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Riflessioni sulla gioia e sul dolore

CHRISTINA FELDMAN

Questo pomeriggio, vorrei riflettere sui temi della gioia e del dolore. Queste due qualità sono al centro di
questa tradizione e dell’insegnamento, semplicemente perché sono centrali anche nella nostra vita. Nella
nostra pratica ci ritroviamo incessantemente a esplorare quale sia il significato della gioia e quello del
dolore, proprio come incessantemente esploriamo le fonti di gioia e di dolore nella nostra vita.

In pali, la parola gioia o felicità è sukha, e il termine sukha descrive tutte le tonalità e le particolarità della
gioia: significa beatitudine, felicità, soddisfazione, rapimento. Sukha descrive il cuore lieto del piacere e
dell’apprezzamento, sukha descrive il cuore dell’amorevole gentilezza, della sensibilità, dell’intimità e
della libertà. Sukha descrive tutte le qualità, i momenti, e le esperienze che fanno cantare il cuore, quando
celebriamo la vita, o celebriamo l’attimo. Sukha comprende i momenti di felicità che incontriamo nel
regno dei sensi, la felicità del contatto amorevole, l’amore di un bambino, la felicità che può sorgere da
pensieri e sentimenti di premura e di unione, la felicità che possiamo provare nell’ascolto di una musica, o
nell’incontro con un amico che ci è caro.

Dunque, sukha comprende tutti gli incontri con la felicità e l’apprezzamento che viviamo col corpo, con
gli occhi, le orecchie, la mente. Sukha include anche la felicità non sensoriale. Questa tradizione è in
effetti una tradizione di gioia, anche se forse vi siete creati un’impressione diversa nei ritiri di
meditazione. È una tradizione di scoperta di una profonda gioia e felicità interiori che illuminano ogni
cosa che toccano. Questo sentiero parla della gioia del lasciar andare e della felicità dell’essere soli, della
profonda gioia interiore del vivere in armonia con ogni momento così com’è. La gioia che si scopre nel
silenzio e nella tranquillità interiori e la gioia profonda della libertà.

Sukha indica una profonda felicità interiore che non si appoggia o non si affida a nient’altro. Dunque,
impariamo a studiare sukha nella nostra pratica, a risalire alla sua fonte. Impariamo a intenerirci, ad
aprirci, ad apprezzare.

Naturalmente, nella nostra pratica studiamo anche dukkha: il dolore, o l’insoddisfazione, le difficoltà che
incontriamo nella vita. E dukkha, come sukha, ha molte diverse dimensioni e impariamo anche a
ricondurre dukkha alla sua fonte. Dukkha descrive il dispiacere e il dolore che possiamo incontrare nel
regno dei sensi, che incontriamo nel nostro cuore, nella mente, nel mondo. Dukkha definisce il dolore e il
dispiacere che possiamo incontrare nella mutevolezza del mondo incontrollabile del nostro corpo, il
dolore della malattia, della sofferenza fisica, del cordoglio, che ci colgono invecchiando, con la morte,
con la separazione. Il dukkha che proviamo incontrando una svariata gamma di sensazioni spiacevoli o
dolorose. Dukkha descrive anche le stanze chiuse e buie del nostro cuore, della nostra mente, dove vivono
la paura e la vergogna, o il senso di colpa e la rabbia. Dukkha descrive i momenti in cui ci sentiamo persi
nelle contratte bufere mentali ed emozionali del giudizio, del biasimo, o del risentimento. Dukkha
fondamentalmente descrive l’inferno della mente, l’indebolimento della capacità di intimità e di saggezza.
Dukkha descrive il dolore di tutte le occasioni in cui ci sentiamo separati e isolati.

Ma c’è anche un’altra dimensione di dukkha che non riguarda il dolore, o l’ansietà. Talvolta si usa il
termine dukkha per significare semplicemente l’insoddisfazione, che non è personale, né nata da
confusione personale, ma è originata dal vivere in un mondo in costante e incontrollabile cambiamento,
un mondo di nascita e morte, di sorgere e passare. Un mondo in cui così tanto delle nostre esperienze e dei
nostri pensieri è condizionato e in cui non possiamo trovare alcun durevole rifugio e alcuna libertà.

