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I diritti fondamentali

Parte generale
La prospettiva storica: ricostruzioni teoriche e modelli di tutela

La nozione di diritti fondamentali ha conosciuto un’evoluzione nel corso della 
storia:   è   infatti   possibile   individuare   tre   distinti   modi   di   approcciare   la 
materia   e   gli   strumenti   attraverso   i   quali   si   realizza   la   tutela   di   tali 
diritti.

• Approccio storicistico  (diritti consuetudinari):  in questa teoria i diritti 


di   libertà   sono   il   frutto   dell’evoluzione   storica   dei   rapporti   sociali   e 
politici che caratterizzano la vita dei diversi ordinamenti statuali, e viene 
posto   l’accento   sulle  invadenze   arbitrarie   dei   poteri   costituiti,  e  quindi 
sulle libertà c.d. “negative” che caratterizzano l’assenza di intervento di 
tali   poteri.   Secondo   tale   visione   l’origine   dei   diritti   di   libertà   è   da 
ricondursi  al periodo  medievale,  primo  momento  in cui  nacque  l’esigenza  di 
limitare il potere politico, nonostante la forma del potere all’epoca non sia 
riconducibile a una volontà di uno Stato di imporre definizioni delle sfere 
dei   diritti   individuali,   dato   che   il   potere   apparteneva   a   più   soggetti 
secondo il conosciuto schema feudale. I sostenitori di questa teoria guardano 
all’Inghilterra come all’esempio principale, dato che già la Magna Charta nel 
1215  sanciva  una  procedura  tassativa  da osservare  per  le limitazioni  della 
libertà   personale   fisica,   come   garanzia   contro   l’arresto   (due   process   of 
law); tale impostazione seguì poi nella Rivoluzione del 1688 e negli atti ad 
essa coevi (Bill of Rights 1689) che ribadirono il principio secondo cui la 
libertà individuale non è comprimibile dal potere politico statale.

• Approccio individualistico (diritti naturali): in questa teoria i diritti di 
libertà   preesistono   alla   formazione   dello   Stato   e   sono   indifferenti   agli 
sviluppi   sociali,   economici   e   politici,   in   quanto   diritti   naturali   che 
spettano   a   ciascun   individuo   in   quanto   tale.   Non   è   quindi   il   Medioevo   il 
periodo cui riferirsi per la nascita di tali diritti, dato che esistevano a 
quel   tempo   vari   ceti   cui   erano   attribuite   distinte   garanzie   in   termini   di 
diritti di libertà, e non era quindi l’essere individuo bensì l’essere parte 
di   un   determinato   ceto   la   fonte   da   cui   essi   scaturivano.   La   Rivoluzione 
francese   e   precisamente   la  Dichiarazione   dei   diritti   dell’uomo   e   del  
cittadino del 1789 (art. 1 “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali  
nei diritti.” art. 5 “Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere  
impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina”) sono 
il momento di svolta secondo questo approccio, in quanto il ruolo dello Stato 
è   qui   concepito   come   finalizzato   al   riconoscimento   e   alla   garanzia   dei 
diritti, dato che nasce in forza di un patto voluto dai soggetti titolari dei 
diritti   stessi.   Al   di   fuori   di   quanto   deciso   dalla   legge   a   tutela   della 
società non può che esercitarsi la libertà degli individui.

• Approccio statualistico (diritti legislativamente definiti): in questa teoria 
è solo grazie allo Stato che i diritti di libertà possono essere riconosciuti 
e garantiti, e conseguentemente è lo Stato che ne determina contenuto, limiti 
e   meccanismi   di   garanzia   (secondo   Hobbes,   prima   dello   Stato   c’è   solo   una 
situazione   di  bellum   omnium   contra   omnes  e   non   può   esistere   quindi   alcuna 
libertà e niente che garantisca le pretese dei singoli). Autorità e libertà 
non sono più quindi fattori di un dualismo ma nascono simultaneamente con lo 
Stato   e   insieme   si   sviluppano   condizionandosi   a   vicenda.   Il   punto   di 
riferimento   storico   di   questa   teoria   (detta   anche   del   c.d.  positivismo  
giuridico)   è   lo   Stato   liberale   ottocentesco,   in   cui   la   legge   era   fonte   e 
insieme limite dei  diritti di libertà.

Due esperienze costituzionali hanno contribuito allo sviluppo della dottrina dei 
diritti fondamentali:

• L’esperienza  statunitense:  la Costituzione  americana del 1787: essa combina 


in sé elementi di ognuno dei tre approcci appena visti, ma la fondamentale 
novità rispetto all’esperienza inglese da cui nasce è l’importanza attribuita 
al ruolo del giudice, la cui funzione di garanzia è rivolta anche contro il 
legislatore,   di   cui   si   diffida   ritenendo   il   popolo   un’autorità   ad   esso 
superiore;   la   Costituzione,   integrata   coi   principi   del  Bill   of   Rights, 
diviene   così   legge   suprema   del   Paese   e   primo   strumento   di   garanzia   dei 
diritti   di   libertà.   Tale   impostazione   è   legata   anche   e   soprattutto   alla 
nascita del controllo di legittimità costituzionale insito nella fondamentale 
sentenza  Marbury   vs  Madison  del   1803,   nella   quale   si   affermò  per   la   prima 
volta   che   un   giudice   ha   il   dovere   di   disapplicare   le   leggi   che   dovrebbe 
applicare   in   un   processo,   qualora   esse   siano   contrastanti   con   la 
Costituzione.  La diffidenza  contro la legge  era anche  figlia  dei motivi  di 
carattere economico che furono alla base della guerra d’indipendenza  contro 
l’Inghilterra,   originata   proprio   da   imposizioni   legislative   del   Parlamento 
inglese sul piano delle libertà economiche.

• L’esperienza francese: qui l’approccio dominante era quello individualistico, 
ma   furono   cercate   conciliazioni   con   l’approccio   statualistico,   mentre   fu 
abbandonato   in   toto   l’approccio   storicistico   dato   che   scopo   primo   della 
Rivoluzione   era   abbattere   l’ordinamento   preesistente.   La   Costituzione 
francese è concepita come un atto che deve tracciare nuovi indirizzi ed un 
nuovo   programma   politico,   da  attuare   dai   poteri   pubblici   espressione  della 
sovranità   popolare;   non   solo,   ma   si   cerca   di   conservare   una   concezione 
giusnaturalistica quando si definiscono i diritti individuali come “diritti  
naturali   ed   imprescrittibili   dell’uomo”.   Per   bilanciare   i   rapporti   tra 
Costituzione e legge, non si sottopone formalmente la seconda alla prima ma 
si   plasma   il   principio   della   rappresentanza   politica   per   cui   i   poteri 
pubblici non esercitano più direttamente ma mediatamente  la sovranità, cioè 
controllato   dagli   elettori   in   quanto   rappresentati   totalmente   senza 
distinzioni  di ceto  (mentre  la Cost.  ne è esercizio  diretto).  Viceversa  il 
ruolo   dei   giudici   è   sminuito,   in   quanto   pesava   su   di   loro   l’immagine   di 
funzionari legati al potere assolutistico. Un altro limite era quello di non 
aver   predisposto   strumenti   per   arginare   possibili   abusi   del   legislatore, 
risolto   soltanto   formalmente   affermando   che   la  legge   in   quanto  espressione 
della volontà popolare non poteva che essere giusta e rispettosa del quadro 
costituzionale.

Il modello francese si diffuse nell’Europa continentale a metà dell’800, per poi 
essere   smantellato   dalle   pressioni   autoritarie   del   secolo   successivo,   che 
accentuarono gli aspetti statalistici, per cui lo Stato trova in sé la propria 
legittimazione e non è più il popolo il vero sovrano, e la legge diventa mero 
esercizio di una funzione pubblica (o per meglio dire del partito unico), e di 
conseguenza essa ha totale discrezionalità nel definire la sfera dei diritti di 
libertà; venne sostanzialmente a galla il problema del non aver previsto limiti 
ad eventuali abusi del legislatore. I diritti di libertà e la loro definizione 
sono concepiti come funzionali al raggiungimento degli interessi generali dello 
Stato, così come interpretati dal partito unico.

Nelle costituzioni del dopoguerra, verranno riprese le esperienze statunitense e 
francese,   la   prima   per   quanto   riguarda   la   rigidità   della   Costituzione   e 
soprattutto il suo ruolo di fonte di garanzia dei diritti di libertà, la seconda 
per quanto riguarda il suo ruolo di programma  delle operazioni  poi perseguite 
dal  legislatore   (limitato   allo  stesso   tempo   dalla   rigidità   della   Costituzione 
stessa; Costituzione rigida = tavola di principi e valori non disponibile per il 
legislatore ordinario). Una nuova frontiera attinente alla tutela dei diritti di 
libertà si sta oggi aprendo con il copioso sviluppo del diritto internazionale.

I   diritti   fondamentali   nell’esperienza   costituzionale   italiana:   dallo 


Statuto Albertino alla Costituzione Repubblicana

Lo   Statuto   Albertino   deve   necessariamente   essere   considerato   come   punto   di 


partenza dell’esperienza costituzionale italiana: concesso da Carlo Alberto nel 
1848, nacque come Costituzione del Regno di Sardegna per divenire Costituzione 
del   Regno   d’Italia   e   rimanere   formalmente   tale   (sostanzialmente   subì   invece 
importanti variazioni, soprattutto durante il fascismo) fino al 1° gennaio 1948. 
Una   teoria   sostiene   che   ogni   Costituzione   scritta   vada   considerata   come 
naturalmente rigida in quanto non modificabile dalla legislazione ordinaria, ma 
lo Statuto fu sin dall’inizio considerato come flessibile, anche se non fu mai 
novellato  in  alcuna   delle   sue   disposizioni:   esso   era   infatti   un   patto  tra   la 
Monarchia (che si spogliava del potere di revocarlo) e la borghesia emergente, e 
si considerò quindi il Parlamento come unico organo abilitato a modificarlo, e 
infatti   lo   stesso   Statuto   prevedeva   una   riserva   di   legge   a   competenza   del 
Parlamento per la disciplina dei limiti alle libertà individuali. Il legislatore 
poteva   quindi   sostanzialmente   discostarsi   dalle   previsioni   solenni   dello 
Statuto, e poteva anche spogliarsi della propria competenza riservata a favore 
del potere regolamentare del Governo (si diffuse infatti presto la prassi degli 
atti con forza di legge varati dal Governo, che non conobbero limiti di sorta: 
decreti   legge,   stato   d’assedio),   potere   che   fu   poi   accentuato   durante   il 
fascismo,   quando   si   disciplinarono   espressamente   questi   tipi   di   atti   con   la 
legge   n°   100/1926.   Non   esisteva   neanche   alcun   controllo   di   legittimità 
costituzionale,   salvo   quello   timido   operato   dalla   Corte   Costituzionale   sui 
requisiti di urgenza e sull’effettiva presentazione degli atti alle Camere per 
la loro conversione.

Anche la riserva di giurisdizione, strumento di garanzia dei diritti di libertà 
contro l’arbitrio della polizia giudiziaria e dell’amministrazione riservandone 
la  definizione   ad   un’autorità  indipendente   ed   imparziale,  non   riceveva   alcuna 
previsione   nello   Statuto   (salvo   alcune  disposizioni   sul   principio  del  giudice 
naturale, sulla piena sovranità dei giudici nell’interpretazione della legge), e 
di   fatto   la   capacità   di   condizionamento   dei   magistrati   da   parte   del   potere 
politico   fu   incontrastata.   Il   pm   era   alle   dipendenze   dirette   del   Potere 
esecutivo  e l’art.  129 dell’ordinamento  giudiziario  del 1865  lo definiva  come 
rappresentante di esso.

Nello Statuto vi è una parte intitolata  Dei diritti e dei doveri dei cittadini 
(artt.   24­32)   di   evidente   derivazione   francese   e   che   evidenzia   la   concezione 
liberale dello Stato basata sul principio dell’eguaglianza di fronte alla legge 
(cioè senza discriminazioni formali da parte del legislatore) statuito dall’art. 
24.   Alla   solenne   affermazione   di   questo   principio   segue   l’elencazione   degli 
altri diritti fondamentali  cui lo Statuto vuole assicurare protezione, secondo 
lo schema affermazione del diritto + rinvio al legislatore per la determinazione 
dei   limiti   (funzione   che   era   sostanzialmente   abbandonata   all’arbitrio   della 
maggioranza  parlamentare,  che unita  alle  forte  limitazioni  al diritto  di voto 
dava un quadro nettamente sbilanciato a favore della borghesia, e non è un caso 
che   uno   degli   art.   più   solenni   sia   il   29   dove   si   afferma   il   diritto   di 
proprietà). Progressivamente in epoca liberale si arriva ad una funzione dello 
Stato che è quella  di bilanciare  le libertà  individuali  con il raggiungimento 
degli   interessi   generali   individuati   dal   Governo:   è   una   concezione 
statualistica,   e   la   si   rinviene   anche   nella   definizione   dei   diritti   politici 
come esercizio  di potestà  pubbliche,  concesse dallo Stato ai cittadini per la 
loro   partecipazione   alle   funzioni   statali.   Le   libertà   individuali   sono   qui 
designate   come   libertà   negative,   cioè   quelle   che   il   singolo   ha   diritto   di 
difendere da ogni ingerenza esterna e principalmente dei poteri politici, mentre 
non   c’è   spazio   per   le   libertà   collettive   nelle   quali   viceversa   è   necessario 
l’intervento  e non l’astensione dei poteri pubblici.

L’art.   24   sull’eguaglianza   subì   numerose   violazioni   da   parte   del   legislatore 


liberale   e   fascista:   si   pensi   alla   differenza   tra   uomo   e   donna,   alla 
legislazione razziale, a quella contro gli oppositori politici, a quella contro 
i   celibi   (imposta   “pel   solo   fatto   del   loro   stato”   a   fini   di   sviluppo 
demografico).

L’art.   26   prevedeva   che   “La   libertà   individuale   è   guarentita.   Nessuno   può  


essere arrestato o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge,  
e nelle forme che essa prescrive”. Per libertà si intendeva tanto quella fisica 
come garanzia  contro  gli arresti  tanto quella  di circolazione  e soggiorno.  In 
campo processual­penalistico, erano previsti i principi del giudice naturale e 
della sua precostituzione per legge, ma sostanzialmente chi veniva arrestato in 
flagranza aveva scarsissime garanzie difensive, che furono timidamente allargate 
nel codice penale del 1913; sul piano delle misure di prevenzione si assistette 
ad   una   pesante   violazione   dell’art.   26,   dato   che   la   legislazione   di   pubblica 
sicurezza   ne   prevedeva   una   serie   basata   semplicemente   su   una   presunzione   di 
pericolosità   sociale   (indipendentemente   dall’accertamento   di   fatti   specifici) 
verso determinate categorie di soggetti (oziosi, vagabondi abituali non dediti 
al  lavoro   e  senza  mezzi   di   sussistenza,  coloro   che  per  pubblica  voce   avevano 
commesso   qualche   reato)   e   relative   restrizioni   delle   loro   libertà   (1. 
Ammonizione   (applicata   dal   giudice):   era   richiesta   dalla   polizia   locale   e 
comportava   l’interdizione   dal   diritto   di   voto   e   una   serie   di   obblighi   simili 
alle   odierne   misure   custodiali,   come   l’obbligo   di   fissa   dimora;   2.   Vigilanza 
speciale   (applicata   dal   giudice):   era   una   pena   accessoria   che   comportava   una 
serie   di   obblighi   per   1­3   anni   e   che   veniva   applicata   a   chi   fosse   già   stato 
condannato   per   determinati  reati   come   espiazione  per   la   presunta   pericolosità 
sociale,   obblighi   che   se   contravvenuti   comportavano   l’arresto;   3.   Domicilio 
coatto (applicata da una Commissione provinciale presieduta dal Prefetto): era 
applicato   a   chi   era   ritenuto   particolarmente   pericoloso,   per   reiterate 
contravvenzioni   a   precedenti   misure   o   per   condanne   multiple   e   comportava   la 
deportazione   in   colonie   penitenziarie   ed   era   caratterizzato   da   una   forte 
genericità  dei presupposti  e il venir meno della riserva  di giurisdizione,  in 
quanto non applicato dal giudice). Com’è ovvio queste misure furono ampiamente 
utilizzate a scopo di repressione (o meglio, prevenzione) contro gli oppositori 
politici. La legislazione era affidata all’autorità di pubblica sicurezza e non 
al   giudice,   e   ciò   comportava   che   il   fine   fosse   la   prevenzione   e   non   la 
repressione di certi comportamenti; ma per la dottrina del tempo questa era una 
funzione   da   ritenersi   legittima,   mentre   l’importanza   era   individuare   e 
determinare i limiti della stessa per evitare di degenerare nell’arbitrio.

