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JOHN NORMAN

IL FUORILEGGE DI GOR
(Outlaw Of Gor, 1967)

PREMESSA DELL'AUTORE

Alcune settimane or sono il mio amico Harrison Smith, un giovane av-


vocato di New York, mi ha consegnato un secondo manoscritto vergato
nell'inconfondibile calligrafia di Tarl Cabot. Era suo desiderio che ne cu-
rassi la ristesura e lo consegnassi a un editore perché fosse pubblicato,
così come feci col primo. Questa volta, tuttavia, a causa dell'interesse de-
stato da quello che andò in stampa col titolo Sotto il sole di Gor, (e soprat-
tutto considerate le dispute provocate nell'ambiente scientifico dall'esi-
stenza di un pianeta che, al di là del Sole, orbita celato in perpetuo agli
strumenti astronomici terrestri), ho persuaso Harrison Smith a scrivere di
suo pugno un'introduzione. Ciò allo scopo di chiarire come si sia svolto il
suo ruolo d'intermediario, e per fornire al pubblico notizie diverse su Tarl
Cabot, che io non ho avuto il piacere di conoscere personalmente.

John Norman

Capitolo 1
UN'INTRODUZIONE DI HARRISON SMITH

Incontrai per la prima volta Tarl Cabot in un piccolo e liberale college


del New Hampshire, dove entrambi eravamo stati assunti come insegnanti
all'inizio della carriera. Cabot teneva un corso di Storia Inglese, ed io, che
avevo deciso di lavorare un paio d'anni onde mettere da parte qualche sol-
do per proseguire i miei studi in legge, avevo accettato d'impiegarmi come
istruttore d'educazione fisica. Possedevo un diploma in questa materia, che
considero tuttora il mio hobby, ma con gran rincrescimento non fui mai
capace di convincere Tarl Cabot a seguire i corsi di ginnastica, né a prati-
care qualche sport insieme a me.
In quell'ambiente tranquillo l'atmosfera era però favorevole al nascere
d'una buona amicizia, e sebbene non ci frequentassimo spesso, i nostri
rapporti si stabilizzarono in un legame di viva simpatia. Lo ricordo come
un giovanotto inglese d'aspetto gentile, pacato di modi e sempre cordiale
con tutti, sebbene talvolta sembrasse distaccato e remoto. Nelle riunioni e
ai cocktail party del corpo insegnante aveva l'aria di sopportare con fatica
il peso della sua educazione di uomo civilizzato, e s'intuiva in lui un animo
libero e selvaggio, una natura fatta per il vento delle montagne impervie ed
i grandi spazi sconfinati delle pianure.
Cabot era piuttosto alto, fisicamente assai solido, con movenze di un'agi-
lità felina sotto la quale si leggeva la circospetta cautela di chi ha dovuto
vivere nei bassifondi, un atteggiamento questo maturato in lui nell'infanzia
trascorsa attorno ai moli di Bristol, sua città natale. Per contro, quando
discorreva coi colleghi o con le loro mogli, emergeva in lui la patina sofi-
sticata del laureato di Oxford, la scuola dove aveva terminato gli studi
prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Aveva occhi chiari, d'un colore verde
azzurro, che gli conferivano uno sguardo diretto e franco, ciò malgrado
disponeva d'una personalità complessa e difficile da definirsi. La sua
chioma d'un rosso carota era sempre un po' spettinata, cosa che destava la
tenerezza delle donne e lo rendeva simpatico ai giovani. Dubito che posse-
desse un pettine, e comunque sembrava soddisfatto dei risultati che ottene-
va ravviandosi i capelli con un gesto distratto della mano. A parte questa
sua piccola trascuratezza lo si stimava un gentiluomo perfettamente educa-
to, e godeva del favore generale.
Non fu dunque scarso il disappunto, sia per me che per l'intero college,
quando un bel giorno scomparve senza preavviso al termine del primo se-
mestre, lasciando tutti nella più completa perplessità ed all'oscuro del suo
destino. Nonostante la sua assenza restasse inspiegabile, non dubitai che
fosse stata provocata da eventi al di fuori della sua volontà, perché Cabot
non era di mentalità leggera e sapeva tener fede ai suoi impegni.
Alla fine degli scrutini di quel semestre, come gli altri colleghi, si prese
alcuni giorni di vacanza decidendo di trascorrerli lontano dalla routine del
college. Stabilì quindi di fare un po' di campeggio, da solo, nelle vicine
White Mountains, che a Febbraio erano splendidamente ammantate di ne-
ve ed offrivano la possibilità di piacevoli escursioni sui pendii boscosi.
A questo scopo gli prestai una parte del mio equipaggiamento da campo,
e poi l'accompagnai fino a una radura sotto i versanti, un po' per fargli da
guida e un po' per sgranchirmi le gambe io stesso. Qui giunti egli mi pro-
pose di tornare ad attenderlo da lì a tre giorni e, nel prefissare l'ora e il luo-
go dell'appuntamento, sono certo che aveva la ferma intenzione d'essere
puntuale. Però, allorché mi recai di nuovo là per incontrarlo, non potei far
altro che constatare la sua assenza. Lo attesi per un paio d'ore, ne cercai le
tracce sulla neve, ed infine l'approssimarsi del tramonto mi costrinse a ri-
entrare al college. Il giorno successivo mi rimisi in strada con tre colleghi,
anch'essi preoccupati e decisi ad esplorare la zona, ma non ci fu verso di
capire neppure quale direzione Tarl Cabot avesse preso sulle alture. Notifi-
cammo quindi la cosa alle autorità e, quel pomeriggio stesso, fu iniziata
una battuta su vasta scala, con l'ausilio di cani ed elicotteri.
A sera trovammo quelli che dovevano essere i resti del suo fuoco da
campo, presso una larga spianata di roccia assai distante dai sentieri più
agevoli. Da lì la ricerca s'allargò a ventaglio ma non fu possibile reperire
nessun altro elemento utile, e il giovanotto venne dato per disperso. Solo
molti mesi più tardi, in una lettera inaspettata e troppo sintetica, egli ci
fece sapere che aveva abbandonato la zona per un'altra strada, vivo e vege-
to benché sotto shock ed in preda a una completa amnesia.
Comunque non tornò al suo lavoro al college, e ricordo che alcuni inse-
gnanti anziani spiegarono la cosa dicendo che a parere loro quel giovanotto
si era sempre sentito fuori posto nella routine scolastica. A quel punto vari
fattori mi avevano convinto che neppure io ero adatto alla vita del college,
e diedi le dimissioni. Avevo ricevuto per posta un assegno firmato da Tarl
Cabot, col quale egli diceva di rifondermi per la perdita dell'equipaggia-
mento da campo, e ciò almeno mi fece capire che il giovanotto aveva
smarrito quegli attrezzi da qualche parte. Questo era conforme alla sua
onestà, ma avrei preferito che si fosse fatto vivo prima per rassicurarmi
sulle sue condizioni fisiche, dato che ero stato non poco in ansia.
Nella breve e tardiva lettera che spedì alla direzione del college, parlava
di amnesia traumatica e faceva le sue scuse, però questa versione mi parve
troppo semplicistica e non mi convinse. Come aveva vissuto durante quei
mesi? Cos'aveva fatto? In quale ospedale o città era stato curato?
Ma il tempo trascorse e, comprensibilmente, quegli interrogativi finirono
per sfumare nella mia memoria. Soltanto a distanza di sette anni dai giorni
in cui avevamo insegnato insieme al college ero destinato a incontrare di
nuovo Tarl Cabot, e questo accadde per caso in una strada di Manhattan.
Varie ragioni, e soprattutto la necessità di lavorare, mi avevano costretto a
ritardare il conseguimento della laurea, ed in quel periodo stavo preparan-
do gli ultimi esami all'Università di New York.
Tarl era cambiato pochissimo, all'apparenza, e vedermelo davanti fu un
colpo. Ci scambiammo strette di mano e pacche sulle spalle, e fu in quel
modo che m'accorsi, con la mia esperienza d'istruttore di educazione fisica,
che il giovanotto s'era fatto eccezionalmente robusto e muscoloso. La forza
delle sue braccia mi sorprese, e sotto la giacca sembrava avere spalle da
atleta. Ma subito mi resi conto che in lui c'era qualcosa di strano, oserei
dire di selvaggio, quasi che le sue sembianze d'uomo civile fossero una
patina sotto cui nascondeva istinti ferini. Cosa ne era stato del gentile e
innocuo ragazzone inglese? Quali esperienze lo avevano mutato in un pre-
datore nei cui occhi si leggeva l'allegria ma anche la capacità di procurare
la morte con micidiale efficienza? Il suo sorriso era tuttavia vivacissimo e
piacevole.
«Harrison!», esclamò. «Per la coda di Satana... Harrison Smith! Come
va, vecchio mio?»
Ci fissammo compiaciuti, continuando a stringerci le mani.
«Beviamo un goccio,» proposi, rimorchiandolo in un vicino locale. Non
intendevo lasciarmelo scappar via.
Così, in un minuscolo bar di Manhattan, poco più che un corridoio stret-
to fra la parete e il bancone, Tarl Cabot ed io rinnovammo la nostra amici-
zia. Ci attardammo su dozzine di argomenti diversi, ma non sfiorammo
mai quello che m'incuriosiva di più: il motivo per cui non mi aveva man-
dato il suo indirizzo, e ciò che gli era successo sulle White Mountains.
Quella volta ci separammo sul far della sera, ma con la promessa di ri-
vederci l'indomani. Ed in seguito continuammo a frequentarci regolarmen-
te per alcuni mesi. Avevo la netta impressione che in quel solitario giova-
notto vi fosse il bisogno di solidi rapporti umani, la rude e cameratesca
necessità di scambiar quattro chiacchiere franche con un buon amico, e ciò
era un elemento nuovo del suo carattere. Fui quindi sorpreso quando mi
confessò che ero il suo solo conoscente, e che non gradiva farsi altre com-
pagnie.
Sapevo che prima o poi lui stesso mi avrebbe raccontato le peripezie se-
guite all'episodio di sette anni avanti, e non gli misi fretta con domande o
allusioni preferendo che fosse lui a scegliere il momento. Non volevo in-
tromettermi nei suoi affari personali né ficcare il naso nei suoi segreti, se
pure ne aveva, e mi bastava averlo ritrovato come amico. Certo ero mera-
vigliato dal suo silenzio in proposito, perché al suo posto chiunque avrebbe
lasciato andar lì degli accenni o rivangato qualche ricordo, ma infine m'ac-
corsi che poneva grande attenzione a dirottare la conversazione quando
essa minacciava di sfiorare l'argomento. Pensai che gli riuscisse doloroso
rivangare quei mesi di assenza, e invece ero fuori strada: come compresi in
seguito, la sua reticenza era dovuta alla paura che, se mi avesse raccontato
la verità, lo avrei creduto pazzo.
Poi una notte verso le due, nel Febbraio successivo, ci trovavamo in un
tranquillo bar della Terza Avenue quando notai che Tarl beveva molto
distrattamente. I suoi occhi erano fissi sulla strada oltre la vetrina appanna-
ta, dove stava scendendo una neve leggera e sorprendentemente pulita. Nel
poggiarsi sull'asfalto essa si tingeva dei riflessi rosati dei neon, e lo sguar-
do del mio compagno sembrava scivolarvi sopra per smarrirsi altrove e
lontano, come all'inseguimento di un sogno. Ricordai che proprio in quella
stagione dell'anno, e con la neve, era scomparso dal college.
«Ti accompagno a casa, amico?» dissi a bassa voce.
Tarl non si volse neppure. Aveva mandato giù quattro bicchierini di
whisky e, non essendo un bevitore, questo lo aveva stordito, procurandogli
una specie di sbornia triste. Non lo avevo mai visto tanto scuro in faccia.
«Lei non può dimenticarmi, lo so...», mormorò fra sé.
«Lei chi?», domandai.
Scosse la testa, continuando a guardare la neve.
«È tardi,» dissi. «Meglio rientrare. D'accordo? Vuota il bicchiere e an-
diamo a casa.»
«A casa? E dov'è la mia casa?» Con un gesto rabbioso ingoiò il whisky
che gli restava.
«A due isolati da qui, giusto dov'era quando ne sei uscito oggi pomerig-
gio.»
Il mio tentativo di scherzare era un po' isterico, perché sentivo che in
quel momento Tarl Cabot mi considerava un estraneo, qualcuno che s'in-
terponeva fra lui ed i suoi pensieri. Gli misi una mano su un braccio, ma
lui la scosse via scontrosamente.
«Sì, è tardi,» borbottò, come se intendesse un concetto molto diverso
dall'ora che segnava l'orologio. «Forse troppo tardi. E mi domando quanto
tempo ancora...» La sua voce s'interruppe di botto.
M'appoggiai indietro allo schienale. Se desiderava confidarsi con me,
bene. Se no, dopotutto erano affari suoi. Il suo silenzio si prolungò. Nel
bar c'erano solo due avventori, che parlavano in un angolo a voce bassa, e
il gestore stava studiando una nuova macchina da caffè. Il sottofondo di
musica era stato ridotto al minimo e poi spento.
Tarl ordinò con un cenno un altro whisky e tenne per un poco il bicchie-
re davanti agli occhi, fissandolo in trasparenza. Poi, con un gesto assai
cerimonioso ne versò qualche goccia sul bancone. Vederlo fare così non
mi piacque ma, senza badarmi, lui pronunciò alcune parole in una lingua
incomprensibile.
«Che vuol dire?», domandai.
«Ta-Sardar-Gor... È un brindisi. Un'offerta ai Re Sacerdoti di Gor.»
Bevve il liquore, si alzò in piedi, e per un istante apparve rigido e teso
come se una corrente elettrica gli percorresse a scatti le gambe. Poi scara-
ventò il bicchiere contro lo scaffale di vetro dei liquori.
«Ta-Sardar-Gor!», esclamò, selvaggiamente.
Lo spicinio dei cocci che grandinavano a terra fece fare un balzo al bari-
sta, che afferrò un coltello da sotto il banco e lo sollevò davanti al petto.
Era pallido per lo spavento, ma Tarl aveva una faccia che avrebbe fatto
indietreggiare chiunque.
«Andatevene!... Fuori dal mio locale, o chiamo la polizia!» ansimò
l'uomo.
Tarl s'appoggiò al bancone. «Vermiciattolo, hai estratto un'arma contro
di me? Il codice della mia Casta mi consente di ucciderti!» sibilò.
Prima che il barista potesse fare un gesto Tarl l'agguantò per la cintura, e
con l'altra mano gli strappò il coltello dalle dita. La cintura si spaccò, ed io
mi accorsi che, prima d'esser salvato da quel provvidenziale cedimento il
barista era stato sollevato di quasi mezzo metro dalla pedana, pur pesante
com'era.
Presi per le spalle il mio amico e lo tirai indietro a forza, supplicandolo
di star calmo.
«È soltanto ubriaco. Non vi allarmate: ce ne andiamo subito,» dissi più a
lui che al gestore.
Il mio intervento sembrò far rinsavire Tarl, che tornò in sé e si rese conto
dei danni provocati.
«Ehi, amico, mi spiace!» Si tolse di tasca due biglietti da cento dollari e
li mise sul banco. «Sul serio, mi spiace. Spero che questi bastino.»
L'espressione del barista ci comunicò che i soldi bastavano, a patto che
prendessimo la porta e andassimo a terrorizzare qualcun altro. Tenendo
Tarl per le spalle lo indirizzai fuori. Sulla strada faceva freddo e la neve
crocchiava sotto le scarpe. Tarl si fermò sotto un lampione ad abbottonarsi
il soprabito, quindi girò lo sguardo sui grattacieli della Terza Avenue e le
rare auto come se vedesse solo spazzatura e marciume.
«Questa è una città viva e grande, Harrison,» disse. «Eppure nessuno la
ama. Quanta gente c'è che si sacrificherebbe per difenderne i confini e la
libertà del vicino di casa? Quanti sarebbero disposti a farsi torturare per
lei?»
«Non esagerare. Dopo il quinto whisky, sono certo che qualcuno si fa-
rebbe avanti,» cercai di scherzare.
«Nessuno sa cosa vuol dire amare la propria città,» continuò lui. «E que-
sta non ha un'anima. Altrimenti non sarebbe così sporca e piena di lerci
individui, una fogna dove chi sputa sul suo onore viene ancor più rispetta-
to.»
S'incamminò sul marciapiede ed io gli tenni dietro. Intuivo che quella
era la volta in cui si sarebbe vuotato dei tormenti che aveva dentro.
«Ho bisogno di un maledetto caffè, Harrison. E tu anche. Vieni su da
me?», brontolò.
Parve contento quando accettai. Nel suo piccolo appartamento mi gettai
su una poltrona ed attesi che scaldasse una cuccuma di caffè. Ce ne be-
vemmo un paio di tazzine, poi Tarl andò in camera da letto e ne tornò fuori
con una risma di fogli in parte battuti a macchina ed in parte scritti a mano.
Me li consegnò senza dir verbo. Era un vero e proprio resoconto, per quan-
to organizzato un po' come un romanzo, nel quale si narrava la storia d'un
guerriero, di una lotta fra antiche città, di fatti insoliti e sanguinosi e del-
l'amore di una ragazza. Il manoscritto era quello che in seguito venne dato
alle stampe con il titolo Sotto il sole di Gor.
Tre ore più tardi, prima dell'alba, avevo terminato di leggerlo. Tarl Ca-
bot era sempre seduto immobile come una statua davanti alla finestra, con
una mano sotto il mento e gli occhi perduti all'esterno, assorto in pensieri
che potevo immaginare solo vagamente.
Si volse a studiare la mia espressione. «È tutto vero. Ma sei anche pa-
drone di non crederci, se vuoi. Potrei capirti benissimo.»
Non seppi cosa rispondergli. Ciò che avevo letto era a mio avviso un pu-
ro parto di fantasia e, d'altra parte, Tarl Cabot era uno degli uomini più
onesti che avessi mai conosciuto.
Fissai l'anello che aveva al dito. In precedenza l'avevo visto dozzine di
volte, ma senza mai farci troppo caso: era lo stesso che veniva menzionato
nel manoscritto, quello con la «C» dei Cabot.
Lui me lo mostrò meglio. «Sì, è proprio l'anello di mio padre.»
«Perché hai deciso di farmi leggere questa roba?»
«Semplicemente perché volevo che qualcuno sapesse di Gor e di ciò che
succede là.»
Mi alzai in piedi. All'improvviso sentivo il peso della notte in bianco e
delle libagioni della sera prima. Ero stanco morto.
«D'accordo. Adesso credo che me andrò a casa.»
Lui mi scortò fino alla porta e, quando ebbi il soprabito addosso, mi
strinse la mano con forza.
«Harrison, tu sei un amico. Un vero amico», affermò senza lasciarmela.
«Dimostramelo domani, pagando tu da bere. Ci vediamo dopo cena?»
«Domani a quell'ora sarò dalle parti delle White Mountains,» dichiarò,
serio in viso.
La notizia mi lasciò ammutolito per venti secondi buoni, durante i quali
gli lessi negli occhi ciò che sperava accadesse laggiù ed i motivi per cui
voleva andarci.
«Tarl, rifletti. Non farlo.»
«Devo. E ora tu sai perché.»
«Allora vengo anch'io. Ti accompagnerò per un pezzo di strada.»
Scosse il capo. «L'hai già fatto una volta, e anche stavolta io potrei non
tornare indietro... forse mai più.»
Gli strinsi ancora la mano, a disagio. Avevo il presentimento che quella
separazione fosse definitiva. Le nostre dita parevano riluttanti a lasciarsi.
Avevamo significato qualcosa l'uno per l'altro, ed entrambi sapevamo
quant'è preziosa la compagnia di un amico sincero.
Prima che me ne accorgessi ero lungo le scale, un po' stordito, faticando
a convincermi che ci eravamo detti addio. Mi avviai a piedi verso casa, ma
invece d'entrarvi proseguii e vagai intorno al Central Park per un paio d'o-
re, lentamente, ripensando alla storia che avevo letto. Infine presi una deci-
sione e tornai in fretta al suo appartamento: avevo il dovere di non abban-
donarlo, di fare tutto quel che potevo per aiutarlo, qualunque cosa si pro-
ponesse, e questo perché io ero il suo solo amico. Suonai e bussai ripetu-
tamente alla porta, ansimando, ma non ebbi risposta. Allora girai la mani-
glia e m'accorsi che il battente non era chiuso a chiave. Appena entrato
dovetti constatare che Tarl Cabot se n'era andato.
Sul tavolino del soggiorno era deposte due lettere indirizzate all'ammini-
stratore dello stabile, e presso i plichi c'era un pacco postale con le istru-
zioni per spedirlo al mio recapito. Conteneva una scatola col manoscritto
Sotto il sole di Gor, di cui in seguito curai la pubblicazione insieme a John
Norman.
Nelle settimane seguenti terminai gli esami all'Università e fui totalmen-
te assorbito dagli impegni più diversi. Mi iscrissi all'Albo degli Avvocati
di New York e cercai lavoro, riuscendo a farmi assumere da un grande
studio legale. La paga era scarsa e il lavoro molto, ma sapevo di dovermi
fare le ossa, prima d'intraprendere la professione in proprio con qualche
possibilità di successo. L'impiego mi occupò a tal punto che i mesi trascor-
sero senza che avessi modo di pensare troppo a Tarl Cabot, o di sentirne la
mancanza. C'è poco da dire su quel che accadde poi, salvo che non rividi
mai più il giovanotto, né ricevetti da lui lettere o messaggi indicanti che
almeno fosse vivo. Soltanto una sorta di vaga telepatia, come quella che
può legarci alle persone care, mi diceva che Tarl era sempre sano e vegeto,
dovunque fosse finito.
Un giorno, molti mesi più tardi, tornai a casa esausto dopo una lunghis-
sima udienza in tribunale e vidi con stupore che qualcuno mi aveva lascia-
to un pacco in salotto. Le porte e le finestre erano chiuse e non recavano
traccia di scasso, eppure qualcuno era misteriosamente riuscito ad entrare
per consegnarmi una seconda risma di fogli, scritti a mano in quella grafia
nitida che ormai ben conoscevo. Non erano accompagnati da alcun bigliet-
to o nota.
Forse dunque, come Tarl Cabot ha accennato nel primo volume da lui
scritto, gli agenti dei Re Sacerdoti di Gor s'aggirano davvero fra noi, qui
sulla Terra.

Harrison Smith

Capitolo 2
RITORNO A GOR

Per la seconda volta nella mia vita, a distanza di sette anni e quando or-
mai la mia speranza cominciava a vacillare, io, Tarl Cabot, respiravo di
nuovo l'aria odorosa delle grandi pianure di Gor.
Mi risvegliai pian piano, nudo come un bambino appena nato, disteso
nell'erba alta che ondeggiava al vento, e fu l'olfatto prima ancora della vi-
sta a dirmi che mi trovavo sul verde pianeta chiamato talvolta dai suoi abi-
tanti la Seconda Terra. Quegli aromi intensi erano stampati nella mia me-
moria, dolci e familiari come l'odore di casa, e mi fecero trasalire per l'e-
mozione.
Mi rialzai a fatica, tremando verga a verga e, sebbene ogni fibra del mio
corpo fosse rigida per le settimane di sonno e d'immobilità, mi sentii vivo,
aspirai il vento per cacciarmelo a fondo nei polmoni, spalancai gli occhi
verso il cielo verde azzurro e lo sguardo mi si velò di lacrime. Ero tornato.
Non sapevo di preciso quanto tempo fosse trascorso dalla notte in cui il
disco argenteo mandato dai Re Sacerdoti era atterrato sulle White Moun-
tains, nello stesso punto dove già una volta mi aveva prelevato. Ricordavo
d'esservi entrato come in sogno, chiedendomi quale strano potere telepati-
co m'avesse condotto ancora a quell'appuntamento, già conscio di quel che
m'aspettava, e non m'ero affatto stupito allorché nell'oltrepassare la soglia
dell'astronave avevo perso i sensi. In stato d'incoscienza avevo poi com-
piuto la trasvolata fino al pianeta che orbitava al di là del Sole, quel mondo
che i Re Sacerdoti tenevano celato in perpetuo agli strumenti degli astro-
nomi terrestri.
Per i primi minuti non fui capace di fare alcun movimento. Mi limitai a
lasciare che i miei captassero con meraviglia la realtà circostante, rilassan-
domi grado per grado.
Ero consapevole della gravità leggermente inferiore, una sensazione a
cui sapevo mi sarei adattato ben presto fino a non farci più caso. E ram-
mentavo che la minor forza di gravità mi aveva dato in passato un lieve
vantaggio sui Goreani, rendendomi capace di prestazioni fisiche superiori.
Il Sole, giusto come avevo spesso notato, appariva un po' più grande che
se osservato dalla Terra ma, essendo impossibile fissarlo direttamente, tale
scarsa differenza non si vedeva molto.
Non distanti da me, scorsi delle chiazze di fogliame giallo, alberi di Ka-
la-na assai comuni su Gor, mentre sulla sinistra avevo un bellissimo cam-
po di Sa-Tarna, il cereale simile al grano che era la base della dieta norma-
le. A destra, molto lontani, si levavano i contrafforti azzurrini d'una catena
montuosa e, dalla loro estensione e dall'altezza, mi parve di riconoscerle
come le Montagne di Thentis. Se così era, dirigendomi dalla parte opposta
avrei avvistato in pochi giorni di cammino Ko-ro-ba, la città dalle torri
cilindriche in cui anni addietro avevo ricevuto le mie armi da guerriero.
Mi asciugai gli occhi e levai le braccia al cielo, volgendomi a occidente
per ringraziare i Re Sacerdoti. Ero loro grato per avermi riportato a casa.
Li benedicevo come fino a quel momento li avevo maledetti, da quando
m'avevano strappato via dai miei amici, dalla mia città, da mio padre, e
dalla deliziosa Talena che tanto mi aveva amato. Talena, la bruna ed orgo-
gliosa figlia di Marlenus il Tiranno. Talena, selvaggia e dolce, tenera e
feroce, che io avevo rapito volando sul dorso di Horus, il mio grifone nero,
e fatta mia sposa con la forza e con l'amore.
Ma dentro di me non c'era nessun affetto per i Re Sacerdoti, quei miste-
riosi ed incomprensibili esseri che abitavano nel cuore inaccessibile delle
Montagne di Sardar. Li rispettavo, avevo conosciuto il loro potere, ero
lieto che mi avessero riportato su Gor, tuttavia i loro scopi restavano oc-
culti ed indecifrabili per me come per chiunque altro.
Se ora si erano sprecati a mandare una delle loro astronavi a prelevarmi,
nel cosiddetto Viaggio dell'Acquisto, potevo scommettere che non si trat-
tava d'un atto di giustizia o di carità. Di me e di Talena ad essi non impor-
tava nulla. Isolati nell'Inviolabile, il luogo che mai occhi di mortale aveva-
no visto, separati dal resto del pianeta dalle impervie Montagne di Sardar, i
Re Sacerdoti non si occupavano molto delle faccende umane. Ma sapevano
sempre ciò che accadeva su Gor, e spesso agivano per introdurre modifi-
che nelle strutture sociali benché costringessero l'economia a restare ad un
livello rozzo e primitivo.
La Morte di Fuoco, la fiamma azzurra che scaturiva dal nulla a bruciare
chi li contrariava, era il solo mezzo che adoperavano per punire. Non li si
poteva definire crudeli né pietosi, non erano mossi da desideri o passioni
umane, e adoperavano i mortali come strumenti per raggiungere chissà
quale fine lontano ed imperscrutabile. C'era chi diceva che gli uomini fos-
sero per loro solo delle pedine su una scacchiera planetaria, e che li spo-
stassero a piacimento, togliendoli dal gioco oppure rimettendoveli, e que-
sto era appunto accaduto a me: anni addietro ero stato inserito nella partita
per distruggere un Impero e le ambizioni di un Tiranno, e quindi tolto di
mezzo come un oggetto senz'anima. Ma ora quelle incredibili entità mi
avevano deposto una seconda volta sulla scacchiera. Perché? Non lo sape-
vo.
Abbassai gli occhi, e notai che a pochi passi da me giacevano nell'erba
un elmetto, uno scudo, una lancia ed una grossa borsa di cuoio floscio. Mi
chinai ad esaminare quegli oggetti.
L'elmo era in bronzo, di stile simile a quello greco antico, chiuso anche
sulla faccia a parte una fessura ad Y, e non recava alcuno stemma di fami-
glia o di città. Lo scudo rotondo, in cuoio martellato ed inchiodato su un
orlo metallico, appariva ugualmente anonimo. Di norma le armi dei guer-
rieri goreani portavano in bella mostra i colori ed il simbolo della città cui
appartenevano, e se queste erano state messe lì per me, come sembrava,
allora avrebbero dovuto recare lo stemma di Ko-ro-ba. Ma così non era.
La lancia di tipica fattura goreana, lunga due metri e mezzo, aveva una
punta in bronzo affilato lunga trenta centimetri. Si trattava di un'arma soli-
da e micidiale nei combattimenti ravvicinati, e capace - se ben scagliata -
di sfondare uno scudo o conficcarsi per un palmo nel legno più duro. Con
lance di questo genere, alcuni gruppi di uomini osavano recarsi nella Cate-
na del Voltaj per cacciare il larl, l'enorme pantera carnivora grossa il dop-
pio d'un cavallo.
I Goreani disponevano di altre armi da lancio, come gli archi e le sofisti-
cate balestre, ma in genere i guerrieri preferivano la lancia e la spada, rite-
nendole più onorevoli in quanto consentivano il duello faccia a faccia con
l'avversario. Io però sarei stato lieto se avessi trovato lì almeno un buon
arco con le frecce. Nel mio precedente soggiorno su Gor ero divenuto abile
nel tiro al bersaglio, ed anche se ciò aveva scandalizzato il mio Maestro
d'Armi, ritenevo l'arco un accessorio indispensabile.
Ricordavo ancora con molto affetto Tarl il Vecchio. Tarl era un nome
assai comune su Gor, e quel poderoso individuo dalla bionda barba da vi-
chingo, taciturno e rude, aveva saputo fare di me un buon combattente
nelle settimane in cui mi ero addestrato sotto la sua guida. Quando ero
stato ammesso alla Casta dei Guerrieri, ci eravamo sbronzati insieme nelle
taverne e nelle case di piacere di Ko-ro-ba.
Aprii la borsa di cuoio e vi trovai una tunichetta rossa, i sandali ed il
mantello pure rosso che costituivano l'abbigliamento tipico dei guerrieri.
Avevo ricevuto per la prima volta indumenti simili dalle mani di mio pa-
dre, Matthew Cabot, l'Amministratore della città, nel corso della cerimonia
pubblica in cui egli m'aveva fatto prestare giuramento alla Pietra della Ca-
sa di Ko-ro-ba, nella Camera del Consiglio delle Caste Alte. Dunque pote-
vo indossarli a buon diritto.
Per il goreano comune, sebbene egli non parli spesso di questi argomen-
ti, la città in cui è nato è qualcosa di più che pietra e marmo, torri cilindri-
che e ponti, o un luogo geografico dove si svolge la vita civile. La mentali-
tà popolare considera la città un'entità superumana della quale si fa parte, e
che compenetra ogni cellula del corpo ed ogni pensiero. Ciascuna città ha
infatti la sua cultura, tradizioni, carattere, intenzioni e scopi storici, in-
somma una vera e propria personalità, cosicché vi è l'uso, quando si viag-
gia altrove, di presentarsi anche col nome della propria città, il quale iden-
tifica ancor meglio l'individuo e ne rivela lo spirito.
Di solito i Goreani, a parte forse coloro che fanno parte della Casta degli
Adepti, non credono nell'immortalità. Ma definendo se stessi uomini di Ar,
o uomini di Thentis, oppure uomini di Ko-ro-ba, esprimono la consapevo-
lezza d'esser parte di qualcosa d'immortale e imperituro. Ovviamente le
città non sono eterne, in quanto possono venir distrutte e cancellate come
può esserlo un uomo; ciò fa sì che i loro abitanti le amino ancor di più e si
battano per farle vivere, allo stesso modo in cui chiunque lotterebbe per la
salvezza dei suoi familiari.
L'amore della città si trasfonde in quello per la Pietra della Casa, che
viene tenuta sulla cima della torre più alta e onorata nel corso di numerose
cerimonie di diverso genere o festività. La Pietra della Casa è una via di
mezzo fra un simbolo ed un gioiello sacro, unico ed insostituibile. Ve ne
sono di piccole e rozze, di grandi ed artisticamente scolpite, di marmo, di
granito scabro o di minerale semiprezioso, ma tutte vengono tenute come
se valessero più dell'oro e del sangue dei cittadini stessi. La vita di un uo-
mo è legata alla Pietra della Casa della sua città, e così ne dipendono il suo
onore e il suo destino: finché la Pietra è salva e intatta, anche la città so-
pravvive. Quando essa viene rubata o distrutta, allora la comunità piomba
in un baratro di vergogna e la distruzione incombe su tutto.
Non solo le grandi città delle torri hanno la loro Pietra: anche i villaggi,
perfino il più lurido agglomerato di baracche o tende sbattute dal vento la
possiedono, sia essa un pezzo di roccia religiosamente custodita su un alta-
rino, sia una bella pietruzza ornata che un capo nomade depone al suolo là
dove fa accampare la propria tribù.
La mia Pietra della Casa era quella di Ko-ro-ba, sulla quale sette anni
addietro avevo giurato fedeltà eterna ricevendo le mie armi di guerriero.
Ciò che ora dovevo fare era di tornare ad essa, e mettermi al suo servizio
com'era mio indiscutibile dovere.
Nella borsa, sotto la tunica ed i calzari, trovai una robusta spada a due
tagli nel fodero, con annesso cinturone-tracolla. Snudai la lama e, d'un
tratto, il fiato mi si mozzò nel riconoscerla: era senza alcun dubbio la mia,
quella con cui avevo iniziato la carriera di guerriero, e mentre l'impugnatu-
ra mi si adattava alla mano, un brivido mi percorse la schiena. Era stranis-
simo sentirla nuovamente in pugno, così familiare al contatto, che quegli
anni sembrarono non essere mai trascorsi. Tremai per la commozione im-
provvisa.
Era la stessa lama micidiale con cui mi ero aperto la strada nella mischia
e nel sangue, con cui avevo conquistato centimetro per centimetro la gran-
de torre centrale della città di Ar, quando avevo combattuto contro il Ti-
ranno Marlenus che voleva creare un Impero. Era l'arma che aveva fatto
scintille contro la più terribile spada del pianeta, quella di Pakur, allorché
sulla cima della Torre Bianca avevo strappato Talena alle grinfie del capo
della Casta degli Assassini, quel giorno in cui ne avevo abbattuto il potere
e le ambizioni. Il suo taglio affilato mi aveva guadagnato rispetto e onore,
e come nessun'altra si era avventata contro tanti nemici e tante città. Ades-
so la tenevo nella mia mano quasi con spavento: intuivo che se i Re Sacer-
doti me l'avevano ridata doveva esserci un motivo ben preciso. Ma quale?
Due delle cose che avevo maggiormente sperato di trovare in fondo alla
borsa non c'erano, e trassi un sospiro. Per un attimo m'ero illuso che mi
fossero stati consegnati anche lo sprone per grifoni ed il fischietto da ri-
chiamo. Lo sprone era un tubo metallico con impugnatura isolante lungo
una quarantina di centimetri, che emetteva una scarica d'energia con la
quale era possibile dominare le reazioni nervose del grifone, il gigantesco
uccello da sella usato su Gor. Ogni grifone veniva addestrato ad ubbidire
allo sprone, e ne temeva la violenta scossa. Il fischietto era invece una se-
gnale da richiamo, la cui nota particolare e caratteristica veniva anch'essa
impressa nel cervello del grifone fin dalla nascita, cosicché il rapace potes-
se subito riconoscerla fra migliaia d'altre ed accorrere agli ordini del pa-
drone. Dell'addestramento dei volatili si occupava la Casta degli Allevatori
e, quando un guerriero riceveva in consegna il suo grifone a ciò s'accom-
pagnava il fischietto. L'oggetto veniva custodito con speciale cura perché,
se fosse caduto nelle mani d'un nemico, costui avrebbe potuto usarlo per
giocare brutti scherzi al grifoniere ed alla sua cavalcatura alata. Mi chiesi
dove fosse finito Horus, il mio ferocissimo e possente grifone da guerra, e
se fosse ancor vivo dopo tutto quel tempo.
Con quei pensieri e ricordi nella mente, mi vestii. Ero disturbato dal fat-
to che elmo e scudo non recassero stemmi, perché la cosa andava contro le
migliori consuetudini di Gor: soltanto i fuorilegge e gli sbandati, gli esiliati
e ovviamente gli schiavi non esibivano il simbolo della propria città, come
ogni altro goreano delle Alte Caste era orgoglioso di fare.
M'infilai l'elmetto, misi obliquamente a tracolla il cinturone sisteman-
domi la spada con l'impugnatura dietro la spalla sinistra, fissai lo scudo
all'avambraccio e regolai le cinghie perché stesse saldo. Osservai l'altezza
del sole ed essa mi diede la direzione: a nord ovest, allontanandomi dalla
catena di montagne, avrei trovato prima o poi una strada per Ko-ro-ba.
Cominciai a camminare con passo svelto, sentendomi leggero e pieno di
vitalità. Ero felice. Quella era casa mia, e nella città a cui avevo giurato
fedeltà avrei trovato la ragazza che mi portavo negli occhi e nel cuore da
sette anni: la mia sposa. Ero certo del suo amore come dell'aria che respi-
ravo, e agognavo di stringerla fra le braccia. Nulla e nessuno mi avrebbe
impedito di riavere la splendida Talena, per cui ero stato il primo e il solo
uomo, e che sapeva bruciare d'odio mortale come d'amore appassionato.
Laggiù avrei rivisto mio padre, che era venuto anch'egli su Gor col Viag-
gio dell'Acquisto vent'anni prima di me guadagnandosi la più alta carica
della città. E avrei trovato i miei compagni d'arme, i grifonieri con cui m'e-
ro ubriacato ed al cui fianco avevo combattuto. Fra tutti loro ero impazien-
te d'incontrare più d'ogni altro Torm, lo scettico e gentile membro della
Casta degli Scrivani, con la sua tunica blu rammendata e gualcita, intelli-
gentissimo e distratto fino all'eccesso, la cui amicizia mi aveva scaldato il
cuore. Sentivo l'odore di casa come un cavallo che torna alla stalla, e que-
sto mi riempiva d'energia.
Dentro di me avevo ripreso a pensare in lingua goreana, d'istinto, dimen-
ticando l'inglese non più che se lo considerassi già una lingua morta. Da li
a poco stavo marciando al ritmo d'una canzoncina militaresca, attraversan-
do le sterpaglie ed i campi di Sa-Tarna con andatura baldanzosa. Ero fi-
nalmente ritornato su Gor.

