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Consiglio Superiore della Magistratura

Prima settimana di studio relativa al tirocinio ordinario nel settore


penale riservata agli uditori giutdiziari nominati con D.M. 19
novembre 2002.

Roma, 17-21 novembre 2003

“Problematiche giurisprudenziali relative alla


fattispecie esaminata con particolare riferimento
alle tipologie del dolo”

Relazione (schema di)


dott. Giovanni Canzio
Consigliere della Corte Suprema di Cassazione

1. La colpevolezza.
Concezione “normativa” e “psicologica” della colpevolezza.
I requisiti subiettivi della fattispecie penalmente rilevante (artt. 42, 43, 47, 59 c.p.)
e, con riferimento ai valori della persona ed al principio di legalità di cui agli artt. 2, 3,
27 Cost., i “necessari requisiti subiettivi minimi d’imputazione [oltre quelli relativi
alla coscienza e volontà dell’azione] senza la previsione dei quali il fatto non può
legittimamente essere sottoposto a pena” (C. cost., n. 364/88, par. 8; n. 1085/88; n.
61/95).
Per il giudizio di responsabilità penale, gli elementi più significativi della
fattispecie tipica non possono non essere assistiti almeno dalla colpa dell’agente e
non sono suscettibili di punizione quei fatti che non risultino essere manifestazione
altresì di un “consapevole e rimproverabile contrasto, o indifferenza, con i valori
della convivenza espressi dalle norme penali” (C. cost., n. 364/88 cit., par. 13-14):

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il principio della personalità della responsabilità penale sancito dall’art. 27 comma 1
Cost., accanto al divieto di responsabilità per fatto altrui, va interpretato come
“principio di responsabilità per fatto proprio colpevole”.

2.- La struttura del dolo.


Il dolo, archetipo normativo dell’imputazione soggettiva nell’art. 42 comma 2,
nella configurazione delle singole fattispecie incriminatrici e la definizione del dolo
nel successivo art. 43 comma 1 c.p.
La struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata dall’elemento di natura
intellettiva della previsione/rappresentazione e dall’elemento di essenza volitiva della
volizione dell’evento. Ma che la rappresentazione e la volizione debbano in realtà
avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica -condotta, evento
e nesso di causalità materiale-, e non il solo evento causalmente dipendente dalla
condotta, lo si desume dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta
nel primo comma dell’art. 47 c.p., secondo cui siffatto errore, facendo venir meno il
dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali
della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente.
Per quanto riguarda la condotta, nei reati a forma vincolata oggetto del dolo
dev’essere la condotta specificamente descritta nella norma incriminatrice, mentre
nei reati a forma libera l’imputazione a titolo di dolo del fatto nel suo insieme
postula che la volontà dell’ultimo atto sia effettiva. Sì che, quando la condotta
dell’agente sia consapevolmente diretta a realizzare un determinato evento, ma questo
si verifica non per effetto di quella condotta, bensì di un comportamento sorretto
dall’erroneo convincimento della già avvenuta produzione dell’evento, quest’ultimo
non può essere imputato a titolo di dolo, se non sotto il profilo del delitto tentato,
mentre l’ulteriore frammento del fatto può essere punito solo a titolo di colpa, se
esso é previsto come delitto colposo (Cass., Sez. I, 2.5.1988, Auriemma; Sez. I,
18.3.2003, Iovino [allegato 1]).
Anche nelle fattispecie commissive mediante omissione la rappresentazione deve
abbracciare la situazione tipica di pericolo per il bene tutelato, presupposto della
postulata azione doverosa, e la volontà di non agire dovrà sorreggere l’inerzia
corrispondente all’ultima condotta positiva utile ad impedire il verificarsi dell’evento
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naturalistico: si sa di dover compiere un’azione, ma si decide consapevolmente di non
compierla.
Esulano invece dalla struttura del dolo i motivi, i moventi e i fini della
determinazione criminosa dell’agente.

3.- Il dolo nelle contravvenzioni.