Questo non vuol dire che sia un brutto mondo, o un mondo sbagliato, è semplicemente insoddisfacente
perché non è libero, e naturalmente ha in sé il potenziale per una profonda sofferenza, quando ci
ritroviamo ad aggrapparci a ciò che non permette appigli, o a controllare l’incontrollabile. Sukha e
dukkha, gioia e dolore, alti e bassi, noi tutti li incontriamo nelle nostre vite, nessuno ne è esente, e nessuno
può proteggersi da questi incontri. Ed è molto facile vedere dukkha e sukha come opposti, e ritrovarsi così
a cercare sempre di liberarci di dukkha, a cercare di trascenderlo o di evitarlo o di sopraffarlo, magari
convincendoci che se questi tentativi avranno successo, proveremo solo sukha. Ma ci accorgiamo che è un
impegno futile, cominciamo a scoprire che se cerchiamo di evitare o di resistere a dukkha, non otteniamo
più sukha, ma più dukkha. E negare dukkha significa anche negare la nostra capacità di gioia.

Studiando la vita, studiando noi stessi, studiando sia sukha che dukkha, una delle maggiori e più liberanti
comprensioni intuitive che possiamo avere è scoprire che sukha e dukkha possono convivere nello stesso
luogo. Là dove più strettamente ci aggrappiamo, è anche dove abbiamo la maggiore possibilità di
imparare a lasciar andare. Nelle tenebre del giudizio, della rabbia o del biasimo, impariamo la gentilezza
amorevole e la generosità. Nell’irrequietezza impariamo la tranquillità. Nelle perdite impariamo le lezioni
più profonde del non trattenere e del ricominciare da capo. E nel dolore spesso impariamo qualcosa della
gioia. In quali altre occasioni pensiamo di poter imparare queste lezioni, che sono le più liberanti? È
molto meno verosimile poter imparare nei momenti in cui non veniamo sfidati o invitati ad osservare più
in profondità. Impariamo che sukha e dukkha non riguardano il liberarsi di qualcosa; che si sia illuminati
o non illuminati, viviamo comunque in un mondo che cambia, in cui incontreremo la tristezza, il
cordoglio, il dolore, in cui sperimenteremo momenti di rabbia, di risentimento, ma dove possiamo anche
imparare la gioia e la libertà, il non lasciarci limitare da niente.

Nel nostro cuore, teniamo in gran conto la felicità, cerchiamo la gioia, probabilmente desideriamo più di
qualsiasi altra cosa essere felici, nella nostra vita, nelle relazioni; talvolta guardiamo alla felicità come a
qualcosa che ci è celato, o come fosse uno stato che si possa catturare o ammansire. Spesso, pensiamo alla
felicità come a un sentimento che si possa possedere o a cui ci si possa aggrappare, o talvolta trattiamo la
felicità come una destinazione futura, che raggiungeremo dopo aver sofferto a sufficienza, o dopo esserci
liberati di dukkha, o dopo essere riusciti a controllare il nostro mondo. O pensiamo che saremo felici dopo
essere riusciti a organizzare il nostro mondo in modo da provare solo sensazioni piacevoli e incontrare
solo persone gradevoli e a simili sforzi mi viene da augurare: "Buona fortuna!".

Talvolta ci impegniamo ad essere felici come se dipendesse dai nostri sforzi. Possiamo andare in qualche
clinica della risata, o iscriverci a un corso di felicità, ma è interessante vedere come la gioia sia un totale
mistero. Ci sono scienziati che sezionano il cervello, cercando di scoprire dove vive la gioia. Talvolta
pensiamo di essere felici, osserviamo la felicità ed essa scompare. Sicuramente, sappiamo quando siamo
infelici, sappiamo come ci si sente quando si è contratti, afflitti o depressi. Certe volte ci accorgiamo di
essere stati felici solo quando la felicità se ne è già andata. Ho letto recentemente questa frase di una
donna: "Che splendida vita avrei avuto, se solo me ne fossi accorta prima". Spesso, questi ricordi di
felicità in un certo senso ci ispirano a lavorare o a lottare ancora più strenuamente per cercare di riottenere
quei momenti di gioia e di benessere.