Capitolo 3
ZOSK

Stavo procedendo da alcune ore su un terreno irregolare allorché, con


mia gran soddisfazione, scopersi una delle strette e poco frequentate strade
che si stendono fra una città e l'altra. Guardai nelle due direzioni e la vidi
deserta, allora m'incamminai verso ovest in attesa di trovare una delle pie-
tre miliari cilindriche piantate sul bordo ogni pasang, ovvero circa ogni
1300 metri.
La strada era così solida che un antico ingegnere romano l'avrebbe esa-
minata con approvazione: selciata in pietra, aveva fondamenta a più strati
affossate nella terra, ed era stata costruita per durare nei millenni. Raffigu-
rava bene l'idea che i Goreani avevano del progresso tecnico, o meglio
dell'assenza d'ogni progresso, e come ogni opera pubblica portava il mar-
chio dell'immutabilità. Tutto ciò che veniva edificato era destinato a servi-
re finché l'usura del tempo non lo consumava, dopodiché lo si riparava o lo
si ricostruiva nell'identico modo. Quella sulla quale mi trovavo era una via
di comunicazione secondaria, larga appena perché un grosso carro potesse
transitarvi.
Con mia sorpresa, sebbene le incisioni sulle pietre miliari dicessero che
non distavo molti pasang da Ko-ro-ba, queste erano seminascoste dalle
erbacce che vi crescevano attorno ed invadevano i bordi della carreggiata,
talora osando spuntare perfino fra i grossi blocchi del selciato.
Era pomeriggio inoltrato e, a giudicare dalle indicazioni miliari, distavo
ancora molte ore di cammino dalla città. Stormi d'uccelletti dalle piume
vivacemente colorate svolazzavano nell'aria, e nugoli d'insetti notturni si
stavano già levando dalle marcite e dai cespugli. Le ombre s'allungarono e
venne quella che per i Goreani è la quattordicesima ahn, o ora. Su Gor il
giorno è diviso in venti ahn, ciascuna delle quali composta da quaranta ehn
o minuti. A sua volta un ehn è scandito da ottanta ihn, o secondi. Il mezzo-
dì è dunque alla decima ora, e la mezzanotte alla ventesima.
Mi chiedevo se non sarebbe stato il caso di far sosta per la notte. Il Sole
era sul punto di scomparire oltre l'orizzonte, e sapevo bene che l'arrivo
dell'oscurità avrebbe comportato dei pericoli, particolarmente per un viag-
giatore appiedato.
Era di notte che uscivano in caccia gli sleen, mammiferi carnivori a sei
gambe dal corpo così basso e allungato sul terreno che quasi somigliavano
a enormi donnole. In passato non avevo mai avuto a che fare con quelle
bestie e non le conoscevo, ma ne avevo visto spesso le tracce.
Inoltre la notte era facile scorgere, stagliati sui dischi argentei delle tre
lune, quei giganteschi pterodattili chiamati ul, che s'involavano in caccia
partendo dall'immenso delta del fiume Vosk. E mi era capitato di trascorre-
re ore assai agitate a causa degli stormi di vart, roditori volanti ciechi come
pipistrelli che raggiungevano talvolta le dimensioni di un cane. Erano be-
stiacce capaci di fare a pezzi un uomo in pochi minuti, per poi trasportarne
ogni brandello di carne nelle caverne in cui nidificavano, e il loro morso
era infetto.
Un pericolo di genere ancor meno simpatico era insito nel fatto che non
potevo illuminare la strada davanti a me, perché molti rettili erano attratti
dal calore conservato dalle pietre e venivano a distendervisi nelle ore not-
turne. Ce n'erano di diverse specie, fra cui il grosso pitone goreano chia-
mato hith ed il minuscolo ma velenosissimo ost dal colore giallo brillante.
Quasi tutti potevano dare una morte rapida e dolorosa. Nelle zone più sel-
vagge del pianeta esistevano poi bestie da incubo, alcune delle quali dotate
di vera e propria intelligenza.
Malgrado la forte impazienza di raggiungere Ko-ro-ba, dovetti decider-
mi a uscire di strada per cercare una roccia o un albero. Non avendo il
mezzo d'accendere il fuoco, sarebbe stato poco prudente dormire al livello
del terreno. Nel frattempo m'ero accorto d'avere fame e sete, necessità che
per tutto il giorno l'euforia m'aveva fatto ignorare ma che ora la stanchezza
riacutizzava.
Avevo appena abbandonato la carreggiata quando vidi che nella mia di-
rezione stava arrivando la figura d'un individuo molto robusto, semipiegato
in avanti sotto il peso d'un grosso fascio di rami che si portava sulle spalle.
Lo riconobbi subito come un membro della Casta dei Boscaioli, i lavoranti
che insieme a quelli della Casta dei Carbonai provvedevano alla materia
prima per il riscaldamento nelle città.
Il fardello dell'uomo, incredibilmente voluminoso, era tenuto fermo sul
dorso da un paio di corde le cui estremità egli stringeva in mano. Sotto
quel peso un individuo di stazza normale sarebbe finito a terra dopo pochi
passi, invece lui lo portava con la lenta flemma d'un bue. Ciò non mi stupì,
dato che per tradizione i boscaioli erano pezzi d'uomini con la spina dorsa-
le simile ad un tronco d'albero. Pochissimi di loro cambiavano Casta o
avevano l'intraprendenza di mettersi fuori dalla legge. Il cambiamento di
Casta era comunque regolato in termini ferrei, e chi nasceva nelle Caste
Basse non poteva mai aspirare a far parte un giorno delle cinque Caste
Alte. Un Boscaiolo avrebbe così potuto diventare Contadino, o viceversa,
oppure al massimo Allevatore di Grifoni e sempre che il Consiglio della
sua città lo consentisse, ma non certo Adepto, Medico, Ingegnere, Scriva-
no o Guerriero.
L'uomo s'avvicinava con andatura lenta, la faccia mezzo nascosta da un
ciuffo di capelli bianchi e la vista quasi occlusa dalle foglie e dai rametti
che gli spiovevano davanti. Indossava un vestitaccio in pelle grezza non
migliore di quello che avrebbe portato uno schiavo, ed i suoi piedi nudi
erano incrostati di fango secco. Tornai sulla strada e gli andai incontro.
«Tal,» lo salutai, alzando la mano destra a palmo avanti. In Goreano la
parola suonava esattamente come Salute a te.
Il poderoso individuo sollevò la testa per guardare avanti, allargò salda-
mente i piedi a terra e si fermò. Aveva occhi stretti come fessure, così
chiari da sembrare senza iride, e mi gratificò di un'occhiata intensa e so-
spettosa. Dal suo atteggiamento compresi che era assai sorpreso di trovar-
mi lì, quasi che su quella strada non si fosse mai atteso d'incontrare dei
viaggiatori. Ciò rinnovò in me la strana sensazione che avevo avuto fino a
quel momento in un angoletto della mente, dato che il traffico inesistente
mi aveva reso perplesso.
«Tal,» si decise a rispondere, con voce così gutturale da sembrare un
grugnito.
Un lampo nel suo sguardo mi rivelò che stava calcolando quanto tempo
ci avrebbe messo a gettare a terra il carico per armarsi dell'accetta fissata
sulla sua sommità.
«Calma, amico. Non allarmarti,» lo tranquillizzai.
«Cosa vuoi da me?»
Chiaramente, il fatto che non mostrassi stemmi sullo scudo e sull'elmo
mi aveva fatto identificare da lui come un fuorilegge, così mi affrettai a
dire;
«Non temere, non sono un bandito.» E, vedendo che non pareva creder-
ci, aggiunsi: «Ho soltanto fame. Non ho mangiato niente da tanto tempo
che brucherei l'erba.»
«Ah, sì? Se è per questo, anch'io non mangio da ieri,» borbottò, ostile.
«La tua capanna è da queste parti?»
Sapevo che le attività dei boscaioli erano regolate dal sole e che usciva-
no all'alba per rientrare al tramonto, dunque la casa dell'uomo non poteva
essere lontana.
«No,» rispose invece lui.
«Io non porto nessuna minaccia a te ed alla tua Pietra della Casa,» dissi.
«Senti, denaro per pagarti non ne ho. Però ti sarei grato se mi dessi qualco-
sa da mettere nello stomaco.»
«Tu sei un guerriero. I guerrieri non chiedono: prendono sempre ciò che
vogliono.»
«Non voglio derubarti, se è questo che temi.»
Lui mi fissò a lungo, poi annuì. «E cosa potresti rubare ad un poverac-
cio? Non possiedo oro o cose di valore... e, se vuoi saperlo, non ho neppu-
re una figlia, né una moglie che tu possa prendere come schiava.»
Ridacchiai. «Allora ti auguro per il futuro prosperità e dei figli che ti
diano soddisfazione, amico. Addio,» dissi.
Gli passai accanto e feci per allontanarmi ma, avevo fatto appena una
decina di metri, quando la sua voce mi fermò. Era difficile capirlo, perché
come tutti i boscaioli non aveva la lingua sciolta e più che parlare emetteva
brontolii. Gli tornai davanti.
«Se proprio vuoi, nella mia baracca ho qualcosa da mangiare: peas, tur-
nip fritto, un po' di onions, niente di speciale,» disse, come per avvertirmi
che se avevo delle pretese mi conveniva tirar dritto.
«Turnip fritto? Gli stessi Re Sacerdoti non potrebbero desiderare di me-
glio!»
«Allora, guerriero, concedimi di dividere il piatto con te!», m'invitò, nel-
la formula abituale delle Caste Basse.
«Sarà un grande onore!», risposi, altrettanto cerimoniosamente.
Sebbene appartenessimo io ad una Casta Alta e lui ad una Bassa, qua-
lunque catapecchia fosse la sua, per la legge di Gor egli là dentro sarebbe
stato il padrone di casa, signore indiscusso di quel che avveniva all'interno
delle pareti da lui erette. La sovranità entro la propria casa era un diritto
inalienabile di ogni goreano, e perfino un mendicante che per strada non
avrebbe osato alzar gli occhi dal suolo in presenza d'un guerriero, dentro la
sua dimora gli sarebbe stato in un certo senso superiore di rango: era terri-
torio suo, lì egli aveva la sua piccola e personale Pietra della Casa, e fami-
liari o seguaci erano obbligati ad ubbidirlo rispettosamente. Che fosse un
ladrone da strada od un Amministratore, un contadino od un ricco mercan-
te, un vigliacco od un coraggioso, nella sua casa egli era il padrone.
Non erano insoliti gli episodi d'inusitato valore dei quali erano stati pro-
tagonisti semplici bottegai o pastori in casa loro, perché in vicinanza della
sua Pietra della Casa il goreano medio sapeva attingere a risorse insospet-
tate per difendere i propri beni. Più d'una volta miseri contadini avevano
saputo battersi come leoni chiunque stesse minacciando i loro campi, fos-
sero pure dei grifonieri montati sui loro terribili rapaci da sella.
La mia frase fece dunque comparire un largo sorriso sul rude volto del
boscaiolo: quella notte egli avrebbe avuto un ospite di rango. Non si sa-
rebbe sprecato molto in chiacchiere oziose, essendo fiero e taciturno, e
neppure avrebbe ceduto al vezzo popolaresco di buttar lì proverbi e sen-
tenze buone per commentare ogni fatto della vita, cosa che peraltro avreb-
be richiesto una favella più elastica della sua ed un minimo di cultura. Si
sarebbe seduto presso il fuoco, magari tenendomi sveglio fino a tarda ora
perché mandarmi subito a letto sarebbe stato scortese, e tuttavia avrebbe
aspettato che a parlare fossi io, incoraggiandomi con lo sguardo a narrargli
qualche storia vera, e sperando che gli dassi notizie di fatti avvenuti nel
vasto mondo oltre il suo lembo di terra. E, qualunque cosa gli avessi detto,
sarebbe stata importante, non per sé stessa ma per il fatto che io avrei par-
lato ed egli ascoltato, e perché l'ospite gli avrebbe dato un po' di quel bene
prezioso chiamato compagnia umana.
«Il mio nome è Zosk,» disse, avviandosi.
Mi chiesi se quello fosse il suo nome d'uso oppure il nome vero. Era
comune per i membri delle Caste Basse averne due, uno pubblico ed uno
segreto riservato soltanto agli intimi, e ciò per cautelarsi da eventuali stre-
gonerie e fatture che richiedevano la conoscenza del nome reale per poter
funzionare. Il modo in cui lo disse mi fece però intuire che Zosk doveva
essere quello vero, e che lui non era superstizioso.
«Zosk di quale città?», domandai.
L'uomo parve esitare. Mi fissò di traverso, fra indeciso e spaventato,
quasi che nella mia richiesta vi fosse qualcosa capace di farlo tremare.
«Zosk...», mormorò, incerto.
«Sì, ma di che città, amico?»
«Di nessuna città, maledizione!»
Gli sorrisi. «Via, tu sei sicuramente di Ko-ro-ba.»
Il grosso individuo stavolta vacillò in modo visibile, e non certo a cagio-
ne del gran carico di ramaglie. Potevo letteralmente fiutare la sua improv-
visa paura, un ritrarsi ferino e animalesco. Quello Zosk era un tipo che
avrebbe affrontato anche un larl, armato della sua accetta, eppure adesso
una semplice domanda era bastata ad intimorirlo. Strinse i denti, afferrò
salde le corde con cui teneva fermo il suo voluminoso fardello e scosse il
capo con forza.
«Io sono Tarl Cabot di Ko-ro-ba,» mi presentai.
Zosk emise un gemito acuto. Pallido come un cencio, sembrò cedere al
peso e barcollò di lato... e il carico di fascine s'inclinò e si disfece schian-
tandosi rumorosamente sul bordo della strada. L'uomo rotolò a terra, si
trascinò carponi sullo sfacelo dei suoi rami e raggiunse l'accetta; poi si alzò
in piedi brandendola come un'arma. Aveva gli occhi sbarrati e lo sguardo
fisso, come allucinato.
Fece alcuni passi alla cieca, senza osare assalirmi ma piuttosto con l'aria
di chi è risoluto a difendersi dal demonio stesso per la salvezza della sua
anima. Ansimava e ondeggiava sul tronco come un gorilla, stringendosi
l'accetta al petto, così terrorizzato che per reazione anch'io mi allarmai.
Da lì a qualche secondo parve rammentare chi era e dove si trovava, e
smise di sbandare qua e là con tremiti da ubriaco. Non capivo affatto la
ragione dello spavento che i suoi occhi rivelavano, ma fui lieto di vedere
che combatteva quell'emozione e tentava di calmarsi. Addirittura mi sco-
prii a fare il tifo per lui, a sperare che riuscisse a scacciare la bestia cieca e
folle cui aveva permesso di annichilirgli il raziocinio. Io stesso avevo spe-
rimentato una volta quella tremenda cecità cerebrale, la prima volta che
ero salito sulle White Mountains, e non lo avevo ancora dimenticato.
Attesi un poco in silenzio e, finalmente, Zosk ritrovò la padronanza di
sé. Quando aprì bocca aveva però un tono sottile e quasi supplichevole, ed
era sempre piuttosto grigio in faccia:
«Dimmi che non è vero... Dimmi che tu non sei Tarl Cabot di Ko-ro-
ba,» sussurrò.
«Amico, il mio nome è questo,» confermai seccamente.
«Te lo chiedo di nuovo, per favore...» La sua voce s'incrinò di netto.
«Dimmi che tu non sei quel Tarl Cabot»
«Sono proprio io, invece,» ripetei.
Zosk sollevò lentamente l'accetta, un arnese così pesante che con un sol
colpo avrebbe troncato un alberello spesso quanto una gamba, e si mosse
verso di me passo dopo passo tenendola alta.. Non mi spostai d'un capello
quando si fermò ad un metro e mezzo da me. I suoi occhi erano colmi di
lacrime, e tremava. Ma, senza saperne il perché, ero certo che non mi a-
vrebbe colpito. Stava lottando solo contro sé stesso, la sua faccia era con-
tratta in una smorfia di dolore, e dietro di essa intuivo che si torcevano
pensieri in un sviluppo d'agonia e di tortura.
«Che i Re Sacerdoti possano aver pietà di me!», singhiozzò.
Con una torsione si girò di lato e abbatté l'accetta sul selciato, quasi in
un disperato sfogo della sua sofferenza, e frammenti di pietra schizzarono
nell'aria. Quindi mollò l'attrezzo e si lasciò cadere seduto in terra a gambe
larghe, il poderoso torace scosso dai singhiozzi, afferrandosi la testa fra le
mani ed invocando la protezione dei suoi antenati con gemiti così vibranti
da far impressione.
Dinanzi a quello spettacolo non c'era nulla che potessi dire. Il costume
goreano vuole che si debbano sfogare con libertà i propri sentimenti, e non
è vergogna che un guerriero forte o comunque un uomo d'animo rude
scoppi a piangere in pubblico, di dolore o di gioia. Nascondere la propria
umanità è anzi considerato poco virile o disonesto.
Mossi un passo verso Zosk, ma lui si coprì la faccia con le mani a indi-
care che non se la sentiva neppure di guardarmi o di parlarmi. Allora,
sconcertato e senza saper cosa fare, gli girai attorno e m'incamminai verso
Ko-ro-ba. Avevo dimenticato la fame e la sete, ed anche il proposito di
dormire un poco. Se avessi marciato di lena avrei avvistato la città verso
l'alba dell'indomani.

Capitolo 4
LO SLEEN

Nel buio ormai quasi assoluto, seguii il percorso della strada selciata, fa-
cendo strisciare il manico della lancia lungo il bordo di pietra per guidare i
miei passi. Ogni tanto agitavo l'arma a terra davanti a me, e battevo forte i
piedi per allontanare eventuali serpenti. Era un modo di viaggiare più tor-
mentato di quel che avrei immaginato, perché in me si contorcevano timori
inespressi e pensieri folli, dubbi, e paure, dandomi dei veri e propri incubi
da sveglio. A muovermi adesso era l'ansia, il bisogno di rivedere Ko-ro-ba,
di accertare che quelle preoccupazioni erano infondate e, se avessi potuto,
mi sarei messo a correre come un invasato.
Ero o non ero Tarl Cabot di Ko-ro-ba? Ed essa era oppure no una città di
Gor? Stavo sognando o cos'altro? Le pietre miliari stavano lì ad attestare
che una città con quel nome certo esisteva, in fondo alla strada. Ma perché
mai quella via un tempo frequentata oggi era deserta e maltenuta? Cosa
significava la reazione isterica di Zosk il boscaiolo? E per qual motivo il
mio elmetto, lo scudo, le vesti, non portavano lo stemma di Ko-ro-ba?
Ad un tratto sentii un'acuta puntura in una gamba e cacciai un grido. Per
un attimo ebbi paura che fosse stato un serpente, ma poi mi resi conto d'es-
sere incappato nel morso di una sanguisuga vegetale. Mi chinai alla cieca
ed afferrai la pianta, che si attorcigliava al mio polpaccio come un rettile e
reagiva con violenza alla vicinanza della carne. La divelsi dal terreno ed
allora mi arrotolò i viticci al braccio, scattante e pericolosa, rifiutando di
estrarre le sue spine cave dal punto in cui me le aveva affondate addosso.
Bestemmiando come un pazzo la strappai e la gettai lontano e, alla luce
delle lune, vidi il sangue colarmi fin sulla caviglia: Quel maledetto vegeta-
le aveva fatto in tempo a succhiarmene almeno mezzo bicchiere, ci avrei
scommesso. Sapevo che di norma i bordi delle strade vengono tenuti liberi
da simili orrori botanici, che nelle foreste abbondano. Bambini e piccoli
animali potevano esserne ridotti a malpartito, o addirittura uccisi, ed era
uso comune farle a pezzi appena si vedevano crescere presso i luoghi fre-
quentati. Imprecai ancora.
Intanto però le tre lune si erano decise a spuntare, e questo almeno mi
sollevò. Alla loro luce potei accelerare il passo. Avevo nella mente una
quantità di domande le cui possibili risposte mi davano l'angoscia, e tutto
stava ad indicare che andavo incontro a una verità spiacevole, ma mi rifiu-
tavo ostinatamente di fare supposizioni. Dovevo vedere coi miei occhi e
sapere... scoprire cosa c'era al termine della strada.
Ero assorto in quelle riflessioni allorché mi giunse alle nari un odore di
selvatico, intenso come se fossi entrato nella gabbia delle volpi in un giar-
dino zoologico. All'istante i miei sensi furono in allarme, e sentii che mi
veniva la pelle d'oca..
M'immobilizzai, scrutando lentamente i cespugli e le rocce bagnati dal
chiarore lunare. Da qualche parte si levò un ansito rauco, un grugnito subi-
to soffocato, e poi di nuovo ci fu solo il silenzio.
Avrei giurato che nelle vicinanze c'era uno sleen, il quale aveva avverti-
to la mia presenza, e se così era potevo sperare appena che fosse un carni-
voro giovane e di piccola taglia. Che mi stesse dando la caccia era però
improbabile, visto che si era messo sopravvento rispetto a me. Da lì a poco
lo vidi, perché l'animale uscì allo scoperto ed attraversò la strada, silenzio-
so come un enorme furetto a sei zampe, girando qua e là il muso per annu-
sare l'aria della notte.
Sospirai di sollievo, accorgendomi che era effettivamente una bestia an-
cora giovane: non superava i due metri e mezzo di lunghezza, ed il suo
comportamento in caccia denotava impazienza e poca esperienza. Se mi
avesse assalito l'avrebbe fatto allo scoperto, con furia cieca e molto inutile
rumore. Forse non si era neppure accorto di me, o forse nella zona c'erano
altre bestie la cui presenza lo preoccupava più della mia. Anche lì, in una
regione che ricordavo fra le più tranquille di Gor, la lotta per la vita spesso
coinvolgeva molte bestiaccie pericolose e di grossa taglia, specialmente
nelle ore di tenebra.
Continuai il cammino tenendo ben salde le armi.
Da lì a mezz'ora pesanti cumuli di nuvole nere oscurarono le tre lune, e
si levò un vento insistente. Gli alberi di ka-la-na selvatici scuotevano le
loro fronde gravide di fogliame, e nell'aria sentivo l'odore della pioggia. In
distanza la notte fu incrinata dalla fulgida ramificazione di un fulmine e,
pochi secondi dopo, il tuono brontolò sulla pianura.
Stavo soccombendo all'apprensione e ad ansie d'ogni genere. A tratti a-
vevo l'illusione di scorgere in lontananza le luci di Ko-ro-ba, ma subito
quei lucori sparivano o sembravano spostarsi altrove. Il vento acquistò
forza, piegò le dure fronde dei cespugli e strappò via la polvere dai tratti
sassosi, facendola turbinare nelle sue folate.
Alla luce d'un lampo scorsi una pietra miliare, e mi avvicinai per legger-
la. Percorsi l'incisione con le dita, ed essa m'informò che ero molto vicino
alla città, più di quello che avrei creduto. Eppure non riuscivo a vedere le
luci che avrebbero dovuto scintillare sui suoi ponti aerei e nelle grandi
torri. Che vi fosse in corso un oscuramento motivato da eventi bellici?
L'ipotesi mi sembrò assurda e la scartai: un attacco dall'aria ad opera di
grifonieri nemici avrebbe anzi dovuto essere accolto con falò e torce acce-
se ovunque. Che fine avevano fatto le gaie lampade colorate appese ai pon-
ti, le grosse lanterne dell'illuminazione pubblica, le allegre insegne delle
taverne, dei bordelli e dei circoli aperti tutta la notte? Avrei dovuto distin-
guere il riflesso di quei lumi sulle nuvole basse, avrei già dovuto sentire
rumori di vita lo sbatter d'ali dei grifoni nel cielo, e invece il silenzio e il
buio mi si paravano dinanzi come un muro.
Sedetti sulla pietra miliare cercando di riflettere con freddezza sul quel
fatto. C'era di che restare perplessi. Come se ciò non bastasse, nella zona
sorgevano moltissime case coloniche, non poche delle quali avrebbero
dovuto tenere almeno una lanterna esposta, perché ricordavo bene che pat-
tuglie di cacciatori perlustravano i campi allo scopo di divertirsi un poco e
di eliminare i predatori notturni. E le guardie che avrebbero avuto il dovere
di far la ronda nelle vie circondariali, dove mai si erano nascoste?
Un lampo d'accecante luce bianca inchiodò le ombre intorno a me, fa-
cendomi fare un balzo, ed il tuono muggì vibrando e rotolando sulle nuvo-
le. Poi le cateratte del cielo si spalancarono d'un colpo e sulla pianura s'ab-
batté un diluvio caldo, così fitto che in un attimo venni inzuppato fino al-
l'osso.
Andai avanti sotto quelle cascate con gli occhi pieni di pioggia. Non ve-
devo niente, a parte l'intermittente bagliore dei fulmini e la parete d'acqua
che veniva giù a dirotto, facendosi sempre più fredda. Il vento si spezzava
in una serie di raffiche orizzontali, tanto violente che mi facevano barcolla-
re, e bestemmiando sputai l'acqua che mi entrava a fiotti dalla fessura
dell'elmetto. D'improvviso ebbi il folle pensiero che quella tempesta ce
l'avesse con me personalmente, e che l'avessero mandata i Re Sacerdoti per
sbarrarmi il cammino.
«Non m'impedirete di arrivare a Ko-ro-ba!», urlai verso il cielo, fuori di
me.
Inciampai fuori dal limite della strada, caddi nell'erba fangosa e mi rial-
zai a fatica, sconvolto per l'ira. Fu allora che scorsi lo sleen, magicamente
inquadrato in piena corsa dal flash di un lampo. Non era lo stesso di prima,
bensì un bestione adulto lungo sei metri buoni, e mi stava venendo addos-
so a tutta velocità. Aveva le fauci spalancate, i larghi occhi fosforescenti
colmi di furia omicida, e fendeva la pioggia venendomi incontro sulla stra-
da a grandi balzi.
Un'incredibile risata rauca mi emerse dalla bocca: quello era finalmente
un nemico che potevo vedere e toccare, una cosa solida in cui mi si dava la
possibilità d'infilare la lancia!
Invece di scostarmi o di fuggire, corsi avanti. Sollevai lo scudo e tesi di
lato il braccio armato, preparandomi all'impatto. Poi, appena l'animale fu a
due metri da me, gli affondai la lancia dritta nella gola. Sentii la punta di
bronzo che gli sfondava il palato ed il cranio, quindi il contraccolpo mi
gettò da parte. Con uno scricchiolio di ossa fracassate che mi riempì di
belluina soddisfazione, la lancia venne divelta dalla ferita, e lo sleen cadde
lungo disteso sul selciato. Altri lampi mi consentirono di vedere il sangue
che ruscellava via insieme all'acqua, e risi forte. L'animale si contorceva in
modo che mi parve piacevolissimo ad osservarsi, con le mosse assurde
d'un gatto schiacciato da un'automobile. Lo colpii ancora, per il puro gusto
di farlo, finché giacque immoto sotto l'acquazzone. Non era neppure riu-
scito a sfiorarmi con una zampa.
Estrassi la spada e gli staccai la testa con fendenti forsennati, avido di
sentire la carne tranciarsi. Quindi gli aprii il torace e ne estrassi il cuore
ancora ben caldo, che feci a pezzi e mangiai crudo. Avevo fame. Senza più
badare al diluvio, che peraltro aveva spento la mia sete, presi anche il fega-
to della bestia e ne divorai un buon mezzo chilo, finché ebbi lo stomaco
pieno. Fatto ciò mi sedetti sul bordo della strada, predatore fra i predatori
delle campagne, soddisfatto di quel cruento pasto.
Risi ancora nel buio. «Oh, nero fratello della notte! Oh, Re Sacerdoti
dagli oscuri poteri! ...Credevate davvero di potermi impedire il cammino
verso la mia città? Io sono Tarl Cabot di Ko-ro-ba!», gridai a voce spiega-
ta.
Quanto mi sembrava buffo che un po' di pioggia e uno sleen si fossero
illusi di fermarmi. Irragionevolmente continuai a ridere, pensando alla stu-
pidità del carnivoro che aveva tentato di usarmi come una preda.
Ma come aveva saputo che io ero lì? Chi gli aveva ordinato di bloccare
Tarl Cabot sulla via del ritorno a casa? Su Gor esisteva un detto: non pun-
tare le armi sul guerriero che torna alla sua dimora. Perché dunque quell'a-
nimale idiota non aveva tenuto il proverbio nel dovuto rispetto?
Scossi la testa, conscio che dovevo scacciare da me quei pensieri assurdi
e selvaggi. Con la lucidità dell'ubriaco che si rende conto di aver bevuto
troppo tentai di schiarirmi il cervello. La stanchezza e il digiuno, seguiti
dalla lotta contro gli elementi e con lo sleen, mi avevano fatto perdere la
capacità di ragionare.
Il sangue usciva ancora dal corpo del carnivoro. Ubbidendo ad un rituale
primitivo di Gor, ne raccolsi un poco nelle mani a coppa e lo bevvi; poi ne
presi dell'altro, caldo e sciropposo, aspettando un lampo che mi consentis-
se di leggere nei suoi riflessi liquidi.
Sapevo che era una superstizione, ma si diceva che fosse possibile vede-
re il proprio destino specchiandosi nel sangue ottenuto in quel modo. Se
avessi visto il mio volto nero e deformato, sarei morto in un incidente; se
l'avessi visto scarlatto, sarei stato ucciso in battaglia; se invece l'avessi
trovato rugoso e orlato di capelli bianchi, mi attendeva una vita lunga e
felice con molti figli. Dapprima non riuscii a distinguere proprio niente:
tenevo nelle mani del sangue e ci pioveva dentro. Non c'erano riflessi.
Poi, d'un tratto, alla luce d'un fulmine, il mio viso vi si rispecchiò nitido
e mi apparve simile ad una straordinaria maschera d'oro puro, inumano e
spaventevole nei suoi bagliori aurei. Ne fui così terrorizzato che lasciai
cadere il sangue con un grido rauco: la faccia che avevo scorto non era la
mia, era quella d'una statua dorata dalle fattezze sconosciute, la cui vista
era bastata a farmi balzare il cuore in petto.
Raccolsi altro sangue dalle vene aperte dello sleen e tentai ancora l'espe-
rimento, ma non fui capace di vedere più assolutamente nulla. Allora mi
alzai, mi lavai le mani e la faccia, e poggiai un piede sulla carcassa abban-
donata a terra.
«Mi hai dato cibo e vita, nero fratello della notte. Ti ringrazio... e possa
tu marcire qui dove mi hai assalito!», esclamai.
Quindi ripresi le armi e mi avviai sotto la pioggia battente, sentendomi
un po' meglio.

Capitolo 5
LA VALLE DI KO-RO-BA

La strada cominciava a salire, e s'inerpicava sulle dolci alture e sulle fa-


miliari ondulazioni del terreno che circondavano la mia città adottiva. Era-
no salitelle talvolta inavvertibili come falsipiani, ma molto lunghe, e ram-
mentavo che rappresentavano la disperazione dei lavoratori appiedati come
Zosk il boscaiolo e gli schiavi, mentre le carovane dei pesanti tharlarion
da tiro su di esse rallentavano la marcia.
Ko-ro-ba si trovava al di là delle alture, in una zona pianeggiante verde e
fertile. Il territorio era ad un'altitudine di circa duecento metri rispetto al
lontano Golfo di Tamber, la vasta insenatura situata sul bordo del misterio-
so Thassa, l'oceano di Gor. Ad una distanza ancor maggiore dalle pianure
costiere c'era Thentis, famosa per i suoi allevamenti di grifoni, e nel sud
sorgeva Ar, la ricca e immensa metropoli un tempo governata da Marle-
nus. Giusto sulla riva del Golfo di Thamber, sul delta del Vosk, c'era Porto
Kar, che dava rifugio a molti pirati e fuorilegge. Ar era grandiosa e poten-
te; Thentis era orgogliosa e scabra come le sue montagne; Port Kar violen-
ta e dissoluta. Nessuna però eguagliava Ko-ro-ba come eleganza e bellez-
za, né per il carattere gentile degli abitanti, né per la placidità che vi regna-
va.
Un antico poeta, cantando le glorie di molti vecchi luoghi di Gor, aveva
definito Ko-ro-ba come la Regina del Mattino, e qualche volta la gente si
riferiva ancora ad essa con quel nome. Le sue origini erano lontane e risa-
livano alla preistoria, allorché la vallata aveva ospitato un rustico centro di
scambi commerciali ed un mercato di bestiame.
La bufera di vento e di pioggia rifiutava di placarsi. Ero costretto a far
uso dello scudo per ripararmi dalle raffiche, e mi sentivo sfibrato. Sulla
sommità di una cunetta feci una sosta, mi tolsi l'acqua dagli occhi e spinsi
avanti lo sguardo sperando che il balenare di qualche fulmine illuminasse
le mura della città.
Ero tormentato dal bisogno di rivederla. Non riuscivo a distogliere i pen-
sieri dai miei amici, da mio padre, e soprattutto da Talena, per la quale un
tempo avevo messo sottosopra metà del continente.
«Oh, Talena... mia adorata!», ansimai.
La notte sembrava essersi fatta ancor più scura. Ripresi a camminare, e
poco dopo venne il momento in cui un gran lampo esplose fra le nubi
riempiendo di luce l'intera vallata. Chiusi gli occhi, esterrefatto, e poi li
riaprii: Ko-ro-ba non c'era più. Era sparita!
La città, che avrebbe dovuto occupare il centro della piana, sembrava
non essere mai esistita, e al suo posto si stendevano terreni lisci gremiti di
cespugli.
Il breve lampo si smorzò lasciando ricadere il mantello dell'oscurità sulla
terra, ma nel mio cuore era piombato un genere diverso e più agghiacciante
di tenebra, ed un terrore improvviso mi aveva paralizzato le membra.
Altri fulmini gettarono inutilmente la loro livida luce sulla grande pianu-
ra, ed ogni volta la retina dei miei occhi captò un'immagine che il cervello
faticava ad assorbire: la valle vuota e deserta, e la città scomparsa!
«Non è possibile... I Re Sacerdoti mi devono avermi accecato o reso fol-
le!», esclamai, tremando.
«Sì, la loro mano ti ha toccato, o mortale!», rispose una voce alle mie
spalle, facendomi fare un balzo.
D'istinto sollevai lo scudo e la lancia, e vidi che sulla strada c'era un uo-
mo con la tunica bianca da Adepto. Dalla testa rasata a zero lo identificai
come un appartenente all'Ordine Sacro, la cerchia più ristretta e vicina ai
Re Sacerdoti. Mi esaminava immobile con occhi duri e tristi, bagnato fin
nella ossa ma ignorando del tutto le intemperie.
In qualche modo quell'individuo mi sembrò diverso da ogni altro Adepto
che avessi mai visto. Non aveva niente di particolare, a parte lo sguardo da
asceta e la rigidità tipica dei fanatici, eppure dava la strana impressione
d'essere una persona assai insolita. Il fatto stesso che fosse lì in piena notte
e sotto la bufera, era comunque straordinario, e per un attimo fui addirittu-
ra folgorato dal sospetto che si trattasse di un Re Sacerdote, le creature
delle quali non si sapeva neppure se avessero fattezze umane o aliene.
Lo fronteggiai in silenzio e, mentre ci fissavamo l'un l'altro, la tempesta
si acquietò, smise di piovere e di tuonare, e le nuvole si diradarono la-
sciando filtrare il lucore dei satelliti. Mi volsi ancora a guardare la valle
dove un tempo era sorta la mia città.
«Tu sei Tarl Cabot di Ko-ro-ba,» disse l'Adepto.
Non riuscivo a nascondere lo stupore. «Mi conosci? Io non ricordo d'a-
verti mai visto prima.»
«Ti aspettavo,» fu la sua risposta.
«Sei forse... un Re Sacerdote?»
Ebbe una brevissima smorfia seccata. «No.»
L'impressione di cui ero caduto preda svanì, e tornai a vederlo come un
uomo comune. «Capisco. Però tu sei venuto a parlarmi per conto dei Re
Sacerdoti. È così?»
«Hai indovinato, mortale.»
Senza capirne bene il motivo, ero disposto a credergli. Dichiarare di par-
lare in nome degli Dei è sempre stata abitudine dei preti, sulla Terra. A
Gor la cosa assumeva però un aspetto diverso, in quanto i Re Sacerdoti
erano ritenuti esseri ben reali. Dunque nulla impediva che costui dicesse
sul serio.
«Appartieni davvero alla Casta degli Adepti, di cui indossi le vesti?»,
volli sapere.
«Faccio parte di coloro il cui compito è di palesare ai mortali la volontà
dei Re Sacerdoti,» rispose, e con questa frase mi parve che aggirasse abil-
mente la domanda.
«Allora parla pure,» lo invitai.
«Da questo momento tu sei soltanto Tarl Cabot, di nessuna città.»
«Sciocchezze. Io ho prestato giuramento a Ko-ro-ba.»
«La tua città è stata rasa al suolo così completamente come se non fosse
mai stata fondata. Le sue pietre sono divise l'una dall'altra e sparpagliate su
ogni angolo della terra. I suoi abitanti sono stati dispersi per tutto il piane-
ta, poiché la parola dei Dominatori fu che neppure due di essi dovessero
stare insieme. E la Loro parola è finale.»
«Perché è accaduto questo? Perché, maledizione?»
«Per volontà dei Re Sacerdoti, naturalmente.»
«Ma quali colpe sono state commesse, per giustificare una punizione
tanto terribile.»
«Ti basti sapere,» ripeté lui, «che tale è stato il volere dei nostri padroni.
I loro motivi non ti riguardano, e i mortali possono soltanto sottomettersi
con umiltà. Ma la punizione avrebbe potuto esser peggiore.»
«È una risposta che non posso accettare!», sbottai.
«Eppure devi chinare il capo, come tutti noi.»
Risi, scosso da un tremito convulso. «Oh, no. Mai!»
«Non hai scelta. Tu sei condannato a vagare d'ora in poi per il mondo,
solitario e senza amici, senza patria, senza emblemi. Non avrai una casa
che tu possa chiamare la tua casa, né una Pietra della Casa a cui dedicare le
tue azioni. Tu pellegrinerai contemplando la volontà ed il potere dei Re
Sacerdoti. Sarai un niente.»
«Cosa ne è stato di Talena?», ringhiai. «Voglio saperlo, lo esigo. E dove
sono mio padre e la mia gente?»
«Te l'ho già detto: sparpagliati per il mondo, lontani per sempre l'uno
dall'altro.»
«Ma perché? Forse che non ho servito i Re Sacerdoti, il giorno che an-
nientai l'Impero di Ar?»
«Li hai serviti, certo. Sei stato uno strumento indocile, ma Essi si sono
compiaciuti di usarti e il Loro volere fu compiuto.»
Stringendo i denti sollevai la lancia, scosso da un'ira tale che affondarla
nel corpo di quell'individuo non mi avrebbe calmato di un filo. Sentivo il
desiderio bruciante di uccidere e distruggere.
«Metti pure fine alla mia vita, se vuoi,» disse, calmissimo.
Con una smorfia riabbassai l'arma. Avevo gli occhi pieni di lacrime, ero
sconcertato ed in preda ad una terribile frustrazione. Che la disgrazia ab-
battutasi sulla città fosse stata causata proprio da me? Era forse dipeso
dalle mie gesta di quei giorni lontani, se ora i miei cari soffrivano chissà
dove? Mi ero mostrato troppo selvaggio ed irrispettoso agli occhi dei Re
Sacerdoti? Intorno a me c'era solo desolazione, strade dimenticate, campi
morti, terreni invasi dagli sterpi. Era questo il destino che i dominatori del
pianeta riservavano a chi aveva peccato d'orgoglio e presunto d'essere in-
vincibile?
Ma cader preda dell'autocompatimento non serviva a niente, e del resto
non vedevo quali colpe potessi aver commesso. Sollevando lo sguardo, mi
accorsi che l'Adepto sembrava ora aver pietà di me, al punto che i suoi
occhi luccicavano di lacrime. Piangeva per me! Era uno sfoggio di com-
passione umana, che non intendeva celare. L'alone di arcana potenza di cui
l'avevo visto aureolato si era dissolto, ed ora avevo dinanzi un semplice
uomo non diverso da me, per quanto appartenente al prestigioso Ordine
Sacro.
Sembrava dispiaciuto d'aver dovuto pronunciare delle frasi tanto dure, e
più volte fece come per parlare ancora, forse tentato di consolarmi con
parole che non fossero quelle messe nella sua bocca dai Re Sacerdoti. D'un
tratto, alzò lentamente una mano, ansimando.
«Tarl Cabot... Gettati sopra la tua spada, uomo,» sussurrò. Vacillò un i-
stante e ripeté: «Gettati su quella lama. Null'altro ti resta, ora che perfino la
casa e la donna amata ti hanno tolto!»
«Uccidermi? Ma questo non sarebbe contrario alla volontà dei Re Sa-
cerdoti?»
«Sì. Essi non gradiscono perdere i Loro strumenti.»
«Allora perché mi dai questo consiglio?»
L'Adepto mi fissava con estrema intensità. «Io ti seguii all'assedio di Ar.
E quel giorno, là sulla Torre Bianca della Giustizia, fui fra quelli che si
batterono al tuo fianco contro Pakur e la Casta degli Assassini.»
«Tu... un Adepto!», mi stupii.
Scosse il capo. «No. A quell'epoca ancora non indossavo la veste. Ero
un guerriero di Ar e mi battevo per riabilitare la mia città. Tu fosti la nostra
bandiera e la nostra speranza, in un tempo in cui molti di noi erano caduti
nell'abiezione.»
«Ar... la gloriosa Ar,» mormorai, accigliato.
«Sì, Ar la potente,» disse l'Adepto in tono strano. Volse gli occhi a occi-
dente, in direzione della sede dei Re Sacerdoti. «Datti la morte, Tarl Cabot,
tu che fosti l'eroe di Ar in quel giorno di sangue, anche se ciò è contro il
Loro desiderio. Cancella la tua vergogna come ora... Essi cancellano la
mia!»
Inaspettatamente l'uomo fu preda d'una contorsione da epilettico, tese le
braccia in fuori e mandò un grido rauco. È impossibile descrivere nei det-
tagli quel che accadde poi, ma vidi la sua testa enfiarsi orribilmente da un
lato e l'osso sprigionare un bagliore, trasformandosi in materia sciolta che
colava come pece. Cadde al suolo e morì in pochi istanti, mentre io indie-
treggiavo ad occhi sbarrati.
Non avevo dubbi che quella tremenda esecuzione sommaria gli fosse
stata somministrata dai suoi padroni, per avermi dato a titolo personale un
consiglio contrario alle loro istruzioni. Non avevo mai assistito ad una fine
così spaventosa: qualcosa gli aveva liquefatto la carne e le ossa, divam-
pandogli nel cranio come una bomba al fosforo.
Poco dopo trascinai il suo corpo fuori strada e raccolsi dei sassi per rico-
prirlo. Nel farlo notai che della sua testa restava ben poco, ma entro la ma-
teria cerebrale semidissolta c'era una luccichio metallico. Con uno stecco
frugai in quella poltiglia, togliendone un filamento dorato. Lo esaminai
perplesso, ma l'oggetto continuò a sembrarmi soltanto un comune filo d'o-
ro o d'ottone lucido, cosicché infine lo gettai via.
Nascosi il cadavere sotto un mucchio di sassi per preservarlo dai man-
giatori di carogne, e in cima al tumulo sistemai una pietra piatta su cui in-
cisi un breve epitaffio con la punta della lancia: «Qui giace un uomo di
Ar». Era tutto ciò che sapevo di lui.
Davanti a quella tomba improvvisata sostai un poco. Estrassi quindi la
spada dal fodero e la guardai cupamente, ripensando al suggerimento che
avevo avuto.
«No, amico,» sussurrai. «Non mi butterò su questa lama. Io vivrò, anche
se dovrò sopportare lo scorno ed il disonore che adombra la fronte dei sen-
zapatria.»
Mi voltai di scatto verso la valle in cui una volta le torri di Ko-ro-ba, la
Regina del Mattino, avevano echeggiato delle risa dei bambini e dei canti
delle donne, e sollevai la spada.
«Molto tempo fa,» gridai nella notte, «io giurai di servirti e di onorarti, o
mia città. Ed ora giuro ancora che mai dimenticherò quelle parole. Io le
scrivo nel vento e nella terra, nel sangue e nelle lacrime della gente che per
te ha sofferto. La mia patria rimani tu, e la mia terra rimarrà questa!»
Ansimando, col volto rigato di pianto, girai gli occhi nella direzione del-
le Montagne di Sardar, lontanissime e invisibili. Come ogni essere umano
su Gor, sapevo bene da quale parte sorgevano quelle vette invalicabili, al
centro delle quali si diceva vi fosse la Suprema Pietra della Casa di Gor, in
un luogo chiamato l'Inviolabile. Nessuno fra quanti avevano tentato d'av-
venturarvisi ne era mai tornato vivo. Nessuno sapeva quali segreti vi fosse-
ro celati, né che aspetto avessero i Re Sacerdoti e le loro dimore.
Ricacciai rabbiosamente la spada nel fodero, m'infilai l'elmetto, impu-
gnai saldamente lo scudo e la lancia, e m'incamminai con decisione verso
le Montagne di Sardar.