L’elemento soggettivo nelle contravvenzioni é disciplinato dall’art. 42, comma 4
(“Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione
cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”) e dall’art. 43 comma 2 c.p. (“La
distinzione tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i
delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per queste la legge
penale faccia dipendere da tale distinzione un effetto giuridico”) .
Superata definitivamente la tesi della sufficienza della mera coscienza e volontà
della condotta (il che equivaleva a costruire le contravvenzioni come ipotesi di
responsabilità oggettiva), l’interpretazione dominante é nel senso che, anche per
l’integrazione della fattispecie contravvenzionale, il principio costituzionale di
colpevolezza e di personalità della responsabilità penale esige che l’azione sia
assistita dall’una o dall’altra forma della volontà colpevole.
Mentre nei delitti il criterio ordinario di imputazione soggettiva é il dolo e si
risponde di colpa solo nei casi espressamente preveduti dalla legge (art. 42 comma 2
c.p.), per le contravvenzioni risulta invece alternativamente irrilevante ed equivalente
l’orientamento psichico dell’agente, essendo necessaria e sufficiente quantomeno la
presenza della colpa per imprudenza, negligenza, imperizia, etc., salvi i casi in cui la
struttura della fattispecie incriminatrice ammetta, con previsione esplicita o anche
implicita, soltanto uno dei due criteri di imputazione soggettiva (v., ad esempio, le
contravvenzioni “ontologicamente dolose” di cui agli artt. 660, 661, 671, 720 c.p.,
ovvero quelle “necessariamente colpose” previste dagli artt. 676 e 712 c.p.).
Valgono anche in tema di reato contravvenzionale le regole ordinarie riguardanti
l’accertamento dell’elemento psicologico, non rivestendo alcun fondamento
normativo la tesi della “presunzione [relativa] di colpa”, che ammette la prova
contraria da parte dell’imputato, dovendo il giudice necessariamente accertare in
concreto se l’illecito sia stato commesso con dolo o con colpa.
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Appare peraltro meritevole di attenzione l’opinione dottrinale recentemente
espressa da PADOVANI (voce Delitti e contravvenzioni, in Digesto penale, 1989,
III, 321), secondo cui almeno nelle “contravvenzioni di tipo preventivo-cautelare” e
in quelle “amministrative” -costituenti il nucleo preponderante degli illeciti
contravvenzionali- “la mera volontarietà della condotta inosservante”, nella
trasgressione di regole comportamentali dirette ad eliminare o a ridurre il rischio
insito in determinate attività pericolose o nella mera violazione della prescrizione
normativa incentrata sul difetto di un provvedimento abilitante, “finisce allora per
coincidere necessariamente con la colpa ... quale che sia l’atteggiamento
psicologico dell’agente”. Nella prassi dell’accertamento giudiziale e in “evidente
ossequio alla natura delle cose”, la colpa viene praticamente a coincidere con la
volontarietà della condotta e “l’indifferenza rispetto all’atteggiamento doloso o
colposo corrisponde alla struttura normativa ed alle sue esigenze finalistiche”.

4.- Le forme del dolo: dolo eventuale, diretto, intenzionale,


alternativo, specifico, di premeditazione.

La giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 14.2.1996, Mele; Sez. Un., 12.10.1993,


Cassata; Sez. Un., 15.12.1992, Cutruzzolà; Sez. Un., 6.12.1991, Casu) e la dottrina
hanno enucleato, anche alla luce di un’ampia casistica soprattutto in riferimento ad
episodi omicidiari, crescenti livelli d’intensità del dolo. D’altra parte, l’art. 133,
comma 1 n. 3, c.p. annovera fra i parametri di valutazione della gravità del reato, ai fini
della commisurazione della pena, anche la “intensità del dolo”.
Nel caso in cui il soggetto abbia posto in essere un’azione accettando il rischio del
verificarsi dell’evento, che nella rappresentazione psichica non é direttamente voluto
ma appare soltanto probabile, si realizza la forma più tenue della volontà dolosa,
qualificata “dolo eventuale” o “indiretto”: nel senso che l’agente, pur non avendo
avuto di mira quel determinato accadimento, ha tuttavia agito anche a costo che questo
si realizzi, sicché lo stesso non può non considerarsi riferibile alla determinazione
volitiva.
Qualora invece la realizzazione dell’evento, pur non direttamente voluta non
costituendo l’obiettivo della condotta, sia ritenuta altamente probabile o certa,
l’autore (ad esempio, il rapinatore il quale intende sottrarsi alla cattura e spara ad

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altezza d’uomo alcuni colpi di arma da fuoco in direzione dell’inseguitore) non si
limita ad accettarne il rischio bensì accetta l’evento: il dolo in tal caso viene definito
“diretto”. La linea di demarcazione fra dolo diretto e dolo eventuale poggia dunque
sulla maggiore o minore probabilità che si avveri un determinato risultato della
condotta e, di riflesso, sulla differente conformazione della volontà del soggetto, la
quale, nella prima forma, si configura come accettazione dell’evento, e, nella seconda,
come semplice accettazione del rischio di verificazione dello stesso.
Se poi il verificarsi del risultato dell’azione criminosa é non solo accettato bensì
perseguito dall’agente come risultato della condotta, il dolo é “intenzionale”.
In tema di delitti omicidiari é stato affermato che deve qualificarsi “diretto” e non
“eventuale” quella particolare manifestazione di volontà definita “dolo alternativo”,
che sussiste allorquando l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente l’uno o
l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria
(cfr., da ultimo, Cass., Sez. I, 18.3.2003, Iovino, [allegato 1]).
A differenza del dolo “generico”, il dolo “specifico” consiste nella
rappresentazione e volizione, oltre che degli elementi oggettivi della fattispecie
tipica, anche di un’ulteriore finalità normativamente tipizzata nella fattispecie
incriminatrice (ad esempio, il fine di trarre profitto nel delitto di furto).
Sembra potersi identificare con il dolo “di proposito” -opposto al dolo
“d’impeto”- la figura della premeditazione, configurata come circostanza aggravante
nei delitti di omicidio volontario ex art. 577 comma 1 n. 3 c.p. e di lesione personale
ex art. 585 comma 1 c.p., i cui elementi costitutivi sono un apprezzabile intervallo
temporale tra l’insorgenza del proposito criminoso e l’attuazione di esso -elemento di
natura cronologica-, e la ferma risoluzione criminosa perdurante senza soluzioni di
continuità nell’animo dell’agente fino alla commissione del crimine -elemento di
natura ideologica-. La prova dovrà essere necessariamente tratta da fatti estrinseci e
sintomatici, quali la causale, l’anticipata manifestazione del proposito, la
predisposizione del mezzo letifero, la ricerca dell’occasione propizia, la violenza e la
reiterazione dei colpi inferti.
E’ stata altresì ritenuta configurabile in giurisprudenza la premeditazione c.d.
condizionata quando, sussistendo i necessari elementi cronologico e ideologico, e

