1. Introduzione
Nel nostro corso si è discusso del fatto che la Sociologia della Comunicazione si
occupa frequentemente dei prodotti dell’”Industria Culturale”. Inizialmente, la dizione
venne considerata imprecisa (o incongrua) dai sociologi del consenso e dai funzionalisti,
parendo loro un ossimoro. Infatti, il processo industriale è classificato nella serialità, nel
riciclaggio e nell’assemblaggio di elementi di diversa provenienza ed utilizzo. Nel senso
comune, ma anche per i sociologi di quel periodo (anni 1940) l’espressione cultura - nel
suo significato storico - faceva normalmente pensare all’originalità, alla qualità, ad
esempio del pezzo unico, realizzato nei campi dell’estetica e dell’artigianato non di massa.
Il termine, come si vedrà nella sezione manualistica della Parte Generale, è stato
elaborato dalla Scuola di Francoforte. I capiscuola, Theodor Adorno (1903-1969) e Max
Horkheimer (1895-1973) furono tra i primi a parlare di “Industria culturale”, in forma
organica. Termine che ha avuto grande successo dopo gli anni 1960, anche all’esterno
della sociologia. L’Industria culturale è quel settore della comunicazione che ha utilizzato i
mezzi della produzione industriale (fordismo e taylorismo) nel settore di produzione dei
significati culturali: cinema; fumetti; telefilm; ecc.
Uno snodo critico per l’industria di massa (ivi inclusa l’industria dei “sogni”; cioè il
mondo pubblicitario e delle cinematografia “di cassetta”) si compie negli anni 1930, in Usa.
Vengono messe a punto nuove tecniche per ampliare la tiratura dei quotidiani, delle
riviste, della narrativa di massa, ma anche dei fumetti. Più di questo, i teorici pubblicitari
che promuovono il neonato marketing (a seguito del ’29), sentono che è venuto il
momento di un “salto di qualità” nella tecnica della promozione: occorre passare da una
“cultura che promuove bisogni da soddisfare”, ad “una cultura che promuove e sollecita
desideri”. L’intuizione (che si rivelerà corretta) era che, a differenza dei bisogni, che
possono essere soddisfatti per un certo tempo dall’acquisto del bene di cui si ha necessità
(ad es. un elettrodomestico), i desideri sono infiniti, non riguardando né situazioni di
necessità, quanto piuttosto vaghe, mutevoli, intense, “aspirazioni”. E per ciò stesso mai del
tutto soddisfacibili; si apre così l’era degli “infiniti capricci”, uno per ogni merce proposta.
Tale cultura merceologica fa dire all’americano medio: ‘io sono un buon americano
se cambio la macchina ogni 3 anni’; qualche decennio dopo (dopo il 1955) conquisterà
anche i luoghi comuni degli utenti europei del dopoguerra. Questa nuova “educazione
collettiva ad inedite, pervasive, forme di dipendenza” dall’oggetto (iper-versatile)
sostituisce le vecchie grammatiche dei bisogni sociali. Si fanno entrare in gioco più forti
componenti emotive, suggerimenti per abitudini (o manie) auto-realizzative, ego-centrate e
narcisiste. Cosa desidero? Una valorizzazione di me stesso (ma a buon mercato; quindi
consumando qualcosa di passeggero, non guidando una mia esperienza personale di
miglioramento diretto) attraverso una mediazione, un atteggiamento copiato da una moda,
da uno stile Trendy. Esibisco così una “facciata”, arricchita da beni da consumare presto,
per far immediatamente posto ad altri beni, anche questi effimeri. Il processo
comprendente la sostituzione di “beni da consumare presto”, per lasciare ampi spazi di
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deperimento liberi per altri feticci culturali, costituisce l’essenza socio-processuale del
consumismo. Per come viene attualmente considerato e studiato dai sociologi.
La sociologia è figlia del positivismo. Nasce in un secolo (il XIX), che nella sua
“essenza” è borghese e positivista. Certamente, sono esistiti anche altri movimenti
culturali, ma, dopo il declino illuminista, è stato il Positivismo a dare il “tono” all’intero
secolo, sia in Francia, che nella Germania e nell’Italia divenuti stati nazionali unitari, dopo
il decennio 1860. Si è detto; il Positivismo è erede dell’Illuminismo ma se ne distacca,
abbracciando istanze deterministe e scientiste, in vece di quelle critiche e letterarie
(tipicamente aristocratiche) che animavano il suo predecessore. Quindi, se è vero che la
Sociologie è figlia di due madri - la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale - a
questi prodromi non può che aggiungersi una rivoluzione logica, che ha avuto
nel’'empirismo positivista il principale punto di riferimento. La nuova linea sociografica è
orientata alla sistematicità, alla classificazione; alla ricerca e al riordino dei “fatti”, che si
ritiene di poter cogliere con un’”oggettività” che appare indiscutibile. La nuova scienza fu
promossa da interessi borghesi internazionali, di liberi pensatori, molti dei quali, vivendo di
rendita, disponevano delle necessarie risorse per poter diffondere nei salotti europei (per
cominciare, francesi) che contavano il nuovo approccio “preventivo” ai problemi sociali.