Possiamo anche essere legati alla convinzione che la gioia e la felicità arrivino come ricompensa per
essere stati retti, per essere stati buoni a sufficienza o abbastanza amorevoli. Possiamo pensare che la
felicità sia un premio per essere stati perfetti, il che naturalmente ci condanna a una vita di grandi sforzi,
di lotta e di giudizi e fa parte di questa convinzione identificare l’infelicità con l’essere in errore, per cui
crediamo che se siamo infelici è perché siamo privi di valore o imperfetti, o inamabili. Il mistico sufi
Rumi una volta ha detto: "Al di là delle idee di giusto e sbagliato si stende un campo ed è lì che voglio
incontrarti".

Ho letto di recente uno studio di un professore di Harvard che ha speso parecchi anni a studiare la felicità.
In questi studi, ha preso in considerazione un gran numero di persone diverse, ha studiato le vite di vari
professori, di gente comune, di persone in crisi e uno dei risultati, probabilmente non sorprendente, di
questo studio è la scoperta che la felicità non è qualcosa che ci si possa guadagnare. Personalmente, penso
che questo insight sia un tantino fiacco, benché egli sia arrivato ad altri risultati interessanti. Ha
intervistato delle persone che avevano vinto alla lotteria: se erano infelici prima di vincere, dopo essersi
comprate il paradiso, erano infelici di nuovo. Ha intervistato un insegnante di Harvard che era diventato
docente di ruolo, e aveva speso tutta la sua vita per arrivare a questo incarico, ma se era un insegnante
infelice, sarà diventato un docente di ruolo infelice. Ha intervistato persone in terapia, e ha scoperto che se
erano infelici quando si erano sottoposte a terapia, dopo aver scoperto alcune delle ragioni della loro
infelicità, la loro comprensione non bastava da sola a garantir loro la felicità, potevano dopo tutto
risultarne infelicemente sagge. Ha anche intervistato persone che avevano avuto malattie terribili e ha
scoperto che queste malattie non erano decisive per determinare se la persona sarebbe stata felice o
infelice.

Ma forse la parte più interessante di questo studio è la scoperta che gran parte della felicità non ha a che
fare col guadagno o la perdita, che la felicità non c’entra col successo e il fallimento, con l’approvazione e
il biasimo, e che le persone più gioiose sono quelle meno preoccupate di sé, le meno ossessionate da se
stesse. È tra di esse che egli ha trovato le persone più capaci di gioia. Ed ha scoperto che questa assenza di
auto-ossessione o di auto-preoccupazione non arriva necessariamente alle persone attraverso grandiosi
insight o esperienze speciali, ma che questa assenza di auto-preoccupazione o di auto-ossessione ha una
diretta relazione con la capacità di queste persone di vivere le loro vite con tutto il cuore, che la capacità
di essere totalmente immersi, di partecipare di tutto cuore ci libera dal mondo contratto del sé e ci libera
anche dal mondo contratto della separazione, dal mondo di io e l’altro, il mondo della distanza, e della
disunione.

Dunque, una persona che si impegna totalmente in qualcosa, sia che ascolti con tutto il cuore il canto di
un uccello, o che lavi una tazza, sia che faccia con tutta se stessa un solo passo, o che guardi una gemma
che si sta aprendo su un albero o anche che esplori con tutta se stessa il corpo che soffre, sicuramente si
libera dalla contrazione e scopre un sentiero di gioia. Madre Teresa una volta disse che un cuore gioioso è
l’inevitabile risultato di un cuore che brucia d’amore. Quindi, non importa quanto piccola o grande sia
un’azione, quanto intenso o quanto sottile sia un incontro col mondo o con noi stessi, essere totalmente
presenti significa perdere se stessi, non abbandonare se stessi, ma perdere l’auto-preoccupazione.