Capitolo 6
VERA
Sapevo che la catena di montagne usata come barriera dai Re Sacerdoti
distava oltre 1300 Km dalla mia attuale posizione. Alle loro pendici abita-
vano gli Uomini delle Valli, dei quali si sapeva che avevano rapporti di
qualche genere coi misteriosi Signori di Gor. Verso quei dirupi si dirigeva
chi, stabilendo d'esser giunto al termine della sua vita, desiderava morire in
un ultimo viaggio rituale, recandosi là in cerca d'una sorta di Paradiso Per-
duto o semplicemente per aver la conferma delle comuni credenze religio-
se. Le loro ossa venivano inevitabilmente ritrovate fuori dalla zona delle
montagne, scarnificate e portate lì da qualche animale, segno chiaro che un
certo tipo di Verità Religiosa avevano finito per trovarlo.
Quattro volte all'anno, nei giorni degli equinozi e dei solstizi, si teneva-
no presso le Montagne di Sardar delle grandi fiere, presiedute dagli Adep-
ti, durante le quali l'elemento sacro si mescolava al profano. Era tempo di
gare e di sfide, di mercato, di baldoria, e gente di molte città vi interveniva.
Torm, il mio amico Scrivano, una volta era solito recarvisi per scambiare
libri e pergamene antiche coi colleghi di altre zone del pianeta. L'occasione
era unica, poiché rivalità storiche ed inimicizie cruente dividevano in per-
petuo i centri abitati di Gor, e fra essi c'erano pochi contatti. Uomini come
Torm dunque non esitavano ad approfittarne, perché a loro dei conflitti
non importava un bel niente: assai più dolce era ' incontrare gente dalle
stesse vedute aperte, e discutere con loro di libri rari o di materie scientifi-
che. Lo Scrivano vi cercava lo Scrivano, l'Ingegnere ed il Medico vi anda-
vano per apprendere nuove tecniche dai colleghi, senza badare ai campani-
lismi che in altri periodi dell'anno rendevano loro impossibili quei rapporti.
Grazie alle fiere avvenivano quindi contatti culturali indispensabili alla
società goreana, ed anche la lingua si manteneva omogenea. Ovviamente
le differenze d'accento restavano immutate, perché il goreano medio ci
teneva ad essere diverso dagli altri, ad avere il suo dialetto e le sue usanze
caratteristiche. I motivi per cui le rivalità intercittadine perduravano non
erano tuttavia di carattere razziale o religioso, essendo l'umanità di Gor
assai uniforme sotto questi aspetti: si trattava sempre di faide millenarie,
che nessuno intendeva smorzare, ed anzi venivano di continuo alimentate
da altre guerre e dalle razzie in cui ci si procurava schiavi dei due sessi.
In quel viaggio sentivo molto la mancanza di un grifone, sebbene sapessi
che nessuno di quei rapaci da sella avrebbe mai potuto volare sopra le
Montagne di Sardar. Per una ragione che nessuno aveva chiara, i grifoni
dovevano evitare accuratamente gli spazi aerei di quella zona, e lo stesso
valeva per i tharlarion, i formidabili sauri che su Gor sostituivano i cavalli.
Si sapeva che presso le Montagne di Sardar i tharlarion s'imbizzarrivano,
mentre i grifoni perdevano la coordinazione e finivano per precipitare.
Le pianure che attraversavo erano quasi disabitate, vi abbondava la sel-
vaggina, e nei giorni successivi alla partenza dalla valle di Ko-ro-ba non
ebbi difficoltà nel procurarmi il cibo. C'erano frutti e bacche d'ogni specie
e, dal greto dei torrenti, restava facile infilare i pesci con la lancia. Un mat-
tino riuscii ad uccidere un tabuk, un'antilope gialla fornita di un solo corno,
e ne portai la carcassa in una fattoria per venderla al contadino. Senza far-
mi domande riguardo all'assenza di stemmi che esibivo, l'uomo e sua mo-
glie mi accolsero con grande ospitalità e mi pagarono la carne con vino
dolce, un acciarino a pietra focaia, del sale, ed una buona borraccia.
I contadini di Gor non temevano troppo i fuorilegge, essendo così poveri
che le stesse bande di ladroni spregiavano di derubarli. Se un agricoltore
aveva una figlia giovane s'affrettava a nasconderla agli estranei, ma in
molti casi fra le fattorie e i fuorilegge vi erano rapporti pacifici, dato che i
predoni di grosso calibro acquistavano cibo dai contadini della propria
zona e compivano altrove le loro scorrerie. Nelle terre dove i fuorilegge
avevano un codice d'onore, gli agricoltori addirittura li proteggevano, ed a
venir guardati con sospetto erano solo gli stranieri.
Evitai accuratamente d'avvicinarmi a qualche città, sebbene ne oltrepas-
sassi diverse, e ciò per il semplice motivo che entrare in una cinta muraria
senza permesso equivaleva ovunque all'impalamento pubblico, per solito
effettuato sulle mura cosicché i resti mortali dei trasgressori rimanessero
minacciosamente visibili dall'esterno. Questo era il modo in cui le città
accoglievano gli stranieri, e ciò veniva considerata una normalissima pre-
cauzione. La lingua di Gor aveva un unico termine per indicare il forestie-
ro e il nemico, fatto di per sé rivelatore della mentalità corrente.
C'era però un'eccezione a questo poco simpatico atteggiamento verso gli
estranei, ed era rappresentato dalla città di Tharna, che secondo quanto si
diceva in giro s'era impegnata in quella stupida avventura piena d'incertez-
ze chiamata ospitalità. Avevo sentito gente abbastanza perplessa parlare
dei fatti che accadevano a Tharna, e il più strano fra essi era che la città
aveva al suo governo una Regina. Si mormorava che, grazie a questo, la
posizione delle donne, a Tharna, era superiore a quella degli uomini, e ciò
veniva considerato da alcuni una frottola e da altri una cosa contronatura e
sbalorditiva.
Come ben sapevo, le donne goreane erano tenute ad un rigoroso isola-
mento, che fra le Caste Alte assumeva aspetti grotteschi. Aggirandosi nella
città dovevano indossare vesti pesanti e col cappuccio, quest'ultimo munito
d'una reticella che impediva di vederle in faccia, ed uscivano sotto scorta
oppure mai. Nelle loro case, le ragazze ricche avevano ginecei separati
dove ricevevano a stento i familiari o un sorvegliatissimo fidanzato ufficia-
le, e non rivolgevano la parola a nessuno salvo che ai loro schiavi.
Buona parte della cultura barbarica di Gor emergeva nel trattamento ri-
servato al gentil sesso, i cui diritti umani erano ridotti pressoché a zero. La
sottomissione delle donne era a sua volta causa di scarsa evoluzione socia-
le, giacché il loro apporto intellettuale alla vita civile non esisteva affatto,
ma ciò non preoccupava nessuno. A Ko-ro-ba, da quando mio padre era
salito al potere, la sua mentalità terrestre aveva portato diverse novità per
le donne, che si erano visto liberalizzato l'accesso alle Caste ed avevano
preso a circolare per le strade indisturbate. In realtà non era frequente, sette
anni addietro, vedere una donna di Casta Alta recarsi nei teatri pubblici
senza scorta, e quelle che si scoprivano il viso venivano ancora criticate.
Ma altrove esse erano costrette in condizioni ben diverse, e Talena stessa
ne era stata un lampante esempio.
Da molti anni, comunque, la città di Tharna godeva di questa sua bizzar-
ra fama, però io non l'avevo mai visitata e non ne sapevo granché. Adesso
mi domandavo se nel suo mercato, visto che l'accesso era libero, non avrei
potuto procurarmi un buon grifone. Con un uccello da sella il mio viaggio
verso le Montagne di Sardar avrebbe richiesto pochi giorni, invece che un
mese. L'unica difficoltà era che non possedevo denaro, ma a ciò avrei po-
tuto ovviare mettendo la mia spada al servizio di qualcuno, come già mi
era capitato di fare in passato con Miniar il Mercante. Essendo a tutti gli
effetti un fuorilegge, avrei anche potuto, volendo, agire con minor scrupo-
lo e imboccare vie traverse, però preferivo finché possibile cercare altre
soluzioni ai miei problemi.
Mentre percorrevo una piana cespugliosa e rimuginavo fra me queste ri-
flessioni, vidi ad un tratto, su un terreno erboso, avvicinarsi quella che era
senza dubbio una donna appiedata. In apparenza non mi aveva ancora no-
tato, ed aveva l'aria d'esser giovane, sebbene camminasse con andatura
così incerta da sembrare sfinita o ammalata.
Mi mossi subito nella sua direzione, assai sorpreso dalla sua presenza in
quella zona.
Ho già detto che su Gor le donne non si azzardavano a viaggiare senza
scorta fuori città, ma non ne ho spiegato il motivo: quelle che erano così
imprudenti da farlo, difficilmente rivedevano la propria casa. Troppo spes-
so le si considerava meno che esseri umani, e non si esitava un istante a
farle schiave per poi venderle a qualche bordello o adibirle a mestieri umi-
lissimi. All'esterno delle mura cittadine la donna era soltanto una preda, e
talvolta anche all'interno.
Quella che mi stava venendo incontro non mi aveva proprio visto, com-
presi, altrimenti sarebbe scappata all'istante. Decisi di fermarmi e l'attesi,
appoggiato alla lancia.
La spiacevole istituzione sociale della cattura era parte integrante della
vita su Gor, e portare nella propria città femmine giovani rapite altrove
veniva considerato un atto meritevole di plauso. Per giustizia bisogna dire
che quest'uso consentiva il mescolarsi delle caratteristiche genetiche, evi-
tandone il pernicioso ristagno, e pochi erano contrari ad esso. Le stesse
donne catturate, per quanto ciò possa sembrare stupefacente, non se ne
dolevano molto. Sovente anzi si sentivano sminuite se nel corso della loro
vita qualcuno non aveva rischiato la pelle per rapirle. Avevo sentito parlare
di una bella e crudele cortigiana di Ar, la quale si vantava che ben quattro-
cento uomini avessero trovato la morte nel tentativo di catturarla nei suoi
Giardini Chiusi. E, a voler essere sinceri, dovevo pur ammettere che a suo
tempo anch'io avevo corteggiato Talena col semplice e fulmineo sistema di
portarla via in volo dalla cima della sua torre, cogliendola nel mezzo di
una cerimonia pubblica in piena notte, allorché mio padre mi aveva man-
dato a compiere un'incursione nel cielo della città nemica in groppa ad
Horus. Correva voce a quel tempo che la figlia di Marlenus fosse la più
bella femmina del pianeta, ma nessuno mi aveva avvisato che fosse anche
la più astuta e feroce e, poco dopo quel fatto, avevo pagato la mia facilone-
ria con un terrificante volo dall'altezza di qualche centinaio di metri, men-
tre lei se ne andava sul mio grifone ridendo furiosamente.
Tornando a quella sconosciuta, dunque, perché mai se ne andava attorno
tutta sola in quella terra poco abitata?
Che la sua scorta fosse stata assalita e sterminata? O forse si trattava
d'una schiava fuggita da un padrone crudele? Oppure era, come me, un'e-
sule di Ko-ro-ba? In quest'ultimo caso dovevo prendere in considerazione
la possibilità che ai Re Sacerdoti non garbasse veder riuniti due ex concit-
tadini, visto che i loro ammonimenti andavano sempre presi alla lettera. E
la Morte di Fuoco, come avevo visto sette anni addietro, colpiva all'im-
provviso e con precisione micidiale in qualunque località.
Se costei era una donna libera e stava viaggiando così per scopi suoi, al-
lora quella sciocca era destinata ad una brutta fine: i cieli erano percorsi da
grifonieri abili nel catturare schiavi e, a terra, qualsiasi individuo fornito di
due mani per agguantarla le avrebbe messo il collare e i bracciali.
La prima missione affidata ad un grifoniere era proprio quella di cercare
delle belle prede in qualche città nemica. Se egli riusciva a catturare una
ragazza, non mancava mai di spogliarla nel cielo di quella città e di gettare
le sue vesti nel vuoto, per mostrare ai compatrioti di lei ciò che intendeva
farne. Poi, se l'ardito giovanotto ce la faceva a sfuggire ai furibondi grifo-
nieri avversari, la portava a casa sua dove le donne la ripulivano e le face-
vano indossare la tunichetta da schiava. Quella notte stessa il rapitore dava
una festicciola, presentava la nuova vittima agli amici e la costringeva a
ballare per lui. Al culmine della danza la sbatteva quindi in ginocchio a
terra, e le assicurava intorno alla gola il collare. Nessuna schiava dimenti-
cava mai lo scatto ineluttabile con cui quella fascia di metallo si era chiusa
al suo collo: da quel momento la sua sottomissione diventava assoluta.
Le città di Gor erano piene di schiavi, e gli strumenti per punirli ed inca-
tenarli erano di uso comune e di foggia spesso fantasiosa. Di solito le
schiave giovani e attraenti non venivano maltrattate, o al più si vedevano
vendute ad un bordello elegante, ma gli altri avevano di che maledire am-
piamente la propria sorte. Ciascuno portava sulla tunichetta e sul collare lo
stemma di famiglia del suo padrone, e non di rado tale marchio veniva
impresso a fuoco sulla pelle. A Ko-ro-ba, in casa di mio padre, avevo avu-
to parecchi schiavi dei due sessi; non me l'ero mai sentita di picchiarli,
tuttavia devo confessare che con le schiave che lavoravano nelle case di
piacere mi ero divertito parecchio e senza rimorsi.
E adesso questa ragazza che veniva ciecamente verso di me stava cer-
cando guai, perché era piuttosto bella ed io mi ero ricordato di mettere
l'aureola. Piegai la bocca in un largo sorriso.
Sì, pensai, era decisamente attraente. Ad onta del suo barcollare da ani-
male sfinito e della pesantezza delle vesti che le oscillavano addosso, non
faticavo a riconoscere un corpo molto sexy quando ne vedevo uno. Di si-
curo costei aveva da qualche parte un padrone, o dei parenti che la cerca-
vano con ansia. Donne simili non scomparivano di casa senza che nessuno
tentasse subito di rintracciarle.
Quando parlo di mariti, o di spose, non mi riferisco all'istituto del ma-
trimonio vero e proprio bensì al suo equivalente goreano, che potrei defini-
re come libera unione per quanto non sia infine troppo libera dal punto di
vista femminile. Una ragazza che fosse stata venduta dai suoi genitori, per
oro o per un certo numero di grifoni, era considerata sposa dell'uomo che
l'aveva acquistata anche se ciò andava contro la sua volontà. Spesso ciò
avveniva col consenso di lei, ma non necessariamente di regola. Capitava
anche che un uomo volesse liberare una delle sue schiave e prenderla in
moglie, tenendosi le altre come semplici concubine. Il concetto dell'amore
romantico come base dell'unione era assai raro su Gor, dove ci si sposava
per convenienza o per desiderio sessuale. Raramente due persone che si
amassero trovavano ciò un buon motivo per metter su famiglia.
Adesso la ragazza si trovava appena a una decina di metri da me, e anco-
ra non dava segno d'avermi visto. Camminava a testa bassa, coperta dai
caratteristici vestiti da Donna Celata che le nascondevano ogni centimetro
di pelle, ed osservai che si trattava d'indumenti assai miseri. Una ragazza
di Casta Alta non esitava ad esibire velluti e pizzi, sete preziose e stoffe
filigranate, e nelle Caste Basse alla ricchezza si sostituiva una gran vivaci-
tà nei colori. Lei invece aveva addosso un mantello col cappuccio color
marrone sporco, i cui bordi inferiori erano incrostati di fango, e la stoffa
appariva scucita in più punti.
«Salute a te,» dissi quando fu a portata di voce, in tono il più possibile
gentile per non allarmarla.
Sebbene mi vedesse in quell'istante per la prima volta, quando alzò il
capo non mostrò la minima sorpresa. Probabilmente non incontrava nessu-
no da diversi giorni, e quello doveva essere il motivo per cui si era scostata
dalla faccia la reticella protettiva. Aveva grandi occhi grigi, colmi di osses-
siva tristezza, e mi fissò con apatica indifferenza per la mia persona e per
quel che avrei potuto farle. Per almeno venti secondi parve chiedersi se
valeva la pena di parlare.
«Salute a te, guerriero,» mormorò poi, con voce spenta.
Tutto il suo comportamento era incredibile per una donna goreana. Non
accennò affatto a riagganciare la reticella che le pendeva dal cappuccio,
come se non le importasse nulla di far vedere il suo viso a un estraneo.
Sotto il cappuccio c'erano lisci capelli castani che incorniciavano un volto
delizioso, e mi accorsi di osservarla con estrema ammirazione.
«Ti piaccio?», mi domandò.
«Cosa? ...Oh, certo. Mi piaci moltissimo.»
Avrei giurato che quella era la prima volta che si faceva vedere in faccia
da qualcuno, a parte i suoi familiari. Un certo non so che nel suo sguardo
sembrava volermelo comunicare.
«Mi trovi bella, allora.»
«Sei così bella che mi sembra sciocco confermartelo.»
La ragazza mosse una mano e si sganciò il colletto del mantello, sco-
standolo per mostrarmi la gola. Intorno ad essa non c'era nessun collare,
dunque era una donna libera.
«Vuoi che m'inginocchi ai tuoi piedi per esser cinta del collare da te?»,
chiese.
«Al momento non dispongo di collari. Ma ci penserò.»
«Forse desideri prima vedermi nuda?»
Feci un sorriso all'idea. «Non è necessario.»
«Io sono vergine, e nessun uomo mi ha mai toccata. Non conosco questi
atti e ciò che si deve fare con un padrone. So solo che sarò tenuta a ubbi-
dirti in qualunque cosa tu voglia.»
«Per quanto mi dispiaccia dirlo, non rientra nelle mie abitudini rendere
schiava una donna libera,» borbottai di malavoglia.
Finalmente i suoi occhi ebbero un lampo di vita, e vi colsi un certo stu-
pore. «Non sei forse uno di loro, tu?»
«Loro chi?» Mi guardai attorno, di nuovo teso. Se nei pressi c'era una
banda di cacciatori di schiavi, costoro non avrebbero esitato a mettere il
collare anche a me o a farmi fuori.
«Loro... i quattro uomini di Tharna che m'inseguono.»
Stavolta fui io a restare stupito. «Credevo che gli uomini di Tharna, uni-
ci fra tutti i Goreani, riverissero le donne.»
Lei rise nervosamente. «Già. Ma adesso non ci troviamo nella città di
Tharna.»
«Cosa c'entra? Non potrebbero riportarti là come schiava. La Regina ti
farebbe subito liberare.»
«E chi dice che mi condurrebbero a Tharna? Mi userebbero per il loro
piacere e poi mi venderebbero a qualche mercante di passaggio, oppure al
mercato degli schiavi di Ar.»
«Posso sapere il tuo nome?»
«Vera,» rispose ella.
«Di che città?»
Prima che la ragazza potesse rispondermi, e sempreché stesse per farlo, i
suoi occhi si riempirono di spavento e fece un passo indietro. Mi volsi di
scatto: a breve distanza da noi quattro individui erano sbucati da un folto
di cespugli e s'avvicinavano nell'erba alta. Erano guerrieri armati di lance e
scudi, e dagli stemmi che portavano sulle tuniche blu li identificai come
uomini di Tharna.
«Scappiamo!», gemette Vera, girandosi per fuggire.
La afferrai per un braccio, ed ella si contorse furiosamente.
«Ora capisco!», sibilò. «Tu vuoi cedermi a loro. Mi cercavi per reclama-
re il diritto di cattura e chiedere il mio prezzo ...Cane!» E mi sputò in fac-
cia.
Non ne fui per nulla offeso, anzi il vedere che aveva ancora tutto quello
spirito mi fece piacere.
«Stai calma. Non andresti molto lontano, a questo punto.»
«Sono riuscita a sfuggire a quei serpenti per sei giorni e sei notti, dor-
mendo nei cespugli, mangiando bacche e insetti, correndo e nasconden-
domi!», ansimò lei.
«Ma non è bastato. E ora sei così stanca che non ti reggi in piedi,» preci-
sai. In effetti minacciava di afflosciarsi a terra da un momento all'altro. Le
cinsi le spalle con un braccio per sostenerla.
I guerrieri che venivano verso di noi avevano l'aria dura e scaltra dei
professionisti delle armi. Uno di essi, col grado di caposquadra, mi si stava
avvicinando frontalmente; un altro lo seguiva tenendosi un po' indietro e
sulla sinistra. Compresi che il primo aveva il compito di affrontarmi, men-
tre il compagno gli avrebbe fatto da spalla con la lancia. Un ufficiale ed il
quarto uomo sì stavano allargando ai lati, circa quindici metri più indietro.
Questi ultimi scrutavano intorno per vedere se fossi solo o meno, pronti a
coprire i primi due in caso di necessità. Era chiaro che sapevano battersi
bene e nulla li avrebbe colti impreparati. Cominciai a rendermi conto del
perché Tharna, sebbene governata da una donna, riuscisse a farsi rispettare
dalle numerose città ostili che attorniavano.
«Ehi, tu! Consegnami la donna!», ordinò il capitano, seccamente.
Lasciai gentilmente Vera, facendola spostare dietro di me. Il significato
del mio gesto apparve subito chiaro ai guerrieri, che si fecero più tesi e
ostili. Nell'apertura ad Y dell'elmetto gli occhi dell'ufficiale erano due fes-
sure minacciose.
«Io sono Thorn, capitano di Tharn,» m'informò.
«Ah, sì? E perché vuoi la ragazza? Si dice che voi di Tharna rispettiate
molto le donne... ma comincio a sospettare che questa sia una sporca ca-
lunnia.»
«Qui non siamo nel territorio di Tharna,» ringhiò lui.
«Giusto. E allora perché dovrei consegnartela?»
«Perché io sono Thorn di Tharna ti ho detto. Sei forse sordo?»
«Hai ammesso d'essere fuori dalla tua terra, caro mio. Qui hai meno au-
torità d'un topo di palude, dunque non darmi ordini.»
Alle mie spalle la ragazza sussurrò, tremante e terrorizzata: «Non gettar
via la tua vita per me, guerriero. Alla fine il risultato sarebbe lo stesso!»
Poi fece un passo di lato e alzò la voce: «Evita di uccidere quest'uomo,
Thorn di Tharna, te ne scongiuro. Verrò con te senza ribellarmi.»
Detto ciò sollevò fieramente la testa, rassegnata, al suo destino ma orgo-
gliosa e sprezzante, e tese avanti i polsi incrociati per offrirli ai bracciali da
schiavo che gli altri certo si portavano dietro, secondo i costumi di Gor.
Io risi forte. «La ragazza appartiene a me di diritto. Perciò levatevi dalla
testa l'idea di portarmela via.»
Vera si volse a fissarmi con un ansito di sbalordimento, come se mi rite-
nesse colto da follia.
«A meno che...», continuai, «non vogliate pagare il suo prezzo.»
«E qual è il suo prezzo, sentiamo?», chiese l'ufficiale.
«L'unica moneta che conosco è il ferro affilato, uomo,» dissi con calma.
«Prova a pagare con quella.» Nello sguardo di Vera colsi una luce di grati-
tudine disperata.
«Ammazzate questo bastardo!» ordinò Thorn ai suoi uomini.

Capitolo 7
I GUERRIERI DI THARNA

Prima ancora che l'uomo potesse aprire bocca avevo piantato la lancia in
terra, e poi vi fu il fruscio metallico di tre spade che venivano estratte dal
fodero: la mia, quella dell'ufficiale, e quella del milite che mi stava più
vicino. Il compagno da cui quest'ultimo era affiancato non si mosse, riser-
vandosi di assalirmi in seconda battuta con la lancia. Il guerriero rimasto
alla retroguardia sollevò anch'egli la lancia, ma si tenne alla larga per la-
sciare spazio agli altri.
Però fui io ad attaccarli per primo.
Corsi a destra con uno scatto velocissimo, arrivando incontro al più lon-
tano dei miei avversari prima che questi potesse spostarsi all'indietro. Con
un colpo secco dello scudo scostai la sua lancia, poi gli infilai la lama fra
le costole: nello scontro ravvicinato il possesso di un'arma fatta per la me-
dia e la lunga distanza gli era stato fatale. Subito ruotai su me stesso, per-
ché uno degli altri mi era addosso. Ci fu uno scambio di fendenti orizzon-
tali al corpo e alla testa, che entrambi bloccammo con lo scudo, quindi
riuscii a colpirlo con una pedata al basso ventre e ne sfruttai il successivo
sbilanciamento per arrivargli col taglio della lama a lato del collo. Cadde
senza un grido, fiottando sull'erba schizzi di sangue caldo.
L'ufficiale era corso avanti, ma ora si fermò. Li avevo colti di sorpresa
perché, essendo in quattro, si erano attesi che mi mettessi sulla difensiva,
tuttavia adesso le cose si sarebbero fatte più difficili per me. Lo fronteggiai
invitandolo a battersi con un movimento della spada, invece egli indietreg-
giò per togliersi dalla linea di tiro del quarto guerriero. Costui era nella
posizione migliore per scagliarmi la lancia, ed anche se fossi riuscito a
pararla con lo scudo, la punta vi si sarebbe conficcata, constringendomi a
gettarlo via. In quel momento mi trovavo ancor più a malpartito che all'ini-
zio dello scontro.
«Fatti avanti, Thorn di Tharna!», lo sfidai. «Decidiamo tu ed io, spada
contro spada!»
L'ufficiale esitò un poco e poi accennò all'altro di abbassare la lancia,
annuendo trucemente nella mia direzione. Si tolse l'elmetto e lo gettò sul-
l'erba, quindi fece ancora cenno al milite di tenersi in disparte. Lo studiai
con attenzione.
Sul suo volto potevo leggere che ora aveva un certo rispetto per me, e
questo non mi piacque, poiché significava che mi aveva pesato e valutato
senza errori. Certo si stava chiedendo se continuare a battersi non sarebbe
costato più sangue a loro che a me. Anche questi suoi istinti prudenziali mi
giunsero sgraditi. Avrei di gran lunga preferito duellare con un uomo im-
petuoso, forte ma poco riflessivo, mentre quello era un duro ed allo stesso
tempo un furbacchione.
«Parliamo!» propose, battendo la punta della spada in terra ad indicare
che potevamo sederci senza timore.
«D'accordo, parliamo,» risposi.
Rinfoderammo le armi e ci accovacciammo sull'erba, l'uno di fronte al-
l'altro. Thorn era alto, con un'ossatura robusta e muscoli più solidi della
media. La sua faccia larga, dalla pelle olivastra, era chiazzata di rosso dove
emergevano in superficie venuzze e capillari spezzati. Non aveva baffi, e
la sua barba era sagomata in una sottilissima linea di peli che gli percorre-
va la mandibola da un orecchio all'altro, mentre i lunghi capelli erano riu-
niti in una coda di cavallo alla maniera degli antichi Mongoli. Dagli occhi,
obliqui ed affondati nelle orbite annerite, giudicai che fosse un donnaiolo
ed un amante delle bisbocce notturne. Per molti versi somigliava al mio
vecchio nemico Pakur, presumibilmente morto nell'ultima battaglia di Ar
ma, a differenza di questi, non aveva l'aspetto del fanatico capace di sacri-
ficare tutto alla sua ambizione di potere. I desideri ed i vizi di Thorn erano
di carattere più prosaico, lo si intuiva, e non si trattava di quelli che spin-
gevano un guerriero a divenire Amministratore o Tiranno d'una città.
«Concedimi di curare il mio uomo,» disse, indicando uno dei due che
avevo steso a terra.
La richiesta mi rivelò che almeno Thorn era un buon capitano, rispettoso
dei suoi inferiori. Il milite che avevo colpito alla gola era morto, ma l'altro
dava cenni di vita, cosicché risposi:
«Occupatevene pure.»
Il guerriero armato di lancia si chinò sul ferito, lo esaminò e si affrettò a
riferire che secondo lui poteva cavarsela.
«Nella borsa ha delle bende. Guarda quel che puoi fare,» ordinò Thorn.
Si volse a me. «Devi consegnarmi la ragazza.»
«Spiacente. Non potete averla.»
«Non essere così irragionevole. Dopotutto è soltanto una donna.»
«Nulla ti impedisce di provare a togliermela,» replicai.
Thorn non cambiò espressione. «Uno dei miei uomini è morto. Puoi ave-
re il suo equipaggiamento e le armi.»
«Questa è un'offerta generosa,» dissi, serio.
«Ti spettano di diritto. Accetti, allora?»
«Niente da fare.»
L'ufficiale strappò un filo d'erba e se l'infilò fra i denti, osservandomi
con aria pensierosa. «Potremmo anche ammazzarti. Lo capisci?», mi disse.
«Nessuno è immortale,» convenni.
«D'altra parte non ci tengo molto a perdere un altro uomo, il che coste-
rebbe la vita anche al ferito,» borbottò.
«In tal caso è semplice: rinunciate alla ragazza ed andatevene per i fatti
vostri.»
Thor continuò a masticare il filo d'erba, senza togliermi gli occhi di dos-
so.
«Chi sei?», domandò infine. E, visto che io restavo zitto, aggiunse: «Al
vederti, senza stemmi né colori, si direbbe che tu sia un fuorilegge.»
«Non sono in grado di darti torto,» ammisi.
«E allora, fuorilegge, qual è il tuo nome?»
«Tarl,» mi limitai a dire.
«Di quale città?» fu l'inevitabile domanda.
«Tarl Cabot, di Ko-ro-ba.»
L'effetto provocato dalla mia risposta fu elettrico: la ragazza, che stava
in attesa accanto a me, indietreggiò con uno strillo acutissimo. Thorn e
l'altro guerriero balzarono in piedi come fulminati. M'affrettai ad imitarli,
snudando la spada.
«Sei ritornato dalla Città dei Morti?», ansimò l'ufficiale.
«No. Sono vivo e vegeto esattamente come voi.»
«Sarebbe stato molto meglio se tu fossi andato nella Città dei Morti e ci
fossi restato!», esclamò Thorn. «Tu sei stato maledetto per l'eternità dai Re
Sacerdoti!»
Alzai le spalle con indifferenza e mi voltai a guardare la ragazza. Aveva
gli occhi spalancati e li distolse subito da me, pallidissima.
«Il tuo nome e il più odiato di tutto Gor,» disse lamentosamente, con un
tremito spaventato.
Non seppi cosa rispondere, e del resto anche loro sembravano ammutoli-
ti per il disagio. Per un poco restammo lì in silenzio. Dalle sterpaglie pro-
veniva il cinguettio di qualche uccello, e l'unico altro rumore era quello
della brezza che accarezzava l'erba alta. Dopo un paio di minuti Thorn si
decise a parlare:
«Ho bisogno di tempo per curare il mio uomo,» mugolò.
«Fai pure con comodo,» concessi.
Senza aprir bocca il capitano ed il milite tornarono presso il compagno e
gli prestarono soccorso, con unguenti e fasce che tolsero da una borsa.
Quando ebbero terminato di bendargli il torace, improvvisarono una barel-
la, con due lance e robuste fibre vegetali, poi ve lo deposero sopra.
Fatto ciò, Thorn accennò alla ragazza di avvicinarsi a lui, e con mio sba-
lordimento Vera ubbidì: s'inginocchiò a terra e incrociò i polsi davanti ai
suoi piedi, nell'atteggiamento classico di chi si sottomette a un padrone.
L'uomo la fece rialzare. I bracciali da schiava scattarono chiudendosi at-
torno ai suoi avambracci bianchi e lisci.
«Non è necessario che tu segua questa gente!», sbottai.
Allungai una mano per toccarle una spalla ma lei fece un balzo di lato,
come se temesse che le mie mani la appestassero. Tremava come una can-
na al vento, ed evitava il mio sguardo.
«Voglio che tu venga con me, Vera.»
«Con te?», gemette. «Io non sarei mai capace di darti nessun piacere. Su
di noi ci sarebbe un anatema terribile.»
«Quand'è così, ti manderò libera.»
«Io non posso accettare nulla da te,» affermò.
Thorn rise brevemente. «È così, credimi. Meglio tagliarsi la gola che es-
sere amici di Tarl Cabot di Ko-ro-ba. E possano i Re Sacerdoti perdonarmi
per aver pronunciato il tuo nome.»
Lo ignorai. L'ostilità della giovane donna mi feriva. Dopo giorni di fuga
e di sofferenza adesso sembrava rassegnata al suo destino. I bracciali che
le cingevano i polsi erano di bellissima fattura, ornati con pietruzze prezio-
se e smalti colorati, tuttavia restavano pur sempre solide manette fornite
d'una serratura a prova di scasso. Lussuosi com'erano, contrastavano con la
povertà delle sue vesti. Thorn seguì il mio sguardo e le palpeggiò il man-
tello con una smorfia.
«Questa robaccia la getteremo via,» le disse. «Presto avrai abiti di seta e
ricchi sandali, gioielli, profumi costosi e ancelle che si occuperanno della
tua bellezza. Non avrai motivo di lamentarti, stanne certa.»
«Ma sarà una schiava!», lo accusai.
Thorn le prese il mento con dolcezza, facendole alzare il capo. «Hai una
bella gola, luminosa come l'alba. Purtroppo dovremo cingerla con un colla-
re, ma ti garantisco che il metallo sarà intarsiato d'oro.»
«Il collare di chi?», chiese lei, sostenendo orgogliosamente il suo sguar-
do.
Il sorriso dell'uomo s'allargò, come se avesse già pregustato quella do-
manda. «Il mio, naturalmente.»
La ragazza vacillò con un ansito penoso, e nel vedere il suo sgomento
strinsi i pugni.
«Benone, Tarl di Ko-ro-ba,» esclamò Thorn. «Questo conclude la nostra
disputa. Io me ne andrò con la ragazza, e in quanto a te... ti lascio nelle
mani dei Re Sacerdoti.»
«Se la porti a Tharna, la Regina la farà liberare,» dissi.
«Certo, ma non sarò così sciocco da condurla in città. La ragazza resterà
nella mia fattoria, che si trova in campagna.» Di nuovo rise, in tono spia-
cevole. «E ti assicuro che là, come ogni bravo cittadino di Tharna, mi
comporterò verso di lei con tutta la riverenza dovuta alle donne. Sarei paz-
zo a maltrattare un simile gioiello.»
Avevo ancora la spada in mano, e con un moto istintivo la sollevai.
Thorn e l'altro mi fissarono duramente.
«Non fare inutili gesti offensivi, guerriero.» Il capitano passò un braccio
attorno alla vita di Vera, stringendola a sé. «Diglielo tu stessa, mia cara: a
chi appartieni?»
«Appartengo a Thorn di Tharna, il mio padrone,» mormorò lei.
Rimisi la spada nel fodero, irritato e senza saper cosa fare. Avrei potuto
uccidere quei due uomini, ne ero certo, e liberare così la ragazza. Ma poi
cosa ne sarebbe stato di lei? Lasciarla lì avrebbe significato condannarla a
finir preda di qualche carnivoro, oppure di altri cacciatori di schiavi meno
teneri con le donne. Ed offrirle la mia compagnia sarebbe stato peggio,
visto che preferiva di gran lunga sottomettersi a quell'individuo piuttosto
che subire la vicinanza di Tarl Cabot.
«Da dove vieni?», le domandai. «Sei nativa di Ko-ro-ba, vero?»
Lei sbuffò, e quando mi fissò lessi l'odio nei suoi occhi. «Sì,» rispose a-
cremente.
«Mi spiace,» dissi.
Vera strinse i denti. Sulle sue palpebre luccicavano lacrime di rabbia e di
frustrazione.
«Perché hai osato sopravvivere alla tua città?», esclamò.
«Per vendicarla, se potrò.»
Mi osservò ancora per un paio di minuti, mentre nei suoi grandi occhi
grigi s'inseguivano le emozioni più diverse. Thorn e l'altro uomo avevano
sollevato la barella del ferito; dissero d'esser pronti a partire e le ordinaro-
no di muoversi.
«Addio, Tarl Cabot di una città che non esiste più,» sussurrò lei a capo
chino.
«Possa tu esser felice, Vera della Città che fu Regina del Mattino,» ri-
sposi, sottovoce.
Rimasi in piedi fra le erbacce, e continuai a guardare la giovane donna
ed i due guerrieri finché non scomparvero oltre le ondulazioni del terreno
cespuglioso.

Capitolo 8
LA CITTÀ DEL SILENZIO

Le strade di Tharna erano le più tranquille che avessi mai visto. I passan-
ti che vi transitavano erano numerosissimi ed occupati nelle loro faccende
quotidiane, ma così taciturni ed attenti a non provocare rumori inutili, che
ero costretto a guardarli con stupore. Entrare nella cerchia delle mura si era
rivelato semplicissimo: avevo bussato al grande portone, le guardie dal-
l'elmetto blu avevano socchiuso uno dei battenti per scrutarmi con profes-
sionale indifferenza, e quindi mi era stato fatto cenno di procedere libera-
mente. Tutto era dunque avvenuto in conformità a quanto si diceva nelle
altre località di Gor: Tharna apriva le sue porte a chiunque venisse in pace,
e senza far domande.
Non potevo fare a meno di osservare la gente con grande curiosità, e no-
tai che sembravano fin troppo assorti nei loro pensieri o affari personali, in
forte contrasto con i popolani rumorosi e confusionari d'ogni altra città del
pianeta. La più parte degli uomini indossava tuniche grigie, un colore al-
trove portato da chi voleva mostrare d'essere una persona cupa e responsa-
bile, poco portata alle frivolezze della vita.
Per quanto mi apparissero pallidi e deprimenti, si diceva che fossero più
solidi e capaci delle altre popolazioni, e non era escludere che lo fossero
davvero. In genere il goreano medio è estroverso, impaziente, superficiale,
e per sua stessa ammissione mette prima il piacere e poi il dovere. Ama
chiacchierare, ammira le imprese d'onore, e si caccia volentieri nei guai
per amore delle donne e del denaro.
Sulla schiena degli uomini in tunica grigia soltanto una stretta banda di
colore ne indicava la casta. Di norma su Gor i colori di casta venivano por-
tati in grande evidenza, ed il loro mescolarsi ravvivava ancor più l'atmosfe-
ra delle pubbliche strade. Ne potevo solo dedurre che forse costoro non
andavano affatto fieri d'appartenere alla loro Casta, atteggiamento che in-
vece era comune ad ogni goreano degno di rispetto. Perfino i membri delle
Caste più miserabili alzavano orgogliosamente il capo quando rivelavano
d'essere, vuoi Contadini, vuoi Allevatori di Grifoni, vuoi Fabbri Ferrai, e
questo perché ciascuno era conscio che il duro lavoro lo nobilitava e che
non c'era vergogna nella fatica manuale. Lo stesso Zosk il boscaiolo, nella
sua povertà, aveva ben chiaro il concetto che come onestà e onore persona-
le non era inferiore neppure ad un Tiranno potente. Sapeva stare al suo
posto, ma con animo sereno, e si sarebbe fatto tagliare il capo piuttosto
d'ammettere che la sua Casta era inferiore alle altre: conscio d'essere indi-
spensabile alla vita della comunità, traeva da ciò motivo di orgoglio.
Cercai però invano fra i passanti ragazze che avessero i contrassegni del-
la schiavitù. Qualunque città di Gor si visitasse, era inevitabile scorgere fra
la folla moltissime schiave giovani mandate a far delle commissioni dai
loro padroni o padrone. L'usanza voleva che indossassero tunichette cortis-
sime e scollate, dal taglio caratteristico ma di colore assai vario, sotto le
quali le loro forme erano ben visibili, e questa moda contrastava nettamen-
te con quella da Donna Celata, ovverosia il tipico abbigliamento delle
donne libere. A dire il vero, non di rado una donna libera invidiava le sue
schiave proprio per la leggerezza del loro vestito e la libertà d'aggirarsi
ovunque. A parte il disagio dato dal collarino, cui peraltro ci si abituava in
fretta, una schiava alla quale il padrone lasciasse un po' la briglia sciolta
poteva andare a passeggio e respirare l'aria fresca sui ponti fra le torri, pro-
tetta dal suo stesso marchio. Se poi era l'amante del suo proprietario, o la
favorita della padrona, osava sostituire la tunichetta con vesti di lusso e
faceva la bella vita in barba a tutti quanti.
Potei così costatare che davvero, in quella città dominata da una donna,
le schiave non esistevano affatto. Se poi vi fossero o meno schiavi di sesso
maschile, questo non l'avevo ancora potuto accertare, visto che per essi era
molto più facile celare il collare sotto le vesti. Gli uomini che vivevano in
schiavitù non erano riconoscibili facilmente come le donne, in quanto i
loro abiti erano per solito roba smessa da qualcun altro oppure uniformi
create dal gusto individuale dei padroni. Era un detto comune che neppure
gli schiavi dovessero riconoscersi e contarsi in una città, perché lo scoprire
che forse erano fin troppo numerosi avrebbe generato in loro idee pericolo-
se.
Le ragioni per cui alle schiave si riservavano tunichette ridottissime era-
no diverse. Da un lato esisteva il proposito di ricordar loro che erano in
stato di sottomissione, dunque in una situazione opposta a quella da esse
vissuta allorché erano state libere e ultracoperte. Parallelamente a questo si
voleva far sì che in caso d'incursioni di grifonieri nemici fossero loro le
prime prede, ponendole in evidenza e contando quindi sul fatto che le don-
ne libere venissero risparmiate. Lo stratagemma funzionava fin troppo
bene perché, per un grifoniere, rapire una Donna Celata poteva voler dire,
una volta strappatole il cappuccio, il rischio di trovarsi davanti ad una me-
gera o ad una ragazzotta foruncolosa e baffuta. Catturare a colpo sicuro
una bella schiava formosa era invece un risultato assai più soddisfacente, a
meno che non si mirasse al riscatto. Ogni donna libera, dalla più misera
popolana alla figlia d'un Amministratore, era consapevole d'avere un valo-
re espresso in denari d'oro oppure in grifoni; tale somma era, vuoi il suo
prezzo di sposa, vuoi il suo eventuale riscatto. Nel caso di una ragazza
povera era la cifra che raggiungeva se veniva messa all'asta in un mercato
di schiavi, ed era genericamente definita il suo «prezzo».
Ma ciò che mi stava procurando maggiore sorpresa, nelle strade di Thar-
na, era la vista delle donne libere che vi circolavano. Procedevano senza
alcuna scorta, a passi imperiosi e sicuri, e davanti a loro gli uomini s'affret-
tavano a scostarsi con buon anticipo per non intralciarle. Tutte indossava-
no vesti più o meno ricche da Donna Celata, dai colori smaglianti e certo
uscite dalle mani di abili sarte, che spiccavano vivaci in mezzo allo squal-
lore degli indumenti maschili. Il particolare in cui si differenziavano da
ogni altra donna di Gor era la sottile maschera d'argento cesellato, che na-
scondeva loro il viso in sostituzione della reticella protettiva, e questa no-
vità mi lasciava sbalordito. Notai che le maschere erano assolutamente
identiche, tutte raffiguranti un volto femminile dalla gelida e distante bel-
lezza. Alcune di loro si volgevano a guardarmi, probabilmente incuriosite
dalla mia tunica rossa da guerriero. Le fredde espressioni da idolo pagano
di quelle maschere non mi piacevano, e mi provocarono un senso di disa-
gio sempre crescente.
Vagabondai qua e là senza una meta precisa e, dopo un'oretta, mi trovai
ad arrivare per caso nella piazza del mercato. Il luogo era fitto di bancarel-
le su cui si esponevano in bella mostra le merci più diverse: stoffe, utensili,
articoli per la casa e di vestiario, armi, e soprattutto cibarie di tutte le varie-
tà. Ma anche lì l'attività era contrassegnata da un'assenza di rumori stupe-
facente.
Di solito i mercati goreani erano ancor più confusionari di quelli della
Terra: le grida dei venditori erano una cantilena asfissiante, il vocio della
folla forniva un sottofondo caotico, vi si aggiravano ladri e tagliaborse,
guardie civiche e gruppi di amici in cerca di qualche articolo per la caccia,
schiave e donnette del popolo ugualmente propense a litigare sui prezzi, ed
era normale assistere a zuffe, a discussioni accanite fra coniugi o fra per-
fetti sconosciuti, a schermaglie amorose, ad inseguimenti di borsaioli. I
mendicanti si trascinavano ovunque con le loro insistenti suppliche, e le
ragazze di buona famiglia approfittavano della confusione per scostarsi la
reticella dal viso e gettare audaci occhiate ai giovanotti, dietro le spalle dei
loro distratti parenti.
Sebbene le consuetudini volessero che le ragazze da marito ricevessero i
pretendenti a casa loro, sotto la supervisione di genitori abili a vagliare le
finanze e la moralità degli aspiranti, si dava per scontato che il primo con-
tatto fra la fanciulla ed il giovanotto avvenisse furtivamente nei mercati,
nei teatri all'aperto o sulla pubblica via. Durante la presentazione ufficiale,
si agiva come se la ragazza ed il pretendente non si fossero mai visti prima
in vita loro, ma in realtà un contatto c'era sempre stato: la riservatissima
giovinetta che in presenza dei genitori salutava lo «sconosciuto» con occhi
timidamente abbassati al suolo, era la stessa ridanciana fanciulla che il
giorno addietro nella piazza del mercato gli aveva scoccato uno sguardo
assassino per invitarlo a farsi avanti. L'altera e ricca figlia dell'Ingegnere o
del Medico che nel suo Giardino Chiuso riceveva il giovanotto disposto a
pagare per lei cinquanta grifoni da guerra, era la stessa astuta personcina
che, a teatro, aveva finto che un soffio di vento le staccasse la reticella per
consentire al prescelto d'osservarle il volto, un volto pudicamente arrossito
per «l'incidente».
Ma nulla di tutto ciò accadeva nel silenzioso mercato di Tharna. Era
semplicemente un luogo in cui la gente si recava con ordine ad acquistare
merce. Non si discuteva sui prezzi, non si gettava la roba all'aria in cerca di
articoli di diversa misura o colore, ed i venditori non si scambiavano quei
pittoreschi insulti che per il goreano medio erano addirittura un'arte.
Come già nei mercatini del Medio Oriente terrestre, nelle altre città di
Gor la discussione fra venditore ed acquirente era un vero e proprio passa-
tempo in cui il prezzo in sé stesso finiva per essere la cosa di minor conto:
si disquisiva sui pregi e difetti della merce, si litigava, si passava agli in-
sulti od alle sottili insinuazioni, si chiamavano i presenti a testimoniare
questa o quella verità, e spesso il compratore tagliava corto offrendo una
somma così alta da risultare insultante, ed a ciò il venditore replicava rega-
lando l'articolo in oggetto con un sovrappiù di monete d'argento, destando
a sua volta l'indignazione dell'altro: insomma, si assisteva a scenette sem-
pre gustose nel loro rituale ormai ben noto.
A Tharna sembrava d'essere in un altro mondo. Mi fermai per osservare
una vendita, e la scena che vidi svolgersi avrebbe potuto esser tolta di peso
da un fil muto: il compratore, un uomo di mezz'età, richiamò l'attenzione
del mercante con un gesto e poi batté l'indice sull'articolo prescelto, una
maglia di cotone grigio, alzando due dita per significare che ne voleva due.
Il venditore annuì ed usò anch'egli le dita per comunicarne il prezzo, un
denaro d'argento e due di bronzo. A mio avviso era una cifra esorbitante,
comunque l'uomo pagò senza fiatare e ricevette in risposta tre dita alzate,
ovviamente tre denari d'argento. Allora fece una smorfia dispiaciuta, salutò
con un cenno del capo e si allontanò. Devo però dire che qua e là si parla-
va, a voce bassa e brevemente, ma si parlava.
Uscendo dalla piazza del mercato notai che qualcuno mi pedinava: due
individui in tunica grigia, furtivi ma non troppo abili, mi si erano messi
alle costole fingendo un passo indifferente. Indossavano mantelli grigi
sopra le tuniche, e le loro facce erano nascoste dalla stoffa dei cappucci.
Spie della guardia cittadina, pensai fra me, probabilmente sguinzagliate
attorno per tener d'occhio gli stranieri entrati nella cerchia delle mura e
controllare che non abusassero dell'ospitalità. La giudicai una precauzione
comprensibile e non feci alcun tentativo per sfuggire al pedinamento, allo
scopo di non destare inutili sospetti sulla mia persona. Malgrado avessi
armi da guerriero e l'apparenza del fuorilegge, ero convinto di non aver
nulla da temere se mi fossi comportato come un innocuo turista. Li ignorai
e continuai a passeggiare.
Poco dopo entrai in una delle grandi torri cilindriche di Tharna e feci le
scale fino in cima, per dare alla città un'occhiata dall'alto. L'accesso al tetto
era sbarrato, cosicché uscii sul più alto fra i ponti che la collegavano alla
torre vicina, lungo circa venti metri. A differenza delle altre città, tutti i
ponti di Tharna erano forniti di ringhiere di sicurezza in tubo metallico, e
anche questo ne aveva una ben solida. Notai che si trattava d'un tubo estru-
so, in lega d'acciaio e con chiodature, e ciò mi fece riflettere che l'industria
era più operosa che altrove. I Re Sacerdoti mantenevano l'economia di Gor
ad un livello medievale, addirittura barbarico, e tuttavia lasciavano che
alcune scienze come la medicina e l'ingegneria si evolvessero molto. Inol-
tre mettevano sovente in circolazione oggetti sofisticatissimi, come il Tra-
duttore Istantaneo che un tempo mi aveva facilitato nell'apprendimento
della lingua di Gor, i quali si potevano però ottenere solo tramite gli Adep-
ti o gli Uomini delle Valli ed erano comunque rari.
M'appoggiai alla ringhiera e lasciai vagare lo sguardo su quell'abitato
così insolito.
Era una comune città dalle molti torri, e le robuste costruzioni cilindri-
che costituivano tutto l'insieme degli edifici, ma adesso mi sembrava assai
meno attraente di qualsiasi altra. Il suo diametro s'aggirava sui quattro chi-
lometri, e le sue torri erano basse e larghe, simili a pile di gettoni messi
uno sull'altro, ben diverse dalle snelle ed eleganti costruzioni che svettava-
no altrove. Avevano un aspetto eccessivamente sobrio, quasi conscie del
loro stesso peso, ed i loro colori andavano dal grigio al marroncino, al pun-
to che stentavo a distinguerle fra loro. Non potevo fare a meno di parago-
narle alle torri di Ko-ro-ba, scintillanti di mille smalti e di particolari viva-
ci, che sembravano gareggiare l'una con l'altra per essere la più bella della
città, e quel panorama triste ed uniforme ora mi deprimeva.
Perfino la campagna circostante, qua e là segnata da occasionali affio-
ramenti di roccia e dalle case coloniche, aveva un tono verde grigiastro che
metteva malinconia. Tharna non era una città fatta per rallegrare lo spirito
di un uomo. Da un punto di vista puramente terrestre capivo che si trattava
d'un centro sociale assai evoluto, e che vi regnava un ordine maggiore che
nel resto di Gor. Tuttavia, io ero ben distante dalla mentalità d'un geometra
terrestre: amavo Gor proprio perché era barbaro e pieno di vita, splendido
e selvaggio, e di conseguenza stabilii che mi sarei trattenuto in quella città
per il tempo strettamente indispensabile. Mi sarei procurato al più presto
un grifone ed avrei proseguito verso le Montagne di Sardar. Una volta là,
avevo intenzione di trovare la risposta a tutte le domande che mi ero posto
fino a quel momento sui Re Sacerdoti, che a loro piacesse oppure no.
«Forestiero,» disse una voce alla mia sinistra.
Mi voltai con deliberata lentezza. Uno dei due individui ammantellati di
grigio era uscito sul ponte e si stava avvicinando. Con una mano si teneva
chiusa la stoffa del cappuccio, per impedirmi di vederlo in faccia, e con
l'altra seguiva la ringhiera come se l'altezza gli desse le vertigini. Nel frat-
tempo il cielo s'era rannuvolato, e giusto allora prese a scendere una legge-
rissima pioggia.
«Tal,» dissi, alzando educatamente la destra.
«Tal,» rispose, senza levare la mano dalla balaustra. Mi si accostò più di
quanto non avrei gradito, ed esordì: «Tu sei straniero in questa città.»
«Immagino che la cosa sia evidente,» borbottai.
«Chi sei? Da dove vieni?»
«Il mio nome è Tarl, e non ho nessuna città,» rivelai soltanto. Avevo
imparato la lezione, e non intendevo risvegliare lo spavento o l'odio altrui
dichiarando la mia identità completa, almeno senza che vi fosse un motivo
pressante.
«Quali affari stai svolgendo a Tharna?»
«Sono entrato in città unicamente perché mi occorre un grifone. Devo
fare un lungo viaggio.»
Era la verità, anche se non avrei mai palesato quale destinazione e scopo
mi fossi proposto. Se quel tipo era un informatore delle autorità non m'im-
portava che volesse sapere i fatti miei, ed ero disposto a dargli soddisfa-
zione, entro certi limiti.
«Un grifone costa non pochi soldi,» m'informò.
«Non mi aspetto che un ignoto benefattore compaia a regalarmene uno,
né intendo vincerlo a dadi a qualche ubriaco.»
«Qui a Tharna è proibito ubriacarsi sordidamente e giocare d'azzardo.
Hai del denaro con te?»
«Neppure l'impronta d'un denaro di bronzo stampata sulla creta.»
«E allora come conti di procurarti un grifone?»
«Oh, il modo lo troverò... Ma stai tranquillo, non sono un ladro anche se
riconosco d'avere l'apparenza del fuorilegge.»
«Comunque qui non c'è posto per i fuorilegge. A Tharna siamo tutti one-
sti cittadini e lavoriamo per vivere,» disse, con un tono che sembrava una
sentenza di tribunale.
Era chiaro che non si fidava per niente di me, ed allo stesso modo io
cominciavo ad avere strani dubbi su di lui. Perché non mostrava la sua
faccia, intanto? Senza neppure averlo visto in viso provavo per lui un'istin-
tiva antipatia. Ad un tratto mi decisi: allungai una mano e gli tirai indietro
il cappuccio, scoprendogli la testa. Ebbi la breve visione d'un volto gialla-
stro dai pallidi occhi azzurri, ma subito lui fu svelto a ricoprirsi e si fece
indietro. Intanto era comparso anche il suo collega, e i due sbirciarono qua
e là come per accertarsi che nessun estraneo stesse assistendo al nostro
incontro.
«Mi piace guardare in faccia quelli con cui parlo,» dissi, in tono discor-
sivo.
«Già, naturalmente,» brontolò l'individuo, richiudendosi bene il cappuc-
cio.
«Potete darmi una mano a trovare un buon grifone?», chiesi.
Lui annuì subito. «Se vuoi... Ma forse non ti aiuteremo soltanto in que-
sto. Per te potrebbero esserci mille denari d'oro, e tutte le provviste che
vorrai per il tuo viaggio.»
Feci un fischio fra i denti. «Capisco. Però io non sono un assassino, ami-
co.»
Fin dai tempi dell'assedio di Ar, quando Pakur aveva indotto i suoi col-
leghi di molte città a violare le regole della Casta degli Assassini riunendo-
li in un'orda con mire di conquista, i professionisti dell'omicidio in tunica
nera erano stati perseguitati e cacciati. I superstiti si erano trasformati in
mercenari, offrendo i loro servigi alla spicciolata, e venivano considerati
ufficialmente dei fuorilegge.
«Io sono un guerriero, amico. La mia tunica è rossa,» aggiunsi.
«Lo vedo. So bene che la Casta degli Assassini non esiste più,» disse,
sebbene io dubitassi di quell'affermazione. I suoi occhi slavati mi fissarono
fra le pieghe del cappuccio. «Ma non ti interessa avere un grifone, oro e
viveri a sufficienza?»
«Dipende da quel che dovrei fare per averli.»
«Non è necessario che tu uccida nessuno.»
«Allora sono tutt'orecchi.»
«È un tipo di faccenda nella quale tu hai senza dubbio una buona espe-
rienza, visto che sei un grifoniere.»
«Può darsi. Di che si tratta, insomma?»
«Dovrai... diciamo, prelevare una donna.»
Sorrisi. Chiedere a un grifoniere di rapire una femmina era come ordina-
re al vento di soffiare ed alla pioggia di cadere, evento quest'ultimo che
stava per l'appunto intensificandosi, lì su quel ponte: ero già bagnato fradi-
cio. Ovviamente tutto dipendeva dall'identità della donna in questione. Le
più ricche o più attraenti erano sorvegliate a tal punto che, se pure fosse
stato possibile rapirle, a ciò sarebbe seguita una caccia all'uomo implacabi-
le.
«Chi è questa donna? Sentiamo.»
«Il suo nome è Lara.»
«Di quale famiglia e città?»
I suoi occhi chiari ebbero un lampo. «Straniero, Lara è la Regina della
città di Tharna!», sibilò.

