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1. La colpevolezza.
Concezione “normativa” e “psicologica” della colpevolezza.
I requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (artt. 42, 43, 47, 59 c.p.)
e, con riferimento ai valori della persona ed al principio di legalità di cui agli artt. 2, 3,
27 Cost., i “necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione [oltre quelli relativi
alla coscienza e volontà dell’azione] senza la previsione dei quali il fatto non può
legittimamente essere sottoposto a pena” (C. cost., n. 364/88, par. 8; n. 1085/88; n.
61/95).
Per il giudizio di responsabilità penale, gli elementi più significativi della
fattispecie tipica non possono non essere assistiti almeno dalla colpa dell’agente e
non sono suscettibili di punizione quei fatti che non risultino essere manifestazione
altresì di un “consapevole e rimproverabile contrasto, o indifferenza, con i valori
della convivenza espressi dalle norme penali” (C. cost., n. 364/88 cit., par. 13-14):
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il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 comma 1
Cost., accanto al divieto di responsabilità per fatto altrui, va interpretato come
“principio di responsabilità per fatto proprio colpevole”.
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altezza d’uomo alcuni colpi di arma da fuoco in direzione dell’inseguitore) non si
limita ad accettarne il rischio bensì accetta l’evento: il dolo in tal caso viene definito
“diretto”. La linea di demarcazione fra dolo diretto e dolo eventuale poggia dunque
sulla maggiore o minore probabilità che si avveri un determinato risultato della
condotta e, di riflesso, sulla differente conformazione della volontà del soggetto, la
quale, nella prima forma, si configura come accettazione dell’evento, e, nella seconda,
come semplice accettazione del rischio di verificazione dello stesso.
Se poi il verificarsi del risultato dell’azione criminosa é non solo accettato bensì
perseguito dall’agente come risultato della condotta, il dolo é “intenzionale”.
In tema di delitti omicidiari é stato affermato che deve qualificarsi “diretto” e non
“eventuale” quella particolare manifestazione di volontà definita “dolo alternativo”,
che sussiste allorquando l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o
l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria
(cfr., da ultimo, Cass., Sez. I, 18.3.2003, Iovino, [allegato 1]).
A differenza del dolo “generico”, il dolo “specifico” consiste nella
rappresentazione e volizione, oltre che degli elementi oggettivi della fattispecie
tipica, anche di un’ulteriore finalità normativamente tipizzata nella fattispecie
incriminatrice (ad esempio, il fine di trarre profitto nel delitto di furto).
Sembra potersi identificare con il dolo “di proposito” -opposto al dolo
“d’impeto”- la figura della premeditazione, configurata come circostanza aggravante
nei delitti di omicidio volontario ex art. 577 comma 1 n. 3 c.p. e di lesione personale
ex art. 585 comma 1 c.p., i cui elementi costitutivi sono un apprezzabile intervallo
temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso -elemento di
natura cronologica-, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di
continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine -elemento di
natura ideologica-. La prova dovrà essere necessariamente tratta da fatti estrinseci e
sintomatici, quali la causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la
predisposizione del mezzo letifero, la ricerca dell’occasione propizia, la violenza e la
reiterazione dei colpi inferti.
E’ stata altresì ritenuta configurabile in giurisprudenza la premeditazione c.d.
condizionata quando, sussistendo i necessari elementi cronologico e ideologico, e
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avendo il soggetto agente condizionato l’attuazione del progetto lesivo al mancato
verificarsi di un evento ad opera della vittima, la condizione si ponga come un
avvenimento previsto, anche se poco probabile, atto a sospendere o annullare con
efficacia risolutiva il pur preciso e fermo proposito criminoso del reo.
L’aggravante della premeditazione non é in linea di principio incompatibile con
l’accertamento del vizio parziale di mente, pur potendo però l’incompatibilità essere
in concreto rilevata in quei casi in cui il processo intellettivo o volitivo che sorregge
il proposito criminoso s’identifica con un’idea fissa ossessiva, facente parte del
quadro sintomatologico di quella determinata infermità che provoca la diminuita
imputabilità.