Durante   il   periodo   fascista   furono   allargate   le   categorie   dei   soggetti 


sottoponibili a misure di prevenzione e furono ampliati anche i presupposti che 
ne   legittimavano   l’applicazione,   principalmente   in   ottica   di   contrasto 
dell’opposizione politica; il domicilio coatto fu chiamato “confino di polizia”. 
Furono introdotte anche misure contro “l’urbanesimo”, e cioè per rafforzare il 
contrasto   ai   fenomeni   di   abbandono   delle   campagne   con   conseguenti   forti 
restrizioni  della  libertà  di circolazione;  stessa  politica  fu adottata  con le 
misure atte a contrastare o minimizzare il fenomeno dell’espatrio.

L’art. 27 statuiva la libertà di domicilio, rinviando alla legge la disciplina 
delle limitazioni; anche qui non era prevista alcuna riserva di giurisdizione, 
quindi   si   svilupparono   penetranti   poteri   in   capo   all’autorità   di   pubblica 
sicurezza.   La   nozione   di   libertà   di   domicilio   fu   tuttavia   intesa   in   modo 
estensivo come proiezione spaziale della libertà personale.

Una libertà a lungo bistrattata prima della Costituzione del 1948 è stata quella 
di corrispondenza,  che non riceveva  alcuna  previsione  nello  Statuto e che era 
sottomessa   agli   interessi   pubblici   anche   da   parte   della   dottrina   e   della 
giurisprudenza del tempo.

L’art.   1   dello   Statuto   indicava   la   religione   cattolica   come   “sola   Religione  


dello   Stato”,   ma   conviveva   con   altre   disposizioni   che   tutelavano   coloro   che 
professassero diversamente, come l’art. 24 sul principio di eguaglianza, l’art. 
32 che garantiva a tutti la libertà di riunione, gli artt. che prevedevano per 
il   Re,   il   reggente   e   i   parlamentari   formule   di   giuramento   senza   alcun 
riferimento   religioso.   Dopo   un   fallito   tentativo   di   modifica   bilaterale,   il 
Parlamento  piemontese  decise  di varare  unilateralmente  una  serie  di leggi  (le 
leggi   Siccardi,   che   imposero   principalmente   tributi   sulle   rendite   fondiarie 
della Chiesa; ma fu pesante in tal senso anche la previsione del codice civile 
del 1865 che disciplinava il matrimonio come negozio giuridico totalmente scevro 
da caratteri religiosi) cui il clero si dichiarò contrario, dando il via ad una 
stagione   di   tensione   che   culminò   nel   settembre   1870   con   l’occupazione   dello 
Stato pontificio da parte delle truppe italiane. Si assistette cioè ad una forte 
legislazione in ottica laicista da parte dello Stato, tra la quale va annoverata 
la famosa “legge delle guarentigie” del 1871 che regolava i rapporti tra Stato e 
Chiesa ma che non fu accettata da Pio IX. La conciliazione avvenne con i Patti 
lateranensi di stampo fascista nel 1929, che si articolavano in un Trattato, una 
Convenzione   finanziaria   ed   un   Concordato,   con   cui   si   stabilì   l’indipendenza 
dello Stato Vaticano, l’inviolabilità e sacralità della persona del Pontefice, 
la chiusura della “questione romana” (con annessi risarcimenti alla Santa Sede); 
in cambio lo Stato fascista ottenne principalmente appoggio e fedeltà politica; 
furono   anche   reintrodotti   nel   codice   penale   del   1930   alcuni   reati   come   il 
vilipendio della religione dello Stato o dei luoghi adibiti al culto, nonché la 
bestemmia.   Sempre   nel   1929   fu   varata   una   legge   che   comportò   misure 
discriminatorie   nei   confronti   delle   altre   confessioni,   e   sotto   vari   profili, 
accentuati poi ulteriormente con le c.d. “leggi razziali” del 1938.

La   libertà   di   stampa,   sancita   dall’art.   28,   era   fortemente   tutelata   come   da 
esperienza francese, e accanto alla disposizione statutaria fu varato nel 1848 
anche   un  Editto   sulla   stampa,   concesso   dal   Sovrano   per   determinare   ancor   più 
chiaramente   i   profili   fondamentali   della   disciplina,   che   era   incentrata 
principalmente  sul  divieto  di interventi  di censura  preventiva  ma anche  sulla 
previsione   di   reati   a   mezzo   stampa   (c.d.   abuso)   e   delle   sanzioni   relative; 
importante era anche la previsione di riserva giurisdizionale al giudice, sempre 
in   ossequio   ad   una   logica   meramente   repressiva   di   eventuali   abusi   e 
assolutamente non preventiva. Questa situazione durò tuttavia poco, dato che via 
via  che   i poteri   iniziarono  a  capire   quanto   importante   il   mezzo  della   stampa 
poteva   essere   nella   dialettica   tra   classi   e   interessi   sociali,   iniziarono   a 
svilupparsi prassi che accentuavano i caratteri meno liberali dell’Editto nonché 
varie leggi di polizia (che iniziarono a prevedere la necessità di concessione 
di   licenze   per   esercitare   le   varie   attività   di   stampa).   Durante   l’epoca 
giolittiana si tornò su climi decisamente più moderati e liberali, ma di nuovo 
essi furono ristretti con l’inizio delle ostilità belliche.

Con   l’avvento   del   fascismo   invece   la   natura   della   disciplina   cambiò 


radicalmente, passando da prevalentemente repressiva a strettamente preventiva. 
I   primi   segnali   si   ebbero   con   provvedimenti   che   aumentavano   i   requisiti 
richiesti dall’Editto per il ruolo di gerente (il responsabile per ogni mezzo di 
stampa   che   avesse   carattere   periodico)   nonché   la   natura   e   l’estensione   della 
responsabilità a lui riconducibile (nel 1930 venne introdotta la responsabilità 
oggettiva   per   fatto   altrui).   Significativa   era   anche   la   previsione   di   un 
riconoscimento   prefettizio   del   ruolo   di   gerente   e   di   un   possibile   rifiuto   di 
quest’organo del riconoscimento, che poteva di fatto paralizzare lo svolgimento 
dell’attività di stampa. Altrettanto significativa l’introduzione dell’Ordine e 
dell’Albo   dei   giornalisti   nel   1928,   presentato   come   aspirazione   della   classe 
giornalistica   ma   di   fatto   utilizzato   come   filtro   politico   di   coloro   che 
intendessero esercitare l’attività: erano previsti infatti soprattutto requisiti 
negativi, come il non avere condanne a pene superiori a cinque anni o non aver 
svolto   una   “pubblica   attività   contraria   agli   interessi   della   Nazione”,   che 
sostanzialmente   inducevano   il   richiedente   a   dover   certificare   la   propria 
condotta politica e cioè la propria volontà ad allinearsi ai principi del nuovo 
regime.

Il codice Rocco del 1930 ricondusse tutto il settore dei reati a mezzo stampa 
alla   disciplina   codicistica   (che   prima   era   affiancata   anche   alla   disciplina 
dell’Editto);   ma   il   dato   normativo   rilevante   è   quello   costituito   dalla 
legislazione di pubblica sicurezza, implementata dai t.u. del 1926 e del 1931: 
essa inaspriva da una parte il regime delle licenze di polizia per l’esercizio 
dell’attività   di  stampa,   e  dall’altro   trasformava   l’istituto   del   sequestro  da 
repressivo   (ed   azionabile   soltanto   dal   giudice)   a   preventivo   (ed   azionabile 
direttamente   dall’autorità   di   polizia),   indipendentemente   dall’effettiva   o 
presunta   commissione   di   un   reato   a   mezzo   stampa.   A   fianco   di   questi   aspetti 
negativi, c’è da aggiungere che il fascismo introdusse l’importante prassi dei 
finanziamenti   pubblici   a   sostegno   della   stampa,   con   la   creazione   di   numerosi 
Enti.

L’assenza   di   una   espressa   garanzia   costituzionale   a   tutela   della   libertà   di 


espressione attraverso mezzi diversi dalla stampa costituisce una delle ragioni 
che spiegano la natura particolarmente restrittiva della disciplina adottata in 
questo   campo   già   a   partire   dal   periodo   liberale.   Furono   infatti   attribuiti 
all’autorità  di polizia ampi poteri di vigilanza  ed intervento  in ordine agli 
spettacoli   teatrali,   sia   a   riguardo   delle   condizioni   tecniche   di   esercizio 
(concessione  di una licenza) sia a riguardo dei contenuti  espressi,  in chiave 
principalmente preventiva. Su questo campo già segnato il fascismo trovò terreno 
fertile,   e   costruì   un   sistema   che   consentisse   di   garantire   che   l’utilizzo   di 
questi   mezzi   di   espressione   seguisse   le   indicazioni   degli   interessi   politici 
dominanti;   i   t.u.   del   1926   e   del   1931   si   mossero   esattamente   in   questa 
direzione, allargandosi anche al nuovo mezzo in via di sviluppo a quel tempo, il 
cinema.   Il   tutto   era   basato   sulla   previsione   di   autorizzazioni   preventive   di 
durata   provvisoria,   di   competenza   dell’autorità   di   pubblica   sicurezza   locale, 
che accertassero l’idoneità dei soggetti e dei luoghi relativi all’espressione 
teatrale   o   cinematografica;   il   potere   dell’autorità   si   estendeva   anche   alla 
possibilità di interrompere  la rappresentazione in base a volutamente generici 
motivi   di   “ordine   pubblico”.   Ma   non   solo:   i   copioni   delle   rappresentazioni 
dovevano   essere   sottoposti   all’esame   e   all’autorizzazione   del   Prefetto   o   del 
Ministro   dell’Interno.   Anche   qui,   a   fianco   della   legislazione   repressiva,   il 
regime varò anche un programma di sostegno economico e di promozione delle opere 
teatrali   e   cinematografiche,   con   la   creazione   di   enti   pubblici   destinati   a 
sopravvivere fino al giorno d’oggi. Stessa programmazione e gestione in mano ad 
enti pubblici fu adottata per la disciplina della radiofonia.

La libertà di riunione rappresenta nel quadro dello Statuto l’unico esempio di 
riconoscimento di una libertà che noi oggi siamo soliti catalogare tra le c.d. 
“libertà   collettive”,   cioè   tra   quelle   libertà   che   hanno   un   senso   in   quanto 
vengono esercitate non dall’individuo in quanto tale ma dall’individuo in quanto 
associato  ad altri individui.  L’art. 32 prevedeva il solo limite generale che 
“tutte   le   riunioni   devono   essere   pacifiche   e   senz’armi”   pur   aggiungendo   che 
tutte le riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico dovevano considerarsi 
soggette   alle   leggi   di   polizia,   che   lasciava   quindi   all’autorità   una 
discrezionalità assai ampia; la legge di pubblica sicurezza del 1889 introdusse 
poi un altro elemento di diffidenza verso questa libertà, e cioè l’istituto del 
preavviso all’autorità  per le riunioni in luogo pubblico  o in luogo aperto al 
pubblico. Con il fascismo questi caratteri furono naturalmente accentuati.

La libertà di associazione non era invece prevista espressamente dallo Statuto, 
ma   fu   comunque   di   fatto   esercitata   e   vista   con   favore   dal   legislatore   fino 
all’epoca   liberale.   I   limiti   che   vi   furono   ricondotti   furono   in   parte   quelli 
previsti   per   la   libertà   di   riunione,   ed   in   parte   alle   tre   tipologie   vietate 
delle   associazioni   armate,   delle   associazioni   per   delinquere   e   delle 
associazioni   che   svolgessero   un’attività   contraria   allo   Stato   ed   alle   sue 
istituzioni. Nella prassi fu fatto spesso ricorso al potere di scioglimento del 
Governo e non della magistratura, che poteva agire solo per reprimere illeciti 
penali.   Da   fine   secolo   e   soprattutto   con   l’avvento   del   fascismo,   furono 
introdotte forti limitazioni a questa libertà, con previsione di autorizzazioni 
e pubblicità  delle associazioni,  scioglimento  di esse da parte  del Governo,  e 
moltiplicazione   dei   reati   associativi   nel   codice   Rocco,   che   puniva   le 
associazioni   sovversive,   antinazionali,   internazionali   e   la   cospirazione 
politica mediante accordo o associazione.

Lo   Statuto   prevedeva   una   Camera   elettiva,   mentre   il   Senato   era   composto   da 
membri   nominati   a   vita   dal   Re:   di   fatto   quindi   lo   Statuto,   all’art.   24, 
introduceva il principio della rappresentanza politica. Ma a tale principio non 
seguì, fino al 1912­1913, una legislazione elettorale conseguente, dato che il 
diritto al voto era basato  su principi  censitari  fortemente  elitari  (come nel 
periodo   piemontese),   fino   alla   legislazione   del   1919   che   estese   il   diritto 
elettorale attivo a tutti i cittadini maschi maggiorenni. Il fascismo liquidò i 
diritti politici affermatisi nello Stato liberale, e il partito unico funzionò 
come   unica   sede  di  possibile   partecipazione   politica   dei   cittadini   all’azione 
dei   pubblici   poteri.   Oltre   a   ciò,   qualsiasi   previsione   normativa   in   tema 
elettorale fu condizionata dal clima di forte intimidazione e violenza che regnò 
in   epoca   fascista,   come   nelle   elezioni   del   1924.   Furono   poi   progressivamente 
cancellati   i   diritti   delle   opposizioni   e   degli   organi   rappresentativi   locali 
(con  le leggi  c.d.  “fascistissime”), fino  ad arrivare  alla  soppressione  della 
Camera dei deputati nel 1939, che divenne Camera dei fasci e delle corporazioni, 
un’assemblea   non   elettiva   composta   dai   membri   del   consiglio   nazionale   del 
partito fascista, dai membri delle corporazioni (organismi di diritto pubblico 
con un’importante influenza soprattutto per la determinazione dei contenuti dei 
contratti di lavoro) e da altre organizzazioni vicine al regime.

I quattro principi che dominarono la discussione dell’Assemblea  Costituente su 
che forma avrebbe dovuto prendere la nuova Costituzione furono: 1) la concezione 
dei diritti fondamentali come elemento fondante del nuovo Stato democratico; 2) 
l’idea   che   lo   Stato,   oltre   ai   diritti   soggettivi   ed   agli   interessi   legittimi 
azionabili   dal   singolo   davanti   al   giudice,   dovesse   tutelare   in   modo 
programmatico   anche   i   diritti   sociali   (interessi   socialmente   meritevoli   di 
tutela); 3) l’idea per cui i diritti fondamentali non erano concessi dallo Stato 
come   forma   di   autolimitazione   ma   preesistenti   ad   esso   e   trovanti   posto   nella 
Costituzione,   che   si   impone   a   tutti   i   poteri   costituiti;   4)   l’idea   che 
l’effettiva   garanzia   dei   diritti   fondamentali   dovesse   passare   per   una 
Costituzione   rigida   che   estromettesse   dal   campo   di   disponibilità   della   legge 
ordinaria tale insieme di previsioni.

I diritti fondamentali nella Costituzione italiana: quadro generale

La Costituzione Repubblicana ha un impianto radicalmente diverso da quello dello 
Statuto,   risentendo   anche   delle   esperienze   costituzionali   europee   degli   stati 
liberaldemocratici   e   anglosassoni:   si   rovescia   l’impostazione   statualistica 
precedente,   si   fa   della   Costituzione   l’elemento   fondante   dell’azione   dei 
pubblici poteri, dei singoli e delle collettività sociali, si spezza la prassi 
dell’onnipotenza   della   legge,   si   definisce   un   nucleo   di   valori   non   più 
retrattabili.