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avendo il soggetto agente condizionato l’attuazione del progetto lesivo al mancato
verificarsi di un evento ad opera della vittima, la condizione si ponga come un
avvenimento previsto, anche se poco probabile, atto a sospendere o annullare con
efficacia risolutiva il pur preciso e fermo proposito criminoso del reo.
L’aggravante della premeditazione non é in linea di principio incompatibile con
l’accertamento del vizio parziale di mente, pur potendo però l’incompatibilità essere
in concreto rilevata in quei casi in cui il processo intellettivo o volitivo che sorregge
il proposito criminoso s’identifica con un’idea fissa ossessiva, facente parte del
quadro sintomatologico di quella determinata infermità che provoca la diminuita
imputabilità.
Il dolo di premeditazione é giudicato altresì compatibile con l’attenuante della
provocazione. Esiste invece palese inconciliabilità concettuale fra la premeditazione e
la forma del dolo eventuale.

5.- L’accertamento del dolo nelle prassi applicative. In particolare: il


dolo eventuale e il tentativo, il dolo eventuale e la colpa cosciente.

Ripudiata la teoria del c.d. dolus in re ipsa, come categoria presuntiva


dell’accertamento del dolo, si esige nelle prassi giudiziarie il concreto accertamento
probatorio, in relazione alla peculiarità delle singole fattispecie, delle diverse forme
di dolo.
In considerazione delle evidenti difficoltà nella verifica del dolo omicidiario é
stata segnalata dalle citate sentenze delle Sezioni Unite la tendenza dei giudici di
merito ad estendere la categoria del dolo eventuale -“per superare le difficoltà
probatorie che talora si riscontrano nell’accertamento della volontà omicida” o
“per semplificare la motivazione sul dolo”-, sia nel senso dell’assorbimento in tale
categoria di atteggiamenti qualificabili invece come dolo diretto, sia con riguardo
all’inclusione nel dolo eventuale di comportamenti nei quali non é riconoscibile
affatto la volontà dell’evento né l’accettazione del rischio del suo verificarsi.
In tema di dolo alternativo nei delitti omicidiari, si è preso in esame il caso di
scuola di colui che, dopo avere consumato una rapina, per sottrarsi all’inseguimento e
all’arresto e per neutralizzare l’inseguitore, esplode contro di lui alcuni colpi d’arma
da fuoco ad altezza d’uomo, rappresentandosi e volendo direttamente e
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indifferentemente il ferimento o la morte della vittima: la dinamica dei fatti rende
chiaro che l’agente ha deciso di evitare comunque la cattura, anche uccidendo
l’inseguitore. In tal caso, gli elementi probatori oggettivi, quali il tipo e la micidialità
dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la parte vitale del corpo
dell’inseguitore presa di mira e quella concretamente attinta, la distanza ravvicinata,
desunti dalle concrete modalità della condotta e valutati globalmente con assoluto
rigore logico -siccome parametri sintomatici dell’animus necandi in base a
consolidate regole d’esperienza- lasciano inferire come certo o altamente probabile il
verificarsi dell’evento mortale o lesivo ed evidente l’accettazione del rischio da parte
dell’agente, sia pure strumentale rispetto al fine primario di costringere l’inseguitore
a desistere (Cass., Sez. Un., 14.2.1996, Mele, cit.).
Secondo la meno recente giurisprudenza (Cass., Sez. Un., 18.6.1983, Basile) la
figura del tentativo sarebbe compatibile con il dolo eventuale.
Da parte della più recente giurisprudenza e della dottrina dominante si afferma
invece l’incompatibilità del tentativo con il dolo eventuale, sul rilievo che solo dal
dolo diretto é possibile dedurre l’inequivoca direzione degli atti verso l’evento,
mentre siffatto requisito non sarebbe riscontrabile in presenza di un’azione
ambivalente sul piano finalistico, caratterizzata dalla mera accettazione da parte
dell’agente del rischio del prodursi dell’evento, apprezzato come meramente
probabile.
Il contrasto interpretativo, benché la questione sia pervenuta ripetutamente
all’esame delle Sezioni Unite (Sez. Un., 14.2.1996; 12.10.1993; 15.12.1992;
6.12.1991, citt.), non é stato risolto, poiché i singoli casi di specie -si trattava di
stabilire se l’imputato dovesse rispondere del reato di lesioni volontarie o di quello di
tentato omicidio- sono stati decisi sulla base della corretta qualificazione
dell’elemento soggettivo come dolo diretto.
Rimane incerta la linea di confine tra il “dolo eventuale” e la “colpa cosciente” o
“con previsione”. Il fondamento del dolo eventuale va ravvisato nella
rappresentazione e nell’accettazione da parte dell’agente della probabilità di
realizzazione dell’evento, mentre non può parlarsi di dolo qualora l’agente, nel porre
in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell’evento, ne abbia con certezza
escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel

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risultato si verifichi, nella convinzione o nella ragionevole speranza di poterlo evitare
per abilità personale o per intervento di altri fattori: si versa allora in quella più
intensa forma di colpa definita “cosciente”, aggravata dall’ “avere, nei delitti colposi,
agito nonostante la previsione dell’evento”, ai sensi dell’art. 61 n. 3 c.p.. La
distinzione fra le due forme di imputazione soggettiva appare difficoltosa sul piano
probatorio, perchè essa, nonostante l’indicato criterio dell’accettazione del rischio,
postula nella prassi l’accertamento e la valutazione degli atteggiamenti psicologici e
delle reali motivazioni della volontà dell’agente, dal contenuto spesso sfuggente e
inafferrabile per l’interprete (cfr., in giurisprudenza, il caso di scuola del
comportamento di guida connotato da manovre pericolose per l’incolumità degli altri
conducenti e dei pedoni, tenuto dall’agente confidando nelle proprie abilità di
conducente e nella convinzione di evitare le gravi conseguenze lesive, non volute
direttamente ma in realtà verificatesi in conseguenza della descritta condotta).

6.- Il dolo nel concorso di persone nel reato.


Nel concorso criminoso, abbandonate le tesi del “previo concerto” e della
“reciproca” consapevolezza dell’altrui contributo, l’elemento soggettivo viene
identificato nella consapevole rappresentazione e nella volontà della persona del
partecipe di cooperare con altri soggetti alla comune realizzazione criminosa. Lo
specifico connotato dell’elemento soggettivo del partecipe non modifica la
fisionomia strutturale del dolo, trovando applicazione la regola generale secondo cui
esso deve investire tutto quanto costituisce il fatto criminoso, aderendo e adattandosi
al concreto atteggiarsi del processo esecutivo.
La dottrina e il prevalente orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione
esclude la configurabilità, nel vigente ordinamento, di un concorso colposo in reato di
natura necessariamente dolosa sul rilievo che il legislatore ha optato univocamente
per la configurazione soltanto dolosa della partecipazione ex art. 110 c.p. (Sez. Un.,
3.2.1990, Cancilleri, secondo cui non é ipotizzabile la corresponsabilità del notaio
nella lottizzazione abusiva negoziale, salvo che risulti la sua cosciente e volontaria
partecipazione al piano lottizzatorio delle parti).
L’art. 48 c.p. estende l’applicabilità della disciplina sull’errore di fatto di cui all’art.
47 anche alla speciale ipotesi in cui “l’errore sul fatto che costituisce il reato é

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determinato dall’altrui inganno”, perchè, escluso il dolo della persona ingannata
che abbia materialmente commesso il fatto, di questo “risponde chi l’ha
determinata a commetterlo” (il deceptor), residuando a carico del deceptus la
punibilità per colpa, quando il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo e
l’errore sia ascrivibile anche a sua colpa. Le componenti tipiche del dolo sono
ricondotte, in tal caso, al terzo e non al soggetto che abbia materialmente realizzato il
fatto criminoso. E il fenomeno è costruito da taluni come forma di c.d. autoria
mediata, estranea all’ambito strettamente inteso del concorso di persone nel reato, e
da altri come “ipotesi speciale di concorso di persone nel reato”.

7.- La preterintenzione: dolo misto a responsabilità oggettiva o dolo


misto a colpa?