Il dolo di premeditazione é giudicato altresì compatibile con l’attenuante della
provocazione. Esiste invece palese inconciliabilità concettuale fra la premeditazione e
la forma del dolo eventuale.
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risultato si verifichi, nella convinzione o nella ragionevole speranza di poterlo evitare
per abilità personale o per intervento di altri fattori: si versa allora in quella più
intensa forma di colpa definita “cosciente”, aggravata dall’ “avere, nei delitti colposi,
agito nonostante la previsione dell’evento”, ai sensi dell’art. 61 n. 3 c.p.. La
distinzione fra le due forme di imputazione soggettiva appare difficoltosa sul piano
probatorio, perchè essa, nonostante l’indicato criterio dell’accettazione del rischio,
postula nella prassi l’accertamento e la valutazione degli atteggiamenti psicologici e
delle reali motivazioni della volontà dell’agente, dal contenuto spesso sfuggente e
inafferrabile per l’interprete (cfr., in giurisprudenza, il caso di scuola del
comportamento di guida connotato da manovre pericolose per l’incolumità degli altri
conducenti e dei pedoni, tenuto dall’agente confidando nelle proprie abilità di
conducente e nella convinzione di evitare le gravi conseguenze lesive, non volute
direttamente ma in realtà verificatesi in conseguenza della descritta condotta).
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determinato dall’altrui inganno”, perchè, escluso il dolo della persona ingannata
che abbia materialmente commesso il fatto, di questo “risponde chi l’ha
determinata a commetterlo” (il deceptor), residuando a carico del deceptus la
punibilità per colpa, quando il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo e
l’errore sia ascrivibile anche a sua colpa. Le componenti tipiche del dolo sono
ricondotte, in tal caso, al terzo e non al soggetto che abbia materialmente realizzato il
fatto criminoso. E il fenomeno è costruito da taluni come forma di c.d. autoria
mediata, estranea all’ambito strettamente inteso del concorso di persone nel reato, e
da altri come “ipotesi speciale di concorso di persone nel reato”.
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responsabilità oggettiva, prescindendosi da ogni indagine di carattere psicologico
sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità del medesimo.
Tale linea interpretativa determina problemi di coerenza costituzionale e
sistematica, sembrando essa non compatibile con l’insegnamento offerto dalla Corte
costituzionale in tema di “colpevolezza” con la sentenza n. 364/88 cit., laddove
afferma -paragrafo 13- a proposito della responsabilità oggettiva, che “[...] E’ da
confermare che si risponde soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per
fatto proprio non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore,
dal mero nesso di causalità materiale ma anche e soprattutto dal momento
subiettivo costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato
vietato, almeno dalla colpa in senso stretto ... Va precisato che, se nelle ipotesi di
responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo,
magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non é coperto
dal dolo o dalla colpa dell’agente -c.d. responsabilità oggettiva spuria o
impropria-, il co. 1° dell’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di
responsabilità oggettiva. Diversamente va posto il problema per la c.d.
responsabilità oggettiva pura o propria ... Ove non si ritenga di restringere la c.d.
responsabilità oggettiva pura alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo
vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta
in volta a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli
elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere coperti
almeno dalla colpa dell’agente, perché sia rispettata la parte del disposto di cui
all’art. 27 co. 1° Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto [...]”.
Si aggiunge che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per
l’evento più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità, sarebbe
incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di
cui all’art. 59 comma 2 c.p., modif. dall’art. 1 l. 7.2.1990 n. 19 (“Le circostanze che
aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore deetrminato da
colpa”).
Un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale individua l’elemento
psicologico del delitto preterintenzionale nel dolo misto a colpa, riferito il primo al
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reato meno grave e la seconda all’evento più grave in concreto realizzatosi, dovendosi
verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento
maggiore ai fini dell’imputazione. Questa ricostruzione dogmatica appare l’unica
coerente con il principio di colpevolezza e con le categoriche affermazioni contenute
nella sentenza della Corte costituzionale n. 368/88, secondo cui deve
necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli “elementi
più significativi della fattispecie”, fra i quali il “complessivo ultimo risultato
vietato”, se non si vuole incorrere nel divieto ex art. 27 commi 1 e 3 Cost. della
responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.