Infatti, nel contesto politico-accademico del tempo, si sente il bisogno di una scienza che
scongiuri il rischio di un nuovo, paventato, 1789. La sociologia, oltre che “positiva”, nasce
quindi conservatrice e restauratrice. La Massoneria Internazionale (nata a Londra nel
1717) è stata tra le promotrici di questo metodo di lettura del presente storico. La
Massoneria è una sorta di organizzazione iniziatica, di fratellanza, inizialmente a base
etico-morale, promotrice dell’umanesimo integrale, a scapito dei miti e delle religioni
assolutistiche. In Italia si è diffusa nelle due versioni, Piazza del Gesù (per principio, non
contraria ad un accordo con la Chiesa Cattolica) e Palazzo Giustiniani (l’ala anti-clericale
per eccellenza); entrambe promossero la “nuova invenzione parigina” nei salotti buoni di
Torino, Milano, Roma, Udine e Trieste, tanto per citare alcune delle città in cui tali
organizzazioni si sono preoccupate di divulgare le mode intellettuali più influenti. Profana e
laica, la sociologia, in Italia, venne avversata dalla Chiesa e da intellettuali di matrice
letteraria il cui esponente più noto è stato il filosofo idealista Benedetto Croce (1866-
1952). Lo “sdoganamento” avvenne appena negli anni 1960, con l’istituzione della Facoltà
di Sociologia, a Trento, per diretto interessamento della Chiesa Cattolica. Lo scopo era
quello di fronteggiare i “sociologismi” sempre più popolari (fra studenti e lettori accaniti)
che, fino a quel momento, erano egemonizzati dalle sinistre.
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Per quanto, secondo alcuni storici della sociologia, i suoi esordi si rinverrebbero in
due antecedenti alla Rivoluzione - nelle Lettere persiane (1721) di Montesquieu (Charles-
Louis de Secondat, barone di Montesquieu; 1689-1755) e nel Contratto Sociale (1762) di
Jean-Jacques Rousseau (1721-1778) - l’ideatore del termine Sociologie (1824) è stato
senz’altro Auguste Comte (1798-1857). Egli è anche considerato uno dei padri del
Positivismo filosofico. In Piano dei lavori scientifici per riorganizzare la società (1824)
compare il termine Sociologie, insieme al noto quadro evolutivo delle società umane.
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su suolo americano. Ad es. il luteranesimo americano non coincideva (né coincide oggi)
con quello germanico.
In sintesi, l’abilità di Tocqueville consiste in una sistematica, quanto personale
“osservazione sociologica” (unica, vera, innovazione metodologica apportata dall’autore),
in cui la disamina dei processi collettivi si propone di rapportare le cause dei fenomeni
sociali a cause sociali (o politologiche) e non psicologiche. E’ vero - dice Tocqueville – che
l’America mostra di credere all’”uguaglianza delle opportunità”. Ma, in altre circostanze
(quelle culturali; o riferendosi alla qualità della vita che vi si respira e riguardo alla carenza
dei diritti civili), il medesimo sistema che promuove la “parità” divide la società in: classi;
razze; e religioni; mostrandosi selettivo quanto discriminatorio. Se da una parte, gli essere
umani sembrano inseriti in un sistema legale in cui i diritti sono definiti in modo tale da
permettere una vasta mobilità sociale (in questo consiste la radicale differenza con le
società feudali), d’altro canto tale modello, definibile come democratico, agisce affinchè vi
sia un livellamento delle diversità, dei dissensi, dei particolarismi.
E siccome una scienza, per essere considerata tale, deve azzardare delle
predizioni che poi si avverano, tornato in Patria, la convinzione di Tocqueville è di aver
osservato un embrione di un futuro organismo, quello della “democrazia del denaro”, che
si imporrà ovunque, anche in Europa. L’avvento delle democrazie moderne è prossimo ed
avrà un solo modello di riferimento: gli Stati Uniti d’America.
Per approfondimenti
Per il Positivismo, cfr. Poggi S., Introduzione al Positivismo, Laterza, Torino, 1991;
su Comte e Tocqueville: cfr. Aron R. Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori,
Milano, 1989.
Ruolo - Il ruolo vale come l’insieme dei modelli di comportamento tesi a degli
obblighi e a delle aspettative che convergono su un individuo; l’individuo ricopre una
determinata posizione sociale in un determinato momento storico. Il concetto sociologico
di ruolo è simile alla nozione si status.
Tensioni di ruolo – Sono conflitti micro-macro; che si sviluppano sia tra persone che
ricoprono lo stesso ruolo, o ruoli diversi (conflittualità inter-ruolo) o nella dimensione
soggettiva, endogena (all’interno della persona stessa: conflitto intra-ruolo).
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Classe – declinata la definizione marxista, la nozione di classe viene usata oggi per
indicare gruppi di persone che hanno lo stesso reddito, e lo stesso potere d’acquisto.
Ceto – comprende persone di classi diverse, ma che per alcuni aspetti della vita
sociale sono tra loro affini; come se il differenziale economico fosse compensato da
argomenti, o nozioni culturali in grado di accomunare i diversi gruppi; il ceto corrisponde
quindi ad una dimensione di condivisione cultural-economica capace, almeno sul piano
relazionale, di “democratizzare” le differenze di classe, e questo tramite il rituale della
comunicazione culturale. Facendo salvo questo, si comprende come il ceto non sia una
componente sociale molto precisa, funzionando come una sorta di trasversalità
interclasse.
Per gli storici ed i metodologi, uno dei primi studiosi sociali (non un sociologo) a
servirsi di una “traccia di intervista” per raccogliere opinioni o valutazioni, cioè risposte
ottenute da intervistati, è stato Friedrich Engels (1820-1895). La sua ricerca raccolse
diverse opinioni sui minatori britannici (1860 circa). Il metodo consisteva nel distribuire
fogli semplici, che raccoglievano poche domande, a cui i lavoratori (alcuni dei quali
incapaci totalmente di scrivere) risposero con segni semplici (la famosa “x”), e in un
numero ridotto di casi si espressero con risposte articolate. Si trattò di un esperimento,
socio-critico interessante ma, in senso statistico, come tutti i tentativi pionieristici, debole
ed asistematico. Ma non passa molto tempo che intervenne Durkheim.