A norma degli art. 42 comma 2 e 43 comma 1 c.p. il delitto é “preterintenzionale


o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o
pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”: elemento costitutivo della
preterintenzione é dunque la volontà dolosa del fatto meno grave, cui faccia seguito,
sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la realizzazione di un evento
necessariamente non voluto (neppure nella forma del dolo eventuale o indiretto,
perché altrimenti si verserebbe in altra fattispecie più grave di reato), più grave di
quello voluto.
E’ fortemente controverso se con tale modello di responsabilità si delinei
un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva ovvero di dolo misto a colpa.
Il dominante indirizzo dottrinale e il prevalente orientamento giurisprudenziale,
formatisi quest’ultimo attorno al prototipo dell’omicidio preterintenzionale,
ricostruiscono la fattispecie preterintenzionale come ipotesi di dolo misto a
responsabilità oggettiva: il primo riferito al reato-base e la seconda all’evento più
grave non voluto, il quale resta del tutto estraneo alla proiezione dell’elemento
volitivo e viene ascritto all’agente sulla base dell’accertamento del semplice nesso di
causalità materiale con la condotta intenzionalmente diretta alla realizzazione di un
evento diverso e meno grave, quindi in base al criterio d’imputazione della

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responsabilità oggettiva, prescindendosi da ogni indagine di carattere psicologico
sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità del medesimo.
Tale linea interpretativa determina problemi di coerenza costituzionale e
sistematica, sembrando essa non compatibile con l’insegnamento offerto dalla Corte
costituzionale in tema di “colpevolezza” con la sentenza n. 364/88 cit., laddove
afferma -paragrafo 13- a proposito della responsabilità oggettiva, che “[...] E’ da
confermare che si risponde soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per
fatto proprio non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore,
dal mero nesso di causalità materiale ma anche e soprattutto dal momento
subiettivo costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato
vietato, almeno dalla colpa in senso stretto ... Va precisato che, se nelle ipotesi di
responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo,
magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non é coperto
dal dolo o dalla colpa dell’agente -c.d. responsabilità oggettiva spuria o
impropria-, il co. 1° dell’art. 27 Cost. non contiene un tassativo divieto di
responsabilità oggettiva. Diversamente va posto il problema per la c.d.
responsabilità oggettiva pura o propria ... Ove non si ritenga di restringere la c.d.
responsabilità oggettiva pura alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo
vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta
in volta a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli
elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere coperti
almeno dalla colpa dell’agente, perché sia rispettata la parte del disposto di cui
all’art. 27 co. 1° Cost. relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto [...]”.
Si aggiunge che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per
l’evento più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità, sarebbe
incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di
cui all’art. 59 comma 2 c.p., modif. dall’art. 1 l. 7.2.1990 n. 19 (“Le circostanze che
aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute
ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore deetrminato da
colpa”).
Un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale individua l’elemento
psicologico del delitto preterintenzionale nel dolo misto a colpa, riferito il primo al

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reato meno grave e la seconda all’evento più grave in concreto realizzatosi, dovendosi
verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento
maggiore ai fini dell’imputazione. Questa ricostruzione dogmatica appare l’unica
coerente con il principio di colpevolezza e con le categoriche affermazioni contenute
nella sentenza della Corte costituzionale n. 368/88, secondo cui deve
necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli “elementi
più significativi della fattispecie”, fra i quali il “complessivo ultimo risultato
vietato”, se non si vuole incorrere nel divieto ex art. 27 commi 1 e 3 Cost. della
responsabilità oggettiva c.d. pura o propria.
L’alternativa sarebbe l’inquadramento dogmatico dei delitti dolosi lato sensu
aggravati dall’evento necessariamente non voluto, non più fra le figure autonome di
reato, bensì fra le figure circostanziate, con la conseguente operatività per essi del
descritto regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, introdotto
dalla legge n. 19 del 1990 che ha novellato l’art. 59 comma 2 c.p., e del giudizio di
bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti.
Il problema centrale della figura paradigmatica dell’omicidio preterintenzionale,
disciplinato dall’art. 584 c.p., resta quello di identificare il criterio differenziale
rispetto al dolo omicidiario tipico ex art. 575 c.p.. Secondo l’ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione, “nell’omicidio
preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno
negativo, la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza
dell’intenzione di uccidere, mentre invece l’elemento psicologico che connota
l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima;
quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi,
per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono
il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri
fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione: fatti tesi ad
individuare la volontà omicida sono precipuamente i mezzi usati, la direzione,
l’intensità e la reiterazione dei colpi, la distanza dal bersaglio, la parte del corpo
attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta”.
Si ammette, ai fini della configurabilità della responsabilità per omicidio
preterintenzionale, che la condotta costitutiva del reato lesivo di base possa, ai sensi

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dell’art. 40 cpv. c.p., consistere anche in un’omissione, sempre che sussista l’obbligo
giuridico di impedire l’evento.

8.- Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto.


