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Parte generale
La prospettiva storica: ricostruzioni teoriche e modelli di tutela
La nozione di diritti fondamentali ha conosciuto un’evoluzione nel corso della
storia: è infatti possibile individuare tre distinti modi di approcciare la
materia e gli strumenti attraverso i quali si realizza la tutela di tali
diritti.
• Approccio individualistico (diritti naturali): in questa teoria i diritti di
libertà preesistono alla formazione dello Stato e sono indifferenti agli
sviluppi sociali, economici e politici, in quanto diritti naturali che
spettano a ciascun individuo in quanto tale. Non è quindi il Medioevo il
periodo cui riferirsi per la nascita di tali diritti, dato che esistevano a
quel tempo vari ceti cui erano attribuite distinte garanzie in termini di
diritti di libertà, e non era quindi l’essere individuo bensì l’essere parte
di un determinato ceto la fonte da cui essi scaturivano. La Rivoluzione
francese e precisamente la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789 (art. 1 “gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali
nei diritti.” art. 5 “Tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere
impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina”) sono
il momento di svolta secondo questo approccio, in quanto il ruolo dello Stato
è qui concepito come finalizzato al riconoscimento e alla garanzia dei
diritti, dato che nasce in forza di un patto voluto dai soggetti titolari dei
diritti stessi. Al di fuori di quanto deciso dalla legge a tutela della
società non può che esercitarsi la libertà degli individui.
• Approccio statualistico (diritti legislativamente definiti): in questa teoria
è solo grazie allo Stato che i diritti di libertà possono essere riconosciuti
e garantiti, e conseguentemente è lo Stato che ne determina contenuto, limiti
e meccanismi di garanzia (secondo Hobbes, prima dello Stato c’è solo una
situazione di bellum omnium contra omnes e non può esistere quindi alcuna
libertà e niente che garantisca le pretese dei singoli). Autorità e libertà
non sono più quindi fattori di un dualismo ma nascono simultaneamente con lo
Stato e insieme si sviluppano condizionandosi a vicenda. Il punto di
riferimento storico di questa teoria (detta anche del c.d. positivismo
giuridico) è lo Stato liberale ottocentesco, in cui la legge era fonte e
insieme limite dei diritti di libertà.
Due esperienze costituzionali hanno contribuito allo sviluppo della dottrina dei
diritti fondamentali:
• L’esperienza francese: qui l’approccio dominante era quello individualistico,
ma furono cercate conciliazioni con l’approccio statualistico, mentre fu
abbandonato in toto l’approccio storicistico dato che scopo primo della
Rivoluzione era abbattere l’ordinamento preesistente. La Costituzione
francese è concepita come un atto che deve tracciare nuovi indirizzi ed un
nuovo programma politico, da attuare dai poteri pubblici espressione della
sovranità popolare; non solo, ma si cerca di conservare una concezione
giusnaturalistica quando si definiscono i diritti individuali come “diritti
naturali ed imprescrittibili dell’uomo”. Per bilanciare i rapporti tra
Costituzione e legge, non si sottopone formalmente la seconda alla prima ma
si plasma il principio della rappresentanza politica per cui i poteri
pubblici non esercitano più direttamente ma mediatamente la sovranità, cioè
controllato dagli elettori in quanto rappresentati totalmente senza
distinzioni di ceto (mentre la Cost. ne è esercizio diretto). Viceversa il
ruolo dei giudici è sminuito, in quanto pesava su di loro l’immagine di
funzionari legati al potere assolutistico. Un altro limite era quello di non
aver predisposto strumenti per arginare possibili abusi del legislatore,
risolto soltanto formalmente affermando che la legge in quanto espressione
della volontà popolare non poteva che essere giusta e rispettosa del quadro
costituzionale.
Il modello francese si diffuse nell’Europa continentale a metà dell’800, per poi
essere smantellato dalle pressioni autoritarie del secolo successivo, che
accentuarono gli aspetti statalistici, per cui lo Stato trova in sé la propria
legittimazione e non è più il popolo il vero sovrano, e la legge diventa mero
esercizio di una funzione pubblica (o per meglio dire del partito unico), e di
conseguenza essa ha totale discrezionalità nel definire la sfera dei diritti di
libertà; venne sostanzialmente a galla il problema del non aver previsto limiti
ad eventuali abusi del legislatore. I diritti di libertà e la loro definizione
sono concepiti come funzionali al raggiungimento degli interessi generali dello
Stato, così come interpretati dal partito unico.
Nelle costituzioni del dopoguerra, verranno riprese le esperienze statunitense e
francese, la prima per quanto riguarda la rigidità della Costituzione e
soprattutto il suo ruolo di fonte di garanzia dei diritti di libertà, la seconda
per quanto riguarda il suo ruolo di programma delle operazioni poi perseguite
dal legislatore (limitato allo stesso tempo dalla rigidità della Costituzione
stessa; Costituzione rigida = tavola di principi e valori non disponibile per il
legislatore ordinario). Una nuova frontiera attinente alla tutela dei diritti di
libertà si sta oggi aprendo con il copioso sviluppo del diritto internazionale.
Anche la riserva di giurisdizione, strumento di garanzia dei diritti di libertà
contro l’arbitrio della polizia giudiziaria e dell’amministrazione riservandone
la definizione ad un’autorità indipendente ed imparziale, non riceveva alcuna
previsione nello Statuto (salvo alcune disposizioni sul principio del giudice
naturale, sulla piena sovranità dei giudici nell’interpretazione della legge), e
di fatto la capacità di condizionamento dei magistrati da parte del potere
politico fu incontrastata. Il pm era alle dipendenze dirette del Potere
esecutivo e l’art. 129 dell’ordinamento giudiziario del 1865 lo definiva come
rappresentante di esso.
Nello Statuto vi è una parte intitolata Dei diritti e dei doveri dei cittadini
(artt. 2432) di evidente derivazione francese e che evidenzia la concezione
liberale dello Stato basata sul principio dell’eguaglianza di fronte alla legge
(cioè senza discriminazioni formali da parte del legislatore) statuito dall’art.
24. Alla solenne affermazione di questo principio segue l’elencazione degli
altri diritti fondamentali cui lo Statuto vuole assicurare protezione, secondo
lo schema affermazione del diritto + rinvio al legislatore per la determinazione
dei limiti (funzione che era sostanzialmente abbandonata all’arbitrio della
maggioranza parlamentare, che unita alle forte limitazioni al diritto di voto
dava un quadro nettamente sbilanciato a favore della borghesia, e non è un caso
che uno degli art. più solenni sia il 29 dove si afferma il diritto di
proprietà). Progressivamente in epoca liberale si arriva ad una funzione dello
Stato che è quella di bilanciare le libertà individuali con il raggiungimento
degli interessi generali individuati dal Governo: è una concezione
statualistica, e la si rinviene anche nella definizione dei diritti politici
come esercizio di potestà pubbliche, concesse dallo Stato ai cittadini per la
loro partecipazione alle funzioni statali. Le libertà individuali sono qui
designate come libertà negative, cioè quelle che il singolo ha diritto di
difendere da ogni ingerenza esterna e principalmente dei poteri politici, mentre
non c’è spazio per le libertà collettive nelle quali viceversa è necessario
l’intervento e non l’astensione dei poteri pubblici.
