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PICCOLA GUIDA ALL’OSSERVAZIONE PARTECIPANTE

(Antropologia 24 CFU - Bicocca)

Nel 1943, un giovane ricercatore nordamericano, William Foote White, pubblicò la sua tesi
di dottorato in Sociologia all’Università di Chicago. Il lavoro, frutto di una ricerca durata quattro anni
(1936-1940), si intitolava Street Corner Society: The Social Structure of an Italian Slum. [Street
corner society. Uno slum italo-americano, Bologna, Il Mulino, 2011]. Il volume, poco notato alla sua
prima edizione, quando fu ristampato nel 1955, ottenne un straordinario successo in gran parte
dovuto alla sua postfazione, dove White, in modo meticoloso, enfatizzava i vari passi
dell’applicazione del metodo dell’osservazione partecipante in un contesto urbano. Da allora divenne
un classico accademico della metodologia di ricerca etnografica nei corsi di scienze sociali di tutto il
mondo.
Nel 2007, la sociologa Lícia Valladares, in una recensione critica in occasione della prima
edizione del libro in Brasile [Os dez mandamentos da observação participante. Rev. bras. Ci. Soc.,
Fev 2007, vol.22, no.63, p.153-155] stilò un piccolo decalogo del contributo di White alla pratica del
metodo dell’osservazione partecipante.

1. L’osservazione partecipante presuppone un processo lungo e articolato. È essenziale per


lo svolgimento della ricerca un curato approccio di ricognizione e negoziazione di “entrata in campo”.
Gli studi che coinvolgono il comportamento e l’azione dei gruppi richiedono un tempo dedicato,
indispensabile per comprendere la loro evoluzione. Per questo è fondamentale osservarli per un
lungo periodo e in diversi momenti e modalità.
2. Il ricercatore, anche se istruito anteriormente con letture e informazioni, non conosce
sufficientemente il territorio da studiare e ignora la rete di relazioni che articolano le gerarchie di
potere e la struttura sociale locale. Se, al contrario, presuppone di aver il controllo della situazione,
in poco tempo imparerà sulla propria pelle di essersi sbagliato.
3. L’interazione ricercatore/interlocutore è condizione sine qua non dell’osservazione
partecipante. Le informazioni e le risposte che otterrà alla sua indagine scaturiranno dalle relazioni
che instaurerà con i suoi interlocutori e dal suo proprio comportamento. Da qui, una cosciente auto-
analisi rientra nei processi della ricerca. La presenza del ricercatore è gradualmente giustificata e
negoziata passo dopo passo, senza che egli si possa convertire mai in un “nativo”. Una nuvola di
curiosità, perplessità e diffidenza accompagnerà sempre la sua permanenza in campo.
4. Questa è la ragione perché il ricercatore deve essere consapevole di essere diverso dal
gruppo studiato. Il suo ruolo di persona “di fuori” va continuamente esplicitato. Non si può ingannare
l’altro e neppure auto ingannarsi. “Ho imparato che le persone non aspettavano che io fossi uguale
a loro. In verità erano interessati a me e soddisfatti di me perché vedevano che ero diverso. Ho
abbandonato, pertanto, i miei propositi di immersione totale” (p. 304, ed. bras - trad, mia).
5. L’osservazione partecipante non si rende possibile senza un interlocutore privilegiato, un
tramite locale che apre le porte e che scioglie i dubbi che certamente appariranno tra gli altri
componenti della comunità. Con il tempo questa persona da interlocutore privilegiato diventerà
collaboratore della ricerca: egli chiarirà le incertezze che perdureranno nel lavoro di campo; le sue
opinioni e riflessioni potranno influire nelle interpretazioni del ricercatore. Di fatto, egli diventerà un
assistente di ricerca.
6. Il ricercatore non conosce pienamente l’immagine che la comunità ha di sé e del suo
lavoro. Ogni suo passo nel territorio, quasi sempre, è esaminato e/o controllato dai locali.
L’osservatore è in ogni momento osservato.
7. L’osservazione partecipante è sinonimo di saper ascoltare, sentire, guardare, provare,
mangiare, toccare, insomma, fare uso di tutti i sensi. È necessario imparare quando si domanda e
quando non si deve domandare, e quale domanda fare nel momento giusto. Non si deve restringere
la raccolta di dati soltanto alle interviste formalizzate. Può darsi che, con il tempo, i dati vengano resi
disponibili al ricercatore senza che egli faccia qualsiasi sforzo per ottenerli.
8. Stabilire una routine di lavoro è fondamentale. Il ricercatore non deve demordere davanti
a un quotidiano che tante volte può sembrare (ed è) ripetitivo, e che richiede una dedicazione
esclusiva ed esaustiva. Tenere aggiornati gli appunti e il diario di campo (field notes), permette che
si autodisciplini; fa sì che le sue osservazioni a mano a mano diventino sistematiche e sempre vive.
D’altra parte, la sua presenza costante contribuisce e genera fiducia tra i membri della comunità.
9. Come nella vita (e l’etnografia è teoria vissuta) durante il lavoro di campo bisogna essere
disposti a imparare con i propri errori e trarre giovamento dai passi falsi che sono parte integrante
dell’apprendistato della ricerca. Si deve riflettere sul perché di una riposta negata, di un
fraintendimento, di un silenzio.
10. In molti chiederanno una restituzione dei risultati pratici della ricerca. “A cosa serve?
Quali utilità mi (ci) può portare? Pochi, però, consulteranno oppure si serviranno dei risultati finali
dell’indagine. Ciò che certamente rimarrà sono le amicizie maturate durante il lavoro di campo.
Lícia Valladares insiste, nelle conclusioni della sua recensione, su due punti: l’osservazione
partecipante non è una pratica semplice, una ricetta, ma è piena di dilemmi teorici e pratici che il
ricercatore ha il compito di gestire; per questo l’osservazione partecipante impone al ricercatore una
cultura metodologica e teorica all’altezza di questo compito.

Milano, febbraio 2020


Marco Antonio Ribeiro Vieira Lima

PS. Barbara Aiolfi e Sabrina Donzelli hanno revisionato e portato miglioramenti a questo piccolo
contributo. Le ringrazio di cuore. Eventuali errori sono di mia responsabilità.

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