Il Suicidio (1897) è (finalmente!) frutto del primo progetto sociologico che parte da
una ricerca statistica, elaborando dati empirici. Il suicidio, fino a quel momento, sembrava
riguardare, in senso esclusivo e drammatico, un singolo individuo, che decide in quel
modo il suo termine. Durkheim la vede diversamente, poiché tutta la sua opera è tesa a
mostrare che l’individuo isolato, propriamente, non esiste. Infatti, gran parte di ciò che si
pensa come caratteristico dell’essere individuale è riconducibile all’influenza della società
sul comportamento dei gruppi sociali. Il suicidio appare in questa prospettiva una sorta di
opposizione radicale al legame sociale: in luogo della coesione sociale, postulata a
fondamento della vita umana, si esprime, in una modalità oppositiva estrema, la libertà del
singolo, il quale sceglie di sottrarsi a tale coesione. Pure, tale scelta, per Durkheim, non
può dirsi profondamente (né esclusivamente) individuale. L’interesse dell’autore non
riguarda l’anatomia del suicidio, caso per caso, ma elabora il “tasso di suicidi”, come si
riscontra in una data società. Il sociologo francese esaminò i dati (dei suicidi conclamati)
provenienti dalle pubbliche istituzioni delle seguenti aree (regioni e Stati) europee: Italia;
Belgio; Inghilterra; Norvegia; Austria; Svezia; Baviera; Francia; Prussia; Danimarca; e
Sassonia. Dall’introduzione al volume che raccoglie risultati della ricerca, risulta che i tassi
di suicidi all’interno dei vari paesi hanno la tendenza a rimanere costanti nel tempo.
Quindi, che a suicidarsi sia un individuo piuttosto di un altro dipende da variabili inter-
soggettive, spesso non formalizzabili. Tuttavia, la costanza del valore del tasso fa pensare
che il numero dei suicidi complessivamente presente in una data società - la sua tendenza
“suicidogena” - sia riferibile a fenomeni extra-soggettivi, cioè a “fatti sociali”. Come legge
sociologica generale, Durkheim ha voluto dimostrare che è che il numero complessivo di
suicidi presenti in un dato anno nella società esaminata - o in uno specifico segmento
della società – è sempre in relazione biunivoca con il grado di integrazione che la società
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medesima consente ad ogni soggetto. Si può dire che il tasso di suicidi è un fatto sociale,
cioè un fenomeno demograficamente ampio, provocato da cause relazionali, sociali,
quindi collettive.
Durkheim adotta il metodo statistico della variazione concomitante: elaborando la
variabile dei suicidi, incrociandola con la variabile indipendente (grado di istruzione;
religione di riferimento, ecc), si cercano delle variazioni significative. Nel momento in cui,
incrociando le variabili, se alla variazione della variabili indipendente esaminata (x),
corrisponde, costantemente, la congiunta variazione di quella dipendente (il tasso), ecco
che si è in presenza di qualcosa di importante. Tale dinamica corrisponde al metodo della
“variazione concomitante”. Il calcolo delle variazioni concomitanti consiste nel valutare
variazioni simili in due fenomeni, ipotizzando una congiunzione causale tra i due.
Durkheim nota che nelle società protestanti si riscontrano più suicidi che nelle
società ad osservanza cattolica. Quale corollario, si ritiene probabile che il tasso si
incrementi in condizioni sociali di isolamento, allentamento della tensione sociale e
aumento dello stress individuale, causato da ragioni sociali che allontanano l’individuo dai
gruppi di riferimento. Perché il mondo protestante sembra percorso maggiormente da tale
fenomeno?
- anomia: condizione sociale influenzata dalla mancanza del rispetto delle regole e
delle norme formalmente proposte come socialmente valide; la trasgressione, di tanto in
tanto, costituisce unno sfogo, un allentamento dalle costrizioni sociali, riportando i rapporti
sociali alla condizione dell’equilibrio pre-crisi; nell’anomia, invece, la norma, nella pratica,
non è più rispettata; ciò porta a malessere, rabbia, senso sociale di ingiustizia. Si prova
una sensazione simile all’isolamento; si ritiene che la società, nelle sue evidenti
contraddizioni, tradisca proprio chi ne rispetta i precetti. Si prova, trasversalmente alle
classi, una specie di umiliazione civica, poiché essere un buon cittadino non sembra
costituire un valore sociale autenticamente perseguito. Per questo, una società totalmente
anomica non può esistere se non come “astrazione negativa”. Ossia: nella disgregazione,
nello scontro sociale permanente, nella Guerra Civile.
Così come la qualità del cervello umano è oltre la semplice somma delle sue parti,
cioè qualcosa di più dell’insieme funzionante delle sue unità, allo stesso modo la società
è, per Durkheim, qualcosa di più della somma degli individui che la compongono: è
un’unità di livello superiore, dotata di una vita che non si spiega restando al livello della
semplice descrizione di ciò che appare dal basso (sociografia). Poiché la società si
esprime in fatti sociali, la sociologia è la scienza che studia l’insieme dei fatti sociali.
Le metafore meccanicistiche, ed organicistiche, evidenziano il carattere positivista
del pensatore. Tuttavia, a differenza di Comte, il primo fra i Classici è più interessato
all’aspetto funzionalista dell’organizzazione sociale, piuttosto che a definire un’unità
“sovraumana” della società, come postulato dal Comte più tardo. Una spiegazione
funzionalista è la spiegazione di un fenomeno sociale sulla base dell’individuazione della
funzione che esso adempie per il mantenimento vitale del complesso sociale. Non si tratta,
però, di un funzionalismo rigido. Lo studioso sa che la spiegazione funzionalista non sia
l’unica ad interessare lo scienziato sociale. In ogni caso, a Durkheim si riconosce la
teorizzazione di una prima forma di funzionalismo sociologico, poi ripresa dai funzionalisti
americani dei tardi anni 1930, il più importante dei quali fu il caposcuola statunitense
Talcott Parsons (1902-1979).