Abbandonare l’auto-preoccupazione significa imparare ad amare quello che facciamo e dove siamo. E
nella dedizione e passione di questa adesione talvolta, con nostra sorpresa, ci imbattiamo nella gioia, una
gioia non tanto per quello che abbiamo ottenuto, ma per quello che abbiamo abbandonato. Se riflettiamo
sui momenti di grande dukkha, di profondo dolore nel nostro cuore e nella nostra vita, molti di essi
risultano anche essere i momenti di più grande separazione, in cui ci sentiamo identificati o contratti in
una situazione, in un ruolo, o in un’identità, essere il paziente, o colui che pensa, o colui che giudica, o la
persona arrabbiata. E in quei momenti possiamo chiederci: è veramente la rabbia, è veramente una
sensazione, è veramente la malattia che ci fa soffrire? O non è l’identificazione, la contrazione, e la
separazione che ci fanno soffrire?

C’è un meraviglioso detto Zen che dice: la meditazione è studiare la vita, studiare la vita è studiare il sé,
studiare il sé è dimenticare il sé, e dimenticare il sé è essere illuminati da tutte le cose.

Per scoprire la gioia, ci viene chiesto di osservare con grande attenzione, di osservare con precisione quei
momenti e quei luoghi segreti dove c’è la sofferenza, per essere disposti a entrare in profonda intimità con
quei luoghi e non voler scappare. Dimenticare se stessi non significa certo cercare di cancellare o di
abbandonare noi stessi, ma, esplorando dukkha, si impara che possiamo entrare in intimità con tutte le
zone fragili e difficili che esistono dentro di noi, senza contrarci o identificarci, che possiamo liberare noi
stessi dal ruolo del sofferente. Un ruolo che poggia sulla distanza e sulla separazione. Quando ci
avviciniamo ai luoghi della sofferenza dentro di noi, possiamo imparare ad abitarci senza esserne
posseduti, ed imparando ad aprirci ai luoghi del dolore, essi ci insegnano, e anche nei luoghi più difficili e
delicati del nostro cuore, possiamo scoprire la pace e perfino barlumi di gioia.

Il Buddha non ha parlato sempre e solo della sofferenza. Penso che il Buddha abbia spesso una brutta
nomea, come di uno ossessionato dalla sofferenza, ma ha parlato spesso della gioia che possiamo trovare
e di quella che possiamo coltivare. Ha parlato sovente dell’apprezzamento della gioia che ci arriva dal
mondo in cui viviamo e dal nostro mondo interiore, che impariamo a ricevere con un cuore capace di
apprezzare e di celebrare. Ma ha anche parlato della coltivazione della gioia nella nostra vita e nella nostra
pratica. Ha parlato della gioia che nasce dalla saggezza del cuore, o da un cuore etico, ha parlato
spessissimo della rettitudine, dell’onestà e dell’etica in questa pratica, semplicemente perché è il modo per
vivere con un cuore e una mente senza nuvole, limpidi, perché è un modo per imparare a liberare la
rabbia, l’avidità e la paura.

E possiamo verificarlo nella nostra vita, quando viviamo in modo non etico, quando parliamo o agiamo
con nocività o con rabbia, sono momenti in cui sentiamo la più profonda separatezza tra io e tu, in cui
cerchiamo di proteggere o di difendere noi stessi, e ne subiamo molte conseguenze, viviamo con i residui
della colpa, della paura, dell’auto-giudizio, che sono come pietre nel nostro cuore e nella mente. Avverto
spesso che questo sentiero è un sentiero per imparare a vivere senza residui, per imparare a incontrare
un’altra persona e per imparare a lasciarla, per imparare a parlare e ad agire pensando in un modo che non
lasci tracce dietro di sé, ma un senso di completezza e di saggezza e di gentilezza amorevole, e vivere
senza residui significa vivere in modo profondamente libero. L’unico residuo della rettitudine è la gioia e
un cuore in cui vive la pace.

Il Buddha ha parlato della gioia che si trova nella tranquillità e nella serenità. Possiamo verificare nella
nostra esperienza che quando siamo catturati dall’agitazione, dall’irrequietezza, quando siamo molto
preoccupati o ossessionati, c’è veramente poca gioia, c’è per lo più conflitto e contrazione. Dunque,
quello che facciamo nella nostra pratica è imparare l’arte di calmare la mente, di calmare il corpo, di
calmare il cuore. Prestando ascolto sempre e di nuovo a questo momento, imparando a lasciar andare la
lotta per ottenere o per liberarsi di qualcosa. E nello svanire di questa lotta scopriamo che c’è pace.
Finiamo per accorgerci che tutto quello di cui abbiamo bisogno per la compassione, la gioia, per imparare,
risiede in questo momento.

