Sei sulla pagina 1di 24

SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A.

2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

II.1. Il nesso tra colpa ed evento: la concretizzazione del rischio.

Cass. pen., Sez. IV, 6 luglio 2007, n. 37606

Il Tribunale di Foggia, sezione distaccata di Manfredonia, ha affermato la penale responsabilità di R.G.


in ordine al reato di cui all'art. 589 c.p.; e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti
della costituita parte civile.
La pronunzia è stata parzialmente riformata dalla Corte d'appello di Bari che ha ritenuto il concorso di colpa
della vittima nella misura del 60%; ed ha conseguentemente ridotto la pena da nove a quattro mesi di
reclusione.
L'imputazione attiene ad un incidente stradale. Secondo l'ipotesi accusatoria fatta propria dai giudici di
merito l'imputato, alla guida di un'auto, percorreva una strada statale alla velocità di 104 km orari, sebbene vi
fosse il limite di 90 km orari. La vittima M.A. percorreva la strada nell'opposto senso di marcia alla guida un
veicolo a tre ruote Ape Piaggio.
Costei invadeva l'opposta corsia di marcia per svoltare in una stradina laterale sterrata. In quel frangente
sopravveniva l'auto guidata dall'imputato. Nell'urto la donna riportava lesioni letali.
La Corte d'appello, nel riformare la sentenza del primo giudice, ha evidenziato che l'unico addebito colposo a
carico dell'imputato è costituito dalla velocità eccessiva; mentre non sono riscontrabili ulteriori profili di
colpa ritenuti dal Tribunale, connessi alla presenza di un mercato e della segnalazione di un incrocio. Infatti,
si afferma, il mercato in questione non interessava affatto il punto ove è avvenuto il sinistro, mentre la strada
di campagna in cui intendeva svoltare la vittima non era segnalala, trattandosi di un viottolo di campagna al
servizio dell'agricoltura. Per contro, a carico della vittima vengono evidenziati plurimi, rilevanti addebiti
colposi. La donna era priva di patente di guida e ciò lascia ragionevolmente supporre che non fosse in
possesso della pratica e dell' esperienza necessarie per avvertire la pericolosità della manovra che stava
compiendo. Inoltre costei, intendendo svoltare a sinistra, doveva attraversare l'opposta corsia di marcia ed
aveva quindi l'obbligo di fermarsi e di dare la precedenza ai veicoli che provenivano in senso contrario al
suo. Ancora, la lentezza del veicolo che guidava avrebbe dovuto condurla a compiere la manovra con
particolare cautela. La sentenza, infine, da conto del fatto che il R. non tentò neppure di spostarsi sulla corsia
sinistra per evitare l'impatto con il mezzo che gli tagliava la strada. Ciò potrebbe anche indurre ad ipotizzare
che la donna abbia repentinamente ed imprevedibilmente iniziato l'attraversamento dell'altra carreggiata
allorchè l'auto condotta dal R. era già troppo vicina. Tuttavia, si conclude, in assenza di elementi oggettivi di
riscontro, tale ipotesi costituisce una semplice supposizione.
Sulla base di tale differente ricostruzione degli accadimenti la Corte configura il concorso di colpa della
vittima nella misura del 60%, conseguentemente diminuendo l'entità della pena.
2. Ricorre per cassazione l'imputato deducendo mancanza della motivazione, avendo la Corte territoriale
omesso di esporre le ragioni che giustificano l'incidenza eziologica della assunta condotta colposa
dell'imputato. La valutazione di tale aspetto era particolarmente rilevante, giacché l'imputato superava di soli
14 km orari la velocità massima consentita; mentre la vittima ha tenuto un comportamento avventato ed
imprevedibile. La Corte, si afferma, non ha risposto all'interrogativo posto nell'atto di impugnazione: se il R.
avesse osservato il limite di velocità prescritto l'evento si sarebbe verificato lo stesso ? il sinistro avrebbe
provocato conseguenze meno gravi di quelle in concreto verificatesi ? Si richiede in conseguenza
l'annullamento con rinvio della pronunzia impugnata.
3. L'illecito risale alla 5 dicembre 1997 ed è dunque prescritto, essendo state concesse attenuanti generiche
prevalenti sull'aggravante. Né si versa in una situazione di evidenza probatoria che consenta, ai sensi dell'art.
129 c.p.p., di emettere sentenza di proscioglimento nel merito. Infatti, come sarà meglio evidenziato nel
prosieguo, il ricorso in esame propone una irrisolta, cruciale questione problematica che riguarda i profili
eziologici della vicenda. Tale questione si riverbera sulle statuizioni civili e deve essere quindi esaminata
pure a seguito dell'estinzione del reato.
Il ricorso che si è sopra sintetizzato è tutto incentrato sull'esistenza o meno di nesso causale tra la
condotta di guida del R. e l'evento letale occorso alla vittima. Esso è fondato nei termini che saranno
precisati.
Il primo giudice ha individuato a carico dell'imputato diversi profili di colpa, riconducibili alla velocità
eccessiva, superiore al limite prescritto e comunque inadeguata in considerazione della vicinanza di un'area
di mercato e dell'incrocio tra la statale ed il viottolo che la vittima intendeva imboccare. Alla luce di tale
analisi della vicenda, la pronunzia imposta nitidamente il cruciale problema relativo all'imputazione
oggettiva e soggettiva del fatto.

1
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

Si evidenzia che l'auto condotta dall'imputato ha investito la vittima che si trovava all'interno del veicolo Ape
ed ha quindi determinato direttamente la morte con una condotta attiva che configura senza dubbio il nesso
di causalità materiale.
Con altrettanta chiarezza si pone in luce che, ai fini dell'imputazione soggettiva, occorre analizzare
l'inevitabilità dell'evento per effetto di una condotta di guida diligente. Con adesione ad una terminologia
invalsa in dottrina, il problema viene correttamente inquadrato come quello della rilevanza del
comportamento alternativo lecito. Il giudice si chiede cioè se una condotta appropriata avrebbe potuto
ragionevolmente evitare la morte della donna e, alla luce delle valutazioni espresse dal consulente tecnico, da
una risposta positiva al quesito, pervenendo quindi all'affermazione di responsabilità.
Come si è visto, il giudice d'appello ha ricostruito il fatto in modo significativamente diverso: da un lato ha
ridimensionato i profili di colpa dell'imputato, escludendo quelli inerenti alla presenza dell'area di mercato e
di un incrocio segnalato, e ribadendo invece quello afferente alla velocità eccessiva;
dall'altro ha sottolineato i gravi profili di colpa addebitabili alla M. che, inesperta della guida, compì la
manovra per immettersi nel viottolo di campagna in modo assai incauto, senza l'osservanza delle norme
fondamentali che regolano la circolazione stradale. Da tale differente ricostruzione dei profili di colpa, la
Corte inferisce il concorso di colpa della vittima, rilevante sia ai fini della diminuzione della pena che in
ordine alla determinazione dell'entità del risarcimento del danno, peraltro demandata alla sede civile. Senza
dubbio, alla luce di una così diversa valutazione della vicenda, il giudice era altresì tenuto ad analizzarne i
profili causali dedotti dalla difesa dell'imputato. Si trattava, in breve, di rispondere al cruciale quesito se,
in presenza di un comportamento così incauto, improvviso ed imprevedibile come quello posto in
essere dalla donna, una condotta di guida appropriata e quindi meno veloce da parte del R. avrebbe
potuto realmente condurre a scongiurare l'investimento o l'avrebbe determinato con modalità
significativamente meno dirompenti, tanto da indurre a ragionevolmente ritenere che la morte non ne
sarebbe conseguita.
Il quesito causale proposto viene dal ricorrente prospettato come un problema di causalità materiale. Tale
approccio non può essere condiviso giacché, come correttamente evidenziato dal primo giudice, non si è in
presenza di una condotta radicalmente omissiva bensì attiva, che attraverso l'urto del veicolo investito, ha
determinato il decesso della vittima. In un caso del genere il nesso di causalità fisica rilevante ai sensi degli
artt. 40 e 41 c.p., non è seriamente in discussione. Diversa, naturalmente, sarebbe stata la situazione nel caso
in cui si fosse considerata una condotta omissiva del conducente: in una tale eventualità, infatti,
l'interrogativo sugli effetti di una condotta di guida prudente avrebbe propriamente riguardato il primo ideale
gradino del processo di imputazione, che riguarda appunto la dimostrazione del nesso eziologico tra condotta
omissiva ed evento. In tale ultima situazione, il nesso causale avrebbe potuto ritenersi dimostrato solo nel
caso in cui si fosse potuto ritenere con ragionevole, umana certezza che un conducente avveduto, nelle
condizioni date, avrebbe evitato l'evento letale.
Dunque il nesso causale è nel caso in esame dimostrato con caratteri di evidenza, che non abbisognano di
ulteriore sottolineatura oltre a quella proposta nella sentenza del primo giudice. Tuttavia il ricorso in esame
propone correttamente un rilevante problema eziologico che riguarda, tuttavia, il distinto tema della
cosiddetta causalità della colpa. La questione, per la sua importanza, merita un breve chiarimento di
principio.
La formula legale della colpa espressa dall'art. 43 c.p., (col richiamo alla negligenza, imprudenza ed
imperizia ed alla violazione di leggi, regolamenti, ordini e discipline), delinea un primo e non controverso
tratto distintivo di tale forma di imputazione soggettiva, di carattere oggettivo e normativo. Tale
primo obiettivo profilo della colpa, incentrato sulla condotta x posta in essere in violazione di una
norma cautelare ha la funzione di orientare il comportamento dei consociati ed esprime l'esigenza di
un livello minimo ed irrinunciabile di cautele nella vita sociale. La dottrina che sul piano sistematico
prospetta la doppia collocazione della colpa sia nel fatto che nella colpevolezza, colloca
significativamente tale primo profilo dell'imputazione sul piano della tipicità, svolgendo esso un ruolo
insostituibile nella configurazione delle singole fattispecie colpose.
Accanto al profilo obiettivo ed impersonale ve ne è un altro r di natura soggettiva, solo indirettamente
adombrato dalla definizione legislativa, che sottolinea nella colpa la mancanza di "volontà dell'evento.
Tale connotato negativo ha un significato inevitabilmente ristretto che si risolve essenzialmente sul piano
definitorio, classificatorio: serve infatti a segnare la traccia per il confine con l'imputazione dolosa. In
positivo, il profilo più squisitamente soggettivo e personale della colpa viene generalmente individuato
nella capacità soggettiva dell'agente di osservare la regola cautelare, nella concreta possibilità di

2
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

pretendere l'osservanza della regola stessa, in una parola nella esigibilità del comportamento dovuto.
Si tratta di un aspetto che la richiamata dottrina, che attribuisce una doppia posizione al dolo ed alla
colpa, colloca nell'ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto
all'agente. Si tratta di un aspetto della colpevolezza colposa cui la riflessione giuridica più recente ha
dedicato molta attenzione, nel tentativo di rendere personalizzato il rimprovero personale attraverso
l'introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga in conto non solo l'oggettiva
violazione di norme cautelari, ma anche la concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando
le sue specifiche qualità personali.
Dunque, in breve, il rimprovero colposo riguarda la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere
evitato mediante l'esigibile osservanza delle norme cautelari violate.
Tali accenni mostrano che, da qualunque punto di vista si guardi alla colpa, la prevedibilità ed
evitabilità del fatto svolgono un articolato ruolo fondante: sono all'origine delle norme cautelari e sono
inoltre alla base del giudizio di rimprovero personale.
Venendo al profilo della colpa che maggiormente interessa nel presente giudizio, quello cioè inerente
all'evitabilità dell'evento, va segnalato che l'art. 43 c.p., reca una formula ricca di significato: il delitto è
colposo quando l'evento non è voluto e "si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia...".
Viene così chiaramente in luce, e con forza, il profilo causale della colpa, che si estrinseca in diverse
direzioni.
Il pensiero giuridico italiano ha da sempre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti
gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la
norma stessa mira a prevenire. Tale esigenza conferma l'importante ruolo della prevedibilità e
prevenibilità nell'individuazione delle norme cautelari alla cui stregua va compiuto il giudizio ai fini
della configurazione del profilo oggettivo della colpa. Si tratta di identificare una norma specifica,
avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla
base delle conoscenze che all'epoca della creazione della regola consentivano di porre la relazione
causale tra condotte e risultati temuti; e di identificare misure atte a scongiurare o attenuare il rischio.
L'accadimento verificatosi deve cioè essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad
evitare, deve costituire la concretizzazione del rischio. L'individuazione di tale nesso consente di
sfuggire al pericolo di una connessione meramente oggettiva tra regola violata ed evento.

