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P.

Józef Urban
(Prof. Facoltà di Teologia
della Diocesi di Opole)

DIALOGO INTERRELIGIOSO
E MISSIONE “AD GENTES”

Nei documenti postconciliari riguardanti il dialogo interreligioso si


incontrano testi che definiscono il dialogo come un valore in se stesso senza
riferimento alla missione. Ciò è già evidente nell’enciclica Ecclesiam suam
di Paolo VI del 6 agosto 1964 ed anche nei documenti pubblicati durante il
Concilio stesso. Il promotore di atteggiamenti della Chiesa più aperti nei
confronti delle religioni non cristiane circa tre mesi prima nella solennità di
Pentecoste (17 maggio 1964) portò alla creazione del Segretariato per le
Religione non cristiane. È sorta così una istituzione indipendente dalla
Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, incaricata fin dall’inizio
dell’attività missionaria della Chiesa. Il Segretariato istituito da Paolo VI
ottenne dall’Enciclica Ecclesiam suam una ulteriore ragione della sua
esistenza. La terza parte dell’enciclica, totalmente dedicata al dialogo, nel
quale il papa esorta la Chiesa a intrecciare il dialogo con tutti gli uomini di
buona volontà e cita tre categorie di persone come interlocutori di dialogo.
Sono: l’uomo in genere, i credenti in Dio, i Fratelli separati dalla Chiesa
Cattolica.
Il fatto che sono messi al secondo posto gli Ebrei, i mussulmani e gli
aderenti alle altre grandi religioni dell’Africa e dell’Asia come interlocutori
del dialogo ci dà la chiara sensazione che possiamo accogliere la tesi che già
prima della fine del Concilio il papa con la sua personale autorità riconosce
il dialogo come mandato per la Chiesa di oggi. Dopo tale constatazione, cioè
della separazione della non dipendenza del dialogo dalla missione di
evangelizzazione, si pronunziarono in questo stesso senso anche i documenti
conciliari Nostra aetate e Gaudium et spes.

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1. Dialogo per scoprire la presenza di Dio

Di questo dialogo scrisse J. Masson nel commento alla dottrina del


Concilio choamondolo dialogo in senso nuovo, in quanto non è un dialogo
che ha immediatamente l’intenzione di convertire. L’autore ci richiama a
distinguere questo dialogo dal dialogo che ha come scopo del suo esistere
l’attività puramente missionaria, che ha in se stessa chiara l’intenzione di
portare alla fede e al battesimo.
P. Rossano primo segretario del Segretariato per i Noncristiani scrisse nel
1968 che insieme al dialogo come mezzo e base spirituale che deve
vivificare l’opera missionaria, esiste anche il dialogo con i non cristiani; che
anche se non è missione, che si distingua dalla evangelizzazione, è aperto
alla dimensione di Dio, affinché l’umanità viva nella reciproca
comprensione, nell’intesa fraterna e nell’unità. Il su ricordato P. Rossano,
come unico autore dei primi documenti riguardanti il dialogo, si era già
posto la domanda: “È possibile il dialogo senza missione, se non ci sono
missioni senza dialogo?” La convinzione di questa possibilità l’autore la
dedusse dalla lettura dell’enciclica Ecclesiam suam e i dai documenti
conciliari, soprattutto Nostra aetate. Lo scopo del dialogo tra le religioni non
cristiane chiaramente definito da questi documenti, quale è la reciproca
comprensione, la conoscenza e l’ascolto continuo e crescente in ciò che una
religione ha da dire all’altra, fa sì che il dialogo tra le religioni si può
considerare indipendente dalla missione. Ciò non è contrario alla
convinzione che ciò può nutrire il partner cristiano del dialogo, al punto che
un dialogo così concepito serve ai disegni divini e ai piani della sua grazia a
noi ignoti e prepara la strada alla missione evangelica. Aggiungiamo subito
che nella prima fase del dialogo, come si è creduto immediatamente nel dopo
concilio, esso non deve essere portato avanti con i sitemi filosofico-religiosi
ma con gente concreta. “Le persone, cioè i figli di Dio si incontrano tra di
loro e non le religioni in quanto tali.” Scrisse il primo Presidente del
Segretariato per i non cristiani, il Cardinale P. Marella. Per questo motivo,
cioè per sottolineare il carattere vivo, personale e concreto del dialogo,
facciamo osservare a questo punto che si preferì la dizione “Segretariato per
i non cristiani” anziché “Segretariato per le religioni non cristiane”.