Innanzitutto  l’art. 1 comma 2 afferma che “la sovranità  appartiene  al popolo,  


che   la   esercita   nelle   forme   e   nei   limiti   della   Costituzione”:   non   sono   più 
quindi   ammesse   legittimazioni   autonome   per   qualsiasi   organo   di   governo,   che 
dovrà invece poter contare su una legittimazione proveniente dall’unico soggetto 
(il popolo) che, in quanto titolare della sovranità, è in grado di attribuirne 
l’esercizio   ad   altri   soggetti.   Il   tentativo   dei   costituenti   fu   quello   di 
affiancare agli istituti della democrazia rappresentativa istituti di democrazia 
diretta   (diritto   di   proporre   leggi   al   Parlamento,   diritto   al   referendum);   di 
affiancare   ad   un   autorevole   sistema   statale   centrale   un   sistema   di   autonomie 
locali;   di   dare   un   ruolo   davvero   autonomo   agli   organi   di   giustizia 
costituzionale ed ordinaria; di istituire una serie di contrappesi istituzionali 
e politici ai rischi di degenerazione  della forma di governo  parlamentare.  La 
Corte Costituzionale  assume un importante ruolo di garanzia delle disposizioni 
della   Carta   soprattutto   in   ordine   ai   comportamenti   degli   organi   supremi 
dell’ordinamento statuale. Lo Stato non è più soggetto titolare di una somma di 
poteri innati ma è entità dinamica legata ai processi sociali e alla dialettica 
tra   le   grandi   direttrici   fissate   dalla   Costituzione.   Il   ruolo   dello   Stato 
diventa   primariamente   quello   di   garanzia   e   pieno   sviluppo   dei   valori 
riconosciuti   ai   cittadini,   come   afferma   l’art.   2   “la   Repubblica   riconosce   e 
garantisce   i   diritti   inviolabili   dell’uomo,   sia   come   singolo   sia   nelle  
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” e come conferma l’art. 3 
che   ribadisce   il   principio   di   eguaglianza   di   tutti   i   cittadini   e   formula 
espressamente la funzione sociale dello Stato che deve “rimuovere gli ostacoli”. 
Altro dato importante è quello indicato dall’art. 1 per il quale la Repubblica è 
fondata sul lavoro, che assume quindi il ruolo di valore sociale primario e dà 
vita   ad   una   serie   di   altre   disposizioni   inerenti   alla   c.d.   Costituzione 
economica (artt. 39­43).

Cambia   anche  la  logica   delle   tecniche   di   garanzia   dei   diritti   di   libertà:   la 
Costituzione   li   indica   e   indica   nella   legge   l’unico   strumento   in   grado   di 
delimitarne legittimamente i limiti, ad esclusione di ogni altra fonte normativa 
(riserva   di   legge   talvolta   assoluta,   talvolta   relativa)   e   con   la   riserva   di 
giurisdizione   al   giudice   ad   esclusione   di   ogni   altra   pubblica   autorità.   La 
disciplina   articolata   e   dettagliata   della   Costituzione,   sommata   alla   sua 
rigidità,   fanno   sì   che   la   riserva   di   legge   operi   in   canali   sostanzialmente 
predeterminati  che fungono da controllo intrinseco per l’opera del legislatore 
(tanto che si parla di riserva di legge rinforzata).

Il  sistema   di  tutela   dei   diritti   di   libertà   si   arricchisce   anche   di   numerose 


libertà   collettive   (diritto   di   riunione   e   di   associazione,   anche   politica   e 
sindacale) e diritti sociali (diritto alla salute, allo studio), passando così 
da una visione dello Stato meramente garantista, cioè una tutela di uno spazio 
intangibile da parte dei poteri pubblici e dei privati (c.d. libertà negativa) 
ad una visione  dello Stato  anche promotore  della partecipazione  di tutti alla 
vita politica e sociale (c.d. libertà positiva). Si cerca quindi di contemperare 
i   caratteri   delle   esperienze   statunitensi   e   francese,   da   una   parte   con   una 
Costituzione­garanzia   e   dall’altra   con   una   Costituzione­programma,   logica 
corredata dalla previsione di ripartizioni delle funzioni pubbliche e controlli 
e garanzie che trovano la loro chiusura nella giustizia costituzionale.

Secondo un importante criterio più volte ribadito dalla Corte, si deve ritenere 
che   a   parte   i   diritti   politici   e   salve   eventuali   differenziazioni   stabilite 
dalla legge, tutti i diritti di libertà vadano riconosciuti anche agli stranieri 
e che lo stesso debba dirsi quanto all’imposizione  dei doveri; ciò è coerente 
col   dettato   della   Costituzione   sia   quando   parla   di   diritti   “inviolabili  
dell’uomo” sia quando essa assicura tutela allo straniero cui sia impedito nel 
proprio   Paese   l’esercizio   delle   libertà   previste   dalla   Costituzione   stessa 
(diritto d’asilo, divieto d’estradizione  per motivi politici). Questa logica è 
stata allargata  anche per quanto concerne il diritto di voto per lo straniero 
comunitario   con   il   requisito   legittimante   della   residenza   stabile,   tanto   che 
alcune Regioni hanno già adottato misure atte a consentire il voto anche a tali 
soggetti   in   referendum   consultivi,   senza   che   la   Corte   abbia   avuto   niente   da 
eccepire al riguardo.

La disciplina  dello  status  dello  straniero  extracomunitario  o apolide  è stata 


ridisegnata   con   due   provvedimenti   del   1998   e   2002:   oggi   vengono   ad   essi 
riconosciuti   tutti   i   diritti   fondamentali   tutelati   dalle   norme   di   diritto 
interno ed internazionale, ma vengono ad essi imposti anche doveri rilevanti in 
ordine   all’accesso   e   alla   permanenza   sul   territorio   nazionale   (permesso   di 
soggiorno   ­   espulsione   amministrativa).   Anche   i   flussi   migratori   sono 
disciplinati, secondo quote annuali prestabilite dagli organi di governo locale 
e statale.

Lo status di rifugiato è riconosciuto ai cittadini stranieri che, per il timore 
fondato   di   essere   perseguitati   per   i   motivi   indicati   dall’art.   3   Cost.,   si 
trovino   al   di   fuori   del   proprio   territorio   nazionale   e   non   vogliano   o   non 
possano   rientrarvi;   gli   atti   di   persecuzione   devono   essere   sufficientemente 
gravi da rappresentare una violenza grave dei diritti umani fondamentali. Tale 
protezione   non   può   essere   riconosciuta   a   chi   sia   già   protetto   da 
un’organizzazione internazionale, o a chi abbia commesso crimini contro la pace 
o contro  l’umanità  o altri  reati  gravi,  oppure  si sia  reso  colpevole  di  atti 
contrari alle finalità e principi delle Nazioni Unite. La tutela applicata a chi 
si   trovi   in   condizione   di   rifugiato   prende   il   nome   di   diritto   d’asilo   ed   è 
statuita dall’art. 10 comma 3 Cost.

Dal   Trattato   di   Maastricht   è   stata   istituita   la   cittadinanza   europea, 


riconosciuta   a   chi   abbia   la   cittadinanza   di   uno   degli   Stati   membri   e   che 
comporta una serie di diritti di circolazione, soggiorno e tutela sul territorio 
degli   Stati   membri.   Ma   la   novità   più   importante   attiene   al   diritto 
all’elettorato attivo e passivo riconosciuto ai cittadini europei nello Stato in 
cui  si  risiede  per  le  elezioni  comunali  e  del  Parlamento   europeo   alle   stesse 
condizioni previste per i cittadini di quello Stato e previa una iscrizione in 
un’apposita lista elettorale.

L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili anche alle formazioni sociali, grande 
novità se si considera l’ostilità con cui esse venivano trattate nell’esperienza 
fascista. Si definiscono tali tutte quelle che si formano spontaneamente nella 
comunità,   ed   anche   ad   esse   si   estendono   i   doveri   inderogabili   di   solidarietà 
politica, economica e sociale.

I   diritti   di   libertà   incontrano   dei   limiti   di   esercizio   nella   capacità 


giuridica: è infatti necessario, per dare sostanza alla loro titolarità, avere 
la capacità di essere titolare di rapporti giuridici, che è stata definita come 
una   misura   della   personalità.   Per   il   godimento   dei   diritti   fondamentali   è 
necessario quindi disporre di una capacità naturale che consiste nella capacità 
almeno potenziale di compiere attività materiali nelle quali si estrinsecano le 
libertà,   ovvero   nella   capacità   di   agire   ex   art   2   cc   per   quei   diritti   che   si 
risolvono   nel   compimento   di   atti   giuridicamente   rilevanti   (diritto   di 
proprietà).   Alcuni   limiti   sono   quelli   relativi   all’età,   allo   status   di 
straniero,   a   particolari   situazioni   di   soggezione   speciale   (militari,   malati, 
detenuti).   La   rilevanza   del   concetto   di   capacità   giuridica   è   ribadita   nella 
Cost. all’art. 22, ai sensi del quale “nessuno può essere privato, per motivi  
politici,   della   capacità   giuridica,   della   cittadinanza,   del   nome”,   norma   che 
mira   esclusivamente   a   togliere   dalla   disponibilità   del   legislatore   alcuni 
aspetti ritenuti fondamentali dello status di cittadino.

La   Costituzione   indica   però   anche   espressamente   dei   limiti   ai   diritti 


fondamentali,   ed   essi   sono   di   carattere   generale   e   speciale:   i   primi   sono 
riconducibili   alla   necessità   come   fonte   del   diritto   ed   ai   vari   obblighi   di 
carattere   generale   rinvenibili   nel   dettato   costituzionale   (oltre   all’art.   78 
Cost.   che   indica   la   controversa   possibilità   che   sia   deliberato   lo   stato   di 
guerra),  i secondi sono quelli che risultano  dalle singole  disposizioni  e che 
disciplinano   i   diversi   diritti   di   libertà.   Quando   si   parla   di   necessità   come 
fonte   del   diritto   si   allude   a   quelle   situazioni   di   emergenza   che   determinano 
nuove   norme   non   previste   dall’ordinamento   ed   in   contrasto   con   quelle 
costituzionali;  la  Cost.   non   contiene   alcuna   disposizione  che   disciplini   tali 
situazioni, fatta eccezione per l’appena menzionato art. 78. Nell’assenza di una 
normativa espressa, la dottrina ha ritenuto che si debba fare riferimento alla 
procedura prevista dall’art. 78 e dagli artt. ad esso collegati (60­103­111). Le 
ordinanze di necessità ed urgenza disciplinate dal t.u. sulla pubblica sicurezza 
del   1931   sono   state   dichiarate   incostituzionali   ma   solo   nel   caso   in   cui   il 
potere   di   ordinanza   sia   esercitato   in   contrasto   alla   Cost.,   quindi   esse   sono 
rimaste   nel   nostro   ordinamento   seppur   limitate;   esse   sono   provvedimenti 
amministrativi   adottati   per   fronteggiare   situazioni   di   grave   pericolo,   ad 
efficacia temporanea e che derogano alle prescrizioni legislative vigenti, con 
l’unico   limite   rappresentato   dai   principi   generali   dell’ordinamento   giuridico 
dello Stato. Come limite si è discusso a lungo se annoverare quello dell’ordine 
pubblico, non menzionato formalmente dalla Cost. ma ricondotta dalla dottrina a 
quelle   specificazioni   inerenti   a   taluni   diritti   come   la   libertà   di   riunioni 
“pacifiche e senz’armi”, quindi si ritiene che l’ordine pubblico costituisca un 
limite quando inteso in senso materiale e non ideale.

I limiti speciali, che operano soltanto nei confronti dei diritti di libertà per 
i quali siano espressamente previsti, sono i seguenti:

• Il   limite   della   sicurezza   pubblica:  punta   a   consentire   l’esercizio   di 


attività finalizzate  alla prevenzione dei reati, ed è previsto innanzitutto 
dall’art. 16 in ordine al diritto di libera circolazione, così come dall’art. 
17 in tema di riunione in luogo pubblico quando viene posto a carico degli 
organizzatori l’obbligo del preavviso all’autorità di pubblica sicurezza che 
ha   potere   di   divieto,   infine   anche   nell’art.   41   relativo   all’iniziativa 
economica privata, inteso come limite a tutela della sicurezza sul posto di 
lavoro o dalla produzione di prodotti nocivi per ambiente e salute.

• Il   limite   della   sanità   e   incolumità   pubblica:  si   collega   direttamente 


all’art. 32 Cost. che tutela espressamente il diritto alla salute, inteso non 
solo   come   diritto   dell’individuo   ma   come   interesse   della   collettività, 
bilanciamento che può portare a restrizioni delle libertà come nel caso della 
disciplina   dei   trattamenti   sanitari   obbligatori   o   delle   vaccinazioni 
obbligatorie,   o   come   per   le   limitazioni   della   libertà   di   domicilio   quando 
sono consentiti accertamenti ed ispezioni senza la garanzia della riserva di 
giurisdizione,   o   infine   per   le   restrizioni   alla   libertà   di   circolazione   e 
soggiorno.

• Il limite  del buon  costume:  è l’unico  espressamente  previsto  nei  confronti 


delle   libertà   di   manifestazioni   del   pensiero   in   ognuna   delle   diverse 
accezioni  (stampa,  teatro,  cinema   o  qualunque   altro  mezzo);  è  disciplinato 
dall’art. 21 comma 6 e prevede tanto il divieto di pubblicazioni contrarie a 
tale   limite   sia   la   riserva   di   legge   per   definire   provvedimenti   atti   a 
prevenire   e   reprimere   le   violazioni.   Negli   ultimi   tempi   si   è   ristretta 
l’interpretazione di tale nozione alla sola sfera del pudore sessuale e non 
ad una generale morale comune.

• Il   limite   della   dignità   umana:  si   collega   direttamente   all’approccio 


personalistico contenuto nell’art. 2 ed è formulato dall’art. 13 comma 4 con 
particolare   riferimento   al   rispetto   della   persona   nei   trattamenti   sanitari 
obbligatori e nello sviluppo dell’iniziativa economica privata.

• Il limite dell’interesse patrimoniale dello Stato:  lo si trova nell’art. 23 
relativo   al   dovere   di   adempiere   le   prestazioni   patrimoniali   imposte   dalla 
legge, nell’art. 53 relativo al dovere di concorrere alle spese pubbliche in 
ragione   della   propria   capacità   contributiva,   nell’art.   43   che   disciplina 
l’espropriazione per pubblica utilità.
Il sistema di tutela dei diritti fondamentali  è molto articolato  e può essere 
distinto  tra     le  due  categorie  delle   lesioni   cagionate   dai   pubblici   poteri   e 
delle lesioni cagionate dai privati. Per gli abusi commessi dal legislatore, il 
principale   strumento   di   tutela   è   costituito   dal   controllo   di   legittimità 
costituzionale che consente l’impugnazione di una legge con contenuto contrario 
ai   principi   costituzionali   in   materia   di   diritti   di   libertà;   per   gli   abusi 
commessi  dal  Governo,  essi  possono  derivare  dagli  atti  limitativi  dei diritti 
fondamentali   in   caso   di   proclamazione   dello   stato   di   guerra   ex   art.   78   (si 
ricorre   al   giudice   contro   la   violazione   dei   limiti   imposti   all’azione 
dell’Esecutivo)   oppure   dagli   atti   adottati   nell’esercizio   dei   suoi   poteri 
straordinari   (per   gli   atti   normativi   il   sindacato   successivo   è   della   Corte   e 
quello preventivo del Presidente della Repubblica in sede di emanazione; per gli 
atti amministrativi  quando  si lamenti una lesione di un diritto soggettivo  si 
ricorre   al   giudice   ordinario,   quando   si   lamenti   una   lesione   di   un   interesse 
legittimo si ricorre al giudice amministrativo).

