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Sociologia della Comunicazione e Tecniche della Comunicazione di Massa

Appunti delle lezioni introduttive alla Storia della Sociologia e


ai concetti basilari della Sociologia Generale

Argomenti: Industria Culturale - Positivismo - Sviluppo terminologico - Comte - Tocqueville

1. Introduzione

Nel nostro corso si è discusso del fatto che la Sociologia della Comunicazione si
occupa frequentemente dei prodotti dell’”Industria Culturale”. Inizialmente, la dizione
venne considerata imprecisa (o incongrua) dai sociologi del consenso e dai funzionalisti,
parendo loro un ossimoro. Infatti, il processo industriale è classificato nella serialità, nel
riciclaggio e nell’assemblaggio di elementi di diversa provenienza ed utilizzo. Nel senso
comune, ma anche per i sociologi di quel periodo (anni 1940) l’espressione cultura - nel
suo significato storico - faceva normalmente pensare all’originalità, alla qualità, ad
esempio del pezzo unico, realizzato nei campi dell’estetica e dell’artigianato non di massa.

Il termine, come si vedrà nella sezione manualistica della Parte Generale, è stato
elaborato dalla Scuola di Francoforte. I capiscuola, Theodor Adorno (1903-1969) e Max
Horkheimer (1895-1973) furono tra i primi a parlare di “Industria culturale”, in forma
organica. Termine che ha avuto grande successo dopo gli anni 1960, anche all’esterno
della sociologia. L’Industria culturale è quel settore della comunicazione che ha utilizzato i
mezzi della produzione industriale (fordismo e taylorismo) nel settore di produzione dei
significati culturali: cinema; fumetti; telefilm; ecc.

Uno snodo critico per l’industria di massa (ivi inclusa l’industria dei “sogni”; cioè il
mondo pubblicitario e delle cinematografia “di cassetta”) si compie negli anni 1930, in Usa.
Vengono messe a punto nuove tecniche per ampliare la tiratura dei quotidiani, delle
riviste, della narrativa di massa, ma anche dei fumetti. Più di questo, i teorici pubblicitari
che promuovono il neonato marketing (a seguito del ’29), sentono che è venuto il
momento di un “salto di qualità” nella tecnica della promozione: occorre passare da una
“cultura che promuove bisogni da soddisfare”, ad “una cultura che promuove e sollecita
desideri”. L’intuizione (che si rivelerà corretta) era che, a differenza dei bisogni, che
possono essere soddisfatti per un certo tempo dall’acquisto del bene di cui si ha necessità
(ad es. un elettrodomestico), i desideri sono infiniti, non riguardando né situazioni di
necessità, quanto piuttosto vaghe, mutevoli, intense, “aspirazioni”. E per ciò stesso mai del
tutto soddisfacibili; si apre così l’era degli “infiniti capricci”, uno per ogni merce proposta.

Tale cultura merceologica fa dire all’americano medio: ‘io sono un buon americano
se cambio la macchina ogni 3 anni’; qualche decennio dopo (dopo il 1955) conquisterà
anche i luoghi comuni degli utenti europei del dopoguerra. Questa nuova “educazione
collettiva ad inedite, pervasive, forme di dipendenza” dall’oggetto (iper-versatile)
sostituisce le vecchie grammatiche dei bisogni sociali. Si fanno entrare in gioco più forti
componenti emotive, suggerimenti per abitudini (o manie) auto-realizzative, ego-centrate e
narcisiste. Cosa desidero? Una valorizzazione di me stesso (ma a buon mercato; quindi
consumando qualcosa di passeggero, non guidando una mia esperienza personale di
miglioramento diretto) attraverso una mediazione, un atteggiamento copiato da una moda,
da uno stile Trendy. Esibisco così una “facciata”, arricchita da beni da consumare presto,
per far immediatamente posto ad altri beni, anche questi effimeri. Il processo
comprendente la sostituzione di “beni da consumare presto”, per lasciare ampi spazi di

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deperimento liberi per altri feticci culturali, costituisce l’essenza socio-processuale del
consumismo. Per come viene attualmente considerato e studiato dai sociologi.

Le nuove promozioni suggeriscono che ’niente è impossibile’, si può avere tutto


(magari a rate; magari tramite una sorta di “vitalizio”). Persino, il vecchio concetto di
“promozione” è superato. Ad esso si sostituisce quello di “pedagogia materialista”, di
“magistero” per i nuovi modelli di consumatori competitivi. Ciò ha fatto insorgere la nuova
civiltà dell’immagine post-1960, che l’Europa conoscerà successivamente agli Usa. In
Francia e Italia, la “placida dittatura” dell’immagine mediatica si svilupperà dopo gli anni
del baby-boom euro-americano: 1950-1964. Il fenomeno è stato particolarmente
pressante nel periodo 1960-1968.

La Sociologia della Comunicazione si è interessata e si interessa a studiare tutto


ciò che ha promosso, e promuove, la suddetta cultura dei desideri..

2. Nascita della Sociologia: qualche cenno

La sociologia è figlia del positivismo. Nasce in un secolo (il XIX), che nella sua
“essenza” è borghese e positivista. Certamente, sono esistiti anche altri movimenti
culturali, ma, dopo il declino illuminista, è stato il Positivismo a dare il “tono” all’intero
secolo, sia in Francia, che nella Germania e nell’Italia divenuti stati nazionali unitari, dopo
il decennio 1860. Si è detto; il Positivismo è erede dell’Illuminismo ma se ne distacca,
abbracciando istanze deterministe e scientiste, in vece di quelle critiche e letterarie
(tipicamente aristocratiche) che animavano il suo predecessore. Quindi, se è vero che la
Sociologie è figlia di due madri - la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale - a
questi prodromi non può che aggiungersi una rivoluzione logica, che ha avuto
nel’'empirismo positivista il principale punto di riferimento. La nuova linea sociografica è
orientata alla sistematicità, alla classificazione; alla ricerca e al riordino dei “fatti”, che si
ritiene di poter cogliere con un’”oggettività” che appare indiscutibile. La nuova scienza fu
promossa da interessi borghesi internazionali, di liberi pensatori, molti dei quali, vivendo di
rendita, disponevano delle necessarie risorse per poter diffondere nei salotti europei (per
cominciare, francesi) che contavano il nuovo approccio “preventivo” ai problemi sociali.
Infatti, nel contesto politico-accademico del tempo, si sente il bisogno di una scienza che
scongiuri il rischio di un nuovo, paventato, 1789. La sociologia, oltre che “positiva”, nasce
quindi conservatrice e restauratrice. La Massoneria Internazionale (nata a Londra nel
1717) è stata tra le promotrici di questo metodo di lettura del presente storico. La
Massoneria è una sorta di organizzazione iniziatica, di fratellanza, inizialmente a base
etico-morale, promotrice dell’umanesimo integrale, a scapito dei miti e delle religioni
assolutistiche. In Italia si è diffusa nelle due versioni, Piazza del Gesù (per principio, non
contraria ad un accordo con la Chiesa Cattolica) e Palazzo Giustiniani (l’ala anti-clericale
per eccellenza); entrambe promossero la “nuova invenzione parigina” nei salotti buoni di
Torino, Milano, Roma, Udine e Trieste, tanto per citare alcune delle città in cui tali
organizzazioni si sono preoccupate di divulgare le mode intellettuali più influenti. Profana e
laica, la sociologia, in Italia, venne avversata dalla Chiesa e da intellettuali di matrice
letteraria il cui esponente più noto è stato il filosofo idealista Benedetto Croce (1866-
1952). Lo “sdoganamento” avvenne appena negli anni 1960, con l’istituzione della Facoltà
di Sociologia, a Trento, per diretto interessamento della Chiesa Cattolica. Lo scopo era
quello di fronteggiare i “sociologismi” sempre più popolari (fra studenti e lettori accaniti)
che, fino a quel momento, erano egemonizzati dalle sinistre.

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Per quanto, secondo alcuni storici della sociologia, i suoi esordi si rinverrebbero in
due antecedenti alla Rivoluzione - nelle Lettere persiane (1721) di Montesquieu (Charles-
Louis de Secondat, barone di Montesquieu; 1689-1755) e nel Contratto Sociale (1762) di
Jean-Jacques Rousseau (1721-1778) - l’ideatore del termine Sociologie (1824) è stato
senz’altro Auguste Comte (1798-1857). Egli è anche considerato uno dei padri del
Positivismo filosofico. In Piano dei lavori scientifici per riorganizzare la società (1824)
compare il termine Sociologie, insieme al noto quadro evolutivo delle società umane.

Dalle prime improvvisazioni terminologiche - Fisica Sociale - si passò così ad un


modello conoscitivo che, per Comte, dovrebbe modellarsi sui tratti delle scienze naturali,
esatte, intese a rilevare “fatti” e riconoscere le “leggi”. Già da subito il nuovo edificio
conoscitivo non si accontenta di descrivere (Sociografia), ma punta a conoscere le leggi
profondo del mutamento sociale (Socio-logia). Tale scienza sarà “la più complessa di tutte
le scienze”, sebbene sia l’ultima a delinearsi all’interno del percorso positivo di indagine
storico-sociale. La storia delle società passa attraverso tre stadi, che si impongono in ogni
angolo della terra:
1. fase teologica (dove le cause dei fenomeni sono attribuite ad esseri
soprannaturali);
2. fase metafisica (in cui prevalgono spiegazioni astratte, per forze altrettanto
astratte, coglibili solo filosoficamente);
3. fase positiva; o “età positiva”, quella della misurazione (post ‘700); la società
diventa conoscibile solo se misurata, come ogni altro ente, quantitativo e fenomenico.
Nonostante una certa “ingenuità” negli assunti e nei metodi (solo interpretativi)
Comte è certo un gigante della fase dei “precursori”. Se non altro perché, oltre alla
definizione in uso, ha offerto un prima schema evolutivo del mutamento della struttura
sociale, ben prima di Marx, Durkheim e Simmel. Nonostante il costante riferimento alle
scienze matematiche e fisico-quantitative, non si pose reali problemi sul come “indagare”
la società. Non si occupò di fornire un quadro, benché minimo, degli strumenti di ricerca
empirica da utilizzare per la disamina dell’oggetto di indagine.