L’alternativa sarebbe l’inquadramento dogmatico dei delitti dolosi lato sensu
aggravati dall’evento necessariamente non voluto, non più fra le figure autonome di
reato, bensì fra le figure circostanziate, con la conseguente operatività per essi del
descritto regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, introdotto
dalla legge n. 19 del 1990 che ha novellato l’art. 59 comma 2 c.p., e del giudizio di
bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti.
Il problema centrale della figura paradigmatica dell’omicidio preterintenzionale,
disciplinato dall’art. 584 c.p., resta quello di identificare il criterio differenziale
rispetto al dolo omicidiario tipico ex art. 575 c.p.. Secondo l’ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, “nell’omicidio
preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno
negativo, la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza
dell’intenzione di uccidere, mentre invece l’elemento psicologico che connota
l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima;
quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi,
per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono
il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri
fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione: fatti tesi ad
individuare la volontà omicida sono precipuamente i mezzi usati, la direzione,
l’intensità e la reiterazione dei colpi, la distanza dal bersaglio, la parte del corpo
attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta”.
Si ammette, ai fini della configurabilità della responsabilità per omicidio
preterintenzionale, che la condotta costitutiva del reato lesivo di base possa, ai sensi
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dell’art. 40 cpv. c.p., consistere anche in un’omissione, sempre che sussista l’obbligo
giuridico di impedire l’evento.
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a tale evento é ravvisabile nella commissione stessa del reato doloso che si pone
come ipotesi di colpa specifica; ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo
nel reato di cui all’art. 586 c.p. é quindi superflua un’indagine specifica sulla
sussistenza in concreto di una colpa generica, essendo sufficiente quella circa la
condotta esecutiva del reato doloso e circa l’assenza, nel determinismo eziologico
dell’evento non voluto, di fattori eccezionali non imputabili all’agente e da costui
non dominabili” (Cass., sez. IV, 11.1.1995, P.M. in proc. Masser; Sez. III, 9.2.1996,
Sonderegger; Sez. II, 15.2.1996, Caso; Sez. I, 29.1.1997, Lambataro).
Secondo un altro orientamento, invece, il titolo della responsabilità per l’evento
non voluto sarebbe identificabile nella colpa specifica, costituita dalla inosservanza
della legge attinente alla commissione del reato-base (Cass., Sez. I, 28.5.1993,
Cimare). Altre decisioni si riferiscono invece alla colpa generica sotto il profilo
dell’astratta prevedibilità dell’evento ulteriore e più grave (Cass., sez. VI, 27.10.1992,
Nicolace; ; da ultimo, Sez. I, 19.10.1998, D’Agata [allegato 3]).
La norma dell’art. 586 c.p., in considerazione del notevole incremento quantitativo
del fenomeno del consumo di droga negli ultimi anni, ha trovato larga applicazione
giurisprudenziale in tema di cessione di sostanze stupefacenti seguita dalla morte del
tossicodipendente, fino al riconoscimento legislativo della nuova attenuante speciale
a favore del soggetto il quale, per avere determinato o comunque agevolato l’uso di
sostanze stupefacenti, debba rispondere della morte o delle lesioni personali
dell’assuntore ai sensi dell’art. 586 c.p., “se il colpevole ha prestato assistenza alla
persona offesa ed ha tempestivamente informato l’autorità sanitaria o di polizia”
(art. 81 d.p.r. 9.10.1990 n. 309). Si configura prevalentemente in giurisprudenza
un’ipotesi di responsabilità oggettiva fondata sul mero nesso di causalità materiale fra
la condotta dolosa del reato-base e l’evento non voluto; ma, secondo altre decisioni
della Corte di cassazione, l’evento lesivo de quo é imputato allo spacciatore a titolo
di colpa, consistita nella violazione della legge sul traffico di stupefacenti e nella
conseguente “prevedibilità” che la sostanza provoca un’azione depressiva del
sistema nervoso centrale con riflessi su quello circolatorio con effetti nei casi più
gravi anche letali.
