018).

Andrea Inzerillo (Palerme, 1982) a publié l'édition italienne de deux livres de


Jacques Rancière (Ai bordi del politico, Cronopio, Napoli 2011 ; Scarti. Il cinema
tra politica e letteratura, Pellegrini, Cosenza 2013) et traduit en italien, entre
autres, des œuvres de Foucault, Bayard, Lipovetsky, Madame de Staël. Il
enseigne l'histoire et la philosophie dans les lycées, est également rédacteur des
magazines Gli Asini et Fata Morgana - Quadrimestrale di Cinema e Visioni et il est
directeur artistique du Sicilia Queer filmfest. 
Jacques Rancière (Alger 1940), philosophe, travaille depuis de nombreuses
années sur les relations qui lient étroitement l'esthétique et la politique. Son
dernier livre, Le temps du paysage. Aux origines de la révolution esthétique a été
publié en février par l'éditeur français La Fabrique. Il est l'auteur d'ouvrages
fondamentaux de la pensée philosophique contemporaine, dont plusieurs ont
été publiés en italien : Il disaccordo (tr. it. de Beatrice Magni, Meltemi, 2007),
L'odio della democrazia (tr. it. par Antonella Moscati, Cronopio, 2007), Il
maestro ignorante (tr. it. par Andrea Cavazzini, Mimesis, 2008), Il disagio
dell'estetica (tr. it. par Paolo Godani, ETS, 2009), Lo spettatore emancipato (tr. it.
par Diletta Mansella, DeriveApprodi, 2018).

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