3. USA: La Democrazia del futuro, 1831-‘35

Il successivo precursore, Alexis De Tocqueville (1805-1859), come studioso sociale


ebbe il suo periodo più prolifico durante gli anni ’30 dell’ ‘800. Visse nel periodo in cui il
colonialismo europeo anglo-francese è in incremento. Nacque allora, a tutti gli effetti,
l’imperialismo britannico (1830), cioè quello che oggi è noto come “Impero inglese”. Che
rimarrà per più di mezzo secolo la vera grande ossessione francese, soprattutto a seguito
della sconfitta a Waterloo (1815), e della morte di Napoleone (1821). Con Spagna e
Portogallo in caduta libera e con l’Olanda troppo piccola per costituire un’autentica
alternativa, gli intellettuali dei due fronti espansionisti si interrogarono, dando un primo
bilancio di ciò che avevano perduto negli ultimi decenni, o dei danni arrecati ai rivali. La
Francia, è assodato, è stata la vera artefice della “rivolta americana” (o “Rivoluzione
americana”, come fantasiosamente viene talvolta ricordata). Infatti, come insegnato nelle
università di punta - in Usa - senza l’apporto di decine di migliaia di soldati “bianchi” (le
truppe francesi avevano uniformi bianche) la separazione dall’Inghilterra sarebbe stata
molto più problematica. Quando Tocqueville viene inviato negli Usa, nell’aprile del 1831,
ove soggiorna per circa nove mesi, la Francia sta vivendo una forte crisi politica. In quel
momento, e diversamente da oggi, i pensatori francesi guardano agli Usa con un certo
interesse, come motivo di ispirazione per esperimenti sociali in Patria, ma anche con
compiacimento. Il motivo? Fomentando la secessione della Cenerentola americana
seppero causare una forte perdita economica al concorrente più diretto, anche se, già
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subito dopo il Congresso di Vienna (1815) la Francia e il futuro Regno Unito non saranno
più antagonisti militari diretti. Le poche dispute si svilupperanno limitatamente alle contese
economiche ed, eventualmente, culturali. Insomma, quando Tocqueville si reca in questa
“nuova” Atene, gli Usa corrispondono ad un corposo ed eterogeneo complesso di
provincie-stato: i 13 originari, confederazione composta da: New England (Maine; Mass.;
New Hampshire; New Jersey; Connecticut; Rhode Island; Pennsilvanya; Delaware) e
South-East (Maryland; Virginia; Car. del Nord; Car. del Sud; e Georgia), a cui va
sommato un immenso territorio, in gran parte spopolato (o meglio, “di diritto” popolato da
almeno dieci milioni di indigeni pellerossa, per qualche decennio a venire, ancora in vita),
comprendente l’attuale Mid-West (ceduto agli Usa dalla Gran Bretagna, nel 1793) e la
Louisiana (ceduta da Napoleone, nel 1803). Completavano il quadro altre porzioni di
territori, sparsi tra nord e sud, qua e là, ceduti dalla Spagna e ancora dalla Corona
britannica, nel periodo fra il 1818 ed il 1819. Alexis (un magistrato, nel suo paese) visiterà
l’unica parte considerata interessante (economicamente in movimento e ricca) della
Confederazione: le famose tredici province sulla costa orientale.

Il risultato della sua osservazione produrrà il classico La Democrazia in America


(pubblicata a Parigi, nel 1835, e poi nel 1840). Vi si trova un mondo, per molti versi,
arretrato. Quanto visto non fa pensare, apparentemente, ad una realtà socio-culturale
destinata a futura potenza e gloria. La Giovane America era soprattutto agricola (eccetto
alcune zone della costa nord), inoltre non era “unita” in senso europeo: non c’era ancora
un sistema scolastico federale e neppure regionale; non c’era la leva di massa; il
patriottismo era variamente sentito, e non paragonabile al “senso di identità collettivo”, alla
francese. “Francesità” per cui gli intellettuali americani hanno provato sempre un senso di
inferiorità, e questo sino ai nostri giorni. Invece, l’amor di patria dei coloni si identificava
con la libertà di commercio e di movimento, cioè con pratiche di vita, concrete. Ma c’èra
dell’altro, Tocqueville vede una società che lavora moltissimo, con negozi e gente per
strada già nelle prime ore mattutine, nelle poche, grandi, polverose, metropoli. La
borghesia americana è una classe già complessa, che propone una sua superiorità
(intoccabilità) di classe, ma negli affari; oltre a ciò è pragmatica e poco interessata alla
politica che non sia quella economica. La cultura, la filosofia, in senso europeo, non hanno
applicazioni pratiche. Gli scrittori che sanno descrivere la società americana, fatta di
Puritanesimo, severità moralistica, discriminazione della donna, schiavismo, l’omicidio dei
pellerossa e diverse forme di ghettizzazione sono poco letti, quasi marginalizzati. Tuttavia,
già prima della Guerra Civile, producono capolavori (ad es.: L’ultimo dei Mohicani, 1826; di
J. F. Cooper, 1789-1951; mentre ci vorranno altri venti anni per leggere La lettera
Scarlatta, 1850; di N. Hawthorne, 1804-1864). Per il resto, la pittura (le arti visive in
genere) non è “un affare americano”, interessando che ben poche elites, riconoscibili dai
vecchi cognomi inglesi e francesi. Tuttavia, una cosa era certa. Gli americani sapevano di
non essere europei, erano convinti di far parte di una nuova “terra promessa”, e ciò si
rafforzava in quel patriottismo pragmatico di cui s’è detto. E’ La nazione sotto dio, come
spesso l’America è stata vista dai suoi cittadini e dagli emigranti, che in quei luoghi si sono
diretti con tanta sofferenza e infinite speranze, sin dalla fine del 1600.
Come risulta dalla Democrazia, per molti aspetti gli Usa sono una società
convenzionale. Non essendoci tradizionali sistemi di organizzazione e controllo, come una
polizia “americana”, e non essendoci grandi apparati di gestione, come le grandi
burocrazie laiche ed ecclesiastiche, l’organizzazione della società si affida a due basilari
strutture collegate tra loro: in primo luogo (a) l’agenzia di socializzazione primaria della
famiglia; collegata, poiché cristiana, al (b) più ampio sistema dell’agenzia secondaria delle
organizzazioni locali del culto. Per lo più riformate e tutte patriottiche, oltreché “rifondate”

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su suolo americano. Ad es. il luteranesimo americano non coincideva (né coincide oggi)
con quello germanico.
In sintesi, l’abilità di Tocqueville consiste in una sistematica, quanto personale
“osservazione sociologica” (unica, vera, innovazione metodologica apportata dall’autore),
in cui la disamina dei processi collettivi si propone di rapportare le cause dei fenomeni
sociali a cause sociali (o politologiche) e non psicologiche. E’ vero - dice Tocqueville – che
l’America mostra di credere all’”uguaglianza delle opportunità”. Ma, in altre circostanze
(quelle culturali; o riferendosi alla qualità della vita che vi si respira e riguardo alla carenza
dei diritti civili), il medesimo sistema che promuove la “parità” divide la società in: classi;
razze; e religioni; mostrandosi selettivo quanto discriminatorio. Se da una parte, gli essere
umani sembrano inseriti in un sistema legale in cui i diritti sono definiti in modo tale da
permettere una vasta mobilità sociale (in questo consiste la radicale differenza con le
società feudali), d’altro canto tale modello, definibile come democratico, agisce affinchè vi
sia un livellamento delle diversità, dei dissensi, dei particolarismi.
E siccome una scienza, per essere considerata tale, deve azzardare delle
predizioni che poi si avverano, tornato in Patria, la convinzione di Tocqueville è di aver
osservato un embrione di un futuro organismo, quello della “democrazia del denaro”, che
si imporrà ovunque, anche in Europa. L’avvento delle democrazie moderne è prossimo ed
avrà un solo modello di riferimento: gli Stati Uniti d’America.

Diversi decenni dopo, Max Weber sosterrà che la modernità corrisponde al


passaggio da una società del destino ad una società della scelta. Tocqueville percepì con
notevole anticipo qualcosa di simile: gli individui della modernità democratica sono
incoraggiati ad essere sempre più liberi di forgiare, autonomamente, la propria sorte. Ciò
deve compiersi all’interno di un sistema di leggi, utili ed essenziali, che (almeno nelle
intenzioni rese pubbliche) garantirebbero l’omogeneità (se non l’uguaglianza) delle
abitudini di vita di tutti.

In ogni caso, la lettura attuale dell’opera è illuminante. Si pensi a: la comprensione


dell’estrema vitalità dell’associazionismo volontario, attualmente, dopo la nuova crisi
globale, addirittura necessario per la Confederazione; o la rilevazione dell’importanza
preponderante del commercio e la nascita di una nuova “aristocrazia del denaro”; o, infine,
la definizione di un esecutivo centrale molto forte (che però agisce ben di rado), che
funziona in sinergia con l’autonomia dei governi decentrati.

Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville


(Parigi, 29 luglio 1805 - Cannes, 16 aprile 1859)

In conclusione, oltre alla “predizione” del dominio democratico, Tocqueville ha


fondato un modo di “osservare” la società che gli studiosi sociali stavano cercando da
tempo. Questa metodica non si basa su principi filosofici o economici, ma sulla precisione
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di un professionista della legge, che, per produrre le sue generalizzazione sociologiche si
affida alla conoscenza delle conseguenze prodotte delle norme, delle abitudini, sia
pragmatiche, che di mentalità. Tocqueville vede gli Usa come “un insieme” di differenze,
che cooperano senza contraddirsi e senza ostacolarsi, nel nome di un futuro che è pura
utopia, una sorta di Eldorado radioso, che proviene dall’alto. Dai Padri Fondatori, se non
dal divino. Più coerentemente di Comte, Tocqueville attua una ricerca sociologica tramite
fonti secondarie, senza interessarsi minimamente di ricerca empirica.
Ne la Democrazia compaiono un insieme di frasi, lapidarie ed aforistiche, che
sembrano riguardare non solo gli Usa, ma la temperie culturale dell’intera società
“sensoriale”, per come sarà forgiata dalla funzionalità normativa del futuro capitalismo. Il
loro senso è il seguente: io vedo in futuro un potere (dello stato) diffuso e malleabile (tale
da non apparire opprimente), che non è interessato alla crescita dei cittadini - in altre
culture, spinti ad attraversare le prove della vita, tramite cui la bambina o il bambino
passano attraverso la fanciullezza nella direzione della maturità - ma ad attività
economiche, o di puro divertimento e svago, tali che l’intera società sia educata e
stimolata solo a godere di piaceri finanziari o futili; o anche solo a divertirsi, a distrarsi.

Per approfondimenti
Per il Positivismo, cfr. Poggi S., Introduzione al Positivismo, Laterza, Torino, 1991;
su Comte e Tocqueville: cfr. Aron R. Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori,
Milano, 1989.