La   Costituzione   elenca   tutta   una   serie   di   diritti   fondamentali   relativi   alla 


funzione giurisdizionale: l’art. 24 sancisce il diritto alla difesa (diritto ad 
agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, anche per 
i non abbienti), l’art. 25 il principio del giudice precostituito per legge (da 
cui   nessuno   può   essere   distolto,   si   mira   ad   assicurare   la   terzietà   ed 
imparzialità dell’organo giudicante; ma la novità rilevante è indicata dall’art. 
101 per cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”  e dall’art. 107 che 
sancisce   il   principio   dell’inamovibilità   e   quello   del   divieto   di   operare 
distinzioni  tra magistrati  se non per la funzione  diversa  che essi svolgano), 
sempre   l’art.   25   sancisce   poi   il   principio   della   c.d.   irretroattività   della 
legge   penale,   l’art.   27   sancisce   il   principio   della   personalità   della 
responsabilità penale e della presunzione di non colpevolezza fino alla condanna 
definitiva, l’art. 111 riconosce la possibilità di ricorrere in Cassazione per 
la violazione di legge nelle sentenze o provvedimenti che restringano la libertà 
personale e più in generale lo stesso art. ha introdotto i principi del giusto 
processo,   l’art.   24   comma   3   sancisce   l’obbligo   di   riparazione   dell’errore 
giudiziario e l’art. 28 la responsabilità civile dei magistrati.

La tutela internazionale dei diritti fondamentali

Importanti tendenze sul piano dei diritti fondamentali si sono formate in ambito 
di diritto internazionale dal dopoguerra: la Carta delle Nazioni Unite del 1945 
che fu preludio alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e 
ad   altri   atti   degli   anni   successivi.   Dal   punto   di   vista   del   loro   contenuto, 
questi   atti   internazionali   rappresentano   un   arricchimento   del   catalogo   dei 
diritti  di libertà  (soprattutto  a riguardo  della  tutela  dei diritti  sociali), 
mentre   dal   punto   di   vista   del   loro   valore   giuridico   essi   fanno   totale 
affidamento   sull’azione   degli   Stati   che   li   hanno   ratificati,   salvo   incorrere 
nella   loro   responsabilità   politica.   Il   nostro   art.   10   Cost.   sancisce   che   le 
norme di diritto internazionale entrano a far parte del nostro ordinamento allo 
stesso   livello   delle   fonti   primarie,   senza   quindi   alterare   in   alcun   modo   la 
tutela costituzionale prevista.

Non   mancano   comunque   aspetti   controversi   riguardo   allo   sviluppo   di   tale 


normativa   internazionale,   come   ad   esempio   riguardo   al   fatto   che   la   stessa 
preveda l’istituzione  di appositi tribunali internazionali  e allo stesso tempo 
il ricorso all’uso della forza. Altro aspetto discutibile  è il fatto che tali 
convenzioni   tutelano   i   diritti   fondamentali   ma   non   prevedono   strumenti   a 
garanzia del loro effettivo rispetto che operino sul piano giuridico.

Strumenti che invece sono previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia 
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sottoscritta a Roma 
nel  1950  e al cui  testo  originario  si sono  sommati  nel  tempo  vari  protocolli 
addizionali:   essa   contiene   una   serie   di   diritti   che   tende   a   garantire   e   la 
previsione   delle   limitazioni   che   essi   possono   incontrare,   nonché   le   modalità 
attraverso   cui   gli   stessi   possono   essere   legittimamente   compressi.   La   vera 
novità   di   questa   convenzione   risiede   nel   meccanismo   posto   a   presidio 
dell’effettivo rispetto del suo contenuto, che in origine prevedeva due organi 
(Commissione   europea   dei   diritti   dell’uomo   e   Corte   europea   dei   diritti 
dell’uomo)   che   avevano   due   distinte   funzioni   nel   meccanismo   che   si   attivava 
quando vi facessero ricorso gli Stati membri o i privati; dal 1994 tale sistema 
è stato riformato ed è basato oggi su di un solo organo chiamato Corte europea 
dei diritti  dell’uomo  cui vengono  diretti  i ricorsi. Le sentenze della Corte, 
ove accertino una violazione, condannano lo Stato responsabile e lo obbligano ad 
eliminare   il   pregiudizio   alla   parte   lesa   salvo   il   risarcimento   del   danno   o 
un’equa riparazione nel caso in cui l’eliminazione non sia possibile.

Altri   atti   rilevanti  in  campo   internazionale   sono   la  Carta   di   Nizza   del  2000 
(Carta dei diritti fondamentali dell’UE) ed il Trattato di Lisbona.

Quanto alla novità introdotta dalla modifica dell’art. 117, che impone oggi alla 
legge   dello  Stato   l’obbligo   costituzionale   di   rispettare  gli  obblighi  assunti 
per   il   tramite   di   un   Trattato   internazionale,   sono   da   segnalare   le   due   c.d. 
sentenze  gemelle   della   Corte   Costituzionale,  la  n°348   e  349   del   2007,  che   si 
sono fatte carico di ricostruire  l’assetto  del rapporto  tra diritto  interno  e 
diritto   internazionale   pattizio   in   generale   ma   con   riferimento   alla   CEDU.   Il 
principio ivi contenuto è quello per cui nell’ipotesi in cui il giudice si trovi 
di fronte al dubbio circa la conformità di una norma di legge nazionale e una 
disposizione della convenzione (così come interpretata dal suo giudice, cioè la 
Corte   europea   dei   diritti   dell’uomo)   incombe   su   quest’ultimo   l’obbligo   di 
risolvere in via interpretativa, per quanto possibile, il dubbio e, ove questo 
tentativo   non   dia   esito   positivo,   l’obbligo   di   sollevare   la   questione   di 
legittimità costituzionale  della norma interna in questione per violazione del 
nuovo   parametro   costituzionale   introdotto   dall’art.   117   comma   1   Cost..   La 
disposizione CEDU potrà funzionare da norma interposta (norma che si interpone 
tra una di rango ordinario e una di rango costituzionale)  solo se assicura al 
diritto   in   questione   una   tutela   almeno   equivalente   a   quella   assicurata   dalla 
Costituzione. La Corte costituzionale deciderà quindi in base al principio della 
prevalenza dell’interpretazione che garantisca la tutela maggiore.

Parte speciale
L’interpretazione dell’art. 2 della Costituzione

L’articolo 2 affida alla Repubblica (in tutte le sue espressioni, non solo per i 
poteri statali) il ruolo di funzione strumentale di garanzia, di pieno sviluppo 
dei   valori   personalistici   e   comunitari   dei   cittadini   e,   più   in   generale, 
dell’intero consorzio umano. Esso si riferisce non solo ai cittadini ma a tutti 
gli  uomini  in quanto  portatori  di valori  individuali  preesistenti  alla  stessa 
organizzazione  statale;  questo   dato  ci  indica   il   definitivo  superamento   della 
visione   statocentrica   che   affermava   il   fondamento   dei   diritti   individuali   in 
un’autolimitazione   dello   Stato,   a   favore   invece   della   visione   personalista. 
Appare   corretta   la   tesi   secondo   cui   i   diritti   fondamentali   e   l’ordinamento 
sorgono   insieme,   e   non   abbia   quindi   senso   ricercare   quali   tra   essi   preceda 
l’altro; l’art. 2 pone comunque al centro i “diritti” umani e non la “persona” 
astrattamente   considerata.   Si   ritiene   che   l’art.   2   costituisca   una   norma   “a 
fattispecie   aperta”,   che   tuteli   e   riconosca   cioè   non   solo   i   diritti 
espressamente   previsti   dalla   Costituzione   ma   anche   quelli   espressi 
dall’evoluzione   della   coscienza   sociale,   anche   se   forti   critiche   sono   state 
avanzate   a   tale   riguardo,   una   delle   quali   è   quella   per   cui   ad   ogni   diritto 
corrisponde la necessità di un obbligo a carico di uno o più soggetti e dunque 
non può esservi un riconoscimento non espresso. Si accoglie invece la tesi per 
cui   l’art.   2   vada   letto   secondo   un’interpretazione   estensiva   che   riconosca   e 
tuteli anche posizioni soggettive  collegate ai diritti espressamente  previsti. 
Quanto alla potestà delle Regioni in materia di diritti fondamentali, la Corte 
ha chiarito che la materia non può avere differenziazione tra regione e regione, 
mentre   le   stesse   possono   attivare   diverse   modalità   di   implementazione   dei 
diritti   costituzionali.   Tale   lettura   porta   a   valorizzare   il   concetto   di 
inviolabilità   dei   diritti,   inteso   come   sinonimo   di   irrivedibilità   anche 
attraverso   il   procedimento   di   revisione   costituzionale,   anche   se   tale 
irrivedibilità è limitata al solo nucleo essenziale dei diritti di libertà.

Accanto   alla   previsione   espressa   del   limite   posto   dall’art.   139   riguardo 
all’immodificabilità   della   forma   repubblicana   dello   Stato,   la   dottrina 
prevalente  ritiene  che  esistano  anche  altri  limiti  impliciti  alla  funzione  di 
revisione   costituzionale   rinvenibili   in   quei   principi   costituzionali   che 
caratterizzano   il   nostro   ordinamento,   come   la   sovranità   popolare,   l’unità   e 
indivisibilità dello Stato, i diritti inviolabili della persona e i principi di 
eguaglianza e libertà. Tali principi sarebbero modificabili solo attraverso un 
nuovo   processo   costituente   ed   un   nuovo   patto   sociale   radicalmente   diverso   da 
quello che ha dato vita all’attuale Costituzione. Si ritiene che la funzione di 
controllo   sul   rispetto   di   tali   limiti   sia   da   attribuire   tanto   al   Presidente 
della Repubblica quanto alla Corte Costituzionale. In base a tale ragionamento 
si   può   quindi   delineare   la   differenza   tra   la   funzione   di   revisione 
costituzionale   e   la   funzione   costituente:   mentre   la   prima   trova   la   sua 
disciplina   direttamente  nella   Costituzione  e  può  essere   esercitata  solo   entro 
determinati   limiti   procedimentali   e   di   principio,   la   seconda   non   ha   alcuna 
disciplina formale e non vale a modificare  norme esistenti bensì a definire i 
termini del patto sociale che sta alla base della Costituzione.

Quanto   alla   definizione   di   uomo   fatta   dall’art.   2,   vanno   fatte   alcune 


considerazioni:   innanzitutto   tale   concetto   si   riferisce   tanto   ai   cittadini 
quanto agli stranieri; ma il tema pone anche il problema  relativo  alla tutela 
del concepito,  argomento  molto dibattuto  e per il quale il nostro ordinamento 
non   prevede   l’equiparazione   piena   della   posizione   del   concepito   a   quella   del 
nato.  Le problematiche  più rilevanti  riguardano  il suicidio  e l’eutanasia:  il 
diritto alla vita e all’integrità psicofisica ha carattere di diritto soggettivo 
assoluto   (l’art.   27   vieta   al   legislatore   pene   che   comprendano   trattamenti 
inumani, l’art. 32 qualifica la salute come fondamentale diritto dell’individuo, 
l’art.   13   vieta   ogni   violenza   fisica   e   morale   sulle   persone   sottoposte   a 
restrizioni della libertà), e si tratta sicuramente di un diritto indisponibile, 
mentre si discute se esso sia anche irrinunciabile (cioè se si possa bloccare la 
persona che intenda rinunciarvi); la dottrina prevalente tende ad escludere la 
punibilità   del   suicidio,   ma   ciò   non   ammette   l’accoglimento   della   tesi   che 
ammetterebbe   un   vero   e   proprio   diritto   a   togliersi   la   vita   (infatti   varie 
disposizioni   puniscono   fenomeni   collegati   al   suicidio,   come   l’istigazione);   è 
ancora   incerto   invece   il   dibattito   riguardo   l’eutanasia,   cioè   l’interruzione 
intenzionale   della   vita,   fattispecie   in   cui   peraltro   risulta   indubbiamente 
centrale la volontà dell’interessato.

Il principio di eguaglianza

L’art. 3 è stato più volte indicato come quello che meglio chiarisce il ruolo 
dello   Stato   rispetto   alla   tutela   dei   diritti   fondamentali,   in   quanto   la   sua 
formulazione  ha modificato il ruolo appunto dello Stato che è passato da mero 
garante   di   un   insieme   di   libertà   in   senso   negativo   a   promotore   anche   di   una 
serie   di   “nuovi”   diritti   sociali.   Quindi   accanto   al   principio   di   eguaglianza 
formale  sancito  dal  comma   1 (“Tutti  hanno  pari  dignità  sociale  e  sono  eguali  
davanti   alla   legge,   senza   distinzione   di   sesso,   di   razza,   di   lingua,   di  
religione,   di   opinioni   politiche,   di   condizioni   personali   e   sociali”)   e   già 
similmente   formulato   nello   Statuto   Albertino,   viene   sancito   dal   comma   2   il 
principio   dell’eguaglianza   sostanziale,   per   il   quale   lo   Stato   si   impegna   “a 
rimuovere  gli ostacoli  di ordine  economico  e sociale,  che, limitando  di fatto  
la   libertà   e   l’eguaglianza   dei   cittadini   impediscono   il   pieno   sviluppo   della  
persona   umana   e   l’effettiva   partecipazione   di   tutti   i   lavoratori  
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Il principio  dell’eguaglianza  formale  si traduce  innanzitutto  nell’imposizione 


di   un   divieto   rivolto   al   legislatore   ordinario   di   adottare   trattamenti 
irragionevolmente differenziati tra i cittadini, il che non vuol dire che siano 
preclusi trattamenti che non siano sempre e comunque paritari, purchè lo siano 
in modo  ragionevole;  infatti  se il principio  rappresentasse  invece  un divieto 
assoluto di trattamenti differenziati, esso contrasterebbe in modo netto con il 
seguente principio dell’eguaglianza sostanziale, che invece impone l’adozione di 
trattamenti  differenziati  laddove essi siano necessari ad eliminare situazioni 
di   diseguaglianza   di   fatto   esistenti.   La   Corte   ha   chiarito   che   il   principio 
dell’eguaglianza   vada   inteso   come   “trattamento   eguale   di   condizioni   eguali   e 
trattamento diseguale di condizioni diseguali”. La stessa Corte si è quindi più 
volte   pronunciata   su   leggi   che   hanno   assoggettato   a   trattamenti   eguali 
situazioni da essa qualificate come diverse, facendo riferimento a formule come 
“patente irragionevolezza” e “manifesto arbitrio” del legislatore. L’eguaglianza 
si pone quindi non come un fine ma come un vincolo negativo per il legislatore.

L’affermazione con cui si apre l’art. 3 ha un valore più morale che giuridico, 
dato   che   nella   società   contemporanea   una   differenza   di   dignità   sociale 
giuridicamente   rilevante   non   esiste   più.   L’art.   3   vieta   espressamente   che 
possano   essere   previsti   trattamenti   differenziati   a   causa   di   uno   dei   motivi 
elencati dalla stessa disposizione, mentre ammette la legislazione positiva se e 
nella   misura   in   cui   sia   necessaria   a   impedire   che   il   sesso,   la   lingua   etc 
divengano elementi di una discriminazione di fatto.