Ma il profilo causale della colpa si mostra anche da un altro punto di vista che attiene all'indicato
momento soggettivo, quello cioè più strettamente aderente al rimprovero personale. Affermare, come
afferma l'art. 43 c.p., che per aversi colpa l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente
riprovevole implica che l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il
cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento. Si ritiene da più parti,
condivisibilmente, che non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di
rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico. Tale
assunto rende evidente la forte connessione esistente in molti casi tra le problematiche sulla colpa e quelle
sull'imputazione causale.
Infatti, non di rado le valutazioni che riguardano lo sviluppo causale si riverberano sul giudizio di evitabilità
in concreto.
Tuttavia poichè, come si è già evidenziato, nel caso in esame il profilo squisitamente causale può ritenersi
superato, la causalità di cui qui si parla è appunto quella della colpa. Essa si configura non solo quando il
comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico, ma anche quando una
condotta appropriata aveva apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno. Su tale
assunto la riflessione giuridica è sostanzialmente concorde, anche se non mancano diverse sfumature in
ordine alla livello probabilità richiesto per ritenere l'evitabilità dell'evento. In ogni caso, non si dubita che
sarebbe irrazionale rinunziare a muovere l'addebito colposo nel caso in cui l'agente abbia omesso di tenere
una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene non certamente risolutiva, avrebbe comunque
significativamente diminuito il rischio di verificazione dell'evento o (per dirla in altri, equivalenti termini)
avrebbe avuto significative, non trascurabili probabilità di salvare il bene protetto.
Anche la giurisprudenza di questa Corte ha in numerose (occasioni sottolineato il ruolo fondante della
prevedibilità ed l'evitabilità dell'evento. A tale riguardo va richiamata in primo luogo la fondamentale
pronunzia (Cass. 4, 6 dicembre 1990, Bonetti) che, nel contesto di un complesso e delicato caso giudiziario,
ha posto in luce che la prevedibilità altro non è che la possibilità dell'uomo coscienzioso ed avveduto di
cogliere che un certo evento è legato alla violazione di un determinato dovere oggettivo di diligenza, che un

3
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

certo evento è evitabile adottando determinate regole di diligenza.


Proprio in tema di circolazione stradale, con riferimento alla norma di cautela inerente all'adeguamento della
velocità alle condizioni ambientali, è stata ripetutamente affermata la necessità di tener conto degli elementi
di spazio e di tempo, e di valutare se l'agente abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro: la
prevedibilità ed evitabilità vanno cioè valutate in concreto (Cass. 25 ottobre 1990, C.E.D. Cass. 185559;
Cass. 9 maggio 1983, Togliardi, Cass. Pen. 1984; Cass. 2 febbraio 1978, Piscopo). Il fattore velocità, si è
affermato, corrisponde ad un concetto relativo alle situazioni contingenti, quando si tratta di valutare il
comportamento dell'imputato in chiave causale e non già di accertare la violazione di una norma
contravvenzionale che prescrive limiti di velocità (così la sentenza Togliardi citata).
E' ben vero che parte della giurisprudenza di legittimità, ispirandosi alla criticata concezione oggettivante
della colpa tende a ritenere che la prevedibilità e prevenibilità dell'evento sono elementi estranei
all'imputazione soggettiva di cui si parla.
Tuttavia si è perlopiù in presenza di pronunzie risalenti nel tempo, ispirate a concezioni della colpa che non
trovano più credito nel presente della riflessione giuridica.
Per concludere occorre infine segnalare che. nell'ambito del profilo subiettivo della colpa di cui si parla,
l'esigenza della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento si pone in primo luogo e senza
incertezze nella colpa generica, poiché in tale ambito la prevedibilità dell'evento ha un rilievo decisivo
nella stessa individuazione della norma cautelare violata; ma anche nell'ambito della colpa specifica la
prevedibilità vale non solo a definire in astratto la conformazione del rischio cautelato dalla norma,
ma anche va rapportata entro le diverse classi di agenti modello ed a tutte le specifiche contingenze del
caso concreto.
Certamente tale spazio valutativo è pressoché nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza
dà luogo quasi automaticamente alla colpa; ma nell'ambito di norme elastiche che indicano un
comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento
in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello.
L'esposizione che precede si confida illustri l'enunciazione posta all'inizio in ordine alla mancanza di
motivazione in ordine alla causalità della colpa: si tratta di comprendere se, nelle condizioni date, la condotta
di guida della vittima fosse prevedibile e se le conseguenze determinatesi nel corso dell'infortunio fossero
prevedibili ed evitabili nei sensi che si sono sopra esposti.
La carenza di motivazione sul punto in questione, cruciale ai fini della configurazione della responsabilità
colposa, vulnera la statuizione civile in ordine alla condanna al risarcimento del danno nei confronti della
parte civile. Attesa l'intervenuta prescrizione del reato, le parti devono essere pertanto rimesse davanti al
giudice civile competente in grado d'appello ai sensi dell'art. 622 c.p.p.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata per essere il reato estinto per l'intervenuta prescrizione.
Rinvia, ai fini civili, davanti alla giudice civile competente per valore in grado d'appello.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2007.

*** *** ***

II.2. Errore medico e mancata interruzione del nesso causale

Cass. pen., Sez. IV, 4 ottobre 2007, n. 41293

Fatto

1. Con sentenza in data 22.12.2003 il Tribunale di Taranto ha dichiarato T.U. colpevole dei delitti di
omicidio colposo in danno di M.R. e di lesioni personali colpose in danno di M.A.; ritenuto il concorso
formale fra i due reati, previa concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante,
lo ha condannato alla pena di mesi cinque di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali, ed al
risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, da liquidarsi in separato giudizio.
Era contestato al T. di essersi, in data 29.8.1997 alla guida di autovettura, approssimato ad un incrocio
tenendo una velocità di 65 km. orari in violazione di norme di comune prudenza e dell'art. 141 C.d.S., commi

4
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

1 e 2, art. 142 C.d.S., stante il limite di 50 km. orari, andando a collidere con l'autovettura condotta da M.R.,
con a bordo M.A., che stava svoltando a sinistra senza concedere la dovuta precedenza. M.R. era deceduta il
(OMISSIS) dopo il ricovero ospedaliero.
2. Rigettando l'impugnazione proposta dall'imputato, la Corte di Appello di Lecce ha confermato la sentenza
di primo grado ed ha condannato il T. al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili. La
Corte territoriale ha dichiarato in primo luogo di condividere le argomentazioni svolte dal primo giudice in
ordine alla responsabilità dell'imputato, in punto di attendibilità della deposizione della persona offesa M. A.,
in punto di riscontro degli accertamenti di p.g., in punto di violazione di norme di comune prudenza e
specifiche del codice stradale (artt. 141, 142, 143 C.d.S.), in punto di comportamento di guida della M.
sull'incrocio agli effetti dell'obbligo di dare la precedenza, come pure in ordine alla valutazione della velocità
di 65 km. orari tenuta dal T.. In secondo luogo ha affermato, in ordine al nesso causale, che la colpa, anche
se grave, dei medici nella cura di M.R. non poteva ritenersi causa autonoma e indipendente rispetto al
comportamento dell'imputato che, provocando il fatto lesivo, aveva reso necessario l'intervento dei sanitari.
3. Propone ricorso per cassazione il difensore dell'imputato per 4 motivi.
Con il primo motivo deduce violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per carenza, illogicità e
contraddittorietà della motivazione in relazione alla corretta interpretazione ed applicazione degli art. 40 e 41
c.p. per non avere la sentenza impugnata tenuto conto delle risultanze del giudizio di primo grado in ordine
al fatto che, a seguito l'intervento chirurgico laparotomico, la signora M.R. era ritornata in condizioni
ottimali, il quadro clinico si era aggravato il 3 settembre per un'improvvisa insufficienza cardio-circolatoria,
e la morte era sopravvenuta il successivo giorno 12 a causa di un errato intervento dei medici nella
sostituzione del catetere venoso centrale, cioè per una causa sopravvenuta, successiva ed autonoma rispetto
al sinistro stradale, essendosi evidentemente riesumata la obsoleta ed ormai superata teoria secondo cui causa
causae est causa causati. Con il secondo motivo ripropone la questione del nesso causale con riferimento alle
risultanze delle varie relazioni peritali, evidenziando che le perizie dei professori D.N., I. e Q. avevano
ricondotto alla colpa grave dei medici le cause dell'evento letale.
Con il terzo motivo, sotto il medesimo profilo, censura come affetta da manifesta illogicità e
contraddittorietà la motivazione della Corte di Appello laddove afferma che" la colpa dei medici, anche se
grave, non può ritenersi causa autonoma e sufficiente ad interrompere il nesso di causalità", stante la colpa
grave dei medici. Con il quarto motivo deduce l'errata interpretazione ed applicazione degli art. 192 c.p.p. e
art. 141 C.d.S., e segg. per non avere i giudici di merito fornito alcuna motivazione in ordine alle ragioni per
cui la consulenza in ordine alla dinamica del sinistro redatta dal consulente della M., ing. V., era preferibile
rispetto a quella del tecnico nominato dall'ufficio, ing. A.; per avere recepito interamente le dichiarazioni
rese dalla signora M.A.R., persona offesa sopravissuta al sinistro, senza considerare che tali dichiarazioni,
provenendo da parte interessata, potevano essere ritenute attendibili solo se suffragate da elementi di
riscontro; per non aver tenuto conto dell'affidamento che poteva fare il T. nel diritto di precedenza, per cui
non era tenuto ad una velocità così ridotta da consentirgli di evitare la collisione anche nell'ipotesi di
improvviso repentino attraversamento della strada a breve distanza.