Argomenti: la nozione di ruolo nella sociologia

4. Ruolo, classe, ceto

Considerazioni introduttive. La Sociologia non è una scienza esclusivamente


comportamentista, pur essendone fortemente influenzata. Come si vedrà nel proseguio
del Corso, i sociologi esplorano le modalità dialogiche (nell’analisi conversazionale), le
comunicazioni non verbali. In sintesi, la sociologia del processi culturali si occupa di
comportamento, dialogo, comunicazione verbale e non verbale (sintomatica;
metalinguistica; posturale; cinesica). Soprattutto, non si occupa di idee, e non parte da
esse per costruire il proprio schema deduttivo-conoscitivo. Al sociologo interessa tutto ciò
che si vede: che traspare, che può finire su un supporto di memoria, che può essere
quantificato.

Ruolo - Il ruolo vale come l’insieme dei modelli di comportamento tesi a degli
obblighi e a delle aspettative che convergono su un individuo; l’individuo ricopre una
determinata posizione sociale in un determinato momento storico. Il concetto sociologico
di ruolo è simile alla nozione si status.

Si verificano dunque aspettative di ruolo: sono le norme che definiscono il


comportamento di un individuo che ricopre un particolare ruolo.

Sistemi di ruolo - Per essere tali devono prevedere (contenere) l’interazione di


almeno una coppia di ruoli complementari tra loro; ad es. in un sistema gerarchico (di
ruoli) abbiamo almeno una coppia: sup/inf di grado.

Tensioni di ruolo – Sono conflitti micro-macro; che si sviluppano sia tra persone che
ricoprono lo stesso ruolo, o ruoli diversi (conflittualità inter-ruolo) o nella dimensione
soggettiva, endogena (all’interno della persona stessa: conflitto intra-ruolo).
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Classe – declinata la definizione marxista, la nozione di classe viene usata oggi per
indicare gruppi di persone che hanno lo stesso reddito, e lo stesso potere d’acquisto.

Ceto – comprende persone di classi diverse, ma che per alcuni aspetti della vita
sociale sono tra loro affini; come se il differenziale economico fosse compensato da
argomenti, o nozioni culturali in grado di accomunare i diversi gruppi; il ceto corrisponde
quindi ad una dimensione di condivisione cultural-economica capace, almeno sul piano
relazionale, di “democratizzare” le differenze di classe, e questo tramite il rituale della
comunicazione culturale. Facendo salvo questo, si comprende come il ceto non sia una
componente sociale molto precisa, funzionando come una sorta di trasversalità
interclasse.

Argomenti: La Belle Époque – Durkheim - Suicidio - Simmel - Forme sociali

5. Sociologia ed empirismo - i “Classici”

Considerazioni introduttive. Il periodo che va dal 1970 sino al fatidico 1914 è


chiamato quello della Belle Époque, o bella epoca, così nominata perché corrispose ad
una fase di relativa pace fra le Nazioni d’Europa (ma non nei possedimenti coloniali che
contavano; anglo-francesi ed olandesi), anche se non del tutto esente da conflitti sociali. In
Italia, il periodo fu chiamato La bella vita, quella dell’Epoca Giolittiana, in cui anche le
classe degli impiegati statali poteva permettersi viaggi all’estero e una significativa parte
dei lavoratori godeva di accettabili condizioni di vita e di igiene, per se stessi e la prole.
Nel mondo intellettuale è consono collegare i principali autori del periodo; essi
hanno in comune l’interesse a cercare le “vere” (secondo loro) ragioni tramite cui evolve la
storia sociale, si compie lo sfruttamento, si provano stati di incomprensibile sofferenza
mentale, o si affermano i più imprevisti fatti sociali. La premessa comune alla maggior
parte degli “smascheratori” è che “il vero” è nascosto da una rappresentazione della vita
(quella che Adorno chiamò “vita negativa”), così facendo sono occultate (di proposito,
oppure no) le cause razionali dei mutamenti sociologici, da cui nascono tensioni e
sommovimenti socio-culturali. Per tale ragione molti studiosi attuarono una metodologia
dello “smascheramento”, ognuna valida nei rispettivi campi di riferimento: K. Marx (1818-
1883) svela la natura economica di ogni sfruttamento, praticato dalla classe illusionistica
per eccellenza, la borghesia (industriale e mercantile); S. Freud (1856-1939) smaschera la
ragione “inconscia” di molte scelte ritenute conscie e razionalmente giustificabili, e così
via. La sociologia non poteva sottrarsi a tale approccio scettico e probabilistico. Così, per
Durkheim si parla di “fatto sociale”, mentre per Pareto, lo si vedrà, occorre distinguere fra
azioni logiche e non logiche, premettendo che ogni individuo, nel perseguire un suo
disegno egocentrico tenda, in un modo o nell’altro, a mistificare i dati di realtà, millantando
i crismi della razionalità. I più innovatori misero in luce la cosiddetta “crisi della modernità”,
che non fu un movimento, ma una temperie culturale, sentita e descritta da un vasto
approccio allo studio del mutamento sociale, multidisciplinare e laico. Corrispose ad un
modo di sentire il proprio tempo e fare ricerca sociale o politologica, con cui, soprattutto
grazie alla corrente critica, l’Occidente imparò a “guardarsi dentro” e a capire che il suo
successo e il benessere acquisito (che è in grado di garantire ai suoi cittadini) è derivato
dall’aver deprivato qualcun altro, da qualche altra parte del Globo, delle sue legittime
ricchezze naturali ed energetiche. Ciò corrisponde ad un ulteriore “smascheramento”,
quello della disumanità delle potenze coloniali. Prende allora forma, poco prima degli anni
1915-1817, la critica al Colonialismo, cavallo di battaglia delle futura sociologia critica,
soprattutto dopo il 1947.
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Nel complesso; tramite l’approccio della smascheramento:
Durkheim smaschera i motivi sociali per i quali ci si suicida;
Simmel smaschera la perdita del senso di sé nella “sociazione” delle metropoli;
Weber rintraccia nel passato sociale della Riforma il carattere totalitario -
contemporaneo - del capitalismo;
Pareto insiste sulle parzialità dell’individuo, che si auto-inganna.

Per gli storici ed i metodologi, uno dei primi studiosi sociali (non un sociologo) a
servirsi di una “traccia di intervista” per raccogliere opinioni o valutazioni, cioè risposte
ottenute da intervistati, è stato Friedrich Engels (1820-1895). La sua ricerca raccolse
diverse opinioni sui minatori britannici (1860 circa). Il metodo consisteva nel distribuire
fogli semplici, che raccoglievano poche domande, a cui i lavoratori (alcuni dei quali
incapaci totalmente di scrivere) risposero con segni semplici (la famosa “x”), e in un
numero ridotto di casi si espressero con risposte articolate. Si trattò di un esperimento,
socio-critico interessante ma, in senso statistico, come tutti i tentativi pionieristici, debole
ed asistematico. Ma non passa molto tempo che intervenne Durkheim.

Émile Durkheim (1858-1917) portò, in un certo senso, la Sociologia in Accademia.


In effetti si trattò del primo studioso sociale ad occupare una cattedra stabile di sociologia
in un’università europea. Per quanto sia stato (ed è) più noto come sociologo, continuò per
tutta la vita professionale a svolgere appassionate ricerche parallele, da antropologo.
Con Durkheim si passa dalla fase dei precursori (A. Comte; A. de Tocqueville; e H.
Spencer, di cui, per questo corso non serve parlare) a quella dei “fondatori” della Scienza
Sociologica. Essi sono chiamati “Classici”, e sono (per ordine convenzionale): E.
Durkheim; G. Simmel; M. Weber; e V. Pareto.

Il Suicidio (1897) è (finalmente!) frutto del primo progetto sociologico che parte da
una ricerca statistica, elaborando dati empirici. Il suicidio, fino a quel momento, sembrava
riguardare, in senso esclusivo e drammatico, un singolo individuo, che decide in quel
modo il suo termine. Durkheim la vede diversamente, poiché tutta la sua opera è tesa a
mostrare che l’individuo isolato, propriamente, non esiste. Infatti, gran parte di ciò che si
pensa come caratteristico dell’essere individuale è riconducibile all’influenza della società
sul comportamento dei gruppi sociali. Il suicidio appare in questa prospettiva una sorta di
opposizione radicale al legame sociale: in luogo della coesione sociale, postulata a
fondamento della vita umana, si esprime, in una modalità oppositiva estrema, la libertà del
singolo, il quale sceglie di sottrarsi a tale coesione. Pure, tale scelta, per Durkheim, non
può dirsi profondamente (né esclusivamente) individuale. L’interesse dell’autore non
riguarda l’anatomia del suicidio, caso per caso, ma elabora il “tasso di suicidi”, come si
riscontra in una data società. Il sociologo francese esaminò i dati (dei suicidi conclamati)
provenienti dalle pubbliche istituzioni delle seguenti aree (regioni e Stati) europee: Italia;
Belgio; Inghilterra; Norvegia; Austria; Svezia; Baviera; Francia; Prussia; Danimarca; e
Sassonia. Dall’introduzione al volume che raccoglie risultati della ricerca, risulta che i tassi
di suicidi all’interno dei vari paesi hanno la tendenza a rimanere costanti nel tempo.
Quindi, che a suicidarsi sia un individuo piuttosto di un altro dipende da variabili inter-
soggettive, spesso non formalizzabili. Tuttavia, la costanza del valore del tasso fa pensare
che il numero dei suicidi complessivamente presente in una data società - la sua tendenza
“suicidogena” - sia riferibile a fenomeni extra-soggettivi, cioè a “fatti sociali”. Come legge
sociologica generale, Durkheim ha voluto dimostrare che è che il numero complessivo di
suicidi presenti in un dato anno nella società esaminata - o in uno specifico segmento
della società – è sempre in relazione biunivoca con il grado di integrazione che la società

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medesima consente ad ogni soggetto. Si può dire che il tasso di suicidi è un fatto sociale,
cioè un fenomeno demograficamente ampio, provocato da cause relazionali, sociali,
quindi collettive.
Durkheim adotta il metodo statistico della variazione concomitante: elaborando la
variabile dei suicidi, incrociandola con la variabile indipendente (grado di istruzione;
religione di riferimento, ecc), si cercano delle variazioni significative. Nel momento in cui,
incrociando le variabili, se alla variazione della variabili indipendente esaminata (x),
corrisponde, costantemente, la congiunta variazione di quella dipendente (il tasso), ecco
che si è in presenza di qualcosa di importante. Tale dinamica corrisponde al metodo della
“variazione concomitante”. Il calcolo delle variazioni concomitanti consiste nel valutare
variazioni simili in due fenomeni, ipotizzando una congiunzione causale tra i due.