Capitolo 9
BENVENUTO, STRANIERO

In piedi sotto la pioggia che mi tamburellava sull'elmetto e sullo scudo,


immerso nel grigiore del cielo e della città, osservai quello strano cospira-
tore incappucciato senza saper cosa pensare. Dunque anche lì, nella tanto
decantata città di Tharna dove giustizia e libertà erano un vanto, avveniva-
no quegli stessi intrighi che nelle altre località intorbidivano l'esistenza dei
potenti. Ero deluso. Inoltre mi si trattava come un avventuriero dappoco,
un furfante disposto a vendersi a chiunque per una borsa di denari d'oro.
«Niente da fare,» dissi.
L'individuo ebbe uno scatto del capo. «Io rappresento un personaggio
molto potente. Non faccio proposte a caso... e pago in denaro sonante.»
«Non ne dubito. Però io non ho niente contro la Regina Lara.»
«Sei forse un suo ammiratore? La conosci?»
«Non l'ho mai vista in vita mia.»
«E tuttavia rifiuti?»
«Ci puoi scommettere, amico!», dichiarai.
«Hai paura!», mi accusò.
«Non ho paura di niente.»
«Allora dovrai rinunciare ai tuoi progetti. Nessuno ti procurerà un grifo-
ne, razza di sciocco!»
L'uomo si volse e si allontanò, sempre tenendosi alla ringhiera. Insieme
al compare raggiunse la soglia della torre, e qui si fermò per gettarmi
un'ultima frase: «Tu non uscirai vivo dalle mura di Tharna, straniero.»
«Sia pure. Ma non giocherò al tuo sporco gioco, signor mio!», replicai,
per nulla impressionato.
Le due figure ammantellate di grigio parvero sul punto di dileguarsi co-
me nebbia nella semioscurità della torre, ma ad un tratto esitarono. Li vidi
confabulare fra loro ed annuire come se si trovassero d'accordo su una
nuova linea di condotta. Poi l'uomo dagli occhi slavati lasciò il compare e
tornò sul ponte, avvicinandosi a me con la stessa cautela di poco prima.
«Sono stato troppo precipitoso. Non intendevo minacciarti sul serio,»
disse. «Anzi stai pur certo che non ti accadrà niente di male. A Tharna
siamo tutti probi cittadini e aborriamo la violenza.»
«Mi fa piacere sentirtelo dire.»
L'uomo tolse di tasca una borsa di pelle colma di monete tintinnanti e,
mentre lo fissavo sorpreso, me la mise in mano. Nella scura cornice del
cappuccio la sua bocca si deformò in un largo sorriso amichevole.
«Benvenuto a Tharna,» disse. E in fretta abbandonò il ponte insieme al
suo accompagnatore.
«Ehi, un momento... Torna indietro!», lo richiamai. Ma i due erano già
scomparsi.
Palleggiai la borsa con un sospiro. Mi era stata regalata da un piccolo
manigoldo perché tenessi la bocca chiusa e sparissi alla svelta, ma sarei
stato un ipocrita a dire che quei soldi mi rendevano triste, perché grazie ad
essi non avrei dormito in un campo sotto la pioggia e forse sarebbero ba-
stati per comprare un grifone spennato e pieno di zecche. Quella notte mi
si prospettava dunque un alloggio decente ed una cena sostanziosa. Scesi
la lunga scala a spirale della torre e tornai in strada.
Su Gor gli ostelli non erano molto numerosi. Ogni città ne aveva due o
tre, appena quel che serviva per alloggiare i mercanti ed i pochi viaggiatori
bene accetti, dato che le continue ostilità fra le città limitrofe scoraggiava-
no i traffici e riducevano quindi al minimo l'attività alberghiera. D'altra
parte, proprio la scarsità di clienti induceva i locandieri ad accoglierli sen-
za far troppe domande, accettando nomi falsi e chiudendo un occhio sulle
loro intenzioni dietro il pagamento d'una mancia. A Tharna però gli ostelli
dovevano essere più comuni che altrove e, con questa fiduciosa riflessione,
m'incamminai alla ricerca di un'insegna. Fui stupito quando invece finii
con l'accorgermi che non se ne vedeva neppure una.
Decisi che alla peggio mi sarei sistemato sulla panca di una delle taverne
dove si vendeva principalmente paga, il vino assai alcolico fatto coi grap-
poli del Sa-Tarna. A Ko-ro-ba, e in genere ovunque, nessuno trovava inso-
lito che i clienti delle osterie trascorressero la notte nel locale, purché pa-
gassero le consumazioni e verso una certa ora la piantassero di far bacca-
no. Non mi aspettavo di trovare nelle taverne della poco allegra Tharna
musicanti e danzatrici, ma ero disposto ad accontentarmi.
Poco dopo l'imbrunire, col traffico stradale ormai diradato, fermai uno
degli anonimi passanti in tunica grigia.
«Per cortesia, uomo di Tharna, dove posso trovare una locanda?»
«Non ci sono locande né ostelli in questa città,» fece lui, osservandomi
con attenzione. «Tu sei uno straniero, vedo.»
«Sono un viaggiatore e cerco un alloggio per la notte.»
«Dai retta a me, straniero: vattene!», mi consigliò, imprevedibilmente.
«Credevo che i viandanti fossero ben accolti, qui da voi.»
«Ah, sì? Ed io ti dico che farai meglio a scuoterti subito dai sandali la
polvere di Tharna, prima che siano chiuse le porte della città.» Si guardò
attorno nervosamente, preoccupato che qualcuno ci stesse osservando.
«Se non ci sono ostelli, indicami una taverna. Almeno non trascorrerò la
notte all'addiaccio.»
«Non ci sono neppure taverne.»
«E allora dove posso andare a dormire?»
«Hai la scelta fra queste due possibilità: la riva erbosa di un fossato fuori
dalle mura, oppure il palazzo della Regina.»
«Vuoi dire che alla Regina non scomoderebbe farsi più in là per lasciar-
mi un po' di posto nel suo letto?» Cercai di scherzare, ma in realtà quella
risposta mi aveva meravigliato.
L'uomo emise una risata rauca. «Guerriero, da quante ore ti trovi nella
nostra città?»
«Sono entrato verso la sesta ora di questa mattina.»
«Peccato. Vuol dire che sei qui ormai da più di dieci ore.»
«E questo che significa?»
«Benvenuto a Tharna!», esclamò lui, e se ne andò a passi svelti lungo la
strada piena d'ombre.
Irritato da quel modo di fare, e senza aver capito bene cosa l'individuo
avesse inteso dire, mi avviai in direzione delle mura. Ero quasi giunto al
grande portone, quando vidi che l'avevano già chiuso, e mi fermai: i bat-
tenti erano sprangati da due travi colossali, così pesanti che per sollevarle
sarebbero occorsi alcuni tharlarion da tiro o un centinaio di schiavi. Presso
la garitta erano piazzate due guardie, che mi fissarono pigramente. I loro
sguardi mi comunicarono che uscire di città era da escludersi, almeno per
il momento.
«Benvenuto a Tharna, straniero,» disse uno di loro.
Avevo fatto una ventina di passi quando sentii alle mie spalle una risati-
na chioccia, ironica e strana come quella del cittadino di poc'anzi.
Non sapevo bene da che parte dirigermi, e l'illuminazione pubblica era
degna di un cimitero così, quando vidi una piccola insegna illuminata alla
base di una torre, mi accostai, tanto per indagare su quel raro esempio di
vivacità. Due striminzite lanterne piene di olio di tharlarion, fissate ai lati
di una porta chiusa, spandevano la loro luce gialla su una scritta: QUI SI
VENDE KAL-DA.
Il kal-da era una bevanda buona a stento per i montanari, un vino pro-
fumato e condito con spezie che andava bevuto bollente. Essendo econo-
mico, o per meglio dire scadentissimo, nelle zone fredde riscuoteva l'ap-
prezzamento dei poveri che, se non potevano riempirsi lo stomaco, riusci-
vano almeno a scaldarselo. Adesso si era levata un'arietta pungente, ed io
ero a digiuno da quel mattino, perciò riflettei che un boccale di kal-da non
avrebbe potuto abbattermi il morale più di quanto non lo fosse già. Inoltre
riflettei che, dove si smerciava vino, non dovevano mancare il pane e la
carne. Ai miei occhi balenò la visione d'una forma di pane croccante appe-
na sfornato, seguita da quella d'un cosciotto di tarsk rosolato a fuoco vivo
e servito con contorno di verdura, e mi venne quasi la bava alla bocca. Con
un sospiro palpeggiai la borsa che mi ero messo in tasca, poi scesi i due
gradini di pietra e col manico della lancia spinsi la porta. Era aperta.
Oltre la soglia c'era un'altra breve serie di scalini. Il locale era ampio, ma
basso e poco illuminato. Una decina di tavoli massicci, un certo numero di
panche, sgabelli, ed il bancone della mescita ne costituivano l'arredamento
spoglio. Nel riflesso rossastro delle lampade ad olio, cinque o sei avventori
si voltarono a guardarmi, interrompendo subito le conversazioni, e notai
che si trattava dei soliti anonimi individui vestiti di grigio. Fra loro non
c'erano guardie o uomini armati.
Addobbato com'ero, dovevano certo trovarmi insolito. Ero un forestiero,
uno sconosciuto armato fino ai denti che era capitato d'improvviso in mez-
zo a loro, cosicché non mi meravigliai dell'espressione per nulla amichevo-
le che assunse il gestore quando mi accostai al bancone. L'uomo era basso
e mezzo calvo, indossava un trasandato grembiule giallo e stava spillando
del kal-da in un boccale di legno da un recipiente fornito di rubinetto.
«Tal!», lo salutai.
«Tal!», fu il borbottio di risposta. Mi squadrò con evidente disapprova-
zione. «Cosa ti porta in città, guerriero?»
«Sono di passaggio. Ho fatto una capatina entro le mura per vedere se
trovo da acquistare un grifone, e non prevedo di fermarmi. Vorrei da man-
giare e, se possibile, un letto per la notte.»
«Questo non è il posto giusto per uno di Casta Alta,» m'informò.
Mi guardai in giro. Gli avventori del locale erano tipi sparuti e malmessi,
con l'aria tipica dei disgraziati. Non era facile capirne la Casta, essendo
questa indicata solo dalla strettissima banda dietro le loro tuniche sdrucite;
ma tutti erano accomunati dall'espressione vacua e miserabile, e dall'atteg-
giamento abulico di chi non ha un briciolo di spirito e di rispetto per sé
stesso.
«Tu sei un guerriero, un uomo di Casta Alta. Non è opportuno che ti
fermi nel mio locale,» ripeté ottusamente il proprietario.
La prospettiva di tornare fuori, per aggirarmi tutta la notte nelle strade
bagnate di pioggia, non mi riusciva gradita. Tolsi dalla borsa una moneta
d'argento e la gettai all'individuo, che la prese destramente al volo e la sag-
giò coi denti. Era un denaro coniato di fresco e, quando ne ebbe constatato
l'autenticità, parve mostrare un filo di cupidigia. Gli lessi negli occhi che,
pur di non dovermelo restituire, avrebbe fatto uno sforzo d'ospitalità.
«A che Casta appartiene quella moneta?», lo interrogai.
«Già... il denaro non ha Casta,» borbottò.
«Allora portami qualcosa che non sia un insulto allo stomaco.»
Andai a sistemarmi in un angolo della taverna, ad un grosso tavolo nero
e tarlato dal quale potevo tener d'occhio la porta. Misi contro il muro lo
scudo e la lancia, poggiai l'elmetto sulla superficie bisunta, e mi slacciai il
cinturone, deponendo sul tavolo anche quello. Potermi sedere era un sol-
lievo.
Quasi subito il proprietario venne a servirmi un boccale di kal-da fu-
mante, della capacità di quasi un litro. Era così caldo che mi scottò la boc-
ca ma, appena ne ebbi ingollato una lunga sorsata, mi sentii meglio. Quel
vino era pessimo, così disgustoso che d'improvviso mi parve perfettamente
intonato alla mia situazione, ed il pensiero mi strappò una breve risata.
I clienti si voltarono ad esaminarmi e si scambiarono occhiate significa-
tive, scuotendo il capo come davanti ad un matto. Le loro espressioni mi
divertirono. D'un tratto fui curioso di sapere se quegli individui scialbi
erano capaci di ridere. In tutto il giorno avevo visto soltanto ceffi cupi, e
adesso una semplice risata sembrava destare stupore e disapprovazione.
Malgrado il posto fosse scuro, sudicio e silenzioso, l'effetto del kal-da me
lo fece apparire in una luce quasi accettabile.
«Che avete da guardarmi, gente? Parlate, ridete!», esclamai.
Bevvi un'altra sorsata di vino, mi forbii la bocca con un gran gesto della
mano, poi afferrai la lancia, battendone il manico sul pavimento.
«Allora, popolo della piovosa Tharna! Vi hanno tagliato la lingua? Se
non siete capaci di ridere, cantate con me. Suvvia, un bel coro!»
Gli avventori dovettero pensare d'essere in presenza d'un demente. A di-
re il vero, il kal-da bevuto a stomaco vuoto mi stava già dando alla testa,
ma ciò che mi esasperava era l'atmosfera grigia e malinconica dell'intera
città, il modo di fare contegnoso della gente, i loro vestiti uggiosi, la stupi-
da e solenne indifferenza con cui vivevano le loro vite. Nessuno dei pre-
senti aprì bocca: secondo loro, lo sciocco ero io.
«Che vi assilla, amici? Guardatevi attorno: questa è una taverna e non un
sepolcro!», dissi ancora a voce alta. «O per caso vi sono morti dei cari pa-
renti, o le vostre donne fanno l'occhiolino ai soldati, o avete perso al gioco
l'eredità del nonno? Se proprio dovete piangere, fatelo dentro un boccale di
buon vino.»
«Qui non si può giocare d'azzardo,» disse finalmente uno di loro.
Io ridacchiai. «Che io possa schiattare se non manderò a Tharna il mio
peggior nemico! Infatti, cosa resta ad un guerriero, se non può gettar via ai
dadi la sua paga? Ma date retta a me, gente: fatevi due risate finché avete
vita in corpo, chiacchierate e cantate! Fin troppo presto la morte vi riempi-
rà la bocca di terra, ed allora sarà impossibile farlo.»
I loro occhi rivelarono solo una certa dose d'incomprensione, ma io tac-
qui, perché il proprietario stava arrivando con alcune scodelle. Mi venne
servito un arrosto di tarsk sorprendentemente ben rosolato, pane caldo,
miele, frutta, e insieme alle posate ebbi un vasetto di sale. Mi affrettai a
darci dentro, innaffiando ogni boccone con ampi sorsi di kal-da.
«Ehi, padrone!», chiamai dopo un poco, battendo con energia il boccale
sul tavolo.
«Sì, guerriero?»
Ruttai con forza. «Dove diavolo nascondi le ragazze?»
L'uomo mi fissò, attonito. «Le ragazze?»
«Sì, le schiave, le danzatrici. Ho voglia di vedere qualche dolce femmi-
nella darci dentro coi campanelli e le nacchere, e di sentire un po' di musi-
ca. Valle a chiamare, furbo demonio, e se vuoi i miei soldi.»
La bocca del gestore si spalancò lentamente. Aveva un'espressione così
idiota che mugolai per il disgusto.
«Non ci sono schiave a Tharna, e neppure donne di piacere,» disse de-
bolmente uno degli avventori.
«Che il cielo mi strafulmini!», gridai, scandalizzato. «Neppure una pro-
stituta o una ballerina in tutta questa dannata città? Neanche una vecchia e
zoppa? Ma questo è immorale!»
Due o tre dei presenti risero. Finalmente ero riuscito a far vibrare una
corda nei loro torpidi petti.
«E le misteriose creature che ho visto oggi nelle strade? Le tipe dall'aria
tronfia con quelle buffe maschere sulla faccia, forse che non sono donne
quelle?»
«Oh, sì, sono donne,» mi fu risposto.
«Ma no!» finsi di sbigottirmi. «E che mi dite, si potrebbe andare ad ar-
ruolarne un paio, per vedere se riempiendo loro la pancia di vino son di-
sposte a ballare per un gruppo di maschi ruggenti?»
Gli uomini risero ancora. Mi alzai in piedi, barcollando ostentatamente,
e dichiarai con fierezza che mi sarei avventurato alla conquista di qualche
donna per riportarla fra loro quanto prima. Il gestore corse verso di me con
un boccale in mano e mi spinse a sedere con modi suadenti, invitandomi a
bere. All'apparenza la sua tattica era quella di pasturarmi con le libagioni
finché non sarei rotolato sotto al tavolo. Fui però lieto di vedere che i
clienti si avvicinavano. Sedettero tutti intorno a me, con aria assai più cor-
diale.
«Da bere per i miei amici, oste d'inferno!», gridai.
«Da dove vieni?», mi chiese uno.
«Mia madre mi abbandonò legandomi sul dorso d'un grifone selvaggio,
e fui allevato da una sordida prostituta di Porto Kar,» affermai con energia.
«A dodici anni strozzavo i draghi di palude a mani nude, e correvo dietro
alle fanciulle caste finché i loro strilli mi saziavano l'anima. In ogni terra
ho vagato, di volta in volta ricco e miserabile. Ma un indovino affermò che
mio padre era un grande Tiranno!»
Ci furono risate divertite.
«Credete che io menta, amici?» Alzai le mani. «E va bene, ho mentito.
Sono però un viaggiatore, e nel mio peregrinare da una taverna all'altra ho
combattuto fiere battaglie coi giocatori d'azzardo e con le donne di piacere
di tutto Gor. Ora, per dimostrarvelo, vi canterò una canzone, così capirete
di quali eroismi e virtù è capace un guerriero.»
E, senza por tempo in mezzo, attaccai a cantare, battendo il tempo con il
boccale sul tavolo. Gli uomini si mostravano adesso compiaciuti e allegri,
ed ascoltavano volentieri. Insegnai così loro le ballate che avevo appreso
all'epoca in cui viaggiavo con la carovana di Mintar il Mercante, le marce
militaresche, e le dolci canzoni d'amore che Talena aveva cantato per me
sette anni addietro, allorché le città e le campagne di Gor mi si aprivano
dinanzi piene di avventure e di sorprese.
Il vino prese a scorrere più liberamente, il gestore rinnovò l'olio nelle
lampade e ne accese altre. Da li a poco vennero dentro alcuni passanti,
certo richiamati dall'insolito chiasso, e poi altri fra cui tre guerrieri. Costo-
ro parvero contenti dell'atmosfera vivace che si stava creando, e sedettero
di traverso sulle panche ordinando kal-da con voci stentoree. Conoscevano
anch'essi le ballate che stavo intonando, e si unirono subito a me in un coro
che diressi con entusiasmo. Non c'era una sola faccia seria, e tutti beveva-
no, battevano le mani e si univano ai canti, cosicché le ore trascorsero ve-
loci.
Verso l'alba la taverna era però tornata più tranquilla. Gli avventori che
riuscivano ancora a reggersi in piedi se ne andarono, e gli altri rimasero
stravaccati sulle panche e sui tavoli dove avevano finito per appisolarsi. Il
proprietario russava sonoramente con la schiena appoggiata al muro. Sedu-
to al mio posto, con la testa china sulle braccia, stavo anch'io soccombendo
al sonno, quando mi accorsi che degli individui entravano nel locale. Fuori
era già sorto il sole, ma all'interno le lampade avevano finito l'olio ed era
piuttosto buio. Una mano mi calò pesantemente su una spalla.
«Alzati!», ordinò qualcuno.
«È lui, lo riconosco,» disse una voce che non mi era nuova.
Sbattei le palpebre con un mugolio stordito. Una lanterna mi era stata
avvicinata al viso e, al di là di essa, scorsi la faccia giallastra dell'uomo che
mi aveva seguito sulla torre, il cospiratore.
«Ne sei certo?», domandò un altro.
Intorno a me c'erano quattro uomini armati, e dagli elmetti blu seppi che
si trattava di guardie di Tharna.
«Il ladro è proprio lui!», esclamò l'individuo. Afferrò la borsa del denaro
che avevo deposto sul tavolo e la mostrò agli altri.» Questi soldi mi appar-
tengono. Guardate qui: sulla borsa c'è scritto il mio nome.»
«Ost,» lesse il caposquadra. Era lo stesso nome dei piccoli e velenosis-
simi serpenti gialli, che trovai particolarmente appropriato. «Allora questa
è la tua borsa, Ost?»
«Ehi! ...Io non ho derubato nessuno. Ridatemi i miei soldi!», protestai,
alzandomi in piedi.
«Mi ha dato una spinta e poi mi ha strappato la borsa. Adesso il mani-
goldo è venuto qui a ubriacarsi col denaro rubato,» mi accusò Ost.
«Bastardo!», ringhiai. Ma due mani mi bloccarono le braccia.
«Non fare il furbo!», mi ammoni il caposquadra. «In nome di Lara, Re-
gina di Tharna, ti dichiaro in arresto.»

Capitolo 10
A PALAZZO

Uno dei militi aveva preso le mie armi, e altri due avevano le lance pun-
tate, per cui dovetti far buon viso a cattivo gioco. Resistere sarebbe stato
peggio che inutile. L'ospitalità di Tharna si rivelava così molto più movi-
mentata di quel che avrei mai potuto desiderare.
«Sono innocente,» dissi con fermezza.
«Questo lo stabilirà la Regina. Avrai la possibilità di discolparti davanti
alla sua augusta persona,» rispose il caposquadra.
«Incatenatelo. È un uomo pericoloso,» gracidò Ost.
L'ufficiale mi fissò. «Sei un guerriero?»
«Appartengo alla Casta dei Guerrieri,» confermai, ergendomi con fie-
rezza. Malgrado la notte in bianco, la mente mi si stava snebbiando.
«Ho la tua parola d'onore che mi seguirai pacificamente al palazzo della
Regina?»
«Ti do la mia parola d'onore,» dissi a denti stretti.
Il caposquadra si volse ai suoi uomini. «Niente catene, allora. Non sa-
ranno necessarie.»
«Giuro che non ho derubato quest'uomo,» ripetei.
Attraverso la fessura ad Y dell'elmetto gli occhi del caposquadra erano
franchi e onesti, ma duri. «L'evidenza è contro di te. Però ti assicuro che
potrai parlare in tua difesa, guerriero.»
«È un sordido criminale! Esigo che gli mettiate le catene!», gridò Ost,
rosso in faccia.
«Taci, pezzente,» ringhiò l'ufficiale, gratificandolo di un'occhiata tale
che l'altro fece un passo indietro.
I soldati mi fecero cenno di andare alla porta ed uscimmo in strada, dove
procedetti stando in mezzo a loro fino alla torre in cui aveva sede la corte
della Regina. Ost ci seguiva in silenzio, ansando poiché stentava a tener
dietro ai nostri passi lunghi e veloci.
Non potevo fuggire, avendo dato la mia parola d'onore, ma mi rendevo
conto che, se pure avessi tentato di farlo, le mie possibilità sarebbero state
pressoché nulle. I guerrieri erano dello stesso stampo di quelli al seguito
del capitano Thorn, silenziosi, guardinghi, capaci d'infilzarmi con un sol
colpo di lancia prima che avessi fatto dieci passi e, per quanto non mi fos-
sero ostili, sentivo che non erano disposti a prendere sottogamba il loro
dovere. Mi domandavo se quel grosso fetente di Thorn fosse in città, e
come se la passasse Vera nella fattoria del suo nuovo padrone.
Sapevo che, se davvero in quella città la legge era rispettata come si di-
ceva, non avrei avuto da temere un sopruso. Tuttavia, dimostrare la mia
innocenza sarebbe stato quantomai difficile e forse impossibile. I fatti par-
lavano contro di me: ero stato trovato in possesso d'una borsa con tanto di
nome inciso sopra, e ciò avrebbe grandemente influito su ogni decisione
della Regina. Cosa poteva valere la mia parola, la parola di uno straniero,
contro quella di Ost? L'uomo era un cittadino di Tharna, e senza dubbio
doveva godere di appoggi presso qualche personaggio potente.
Malgrado le mie preoccupazioni, ero curioso di vedere il palazzo della
Regina Lara e d'incontrare quella donna certamente unica e singolare, la
sola femmina che detenesse una posizione di potere su un pianeta domina-
to dagli uomini. Se anche non fossi finito in quella situazione, mi sarebbe
ugualmente piaciuto, prima d'andarmene, dare un'occhiata al suo palazzo e
magari cercare di vederla.
Il sole era già spuntato da quasi un'ora e le strade cominciavano a ri-
prendere vita. I cittadini in tunica grigia mi lanciavano occhiate silenziose,
con lo stesso interesse che chiunque altro avrebbe avuto nel vedere passare
uno straniero arrestato dalle guardie. Venti minuti più tardi imboccammo
una strada più larga, pavimentata con lastre di pietra nera su cui ancora
luccicava l'acqua piovuta quella notte. Ai lati di essa c'era un muretto che
si faceva man mano sempre più alto finché, dopo un centinaio di metri, ci
trovammo a procedere fra due muri oltre i quali non si vedeva niente ed il
percorso si restringeva.
Al termine della strada il palazzo era una torre cilindrica non molto ele-
vata ma assai larga, possente, simile ad una fortezza dall'aspetto freddo ed
inespugnabile. Il portone d'ingresso era incredibilmente stretto, tanto che
appena un uomo alla volta avrebbe potuto passarvi a stento, mentre intorno
si levavano muraglie nude e prive di feritoie.
Il battente della porta, largo neppure mezzo metro e alto si e no un metro
e sessanta, era una lastra d'acciaio che avrebbe resistito a qualunque ariete.
Tutto ciò differiva molto dall'architettura comune, dato che gli ingressi
delle torri cittadine erano di sovente così spaziosi che cinque uomini a-
vrebbero potuto passarvi in groppa ai tharlarion. C'era da domandarsi che
genere di giustizia venisse amministrata all'interno di una roccaforte così
tetra e minacciosa.
Il capoguardia usò un batacchio di bronzo per bussare, e si fece da parte.
«Noi dobbiamo restare fuori,» disse. «Entrerete solo tu e Ost.»
Mi volsi a fissarli, contrariato, ma le loro lance mi si puntarono al petto.
Scossi le spalle. Ci fu un rumore di catenacci spostati ed il battente si aprì,
rivelando un passaggio completamente buio dove non c'era nessuno.
«Dentro,» ordinò il sottufficiale.
Feci un sorriso acido, non troppo soddisfatto all'idea di dovermi cacciare
in quel budello angusto. Poi abbassai la testa ed oltrepassai la soglia. Un
istante più tardi dalla bocca mi scaturì un ansito che era per metà un'im-
precazione spaventata, perché sotto i miei piedi il terreno si spalancò e
precipitai a capofitto nel vuoto. Dietro di me Ost gridò di sorpresa e di
terrore, probabilmente spinto dai militi. Piombai su un terreno duro e roto-
lai di lato, gemendo.
Ero caduto in un pozzo profondo due metri abbondanti e, sebbene sul
suolo vi fosse un mucchio di paglia messo lì a mo di zerbino per gli ospiti,
l'avevo in parte mancato. Ost fu più fortunato e cadde sul morbido. Be-
stemmiai, ancora troppo sbigottito per riuscire a mettere due pensieri l'uno
dietro l'altro, e restai steso a terra senza la forza di muovermi. Mi trovavo a
meta lunghezza di un tunnel di sezione semicircolare, costruito in mattoni,
ed una torcia piuttosto lontana mandava fin lì la sua debole luce rossigna.
Nell'aria stagnava un forte odore di selvatico, il puzzo che può emettere la
pelliccia di un roditore sudato, quasi che il luogo fosse una tana di bestie.
Prima che potessi esaminare meglio il tunnel, accanto a me Ost emise un
uggiolio di abbietto ed isterico spavento.
Sulla paglia alle mie spalle vi fu un pesante scalpiccio di zampe. Qual-
cosa mi afferrò per la tunica e mi sollevò di scatto dal suolo, portandomi
via con la violenza d'una tromba d'aria. Cercai di contorcermi, urlai, e le
mie mani colpirono un vello morbido e peloso. Quasi persi i sensi per l'or-
rore, nell'accorgermi che un animale di grosse dimensioni mi aveva adden-
tato per il vestito e mi stava trasportando lungo il tunnel. Strisciai con le
mani in terra alla ricerca di una fessura dove aggrapparmi, poi scalciai e mi
dibattei ancora, ma fu inutile.
Dopo un mezzo minuto che mi parve un'eternità, il bestione mi lasciò
andare e caddi al suolo in un locale circolare dove ardevano numerose tor-
ce. Una voce dura abbaiò qualcosa in tono di comando, e l'animale squittì.
A questo seguì lo schiocco di una frustata, quindi l'ordine venne ripetuto
acremente. La bestia indietreggiò con riluttanza, fissandomi con i suoi e-
normi occhi gialli feroci e inespressivi.
Era un urt gigante, lungo quattro metri buoni e simile nella forma ad un
enorme topo cornuto. I suoi denti erano pugnali d'osso che s'inserivano
nelle cavità corrispondenti della mandibola opposta, sbucando fuori sotto il
mento e sopra il muso peloso, e due brevi corna ricurve gli spuntavano
dagli angoli delle orbite. Mandava grugniti da suino, famelici, e mi osser-
vava come se agognasse di divorarmi.
Un'altra frustata sibilò nell'aria strappandogli da un fianco una manciata
di peli, e la stessa voce urlò un altro comando.
Il colossale roditore mandò uno squittio e s'infilò di corsa nel tunnel, do-
podiché una grata di sbarre rugginose si abbassò con un clangore secco
chiudendolo fuori. Ero semisvenuto, sfinito, e le crepe del pavimento su
cui avevo chinato la fronte mi ballavano davanti agli occhi.
Un paio d'individui robusti e puzzolenti di sudore rancido, mi afferraro-
no brutalmente facendomi cadere in ginocchio, ed un grosso oggetto me-
tallico lungo circa un metro e mezzo mi venne avvicinato al mento. Emisi
un grugnito di protesta. L'oggetto mi fu chiuso intorno al collo: era una
sorta di giogo, un capestro pesante oltre un quintale, dalle estremità del
quale pendevano due bracciali dove fui costretto ad infilare i polsi. Le ser-
rature scattarono implacabili, dandomi una sensazione di vuoto allo stoma-
co.
«È pronto!», disse una voce.
«Alzati, schiavo!», ringhiò qualcun altro.
Mi alzai in piedi con gran fatica, vacillando sotto il peso enorme del
giogo, ma questo mi fece ricadere pesantemente al suolo.
«Idiota. Alzati, ho detto!»
Il carnefice avventò la lunga frusta, ed il morso bruciante del nerbo ter-
minale nella carne della spalle mi fece trasalire. Qualcosa di caldo mi ru-
scellò lungo il braccio. Cercai disperatamente di risollevarmi, ed un'altra
scudisciata mi strappò un mugolio di sofferenza. Con uno sforzo puntai la
fronte al suolo, ripiegai le gambe sotto il ventre, ma ancora la frusta mi
saettò addosso più volte facendomi lacrimare per il dolore. Infine, non so
come, riuscii ad alzarmi sulle ginocchia, e mi drizzai in piedi barcollando
come un ubriaco.
«Ben fatto, schiavo,» approvò il mio aguzzino.
Il sudore mi colava negli occhi e, attraverso le aperture della tunica lace-
rata dalle frustate, sentivo l'aria fresca sulla carne gonfia e ferita. Stavo
perdendo sangue. Mi girai per quanto potei e vidi finalmente in faccia l'in-
dividuo che brandiva la frusta.
Era un uomo peloso come un bruco, scuro di carnagione e con i capelli
unti riuniti dietro la testa in una coda di cavallo. Indossava solo un gonnel-
lino di pelle, macchiato dalle gocce di sangue schizzate via dal mio corpo,
e portava bracciali di cuoio marrone e sandali.
«Figlio di puttana,» sussurrai, «ti pentirai di avermi chiamato schiavo.»
«In Tharna un uomo come te non può essere altro,» ghignò lui.
Il locale in cui mi trovavo era in pietra, con un soffitto a cupola alto otto
o nove metri, ed aveva numerose uscite, alcune abbastanza piccole e chiu-
se da sbarre metalliche. Da una udii provenire dei grugniti sordi, da altre
squittii e versi animaleschi assai poco piacevoli. Una nicchia della parete
ospitava un braciere, e dai carboni ardenti spuntavano i manici di attrezzi
di ferro messi ad arroventare. Lì accanto c'era un tavolaccio da tortura ben
pulito, fornito di incastri per gli accessori. Varie catene terminati con anelli
pendevano dalle pareti e dal soffitto. Un'ampia rastrelliera sosteneva una
quantità di attrezzi difficili a identificarsi a prima vista: pinze, collezioni di
coltelli, tenaglie, e quant'altro era ritenuto indispensabile per ogni forma di
sevizie fisiche. A pochi avrebbe fatto piacere vedersi trascinati in un luogo
simile e, per non cadere preda dell'abbattimento, distolsi lo sguardo da
quegli oggetti.
«Qui si amministra il meritato castigo a chi infrange la legge di Tharna,»
ridacchiò il carnefice, allargando un braccio in un gesto da anfitrione.
«Voglio vedere la Regina.»
«Naturalmente. Avremo tempo dopo per tornare giù a divertirci. Ti con-
durrò da lei io stesso.»
Da qualche parte, una catena sferragliò arrotolandosi ad un argano, ed
una delle grate metalliche si alzò pian piano. Al di là di essa c'era un corri-
doio poco illuminato, tappezzato in lastre di pietra, e l'uomo accennò da
quella parte con la frusta.
«Muoviti!», latrò. «La Regina ti aspetta.»