La disposizione normativa dell’art. 586 c.p. (“Quando da un fatto preveduto come
delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la
lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene
stabilite negli artt. 589 e 590 sono aumentate”), ha natura sussidiaria e di chiusura
nel quadro di una più vigorosa tutela codicistica dei beni primari della vita e
dell’incolumità personale.
L’elemento distintivo fra la figura del reato previsto dall’art. 586 c.p. e l’omicidio
preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p. -reati entrambi aggravati dall’evento morte
necessariamente non voluto, il cui verificarsi comporta un aggravamento della
responsabilità del colpevole e un appesantimento della sanzione prevista per i fatti
omicidiari e lesivi colposi- é costituito dal tipo del delitto-base, perché per l’art. 586,
a differenza dell’art. 584 che richiede atti diretti a commettere le percosse o le
lesioni della vittima, é indifferente la natura del reato-base dal quale derivi l’evento
ulteriore e più grave.
Il problema centrale dell’istituto é costituito dall’individuazione del rapporto tra il
delitto doloso di base -diretto a violare sul piano soggettivo un bene giuridico diverso
dall’incolumità individuale (subentrando altrimenti le disposizioni generali sulle
fattispecie dolose di omicidio e di lesioni) e l’evento di morte o di lesione non
voluto, in ordine al quale si delineano in dottrina e in giurisprudenza due indirizzi
interpretativi.
E’ prevalente in giurisprudenza la tesi della responsabilità oggettiva, nel senso
che, accertata l’imputazione soggettiva dolosa del reato-base, la responsabilità per
morte o lesioni non volute nasce in forza del mero rapporto di causalità materiale fra
la precedente condotta dolosa e l’evento diverso e ulteriore, non occorrendo espletare
in ordine a quest’ultimo alcuna indagine relativa all’elemento psicologico.
Anche di recente é stato affermato che “nell’ipotesi prevista dall’art. 586 c.p. di
evento diverso che sia conseguenza non voluta di altro reato doloso, per errore
dei mezzi di esecuzione o per qualsiasi altra causa, l’elemento soggettivo rispetto

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a tale evento é ravvisabile nella commissione stessa del reato doloso che si pone
come ipotesi di colpa specifica; ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo
nel reato di cui all’art. 586 c.p. é quindi superflua un’indagine specifica sulla
sussistenza in concreto di una colpa generica, essendo sufficiente quella circa la
condotta esecutiva del reato doloso e circa l’assenza, nel determinismo eziologico
dell’evento non voluto, di fattori eccezionali non imputabili all’agente e da costui
non dominabili” (Cass., sez. IV, 11.1.1995, P.M. in proc. Masser; Sez. III, 9.2.1996,
Sonderegger; Sez. II, 15.2.1996, Caso; Sez. I, 29.1.1997, Lambataro).
Secondo un altro orientamento, invece, il titolo della responsabilità per l’evento
non voluto sarebbe identificabile nella colpa specifica, costituita dalla inosservanza
della legge attinente alla commissione del reato-base (Cass., Sez. I, 28.5.1993,
Cimare). Altre decisioni si riferiscono invece alla colpa generica sotto il profilo
dell’astratta prevedibilità dell’evento ulteriore e più grave (Cass., sez. VI, 27.10.1992,
Nicolace; ; da ultimo, Sez. I, 19.10.1998, D’Agata [allegato 3]).
La norma dell’art. 586 c.p., in considerazione del notevole incremento quantitativo
del fenomeno del consumo di droga negli ultimi anni, ha trovato larga applicazione
giurisprudenziale in tema di cessione di sostanze stupefacenti seguita dalla morte del
tossicodipendente, fino al riconoscimento legislativo della nuova attenuante speciale
a favore del soggetto il quale, per avere determinato o comunque agevolato l’uso di
sostanze stupefacenti, debba rispondere della morte o delle lesioni personali
dell’assuntore ai sensi dell’art. 586 c.p., “se il colpevole ha prestato assistenza alla
persona offesa ed ha tempestivamente informato l’autorità sanitaria o di polizia”
(art. 81 d.p.r. 9.10.1990 n. 309). Si configura prevalentemente in giurisprudenza
un’ipotesi di responsabilità oggettiva fondata sul mero nesso di causalità materiale fra
la condotta dolosa del reato-base e l’evento non voluto; ma, secondo altre decisioni
della Corte di cassazione, l’evento lesivo de quo é imputato allo spacciatore a titolo
di colpa, consistita nella violazione della legge sul traffico di stupefacenti e nella
conseguente “prevedibilità” che la sostanza provoca un’azione depressiva del
sistema nervoso centrale con riflessi su quello circolatorio con effetti nei casi più
gravi anche letali.
Ma l’accollo dell’evento morte o lesioni a titolo di responsabilità oggettiva o di
“colpa presunta”, pur mascherata dietro il riferimento alla colpa specifica da