Diritto

4. Nelle more del giudizio di cassazione è intervenuta la causa estintiva della prescrizione per entrambi i reati
non oltre la data del 12.3.2005, dovendosi tener conto, in assenza di cause di sospensione e stante la
concessione delle attenuanti generiche prevalenti, del termine massimo di 7 anni e 6 mesi secondo la
previgente disciplina più favorevole al reo, applicabile L. n. 251 del 2005, ex art. 10 che fa salve le
disposizioni dell'art. 2 c.p..
La causa estintiva va dichiarata ex art. 129 c.p.p., comma 1, non risultando evidente la sussistenza di ragioni
assolutorie nel merito secondo la disposizione del comma 2, sussistendo anzi ragioni di conferma della
responsabilità, sia pure ai soli effetti civili ex art. 578 c.p.p. in quanto la Corte di Appello ha condannato
l'imputato anche al rimborso delle spese in favore delle costituite parti civili.
5. A tale scopo è necessario esaminare compiutamente i motivi addotti dal ricorrente (Cass., sez. 6, 8 giugno
2004, n. 31464).
Le censure relative ai primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione,
attengono al problema dell'interruzione del nesso causale tra l'incidente stradale occorso e l'evento
mortale successivamente verificatosi in relazione al comportamento professionale dei medici curanti
durante il ricovero ospedaliero.
In proposito, la risposta negativa del giudice di merito si sottrae alle censure mosse, avendo in modo

5
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

congruo e logico ritenuto che la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma e
indipendente, ex art. 41 c.p., comma 2, rispetto al comportamento del T., che rese necessario
l'intervento dei sanitari avendo provocato il fatto lesivo. La Corte di appello ha richiamato le risultanze
del giudizio di primo grado secondo cui, nonostante ben tre perizie medico-legali, non era stata raggiunta la
prova certa di una condotta colposa ascrivibile ai medici che ebbero in cura la M.R.; aggiungendo che
l'errore non costituisce un accadimento al di fuori di ogni immaginazione, ed era preventivabile l'ulteriore
aggravamento della situazione clinica, ritenuta in primo grado già compromessa per effetto dell'incidente
stradale e bisognosa di interventi chirurgici di notevole complessità.
Il non aver tenuto conto del miglioramento del quadro clinico prima dell'aggravamento del 3 settembre 1997,
come pure del diverso giudizio in ordine al nesso causale espresso da alcuni periti non costituisce vizio di
motivazione ex art. 606 c.p.p., avendo il giudice di merito in modo legittimo espresso il proprio
convincimento, dando credito ad altri elementi probatori - evidentemente ritenuti più affidabili - nell'ambito
delle complessive risultanze processuali. (Omissis).Circa la dinamica del sinistro, la decisione di appello ha
ampiamente richiamato, condividendola, quella di primo grado, ed ha fornito logica motivazione del fatto
che il primo giudice aveva correttamente in parte disatteso l'affermazione del consulente del P.M. circa il
mancato rispetto da parte della M. dell'art. 145 C.d.S. sul diritto di precedenza, richiamando la disposizione
di cui all'art. 154, comma 3, lett. b, rispettata dalla donna nella manovra di svolta a sinistra.
Quanto all'affidamento che poteva fare il T. sul diritto di precedenza, i giudici di merito hanno evidenziato il
nesso causale tra l'evento ed il comportamento imprudente di costui, essendo emerso anche dagli
accertamenti di p.g. che egli aveva affrontato un incrocio in zona densamente popolata, distratto da animata
discussione con passeggero trasportato sul veicolo da lui condotto, senza rispettare la destra ed i limiti di
velocità. Trattasi anche in questo caso di esaustiva motivazione, logica e coerente, come tale incensurabile in
questa sede di legittimità.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione e rigetta il ricorso per le statuizioni
civili.
Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2007.

*** *** ***

II.3. Il rapporto di causalità omissiva e la responsabilità del medico.

Cass. pen., Sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328

Fatto

Il Pretore di Napoli con sentenza del 28.4.1999 dichiarava il dott. S. F. colpevole del reato di omicidio
colposo (per avere, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell'ospedale Cardarelli - dove
era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico
d'urgenza per perforazione ileale, determinato l'insorgere di una sepsi addominale da "clostridium septicum"
che cagionava il 22 aprile la morte del paziente) e, con le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di
mesi otto di reclusione, oltre il risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separato
giudizio, alla quale assegnava a titolo di provvisionale la somma di lire 70.000.000. Il giudice di primo
grado, all'esito di un'attenta ricostruzione della storia clinica del C., riteneva fondata l'ipotesi accusatoria,
secondo cui l'imputato non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi
né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami
ematologici, che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza, e di
curare l'allarmante granulocitopenia con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale,
autorizzando anzi l'ingiustificata dimissione del paziente giudicato "in via di guarigione chirurgica".
Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i consulenti medico-legali
e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la progressiva evoluzione della
patologia infettiva letale "con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale".

6
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14.6.2000 confermava quella di primo grado, ribadendo
che il dott. F., in base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di omissioni che "... sicuramente
contribuirono a portare a morte il C. ...", sottolineando che "... se si fosse indagato sulle cause della
neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di
sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate ..." ed aggiungendo che era comunque addebitabile
allo stesso la decisione di dimettere un paziente che "... per le sue condizioni versava invece in quel
momento in una situazione di notevole pericolo ...".
2. - Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell'imputato deducendo:
- (omissis)
- violazione di legge, in relazione agli artt. 192, 546, 530 c.p.p. e 40, 41, 589 c.p., e manifesta illogicità della
motivazione quanto all'affermazione di responsabilità, poiché non erano state dimostrate la direzione del
reparto ospedaliero e la posizione di garante in capo all'imputato, né, in particolare, l'effettiva causalità delle
addebitate omissioni di diagnosi e cura e della disposta dimissione del paziente rispetto alla morte di
quest'ultimo, in difetto di reali complicanze del decorso post-operatorio e in assenza di dati precisi sulla
patologia di base della perforazione dell'ileo e sull'insorgere della sindrome infettiva da "clostridium
septicum", rilevandosi altresì che, per il mancato esperimento dell'esame autoptico, non era certo né
altamente probabile, alla stregua di criteri scientifici o statistici, che gli ipotetici interventi medici,
asseritamente omessi, sarebbero stati idonei ad impedire lo sviluppo dell'infezione letale e ad assicurare la
sopravvivenza del C.;
- violazione degli artt. 546 e 603 c.p.p. e mancanza di motivazione in ordine alla richiesta difensiva di
rinnovazione dell'istruzione dibattimentale mediante perizia medico-legale sul nesso di causalità;
- violazione degli artt. 546 c.p.p. e 133 c.p. per omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta
riduzione della pena.
Con successiva memoria difensiva il ricorrente ha dedotto altresì la sopravvenuta estinzione del reato per
prescrizione.
3. - La Quarta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 7.2.-16.4.2002, premesso che,
nonostante l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione, permaneva l'attualità della decisione sul
ricorso, agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza di condanna concernenti gli interessi civili,
rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite sul rilievo dell'esistenza di un ormai radicale contrasto interpretativo,
formatosi all'interno della stessa Sezione, in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva
ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo. Al
più recente orientamento, secondo il quale é richiesta la prova che un diverso comportamento dell'agente
avrebbe impedito l'evento con un elevato grado di probabilità "prossimo alla certezza", e cioè in una
percentuale di casi "quasi prossima a cento", si contrappone l'indirizzo maggioritario, che ritiene sufficienti
"serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l'impedimento dell'evento. Il Primo Presidente con decreto
del 26.4.2002 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.

Diritto

- Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per
oggetto l'esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all'imputato e
l'evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai
giudici di merito.
È stata sottoposta all'esame delle Sezioni Unite la controversa questione se "in tema di reato colposo
omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con
particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo, debba essere
ricondotta all'accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l'evento sarebbe stato
impedito con elevato grado di probabilità "vicino alla certezza", e cioè in una percentuale di casi
"quasi prossima a cento", ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto "serie ed apprezzabili
probabilità di successo" della condotta che avrebbe potuto impedire l'evento".

Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all'interno della Quarta Sezione della Corte di
Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7.1.1983, Melis, rv.
158947; 2.4.1987, Ziliotto, rv. 176402; 7.3.1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23.1.1990, Pasolini, rv. 184561;
13.6.1990, D'Erme, rv. 185106; 18.10.1990, Oria, rv. 185858; 12.7.1991, Silvestri, rv. 188921; 23.3.1993,
De Donato, rv. 195169; 30.4.1993, De Giovanni, rv. 195482; 11.11.1994, Presta, rv. 201554), che ritiene

7
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

sufficienti "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l'azione impeditiva dell'evento, anche se
limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si
contrappone l'altro, più recente, per il quale é richiesta la prova che il comportamento alternativo dell'agente
avrebbe impedito l'evento lesivo con un elevato grado di probabilità "prossimo alla certezza", e cioè in una
percentuale di casi "quasi prossima a cento" (Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29.9.2000, Musto;
25.9.2001, Covili, rv. 220953; 25.9.2001, Sgarbi, rv. 220982; 28.11.2000, Di Cintio, rv. 218727). Ritiene il
Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via
prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo
alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell'attività medico-chirurgica.
2. - Nell'ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l'interpretazione che,
nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva
sulla "teoria condizionalistica" o della "equivalenza delle cause" (temperata, ma in realtà ribadita mediante il
riferimento, speculare e in negativo, alla "causalità umana" quanto alle serie causali sopravvenute, autonome
e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l'evento: art. 41 comma 2). È dunque causa penalmente
rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità
civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o
omissiva, che si pone come condizione "necessaria" - conditio sine qua non - nella catena degli antecedenti
che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l'evento da cui dipende l'esistenza del reato non si
sarebbe verificato.
La verifica della causalità postula il ricorso al "giudizio controfattuale", articolato sul condizionale
congiuntivo "se ... allora ..." (nella forma di un periodo ipotetico dell'irrealtà, in cui il fatto enunciato nella
protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale "doppia formula",
nel senso che: a) la condotta umana "è" condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente dal
novero dei fatti realmente accaduti, l'evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana "non è"
condizione necessaria dell'evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l'evento si
sarebbe egualmente verificato.
Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e
lo strumento logico dell'astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze
della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la
pluralità e l'incertezza delle ipotesi esplicative dell'evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512;
Sez. IV, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech,
rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi
che, operata l'eliminazione mentale dell'antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si
sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, "già da prima", che da una determinata condotta
scaturisca, o non, un determinato evento.
E la spiegazione causale dell'evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere
dettata dall'esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo
ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali,
bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue
modalità tipiche e ripetibili, sotto "leggi scientifiche" esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può
essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una
successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità
scientifica - "legge di copertura" -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico,
conducano ad eventi "del tipo" di quello verificatosi in concreto.
Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi "universali" (invero assai rare),
che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi
"statistiche" che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un
altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che
quest'ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica)
sono tanto più dotate di "alto grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", quanto più trovano
applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi
di prova razionali ed empiricamente controllabili.
Si avverte infine che, per accertare l'esistenza della condizione necessaria secondo il modello della
sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche
e ripetibili dell'accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di "assunzioni tacite" e
presupporre come presenti determinate "condizioni iniziali", non conosciute o soltanto congetturate, sulla

8
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

base delle quali, "ceteris paribus", mantiene validità l'impiego della legge stessa.
3. - La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti
acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.;
29.9.2000, Musto, cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di
Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio; 23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l'enunciata struttura logica della
spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di
reato e la funzione di criterio di imputazione dell'evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal
criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in
ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di
personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall'altro, nell'ambito delle fattispecie
causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell'area dell'illecito
penale.
In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati
dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza
giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un
nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l'articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di
riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l'assetto
normativo dell'ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per
l'individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo.
Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale,
altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di
esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi
causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici. E non è privo di significato che dalla quasi
generalità dei sistemi giuridici penali europei ("conditio sine qua non") e dei paesi anglosassoni ("causa but
for") siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello
condizionalistico della spiegazione dell'evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva
dell'imputazione causale.
4. - Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva
attinente all'attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l'essenza normativa del concetto
di "omissione", che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e
imposto dall'ordinamento.
Il "reato omissivo improprio" o "commissivo mediante omissione", che è realizzato da chi viola gli speciali
doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell'evento, presenta una spiccata
autonomia dogmatica, scaturendo esso dall'innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita
dall'art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato
commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in
corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l'effetto estensivo dell'area della punibilità, pone indubbi
problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa.
Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all'equivalente normativo della causalità, di un ulteriore,
forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui
inosservanza fonda la colpa dell'agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto
all'ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.
Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali,
delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall'erosione del paradigma causale nell'omissione,
asseritamente motivata con l'incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a
fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della "imputazione
oggettiva dell'evento". Questa é caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del
fenomeno offerta dalla mera "possibilità" o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del
comportamento doveroso, espressa in termini di "aumento - o mancata diminuzione - del rischio" di lesione
del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica,
salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell'accertamento
rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell'agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in
materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo
evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente
posteriore o con minore intensità lesiva. Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha
reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa -

9
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel settore dell'attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio;
Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili)
e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido
il descritto paradigma unitario di imputazione dell'evento. Pur dandosi atto della peculiarità concettuale
dell'omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell'efficienza condizionante di
un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di
causalità rimane sempre quello del "condizionale controfattuale", la cui formula dovrà rispondere al
quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell'azione doverosa e sostituito alla
componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso,
supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno,
mediante un enunciato esplicativo "coperto" dal sapere scientifico del tempo.
Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato
indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della
condizionalità necessaria dell'omissione pretenderebbe un grado di "certezza" meno rigoroso rispetto
ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che
l'affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per accentuare nei reati omissivi
impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della
condotta, rispetto alla quale l'evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a
reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa
e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito
all'agente come fatto proprio un evento "forse", non "certamente", cagionato dal suo comportamento.
5. - Superato quell'orientamento che si sostanzia in pratica nella "volatilizzazione" del nesso eziologico, il
contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di
determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi,
con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell'esercizio dell'attività medico-churgica,
quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all'efficacia impeditiva e salvifica del comportamento
alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo.
Non é messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta
verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della "elevata o alta credibilità razionale" del
condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto
definiti dalla medesima legge di copertura.
Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso
tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d'esperienza, enunciati di leggi biologiche,
chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento
storico. Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore
meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico
paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale,
legittimerebbero un affievolimento dell'obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della
causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti
terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a "serie ed apprezzabili
probabilità di successo" (anche se "limitate" e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura
inferiore al 50%) dell'ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato,
sull'assunto che "quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono
necessario l'intervento del medico".
Le Sezioni Unite non condividono questa soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale
e prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7.1.1983,
Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D'Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni,
Presta) poiché, com'è stato sottolineato dall'opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale
(Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la
tralaticia formula delle "serie ed apprezzabili probabilità di successo" dell'ipotetico intervento salvifico del
medico si finisce per esprimere coefficienti di "probabilità" indeterminati, mutevoli, manipolabili
dall'interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di
colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione
degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell'accertamento degli elementi
costitutivi della fattispecie criminosa tipica.
Né va sottaciuto che dall'esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene

10
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell'evento, non si è tuttavia in presenza
di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive
colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell'evento lesivo, che è per ciò
sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e
interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive.
Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell'indagine controfattuale sull'evitabilità
dell'evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell'inosservanza delle regole
cautelari, attinente ai profili di "colpa" del garante, rispetto all'ambito - invero prioritario - della spiegazione
e dell'imputazione causale.
6. - È stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un
potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione
probatoria della tipicità dell'elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell'istituto, oggetto
della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa.
Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un'attenuazione
del rigore nell'accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione "debole" della
causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale, dell'"aumento
del rischio", finirebbe per comportare un'abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento
dell'evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di
responsabilità per fatto proprio.
Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela
significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta
decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento,
soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di "causazione multipla" legati al moderno sviluppo
delle attività.
Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare
invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente
inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e
dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo
dell'"abduzione"), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per
intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell'argomento "deduttivo", da ulteriori elementi
conoscitivi estranei alle premesse stesse.
D'altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco
da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un'impossibile conoscenza di tutti gli
antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il
quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di "assunzioni tacite",
presupponendo come presenti determinate "condizioni iniziali" e "di contorno", spazialmente contigue e
temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, "ceteris paribus",
mantiene validità l'impiego della legge stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie
attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie
continua di eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta
umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché
sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si
ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell'accertamento in giudizio e si pretendesse
comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di
utopistica "certezza assoluta", si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del
processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari. Tutto ciò significa che il giudice, pur
dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell'intera
evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell'agente "è" (non "può essere") condizione
necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell'operazione ermeneutica alla stregua dei comuni
canoni di "certezza processuale", conducenti conclusivamente, all'esito del ragionamento probatorio
di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da "alto grado di
credibilità razionale" o "conferma" dell'ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio
enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di "elevata probabilità logica" o "probabilità prossima alla -
confinante con la - certezza".
7. - Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità
omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l'explanans è portatore, ma non è

11
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi
scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico "prossimo ad
1", cioè alla "certezza", quanto all'efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al
singolo evento.
Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione
parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali
s'innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-
patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale,
che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità.
È indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla
legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni
epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della
specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch'essi, se corroborati dal
positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia
medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via
alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di
condizionamento. Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da
leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di
successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono
sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l'irrilevanza nel caso concreto
di spiegazioni diverse, controllandone quindi la "attendibilità" in riferimento al singolo evento e
all'evidenza disponibile.
8. - In definitiva, con il termine "alta o elevata credibilità razionale" dell'accertamento giudiziale, non
s'intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione,
indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla
struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel
nesso rispetto all'evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito
dedurre automaticamente - e proporzionalmente - dal coefficiente di probabilità statistica espresso
dalla legge la conferma dell'ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità. La moderna dottrina che ha
approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che, mentre la "probabilità
statistica" attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli
eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell'indagine causale), la "probabilità logica", seguendo
l'incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell'ipotesi
formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base
dell'intera evidenza disponibile, dell'attendibilità dell'impiego della legge statistica per il singolo
evento e della persuasiva e razionale credibilità dell'accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche
Cass., Sez. IV, 5.10.1999, Hariolf, rv. 216219; 30.3.2000, Camposano, rv. 219426; 15.11.2001, Puddu;
23.1.2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle scienze naturali la spiegazione statistica
presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto - ove il relatum è costituito da
un comportamento umano - appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione
dell'explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici,
piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi.
Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le
argomentate riflessioni del P.G. requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici,
complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la
postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non
esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba
considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di "certezza processuale" che, all'esito del
ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l'azione doverosa
omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma
(nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva.
D'altra parte, poiché la condizione "necessaria" si configura come requisito oggettivo della fattispecie
criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo
che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.
Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in
tema di prova indiziaria dall'art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro,

12
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima
disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall'art. 546,
comma 1 lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell'imputazione
causale, alla conclusione caratterizzata da un "alto grado di credibilità razionale", quindi alla
"certezza processuale", che, esclusa l'interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva
dell'imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione "necessaria"
dell'evento, attribuibile per ciò all'agente come fatto proprio. Ex adverso, l'insufficienza, la
contraddittorietà e l'incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici
elementi che in base all'evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi
sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva
all'interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata
dall'accusa e l'esito assolutorio stabilito dall'art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia "in dubio
pro reo". E non, viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale via,
finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di "necessità" graduabile in coefficienti numerici.
9. - In ordine al problema dell'accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria
dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell'attività medico-chirurgica, devono essere pertanto
enunciati, ai sensi dell'art. 173.3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto:
a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla
base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si
accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et
nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente
posteriore o con minore intensità lesiva.
b) Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge
statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poiché il giudice
deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza
disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di
fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva
del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità
razionale" o "probabilità logica".
c) L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso
causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante
della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo,
comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio.
Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di
controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative - la c.d. giustificazione
esterna - della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle
inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque,
bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio
che fonda il giudizio di conferma dell'ipotesi sullo specifico fatto da provare.
10. - Alla luce dei principi di diritto sopra affermati, occorre ora passare all'esame della fattispecie concreta
sottoposta all'attenzione di questa Corte e valutare la correttezza logico-giuridica dell'apparato argomentativo
dei giudici di merito a sostegno dell'affermazione di responsabilità dell'imputato. Premesso che la
motivazione della sentenza impugnata s'integra con quella di condanna di primo grado, siccome
espressamente richiamata, rileva il Collegio che questa ha adeguatamente affrontato, sia in fatto che in
diritto, il problema dell'esistenza del nesso di condizionamento risolvendolo in senso affermativo. Il dott. S.
F. era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in qualità di responsabile della XVI
divisione di chirurgia dell'ospedale Cardarelli - dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo
avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d'urgenza per perforazione ileale -, per avere determinato
l'insorgere di una sepsi addominale da "clostridium septicum" che aveva cagionato il 22 aprile la morte del
paziente. Si addebitava all'imputato di non avere compiuto durante il periodo di ricovero una corretta
diagnosi e quindi consentito un'appropriata terapia, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i
risultati degli esami ematologici che evidenziavano una persistente neutropenia e di sollecitare la consulenza
internistica prescritta dopo l'intervento chirurgico per accertare l'eziologia della perforazione dell'ileo, anzi
autorizzando, senza alcuna prescrizione, la dimissione del paziente, giudicato in via di guarigione chirurgica.
La storia clinica del C. risulta esaurientemente e analiticamente ricostruita nei seguenti termini.
Il C., ricoverato il 4 aprile 1993 presso il reparto di chirurgia d'urgenza dell'ospedale Cardarelli per forti