2. Attenzione all’altro

Sul dialogo, come valore in se stesso, leggiamo parimenti nel documento


del 1967 cioè Suggerimenti. Collegandosi con il Concilio Vaticano II gli

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autori spingono affinché i cristiani nei confronti dei credenti di altre religioni
non si accontentassero unicamente di rendere nota la dottrina (il kerigma) e
di dare testimonianza (martyrion), ma allacciassero un dialogo reale sul
piano umano e “collaborassero (…) nell’annodare un dialogo strettamente
religioso”. Appunto questo dialogo strettamente religioso, che non è
missione costitutiva, ma è volto alla reciproca comprensione, conduce ad
uno scambio più ricco e complesso di auto ed etero interpretazione, nel quale
si incontrano:
™ sguardo dell’altro dal punto di vista della sua religione,
™ sguardo a se stesso,
™ sguardo all’altro dal proprio punto di vista,
™ sguardo della valutazione che l’altro ha della nostra religione,
™ sguardo al contesto storico del dialogo interreligioso,
™ sguardo della valutazione della religione “nel mondo” che a sua
volta deve essere intravista nella sua universalità e diversità,
™ sguardo alle attese “del mondo”,
™ sguardo alle possibilità comuni e della propria religione nei confronti
“del mondo”,
™ sguardo ai compiti, che in base alla dinamica interna di ogni
religione, sorgono riguardo “al mondo”.
Ritornando a Paolo VI, che J. Dupuis chiama “l’avvocato del dialogo”,
bisogna accostarsi al suo modo di intendere il dialogo confrontando un altro
documento, cioè l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi dell’8
dicembre 1975, che rappresenta il risultato del Sinodo dei Vescovi sul tema
dell’Evangelizzazione. La concezione del papa nei confronti delle altre
religioni, per quel che riguarda il dialogo sembra, sotto un certo punto di
vista, incoerente. Da una parte il papa va oltre il linguaggio conciliare
abbastanza prudente, sottolineando fortemente la presenza di verità e di
bene nelle religioni non cristiane, che queste religioni furono per moltissime
generazioni scuola di preghiera. Da un altro punto di vista, cioè circa la
questione della stessa comprensione del dialogo interreligioso sembra che il
papa si allontani dalla concezione presentata dalle Sugestie, e quindi dal
documento del Segretariato. Infatti il dialogo è per lui qualcosa “accanto”
all’evangelizzazione, ma non è questo il dialogo nel quale si arriva alla
suddetta più ricca auto ed etero interpretazione. Una coraggiosa lettura
dell’Ecclesiam suam porta, infatti, alla conclusione che per Paolo VI il
dialogo deve essere lo strumento principale per distruggere i pregiudizi e la
mancanza di comprensione tra i gruppi di persone, deve essere il mezzo che
serve per raggiungere buoni traguardi, come la libertà religiosa, la cultura e
l’ordine pubblico, ed anche altri beni sociali. È dunque difficile parlare qui
di dialogo tra le religioni nel significato stretto della parola, si tratta piuttosto

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del dialogo tra le culture, e precisamente dell’evangelizzazione delle culture.
L’evangelizzazione delle culture, come scrisse tra gli altri J. Amstutz, era, in
quel tempo, la nuova strada dell’aggiornamento della Chiesa, la nuova
prospettiva nel dialogo con le religioni non cristiane. Si può affermare che
Paolo VI è arrivato al dialogo tra le persone religiose, ma non ha intravisto il
posto per il dialogo tra le religioni. È questo forse un indizio della
interpretazione minimalista dei testi conciliari. Questa valutazione deriva
soprattutto da come si percepiscono le tradizioni religiose in quanto tali.
Purtroppo queste religioni erano solamente eco della voce di coloro che in
sincerità cercavano Dio e nonostante fossero espressioni di eccellenti
religioni naturali, non erano in grado di stabilire un vero contatto con Dio,
“anche se tendevano le braccia verso Dio”. Questa valutazione negativa delle
religioni non cristiane nell’Evangelii nuntiandi, che non da la possibilità
pratica di stabilire con loro un dialogo strettamente religioso, risulta forse
dalla specifica situazione postconciliare, quando appariva un folto gruppo di
teologi cattolici, che richiamandosi tra l’altro all’insegnamento del vaticano
II, desideravano che le religioni si riconoscessero tutte valide. È probabile
che Paolo VI temesse che questa logica interiore portasse ad una
relativizzazione del carattere assoluto del cristianesimo.

