Sei sulla pagina 1di 20

ENRICO BUONO

Verso una definizione della “violenza ermeneutica”.


Diritti umani tra globalizzazione e obiezioni
d’imperialismo

SOMMARIO: 1. Dalla crisi dei fondamenti alla crisi del consenso. Attualità
di una riflessione sulla “violenza ermeneutica”. – 2. La nozione di di-
ritti umani è un concetto occidentale? L’argomentazione relativista, la
proposta dialogica. – 3. Conclusioni.

Il XVII secolo è stato il secolo delle matematiche; il XVIII quello delle scienze
fisiche; e il XIX quello della biologia. Il nostro secolo è il secolo della paura.
Mi si dirà che la paura non è una scienza.
Se la paura in se stessa non può essere considerata una scienza, non v’è alcun
dubbio sul fatto che sia comunque una tecnica.
Il lungo dialogo tra uomini è bloccato. E, beninteso, un uomo che non si può
convincere è un uomo che mette paura. Il che fa sì che accanto a persone che non
parlano perché lo giudicano inutile si è estesa e si estende un’immensa congiura
del silenzio, accettata da chi trema di paura e trova delle buone ragioni per na-
scondere a se stesso il tremore, e provocata da chi ha interesse a farlo.
Tra la paura molto generica di una guerra che il mondo intero va preparando
e la paura tutta particolare delle ideologie omicide, è pertanto verissimo che vivia-
mo nel terrore. Viviamo nel terrore perché la persuasione non è più possibile, per-
ché l’uomo è stato interamente consegnato alla storia e non può più volgersi verso
quella parte di sé, non meno vera della parte consegnata alla storia, che ritrova al
cospetto della bellezza del mondo e dei volti; perché viviamo nel mondo
dell’astrazione, quello dei carnefici e delle macchine, delle idee assolute e del mes-
sianismo privo di sfumature.
Ci sentiamo soffocare in mezzo alla gente che crede di avere assolutamente
ragione, sia che si tratti delle sue macchine o delle sue idee. E per chi non può vi-
vere che nel dialogo e nell’amicizia degli esseri umani, questo silenzio è la fine del
mondo.

ALBERT CAMUS, Né vittime né carnefici. Il secolo della paura, in Mi rivolto


dunque siamo, trad. it. a cura di Vittorio Giacopini, Milano, 2008.
222 ENRICO BUONO

1. Dalla crisi dei fondamenti alla crisi del consenso. Attualità di una
riflessione sulla “violenza ermeneutica”

La drammatica attualità degli episodi terroristici di Parigi ri-


propone all’attenzione della comunità scientifica il paradosso stori-
co di un’epoca – quale l’attuale – che è ad un tempo secolo della
paura ed età dei diritti. L’inesorabile processo di internazionalizza-
zione, positivizzazione e universalizzazione dei diritti umani sem-
bra, infatti, non conoscere battute d’arresto, ancorché isterilito dal-
la dominante retorica del terrore e dalla congiura del silenzio vati-
cinata da Camus.
Tale paradosso risulta tanto più evidente ove si consideri che
l’ipertrofica espansione dei “cataloghi” dei diritti umani si svolge in
un’epoca di disincanto radicale, “in cui si va spegnendo l’illusione
di rinvenire un fondamento assoluto dei diritti dell’uomo”1.
Nel più ampio contesto di una crisi dei fondamenti2, simili illu-
sioni vengono gradualmente soppiantate dalla costruzione di un
consensus omnium gentium o humani generis; la Dichiarazione uni-
versale dei diritti dell’uomo del 1948 in tal senso “rappresenta la
manifestazione dell’unica prova con cui un sistema di valori può es-

1
L. MARCHETTONI, L’antropologia dei diritti umani, in Jura Gentium, 1, 2005,
1, http://www.juragentium.org/topics/rights/it/marchett.htm.
2
N. BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, 5-16: “Dallo scopo che la ricerca
del fondamento si propone nasce l’illusione del fondamento assoluto, l’illusione
cioè che, a furia di accumulare e vagliare ragioni ed argomenti, si finirà per trovare
la ragione e l’argomento irresistibile cui nessuno potrà rifiutare di dare la propria
adesione. […] Questa illusione fu comune per secoli ai giusnaturalisti, i quali cre-
dettero di aver messo certi diritti (ma non erano sempre gli stessi) al riparo di ogni
possibile confutazione derivandoli direttamente dalla natura dell’uomo. Ma come
fondamento assoluto di diritti irresistibili la natura dell’uomo dimostrò di essere
molto fragile. […] Questa illusione oggi non è più possibile; ogni ricerca del fon-
damento assoluto è, a sua volta, infondata. […] Non si vede come si possa dare un
fondamento assoluto di diritti storicamente relativi. Del resto non bisogna aver
paura del relativismo. […] Che esista una crisi dei fondamenti è innegabile. Biso-
gna prenderne atto, ma non tentare di superarla cercando altro fondamento asso-
luto da sostituire a quello perduto. Il nostro compito, oggi, è molto più modesto,
ma anche più difficile. Non si tratta di trovare il fondamento assoluto – impresa
sublime ma disperata – ma, di volta in volta, i vari fondamenti possibili”.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 223