Durkheim nota che nelle società protestanti si riscontrano più suicidi che nelle
società ad osservanza cattolica. Quale corollario, si ritiene probabile che il tasso si
incrementi in condizioni sociali di isolamento, allentamento della tensione sociale e
aumento dello stress individuale, causato da ragioni sociali che allontanano l’individuo dai
gruppi di riferimento. Perché il mondo protestante sembra percorso maggiormente da tale
fenomeno?

La risposta è socio-culturale, non statistica. Principalmente perché la cultura


protestante, anche quando laicizzata, produce una società in cui gli individui (i credenti
prima; i cittadini nell’epoca della secolarizzazione) si prendono più direttamente carico
delle colpe per azioni che hanno danneggiato se stessi, o la società. Assunzione di
responsabilità forte e gravosa. Poiché il concetto di responsabilità diretta è una
laicizzazione del concetto di responsabilità “di fronte a dio”, senza mediazioni (come può
dirsi una struttura ecclesiastica); in questa dinamica le colpe sono assolute e non
negoziabili. Tale cultura da molto peso alla menzogna, alla frode; tale massimalismo
conduce ad un più frequente senso di colpa, ad un auto-giudizio duro ed inesorabile. E’ la
cultura della “responsabilità individuale”, per le proprie scelte, i propri successi, ma anche i
propri errori. Nel mondo cattolico, diversamente, è previsto il perdono istituzionale, tramite
il sacramento supremo della confessione che cancella, d’autorità, ogni colpa. La Chiesa
Cattolica comprende un sistema di mediazioni che consente di ristabilire, in ogni
momento, i rapporti consueti di accoglienza con il Creatore e, di conseguenza, con la
propria società, di cui il ministro del culto (il sacerdote) è il principale riferimento spirituale.
Secondo Durkheim questo fa sì che il cattolico possa sopportare più facilmente
l’incostanza morale della sua vita, poiché nella sottomissione all’autorità da lui riconosciuta
- la tradizione - egli è protetto, rassicurato ed assolto, anche nella conoscenza dei suoi
errori più terribili. Se il protestantesimo inchioda l’individuo alle proprie responsabilità,
lasciandolo nel Mare Magnum dei dubbi e del senso di vergogna che nessuno può ridurre
(dall’esterno), cercando di educarlo ad uscirne da solo (pur nella fiducia in dio), il
Cattolicesimo Romano si interpone tra le norme assolute, consentendo pratiche di
espiazione che vengono somministrate a seguito di suppliche e manifestazioni di
ravvedimento. Nel Cattolicesimo applicato è la Chiesa che salva, nel Protestantesimo ci si
salva in autodafé, sebbene sottoposti al vaglio della Grazia imperscrutabile.

La spiegazione (involontariamente filo-cattolica) che Durkheim fornisce del maggior


tasso presente fra i riformati (luterani; zwingliani; calvinisti) stabilisce (quale nesso
causale) una correlazione fra il numero dei suicidi e la coesione della società, o, in altri
termini, del deterioramento del rapporto fra il singolo e la Comunità. Tale interpretazione
(socio-culturale) dell’insorgenza del suicidio, derivabile da contingenze legate
all’isolamento, è stata in parte smentita da uno dei suoi allievi, Muarice Halbawchs (1877 –
9
1945). L’allievo portò all’attenzione dei durkheimiani anche un’altra, significativa
“variazione concomitante”; essa riguardava la variazione di tassi fra suicidi in città (più alti)
e quelli in campagna (più bassi). Il Suicidio rimane comunque una pietra miliare della
nascente sociologia empirica. Un testo indagabile in molte direzioni: metodologiche; socio-
culturali; concettuali.

Da quest’opera e da altre, deriva la visione di una campagna in cui vige un rapporto


di somiglianza. In campagna gli individui si rispecchiano gli uni negli altri, scoraggiato è
perciò l’isolamento. L’individuo è compartecipe dei riti collettivi, non ultimo quello religioso.
In città si perdono i riti, si fa parte di gruppi piccoli che facilmente si disgregano,
differenziandosi e ricomponendosi in forme instabili.

Solidarietà meccanica – è la solidarietà della campagna; si viene in aiuto di chi ci


somiglia, che spesso conosciamo. Il soccorso è quasi un’azione riflessa. Naturalmente, se
da una parte c’è identificazione con il Prossimo, dall’altra il rapporto con il “difforme”, il
“marginale” - in realtà siffatte - è vissuto con disagio e spesso con ostilità.

Solidarietà organica – è la solidarietà delle aree urbane; si soccorre chi è diverso da


noi, per usanze, riti ed attitudini; non lo si conosce, non lo si frequenta. E’ la formazione
professionale (organica) a venire in soccorso delle buone intenzioni, in città; in tal modo
alimentando le forme più spontanee ed immediate di solidarietà. La città rimane, per il
sociologo, il luogo delle diversità, delle convivenze rituali, dei relativismi nelle credenze,
della distanza psicologica fra persone di ceto e cultura diversa.

Durkheim ha elaborato varie definizioni su epoche e processi sociali, tra cui;

- società preindustriale: composte da piccola comunità; situate in ampi luoghi;


gruppi dotati di poca specializzazione, seguenti la cultura tradizionale del lavoro
(abitudinaria); animati da una forte religiosità;

- società industriale: fatta di grandi comunità (urrbanesimo), situate in spazi limitati;


caratterizzate da una forte specializzazione delle attività produttive, allentamento della
forza delle norme (influenzanti, ad esempio, l’amicizia ed i rapporti più ampiamente
affettivi); luogo egemonico dell’individualismo e della secolarizzazione;

- anomia: condizione sociale influenzata dalla mancanza del rispetto delle regole e
delle norme formalmente proposte come socialmente valide; la trasgressione, di tanto in
tanto, costituisce unno sfogo, un allentamento dalle costrizioni sociali, riportando i rapporti
sociali alla condizione dell’equilibrio pre-crisi; nell’anomia, invece, la norma, nella pratica,
non è più rispettata; ciò porta a malessere, rabbia, senso sociale di ingiustizia. Si prova
una sensazione simile all’isolamento; si ritiene che la società, nelle sue evidenti
contraddizioni, tradisca proprio chi ne rispetta i precetti. Si prova, trasversalmente alle
classi, una specie di umiliazione civica, poiché essere un buon cittadino non sembra
costituire un valore sociale autenticamente perseguito. Per questo, una società totalmente
anomica non può esistere se non come “astrazione negativa”. Ossia: nella disgregazione,
nello scontro sociale permanente, nella Guerra Civile.

La Sociologia di Durkheim, muove dalla premessa dell’unità della società,


comtiana, ma se ne distacca. Il paradigma di Durkheim comprende l’assunto che la
società possa essere immaginata come “insieme gerarchizzato di funzioni”. Dall’opera che
si è esaminata in classe deriva quindi la visione di un complesso sociale in cui, come in
10
uno schema antropomorfico, ogni sub-società stia all’unità sociale, così come ogni
apparato di un organismo, nel suo funzionare, si ponga in rapporto di dipendenza dal
benessere dell’unità funzionale (biologica) medesima. Quindi, “dallo schema
organizzativo” comtiano si è passati all’idea di società come “super-organo”; fatto di sub-
componenti, ognuna delle quali è diretta a svolgere una funzione specifica, entro una
graduatoria di attività, ordinate per dimensioni ed importanza.

Così come la qualità del cervello umano è oltre la semplice somma delle sue parti,
cioè qualcosa di più dell’insieme funzionante delle sue unità, allo stesso modo la società
è, per Durkheim, qualcosa di più della somma degli individui che la compongono: è
un’unità di livello superiore, dotata di una vita che non si spiega restando al livello della
semplice descrizione di ciò che appare dal basso (sociografia). Poiché la società si
esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l’insieme dei fatti sociali.
Le metafore meccanicistiche, ed organicistiche, evidenziano il carattere positivista
del pensatore. Tuttavia, a differenza di Comte, il primo fra i Classici è più interessato
all’aspetto funzionalista dell’organizzazione sociale, piuttosto che a definire un’unità
“sovraumana” della società, come postulato dal Comte più tardo. Una spiegazione
funzionalista è la spiegazione di un fenomeno sociale sulla base dell’individuazione della
funzione che esso adempie per il mantenimento vitale del complesso sociale. Non si tratta,
però, di un funzionalismo rigido. Lo studioso sa che la spiegazione funzionalista non sia
l’unica ad interessare lo scienziato sociale. In ogni caso, a Durkheim si riconosce la
teorizzazione di una prima forma di funzionalismo sociologico, poi ripresa dai funzionalisti
americani dei tardi anni 1930, il più importante dei quali fu il caposcuola statunitense
Talcott Parsons (1902-1979).

Il secondo dei classici è Georg Simmel (1858-1918). Se per Durkheim si può


parlare di una sociologia organicistica, nel caso del sociologo tedesco (il più filosofo tra i
classici) si parla della società come “interazione”, coglibile (cioè osservabile) solo “ad una
certa distanza” (spaziale, oltreché di tempo). A Simmel interessa, come e più di Durkheim,
lo studio del mutamento sociale.

Come principale strumento di analisi concettuale l’autore si è servito del termine


“effetto di reciprocità” (Wechselwirkung), traducibile con l’espressione di “azione
reciproca”. L’effetto di reciprocità indica una concezione dinamica della realtà, descrivibile
come rete di relazioni di influenza reciproca tra le pluralità dei soggetti umani. L’effetto di
reciprocità innesca il processo di autopercezione (inter-individuale) dell’esistenza effettiva
della società; contribuendo poi alla costituzione delle “forme sociali”, così importanti nel
pensiero di Simmel. Se Durkheim è interessato ai “fatti sociali”, Simmel analizza le forme
delle relazioni di “influenza reciproca”, che sussistono nei gruppi umani. Tale può indicarsi
l’oggetto di studio per l’autore, che emerge solo e nella misura in cui più individui entrano
in relazione reciproca. Con le parole di Simmel: “società è il nome con cui si indica una
cerchia di individui, legati l’un l’altro da varie forme di reciprocità” (Simmel 1983; prima
ediz. 1917: 42). Altro termine importante è “sociazione”: cioè il processo attraverso cui una
forma di azioni reciproche si consolida nel tempo.

Interessato al mutamento Simmel lo percepisce nel passaggio dal mondo agreste a


quello della città moderna, percorsa da arterie di trasporto e dall’elettricità che abbelisce le
sue strutture solide, architettoniche. Nel contesto agiscono e si sviluppano diverse “forme
sociali”, o forme dell’interazione; esse possono essere di vario tipo: di solidarietà o di
conflitto.