Il Buddha ha parlato anche della profondissima gioia che viene dai livelli più profondi della serenità, la
gioia della focalizzazione della mente e del silenzio. Uno dei grandi benefici della pratica di samadhi è di
scoprire che abbiamo un livello talmente profondo di felicità interiore che siamo totalmente convinti che
non c’è niente che possiamo ottenere nel mondo che possa eguagliarla. E ha parlato anche della gioia che
nasce dalla rinuncia e dal lasciar andare, che non è molto usuale nella nostra cultura, non è vero? Di solito
il nostro messaggio è: sii di più, possiedi di più, sii più felice. Non capita di accendere la televisione e
sentire il messaggio: questo è il giorno adatto per lasciar andare.

Dunque, spesso pensiamo alla rinuncia come a una forma di terribile deprivazione, ma se veramente
lasciassimo andare, non diventeremmo dei senza casa che vivono per la strada, se fosse questo il risultato
del lasciar andare, le nostre città sarebbero piene di senza casa illuminati, e sappiamo che non è sempre
vero.

Perché lasciar andare? Non per renderci infelici, non per immiserirci, o per soffrire, ma perché il lasciar
andare apre la porta alla gioia e alla libertà. Ogni volta che ci attacchiamo a qualcosa, qualsiasi essa sia,
nella vita, il senso dell’io è fortemente presente insieme al bisogno, alle aspettative, alla paura, alla
richiesta e nessuna di queste esperienze è particolarmente gioiosa.

Ogni volta che impariamo a lasciar andare, impariamo a liberare il nostro mondo contratto, e questo non
significa che se ne vadano da questo mondo tutte le difficoltà, ma impariamo ad avere fiducia nella forza
del nostro stesso essere. Impariamo ad aver fiducia nella nostra personale saggezza e impariamo a trovare
rifugio nell’intrinseca purezza della nostra mente. E possiamo interrogarci: abbiamo davvero bisogno di
così tanto per essere felici? La felicità risiede veramente nell’ottenere e nel proteggere? E scopriamo che
no, scopriamo che ogni momento in cui riusciamo a lasciar andare è un momento di gioia.

Il Buddha ha parlato anche della felicità della solitudine. Krishnamurti una volta ha detto: "Ho scoperto
che c’è una grande felicità nel non volere, nel non essere qualcosa, nel non andare da nessuna parte". Si
parla spesso in questo sentiero della felicità della solitudine interiore e dello stare soli, scoprendo
interiormente la gioia, l’unità e la completezza che non poggia su altro. E non posando su altro non crolla.
Notiamo quanta sofferenza nasce nella nostra vita dal fare affidamento su cose che per loro natura
andranno in frantumi. Scoprendo come essere a proprio agio nello stare e nell’essere soli, impariamo
anche come lasciarci un pochino alle spalle il mondo del bisogno e tutte le paure che lo accompagnano e
in questo profondo senso di stare ed essere soli, liberiamo anche il mondo degli altri dai nostri bisogni e
dalle nostre richieste; e liberiamo noi stessi dalla paura e dal senso di incompletezza, e scopriamo la
grande gioia di incontrare qualsiasi cosa le circostanze della nostra vita ci portino, qualsiasi dolore o
piacere.

Il Buddha ha parlato anche dell’incrollabile gioia della liberazione, dell’imparare a vedere la trasparenza
della separazione in modo da dimenticare se stessi attraverso una vera intimità con tutte le cose. Questo
sentiero è in ogni passo un sentiero di gioia, dove impariamo a scoprire il cuore che irraggia benedizioni.

DISCORSO TENUTO A ROMA IL 29 GENNAIO 2000. TRADUZIONE A CURA DI SAMIRA COCCON E CHANDRA
CANDIANI.

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