L’art. 27 statuiva la libertà di domicilio, rinviando alla legge la disciplina
delle limitazioni; anche qui non era prevista alcuna riserva di giurisdizione,
quindi si svilupparono penetranti poteri in capo all’autorità di pubblica
sicurezza. La nozione di libertà di domicilio fu tuttavia intesa in modo
estensivo come proiezione spaziale della libertà personale.
Una libertà a lungo bistrattata prima della Costituzione del 1948 è stata quella
di corrispondenza, che non riceveva alcuna previsione nello Statuto e che era
sottomessa agli interessi pubblici anche da parte della dottrina e della
giurisprudenza del tempo.
La libertà di stampa, sancita dall’art. 28, era fortemente tutelata come da
esperienza francese, e accanto alla disposizione statutaria fu varato nel 1848
anche un Editto sulla stampa, concesso dal Sovrano per determinare ancor più
chiaramente i profili fondamentali della disciplina, che era incentrata
principalmente sul divieto di interventi di censura preventiva ma anche sulla
previsione di reati a mezzo stampa (c.d. abuso) e delle sanzioni relative;
importante era anche la previsione di riserva giurisdizionale al giudice, sempre
in ossequio ad una logica meramente repressiva di eventuali abusi e
assolutamente non preventiva. Questa situazione durò tuttavia poco, dato che via
via che i poteri iniziarono a capire quanto importante il mezzo della stampa
poteva essere nella dialettica tra classi e interessi sociali, iniziarono a
svilupparsi prassi che accentuavano i caratteri meno liberali dell’Editto nonché
varie leggi di polizia (che iniziarono a prevedere la necessità di concessione
di licenze per esercitare le varie attività di stampa). Durante l’epoca
giolittiana si tornò su climi decisamente più moderati e liberali, ma di nuovo
essi furono ristretti con l’inizio delle ostilità belliche.
Il codice Rocco del 1930 ricondusse tutto il settore dei reati a mezzo stampa
alla disciplina codicistica (che prima era affiancata anche alla disciplina
dell’Editto); ma il dato normativo rilevante è quello costituito dalla
legislazione di pubblica sicurezza, implementata dai t.u. del 1926 e del 1931:
essa inaspriva da una parte il regime delle licenze di polizia per l’esercizio
dell’attività di stampa, e dall’altro trasformava l’istituto del sequestro da
repressivo (ed azionabile soltanto dal giudice) a preventivo (ed azionabile
direttamente dall’autorità di polizia), indipendentemente dall’effettiva o
presunta commissione di un reato a mezzo stampa. A fianco di questi aspetti
negativi, c’è da aggiungere che il fascismo introdusse l’importante prassi dei
finanziamenti pubblici a sostegno della stampa, con la creazione di numerosi
Enti.
La libertà di riunione rappresenta nel quadro dello Statuto l’unico esempio di
riconoscimento di una libertà che noi oggi siamo soliti catalogare tra le c.d.
“libertà collettive”, cioè tra quelle libertà che hanno un senso in quanto
vengono esercitate non dall’individuo in quanto tale ma dall’individuo in quanto
associato ad altri individui. L’art. 32 prevedeva il solo limite generale che
“tutte le riunioni devono essere pacifiche e senz’armi” pur aggiungendo che
tutte le riunioni in luogo pubblico o aperto al pubblico dovevano considerarsi
soggette alle leggi di polizia, che lasciava quindi all’autorità una
discrezionalità assai ampia; la legge di pubblica sicurezza del 1889 introdusse
poi un altro elemento di diffidenza verso questa libertà, e cioè l’istituto del
preavviso all’autorità per le riunioni in luogo pubblico o in luogo aperto al
pubblico. Con il fascismo questi caratteri furono naturalmente accentuati.
La libertà di associazione non era invece prevista espressamente dallo Statuto,
ma fu comunque di fatto esercitata e vista con favore dal legislatore fino
all’epoca liberale. I limiti che vi furono ricondotti furono in parte quelli
previsti per la libertà di riunione, ed in parte alle tre tipologie vietate
delle associazioni armate, delle associazioni per delinquere e delle
associazioni che svolgessero un’attività contraria allo Stato ed alle sue
istituzioni. Nella prassi fu fatto spesso ricorso al potere di scioglimento del
Governo e non della magistratura, che poteva agire solo per reprimere illeciti
penali. Da fine secolo e soprattutto con l’avvento del fascismo, furono
introdotte forti limitazioni a questa libertà, con previsione di autorizzazioni
e pubblicità delle associazioni, scioglimento di esse da parte del Governo, e
moltiplicazione dei reati associativi nel codice Rocco, che puniva le
associazioni sovversive, antinazionali, internazionali e la cospirazione
politica mediante accordo o associazione.
Lo Statuto prevedeva una Camera elettiva, mentre il Senato era composto da
membri nominati a vita dal Re: di fatto quindi lo Statuto, all’art. 24,
introduceva il principio della rappresentanza politica. Ma a tale principio non
seguì, fino al 19121913, una legislazione elettorale conseguente, dato che il
diritto al voto era basato su principi censitari fortemente elitari (come nel
periodo piemontese), fino alla legislazione del 1919 che estese il diritto
elettorale attivo a tutti i cittadini maschi maggiorenni. Il fascismo liquidò i
diritti politici affermatisi nello Stato liberale, e il partito unico funzionò
come unica sede di possibile partecipazione politica dei cittadini all’azione
dei pubblici poteri. Oltre a ciò, qualsiasi previsione normativa in tema
elettorale fu condizionata dal clima di forte intimidazione e violenza che regnò
in epoca fascista, come nelle elezioni del 1924. Furono poi progressivamente
cancellati i diritti delle opposizioni e degli organi rappresentativi locali
(con le leggi c.d. “fascistissime”), fino ad arrivare alla soppressione della
Camera dei deputati nel 1939, che divenne Camera dei fasci e delle corporazioni,
un’assemblea non elettiva composta dai membri del consiglio nazionale del
partito fascista, dai membri delle corporazioni (organismi di diritto pubblico
con un’importante influenza soprattutto per la determinazione dei contenuti dei
contratti di lavoro) e da altre organizzazioni vicine al regime.
I quattro principi che dominarono la discussione dell’Assemblea Costituente su
che forma avrebbe dovuto prendere la nuova Costituzione furono: 1) la concezione
dei diritti fondamentali come elemento fondante del nuovo Stato democratico; 2)
l’idea che lo Stato, oltre ai diritti soggettivi ed agli interessi legittimi
azionabili dal singolo davanti al giudice, dovesse tutelare in modo
programmatico anche i diritti sociali (interessi socialmente meritevoli di
tutela); 3) l’idea per cui i diritti fondamentali non erano concessi dallo Stato
come forma di autolimitazione ma preesistenti ad esso e trovanti posto nella
Costituzione, che si impone a tutti i poteri costituiti; 4) l’idea che
l’effettiva garanzia dei diritti fondamentali dovesse passare per una
Costituzione rigida che estromettesse dal campo di disponibilità della legge
ordinaria tale insieme di previsioni.