sere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e que-


sta prova è il consenso unanime circa la sua validità”3. La Dichiara-
zione del 1948, lungi dal limitarsi alla consacrazione positiva di una
logica di marca giusnaturalistica, ha elevato il consenso a fonda-
mento dei diritti umani, sanzionando “un giusnaturalismo deontolo-
gico, un ideale valoriale minimo che ruoti intorno al perno della di-
gnità umana, deterrente imprescindibile – permanente e universale
– contro ogni negazione della legalità”4.
Ogni tentativo di fondazione – diverso dal determinarsi del
consenso su una nozione condivisa di dignità umana – è destinato a
scontrarsi con la vaghezza semantica dei diritti e con l’eterogeneità
storica e strutturale dei loro contenuti5.
La crisi dei fondamenti è, in ultima analisi, connotato genetico
della dottrina dei diritti universali: “Non si vede come si possa dare
un fondamento assoluto di diritti storicamente relativi”.6
Un relativismo endemico che convive – non senza evidenti for-
zature – con le pretese universalistiche che animano il movimento
dei diritti umani, reso ulteriormente manifesto dal processo di dif-
ferenziazione in atto nelle società moderne, complesse e pluralisti-
che. Il processo, preconizzato dallo stesso Bobbio7, di moltiplica-
zione dei diritti – e dei soggetti per specificazione degli interessi –
risulta essere logico corollario di una simile differenziazione8.
Come osservato da Vincenzo Ferrari, “siamo giunti a quattro o
cinque generazioni di diritti, a seconda delle diverse classificazioni
che vengono proposte, e siamo pervenuti a una fase in cui i diritti,

3
Ivi, pp. 18-19.
4
X. ETXEBARRIA, Universalismo ético y derechos humanos, in Retos pendientes
en ética y politica, a cura di J. Rubio-Carracedo, J. M. Rosales e M. Toscano, in
Contrastes. Revista internacional de filosofía, 5, 2000, 283-298 (traduzione nostra).
Cfr. R. E. AGUILERA PORTALES, Multiculturalismo, derechos humanos y ciudadanía
cosmopolita, in Revista Letras Jurídicas, 3, 2006, 1-29.
5
N. BOBBIO, L’età dei diritti, op. cit., 5-14.
6
Si veda supra, nota 2.
7
N. BOBBIO, L’età dei diritti, op. cit., 70.
8
Cfr. S. FARIELLO, I diritti fondamentali nella società multiculturale: il contri-
buto della sociologia del diritto, in Multiculturalismo, a cura di V. Baldini, Padova,
2012, 267-276.
224 ENRICO BUONO

come disse anche Norberto Bobbio ormai molti anni fa, si sono
moltiplicati e specificati a dismisura, con progressiva diversificazio-
ne delle posizioni sociali e dei soggetti rivendicanti. I diritti della
donna sono diversi da quelli dell’uomo. I diritti della donna sposata
sono diversi dai diritti della donna nubile, i diritti della donna spo-
sata con figli sono diversi da quelli della donna nubile con figli, e
via discorrendo secondo (ragionevoli) criteri di specificazione sem-
pre più individualizzanti, entro una sfera che, a dispetto della ra-
gionevolezza, sembra diventata una galassia sempre più entropica”9.
Paiono condivisibili le conclusioni dell’autore circa l’esistenza
di un “paradosso dei diritti fondamentali”, consistente nella tensio-
ne dialettica tra vocazione universalistica e tendenza al “disegua-
gliamento”10. In particolar modo, concrete e attuali risultano le in-
sidie degli “effetti polemogeni” dei menzionati processi di moltipli-
cazione per specificazione: “più diritti diversi e forti significano po-
tenzialmente più conflitti”11.
Emerge così la meritevolezza di tutela di posizioni individuali e
collettive non più “uguali malgrado le diversità”, bensì “differenzia-
te in ragione delle diversità”: “non si tratta più del diritto di essere
come gli altri ma di essere altri”12.
All’interno delle odierne società multiculturali, infatti, l’impor-
tanza assunta dall’etnicità e dalle rivendicazioni identitarie si con-
creta nei “diritti di appartenenza”, operando un’inversione prospet-
tica in seno alla dottrina dei diritti universali: dall’eguaglianza alla
differenza. La crisi dei fondamenti diviene – per questa via – crisi
del consenso, di quel consensus omnium gentium, cioè, che non può
essere più semplicisticamente presunto.
Le pretese universalistiche della teoria dei diritti umani sono
anch’esse, sul volàno del denunciato paradosso, prodotto di parti-

9
V. FERRARI, Variazioni socio-giuridiche sul tema dei diritti nell’attualità, in
AA. VV., Soggetti, diritti, conflitti: percorsi di ridefinizione, Milano, 2007, 37.
10
V. FERRARI, Lineamenti di sociologia del diritto, Roma-Bari, 2002, 315-317.
11
V. FERRARI, Variazioni socio-giuridiche sul tema dei diritti nell’attualità, in
AA. VV., Soggetti, diritti, conflitti: percorsi di ridefinizione, op. cit., 39.
12
S. FARIELLO, I diritti fondamentali nella società multiculturale: il contributo
della sociologia del diritto, in Multiculturalismo, op. cit., 270 (corsivo nostro).
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 225

colarismi e contingenze storiche: la nozione di dignità umana, la


concezione della persona umana, emergono dall’humus dell’illumi-
nismo kantiano, connotando la formulazione stessa dei diritti nel
segno dell’individualismo occidentale. La compatibilità del sistema
valoriale che informa la dottrina dei diritti universali con i contesti
culturali extraeuropei – data la contingenza storica della sua genesi
– non può, dunque, presupporsi acriticamente13.
In ciò si sostanzia il cortocircuito, a più riprese denunciato in
letteratura14, tra diritti universali e culture particolari: la formula-
zione dei diritti umani ne implica naturaliter l’universalità “poiché i
diritti sono attribuiti ad un soggetto in base al suo status di essere
umano”15.
Negarne l’universalità comporterebbe l’esclusione di quella va-
lidità astratta e inalienabile che hanno i diritti per ogni uomo. Af-
fermarne l’universalità – d’altro canto – non può smentire la matri-
ce, giusnaturalista e liberale, dei diritti stessi, quali prodotto della
tradizione culturale occidentale.
Il problema, come rileva Marchettoni16, è di natura epistemolo-
gica: un problema fattuale di comunicazione tra culture, che non
può e non deve sconfinare in una messa in discussione della neces-
sità etica di tutela dei diritti. Non può che essere condiviso, in que-
sta sede, l’avvertimento dell’autore sui rischi di eccessive semplifi-
cazioni: “non è in gioco solo un problema di traduzione di un con-
cetto giuridico da una lingua a un’altra; si tratta soprattutto di sta-
bilire che posto occupano i diritti dell’uomo nei sistemi culturali”17.