Capitolo 11
LARA DI THARNA
Il passaggio in salita si addentrava nelle viscere colme di ragnatele della
fortezza, ed intrapresi il cammino ansando sotto l'insopportabile peso del
giogo. Alle mie spalle l'aguzzino sputacchiava minacce ed imprecazioni
oscene, intimandomi d'accelerare l'andatura, ma io non potevo far altro che
mettere faticosamente un passo dietro l'altro. Più volte la sottile estremità
della frusta mi raggiunse alle gambe, senza però eccessiva violenza perché
l'esiguità dello spazio impediva a quel ripugnante individuo di maneggiarla
come gli sarebbe piaciuto. Mi si piegavano le ginocchia, avevo dolori dap-
pertutto, e procedere a quel modo era un autentico calvario.
Come il cielo volle giungemmo al termine della salita e sbucammo in un
andito simile ad una vasta cantina, nel quale sfociavano altri camminamen-
ti dal soffitto ad arco. Una frustata m'indirizzò verso uno di essi. Percor-
remmo un corridoio sui cui lati s'aprivano locali oscuri che avrebbero po-
tuto essere celle o magazzini, stretto come una fognatura. Qua e là pende-
vano lampade ad olio, appena in numero sufficiente a vedere dove si met-
tevano i piedi. Non c'era alcun genere d'arredamento: solo pietra nuda,
architravi in mattoni e muri spogli che formavano un labirinto, dove stavo
perdendo del tutto il senso dell'orientamento. Malridotto com'ero, il luogo
mi appariva opprimente e sinistro.
Infine venni introdotto in un salone largo una trentina di metri, meglio
illuminato ma non per questo più allegro dei sotterranei. I suoi soli orna-
menti consistevano in una gigantesca maschera d'oro fissata alla parete di
fondo, alta cinque metri e raffigurante un volto femminile, e nel trono che
vi campeggiava davanti, anch'esso all'apparenza in oro zecchino. La lunga
piattaforma semicircolare che sosteneva il monumentale seggio si allarga-
va ai lati, fungendo da basamento per venticinque o trenta sedili più mode-
sti occupati da altrettante donne. Indossavano vesti ricchissime e mantelli
col cappuccio da Donna Celata, i loro volti erano nascosti da maschere
d'argento che mi fissavano inespressive, e pensai che dovevano rappresen-
tare qualcosa di simile ad un Consiglio delle Caste Alte.
Intorno al perimetro del locale erano fermi in posa marziale numerosi
guerrieri armati di scudo e lancia, i cui elmetti blu recavano ai lati il sim-
bolo della maschera d'argento. Evidentemente si trattava di Guardie di
Palazzo. Un altro guerriero, privo però di quell'emblema, era in piedi nel
mezzo della sala, e mi parve di scorgere in lui qualcosa di familiare.
Sul grande trono era assisa una donna dall'aria altera, vestita con uno
splendido abito rilucente di pietruzze preziose, e costei aveva il viso celato
da una maschera identica alle altre ma cesellata in oro. Nessuno parlava, e
nel silenzio avanzai alla presenza di Lara di Tharna, la Regina.
Il guerriero che si trovava nel centro della sala si tolse l'elmetto, e rico-
nobbi in lui Thorn. Mi chiesi cosa stesse facendo lì ma, quando si volse a
guardarmi, fui certo che non era per darmi aiuto: i suoi occhi erano foschi
e pieni di livore.
«Inginocchiati dinnanzi alla Regina!», mi ordinò.
Non mi mossi di un millimetro. Il capitano s'avvicinò allora con passi
lunghi e decisi e mi sferrò un calcio da dietro, in un polpaccio. La gamba
cedette e caddi rovinosamente al suolo sotto il peso del capestro.
«Dammi la frusta!», ringhiò Thorn all'aguzzino che mi aveva condotto
nella sala.
Lo strumento gli venne subito consegnato ed il capitano indietreggiò con
un sogghigno, allargando il braccio per prepararsi a sferrare il colpo con
forza.
«No!»
Appena quel comando imperioso echeggiò nell'aria, Thorn abbassò la
mano, come se gli avessero reciso un tendine. La voce era venuta da dietro
la maschera d'oro della Regina, e le fui grato per questo.
Tremando per la stanchezza ed il dolore, annaspai sul pavimento, riu-
scendo a sollevarmi dapprima sulle ginocchia e poi in piedi, quindi fissai
l'imperscrutabile effigie della dominatrice di Tharna. Dietro le aperture
ovali della maschera, lessi negli occhi di lei una luce d'interesse e di curio-
sità.
«Ora che hai quel giogo sulle spalle, straniero,» disse freddamente,
«puoi provare a fuggire da Tharna con le ricchezze a cui ambivi, se ci rie-
sci.»
Le sue parole mi confusero. Ero sull'orlo del collasso fisico e stavo dritto
a stento. Perfino la vista a tratti mi si annebbiava, trasformando ciò che mi
circondava in un'allucinazione indistinta.
«Il capestro che porti è di argento puro, e viene dalle nostre miniere,»
spiegò lei.
Sbattei le palpebre, incapace di capire davvero. Se la donna non mentiva
e l'oggetto era un blocco d'argento massiccio, ce n'era abbastanza per de-
stare la cupidigia di un Tiranno.
«Noi di Tharna spregiamo le ricchezze, al punto che usiamo quel metal-
lo per incatenare gli schiavi.»
Feci una smorfia dura, tanto per informarla che, se lei mi considerava
suo schiavo, io non ero della stessa opinione.
Una delle femmine sedute presso il trono si levò in piedi, magnifica nel-
la sua lunga veste ricamata che le celava perfino le mani e i sandali. Nel
riflesso delle torce si mosse avanti con passi superbi e, fermatasi accanto
alla Regina, girò il volto verso di me, enigmatica come un idolo dietro la
sua maschera d'argento lucente.
«Distruggi questo animale, Regina!», esclamò con voce autoritaria.
«Forse che Dorna, l'Eletta di Tharna, non riconosce agli accusati il dirit-
to di parlare?», domandò Lara, in tono così imperioso e gelido che al con-
fronto la voce dell'altra parve esser stata dolce.
La donna di nome Doma si voltò di scatto a fissarla. «La legge è per gli
uomini, non per gli animali!», affermò.
Nell'atteggiamento di lei mi parve di cogliere una sfida malcelata e sar-
castica all'autorità della Regina, e mi chiesi se quella femmina non avesse
mire personali e progetti fin troppo ambiziosi.
Lara di Tharna non si degnò di replicare. Parlò volta al carceriere che mi
stava a fianco: «Ha ancora la lingua per parlare, costui?»
«Sì, o Regina. Non è stato toccato,» rispose lui, untuosamente.
Qualcosa mi diceva che Doma, l'Eletta di Tharna, non gradiva troppo
che io facessi un certo tipo di rivelazioni in pubblico. La dorma aveva di-
sceso i tre scalini neri, avvicinandosi a noi, e si rivolse all'aguzzino che
teneva gli occhi rispettosamente abbassati al suolo:
«Era desiderio della Regina che lo schiavo venisse condotto subito nella
Sala della Maschera d'Oro, immobilizzato dai ceppi ma illeso,» lo rimpro-
verò.
Sentendosi redarguito, l'uomo tremò, perché il mio aspetto appariva
tutt'altro che illeso dopo esser passato dalle zanne dell'urt gigante alle ca-
rezze della sua frusta. Ma la Regina stava di nuovo parlando.
«Perché non volevi inginocchiarti, straniero?»
«Tu dimentichi che sono un guerriero, Signora.»
«Sbagli: sei uno schiavo!», sibilò Doma. Tornò verso il trono ed alzò la
voce: «Disporrò che gli sia tagliata la lingua. Quest'animale ti ha offeso,
Regina.»
«Io sola dispongo ed ordino. L'Eletta di Tharna presume forse di poter
fare altrettanto?»
«Naturalmente no, Regina!», bofonchiò la Maschera d'Argento.
«Fatti avanti, schiavo,» disse Lara. Ma, visto che non accennavo a ubbi-
dire, mutò l'appellativo: «Fatti avanti, guerriero.»
Oppresso dai cento chili del giogo, mi avvicinai di qualche passo, ed al-
zai di nuovo gli occhi per guardarla. Una mano di lei, inguainata in un
guanto di maglia d'oro, stringeva una borsa che riconobbi: era quella data-
mi da Ost. Mi chiesi dove fosse in quel momento quel sordido individuo.
«Confessi d'aver rubato questo denaro ad un uomo di nome Ost?», do-
mandò.
«Non l'ho rubato. Sono innocente e chiedo di essere rilasciato,» risposi,
ignorando poi la risatina beffarda con cui Thorn commentò le mie parole.
«Ti avverto: per ottenere clemenza devi confessare il delitto che hai
commesso. La reticenza aggraverà la tua posizione,» disse Lara.
Ebbi la strana impressione che, per qualche sua oscura ragione, la donna
fosse ansiosa di sentirmi ammettere subito il misfatto. Ma non me la senti-
vo di dichiarare il falso, neppure se ciò mi fosse convenuto davvero, così
ripetei:
«Non sono colpevole di questo furto.»
«Allora, straniero, sono spiacente per te.»
Non fui capace d'aprir bocca, anche perché dalla schiena e dalla nuca mi
salivano al cervello fitte di dolore intollerabile. Sudavo per lo spasimo, e
dovevo fare uno sforzo di concentrazione per impedire alle ginocchia di
mettersi a vibrare.
«Che sia introdotto Ost!», ordinò la Regina Lara.
Doma era tornata al suo scranno e sedette, accomodandosi la veste di se-
ta con una mano guantata d'argento. Appariva nervosa ed irritata.
Ci fu un rumore di passi. Dietro di me qualcuno ansimò e gemette, quin-
di vidi con stupore che una Guardia di Palazzo spingeva avanti Ost, inca-
tenato esattamente come me ad un giogo dello stesso genere ma molto più
sottile e leggero.
«Piega le ginocchia davanti alla Regina,» abbaiò Thorn, agitando la fru-
sta.
Uno spintone della guardia mandò l'uomo a ruzzolare ai piedi del trono
e, per quanti sforzi egli facesse, non fu in grado di alzarsi sulle ginocchia.
Mugolava e guaiva come un cane spaventato.
Thorn allungò il nerbo sul pavimento dietro di sé, piantandosi a gambe
larghe. Mi aspettavo che la Regina intervenisse per fermarlo come aveva
fatto con me, ma invece non aprì bocca, ed il capitano le tenne gli occhi
addosso in attesa di un suo cenno. Sorpreso, mi accorsi che Lara di Tharna
stava fissando me, e mi chiesi quali pensieri si agitassero dietro qual simu-
lacro di volto aureo e scintillante.
«Non farlo frustare, Regina,» dissi.
Lo sguardo di lei resto inchiodato nel mio. «Nessuno ti ha chiesto di par-
lare.» Abbassò gli occhi su Ost, che faceva smorfie penose nel tentativo di
sollevare la faccia da terra. «Mettiti in ginocchio al mio cospetto, o morirai
strisciando come il rettile di cui porti il nome.»
«Non ce la faccio... Non posso!», singhiozzò l'uomo.
La Regina alzò lentamente una mano. Quando Thorn l'avrebbe vista ab-
bassarsi la sua frusta sarebbe scattata, avventandosi sulla carne del disgra-
ziato per tagliarla come una lama.
«No!», esclamai.
Chiamando a raccolta ogni mia energia mossi i piedi avanti e m'accostai
ad Ost. Poi, inclinando di lato il giogo, raggiunsi con una mano la collotto-
la dell'individuo. Lo afferrai per la tunica e, con uno sforzo da agonizzante,
lo tirai su, mettendolo in ginocchio.
Mormorii ed ansiti stupefatti si levarono dalle Maschere d'Argento che
assistevano alla scena. Un paio di guerrieri dall'elmo blu, scordando d'es-
sere in presenza delle dominatrici di Tharna, applaudirono la mia azione
battendo leggermente le lance contro gli scudi. La cosa non era però andata
a genio al capitano Thorn, che girò intorno uno sguardo infuriato e scara-
ventò la frusta fra le mani del carnefice in gonnella di cuoio.
«Tu sei molto forte, straniero,» disse Lara di Tharna.
«La forza bruta è un attributo delle bestie,» precisò Dorna.
«Vero!», concesse blandamente la Regina.
Una delle Maschere d'Argento riassunse l'opinione delle altre, dichia-
rando: «Però costui è una bella bestia, bisogna riconoscerlo.»
«Utilizziamolo per i Giochi!», propose una seconda.
Lara mosse una mano dorata per chiedere il silenzio.
«Regina,» domandai. «Perché risparmi la frusta ad uno straniero ma non
ad un tuo concittadino, per quanto miserabile egli sia?»
«Diciamo che ero curiosa di vedere quale fosse il tuo senso dell'onore.
Quello di Ost lo conosco già.»
«L'onore di chi appartiene alla Casta dei Guerrieri non ha bisogno di
conferme,» dissi.
«Eppure rifiuti d'ammettere di aver rubato. Dunque dov'è il valore della
tua parola?»
«Il suo valore sta nella verità. Sono innocente del furto.»
«La colpa per cui ora vieni giudicato è ben più grave che il semplice fur-
to. O credi che io usi sprecare il mio tempo così per un ladro?», disse lei,
con una nota gelida nella voce.
«Mi si accusa di qualcos'altro? E di cosa?»
«Cospirazione contro il trono di Tharna,» rivelò la Regina, lasciandomi
ammutolito.
Di nuovo abbassò lo sguardo sull'uomo inginocchiato.» Ost, tu sei col-
pevole di alto tradimento. La congiura è stata scoperta, e le tue manovre
rivelate.»
Una delle Guardie di Palazzo, quella che aveva condotto dentro l'indivi-
duo, si fece avanti. «Il rapporto di chi ha compiuto l'indagine parla chiaro,
nobile Regina. Nella casa di Ost sono stati trovati elementi che lo incrimi-
nano: lettere con istruzioni e progetti sediziosi riguardo l'abbattimento del-
la tua autorità, e oro che avrebbe dovuto essere usato per pagare complici e
sicari.»
«L'accusato ha riconosciuto le prove ed ammesso le sue colpe?», do-
mandò Lara.
Ost farfugliò qualcosa, una supplica lamentosa che suonò come un ge-
mito.
La guardia sorrise. «Appena ha visto gli strumenti da tortura, la sua lin-
gua si è sciolta ed ha confessato, anche se molti importanti particolari ri-
mangono oscuri.»
«Ost, serpente velenoso!», esclamò la Regina. «Chi ti ha dato quell'oro?
Da chi ti sono giunte le lettere con le istruzioni per la congiura? Parla!»
«Io non lo so... Non lo so, Nobilissima Signora,» uggiolò l'individuo.
«Le lettere e l'oro mi venivano portati da un guerriero a me sconosciuto, ed
il suo elmetto m'impediva di vederlo in viso.»
«Infilagli nella carne i ferri roventi e poi riportalo qui,» ringhiò Dorna,
rivolta al carnefice.
Ost emise dei gemiti strazianti, balbettando implorazioni sconnesse, e
Thorn lo fece tacere con un calcio.
«Cos'altro sai del complotto contro il trono?», chiese la Regina.
«Nulla. Nulla, potentissima Signora,» ansimò lui.
«Molto bene!» Lara fece un cenno all'aguzzino. «Mettilo sul tavolo da
tortura e puniscilo. Poi dallo all'uri gigante come cibo.»
«No! No! ...Dirò la verità. So anche altre cose!», stridette Ost.
Le Maschere d'Argento lo fissarono in un silenzio carico di tensione,
sporgendosi in avanti sui loro scranni. Soltanto Dorna l'Eletta e Lara di
Tharna accolsero quelle parole senza il minimo cenno d'emozione. Benché
nella grande sala la temperatura fosse bassa, notai che il capitano Thorn
stava sudando. Apriva e chiudeva le mani nervosamente, ed aveva le ma-
scelle contratte.
«Allora, che altro sai?», incalzò la Regina.
Ost si passò la lingua sulle labbra, guardandosi attorno. I suoi occhi scat-
tavano di qua e di là, rivelando un terrore folle.
«Sei al corrente dell'identità del guerriero che ti consegnava le lettere?»
«No. Non lo conosco!», gemette lui.
Thorn snudò la spada dal fodero e fece un passo avanti. «Lascia che lo
ammazzi qui davanti a te, Regina. Questo traditore non fa che offendere la
tua pazienza.»
«No. Deve dire il nome dei suoi mandanti. Parla, abbietto serpe!»
«Io so solo,» balbettò Ost, «che il promotore della cospirazione è una
persona molto influente a Tharna. Una donna... una Maschera d'Argento.»
Lara s'alzò in piedi, indignata. «Non può essere vero. Nessuna Maschera
d'Argento sarebbe mai sleale verso il trono di Tharna.»
«Eppure è così, lo giuro!», confermò l'individuo.
«Pronuncia il nome della traditrice,» ordinò Lara.
«Non so chi sia... non lo so,» farfugliò lui. La risata crudele di Thorn lo
fece impallidire. Riprese: «Ma una volta ho parlato con lei, e sono certo
che potrei riconoscere la sua voce anche fra cent'anni.»
Il capitano Thorn rise ancora, sprezzante. «Regina, è solo un inetto e-
spediente per prolungare la sua vita. Vuole acquistare tempo.»
Lara si volse alle altre donne. «Cosa pensa di tutto ciò Dorna, l'Eletta di
Tharna?»
Invece di rispondere alla domanda, la Maschera d'Argento rimase chiusa
in un silenzio iroso. Alzò un braccio e, dopo un attimo d'immobilità, lo
abbassò di colpo, fendendo l'aria col taglio della mano. Thorn si fece avan-
ti ubbidiente, sollevando la spada.
«No! ...La morte no, potente Dorna!», singhiozzò l'uomo.
La donna ripeté il gesto di condanna, lentamente e con crudeltà. Ma Lara
di Tharna levò la mano destra a palmo avanti con un movimento che con-
traddiceva quello della Maschera d'Argento, e Thorn dovette fermarsi.
«Grazie... Grazie, mia Nobilissima Signora,» guaì Ost.
«Ora dimmi, serpente: questo straniero è davvero colpevole di averti ru-
bato la borsa?»
«No, ho mentito. È innocente del furto.»
«Fosti allora tu a consegnargliela?»
«Sì. Gliel'ho data io.»
«E lui... l'ha accettata?» domandò la Regina.
«Sì, o signora.»
«Un momento,» intervenni. «Questo furfante mi ha sbattuto la borsa in
mano e poi è scappato via. Non volevo i suoi soldi.»
«Ma li ha presi, Regina. Li ha presi,» disse Ost, fissandomi con odio.
Era chiaro che voleva coinvolgermi nella cospirazione per farmi ottenere
una condanna identica alla sua.
«Ripeto che non ho avuto la possibilità di rifiutare. L'ho chiamato per
restituirgli la borsa, ma lui è fuggito,» insistei, con calma.
Ignorando l'occhiata velenosa dell'uomo dissi ancora: «Se io fossi un si-
cario assoldato da costui, perché dopo avermi dato il denaro mi avrebbe
denunciato per furto?»
Ost impallidì. Fece per ribattere qualcosa ma s'impappinò e non seppe
che dire.
Fu Thorn a farsi avanti. «Ost non ha il coraggio di rivelare a fondo l'e-
stensione delle sue manovre. In realtà, per far credere che non era stato lui
a pagare lo straniero per i suoi servigi di assassino, è ricorso ad un'altra
menzogna affermando che quella borsa gli è stata rubata. In questo modo
voleva liberarsi dall'accusa di assoldare sicari, ed allo stesso tempo liberar-
si da un testimone scomodo nella speranza che fosse subito inviato alle
miniere.»
«È vero!», esclamò Ost, dopo qualche istante di perplessità, sollevato
nel vedere che un uomo importante come Thorn gli metteva in bocca una
spiegazione plausibile.
Lara tornò a guardare me. «Per quale motivo Ost ti ha dato quei soldi,
straniero?»
«Disse che intendeva farmi un regalo.»
Thorn scoppiò in una risata tonante, gettando la testa all'indietro. «Ost
non ha mai fatto un regalo a nessuno in vita sua!», esclamò. Nei suoi occhi
ci fu una luce di autocompiacimento.
Le Maschere d'Argento assise ai lati del trono annuirono subito, scam-
biandosi occhiate significative. Lo stesso Ost emise un nitrito di soddisfa-
zione, che però gli si strozzò in gola quando la Regina abbassò su di lui
uno sguardo glaciale. La sua voce tagliò l'aria come una lama di ghiaccio:
«Che il traditore Ost venga portato alle miniere!», stabilì.
«No!...», gorgogliò l'individuo.
Udita quella sentenza, Ost si guardò intorno come un topo in trappola. I
suoi occhi rotearono nelle orbite, cercò follemente di scuoter via il giogo
metallico e prese a mandare strilli acuti. Una delle guardie lo fece tacere
con un calcio al plesso solare e lo tirò in piedi a forza, trascinandolo poi
fuori dalla sala. Il terrore dell'individuo non era ingiustificato: avevo già
sentito dire che nessun condannato usciva mai vivo dalle miniere di Thar-
na.
Mentre i suoi gemiti si spegnevano lontano, osservai: «Sei crudele, Re-
gina. Quell'uomo morrà dopo aver sofferto molto.»
Dorna parve ridere dietro la maschera. «Una Regina dev'essere crudele.»
«Queste parole potrei accettarle solo se venissero dalla sua stessa boc-
ca,» replicai.
Doma si limitò a sbuffare. Ebbi la netta impressione che fosse soddisfat-
ta dei risultati dell'interrogatorio di Ost, decisamente scarsi in quanto a
informazioni emerse alla luce. Un'altra cosa però mi rendeva perplesso:
nessuno aveva ancora chiesto il mio nome. Il capitano Thorn sapeva benis-
simo chi ero, e tuttavia non l'aveva rivelato. In quanto a Lara, si comporta-
va come se non le interessasse, e forse era davvero così. Ai suoi occhi do-
vevo apparire soltanto come uno sbandato capitato per caso a Tharna, un
avventuriero come tanti altri.
La Regina si era nuovamente seduta sul trono e, quando parlò, la sua vo-
ce era tranquilla: «A volte, straniero, non è divertente amministrare il pote-
re.»
La frase era decisamente insolita per un governante di Gor. Per l'enne-
sima volta mi domandai che razza di donna fosse, e quale volto e quali
pensieri si celassero dietro la sua maschera d'oro. Ero propenso a provare
una certa comprensione per lei. Ma Lara non aveva ancora detto tutto.
«In quanto a te,» riprese, «ora non vi è dubbio che tu abbia accettato il
denaro di un traditore.»
«Rifiuto l'accusa. Me lo ha ficcato in mano ed è corso via. Ero entrato in
città allo scopo di procurarmi un grifone, ma non possedevo neppure una
moneta di bronzo. Il denaro di Ost sarebbe bastato ad acquistarne uno, e
così avrei potuto proseguire il mio viaggio. Dovevo forse gettarlo via?»
«Questi denari d'oro,» Lara si rovesciò in una mano il contenuto della
borsa, «avrebbero dovuto comprare la mia morte.»
«Una somma così esigua?», ribattei.
«Ovviamente si trattava di un acconto. Il resto ti sarebbe stato consegna-
to a cosa fatta.»
«Le parole di Ost furono che intendeva farmi un regalo.»
Lei scosse il capo. «Non ti credo. Qual era l'intera cifra che il traditore
patteggiò con te?»
«È vero, ha cercato di assoldarmi allettandomi con una forte somma. Ma
io ho rifiutato con fermezza.»
«Rispondi alla mia domanda. Rivela l'entità della somma.»
«Parlò di un grifone, di mille denari d'oro e di provviste a sufficienza per
il mio viaggio.»
«Le monete d'oro da un denaro, a differenza di quelle d'argento, non cir-
colano molto nel territorio di Tharna,» disse la Regina. «Ve ne sono poche
perfino nei miei forzieri. Dunque chi voleva comprare la mia morte è per-
sona dalle forti disponibilità di liquido.»
«Non era la tua morte ciò che si voleva.»
«E allora cosa?»
«Ost mi propose di rapirti.»
Lara di Tharna si alzò in piedi, tremando per l'ira. Sapeva bene cosa im-
plicava il fatto di venir catturata da un grífoniere, per una donna.
«Giustizia questa bestia!», gridò Dorna, rivolgendosi a Thorn.
Il capitano avanzò a passi svelti con la spada pronta ad infilarmisi nel
petto.
«Indietro, tu!», ordinò invece Lara, scacciandolo con un gesto.
Poi, con stupore di tutti i presenti, scese i pochi scalini e venne a fermar-
si davanti a me. Sotto il suo abito filigranato d'oro il corpo di lei doveva
essere rigido e vibrante come un diapason, ed i suoi occhi scintillavano.
Tese un braccio di lato.
«Dammi quella frusta!», sibilò. «La frusta!»
Il carnefice corse a inginocchiarsi presso di lei e le porse l'oggetto. Lara
di Tharna allargò saldamente i piedi al suolo, facendo schioccare la lunga
cima della frusta con ampi gesti.
«E così,» esclamò, «tu avresti voluto vedermi distesa sul tappeto scarlat-
to, legata con le corde gialle! È vero?»
Il significato di quelle parole mi rimase del tutto oscuro, e la fissai acci-
gliato.
«Tu, un miserabile avventuriero, ti saresti compiaciuto di farmi vestire il
camisk e di mettermi il tuo collare!», mi accusò.
Le Maschere d'Argento fecero udire mormorii inorriditi, scandalizzate al
pensiero della mia audacia criminosa.
«Io sono una donna di Tharna. Colei che porta la maschera d'oro, la Re-
gina!», strillò Lara, furibonda. «Ambivi ai miei baci, animale?»
Detto questo mi lasciò andare una frustata violentissima, con tutta la sua
forza. «E invece tu avrai il bacio della frusta!», gridò, colpendomi ancora
selvaggiamente.
Sotto il dolore che mi toglieva la ragione vacillai all'indietro. Ero sfibra-
to, in preda allo stordimento. Il peso del giogo d'argento massiccio mi
schiacciava le spalle, e il solo impegno di tenermi eretto era una fatica tor-
turante. Fitte terribili nascevano dove la frusta spaccava la carne, trasfor-
mandosi in lampi rossi che mi accecavano. Ma resistetti e, quando il brac-
cio della donna finì con l'abbassarsi, stanco dei colpi che aveva inferto, ero
ancora in piedi al centro della sala, sebbene senza sapere quale miracolo
m'impedisse di rovinare a terra. Grondavo sangue da dozzine di lacerazio-
ni.
La Regina gettò via la frusta e risalì in fretta gli scalini del trono, vol-
gendosi poi di scatto a fissarmi con occhi brucianti. Mi puntò addosso un
indice inguainato d'oro che tremava ancora.
«Guardie, prendetelo,» ordinò. «Quest'uomo pagherà le sue colpe duran-
te i Giochi di Tharna!»

Capitolo 12
LA PRIGIONIERA

Mi fu infilato in testa un pesante cappuccio da schiavo fornito di luc-


chetto, e venni condotto via da alcune Guardie di Palazzo. Orbato a quel
modo potevo intendere la direzione solo dalle loro mani che mi spingeva-
no, a tratti mi sostenevano, e spesso mi colpivano. Dopo un poco compresi
d'essere all'aperto, in una strada poco frequentata, e fra altre bestemmie ed
esortazioni venni condotto avanti. Quella spiacevole marcia per fortuna
non fu lunga: guidato in una delle torri dovetti scendere un'interminabile
scala a chiocciola, attraversai uno scantinato umido e freddo, ed infine mi
resi conto che quel sotterraneo era una prigione. Fui liberato del cappuccio,
quindi le guardie incatenarono il mio giogo alla parete di una vasta cella
comune, in quel momento deserta.
Il locale era illuminato da una lampada ad olio fissata piuttosto in alto,
sempreché potesse definirsi illuminazione il servizio che la minuscola
fiammella forniva, e non avevo un'idea precisa di quanti metri fosse situato
sotto il livello stradale. Soffitto e pareti erano in pesanti blocchi di pietra
nera e, a parte una ristretta zona asciutta sopra la lampada, tutto grondava
d'umidità. Il pavimento era formato da una spessa fanghiglia sulla quale
era stata sparsa dell'erba per assorbire l'acqua, e il risultato di ciò era che
mi sembrava d'avere i piedi affondati in una palude. A terra c'era una cio-
tola, contenente quelli che all'aspetto avrei detto avanzi raccolti dal pavi-
mento di una mensa.
La lunghezza della catena mi consentiva appena d'abbassarmi per sede-
re, ma in quella posizione il capestro d'argento vi restava praticamente
appeso, cosicché potei trarre un respiro di sollievo. Mi addormentai quasi
subito. Non saprei dire quante ore giacqui lì, in preda ad un sonno da dro-
gato però, quando mi risvegliai, stavo un po' meglio. Le ferite mi dolevano
ed avevo l'impressione che qualcuno mi avesse ammaccato tutte le ossa a
bastonate, tuttavia scoprii che, col semplice espediente di restare immobi-
le, riuscivo a non soffrire troppo.
Avevo gli occhi incollati sulla ciotola, torpidamente, e nel mio cervello
si stava facendo strada il sospetto che non sarei stato capace di raggiunger-
la né con la bocca né con le mani, neppure inclinando il giogo. Non ci misi
molto a capire che la cosa era voluta: si desiderava avvilirmi, far sì che mi
trasformassi in un miserabile galeotto frustrato ed uggiolante. E sapevo
bene quanto un uomo possa finire col degradarsi, nelle mani di carcerieri
abbastanza pazienti e sadici. I miei sforzi per arrivare a quella maledetta
ciotola furono inutili.
«Posso aiutarti?», disse in quel momento una voce femminile.
Mi girai di scatto, e l'inerzia del capestro mi fece oscillare contro il mu-
ro. Due piccole mani lo afferrarono e lo tennero fermo, poi ritrovai l'equi-
librio e sedetti sui talloni. Accanto a me c'era una ragazza. La porta di
sbarre era chiusa, perciò compresi che era anche lei una prigioniera, con-
dotta lì dopo di me. Era giovane ed un po' magrolina, ma aveva un visetto
grazioso e nei suoi occhi c'erano un calore ed una vivacità che non mi sarei
mai aspettato di trovare fra le malinconiche torri di Tharna. Aveva capelli
castano rossicci uniti in una coda di cavallo da un semplice pezzo di spago,
ed occhi neri che mi osservavano con preoccupazione.
Sotto il mio sguardo li abbassò timidamente. Indossava soltanto una stri-
scia di stoffa verticale larga trenta centimetri, con un foro al centro per la
testa, che le ricadeva sul dietro e sul davanti ed era fermata in vita da una
catenella. Dire che l'indumento non le nascondeva un bel nulla sarebbe
stata l'espressione giusta.
«Sì,» mormorò arrossendo. «Come vedi indosso il camisk.»
«Sei molto simpatica,» la complimentai. «Non ti sta affatto male.» Se
fosse stata prospera la metà di Talena, con quella veste avrebbe fatto
schizzare gli occhi delle orbite a qualsiasi maschio, ma per sua fortuna così
non era.
La ragazza non perse il suo rossore, ma ritrovò un sorriso esitante. Nella
penombra della cella ci guardammo l'un l'altra in silenzio. Faceva piuttosto
freddo, e non si udiva nessun rumore. Lievissimi riflessi creati dalla fiam-
ma stessa della lampada ondeggiavano sulle pareti e sul volto di lei.
Sfiorò con una manina delicata il mio capestro. «Sono stati crudeli con
te,» mi compianse.
Senza dir altro prese la ciotola e cominciò ad imboccarmi: erano pezzi di
pane unto in chissà quale sugo, ed ossa da cui era arduo spolpare un po' di
carne, tuttavia avevo un tale appetito che divorai quella roba voracemente.
Notai che la ragazza aveva il collare da schiava: una nuda fascia di ferro.
Dunque anche in Tharna la schiavitù delle donne era una realtà. Infilò le
mani nella conca del muro dove stagnava l'acqua, scostandone via la muffa
verde di superficie e poi, tenendole unite a coppa, mi diede da bere.
«Ti sono grato,» ansimai, leccandomi le labbra.
Lei sorrise. «Non si ringrazia una schiava.»
«Credevo che qui tutte le donne fossero libere.»
«Entro le mura sì, è vero. Ma io verrò presto mandata fuori di esse, in
campagna, nelle Grandi Fattorie. Là avrò il compito di portare l'acqua agli
schiavi dei campi.»
«Capisco, sei stata condannata per un delitto. Quale?»
«Ho tradito Tharna.»
«Vuoi dire che hai cospirato contro il trono?», chiesi.
«No, no.» Scosse il capo. «Io... so che è terribile doverlo confessare, ma
ho amato un uomo.»
Sgranai gli occhi e, nel vedere lo sbalordimento che quella frase destava
in me, la ragazza ebbe una smorfia amara. «Fino a qualche giorno fa an-
ch'io ero libera e portavo la maschera d'argento. Poi ho concesso a me stes-
sa di conoscere l'amore, ed oggi il risultato è quel che vedi: una misera
schiava.»
«L'amore non è un delitto,» borbottai. «O sbaglio? Se è così, mai crimi-
nale fu più vicino al cielo.»
Lei rise, scacciando la tristezza. Quella risata di fanciulla fu un suono
piacevolissimo per le mie orecchie, fu una musica e un canto, e mi risolle-
vò lo spirito. Poche cose valgono per l'uomo come il riso di una donna
giovane e d'aspetto dolce. Non sentivo più neppure i dolori che avevo ad-
dosso.
«Parlami di quel che ti è accaduto,» le chiesi. «Ma prima dimmi il tuo
nome.»
«Linna, di Tharna. E il tuo?»
«Tari.»
«Di quale città?»
«Di nessuna città.»
«Ah!», mormorò lei. Sorrise appena e non volle indagare oltre. Eviden-
temente aveva concluso che a dividere la cella con lei era un fuorilegge.
Sedette sui talloni, per nulla abbattuta dalla sua situazione, e mi guardò
allegramente. «L'uomo che ho conosciuto non è di questa città. Capisci?»
Emisi un fischio fra i denti, annuendo. Su Gor avere rapporti con uno
straniero è sempre un brutto affare per una donna.
Lei fece una risatina timida. «Ma non è tutto qui. Figurati che appartiene
alla Casta dei Cantastorie!»
Avrebbe potuto trovare di peggio, riflettei. Dopotutto la Casta dei Canta-
storie, o Poeti, non è bassa quanto quella dei Vasai o dei Facchini, pur es-
sendo fra le meno importanti. Non essendovi mai nulla di nuovo sotto il
sole, su Gor i Cantastorie svolgevano funzioni simili a quelle dei loro col-
leghi nel Medio Evo terrestre, con la sola differenza che erano forse più
versatili in quanto a repertorio. Portavano ai popolani notizie di battaglie
lontane e di gesta eroiche, musicandole con la cetra o un altro strumento a
corde; cantavano ballate comiche, satiriche o scollacciate, e componevano
canzoni d'amore. In genere la loro filosofia era quella classica del poeta:
ricordare agli uomini che il loro tempo mortale è limitato, e che la gioia ed
il dolore si devono accettare come parte della vita. Ovviamente si trattava
di spiriti liberi, malinconici ma pronti alla risata ed all'ironia.
La gente li considerava bizzarri e svitati, ne temeva un poco l'irriverenza
verso i Re Sacerdoti e spesso si meravigliava che questi ne tollerassero
l'esistenza. Non erano religiosi e non componevano canti d'ispirazione mi-
stica, anzi, nei loro versi era facile cogliere allusioni e sottintesi abbastanza
eretici. Al popolino i Re Sacerdoti incutevano invece un sacro terrore: li si
adorava e si ubbidiva alle loro leggi, ma fuori dalle cerimonie officiate
dagli Adepti se ne parlava il meno possibile.
Malgrado la loro irreligiosità, i Cantastorie erano amati e benvoluti o-
vunque. Non pativano mai la fame e sapevano cavarsela in ogni circostan-
za grazie ai loro modi esperti e cortesi. Ricchissimi Tiranni e miserabili
contadini li accoglievano con lo stesso sorriso e la stessa paga: un buon
pasto ed un letto in cambio delle loro canzoni. Da parte loro essi cantava-
no, nelle aie dei contadini o nelle taverne di città, gli stessi versi che into-
navano nel salone di un Amministratore, ugualmente contenti del tozzo di
pane come della coppa di vino pregiato. Godevano fama d'essere dei don-
naioli, erano in genere poverissimi, amavano viaggiare di città in città, ed i
fuorilegge li avvicinavano solo per offrir loro un boccale di paga e farli
cantare.
«La Casta dei Cantastorie mi va a genio,» dissi a Linna.
«Qui a Tharna sono considerati dei fuorilegge e vengono arrestati.»
«Un vero schifo!», commentai.
Lei non cessò di sorridere. «Nonostante ciò quest'uomo, che si chiama
Andreas ed è nato nella lontana Tor delle Sabbie, alcuni giorni fa arrivò
qui... in cerca di una canzone, come disse lui. Ma in realtà io avevo il so-
spetto che fosse curioso di guardare sotto la maschera d'argento di qualche
donna!» Scosse il capo, con una risatina.
«E cos'è accaduto?»
Linna, che era decisamente la fanciulla più ridanciana che avessi mai
conosciuto, batté le mani, ed i suoi occhi scintillarono divertiti a quel ri-
cordo.
«Successe che due giorni fa, verso il mezzodì, lo vidi per la strada e
scorsi la sua cetra. Andreas la teneva celata sotto il mantello per timore
d'essere arrestato, ma non vi riusciva bene, perché è incurante e distratto.
Allora lo seguii, con le mie vesti da Donna Celata e la maschera d'argento
sul viso, finché fui sicura che ormai si trovava in città da più di dieci ore.»
«Cosa diavolo significa questa faccenda delle dieci ore?», chiesi.
«Ebbene... Gli stranieri sono benvenuti a Tharna, come tu stesso hai ap-
preso,» Mi strizzò l'occhio. «Ma lo sono soltanto per le prime dieci ore. Se
scaduto questo termine non sono ancora usciti dalla città, vengono fatti
schiavi e mandati alle Grandi Fattorie vita natural durante.»
«Ma è assurdo! E perché mai le guardie non avvertono di questa trappo-
la i visitatori, quando li lasciano entrare in città?»
«Avvertirli sarebbe sciocco, non ti pare?», rise lei. «In tal caso chi si po-
trebbe mandare a sfacchinare nei campi?»
«Certo, come applicazione di logica non fa una grinza,» borbottai.
«Dunque io andai dietro ad Andreas. E siccome portavo la maschera
d'argento, era mio preciso dovere segnalarlo alle autorità, una volta tra-
scorsa la decima ora. Tuttavia ero curiosa... Io sono molto curiosa, sai?
Non avevo mai avvicinato uno straniero, prima d'allora. Insomma, attesi
che fosse solo, poi mi accostai e lo dichiarai in arresto, informandolo della
gravità del suo crimine e del destino che ora incombeva su di lui.»
«Ed egli cosa fece?»
Linna allargò le braccia. «Discutemmo un poco. Io ero assai irritata, per-
ché Andreas aveva preso la cetra e voleva cantarmi una canzone, dicendo
che mi avrebbe seguito anche sul patibolo se in cambio io... ebbene, mi
sussurrò all'orecchio delle cose molto imbarazzanti, sai? Allora io lo mi-
nacciai, imponendogli di smetterla altrimenti avrei chiamato le guardie. E
quello spudorato... mi tolse la maschera dal viso e mi baciò sulla bocca!
Dopo disse che l'aveva fatto solo per impedirmi di gridare aiuto.»
Io ridacchiai, ed ella continuò: «Per me quella cosa fu sconvolgente.
Nessuno mi aveva mai toccata in vita mia, poiché agli uomini di Tharna è
severamente proibito sfiorare una donna.»
«Dimmi che stai scherzando!», ansimai.
«No, è così: solo quelli della Casta dei Dottori, sotto la supervisione del-
l'Alto Consiglio, possono occuparsi di queste faccende.»
«Capisco,» dissi. «È incredibile, ma capisco. E poi?»
«Ecco, io consideravo me stessa una donna di Tharna, ero consapevole
di portare la maschera d'argento e d'avere degli obblighi. Tuttavia, quando
egli mi abbracciò, io non provai affatto una sensazione spiacevole come mi
era stato sempre detto, e non ne ebbi disgusto. Anzi... accadde proprio il
contrario. Allora seppi che non ero migliore di lui, che ero anch'io una
bestia, e che ne meritavo di finire in schiavitù come sarebbe successo a lui.
Ero diventata una Donna Abbietta.»
«Sul serio la pensavi così?»
«Sì. Ma non mi curai più della mia educazione, perché a quel punto a-
vrei volentieri gettato la maschera d'argento e le vesti da Donna Celata,
purché Andreas mi baciasse ancora.»
D'improvviso la ragazza assunse un'espressione così triste che provai il
bisogno di prenderla fra le braccia e di consolarla.
«Io ho appreso d'essere una creatura svergognata e impudica,» mormorò.
«Una traditrice. Merito il disprezzo di ogni Maschera d'Argento di Thar-
na.»
«Cosa ne è stato di Andreas?»
«Lo nascosi nella mia casa, e poi l'altro ieri lo aiutai a fuggire durante la
notte. Prima di calarsi con una corda giù dalle mura, Andreas mi fece giu-
rare che il giorno dopo l'avrei seguito, e mi diede appuntamento in un bo-
schetto fuori città. Io accondiscesi, ma... sapevo già che non avrei mai po-
tuto farlo.» Linna si asciugò in fretta una lacrima. «Gli ho mentito. Volevo
che andasse via salvo.»
«Ma perché non hai potuto seguirlo?»
«Dovevo fare il mio dovere, pagare la mia colpa. Così, la mattina dopo
mi sono presentata davanti all'Alto Consiglio ed ho confessato tutto. La
sentenza è stata che avrei dovuto togliere la maschera d'argento, indossare
il camisk da schiava ed il collare, ed essere mandata alle Grandi Fattorie
come portatrice d'acqua.» Gli occhi della ragazza si empirono di pianto.
«Ma non hai cercato di giustificarti, di fronte all'Alto Consiglio?»
«Non potevo. Essendo una Donna Abbietta, ero colpevole.»
«Colpevole un accidente, cara mia!»
«A Tharna l'amore è un reato gravissimo!», affermò lei.
«Un caso classico d'idiozia collettiva: gli sciocchi sono i peggiori nemici
di sé stessi,» conclusi.
«Sei un tipo strano, tu!» Linna ritrovò di colpo il suo sorriso allegro.
«Strano come Andreas.»
«Ma che fine ha fatto? Quando si è accorto che non lo raggiungevi, deve
aver tentato qualcosa per rivederti. Non è entrato in città, ieri?»
«No. Certo avrà pensato che io non lo amavo molto, infine.» Abbassò la
testa con un sospiro. «Sarà andato via, lontano... e poi cercherà per sé u-
n'altra donna, più dolce e affettuosa di quelle di Tharna.»
«Lo credi davvero?»
«Sì. Ed inoltre ha commesso un crimine, e lo attenderebbe l'arresto. Fini-
rebbe a far lo schiavo per le miniere, o magari lo userebbero nei Giochi.
Così è meglio che sia partito.»
«Pensi che la paura della schiavitù lo fermerebbe?»
«Andreas non è certo un vile, ma non è neppure un pazzo. E solo un
pazzo oserebbe tornare a Tharna, quando già le guardie conoscono il suo
volto,» affermò lei.
Ma proprio in quel momento, fuori dalla cella, una voce parlò in tono
divertito ed insolente facendoci sobbalzare:
«E cosa ti fa credere, incredula fanciulla, che un uomo non abbia il dirit-
to d'essere pazzo se così vuole?»
Linna schizzò in piedi con un ansito smarrito. Al di là della grata di
sbarre, nel corridoio del carcere, era venuto a fermarsi un giovanotto appe-
santito dal giogo metallico. Due uomini armati gli puntavano le lance alle
reni.
Un secondino girò la chiave nella serratura ed aprì la porta, i cui cardini
cigolarono lamentosamente.
«Dentro, schiavo!», grugnì.
Il prigioniero fu spintonato con brutalità, vacillò contro il muro e piom-
bò a sedere sulla paglia fangosa. Con un mugolio appoggiò il suo capestro
alla parete scabra, mentre la cella veniva richiusa.
Era un giovane alto, snello, con scarruffati capelli neri ed occhi azzurri
in cui brillava una luce di fierezza. Emise un gran sospiro e sorrise con una
sorta di cupa allegria, distendendo le gambe a terra.
«Ebbene, Linna, sciocchina,» disse, «come vedi sono venuto a liberarti
ed a portarti via. Eccomi qua!»
«Andreas!», singhiozzò lei, correndo ad abbracciarlo disperatamente.

Capitolo 13
I GIOCHI DI THARNA

La luce del sole mi feriva gli occhi, abituati alla penombra del carcere.
Sotto ai miei piedi nudi la sabbia bianca mista a ghiaia era calda e brucian-
te. Socchiusi le palpebre, cercando di distinguere qualcosa in quel chiarore
accecante. Il sole stava già scaldando le catene ed il giogo d'argento che
avevo ormai fatto l'abitudine a portare sulle spalle.
Il morso di una lancia nella schiena mi costrinse a vacillare avanti, e pre-
si a camminare in quella sabbia morbida affondandovi fino alle caviglie.
Con me erano stati fatti uscire dalla prigione altri quaranta individui, che
ansimavano imprecando mentre i soldati li spingevano e li percuotevano
come se fossero stati bestie. Alla mia sinistra, silenzioso e grondante sudo-
re, c'era il Cantastorie Andreas di Tor delle Sabbie. Il manico di una lancia
premuto nell'addome mi obbligò a fermarmi.
«Inginocchiatevi dinnanzi alla Regina di Tharna,» ringhiò il capitano dei
militi dall'elmetto blu.
Andreas mi si accostò. «Strano. So che di solito la Regina non assiste ai
Giochi,» sussurrò.
Mi chiesi se l'orgogliosa Lara non avesse quel giorno qualche curiosità
per la mia persona.
«Ho detto in ginocchio, verme!», mi fu ripetuto.
Tutti gli uomini condotti lì si erano affrettati ad ubbidire, salvo Andreas
ed io. Gli dedicai la smorfia d'un sorriso.
«Tu perché non t'inginocchi?», chiesi.
«Pensi che soltanto i guerrieri come te sappiano cos'è l'amor proprio,
amico?», rispose.
Ma aveva appena finito di parlare, che una delle guardie lo colpì violen-
temente fra le costole con l'orlo dello scudo, e il giovanotto cadde in gi-
nocchio con un ansito di dolore. La guardia percosse poi me col manico
della lancia, due, tre, quattro volte, sulle spalle e sulle gambe. Ma non mi
mossi e rifiutai di piegarmi, cocciuto come un somaro sotto le legnate del
padrone. Ad un tratto però una frusta mi si attorcigliò ai polpacci come un
serpente, ci fu uno strattone e le gambe mi cedettero. Tonfai sulla sabbia
con le ginocchia: adesso tutti quanti eravamo nella posizione che ci era
stata ordinata, nel mezzo dell'arena arsa dal sole pomeridiano.
Il terreno era di forma ovale, lungo un'ottantina di metri sul diametro
maggiore, e cinto da un muro perimetrale alto circa due metri. Oltre questa
recinzione le gradinate erano suddivise in sei settori di colore diverso: do-
rato, rosso, purpureo, arancione, giallo e blu. Appesi un po' dappertutto,
c'erano gonfaloni di seta variopinta, ed al contrario di tutto il resto della
città, l'Arena dei Giochi era dunque un luogo piuttosto vivace.
Nella sezione di centro, l'unica sormontata da un tendone, sedeva un
centinaio di donne dalla maschera d'argento. I loro seggi, ventilati ed al-
l'ombra, erano lussuosi divani e poltrone imbottite, e ciascuna aveva a por-
tata di mano tavolinetti carichi di cibarie e rinfreschi.
Le altre cinque sezioni erano occupate da uomini in tunica grigia, comu-
ni cittadini di ogni casta, e fra essi erano scaglionati dai guerrieri il cui
compito era quello di mantenere l'ordine. La più parte degli individui se-
devano però compostamente e stavano zitti, e solo pochi erano coloro che
chiacchieravano e facevano scommesse. Linna aveva riferito a me e ad
Andreas che i cittadini di Tharna erano obbligati ad assistere ai Giochi per
un numero minimo di volte all'anno e che, se trasgredivano a quest'impe-
gno, li si condannava a prendervi parte come protagonisti.
Solo un'esigua minoranza delle donne di Tharna portava la maschera
d'argento: me ne accorsi notando che le altre occupavano le stesse tribune
degli uomini, addobbate con comuni vesti da Donna Celata e normali reti-
celle sul viso. Non erano molte, tuttavia parlavano a gran voce e facevano
un certo chiasso, in contrasto col silenzio che regnava nella tribuna centra-
le. L'attenzione di quasi tutti gli spettatori era rivolta ad un palco su cui
campeggiava un trono dorato, e su di esso era assisa la Regina Lara, più
elegante ed enigmatica che mai.
Mentre la osservavo, si alzò in piedi e sollevò un braccio: a quel gesto,
nello stadio cadde il silenzio più completo.
Poi, con mio stupore, gli uomini che erano stati portati con me nell'are-
na, - cittadini di Tharna condannati per i più vari reati - cominciarono a
cantare una specie di laude. Andreas ed io li osservammo in silenzio,
scambiandoci occhiate perplesse. Le parole del coro erano tanto assurde
quanto trite:

Abbietti ed indegni animali noi siamo


Ma per compiacerti o Signora viviamo.
Soltanto la morte or ci porta decoro
E in morte diam gloria alla Maschera d'Oro.
Sia onore alla donna che il potere incarna
Sia onore alla Nobile Lara di Tharna.