Il   primo   divieto   di   discriminazione   è   riferito   all’appartenenza   all’uno   o 


all’altro sesso ed è collegato ad altre disposizioni costituzionali, come l’art. 
29   in   materia   di   rapporti   tra   coniugi,   come   stabilito   dopo   la   riforma   del 
diritto   di   famiglia.   Siccome   l’art.   29   fa   riferimento   alla   famiglia   come 
“fondata sul matrimonio”, uno dei temi più spinosi è se la tutela costituzionale 
si possa considerare estesa anche alle c.d. famiglie di fatto, quelle situazioni 
cioè   di   convivenza   non   formalizzate   con   il   matrimonio.   La   Corte   ha   sempre 
ritenuto   non   ammissibile   la   totale   equiparazione   tra   famiglia   di   fatto   e 
famiglia ex art. 29, pur riconoscendo la necessità di assicurare alle famiglie 
di fatto tutele simili a quelle previste per la famiglia fondata sul matrimonio, 
soprattutto  in caso di presenza di figli e per quanto riguarda diritti civili 
come   il   risarcimento   del   danno;   tali   diritti,   in   via   giurisprudenziale,   sono 
riconosciuti   anche   alle   coppie   di   omosessuali,   ritenute   tutelate   dall’art.   2 
come formazioni sociali nelle quali il singolo ha modo di sviluppare pienamente 
la   propria   personalità.   Un’altra   disposizione   collegata   all’eguaglianza   tra   i 
sessi è l’art. 37 Cost. che disciplina la parità di essi nei rapporti di lavoro, 
e   l’art.   51   che   consente   a   tutti   i   cittadini   dell’uno   o   dell’altro   sesso   di 
accedere  agli uffici  pubblici  e alle cariche  elettive  in condizioni  di parità 
(per   quanto   riguarda   la   progressione   di   carriera,   spesso   influenzata 
negativamente   nei   confronti   delle   donne,   è   stata   recentemente   istituito   un 
apposito  Comitato  nazionale  presso il Ministero  del lavoro).  Nel 1992 è stato 
varato   il   c.d.   Codice   delle   pari   opportunità   tra   uomo   e   donna,   che   detta 
disposizioni atte a promuovere l’uguaglianza sostanziale nell’attività economica 
ed imprenditoriale, ponendo l’attenzione soprattutto su atti di discriminazione 
come   molestie   sessuali   e   disparità   di   trattamento   nei   periodi   di   gravidanza, 
maternità o paternità. Anche in riferimento alla condizione dei transessuali c’è 
una tutela, infatti la legge consente la rettificazione del sesso nei registri 
dello   stato   civile,   con   effetti   di   scioglimento   sull’eventuale   matrimonio 
precedentemente contratto.

Il   secondo   divieto   di   discriminazione   attiene   all’appartenenza   ad   una   o   ad 


un’altra   razza,   evidentemente   concepito   al   fine   di   evitare   il   ripetersi   di 
situazioni  odiose  come  quelle  verificatesi  durante  il regime  fascista.  A tale 
disposizione   si   sono   affiancate   in   epoca   recente   varie   leggi,   che   puniscono 
forme di manifestazione del pensiero che istighino all’odio razziale (anche se 
tale previsione contrasta con l’art. 21 Cost.) ed associazioni con fini simili.

Al   divieto   di   discriminazione   in   ragione   dell’appartenenza   ad   una   minoranza 


linguistica   si   collega   quanto   previsto   dall’art.   6,   in   base   al   quale   “la 
Repubblica   tutela   con   apposite   norme   le   minoranze   linguistiche”;   la   prima 
disposizione attua una tutela negativa nei confronti dell’opera del legislatore, 
la seconda una tutela positiva in testa allo Stato come scopo di salvaguardia 
dell’identità   culturale   di   tali   minoranze.   Tale   tutela   implica   tanto 
l’affermazione del bilinguismo quanto il diritto all’uso esclusivo della propria 
lingua, con l’attivazione di strumenti e di apparati amministrativi idonei. Fino 
alla legge n° 482/1999, recante la disciplina generale di tutela delle minoranze 
linguistiche,   la   tutela   di   tali   gruppi   sociali   era   lasciata   alla   sola 
legislazione regionale, dando così vita ad un sistema disorganico e disomogeneo. 
La   legge   in   questione   prevede   innanzitutto   un   elenco   delle   minoranze 
linguistiche   tutelate:   sono   quelle   c.d.   storiche,   escluse   cioè   quelle   più 
recenti   che   si   sono   insediate   nel   territorio   nazionale   a   seguito   dei   flussi 
migratori.  La tutela  assume sia un carattere  culturale,  in quanto  si consente 
all’insegnamento di tali minoranze nelle scuole e alla promozione di iniziative 
tese a salvaguardarne il patrimonio culturale, sia un carattere più vario legato 
all’uso della lingua nelle assemblee elettive e negli organi degli enti locali 
autonomi;   tali   tutele   possono   prendere   forma   se   il   Consiglio   provinciale 
riconosca appositamente la minoranza, oppure se la maggioranza della popolazione 
si pronunci a favore dell’applicazione della tutela; sono previsti altresì gli 
stanziamenti   dei   necessari   finanziamenti   a   favore   degli   enti   locali   per   far 
fronte a tali forme di tutela.
Il principio  di eguaglianza  in materia religiosa  trova il suo svolgimento  nei 
successivi artt. 7­8, il primo relativo alla disciplina dei rapporti tra Stato e 
Chiesa cattolica, il secondo relativo alla disciplina dei rapporti tra lo Stato 
e   le   altre   confessioni   religiose.   Scompare   in   questa   nuova   delineazione   del 
sistema la distinzione tra la religione di Stato e gli altri culti “tollerati”, 
che   era   stata   fatta   propria   dall’art.   1   dello   Statuto.   Nei   rapporti   con   la 
religione   cattolica,   il   costituente   ha   scelto   lo   strumento   concordatario,   in 
virtù del fatto che tale confessione religiosa è rappresentata istituzionalmente 
da   un   vero   e   proprio   Stato;   nei   rapporti   con   le   altre   confessioni   religiose 
invece,   lo   strumento   scelto   è   quello   di   una   legge   dello   Stato   da   adottarsi 
previa   apposita   intesa   tra   le   loro   rappresentanze   e   gli   organi   statali.   Nel 
primo   caso,  si  riconosce  un  vero   e  proprio  soggetto  dotato   di  sovranità,  nel 
secondo una serie di particolari associazioni dotate di autonomia organizzativa, 
da   esercitarsi   attraverso   l’approvazione   di   statuti   che   non   contrastino   con 
l’ordinamento giuridico italiano. Siccome nei Patti vi erano alcune disposizioni 
in   contrasto   con   le   disposizioni   costituzionali,   si   discusse   in   dottrina   e 
giurisprudenza   se   tali   Patti,   essendo   stati   costituzionalizzati,   potessero   in 
qualche modo derogare ad altre disposizioni costituzionali; tale quesito è stato 
risolto con la revisione del Concordato operata nel 1984, che ha modificato le 
disposizioni   contrastanti   e   inserito   nuovi   contenuti   nella   disciplina   del 
rapporto tra i due Stati. Punti di attrito tuttora esistenti permangono comunque 
in   materia   di   insegnamento   della   religione   cattolica,   della   presenza   del 
crocifisso  nelle  aule  scolastiche  e di tutela  penalistica  nei confronti  della 
religione   stessa:   in   merito   al   secondo   punto,   è   da   ricordare   la   sentenza 
n°508/2000   con   cui   la   Corte   ha   dichiarato   incostituzionale   il   reato   di 
vilipendio della religione di Stato, sulla base del fatto che la posizione dello 
Stato   nei   confronti   dei   fenomeni   religiosi   deve   essere   di   equidistanza   ed 
imparzialità a fini pluralistici.

Ad obiettivi analoghi a quelli perseguiti attraverso il Concordato, rispondono 
anche   le   intese   concluse,   a   partire   dal   1984,   con   diverse   altre   confessioni 
religiose   e   che   presentano   contenuti   non   dissimili   da   quelli   del   nuovo 
Concordato,   così   che   si   può   parlare   di   una   base   comune   di   disciplina   dei 
rapporti  tra Stato e confessioni  religiose.  Anche tali leggi si sottraggono  a 
modifiche  disposte  con  leggi  ordinarie  successive  non precedute  da intese,  ma 
non possono derogare ad alcuna norma costituzionale in quanto debbono ritenersi 
appartenenti   all’ambito   di   applicazione   dell’ordinamento   giuridico   italiano. 
L’art.   8   comma   2   riconosce   alle   confessione   diverse   dalla   cattolica,   a 
prescindere   dalla   stipulazione   di   un’intesa   con   lo   Stato,   il   diritto   “di  
organizzarsi   secondo   i   propri   statuti,   in   quanto   non   contrastino   con  
l’ordinamento   giuridico   italiano”.   Tale   limite,   secondo   la   Corte,   è   da 
intendersi solo in riferimento ai limiti desumibili da principi costituzionali o 
posti   da   norme   generali   ma   tali   da   essere   qualificabili   come   principi 
fondamentali.

Se  gli  artt.   7­8  prevedono  un  sistema   differenziato   dei   rapporti   tra  Stato   e 
confessioni religiose, gli artt. 19­20 prevedono invece una tutela uniforme per 
quanto riguarda l’esercizio del culto da parte dei fedeli, sia come singoli che 
come gruppi. L’art. 19 garantisce la libertà di coscienza, intesa come facoltà 
di professare la fede religiosa in forma individuale o associata; la libertà di 
culto, ossia la facoltà di esercitare in privato o in pubblico le espressioni 
esterne   del   sentimento   religioso;   la   libertà   di   propaganda   religiosa,   intesa 
come facoltà di fare opera di proselitismo. Il limite espresso a queste libertà 
è quello del buon costume, ma si ritiene che possa rientrarvi anche quello della 
tutela   alla   salute   previsto   dall’art.   32   Cost.,   che   potrebbe   presentarsi   ad 
esempio   nel   caso   in   cui   i   genitori,   per   motivi   religiosi,   rifiutino   di   far 
praticare una trasfusione di sangue ad un figlio minore.

Il principio di eguaglianza in senso sostanziale si rinviene nell’art. 3 comma 2 
Cost., il quale afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli  
di   ordine   economico   e   sociale,   che,   limitando   di   fatto   la   libertà   e  
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana  
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,  
economica e sociale del paese”. Tale statuizione ha tutta una serie di corollari 
nell’espresso riconoscimento dei diritti sociali come il diritto al lavoro e la 
tutela   dei   diritti   dei   lavoratori,   il   diritto   alla   salute,   il   diritto 
all’istruzione.

La libertà personale

In   materia,   l’attenzione   deve   essere   puntata   soprattutto   sulle   due   garanzie 


della   riserva   assoluta   di   legge   e   della   riserva   di   giurisdizione   previste 
dall’art. 13 Cost.: “non è ammessa forma alcuna di detenzione,  di ispezione e  
perquisizione personale, né qualsiasi altra forma di restrizione della libertà  
personale se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e  
modi previsti dalla legge”. Tale nozione è stata interpretata in dottrina da due 
differenti filoni, uno che afferma che essa coincida con la libertà fisica, un 
altro che afferma che tali garanzie  siano estensibili  anche alla tutela della 
dignità   sociale   e   morale;   la   Corte   si   è   schierata   con   il   primo   filone.   Ma 
l’interpretazione  dottrinale  deve intendere la libertà personale come libertà­
situazione,   e   cioè   evitare   la   tendenza   a   definire   in   termini   eccessivamente 
rigidi   ed   onnicomprensivi   tale   nozione   solo   sulla   base   dei   dati   testuali 
disponibili.   È   indubbio   quindi   che   la   libertà   personale   attenga   al   nucleo 
essenziale   delle   limitazioni   legate   al   processo   penale   (in   linea   con   il 
significato di libertà dagli arresti di tradizione storica), ma a fianco di tale 
tutela se ne rinvengono molteplici altre relative alla tutela della persona in 
una serie di proiezioni ed attività essenziali al libero sviluppo della stessa, 
in relazione sia a possibili ingerenze pubbliche che private; così alla libertà 
di domicilio di estrazione statutaria si sono aggiunte la libertà e segretezza 
della   corrispondenza,   la   libertà   di   soggiorno   e   circolazione   e   la   libertà   di 
espatrio.

Il primo aspetto che viene in analisi è quello relativo all’individuazione dei 
soggetti  titolari  del  potere  di limitare  la libertà  personale  nell’ambito  del 
procedimento diretto all’accertamento di responsabilità penali. L’art. 13 comma 
2 pone una riserva di giurisdizione, derogata solo dalla previsione del fermo di 
polizia giudiziaria, disciplinato dal comma 3 e basato sulla distinzione tra i 
ruoli   di   polizia   di   sicurezza   e  di   polizia  giudiziaria   ed   i  relativi   poteri, 
così   come   introdotti   dal   cpp   del   1989.   Le   critiche   rivolte   all’arresto   in 
flagranza   ed   al   fermo,   ritenute   misure   eccessivamente   discrezionali   e   per   le 
quali   i   presupposti   di   necessità   ed   urgenza,   gli   unici   a   giustificare 
l’intervento   diretto   dell’autorità   di   polizia   giudiziaria,   spesso   non   vengono 
rispettati,   sono   proseguite   anche   in   ambito   di   altre   misure   come   quelle 
riguardanti   la   disciplina   di   comportamenti   violenti   durante   manifestazioni 
sportive, che ha dato luogo a dubbi di legittimità costituzionale poi rigettati. 
Tutte le critiche  rivolte a tali misure si basano su dubbi riguardo all’ampia 
discrezionalità   di   cui   disporrebbe   l’autorità   di   polizia   giudiziaria,   in   una 
troppo ampia deroga al principio  della riserva  di giurisdizione  in materia  di 
limitazioni della libertà personale.

È soprattutto sul piano delle garanzie procedimentali che vengono riconosciute 
all’arrestato   o   al   fermato   che   la   disciplina   del   cpp   appare   profondamente 
innovativa:   in   primo   luogo   il   diritto   di   difesa   dell’interessato   persegue   la 
linea di un immediato coinvolgimento del difensore, così come quella del minor 
tempo   possibile   in   cui   il   soggetto   rimanga   a   disposizione   dell’autorità   di 
polizia.   Ma   la   novità   più   rilevante   attiene   alla   giurisdizionalizzazione 
completa della fase relativa alla convalida del fermo e dell’arresto, divisa in 
tre   fasi   nelle   quali   il   gip   ha   poteri   di   controllo   e   irrogazione   di   misure 
cautelari,   con   la   garanzia   del   contraddittorio   nell’udienza   di   convalida;   il 
codice   del   1989   ha   anche   distinto   tra   autorità   requirente   e   giudicante, 
riservando  alla  seconda  il potere  di disporre  misure  limitative  della  libertà 
personale   “stabili”;   i   principi   di   gradualità,   proporzionalità   ed   adeguatezza 
che il giudice deve seguire nell’erogazione delle misure cautelari sono un altro 
elemento   di   novità   che   va   in   senso   garantistico,   così   come   la   previsione   di 
termini   massimi   della   custodia   cautelare.   Si   afferma,   in   generale,   che   le 
esigenze   cautelari   sostanzialmente   prevalgono   rispetto   alla   gravità 
dell’imputazione. Altri aspetti garantistici si rinvengono nei termini perentori 
che regolano la disciplina dei ricorsi al tribunale della libertà, che possono 
portare anche alla perdita di efficacia delle ordinanze che dispongono le misure 
coercitive. Un altro aspetto rilevante e innovativo è la previsione dell’obbligo 
della riparazione degli errori giudiziari previste dall’art. 24 Cost.

L’art.   13   riguarda   anche   le   modalità   concrete   di   applicazione   delle   misure 


stesse; il legislatore ha infatti riformato profondamente il sistema di regole 
che   compongono   il   c.d.   ordinamento   penitenziario,   vietando   innanzitutto   l’uso 
della forza fisica se non nei casi in cui sia indispensabile per impedire atti 
di violenza o tentativi di evasione o resistenza agli ordini impartiti, ma anche 
prevedendo   una   disciplina   dei   rapporti   esterni   dei   detenuti   (libertà   di 
corrispondenza, possibilità di ottenere colloqui e permessi) e delle condizioni 
in cui si svolge la vita all’interno del carcere (attività lavorative). La nuova 
disciplina del codice contiene anche misure post delictum, applicabili cioè in 
base   ai   due   presupposti   dell’avvenuta   commissione   di   un   reato   e   della 
pericolosità sociale del soggetto, da accertarsi da parte del giudice.

Ma   la   legislazione   ordinaria   contiene   anche   misure   di   prevenzione   che 


prescindono del tutto dal compimento di fatti criminosi e che puntano a colpire 
la pericolosità sociale del soggetto, che sono chiamate misure di sicurezza ante 
delictum.   Era   da   capire   quindi   se   tali   misure   fossero   compatibili   con   il 
disposto costituzionale, che sembrava escludere forme di limitazione diverse da 
quelle   conseguenti   all’accertamento   di   una   responsabilità   penale   o   di   una 
pericolosità sociale accertata in base alla commissione di un fatto di reato e 
se   le   garanzie   di   riserva   di   legge   e   giurisdizione   dell’art.   13   fossero 
applicabili   anche   a   tali   misure.   La   Corte   fugò   i   dubbi   affermando   che   il 
principio   di   prevenzione   è   implicito   nel   nostro   ordinamento   e   si   pone   come 
regola fondamentale in ottica di garanzia della sicurezza sociale.