3. Non strategia, ma valore in sé

Tra molti teologi, soprattutto tra quelli collegati con il Segretariato per i
non cristiani, sempre più si definiva il senso del dialogo, come valore in se
stesso, e questo era dovuto alla visione positiva delle religioni non cristiane.
La derivante richiesta di una sempre migliore conoscenza e comprensione
del loro bagaglio spirituale portò a non accettare il dialogo come sottile
forma di strategia missionaria. “Ci inseriamo nel dialogo – scriveva L.
Spider – per imparare qualcosa, per poter cambiare e non per imporre il
cambio agli altri”. Il dialogo, come anche l’amore, non ha davanti a sé un
fine precostituito, e perciò non può essere un mezzo immediato di
missioinarietà e non può essere una missionarietà “criptata”. Il dialogo
accetta l’altro, la sua diversità, lo lascia libero e gli offre amore e fraternità.
In questo senso il dialogo è una parte della missione della Chiesa compresa
in senso generale, perchè serve l’unità del genere umano e in noi si presenta
come una manifestazione dell’amore di Dio, per questo “(…) mai siamo
cristiani per noi ma per gli altri”.
Il successore di Paolo VI, papa Giovanni Paolo II, a ragione merita il
titolo del papa del dialogo. La fonte della sua ispirazione al dialogo era la

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dottrina del suo predecessore, come anche l’attività del Segretariato per i non
cristiani. Ed appunto papa Giovanni Paolo II cambiò la denominazione del
Segretariato in Pontificio Consiglio per gli Affari del Dialogo tra le Religioni
(Pontificium Consilium pro Dialogo Inter Religiones). Questo avvenne il 1°
marzo 1988, quando il papa promulgò la Costituzione Apostolica sulla Curia
Romana Pastor Bonus. Il cambio di denominazione in occasione della
riforma non è una questione puramente formale, ma manifesta l’evoluzione
della concezione della Chiesa nei confronti delle altre religioni. L’aspetto
negativo dominante (pro non Christianis) della precedente denominazione è
stato sostituito dall’aspetto positivo (pro Dialogo inter Religiones). Già in
precedenza, nella sua prima enciclica, Giovanni Paolo II si è manifestato
come un papa aperto al dialogo tra le religioni, che non assumeva una
costitutiva attività missionaria. Il motivo per il cristiano per accogliere detto
dialogo può essere la seguente originale riflessione: “(…) non è forse vero
che non raramente le forti convinzioni in fatto di fede dei credenti nelle
religioni non cristiane – che sono parimenti frutto dello Spirito di Verità che
sconfina nel suo operare oltre l’ambito visibile del Corpo Mistico di Cristo –
hanno messo in confusione i cristiani (…)?” Perciò il papa esorta a tutte
quelle attività che hanno lo scopo di avvicinamento dei rappresentanti delle
altre religioni, come “(…) il dialogo, gli incontri, la preghiera comune, la
scoperta di quei tesori della umana spiritualità, che (…) non mancano ai
credenti di queste religioni”. La suddetta riflessione del n. 6 della Redemptor
hominis è una originale esortazione alla Chiesa affinché approfondisca la
propria identità, perché i cristiani siano molto più zelanti nella loro fede,
guardando i tesori di spiritualità presenti nelle altre religioni, la forza di
convinzione dei loro aderenti. Non è escluso che già fin d’allora (1979) il
papa pensasse all’incontro di preghiera ad Assisi (1986) che fu la
concretizzazione visibile della sua visione del dialogo tra le religioni.

4. La visione di Giovanni Paolo II

La visione del dialogo interreligioso di Giovanni Paolo II ha avuto senza


dubbio un influsso sul contenuto del documento del Segretariato per i non
cristiani pubblicato il giorno di Pentecoste del 1984, in occasione del
ventesimo anniversario della costituzione del Segretariato. Si tratta
precisamente della Concezione della Chiesa nei confronti dei credenti nelle
altre religioni. Riflessioni e orientamenti sul tema del dialogo e della
missionarietà. Il papa, parlando alla conclusione della Congregazione
Plenaria del Segretariato il 3 marzo, cioè due mesi prima della pubblicazione