La Regina sedette pigramente, abbandonandosi all'indietro contro lo


schienale del seggio. Da oltre la sua dorata effigie provenne un ordine
blando ma ben udibile:
«Si dia inizio ai Giochi di Tharna!»
Dalle gradinate si levarono grida d'anticipazione, mormorii e voci soddi-
sfatte, e l'atmosfera si ravvivò. Una delle guardie mi trasse in piedi a viva
forza. A lato della tribuna reale, una Maschera d'Argento sventolò una
bandierina e gridò:
«La prima gara dei Giochi sarà la Corsa delle Pietre!»
Nell'arena eravamo in quaranta, e nel giro di cinque minuti le guardie ci
suddivisero in dieci gruppi di quattro uomini, unendo fra loro i nostri gio-
ghi con apposite catenelle. Fatto ciò, cominciarono a manovrare le fruste
senza pietà, costringendoci a prender posizione presso un assembramento
di enormi pietre squadrate. Ciascuna di esse degli anelli metallici fissati ad
una delle facce, e doveva pesare quasi una tonnellata. Altre catene vennero
agganciate agli anelli, ed io mi trovai a far parte di un tiro a quattro. Evi-
dentemente avremmo dovuto agire come animali da soma e vedercela con
quei blocchi monumentali.
Ci fu indicato il percorso di gara: un intero giro dello stadio con partenza
e arrivo dinnanzi alla tribuna della Regina. Ogni squadra ebbe il suo con-
duttore, un aguzzino sistemato in piedi sulla pietra ed armato d'una lunga
frusta schioccante. Fu appunto la frusta ad informarmi che ci si doveva
recare al punto d'inizio della competizione, e sentii il sangue scendermi
lungo la schiena. M'impegnai a tirare con tutta la mia forza.
Il capestro d'argento pesava già come se avessi un uomo di grossa taglia
seduto sulle spalle, ed i piedi mi si piantavano nella sabbia scavandovi
buche e solchi. Cercai di cancellare dalla mente ogni pensiero, per concen-
trarmi solo su quella fatica terribile: sapevo che se mi fossi concesso il
lusso di pensare, la disperazione mi avrebbe indotto ad azzannare le catene
come un cane idrofobo. Ad un certo momento mi accorsi che alla mia de-
stra c'era la sezione di muro verniciata in oro. Girai lo sguardo e vidi la
Regina. Agli orecchi mi giunse la sua risata, ironica e divertita, e ne provai
una rabbia così bestiale che un velo rosso mi offuscò la vista.
Mi volsi, unicamente allo scopo di togliermi dagli occhi quella donna, e
vidi solo allora che il conducente assegnato alla mia squadra era il sadico
in gonnellino di cuoio che mi aveva accolto nella camera di tortura del
Palazzo. L'uomo balzò giù dalla pietra e controllò le catene per accertarsi
che fossero ancora ben salde. Mentre esaminava le mie disse:
«Dorna, l'Eletta di Tharna, ha scommesso cento denari d'oro su questa
squadra, perciò vi conviene vincere.»
«E se per caso perdessimo?», ringhiai.
«Vi farà bollire vivi in un calderone d'olio,» m'informò spassionatamen-
te. «A Dorna non piace perdere.»
Il segnale di partenza venne dato dalla Regina con un languido gesto
della mano, e la Corsa delle Pietre prese il via fra ansiti, imprecazioni e
schiocchi di frusta.
Di quel che accadde nella mezz'ora successiva posso dire solo una cosa:
vincemmo noi. Ma arrivammo al traguardo trascinandoci dietro, oltre al
macigno, il cadavere di un componente della squadra appeso per la catena.
L'uomo era stato ucciso dalla fatica e dalle frustate del conduttore. Alcuni
dei gruppi non riuscirono a terminare il percorso, e sulla traccia lasciata dai
dieci pietroni sulla sabbia rimasero strisce e chiazze di sangue. Cademmo
bocconi al suolo, rantolando in cerca d'aria e distrutti dallo sforzo, mentre
dalle gradinate si levavano urla di approvazione.
«Ed ora la Battaglia dei Corni!», gridò l'annunciatrice.
«La battaglia!» le fecero eco centinaia d'altre voci impazienti. Il pubbli-
co gradiva lo spettacolo, e le Maschere d'Argento si agitavano e strillavano
come gli altri.
Fummo tirati in piedi, messi in riga e nerbate, poi le squadre vennero
sciolte e le catene gettate da parte. Quindi, con mio orrore, le guardie fissa-
rono ad ogni estremità dei nostri capestri un corno d'acciaio lungo trenta
centimetri ed appuntito come un pugnale. Andreas si voltò a cercarmi con
lo sguardo, intanto che il suo giogo veniva munito in quel modo.
«Questa può essere la fine, guerriero. Spero solo che non saremo costret-
ti a combattere l'uno contro l'altro,» disse.
«Se accadesse mi rifiuterei di colpirti, anche se mi spellassero a frusta-
te,» risposi.
Lui fece una smorfia. «Sa il cielo se non la penso come te, amico. Ma in
tal caso potrebbero mandarci in miniera... Dunque ci faremo un favore a
vicenda se ci ammazzassimo pulitamente fra noi.»
«Meglio schiavi che morti. Pensa alla tua Linna,» lo esortai.
Andreas sorrise con amarezza. «Sia come vuoi tu, guerriero.»
Sudato ed ansimante gli restituii la smorfia amichevole. Pur ridotti co-
m'eravamo, lì in quell'arena di gladiatori dove regnavano la violenza e la
bestialità, ciascuno di noi seppe almeno d'aver trovato un buon compagno.
L'avversario a cui venni condotto davanti non fu però Andreas, bensì un
colosso biondo e robusto che disse subito di chiamarsi Kron, già fabbro
ferraio a Tharna e condannato per turpiloquio. Aveva occhi azzurri, risolu-
ti, e gli mancava un orecchio.
«Io sono sopravissuto per ben tre volte ai Giochi,» borbottò minaccio-
samente, fronteggiandomi.
Lo guardai bene in faccia e feci cenno che avevo ricevuto il messaggio:
l'uomo era deciso ad uccidermi. Fra noi era venuto a piazzarsi il carnefice
in gonnellino, il quale ora stava aspettando che la Regina muovesse la sua
mano guantata d'oro per dare il via ai duelli.
«Potremmo anche sputare in faccia a questa gente,» proposi a Kron, «e
rifiutare di scannarci. Noi siamo uomini, non bestie.»
Il biondo mi fissò a occhi stretti, senza dar segno d'aver capito.
Solo qualche secondo più tardi nel suo sguardo parve balenare una vaga
scintilla di comprensione. Emise un grugnito:
«Vorresti farmi finire in miniera, eh?»
«Dalle miniere si può sempre scappare.»
«Idiota, tu non sai quello che dici. Io sopravviverò ai Giochi anche sta-
volta.»
«Come preferisci,» risposi.
Tenni lo sguardo fisso nel suo, ignorando i movimenti della Regina e
quant'altro ci accadeva intorno. Non vidi la mano di Lara di Tharna dare il
segnale, ma l'uomo con la frusta ringhiò, facendosi da parte:
«Via, cominciate!»
Kron non ebbe bisogno di farselo ripetere: mi si gettò contro in un tuffo
a testa bassa, per evitare il quale dovetti compiere un miracolo di sveltez-
za. Compresi solo allora che per muoversi in fretta col giogo sulle spalle
era necessario caricarsi come una molla prima di scattare. Il mio avversa-
rio era già al corrente del trucco, e per poco la lentezza con cui avevo rea-
gito non mi era costata la vita.
Kron attaccò nello stesso modo altre due volte, ma ormai ero sull'avviso
e stavo imparando a bilanciare meglio il mio carico. L'espediente consiste-
va nel farlo oscillare di continuo, in modo da poterne sfruttare il movimen-
to. Ci girammo intorno con cautela per un paio di minuti, mentre a poca
distanza da noi anche gli altri uomini si battevano.
Gonnellino di cuoio fece schioccare la frusta. «Sveglia! Fateci vedere un
po' di sangue, carogne!»
Detto ciò l'aguzzino mi lasciò andare una scudisciata, e disgraziatamente
la cima della frusta mi si arrotolò intorno alla testa. Chiusi gli occhi, ma ne
venni colpito alle palpebre e subito dinanzi alle mie pupille ci fu solo un
biancore abbagliante. D'istinto mi lasciai cadere in ginocchio. Quella mos-
sa mi salvò, perché Kron si era gettato avanti e l'impeto lo aveva portato ad
inciamparmi addosso. Rotolò a terra alle mie spalle. Con uno scatto mi
catapultai all'indietro e lo inchiodai nella sabbia sotto al mio peso.
Per alcuni momenti l'uomo si agitò invano. Sentivo il suo petto sudato
ed ansante a contatto della schiena, il mio giogo bloccava quello di lui, e
nessuno dei due riusciva a muoversi. Ma gli occhi mi bruciavano e non
riuscivo a vedere assolutamente nulla, al punto che il timore d'esser stato
accecato mi causò un vuoto allo stomaco. Poi fui spinto via e rovesciato da
parte, e Kron si rialzò ruggendo come un animale. Oltre la nebbia bianca
che mi riempiva i globi oculari scorsi appena la sua sagoma, confusamen-
te, e con uno sforzo tornai anch'io in posizione eretta. La folla gridava co-
me una bestia dalle mille bocche spalancate, eccitata dalla violenza.
La forma quasi indistinguibile del mio avversario balzò avanti, inclinan-
do il giogo per colpirmi col suo corno di destra. Scartai di lato un po' in
ritardo, e l'urto dei due blocchi d'argento che si sfioravano mi fece barcol-
lare. Scossi la testa, ingoiando aria a grandi boccate. Ora riuscivo a vedere
Kron: era una figura grigia a forma di croce stagliata su uno sfondo candi-
do, e tutt'intorno mille strane luci che esistevano solo nella mia retina si
rincorrevano in una folle nevicata di lampadine accese. Indietreggiai, cer-
cando di prendere tempo. Se avessi avuto le mani libere me le sarei passate
sugli occhi per strappar via quella nebulosità cotonata. Non potermeli nep-
pure toccare era un tormento.
Di nuovo Kron venne alla carica, e stavolta il suo corno di sinistra mi
toccò un fianco. Dovevo essere pieno di adrenalina per la furia, perché
quel colpo che mi parve indolore in realtà mi aveva squarciato la pelle
provocando subito una notevole perdita di sangue. Gli spettatori videro il
ruscello rosso sgorgare dalla ferita ed urlarono compiaciuti.
All'assalto successivo un errore nel misurare le distanze portò il biondo
con la fronte a contatto della mia, e per un momento restammo in piedi
l'uno davanti all'altro senza sapere come colpirci. Fu allora che torcendo i
polsi riuscii ad afferrare da sotto il suo giogo, alle due estremità, e con un
ringhio felino lo sollevai dal suolo.
Non potevo alzarlo per più di quindici centimetri, ma tanto bastò per
impedirgli di toccar terra coi piedi. Kron si contorse e scalciò, tuttavia con
quella mossa lo stavo impiccando per il collo al suo stesso capestro e l'aria
gli mancava. Un passo dopo l'altro lo portai fin davanti alla tribuna della
Regina, mentre i muscoli sotto sforzo mi si gonfiavano come fasci di corde
e la folla aveva placato il suo clamore, stupita da quell'esibizione di forza
bruta. Poi scagliai l'uomo contro il muro dorato, e l'impatto del suo giogo
con la pietra fece schizzar via frammenti e pulviscolo. Kron rovinò nella
sabbia e rimase immobile, privo di sensi.
Alzai lo sguardo verso il palco reale. Adesso stavo riacquistando la vi-
sta, e potei distinguere la maschera d'oro della Regina. In piedi accanto a
lei c'era un'altra donna, che dalle vesti mi parve di riconoscere come Dor-
na, l'Eletta di Tharna. Ci misi un po' a capire che quella cagna dalla ma-
schera argentea stava parlando con me, tanto ero stordito.
«Ubbidisci? Uccidilo, ti dico!», ripeté la donna, indicando Kron.
Girai gli occhi sul resto della tribuna. Le femmine mascherate stavano
facendo eco all'Eletta, e chiedevano la morte dell'uomo anche con il crude-
le gesto della mano abbassata di taglio come una scure. Si erano quasi tutte
alzate in piedi, strillando, eccitandosi l'una con l'altra, ed in pochi secondi
il loro ordine divenne un coro assordante:
«Uccidi!... Uccidi!... Uccidi!... Uccidi!»
Disgustato, volsi loro le spalle e tornai lentamente al centro dell'arena.
Giunto lì allargai le gambe per non cadere a terra. Grondavo di sudore e
di sangue, ed i resti della tunica rossa mi pendevano dalle membra come
stracci irriconoscibili. Cominciavo ad avvertire il dolore della ferita al
fianco, ma non me ne importava nulla. Rimasi immobile.
Il mio atto di disubbidienza aveva scatenato il furore degli spettatori.
Migliaia di bocche gridavano, Le Maschere d'Argento agitavano i pugni
come impazzite, ed il loro odio era qualcosa di tangibile, di demoniaco.
Non ne ero affatto impressionato. Anzi, apprezzavo quella loro frustrazio-
ne, me ne pascevo come se fossero le strida delle scimmie al giardino zoo-
logico, e quegli ululati mi facevano sentire l'unica creatura sana di mente
in mezzo ad un gruppo di deficienti scatenati. Sorrisi in risposta ai loro
insulti, al loro isterismo, alla loro follia.
Verso di me stavano però convergendo diversi guerrieri, e devo ammet-
tere che questo finì per rovinarmi il divertimento. Il primo a raggiungermi
fu l'aguzzino che ormai conoscevo bene, livido in faccia e idrofobo per la
rabbia. La sua frusta mi colpì prima al torace e poi su un lato della testa,
facendomi barcollare.
«Bestia!» latrò. «Hai rovinato la gara, stupido vigliacco ingrato!»
Un paio di guardie tolsero le corna dal mio giogo ed a calci mi fecero in-
camminare di nuovo verso la tribuna centrale. Una volta lì mi trovai a fis-
sare la maschera d'oro della Regina.
Mi chiesi se la mia morte sarebbe stata rapida, o se invece avrei cono-
sciuto prima la tortura.
Le Maschere d'Argento si erano finalmente azzittite, ed anche il resto del
pubblico taceva. I duelli fra gli altri sventurati portati con me nell'arena si
erano interrotti e, mentre nell'aria s'avvertiva una certa tensione, compresi
che tutti aspettavano con feroce pregustazione quella che sarebbe stata la
decisione della Regina.
Lara di Tharna si alzò in piedi, mi osservò un poco e quindi parlò con
voce chiara e forte:
«Levategli il giogo!», ordinò.
Per un momento pensai d'aver capito male. Avevo davvero riconquistato
la mia libertà? Era questo il premio che si concedeva a chi si mostrava
forte, nei Giochi di Tharna? Oppure un improvviso esame di coscienza
aveva rivelato la crudeltà di quelle gare all'orgogliosa Regina Lara? C'era
forse un cuore che provava compassione, sotto quelle vesti scintillanti di
fredde gemme? O invece la mia innocenza nella congiura contro il trono le
era alfine apparsa plausibile, e mi avrebbe lasciato andar via salvo dalla
sua tetra città?
Un impulso di gratitudine mi fece quasi ansimare, e mossi un passo a-
vanti. «Regina, ti ringrazio dal profondo del cuore!», dissi.
La donna dalla maschera aurea esplose in una risata secca e breve.
«Gettate quest'animale in pasto al grifone!», esclamò.

Capitolo 14
IL GRIFONE NERO

Venni liberato dal capestro. Gli altri detenuti furono condotti via dall'a-
rena ed avviati alla prigione, in attesa d'essere utilizzati per i prossimi Gio-
chi o di vedersi dirottare alle miniere. Andreas il Cantastorie cercò di resta-
re al mio fianco, insultò le guardie e le Maschere d'Argento e gridò che
avrebbe condiviso la mia sorte, ma fu inutile: dopo aver ricevuto una gra-
gnola di calci e frustate, venne trascinato fuori, svenuto e sanguinante.
La folla sugli spalti sembrava adesso curiosa ed impaziente d'osservare
quel che mi sarebbe accaduto e, da alcune voci che colsi, compresi come il
dramma in cui avrei recitato la parte della vittima fosse insolito per i Gio-
chi. Sulla tribuna centrale molti camerieri in tunica grigia servivano i rin-
freschi alle donne mascherate, nell'ombra del tendone; altrove, dei sempli-
ci portatori d'acqua si occupavano delle gole assetate dei popolani. Gli
insulti, i fischi, e gli sberleffi diretti alla mia persona, non cessavano d'in-
tensità.
Con un brivido pensai che tutta quella gente aveva l'aria d'aspettare che
la sentenza fosse effettuata lì e subito. Stavano forse per scatenare un gri-
fone nell'arena? In tal caso la mia morte, sotto il becco e gli artigli del ter-
ribile rapace, sarebbe stata certo spettacolare e cruenta; ma la faccenda non
avrebbe gratificato troppo le inclinazioni sadiche delle Maschere d'Argen-
to, perché il suo svolgersi sarebbe stato quantomai breve.
Sebbene fossi sicuro che sarei morto, non ero troppo amareggiato dal
genere di condanna elargitami da Lara. Le donne di Tharna giudicavano
forse orrendo essere ammazzati da uno di quei grandi uccelli di Gor, però
non pensavano che io ero un grifoniere e che per me era più sopportabile e
dignitoso ricevere la morte da un grifone. Conoscevo bene quei concentrati
di forza e d'aggressività che dominavano i cieli del pianeta, e sapevo che
per uno di essi io non sarei stato più che un'antilope od un pezzo di carne
da ingoiare in fretta, senza inutili crudeltà. Quel pensiero mi storse la boc-
ca in un sorriso amaro: un colpo di spada o l'artiglio d'un grifone, questa
sarebbe stata prima o poi la mia fine in ogni caso, una fine da guerriero.
Come tutti i membri della mia Casta, io non temevo i grifoni più di altri
animali pericolosi quali i rettili, le creature repellenti delle paludi o quelle
semivegetali delle giungle. Ero abituato alla loro vicinanza, al loro contat-
to, e conoscevo quale rischio personale correva chi li accudiva o il loro
stesso padrone, ed in un certo senso avevo imparato ad accettare l'eventua-
lità che uno di essi si ribellasse alle redini e mi ammazzasse. Per questo
non provavo la terribile angoscia che avrebbe fatto piegare le gambe a chi-
unque altro fosse stato al mio posto.
Venni lasciato lì senza catene né ceppi, libero d'aggirarmi nel vasto spa-
zio sabbioso all'interno del muro perimetrale. L'assenza del giogo mi dava
una piacevole sensazione di leggerezza ad onta delle ferite che avevo ad-
dosso, anche se sapevo che quell'ingannevole libertà era voluta ad arte dai
miei aguzzini. Si voleva che io scappassi di qua e di là come un topo, che
gridassi, e che cercassi di seppellirmi nella sabbia, fornendo scenette ecci-
tanti e capaci di scatenare l'ilarità del pubblico.
Mi sgranchii le gambe, poi mi massaggiai brevemente le braccia ed i
muscoli addominali, controllando che le ferite ricevute fossero di carattere
superficiale. In breve mi sentii meglio, a parte una gran sete.
Notando che una folata di vento aveva strappato una sciarpa dorata dalle
mani della Regina Lara, mandandola a svolazzare fin sulla sabbia, mi av-
viai a passai tranquilli in quella direzione. La raccolsi e feci per gettarla
verso di lei, oltre il muro, ma la sua voce mi fermò:
«Tienila per te. È un regalo.»
Osservai il volto d'oro che celava le sue fattezze. Gli occhi di lei erano
fissi nei miei, assolutamente indecifrabili.
«Te la lascio come mio ricordo,» aggiunse Lara di Tharna.
La sua ironia era così pungente che le Maschere d'Argento risero, ap-
prezzando la battuta. Con un sogghigno scossi via la sabbia dalla sciarpa,
quindi ci sputai sopra e l'adoperai per ripulirmi la faccia dal sangue.
L'uso che avevo fatto del suo prezioso accessorio di stoffa dorata non
divertì la Regina, perché il mio gesto era stato di un'ostentazione insultan-
te.
«Bestia!», sibilò.
Mi gettai la sciarpa su una spalla e tornai al centro dell'arena.
Da lì a poco un cigolio mi fece voltare: una sezione del muro perimetrale
era stata spostata indietro come il battente d'un portone, rivelando un'aper-
tura buia larga dieci metri e alta tre. Da lì vennero fuori due file di schiavi
che con lunghe funi si tiravano lentamente dietro una piattaforma di legno
montata su ruote massicce. Attesi di vederla emergere del tutto nella luce
dell'arena.
Le Maschere d'Argento di Tharna fecero udire dei gridolini eccitati,
strilli, ed esclamazioni di piacere e di meraviglia.
Appena l'enorme pianale fu all'aperto, potei vedere che sopra di esso c'e-
ra un grifone. Si trattava di un colossale rapace, nero come l'inferno, in-
cappucciato, col becco tenuto chiuso da una cinghia di cuoio ed un pesan-
tissimo blocco d'argento fissato alla zampa sinistra. Oberata da quel peso,
la bestia non poteva muoversi molto né prendere il volo, così com'era im-
possibilitata anche a vedere ed a colpire chi le stava accanto.
Mentre la piattaforma veniva trainata avanti, con stupore della folla io
presi a camminare verso di essa.
Il cuore mi era balzato in petto.
Scrutai attentamente il grifone e decisi che, se non avevo un'allucinazio-
ne, qualcosa nella sua forma e nel piumaggio non mi era del tutto estraneo.
Avrei pagato cento denari d'oro per potergli vedere la testa.
Le immense ali nere a tratti s'allargavano, accennando a battere e solle-
vando turbini di sabbia che accecavano gli schiavi: il grifone aveva sentito
l'odore dell'aria aperta, e sollevava il capo anelando al cielo che i suoi oc-
chi non potevano vedere.
Sapevo che non avrebbe tentato d'alzarsi in volo con quel giogo da mez-
za tonnellata fissato alla zampa. Forse un grifone di genere diverso ci a-
vrebbe provato. Ma se quello era il rapace che io pensavo, doveva essere in
grado di valutare il peso e di capire che il suo tentativo si sarebbe risolto in
un penoso e spiacevole annaspare, in una serie di rovinose cadute. Infatti,
vidi con soddisfazione che la bestia non faceva forza con le ali, rifiutando
orgogliosamente d'offrire ai suoi catturatori uno spettacolo cruento e inde-
cente. So che questo può sembrare strano a dirsi, però io sapevo che i gri-
foni di razza selezionata avevano processi mentali più evoluti i quelli alle-
vati per il semplice trasporto, e quel mostro era certamente un grifone da
guerra.
«Stai indietro!», mi gridò uno degli aguzzini armati di frusta che fian-
cheggiavano gli schiavi.
Invece di ubbidire feci uno scatto in avanti e gli strappai la frusta di ma-
no. Con una spinta nel petto lo mandai lungo disteso a terra; poi, sogghi-
gnando, gli gettai il suo arnese fra le mani con un gesto sprezzante. Mi
fissò scornato.
Fermo accanto alla piattaforma tornai ad esaminare il volatile, e notai
che lo sprone posteriore di ciascuna zampa era rivestito da un cono d'accia-
io, inchiodato sull'escrescenza ossea. Era un volatile dei più costosi, sele-
zionato per ottenere caratteristiche di resistenza e di combattività, il più
adatto ai duelli aerei che i grifonieri solevano affrontare nel cielo. Il suo
equivalente terrestre avrebbe potuto essere l'antico cavallo da battaglia, il
quadrupede capace di colpire, di uccidere, e di difendere la vita del proprio
cavaliere anche se questi fosse stato disarcionato. Alle nari mi giunse l'o-
dore del suo piumaggio, spiacevole per tutti salvo che per un combattente
avvezzo ad affidare la propria integrità alla sua cavalcatura alata. Mi torna-
rono alla mente i nidi ed i recinti di Ko-ro-ba, di Ar, dell'accampamento di
Pakur sul limaccioso Vosk, tutti luoghi in cui quell'odore saturava l'aria.
Mentre stavo lì, a fianco di quel volatile che avrebbe dovuto essere il
mio carnefice, non potei fare a meno di sorridere. La vicinanza del grifone
mi dava piacere, anche se ne conoscevo l'irragionevole aggressività. Mi
faceva venire in mente sette anni addietro, quando avevo volato sulle torri
di Ko-ro-ba col mio istruttore, verso le mura di Thentis e poi sull'assediata
Ar. Mi rammentava il giorno in cui avevo lasciato l'esercito vittorioso per
tornare a casa, con Talena in sella davanti a me, felice e ridente perché ci
attendeva la cerimonia nuziale... quanti ricordi, cruenti ed anche dolci,
risvegliava in me la vista di un grifone dalle ali nere come la notte! Cercai
con gli occhi l'anello alla caviglia e vidi, come avevo supposto, che il no-
me della città era stato limato via.
Mi rivolsi ad uno degli schiavi incatenati. «Questo è un grifone di Ko-
ro-ba», affermai.
L'individuo si fece pallido nel sentir pronunciare il nome di quella città.
Mi voltò le spalle, quasi ansioso di tornarsene alla sua prigione come una
bestia alla stalla, spaventato da una semplice parola.
Ma intanto, sebbene agli spettatori potesse sembrare che il grifone fosse
piuttosto calmo, io notai che non era affatto così: d'improvviso in lui era
nata una tensione psichica, un'eccitazione simile alla mia. Minuscoli mo-
vimenti del capo ne rivelavano lo stato d'incertezza, di all'erta, e sotto il
cappuccio le sue orecchie si erano protese allo spasimo per captare i suoni.
Ci fu il rumore quasi inudibile dell'aria che veniva aspirata dalle narici sul
suo becco, e seppi che stava vagliando gli odori. Mi chiedevo se avesse già
sentito il mio. Poi il poderoso becco giallo si voltò lentamente e, dopo una
breve esitazione, si puntò verso di me.
L'uomo in gonnellino di cuoio, l'aguzzino che avevo già imparato a co-
noscere tanto bene, stava venendo dalla mia parte con la frusta sollevata.
«Vattene da lì. Scostati!», ringhiò.
Lo fissai dritto negli occhi. «Non stai parlando ad uno schiavo. Hai di
fronte a te un guerriero, verme!»
Lui distese indietro la frusta, ma a quel gesto gli risi in faccia. «Prova a
colpirmi, e sarà l'ultima cosa che farai.»
«Non crederai di farmi paura, tu,» borbottò.
Ma era sbiancato in faccia. Indietreggiò subito di qualche passo ed ab-
bassò la frusta, conscio che non gli sarebbe servita a nulla ora che avevo le
mani libere. Gli dedicai un sogghigno derisorio.
«Fra poco sarai morto!», gridò, sputando saliva per la rabbia. «Già più di
cento grifonieri di Tharna hanno cercato di montare questa bestiaccia, e
quasi tutti sono stati uccisi o gettati al suolo. La Regina ha decretato allora
che lo si usasse nei Giochi in un'occasione speciale, quando si fosse trova-
to un bastardo meritevole d'una morte tutta particolare. E adesso è venuto
il momento.»
«Levategli il cappuccio!», ordinai. «Liberatelo!»
L'individuo mi guardò come se mi giudicasse pazzo. A dire il vero l'eu-
foria di cui ero preda stupiva per primo me stesso. I guerrieri armati di
lancia vennero avanti, e tre di essi mi spinsero via con la punta delle armi.
Poi, ad un comando del loro capitano, tutti quanti salvo un paio di schiavi
abbandonarono l'arena. Da una quindicina di metri di distanza assistei alla
manovra con cui veniva tolto il cappuccio al rapace. Non c'era da dubitare
che la bestia fosse a stomaco vuoto, purtroppo.
Sulle gradinate si era fatto il più completo silenzio.
Mi domandavo quali pensieri e riflessioni stagnassero oltre la fredda
maschera d'oro di Lara. Mi domandavo se il grande uccello avesse captato
qualcosa di noto nella mia voce e nel mio odore. Non era stato certo per
capriccio se mi ero accostato a lui ed avevo parlato.
Nell'arena erano rimasti soltanto due schiavi, senza giogo né catene, uno
dei quali era salito sulle spalle del compagno per raggiungere la testa del
volatile. L'uomo sganciò la cinghia che fermava il becco e poi sciolse la
corda del cappuccio, senza però osare levarlo. Fatto ciò i due corsero via
verso la porta e, una volta che furono al sicuro, essa venne riaccostata.
Il grifone aprì il becco e la cinghia cadde sulla piattaforma. Scosse la te-
sta con violenza, come un cane che si scrollasse l'acqua dal pelo, ed il cap-
puccio volò sulla sabbia. Poi allargò le ali, sollevò il becco spalancandolo
verso il cielo ed emise il terrificante gracidio di sfida caratteristico della
sua specie. La sua cresta nera, uno dei pochi particolari oltre alle dimen-
sioni che lo differenziavano dal suo omonimo terrestre, si rizzò con un
crepitio di penne, ed il suo intero piumaggio parve gonfiarsi e riprendere
vita.
Era bellissimo ai miei occhi: uno dei più grandi predatori di Gor, senza
rivali nell'atmosfera del pianeta, temibile e ciò malgrado splendido.
Volse su di me i grandi occhi neri, simili a dischi di carbone e scintillan-
ti come stelle, e sulle tribune il silenzio divenne tale che perfino l'aria par-
ve essersi solidificata nella tensione generale. Soltanto allora alzai le brac-
cia verso il grifone, iridando:
«Horus, Signore dei cieli! Riconosci il tuo padrone? Guardami, Horus:
io sono Tarl Cabot. Tarl Cabot di Ko-ro-ba!»
Avevo gli occhi pieni di lacrime. Non mi presi neppure la briga di guar-
dare quale effetto avevano avuto le mie parole sui cittadini di Tharna, per-
ché mi ero del tutto scordato di loro. Mi ero presentato al grifone come se
fosse un membro della mia Casta, ed ora un nodo di commozione mi chiu-
deva la gola.
«Tu solo non volgi il capo al sentire il nome della nostra città!», sin-
ghiozzai. «Tu solo non hai timore e vergogna, guerriero come me della
Regina del Mattino!»
Senza pensare al pericolo che malgrado tutto la cosa presentava, corsi
verso la piattaforma e vi saltai sopra, avvicinandomi al grifone.
«Horus... vecchio furfante!», ansimai. «Sono passati sette anni. Ricono-
sci ancora la mia voce? Puoi davvero ricordarla?»
Per la verità quella speranza mi sembrava abbastanza infondata, ma il
grifone rimase immobile e questo m'incoraggiò. Gli misi un braccio sul
collo, nel rude gesto che tante volte in passato avevo fatto, e lui girò il ca-
po a sfiorarmi col becco, curioso, quasi per saggiarmi. Sapevo perfetta-
mente che non albergavano emozioni umane nella testa di quella crudele
tigre del cielo; i suoi occhi erano inespressivi come quelli di uno squalo, ed
i suoi istinti altrettanto spietati. Cercai sotto le piume del collo e trovai due
parassiti, che gli gettai nel becco. Fu svelto a masticarli.
Mi chiedevo se ricordava i duelli nel cielo, il clangore delle armi, le gri-
da dei grifonieri contro cui ci eravamo battuti, ed i lunghi tranquilli voli a
grande altezza sulle verdi immensità di Gor. Potevano ancora esistere nella
sua memoria le immagini di quei giorni lontani? Riusciva a rammentare
d'aver volato con me sulla striscia d'argento del Vosk, sulla Catena del
Voltaj, sulle città e sui campi della grande pianura costiera? Ricordava la
notte in cui, dopo violenti duelli aerei, ci eravamo abbassati sulle strade di
Ar per rubare la Pietra della Casa di quella città, approfittando della confu-
sione di una cerimonia pubblica? No, pensai: di certo quegli eventi, così
grati alla mia memoria, non erano rimasti impressi nel semplice cervello di
quel gigante piumato. Il suo becco tornò a sfiorarmi un braccio con ruvida
gentilezza: Horus voleva esser liberato dai parassiti.
Quello non era però il momento di distrarmi. Avrei scommesso che i
guerrieri di Tharna sarebbero venuti ad ammazzarci tutti e due, adesso che
il grifone aveva rifiutato di aggredirmi.
Horus girò lo sguardo sugli spalti, innervosito e forse irritato dalla pre-
senza di tutta quella gente. Scosse la zampa a cui era assicurato il massic-
cio blocco d'argento. Avrebbe potuto camminare con quel peso, fare qual-
che passo, ma non certo prendere il volo.
Mi chinai ad esaminare le spesse flange dell'oggetto, due fasce di metal-
lo assai robuste chiuse attorno alla caviglia scagliosa con un solo asse di
ferro verticale simile ad un catenaccio. Cercai di estrarlo tirandolo all'insù,
ma invano. Doveva esser stato infilato nei fori a martellate, e senza un u-
tensile non ce l'avrei fatta. Imprecai.
Adesso nelle tribune c'era baccano. Il pubblico gridava e berciava, non
più per l'impazienza di vedermi morto bensì per la delusione, e chiedeva a
gran voce che si prendessero provvedimenti. Ma le Maschere d'Argento
apparivano incapaci di decidere alcunché, e si mostravano confuse, attonite
e sorprese: il grifone non mi aveva assalito, e nessuna di loro ne compren-
deva la ragione. Forse non si erano ancora rese conto che stavo addirittura
cercando di liberarlo.
Finalmente si udì la voce della Regina: «Fermatelo! Uccidetelo!»
Anche Dorna, l'Eletta, si mise in movimento e corse avanti, comandando
ai guerrieri di scendere nell'arena e di fare il loro dovere. Fra poco molte
guardie armate mi sarebbero state addosso; un paio di esse erano già salta-
te giù dal muro e si facevano avanti, con la cautela di chi aspetta rinforzi.
Risuonarono ordini aspri come latrati, la grande porta venne spalancata
nuovamente, e da essa corsero fuori altri guerrieri.
Attanagliai con le mani la cima dell'asse. Una lancia si conficcò nella
piattaforma a tre metri da me; una seconda s'immerse nel legno più vicina
ancora, e ad essa ne seguì una terza che sibilò alta, ma quel dannato perno
non voleva saperne di uscire dalla flangia. Horus si voltò verso i militi e
spalancò le ali, mandando un paio di strida così minacciose e feroci che gli
uomini bestemmiarono di spavento. Quindi indietreggiarono, appostandosi
a distanza di sicurezza.
«Idioti!», gridò un capitano. «L'uccello non può attaccarvi. Spacciate
quel miserabile!»
In qualunque altra città vi sarebbero stati arcieri o balestrieri ben più
pronti a trafiggermi, pensai disgustato. In quel momento però la mia fatica
venne premiata: il lungo asse fuoriuscì dai fori ed io caddi all'indietro. Il
pesante giogo si staccò, rovesciandosi sonoramente sulla piattaforma, ed
Horus fu libero.
Quando il grifone sentì che la sua zampa non era più appesantita, rove-
sciò la testa all'indietro e mandò una ululato così stridente da far accappo-
nare la pelle perfino a me. Mai in Tharna si era udito un verso tanto lungo
ed acuto. Esso aveva echeggiato soltanto fra le selvagge vette del Voltaj,
nella fiera Thentis e nei cieli ventosi delle pianure: era la sfida del grifone
vittorioso, il terribile stridio con cui esso dichiarava la propria padronanza
sul territorio e minacciava gli avversari di starsene alla larga. Il pubblico
ammutolì per l'improvviso spavento, ed i guerrieri si ritrassero alzando le
lance, perché ora più nulla tratteneva il rapace dal seminare la morte.
Per un istante temetti che Horus avrebbe immediatamente preso il volo,
e lo afferrai per il collo sperando che la sua ansia di volare non lo induces-
se a sbattermi via. Ma l'animale rimase fermo, sebbene i guerrieri incitati
dal loro capitano iniziassero una manovra per circondarci a rispettosa di-
stanza.
Senza esitare gli saltai sulla groppa, alquanto più alta di quella d'un ca-
vallo, e gli affondai le mani fra le penne del collo in cerca di una presa
salda. Avrei dato l'anima per una sella e dei finimenti da grifone, compresa
la cintura di sicurezza, perché montare il volatile senza quell'attrezzatura
poteva essere pericolosissimo.
Nello stesso momento in cui sentì il mio peso sul dorso, Horus mandò
un gracidio, allargò le poderose ali e, con un'esplosione di forza, schizzò
verso il cielo come lanciato da una catapulta, cominciando a compiere cir-
coli a bassa quota e molto veloci. Alcune lance vennero scagliate, ma con
tiro impreciso e troppo corto, ed osservai senza alcuna emozione le loro
parabole finire di nuovo nell'arena. Un buon balestriere avrebbe potuto
ferire o addirittura uccidere il grifone, ma cento guerrieri armati di lancia
potevano solo osservarmi scornati.
Sulla tribuna reale le Maschere d'Argento gridavano e agitavano i pugni
in preda a sentimenti che potevo ben immaginare: il loro divertimento di
quel giorno era finito nel peggiore dei modi, e l'uomo che avrebbe dovuto
essere una vittima si librava sull'arena in un volo trionfante che per loro
era tutto un insulto.
In realtà io non mi sentivo affatto trionfante, ed ero preoccupato. Non
avevo alcuno strumento per condurre il grifone in modo efficiente, in
quanto per farmi ubbidire avrei dovuto disporre delle sei redini a cui l'ani-
male era abituato a rispondere. Alla sella dei grifoni era sempre fissato un
anello da cui partivano redini dal diverso colore, ciascuna terminante in un
gancio incuneato nella dura pelle dietro il becco del volatile. La loro ma-
novra era un'arte difficile, poiché si potevano usare sia una alla volta che in
combinazione per trasmettere all'animale degli ordini anche complicati.
Senza redini e senza sprone era già un miracolo se Horus consentiva a te-
nermi in groppa, invece di girare la testa e togliermi di mezzo con un colpo
di becco.
Non temevo che lo facesse davvero, perché in passato avevo adoperato
lo sprone col contagocce e solo in caso di necessità, cosicché il volatile
non aveva finito con l'assuefarsi alle scariche d'energia e ne temeva sempre
il contatto. Ignoravo cosa gli fosse accaduto in quei sette anni e come fosse
finito a Tharna, anche se potevo sospettare che i Re Sacerdoti ci avessero
messo lo zampino per qualche verso. Comunque fosse, la mia unica spe-
ranza era che nessuno avesse rovinato i suoi riflessi condizionati usandogli
troppi maltrattamenti.
In genere lo sprone era indispensabile perché, se il grifone perdeva la te-
sta per la fame o per altri motivi era capace di uccidere il suo grifoniere.
Quando aveva appetito, l'unica soluzione era di farlo scendere su una pia-
nura in cerca di antilopi o prede simili, e lasciarlo mangiare. Sette anni
prima avevo abituato Horus a cacciare da solo, mentre io lo aspettavo a
terra fidando che non sarebbe mai uscito dalla portata del fischio da ri-
chiamo. Per istinto il grifone sceglieva la preda e la catturava sollevandola
dal suolo fra gli artigli, senza ucciderla. Solo in seguito, tornando vuoi
nelle vicinanze del padrone vuoi nel nido, la rimetteva a terra e la scannava
per divorarla rapidamente. Ciò derivava dal fatto che i piccoli del grifone,
nel nido, non toccavano mai le carogne, perciò l'adulto era costretto a por-
tar loro una preda viva se voleva che si nutrissero. Questo particolare della
loro natura mi era venuto utile già una volta, allorché un grifone verde mi
aveva trasportato nella presa di un artiglio dalla foce del Vosk fino ai pic-
chi delle Montagne Rosse, lasciandomi illeso.
Usare lo sprone troppo spesso danneggiava inoltre i riflessi del volatile,
che dopo qualche anno divenivano torpidi e scoordinati. Mi auguravo che
Horus associasse ancora la mia presenza a quella dello sprone e che non
tentasse colpi di testa. Un tempo aveva ricevuto un addestramento di pri-
m'ordine, e mio padre lo aveva pagato fior di quattrini proprio per questo.
Il grifone si alzò in quota sempre volando in circolo, e, guardando in
basso, vidi l'arena allontanarsi e rimpicciolire. La grigia Tharna mi appari-
va già distante, benché non fossi che a cento metri d'altezza, e all'orizzonte
potevo scorgere le pianure verdi e gialle oltre i territori coltivati. Laggiù
c'era la vita.
«Sono libero!», gridai selvaggiamente. «Libero, per tutti i fulmini del
cielo!»
Ma il mio era soltanto uno sfogo fatto di parole vuote. Come osavo urla-
re nel vento quell'annuncio, senza arrossire di vergogna al pensiero di chi
libero non era affatto? Finché i miei amici fossero rimasti chiusi in una
cella umida, in balia dei loro aguzzini, anch'io sarei stato incatenato e lega-
to da ceppi non meno umilianti.
Laggiù da qualche parte c'era Linna dagli occhi ridenti, la timida ragazza
che per amore aveva sfidato le usanze della sua città e accettato il collare
da schiava. Potevo dimenticarla, forse? E c'era Andreas il Cantastorie, che
pur di non lasciare la sua Linna aveva affrontato un destino ancora peggio-
re di quello di lei. Ma non solo loro: chissà quanti altri disgraziati stavano
soffrendo nelle miniere e nelle Grandi Fattorie di Tharna, condannati alla
schiavitù da governanti ingiusti ed inumani. E vi erano i cittadini stessi, la
cui libertà era una tragica burla, oppressi da leggi che ne annichilivano il
diritto alla vita.
«Tabuk!», gridai al mio rapace nero. «Tabuk!»
Fra tutte le antilopi goreane il tabuk era forse la più graziosa; gialla e
flessuosa, assai prolifica, sovente abbandonava le pianure per azzardarsi ai
margini dei campi coltivati in cerca di sale e di acqua. Era anche la preda
favorita dei grifoni, che ne apprezzavano le carni saporite.
Il grido «Tabuk!» era usato dai grifonieri durante i lunghi voli, quando
non si desiderava perdere troppo tempo lasciando i rapaci liberi di andare a
cercarsi del cibo. In questi casi il grifoniere, appena avvistata dall'alto una
preda di qualsiasi genere, urlava l'ordine generico di «Tabuk! Tabuk!»,
senza far alcun uso delle redini, e per il grifone questo era il segnale che
poteva abbassarsi a cacciare. Tuttavia, se il volatile era ben addestrato, non
uccideva la preda all'istante, ed ai migliori grifoni s'insegnava questo com-
portamento proprio in vista del caso che si volesse prelevare dal suolo un
essere umano, ovviamente un nemico con cui si poteva esser rudi. Era la
prima volta che ricorrevo a quell'ordine vocale con Horus, e non ero certo
che potesse ancora ricordarlo dal tempo in cui era stato ammaestrato.
Invece, appena lo udì, s'inclinò sull'ala sinistra e planò verso il basso in
un vastissimo semicerchio, scrutando il suolo per vedere dove fosse la pre-
da che il suo padrone aveva scelto per lui. Se non la vide non era colpa
sua, ma fra poco gliel'avrei indicata.
Il mio era un piano dettato dalla disperazione, ed aveva pochissime pos-
sibilità di riuscita, a meno che il grifone non collaborasse oltre le mie più
rosee speranze. I suoi occhi erano puntati in basso, mentre ad ali spiegate
continuava a calare di quota sulle torri di Tharna. La città scorreva sotto di
noi.
Passammo di nuovo presso la verticale dell'arena, piena di folla, e vidi
che al riparo del tendone c'erano ancora tutte le Maschere d'Argento. Il
popolo stava cominciando a sgombrare gli spalti, ma le dominatrici della
città sembravano ascoltare l'arringa di qualcuno, forse Dorna l'Eletta o la
Regina stessa. Nello spazio ovale un capitano stava frustando un paio dei
suoi guerrieri, evidentemente colpevoli di inettitudine.
«Tabuk!», gridai.
Horus mosse appena la coda, e ad ali distese s'abbassò in una picchiata
velocissima. Raddrizzandosi in orizzontale sorvolò le tribune a una veloci-
tà di oltre cento chilometri all'ora, troppo elevata per agguantare del cibo,
come egli sapeva bene, cosicché tutto ciò che fece fu di allungare le zampe
con gli artigli sfoderati. Sentii le urla di terrore e vidi la gente che si butta-
va a terra, poi il grande telone della tribuna reale venne strappato via di
netto dalle zampe di Horus, la cui velocità diminuì bruscamente.
Il grifone proseguì per una cinquantina di metri, lasciò cadere l'enorme
pezzo di stoffa sbattendo le ali per ritrovare l'assetto, poi compì un breve
semicerchio e tornò indietro.
«Tabuk! Tabuk!», ordinai ancora.
Le Maschere d'Argento erano in preda ad un terrore folle. Correvano alla
cieca di qua e di là, si urtavano, cadevano fra le poltrone e i tavolini stri-
sciandovi sotto in cerca di riparo, e non poche erano svenute fin dal mio
primo impressionante passaggio. Cinque o sei si gettarono dal muro finen-
do nella sabbia dell'arena, mentre solo una decina avevano conservato suf-
ficiente freddezza e si stavano precipitando all'uscita della tribuna.
Fu l'oro delle sue vesti e del suo trono a condannare Lara di Tharna: l'oro
faceva di lei una creatura gialla, ed il tabuk era un animale giallo. In quello
che dovette essere l'istante più spaventevole della sua vita, la Regina si
trovò sola, in piedi presso il suo scranno, al centro d'uno spazio che si sta-
va vuotando rapidamente perché il grifone puntava dritto su di lei. Alzò le
mani in un gesto disperato, mandando un grido acutissimo e, mentre le
arrivavo addosso, vidi nelle fessure della maschera il bianco dei suoi occhi
arrovesciati all'indietro. Il grifone rallentò il volo con un violento colpo
d'ala, quasi arrestandosi, e nel movimento la parte inferiore del suo corpo
venne proiettata in avanti, a zampe protese. Poi il suo" artiglio destro si
chiuse attorno al corpo della Regina, che svenne all'istante.
Per un paio di secondi ancora Horus rimase immobile nell'aria ad un me-
tro e mezzo dal suolo, sbattendo le ali in archi stretti e rapidi, ed emise un
gracidio soddisfatto. Intorno a noi regnavano lo spavento ed il caos.
Quindi il grifone allargò il battito alare e ne aumentò la portanza, salen-
do con rapidità fino a cinquanta metri d'altezza. Sulla sua groppa io ansi-
mavo di fatica, ancora stentando a reggermi dopo tutti quegli scossoni.
Horus si portò senza fretta in quota, allontanandosi dall'arena, dalle torri e
dalle mura di Tharna. Infine accelerò il volo verso l'orizzonte lontano te-
nendo ben salde in uno dei suoi artigli il corpo inerte di Lara, la Regina
dalla maschera d'oro.