La   legge   n°327/1988   ha   apportato   modifiche   rilevanti   a   tale   settore, 


disciplinando   dettagliatamente   categorie   soggettive   suscettibili   di   vedersi 
applicare  tali   misure,   loro   procedimento   applicativo   e  contenuto   delle   misure 
stesse; uno degli aspetti più rilevanti è la comparsa di misure di prevenzione 
non solo di carattere personale ma anche di carattere patrimoniale, rivelatesi 
particolarmente   utili   ad   esempio   nei   confronti   della   lotta   alla   criminalità 
organizzata.

Dubbi di costituzionalità in materia di limiti alla libertà personale sono stati 
avanzati   in   merito   ai   due   istituti   dell’espulsione   amministrativa   e   del 
trattenimento   temporaneo  presso   i  Centri   di   identificazione   ed   espulsione;  il 
primo   può   essere   disposto   dal   Ministro   dell’Interno   per   motivi   di   ordine 
pubblico  o  di  sicurezza  pubblica  o  dal  prefetto  in  casi   particolari,  e  viene 
eseguito   con   l’accompagnamento   alla   frontiera   o   con   l’intimazione   a   lasciare 
entro quindici giorni il territorio dello Stato; i CIE sono utilizzati in quei 
casi   in   cui   non   sia   possibile   eseguire   con   immediatezza   l’espulsione,   con 
termine massimo di venti giorni prorogabili a trenta. La Corte ha fugato i dubbi 
di   costituzionalità,   ma   per   quanto   riguarda   la   legge   Bossi­Fini   del   2002   ha 
cassato   la   parte   in   cui   non   si   prevedeva   il   contraddittorio   nel   giudizio   di 
convalida del decreto di espulsione.

La libertà di domicilio e la libertà di circolazione e soggiorno

Se l’art.  13  Cost.  tutela  la libertà  della  persona,  come  tale,  da  ogni  forma 
illegittima   di   costrizione   fisica   o   morale,   l’art.   14   Cost.   si   preoccupa   di 
tutelare   quella   che   è   la   sua   proiezione   spaziale,   ossia   il   domicilio.   Le 
possibili limitazioni, pur riconosciute dalla norma, devono rientrare nel quadro 
delle   due   garanzie   fondamentali   già   disposte   per   la   libertà   personale:   una 
riserva   assoluta   di   legge   per   la   determinazione   dei   casi   e   modi   che   rendono 
legittima  la violazione  del domicilio,  ed una riserva  al giudice di disporre, 
con atto motivato, tali limitazioni. Un’altra deroga è posta dallo stesso art, 
che prevede che “accertamenti ed ispezioni per motivi di sanità e di incolumità  
pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”.

La   nozione   di   domicilio   è   stata   individuata   dalla   dottrina   come   più   ampia 


rispetto  a quella  civilistica  (sede  principale  degli  affari  e degli  interessi 
della   persona)   e   rispetto   a   quella   penalistica   (l’abitazione   o   il   luogo   di 
privata   dimora   da   cui   il   soggetto   ha   diritto   di   escludere   legittimamente   i 
terzi),   facendola   così   coincidere   con   ogni   luogo   di   cui   il   soggetto   abbia 
legittimamente la disponibilità a titolo privato per lo svolgimento di attività 
connesse alla vita privata e dal quale egli intende escludere i terzi. Si parla 
di sfera spaziale  della persona. La Cassazione penale ha chiarito che si deve 
ritenere che il rapporto tra il soggetto e lo spazio sia caratterizzato da un 
elemento di stabilità e non di mera occasionalità.

In dottrina ci si è chiesti se e come si possa inserire il disposto dell’art. 14 
nelle   tutele   richieste   dall’art.   13   (riserva   di   legge   e   di   giurisdizione; 
intervento   eccezionale   dell’autorità   di   pubblica   sicurezza   in   casi 
tassativamente  fissati  dalla  legge  e soggetto  a convalida  successiva  da parte 
del giudice),  dato  che la deroga  posta  dal comma  3 e più sopra  citata  sembra 
riconoscere   all’autorità   amministrativa   poteri   direttamente   azionabili   senza 
intervento precedente o successivo del giudice. La dottrina ha ricondotto questa 
apparente   difformità   di   disciplina   a   due   tesi:   secondo   la   prima,   la   diversa 
tutela   sarebbe   da   ricondurre   al   fatto   che   nel   comma   2   si   fa   riferimento   ad 
interessi della persona cui è riconosciuto il massimo della tutela, mentre nel 
comma 3 ad interessi di natura essenzialmente economica che danno quindi vita ad 
un   minor   garantismo;   la   seconda   afferma   invece   che   la   difformità   andrebbe 
ricondotta alla natura dei provvedimenti limitativi della libertà, con i primi 
che   essendo   di   carattere   coercitivo   richiederebbero   il   vaglio   del   giudice, 
mentre   i  secondi   essendo  misure   obbligatorie   che   richiedono  la  collaborazione 
dell’interessato incontrerebbero minori garanzie.

La previsione di limitazioni ex art. 14, comma 3, è generalmente ricondotta al 
rispetto   di   tre   precise   condizioni:   1)   introduzione   di   strumenti   di   mero 
accertamento   conoscitivo   (accertamenti   ed   ispezioni),   ad   esclusione   di   ogni 
misura   di   natura   diversa   e   di   più   grave   interferenza   con   gli   interessi   del 
soggetto   (perquisizioni   e   sequestri);   2)   introduzione   di   tali   strumenti   con 
apposita  legge   speciale;   3)   tassativa   indicazione   delle   finalità   perseguite  e 
del corretto rapporto tra le misure previste e il dettato costituzionale.

Provvedimenti   limitativi   della   libertà   di   domicilio   disposti   dall’autorità 


giudiziaria   sono   l’ispezione,   la   perquisizione   e   il   sequestro.   Poteri 
esercitabili   direttamente   dall’autorità   di   polizia   sono:   nell’ambito   della 
prevenzione,   l’accesso   in   qualunque   ora   ai   locali   ove   si   svolgano   attività 
soggette ad autorizzazione di polizia, perquisizione in qualunque locale quando 
si   abbia   notizia   o   indizio   dell’esistenza   di   armi   o   materie   esplodenti, 
identificazione   e   perquisizione   in   casi   di   necessità   e   urgenza   e   sul   posto, 
estensibile anche al mezzo di trasporto; nell’ambito delle indagini preliminari, 
ispezione, perquisizione e sequestro collegate alla commissione di un reato. Vi 
è poi tutta una legislazione speciale attinente a limitazioni imposte per motivi 
di igiene, sanità e incolumità, per motivi economici e fiscali.

A   seconda   che   le   interferenze   con   tali   libertà   siano   di   natura   privata   o 


pubblica,   si   ricorre   al   giudice   penale   o   civile,   oppure   si   impugna   la   legge 
ordinaria in contrasto col dettato Costituzionale che dichiarerà l’illegittimità 
del comportamento  dell’autorità  e l’invalidità ed inefficacia  del procedimento 
illegittimo.

Al fine  di tutelare  la proiezione  spaziale  della  persona  al  di là  della  mera 
sfera   domiciliare,   l’art.   16   Cost.   garantisce   al   cittadino   la   libertà   di 
circolare   e   soggiornare   liberamente   all’interno   del   territorio   dello   Stato, 
nonché la libertà di uscire e rientrarvi (c.d. libertà di espatrio). La tutela 
della libertà di circolazione è fondata, in primo luogo, su una riserva di legge 
rinforzata: le limitazioni ad essa debbono essere disposte dalla legge, in via 
generale   (cioè   sono   autorizzati   anche   atti   normativi   secondari   o   atti 
amministrativi),   per   motivi   di   sanità   o   di   sicurezza,   mentre   sono   comunque 
escluse limitazioni determinate da motivi politici.

Quanto   alla   libertà   di   soggiorno,   si   intende   tale   ogni   tipo   di   sosta   in   un 
determinato luogo, e consiste in primo luogo nel diritto a stabilirsi nel luogo 
prescelto e di fermarvisi per il periodo di tempo desiderato, così come nella 
libertà di scegliere il luogo di lavoro. Tale libertà si pone in contrasto con 
gli   obblighi   di   residenza   previsti   da   numerose   leggi:   se   l’obbligo   di 
coabitazione per i coniugi appare giustificabile ai sensi dell’art. 29 comma 2 
Cost., maggiori dubbi solleva quello previsto a carico del dipendente pubblico 
che assicuri l’integrale prestazione lavorativa.

La libertà di espatrio non incontra  nessun limite e si ricollega  direttamente 


alla libertà di emigrazione, cioè il diritto di recarsi all’estero per prestarvi 
un’attività lavorativa, tutelata dall’art. 35 comma 4 Cost.. La differenza tra 
le   due   libertà   è   ritenuta   risiedere   nel   riferimento   che   tale   art.   fa 
all’”interesse generale”, che consente possibili limitazioni ulteriori rispetto 
a quelle cui è sottoposta la libertà di espatrio.
La   libertà   di   circolazione   e   soggiorno   ha   trovato   chiaramente   conferme   nel 
diritto   comunitario:   è  tutelata   anche   dal  Trattato  sul  funzionamento  dell’UE, 
così come  è da ricordare  l’accordo  di Schengen  che già a partire  dal 1990 si 
propose  di eliminare  gradualmente  i controlli  alle  frontiere  comuni  dei  Paesi 
membri.  Il Trattato  riconosce  e garantisce  altresì  la libera  circolazione  dei 
lavoratori e il diritto di stabilimento.

Libertà e segretezza della corrispondenza

A differenza dello Statuto, l’art. 15 Cost. tutela la libertà e segretezza della 
corrispondenza,   con   una   tutela   ritenuta   così   intensa   che   la   Corte   la   ha 
annoverata tra quei principi supremi della Costituzione che sono sottratti alla 
funzione di revisione costituzionale. Così l’art. 15 tutela i modi attraverso i 
quali la persona si pone in relazione con gli altri soggetti. È da sottolineare 
come i Costituente abbia specificato che è tutelata non solo la corrispondenza 
in   senso   stretto,   bensì   anche   “ogni   altra   forma   di   comunicazione”.   Dato   che 
l’art. 21 tutela le forme di manifestazione  del pensiero, ci si domanda quali 
forme   di   comunicazione   siano   riconducibili   a   tale   art.   e   quali   invece   siano 
tutelate   dall’art.   in   esame:   il   problema   si   risolve   in   dottrina   riconducendo 
all’art.   15   tutte   quelle   forme   di   comunicazione   che   presentino   i   canoni 
dell’intersoggettività (cioè che non siano dirette alla generalità del pubblico) 
e dell’attualità (ma su questo punto c’è discordia in dottrina sul momento cui 
ricondurre   l’attualità   appunto   della   comunicazione).   Parte   della   dottrina 
ritiene   che   sia   altresì   elemento   fondante   quello   della   segretezza   della 
comunicazione.

Anche in questo caso sono previste le due riserve di legge e di giurisdizione; 
ma differentemente  dagli artt. 13­14, qui non si prevede la possibilità  di un 
intervento   straordinario   in   casi   di   necessità   e   di   urgenza   da   parte 
dell’autorità di polizia, salva sempre la convalida del giudice.

Il codice postale impone divieti di divulgare il contenuto della corrispondenza 
in capo agli addetti postali, ma anche l’obbligo di sottoporre a “fermo” quelle 
che possano costituire pericolo per la sicurezza  dello Stato o recare danno a 
persone o cose, caso in cui si pronuncerà entro ventiquattro  ore il tribunale 
monocratico. Anche il codice penale prevede alcune fattispecie di reato per chi 
violi   tale   libertà.   Il   nuovo   cpp   ha   ridotto   sensibilmente   i   margini   di 
discrezionalità   di   cui   disponeva   il   pm   per   quanto   riguarda   l’apertura   di 
corrispondenza chiusa e le intercettazioni nell’ambito delle indagini.

La libertà di manifestazione del pensiero

Nella genesi  dell’art.  21 sono concorse due diverse impostazioni  in seno alla 


Costituente:   l’una   che   interpretava   i   diritti   di   libertà   come   essenzialmente 
aree   di   autonomia   individuale   da   proteggere   da   indebite   interferenze   dello 
Stato, l’altra che invece ne voleva valorizzare la loro dimensione di strumenti 
di   partecipazione   al   nuovo   sistema   democratico.   Nella   prima   impostazione   il 
rapporto  è essenzialmente  tra  Stato  e possessore  della  libertà,  nella  seconda 
invece compare il terzo soggetto, cioè il destinatario delle manifestazioni di 
pensiero,   il   cui   diritto   ad   essere   completamente   ed   imparzialmente   informato 
rientra nel novero dei doveri dello Stato. In sede di dibattito prevalse senza 
dubbio   la   prima   impostazione,   ma   se   si   guarda   anche   ad   altre   disposizioni 
costituzionali   connesse   all’art.   21   si   vede   che   è   perseguita   anche   la   tutela 
della libera diffusione di ogni manifestazione del pensiero.
Si è già chiarito quale sia l’oggetto specifico della libertà di manifestazione 
del pensiero: non già il diritto di comunicare liberamente con un destinatario 
specifico   (situazione   tutelata   dall’art.   15),   ma   il   diritto   di   comunicare   il 
proprio pensiero (qualunque ne sia il contenuto, salvo i limiti che vedremo) ad 
una   sfera   indeterminata   di   potenziali   destinatari.   Le   garanzie   previste 
dall’art.   21   coprono   tutte   le   possibili   manifestazioni   del   pensiero:   “Tutti  
hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo  
scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Nei commi successivi il Costituente 
si   occupò   di   disciplinare   anche   la   libertà   di   stampa,   ritenuta   all’epoca   il 
mezzo principale di diffusione del pensiero, ponendo tre principi fondamentali: 
1) il divieto di sottoporre la stampa ad autorizzazione o censure, da intendersi 
come   misure   di   controllo   amministrativo   preventivo   nei   confronti   tanto   della 
produzione degli stampati (autorizzazione) quanto del loro contenuto (censura); 
2)   il   divieto   di   sottoporre   la   stampa   a   sequestro   (forma   di   intervento 
successivo alla pubblicazione)  se non nel caso di commissione  di un delitto a 
mezzo   stampa   per   il   quale   la   legge   sulla   stampa   espressamente   lo   autorizzi, 
ovvero   nel   caso   di   violazione   delle   norme   stabilite   dalla   legge   per 
l’indicazione   dei   responsabili   (riserva   di   legge)   e   sulla   base   di   un   atto 
motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione); 3) la possibilità 
che   il   legislatore   imponga   alle   imprese   editrici   della   stampa   periodica 
l’obbligo di rendere noti i loro mezzi di finanziamento.

L’unico limite previsto espressamente dall’ultimo comma dell’art. 21 per tutte 
le manifestazioni del pensiero è rappresentato dal buon costume, da intendersi 
come   riferito   essenzialmente   alla   possibile   violazione  della   sfera  del   pudore 
sessuale. Tale limite può dare adito tanto a limiti diretti al contenuto delle 
varie forme  di manifestazione  del pensiero,  tanto a limiti indiretti,  come il 
regime fiscale di sfavore previsto per le pubblicazioni di tipo pornografico. Si 
ritiene   comunque   che   tale   libertà   incontri   altri   limiti,   riconducibili   ad 
altrettanti interessi costituzionalmente protetti:

1) Il diritto all’onore ed alla reputazione è un corollario del paradigma della 
pari dignità sociale indicato all’art. 3 comma 1 Cost.; la tutela penalistica 
che  viene  ricondotta  a tale  diritto  prevede  le fattispecie  dell’ingiuria  e 
della   diffamazione,   oltre   alle   varie   di   oltraggio   e   vilipendio   (ritenute 
legittime   in   quanto   esse   puniscano   espressioni   idonee   a   ledere   valori 
costituzionalmente tutelati, come l’autonomia degli organi costituzionali; la 
Corte ha chiarito che tali vanno considerate le manifestazioni offensive che 
neghino  ogni  valore  ed ogni rispetto  all’entità  protetta  e che inducano  al 
disprezzo di essa e a disobbedienze), anche se la Corte ritiene che il reato 
di diffamazione non esista laddove il fatto sia determinato e vero, sussista 
un   interesse   pubblico   alla   conoscenza   del   fatto   e   vi   sia   la   correttezza 
dell’esposizione del fatto stesso. Di recente la legge n°85/2006 ha sfoltito 
la trama fittissima  dei reati in esame, ma tale ambito richiede ancora una 
riforma  organica.  Due  ulteriori  limiti  previsti  in materia  sono  quelli  che 
prevedono l’immunità dei membri del parlamento per le opinioni espresse e i 
voti   dati   nell’esercizio   delle   loro   funzioni   (per   i   quali   provvede   ad 
autorizzare la Camera di appartenenza) e il limite delle tutela dei minori

2) Il   limite   dell’interesse   al   regolare   funzionamento   della   giustizia   allude 


all’esigenza   di   operare   un   bilanciamento   tra   l’esigenza   di   una   corretta 
informazione sulle vicende giudiziarie e quello, parimenti rilevante, di non 
compromettere   procedimenti   in   corso   a   causa   di   una   fuga   di   notizie.   Il 
divieto di pubblicazione nel cpp sussiste per i procedimenti penali minorili 
e per immagini delle persone private della loro libertà personale.