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inosservanza della legge penale secondo la tradizionale regola del “versari in re
illicita”, si palesa incompatibile con il principio di colpevolezza, secondo la più volte
menzionata interpretazione dei principi costituzionali sulla personalità della
responsabilità penale e sulla necessaria imputazione soggettiva degli elementi più
significativi della fattispecie criminosa (C. cost., sent. n. 364/88 cit.). Di talché gli
sforzi della dottrina più recente (MILITELLO, voce Morte o lesioni come
conseguenza di altro delitto, Digesto penale, 1994, VIII, p. 198; CANESTRARI,
voce Preterintenzione, ivi, 1995, IX, p. 694) sono diretti ad ancorare l’affermazione
di responsabilità dell’agente per l’evento ulteriore e più grave, non voluto, alla
“prevedibilità”, concreta e non astratta, del rischio connesso alla carica di
pericolosità per i beni della vita e dell’incolumità personale, intrinseca alla
consumazione del reato doloso di base. Una diversa e più restrittiva interpretazione
del collegamento soggettivo necessario per l’imputazione dell’evento non voluto,
ulteriore e più grave, esporrebbe l’istituto a censure non manifestamente infondate di
incostituzionalità, riservando ad esso ben poche chances di sopravvivenza in un
moderno ordinamento penale ispirato al principio di colpevolezza.
E’ stato da alcuni Autori ricondotto allo schema dell’art. 586 c.p. il fenomeno delle
conseguenze lesive o letali dell’intervento medico chirurgico arbitrario: poiché
l’assenza del consenso informato configurerebbe gli estremi del delitto doloso di
violenza privata di cui all’art. 610 c.p., l’eventuale lesione dell’integrità fisica sarebbe
eziologicamente legata all’offesa portata alla libertà di autodeterminazione del
paziente e perciò addebitabile al medico ai sensi dell’art. 586 c.p. Nel senso invece
dell’applicabilità, in tal caso, della fattispecie di omicidio preterintenzionale di cui
all’art. 584 c.p., si é pronunziata la Corte di cassazione (Cass., Sez. V, 21.4.1992,
Massimo) ed altra parte della dottrina.

9.- Il concorso anomalo ex art. 116 c.p.


Del reato concorsuale “diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti”
risponde anche questi “se l’evento é conseguenza della sua azione o omissione”,
ma “se il reato commesso é più grave di quello voluto la pena é diminuita
riguardo a chi volle il reato meno grave”.

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Elementi costitutivi della fattispecie descritta dall’art. 116 c.p. sono l’esistenza di
un accordo al fine di commettere un reato concordemente voluto, la concreta
commissione di un reato diverso e più grave di quello concordato, il nesso di causalità
materiale fra la condotta attiva o omissiva del reato voluto e l’evento del diverso tipo
di reato realizzato, il rapporto di causalità psicologica fra le azioni degli autori di
entrambi i reati.
Secondo l’orientamento ormai dominante nella giurisprudenza di legittimità l’art.
116 c.p. non configurerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva, inconciliabile
con il principio di colpevolezza come interpretato dalla Corte costituzionale alla luce
della regola della personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 comma 1
Cost. (C. cost., sent. n. 42 del 1965; v. sent. n. 364/88 cit.), bensì un’ipotesi di
responsabilità a titolo di dolo rispetto alla condotta del reato-base voluto e meno
grave -ad esempio, rapina- ed a titolo di colpa rispetto all’evento non voluto diverso e
più grave -ad esempio, omicidio-, consistente nella violazione delle regole di
prudenza, “per essersi il compartecipe imprudentemente affidato per l’esecuzione
di condotta criminosa al comportamento di altro soggetto che sfugge al suo
controllo finalistico”. La responsabilità per concorso anomalo sarebbe ravvisabile
solo quando l’evento diverso e più grave di quello voluto dal compartecipe costituisca
uno sviluppo logicamente prevedibile da un soggetto di normale intelligenza e di
cultura media, quale possibile conseguenza della condotta concordata, secondo regole
di ordinaria coerenza dello svolgersi dei fatti umani, non spezzata da fattori
accidentali e imprevedibili.
L’applicabilità della norma soggiace quindi a due limiti negativi: che l’evento
diverso non sia stato voluto neanche sotto il profilo del dolo alternativo o eventuale,
perché in tal caso sussisterebbe la tipica responsabilità concorsuale ai sensi dell’art.
110 c.p. (v., da ultimo, Cass., Sez. I, 7.3.2003, Benigno [allegato 2]); che l’evento più
grave concretamente realizzato non sia conseguenza di fattori eccezionali
sopravvenuti, imprevedibili dall’agente e non ricollegabili eziologicamente alla
condotta criminosa di base, e non si verifichi un rapporto di mera occasionalità
idoneo ad escludere il nesso di causalità.
La Corte costituzionale, nella parte motiva della sentenza n. 42 del 1965, pur
pretendendo l’accertamento di un “minimo” di partecipazione psichica del soggetto al

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reato diverso e pur affermando “la necessaria presenza anche di un coefficiente di
colpevolezza”, auspicava tuttavia un “tentativo del legislatore al fine di stabilire se
la norma in questione debba rimanere nel nostro ordinamento e, in caso positivo,
quali debbano essere il fondamento e i limiti, ed in quali termini debba realizzarsi
una logica coordinazione della norma stessa con tutto il sistema e con norme
analoghe, in particolare con quella dell’art. 83 c.p.”. Ma l’auspicato intervento del
legislatore é tuttora inutilmente atteso da ormai un trentennio.
Un indirizzo dottrinale minoritario (Fiandaca-Musco, 1985) insiste peraltro nel
ricondurre il titolo della responsabilità concorsuale ex art. 116 c.p. nell’alveo delle
forme di responsabilità oggettiva “pura”, avvertendo comunque della dubbia
conciliabilità di questa lettura della norma con la disciplina della colpevolezza e con il
principio costituzionale di personalità della responsabilità penale.