Capitolo 15
SI CONCLUDE UN PATTO

La parola che avevo usato col grifone era l'unico segnale vocale che gli
allevatori usavano imprimere nel cervello di quelle bestie dopo l'uscita
dall'uovo. Molti abili grifonieri, una volta preso in mano il volatile, sape-
vano insegnargli a comprendere altre venticinque o trenta parole, ma io
non avevo mai avuto il tempo di farlo, ed era inutile stare a rimpiangerlo.
Privo delle redini mi trovavo adesso in una situazione ingovernabile, e
dagli sviluppi imprevedibili.
A forza di lambiccarmi il cervello ripescai però un ricordo: durante il
mio ultimo volo con Talena, verso Ko-ro-ba, avevo speso alcune ore per
insegnare alla ragazza la manovra delle redini, tenendola davanti a me e
ordinandole di eseguire ora questa ora quell'evoluzione.
Nel vento che ci soffiava intorno le avevo gridato comandi come: «Re-
dine uno!» e «Redine sei!» e così via, dopodiché lei aveva tirato la correg-
gia corrispondente ed aveva impartito l'ordine alla nostra cavalcatura alata.
Questa era stata l'unica torma d'associazione fra la voce umana e la trazio-
ne delle redini che mai avessi fornito ad Horus. Non era logico aspettarsi
che il grifone ne fosse stato condizionato in così poco tempo, tanto più che
il mio addestramento era diretto a Talena e non già a lui. Inoltre, la cosa
era accaduta sette anni addietro, e per buona che fosse la sua memoria, non
poteva esserlo a quel punto.
Ma che altro potevo fare? «Redine sei!», urlai.
Il grande uccello s'inclinò sull'ala sinistra e prese a calare lievemente di
quota.
«Redine due!», ordinai. Horus deviò a destra continuando a scendere
con la stessa inclinazione.
«Redine quattro!» E il grifone s'abbassò in planata preparandosi all'atter-
raggio.
Risi, deliziato e divertito nell'accorgermi d'aver sottovalutato le capacità
d'apprendimento del mio titano alato.
«Redine uno!», ordinai ancora. Horus riprese a battere le ali, alzandosi
velocemente.
Non dissi nient'altro, ed il grifone raggiunse la quota a cui preferiva vo-
lare. Le ali remigavano nell'aria a ritmo lento, mantenendo quella che per
lui era la velocità di crociera, arrestandosi solo quando una corrente ascen-
sionale gli consentiva di planare in avanti. Volgendomi, vidi i campi colti-
vati e le torri di Tharna già lontani e velati di foschia.
Mi venne spontaneo battere alcune pacche sul collo del volatile, arruf-
fandogli le penne. Erano gesti che i grifonieri di Gor non compivano mai,
carezze d'un genere che solo un terrestre avrebbe pensato di rivolgere al
suo cane od al suo cavallo. E infatti Horus non diede segno d'accorgersene,
poiché per lui non avevano alcun significato o addirittura lo disturbavano.
Certo di me non gli importava molto: io ero una specie di oggetto animato,
un elemento che faceva parte dell'addestramento da lui ricevuto. Ciò mal-
grado provavo un certo affetto per lui.
Non avevo alcuna vera ragione d'essere soddisfatto, e se avessi riflettuto
sulle disgrazie mie e delle persone a me care, il sorriso avrebbe fatto presto
a sparirmi dal volto. Ma stavo volando, e la sensazione era quella che solo
un grifoniere poteva capire. Dopo tanto tempo trascorso a sospirare su ciò
che mi era stato tolto, ora volavo di nuovo. Neppure seduto sul trono d'un
Tiranno avrei provato la gioia che mi dava stare in groppa ad Horus.
Si diceva che una volta divenuto grifoniere un uomo lo fosse per sem-
pre. Sottomettere il volatile non era facile, montandolo per la prima volta
si metteva a repentaglio la vita, ed anche in seguito il contatto con lui era
un rischio. Ma quando si assaporava quella vita non se ne poteva più fare a
meno. Sulla sella d'un grifone si conosceva il volo vero, un'ebbrezza di cui
i piloti di aerei e di alianti hanno appena una pallida idea. Il brivido ed il
silenzio delle grandi altezze erano cose che restavano nell'anima, e non ci
si stancava mai di quel che comportava la movimentata esistenza del gri-
foniere.
Da sotto il ventre del mio volatile provenne un grido disperato, seguito
da singhiozzi e gemiti: la preda dorata era rinvenuta.
Imprecai contro me stesso. Esilarato e stordito dal volo, avevo comple-
tamente dimenticato Lara di Tharna, che poteva ben dire di vedersela brut-
ta. Pochi riuscirebbero a immaginare quale sia lo spavento d'un creatura
umana chiusa nell'enorme artiglio di un volatile, a centinaia di metri dal
suolo. Il dolore della stretta è di per sé quasi insopportabile, ma il pensiero
che si può esser lasciati cadere, oppure deposti da qualche parte e divorati
dal grifone, è ancora peggio. Ce n'è abbastanza da rischiare l'integrità men-
tale, fatto salvo il pericolo delle fratture costali e di altre lesioni.
Gettai un'occhiata indietro per controllare se qualcuno m'inseguisse. Po-
tevo star tranquillo che il mio gesto doveva aver scatenato una caccia al-
l'uomo, sia per via di terra che nell'aria. La città di Tharna non manteneva
forti contingenti di grifonieri, però tutti gli squadroni alati di cui disponeva
dovevano esser già stati messi in movimento.
Gli scialbi e apatici uomini di quella città non erano gente capace di do-
minare un grifone, cosa per la quale occorre polso e carattere, e certo pochi
di loro si arruolavano come grifonieri. Sapevo però che ve n'era in numero
sufficiente a difendere Tharna, poiché in caso contrario una qualsiasi delle
città più vicine se la sarebbe mangiata in un boccone. Doveva dunque trat-
tarsi di mercenari, che uniti a guerrieri dello stampo del capitano Thorn
formavano squadroni di buona levatura tecnica. Sottovalutarli sarebbe sta-
to un errore fatale.
Un paio di minuti d'attenta osservazione mi consentirono tuttavia di ve-
dere che il cielo alle mie spalle era del tutto sgombro, cosa questa che mi
sorprese. Da sotto sentii giungere un'altra serie di gemiti strazianti.
In distanza, a circa trenta chilometri davanti a me, si scorgeva una pianu-
ra il cui colore giallo e caldo era certo dovuto a tappeti di talender, i fiori
usati su Gor per farne ghirlande. Al di là di essa s'alzavano i picchi scosce-
si d'una breve catena montuosa, velati di foschia azzurrina. I talender era-
no i fiori preferiti dalle donne abbienti, che li coltivavano nei loro Giardini
Chiusi e se ne ornavano i capelli ad esclusivo beneficio dei familiari. La
tradizione li voleva presenti anche nelle cerimonie nuziali, sotto forma di
coroncine che la sposa e le sue amiche portavano allegramente.
Mezz'ora più tardi giungemmo fra i monti, volando a circa mille metri
d'altezza.
«Redine quattro!», gridai a Horus.
Il grifone allargò le ali e planò lentamente verso una cresta di roccia nu-
da, posandosi su un ampio lastrone irregolare. Il luogo era abbastanza a-
perto ed elevato da dominare l'intero territorio per molti chilometri intorno,
e raggiungibile solo dall'aria.
Nello stesso momento in cui Horus sfiorò il suolo, io mi lasciai scivolare
giù lungo il suo fianco ed afferrai saldamente Lara, per impedire che la
zampa la schiacciasse a terra. La trassi di lato, spinsi via il grifone con una
spallata mettendomi fra lui e il corpo della donna, e questo fece comparire
negli occhi di Horus una luce di perplessità: forse che io non gli avevo
gridato «Tabuk»? E dunque perché ora gli impedivo di mangiare la preda
da lui prelevata con tanta ubbidienza? Intendevo divorarla io, rubandoglie-
la odiosamente?
Afferrai il grifone per le penne del collo e gli feci voltare la testa da u-
n'altra parte, spingendolo qualche passo più in là. Poi raccolsi sulle braccia
la Regina, che non sembrava in grado di star dritta da sola, e la portai fino
ad un'estremità del lastrone dove la roccia si alzava a picco, mettendola a
giacere presso la parete granitica. Lei mandò subito un lamento, riaprendo
gli occhi e, mentre tornavo, verso Horus vidi che cercava di tirarsi su.
«Tabuk!», ordinai al grifone, indicandogli la pianura.
Horus tenne le ali serrate. Girò gli occhi famelici sulla Regina e s'in-
camminò verso di lei. Lara strillò di terrore, schiacciandosi in una nicchia
della roccia. Con un'imprecazione agguantai ancora il volatile per il collo,
ed a viva forza gli feci puntare lo sguardo sulla grande distesa fiorita di
talender, oltre duecento metri più in basso.
«Tabuk! Tabuk!», comandai. Horus esitò seccato, si volse a sfiorarmi col
becco come in cerca d'una spiegazione, ed io ripetei: «Tabuk, amico
...Laggiù, tabuk!»
Dopo un'ultima occhiata alla Regina, il grande uccello si portò con due
passi sull'orlo della terrazza naturale, allargò le ali e si gettò in picchiata
verso la pianura. Alle orecchie mi giunsero gli echi del suo verso di caccia,
acuto ed incisivo. Tornai immediatamente dalla mia prigioniera.
«Come stai, sei ferita?», le chiesi.
Sapevo che la zampa del grifone non poteva chiudersi bene, e che fra gli
artigli e i durissimi cuscinetti restava uno spazio nel quale una preda uma-
na poteva almeno respirare. Ma rimetterci un paio di costole non era inso-
lito, per una donna che un grifoniere brutale avesse rapito così selvaggia-
mente. Eppure non avevo avuto molta scelta, e del rischio d'ucciderla non
m'importava nulla, visti i risultati a cui miravo. Con un ostaggio come la
Regina nelle mie mani, Tharna sarebbe stata costretta a cedere alle mie
pretese. Era solo questione di decidere quel che volevo. Innanzitutto c'era-
no Linna e Andreas, quindi i prigionieri destinati ai Giochi, e poi ... Bé,
non potevo illudermi di far mutare le usanze e le leggi, che una volta riavu-
ta la sua Regina, Tharna avrebbe comunque ripristinato. Dunque avrei do-
vuto accontentarmi di far liberare un certo numero di schiavi.
La donna dalla maschera d'oro stava barcollando; appoggiò una mano ad
una sporgenza di roccia per non cadere al suolo.
La tradizione di Gor parlava chiaro su quello che doveva essere l'atteg-
giamento della femmina verso il suo catturatore: a terra in ginocchio, il
capo chino, i polsi incrociati a simboleggiare l'accettazione della schiavitù,
l'ubbidienza più assoluta ed una serie di altri atteggiamenti minori dello
stesso genere. Ma quella donna era una Regina, e non potevo aspettarmi
con facilità un comportamento umile. Nel vedermi avvicinare aveva alzato
una mano verso la maschera d'oro, come se temesse più d'ogni altra cosa
che gliela levassi dal viso. Solo dopo quel gesto istintivo si ricompose le
vesti, e ciò mi fece sorridere. I suoi ricchi indumenti presentavano alcuni
larghi squarci provocati dagli artigli, e la stoffa ondeggiava al vento. La
fermò meglio che poteva, certo odiandomi con tutta l'anima mentre cerca-
va d'impedirmi di vedere un tratto di coscia nuda. Fino ad allora non avevo
avuto un'idea sul tipo di femmina che poteva esserci sotto quelle vesti da
Donna Celata, salvo che sembrava abbastanza giovane e snella. Mi accorsi
adesso grazie a quegli strappi che le sue carni erano lisce, e che Lara sem-
brava essere assai ben fatta. Non che me ne importasse, d'altronde.
«Non sono ferita. Sto bene,» rispose in fretta.
Era proprio la risposta che mi ero atteso da lei. Ma era anche una bugia
bella e buona, perché avevo fatto in tempo a scorgere alcune escoriazioni
sanguinanti e vedevo che stava soffrendo.
«Meglio così,» dissi. «Fra poco del resto starai meglio, appena la circo-
lazione sanguigna si sarà ristabilita.»
La sua maschera aurea mi fissò senza alcuna espressione, proprio il ri-
sultato a cui voleva giungere chi l'aveva cesellata.
«Anche a me è capitato di viaggiare fra gli artigli di un grifone,» aggiun-
si, in tono discorsivo. «Il fascino del pericolo, la bellezza dei panorami
sottostanti, e così via... Ho un caro ricordo di quell'avventura.»
«Perché quella bestia orrenda non ti ha ucciso, nell'arena?», domandò
lei.
Alzai le spalle. «Quello è il mio grifone. Si chiama Horus.»
Che altro avrei potuto dirle? Il fatto che il rapace non mi avesse attaccato
stupiva ancora me stesso, conoscendo la sua natura selvaggia. Se non a-
vessi avuto una buona esperienza di quegli animali, avrei pensato che pro-
vasse per me una sua particolare sottospecie di affetto, ma mi sarei ben
guardato dal confidare quel sospetto ad un altro grifoniere.
La Regina esaminò i dintorni e il cielo. «Quando tornerà?», balbettò. La
sua voce era un sussurro e mi rivelò che se la donna aveva paura di qualco-
sa, questo era il grifone.
«Presto,» la informai. «Speriamo che riesca a trovare qualcosa con cui
placare la sua fame, giù in pianura.»
Lei fu percorsa da un tremito. «Ma se non troverà niente, tornerà qui af-
famato e inferocito.»
«Ci puoi scommettere. Meglio non augurarselo.»
«Potrebbe tentare di ...mangiarci?», ansimò.
«Sicuro. È una bestia maledetta, quella.»
Sotto il bordo inferiore della maschera, il suo Pomo d'Adamo si mosse
su e giù più volte. Parlò quasi scegliendo con cura i termini, sottovoce:
«Tu... Se il grifone tornasse affamato, mi daresti in pasto a lui, vero?»
«Non avrei altra scelta,» dissi trucemente.
Con un'esclamazione di terrore, Lara di Tharna si lasciò cadere in ginoc-
chio ai miei piedi, quindi poggiò la fronte al suolo ed incrociò i polsi.
«A meno che tu non ti comporti bene,» aggiunsi.
La donna balzò in piedi con un mugolio di rabbia. «Ora capisco: ti fai
gioco di me. Mi hai costretta con le tue bugie ad assumere la posizione
della prigioniera... Questo volevi!»
Mi limitai a sogghignare. Le mani di lei si alzarono di scatto verso il mio
volto, ma fui svelto ad afferrarla per i polsi e la tenni ferma. Notai per la
prima volta che aveva grandi occhi azzurri. Quando la lasciai, indietreggiò
fino alla parete rocciosa e mi voltò le spalle, ansando.
«Forse che io ti diverto?», sbottò.
«Puoi essere tutto, ma non una persona divertente, Regina.»
«Insolente! Che vuoi da me? Devo considerarmi tua prigioniera o cos'al-
tro?», esclamò in tono provocante.
«Prigioniera,» confermai.
Lei rifiutò di voltarsi a guardarmi e continuò a fissare la roccia. «Che in-
tenzioni hai?»
«Ti venderò ad un mercante di schiavi, in cambio di una sella e di armi.»
Lara di Tharna ebbe un sussulto e si girò a fronteggiarmi, stringendo i
pugni. «Tu non oserai farlo!», gridò.
«Ti farò tutto quello che vorrò.»
Nei suoi occhi balenò una luce furiosa. Dietro la maschera doveva avere
il volto contratto in una smorfia d'odio. Per un poco non fece che osser-
varmi, ed infine la sua voce sibilò rovente come un acido:
«Tu non sai quel che dici, bestia!»
«Levati la maschera. Voglio vedere quanto puoi essere valutata al mer-
cato degli schiavi,» le ordinai.
«No!» Le sue mani corsero a protezione del volto d'oro.
«Già questa tua maschera potrà fruttarmi un buon guadagno,» osservai.
«Ed io ho bisogno di denaro.»
D'improvviso Lara ebbe una risata secca. «Certo. Col ricavato potrai u-
briacarti per un anno intero.»
Dal suo tono compresi che secondo lei io stavo parlando a vanvera o che
stavo scherzando, e che non avrei avuto il coraggio di consegnarla ad uno
schiavista. Ma per la buona riuscita del mio piano era necessario che la
donna si convincesse della serietà delle mie intenzioni: solo così si sarebbe
mostrata docile.
La sentii ridere ancora, stavolta divertita. Si toccò gli strappi della veste
e me li fece osservare. «Ma, come vedi,» disse in tono ironico, «non sono
molto elegante. Ricaveresti ben poco da una schiava così malridotta. Se
vuoi fare una buona vendita, procurami delle vesti pulite.»
«Farò un affare molto migliore se ti venderò nuda.»
Lara tacque, ma la mia affermazione doveva averla scossa. Decise allora
di giocare una carta d'altro genere: si erse fieramente, squadrandomi con
insolente alterigia, e la sua voce divenne sferzante come la tramontana:
«Non avrai il coraggio di fare quanto dici, pezzente!»
«Perché no?»
«Perché, dici?» Si strinse nelle vesti filigranate d'oro con un gesto rega-
le. «Io sono Lara, Regina di Tharna!»
Mi chinai a raccogliere un frammento di roccia e lo gettai nel burrone,
osservandolo mentre rimbalzava e precipitava sempre più in basso. Il tra-
monto era ancora lontano, ma il cielo si riempiva di nuvole grigie e si fa-
ceva scuro. In quel grande silenzio si udiva solo il fruscio del vento fra i
picchi scabri ed i crepacci.
«Se fornissi le prove della tua identità, delle prove inequivocabili,» dissi
pensosamente, «ricaverei molto denaro da te. Magari dieci volte il tuo peso
in oro. Ma quale mercante sarebbe disposto a credermi?»
I modi della donna cominciarono a farsi più miti. «Vuoi davvero ven-
dermi? Portarmi in un mercato di schiavi?»
Visto che la guardavo con durezza, alzò di nuovo le mani al viso. «Mi
costringeranno a levarmi la maschera?»
«Quella e anche tutti i vestiti. Sarai soltanto una schiava come le altre.»
«E dovrò... mostrarmi ai compratori?»
«Si capisce.»
Lei ansimò. «Tutta nuda?»
«No, nuda no. Avrai i bracciali e il collare,» ringhiai. E, vedendola vacil-
lare a quella risposta, aggiunsi: «Nessuno è così idiota da comprare una
schiava senza averla esaminata da tutti i lati. Ti pare?»
«Lo so ...certo.»
«Ma non ti maltratteranno. Basterà che tu sia gentile ...molto gentile, col
banditore e qualche sorvegliante, la notte, e forse ti faranno anche qualche
regalino.»
Lara indietreggiò, come se l'impatto brutale di quelle parole l'avesse col-
pita in mezzo al petto, e si appoggiò alla roccia. Scosse la testa più volte,
incapace di proferir parola per la disperazione, e vidi che stava tremando.
«Mi farai questo ...a me?», balbettò, spaurita.
«Fra due giorni sarai in piedi sulla piattaforma del banditore, al mercato
di Ar, nuda come quando tua madre ti ha fatta, e pronta per il miglior offe-
rente.»
«No... no... no!», sussurrò lei.
«Naturalmente ogni possibile acquirente vorrà controllare con le sue
mani se sei vergine, com'è l'uso. Ma tu saprai sopportarlo con dignità, visto
che non sei una donnucola qualsiasi.»
Da sotto la maschera d'oro provenne un ansito rauco. Poi Lara piegò le
gambe e si afflosciò a terra. Giacque quindi bocconi sulla roccia nuda,
gemendo penosamente.
Questo era perfino più di quanto avevo contato d'ottenere, e la sua ango-
scia m'impietosì. Per un attimo fui tentato di tirarla su, consolarla e con-
trollare in quali condizioni fisiche fosse ridotta. Ma poi il pensiero di Lin-
na e Andreas, e del sangue versato per colpa di quella Regina durante i
Giochi, mi fermò. Lara era colpevole di tante atrocità che condannarla alla
schiavitù sarebbe stato poco meno che un premio: nel letto di un uomo che
l'avrebbe trattata bene e vestita di seta, non avrebbe certo pagato il giusto
prezzo per i suoi crimini.
«Oh, guerriero...» mormorò, con la faccia per terra. «Devi proprio ven-
dicarti così crudelmente?»
«Dimentichi quello che mi hai fatto? Dimentichi di aver riso, nell'arena,
quando le fruste dei tuoi aguzzini strappavano il sangue e la vita dal corpo
di quaranta disgraziati?»
«Ma si trattava soltanto di uomini... di animali.»
«Questa risposta potrei fartela ingoiare a schiaffoni, se non temessi di
rovinarti la faccia per l'asta degli schiavi.»
«Lasciami la libertà, ti supplico.»
«Non si lasciano in libertà i rettili velenosi. Tu chiedi l'impossibile, dopo
ciò che hai fatto.»
«Ordinerò che ti paghino un prezzo mille volte superiore a quello che ri-
ceveresti al mercato di Ar,» implorò lei con un singhiozzo.
«Non è il denaro che potrà spegnere la mia sete di vendetta. Forse ti
venderò per pochi spiccioli ad un carbonaio, o ad un bruto puzzolente di
vino che ti terrà incatenata su un giaciglio brulicante d'insetti. O ad un pa-
store che t'ingraviderà una volta all'anno e ti manderà dietro alle pecore e
nella stalla. O magari ti cederò ad un postribolo...»
Lara mandò un gracidio strozzato, ed io stabilii che fosse venuto il mo-
mento di condurla dove volevo. Dissi, accigliato: «Non solo hai fatto sof-
frire me, ma anche i miei amici che sono nelle tue prigioni.»
Lei si alzò in ginocchio. «Li farò liberare, credimi!», gridò.
«Puoi forse cambiare le leggi di Tharna?»
«Ahimè no. Ma abbi pietà, e ti giuro che saranno liberi. La mia vita per
la loro... Ti prego, guerriero!»
Finsi di considerare attentamente una proposta che mi sorprendeva, ma
in realtà sapevo che non avrei ottenuto risultati migliori di questo. Lara
vide la mia espressione e si alzò in piedi, dapprima speranzosa e poi quasi
trionfante. «Pensa, guerriero: preferisci soddisfare una sciocca vendetta o
veder liberi i tuoi amici? Pensaci! Essi soffrono, e attendono dalle tue mani
la vita o la morte.»
«Certo, l'onore della mia Casta m'impone d'aver cura degli amici,» ri-
sposi con serietà.
La sua voce si fece esultante. «Allora, guerriero, chiederai questo patto
alla mia città?»
«Penso proprio di sì. Mi hai convinto.»
«I tuoi amici te ne saranno grati,» rise lei. «Questa decisione ti procurerà
gran merito.»
«Voglio anche qualcos'altro.»
«E cosa?», gridò Lara. «Dillo, dunque!»
«La libertà per tutti quelli che sono in prigione e attendono di morire nei
Giochi di Tharna.» E, vedendo la sua espressione, continuai: «Tutti quanti,
oppure... il mercato degli schiavi.»
«Va bene, guerriero. Ti assicuro che saranno liberati tutti.»
«Posso fidarmi di te?»
Lara mi fissò dritto negli occhi. «Osi dubitarne? Tu hai la parola di una
Regina. Questa domanda mi offende gravemente»
«Perdonami, non dovevo fartela!», dissi. L'avrei uccisa, per la gelida
sfacciataggine con cui mentiva, ma per intanto mi conveniva abbozzare.
Le sorrisi.
«Chi sono i tuoi amici?», domandò.
«Linna di Tharna e Andreas di Tor delle Sabbie.»
«Li conosco. Hanno commesso un grave delitto, unendosi come fanno le
bestie.»
«Ciò nonostante, dovranno essere liberati.»
«Ma a che scopo? Linna è ormai una Donna Abbietta, l'altro un misero
Cantastorie e dunque un fuorilegge. Sono certa che essi stessi desiderano
solo espiare le proprie colpe, se hanno un minimo senso della giustizia.»
«Stiamo sprecando tempo in chiacchiere inutili.»
«Sia come vuoi, allora. Saranno posti in libertà.»
«Desidero anche una sella da grifone e delle armi.»
«Avrai quel che chiedi.»
In quel momento un'ombra scura sorvolò la cresta rocciosa, e nell'aria ri-
suonò un forte battito di ali: Horus era arrivato. Fra le zampe aveva un
voluminoso pezzo di carne, all'apparenza i quarti posteriori di un bosk uc-
ciso sulle alture oltre la piana, e dal sangue che gli insozzava il becco com-
presi che si era già riempito lo stomaco. Ma lì non c'era alcun nido, né
femmine della sua razza, né una covata di piccoli grifoni, a cui del resto
Horus avrebbe portato una preda viva. Venni a sapere la ragione del suo
comportamento solo quando si fu posato ed ebbe lasciato la carne ai miei
piedi: era, incredibile a dirsi, un dono.
Con una risata di compiacimento gli scarruffai le penne del collo. «Gra-
zie, Signore del cielo!», esclamai.
Mi sedetti e cominciai ad attaccare la carne fresca con le mani e coi den-
ti. La Regina mi lanciò un'occhiata di aperto disgusto, ma ero troppo affa-
mato per fare complimenti. Quando gliene porsi un pezzo, ella indietreggiò
sbarrando gli occhi, cosicché non volli insistere.
Mentre m'ingozzavo a quel modo, Lara si portò sul bordo della terrazza
rocciosa e lasciò vagare lo sguardo sulla pianura, liscia e gialla come un
tappeto. Era una veduta piacevole, e la brezza portava fino a noi una deli-
cata fragranza campestre che addolciva l'aria. Mi chiedevo cosa pensasse
di me, e se si fosse resa conto che sul mio nome gravava una specie di ana-
tema divino. O non aveva capito chi ero? La vidi stringersi nelle vesti e
restare immobile dinnanzi a quel panorama sterminato, solitaria e triste
dietro quella sua faccia di metallo.
«Talender...», mormorò fra sé un paio di volte. Con la bocca piena ed un
filo di sangue che mi colava sul mento, brontolai: «Cosa può saperne dei
fiori una donna di Tharna? Scommetto che se uno osasse crescere fra le
pietre del tuo palazzo lo faresti arrestare per tradimento.»
Lei non mi rispose. Poco dopo, appena ebbi finito di mangiare, disse: «È
tempo che tu mi porti alla Colonna degli Scambi.»
«E cosa sarebbe?»
«È una grande colonna non distante da Tharna, sulla cui vetta i rappre-
sentanti della città contrattano coi nemici la liberazione dei prigionieri.
Laggiù incontrerai i miei uomini. Ti stanno aspettando.»
Ero perplesso. «Mi stanno aspettando?»
«Naturalmente. Non ti sei ancora chiesto perché nessuno ci ha insegui-
ti?» Fece una lunga risata. «I miei grifonieri sono andati subito là. E infatti,
chi sarebbe così pazzo da rapire la Regina di Tharna per venderla altrove,
quando la città sarebbe disposta a pagare come riscatto una somma dieci
volte più elevata di quella che chiunque altro sborserebbe?»
La guardai in silenzio. Lara inclinò il capo di lato, nel restituirmi l'oc-
chiata. «Sai, per un momento ho quasi creduto che tu fossi proprio un folle
di questo genere.» Nella sua voce sembrarono vibrare delle emozioni stra-
ne e indecifrabili.
«Ai tuoi occhi sono certamente un pazzo. Ma non temere, tornerai nella
tua città.»
Avevo ancora la sua sciarpa dorata, quella che nell'arena era stata una
buona scusa per una sua battuta di spirito. Gliela mostrai inarcando un so-
pracciglio. «Voltati e unisci le mani dietro la schiena,» ordinai.
A testa alta la Regina ubbidì. Le tolsi i guanti tessuti in filo d'oro e me li
ficcai nella cintura, quindi usai la sciarpa per legarle i polsi. Fatto ciò con-
dussi la mia prigioniera presso il grifone e la issai con leggerezza sul suo
dorso piumato. Saltai su dietro di lei, la cinsi con un braccio, e con l'altra
mano mi afferrai alle penne più robuste e difficili da strapparsi.
«Redine uno!», gridai.
Horus si portò sull'orlo granitico, aprì le ali, e s'involò verso la pianura
con maestosa sicurezza.

Capitolo 16
LA COLONNA DEGLI SCAMBI
Non ci mettemmo più di tre quarti d'ora per raggiungere di nuovo il ter-
ritorio di Tharna, e sotto la guida della Regina diressi il grifone verso un
terreno erboso situato circa otto chilometri a nord ovest della città. Qui la
donna m'indicò un monumentale torrione di marmo bianco, alto almeno
trenta metri e largo altrettanto. Più che una colonna era un monolito, la cui
sommità piatta poteva esser raggiunta solo in groppa ad un grifone.
Non si trattava di un luogo mal scelto per lo scambio dei prigionieri, ed
offriva quantomeno la garanzia che tranelli e agguati non sarebbero stati di
semplice esecuzione. L'enorme cilindro era inespugnabile dal suolo, e dal-
la sua cima si poteva sorvegliare una vastissima pianura coltivata e priva
d'alberi. A sud est era visibile la città, da cui partiva un intreccio di strade
sterrate, in quel momento deserte.
Già molto prima di arrivare avevo notato che sulla sommità del monolito
erano appollaiati tre grifoni, e accanto a loro attendevano tre guerrieri ed
una Maschera d'Argento. Mentre passavo sulla loro verticale, uno degli
uomini si tolse l'elmetto e con ampi gesti mi segnalò di atterrare libera-
mente. Lo riconobbi: era il capitano Thorn. E notai che tutti e tre erano
armati.
«Sulla Colonna degli Scambi c'è forse l'uso di presentarsi con le armi in
mano?», domandai a Lara.
«È un luogo d'onore. Ti assicuro che nessuno si abbasserebbe a un ver-
gognoso atto di tradimento, lassù.»
Io stavo invece considerando l'ipotesi di allontanarmi in fretta, e borbot-
tai: «Ah, sì?»
«Devi credermi.»
«Quale garanzia mi puoi dare?»
«Hai la parola della Regina Lara di Tharna, guerriero,» dichiarò lei con
fierezza.
«Redine quattro!», ordinai al grifone. Horus parve non avermi sentito,
così ripetei: «Redine quattro! Redine quattro!»
Non ottenni alcun risultato. Forse innervosito dagli elmetti blu che aveva
imparato a destare, Horus rifiutava di scendere.
«Redine quattro!» gridai con forza.
Stavolta il volatile mi ubbidì. Calò con riluttanza sulla piatta cima del
torrione, ed i suoi artigli stridettero sul marmo. Tenni stretta la Regina cin-
gendola con un braccio, e rimasi immobile sulla groppa di Horus chieden-
domi se non stavo facendo una sciocchezza enorme. Calmai il nervosismo
del rapace con qualche calcetto in un fianco e gli mormorai di starsene
buono. La Maschera d'Argento fece alcuni passi verso di noi ed esclamò:
«Benvenuta sia la nostra nobile Regina!» La sua voce era quella di Dor-
na, l'Eletta di Tharna.
«Resta lontana!», le ordinai.
Dorna si fermò. Cinque metri più indietro di lei, Thorn e gli altri due non
si erano mossi. Lara rispose al saluto con un regale cenno del capo.
«Guerriero,» disse Dorna.«Riconosciamo il tuo diritto a trattare il riscat-
to, ma ora restituisci a noi la nobile Regina. L'intera città invoca il suo ri-
torno, e nelle strade si piange. Non vi sarà più gioia in Tharna, finché la
Signora dalla Maschera d'Oro non siederà ancora sul suo trono.»
A quelle parole non potei trattenere una risata, e la voce dell'Eletta si fe-
ce ringhiosa: «Quali sono le tue richieste, guerriero?»
«Una sella, delle armi, la libertà per Linna di Tharna e Andreas di Tor
delle Sabbie, ed il rilascio di tutti gli uomini che erano con me nell'arena,»
risposi.
«E questo è tutto?», si sorprese lei.
«Non voglio altro.»
Thorn scosse il capo, indirizzandomi una risata sprezzante. Certo al mio
posto avrebbe preteso ben altro. Dorna fissò la Regina come per chiederle
conferma, quindi disse:
«La tua richiesta verrà esaudita, e in più ti farò consegnare cinquemila
denari d'oro, mille lingotti d'argento ed un elmo ingioiellato.»
«Devi amare molto la tua Regina,» osservai.
«La mia generosità ti stupisce, vero?»
«Per nulla. Ho già avuto modo di notare quanto tu sia d'animo nobile ed
altruista.» Nella stretta del mio braccio sinistro Lara si contorse nervosa-
mente, ma la tenni ferma.
«Offrirti di meno,» fece osservare Dorna, «sarebbe un'offesa al rango
della nostra beneamata Regina.»
Lara si agitò ancora, sbuffò, e poi disse con alterigia: «Non trovo che
queste condizioni onorino a sufficienza la mia persona. Oltre a quanto hai
detto dovranno essergli consegnati ancora diecimila denari d'oro, duemila
lingotti d'argento, e cento elmetti ingioiellati.»
Dorna ebbe un gesto d'ironica arrendevolezza. «Come vedi, guerriero, la
nostra Regina è così prodiga e munifica che ti regalerebbe perfino le mura
della città.»
Lara la ignorò, girando a mezzo la testa verso di me. «Ti soddisfa la mia
proposta?»
Fra le due donne c'era una tensione che non mancai di notare ancora una
volta, un misto di sfide e di velatissimi affronti reciproci. Ma ciò non mi
riguardava.
«Sono soddisfatto, sì.»
«Allora lasciami,» comandò.
Scivolai giù dal dorso del grifone sempre tenendola stretta a me, poi le
sciolsi le braccia. Appena la donna ebbe di nuovo la sua libertà di movi-
mento, parve aumentare di statura e tornò ad essere l'imperiosa dominatri-
ce di Tharna, quasi che gli strappi delle sue vesti non esistessero più ed il
ricordo di quell'avventura fosse svanito magicamente. Altezzosa e superba,
senza degnarsi di guardarmi, tese una mano per riavere i guanti che avevo
infilato nella cintura. Glieli restituii, ed ella se li infilò con deliberata len-
tezza, non meno che se intorno a lei vi fossero dei servi immeritevoli di
attenzione. In quell'atteggiamento c'era qualcosa che non mi piacque affat-
to. Si mosse a passi regali verso Dorna ed i tre guerrieri.
Giunta accanto a loro si volse nuovamente a fissarmi, ed i suoi occhi e-
rano così inespressivi che avrebbero potuto far parte del metallo della sua
maschera. Poi puntò un dito contro di me.
«Catturate quella bestia indegna!», gridò.
Come se non avessero atteso altro, il capitano Thorn ed i suoi balzarono
avanti e mi puntarono le spade nelle costole.
«Uno sporco tradimento!...», ringhiai. «Immaginavo che l'onestà ti fa-
cesse schifo, ma non fino a questo punto.»
Lara di Tharna emise una risata chioccia, sprizzando soddisfazione.
«Stupido pazzo! Davvero t'illudevi che una Regina potesse abbassarsi a
patteggiare con un animale? Ora tocchi con mano le conseguenze della tua
presunzione.»
«La parola d'onore di Lara di Tharna vale meno dello sterco di un ser-
pente,» dissi.
«Taci. Tu stai parlando con una Regina, bestia sozza!»
Thorn mi premette l'arma nella carne. «Dammi il permesso di ammaz-
zarlo qui!», abbaiò.
«No,» disse Lara. «Non sarò così pietosa con chi mi ha offesa, e la sua
pena dovrà essere la morte lenta.» I suoi occhi erano duri come due ovali
di porcellana, tanto pieni d'odio da sembrare vacui. «Portatelo subito nelle
miniere. Laggiù apprenderà a maledire il ventre della donna che lo ha par-
torito.»
All'improvviso l'aria fu lacerata dal gracidio di Horus, che dietro di me
mosse furiosamente le ali. I tre militi si volsero di scatto, ed io approfittai
di quell'istante per scostare le loro spade. Con uno spintone mandai Thorn
ed uno degli altri due a ruzzolare sulla bianca superficie di marmo, e la
Regina e Dorna indietreggiarono gridando.
Il terzo guerriero mi si precipitò addosso alzando la spada, ma lo afferrai
per il polso e, con una rapida mossa di lotta, gli imprigionai il braccio sotto
un'ascella. Poi, facendo leva, gli spaccai l'articolazione del gomito che
cedette con uno scricchiolio secco. L'uomo cadde al suolo torcendosi per il
dolore.
Thorn e l'altro si erano subito rialzati, ma li agguantai entrambi per la
gola prima che potessero colpirmi, uno per mano. Con uno sforzo che la
rabbia bestiale mi rese facile, li feci cadere entrambi in ginocchio, e nella
mia stretta i due mollarono le spade e presero a fare concitati tentativi per
evitare lo strangolamento. Soltanto allora mi accorsi che Dorna e Lara di
Tharna erano alle mie spalle e mi stavano colpendo sulle braccia e sul dor-
so con quelle che mi parvero spille per capelli.
Risi ferocemente, senza neanche sentire quelle lievi punture. Subito do-
po accadde però qualcosa di strano, e mi sembrò che tutto quanto si capo-
volgesse più volte. Sbattei le palpebre, cercai di rimettere a fuoco la vista e
mi resi conto d'essere disteso in terra ai loro piedi. Che mi stava succeden-
do? Non potevo più muovere le gambe e le braccia, e tutto ciò che seppi
pensare fu che l'inconveniente era assurdo e seccante.
«Adesso legatelo!», sentii che ordinava la Regina.
Lentamente riacquistai la sensibilità degli arti, ma questo non mi giovò
molto, perché delle mani robuste mi stavano girando intorno al corpo una
catenella lunga e sottile. Venni immobilizzato completamente. Ci fu anco-
ra la risata di Lara, aspra e antipatica.
Poi la donna comandò: «Ammazzate quell'orribile grifone!»
«Troppo tardi! Quella bestiaccia è volata via!», brontolò Thorn.
Poco per volta, sebbene le forze non volessero saperne di tornarmi, la vi-
sta mi si schiarì e smisi di captare tutto come attraverso un vetro deforma-
to. Ero disteso supino, e potevo contemplare la punta dei miei sandali, una
parte della piattaforma marmorea e tutto quanto il cielo sopra di me, inva-
so dalle nubi.
In alto, lontana, c'era la sagoma nera di Horus che volava via. Il grifone
era stato abbastanza intelligente da andarsene, certo perché aveva notato
che gli uomini erano muniti di sprone. Adesso si sarebbe diretto alla Cate-
na del Voltaj, dove i grifoni selvatici trovavano il loro ambiente ideale,
avrebbe cercato una femmina, e sicuramente non si sarebbe fatto toccare
mai più da mani d'uomo. La cosa non mi dispiacque troppo, tuttavia provai
un senso di perdita.
Thorn mi afferrò per i polsi e mi trascinò verso l'altra estremità dello
spazio circolare, presso i loro grifoni. Ero inerme, incapace di fare un sol
gesto anche se fossi stato libero. Le mie catene vennero assicurate ai fini-
menti su un fianco del rapace che avrebbe dovuto portarmi via. Poi il capi-
tano Thorn e le due donne parlottarono un po' fra loro, ignorandomi come
se avessi cessato d'esistere. Il guerriero a cui avevo fratturato un gomito
era in ginocchio un po' più in là e scuoteva la testa da una parte e dall'altra,
stringendosi il braccio al petto. Nessuno gli prestava attenzione. L'altro
invece ebbe ordine di salire sul grifone al quale mi avevano appeso.
«Perché siete venuti soltanto voi?», sentii che la Regina diceva, in tono
di rimprovero.
«Era più che sufficiente,» rispose Thorn.
Lara puntò un braccio in direzione della città, ben visibile oltre le piatte
distese dei campi. «Molti cittadini sono usciti dalle mura e stanno venendo
qui lungo la strada. Devono essere migliaia. Li avete autorizzati forse a
celebrare il mio ritorno con una manifestazione pubblica?»
Né Dorna né il capitano Thorn le diedero alcuna risposta. La Regina al-
lora si voltò ed attraversò la sommità del torrione, tornando accanto a me.
M'indicò la strada, annuendo con enfasi. «Peccato che tu non possa assiste-
re alla processione trionfale con cui la città mi accoglierà. Sono quasi ten-
tata di farti trascinare al mio seguito entro le mura.»
Dietro di lei la voce di Dorna risuonò d'una nota chiaramente sarcastica:
«Meglio di no. Non si tratta di una processione di giubilo, Signora. Non
esattamente.»
«No!» Lara la fissò, perplessa, «E come mai?»
La maschera d'argento dell'Eletta era impassibile, ma fui sicuro che die-
tro di essa stava sogghignando. Rispose: «Vedi, Signora, il fatto è che tu
non tornerai a Tharna.»
«Non capisco. Che significa questo?», si allarmò Lara.
Il guerriero che montava il grifone scelse quel momento per dare uno
strappo alle redini, facendo alzare in volo il grande uccello, cosicché non
potei seguire il resto di quell'interessante conversazione. Stavo molto sco-
modo, e penzolavo praticamente nel vuoto. La monumentale Colonna de-
gli Scambi s'allontanò sotto di noi, e le figure di Dorna, di Lara e degli altri
due rimpicciolirono pian piano finché non fui più in grado di vederle.