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del documento, ha detto tra l’altro che “(…) il dialogo ha per la Chiesa un
significato fondamentale, (…) si fonda nella vita interna della Trinità”. Ma
poiché il documento doveva toccare il tema del dialogo e della missionarietà,
il papa chiarì: “Il dialogo appartiene al compito salvifico della Chiesa e per
questo motivo è un dialogo salvante”, aggiungendo nello stesso tempo, che
“(…) il dialogo autentico diventa una testimonianza e la verace
evangelizzazione si realizza nel rispetto e nell’ascolto dell’altro”. Le
citazioni del papa qui inserite attestano di un allargamento di vista nella
comprensione del dialogo e similmente si riscontra nel documento di cui
parlerò tra poco.
Nella “Concezione” abbiamo parimenti la definizione del dialogo che
non ha una valenza missionaria di evangelizzazione. Gli autori,
richiamandosi a Ecclesiam suam e al Concilio Vaticano, scrivono che il
concetto “indica (…) non soltanto il parlare, ma anche il complesso dei
rapporti positivi e costruttivi tra le religioni con le persone e con le comunità
di altre fedi, che hanno come scopo la reciproca conoscenza e
l’arricchimento da tutte e due le parti”. Nell’ambito del discorso di realtà
complesse e definite dei legami, come è la missione, il documento, al quarto
punto, dice che una delle manifestazioni è “(…) il dialogo, nel quale i
cristiani si incontrano con i credenti delle altre tradizioni religiose, per
giungere insieme a loro alla verità e collaborare per il bene comune”.
Nonostante che il dialogo sia stato inserito nell’attività generale della Chiesa,
possiamo forse intravedere in questo documento il dialogo posto accanto
all’impegno dell’evangelizzazione. A questa conclusione, che appare non
contrastante, ci induce la lettura soprattutto dei numeri 20-35, dove è
presentata un’analisi vicinissima dello stesso dialogo e delle sue forme. Le
funzioni proprie del dialogo, in questa parte del documento, manifestano il
suo valore in quanto tale, per esempio quando leggiamo che “(…) permette
ai dialoganti di conoscere e apprezzare i valori spirituali reciproci e le
categorie culturali” e “(…) condividere l’esperienze di preghiera, di
contemplazione della fede e della partecipazione (…)”, questo “conduce ad
un reciproco arricchimento e fruttuosa collaborazione nel sostenere e
difendere quei valori e ideali spirituali, che sono nell’uomo i più importanti”.

5. L’attenzione degli ultimi documenti

Dobbiamo anche riflettere per vedere se nei due ultimi nuovi documenti,
cioè l’enciclica Redemptoris missio e Dialogo e profezia, possiamo
incontrare la tesi che il dialogo è un valore in se stesso. Sembra che questi

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due documenti continuino la dottrina che è contenuta in “Concezione”. In
Redemptoris missio incontriamo queste frasi: “Il dialogo interreligioso
appartiene alla missione evangelizzatrice della Chiesa (…) è con essa in
modo speciale collegato e ne costituisce una tipica manifestazione”, e “Il
dialogo non sorge per tattica o per tornaconto, ma è una attività che possiede
una sua giustificazione, esigenze e dignità: sgorga dal profondo rispetto per
tutto ciò che in ogni uomo produce lo Spirito”.
Secondo il parere di H. Wladenfels, in un simile modo di concepire il
dialogo, si nota una certa incongruenza, che deriva dal fatto che questo
concetto il papa lo ha motivato meno da un punto di vista antropologico,
come anche teologico-ecclesiologico, ma soprattutto pragmatico, avendo
sotto attenzione la nuova situazione nella comunicazione fra gli uomini. Le
parole determinanti per noi appartengono proprio al papa, che chiarisce la
relazione tra il dialogo e la profezia nel modo seguente: “È necessario
tuttavia che questi due elementi conservino la loro reciproca e stretta
relazione e nello stesso tempo la loro indipendenza perciò non è lecito
mescolarli o manipolarli, o considerarli alla pari, come se fossero
interscambiabili”. L’espressione che il dialogo “non si deve manipolare”
significa, nel linguaggio del papa, che non si deve ridurre al solo mezzo per
annunciare il Signore Gesù. Il dialogo di cui parla il papa come “(…)
metodo e mezzo per la reciproca conoscenza e arricchimento (…)”,
differenzia e distingue il dialogo dalla missione. Infine quando si parla del
fine e dei frutti del dialogo notiamo che Giovanni Paolo II si schiera a favore
del dialogo interreligioso in quanto tale. La Chiesa, infatti, per mezzo del
dialogo, intende scoprire “i semi della Parola” e “i riflessi di quella Verità,
che illuminò tutte le genti”. Le altre religioni sollecitano la Chiesa “(…)
parimenti a scoprire e riconoscere le impronte della presenza di Cristo e
dell’opera dello Spirito, come anche all’approfondimento della propria
identità e a dare testimonianza della intregalità della Rivelazione, che è una
sentinella per il bene di tutti”. Praticamente si tratta non della conversione
degli altri al cristianesimo, ma della conversione dei partners del dialogo a
Dio. Non dimentica, naturalmente, il papa, che “(…) il dialogo non dispensa
dalla evangelizzazione”.
Il più recente dei documenti, Dialogo e profezia, si collega parimenti a
“Concezione” del 1984, in cui l’indizio è la stessa definizione del dialogo.
Gli autori citano letteralmente la definizione presa da “Concezione”che il
dialogo indica “(…) il complesso dei rapporti positivi e costruttivi
interreligiosi con le persone e le comunità delle altre religioni che hanno
come scopo la reciproca conoscenza e l’arricchimento da tutte e due le
parti”. Nonostante gli autori aggiungano subito che il dialogo è uno “ (…)
dei componenti indivisibili della missione di evangelizzazione della Chiesa”,