I diritti fondamentali nella Costituzione italiana: quadro generale
La Costituzione Repubblicana ha un impianto radicalmente diverso da quello dello
Statuto, risentendo anche delle esperienze costituzionali europee degli stati
liberaldemocratici e anglosassoni: si rovescia l’impostazione statualistica
precedente, si fa della Costituzione l’elemento fondante dell’azione dei
pubblici poteri, dei singoli e delle collettività sociali, si spezza la prassi
dell’onnipotenza della legge, si definisce un nucleo di valori non più
retrattabili.
Cambia anche la logica delle tecniche di garanzia dei diritti di libertà: la
Costituzione li indica e indica nella legge l’unico strumento in grado di
delimitarne legittimamente i limiti, ad esclusione di ogni altra fonte normativa
(riserva di legge talvolta assoluta, talvolta relativa) e con la riserva di
giurisdizione al giudice ad esclusione di ogni altra pubblica autorità. La
disciplina articolata e dettagliata della Costituzione, sommata alla sua
rigidità, fanno sì che la riserva di legge operi in canali sostanzialmente
predeterminati che fungono da controllo intrinseco per l’opera del legislatore
(tanto che si parla di riserva di legge rinforzata).
Secondo un importante criterio più volte ribadito dalla Corte, si deve ritenere
che a parte i diritti politici e salve eventuali differenziazioni stabilite
dalla legge, tutti i diritti di libertà vadano riconosciuti anche agli stranieri
e che lo stesso debba dirsi quanto all’imposizione dei doveri; ciò è coerente
col dettato della Costituzione sia quando parla di diritti “inviolabili
dell’uomo” sia quando essa assicura tutela allo straniero cui sia impedito nel
proprio Paese l’esercizio delle libertà previste dalla Costituzione stessa
(diritto d’asilo, divieto d’estradizione per motivi politici). Questa logica è
stata allargata anche per quanto concerne il diritto di voto per lo straniero
comunitario con il requisito legittimante della residenza stabile, tanto che
alcune Regioni hanno già adottato misure atte a consentire il voto anche a tali
soggetti in referendum consultivi, senza che la Corte abbia avuto niente da
eccepire al riguardo.
Lo status di rifugiato è riconosciuto ai cittadini stranieri che, per il timore
fondato di essere perseguitati per i motivi indicati dall’art. 3 Cost., si
trovino al di fuori del proprio territorio nazionale e non vogliano o non
possano rientrarvi; gli atti di persecuzione devono essere sufficientemente
gravi da rappresentare una violenza grave dei diritti umani fondamentali. Tale
protezione non può essere riconosciuta a chi sia già protetto da
un’organizzazione internazionale, o a chi abbia commesso crimini contro la pace
o contro l’umanità o altri reati gravi, oppure si sia reso colpevole di atti
contrari alle finalità e principi delle Nazioni Unite. La tutela applicata a chi
si trovi in condizione di rifugiato prende il nome di diritto d’asilo ed è
statuita dall’art. 10 comma 3 Cost.
L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili anche alle formazioni sociali, grande
novità se si considera l’ostilità con cui esse venivano trattate nell’esperienza
fascista. Si definiscono tali tutte quelle che si formano spontaneamente nella
comunità, ed anche ad esse si estendono i doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale.
I limiti speciali, che operano soltanto nei confronti dei diritti di libertà per
i quali siano espressamente previsti, sono i seguenti:
• Il limite dell’interesse patrimoniale dello Stato: lo si trova nell’art. 23
relativo al dovere di adempiere le prestazioni patrimoniali imposte dalla
legge, nell’art. 53 relativo al dovere di concorrere alle spese pubbliche in
ragione della propria capacità contributiva, nell’art. 43 che disciplina
l’espropriazione per pubblica utilità.
Il sistema di tutela dei diritti fondamentali è molto articolato e può essere
distinto tra le due categorie delle lesioni cagionate dai pubblici poteri e
delle lesioni cagionate dai privati. Per gli abusi commessi dal legislatore, il
principale strumento di tutela è costituito dal controllo di legittimità
costituzionale che consente l’impugnazione di una legge con contenuto contrario
ai principi costituzionali in materia di diritti di libertà; per gli abusi
commessi dal Governo, essi possono derivare dagli atti limitativi dei diritti
fondamentali in caso di proclamazione dello stato di guerra ex art. 78 (si
ricorre al giudice contro la violazione dei limiti imposti all’azione
dell’Esecutivo) oppure dagli atti adottati nell’esercizio dei suoi poteri
straordinari (per gli atti normativi il sindacato successivo è della Corte e
quello preventivo del Presidente della Repubblica in sede di emanazione; per gli
atti amministrativi quando si lamenti una lesione di un diritto soggettivo si
ricorre al giudice ordinario, quando si lamenti una lesione di un interesse
legittimo si ricorre al giudice amministrativo).
La tutela internazionale dei diritti fondamentali
Importanti tendenze sul piano dei diritti fondamentali si sono formate in ambito
di diritto internazionale dal dopoguerra: la Carta delle Nazioni Unite del 1945
che fu preludio alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e
ad altri atti degli anni successivi. Dal punto di vista del loro contenuto,
questi atti internazionali rappresentano un arricchimento del catalogo dei
diritti di libertà (soprattutto a riguardo della tutela dei diritti sociali),
mentre dal punto di vista del loro valore giuridico essi fanno totale
affidamento sull’azione degli Stati che li hanno ratificati, salvo incorrere
nella loro responsabilità politica. Il nostro art. 10 Cost. sancisce che le
norme di diritto internazionale entrano a far parte del nostro ordinamento allo
stesso livello delle fonti primarie, senza quindi alterare in alcun modo la
tutela costituzionale prevista.
Strumenti che invece sono previsti dalla Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), sottoscritta a Roma
nel 1950 e al cui testo originario si sono sommati nel tempo vari protocolli
addizionali: essa contiene una serie di diritti che tende a garantire e la
previsione delle limitazioni che essi possono incontrare, nonché le modalità
attraverso cui gli stessi possono essere legittimamente compressi. La vera
novità di questa convenzione risiede nel meccanismo posto a presidio
dell’effettivo rispetto del suo contenuto, che in origine prevedeva due organi
(Commissione europea dei diritti dell’uomo e Corte europea dei diritti
dell’uomo) che avevano due distinte funzioni nel meccanismo che si attivava
quando vi facessero ricorso gli Stati membri o i privati; dal 1994 tale sistema
è stato riformato ed è basato oggi su di un solo organo chiamato Corte europea
dei diritti dell’uomo cui vengono diretti i ricorsi. Le sentenze della Corte,
ove accertino una violazione, condannano lo Stato responsabile e lo obbligano ad
eliminare il pregiudizio alla parte lesa salvo il risarcimento del danno o
un’equa riparazione nel caso in cui l’eliminazione non sia possibile.