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La vita sociale ed individuale è un fluire di forme, cioè una “produzione di forme” in
cui questo fluire si condensa ed è osservabile. Si tratta di forme di relazioni; quali:
istituzioni; simboli; idee condivise e credenze; prodotti dell’attività economica e prodotti
artistici, generalmente definibili come culturali. L’oggettività delle forme sociali è cosa ben
diversa dal “fluire della vita”. Nell’oggettività la vita culturale e relazionale si rapprende,
diviene allora visibile è può, in tale formalismo, essere condivisa. Tuttavia, la pienezza
della vita (cioè, il fluire suddetto) è limitata da tali contenitori, veri e propri riduttori dei più
imprendibili e profondi significati vitali. Essi, se ridotti a forme, perdono di valore, di nobiltà
e chiarezza. Tuttavia, la formalizzazione della vita sociale è un fattore di mutamento,
inevitabile. Dalla dicotomia tra “forme” e “vita” emerge il dinamismo della storia della
cultura tedesca, e non solo. In realtà, nella sua sociologia (formalista) del mutamento,
l’elemento centrale, da cui il mutamento procede, sottostà al principio egemonico delle
forme culturali. Non è un fatto banale, poiché l’insistenza sulla dinamica delle forme rende
detto apparato concettuale poco incline a speculazioni economiciste e di classe.
Con tale concettualizzazione si comprende il senso, già in ipotesi, della “tragedia
della cultura”, per cui Simmel è noto. La tragedia sta nel fatto che la vita sociale non può
essere compresa che sulla base di simboli, categorie o raffigurazioni che, nella misura in
cui costituiscono una fissazione della vita stessa, le si contrappongono inevitabilmente,
riducendola a brevi rimandi; in tal modo banalizzando il bisogno di conoscenza. Ridotta a
ben pochi segnali, la vita sfugge, o è percepita solo in senso funzionale e materiale. Si
manca così di afferrarla, condannandosi al suo superamento, veloce e superficiale.
Simmel non ha creato una teoria del mutamento della portata di quella di Marx, né
una teoria del mutamento funzionale, come quella di Durkheim. Ciononostante, la
sociologia “delle forme sociali” è straordinatamente acuta nei dettagli, descrivendo i
contorni di una nuova vita, la “vita moderna”. La modernità, per Simmel, è crisi
permanente, poiché è mutamento perenne, senza che da questo si possa estrarre una
reale conoscenza dei fondamenti, presenti e futuri, del vivere sociale. La modernità è,
infatti, incessante ricerca, fatta di approssimazione ed instabilità. In ogni sua forma, in ogni
suo codice: politico; economico; e culturale. Per questo Simmel sembra alludere ad una
sorta di tempesta esistenziale collettiva, in cui nessuno può sapere dove l’”equipaggio
sociale” si trovi, per scegliere un approdo praticabile e più sicuro. La cultura di fine
Ottocento, elaborando un nuovo linguaggio e nuovi metodi di analisi (tra cui la Sociologia),
cerca di venire a patti con tale mutamento, che ha sconvolto la Germania agricola, la
Germania della tradizione, la Germania delle sicurezze culturali ed etiche. Nonostante tale
sforzo, chi cerca di comprendere il senso e la necessità del “cambio di marcia” della vita
urbana, si rende conto del fatto che il mutamento stesso nega la stabilità e l’applicabilità di
concetti universalmente validi, con cui l’indagine sociologica si proponeva di analizzare il
rompicapo della Modernità. Ciò che appare comprensibile è solo che tale temperie
culturale è sempre più volatile, transitoria, a-direzionale.
Il risultato di queste ricerche trova spazio ne La Filosofia del Denaro (1900). Dalle
nuove città tedesche emerge un nuovo “tipo” sociale. Il nuovo cittadino vive di un carattere
eminentemente intellettualistico. Il suo psichismo, freddo, ma soggetto ad intensificazioni
saltuarie della vita nervosa (quelle che Freud chiama, nella sua disciplina, “nevrosi”)
fornisce il carattere frammentario, prevalente, della socialità metropolitana. Essa è
scandita dal denaro e dai suoi mondi, dalle sue opportunistiche forme di senso. Questa
vita “rappresa”, si contrappone alle vita di provincia, anacronisticamente basata sulle
forme della vita sentimentale ed affettiva. Una dualità che, in tutt’altro campo, anche H.
Balzac aveva siglato nella sua monumentale Commedia umana (1830-1856). Modernità,
allora, significa disincanto del mondo, tipico dei gruppi della metropoli: sono i modi della
donna e dell’uomo blasè. Ogni valore è uguale a qualsiasi altro, tutto si consuma, tutto
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può essere utilizzato per poi non servire più. La febbricità nervosa di cui s’è detto traspare
dalla diffusa iperattività per i consumi e dalla “gestione” oculata di relazioni strumentali.
Tutte prove di adattamento e di astuzia, con cui “giocare” con le emozioni. L’individuo
metropolitano vive di un ego calcolistico, a cui soggiace la ben poca emotività di cui
dispone, poiché è nella filosofia del denaro che si ottiene la razionalizzazione espressiva
delle emozioni sociali. Sorta di ossimoro, poiché, per definizione, l’emozione non è
controllabile, di fatto il suo controllo comporta uno sforzo che uccide l’emozione. Sforzo
che il nuovo individuo metropolitano ha imparato a controllare, per proteggersi dallo
sradicamento insito dalle discrepanze dell’ambiente che lo circonda, ma non lo accoglie.