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si dichiarano a favore anche del dialogo come valore in se stesso.
Evidentemente questo è almeno come dichiarazione nel tema del dialogo:
esso infatti pone la sua attenzione “(…) a una più profonda attenzione di tutti
a Dio”, mentre nell’annuncio si invitano gli altri perchè diventino discepoli
di Gesù Cristo nella comunità della Chiesa. Un’altra manifestazione del
dialogo in se stesso è anche la motivazione che non si tratta solo della
reciproca comprensione e dello stabilire rapporti amichevoli, ma anche dello
scambio e della comunicazione che consistono (…) nella comune
esperienza, di ciò in cui ciascuno crede, e nel rispetto delle comuni
convinzioni religiose”. Le “relazioni positive e costruttive” ricordate nel
numero 9, che hanno come scopo “la conoscenza reciproca e l’arricchimento
di tutte e due le parti”, hanno un senso particolare soprattutto là dove la
profezia attualmente è praticamente impossibile. Simili situazioni sorgono
non solo rispetto all’islamismo che è sempre più integralista e sospettoso,
anche fuori dei paesi nei quali domina ma anche riguardo all’induismo, che
rappresenta una grande forza, religiosa, culturale e tradizionale che influisce
su oltre seicento milioni di persone, ed ancora riguardo al buddismo,
soprattutto giapponese, che con efficacia blocca il diffondersi del
cristianesimo monoteista. Appunto in queste situazioni soprattutto la parola
“dialogo” acquista senso come valore in se stesso. Tale dialogo è
fondamentale per la Chiesa, “che è chiamata alla collaborazione secondo il
piano di Dio per mezzo della presenza, del rispetto e dell’amore per tutti”.
Anzi “la Chiesa invita e sollecita il dialogo interreligioso con diverse
tradizioni ma parimenti tra le tradizioni religiose (…)”.

6. Legame tra dialogo e missione

La comprensione del dialogo interreligioso come valore in se stesso ha la


sua sorgente nell’enciclica Ecclesiam suam e nel Concilio Vaticano II. Il
primo Presidente del Segretariato per i Non Cristiani, nel 1969 scrisse
semplicemente: “La Chiesa desidera in modo indivisibile congiungere il
dialogo e la missione per adempire al mandato dell’evangelizzazione e della
missione, vuole accogliere lo spirito e lo stile del dialogo (…). Questi legami
della missione con il dialogo li ritroviamo soprattutto nel decreto Ad gentes e
Nostra aetate. Il Decreto missionario consacrato soprattutto alla
evangelizzazione e alla missione, accentua la necessità del dialogo, mentre la
Dichiarazione sulle religioni non cristiane trattando del dialogo sottolinea la
necessità e la sollecitudine della missione. Ultimamente per molti
missionologi del concilio e del dopo concilio è chiaro che il dialogo ha