Altri atti rilevanti in campo internazionale sono la Carta di Nizza del 2000
(Carta dei diritti fondamentali dell’UE) ed il Trattato di Lisbona.
Quanto alla novità introdotta dalla modifica dell’art. 117, che impone oggi alla
legge dello Stato l’obbligo costituzionale di rispettare gli obblighi assunti
per il tramite di un Trattato internazionale, sono da segnalare le due c.d.
sentenze gemelle della Corte Costituzionale, la n°348 e 349 del 2007, che si
sono fatte carico di ricostruire l’assetto del rapporto tra diritto interno e
diritto internazionale pattizio in generale ma con riferimento alla CEDU. Il
principio ivi contenuto è quello per cui nell’ipotesi in cui il giudice si trovi
di fronte al dubbio circa la conformità di una norma di legge nazionale e una
disposizione della convenzione (così come interpretata dal suo giudice, cioè la
Corte europea dei diritti dell’uomo) incombe su quest’ultimo l’obbligo di
risolvere in via interpretativa, per quanto possibile, il dubbio e, ove questo
tentativo non dia esito positivo, l’obbligo di sollevare la questione di
legittimità costituzionale della norma interna in questione per violazione del
nuovo parametro costituzionale introdotto dall’art. 117 comma 1 Cost.. La
disposizione CEDU potrà funzionare da norma interposta (norma che si interpone
tra una di rango ordinario e una di rango costituzionale) solo se assicura al
diritto in questione una tutela almeno equivalente a quella assicurata dalla
Costituzione. La Corte costituzionale deciderà quindi in base al principio della
prevalenza dell’interpretazione che garantisca la tutela maggiore.
Parte speciale
L’interpretazione dell’art. 2 della Costituzione
L’articolo 2 affida alla Repubblica (in tutte le sue espressioni, non solo per i
poteri statali) il ruolo di funzione strumentale di garanzia, di pieno sviluppo
dei valori personalistici e comunitari dei cittadini e, più in generale,
dell’intero consorzio umano. Esso si riferisce non solo ai cittadini ma a tutti
gli uomini in quanto portatori di valori individuali preesistenti alla stessa
organizzazione statale; questo dato ci indica il definitivo superamento della
visione statocentrica che affermava il fondamento dei diritti individuali in
un’autolimitazione dello Stato, a favore invece della visione personalista.
Appare corretta la tesi secondo cui i diritti fondamentali e l’ordinamento
sorgono insieme, e non abbia quindi senso ricercare quali tra essi preceda
l’altro; l’art. 2 pone comunque al centro i “diritti” umani e non la “persona”
astrattamente considerata. Si ritiene che l’art. 2 costituisca una norma “a
fattispecie aperta”, che tuteli e riconosca cioè non solo i diritti
espressamente previsti dalla Costituzione ma anche quelli espressi
dall’evoluzione della coscienza sociale, anche se forti critiche sono state
avanzate a tale riguardo, una delle quali è quella per cui ad ogni diritto
corrisponde la necessità di un obbligo a carico di uno o più soggetti e dunque
non può esservi un riconoscimento non espresso. Si accoglie invece la tesi per
cui l’art. 2 vada letto secondo un’interpretazione estensiva che riconosca e
tuteli anche posizioni soggettive collegate ai diritti espressamente previsti.
Quanto alla potestà delle Regioni in materia di diritti fondamentali, la Corte
ha chiarito che la materia non può avere differenziazione tra regione e regione,
mentre le stesse possono attivare diverse modalità di implementazione dei
diritti costituzionali. Tale lettura porta a valorizzare il concetto di
inviolabilità dei diritti, inteso come sinonimo di irrivedibilità anche
attraverso il procedimento di revisione costituzionale, anche se tale
irrivedibilità è limitata al solo nucleo essenziale dei diritti di libertà.
Accanto alla previsione espressa del limite posto dall’art. 139 riguardo
all’immodificabilità della forma repubblicana dello Stato, la dottrina
prevalente ritiene che esistano anche altri limiti impliciti alla funzione di
revisione costituzionale rinvenibili in quei principi costituzionali che
caratterizzano il nostro ordinamento, come la sovranità popolare, l’unità e
indivisibilità dello Stato, i diritti inviolabili della persona e i principi di
eguaglianza e libertà. Tali principi sarebbero modificabili solo attraverso un
nuovo processo costituente ed un nuovo patto sociale radicalmente diverso da
quello che ha dato vita all’attuale Costituzione. Si ritiene che la funzione di
controllo sul rispetto di tali limiti sia da attribuire tanto al Presidente
della Repubblica quanto alla Corte Costituzionale. In base a tale ragionamento
si può quindi delineare la differenza tra la funzione di revisione
costituzionale e la funzione costituente: mentre la prima trova la sua
disciplina direttamente nella Costituzione e può essere esercitata solo entro
determinati limiti procedimentali e di principio, la seconda non ha alcuna
disciplina formale e non vale a modificare norme esistenti bensì a definire i
termini del patto sociale che sta alla base della Costituzione.
Il principio di eguaglianza
L’art. 3 è stato più volte indicato come quello che meglio chiarisce il ruolo
dello Stato rispetto alla tutela dei diritti fondamentali, in quanto la sua
formulazione ha modificato il ruolo appunto dello Stato che è passato da mero
garante di un insieme di libertà in senso negativo a promotore anche di una
serie di “nuovi” diritti sociali. Quindi accanto al principio di eguaglianza
formale sancito dal comma 1 (“Tutti hanno pari dignità sociale e sono eguali
davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e già
similmente formulato nello Statuto Albertino, viene sancito dal comma 2 il
principio dell’eguaglianza sostanziale, per il quale lo Stato si impegna “a
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’affermazione con cui si apre l’art. 3 ha un valore più morale che giuridico,
dato che nella società contemporanea una differenza di dignità sociale
giuridicamente rilevante non esiste più. L’art. 3 vieta espressamente che
possano essere previsti trattamenti differenziati a causa di uno dei motivi
elencati dalla stessa disposizione, mentre ammette la legislazione positiva se e
nella misura in cui sia necessaria a impedire che il sesso, la lingua etc
divengano elementi di una discriminazione di fatto.
Ad obiettivi analoghi a quelli perseguiti attraverso il Concordato, rispondono
anche le intese concluse, a partire dal 1984, con diverse altre confessioni
religiose e che presentano contenuti non dissimili da quelli del nuovo
Concordato, così che si può parlare di una base comune di disciplina dei
rapporti tra Stato e confessioni religiose. Anche tali leggi si sottraggono a
modifiche disposte con leggi ordinarie successive non precedute da intese, ma
non possono derogare ad alcuna norma costituzionale in quanto debbono ritenersi
appartenenti all’ambito di applicazione dell’ordinamento giuridico italiano.