13
Cfr. L. MARCHETTONI, L’antropologia dei diritti umani, in Jura Gentium, op.
cit., 1.
14
Per approfondimenti, si veda E. DICIOTTI, Diritti universali, relativismo eti-
co, dialogo interculturale, in Dignità della persona. Riconoscimento dei diritti nelle
società multiculturali, a cura di A. Abignente e F. Scamardella, Napoli, 2013, 77,
nota 5.
15
L. MARCHETTONI, L’antropologia dei diritti umani, in Jura Gentium, op. cit.,
1.
16
Ivi, 2.
17
Ibidem.
226 ENRICO BUONO

La difficile composizione degli interessi in seno al mondo isla-


mico e la dialettica, sovente violenta, tra componenti moderate e
integraliste18, dimostrano quanto sia anacronistica una concezione
statica dei sistemi culturali, come placche tettoniche separate le une
dalle altre, impermeabili e definite una volta per tutte. Le culture
sono “porose”, dai confini mobili, “processi negoziali in atto”19.
Aver perseverato nell’interpretarne le tradizioni “senza cercare una
posizione simpatetica”20 ha realisticamente contribuito all’odierna
escalation del terrore.
Le voci levatesi contro la dottrina dei diritti universali – accusa-
ta, sul presupposto di un universalismo solo apparente, di imperia-
lismo o prevaricazione coloniale – non possono essere altezzosa-
mente ignorate.
Per poter promuovere con rinnovato vigore la realizzazione
dell’agenda dei diritti umani – l’affermazione, cioè, dell’uguale va-

18
Cfr. L. CIFFOLILLI, È sbagliato parlare di un islam moderato, in Internaziona-
le, 10 gennaio 2015: “Non esistono solo musulmani moderati contro musulmani
fondamentalisti. Esistono musulmani e musulmane laici, in conflitto o in accordo
con i loro governi o le loro famiglie, praticanti, non praticanti e certo anche mu-
sulmani intransigenti, fondamentalisti. Sì, tra i musulmani ci sono anche malavito-
si, ladri, assassini, dissimulatori. Esistono musulmani e musulmane che rispettano
tutti i precetti della propria religione, altri che ne rispettano solo alcuni e altri an-
cora che non li rispettano affatto. […] Continuare a parlare solo di musulmani
moderati e musulmani terroristi presuppone che l’islam sia, tranne rare eccezioni,
una religione terribile fatta solo di uomini barbuti e armati, di donne velate e sot-
tomesse, di stragi di bambini e sentenze inappellabili. E le eccezioni sarebbero i
moderati, cioè quelli un po’ meno violenti, quelli con cui si può parlare con un
certo timore ma senza essere sparati, quelli che cercano di adeguarsi alle nostre
regole democratiche senza controbattere troppo. […] I musulmani e le musulma-
ne nel mondo sono semplicemente questo: un miliardo e mezzo di uomini e donne
diversi per nascita, origine, cultura, istruzione.
Le parole sono importanti e l’ignoranza è un’arma di cui avere molta paura”.
19
J. CLIFFORD, Culture in viaggio, in ID., Strade. Viaggio e traduzione alla fine
del secolo XX, Torino, 1999, 17-46.
20
L. MARCHETTONI, L’antropologia dei diritti umani, in Jura Gentium, op. cit.,
2.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 227

lore e della pari dignità di tutte le persone21 – occorre comprendere


autenticamente le ragioni contrastanti.
A tal riguardo, le narrazioni fornite dalla letteratura postcolo-
niale, in particolar modo nell’esperienza latinoamericana, risultano
di notevole interesse.
La lettura di un noto saggio di Farid Samir Benavides Vanegas
– penalista colombiano formatosi negli Stati Uniti presso
l’University of Massachusetts Amherst ed attuale viceministro della
Giustizia della Repubblica Colombiana – condensa l’appassionato
dibattito sul presunto imperialismo valoriale connesso all’univer-
salismo: “I diritti umani sono sempre stati il simbolo dell’egua-
glianza e della redenzione umana. Quando la gente comune pensa
ai diritti umani, ciò che vede è la via per il progresso dell’umanità e
per resistere al potere statale. Nella tradizione liberale, i diritti
umani sono considerati una vittoria contro lo stato. Da questa pro-
spettiva, i diritti umani sono universali e simbolizzano ciò che iden-
tifica l’umanità in quanto tale. Tuttavia, i diritti umani possono es-
ser parte di un discorso di violenza, ovverosia, di un discorso di vio-
lenza ermeneutica in cui l’interpretazione del mondo di un partico-
lare gruppo è imposta come l’unica possibile. Ciò significa che il
simbolo dell’eguaglianza può divenire, al contempo, il simbolo
dell’oppressione”22.
La valenza significante, simbolica, del discorso dei diritti umani
ha per Vanegas carattere costitutivo e diviene parte di una violenza
ermeneutica: vi è violenza, con Nietzsche23, nel presentare ciò che è
contestuale e contingente come universale e permanente. La nozio-
ne di violenza ermeneutica declinata dall’autore non può dirsi priva