Ma l’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo di responsabilità oggettiva o di
“colpa presunta”, pur mascherata dietro il riferimento alla colpa specifica da
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inosservanza della legge penale secondo la tradizionale regola del “versari in re
illicita”, si palesa incompatibile con il principio di colpevolezza, secondo la più volte
menzionata interpretazione dei principi costituzionali sulla personalità della
responsabilità penale e sulla necessaria imputazione soggettiva degli elementi più
significativi della fattispecie criminosa (C. cost., sent. n. 364/88 cit.). Di talché gli
sforzi della dottrina più recente (MILITELLO, voce Morte o lesioni come
conseguenza di altro delitto, Digesto penale, 1994, VIII, p. 198; CANESTRARI,
voce Preterintenzione, ivi, 1995, IX, p. 694) sono diretti ad ancorare l’affermazione
di responsabilità dell’agente per l’evento ulteriore e più grave, non voluto, alla
“prevedibilità”, concreta e non astratta, del rischio connesso alla carica di
pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla
consumazione del reato doloso di base. Una diversa e più restrittiva interpretazione
del collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’evento non voluto,
ulteriore e più grave, esporrebbe l’istituto a censure non manifestamente infondate di
incostituzionalità, riservando ad esso ben poche chances di sopravvivenza in un
moderno ordinamento penale ispirato al principio di colpevolezza.
E’ stato da alcuni Autori ricondotto allo schema dell’art. 586 c.p. il fenomeno delle
conseguenze lesive o letali dell’intervento medico chirurgico arbitrario: poiché
l’assenza del consenso informato configurerebbe gli estremi del delitto doloso di
violenza privata di cui all’art. 610 c.p., l’eventuale lesione dell’integrità fisica sarebbe
eziologicamente legata all’offesa portata alla libertà di autodeterminazione del
paziente e perciò addebitabile al medico ai sensi dell’art. 586 c.p. Nel senso invece
dell’applicabilità, in tal caso, della fattispecie di omicidio preterintenzionale di cui
all’art. 584 c.p., si é pronunziata la Corte di cassazione (Cass., Sez. V, 21.4.1992,
Massimo) ed altra parte della dottrina.
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Elementi costitutivi della fattispecie descritta dall’art. 116 c.p. sono l’esistenza di
un accordo al fine di commettere un reato concordemente voluto, la concreta
commissione di un reato diverso e più grave di quello concordato, il nesso di causalità
materiale fra la condotta attiva o omissiva del reato voluto e l’evento del diverso tipo
di reato realizzato, il rapporto di causalità psicologica fra le azioni degli autori di
entrambi i reati.
Secondo l’orientamento ormai dominante nella giurisprudenza di legittimità l’art.
116 c.p. non configurerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva, inconciliabile
con il principio di colpevolezza come interpretato dalla Corte costituzionale alla luce
della regola della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 comma 1
Cost. (C. cost., sent. n. 42 del 1965; v. sent. n. 364/88 cit.), bensì un’ipotesi di
responsabilità a titolo di dolo rispetto alla condotta del reato-base voluto e meno
grave -ad esempio, rapina- ed a titolo di colpa rispetto all’evento non voluto diverso e
più grave -ad esempio, omicidio-, consistente nella violazione delle regole di
prudenza, “per essersi il compartecipe imprudentemente affidato per l’esecuzione
di condotta criminosa al comportamento di altro soggetto che sfugge al suo
controllo finalistico”. La responsabilità per concorso anomalo sarebbe ravvisabile
solo quando l’evento diverso e più grave di quello voluto dal compartecipe costituisca
uno sviluppo logicamente prevedibile da un soggetto di normale intelligenza e di
cultura media, quale possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole
di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, non spezzata da fattori
accidentali e imprevedibili.
L’applicabilità della norma soggiace quindi a due limiti negativi: che l’evento
diverso non sia stato voluto neanche sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale,
perché in tal caso sussisterebbe la tipica responsabilità concorsuale ai sensi dell’art.