L’art. 8 comma 2 riconosce alle confessione diverse dalla cattolica, a
prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato, il diritto “di
organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con
l’ordinamento giuridico italiano”. Tale limite, secondo la Corte, è da
intendersi solo in riferimento ai limiti desumibili da principi costituzionali o
posti da norme generali ma tali da essere qualificabili come principi
fondamentali.
Se gli artt. 78 prevedono un sistema differenziato dei rapporti tra Stato e
confessioni religiose, gli artt. 1920 prevedono invece una tutela uniforme per
quanto riguarda l’esercizio del culto da parte dei fedeli, sia come singoli che
come gruppi. L’art. 19 garantisce la libertà di coscienza, intesa come facoltà
di professare la fede religiosa in forma individuale o associata; la libertà di
culto, ossia la facoltà di esercitare in privato o in pubblico le espressioni
esterne del sentimento religioso; la libertà di propaganda religiosa, intesa
come facoltà di fare opera di proselitismo. Il limite espresso a queste libertà
è quello del buon costume, ma si ritiene che possa rientrarvi anche quello della
tutela alla salute previsto dall’art. 32 Cost., che potrebbe presentarsi ad
esempio nel caso in cui i genitori, per motivi religiosi, rifiutino di far
praticare una trasfusione di sangue ad un figlio minore.
Il principio di eguaglianza in senso sostanziale si rinviene nell’art. 3 comma 2
Cost., il quale afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del paese”. Tale statuizione ha tutta una serie di corollari
nell’espresso riconoscimento dei diritti sociali come il diritto al lavoro e la
tutela dei diritti dei lavoratori, il diritto alla salute, il diritto
all’istruzione.
La libertà personale
Il primo aspetto che viene in analisi è quello relativo all’individuazione dei
soggetti titolari del potere di limitare la libertà personale nell’ambito del
procedimento diretto all’accertamento di responsabilità penali. L’art. 13 comma
2 pone una riserva di giurisdizione, derogata solo dalla previsione del fermo di
polizia giudiziaria, disciplinato dal comma 3 e basato sulla distinzione tra i
ruoli di polizia di sicurezza e di polizia giudiziaria ed i relativi poteri,
così come introdotti dal cpp del 1989. Le critiche rivolte all’arresto in
flagranza ed al fermo, ritenute misure eccessivamente discrezionali e per le
quali i presupposti di necessità ed urgenza, gli unici a giustificare
l’intervento diretto dell’autorità di polizia giudiziaria, spesso non vengono
rispettati, sono proseguite anche in ambito di altre misure come quelle
riguardanti la disciplina di comportamenti violenti durante manifestazioni
sportive, che ha dato luogo a dubbi di legittimità costituzionale poi rigettati.
Tutte le critiche rivolte a tali misure si basano su dubbi riguardo all’ampia
discrezionalità di cui disporrebbe l’autorità di polizia giudiziaria, in una
troppo ampia deroga al principio della riserva di giurisdizione in materia di
limitazioni della libertà personale.
È soprattutto sul piano delle garanzie procedimentali che vengono riconosciute
all’arrestato o al fermato che la disciplina del cpp appare profondamente
innovativa: in primo luogo il diritto di difesa dell’interessato persegue la
linea di un immediato coinvolgimento del difensore, così come quella del minor
tempo possibile in cui il soggetto rimanga a disposizione dell’autorità di
polizia. Ma la novità più rilevante attiene alla giurisdizionalizzazione
completa della fase relativa alla convalida del fermo e dell’arresto, divisa in
tre fasi nelle quali il gip ha poteri di controllo e irrogazione di misure
cautelari, con la garanzia del contraddittorio nell’udienza di convalida; il
codice del 1989 ha anche distinto tra autorità requirente e giudicante,
riservando alla seconda il potere di disporre misure limitative della libertà
personale “stabili”; i principi di gradualità, proporzionalità ed adeguatezza
che il giudice deve seguire nell’erogazione delle misure cautelari sono un altro
elemento di novità che va in senso garantistico, così come la previsione di
termini massimi della custodia cautelare. Si afferma, in generale, che le
esigenze cautelari sostanzialmente prevalgono rispetto alla gravità
dell’imputazione. Altri aspetti garantistici si rinvengono nei termini perentori
che regolano la disciplina dei ricorsi al tribunale della libertà, che possono
portare anche alla perdita di efficacia delle ordinanze che dispongono le misure
coercitive. Un altro aspetto rilevante e innovativo è la previsione dell’obbligo
della riparazione degli errori giudiziari previste dall’art. 24 Cost.
Dubbi di costituzionalità in materia di limiti alla libertà personale sono stati
avanzati in merito ai due istituti dell’espulsione amministrativa e del
trattenimento temporaneo presso i Centri di identificazione ed espulsione; il
primo può essere disposto dal Ministro dell’Interno per motivi di ordine
pubblico o di sicurezza pubblica o dal prefetto in casi particolari, e viene
eseguito con l’accompagnamento alla frontiera o con l’intimazione a lasciare
entro quindici giorni il territorio dello Stato; i CIE sono utilizzati in quei
casi in cui non sia possibile eseguire con immediatezza l’espulsione, con
termine massimo di venti giorni prorogabili a trenta. La Corte ha fugato i dubbi
di costituzionalità, ma per quanto riguarda la legge BossiFini del 2002 ha
cassato la parte in cui non si prevedeva il contraddittorio nel giudizio di
convalida del decreto di espulsione.
La libertà di domicilio e la libertà di circolazione e soggiorno
Se l’art. 13 Cost. tutela la libertà della persona, come tale, da ogni forma
illegittima di costrizione fisica o morale, l’art. 14 Cost. si preoccupa di
tutelare quella che è la sua proiezione spaziale, ossia il domicilio. Le
possibili limitazioni, pur riconosciute dalla norma, devono rientrare nel quadro
delle due garanzie fondamentali già disposte per la libertà personale: una
riserva assoluta di legge per la determinazione dei casi e modi che rendono
legittima la violazione del domicilio, ed una riserva al giudice di disporre,
con atto motivato, tali limitazioni. Un’altra deroga è posta dallo stesso art,
che prevede che “accertamenti ed ispezioni per motivi di sanità e di incolumità
pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali”.