21
Cfr. M. C. NUSSBAUM, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, Bolo-
gna, 2012, 99-108.
22
F. S. B. VANEGAS, Hermeneutical Violence: Human Rights, Law, and the
constitution of a global identity, in International Journal for the Semiotics of Law,
17, 2004, 391 (traduzione e corsivo nostri).
23
F. NIETZSCHE, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, trad. it. di F.
Masini, Milano, 1984, III, 356: “Interpretare significa violentare, riassettare, ac-
corciare, sopprimere, reprimere, immaginare finzioni, falsificare radicalmente”.
228 ENRICO BUONO

di un certo fascino24, pur fondando un’argomentazione radicalmen-


te relativista: “La globalizzazione dei diritti umani implica
un’imposizione di una concezione occidentale del diritto, incurante
della concezione delle popolazioni indigene. Il processo di globaliz-
zazione del diritto non è nient’altro che un processo di globalizza-
zione di una concezione locale del diritto, opposta alle concezioni
autoctone che queste popolazioni già possiedono. Il discorso dei
diritti umani è parte di una seconda imposizione della modernità,
nella quale i diritti umani sono globalizzati, negando ogni alternati-
va alla modernità e persino ogni modernità alternativa”25.
Condividere le conclusioni di un’argomentazione simile non
può che comportare il distacco radicale dalla teoria dei diritti uma-
ni, negandone in radice i caratteri di universalità.
I descritti fenomeni di emersione dei diritti culturali, unitamen-
te alle problematiche legate alla loro rivendicazione; la tensione co-
stante tra globalizzazione e frammentazione, come tendenza alla di-
sgregazione, all’isolamento e all’autarchia di stampo separatista; la
radicalizzazione dei fondamentalismi religiosi ed etno-nazionalisti;
il latente riferimento all’iterazione di una presunta violenza erme-
neutica: queste, in buona sostanza, le sfide cui la tradizionale dot-
trina dei diritti universali deve oggi far fronte26. Il problema
dell’individuazione di un nuovo paradigma ermeneutico, che possa
sbloccare “il lungo dialogo tra uomini”, non è più differibile; né
può concepirsi oggi la reiterazione delle deplorevoli pratiche di
“esportazione della democrazia” che hanno contribuito alla delegit-
timazione complessiva del movimento dei diritti umani e all’invalsa
retorica dello scontro di civiltà.

24
Né tantomeno può ritenersi innovativa. Di violenza ermeneutica parla, ex
plurimis e per primo, Heidegger; cfr. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, trad. it. di P.
Chiodi, Milano, 1976, 376: “L’interpretazione assume sempre un carattere di vio-
lenza”.
25
F. S. B. VANEGAS, Hermeneutical Violence: Human Rights, Law, and the
constitution of a global identity, in International Journal for the Semiotics of Law,
op. cit., 394.
26
Cfr. S. FARIELLO, I diritti fondamentali nella società multiculturale: il contri-
buto della sociologia del diritto, in Multiculturalismo, op. cit., 274.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 229

Pur sottoscrivendo le premesse delle argomentazioni relativiste,


non si è vincolati ad accedere alle medesime conclusioni; è ben pos-
sibile, infatti, praticare una terza via che identifichi un nucleo valo-
riale condiviso nel confronto con le ragioni delle diverse comunità
o culture. È la proposta del dialogo interculturale: “se la tesi relativi-
sta rimarca una separazione tra culture e tende a perpetuarla, la
proposta del dialogo interculturale tende a ricomporre le fratture
culturali, a creare luoghi di incontro e condivisione”27.
L’intento del presente lavoro si sostanzia nella riaffermazione
dell’attualità di una riflessione sulle complesse declinazioni del bi-
nomio diritti umani-multiculturalismo. La definizione della violen-
za ermeneutica passa attraverso la ricognizione delle diverse argo-
mentazioni relativiste e delle proposte dialogiche succedutesi nel
tempo. L’enucleazione di un paradigma ermeneutico non violento
può consentire, di là d’ogni indulgenza retorica, di affrancare la
teoria dei diritti umani dall’impasse cui è stata condotta dalle obie-
zioni d’imperialismo, reclamandone la necessaria universalità “per
tutti gli uomini di tutte le epoche”.

2. La nozione di diritti umani è un concetto occidentale?


L’argomentazione relativista, la proposta dialogica

Tra le più autorevoli e risalenti argomentazioni relativiste va


annoverata la lucida ricostruzione proposta da Raimon Panikkar
nel seminale saggio sull’universalità dei diritti umani, Is the Notion
of Human Rights a Western Concept?, pubblicato nel 198428.
La questione sollevata dal teologo catalano di origine indiana è
anzitutto metodologica: la formulazione dei diritti umani è frutto di
un dialogo tra culture viziato da parzialità evidenti, che ne esauto-
rano la portata universale. L’introduzione della nozione di diritti

