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DIRITTO COMMERCIALE 13.03.

2019
ci siamo chiesti fino a quando si applica la disciplina ed inoltre la dimensione soggettiva.

Inizio e fine impresa: vale il principio di effettività, ovvero inizia o cessa effettivamente l’attività. L’inizio
riguarda già gli atti preparatori, l’impresa finisce nella fase di liquidazione dal momento in cui il
complesso aziendale può dirsi disgregato.
Con riguardo alla fine vi è una disciplina speciale ai fini delle regole della crisi e dell’insolvenza, vale
l’articolo 10 della legge fallimentare che poi è stata tradotta nell’articolo 33 del nuovo codice della crisi
e dell'insolvenza. 2 particolarità:
1.ultrattività di un anno→ l’impresa rimane soggetta a fallimento per l’anno seguente.
2. decorrenza dell'anno scelta di farla coincidere con la cancellazione dell’impresa dal registro
dell’imprese in deroga dal principiio dell’effettivamente, si guarda un dato formale.

Profilo soggettivo (imputazione dell'impresa): come si risale all’impresa che esercita l’attività? Chi
fallisce chi è tenuto alle procedure contabili ecc?

Per imputare l’attività di impresa occorre individuare i 2 criteri di individuazione:


1. Spendita del nome: criterio non controverso, ovvero è sicuramente applicabile, colui il cui nome è
speso negli atti giuridici. Può avvenire in via diretta o indiretta (rappresentanza volontaria o legale). Gli
effetti della disciplina si vanno ad imputare il cui nome è speso e non chi compie l’atto.
2 caratteristiche:
a. Questo criterio è riferito ai singoli atti e non all’attività considerata, è lo stesso criterio che si utilizza
nel codice civile per imputare l'effetto dei singoli atti compiuti e tramite l'imputazione dei singoli atti si
arriva ad imputare l'attività.
b. Inoltre questo è un criterio formale, poiché ciò che conta non è il rilievo economico o l’interesse
imprenditoriale, ma l’indicazione del nome nel compimento degli atti d’impresa.
Queste caratteristiche costituiscono i vantaggi e limiti di questo criterio. Vantaggio perché questo
criterio tutela la certezza del diritto, dei traffici giuridici. Colui il cui nome è speso è anche colui sul cui
patrimonio fanno affidamento le parti. Quindi semplicità di applicazione e affidamento effettivo dei
terzi sul patrimonio del responsabile.
I limiti: è un criterio che si presta agli abusi. Ad esempio l’imprenditore occulto. Un soggetto anziché
esercitare in nome proprio, affida la gestione dell’impresa di cui lui si assume il rischio ad un terzo che
la esercita in nome proprio. Quindi ho un rapporto tra imprenditore occulto e quello esterno
riconducibile alla figura del mandato. L’imprenditore effettivo in senso economico che si assume il
rischio non esercita l'attività in nome proprio ma affida l'attività ad un terzo (il prestanome) che la
compie in suo nome. Questo meccanismo può creare abusi perchè può creare una scissione fra
l'effettiv titolarità del rischio di impresa e colui al quale si applica la disciplina dell'impresa.

Se applico il criterio della spendita del nome in questo caso, sull’imprenditore occulto ricade il rischio,
ma il nome è del terzo. Chi è che allora viene registrato? A chi si applica la disciplina dell'impresa? Chi
in caso di insolvenza fallisce? IL PRESTANOME. L’attività di impresa si applica a colui il quale nome è
speso per i singoli atti. Quindi l'imprenditore è il prestanome. Questa scissione crea un fenomeno
abusivo quando il prestanome è preposto dall’imprenditore allo scopo di proteggere il patrimonio
dell’imprenditore occulto che non si assume più rischi.
Questo fenomeno di scissione di rischio effettivo nell'impresa e applicazione della disciplina può
creare situazione patologiche che appaiono difficilmente giustificabili in relazione agli interessi
coinvolti.