In dottrina ci si è chiesti se e come si possa inserire il disposto dell’art. 14
nelle tutele richieste dall’art. 13 (riserva di legge e di giurisdizione;
intervento eccezionale dell’autorità di pubblica sicurezza in casi
tassativamente fissati dalla legge e soggetto a convalida successiva da parte
del giudice), dato che la deroga posta dal comma 3 e più sopra citata sembra
riconoscere all’autorità amministrativa poteri direttamente azionabili senza
intervento precedente o successivo del giudice. La dottrina ha ricondotto questa
apparente difformità di disciplina a due tesi: secondo la prima, la diversa
tutela sarebbe da ricondurre al fatto che nel comma 2 si fa riferimento ad
interessi della persona cui è riconosciuto il massimo della tutela, mentre nel
comma 3 ad interessi di natura essenzialmente economica che danno quindi vita ad
un minor garantismo; la seconda afferma invece che la difformità andrebbe
ricondotta alla natura dei provvedimenti limitativi della libertà, con i primi
che essendo di carattere coercitivo richiederebbero il vaglio del giudice,
mentre i secondi essendo misure obbligatorie che richiedono la collaborazione
dell’interessato incontrerebbero minori garanzie.
La previsione di limitazioni ex art. 14, comma 3, è generalmente ricondotta al
rispetto di tre precise condizioni: 1) introduzione di strumenti di mero
accertamento conoscitivo (accertamenti ed ispezioni), ad esclusione di ogni
misura di natura diversa e di più grave interferenza con gli interessi del
soggetto (perquisizioni e sequestri); 2) introduzione di tali strumenti con
apposita legge speciale; 3) tassativa indicazione delle finalità perseguite e
del corretto rapporto tra le misure previste e il dettato costituzionale.
Al fine di tutelare la proiezione spaziale della persona al di là della mera
sfera domiciliare, l’art. 16 Cost. garantisce al cittadino la libertà di
circolare e soggiornare liberamente all’interno del territorio dello Stato,
nonché la libertà di uscire e rientrarvi (c.d. libertà di espatrio). La tutela
della libertà di circolazione è fondata, in primo luogo, su una riserva di legge
rinforzata: le limitazioni ad essa debbono essere disposte dalla legge, in via
generale (cioè sono autorizzati anche atti normativi secondari o atti
amministrativi), per motivi di sanità o di sicurezza, mentre sono comunque
escluse limitazioni determinate da motivi politici.
Quanto alla libertà di soggiorno, si intende tale ogni tipo di sosta in un
determinato luogo, e consiste in primo luogo nel diritto a stabilirsi nel luogo
prescelto e di fermarvisi per il periodo di tempo desiderato, così come nella
libertà di scegliere il luogo di lavoro. Tale libertà si pone in contrasto con
gli obblighi di residenza previsti da numerose leggi: se l’obbligo di
coabitazione per i coniugi appare giustificabile ai sensi dell’art. 29 comma 2
Cost., maggiori dubbi solleva quello previsto a carico del dipendente pubblico
che assicuri l’integrale prestazione lavorativa.
Libertà e segretezza della corrispondenza
A differenza dello Statuto, l’art. 15 Cost. tutela la libertà e segretezza della
corrispondenza, con una tutela ritenuta così intensa che la Corte la ha
annoverata tra quei principi supremi della Costituzione che sono sottratti alla
funzione di revisione costituzionale. Così l’art. 15 tutela i modi attraverso i
quali la persona si pone in relazione con gli altri soggetti. È da sottolineare
come i Costituente abbia specificato che è tutelata non solo la corrispondenza
in senso stretto, bensì anche “ogni altra forma di comunicazione”. Dato che
l’art. 21 tutela le forme di manifestazione del pensiero, ci si domanda quali
forme di comunicazione siano riconducibili a tale art. e quali invece siano
tutelate dall’art. in esame: il problema si risolve in dottrina riconducendo
all’art. 15 tutte quelle forme di comunicazione che presentino i canoni
dell’intersoggettività (cioè che non siano dirette alla generalità del pubblico)
e dell’attualità (ma su questo punto c’è discordia in dottrina sul momento cui
ricondurre l’attualità appunto della comunicazione). Parte della dottrina
ritiene che sia altresì elemento fondante quello della segretezza della
comunicazione.
Anche in questo caso sono previste le due riserve di legge e di giurisdizione;
ma differentemente dagli artt. 1314, qui non si prevede la possibilità di un
intervento straordinario in casi di necessità e di urgenza da parte
dell’autorità di polizia, salva sempre la convalida del giudice.
Il codice postale impone divieti di divulgare il contenuto della corrispondenza
in capo agli addetti postali, ma anche l’obbligo di sottoporre a “fermo” quelle
che possano costituire pericolo per la sicurezza dello Stato o recare danno a
persone o cose, caso in cui si pronuncerà entro ventiquattro ore il tribunale
monocratico. Anche il codice penale prevede alcune fattispecie di reato per chi
violi tale libertà. Il nuovo cpp ha ridotto sensibilmente i margini di
discrezionalità di cui disponeva il pm per quanto riguarda l’apertura di
corrispondenza chiusa e le intercettazioni nell’ambito delle indagini.
La libertà di manifestazione del pensiero
L’unico limite previsto espressamente dall’ultimo comma dell’art. 21 per tutte
le manifestazioni del pensiero è rappresentato dal buon costume, da intendersi
come riferito essenzialmente alla possibile violazione della sfera del pudore
sessuale. Tale limite può dare adito tanto a limiti diretti al contenuto delle
varie forme di manifestazione del pensiero, tanto a limiti indiretti, come il
regime fiscale di sfavore previsto per le pubblicazioni di tipo pornografico. Si
ritiene comunque che tale libertà incontri altri limiti, riconducibili ad
altrettanti interessi costituzionalmente protetti:
1) Il diritto all’onore ed alla reputazione è un corollario del paradigma della
pari dignità sociale indicato all’art. 3 comma 1 Cost.; la tutela penalistica
che viene ricondotta a tale diritto prevede le fattispecie dell’ingiuria e
della diffamazione, oltre alle varie di oltraggio e vilipendio (ritenute
legittime in quanto esse puniscano espressioni idonee a ledere valori
costituzionalmente tutelati, come l’autonomia degli organi costituzionali; la
Corte ha chiarito che tali vanno considerate le manifestazioni offensive che
neghino ogni valore ed ogni rispetto all’entità protetta e che inducano al
disprezzo di essa e a disobbedienze), anche se la Corte ritiene che il reato
di diffamazione non esista laddove il fatto sia determinato e vero, sussista
un interesse pubblico alla conoscenza del fatto e vi sia la correttezza
dell’esposizione del fatto stesso. Di recente la legge n°85/2006 ha sfoltito
la trama fittissima dei reati in esame, ma tale ambito richiede ancora una
riforma organica. Due ulteriori limiti previsti in materia sono quelli che
prevedono l’immunità dei membri del parlamento per le opinioni espresse e i
voti dati nell’esercizio delle loro funzioni (per i quali provvede ad
autorizzare la Camera di appartenenza) e il limite delle tutela dei minori
3) L’interesse alla sicurezza dello Stato sta alla base di alcune disposizioni
del cp che puniscono la rivelazione di segreti di Stato nonché la
divulgazione di notizie di cui ne sia stata vietata la divulgazione da parte
dell’Autorità.