13
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

dolori addominali, venne operato il giorno successivo e l'intervento indicò un'infezione in atto da
"perforazione dell'ileo lenticolare", suturata mediante corretta enterrorafia. Restando incerta la causa della
non comune patologia e preoccupanti i risultati degli esami emocromocitometrici effettuati il 4 e il 6 aprile (i
quali evidenziavano nella formula leucocitaria una marcata neutropenia e con essa una condizione di
immunodepressione del paziente) furono disposti esame di Widal Wright (eseguito con esito negativo per
l'indicazione tifoidea), consulenza internistica (mai eseguita) e terapia antibiotica a largo spettro. Trasferito il
9 aprile nella XVI divisione chirurgica diretta dal dott. F., il C. continuò la terapia antibiotica e iniziò a
sfebbrare il 12 aprile, senza esser sottoposto ad ulteriori esami di alcun tipo. Il dott. F., rilevato che il
paziente era apirettico, il 14 aprile sospese la terapia antibiotica e dispose un nuovo emocromo, che
evidenziò il giorno successivo il persistere di una gravissima neutropenia, ma, ciò nonostante, il 17 aprile
dimise il C. giudicandolo "in via di guarigione chirurgica" senza alcuna prescrizione. Il 19 aprile il C. accusò
forti dolori addominali e, ricoverato il 20 aprile, venne nuovamente operato il giorno successivo mediante
laparatomia e drenaggio di microascessi multipli; il referto microbiologico indicò esito positivo per
"anaerobi e sviluppo di clostridium septicum". All'esito di un terzo intervento chirurgico eseguito il 22 aprile
il C. morì a causa di "sepsi addominale da clostridium septicum", un batterio anaerobico non particolarmente
aggressivo, che si sviluppa e si propaga però, determinando anemia acuta ed emolisi, allorché l'organismo
dell'uomo è debilitato e immunodepresso per gravi forme di granulocitopenia.
Il Pretore, con l'ausilio della prova testimoniale e medico-legale (richiamando altresì autorevoli e concordi
pareri della letteratura scientifica internazionale nel campo della medicina interna), identificava nella
"neutropenia" l'immediato antecedente causale dell'aggressione del "clostridium" e del processo settico
letale; escludeva, indipendentemente dall'origine della perforazione ileale, ogni correlazione fra l'intervento
chirurgico e i fattori patogenetici dell'evento infausto; sottolineava come il paziente, dopo la chiusura
dell'ulcera ileale, fosse stato sottoposto solo a terapia antibiotica a largo spettro, senza essere indagato sul
piano internistico ed ematologico, benché la consulenza internistica fosse stata sollecitata e gli accertamenti
ematologici avessero evidenziato l'insorgenza di una marcata neutropenia, con conseguente minorata difesa
immunitaria. Rilevava pertanto che, se le cause della neutropenia e del conseguente, grave, stato anergico da
immunodepressione fossero stati correttamente diagnosticati (unitamente alle indagini necessarie a chiarire
l'eziologia della non comune perforazione ileale) e se l'allarmante granulocitopenia fosse stata curata con
terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, fino a far risalire i valori dei neutrofili al di
sopra della soglia minima delle difese immunitarie, si sarebbe evitata la progressiva evoluzione della
patologia infettiva letale da "clostridium septicum" e si sarebbe pervenuti ad un esito favorevole "con alto
grado di probabilità logica o credibilità razionale".
Così ricostruito il nesso causale secondo il modello condizionalistico integrato dalla sussunzione sotto leggi
scientifiche, il Pretore, definita altresì puntualmente la posizione apicale del dott. F. nell'ambito della
divisione chirurgica ove il paziente era stato ricoverato nella fase post-operatoria e individuate precise note
di negligenza e di imperizia nei menzionati comportamenti omissivi e nell'improvvida dimissione dello
stesso, concludeva affermando la responsabilità dell'imputato per la morte del C..
La Corte di appello di Napoli, pur argomentando impropriamente e contraddittoriamente in termini che
sembrano più coerenti con il lessico della disattesa teoria dell'aumento del rischio ("... se si fosse indagato
sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei
neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate ..."), confermava la prima
decisione, richiamandone i contenuti motivazionali e ribadendo che, in base ai dati scientifici acquisiti,
all'imputato erano addebitabili, oltre l'ingiustificata dimissione del paziente, gravi omissioni sia di tipo
diagnostico che terapeutico, le quali "... sicuramente contribuirono a portare a morte il C. ...".
Pertanto, poiché le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee
interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa in una
motivazione, in fatto, immune da vizi logici, il giudizio critico e valutativo circa il positivo accertamento,
"con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale", dell'esistenza del nesso di condizionamento
necessario fra la condotta (prevalentemente omissiva) del medico e la morte del paziente resta incensurabile
nel giudizio di legittimità e i rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento.
11. - L'ordinanza della Sezione remittente dà atto che il delitto di omicidio colposo per il quale si procede è
estinto per prescrizione, in quanto il decesso del C. risale al 22 aprile 1993 ed è quindi ampiamente trascorso
il termine di sette anni e sei mesi. Da un lato, l'accertamento della causa estintiva del reato si palesa
prioritario e immediatamente operativo rispetto alla questione in rito della nullità "relativa" dei verbali
stenotipici di udienza (Sez. Un., 28.11.2001, Cremonese, rv 220511; Sez. Un., 27.2.2002, Conti, rv. 221403),
nonché rispetto alle invero generiche e subvalenti censure del ricorrente circa pretesi vizi motivazionali

14
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

dell'impugnata sentenza, in punto di direzione della divisione ospedaliera e titolarità della posizione di
garanzia, di colpa professionale e di dosimetria della pena.
D'altra parte, la compiuta valutazione critica, con esito negativo, del più serio e argomentato motivo di
gravame, riguardante l'affermazione di responsabilità dell'imputato quanto alla prova dell'effettivo nesso di
causalità fra le condotte - prevalentemente omissive - addebitategli e l'evento morte del paziente, consente a
questa Corte, nell'annullare senza rinvio la sentenza impugnata in conseguenza dell'avvenuta estinzione del
reato per prescrizione, di confermarne (ai sensi dell'art. 578 c.p.p. e secondo la consolidata giurisprudenza di
legittimità) le statuizioni relative ai capi concernenti gli interessi civili: e cioè, la condanna generica
dell'imputato al risarcimento del danno, nonché al pagamento di una somma liquidata a titolo di
provvisionale e delle spese di costituzione e difesa a favore della parte civile.

P.Q.M.

1. La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per
essere il reato estinto per prescrizione; conferma le statuizioni concernenti gli interessi civili.
Così deliberato il 10 luglio 2002.

*** *** ***

II.4. La responsabilità nell’attività medica in equipe

Cass. pen., Sez. IV, 12 luglio 2006, n. 33619

Fatto Diritto

Il Tribunale di Cosenza condannava B.R. e I. U. alla pena ritenuta di giustizia per aver colposamente
cagionato, nella loro qualità di medici presso l'ospedale civile di (OMISSIS), la morte di M.M.A., nel corso
di un intervento di parto cesareo, in particolare per aver entrambi errato la manovra di intubazione a seguito
di anestesia generale introducendo per due volte la cannula nell'esofago invece che in trachea e determinando
così anossia prolungata con exitus (evento in (OMISSIS)).
A seguito di gravame ritualmente proposto nell'interesse di B. e I., la Corte d'Appello di Catanzaro
dichiarava inammissibile l'impugnazione proposta dal B. - sull'asserito rilievo dell'inosservanza di talune
formalità previste dal codice di rito a pena di inammissibilità - e, quanto a I., confermava l'impugnata
decisione, motivando il proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi:
a) era infondata l'eccezione di prescrizione del reato posto che il decorso del relativo termine aveva subito
taluni periodi di sospensione, per un tempo complessivo di oltre 18 mesi, in conseguenza di rinvii disposti su
richiesta della difesa di I. stesso per impedimento del difensore, nonchè (dal (OMISSIS) al (OMISSIS)) per
l'eventuale esercizio della facoltà di avvalersi del patteggiamento "allargato" ai sensi della L. n. 134 del
2003;
b) alla visita anestesiologica cui la M. si era sottoposta in vista dell'intervento, non erano emerse
controindicazioni di sorta;
c) in occasione dell'intervento di parto cesareo la paziente aveva manifestato i primi sintomi di sofferenza da
ipossigenazione dopo l'intubazione necessaria a garantire l'ossigeno, tanto da indurre i sanitari ad una nuova
introduzione del tubo nella trachea;
d) nonostante il secondo tentativo la situazione era degenerata in arresto cardiaco che aveva portato al
decesso della paziente; e) dalla consulenza tecnica disposta dal P.M. e dalla perizia autoptica era emerso che
il decesso era stato determinato da prolungata anossia conseguente a mancata intubazione: dato conforme
alle risultanze della cartella clinica, dell'esame istopatologico e degli elementi valutativi acquisiti in
occasione delle deposizioni dei vari testimoni escussi (in particolare, tra i vari elementi, la presenza di
sangue di colore scuro - e quindi scarsamente ossigenato - pochi minuti dopo la prima intubazione);
f) l'individuazione della causa della morte nell'errato inserimento del tubo endotracheale poteva dirsi quale
dato acquisito e non revocabile in dubbio;
g) lo stato di salute del neonato appariva elemento poco probante per escludere il difetto di ossigenazione
della madre posto che il chirurgo aveva provveduto pochissimi minuti dopo la prima intubazione all'apertura
della fascia addominale ed alla rapida estrazione del feto: dunque, stante la rapidità del parto, il feto aveva

15
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

potuto godere di autonomi meccanismi di compensazione idonei ad ovviare alle carenze improvvise della
madre (mentre il bambino era stato portato alla luce in buona salute);
h) appariva priva di pregio la tesi difensiva dello I., secondo cui questi avrebbe svolto un ruolo del tutto
marginale nella vicenda mentre responsabile dell'intervento sarebbe stato il B.; la Corte distrettuale
evidenziava che secondo l'indirizzo consolidato delineatosi in materia nella giurisprudenza di legittimità, nel
caso di interventi in "equipe" ciascun sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e
perizia connesse alle mansioni specificamente ed effettivamente svolte, ma deve costituire anche una sorta di
garanzia per la condotta degli altri componenti e porre quindi rimedio agli eventuali errori altrui, purché
siano evidenti per un professionista medio e non settoriali di una specifica disciplina estranea alle sue
cognizioni; i) nella concreta fattispecie si era trattato di errori piuttosto banali e comunque relativi alla
comune attività di anestesista dei due imputati: in una prima fase, relativa all'intubazione - errata - da parte
del B., lo I., procedendo all'auscultazione, con il fonendoscopio, del torace della paziente, non si era accorto
dell'errore del collega ed aveva dato il proprio beneplacito all'inizio dell'intervento; nella seconda fase era
stato personalmente lo I. a procedere all'intubazione;
l) lo I. aveva partecipato dunque attivamente alle due fasi dell'anestesia, entrambe caratterizzate da manovre
errate;
m) risultava priva di fondamento l'eccezione di violazione del principio di correlazione tra la contestazione e
la sentenza, avendo l'imputazione mossa allo I. fatto espresso riferimento alla errata manovra di intubazione
costituita dall'avere introdotto per due volte la cannula nell'esofago invece che nella trachea;
n) alcuna incidenza avevano avuto le condizioni fisiche della M., risultando dagli atti che la donna non
presentava tracce di patologie preesistenti che potessero aver contribuito per via organica alla
ipossigenazione, ed aveva caratteristiche strutturali (conformazione del collo, diametro boccale, distanza
delle corde vocali) del tutto normali ed idonee a consentire un'agevole, intubazione, come peraltro
confermato anche dalla visita preanestesiologica che non aveva evidenziato alcuna anomalia.
Hanno proposto ricorso per Cassazione lo I. ed il B..
(Omissis)
Le censure dedotte dallo I. possono cosi sintetizzarsi:
1) asserita violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza;
2) la Corte d'Appello avrebbe errato nel computo dei periodi di sospensione del decorso della prescrizione
avendo calcolato anche il periodo relativo al rinvio richiesto dalla parte ai sensi della L. n. 134 del 2003;
3) vizio motivazionale in ordine alla ritenuta colpevolezza dello I. poichè questi sarebbe intervenuto dopo la
comparsa del sangue scuro - segno di rilevante anossia - e quindi allorquando la paziente doveva considerarsi
già deceduta.

MOTIVI DELLA DECISIONE Il Collegio rileva l'inammissibilità del gravame per i motivi di seguito
precisati. La doglianza relativa all'omessa correlazione tra accusa contestata e sentenza è manifestamente
infondata, giacché, secondo giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. sez. un. 22 ottobre 1996 n. 16 rv.
205619), per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad
un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne
consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo
e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perchè, vertendosi in materia di garanzie e
di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto
a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione: nel caso in esame
l'affermazione di responsabilità dello I. risulta basata sull'imperita auscultazione polmonare nella prima
intubazione eseguita dal B. e sull'errata intubazione effettuata una seconda volta dallo I. personalmente,
sicchè si tratta di operazioni concernenti la stessa attività (intubazione), cui si riferisce il capo di
imputazione.
A ciò aggiungasi che uniforme giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. 4^, 21 giugno 2004 n. 27851 rv.
229071, fra le più recenti) afferma che nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo d'imputazione
sono stati contestati elementi "generici" e "specifici" di colpa, non sussiste violazione del principio di
correlazione tra sentenza ed accusa nel caso in cui il giudice abbia affermato la responsabilità dell'imputato
per un'ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata; infatti, il riferimento alla colpa generica (nella
concreta fattispecie con l'indicazione dell'imperizia) evidenzia che la contestazione riguarda la condotta
dell'imputato globalmente considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti
del comportamento tenuto in occasione dell'evento di cui è chiamato a rispondere. Parimenti destituita di

16
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

qualsiasi fondamento risulta la censura relativa alla ritenuta insussistenza dei presupposti per la declaratoria
di prescrizione. Appare infatti esatto il computo delle sospensioni del termine prescrizionale (Omissis).