3) L’interesse alla sicurezza dello Stato sta alla base di alcune disposizioni 
del   cp   che   puniscono   la   rivelazione   di   segreti   di   Stato   nonché   la 
divulgazione di notizie di cui ne sia stata vietata la divulgazione da parte 
dell’Autorità.

La   nuova   disciplina   della   libertà   di   stampa   impose   innanzitutto   una   profonda 


bonifica della legislazione fascista, che come abbiamo visto era intervenuta in 
modo pesante per consentire al potere costituito di assicurarsi l’allineamento 
degli organi di stampa agli indirizzi politici del regime. Già dal 1946 quindi 
la disciplina fu ridisegnata,  abolendo il sequestro esercitabile  dall’autorità 
di pubblica sicurezza ampiamente concesso fino all’epoca e limitandolo alla sola 
fattispecie di stampati che violino il limite del buon costume; al giudice è poi 
riconosciuto   il   potere   di   procedere   al   sequestro   di   manifesti   che   contengono 
disegni, immagini o fotografie contrari al pudore o alla pubblica decenza e di 
disporre  il sequestro  di stampati  il cui contenuto  si configuri  come apologia 
del fascismo.

Con   la   legge   n°47/1948   la   vera   novità   riguardò   la   stampa   periodica,   fino 


all’epoca  soggetto  all’autorizzazione   del  prefetto,  che   venne   abolita   per   far 
spazio ad un semplice obbligo di registrazione delle testate presso l’autorità 
giudiziaria   (il   tribunale   civile   competente).   Dovevano   essere   presentati   una 
serie   di   documenti   indicanti   le   generalità   ed   i   requisiti   richiesti   per 
proprietario   e   direttore   responsabile.   Rimaneva   comunque   sostanzialmente 
inalterata tanto la legislazione di pubblica sicurezza contenuta nel tulps del 
1931,   quanto   la   disciplina   codicistica   dei   reati   a   mezzo   stampa.   L’opera   del 
Parlamento   in   merito   fu   del   tutto   insufficiente,   e   le   abolizioni   degli   anni 
successivi   furono  merito   principalmente   delle  prese   di   posizione   della   Corte. 
Permase   fino   ai   tempi   nostri   (1998)   la   sola   autorizzazione   prefettizia   per 
l’esercizio dell’arte tipografica.

Un   altro   settore   di   intervento   legislativo   è   stato   quello   della   disciplina 


dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti, che in epoca fascista era strumento di 
controllo   politico   dei   professionisti   dell’informazione   stampata:   la   nuova 
disciplina   non   richiede   più   alcun   requisito   di   carattere   politico,   ma   ne 
richiede solo di professionali. Ai provvedimenti disciplinari cui possono essere 
soggetti gli iscritti è correlato il loro potere di esperire tutti i ricorsi che 
la   legge   prevede.   I   dubbi   di   costituzionalità   che   tale   disciplina   aveva 
generato, dato che si sosteneva che i meccanismi di controllo in seno all’Ordine 
si ponessero  in contrasto  con  la libertà  ex art.  21,  sono  stati  fugati  dalla 
Corte   che   ha   anzi   riconosciuto   a   tale   istituzione   un   valore   di   importante 
rafforzamento dei giornalisti nei confronti degli editori.

La legge istitutiva dell’ordine e dell’albo tocca e definisce anche la sfera dei 
diritti e doveri del giornalista: tra i primi rientra il diritto alla critica e 
alla libertà di informazione, tra i secondi l’obbligo inderogabile di rispettare 
la verità sostanziale dei fatti, l’obbligo di rettificare notizie che risultino 
inesatte e di riparare agli eventuali errori, l’obbligo di rispettare il segreto 
professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere 
fiduciario   delle   stesse.   La   legge   prevede   altresì   l’adozione   di   uno   speciale 
codice   di   deontologia   interno   all’ordine,   che   vada   a   disciplinare   tutte   le 
singole   fattispecie   che   riguardino   l’attività   del   giornalista;   esso   è   stato 
approvato nel 1998 e contiene l’importante statuizione che in base all’art. 21 
l’attività   giornalistica   non   può   essere   soggetta   ad   alcuna   forma   di 
autorizzazione o di censura.

Negli anni recenti si è sviluppata tutta una normativa di intervento pubblico in 
materia   di   aiuti   economici   alle   imprese   giornalistiche,   sia   una   normativa 
antitrust  atta non tanto a garantire  la concorrenza  nel rispetto dell’art.  41 
quanto   ad   evitare   fenomeni   di   concentrazione   che   possano   inficiare   il   libero 
diritto all’informazione degli utenti; in questo senso sono previste tutte una 
serie di “quote” oltre le quali si parla di “posizione dominante sul mercato” e 
tutta una serie di controlli e obblighi. Per assicurare la corretta applicazione 
della   nuova   disciplina   antitrust,   nel   1981   fu   istituito   un   organo   dotato   di 
un’autorità   particolarmente   autonoma   chiamato   Garante   per   l’editoria,   le   cui 
funzioni sono state poi trasferite, nel 1997, all’Autorità per le garanzie nelle 
comunicazioni.

A   differenza   della   stampa,   nata   in   regime   liberistico,   la   radiofonia   e   la 


televisione   sono   state   fino   a   poco   tempo   fa   assoggettate   ad   una   disciplina 
pubblicistica   che   prevedeva   la   concessione   dei   relativi   servizi   ad   un’unica 
società   a   totale   capitale   pubblico   (l’EIAR,   poi   RAI).   Con   due   sentenze 
importanti   del   1974,   la   n°225   e   226,   la   Corte   confermò   che   il   monopolio   di 
concessione   Statale   fosse   coerente   con   la   Costituzione,   ma   indicò   sette 
condizioni   minime   per   il   rispetto   dell’art.   21   che   il   legislatore   attuò   nel 
1975: 1) che non si privilegiasse  eccessivamente  il potere esecutivo  (RAI non 
assoggettata al controllo del Parlamento); 2) definizione di direttive idonee a 
garantire   l’imparzialità   dell’informazione;   3)   individuazione   del   Parlamento 
quale   organo   legittimato   a   porre   tali   direttive   ed   esercitare   il   relativo 
controllo; 4) obbligo per i giornalisti di rispettare il codice deontologico; 5) 
limitazione della pubblicità per non comprimere i mezzi finanziari della stampa; 
6)   garanzia   dell’accesso   al   mezzo   radiotelevisivo   imparzialmente   a   tutte   le 
espressioni   della   società;   7)   riconoscimento   e   garanzia   del   diritto   alla 
rettifica.   La   riserva   dell’attività   radiotelevisiva   a   livello   locale   fu 
successivamente tolta al monopolio dello Stato e aperta ai privati.

Nel 1990 fu approvata la legge che disciplina il sistema radiotelevisivo misto 
pubblico­privato, il cui impianto ruota intorno a cinque punti cardine:

1) L’art. 1 individua  nel pluralismo, obiettività,  completezza  ed imparzialità 


dell’informazione,   nell’apertura   alle   diverse   tendenze   politiche,   sociali, 
culturali e religiose, “i principi fondamentali del sistema radiotelevisivo,  
che si realizza con il concorso di soggetti pubblici e privati”.

2) La disciplina del regime concessorio ha la sua premessa fondamentale in due 
atti   di   pianificazione:   il   piano   nazionale   di   ripartizione   e   il   piano   di 
assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione.

3) La normativa antitrust è il cuore della legge 223/1990 in quanto solo con un 
efficace contrasto alle concentrazioni  si può consentire alle parti private 
di prendere parte al monopolio

4) In   quarto   punto   la   legge   affronta   per   la   prima   volta   organicamente   la 


disciplina della pubblicità radiotelevisiva

5) Viene istituito infine un Garante per la radiodiffusione e l’editoria che ha 
i poteri di controllo e sanzionatori predisposti dalla legge
La   normativa   antitrust   fu   successivamente   dichiarata   incostituzionale   dalla 
Corte,   che   non   la   riteneva   idonea   a   garantire   un   effettivo   rispetto   del 
pluralismo   informativo;   nel   1997   fu   varata   una   nuova   normativa   antitrust   che 
indicò nel 20% la soglia massima di concentrazione  di frequenze  ad uno stesso 
soggetto. In ambito comunitario, il protocollo di Amsterdam ha indicato (ma non 
chiarito il punto di equilibrio) l’esigenza di bilanciare il servizio pubblico 
alla libera concorrenza e che tale esigenza deve essere ritenuta di competenza 
del legislatore nazionale.

Una nuova legge di sistema è stata infine varata dal Parlamento nel 2004, e si 
articola in cinque capi: definizione dei principi generali che devono informare 
l’intero   sistema   radiotelevisivo,   normativa   antitrust,   principi   e   criteri 
direttivi   per   l’adozione   da   parte   del   Governo   di   un   apposito   codice   della 
radiotelevisione,   servizio   pubblico   radiotelevisivo   e   disciplina   transitoria 
legata al passaggio dall’analogico al digitale.

La disciplina delle telecomunicazioni ha subito grandi cambiamenti dato che si 
sono   verificati   molteplici   passaggi   che   hanno   portato   all’attuale   sviluppo 
tecnologico,   legati   a   quattro   fondamentali   innovazioni:   l’applicazione 
dell’informatica   alle   telecomunicazioni,   l’introduzione   di   nuovi   mezzi   di 
trasmissione dei segnali, l’introduzione  di nuove tecniche di trasmissione  dei 
segnali,   l’introduzione   di   tecniche   di   codifica   dei   segnali   che   influiscono 
sulla   ricevibilità   degli   stessi.   Si   parla   in   generale   di   fenomeno   della 
“multimedialità”.

Una   seconda   conseguenza   dell’innovazione   tecnologica   è   stata   il   tramonto   dei 


monopoli pubblici alla fine degli anni ottanta e l’avvio di un mercato di libera 
concorrenza,  anche grazie a fondamentali  decisioni  prese  in tal senso in sede 
comunitaria   (sentenza   British   Telecommunications   della   Corte   di   Giustizia   nel 
1985).   Ha   preso   forma   la   nozione   di   servizio   universale,   da   intendersi   come 
l’insieme minimo definito di servizi di una data qualità a disposizione di tutti 
gli  utenti,  indipendentemente   dalla  localizzazione  geografica   e offerto  ad  un 
prezzo   abbordabile.   Il   quadro   della   legislazione   interna   di   attuazione   degli 
obblighi comunitari in materia di telecomunicazioni si incentra su due leggi del 
1997   e   sul   Codice   delle   comunicazioni   elettroniche   varato   nel   2003   (che   ha 
attuato   la   direttiva­quadro   europea),   che   seguono   questi   canoni   principali: 
apertura del mercato delle telecomunicazioni a più operatori, sulla base non più 
di concessioni ma di autorizzazioni generali e licenze individuali; affermazione 
del   principio   di   trasparenza   gestionale,   dell’obbligo   di   interconnessione 
(obbligo   per   gli   organismi   possessori   delle   infrastrutture   e   delle   reti   di 
consentirne   accesso   e   sfruttamento   a   nuovi   operatori)   e   della   fornitura   del 
servizio   universale;   istituzione   di   un’apposita   Autorità   di   garanzia   e 
definizione di nuove regole antitrust. Il Parlamento europeo nel 2002 ha emanato 
la   c.d.   direttiva   quadro   nell’ambito   di   un   processo   di   unificazione   e 
istituzione   di   un   quadro   normativo   comune   per   le   reti   ed   i   servizi   di 
comunicazione elettronica.

Riguardo   alla   comunicazione   via   internet,   il   profilo   più   delicato   è   quello 


attinente alla responsabilità di essa, problema che richiede il contemperamento 
di   due   interessi   non   facilmente   conciliabili   come   quello   dell’anonimato   di 
coloro   che   accedono   alla   rete   e   quello   dell’individuazione   degli   autori   di 
messaggi   comunicativi   illeciti;   è   stata   individuata   la   figura   dell’access 
provider, soggetto al quale, fermo restando il carattere della personalità della 
responsabilità  penale,  dovrebbero  far  capo  una serie  di obblighi  di controllo 
sulla   liceità   dei   messaggi   immessi   in   rete.   Anche   la   tutela   dei   minori   e   la 
tutela della privacy sono ambiti delicati, regolati rispettivamente da una legge 
del 1998 e da una legge del 1996.

Quanto   all’inquadramento   di   tali   forme   di   comunicazione   nel   disposto 


costituzionale, e cioè se ricondurle all’art. 15 (corrispondenza) o all’art. 21 
(manifestazione   del   pensiero),   la   dottrina   tende   a   valorizzare   principalmente 
l’elemento soggettivo del soggetto che appunto immette la comunicazione sul web 
e agli strumenti che utilizza per farlo.

Nell’ambito  della disciplina degli spettacoli teatrali e cinematografici,  sono 


in vigore tuttora le stesse  disposizioni  del tulps del 1931 che autorizzavano 
l’autorità   di   pubblica   sicurezza   ad   intervenire  in  numerose  fattispecie;   esse 
non   sono   però   più   da   interpretare   in   senso   preventivo   al   fine   del   controllo 
politico   della   manifestazione,   quanto   al   fine   di   salvaguardare   sicurezza   e 
incolumità pubblica di tali eventi. Il nulla­osta da parte del Ministero per i 
beni e le attività culturali è oggi l’atto cui la legge subordina la proiezione 
in   pubblico   dei   film,   anche   qui   lasciando   da   parte   un   fine   politico   per 
valorizzare invece un fine di controllo essenzialmente relativo al rispetto del 
buon costume; per le opere teatrali, il nulla osta era previsto ma il controllo 
non poteva determinare il divieto di tenere lo spettacolo, bensì solo quello di 
imporre un obbligo di non ammissione dei minori; dal 1992 tale disposizione vale 
soltanto per le opere cinematografiche.

Anche   sul   piano   dell’intervento   pubblico   a   sostegno   di   tali   forme   di 


manifestazione   del   pensiero   il   legislatore   repubblicano   si   è   attenuto 
all’impostazione   di   epoca   fascista,   privatizzando   gli   enti   pubblici   tenuti   a 
favorire tali produzioni artistiche e soprattutto introducendo nel 1985 il Fondo 
unico per lo spettacolo, destinato al sostegno finanziario di tutta una serie di 
soggetti operanti in tali settori. Più di recente si è avuto in questo ambito 
una   riforma   che   ha   legato   il   sostegno   sia   alla   qualità   del   prodotto   che, 
soprattutto, alla sua resa sul mercato.

Le libertà collettive (artt. 17­18­39­49 Cost.)

Gli artt. 17­18, insieme agli artt. 39 (libertà di associazione sindacale) e 49 
(libertà   di   associazione   politica)   formano   il   sistema   delle   garanzie 
costituzionali di quelle libertà che, come si è già avuto occasione di notare, 
si   possono   definire   collettive,   in   quanto   il   loro   esercizio   presuppone   il 
concorso  di  una  pluralità  di soggetti,  accomunati  da un unico  fine,  e non  si 
esaurisce nella difesa di una sfera di autonomia individuale, ma è diretto alla 
realizzazione di quelle comuni finalità.