La legge istitutiva dell’ordine e dell’albo tocca e definisce anche la sfera dei
diritti e doveri del giornalista: tra i primi rientra il diritto alla critica e
alla libertà di informazione, tra i secondi l’obbligo inderogabile di rispettare
la verità sostanziale dei fatti, l’obbligo di rettificare notizie che risultino
inesatte e di riparare agli eventuali errori, l’obbligo di rispettare il segreto
professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere
fiduciario delle stesse. La legge prevede altresì l’adozione di uno speciale
codice di deontologia interno all’ordine, che vada a disciplinare tutte le
singole fattispecie che riguardino l’attività del giornalista; esso è stato
approvato nel 1998 e contiene l’importante statuizione che in base all’art. 21
l’attività giornalistica non può essere soggetta ad alcuna forma di
autorizzazione o di censura.
Negli anni recenti si è sviluppata tutta una normativa di intervento pubblico in
materia di aiuti economici alle imprese giornalistiche, sia una normativa
antitrust atta non tanto a garantire la concorrenza nel rispetto dell’art. 41
quanto ad evitare fenomeni di concentrazione che possano inficiare il libero
diritto all’informazione degli utenti; in questo senso sono previste tutte una
serie di “quote” oltre le quali si parla di “posizione dominante sul mercato” e
tutta una serie di controlli e obblighi. Per assicurare la corretta applicazione
della nuova disciplina antitrust, nel 1981 fu istituito un organo dotato di
un’autorità particolarmente autonoma chiamato Garante per l’editoria, le cui
funzioni sono state poi trasferite, nel 1997, all’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni.
Nel 1990 fu approvata la legge che disciplina il sistema radiotelevisivo misto
pubblicoprivato, il cui impianto ruota intorno a cinque punti cardine:
2) La disciplina del regime concessorio ha la sua premessa fondamentale in due
atti di pianificazione: il piano nazionale di ripartizione e il piano di
assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione.
3) La normativa antitrust è il cuore della legge 223/1990 in quanto solo con un
efficace contrasto alle concentrazioni si può consentire alle parti private
di prendere parte al monopolio
5) Viene istituito infine un Garante per la radiodiffusione e l’editoria che ha
i poteri di controllo e sanzionatori predisposti dalla legge
La normativa antitrust fu successivamente dichiarata incostituzionale dalla
Corte, che non la riteneva idonea a garantire un effettivo rispetto del
pluralismo informativo; nel 1997 fu varata una nuova normativa antitrust che
indicò nel 20% la soglia massima di concentrazione di frequenze ad uno stesso
soggetto. In ambito comunitario, il protocollo di Amsterdam ha indicato (ma non
chiarito il punto di equilibrio) l’esigenza di bilanciare il servizio pubblico
alla libera concorrenza e che tale esigenza deve essere ritenuta di competenza
del legislatore nazionale.
Una nuova legge di sistema è stata infine varata dal Parlamento nel 2004, e si
articola in cinque capi: definizione dei principi generali che devono informare
l’intero sistema radiotelevisivo, normativa antitrust, principi e criteri
direttivi per l’adozione da parte del Governo di un apposito codice della
radiotelevisione, servizio pubblico radiotelevisivo e disciplina transitoria
legata al passaggio dall’analogico al digitale.
La disciplina delle telecomunicazioni ha subito grandi cambiamenti dato che si
sono verificati molteplici passaggi che hanno portato all’attuale sviluppo
tecnologico, legati a quattro fondamentali innovazioni: l’applicazione
dell’informatica alle telecomunicazioni, l’introduzione di nuovi mezzi di
trasmissione dei segnali, l’introduzione di nuove tecniche di trasmissione dei
segnali, l’introduzione di tecniche di codifica dei segnali che influiscono
sulla ricevibilità degli stessi. Si parla in generale di fenomeno della
“multimedialità”.
Le libertà collettive (artt. 17183949 Cost.)
Gli artt. 1718, insieme agli artt. 39 (libertà di associazione sindacale) e 49
(libertà di associazione politica) formano il sistema delle garanzie
costituzionali di quelle libertà che, come si è già avuto occasione di notare,
si possono definire collettive, in quanto il loro esercizio presuppone il
concorso di una pluralità di soggetti, accomunati da un unico fine, e non si
esaurisce nella difesa di una sfera di autonomia individuale, ma è diretto alla
realizzazione di quelle comuni finalità.
La prima libertà appartenente a questo gruppo è quella di riunione ex art. 17
(riunione si distingue da associazione perché nella prima vi è temporaneità,
nella seconda sussiste un patto sociale): la tutela non si estende all’attività
svolta nel corso della riunione, questa rimanendo soggetta alla propria
disciplina giuridica. Il primo limite generale previsto è quello per cui la
riunione deve essere pacifica e senz’armi, senza che sia quindi prevista alcuna
autorizzazione per lo svolgimento delle riunioni, salvo considerarsi
(erroneamente, dato che è un mero obbligo di notificare determinate informazioni
all’autorità) tale l’obbligo del preavviso all’autorità di pubblica sicurezza
per quelle riunioni che si intendono tenere in luogo pubblico; quanto alle
riunioni in luogo privato o aperto al pubblico, esse non possono essere sciolte
per motivi di pubblica sicurezza, ma solo qualora al loro interno sia stato
commesso un reato che consenta all’autorità di polizia di introdursi
legittimamente e a prescindere dalla volontà degli interessati. La distinzione
tra luogo pubblico e luogo privato o aperto al pubblico sta nell’interesse che
il singolo deve mettere in campo nella seconda fattispecie, mentre nella prima
potrebbe poter vedersi arrecare un pregiudizio da una manifestazione cui non
voleva partecipare. Il mancato preavviso, secondo la corretta interpretazione
dell’art. 17, non può costituire di per sé motivo di scioglimento della riunione
in luogo pubblico, salvo l’incorrere in responsabilità penale per i promotori.
Le autorità di sicurezza possono, in caso di comprovati motivi di sicurezza e di
incolumità pubblica, vietare preventivamente le riunioni in luogo pubblico, ma
adducendo motivazioni specifiche e non generiche. La dottrina maggioritaria
ritiene altresì che, in caso di riunioni impacifiche o armate, lo scioglimento
sia precluso quando sia possibile arrestare i singoli partecipanti facinorosi o
armati.
Al di là dei limiti espressamente previsti dall’art. 17 Cost., si ritiene che ve
ne siano altri ad esempio identificati dall’art. 32 per motivi inerenti alla
salute o dall’art. 21 comma 6 che vieta ogni manifestazione contraria al buon
costume. Oltre a ciò, sono previsti limiti di partecipazione per quei soggetti
che si trovino in una situazione di “soggezione speciale”, come i sottoposti a
misure di sorveglianza speciale, i militari e gli appartenenti ai corpi di
polizia se partecipanti con uniformi o mezzi di polizia.
Si ritiene che la tutela dell’art. 17 possa estendersi anche agli assembramenti,
e cioè a quelle riunioni occasionali di più persone in un luogo pubblico, purchè
vi sussista l’elemento della volontarietà nella permanenza dello stare insieme,
sia pure occasionalmente e casualmente.