11
La vita sociale ed individuale è un fluire di forme, cioè una “produzione di forme” in
cui questo fluire si condensa ed è osservabile. Si tratta di forme di relazioni; quali:
istituzioni; simboli; idee condivise e credenze; prodotti dell’attività economica e prodotti
artistici, generalmente definibili come culturali. L’oggettività delle forme sociali è cosa ben
diversa dal “fluire della vita”. Nell’oggettività la vita culturale e relazionale si rapprende,
diviene allora visibile è può, in tale formalismo, essere condivisa. Tuttavia, la pienezza
della vita (cioè, il fluire suddetto) è limitata da tali contenitori, veri e propri riduttori dei più
imprendibili e profondi significati vitali. Essi, se ridotti a forme, perdono di valore, di nobiltà
e chiarezza. Tuttavia, la formalizzazione della vita sociale è un fattore di mutamento,
inevitabile. Dalla dicotomia tra “forme” e “vita” emerge il dinamismo della storia della
cultura tedesca, e non solo. In realtà, nella sua sociologia (formalista) del mutamento,
l’elemento centrale, da cui il mutamento procede, sottostà al principio egemonico delle
forme culturali. Non è un fatto banale, poiché l’insistenza sulla dinamica delle forme rende
detto apparato concettuale poco incline a speculazioni economiciste e di classe.
Con tale concettualizzazione si comprende il senso, già in ipotesi, della “tragedia
della cultura”, per cui Simmel è noto. La tragedia sta nel fatto che la vita sociale non può
essere compresa che sulla base di simboli, categorie o raffigurazioni che, nella misura in
cui costituiscono una fissazione della vita stessa, le si contrappongono inevitabilmente,
riducendola a brevi rimandi; in tal modo banalizzando il bisogno di conoscenza. Ridotta a
ben pochi segnali, la vita sfugge, o è percepita solo in senso funzionale e materiale. Si
manca così di afferrarla, condannandosi al suo superamento, veloce e superficiale.

Simmel non ha creato una teoria del mutamento della portata di quella di Marx, né
una teoria del mutamento funzionale, come quella di Durkheim. Ciononostante, la
sociologia “delle forme sociali” è straordinatamente acuta nei dettagli, descrivendo i
contorni di una nuova vita, la “vita moderna”. La modernità, per Simmel, è crisi
permanente, poiché è mutamento perenne, senza che da questo si possa estrarre una
reale conoscenza dei fondamenti, presenti e futuri, del vivere sociale. La modernità è,
infatti, incessante ricerca, fatta di approssimazione ed instabilità. In ogni sua forma, in ogni
suo codice: politico; economico; e culturale. Per questo Simmel sembra alludere ad una
sorta di tempesta esistenziale collettiva, in cui nessuno può sapere dove l’”equipaggio
sociale” si trovi, per scegliere un approdo praticabile e più sicuro. La cultura di fine
Ottocento, elaborando un nuovo linguaggio e nuovi metodi di analisi (tra cui la Sociologia),
cerca di venire a patti con tale mutamento, che ha sconvolto la Germania agricola, la
Germania della tradizione, la Germania delle sicurezze culturali ed etiche. Nonostante tale
sforzo, chi cerca di comprendere il senso e la necessità del “cambio di marcia” della vita
urbana, si rende conto del fatto che il mutamento stesso nega la stabilità e l’applicabilità di
concetti universalmente validi, con cui l’indagine sociologica si proponeva di analizzare il
rompicapo della Modernità. Ciò che appare comprensibile è solo che tale temperie
culturale è sempre più volatile, transitoria, a-direzionale.
Il risultato di queste ricerche trova spazio ne La Filosofia del Denaro (1900). Dalle
nuove città tedesche emerge un nuovo “tipo” sociale. Il nuovo cittadino vive di un carattere
eminentemente intellettualistico. Il suo psichismo, freddo, ma soggetto ad intensificazioni
saltuarie della vita nervosa (quelle che Freud chiama, nella sua disciplina, “nevrosi”)
fornisce il carattere frammentario, prevalente, della socialità metropolitana. Essa è
scandita dal denaro e dai suoi mondi, dalle sue opportunistiche forme di senso. Questa
vita “rappresa”, si contrappone alle vita di provincia, anacronisticamente basata sulle
forme della vita sentimentale ed affettiva. Una dualità che, in tutt’altro campo, anche H.
Balzac aveva siglato nella sua monumentale Commedia umana (1830-1856). Modernità,
allora, significa disincanto del mondo, tipico dei gruppi della metropoli: sono i modi della
donna e dell’uomo blasè. Ogni valore è uguale a qualsiasi altro, tutto si consuma, tutto
12
può essere utilizzato per poi non servire più. La febbricità nervosa di cui s’è detto traspare
dalla diffusa iperattività per i consumi e dalla “gestione” oculata di relazioni strumentali.
Tutte prove di adattamento e di astuzia, con cui “giocare” con le emozioni. L’individuo
metropolitano vive di un ego calcolistico, a cui soggiace la ben poca emotività di cui
dispone, poiché è nella filosofia del denaro che si ottiene la razionalizzazione espressiva
delle emozioni sociali. Sorta di ossimoro, poiché, per definizione, l’emozione non è
controllabile, di fatto il suo controllo comporta uno sforzo che uccide l’emozione. Sforzo
che il nuovo individuo metropolitano ha imparato a controllare, per proteggersi dallo
sradicamento insito dalle discrepanze dell’ambiente che lo circonda, ma non lo accoglie.

Per concludere sulla filosofia del denaro e la vita nelle metropoli,


l’intellettualizzazione della vita e la diffusione del denaro si combinano ovunque nel
generare una forma di esperienza peculiare della modernità. Complessivamente, tendono
a produrre un sistema di relazioni sociali contraddistinte da un notevole grado di
anonimità. I nuovi rapporti sociali, veicolano, un atteggiamento di “indifferenza”.

Nel 1905 Simmel scrive La moda, primo testo culturalista, teorico, sulla moda.
Moda come modo di vivere e metodo, a volte imitativo a volte competitivo, di rapportarsi
agli altri (oggi si parlerebbe di dress code). “Forma sociale” i cui meccanismi selettivi sono
basilari e dicotomici, essendo quelli di esclusione/inclusione. La moda è tale per cui, una
volta raggiunta da tutti, non è più moda, poiché è già passata. Le mode durevoli sono
quelle davvero d’élite, irraggiungibili e inespugnabili. Come scrive Simmel, la moda ha
un’essenza tale per cui, una volta che è passata dagli iniziatori a tutti gli altri (non appena
la moda ha completato la sua penetrazione), si cessa di considerarla come tale. Ogni sua
estensione inter-classe la conduce alla morte proprio perchè annulla le diversità, che
costituiscono una delle funzioni distintive del fenomeno.

Il paradosso della moda è che esprime, ad un tempo, autonomia ed obbedienza. E’


vero che sembra prestarsi ad individui che sembrano poco autonomi. Nelle parole di
Simmel: “è la palestra adeguata per individui che sono intimamente non autonomi e
bisognosi di appoggio” (Simmel 1985; prima ediz. 1905: 36).

In conclusione, l’opera di Simmel appare – spesso - una sorta di filosofia sociale.


Come se l’autore non avesse del tutto deciso di disfarsi delle vecchie metodologie
psicologiche (un po’ scontate, istintive) e filosofiche. Sul piano metodologico Simmel ha
operato una vera e propria sociografia, non ambendo a confrontare le sue asserzioni con
raffronti oggettuali, ossia misurazioni empiriche. Perciò, il percorso della Sociologia verso il
questionario (appena cominciato con l’empirismo di Durkheim) e la ricerca sul campo
subisce in Simmel una battuta d’arresto. I meriti comunque, sono considerevoli. Rimarrà,
tra i classici, l’autore che, meglio degli altri tre, ha descritto (più che analizzato) le
caratteristiche della nuova Germania (e dell’Europa della crisi) metropolitana. La metropoli
è il regno della mitologia finanziaria, ed è tanto il regno della libertà e delle massima
espressione dell’individualità, quanto quello dell’incapacità degli individui urbanizzati di
percepire realmente le caratteristiche del mutamento che travolge ogni certezza e,
apparentemente, ogni riferimento. La sua opera, in questo senso, conserva diversi
elementi di attualità. Non solo l’intuizione sulla moda, o l’atrofia della sensibilità sul
mutamento dei fenomeni, ma anche l’insistenza nel definire la “spersonalizzazione” delle
relazioni - così come l’ampliamento del raggio di azione di ognuno unito alla dipendenza di
sempre più complessi e pervasivi apparati tecnici sovra-individuali - sono tratti che il
soggetto contemporaneo può ancora riconoscere come propri.

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Per approfondimenti
Sul periodo considerato, cfr. E. Hobsbawm, L’età degli Imperi: 1875-1914, Laterza,
Torino, 1987; su Durkheim, cfr. Cedronio M., La società organica, Bollati Boringhieri,
Torino, 1989; per Simmel, cfr. Cavalli A. (a cura di), Introduzione a Filosofia del Denaro,
UTET, Torino, 1984 (prima ediz. 1900); Simmel G., La moda e altri saggi di cultura
filosofica, Longanesi, Milano, 1985 (prima ediz. 1905); Simmel G., Forme e giochi di
società, Feltrinelli, Milano, 1983 (prima ediz. 1917).

Argomenti: Moderno-Postmoderno - Weber – idealtipo - Pareto - sistema

6. Weber e Pareto

Considerazioni introduttive. Su quando prende il via la modernità c’è una certa


convergenza: nasce dopo la scoperta delle Americhe, nel 1492; in base a questa
calendarizzazione (che vale per tutte le Scienze Sociali), il “moderno” (termine,
probabilmente, utilizzato per primo da Baudelaire nel 1867; esso sta per novus) ha avuto
una lunga vita, dal 1492 al 1989. La caduta del Muro di Berlino, oltre a segnare la fine
della Cortina di Ferro avrebbe dato inizio ad una nuova era: il Postmoderno. In senso geo-
politico caratterizzato da un insieme di stati e macro-regioni, le cui influenze e i cui obiettivi
socio-economici si sviluppano in un mondo Multipolare (Occidente euro-americano; Medio
Oriente-Israele; CSI-Russia; Cina, ecc). Secondo altri studiosi, l’odierna fase costituirebbe
una delle tante stagioni della modernitàm ben lungi dall’essere estinguersi, poiché, anche
in senso semantico, non risulta chiaro il senso logico ricavabile dall’espressione “post-
nuovo”.