10.- Le prospettive di riforma del codice penale.


Lo Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale,
elaborato dalla Commissione Pagliaro nel 1992 dedica largo spazio ai principi e
criteri direttivi sul tema del principio di colpevolezza e dell’elemento psicologico del
dolo.
In particolare, l’art. 12 del Libro I della Parte generale dello Schema,
sull’“elemento soggettivo del reato”, fissa i seguenti principi: “1. Escludere
qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di
imputazione: il dolo e la colpa. Formulare la definizione di dolo in modo che essa
sia univocamente comprensiva del dolo eventuale ed esprima in ogni caso la
necessità che il soggetto sia consapevole del significato del fatto. Formulare la
definizione di colpa in modo che in tutte le forme di essa l’imputazione si fondi su
un criterio strettamente personale. 2. Punibilità del delitto colposo solo a seguito
di previsione espressa. 3. Punibilità delle contravvenzioni sia a titolo di dolo che
a titolo di colpa, salvo che la legge disponga altrimenti, stabilendo in forma
esplicita una congrua diminuzione di pena per la forma colposa”.
Il giudizio di responsabilità penale, escludendo ogni forma di responsabilità
incolpevole, non può essere ravvisato al di fuori del dolo e della colpa: scompare il
riferimento alla preterintenzione e alla responsabilità oggettiva; vengono eliminati i

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tipi di delitto doloso aggravato dall’evento; non é più prevista l’aberratio ictus, né
l’aberratio delicti; la disciplina di tutte queste figure complesse viene affidata ai
principi generali sulla responsabilità penale e sul concorso formale di reati. La legge
non é infine indifferente rispetto al diverso titolo di responsabilità -dolo o colpa-
anche nelle contravvenzioni.
Anche la disciplina del concorso di persone nel reato si ispira all’esigenza
fondamentale di ricondurre la responsabilità penale del compartecipe nell’ambito del
principio di colpevolezza. Nell’ambito della c.d. responsabilità anomala di cui al
vigente art. 116 c.p. si é affermato, in via generale, che la realizzazione di un reato
diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti può essere a questo imputata
soltanto se il suo contributo abbia assunto natura di agevolazione colposa per
negligenza, imprudenza o imperizia, ovviamente con una congrua mitigazione del
trattamento sanzionatorio; nel caso particolare in cui il reato commesso e non voluto
da taluno dei concorrenti ricomprenda in sé il reato voluto, il concorrente risponderà
del reato da lui voluto, ma con un congruo aumento di pena solo se il reato più grave
effettivamente realizzato era per lui prevedibile.
Per quanto riguarda la Parte speciale, ed in particolare i reati contro la vita e
l’incolumità individuale, si afferma espressamente nella Relazione accompagnatoria
dello Schema che si é provveduto alla “soppressione, nel quadro della più generale
politica della eliminazione delle diverse figure di reati aggravati dall’evento,
inutili e complicatorie, e di ogni altra fattispecie disciplinabile sulla base dei
principi generali (quali innanzitutto quelli sul concorso di reati), dell’omicidio
preterintenzionale (configurando come aggravante dell’omicidio colposo e delle
lesioni colpose la condotta violenta e dolosa contro la persona) e della ipotesi
della morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (riconducibile alla
disposizione generale sul concorso formale di reati)”.
L’analitica rielaborazione dei medesimi istituti da parte della successiva
Commissione Grosso per la riforma della parte generale del codice penale è affidata
ai passi salienti della Relazione finale del 2001 ed agli artt. 25 (responsabilità
colpevole), 27 (dolo), 31 (delitti aggravati dall’evento), 45 (reato diverso da quello
voluto da taluno dei concorrenti) dell’Articolato. Oltre a ribadire e chiarire i risultati
interpretativi cui era pervenuta la Commissione Pagliaro, l’attenzione della

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Commissione Grosso si è soffermata, tra l’altro, sui temi della configurazione del
dolo eventuale, della incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo e del dolo dei reati
commissivi mediante omissione.

ALLEGATI

1) Cass., Sez. I, 18 marzo 2003, ric. Iovino ed altri


(dolo omicidiario “colpito a mezza via dall’errore”)

2) Cass., Sez. I, 7 marzo 2003, ric. Benigno


(dolo eventuale di concorso ex art. 110 e concorso anomalo ex art. 116 c.p.)

3) Cass., Sez. I, 19 ottobre 1998, ric. D’Agata


(morte o lesioni come conseguenza di altro delitto: art. 586 c.p.)

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