La particolare attenzione e il particolare favore con cui il Costituente guardò
al fenomeno associativo si manifesta subito nella formula adottata nel comma 1
dell’art. 18, laddove si afferma che gli unici limiti opponibili alla libertà
dei cittadini di associarsi liberamente (comprensiva della libertà di non
associarsi) consistono nel perseguimento di fini che non sono vietati al singolo
dalla legge penale (se al singolo è vietato commettere reati, gli sarà vietato
anche associarsi a tal fine). Il contenuto della libertà di associazione
presenta quindi essenzialmente tre profili: il libero perseguimento, in forma
associata, di fini non vietati ai singoli dalla legge penale; la libera
formazione del vincolo associativo (e in base a questo principio sono stati
dichiarati incostituzionali tutta una serie di obblighi di iscrizione ad
associazioni, come ad esempio quello alla Federazione italiana della caccia per
chi volesse esercitare attività venatoria); la libera organizzazione interna. Vi
è la regola secondo cui alle associazioni si possono imporre solo i limiti che
gravano sul singolo, cui si aggiunge il divieto di associazione segreta (che è
tale a prescindere dal fatto che segua o meno fini vietati dalla legge) e quello
di associazione militare, da non intendersi in senso proprio dato che si ritiene
sufficiente che il rapporto tra i consociati sia ispirato a principi di forte
gerarchia tali da ritenere assente la dialettica interna.
Il riconoscimento della libertà sindacale da parte dell’art. 39 si contrappone
nettamente all’ordinamento corporativo fatto proprio dal regime fascista, che
prevedeva un sistema di composizione degli interessi collettivi del tutto alieno
da una libera e diretta partecipazione dei soggetti interessati. Essa riguarda
sia la libertà di istituzione e di organizzazione di associazioni sindacali, sia
quella di azione e di contrattazione. Lo statuto dei lavoratori (legge
n°300/1970) ha contribuito a rafforzare la prima libertà, soprattutto come
tutela nei confronti degli abusi dei datori di lavoro. La libertà sindacale è
estesa a tutti i lavoratori, con l’eccezione di militari e appartenenti alle
forze di polizia.
I diritti sociali
Ai sensi dell’art. 4 comma 1 Cost. “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini
il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto”, per quanto usare il termine diritto sembra una forzatura dato che
difficilmente si è in grado di garantire un posto di lavoro per tutti; in questo
caso, la via che si apre al cittadino in caso di inadempienza a questo impegno è
non già quella del ricorso al giudice, quanto quella del giudizio politico. In
secondo luogo, la Corte ha ricavato dall’art. 4 il diritto alla libera scelta di
un’attività lavorativa o di una professione. L’art. 36 garantisce due diritti
distinti ma correlati: quello ad una retribuzione sufficiente e quello ad una
retribuzione proporzionata. Il comma 2 dell’art. 36 fa riferimento alla durata
massima della giornata lavorativa, fissato nel massimo giornaliero di otto ore e
settimanale di quarantotto, anche se tali dettagli sono oggi del tutto residuali
dato che la loro definizione è riservata alla contrattazione collettiva di
categoria o aziendale. Il comma 3 garantisce al lavoratore il diritto al riposo
settimanale e a ferie annuali retribuite, diritti che sono ritenuti
indisponibili ed irrinunciabili.
Quanto al lavoro femminile, l’art. 37 afferma che “la donna lavoratrice ha gli
stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al
lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale
e adeguata protezione”. La stessa ratio ispira l’art. 51, laddove afferma che
tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici
pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla
legge. Una legge del 2001 in tema di maternità vieta qualsiasi discriminazione
con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello
stato di gravidanza, nonché di maternità (e paternità) anche adottive, ovvero in
ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti. Una legge del
2003 vieta di adibire le donne al lavoro notturno a partire dall’accertamento
dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino.
Il diritto al lavoro dei minori è regolato dall’art. 37 comma 2 Cost., il quale
stabilisce che la legge fissa il limite minimo di età per il lavoro salariato
(una volta finita l’istruzione obbligatoria e comunque non prima dei sedici
anni), mentre il comma 3 prevede che la Repubblica tutela il lavoro dei minori
con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla
parità di retribuzione. La legge vieta comunque l’impiego dei minori in lavori
particolarmente pesanti o pericolosi e nei lavori notturni.
Gli artt. 3334 si occupano invece della tutela del diritto allo studio: in
particolare, vi è un diritto di istruzione tutelato dall’art. 33 e un diritto ad
essere istruito tutelato dall’art. 34. Ancora, il primo si distingue nella
libertà di insegnamento e nella libertà di istituire scuole e istituti di
istruzione, il secondo nella libertà di scelta della scuola e nel diritto a
ricevere un insegnamento. Si afferma che l’art. 33 si occupa del versante
strutturale (la scuola pubblica e privata) e del versante funzionale
(l’insegnamento) delle attività preposte all’istruzione, mentre l’art. 34
affronta invece il versante degli utenti, ponendo i due principi fondamentali
della libertà di accesso al sistema scolastico e quello del necessario
intervento dello Stato a garanzia del diritto allo studio per i capaci e
meritevoli, ma privi dei mezzi economici necessari.
I doveri di solidarietà politica, economica e sociale
Il primo dei doveri imposti dalla Cost. è il dovere al lavoro, sancito dall’art.
4 comma 2, che prevede che “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le
proprie possibilità e la propria scelta, una attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della società”. In dottrina si è a
lungo discusso sulla sua portata meramente morale, anche per la difficoltà di
individuare eventuali sanzioni all’inadempienza di tale dovere e anche tenuto
conto del fatto che gravi inadempimenti sono stati registrati anche nell’azione
dello Stato chiamato a garantire la realizzazione del diritto al lavoro.
L’art. 23 afferma che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere
imposta se non in base alla legge”. Quanto al contenuto delle prestazioni
personali, esse si estrinsecano nelle prestazioni di servizi che non sempre
risultano suscettibili di valutazione economica, ed esse possono essere
raggruppate come segue: prestazioni in caso di guerra o in altri casi di
emergenza, prestazioni professionali richieste a singoli cittadini in casi
particolari (medici per malattie infettive epidemiche), prestazioni connesse
all’obbligatorio esercizio di funzioni pubbliche (ufficio di tutore),
prestazioni connesse ad obblighi di cooperazione con l’esercizio di pubbliche
funzioni (presentazione all’autorità a seguito dell’invito di essa). Quanto alle
prestazioni patrimoniali, esse si risolvono in definitiva in quelle che incidono
sul patrimonio del privato, decurtandolo per la perdita di un diritto o per la
nascita di un’obbligazione. Il corollario più significativo dell’obbligo di
adempiere alle prestazioni patrimoniali imposte dalla legge si ritrova nell’art.
53 che impone il dovere di contribuire alle spese pubbliche in base al criterio
della capacità contributiva e della progressività del sistema tributario.