2. Da qui nasce il secondo criterio di imputazione, ovvero il criterio dell’assunzione del rischio, è un
criterio CONTROVERSO, ovvero ci sono opinioni pro e contro questo criterio.
E’ un criterio che non è diretto a sostituire ma ad aggiungersi al criterio della spendita del nome. Se
ritengo fondato il secondo criterio io dovrei dire che fallisce sia il prestanome che l’imprenditore
occulto in forza del principio di assunzione del rischio. Poichè al prestanome si imputa in base al
principio di validità della spendita del nome, e all'imprenditore oocculto in base a questo secondo
principio.

L’impresa in base a questo criterio si imputa anche a colui che effettivamente assume il rischio di
impresa, ovvero è destinato a sopportare il saldo negativo e i vantaggi dell’attività, così facendo
l’impresa viene imputata al soggetto verso cui il rischio è effettivamente allocato nel caso concreto.

Il criterio dell’assunzione del rischio è un criterio di imputazione proprio dell’attività in quanto tale e
non degli atti, ed è un criterio economico e non formale.
Così il criterio dell’assunzione del rischio ha il vantaggio di ripianare a conseguenze inique del primo
criterio. Ma trova difficile individuare gli indici effettivi per attribuire il rischio di impresa ad un
soggetto o ad un altro.

L’ingiustizia sostanziale di un principio non legittima la creazione di una regola nuova e diversa, non
basta dire che sia ingiusto ma occorre legare il secondo principio quindi ad una norma, ovvero un
precetto riconducibile ad una regola/disposizione contenuta in questa materia.
Il principio della regolazione del rischio deve ritrovare un fondamento normativo.
1. NON C'È’ ALCUNA NORMA CHE ESPLICITAMENTE RECEPISCA IL PRINCIPIO DEL RISCHIO
2. Ma anche se non c’è una norma è possibile desumere il principio per analogie da altre disposizioni?
L’analogia iuris è fondata su un principio generale, quella legis è fondata su una specifica norma di
legge → in entrabi i casi il procedimento consiste nell'applicare una norma o un principio dettato per
un caso regolato ad un caso privo di espressa disciplina dal nostro regolamento. Il presupposto per
fare questo salto è la lea dem ratio fra il caso regolato e quello non regolato. L’analogia parte dall'idea
che l'ordinamento giuridico non sia completo per ogni singolo caso.

Walter Bigiavi (giurista) ha scritto negli anni '50 “L’imprenditore occulto”: dove dimostra l'esistenza nel
nostro sistema di un principio di imputazione dell'attività di impresa fondato sull'assunzione del
rischio ulteriore rispetto alla spendita del nome. Tesi considerata dirompente. Bigiavi scrive negli anni
'60 “La difesa dell’imprenditore occulto”, dove proteggeva le proprie tesi contro le critiche smosse dal
primo libro. Il nostro sistema ha fatto un passo rilevante verso la direzione segnalata da Bigiavi. La
norma di riferimento è l'articolo 147 che ha subito una modifica nel 2006 che la porta nel senso
indicato da Bigiavi.
Art. 147 della legge fallimentare ha subito una modifica che la porta a ciò che ha detto Bigiavi.
Il fondamento normativo qual è? Esso è la stessa norma appena citata.
E’ una norma molto controversa perché adotta una soluzione che rappresenta un unicum del nostro
ordinamento, che trova corrispondenza anche nel nuovo codice della crisi e dell'insolvenza adottato
nel gennaio 2019 che destinato ad entrare in vigore dopo 18 mesi.
L’art 147 è stato riprodotto senza particolari modifiche nell’articolo 256 del nuovo codice (unica
differenza si parla di liquidazione giudiziale e non più di fallimento).
L’articolo 147 è una delle poche norme che la legge fallimentare dedica al fallimento della società, una
di quelle poche norme dedicate ad adeguare le disposizioni del fallimento allo specifico caso delle
società.
Titolo dell'articolo “società con soci a responsabilità illimitata” → disciplinano il fallimento di alcuni
tipi di società e ne individuano alcune conseguenze.
TIPI DISCIPLINATI:
società di persone (SNC e società in accomandita semplice, e poi l’accomandita per azioni), non la
società semplice perchè non può svolgere attività commerciale.