Con riferimento al vizio motivazionale, va ribadito che l'indagine di legittimità sul discorso
giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di
Cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico
apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza
delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento, o la loro
rispondenza alle acquisizioni processuali (tranne che si verta nell'ipotesi introdotta con la L. n. 46 del 2006,
estranea ai motivi enunciati con il ricorso).
L'illogicità della motivazione, come vizio denunciarle, deve essere di spessore tale da risultare percepibile
"ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza,
restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se
non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (Cass. sez. un. 16
dicembre 1999 n. 24 rv. 214794).
La Corte territoriale ha dimostrato in maniera ineccepibile come la responsabilità del decesso sia ascrivibile
allo I.. Infatti, i giudici di seconda istanza, rispondendo a tutte le doglianze mosse, hanno evidenziato che
l'annerimento del sangue, constatato subito dopo l'inizio dell'intervento, fu il sintomo iniziale della
sofferenza acuta da ipossigenazione; ed hanno altresì sottolineato che, in materia di colpa professionale di
"equipe", ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse
alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma deve anche conoscere e valutare le attività degli altri
componenti dell'"equipe" in modo da porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri, purché
siano evidenti per un professionista medio, giacché le varie operazioni effettuate convergono verso un
unico risultato finale; la Corte d'Appello non ha mancato infine di precisare che, nella concreta fattispecie,
si è trattato di errori piuttosto banali e comunque relativi proprio alla attività di anestesista dello I.. Questi
non si è avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dal B., ed ha provveduto ad effettuare la
seconda, erronea; sicché "ha partecipato attivamente alle due fasi della anestesia, entrambe errate" (per come
si legge testualmente nell'impugnata sentenza); ciò costituisce elemento tranciante rispetto all'affermazione
dello I. secondo cui questi sarebbe intervenuto solo allorquando si era già verificato il decesso della M.
(affermazione peraltro priva di qualsiasi fondamento alla luce di quanto ritenuto accertato in sede di merito
dalla Corte territoriale: quest'ultima ha precisato, infatti, che la situazione degenerò in arresto cardiaco dopo
la seconda introduzione del tubo nella trachea della M.).
Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente (peraltro con argomentazioni generiche ed assertive), il
convincimento espresso dalla Corte distrettuale si pone anche del tutto in sintonia con i principi enunciati in
materia da questa Corte a Sezioni Unite (Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese): si è trattato infatti di un
banalissimo intervento di taglio cesareo, eseguito su persona del tutto sana e priva di controindicazioni alla
anestesia, deceduta soltanto a causa di un'errata manovra di intubazione, posta in essere dallo I. per le ragioni
già illustrate. Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali, nonché (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a
colpa, del ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7 - 13 giugno 2000) al versamento a favore
della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorre al pagamento delle spese processuali e della
somma di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 12 luglio 2006.
Depositato in Cancelleria il 6 ottobre 2006

*** *** ***

II.5. Attività medica e consenso informato tra omicidio colposo e preterintenzionale

Cass. pen., Sez. IV, 16 gennaio 2008, n. 11335

17
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

Fatto-Diritto

G.A., nella qualità di parte civile, il Procuratore della Repubblica e il Procuratore generale di Roma
propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il GIP presso il
Tribunale di Roma dichiarava non luogo a procedere nei confronti di H.C. in ordine agli episodi relativi ai
punti 1, 2, 5, 7, 8 e 10 a lui contestati con il capo a), perchè qualificati i fatti come previsti e puniti dall'art.
590 c.p., l'azione penale non doveva essere iniziata per mancanza di querela, nonché non luogo a procedere
in ordine agli episodi di cui ai punti 6 e 9 del suddetto capo a) perchè non punibile ex art. 50 c.p.;
I sanitari erano stati chiamati a rispondere dei reati in questione in qualità di medici chirurghi presso la 4^
Divisione di Chirurgia dell'ospedale (OMISSIS) di Roma ove le persone indicate in atti nel periodo 1999-
2001 erano state ricoverate e sottoposte ad intervento chirurgico.
(Omissis)
In particolare, dopo lo svolgimento di consulenze medico legali e l'audizione degli imputati, era stata
formulata una complessa imputazione a carico di H.C., con riferimento a tutti gli episodi descritti sub il capo
a) della rubrica, per i reati di lesioni dolose aggravate ex artt. 582 e 583 c.p., laddove i pazienti erano
sopravvissuti, e di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p., nei casi in cui invece vi era stato il decesso
come conseguenza dell'intervento chirurgico.
La tesi accusatoria partiva dalla premessa che, in via generale, era individuabile l'elemento materiale del
reato di lesioni in ogni trattamento chirurgico in quanto caratterizzato da un taglio effettuato con il bisturi
sulla cute del paziente ma che l'ipotesi criminosa, nella quasi totalità degli interventi chirurgici, era
scriminata dal consenso dell'avente diritto ex art. 50 c.p. ad effettuare l'intervento. Per la concreta
configurabilità della esimente il consenso deve però essere libero e dato in forma consapevole, avendo piena
conoscenza il paziente dei rischi dell'intervento, e non può valere nel caso in cui comporti di fatto una
diminuzione permanente della integrità fisica o comunque atti di disposizione vietati dalla legge, in
violazione dell'art. 5 c.c..
Nei casi indicati al capo a), secondo l'impostazione accusatoria, sarebbe mancato il consenso validamente
prestato.
Inoltre, la prova del dolo dell' H., cioè della sua consapevolezza che l'intervento chirurgico avrebbe
cagionato una non necessaria menomazione dell'integrità fisica del paziente, sarebbe ricavabile dalle
accennate anomalie delle scelte chirurgiche e dalla sua nota capacità tecnica che dimostrerebbe come questi
abbia volutamente operato anche nelle situazioni in cui sapeva bene che secondo le regole della scienza
medica non avrebbe dovuto intervenire o avrebbe dovuto farlo con modalità diverse e meno invasive.
(Omissis).Il GUP affrontava la questione se possa ravvisarsi il dolo nella condotta del sanitario che abbia
operato un paziente in assenza di un consenso da questi ritualmente prestato e conclude nel senso che il dolo
potrebbe essere ritenuto sussistente solo nel caso in cui il sanitario abbia agito nella consapevolezza che il
suo intervento avrebbe prodotto una non necessaria menomazione dell'integrità fisica o psichica del paziente.
Da queste premesse, il GUP, nell'escludere il dolo nei termini suddetti, per taluno degli episodi, riqualificati
ex art. 590 c.p., pronunciava sentenza di non luogo a procedere per mancanza di querela, per altri, invece,
pronunciava sentenza di non luogo a procedere per essere i fatti non punibili ex art. 50 c.p., ravvisandosi
all'evidenza un consenso dei pazienti liberamente e ritualmente prestato.
(Omissis)
Il Procuratore della Repubblica di Roma, censura la pronuncia liberatoria del GUP, relativa al capo a).
Con il primo motivo contesta la ricostruzione del consenso informato operata dal giudicante,
evidenziando che la mancanza del consenso del paziente o l'invalidità del consenso medesimo
determinerebbe la configurabilità del dolo.
Nella specie, si sostiene, si verterebbe in ipotesi caratterizzate da consenso invalidamente prestato,
attraverso l'utilizzo di moduli prestampati il cui contenuto è trascritto in ricorso del tutto generici e
non contenenti alcuna informazione sulle patologie ed i rispettivi interventi.
Secondo l'impostazione del ricorrente, il GUP avrebbe fatto ricorso ad una concezione riduttiva del consenso
del paziente, identificandolo erroneamente con quello di cui all'art. 50 c.p., mentre lo stesso afferisce in realtà
alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, oltre che al diritto al rispetto della propria
integralità corporale, quale espressione dei diritti alla libertà personale ed alla salute proclamati inviolabili
dagli artt. 13 e 32 della Costituzione.
La pronuncia sarebbe, pertanto, erronea a manifestamente illogica laddove dichiara non luogo a procedere
per mancanza di querela con riferimento agli episodi relativi ai punti 1, 2, 5, 7, 8 e 10 perchè qualificati i fatti
come previsti dall'art. 590 c.p. l'azione non doveva essere iniziata per mancanza di querela e, con riferimento

18
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

ai casi di cui a punti 6 e 9, non luogo a procedere per essere i fatti non punibili ex art. 50 c.p., ravvisandosi
un consenso dei pazienti liberamente e ritualmente prestato.
Con riferimento a tali due ultimi episodi, che hanno riguardato i pazienti B. (ricoverato con diagnosi di
carcinoma gastrico e sottoposto ad intervento chirurgico nel corso del quale si procedeva alla scelta di
allargamento del campo operatorio con l'asportazione in blocco del pezzo comprendente moncone gastrico,
colon traverso, milza coda del pancreas) e Ci. (ricoverato con la diagnosi di carcinoma della colecisti e
sottoposto a duodenocefalopancreasectomia e mesoepatectomia), si sostiene che la sottoscrizione di moduli,
in cui non viene indicata la patologia ed il tipo di intervento (in entrambi casi definito sperimentale
dall'imputato H. e tale ritenuti dal giudice) non può essere ritenuto di per sé sufficiente a fornire la prova del
consenso e della adeguata informazione.Proprio la natura sperimentale di tali interventi avrebbe richiesto una
ampia ed esaustiva informazione della patologia e sulle scelte terapeutiche, spettando al paziente il diritto di
scegliere tra una possibile terapia palliativa ed un intervento estremo e/o sperimentale.
Essendo il consenso viziato, nessun onere probatorio incombeva al pubblico ministero, come, invece,
sostenuto in sentenza, circa la consapevolezza o meno dei pazienti, all'atto della firma del modulo, in ordine
alla prestazione del consenso.
In entrambi i casi, comunque, il consenso informato, anche nella ipotesi di riconducibilità delle fattispecie a
quelle di omicidio colposo, non avrebbe avuto efficacia scriminante, in quanto risulterebbe viziato dallo
stesso comportamento dell'agente.
(Omissis). I difensori sottolineano al riguardo che in nessuno dei casi esaminati è risultato il dissenso al
trattamento medico chirurgico e, facendo riferimento alla sentenza della 1^ Sezione di questa Corte del 29
maggio 2002, Volterrani - che sottolineava la legittimazione del medico a sottoporre il paziente al
trattamento che giudica necessario per la salvaguardia della sua salute - escludono la configurabilità
dell'ipotesi dell'omicidio preterintenzionale, dal momento che tale ultima fattispecie in ambito di attività
medica sarebbe ravvisabile solo ove il chirurgo procurasse ferite al corpo del paziente per gratuita malvagità
o per odio personale nei suoi confronti.
Premessa, pertanto, l'intrinseca legittimità penale dell'attività medico chirurgica, ove sussista l'indicazione
terapeutica e, come nel caso in esame, l'asserita adeguatezza e correttezza di esecuzione, il risultato
eventualmente infausto, non potrebbe essere ascritto alla responsabilità del medico, poiché esso sarebbe la
conseguenza inevitabile della imperfezione dell'arte medica.
In ogni caso, nelle fattispecie in esame, secondo la difesa, sarebbe applicabile la scriminante dello stato di
necessità in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o di altre ipotesi previste dalla legge, le quali possono
rendere configurabili cause di giustificazioni diverse dal consenso dell'avente diritto, come anche
riconosciuto dalla sentenza di questa Corte, Sezione Massimo.
Si chiede il rigetto dei ricorsi anche con riferimento ai reati di omicidio colposo, ponendosi la sentenza
impugnata in linea con la giurisprudenza della S.C. in relazione al nesso di causalità.
(Omissis)