27
Cfr. E. DICIOTTI, Diritti universali, relativismo etico, dialogo interculturale,
in Dignità della persona. Riconoscimento dei diritti nelle società multiculturali, op.
cit., Napoli, 2013, 77-78.
28
R. PANIKKAR, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, in Inter-
culture, XVII, 1, Cahier 82, 1984, 75-102.
230 ENRICO BUONO

dell’uomo appare un’imposizione eterodiretta – “una rielaborazio-


ne della sindrome coloniale”29 – descritta alla stregua di un “Caval-
lo di Troia”, introdotto surrettiziamente “per risolvere problemi
che esso stesso ha creato”30.
Un caveat tuttavia s’impone; Panikkar non disconosce affatto la
necessità di un insieme di diritti umani universalmente validi, come
emerge dalle perentorie conclusioni: “La nozione di diritti umani è
un concetto occidentale? Sì. Deve perciò il mondo rinunciare a di-
chiarare e applicare i diritti umani? No”31.
L’autore intende dunque operare un’estrapolazione della no-
zione di diritti umani dal contesto culturale e storico in cui è stata
concepita, per svelarne il potenziale euristico universale: “La nostra
questione costituisce un caso paradigmatico di ermeneutica diatopi-
ca: il problema è come, dal tòpos di una cultura, si possano com-
prendere i costrutti di un’altra”32.
Dell’ermeneutica diatopica, metodologia d’elezione della filoso-
fia interculturale di Panikkar, non è fornita definizione, se non a
contrario33:
“Un’ermeneutica propriamente diatopica non si occupa di un
altro punto di vista sullo stesso problema. Ad esser messo in discus-
sione è il problema stesso, e non soltanto la possibile soluzione. È
possibile accedere ad altri tòpoi in modo tale da comprendere altre
culture dall’interno, come comprendiamo noi stessi? Potremmo
non essere in grado di scavalcare le nostre categorie di comprensio-

29
Ivi, 76 (traduzione nostra).
30
Ivi, 90.
31
Ivi, 100-101.
32
Ivi, 77.
33
Si legga la definizione data dallo stesso R. PANIKKAR in Mito, fede, ermeneu-
tica. Il triplice velo della realtà, Milano, 2000, 52: “Io chiamo ermeneutica diatopi-
ca, in quanto la distanza da superare non è meramente temporale, all’interno di
un’unica vasta tradizione , ma il divario che esiste tra due topòi umani, luoghi di
comprensione e di autocomprensione, tra due (o più) culture che non hanno ela-
borato i loro modelli di intelligibilità. L’ermeneutica diatopica parte dalla conside-
razione di base che bisogna comprendere l’altro senza presumere che questi abbia
la nostra stessa autoconoscenza di base. Qui è in gioco l’ultimo orizzonte umano e
non solo contesti tra loro differenti”.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 231

ne, ma non dovrebbe essere impossibile avere un piede in una cul-


tura ed un altro in una seconda. […] Non possiamo negare a priori
questa possibilità”34.
Panikkar esclude risolutamente la validità transculturale dei di-
ritti umani, descrivendo piuttosto l’opportunità di una mutua fe-
condazione nel dialogo interculturale: “Una critica interculturale
non invalida la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma
offre nuove prospettive […] per una mutua fecondazione con altre
concezioni dell’Uomo e del Reale”35.
Di là di concessioni, talvolta fastidiose, ad una tralatizia retori-
ca, la proposta dell’autore può tradursi nell’individuazione di una
“nuova ermeneutica: un’ermeneutica diatopica che può svilupparsi
solo in un dialogo dia-logico”36.

34
R. PANIKKAR, Is the Notion of Human Rights a Western Concept?, in Inter-
culture, op. cit., 86-87.
35
Ivi, 92.
36
Ivi, 95. Per una più puntuale definizione delle nozioni di ermeneutica dia-
topica e di dialogo dialogico, si veda A. CALABRESE, Per uno studio della filosofia
interculturale di Raimon Panikkar, in Democrazia e diritto, 3, 2008, 303-343:
“L’ermeneutica diatopica è il metodo che Panikkar formula per interpretare
l’incontro fra le culture. […] tende a superare la violenza del pensiero oggettivan-
te. […] Il riconoscimento della dimensione culturale dell’identità è uno dei pre-
supposti fondamentali della visione filosofica espressa dall’ermeneutica diatopica.
Essa risponde all’istanza della comprensione fra orizzonti di senso radicalmente
differenti, che hanno preso forma e hanno espresso la loro autocoscienza e i loro
modi di intelligibilità sulla base di tradizioni completamente estranee, nel tempo
come nello spazio. Per questo motivo Panikkar le dà il nome di ermeneutica dia-
topica, perché ha il compito di superare il divario esistente fra i diversi tòpoi, luo-
ghi simbolici o culturali, da cui gli orizzonti di senso hanno avuto origine […] La
considerazione tematica da cui muove l’ermeneutica diatopica è la necessità che io
comprenda l’altro senza presumere che egli condivida i miei stessi modi di intelli-
gibilità del reale, il mio stesso orizzonte di senso, la mia cultura. Il metodo proprio
di questo momento kairologico della consapevolezza umana, che si esprime attra-
verso l’ermeneutica, è il dialogo. Esso ha una struttura dinamica e non oggettivan-
te, adeguata ad esprimere la relazione Io‐Tu. Panikkar ne descrive la natura pecu-
liare introducendo la nozione di dialogo dialogico. Egli lo definisce come quella
forma di dialogo volta al superamento (dià) del proprio modello di conoscenza
(lōgos), da parte di ciascuno degli interlocutori. Il superamento consente
l’approdo a una dimensione ulteriore […] Essi, in certo qual modo, si spogliano
232 ENRICO BUONO