Se Durkheim sviluppa la prima ricerca empirica e Simmel si concentra


sull’urbanizzazione moderna e sue distorsioni sociali, Max Weber (1864-1920) si
concentra sulla struttura-base della crisi moderna: il Capitalismo, di tipo occidentale.
Diversamente da Marx non ne fornisce una spiegazione dialettica, ideologica, ma ne dà
un’ipotesi teorica, comunque conflittuale, sorretta però da idealtipi d’azione sociale. In
sostanza, l’opera che si è scelto di discutere in classe - L’etica protestante e lo spirito del
Capitalismo (1905) - costituisce una brillante, razionalmente sensata, ipotesi di genesi
sociologica del complesso fenomeno chiamato Capitalismo. Brillante quanto
sociologicamente inverificabile.

Per inoltrarsi nella sociologia weberiana, occorre fare delle precisazioni


terminologiche. L’intera teoria si basa sulla nozione di “tipo” - che significa (tipen) modello;
per idealtipo si intende “un costrutto astratto”, una prima approssimazione interpretativa
fatta per definire e classificare l’agire sociale. L”idealtipo” è un modello ideale del
fenomeno che si intende descrivere. Quindi, l’unità di misura della sociologia weberiana è
“l’idealtipo dell’agire sociale”. Adoperando questi concetti, la sociologia, per Weber è certo
una scienza causale, poiché il suo scopo è quello di intendere l’agire tramite un
procedimento interpretativo causale. Occorre allora distinguere fra l’agire, o l’azione, e il
comportamento.

Comportamento - è un tipo di moto reattivo; è una sorta di attività di riflesso; o


riflessa; senza volontarietà o calcolo;

Azione - è selettiva; dotata di finalità volontaria, o scopo.

14
L’idealtipo è una prima approssimazione che si usa per muoversi nel periglioso
mare dei fatti empirici; una forma grezza da sbozzare. L’idealtipo è perfettibile; tramite le
osservazioni può essere modificato. Il suo opposto è lo “stereotipo”, che è un modello
anch’esso astratto, ma non suscettibile di cambiamento tramite controllo empirico.
Equivale alla nozione di “pregiudizio”. L’utilità euristica del “tipo ideale” è teorico-
concettuale. Per Weber esso rappresenta un primo quadro concettuale (progressivo), il
quale non è la realtà socio-storica e neanche la realtà “vera e propria”, infatti il suo è un
significato “limite”. A cui la realtà deve essere commisurata e comparata, al fine di
“illustrare determinati elementi significativi” del suo contenuto empirico.
Affinchè la sociologia sia comprendente, deve poter cogliere il senso dell’azione,
ma dal punto di vista di chi la compie.

Quattro sono gli idealtipi principali, esplorati da Weber:


1. idealtipo dell’agire sociale finalizzato allo scopo [ad es: lo scopo è l’accumulo di
denaro];
2. idealtipo orientato al valore [ad es: l’agire religiosa, per la preservazione dei valori];
3. idealtipo sociale legato all’affettività [ad es: l’azione sociale mirante ad esaltare
l’amor di patria];
4. idealtipo dell’agire sociale abitudinaria, tradizionale.

Dal punto di vista della sua organizzazione economica, il mondo occidentale


riconosce il suo perno nel Capitalismo (che, in quanto idealtipo, si declina al plurale; ecco
perché va specificato che l’oggetto è il “Capitalismo occidentale moderno”). Weber se n’è
occupato poiché definire la specificità del Capitalismo occidentale significa definire un
spetto essenziale di questa civiltà: la nostra. Tale modello è sempre esistito? Per Weber la
risposta non può essere che negativa. La nascita socioculturale del fenomeno si colloca
nell’epoca moderna, alla metà del secolo Quindicesimo. Il Capitalismo fa parte di un
idealtipo all’azione sociale finalizzato all’accumulo di denaro, in cui l’accumulo in sé è lo
scopo per cui l’accumulo finanziario avviene. In altri termini, il Capitalismo è mezzo e fine
di se stesso; si accumula denaro per farne altro e altro ancora. La spesa finanziaria è
accettabile purchè frutti; e tali frutti devono fruttare a loro volta, e così via. Essere
Capitalisti, di conseguenza, non significa essere semplicemente ricchi. Il capitalista agisce
con rigore e costanza, senza perdere una sola oncia di beni finanziari. Egli produce così
una sorta di loop accrescitivo. In ciò consiste l’autoreferenzialità del sistema finanziario.

Per Weber il Capitalismo moderno è nato dentro le comunità riformate. Ma sarebbe


un errore pensare che ne sia stato il prodotto diretto. In realtà, la Riforma ha creato, con le
“buone pratiche mondane”, un “ciclo di lavoro” favorevole all’accumulo finanziario
permanente, all’insegna della frugalità e della dignità del modo di vivere degli “eletti”. Il
tutto, per necessità di differenziazione. Per separarsi totalmente dai Cattolici venne
proposta ad una numerosa serie di comunità, e per più generazioni, uno stile di vita che,
su tutto, esaltava: la preghiera comunitaria e famigliare; l’accudimento della famiglia; il
lavoro. In tal modo, l’idealtipo dell’agire finalizzato allo scopo si cementò con l’idealtipo
dell’agire finalizzato al valore. O, se si vuole la “professione” (Beruf) lavorativa - che porta
all’accumulo - diventa tutt’uno con la “professione” di fede. Weber nota che questo “ciclo
di lavoro” non è solo conveniente per qualsiasi comunità - pochi sprechi,
nell’ottimizzazione del tempo - è socialmente impeccabile, ed è raccomandabile anche
come pratica “religiosa”. Lutero, Calvino e Zwingli producono una “teologia finanziaria”,
ove la “salvezza” non la si raggiunge per “opere”, ma scelti a caso dalla grazia Divina. Ma,
essendo imperscrutabile, come si fa a sapere che la Grazia ti ha scelto, affinchè tu possa
essere salvo? Da piccoli segni, materiali e pratici, che incontri sul tuo cammino di fede, il

15
più importante e il riconoscimento della prosperità economica che si è raggiunta durante la
propria vita.

Per questo, Weber non ha mai affermato che la cultura, o la religione, hanno
generato direttamente il Capitalismo Moderno. Weber sostiene che l’idealtipo
Protestantesimo è responsabile dell’aver agito come potente motivatore per la
realizzazione di un nuovo ordinamento economico. Finchè, passato il 1600, intervenendo
il processo di secolarizzazione europea, questa “macchina” socio-produttiva possedeva
già la sua inerzia. La dottrina della Salvezza tramite Grazia e prosperità ha funzionato
come “motore immobile”. Dopodiché, tale sistema ha continuato a funzionare con
razionalità strumentale ed oculatezza anche quando la società olandese, o svizzera, non
hanno più considerato la Bibbia come testo base di organizzazione del tempo produttivo.
Con il declino della spiritualità tradizionale, il meccanismo è acquisito: lo scopo è sempre
accumulare denaro, ma il motivo non riguarda la religione: il denaro è fine a se stesso,
misura la “purezza professionistica” di ognuno, ma anche il saper “condividere” con gli altri
il benessere acquisito. La riforma ha portato una forte motivazione all’accumulazione del
denaro, ha creato un “puritanesimo professionistico”, con questo credendo di poter fare
dei nuovi capitalisti una sorta di “monaci secolari” (Calvino parla di “ascesi laica” dei nuovi
professionisti). Essi non bevono, non perdono tempo, non si divertono inutilmente, non
dissipano le risorse individuali e comunitarie. Diversamente ripongono fiducia nel loro
lavoro, nel loro Clan, e, soprattutto, nella loro indefinita capacità di estendere i mercati. In
ciò consiste la loro “spiritualità”, di derivazione protestante, poi laicizzata.

L’idealtipo “Capitalismo” del 500 ha funzionato come “spinta comportamentista” per


intere comunità di credenti, professionisti, e devoti. Dopodiché, come nelle parole di
Weber, “il capitalismo vittorioso” da quando, con l’industrializzazione, posa “su di un
fondamento meccanico, non ha più bisogno del suo aiuto” (Weber 1974: 305; prima ediz.
1905).

Weber è forse il più attuale dei classici, poiché dopo l’ennesima crisi finanziaria
globale (2007-2008) autori liberali, economisti critici e anche sociologi si fanno domande
sempre più pressanti su come debba intendersi il Capitalismo: se come sistema
riformabile oppure no; se umano o inumano; se stabile o instabile. Weber, con il suo
ragionamento idealtipico ne ha spiegato la genesi sociologica. Ha spiegato come il
Capitalismo possa collegarsi ad un fervore, un’ossessività ed una ritualità che non può
ridursi né al concetto di “profitto”, né di “sfruttamento” (come in Marx). Il Capitalismo
moderno nasce da un fervore che oscilla di continuo fra professione e fideismo, fra plus-
valore e virtù. In realtà il Capitalismo si basa su un’ideologia - quella della crescita illimitata
- che vale come “testo aggiuntivo” alla semplice matematica economica, o alle scienze
della finanza. Nata come costola organizzativa delle fede riformata, il Capitalismo diviene
una vera e propria “teologia laica”, centrale per l’intero ordine del profitto moderno. Non
stranamente, nelle aziende moderne si usano spesso espressioni come Vision e Mission,
termini non esattamente tecnici, bensì mutuate dal mondo fideistico. Ma, come nel 1500,
utili a raggiungere lo stesso scopo che voleva raggiungere la riforma: la rigenerazione,
nella fede finanziaria, delle forza motivazionale. I “nuovi eletti”, saranno i nuovi
amministratori, i “senza macchia” della vita materiale del futuro. Oltre a questo, Weber, più
di Marx ha messo in rilievo che il Capitalismo è una sorta di “culto laico” del capitale, in ciò
risolvendosi in una vera forma di fanatismo; profittuale; profano e metafisico, insieme;
materialistico, ma con grandi contraddizioni. Oltre a suggerire l’ipotesi che il Capitalismo
costituisca, nella sua smodata ambizione, una sorta di “fanatismo finanziario”, Weber
problematizza le possibilità future di tale macchina. Tuttavia, non essendo chiaro, nel
16
Capitalismo attuale, quanto derivi dalla sua elite è quanto dalla pura tecnica finanziaria, se
si segue Weber la questione stabilità/instabilità rimane un problema aperto.