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smesso di essere un’alternativa selettiva metodologica della missione ma è
diventato la parte fondamentale e basilare. Non si deve identificare
naturalmente il dialogo con la missione, ma secondo l’insegnamento di
Paolo VI nell’Ecclesiam suam, deve rappresentare una tappa iniziale
dell’attività missionaria. Il dialogo vero è collegato con l’attività missionaria,
ha scritto W. Kasper, commentando l’insegnamento del Concilio, infatti
“(…) il cristiano ha il desiderio di condividere con l’altro ciò che per lui è la
cosa più preziosa – l’amore divino in Gesù Cristo (…) abbiamo ottenuto la
fede non come possesso personale, ma come dono che dobbiamo
condividere”.
Prima di passare all’esame dei documenti postconciliari, è il caso di
accennare che l’Ecclesiam suam di Paolo VI in alcuni punti considera il
dialogo come un elemento della missione evangelizzatrice della Chiesa. Il
papa aveva capito che perché l’annunzio del Vangelo fosse fruttuoso, doveva
seguire il metodo del dialogo. Grazie a questa enciclica, il tema del dialogo è
affluito nella teologia e nella Chiesa, oltrepassando, a giudizio di P. Neuner,
ciò che il papa immaginava. In quei tempi non si aveva il concetto del
dialogo in senso classico, cioè che nel dialogo bisogna anche ascoltare. A
volte la Chiesa incominciò a presentarsi come ascoltatrice e referente. Sul
carattere missionario e salvifico del dialogo nell’Ecclesiam suam
testimoniano le parole: “Il dialogo (…) bisogna considerarlo come un certo
modo di adempiere il mandato apostolico (…)”, e la convinzione che nel
dialogo si possono scorgere diverse strade, si può accettare alla luce della
fede. In questa enciclica abbiamo anche la risposta alla domanda: perché
dobbiamo portare avanti questo dialogo sebbene salvifico? Quale ne è la
sorgente? Per Paolo VI è chiaro che essa è il dialogo di Dio con l’uomo.
Infatti “Dio per primo iniziò il dialogo salvifico, Lui e Lui solo (1 Gv 4,10)”.
Sul dialogo come componente della missione parla chiaramente il Sinodo
del 1974 nell’argomento della evangelizzazione del mondo contemporaneo.
Come si sa, non ci fu un documento finale di questo sinodo, tuttavia nello
schema preparatorio si leggono parole interessanti per noi: “Il dialogo
interreligioso non può essere inteso come un elemento esterno rispetto alla
missione evangelizzatrice della Chiesa (…). Esso è già una manifestazione
concreta della missione della Chiesa. Particolare riassunto del Sinodo,
mancando il documento finale fu l’esortazione Evangelii nuntiandi del 1975.
Per la questione che ci interessa, solo nel numero 63 parla delle religioni non
cristiane, però lì non si trova la parola “dialogo”. Come è possibile – si
domandarono alcuni teologi – che il “papa del dialogo” abbia taciuto su un
tema che era stato accolto positivamente nell’assemblea sinodale? Il
problema si può chiarire vedendo che c’è una valutazione teologica molto
negativa delle religioni non cristiane come lo costatiamo nel citato numero

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53. Queste religioni sono solo una ricerca e un approdo dell’uomo a Dio.
Anche quando si tratta di “religioni naturali (…) ed eminentissime”, non
sono in grado di condurre a “relazioni vere e vive” con Dio, sebbene
“tendono le braccia verso di Lui”. Di fronte a questa valutazione teologica
negativa delle religioni non cristiane, non stupisce la mancanza della parola
“dialogo”, rimane solo di evangelizzare i non cristiani. Solo la religione di
Gesù Cristo è in grado di unire l’uomo con Dio mentre le religioni non
cristiane operano unicamente nell’area naturale e soggettiva.

7. Lo sviluppo del dialogo come attenzione missionaria

Durante il pontificato di Giovanni Paolo II ci troviamo di fronte, senza


dubbio ad uno sviluppo del concetto di dialogo, anche sotto l’aspetto di
missione evangelizzatrice. Con questa comprensione del dialogo ci
incontriamo chiaramente nel documento del Segretariato per i non Cristiani
“Concezione della Chiesa verso gli aderenti alle altre religioni” del 10
giugno 1984. Vi si legge che la missione ӏ un compito unico nel suo
genere; si adempie questo compito in molti modi, secondo le situazioni con
le quali è collegato”; “tale monolitica e piena realtà di rapporti” contiene
cinque “elementi principali”. Fra di essi c’è il dialogo, “nel quale i cristiani
si incontrano con i credenti di altre tradizioni religiose perché si possa
insieme raggiungere la verità e collaborare al bene comune”. Il documento
con queste affermazioni sembra chiudere la discussione intorno al problema
che durava dal 1964, cioè dalla pubblicazione dell’enciclica Ecclesiam
suam: il dialogo è una componente della missione o si differenzia da essa? Il
Segretariato accettò la prima posizione, ciò non significa che il dialogo era
un mezzo ordinario di azione a servizio della missione evangelizzatrice; in
questo senso sarebbe un ridurlo a strumento per annunziare Gesù Cristo,
mentre è una attività preparatoria che precede le altre il cui scopo finale è la
conversione al cristianesimo. La Chiesa infatti può adempiere la sua
missione in molti modi, il dialogo è uno di essi, accanto alla presenza, alla
testimonianza al servizio dell’altro, alla vita liturgica e all’annunzio e alla
catechesi. Ognuna di queste attività appena enunciate ha nella missione della
Chiesa un suo proprio posto e un suo proprio significato. L’annuncio
cherigmatico del Vangelo raggiunge in essa il suo punto culminante e la sua
pienezza; tuttavia ognuna delle sopra elencate attività e anche lo stesso
annunzio cherigmatico devono avere le caratteristiche dell’atteggiamento al
dialogo. Con H. Wandenfels possiamo ripetere che: “(…) le missioni, senza
il fondamentale atteggiamento al dialogo, non rispondono alla