È opinione di chi scrive che le felici intuizioni di Raimon Pa-


nikkar – pur suffragate da testimonianze di successo – abbiano tro-
vato più compiuta specificazione nell’elaborazione del sociologo
portoghese Boaventura de Sousa Santos. Il merito principale di
Santos sta nell’aver coniugato, con notevole efficacia predittiva, un
impianto analitico dei fenomeni globalizzatori con una concezione
multiculturale dei diritti umani, munendo di contenuto concreto il
paradigma panikkariano dell’ermeneutica diatopica37.
L’argomentazione dell’autore muove da una definizione della
globalizzazione sensibile a fattori di natura culturale, sociale, politi-
ca: “Definisco globalizzazione il processo attraverso il quale una de-
terminata condizione o entità amplia il suo ambito a tutto il globo e
facendolo acquisisce la capacità di designare come locali le condi-
zioni o entità rivali”38.
Santos opera una distinzione tra forme di globalizzazione
dall’alto, o egemoniche, e forme di globalizzazione dal basso, o con-
troegemoniche.
Una breve digressione definitoria può agevolare la comprensio-
ne delle forme di globalizzazione isolate dall’autore.
La prima forma di globalizzazione egemonica è il localismo glo-
balizzato: il processo mediante il quale un dato fenomeno locale si

del loro originario orizzonte di senso e rinunciano ai propri tradizionali strumenti


concettuali, per costruire un orizzonte nuovo e più ampio e per apprendere un
metodo di comprensione adeguato. Il denominatore comune che consente loro
l’accesso a tale luogo dialogico ulteriore è la comune appartenenza all’orizzonte
ultimo della natura umana. Questo permette loro di divenire consapevoli di esser
parte dello stesso orizzonte di intelligibilità”.
37
B. S. SANTOS, Toward a Multicultural Conception of Human Rights, in Moral
Imperialism. A Critical Anthology, a cura di B. Hernández-Truyol, New York,
2002, 39-60 (traduzione nostra).
38
Ivi, 41: “Esistono molti esempi di come la globalizzazione comporti la loca-
lizzazione. La lingua inglese, assurta a lingua franca, è uno di questi. La sua espan-
sione come lingua globale ha comportato la localizzazione di altre lingue poten-
zialmente globali, come il francese.”; cfr. C. GUARINO, Emancipazione e diritti
umani nel pensiero di Boaventura de Sousa Santos, in Revista Internacional de Filo-
sofía Iberoamericana y Teoría Social, 46, 36.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 233

globalizza con successo39. La circolazione dei modelli giuridici, con


l’adozione universale della lex mercatoria, e l’internazionalizzazione
del sistema americano della proprietà intellettuale, costituiscono
esempi calzanti di tale processo.
Una seconda forma egemonica di globalizzazione dall’alto è de-
nominata globalismo localizzato, ravvisabile nell’impatto che gli im-
perativi transnazionali hanno sulle condizioni locali, decostruite e
ricostruite per adeguarsi alle pratiche globalizzate: ne sono esempio
la deforestazione e lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali
per saldare debiti esteri40.
L’intensificazione delle interazioni su scala globale attiva pro-
cessi solidaristici e spinte controegemoniche che non possono esse-
re adeguatamente caratterizzate come localismi globalizzati o globa-
lismi localizzati; la solidarietà transnazionale tra gruppi di sfruttati,
oppressi ed esclusi dalla globalizzazione egemonica è definita da
Santos cosmopolitismo41: “Le forme prevalenti di dominazione non
escludono l’opportunità per gli stati nazionali subordinati, per le
regioni, le classi o i gruppi sociali di organizzarsi transnazionalmen-
te in difesa di interessi percepiti come comuni, e di sfruttare a loro
vantaggio le opportunità d’interazione create dal sistema globale.
[…] A dispetto dell’eterogeneità delle organizzazioni che vi presero
parte, la contestazione della Conferenza Ministeriale dell’Organiz-
zazione Mondiale del Commercio a Seattle il 30 Novembre 1999 fu
un buon esempio di ciò che chiamo cosmopolitismo”42.
La digressione sin qui svolta getta luce sullo scopo del sociologo

39
B. S. SANTOS, Toward a Multicultural Conception of Human Rights, in Moral
Imperialism. A Critical Anthology, op. cit., 42.
40
Ibidem.
41
Ivi, 43, nota 3: “Uso il termine cosmopolitismo non nell’accezione conven-
zionale. Nella modernità occidentale il cosmopolitismo è associato ad un universa-
lismo apòlide, all’individualismo, alla cittadinanza globale, alla negazione dei con-
fini culturali e territoriali. Questa idea è espressa dalla legge cosmica pitagorica,
dalla philallelia di Democrito, dall’idea medievale di res publica Christiana, dal
concetto rinascimentale di humanitas, dall’aforisma di Voltaire “È triste che spes-
so, per essere un buon patriota, si sia nemici del resto degli uomini”, e, infine,
dall’internazionalismo proletario dei primi anni del Novecento”.
42
Ibidem.
234 ENRICO BUONO

portoghese: “La complessità dei diritti umani sta nel poter essere
concepiti sia come una forma di localismo globalizzato che come
una forma di cosmopolitismo; in altre parole, sia come una globa-
lizzazione dall’alto che come una globalizzazione dal basso. Il mio
obiettivo è specificare quali condizioni culturali possano favorire
una concezione dei diritti umani come globalizzazione del secondo
tipo. Fintantoché i diritti umani saranno concepiti come universali,
opereranno come un localismo globalizzato, una forma di globaliz-
zazione dall’alto. I diritti umani saranno sempre uno strumento di
quel che Samuel Huntington chiama “scontro delle civiltà”, dello
scontro, cioè, dell’Occidente contro il resto del mondo. […] Per
operare come una forma cosmopolita e controegemonica di globa-
lizzazione, i diritti umani devono essere riconcettualizzati come
multiculturali. […] Un discorso ed una pratica controegemonica
dei diritti dell’uomo è stata sviluppata, concezioni extraoccidentali
dei diritti umani sono state proposte, dibattiti interculturali sui di-
ritti umani sono stati organizzati. Il compito centrale di una politica
emancipatoria consiste oggi nella trasformazione della concettualiz-
zazione e della pratica dei diritti umani da localismo globalizzato a
progetto cosmopolita”43.
Il dialogo interculturale sulla nozione di dignità umana può e
deve sfociare in una concezione meticcia dei diritti umani, fondata
non su falsi universalismi, ma su una “costellazione di significati lo-
cali mutualmente intelligibili”44. Il modello metodologico assunto
da Santos per la realizzazione di un progetto – ch’egli stesso defini-
sce utopistico45 – è l’ermeneutica diatopica, alla base d’ogni conver-
sazione interculturale.
Un’ermeneutica diatopica si fonda sull’idea che i tòpoi46 di una