Nel 1905 Simmel scrive La moda, primo testo culturalista, teorico, sulla moda.
Moda come modo di vivere e metodo, a volte imitativo a volte competitivo, di rapportarsi
agli altri (oggi si parlerebbe di dress code). “Forma sociale” i cui meccanismi selettivi sono
basilari e dicotomici, essendo quelli di esclusione/inclusione. La moda è tale per cui, una
volta raggiunta da tutti, non è più moda, poiché è già passata. Le mode durevoli sono
quelle davvero d’élite, irraggiungibili e inespugnabili. Come scrive Simmel, la moda ha
un’essenza tale per cui, una volta che è passata dagli iniziatori a tutti gli altri (non appena
la moda ha completato la sua penetrazione), si cessa di considerarla come tale. Ogni sua
estensione inter-classe la conduce alla morte proprio perchè annulla le diversità, che
costituiscono una delle funzioni distintive del fenomeno.
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Per approfondimenti
Sul periodo considerato, cfr. E. Hobsbawm, L’età degli Imperi: 1875-1914, Laterza,
Torino, 1987; su Durkheim, cfr. Cedronio M., La società organica, Bollati Boringhieri,
Torino, 1989; per Simmel, cfr. Cavalli A. (a cura di), Introduzione a Filosofia del Denaro,
UTET, Torino, 1984 (prima ediz. 1900); Simmel G., La moda e altri saggi di cultura
filosofica, Longanesi, Milano, 1985 (prima ediz. 1905); Simmel G., Forme e giochi di
società, Feltrinelli, Milano, 1983 (prima ediz. 1917).
6. Weber e Pareto
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L’idealtipo è una prima approssimazione che si usa per muoversi nel periglioso
mare dei fatti empirici; una forma grezza da sbozzare. L’idealtipo è perfettibile; tramite le
osservazioni può essere modificato. Il suo opposto è lo “stereotipo”, che è un modello
anch’esso astratto, ma non suscettibile di cambiamento tramite controllo empirico.
Equivale alla nozione di “pregiudizio”. L’utilità euristica del “tipo ideale” è teorico-
concettuale. Per Weber esso rappresenta un primo quadro concettuale (progressivo), il
quale non è la realtà socio-storica e neanche la realtà “vera e propria”, infatti il suo è un
significato “limite”. A cui la realtà deve essere commisurata e comparata, al fine di
“illustrare determinati elementi significativi” del suo contenuto empirico.
Affinchè la sociologia sia comprendente, deve poter cogliere il senso dell’azione,
ma dal punto di vista di chi la compie.
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più importante e il riconoscimento della prosperità economica che si è raggiunta durante la
propria vita.
Per questo, Weber non ha mai affermato che la cultura, o la religione, hanno
generato direttamente il Capitalismo Moderno. Weber sostiene che l’idealtipo
Protestantesimo è responsabile dell’aver agito come potente motivatore per la
realizzazione di un nuovo ordinamento economico. Finchè, passato il 1600, intervenendo
il processo di secolarizzazione europea, questa “macchina” socio-produttiva possedeva
già la sua inerzia. La dottrina della Salvezza tramite Grazia e prosperità ha funzionato
come “motore immobile”. Dopodiché, tale sistema ha continuato a funzionare con
razionalità strumentale ed oculatezza anche quando la società olandese, o svizzera, non
hanno più considerato la Bibbia come testo base di organizzazione del tempo produttivo.
Con il declino della spiritualità tradizionale, il meccanismo è acquisito: lo scopo è sempre
accumulare denaro, ma il motivo non riguarda la religione: il denaro è fine a se stesso,
misura la “purezza professionistica” di ognuno, ma anche il saper “condividere” con gli altri
il benessere acquisito. La riforma ha portato una forte motivazione all’accumulazione del
denaro, ha creato un “puritanesimo professionistico”, con questo credendo di poter fare
dei nuovi capitalisti una sorta di “monaci secolari” (Calvino parla di “ascesi laica” dei nuovi
professionisti). Essi non bevono, non perdono tempo, non si divertono inutilmente, non
dissipano le risorse individuali e comunitarie. Diversamente ripongono fiducia nel loro
lavoro, nel loro Clan, e, soprattutto, nella loro indefinita capacità di estendere i mercati. In
ciò consiste la loro “spiritualità”, di derivazione protestante, poi laicizzata.
Weber è forse il più attuale dei classici, poiché dopo l’ennesima crisi finanziaria
globale (2007-2008) autori liberali, economisti critici e anche sociologi si fanno domande
sempre più pressanti su come debba intendersi il Capitalismo: se come sistema
riformabile oppure no; se umano o inumano; se stabile o instabile. Weber, con il suo
ragionamento idealtipico ne ha spiegato la genesi sociologica. Ha spiegato come il
Capitalismo possa collegarsi ad un fervore, un’ossessività ed una ritualità che non può
ridursi né al concetto di “profitto”, né di “sfruttamento” (come in Marx). Il Capitalismo
moderno nasce da un fervore che oscilla di continuo fra professione e fideismo, fra plus-
valore e virtù. In realtà il Capitalismo si basa su un’ideologia - quella della crescita illimitata
- che vale come “testo aggiuntivo” alla semplice matematica economica, o alle scienze
della finanza. Nata come costola organizzativa delle fede riformata, il Capitalismo diviene
una vera e propria “teologia laica”, centrale per l’intero ordine del profitto moderno. Non
stranamente, nelle aziende moderne si usano spesso espressioni come Vision e Mission,
termini non esattamente tecnici, bensì mutuate dal mondo fideistico. Ma, come nel 1500,
utili a raggiungere lo stesso scopo che voleva raggiungere la riforma: la rigenerazione,
nella fede finanziaria, delle forza motivazionale. I “nuovi eletti”, saranno i nuovi
amministratori, i “senza macchia” della vita materiale del futuro. Oltre a questo, Weber, più
di Marx ha messo in rilievo che il Capitalismo è una sorta di “culto laico” del capitale, in ciò
risolvendosi in una vera forma di fanatismo; profittuale; profano e metafisico, insieme;
materialistico, ma con grandi contraddizioni. Oltre a suggerire l’ipotesi che il Capitalismo
costituisca, nella sua smodata ambizione, una sorta di “fanatismo finanziario”, Weber
problematizza le possibilità future di tale macchina. Tuttavia, non essendo chiaro, nel
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Capitalismo attuale, quanto derivi dalla sua elite è quanto dalla pura tecnica finanziaria, se
si segue Weber la questione stabilità/instabilità rimane un problema aperto.