La prima libertà appartenente a questo gruppo è quella di riunione ex art. 17 
(riunione   si   distingue   da   associazione   perché   nella   prima   vi   è   temporaneità, 
nella seconda sussiste un patto sociale): la tutela non si estende all’attività 
svolta   nel   corso   della   riunione,   questa   rimanendo   soggetta   alla   propria 
disciplina   giuridica.   Il   primo   limite   generale   previsto   è   quello   per   cui   la 
riunione deve essere pacifica e senz’armi, senza che sia quindi prevista alcuna 
autorizzazione   per   lo   svolgimento   delle   riunioni,   salvo   considerarsi 
(erroneamente, dato che è un mero obbligo di notificare determinate informazioni 
all’autorità)   tale   l’obbligo   del   preavviso   all’autorità   di   pubblica   sicurezza 
per   quelle   riunioni   che   si   intendono   tenere   in   luogo   pubblico;   quanto   alle 
riunioni in luogo privato o aperto al pubblico, esse non possono essere sciolte 
per   motivi   di   pubblica   sicurezza,   ma   solo   qualora   al   loro   interno   sia   stato 
commesso   un   reato   che   consenta   all’autorità   di   polizia   di   introdursi 
legittimamente  e a prescindere dalla volontà degli interessati.  La distinzione 
tra luogo pubblico e luogo privato o aperto al pubblico sta nell’interesse che 
il singolo deve mettere in campo nella seconda fattispecie, mentre nella prima 
potrebbe   poter   vedersi   arrecare   un   pregiudizio   da   una   manifestazione   cui   non 
voleva   partecipare.   Il   mancato   preavviso,   secondo   la   corretta   interpretazione 
dell’art. 17, non può costituire di per sé motivo di scioglimento della riunione 
in luogo pubblico, salvo l’incorrere in responsabilità penale per i promotori. 
Le autorità di sicurezza possono, in caso di comprovati motivi di sicurezza e di 
incolumità pubblica, vietare preventivamente  le riunioni in luogo pubblico, ma 
adducendo   motivazioni   specifiche   e   non   generiche.   La   dottrina   maggioritaria 
ritiene altresì che, in caso di riunioni impacifiche o armate, lo scioglimento 
sia precluso quando sia possibile arrestare i singoli partecipanti facinorosi o 
armati.

Al di là dei limiti espressamente previsti dall’art. 17 Cost., si ritiene che ve 
ne   siano   altri   ad   esempio   identificati   dall’art.   32   per   motivi   inerenti   alla 
salute o dall’art. 21 comma 6 che vieta ogni manifestazione  contraria al buon 
costume. Oltre a ciò, sono previsti limiti di partecipazione per quei soggetti 
che si trovino in una situazione di “soggezione speciale”, come i sottoposti a 
misure   di   sorveglianza   speciale,   i   militari   e   gli   appartenenti   ai   corpi   di 
polizia se partecipanti con uniformi o mezzi di polizia.

Si ritiene che la tutela dell’art. 17 possa estendersi anche agli assembramenti, 
e cioè a quelle riunioni occasionali di più persone in un luogo pubblico, purchè 
vi sussista l’elemento della volontarietà nella permanenza dello stare insieme, 
sia pure occasionalmente e casualmente.

La particolare attenzione e il particolare favore con cui il Costituente guardò 
al fenomeno associativo si manifesta subito nella formula adottata nel comma 1 
dell’art.  18, laddove  si afferma  che gli unici limiti opponibili  alla libertà 
dei   cittadini   di   associarsi   liberamente   (comprensiva   della   libertà   di   non 
associarsi) consistono nel perseguimento di fini che non sono vietati al singolo 
dalla legge penale (se al singolo è vietato commettere reati, gli sarà vietato 
anche   associarsi   a   tal   fine).   Il   contenuto   della   libertà   di   associazione 
presenta  quindi   essenzialmente   tre   profili:   il  libero   perseguimento,   in   forma 
associata,   di   fini   non   vietati   ai   singoli   dalla   legge   penale;   la   libera 
formazione   del   vincolo   associativo   (e   in   base   a   questo   principio   sono   stati 
dichiarati   incostituzionali   tutta   una   serie   di   obblighi   di   iscrizione   ad 
associazioni, come ad esempio quello alla Federazione italiana della caccia per 
chi volesse esercitare attività venatoria); la libera organizzazione interna. Vi 
è la regola secondo cui alle associazioni si possono imporre solo i limiti che 
gravano sul singolo, cui si aggiunge il divieto di associazione segreta (che è 
tale a prescindere dal fatto che segua o meno fini vietati dalla legge) e quello 
di associazione militare, da non intendersi in senso proprio dato che si ritiene 
sufficiente  che il rapporto tra i consociati sia ispirato a principi di forte 
gerarchia tali da ritenere assente la dialettica interna.

Il riconoscimento della libertà sindacale da parte dell’art. 39 si contrappone 
nettamente   all’ordinamento   corporativo   fatto   proprio   dal   regime   fascista,   che 
prevedeva un sistema di composizione degli interessi collettivi del tutto alieno 
da una libera e diretta partecipazione dei soggetti interessati. Essa riguarda 
sia la libertà di istituzione e di organizzazione di associazioni sindacali, sia 
quella   di   azione   e   di   contrattazione.   Lo   statuto   dei   lavoratori   (legge 
n°300/1970)   ha   contribuito   a   rafforzare   la   prima   libertà,   soprattutto   come 
tutela nei confronti degli abusi dei datori di lavoro. La libertà sindacale  è 
estesa   a   tutti   i   lavoratori,   con   l’eccezione   di   militari   e   appartenenti   alle 
forze di polizia.

L’art.   39   prevedeva   un   procedimento   per   cui   i   sindacati,   tramite   una 


registrazione,   si   sarebbero   trasformati   in   associazioni   dotate   di   personalità 
giuridica e avrebbero potuto stipulare contratti di lavoro collettivi efficaci 
nei   confronti   di   tutti   i   lavoratori   appartenenti   alla   categoria   anche   se   non 
iscritti al sindacato; questa previsione è rimasta inattuata, e oggi i sindacati 
possono   stipulare  contratti  collettivi   con   efficacia   limitata   alle  sole   parti 
contraenti.   Per   quanto   riguarda   i   lavoratori   dipendenti   pubblici,   il   d.lgs. 
29/1993 ha previsto che il loro rapporto di lavoro sia disciplinato ai sensi del 
cc   e   delle   leggi   sul   rapporto   di   lavoro   subordinato   nell’impresa   mediante 
contratti collettivi che vengono stipulati tra le organizzazioni  sindacali più 
rappresentative   sul   piano   nazionale   e   l’ARAN   (Agenzia   per   la   rappresentanza 
negoziale delle pubbliche amministrazioni).

Un   secondo   corollario   della   libertà   di   associazione   è   rappresentato   dalla 


libertà di dar vita ad associazioni con fini politici, i partiti. Essi, a norma 
dell’art.   49   Cost.,   sono   chiamati   a   svolgere   la   funzione   fondamentale   di 
garantire  ai cittadini  di “concorrere  con metodo  democratico  a determinare  la  
politica   nazionale”.   Nonostante   l’art.   parli   di   “tutti”   i   cittadini,   il 
successivo art. 98 comma 3 stabilisce che la legge può introdurre limitazioni al 
diritto di iscriversi ad un partito politico per alcune categorie di dipendenti 
pubblici le cui funzioni richiedono un grado massimo di imparzialità.

I diritti sociali

Ai sensi dell’art. 4 comma 1 Cost. “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini  
il   diritto   al   lavoro   e   promuove   le   condizioni   che   rendano   effettivo   questo  
diritto”,   per   quanto   usare   il   termine   diritto   sembra   una   forzatura   dato   che 
difficilmente si è in grado di garantire un posto di lavoro per tutti; in questo 
caso, la via che si apre al cittadino in caso di inadempienza a questo impegno è 
non già quella del ricorso al giudice, quanto quella del giudizio politico. In 
secondo luogo, la Corte ha ricavato dall’art. 4 il diritto alla libera scelta di 
un’attività  lavorativa  o di una professione.  L’art.  36 garantisce  due diritti 
distinti  ma correlati:  quello  ad una retribuzione  sufficiente  e quello ad una 
retribuzione proporzionata. Il comma 2 dell’art. 36 fa riferimento alla durata 
massima della giornata lavorativa, fissato nel massimo giornaliero di otto ore e 
settimanale di quarantotto, anche se tali dettagli sono oggi del tutto residuali 
dato   che   la   loro   definizione   è   riservata   alla   contrattazione   collettiva   di 
categoria o aziendale. Il comma 3 garantisce al lavoratore il diritto al riposo 
settimanale   e   a   ferie   annuali   retribuite,   diritti   che   sono   ritenuti 
indisponibili ed irrinunciabili.

Quanto al lavoro femminile, l’art. 37 afferma che “la donna lavoratrice ha gli  
stessi  diritti  e,  a  parità  di lavoro,  le stesse  retribuzioni  che   spettano   al  
lavoratore.  Le  condizioni  di lavoro  devono  consentire  l’adempimento   della  sua  
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale  
e adeguata protezione”. La stessa ratio ispira l’art. 51, laddove afferma  che 
tutti   i   cittadini   dell’uno   e   dell’altro   sesso   possono   accedere   agli   uffici 
pubblici   in   condizioni   di   eguaglianza,   secondo   i   requisiti   stabiliti   dalla 
legge. Una legge del 2001 in tema di maternità vieta qualsiasi discriminazione 
con  particolare  riguardo  ad ogni  trattamento  meno  favorevole  in ragione  dello 
stato di gravidanza, nonché di maternità (e paternità) anche adottive, ovvero in 
ragione  della  titolarità  e dell’esercizio  dei relativi  diritti.  Una legge  del 
2003 vieta di adibire le donne al lavoro notturno a partire dall’accertamento 
dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.

Il diritto al lavoro dei minori è regolato dall’art. 37 comma 2 Cost., il quale 
stabilisce che la legge fissa il limite minimo di età per il lavoro salariato 
(una   volta   finita   l’istruzione   obbligatoria   e   comunque   non   prima   dei   sedici 
anni), mentre il comma 3 prevede che la Repubblica tutela il lavoro dei minori 
con  speciali  norme  e garantisce  ad essi,  a parità  di lavoro,  il diritto  alla 
parità di retribuzione. La legge vieta comunque l’impiego dei minori in lavori 
particolarmente pesanti o pericolosi e nei lavori notturni.

L’art. 38 garantisce  agli inabili  ed ai minorati  il diritto  all’educazione  ed 


all’avviamento   professionale,  non   tutelando   situazioni  direttamente   azionabili 
ma che comunque attribuiscono a tali soggetti un’aspettativa giuridica collegata 
all’impegno  costituzionale  di porre  in essere i programmi  e i mezzi necessari 
per  assicurare   la   loro   educazione  e  il  loro   avviamento   al   lavoro.   Al   secondo 
comma l’art. 38 stabilisce il principio per cui i lavoratori hanno diritto agli 
istituti   di   previdenza   e   di   assistenza   nei   casi   di   infortunio,   malattia, 
invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. L’intento del Costituente è 
quello di dar vita ad un organico sistema di sicurezza sociale, nel quale far 
confluire l’insieme dei servizi assistenziali che lo Stato è tenuto a prestare 
(l’assistenza   privata   è   garantita   anche   in   forma   di   iniziativa   privata   dallo 
stesso art. 38).

L’art.   40   prevede   che   “il   diritto   di   sciopero   si   esercita   nell’ambito   delle  


leggi   che   lo   regolano”.   La   Corte   ha   dovuto   più   volte   intervenire   sia   per 
dichiarare l’illegittimità  di quelle norme di epoca fascista che consideravano 
lo sciopero un illecito, sia per eliminare ogni dubbio nel riconoscimento dello 
sciopero  anche   per   i  dipendenti   pubblici.  La  legge   ha   però   chiamato   in  causa 
anche   il   ruolo   dei   sindacati,   chiedendo   un   impegno   diretto   alla   definizione 
delle   prestazioni   minime   indispensabili   alla   tutela   dei   diritti   fondamentali 
attinenti   allo   sciopero   dei   servizi   pubblici;   la   legge   ha   altresì   previsto 
l’istituto   della   precettazione   quando   sussista   il   fondato   pericolo   di   un 
pregiudizio   grave   e   imminente   ai   diritti   della   persona   costituzionalmente 
tutelati.

L’art.   32   tutela   “la   salute   come   fondamentale   diritto   dell’individuo   e 


interesse  della   collettività   e garantisce   cure   gratuite   agli  indigenti”.  Tale 
diritto   è   tutelato   innanzitutto   come   diritto   alla   propria   integrità   psico­
fisica; all’art. 32 è ricondotto anche un diritto alle prestazioni sanitarie, e 
cioè un diritto ad essere curati.

Gli   artt.   33­34   si   occupano   invece   della   tutela   del   diritto   allo   studio:   in 
particolare, vi è un diritto di istruzione tutelato dall’art. 33 e un diritto ad 
essere   istruito   tutelato   dall’art.   34.   Ancora,   il   primo   si   distingue   nella 
libertà   di   insegnamento   e   nella   libertà   di   istituire   scuole   e   istituti   di 
istruzione,   il   secondo   nella   libertà   di   scelta   della   scuola   e   nel   diritto   a 
ricevere   un   insegnamento.   Si   afferma   che   l’art.   33   si   occupa   del   versante 
strutturale   (la   scuola   pubblica   e   privata)   e   del   versante   funzionale 
(l’insegnamento)   delle   attività   preposte   all’istruzione,   mentre   l’art.   34 
affronta  invece  il versante  degli  utenti,  ponendo  i due principi  fondamentali 
della   libertà   di   accesso   al   sistema   scolastico   e   quello   del   necessario 
intervento   dello   Stato   a   garanzia   del   diritto   allo   studio   per   i   capaci   e 
meritevoli, ma privi dei mezzi economici necessari.

I doveri di solidarietà politica, economica e sociale

Il primo dei doveri imposti dalla Cost. è il dovere al lavoro, sancito dall’art. 
4 comma 2, che prevede che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le  
proprie   possibilità   e   la   propria   scelta,   una   attività   o   una   funzione   che  
concorra al progresso materiale o spirituale della società”. In dottrina si è a 
lungo discusso  sulla  sua portata  meramente  morale,  anche per la difficoltà  di 
individuare   eventuali   sanzioni   all’inadempienza  di  tale   dovere  e  anche   tenuto 
conto del fatto che gravi inadempimenti sono stati registrati anche nell’azione 
dello Stato chiamato a garantire la realizzazione del diritto al lavoro.

L’art. 23 afferma che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere  
imposta   se   non   in   base   alla   legge”.   Quanto   al   contenuto   delle   prestazioni 
personali,   esse   si   estrinsecano   nelle   prestazioni   di   servizi   che   non   sempre 
risultano   suscettibili   di   valutazione   economica,   ed   esse   possono   essere 
raggruppate   come   segue:   prestazioni   in   caso   di   guerra   o   in   altri   casi   di 
emergenza,   prestazioni   professionali   richieste   a   singoli   cittadini   in   casi 
particolari   (medici   per   malattie   infettive   epidemiche),   prestazioni   connesse 
all’obbligatorio   esercizio   di   funzioni   pubbliche   (ufficio   di   tutore), 
prestazioni   connesse   ad   obblighi   di   cooperazione  con   l’esercizio   di  pubbliche 
funzioni (presentazione all’autorità a seguito dell’invito di essa). Quanto alle 
prestazioni patrimoniali, esse si risolvono in definitiva in quelle che incidono 
sul patrimonio del privato, decurtandolo per la perdita di un diritto o per la 
nascita   di   un’obbligazione.   Il   corollario   più   significativo   dell’obbligo   di 
adempiere alle prestazioni patrimoniali imposte dalla legge si ritrova nell’art. 
53 che impone il dovere di contribuire alle spese pubbliche in base al criterio 
della capacità contributiva e della progressività del sistema tributario.

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