43
Ivi, 44-46.
44
Ivi, 47.
45
Ivi, 58: “Questo progetto può sembrare piuttosto utopistico. Ma, come dis-
se Sartre, prima della sua realizzazione ogni idea ha una strana somiglianza con
un’utopia”.
46
Intendendosi con essi “i luoghi comuni retorici onnicomprensivi di una cul-
tura data, che svolgono la funzione di premesse dell’argomentazione e rendono
possibile la produzione e lo scambio di ragionamenti.”; cfr. ivi, 47.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 235

cultura, per quanto possano essere forti, sono incompleti quanto la


cultura di cui sono espressione. Quest’incompletezza è invisibile
dall’interno, in quanto, come dimostrato in precedenza da Panik-
kar47, l’aspirazione alla totalità induce nell’errore di conoscere il to-
tum solo in parte e per partem.
L’obiettivo di un simile approccio non è il raggiungimento di
un’impraticabile completezza, ma la consapevolezza della reciproca
incompletezza, emergente dal dialogo e dalla pratica di una diversa
forma di produzione della conoscenza, collettiva e partecipativa,
consistente in un confronto paritetico sul piano cognitivo ed emoti-
vo48.
Un esperimento di ermeneutica diatopica può condursi tra il
tòpos occidentale dei diritti umani e il tòpos induista del dharma49 o
il tòpos islamico della umma.
Il rinnovato interesse verso le contraddizioni – spesso soltanto
apparenti – del mondo islamico può giustificare un’ulteriore digres-
sione, volta all’esplorazione di questo secondo tòpos.
Santos menziona le opere di Abdullahi Ahmed An-Na’im50, giu-
rista sudanese naturalizzato statunitense, come valido esempio di
ermeneutica diatopica tra cultura occidentale ed islamica, pur non

47
R. PANIKKAR, L’esperienza filosofica dell’India, Assisi, 2000, 87: “Non esiste
universalità né oggettiva né soggettiva. Vediamo quanto possiamo vedere, però
solo tutto ciò che noi possiamo vedere, il nostro totum. La visione che ho della
realtà (totum), la realizzo, al contempo necessariamente e legittimamente, tramite
la mia particolare finestra culturale e religiosa (pars). Deliberatamente noi ci vol-
giamo al totum, ma fino a quando gli altri non ce ne fanno rendere conto, non sia-
mo coscienti del fatto che in virtù dell’effetto pars pro toto conosciamo il totum
solo in parte e per partem. Vediamo tutto attraverso la nostra finestra e allo stesso
tempo riflesso in essa”.
48
B. S. SANTOS, Toward a Multicultural Conception of Human Rights, in Moral
Imperialism. A Critical Anthology, op. cit., 48.
49
Per un approfondimento della nozione di dignità umana nella prospettiva
induista e buddhista, si veda R. PANIKKAR, Is the Notion of Human Rights a We-
stern Concept?, in Interculture, op. cit., 95-100.
50
A. A. AN-NA’IM, Toward an Islamic Reformation: Civil Liberties, Human
Rights and International Law, Syracuse, 1990.
236 ENRICO BUONO

lesinando critiche verso l’ingenuo – e talvolta persino passivo – uni-


versalismo che traspare da alcune sue pagine.
Nel dibattito su una possibile concezione islamica dei diritti
umani, An-Na’im si colloca a margine delle posizioni estremistiche
sia degli assolutisti o fondamentalisti – che esigono la prevalenza
della Shari’a in tutte le fattispecie conflittuali tra legge islamica e di-
ritti umani – sia dei secolaristi o modernisti – che credono nella se-
colarizzazione dello stato e nell’accettazione delle convenzioni in-
ternazionali sui diritti umani come questione d’opportunità politi-
ca, sgombra da ogni considerazione religiosa. La via di mezzo pro-
posta dall’autore mira all’individuazione di un fondamento inter-
culturale per i diritti umani, che identifichi le aree di conflitto tra la
Shari’a e lo standard occidentale di dignità umana, adoperandosi
per una riconciliazione tra i due sistemi. Il metodo che suggerisce è
imperniato sull’interpretazione evolutiva delle fonti islamiche, co-
raniche e dottrinarie51.
All’approccio di An-Na’im va riconosciuto il merito di una
compiuta interculturalità, non sfociante né in un orientalismo auto-
referenziale, né in una deferenza servile verso la tradizione occiden-
tale: l’esperimento di ermeneutica diatopica può dirsi riuscito, get-
tando le basi per una riflessione propriamente islamica sui diritti
dell’uomo, che s’è protratta sino ad oggi.
La sommaria disamina delle seminali pagine di Santos può con-
cludersi riportando l’appello del sociologo portoghese al supera-
mento del dibattito su universalismo e relativismo culturale: “Un
dibattito intrinsecamente falso, i cui poli sono egualmente dannosi
per una concezione emancipatoria dei diritti umani. Tutte le cultu-
re sono relative, ma il relativismo culturale, come impostazione filo-
sofica, è errato. Tutte le culture anelano a valori ultimi, ma
l’universalismo culturale, come impostazione filosofica, è errato.