Cosa succede se fallisce una di queste società che hanno anche soci responsabili illimitatamente per le
obbligazioni sociali?
Al fallimento delle società segue per estensione il fallimento di tutti i soci illimitatamente responsabili.
Questa è la peculiarità del 147. Si aprono fallimenti autonomi collegati a quelli della società. NB: Il
fallimento dei soci deriva dalla loro posizione di socio illimitatamente responsabile, perchè
l'estensione prescinde dall'accertamento dell'insolvenza individuale dei singoli soci, accertata
l'insolvenza della società, fallisce la società e per estensione anche i soci. E' un effetto derivato
dall'insolvenza della società.
Il fallimento della società e quello dei soci sono procedure autonome l'una dall'altra perchè hanno
diversi organi (in realtà coincidono) e diversa massa (le masse attive e passive dei vari fallimenti sono
diversi). La massa passiva della società comprende i debiti della società, la massa passiva del socio
comprende invece i debiti personali di ciascun socio diversi da socio a socio unitamente ai debiti della
società.

L’articolo 147 sotto il profilo del fallimento per estensione disciplina 3 distinte ipotesi, a cui se ne
aggiunge una non disciplinata.
PRIMO CASO: fallimento di socio palese di società palese (primo comma del 147)
SECONDO CASO: fallimento del socio occulto di società palese (quarto comma)
TERZO CASO (disciplinato dal 2006): fallimento del socio occulto della società occulta (quinto
comma).
QUARTO CASO a cui si giunge per analogia: fallimento dell’imprenditore occulto, che non è oggetto di
specifica disciplina ma di cui dovremo verificare se sia suscettibile di vedersi applicato in via analogica
lo stesso principio del 147.

PRIMO CASO: socio palese di società palese, è il caso più semplice, è la società il cui è nome speso nel
traffico giuridico (nel compimento di atti di impresa) ed ha anche tutti i soci palesi, ovvero hanno tutti
esteriorizzato la loro posizione di socio. Se fallisce la società palese, ciò comporta l'automatico
fallimento dei soci palesi. E' evidente che questa prima fattispecie non contiene nessuna deroga al
principio della spendita del nome, perchè la società fallisce in base al principio della spendita del
nome, è il nome della società che è speso nel compimento dei singoli atti di impresa ed è quindi
questa ad essere destinataria dell'applicazione della disciplina.

SECONDO CASO: socio occulto di società palese. Il comma 4 " se dopo la dichiarazione di fallimento
della società risulta l'esistenza di...". Fattispecie diversa rispetto alla prima, alcuni rapporti sociali sono
stati scoperti successivamente, dopo il fallimento della società; se così è allora al momento della
dichiarazione del fallimento essi erano soci occulti, la loro partecipazione alla società era rimasta nei
rapporti interni tra i soci.

Questa norma dice che fallita la società palese questo comporta il fallimento non solo dei soci palesi
ma anche di coloro che sono rimasti dietro le quinte pur assumendo nei rapporti interni una posizione
del tutto analogo a quella di socio. All'esterno appare la società come tale perchè è speso il suo nome,
ciò che rimane occulto è la partecipazione alla società di alcuni dei suoi soci. Questa norma ci dice che
falliscono anche i soci occulti, non esteriorizzati: allora essa implica una deroga al principio della
spendita del nome?
Il presupposto di questa norma è che ci sia una società palese. Quindi l'imputazione della disciplina di
impresa in capo alla società non implica ancora una deroga al principio della spendita del nome,
perchè la società fallisce con il principio della spendita del nome e i soci occulti falliscono in quanto
soci.
Prima del 2006 l'art. 147 si fermava qua, non disciplinava il terzo caso e ci si interrogava se questa
regola poteva essere estesa ad un altro caso, ovvero il terzo caso?

TERZO CASO: in questa ipotesi si ha un fenomeno molto diverso da quello di prima.