Passando alle altre questioni prospettate nel ricorso del Procuratore della Repubblica, il primo tema da
affrontare, in ordine logico sistematico, è quello della configurabilità dell'omicidio preterintenzionale
nel caso di attività medico chirurgica, al quale è strettamente connesso quello dell'ambito di rilevanza
del consenso del paziente.
Sotto il primo profilo, come è noto, in linea generale, per la configurabilità dell'omicidio
preterintenzionale è necessario che l'evento morte consegua ad un comportamento volontario diretto
ad aggredire l'altrui persona sì da produrgli, nelle intenzioni dell'agente, una percossa o una lesione.
In altri termini, l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale consiste nella volontarietà delle
percosse o delle lesioni alle quali consegue la morte dell'aggredito, come evento non voluto, neppure
nella forma eventuale ed indiretta della previsione del rischio (cfr. Sezione 5^, 13 maggio 2004, Tihenea
ed altro; Sezione 5^, 7 febbraio 2002, Sorvillo ed altro; Sezione 5^, 27 ottobre 2000, Sillitti; Sezione 1^, 10
gennaio 2000, Saetta), giacché ove l'evento mortale fosse stato previsto anche solo come probabile, con
accettazione del rischio del relativo accadimento, l'agente ne risponderebbe a titolo di omicidio
volontario (art. 575 c.p.), sotto il profilo del dolo indiretto od eventuale (tra le tante, v. anche Sezione 1^,
18 dicembre 2003, Venturini; Sezione 1^, 2 ottobre 2003, Pepe; Sezione 1^, 13 maggio 2003, Rossini ed
altri;
Sezione 1^, 20 maggio 2001, Milici; Sezione 1^, 7 luglio 2000, Falorni; nonché, efficacemente, Sezione 1^,
19 dicembre 2002, Fortunato ed altro, per la quale l'omicidio preterintenzionale si differenzia da quello
volontario perchè vi fa difetto la volontà omicida, non solo sotto la forma del dolo diretto, ma anche sotto

19
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

quella del dolo alternativo, indiretto od eventuale, conseguendone che sussisterà l'omicidio volontario, e non
quello preterintenzionale, nel caso in cui la condotta dell'agente sia stata tale da dimostrare, alla stregua delle
regole della comune esperienza, la consapevole accettazione anche della sola eventualità che da detta
condotta potesse derivare la morte del soggetto passivo).
La ricollegabilità dell'omicidio preterintenzionale ad una condotta materiale dolosamente indirizzata a
commettere i reati di percosse o di lesioni, esclude, ad avviso di questo Collegio, la fondatezza della
tesi, pure divisata in giurisprudenza, secondo cui il medico chirurgo, il quale, in assenza di necessità ed
urgenze terapeutiche, abbia sottoposto il paziente ad un intervento operatorio di più grande entità,
rispetto a quello meno cruento e comunque di lieve entità del quale lo abbia informato
preventivamente e che solo sia stato da questi consentito, commetterebbe il reato di lesioni volontarie,
irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché
egli risponderebbe (addirittura) del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni sia
derivata la morte (v.: in questi termini, Sezione 5^, 21 aprile 1992, Massimo).
Ritiene il Collegio che la tesi prospettata dalla sentenza Massimo non sia condivisibile ove si consideri,
assorbentemente, che per configurare l'omicidio preterintenzionale sarebbe pur sempre necessario che
il reato di lesioni volontarie sia stato commesso con il dolo diretto intenzionale ("atti diretti a
commettere..."):
ciò che è francamente insostenibile nei confronti di un sanitario il quale, salve situazioni anomala e distorte
(sulle quali v. infra), si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è
concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni ricostruito nei termini di cui si è detto.
In altri e decisivi termini, deve escludersi l'omicidio preterintenzionale proprio perchè non è possibile
sostenere che il medico, il quale agisca in assenza di consenso espresso del paziente, sia mosso dalla
consapevole intenzione di provocare un'alterazione lesiva dell'integrità fisica della persona offesa e, quindi,
dalla consapevole intenzione di porre in essere "atti diretti a" commettere il reato di cui all'art. 582 c.p..
Il Collegio condivide, invece, l'orientamento espresso dalla successiva sentenza, Sezione 4^, 9 marzo
2001, Barese, che, pur non escludendo in assoluto (per es. nei casi in cui la morte consegua ad una
mutilazione procurata in assenza di qualsiasi necessità o di menomazione inferta, con esito mortale,
per scopi esclusivamente scientifici) la possibilità di ipotizzare la fattispecie dell'omicidio
preterintenzionale, richiede, perchè possa ritenersi verificata questa ipotesi, l'accertamento della
esistenza di un dolo dell'agente che possa essere qualificato dolo diretto e non solo eventuale e
intenzionalmente orientato a provocare la lesione della integrità fisica del paziente;in mancanza, il
delitto può essere ritenuto colposo, ove ne sussistano i presupposti.
Ciò premesso, venendo a questo punto alla problematica del consenso informato del paziente, ne vanno
piuttosto chiariti il contenuto e la rilevanza ai fini dell'apprezzamento della condotta del sanitario.
Per quanto concerne la questione del consenso, va, innanzitutto, rilevato che il consenso, per
legittimare il trattamento terapeutico, deve essere "informato", cioè espresso a seguito di una
informazione completa, da parte del medico, dei possibili effetti negativi della terapia o intervento
chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità degli effetti del trattamento.
Con riferimento all'ambito di rilevanza del consenso, affrontato più volte anche in sede civile (v., da ultimo,
Sezione 3^, 14 marzo 2006, n. 5444), questo Collegio condivide l'impostazione secondo la quale dalla
"autolegittimazione" dell'attività medica non può trarsi la convinzione che il medico possa, di regola ed al di
fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado per le sue condizioni di prestare un
qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di
cui all'art. 54 c.p.) intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente.
In tal senso, la sentenza pronunciata da questa stessa Sezione in data 11 luglio 2001, Firenzani,
condivisibilmente sottolinea che la legittimità di per sé dell'attività medica richiede per la sua validità e
concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto
di liceità del trattamento medico chirurgico.
Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà
fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà
personale proclamata inviolabile dall'art. 13 Cost..
Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe
alcun rilievo la volontà dell'ammalato, che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico
potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza;
appare, invece, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare,
situazioni soggettive, queste, derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le quali,

20
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento
sanitario deve sottoporsi.
Il principio è stato ribadito di recente dalla sentenza della Sezione 6^, 14 febbraio 2006, Caneschi, secondo la
quale l'attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità la manifestazione del consenso del
paziente, che non si identifica con quello di cui all'art. 50 c.p., ma costituisce un presupposto di liceità
del trattamento.
Il consenso informato ha, come contenuto concreto, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità
di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di
interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale (v. Cass. civile, Sezione 3^, 4 ottobre 2007,
n. 21748).
Tale conclusione, fondata sul rispetto del diritto del singolo alla salute, tutelato dall'art. 32 Costituzione (per
il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge), sta a
significare che il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del
bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale
autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre
rispettata dal sanitario (cfr., del resto, anche Sezione 4^, 4 luglio 2005, PM in proc. Da Re, dove in linea con
questi principi si affronta la questione del "rifiuto" da parte del paziente del trattamento sanitario).
E però dal rilievo così attribuito al consenso del paziente non può farsi discendere la conseguenza che
dall'intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido si possa
sempre profilare la responsabilità a titolo di omicidio preterintenzionale, in caso di esito letale, ovvero
a titolo di lesioni volontarie.
Ciò per le ragioni sopra evidenziate del contenuto dell'elemento soggettivo proprio di tali reati, che è di
norma non configurabile rispetto all'attività del medico (se non nelle limitate ipotesi di cui si è detto e di
cui qui difettano, in fatto, già nella stessa prospettazione delle parti, i presupposti).
In altri termini, venendo ai casi in esame, pur ammettendo che il consenso sia stato prestato in maniera
grossolana e non satisfattiva, giacché i moduli - il cui contenuto è stato trascritto nei ricorsi- paiono
all'evidenza oltre modo generici e non in grado di dimostrare l'avvenuta consapevolezza del destinatario
consenziente, non può però condividersi, in linea di principio, per quanto sopra esposto, l'assunto che
vorrebbe inquadrare i fatti sub specie dei reati di lesioni volontarie e di omicidio preterintenzionale.
Vale in proposito quanto sopra esposto allorché si è evidenziato che il consenso eventualmente invalido
perchè non consapevolmente prestato non può ex se importare l'addebito a titolo di dolo.
Qui, del resto, non paiono apprezzarsi – né sono evidenziaste sul punto palesi illogicità motivazionali,
sconfinanti nel travisamento del fatto – le eccezionali condizioni in forza delle quali come supra evidenziato
potrebbe fondarsi un addebito a titolo di dolo a carico del sanitario.
Corretta in questa prospettiva è la soluzione liberatoria per i fatti improcedibili derubricati ex art. 590 c.p.,
con il conseguente rigetto del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Roma su tale capo.
(Omissis)

P.Q.M.

dichiara inammissibile l’appello proposto dal PG presso la Corte di appello di Roma;


annulla la sentenza impugnata limitatamente ai reati di cui al capo a), nn. 6 e 9 nonché ai capi b) e d) della
rubrica con rinvio al Tribunale di Roma.
Rigetta nel resto il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2008.

*** *** ***

II.6. Omicidio preterintenzionale e morte come conseguenza di altro delitto: i casi dello spacciatore
di droga