110 c.p. (v., da ultimo, Cass., Sez. I, 7.3.2003, Benigno [allegato 2]); che l’evento più
grave concretamente realizzato non sia conseguenza di fattori eccezionali
sopravvenuti, imprevedibili dall’agente e non ricollegabili eziologicamente alla
condotta criminosa di base, e non si verifichi un rapporto di mera occasionalità
idoneo ad escludere il nesso di causalità.
La Corte costituzionale, nella parte motiva della sentenza n. 42 del 1965, pur
pretendendo l’accertamento di un “minimo” di partecipazione psichica del soggetto al
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reato diverso e pur affermando “la necessaria presenza anche di un coefficiente di
colpevolezza”, auspicava tuttavia un “tentativo del legislatore al fine di stabilire se
la norma in questione debba rimanere nel nostro ordinamento e, in caso positivo,
quali debbano essere il fondamento e i limiti, ed in quali termini debba realizzarsi
una logica coordinazione della norma stessa con tutto il sistema e con norme
analoghe, in particolare con quella dell’art. 83 c.p.”. Ma l’auspicato intervento del
legislatore é tuttora inutilmente atteso da ormai un trentennio.
Un indirizzo dottrinale minoritario (Fiandaca-Musco, 1985) insiste peraltro nel
ricondurre il titolo della responsabilità concorsuale ex art. 116 c.p. nell’alveo delle
forme di responsabilità oggettiva “pura”, avvertendo comunque della dubbia
conciliabilità di questa lettura della norma con la disciplina della colpevolezza e con il
principio costituzionale di personalità della responsabilità penale.
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tipi di delitto doloso aggravato dall’evento; non é più prevista l’aberratio ictus, né
l’aberratio delicti; la disciplina di tutte queste figure complesse viene affidata ai
principi generali sulla responsabilità penale e sul concorso formale di reati. La legge
non é infine indifferente rispetto al diverso titolo di responsabilità -dolo o colpa-
anche nelle contravvenzioni.
Anche la disciplina del concorso di persone nel reato si ispira all’esigenza
fondamentale di ricondurre la responsabilità penale del compartecipe nell’ambito del
principio di colpevolezza. Nell’ambito della c.d. responsabilità anomala di cui al
vigente art. 116 c.p. si é affermato, in via generale, che la realizzazione di un reato
diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti può essere a questo imputata
soltanto se il suo contributo abbia assunto natura di agevolazione colposa per
negligenza, imprudenza o imperizia, ovviamente con una congrua mitigazione del
trattamento sanzionatorio; nel caso particolare in cui il reato commesso e non voluto
da taluno dei concorrenti ricomprenda in sé il reato voluto, il concorrente risponderà
del reato da lui voluto, ma con un congruo aumento di pena solo se il reato più grave
effettivamente realizzato era per lui prevedibile.
Per quanto riguarda la Parte speciale, ed in particolare i reati contro la vita e
l’incolumità individuale, si afferma espressamente nella Relazione accompagnatoria
dello Schema che si é provveduto alla “soppressione, nel quadro della più generale
politica della eliminazione delle diverse figure di reati aggravati dall’evento,
inutili e complicatorie, e di ogni altra fattispecie disciplinabile sulla base dei
principi generali (quali innanzitutto quelli sul concorso di reati), dell’omicidio
preterintenzionale (configurando come aggravante dell’omicidio colposo e delle
lesioni colpose la condotta violenta e dolosa contro la persona) e della ipotesi
della morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (riconducibile alla
disposizione generale sul concorso formale di reati)”.
L’analitica rielaborazione dei medesimi istituti da parte della successiva
Commissione Grosso per la riforma della parte generale del codice penale è affidata
ai passi salienti della Relazione finale del 2001 ed agli artt. 25 (responsabilità
colpevole), 27 (dolo), 31 (delitti aggravati dall’evento), 45 (reato diverso da quello
voluto da taluno dei concorrenti) dell’Articolato. Oltre a ribadire e chiarire i risultati
interpretativi cui era pervenuta la Commissione Pagliaro, l’attenzione della
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Commissione Grosso si è soffermata, tra l’altro, sui temi della configurazione del
dolo eventuale, della incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo e del dolo dei reati
commissivi mediante omissione.
ALLEGATI
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