Società occulta si ha quando la società non si palesa in quanto tale all’esterno, perché nel compimento
degli atti di impresa non viene speso un nome comune ma il nome di un imprenditore individuale
tanto da far rimanere occulta la società. All'esterno in base al principio della spendita del nome
abbiamo un fenomeno che appare il fenomeno dell’impresa imputata ad una sola impresa che è colui
il cui nome è speso. Dopo la dichiarazione di fallimento dellìimprenditore individuale si scopre che in
realtà nei rapporti interni quel soggetto aveva un legame di tipo societario di una condivisione del
rischio di impresa con altri soggetti, i soci occulti.
MA essendo palesata la figura dell'imprenditore individuale in questo caso diversamente dal primo
rimangono occulti i soci e la società in quanto tale. Quello che appariva un imprenditore individuale in
base al principio della spendita del nome, nei rapporti interni in realtà è un socio con altri soci rimasti
occulti di una società anch'essa rimasta occulta.
Walter Bigiani affermava che fosse possibile estendere analogicamente la regola dettata per il secondo
caso (socio occulto di società palese) anche a quest’ultima ipotesi. Bigiani sosteneva 2 ipotesi:
1. una società con 3 soci di cui 2 palesi e 1 occulto, in questo caso sia il socio palese che il socio occulto
falliscono per estensione se fallisce la società.
2. una società con 2 soci di cui uno occulto e uno palese. Eliminando un socio con una differenza
puramente quantitava dall'ipotesi di socio occulto di società palese si andava a ricadere nella terza
ipotesi della società occulta, perchè se è palese un unico socio appare come un imprenditore
individuale. Non è esteriorizzato il rapporto sociale.

Quindi anche a questo caso viene applicato il medesimo principio dove falliscono anche i soci occulti e
la società occulta, in base a questo primo criterio di applicazione analogica.
Ad oggi c'è una norma esplicita che disciplina questa terza ipotesi, ovvero l'articolo 147 della legge
fallimentare al comma 5.

COMMA 5: chi fallisce è un imprenditore individuale perchè il nome speso non è collettivo ma
individuale, dopo il suo fallimento si scopre che lui è in realtà socio di una società occulta. Allora
fallisce la società occulta e i suoi soci occulti -> passaggio fatto da Bigiavi per analogia.
Il fallimento della società occulta può essere giustificato dal principio della spendita del nome?
Analizzo questa terza ipotesi in base al principio della spendita del nome, se esistesse solo questo
principio dovrebbe fallire l’imprenditore individuale, ma la norma dice che se si scopre che questa
impresa è RIFERIBILE ad una società occulta, allora fallisce anche la società occulta. Questo riferibile
sottende che l'impresa sia imputata in base al criterio del rischio, poiché nel caso della società occulta
ho un'impresa che è formalmente individuale ma nei rapporti interni il rischio è riferibile ad un gruppo
di soggetti ai soci ivi compreso quello che appare individuale, il rischio di impresa è condiviso fra chi
appare all’esterno e chi rimane occulto. Quindi questa norma estende la disciplina fallimentare e
quindi imputa l'impresa ad un soggetto, la società occulta, il cui nome non è speso e il cui unico modo
per risalire dall'attività dell'impresa alla società occulta è imputarla in base al principio del rischio, un
rischio condiviso tra socio palese e soci occulti della società occulta.
Dopo questa disposizione diventa impossibile ritenere che il principio della spendita del nome sia
l'unico criterio di imputazione dell'attività di impresa, altrimenti sarebbe impossibile l'applicazione
della disciplina fallimentare ad una società occulta.

QUARTO CASO
Rimane il quarto caso non ancora disciplinato, ovvero quello dell'imprenditore occulto.
Che differenza c'è rispetto al terzo caso?
Il caso dell’imprenditore occulto e del prestanome è quello in cui appare sempre all’esterno il nome
dell’imprenditore individuale che è speso nel traffico giuridico e questo lo accomuna al caso della
società occulta. Tuttavia c'è una differenza che non riguarda ciò che appare all'esterno, ma come è
strutturato il rapporto interno fra il prestanome e chi sta dietro. Nel terzo caso società occulta il rischio
di impresa è allocato fra tutti ivi compreso quello che appare all'esterno come imprenditore
individuale. Quindi nel caso della società occulta a fronte dell'apparenza all'esterno dell'imprenditore
individuale in base alla spendita del nome, abbiamo in base al criterio di assunzione del rischio
condiviso l'imputazione comune di un rischio di impresa.
Nel quarto caso di imprenditore occulto quello che appare all'esterno come imprenditore individuale
non a caso gli viene dato il nome di PRESTANOME che non si usa nel terzo caso, è legato
all'imprenditore occulto non da un rapporto associativo di condivisione del rischio, ma da un
rapporto unilaterale di mandato, in cui l'imprenditore occulto gli affida una gestione per conto
dell'imprenditore occulto.