II.6.1. Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2004 , n. 13987

21
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

Fatto Diritto

M. E. era condannato dalla corte d'assise di Locri per i delitti di cui agli art. 584 cp e 82 d.P.R n. 309/90,
per aver cagionato la morte di R. F. (carabiniere in servizio presso la Compagnia di...omissis...),
praticandogli una o più iniezioni di cocaina, previa induzione dello stesso all'assunzione. La Corte di assise
d'appello di Reggio Calabria assolveva l'imputato dalla seconda imputazione e riduceva la pena.
L'assunzione di droga rivelatasi letale era stata preceduta, secondo il medico legale, da altra per via nasale,
oltre che dal consumo di uno o più "spinelli". La vittima aveva preso a drogarsi da circa due mesi, fornendosi
dal M., che spacciava in casa.
I giudici di merito consideravano decisive le testimonianze di M. E., che aveva visto il fratello E. praticare
l'iniezione, nonché di M. E. e C. D. (rispettivamente zia e cugino dell'imputato).
- Ricorrono i difensori, che deducono:
a) l'erronea applicazione dell'art. 584 cp.
L'assunzione di droga non genera malattia ex art. 582 cp, onde non sussiste né la materialità né il dolo delle
lesioni. Erronea sarebbe pure l'esclusione della esimente di cui all' art. 50 cp, sulla base del richiamo all'art. 5
dipp. prel. c.c.;
b) il vizio di motivazione, poiché l'imputato è stato assolto dal resto sub B), onde appare contraddittorio
addebitargli di aver praticato l'endovena.
Il R., contrariamente a quanto asserito dalla corte di merito, era consumatore di droghe pesanti e non aveva
bisogno dell'aiuto materiale del M., poiché la droga già assunta prima dell'iniezione aveva rimosso ogni fobia
o timore.
- La corte reggina incorre nel travisamento di fatto quando afferma, in vistoso contrasto con le dichiarazioni
del consulente del p.m., che i "buchi" (ossia le tracce delle iniezioni) rinvenuti sul braccio del R. sono stati
prodotti il giorno stesso in cui si è verificato il decesso.
Ed ancora: la corte territoriale dimentica che M. E. non è stata testimone diretto di quanto accaduto e compie
mere illazioni quando ipotizza che M. E., sia stata oggetto di violenza morale nell'ambito della cerchia
familiare per aver fornito agli inquirenti elementi che compromettevano la posizione del fratello.
- Contraddittoria appare la sentenza anche laddove non riconosce ed applica l'attenuante di cui allo art. 62, n.
5 c.p., pur riscontrandone gli estremi fattuali.
- Le censure sono prive di fondamento.
Il delitto di cui qui all'art. 582 c.p. può essere commesso con qualunque mezzo idoneo e, quindi, anche
introducendo nelle vene di altra persona sostanze stupefacenti mediante iniezioni, in quanto lo
stupefacente, così iniettato, provoca una alterazione dello stato fisico e psichico. Ne consegue che deve
rispondere di omicidio preterintenzionale colui che inietti a una persona per via endovena dell'eroina o
della cocaina cagionandone la morte, a nulla rilevando il consenso della vittima (cass. sez. V, 6.3.03, n.
19838. S.; id. 4.3.92, n. 5544, C.; id., 26.6.85, n. 9410, O.; sez. I, cc. 14.11.88, n.2538, G.).
Ineccepibile, pertanto, è la qualificazione giuridica del reato sub A.
- Alcuna contraddizione è dato ravvisare fra l'assoluzione dal delitto di cui all'art. 82 d.P.R. n.309/90 e la
affermazione di colpevolezza in ordine all'omicidio preterintenzionale. A prescindere dalla considerazione
che ben gracile appare la motivazione assolutoria, nella misura in qui non risultano esplorati, come dovuto, i
rapporti fra l'imputato e il R., va rimarcato che essa non contraddice in alcun modo la circostanza, in atti
acclarata e ripetutamente ribadita dal giudice di merito, secondo la quale il M. praticò al R. l'endovena
rivelatasi letale.
Valgono al riguardo le emergenze offerte dalle deposizioni dei congiunti dello stesso M., da cui si evince
anche - malgrado le confutazioni difensive - che la M. E. fu oggetto di ostracismo o isolamento nell' ambito
del gruppo familiare, che intendeva fare pressioni su di lei, allo scopo di farla desistere da ogni dichiarazione
che potesse risultare pregiudizievole per il fratello E..
E nello stesso solco vanno disattese le censure rivolte alla motivazione in riferimento alle tracce delle
iniezioni rinvenute sul braccio del R., di cui la corte di merito ha dato ampiamente conto. Né va taciuto che
la teste L. assume di aver constatato più volte l'assenza di segni di punture da iniezione, sulle braccia del
giovane R..
- Vero è - come si evince dalla motivazione del provvedimento impugnato - che la p.o. non incontrò
occasionalmente un amico che si piegò, dietro sua richiesta alla penosa bisogna (la pratica dell'iniezione), ma
si recò deliberatamente dal M., che spacciava notoriamente protetto dalle mura domestiche.
- Quanto al dedotto travisamento, va ribadito, se mai ve ne fosse bisogno, che l'illogicità della motivazione
censurabile a norma dell'art. 606, c., lett e) cpp., è quella evidente, di spessore tale da risultare percepibile

22
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

"ictu oculi", in quanto l'indagine di legittimità sulla trama giustificativa della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato della S.C. limitarsi a riscontrare l'esistenza di un logico apparato
argomentativo, senza possibilità di verificare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali
(v., da ultimo, S.U. 10.12.03., n.18).
Nella specie, per contro, non di travisamento è a parlare, bensì di una lettura alternativa delle risultanze di
prova, in una prospettiva favorevole al ricorrente, che tradisce lo sconfinamento delle doglianze nell'ambito
delle censure in fatto.
Corretta appare pure l'utilizzo della deposizione della M. E., ove si pensi all'attendibilità della stessa e della
fonte (M. E.), oltre che ai numerosi riscontri di indubbio spessore, secondo l'apprezzamento fatto dal giudice
di merito.
Inammissibile, ai sensi dell'art. 606, c. 3 cpp., è la censura relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante
configurata dall'art. 62, n. 5 cp., siccome non dedotta coi motivi di appello.
- Il ricorso va rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.


Così deciso in Roma il13.2.04

*** *** ***

II.6.2. Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2006, n. 14302

Fatto-Diritto

Con sentenza 05/12/2001, il Tribunale di Penne - sezione distaccata di Pescara - ha condannato G.M. alla
complessiva pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione, oltre pene accessorie e risarcimento del danno e
provvisionale in favore delle parti civili, quale responsabile del delitto di cui all'art. 586 cod. pen. (commesso
in data (OMISSIS)), per avere egli ceduto un quantitativo di eroina a D.A., in una percepibile condizione di
agitazione da crisi di astinenza, che, assunta la sostanza subito dopo la consegna, era deceduta "per
overdose".
Investita - del gravame dell'imputato, la Corte di Appello di L'Aquila con sentenza 15/06/2005, ha
confermato il giudizio di colpevolezza e tuttavia, riconosciuto il concorso formale tra i delitti e concesse le
attenuanti generiche equivalenti all'aggravante di cui all'art. 586 cod. pen., (con riferimento all'aumento di
pena ivi previsto) rideterminava la pena (disponendone la sospensione) in anni due e mesi sei di reclusione.
L'imputato propone ricorso per Cassazione, a mezzo del difensore, deducendo: 1) mancanza o manifesta
illogicità della motivazione, privata della valutazione delle dichiarazioni, di segno liberatorio, rese dai
testimoni P. e Po. in sede di incidente probatorio; 2) inosservanza o erronea applicazione dell'art. 40 cod.
pen., in punto di nesso causale fra la cessione dello stupefacente e la morte della D.; 3) inosservanza o
erronea applicazione dell'art. 589 cod. pen., con riferimento alla consapevolezza, in capo all'agente, della
condizione di alterazione della D. e, quindi, di prevedibilità dell'evento. Il ricorso non può trovare
accoglimento.
Infondato, invero, è il primo motivo di gravame, posto che dalla lettura della sentenza si evince chiaramente,
anzitutto, come alle dichiarazioni di segno liberatorio in sede di indagini, volte ad accreditare la tesi che la D.
avesse acquistato l'eroina "mortale" da altri ed in un momento successivo all'incontro con l'imputato, sono
state per nulla illogicamente prescelte quelle di segno opposto rese al dibattimento dal teste L.,
particolarmente attendibili sia perchè esattamente descrittive dell'episodio, direttamente percepito quale teste
oculare, di cessione della sostanza da parte dell'imputato, sia perchè corredate della spiegazione che la
"intermedia" ritrattazione della primitiva narrazione accusatoria era il frutto del timore di ritorsioni;
circostanza, questa seconda, riscontrata già dal primo giudice allorché ha negato reale valenza probatoria alle
dichiarazioni P. e Po. in quanto inquinate dagli "avvertimenti" loro dati dall'imputato perchè rendessero agli
organi di indagine d una versione a lui favorevole.

La corrispondenza al vero del fatto di cessione dello stupefacente da parte dell'imputato, del resto, risulta
esaustivamente argomentata con espresso rinvio allo svilupparsi degli eventi in termini temporali,

23
SEMINARIO DI DIRITTO PENALE II PARTE – PROF.SSA SILVIA LARIZZA – A. A. 2007/2008
Le altre forme di imputazione soggettiva dell’omicidio: colpa, preterintenzione e art. 586 – Dott.ssa Laura Mandelli – 10 aprile 2008

indiscutibilmente accertati già in primo grado, attestativi dell'acquisto della sostanza e, in rapida successione,
dell'acquisto in farmacia delle siringhe necessarie all'assunzione e del decesso della giovane nell'abitazione in
cui si era immediatamente dopo ritirata senza più uscirne, sì da escludere una ulteriore ed intermedia cessione
da parte di terzi, per vero non emersa in alcun modo dalle risultanze processuali. Infondato, e riprendendo
proprio tale punto, è altresì il secondo motivo, con il quale il ricorrente assume che i secondi giudici
avrebbero tuttavia riconosciuto la concreta possibilità di una seconda assunzione di stupefacente acquistata da
altri e, cioè, di un evento idoneo a spezzare il nesso causale fra condotta ed evento.
Vero è, infatti e per contrario, che la Corte territoriale ha decisamente escluso una siffatta "concreta
possibilità" di successiva cessione; l'ipotesi, del tutto sovrabbondante e che però evidentemente non vitiat, è
stata unicamente formulata in relazione ad una precedente assunzione ("tale da farla - la donna - in uno stato
psicologico depresso al teste L. al momento dell'incontro") per concludere non illogicamente che la sostanza
ceduta dall'imputato, considerato che il decesso è avvenuto per overdose, ha agito in ogni caso come
concausa.
Infondato, infine, è anche il terzo motivo di impugnazione, con il quale si deduce che la sentenza non
fornirebbe risposta in punto di prevedibilità dell'evento letale.
Vero è, infatti, che in tema di determinazione del criterio di imputazione dell'evento morte e dell'evento
lesione, all'indirizzo giurisprudenziale che costruisce il rapporto tra delitto di base ed evento non
voluto in termini di pura e semplice causalità materiale - purché non interrotto ai sensi dell'art. 41 cpv.
cod. pen. da eccezionali fattori eziologici sopravvenuti - fra la precedente condotta dolosa e l'evento
diverso ed ulteriore, senza necessità di espletare in ordine a quest'ultimo alcuna indagine relativa
all'elemento psicologico (v., fra le tante: Cass. Sez. 2^, 15/12/1996 n. 6361, Caso; Cass. Sez. 2^, 14/02/1990
n. 7778, Bevilacqua; Cass. Sez. 6^, 04/03/1989 - 02/04/1990 n. 183885, Bodini; Cass. Sez. 4^, 19/10/1989 n.
3474, Angelelli), deve preferirsi - perchè ancorato all'indefettibile principio di colpevolezza in sintonia
con la tendenza dell'ordinamento verso il superamento delle forme di responsabilità oggettiva -
l'orientamento più avanzato del giudice di legittimità che collega la punibilità per il delitto ex art. 586
cod. pen. alla prevedibilità della morte o delle lesioni derivate dal delitto doloso, delineando, su tali
basi, una forma di responsabilità per colpa (Cass. Sez. 1^, 14/11/2002 - 10/01/2003 n. 2595, Solazzo;
Cass. Sez. 1^, 22/10/1998 n. 11055, D'Agata).
E, tuttavia, la sentenza impugnata (ed ancor meglio quella, conforme, del primo giudice) ha pur descritto la
sicura percepibilità, da parte dell'imputato, delle "visibili menomate condizioni della parte offesa"
(visibilità oggettiva che il ricorrente esclude inammissibilmente richiedendo, sul punto, una rilettura del
materiale probatorio) alla ricerca "spasmodica" della sostanza stupefacente (che, difatti, venne assunta
immediatamente dopo l'acquisto) in uno al dato accertato di sopravvenuta morte per overdose ed alla
considerazione del fatto notorio del grave rischio per la salute derivante dall'assunzione di droga
"pesante", (in ispecie allorché incida su un sistema nervoso centrale già alterato); dando, in tali termini,
adeguatamente conto di un coefficiente di prevedibilità, concreta e non astratta, del rischio connesso alla
carica di pericolosità per il bene della vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del
reato doloso di base (lo spaccio dello stupefacente).
Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato; consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle
spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.


Così deciso in Roma, nella Pubblica udienza, il 7 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2006.

24

Potrebbero piacerti anche