La teoria dell’azione logica sostiene che gli individui, a modo loro, sono tutti dotati,
almeno, di finalità strumentali. Certo, all’apparenza i collegamenti tra enunciati di azioni e
azioni conseguenti possono risultare spesso inesatti, fuori contesto e contraddittori. Ma
questo non impedisce che, praticamente, quasi ogni individuo abbia degli scopi sociali
precisi, spesso taciuti, e metta in campo ogni strategia possibile per perseguirli. In ciò
consiste l’interesse alla materialità della vita umana. Quindi, la finalizzazione dei
comportamenti, preparati per un obiettivo, costituiscono il centro della motivazione alla vita
sociale. La teoria dell’azione logica vuole portare alla superficie il vero sistema di
valutazione che muove il soggetto sociale finalizzato. Quindi, la coerenza di un’azione o è
totalmente evidente, oppure no. Nel caso in cui palesemente non lo sia - e questo si
verifica nella maggior parte dei casi - viene coperta da una vernice “logica”, mistificante e
giustificativa. Solo chiedendosi “a chi giova” è possibile smascherare i politici, i governanti,
ma anche gli artisti e i poeti, sul “che cosa” essi si erano realmente proposti al momento di
materializzare pubblicamente l’azione, sbandierata come sensata. L’ipotesi di Pareto è
critica: ritiene che ogni individuo tenda ad auto-ingannarsi, dandosi delle auto-
giustificazioni, pseudo-logiche, sulle vere motivazioni che lo guidano nelle sue scelte,
particolarmente negli errori, negli eccessi, nelle vanaglorie. L’individuo medio non è
irrazionale del tutto, essendo, in ogni caso, determinato da un fine. Ma, quanto al modo di
perseguire i suoi obiettivi è in questo che consiste la sua manifesta logicità, o illogicità.
Logica è quell’azione sociale dotata di senso concreto.
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- L’istinto delle combinazioni = processo collettivo che porta le classi omologhe a compattarsi (porta la bassa
borghesia verso l’alta borghesia); egualmente, porta le classi medie a seguire lo stile di vita delle classi agiate,
o per lo meno a copiare i modi delle classi più viste ed invidiate.
- La persistenza degli aggregati = significa che l’élite non vuole morire ed è quindi difficile epurarla dalla Storia
sociale; più facilmente si trasformerà, assumendo forme, se necessario, forme inusuali; persino cercando di
inserirsi in sottoclassi storicamente ad essa avverse; in Uk, l’aristocratico ha cercato di “rivendersi” come
imprenditore, ad esempio. Nella Repubblica francese le teste di sangue blu “che non sono cadute” nel 1789
hanno provato a “riciclarsi” nell’alta politica (cfr. la presidenza di Giscard d’Estaing) o nella carriera militare.
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quello che resiste al tempo, paragonabile alla struttura economica marxista. “Residuo” è
ciò che rimane una volta che si sia scomposto il comportamento degli uomini nelle sue
componenti elementari; componenti base, non suscettibili di ulteriori riduzioni. Questa
visione - allegoricamente chimica - dei comportamenti sociali, riporta l’origine del metodo
alla vecchia categoria sociologica di Fisica Sociale. A parte ciò, i “Residui” possono essere
considerati alla stregua di leggi sociali. Tra le varie categorie in lista, ad esempio, Pareto
distingue fra: persistenza degli aggregati (una volta formatosi nella storia, un sistema
sociale non “vuole”, non accetta il “verdetto” negativo della storia); e istinto delle
combinazioni. Istinto che vale come legge dell’accorpamento dei sotto-gruppi a complessi
di gruppi verso cui si confluisce “per affinità” di sistema, sostiene Pareto, o di classe,
avrebbe sostenuto Marx. C’è infine, la teoria della circolazione delle Elites. Elite è un
termine francese che designa una cerchia sociale, ristretta ed influente, un vertice
oligarchico; il termine sta ad indicare un gruppo - o più gruppi – in grado di esercitare un
controllo decisivo sull’intera società. Secondo la teoria paretiana, le democrazie
occidentali sono rette, anch’esse, da gruppi ristrettissimi, i quali nei rispettivi campi di
influenza (politico-economico; finanziario-energetico, ecc.) tengono “in scacco” la società
democratica. Le teorie degli “elitisti” non si opponevano alle democrazie rappresentative.
Semmai, si proponevano di svelarne, al di sotto della pellicola superficiale poliedrica ed
indeterminata, le solide strutture egemoni delle poche minoranze inscalfibili ed inscalzabili
da quel ruolo (persistenza degli aggregati), su cui la società intera si regge. La democrazie
è allora una grande mascheratura culturale, e serve a conservare le attività di tali
minoranze di massimo rango, cioè a proteggerne le prerogative di superiorità e le
specifiche (distintive) finalità materiali. Il principio che governa la “circolazione” (o cambio)
delle elites è certamente darwinista: governa l’elite che si dimostra la “più adatta” a farlo. A
questo servono le ideologie; a proteggere, a rendere “illeggibili” gli interessi delle classi
che stanno alla guida della società. Anche l’arte; l’estetica; le mode; tutti questi linguaggi
possono svolgere differenti funzioni di promozione e conservazione dello status quo. Per
Pareto l’estetica è equivalente alla propaganda. Si tratta di “palestre” non centrali (non
importanti come l’economia), in cui le elite mostrano incredibili capacità di mistificare,
stravolgere e camuffare l’autentico significato sociale e politico del loro stare in vetta alla
società: l’egemonia.