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autoconsapevolezza cristiana”. In tale senso possiamo affermare che
missione e dialogo si congiungono e si incrociano a vicenda, anche se non
sono identici. Il dialogo, infatti, è contemporaneamente una delle forme di
attività missionaria, ma nello stesso tempo una nota di comportamento della
Chiesa, il cui mandato “(…) abbraccia anche il lavoro della diffusione della
Chiesa e i suoi valori fra tutti gli uomini”. In questa attività “nessuno può
deviare dalla strada dell’amore e del rispetto verso gli altri”. Perciò “il
dialogo occupa nell’attività missionaria un suo proprio posto”.
Analogamente, in un certo senso, la comprensione del dialogo come
elemento costitutivo della missione evangelizzatrice, la troviamo nei due più
nuovi documenti e precisamente in Redemptoris missio e Dialogo e profezia.
Questi documenti si possono esaminare non solo perchè sono usciti lo stesso
anno (1991), ma soprattutto perchè Dialogo e profezia “(…) spiega nei
particolari l’insegnamento dell’enciclica circa il dialogo e le sue relazioni
con la profezia. Dovrebbe perciò essere citato alla luce di questa enciclica”.
In un frammento dell’enciclica riguardante il dialogo interreligioso (numeri
55-57), concordato probabilmente tra il papa e gli autori di Dialogo e
profezia, leggiamo: “Il dialogo è parte della missione evangelizzatrice della
Chiesa. (…) Non si oppone alla missione ad gentes, anzi al contrario è in
modo speciale collegato con essa e ne costituisce una sua manifestazione”.
Nonostante la somiglianza con “Concezione” del 1984, notiamo qui chiare
diversità. In “Concezione” l’annuncio del Vangelo era all’ultimo posto,
come punto culminante della evangelizzazione, qui è al primo posto come
“permanente priorità”; lì dialogo e liberazione erano integrati in un processo
di missione. Ciò non significa che si tratta di una cosa non essenziale, infatti
quel “in modo particolare collegato con la missione il dialogo è anche una
delle strade per il Regno” e delle volte può essere “l’unico modo di dare
sincera testimonianza di Cristo”. Queste affermazioni dimostrano una
concezione larga della evangelizzazione, nella quale il dialogo e l’annunzio
costituiscono “due elementi” o due realtà separate, tra le quali non c’è
tuttavia opposizione, ma sorge contemporaneamente sia un legame stretto sia
una indipendenza, e quindi non si deve mescolarli, né manipolarli o
considerarli alla pari come se fossero tra loro interscambiabili”. Queste
parole, come quelle del numero (55) in cui il papa cita la sua lettera ai
vescovi asiatici, dove si sottolinea l’obbligo dell’annunzio del Vangelo da
parte della Chiesa, alcuni teologi le recepirono come una particolare
“frenata” del dialogo interreligioso da parte del Magisterium Ecclesiae. Il
papa ci ricorda solo la tradizionale dottrina della Chiesa, cioè il fatto che le
altre religioni possono essere per i credenti via a Dio (in questo si basa la
convinzione del dialogo con i non cristiani), non diminuisce la necessità
della Chiesa, della evangelizzazione. La Chiesa, soprattutto nella