TERZO CASO: rapporto societario che implica una condivisione del rischio sia pure occulto
QUARTO CASO: rapporto interno di mandato, in cui il titolare dell'interesse (chi assume il rischio) in
via esclusiva è dell'imprenditore occulto.
Il prestanome gestisce l’attività per conto dell’imprenditore occulto che ha esclusivamente il rischio. Il
prestanome NON è socio.

L’imprenditore occulto affida la gestione per suo interesse al prestanome che la conduce in suo nome.
L’analogia sta che in entrambi i casi abbiamo all’esterno l’imprenditore individuale, la differenza sta
che nel terzo caso abbiamo un rapporto societario ove il rischio è condiviso, mentre nel quarto caso il
rischio è assunto totalmente dall’imprenditore occulto e il rapporto con il prestanome è unilaterale, il
titolare dell'interesse rimane l'imprenditore occulto.
Queste analogie e queste differenze legittimano l'estensione dell'articolo 147 anche al caso
dell'imprenditore occulto? Il 147 dice che con la società illimitatamente irresponsabile falliscono i soci
palesi, i soci occulti, la società occulta.
Vale anche per l'imprenditore occulto?
Esistono i presupposti per l’analogia?
La giurisprudenza si ferma al terzo caso. Non fa fallire l’impresa occulta. Non desume dal fallimento
della società occulta un principio più generale di imputazione dell'attività di impresa perchè non lo
estende al caso dell'imprenditore occulto.
All'esterno appare sempre l'imprenditore individuale, la differenza sta nel fatto che nel caso regolato
c'è allocazione del rischio condivisa mentre nel caso non regolato il rischio sta in capo solo a chi sta
dietro. Ma come diceva anche Bigiavi se fallisce la società occulta in cui il rischio è condiviso da più
soggetti che stanno dietro perchè non dovrebbe fallire anche l'imprenditore occulto che si assume in
via esclusiva il rischio di impresa? Anzi se è stabilito il fallimento della società occulta a maggior
ragione dovrebbe fallire anche quest'ultimo. Il problema non è fondare il fallimento dell'imprenditore
occulto, ma il problema è individuare degli indici e criteri che fungano da limiti per l'applicazione di
questo principio.

Bigiavi: applicazione al socio sovrano → socio di una società di capitale che abusa delle regole
societarie e considera le società come cosa propria.Quindi con una sostanziale confusione tra
patrimonio individuale e patrimonio collettivo. Arrivare al socio sovrano è un approdo eccessivo
difficilmente giustificabile alla luce dimun sistema che prevede la responsabilità limitata nelle società
di capitali.

Altro problema: capire il perimetro di applicazione. Se ho imprenditore occulto e prestanome mi devo


porre un altro problema, perchè estendendo il fallimento all’imprenditore occulto tutelo l’interesse
dei creditori di impresa (del prestanome), nel contempo sacrifico i creditori personali
dell’imprenditore occulto. Tanto più estendo il perimetro di applicazione di questo principio non tutelo
i creditori personali. Questa obiezione in realtà nel sistema è stata superata dal fatto che il sistema
ammette anche società irregolari non registrate nel registro delle imprese ma hanno una certa
autonomia patrimoniale del patrimonio destinato all'attività comune, quindi se si estendo il principio
anche all'imprenditore occulto bisogna porsi il problema dei limiti di questa estensione.
L'imprenditore occulto potrà essere assoggettato a fallimento solo per una porzione delle obbligazione
assunte dal prestanome.

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