Dal socialismo democratico, e liberale, di Weber si passa alla teoria determinista


(non certo democratica) delle Elites, dell’italo-svizzero Vilfredo Pareto (1848-1923). Noto
nel mondo anglosassone come economista, è conosciuto nel resto del mondo accademico
come sociologo classico. Ingegnere ferroviario, passò poi al mondo della ricerca e degli
studi sociali. Fra il 1916 e il 1919 pubblicò il Trattato di sociologia generale dove mise a
punto gli elementi chiave del suo pensiero sociologico, costituito da quattro contrafforti: la
teoria dell'azione logica e non logica; la teoria dei residui e delle derivazioni; e la teoria
delle élites.

La teoria dell’azione logica sostiene che gli individui, a modo loro, sono tutti dotati,
almeno, di finalità strumentali. Certo, all’apparenza i collegamenti tra enunciati di azioni e
azioni conseguenti possono risultare spesso inesatti, fuori contesto e contraddittori. Ma
questo non impedisce che, praticamente, quasi ogni individuo abbia degli scopi sociali
precisi, spesso taciuti, e metta in campo ogni strategia possibile per perseguirli. In ciò
consiste l’interesse alla materialità della vita umana. Quindi, la finalizzazione dei
comportamenti, preparati per un obiettivo, costituiscono il centro della motivazione alla vita
sociale. La teoria dell’azione logica vuole portare alla superficie il vero sistema di
valutazione che muove il soggetto sociale finalizzato. Quindi, la coerenza di un’azione o è
totalmente evidente, oppure no. Nel caso in cui palesemente non lo sia - e questo si
verifica nella maggior parte dei casi - viene coperta da una vernice “logica”, mistificante e
giustificativa. Solo chiedendosi “a chi giova” è possibile smascherare i politici, i governanti,
ma anche gli artisti e i poeti, sul “che cosa” essi si erano realmente proposti al momento di
materializzare pubblicamente l’azione, sbandierata come sensata. L’ipotesi di Pareto è
critica: ritiene che ogni individuo tenda ad auto-ingannarsi, dandosi delle auto-
giustificazioni, pseudo-logiche, sulle vere motivazioni che lo guidano nelle sue scelte,
particolarmente negli errori, negli eccessi, nelle vanaglorie. L’individuo medio non è
irrazionale del tutto, essendo, in ogni caso, determinato da un fine. Ma, quanto al modo di
perseguire i suoi obiettivi è in questo che consiste la sua manifesta logicità, o illogicità.
Logica è quell’azione sociale dotata di senso concreto.

Per coprire la tendenza all’illogico, l’individuo usa particolari categorie di azioni e


comportamenti, che vengono chiamati “derivazioni”. La teoria dei “residui” e delle
“derivazioni” è la seconda che si prende in esame1. Una derivazione è un sistema di
rappresentazioni mentali - un’ideologia; una religione; un sistema politico - che occulta gli
impulsi, o gli scopi fondamentali, proponendo una legittimazione del comportamento che si
persegue in termini apparentemente razionali. L’individuo che cerca di coprire le sue
manchevolezze tecniche cercando un paradigma che possa giustificarne le carenze,
ricorre a formule “derivative”. Per discolparsi, solitamente, terrà la scena dell’“apparenza
logica”. Caso opposto è quello dei residui. Anche se appare contro-intuitivo, il residuo è
“ciò che rimane” di una struttura, o di un insieme di credenze o leggi sociali. Quindi, è

1
- L’istinto delle combinazioni = processo collettivo che porta le classi omologhe a compattarsi (porta la bassa
borghesia verso l’alta borghesia); egualmente, porta le classi medie a seguire lo stile di vita delle classi agiate,
o per lo meno a copiare i modi delle classi più viste ed invidiate.
- La persistenza degli aggregati = significa che l’élite non vuole morire ed è quindi difficile epurarla dalla Storia
sociale; più facilmente si trasformerà, assumendo forme, se necessario, forme inusuali; persino cercando di
inserirsi in sottoclassi storicamente ad essa avverse; in Uk, l’aristocratico ha cercato di “rivendersi” come
imprenditore, ad esempio. Nella Repubblica francese le teste di sangue blu “che non sono cadute” nel 1789
hanno provato a “riciclarsi” nell’alta politica (cfr. la presidenza di Giscard d’Estaing) o nella carriera militare.
17
quello che resiste al tempo, paragonabile alla struttura economica marxista. “Residuo” è
ciò che rimane una volta che si sia scomposto il comportamento degli uomini nelle sue
componenti elementari; componenti base, non suscettibili di ulteriori riduzioni. Questa
visione - allegoricamente chimica - dei comportamenti sociali, riporta l’origine del metodo
alla vecchia categoria sociologica di Fisica Sociale. A parte ciò, i “Residui” possono essere
considerati alla stregua di leggi sociali. Tra le varie categorie in lista, ad esempio, Pareto
distingue fra: persistenza degli aggregati (una volta formatosi nella storia, un sistema
sociale non “vuole”, non accetta il “verdetto” negativo della storia); e istinto delle
combinazioni. Istinto che vale come legge dell’accorpamento dei sotto-gruppi a complessi
di gruppi verso cui si confluisce “per affinità” di sistema, sostiene Pareto, o di classe,
avrebbe sostenuto Marx. C’è infine, la teoria della circolazione delle Elites. Elite è un
termine francese che designa una cerchia sociale, ristretta ed influente, un vertice
oligarchico; il termine sta ad indicare un gruppo - o più gruppi – in grado di esercitare un
controllo decisivo sull’intera società. Secondo la teoria paretiana, le democrazie
occidentali sono rette, anch’esse, da gruppi ristrettissimi, i quali nei rispettivi campi di
influenza (politico-economico; finanziario-energetico, ecc.) tengono “in scacco” la società
democratica. Le teorie degli “elitisti” non si opponevano alle democrazie rappresentative.
Semmai, si proponevano di svelarne, al di sotto della pellicola superficiale poliedrica ed
indeterminata, le solide strutture egemoni delle poche minoranze inscalfibili ed inscalzabili
da quel ruolo (persistenza degli aggregati), su cui la società intera si regge. La democrazie
è allora una grande mascheratura culturale, e serve a conservare le attività di tali
minoranze di massimo rango, cioè a proteggerne le prerogative di superiorità e le
specifiche (distintive) finalità materiali. Il principio che governa la “circolazione” (o cambio)
delle elites è certamente darwinista: governa l’elite che si dimostra la “più adatta” a farlo. A
questo servono le ideologie; a proteggere, a rendere “illeggibili” gli interessi delle classi
che stanno alla guida della società. Anche l’arte; l’estetica; le mode; tutti questi linguaggi
possono svolgere differenti funzioni di promozione e conservazione dello status quo. Per
Pareto l’estetica è equivalente alla propaganda. Si tratta di “palestre” non centrali (non
importanti come l’economia), in cui le elite mostrano incredibili capacità di mistificare,
stravolgere e camuffare l’autentico significato sociale e politico del loro stare in vetta alla
società: l’egemonia.

Non così influente come le altre, la sociologia elitista paretiana ha avuto l’indubbio
merito di mostrare un altro elemento di crisi della modernità: l’ambigua equità che stavano
mostrando le democrazie rappresentative. In questo senso, Pareto anticipa i futuri
sconvolgimenti europei degli anni 1930, condizionati dall’etnocentrismo dei montanti
nazionalismi. Più di questo, Pareto introduce nella teoria la nozione di “Sistema sociale”,
che avrà una gran fortuna in sociologia non essendo mai declinato del tutto. Mutuato dalla
matematica, Pareto intendeva il termine nel senso di insieme sociale (o sottoinsieme), al
cui interno si muoverebbero gli individui, o “atomi sociali”. Diversamente da Weber, che si
produsse in indagini sulle fonti (anche se non fece mai ricerca empirica), Pareto riportò in
auge, alla maniera di Comte, la pura teoria, producendo affermazioni interessanti sul
funzionamento sociale, ma evitando di metterle alla prova dei fatti.

Per approfondimenti
Per Weber, cfr. Weber M., L’etica protestante e lo spirito del Capitalismo, Sansoni,
Firenze, 1974 (prima ediz. 1805); per Pareto, cfr. A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Il
Mulino, Bologna, 2005.

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Argomenti: Sociologia in USA - La circolarità della ricerca sociale

7. La sociologia americana e inizio della sociologia “sul campo”

Nel 1897 venne fondata a Chicago (Illinois) il primo dipartimento americano di


sociologia. Con la scuola di Chicago si sviluppa un’organica sociologia a base empirica.
Lo scopo era quello di descrivere il funzionamento della società americana. A ciò serve
l’utilizzo sistematico delle Surveys, inchieste tramite interviste condotte con questionari. In
ciò è consistita la straordinaria innovazione metodologica introdotta dalla Scuola: la ricerca
empirica, sul campo. Metodologia empirica ad orientamento positivista (invece, per
l’aspetto interpretativo, piuttosto letteraria e un po’ romantica, com’è nello stile statunitense
del periodo) che era stata la grande speranza di Comte.

A differenze della sociologia europea che è nata affinchè non si verificassero più
quegli sconvolgimenti (causati da iniquità sociali) che avevano portato alla Rivoluzione, la
sociologia americana si propone di studiare la sua società multietnica, in fieri. Gli obiettivi
delle ricerche sono originalmente americani: lo scopo consisteva nel raccogliere dati
sensibili, in grado di consentire, in favore delle nuove generazioni di immigrati (e
comunque per l’intero melting pot americano) di promuovere un’autentica politica di
integrazione, altrimenti detta americanizzazione. Quindi, se la sociologia europea ha
vissuto una storia iniziale elitaria e - con le eccezioni di Durkheim e Weber - piuttosto
astratta e quasi “isolazionista”, cioè prima di collegamenti con le istituzioni, quella
americana è più “sociale” e misurativa. In America, da subito, l’intento degli amministratori
della sociologia si orienta a collegare l’Accademia ai grandi finanziatori, sia pubblici che
privati. I sociologi americani ritenevano che la sociologia dovesse specializzarsi e
professionalizzarsi, laddove i Classici europei, per ovvie ragioni, non vedevano questa
necessità.

Per quanto detto la sociologia europea è, nel suo approccio di metodo, soprattutto
teorica (in alcuni casi critica, in altri positivistica) con un accenno di funzionalismo
(Durkheim); quella americana può dirsi “integrativa” e consensuale. Si sviluppa in un
periodo molto vivo e movimentato sul fronte dell’immigrazione, in cui le Istituzioni dello Zio
Sam richiedono un nuovo tipo di ricerca sociale. Si tratta di capire come vivono gli ultimi
arrivati, quanto si sentono accolti e di cosa sentono il bisogno. Rispetto agli inizi del
secolo, che vede migrare verso la costa orientale americana gruppi etnici britannici e
scandinavi, in questa fase a “sbarcare” sono soprattutto i popoli dell’Est Europa. In
particolare polacchi.