Non così influente come le altre, la sociologia elitista paretiana ha avuto l’indubbio
merito di mostrare un altro elemento di crisi della modernità: l’ambigua equità che stavano
mostrando le democrazie rappresentative. In questo senso, Pareto anticipa i futuri
sconvolgimenti europei degli anni 1930, condizionati dall’etnocentrismo dei montanti
nazionalismi. Più di questo, Pareto introduce nella teoria la nozione di “Sistema sociale”,
che avrà una gran fortuna in sociologia non essendo mai declinato del tutto. Mutuato dalla
matematica, Pareto intendeva il termine nel senso di insieme sociale (o sottoinsieme), al
cui interno si muoverebbero gli individui, o “atomi sociali”. Diversamente da Weber, che si
produsse in indagini sulle fonti (anche se non fece mai ricerca empirica), Pareto riportò in
auge, alla maniera di Comte, la pura teoria, producendo affermazioni interessanti sul
funzionamento sociale, ma evitando di metterle alla prova dei fatti.
Per approfondimenti
Per Weber, cfr. Weber M., L’etica protestante e lo spirito del Capitalismo, Sansoni,
Firenze, 1974 (prima ediz. 1805); per Pareto, cfr. A. Izzo, Storia del pensiero sociologico, Il
Mulino, Bologna, 2005.
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Argomenti: Sociologia in USA - La circolarità della ricerca sociale
A differenze della sociologia europea che è nata affinchè non si verificassero più
quegli sconvolgimenti (causati da iniquità sociali) che avevano portato alla Rivoluzione, la
sociologia americana si propone di studiare la sua società multietnica, in fieri. Gli obiettivi
delle ricerche sono originalmente americani: lo scopo consisteva nel raccogliere dati
sensibili, in grado di consentire, in favore delle nuove generazioni di immigrati (e
comunque per l’intero melting pot americano) di promuovere un’autentica politica di
integrazione, altrimenti detta americanizzazione. Quindi, se la sociologia europea ha
vissuto una storia iniziale elitaria e - con le eccezioni di Durkheim e Weber - piuttosto
astratta e quasi “isolazionista”, cioè prima di collegamenti con le istituzioni, quella
americana è più “sociale” e misurativa. In America, da subito, l’intento degli amministratori
della sociologia si orienta a collegare l’Accademia ai grandi finanziatori, sia pubblici che
privati. I sociologi americani ritenevano che la sociologia dovesse specializzarsi e
professionalizzarsi, laddove i Classici europei, per ovvie ragioni, non vedevano questa
necessità.
Per quanto detto la sociologia europea è, nel suo approccio di metodo, soprattutto
teorica (in alcuni casi critica, in altri positivistica) con un accenno di funzionalismo
(Durkheim); quella americana può dirsi “integrativa” e consensuale. Si sviluppa in un
periodo molto vivo e movimentato sul fronte dell’immigrazione, in cui le Istituzioni dello Zio
Sam richiedono un nuovo tipo di ricerca sociale. Si tratta di capire come vivono gli ultimi
arrivati, quanto si sentono accolti e di cosa sentono il bisogno. Rispetto agli inizi del
secolo, che vede migrare verso la costa orientale americana gruppi etnici britannici e
scandinavi, in questa fase a “sbarcare” sono soprattutto i popoli dell’Est Europa. In
particolare polacchi.
1690ca.-1860 ca.
Prima, continuata, ondata di immigrazione; dalle Isole britanniche; dall’Olanda; dalla
Prussia e dalla Scandinavia; si riduce (eccetto il Quebec) a numeri poco significativi
l’iniziale, influente, presenza francese; i gruppi citati si autodesignano come “i nativi”; si
tratta di quei bianchi protestanti ad essere stati i primi coloni americani; meglio noti con
l’acronimo WASP (White; Anglo-Saxon; Protestant);
1860-1900
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seconda immigrazione; Germania del nord; Baviera; Irlanda; dopo il 1850 le dottrine
razziali statunitensi prevalenti mettono tutti i bianchi non protestanti in un’unica casella
classificatoria: i “Caucasian”, caucasici;
1900-1920 ca
immigrazioni dall’est Europa; polacchi; cechi; ungheresi; russi; cresce il flusso dal
mediterraneo, comprendente i caucasici italiani e gli Spanish, cioè gli ispanici, come
verranno poi chiamati gli immigrati di lingua spagnola, provenienti però dal Sud America.
Considerata la grande diffusione dei polacchi a Chicago, non è strano che uno dei
primi studi empirici ha per argomento Il contadino polacco in Europa e in America (1918);
autori l’americano William Thomas (1863-1947) ed il polacco Florian Znaniecki (1882-
1858).
In breve, per fare sociologia, attualmente, si parte dalla problematica della ricerca.