51
Nel solco degli insegnamenti di Ustadh Mahmoud, An-Na’im dimostra che
il messaggio originario dell’Islam (Mecca period) pone l’enfasi sulla dignità di cia-
scun essere umano, indipendentemente dal genere, dal credo religioso o dalla raz-
za. Tale messaggio, ritenuto troppo avanzato, fu sospeso nel settimo secolo (Medi-
na stage). An-Na’im sostiene che i tempi siano ormai maturi per un’interpretazione
del Corano e della Sunna conforme agli originari significati.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 237

Contro l’universalismo, dobbiamo proporre il dialogo intercultura-


le su interessi isomorfici. Contro il relativismo, dobbiamo sviluppa-
re criteri procedurali interculturali per distinguere le politiche pro-
gressive dalle politiche regressive, la legittimazione dalla delegitti-
mazione, l’emancipazione dalla costrizione. Nella misura in cui il
dibattito sui diritti umani s’è evoluto in un dialogo competitivo tra
diverse culture su principi di dignità umana, diviene imperativo che
una simile competizione induca i movimenti transnazionali ad una
corsa al rialzo e non al ribasso”52.

3. Conclusioni

In definitiva, pur non negando che i diritti umani siano stori-


camente occidentali, questo fatto di per sé non costituisce motivo
valido per renderli inadatti ad altre nazioni. Fattispecie contempo-
ranee del movimento internazionale per i diritti umani, quali la teo-
ria dello sviluppo umano e il capability approach promosso da
Amartya Sen e Martha Nussbaum53, si sono fortemente adoperate
per affrontare il problema del presunto imperialismo valoriale con-
nesso all’universalismo. Sen ha a più riprese dimostrato che l’accusa
di imperialismo incontra gravi difficoltà da un punto di vista stori-
co: gli elementi costitutivi dell’idea dei diritti umani esistono tanto
nella tradizione indiana quanto in quella cinese. Ideali abitualmente
associati all’illuminismo possono rinvenirsi persino nell’esperienza
indiana: basti pensare all’idea di tolleranza religiosa, presente già
nel pensiero dell’imperatore buddhista Ashoka del III secolo a.C..
Martha Nussbaum ricorda come “i maggiori apparati e documenti

52
B. S. SANTOS, Toward a Multicultural Conception of Human Rights, in Moral
Imperialism. A Critical Anthology, op. cit., 46.
53
Per un’informata sintesi delle principali posizioni dell’approccio delle capa-
cità, si veda M. MUSELLA, Verso una teoria economica dello sviluppo umano, San-
tarcangelo di Romagna, 2014. La stessa Nussbaum definisce l’approccio delle ca-
pacità “parente stretto del movimento internazionale per i diritti umani (una sua
fattispecie, secondo me)”; cfr. M. C. NUSSBAUM, Creare capacità. Liberarsi dalla
dittatura del Pil, op. cit., 99.
238 ENRICO BUONO

internazionali per i diritti umani sono stati formulati da team inter-


nazionali, con un’importante presenza di persone provenienti da
paesi non occidentali”54. D’altro canto “tutti i maggiori movimenti
culturali – compresi cristianesimo, buddhismo, islam e marxismo –
hanno avuto origini specifiche in un dato luogo, e in una data epo-
ca, e poi si sono diffusi perché altre genti, all’esterno, se ne sono
appropriati. Non c’è ragione di vedere questo fenomeno come di-
scutibile. Le origini occidentali del marxismo non impedirono ad
alcune nazioni non occidentali di abbracciare tale dottrina. Ab-
bracciare il marxismo può essere stato un errore, ma certo non per-
ché fosse il risultato del lavoro di un ebreo tedesco alla British Li-
brary. Bisogna offrire altre spiegazioni. Una simile polemica sui di-
ritti umani non regge”55. L’idea di dignità umana è assurta pacifi-
camente a criterio guida, perché rappresenta “quell’orizzonte non
disponibile che rende possibile le comunicazioni in regime di plura-
lismo”56. L’obiezione dell’imperialismo rivolta ai diritti umani,
quindi, “cade nel vuoto. […] L’idea di uguale valore non è pecu-
liarmente occidentale, e certo non è imperialista. Il programma dei
diritti umani è l’alleato dei deboli contro i forti”57.
L’assertività – fastidiosa oltreché sterile – di queste risalenti illa-
zioni può dirsi ad oggi superata. Il contributo delle proposte dialo-
giche di Raimon Panikkar e Boaventura de Sousa Santos, come s’è
inteso dimostrare in precedenza, è stato determinante per
l’individuazione di un nuovo paradigma interpretativo, che consen-
tisse il superamento di una sedicente violenza ermeneutica:
l’appropriazione del metodo dialogico, proprio dell’ermeneutica
diatopica, da parte di pensatori di ben diversa estrazione filosofica
ne è ulteriore riprova. Nel dialogo interculturale, nella mutua fe-
condazione invocata da Panikkar, idee e metodi di derivazione rela-
tivista hanno contribuito, paradossalmente, all’aristotelica fioritura

54
Ivi, 101.
55
Ivi, 100.
56
F. VIOLA, Dalla natura ai diritti. Luoghi dell’etica contemporanea, Bari, 1997,
352.
57
M. C. NUSSBAUM, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, op. cit.,
102.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA “VIOLENZA ERMENEUTICA” 239

di un nuovo universalismo. Alle soglie di un nuovo secolo della


paura, vale la pena ricordare – forse – l’importanza che
l’immedesimazione interpretante ed il dialogo autenticamente in-
terculturale rivestono nello scongiurare quella retorica eterodiretta
del terrore e quella congiura del silenzio che “per chi non può vive-
re che nel dialogo e nell’amicizia degli esseri umani” rappresentano
l’unica, vera, “fine del mondo”.

Potrebbero piacerti anche