Fino a quel momento, si distinguevano, etnicamente, tre fasi principali di migrazione


verso gli Usa:

1690ca.-1860 ca.
Prima, continuata, ondata di immigrazione; dalle Isole britanniche; dall’Olanda; dalla
Prussia e dalla Scandinavia; si riduce (eccetto il Quebec) a numeri poco significativi
l’iniziale, influente, presenza francese; i gruppi citati si autodesignano come “i nativi”; si
tratta di quei bianchi protestanti ad essere stati i primi coloni americani; meglio noti con
l’acronimo WASP (White; Anglo-Saxon; Protestant);

1860-1900

19
seconda immigrazione; Germania del nord; Baviera; Irlanda; dopo il 1850 le dottrine
razziali statunitensi prevalenti mettono tutti i bianchi non protestanti in un’unica casella
classificatoria: i “Caucasian”, caucasici;

1900-1920 ca
immigrazioni dall’est Europa; polacchi; cechi; ungheresi; russi; cresce il flusso dal
mediterraneo, comprendente i caucasici italiani e gli Spanish, cioè gli ispanici, come
verranno poi chiamati gli immigrati di lingua spagnola, provenienti però dal Sud America.

Considerata la grande diffusione dei polacchi a Chicago, non è strano che uno dei
primi studi empirici ha per argomento Il contadino polacco in Europa e in America (1918);
autori l’americano William Thomas (1863-1947) ed il polacco Florian Znaniecki (1882-
1858).

Dotata di un apparato teorico non centrale e decisamente poco originale, La scuola


di Chicago era, su questo versante, influenzata dall’organicismo di Durkheim. Essa verrà
modificata, acquisendo importanti aggiunte e sofisticazioni. Esse porteranno alle impotenti
teorizzazioni sistemico-funzionaliste degli anni 1930. Il nucleo teorico iniziale più
importante riguarda certamente l’interesse a definire la “situazione” (in senso weberiano,
dal punto di vista degli stranieri) in cui si trovavano a vivere i diversi gruppi di immigrati.
Per W. Thomas, la definizione della situazione sociale può così enunciarsi: “se gli uomini
definiscono reale una situazione essa diviene reale nelle sue conseguenze”. Per studiare
il modo con cui è vissuta la situazione di “rinato” nella nuova terra i ricercatori si servirono
di un nuovo metodo, quello empirico, per la prima volta applicato sistematicamente alla
ricerca sociale.

Se Durkheim provò a realizzare una ricerca empirica principalmente quantitativa,


almeno nella raccolta iniziale dei dati, gli americani raffinarono un metodo che è più
complesso, e qualitativo. Si seguono dei temi, quelli indicati in una traccia d’intervista, per
poi lasciare libero l’intervistato di rispondere senza limiti di tempo prefissati. E’ la famosa
“intervista aperta”.

Le fonti utilizzate ne Il contadino polacco sono:


storie di vita/interviste aperte;
lettere dalla Polonia a parenti residenti in Usa;
infine, dati ottenuti dalle pubbliche istituzioni (municipalità; pubblica
sicurezza; Coroner) per capire l’incidenza del crimine nella comunità oggetto
di studio e comprenderne le ragioni.

8. La struttura circolare della ricerca sociale, oggi


La Sociologia della Comunicazione è una branca quanti-qualitativa della ricerca
sociale. Forse, per le sue inclinazioni quantitative, i suoi antesignani si possono rinvenire
in Durkheim e nella sociologia empirica americana. In ogni caso, non si può parlare di
Sociologia della Comunicazione prima del 1949. A lezione si è spiegato come si ottengono
dei testi esplicativi, illustrazione di una ricerca compiuta sul campo. E’ indubbio che il
lavoro dei sociologi attuali deve molta della sua organicità empirico-concettuale
all’esempio pratico ed ingegnoso degli statunitensi.

In breve, per fare sociologia, attualmente, si parte dalla problematica della ricerca.
Si procede da un problema socio-culturale a cui si vuole dare risposta; ad es. nella ricerca
20
PRIN 2006 l’Università di Udine, affiancata da un Pool di altre tre Università del Nord-Est
(Venezia IUAV; Padova e Verona) ha cercato di dare risposta ad un problema socio-
culturale, riguardante le caratteristiche del pubblico dell’Arte Contemporanea (da questo
momento, AC) nel Triveneto; caratteristiche socio-demografiche; interessi; attitudini;
modalità di fruizione; è la prima fase (1). Lo schema standard a seguire per far funzionare
la ricerca si è così costituito; la seconda fase, detta (2) Disegno della Ricerca
comprendeva:
un’ipotesi definita; in questo caso sia sulla definizione di AC (dal pool
indicata come quella produzione artistica che va dal 1900 ad oggi); che sui
pubblici dell’AC, valutati, grazie a ricerche precedenti, come pubblici
caratterizzati da un elevato grado di scolarizzazione, e da una fruizione
piuttosto distratta;
la definizione della base empirica; con questa voce si intende l’insieme di
tutti gli oggetti di esperienza (in particolare, i siti dove somministrare i
questionari, gli utenti e i comportamenti degli intervistati) che sono di
importanza fondamentale per l’indagine; nel caso in esame, l’oggetto
rilevante era costituito dall’evento Biennale d’arte veneziana del 2007;
la selezione delle fonti di informazione; si opera una cernita delle fonti di
informazione da prendere in considerazione; media che hanno pubblicizzato
l’evento, come quotidiani, riviste, programmi radiofonici, ecc.;
la scelta del metodo di rilevazione; che può essere; quanti-qualitativo (con
domande soprattutto aperte; poco indicato per il caso); principalmente
quantitativo, tramite questionario semistrutturato (con qualche domanda
aperta; è ciò che si è scelto); e quantitativo, con sole domande chiuse;
il campionamento del pubblico; un campionamento rappresentativo si ottiene
quando dall’insieme universo (che riguarda l’insieme di tutte le persone
coinvolte nel “fenomeno” indagato) si effettua la selezione della porzione che
è oggetto dell’indagine, porzione che deve contenere, nella stessa
percentuale, le variabili conosciute dell’insieme generale;
le variabili da misurare; si stila una sequenza di variabili che interessano
l’indagine e che riguardano il problema della ricerca (ad es.; variabili socio-
anagrafiche; età; grado di “prossimità” all’AC, ecc.);
la confezione del questionari; si sceglie quale modello adottare; nel caso, si è
optato per un questionario semistrutturato, dalla durata media di
compilazione che oscillava tra i 25 e i 35 min. a visitatore.

Dopo il Disegno della Ricerca (2), si passa alla fase (3) della raccolta dati. Ci si è
serviti del metodo che ha convinto di più l’intero pool; in questo caso il metodo
dell’intervista guidata, tramite questionario somministrato ad un solo utente alla volta, face-
to-face, semistrutturato. Si è scelto un sistema “a doppia entrata”, con due questionari
identici, e con l’intervistatore che siglava le risposte pronunciate dell’intervistato. Sistema
utilizzato per evitare l’effetto trascinamento delle risposte che optano per valori medi: ad
esempio, nella scale MAPP; affinchè non vi sia una ripetizione automatica della scelta
“abbastanza”.
La fase successiva (4) è quella della codifica ed analisi dei dati; di qualsiasi
metodo si faccia uso le informazioni raccolte sono troppo complesse per poter essere
utilizzate allo stato grezzo. Allora, nella ricerca sociale, la semplificazione dei dati avviene
tramite il procedimento della codifica. Codificare significa assegnare dei codici, cioè
raggruppare tutte le informazioni raccolte sotto alcuni segni convenzionali (solitamente
numerici), e in questo modo semplificarle. Analizzare dei dati significa in primo luogo
trasformarli in maniera che essi divengano utili per l’indagine che si sta conducendo, per
21
esempio attraverso la loro quantificazione o attraverso il metodo degli incroci delle
variabili, dipendenti ed indipendenti. L’analisi dei dati fornisce gli elementi fondamentali
per confermare o smentire l’ipotesi della ricerca (punto 1.1.).
La fase conclusiva (5) riguarda l’interpretazione e l’esposizione dei risultati;
L’analisi dei dati, solitamente, non fornisce spiegazioni, ma solo descrizioni del complesso
dei valori ottenuti. Passare dalla descrizione alla spiegazione di quanto si è osservato e
descritto è compito del pool di ricerca, tramite meeting di discussione. Quindi, non solo il
disegno della ricerca, ma anche l’interpretazione dei dati è un lavoro collettivo.
L’interpretazione porta al (6) resoconto, ossia ad una pubblicazione scientifica vera e
propria. Il carattere pubblico è uno degli aspetti fondamentali della ricerca sociale. Bisogna
mettere in grado gli altri (la “comunità scientifica”) di verificare in prima persona le
affermazione del gruppo di ricerca che espone il caso di studio. E’ necessario che il
resoconto della ricerca renda il più trasparente possibile l’itinerario che è stato seguito.
Che siano note: quali fonti sono state utilizzate; attraverso quali metodi di rilevazione gli
intervistatori sono state interrogati; qual è stata la definizione della base empirica (Volontè,
Lunghi, Magatti, Mora 1999: 198).

Lo schema di lavoro seguito può essere applicato a tutti i tipi di pubblico e quasi ad
ogni tipo di ricerca; nella Sociologia della Comunicazione ci può essere spazio per una
sociologia dell’arte; una sociologia del cinema; una sociologia della televisione, ecc.
Attualmente, il settore si occupa in misura crescente di ricerche sul pubblico dei New
Media, mentre è in sensibile calo l’interesse dei committenti per una sociologia dei pubblici
delle arti visive.

Per approfondimenti
Per la sociologia americana, cfr. Volontè P., Lunghi C., Magatti M., Mora E.,
Concetti, metodi temi di Sociologia, Einaudi, Milano, 1999; sulla metodologia, cfr.
Meraviglia C., Metodologia delle scienze sociali, Carocci, Roma, 2004.

DISPENSE DA DISTRIBUIRE ESCLUSIVAMENTE


AGLI STUDENTI DEL CORSO DI
“SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE E TECNICHE
DELLA COMUNICAZIONE DI MASSA” (TRIENNALE)

A.A. 2012-2013 – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI UDINE


DAMS - SEDE DI GORIZIA (GORICA; GÖRZ; GURIZE)

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