Si procede da un problema socio-culturale a cui si vuole dare risposta; ad es. nella ricerca
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PRIN 2006 l’Università di Udine, affiancata da un Pool di altre tre Università del Nord-Est
(Venezia IUAV; Padova e Verona) ha cercato di dare risposta ad un problema socio-
culturale, riguardante le caratteristiche del pubblico dell’Arte Contemporanea (da questo
momento, AC) nel Triveneto; caratteristiche socio-demografiche; interessi; attitudini;
modalità di fruizione; è la prima fase (1). Lo schema standard a seguire per far funzionare
la ricerca si è così costituito; la seconda fase, detta (2) Disegno della Ricerca
comprendeva:
un’ipotesi definita; in questo caso sia sulla definizione di AC (dal pool
indicata come quella produzione artistica che va dal 1900 ad oggi); che sui
pubblici dell’AC, valutati, grazie a ricerche precedenti, come pubblici
caratterizzati da un elevato grado di scolarizzazione, e da una fruizione
piuttosto distratta;
la definizione della base empirica; con questa voce si intende l’insieme di
tutti gli oggetti di esperienza (in particolare, i siti dove somministrare i
questionari, gli utenti e i comportamenti degli intervistati) che sono di
importanza fondamentale per l’indagine; nel caso in esame, l’oggetto
rilevante era costituito dall’evento Biennale d’arte veneziana del 2007;
la selezione delle fonti di informazione; si opera una cernita delle fonti di
informazione da prendere in considerazione; media che hanno pubblicizzato
l’evento, come quotidiani, riviste, programmi radiofonici, ecc.;
la scelta del metodo di rilevazione; che può essere; quanti-qualitativo (con
domande soprattutto aperte; poco indicato per il caso); principalmente
quantitativo, tramite questionario semistrutturato (con qualche domanda
aperta; è ciò che si è scelto); e quantitativo, con sole domande chiuse;
il campionamento del pubblico; un campionamento rappresentativo si ottiene
quando dall’insieme universo (che riguarda l’insieme di tutte le persone
coinvolte nel “fenomeno” indagato) si effettua la selezione della porzione che
è oggetto dell’indagine, porzione che deve contenere, nella stessa
percentuale, le variabili conosciute dell’insieme generale;
le variabili da misurare; si stila una sequenza di variabili che interessano
l’indagine e che riguardano il problema della ricerca (ad es.; variabili socio-
anagrafiche; età; grado di “prossimità” all’AC, ecc.);
la confezione del questionari; si sceglie quale modello adottare; nel caso, si è
optato per un questionario semistrutturato, dalla durata media di
compilazione che oscillava tra i 25 e i 35 min. a visitatore.
Dopo il Disegno della Ricerca (2), si passa alla fase (3) della raccolta dati. Ci si è
serviti del metodo che ha convinto di più l’intero pool; in questo caso il metodo
dell’intervista guidata, tramite questionario somministrato ad un solo utente alla volta, face-
to-face, semistrutturato. Si è scelto un sistema “a doppia entrata”, con due questionari
identici, e con l’intervistatore che siglava le risposte pronunciate dell’intervistato. Sistema
utilizzato per evitare l’effetto trascinamento delle risposte che optano per valori medi: ad
esempio, nella scale MAPP; affinchè non vi sia una ripetizione automatica della scelta
“abbastanza”.
La fase successiva (4) è quella della codifica ed analisi dei dati; di qualsiasi
metodo si faccia uso le informazioni raccolte sono troppo complesse per poter essere
utilizzate allo stato grezzo. Allora, nella ricerca sociale, la semplificazione dei dati avviene
tramite il procedimento della codifica. Codificare significa assegnare dei codici, cioè
raggruppare tutte le informazioni raccolte sotto alcuni segni convenzionali (solitamente
numerici), e in questo modo semplificarle. Analizzare dei dati significa in primo luogo
trasformarli in maniera che essi divengano utili per l’indagine che si sta conducendo, per
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esempio attraverso la loro quantificazione o attraverso il metodo degli incroci delle
variabili, dipendenti ed indipendenti. L’analisi dei dati fornisce gli elementi fondamentali
per confermare o smentire l’ipotesi della ricerca (punto 1.1.).
La fase conclusiva (5) riguarda l’interpretazione e l’esposizione dei risultati;
L’analisi dei dati, solitamente, non fornisce spiegazioni, ma solo descrizioni del complesso
dei valori ottenuti. Passare dalla descrizione alla spiegazione di quanto si è osservato e
descritto è compito del pool di ricerca, tramite meeting di discussione. Quindi, non solo il
disegno della ricerca, ma anche l’interpretazione dei dati è un lavoro collettivo.
L’interpretazione porta al (6) resoconto, ossia ad una pubblicazione scientifica vera e
propria. Il carattere pubblico è uno degli aspetti fondamentali della ricerca sociale. Bisogna
mettere in grado gli altri (la “comunità scientifica”) di verificare in prima persona le
affermazione del gruppo di ricerca che espone il caso di studio. E’ necessario che il
resoconto della ricerca renda il più trasparente possibile l’itinerario che è stato seguito.
Che siano note: quali fonti sono state utilizzate; attraverso quali metodi di rilevazione gli
intervistatori sono state interrogati; qual è stata la definizione della base empirica (Volontè,
Lunghi, Magatti, Mora 1999: 198).
Lo schema di lavoro seguito può essere applicato a tutti i tipi di pubblico e quasi ad
ogni tipo di ricerca; nella Sociologia della Comunicazione ci può essere spazio per una
sociologia dell’arte; una sociologia del cinema; una sociologia della televisione, ecc.
Attualmente, il settore si occupa in misura crescente di ricerche sul pubblico dei New
Media, mentre è in sensibile calo l’interesse dei committenti per una sociologia dei pubblici
delle arti visive.
Per approfondimenti
Per la sociologia americana, cfr. Volontè P., Lunghi C., Magatti M., Mora E.,
Concetti, metodi temi di Sociologia, Einaudi, Milano, 1999; sulla metodologia, cfr.
Meraviglia C., Metodologia delle scienze sociali, Carocci, Roma, 2004.
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