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Redemptoris missio e in Dialogo e profezia, si chiarisce come quella che
accoglie la qualità dialogante – con grande rispetto per i non cristiani,
scoprendo nel loro cuore lo Spirito Santo che opera attraverso l’annuncio a
loro di Cristo, da loro una nuova possibilità per giungere a Dio.
Lo scopo di Dialogo e profezia parimenti fu un’indicazione, secondo la
dottrina contenuta in “Concezione” del 1984, che il dialogo interreligioso
costituisce una parte costitutiva della missione di evangelizzazione della
Chiesa. Incontriamo, nel numero 9, la definizione di dialogo ripresa da
“Concezione” a cui subito gli autori aggiungono che il termine “dialogo” si
recepisce come “uno degli indivisibili componenti della missione
evangelizzatrice della Chiesa”. Già prima del resto, il documento cita un
frammento del discorso del papa che “(…) come il dialogo interreligioso è
una componente della missione della Chiesa, anche l’annuncio dell’opera
della salvezza di Dio nel nostro Signore Gesù Cristo, è un altro di questi
elementi (…). Non se ne può scegliere uno ed ignorare o rifiutare il
secondo”. Da ciò chiaramente si deduce che il dialogo e la missione non
costituiscono tra di essi una alternativa, al punto che bisogna o si possa
scegliere tra i due, ma che la missione contiene in sé gli elementi della
reciproca relazione tra gli annunciatori del Vangelo e i rappresentanti delle
altre religioni. Il dialogo e la profezia sono realtà separate, sebbene tutte e
due si prefiggono come scopo la testimonianza: mentre il dialogo ha come
fine una più profonda conversione di tutti a Dio, la profezia tende all’invito
di altri perché diventino discepoli di Gesù Cristo.

8. La Chiesa dialoga per fedeltà

Per poter meglio comprendere il posto del dialogo interreligioso nella


missione della Chiesa, Dialogo e profezia si richiama ad alcuni punti della
ecclesiologia sacramentale del Concilio Vaticano II, circa la relazione tra la
Chiesa come sacramento e il Regno di Dio presente nel mondo e circa il
carattere della Chiesa pellegrinante nella storia, che continuamente ha
bisogno di riformarsi e rinnovarsi, costantemente tendente alla pienezza
della verità. In un tale contesto è facile intendere come il documento
comprende il senso del dialogo interreligioso nella missione evangelizzatrice
della Chiesa. “La ragione fondamentale per inpegnare la Chiesa nel dialogo
non è di natura antropologica, ma innanzitutto teologica”. La Chiesa deve
entrare nel “dialogo di salvezza” con ogni uomo, per fedeltà a Dio che iniziò
con l’umanità un dialogo di salvezza che dura nei secoli”. Anzi “in questo
dialogo di salvezza tutti, cristiani e non cristiani, sono chiamati alla

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collaborazione nello Spirito del Signore Risorto. Nello Spirito, che è
presente universalmente ed opera”.
Le relazioni tra il dialogo interreligioso e la profezia, le esamina
dettagliatamente anche la terza parte di Dialogo e profezia (n. 77-86).
Ancora una volta leggiamo che “parimenti il dialogo interreligioso come la
profezia, sebbene non sono sullo stesso piano, costituiscono elementi
autentici della missione evangelizzatrice della Chiesa. Tutte e due sono
legittimi e necessari. Sono strettamente legati, però non intercambiabili: il
vero dialogo interreligioso presume da parte dei cristiani il desiderio di far
conoscere Gesù Cristo”.
Per il cristiano dunque il dialogo ha una dimensione salvifica, si realizza
in altre parole in un contesto missionario ed è una parte “(…) del dialogo di
salvezza, la cui iniziativa Dio riservò a se stesso”. I cristiani che partecipano
ad un tale dialogo”(…) come non possono sentire la speranza e il desiderio
di comunicare agli altri la gioia della conoscenza di Gesù Cristo, Signore e
Salvatore (…)?. Tuttavia non costituisce esso “la completa missione della
Chiesa, non può sostituire la profezia, ma rimane indirizzato alla profezia
(…)”. Appunto questa enunciazione del numero 82, che “il dialogo non
costituisce la completa missione della Chiesa”, ci può far distinguere il
concetto di dialogo in Dialogo e profezia dal concetto di dialogo nei
documenti del Concilio ed anche dell’Ecclesiam suam .
Riassumendo la presente analisi, aggiungiamo con gli autori di Dialogo e
profezia, che i cristiani realizzano la profezia e il dialogo con le altre
religioni “in un vero spirito evangelico”, credendo in Gesù stesso, che è per
loro “esempio e guida in questo compito, sia nella profezia come nel
dialogo”. In questo modo il dialogo interreligioso, che è un elemento della
missione evangelizzatrice della Chiesa ci si presenta come avente la sua
sorgente in Dio stesso e perciò si può dire che appartiene alla natura della
vocazione cristiana.

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