Capitolo 17
LE MINIERE DI THARNA

Il locale dalle pareti di pietra era lungo circa quaranta metri ed alto ap-
pena un metro e mezzo, una sorta di corridoio dove soltanto un nano non
sarebbe stato costretto a procedere in ginocchio. Mi era stato detto che
quello era il nostro dormitorio, e ad ogni estremità di esso c'era una lampa-
da ad olio. Quanti budelli di quel genere vi fossero nelle miniere apparte-
nenti alla città di Tharna non ero in grado d'indovinarlo, ma certo non do-
vevano essere meno di cento. La lunga fila di schiavi incatenati di cui fa-
cevo parte anch'io vi entrò lentamente carponi e, quando l'uomo di testa
ebbe raggiunto il fondo, l'intero spazio fu occupato da corpi sudati e puz-
zolenti: erano sessanta sventurati, reduci dagli angusti cunicoli dove si
scavava il minerale d'argento. La porta d'acciaio venne chiusa, e all'esterno
ci fu il clangore dei quattro catenacci spinti al loro posto.
Il pavimento era bagnato, pieno di buche dove si era raccolta l'acqua
sporca che filtrava dalle pareti e pioveva incessantemente dal soffitto. L'a-
ria vi giungeva attraverso un sistema di ventilazione cosi primitivo e ina-
deguato da far paura: si trattava di due fori nel soffitto, larghi appena un
pollice e distanziati di dieci metri. Sempre nel soffitto, al centro del locale,
c'era un'apertura a sezione quadrata larga poco più di mezzo metro.
Andreas di Tor delle Sabbie, incatenato al mio fianco a metà della fila,
s'accorse che guardavo in alto e m'informò, con una smorfia: «Quel buco
serve ai guardiani per inondare la nostra residenza, amico.»
Seduto con le spalle appoggiate alla parete umida, annuii, per indicare
che avevo già sentito parlare della cosa. Mi domandavo quante volte, nel
sottosuolo di Tharna, i dormitori notturni fossero stati riempiti d'acqua
dagli aguzzini, e quanti schiavi avessero trovato la morte per annegamento
in quelle trappole. Non ero rimasto molto sorpreso nell'accorgermi che
nelle miniere d'argento la disciplina veniva mantenuta con sistemi più a-
datti ad un girone dell'Inferno. Mi era stato detto che neppure un mese
prima, in un cunicolo due livelli più in alto del nostro, uno degli schiavi si
era ribellato al Capo Catena della sua squadra.
«Affogateli tutti!», era stata la decisione del Comandante della Miniera.
Non c'era da meravigliarsi che gli stessi minatori considerassero con or-
rore i discorsi sovversivi e la possibilità d'iniziare una rivolta: avrebbero
piuttosto strangolato uno di loro che rischiare d'essere affogati per colpa
sua. L'intera miniera avrebbe potuto venir inondata con facilità dai guar-
diani, fin dai primi accenni di ribellione generale. Ciò era già accaduto una
volta in passato, come si erano affrettati a farmi sapere i miei compagni di
sventura, e per pompare via l'acqua e togliere di mezzo oltre cinquemila
cadaveri erano occorsi due mesi di lavoro.
Andreas mi diede di gomito. «Per chi ha deciso di suicidarsi, questo po-
sto può presentare aspetti interessanti. Non ti pare?»
«Già. E il principale è che qui non ci si mette molto a desiderare un bel
suicidio,» cercai di scherzare.
«Mangia, amico.»
Andreas mi porse un pesce crudo, insieme ad un pezzo di pane così duro
che per distinguerlo da una pietra sarebbe stato necessario un attento esa-
me. Cominciai a rosicchiarlo in silenzio, prestando orecchio agli ansiti
degli altri. Molti avrebbero ingoiato anche le spine del pesce, che sminuz-
zate erano pur sempre meglio di niente. Notai che alcuni dei più robusti
strappavano il cibo dalle mani degli altri, dopo averli messi a tacere con un
ringhio minaccioso.
«Qui dentro l'uomo impara che la sopravvivenza è una lotta,» diagnosti-
cò Andreas. «La bestia più forte vive, la più debole muore.»
Prima di cacciarci in quella prigione, il Capo Catena ci aveva fatti fer-
mare in una camera rettangolare, anch'essa semibuia, ed uno degli schiavi
addetti al vettovagliamento aveva rovesciato in un truogolo una cesta con-
tenente tozzi di pane, verdura marcia, pesci e altra roba. Gli schiavi si era-
no gettati sul cibo come ammali, lottando fra loro, grufolando, bestem-
miando atrocemente, e prendendone ciascuno più che poteva. Disgustato
da quella scena avevo cercato di tenermi in disparte, sebbene la catena mi
trascinasse fino a confondermi in quella mandria assatanata. Ma adesso me
ne pentivo, perché Andreas aveva dovuto darmi metà del suo cibo. Non
c'era dubbio che avrei dovuto adeguarmi a fare come gli altri, e forse anco-
ra peggio, se non avessi voluto morire di fame.
Mi chiedevo cosa fosse a tenere me ed il Cantastorie così attaccati alla
vita, in una situazione che non presentava alcun futuro. Perché non ci ta-
gliavamo le vene e non la facevamo finita? Perché avevamo ancora la for-
za di scherzare fra noi? Quelle domande, che in qualunque altro posto sa-
rebbero sembrate sciocche, non lo erano nella profondità delle miniere di
Tharna.
«Forse dovremmo studiare un piano di fuga,» dissi, a bocca piena.
«Taci, stupido!», mi zittì una voce spaventata da cinque o sei metri di
distanza.
L'uomo che aveva parlato era Ost, il cospiratore, il quale era stato con-
dotto lì qualche giorno prima di Andreas e di me. Come c'era da aspettarsi,
Ost provava nei miei confronti un odio mortale, ritenendomi responsabile
delle sue disgrazie. Quel giorno, durante il lavoro di scavo, mi aveva spes-
so fatto cadere dalle mani il minerale che staccavo dalle pareti della galle-
ria. E per ben due volte aveva rubato il mucchio di frammenti da me prepa-
rato, per metterli nel sacco che anch'egli portava appeso al collo. Questo
mi era costato due frustate da parte del Capo Catena, lo schiavo responsa-
bile della Catena di cui facevo parte, perché quella sera il mio contributo
alla quota obbligatoria di minerale era stato inferiore al necessario.
La Catena 24 Ovest, che si occupava della sezione di cunicoli chiamata
24 Ovest, era obbligata a caricare ogni giorno sulla piattaforma dell'eleva-
tore sei tonnellate di minerale grezzo, ovvero di argentopirite, un solfuro
molto ricco d'argento. Se una Catena non raggiungeva la quota per essa
stabilita, gli schiavi venivano lasciati senza il pasto serale. Se la mancanza
si ripeteva per tre volte di seguito, i guardiani inondavano il dormitorio
durante la notte per eliminare gli elementi più deboli della Catena oppure,
se così garbava loro, per sterminarli dal primo all'ultimo. Con l'arrivo di
Andrea e me, oltre a qualcuno dei detenuti che avevo conosciuto nell'are-
na, la quota giornaliera era stata aumentata, e questo non aveva fatto piace-
re agli schiavi più anziani, che per un po' avrebbero dovuto lavorare sodo
per compensare il minor rendimento dei novellini.
Ost si sporse a fissarmi. «Bada a te. Se ti sento ancora dire pazzie simili
farò la spia. Io ci tengo alla pelle!»
Mi voltai a guardare l'ometto, pallido e grassoccio. In quel momento lo
vidi portarsi le mani al collare e vacillare, strabuzzando gli occhi. Una vo-
ce rude grugnì:
«Tu non farai la spia a nessuno, vermiciattolo. Altrimenti hai finito di
campare!»
Chi aveva parlato era un altro dei nuovi minatori, Kron di Tharna, il ro-
busto lottatore biondo da me affrontato nell'arena. L'uomo attorse la catena
al collo di Ost, facendolo gemere, poi lo schiacciò a terra.
«Non lo strangolare,» intervenni. «È soltanto un povero idiota.»
«Come vuoi tu, guerriero,» brontolò Kron. «Ma, se lo vuoi morto, basta
una tua parola.»
Andreas mi strizzò l'occhio. «Sembra che tu abbia un amico.»
Gli schiavi accanto a noi erano sfiniti e giacevano in pose scomposte.
Con un gran rumore di catene smosse, Kron si distese sul pavimento, al-
lontanando gli altri per avere più spazio e, dopo un poco, il suo sonoro
russare m'informò che si era tranquillamente addormentato.
«Cos'hanno fatto a Linna?», domandai al Cantastorie.
Ebbe un sospiro di sconforto. «È stata mandata in una delle Grandi Fat-
torie. Povera ragazza... per colpa mia l'aspetta una vita durissima. Io le ho
fatto molto male, Tarl.»
«Non direi. L'affetto per te, anzi, l'ha svegliata alla vita. Comunque, sta
molto meglio di noi: consolati.»
Nel cunicolo la conversazione era ridotta a grugniti e borbottii, e si udi-
vano le gocce d'acqua cadere sul pavimento e sui corpi. Eravamo tutti così
sporchi ed irriconoscibili che preferivamo fare a meno di guardarci l'un
l'altro, ed ognuno pensava solo a cercare una posizione non troppo scomo-
da per smaltire nel sonno la fatica. Le tenebre dell'incoscienza erano il solo
sollievo alla disperazione di quell'esistenza. Cercai d'addormentarmi, ma
non riuscivo a scacciare i pensieri.
Ero più lontano che mai dalle Montagne di Sardar, e se anche l'idea di
penetrare nella roccaforte dei Re Sacerdoti era folle, adesso non avevo
modo di metterla in pratica. Ero in catene, avevo perduto la donna che a-
mavo, mio padre, ed i miei amici. Di Ko-ro-ba non restava più neppure
una pietra. Il mistero che avvolgeva i dominatori del pianeta sarebbe rima-
sto tale, almeno per me, perché presto o tardi avrei trovato la morte in quei
budelli sotterranei e la mia avventura si sarebbe conclusa lì. Questo era
quanto mi andavo ripetendo, come in un incubo.
Mi era stato detto che Tharna aveva un centinaio di miniere simili alla
nostra, in ciascuna delle quali lavorava una Catena di schiavi. Ogni minie-
ra era formata da un breve insieme di cunicoli orizzontali, tortuosi, alcuni
dei quali s'intrecciavano nel sottosuolo della città stessa. Per la maggior
parte quei budelli non erano abbastanza alti da consentire ad un uomo di
restare in piedi, e non possedevano alcuna armatura di pali e travi per ga-
rantire la stabilità dei soffitti. Per lavorare nei tunnel che seguivano il gia-
cimento di minerale lungo i suoi filoni, si doveva procedere in ginocchio o
a quattro zampe, e ciò provocava lesioni facili ad infettarsi. Lo strumento
usato per attaccare la ganga era un corto piccone, che veniva distribuito
ogni mattina e ritirato la sera, mentre il sistema di trasporto consisteva nel
sacco che ciascuno si appendeva al collo. Quando i sessanta uomini ave-
vano il sacco pieno, il Capo Catena li faceva passare dal cunicolo per de-
positare il minerale presso il pozzo dell'elevatore, ed alla sera si mandava
su il carico in presenza di un guardiano che ne stabiliva ad occhio il peso.
Piccole lampade ad olio fornivano l'illuminazione alle gallerie.
L'orario di lavoro comprendeva i tre quarti del giorno, ovvero 15 ahn,
corrispondenti a circa 18 ore terrestri. Nessuno schiavo aveva il permesso
di salire con l'impianto di sollevamento del materiale cosicché, una volta
presi in forza alle miniere, non si vedeva mai più la luce del sole. L'unico
elemento che veniva ad interrompere la monotonia, una volta all'anno, era
la distribuzione di una minuscola torta di miele e farina fatta in occasione
del compleanno della Regina. In certi anni, mi fu detto, quando la Regina
era in vena di particolare generosità, a questo veniva aggiunto un boccale
di kalda. Uno degli schiavi della mia Catena, una specie di scheletro pieno
di cicatrici, disse che in dieci anni gli era accaduto di bere il kalda per ben
tre volte, e la sua maggiore speranza era che ciò avvenisse ancora. Quel-
l'individuo rappresentava però un caso raro, una curiosità statistica, perché
la resistenza media dei condannati non superava i sei mesi. Le malattie
erano in un certo senso sconosciute, dato che i guardiani ammazzavano
subito chiunque fosse incapace di reggersi in piedi.
Mi addormentai con gli occhi ancora fissi sul foro centrale del soffitto, e
quella notte sognai che stavo annegando.

Il mattino successivo venni svegliato dalle bestemmie del Capo Catena,


dai lamenti degli schiavi e da un clangore metallico e, sebbene in quel luo-
go regnasse un'eterna penombra, seppi che un nuovo giorno era iniziato. Ci
trascinammo in fila fuori dalla cella-dormitorio, ed emergendo nel locale
rettangolare, ciascuno ricevette dal Capo Catena il buondì, che consisteva
in una frustata ed una spinta.
Il truogolo addossato alla parete era già stato riempito, e gli schiavi s'av-
vicinarono ad esso, ma vennero ricacciati indietro con sonori colpi di fru-
sta e calci: ancora non era stato dato il permesso di toccare il cibo.
Il Capo Catena, uno schiavo dalla incolta barba nera, teneva moltissimo
al suo rango privilegiato. Il suo collo era libero, dormiva fuori dalla cella
comune, ed aveva in dotazione uno scudiscio. Fra i suoi diritti c'era quello
di scegliere per primo i bocconi migliori o meno avariati, e quello di dare
il via alla bolgia dopo essersi servito del cibo.
I miei compagni restarono immobili a guardarlo mangiare, finché si de-
cise ad alzare una mano, quella armata di frusta. Quando l'avrebbe abbas-
sata, sarebbe stato il segnale della colazione mattutina. Lessi un sadico
piacere nei suoi occhi, mentre si divertiva a prolungare la nostra attesa.
Dopo un paio di minuti buoni abbassò finalmente la frusta.
«Ingozzatevi, bestie!», esclamò. E gli schiavi si precipitarono avanti.
«No! Fermi!», gridai io.
Alcuni, sorpresi dal suono della mia voce, si arrestarono, col risultato
che quattro o cinque inciamparono nella catena e caddero goffamente. Gli
altri si voltarono a guardarmi con occhi privi d'espressione.
Il Capo Catena fece schioccare lo staffile. «Mangiate, ho detto!»
«Che nessuno si muova o gli torco il collo!», ordinai invece io.
Gli schiavi conoscevano la mia forza ed esitarono. Uno di essi, Ost, fece
per correre al truogolo, ma era incatenato a Kron e riuscì a fare solo un
paio di passi prima che il biondo lo tirasse indietro.
Il Capo Catena mi si avvicinò. «Cerchi rogna, tu?», sbottò, lasciandomi
andare una frustata.
«Non mi colpire una seconda volta!», dissi a bassa voce.
Il mio sguardo lo fece indietreggiare. Non era uno sciocco, e in esso a-
veva letto con assoluta certezza che, se ci avesse provato, gli avrei spezza-
to la schiena. Mi rivolsi agli altri.
«Non siamo animali. Siamo uomini. Se qualcuno preferisce compotarsi
da bestia, Kron di Tharna ed io gli insegneremo l'educazione. Attenderemo
con ordine e ciascuno riceverà la stessa razione di cibo. A distribuirlo sarà
Ost.»
Ost si mosse verso il truogolo con un sorrisetto, afferrò un pesce e fece
per cacciarselo in bocca. Ma uno strattone alla catena lo sbatté in ginoc-
chio a terra, ed allora guaì come un cane.
«Hai sentito cos'ha detto il guerriero, vermiciattolo?», lo redarguì Kron.
«O vuoi che te lo ripeta io?»
Andreas sorrise. «Abbiamo scelto te, Ost, perché conosciamo tutti la tua
cristallina onestà. Siine degno.»
Per la prima volta, dopo chissà quanto tempo, gli schiavi risero. Poi,
mentre il Capo Catena osservava brontolando e scuotendo la testa, l'ometto
provvide con più solerzia del previsto alla distribuzione del cibo mattutino.
Era scarso e probabilmente anche avariato, ma una volta tanto tutti man-
giarono con calma, e fu evidente che apprezzavano la novità.
Da ultimo rimase solo una pagnotta stantia per me e per Ost. La spezzai
in due e gliene porsi metà.
«Mangia, onest'uomo,» dissi.
Lui mi fissò con astio e prese ad ingozzarsi furiosamente. «La cella verrà
inondata per questo!», ringhiò, a bocca piena.
Andreas il Cantastorie disse allegramente: «In tal caso i Re Sacerdoti mi
hanno fatto una gran dono, concedendomi di morire al fianco di un prode
come te, Ost di Tharna. Dimmi, mi terrai la mano se dovessero inondare la
cella?»
Ancora una volta gli uomini risero. Poco dopo tutti sfilammo nel cunico-
lo che portava al giacimento di minerale. Il Capo Catena si limitò a borbot-
tare qualche ordine, distribuendo i sacchi ed i picconi, ma non usò più la
frusta. Quel giorno la quota obbligatoria di minerale venne raggiunta senza
difficoltà, e così anche l'indomani.

Capitolo 18
L'EVASIONE

Occasionalmente alcune notizie proveniente dal mondo esterno filtrava-


no nelle miniere, grazie agli schiavi addetti al trasporto del cibo. Questi
detenuti erano molto più liberi e fortunati degli altri, poiché avevano ac-
cesso al grande pozzo centrale e potevano salire e scendere con l'elevatore.
Le miniere formavano in realtà un corpo unico, e ciascuna aveva un cuni-
colo che si apriva su questo pozzo verticale, ad un livello o ad un altro, ma
le si considerava separate ed in effetti lo erano.
Il poderoso elevatore del pozzo era il solo mezzo di comunicazione fra i
cunicoli posti a diverse profondità, e l'unico sbocco alla superficie dell'in-
tero sistema. Da lì venivano fatti scendere i nuovi schiavi e tirati su i cada-
veri di quelli che avevano deciso di dare le dimissioni dal lavoro e dalla
vita, perché lasciarli marcire dabbasso sarebbe stato controproducente.
Alla manovra dell'argano c'erano altri schiavi, e costoro riuscivano a capta-
re le notizie di ciò che accadeva in città riferendole poi a quelli che tra-
sportavano il cibo, finché da ultimo anche i detenuti dei livelli inferiori
venivano a conoscerle. E quella che fece più rapidamente il giro della mi-
niera fu che a Tharna c'era una nuova Regina.
«Chi è?», domandai, allo schiavo che aveva portato il cesto con le ciba-
rie.
«Dorna,» rispose lui.
«E cos'è accaduto a Lara?»
L'individuo rise. «Sei proprio un ignorante, tu.»
«Le novità non circolano molto, qui,» gli ricordai.
«Lara è stata rapita. Lo sanno tutti, da Ar a Porto Kar.»
«Rapita come? Quand'è successo?»
«Catturata, prelevata in volo,» spiegò lui. «Da un grifoniere fuorilegge..
Il peggiore che vi sia.»
«E si sa il nome di costui?»
«Tarl.» La voce dello schiavo s'abbassò in un sussurro. «Tarl Cabot, di
Ko-ro-ba. Così si dice in giro.»
Rimasi zitto, cercando di assimilare quell'informazione, e l'altro aggiun-
se: «Si tratta del fuorilegge che è sopravvissuto ai Giochi. Questo l'avrai
sentito raccontare, no?»
«Sì, certo,» borbottai.
I miei compagni di Catena attendevano in silenzio la distribuzione del
misero cibo. Lo schiavo alzò la voce per loro: «Volevano farlo divorare da
un grifone, nell'arena, ma lui ha liberato l'uccello e gli è saltato in groppa,
fuggendo in volo. Subito dopo è tornato indietro ed ha fatto afferrare la
Regina Lara dal grifone, proprio come se la sgualdrina fosse un tabuk!»
L'uomo rise ed i miei compagni gli fecero eco. La dominatrice di Tharna
non era precisamente amata nelle miniere. Io solo restai serio.
«Ma cos'è accaduto alla Colonna degli Scambi?», domandai ancora.
«Voglio dire... la Regina non è forse stata condotta là, per essere liberata
dietro pagamento del riscatto?»
«Oh, tutti credevano che il grifoniere avrebbe fatto proprio questo, ma
lui non è tornato. Si vede che desiderava più lei del riscatto. Eppure avreb-
be potuto farsi pagare oro e gioielli in quantità.»
«Può darsi che Lara fosse molto bella, sotto la maschera,» disse qualcu-
no.
«O forse era così brutta che quanto lui gliel'ha tolta lo spavento lo ha uc-
ciso,» scherzò un altro.
Afferrai lo schiavo per un braccio. «Aspetta. Sei certo che Lara non sia
stata portata alla Colonna degli Scambi?» insistei.
«Ti ho detto di no. Altrimenti ora siederebbe sul trono, non ti pare? Alla
Colonna si erano recati Dorna e tre guerrieri, fra cui il capitano Thorn,
sperando che il rapitore venisse a contrattare il riscatto. Più tardi, visto che
l'uomo non arrivava, si è dato il via all'inseguimento nell'aria e al suolo, fin
oltre le colline, ma non è servito a niente. In un campo, il capitano Thorn
ha ritrovato il vestito di Lara e la maschera d'oro. «L'uomo fece una smor-
fia.» E adesso quella maschera la porta Dorna. La Regina è lei... bah!»
«Secondo te qual è stato il destino di Lara?»
Alcuni dei presenti ridacchiarono. Il tono dello schiavo si fece ironico.
«Tu cosa credi che le sia accaduto, dopo che il grifoniere le ha tolto i vesti-
ti?»
«E state sicuri che oggi Lara avrà indosso una veste di ben altro gene-
re!», esclamò qualcuno.
«Ve l'immaginate l'orgogliosa Lara vestita solo del camisk?», sghignaz-
zò un altro. «Col camisk e col collare da schiava!»
Di nuovo tutti risero fragorosamente. Ma Andreas di Tor delle Sabbie
m'indirizzò un'occhiata con la quale mi comunicava che si stava ponendo i
miei stessi interrogativi. Più tardi convenne che la sorte di Lara era facile
ad intuirsi, visto che la manovra con cui Dorna l'aveva tolta di mezzo era
stata d'una linearità esemplare.

Un po' alla volta i miei tentativi di restituire l'amor proprio agli uomini
della Catena 24 Ovest ottennero qualche risultato. Alle ore dei pasti regna-
vano l'ordine e la calma, e nella cella-dormitorio nessuno si picchiava per
avere più spazio. Li incoraggiavo a parlare del loro passato, a chiamarsi
per nome invece che con un grugnito, a discutere dei modi migliori per
lavorare in gruppo sul filone del minerale, ed a collaborare. Sebbene circa
metà provenissero da città diverse, presero a rispettarsi e ad accettarsi a
vicenda.
Quando uno di noi era malato, tutti facevamo del nostro meglio per na-
scondere il fatto al Capo Catena e lavoravamo anche per lui. Se qualcuno
si feriva o veniva frustato a sangue, lo curavamo e gli davamo il cibo e
l'acqua finché non si era ripreso. Si sviluppò così un senso di fratellanza da
cui ognuno traeva vantaggio, ed il solo Ost spregiava questo nuovo modo
di tirare avanti: l'ometto affermò più volte che la cosa non sarebbe piaciuta
ai guardiani, e che prima o poi la loro punizione sarebbe arrivata.
La nostra Catena imparò a lavorare meglio, e durante lo scavo potemmo
approfittare della maggiore efficienza produttiva per introdurre tre pause di
mezz'ora l'una durante il turno. Quando i guardiani s'accorsero che non
avevamo difficoltà a raggiungere la quota obbligatoria, si affrettarono ad
aumentarcela, ma questo non bastò a crearci problemi. Andreas canterella-
va ballate comiche anche mentre manovrava il piccone, tenendo alto il
morale del gruppo, e non di rado trascinava gli altri a cantare in coro. Ciò
meravigliava il Capo Catena, che non aveva mai sentito un minatore into-
nare canzoni prima d'allora, e l'uomo cominciò ad aver paura d'usare la
frusta.
Ma il tempo trascorreva lentissimo, le giornate erano interminabili pe-
riodi di fatica, e la vita in quei cunicoli umidi era insopportabile. Uno dei
miei compagni di Catena morì di polmonite e venne mandato in superficie
insieme al carico serale d'argentopirite. La notizia che nella miniera 24
Ovest era nata una sorta d'organizzazione e di mutua protezione fece il giro
delle altre, e venimmo a sapere che ciò destava perplessità e commenti
pessimistici.
Circa un mese dopo il mio arrivo, arrivò la notizia che in una decina di
miniere gli schiavi stavano cominciando a prendere esempio da noi, alme-
no durante la distribuzione dei pasti. Mi fece piacere saperlo. Ma, un bel
giorno, i portatori di cibo smisero di parlare con noi, senza darne spiega-
zione, e compresi che i guardiani avevano ordinato loro il silenzio. La cosa
era antipatica perché, come ho detto, dipendevamo esclusivamente da loro
per ogni novità di provenienza esterna. Eravamo però già al corrente che in
molte altre miniere si stava facendo come da noi. Secondo Andreas si trat-
tava di una reazione alla monotonia, di una novità accolta come un diver-
sivo; io ero invece del parere che vi fossero ragioni più profonde, e soprat-
tutto il desiderio disperato d'essere di nuovo umani e vivi. Ed ero preoccu-
pato, perché sentivo avvicinarsi il momento in cui i guardiani sarebbero
intervenuti.
Decisi che era il momento di agire.
Quella notte, quando tutti fummo rinchiusi nella lunga ed opprimente
cella, attesi che il Capo Catena avesse sbarrato la porta e poi parlai ai miei
compagni.
«Chi di voi ha ancora voglia di rivedere il sole, uomini?», domandai, in
tono provocante.
«C'è bisogno di chiederlo?», borbottò Andreas.
«Io voglio uscire da qui!», sbottò Kron.
«E anch'io?»
«Io pure?»
«Non morirò qui dentro!», risuonarono le voci degli altri.
Ost agitò un pugno. «Questo è incitamento alla rivolta,» protestò.
Lo ignorai. «Ascoltate: ho un piano. Per metterlo in pratica occorrerà
molto coraggio, e forse alcuni di noi ci lasceranno la pelle, ma dobbiamo
tentare.»
«Fuggire dalle miniere di Tharna è impossibile. Lo sanno tutti,» latrò
Ost. «Io non ci sto. Meglio prigioniero che morto.»
«Taci!», gli ordinò Andreas. Poi si rivolse a me. «Ti diamo ascolto,
guerriero. Parla.»
«Bene. Per ora non dirò altro che questo: è necessario che la nostra cella
venga inondata.»
Ci fu un attimo di silenzio, quindi risuonò uno strillo di Ost: «Tu sei un
pazzo, un criminale pericoloso! Io ti denuncerò e...» Ma la sua voce si
strozzò in un gemito, perché Kron l'aveva afferrato per il collo.
Gli feci segno di non infierire. La reazione dell'ometto era stata proprio
quella che speravo, e m'incoraggiava a credere attuabile il progetto. «La-
scia stare quel serpentello. Non mi preoccupa,» dissi. «Domani giochere-
mo la nostra carta.»
Il giorno dopo, proprio come mi ero aspettato, ad Ost accadde un piccolo
incidente: durante il lavoro l'ometto parve farsi male al piede col piccone,
e chiamò il Capo Catena supplicandolo di portarlo fuori dal cunicolo di
scavo. Quella procedura era talmente insolita da sfiorare l'impensabile,
dato che l'uomo avrebbe dovuto far aprire la serratura del suo collare da un
guardiano e quindi separarlo dal resto della Catena. Ma era così chiaro che
si trattava d'un espediente per fare una spiata, che il nostro aguzzino non
fece la minima obiezione: in breve, Ost venne sciolto e portato via. Anche
i miei compagni avevano capito che l'ometto intendeva parlare in via con-
fidenziale con un guardiano e, quando fummo rimasti soli nel cunicolo,
fioccarono le imprecazioni.
«Avremmo dovuto ammazzarlo,» sbottò Kron, riassumendo l'opinione
generale.
«E questo sarebbe stato il nostro più grave sbaglio, amici,» dissi io con
enfasi. Ciò che essi intuirono nel mio tono li zittì. «Tenetevi pronti, perché
questa notte dovremo agire come un solo uomo.»
Quella sera, al termine dell'orario di lavoro, lo schiavo che venne a por-
tare la cesta del cibo era accompagnato da una dozzina di guardiani armati.
La rustica cena si svolse però placidamente, perché avevo avvertito gli
uomini di mostrarsi miti ed inoffensivi. Notammo che Ost non c'era, e che
non veniva rimesso in Catena neppure quando fu il momento di andare
nella cella-dormitorio.
«Le guardie sono state pietose e lo hanno portato su, per farlo curare,»
spiegò il Capo Catena, senza esserne stato richiesto.
Dopo che la porta d'acciaio dell'opprimente locale fu sbarrata dietro di
noi, alcuni commentarono amareggiati e preoccupati che stava accadendo
qualcosa di strano. Tutti avevamo sentito il Capo Catena ridere forte, al di
là del battente chiuso.
Andreas il Cantastorie chiese il silenzio, poi m'interrogò: «Questa notte
allagheranno la cella. Ma tu contavi proprio su questo, vero?»
«Infatti è così,» affermai, secco. Alzai quindi le mani per placare i com-
menti spaventati. «Se agiremo con ordine, abbiamo una possibilità. Come
sapete, da qualche parte sopra di noi c'è una grande vasca colma d'acqua.
Uno dei portatori di cibo l'ha vista, e ha detto che sul fondo di essa c'è una
valvola a saracinesca larga tre piedi. Giocheremo tutte le nostre carte sulla
speranza di arrivare a questa valvola e di trovarla ancora aperta. Adesso
passatemi quella di lampada.»
Appena ebbi la lampada ad olio mi mossi verso il foro da cui il locale
avrebbe dovuto essere inondato, tirandomi dietro parte degli schiavi inca-
tenati a me. L'apertura, al centro del soffitto, era larga abbastanza perché
un corpo umano potesse introdurvisi e, più in alto, a circa un metro e mez-
zo di distanza, la conduttura era sbarrata da un'inferriata orizzontale. Giu-
sto allora un rumore metallico, forse quello della valvola che veniva aper-
ta, giunse dal fondo di quel cunicolo di pietra.
«Sollevatemi, presto!», ordinai.
Andreas e lo schiavo incatenato alla mia destra si affrettarono a fornirmi
l'appoggio e, pochi momenti dopo, ero in piedi sulle loro spalle, all'interno
del condotto. La parete era viscida, e le mie mani scivolavano come su uno
strato di morchia. Mormorai una bestemmia: bloccato dalla catena, non
riuscivo a raggiungere la grata.
D'un tratto però parve che Andreas e l'altro fossero cresciuti sotto di me,
e vidi che i nostri compagni stavano spingendo insieme a loro. Questo mi
permise di guadagnare i dieci centimetri che mancavano. Afferrai salda-
mente una sbarra dell'inferriata.
«L'ho presa,» dissi. «Ora tirate in basso con tutta la vostra forza.»
Venni agguantato per le gambe. Gli schiavi, per metà da una parte e per
metà dall'altra, cominciarono a tendere la catena. Erano collegati ad essa
per il collo, e si trattava inoltre di trasformare una trazione orizzontale in
una verticale, ma l'energia di sessanta uomini era tale che le articolazioni
del mio corpo si allungarono come su un letto di Procuste. La carne dei
polpastrelli mi si lacerò, il sangue prese a scendermi lungo le braccia ed i
tendini delle dita mi si tesero allo spasimo, però non lasciai la presa.
«Tirate più forte!», rantolai.
Un rivolo d'acqua venne giù per la conduttura, ed ancora udimmo un
rumore metallico: la valvola si stava aprendo.
«Ammazzatemi, ma tirate più forte!», gemetti.
Un istante dopo, la pietra della parete cedette di schianto, e la grata uscì
dai fori in cui era stata cementata. Piombai a terra nel mezzo della cella
con un clangore infernale, fra membra umane che si agitavano ed intrecci
di catene bagnate. Insieme a me venne giù un fiotto d'acqua. Mi alzai in
ginocchio, essendo impossibile stare in piedi.
«Con ordine!», ringhiai. «Avanti il primo della Catena. Il primo, ho det-
to!»
Ci furono ansiti e imprecazioni mentre lo schiavo dislocato all'estremità
più interna della cella avanzava carponi verso il centro, seguito da quelli
aggiogati a lui. Lo misi in piedi, con la testa e le spalle dentro il foro.
«Avanti, amico. Aiutati con le mani e coi piedi. Il condotto sale per qua-
si venti braccia... Muoviti, maledizione!»
«Ma non posso arrampicarmi. È liscio, e viene giù troppa acqua,» prote-
stò lui.
«Devi farlo, o morirai!»
In due lo afferrammo per le gambe e lo issammo a viva forza. Il secondo
della Catena lo sostenne sulle proprie spalle.
«Scivolo!», gemette il primo. «È buio... Non ce la faccio!»
«Prova, che tu sia dannato!», gridai.
«Non posso. Non si può salire,» si lamentò ancora.
«Avanti il terzo,» ordinai. «Lo spingerete su a viva forza. Dobbiamo sa-
lire, o fra poco affogheremo tutti!»
Era più facile a dirsi che a farsi, perché il flusso dell'acqua aumentava
ancora e nella cella l'avevamo alle caviglie. Ben presto ci giunse ai polpac-
ci. Più che arrampicarsi, gli schiavi stavano formando entro il condotto una
vera e propria piramide umana, nella quale il peso di quelli entrati per pri-
mi gravava sugli altri. Quando vidi entrare il decimo, mi aspettavo che
crollasse all'istante, ma evidentemente quelli sopra riuscivano a trovare
qualche presa nelle fessure delle pietre perché anche lui riuscì ad essere
spinto su. Il livello dell'acqua era arrivato a metà fra il pavimento ed il
soffitto allorché, dopo trenta schiavi, toccò a me e ad Andreas. Ignoravo
dove fossero sbucati gli uomini di testa della Catena, e mi chiedevo cosa
ne sarebbe stato di quelli in coda.
«Più svelti! Bisogna arrivare alla valvola!», gridai. «Alla valvola, prima
che la chiudano!»
Avevo Andreas sopra le spalle ed altri sotto di me, fra cui Kron che
spingeva con energia furibonda. L'acqua precipitava dall'alto così violenta
e copiosa che sembrava d'essere sotto una cascata, e respirare era difficol-
toso. Mi è quasi impossibile descrivere la sensazione d'orrore e di fatalisti-
ca disperazione con cui ciascuno s'arrampicava. Sopra di noi c'era il buio, e
questo rendeva ancor più angoscioso il nostro procedere. Come animali in
trappola, ciechi e folli, ce la mettevamo tutta per guadagnare un palmo
dopo l'altro, ringhiando bestemmie e preghiere in un osceno miscuglio.
Una sola era la cosa che ci consentiva d'andare avanti: l'abitudine a lavora-
re insieme, o meglio la consapevolezza che le nostre vite erano letteral-
mente incatenate alle vite dei compagni che ci precedevano e seguivano.
Sebbene terrorizzati, continuavamo ad essere un gruppo, una squadra. In
caso contrario ci saremmo soltanto uccisi a vicenda, cedendo all'orrore
della claustrofobia.
Quindici metri sopra la cella il condotto faceva una brusca deviazione a
novanta gradi, ed i primi uomini della Catena s'erano introdotti in una con-
duttura orizzontale altrettanto stretta, strisciando avanti. Fu solo la forza
con cui tiravano che permise a quelli dietro d'arrampicarsi. Ma, a metà del
condotto verticale, avevo cinque schiavi sopra di me ed altri cinque sotto, e
non ce la facevamo più.
«Aiuto! ...Aiuto!», sentii urlare dabbasso, e compresi che quelli rimasti
in cella erano pressoché sul punto d'affogare.
A peggiorare le cose il flusso d'acqua aumentava ancora, certo perché la
valvola era adesso completamente spalancata. Un momento più tardi la
violenza dell'acqua si fece insostenibile.
«Tirate, voi lassù! Tirate!», gridai.
Non feci in tempo a dir altro, perché il liquido mi riempì la bocca. Gli
uomini sopra di me persero la presa, ed il loro peso mi schiacciò. Precipitai
per qualche metro addosso agli altri, finché i nostri corpi furono compressi
nel cunicolo verticale colmo d'acqua, nel buio. Trattenni il respiro e spinsi
in alto quello che mi gravava sulla testa, con tutta la mia forza, conscio che
da lì a pochi secondi sarei morto.
Ma, ad un tratto, la cateratta s'interruppe, e l'acqua defluì verso il basso.
Tesi le orecchie e, dagli ansiti che captai, compresi che nella cella-
dormitorio doveva esser rimasto ancora un po' di spazio per respirare,
presso il soffitto. Fui certo che la vasca collegata alla cella 24 Ovest si do-
veva essere vuotata del tutto, e questo mi diede coraggio, tuttavia ciò signi-
ficava che i guardiani avrebbero presto richiuso la valvola.
«Andate avanti. Salite, per il demonio!», ringhiai, riprendendo ad issare
chi mi stava sopra.
Cinque minuti più tardi potei seguire Andreas nella condotta orizzontale:
lasciai il tratto di catena anteriore al mio collare, ed afferrai quello poste-
riore, prendendo a tirare. Andammo avanti nelle tenebre, carponi, ciascuno
deciso a mettercela tutta o a crepare nel tentativo. Gli ultimi dieci schiavi
della Catena vennero tirati su di peso, semiaffogati e privi di forze.
Poi, d'un tratto, scorsi una luce quindici metri più avanti, e mi resi conto
che i primi dovevano essere sbucati nella grande vasca attraverso la valvo-
la aperta. Gli uomini spasimavano dalla voglia d'uscire, ansando come
bestie feroci.

Capitolo 19
RIVOLTA NELLA MINIERA

«No... Abbiate pietà!», stava uggiolando Ost, quando emersi dal cunico-
lo.
L'individuo era stato sorpreso alla manovra della valvola che svuotava
dall'acqua la grande vasca. Indossava una tunica pulita da schiavo ed aveva
lo staffile, cose queste che indicavano oltre ogni dubbio come il suo tradi-
mento gli avesse subito fruttato un rango più elevato. Ora indietreggiava
brandendo lo staffile per tener lontani gli uomini della Catena, che gli si
chiudevano intorno. Uno spintone lo mandò a ruzzolare contro la parete
scura e fangosa del locale, e gemette. Sulle facce degli schiavi che gli si
fecero sopra lessi che da lì a dieci secondi lo avrebbero sbranato a morsi
come un branco di lupi.
«Fermi!», ordinai. «Non potete ammazzarlo così.»
Kron di Tharna afferrò Ost per la pelle del collo e lo tirò in piedi, sco-
prendo i denti in un ghigno terribile. Mi lanciò un'occhiata chiara quanto
una bolletta del telefono. «Possiamo, invece. E poi questa è una faccenda
che non riguarda più te, amico.»
Il biondo interrogò con lo sguardo gli schiavi più vicini, le cui espres-
sioni erano già una risposta ed una condanna.
«Questo verme fa forse parte della nostra Catena? È uno di noi?», volle
sapere.
«È un traditore! Un assassino!», ringhiarono in molti.
«No!» gridò Ost. «Io sono un uomo della Catena 24 Ovest. Prendetemi
con voi... Fuggiamo insieme, amici!»
«Fuggire?», lo derise uno. «Questo è incitamento alla rivolta. È linguag-
gio sedizioso.»
«Leghiamolo e lasciamolo qui,» proposi.
Ost s'aggrappò freneticamente alle braccia di Kron. «Fai come dice il
guerriero. Legami, imbavagliami. Ti scongiuro!», urlò.
«Non sporchiamoci le mani col sangue di questo miserabile,» intervenne
anche Andreas.
«E va bene.» La voce del biondo era pericolosamente calma. «Non piace
neanche a me spiaccicare un ragno: Niente sangue, allora.»
Ost divenne spaventosamente pallido sotto il suo sguardo, mentre Kron
stabiliva: «Per rispetto al guerriero, che io riconosco come il nostro capo,
useremo giustizia. Ti daremo ciò che volevi dare a noi.»
Cercai di farmi avanti ma gli altri mi bloccarono il passo con decisione,
poi venni spinto da parte e non potei far altro che assistere. Mezzo stordito
dal terrore, Ost fu passato di mano in mano fino all'ultimo schiavo della
Catena e spinto a viva forza nell'apertura in fondo alla vasca. Gli uomini
tornarono nella condotta d'acqua uno dopo l'altro, spingendolo avanti. D'un
tratto le sue grida cessarono, e sentimmo il tonfo che il suo corpo fece in
fondo al cunicolo verticale, nella cella inondata.

La notte che ora si preparava nelle miniere di Tharna sarebbe stata molto
diversa da ogni altra. Procedendo in silenzio ci addentrammo in un lungo
cunicolo poco illuminato, dove trovammo dei picconi che distribuii agli
uomini più robusti. Gli altri raccolsero frammenti di minerale, pezzi di
legno e spezzoni di catene e, armati a quel modo, giungemmo in una galle-
ria più vasta attrezzata a dormitorio per i Capi Catena e i guardiani. Nelle
cuccette c'erano ventidue uomini, alcuni dei quali ancora svegli, e nessuno
riuscì a fare un sol passo quando piombammo loro addosso come un'orda
inferocita. Ci furono tonfi, urla, sangue che schizzava, e dei nostri aguzzini
rimasero solo ventidue corpi straziati e senza vita.
In quel locale trovammo un grosso martello, col quale Kron, che appar-
teneva alla Casta dei Fabbri Ferrai, spaccò l'anello saldato al collare di
ciascuno di noi. Nel giro di venti minuti fummo liberi dalla catena che ci
aveva costretti a vivere, lavorare e soffrire uniti come tanti gemelli siame-
si. Furono distribuite le armi, e per me presi una solida spada. Appena
l'ebbi in mano, seppi che nessuno mi avrebbe più fermato.
«Al pozzo centrale!», ordinai.
Nel corridoio incontrammo uno degli schiavi addetti al trasporto del cibo
e lo inducemmo a farci da guida, perché quella sezione della miniera era
un labirinto. Raggiunto il pozzo, afferrai una torcia e mi sporsi a guardare.
Come già sapevo ci trovavamo ad oltre quattrocento metri di profondità e,
sia in alto che in basso, scorsi solo il fioco lucore proveniente da altri tun-
nel che si aprivano a diversi livelli. La piattaforma dell'elevatore era in
superficie, ma la robustissima catena che fungeva da contrappeso pendeva
presso la parete del pozzo fino a sfiorare il fondo con l'estremità libera. Era
facilmente raggiungibile, e le sue maghe avrebbero potuto diventare una
scala per chi fosse stato disposto ad arrampicarsi. Io lo ero.
«È un problema,» ansimò rabbiosamente Kron. «Lo sbocco è troppo in
alto. Sarà una fatica massacrante.»
«Però intanto possiamo salire al livello superiore,» dissi. «Lì ci sono al-
tri guardiani da eliminare, ed altri schiavi chiusi in cella. Abbiamo bisogno
di loro e li libereremo. Muoviamoci.»
In breve tempo ci inerpicammo tutti fino alla miniera 23 Ovest e, dopo
aver ripreso fiato, facemmo irruzione di sorpresa nel dormitorio delle
guardie. Posso solo immaginare quale dovette essere lo spavento di quegli
uomini nel vedersi assalire in piena notte da sessanta schiavi armati ed
avidi di vendicarsi. Per loro fu una condanna a morte: le nostre spade li
colsero sulle brande, e si abbatterono tranciando ossa e carni senza pietà.
Dopo averli sterminati, corremmo ad aprire la cella dormitorio, e togliem-
mo i ceppi agli uomini della Catena 23 Ovest.
Da quel momento in poi gli eventi presero a susseguirsi in modo freneti-
co, inarrestabili come il precipitare d'una valanga le cui dimensioni aumen-
tavano sempre più, e dovetti faticare per tenere in pugno i rivoltosi e co-
stringerli ad un'azione ordinata. Miniera dopo miniera sorprendemmo i
guardiani ed i Capi Catena, mentre il nostro esercito aumentava continua-
mente la sua consistenza. Dopo il massacro della 23 Ovest diedi però ordi-
ne di non uccidere nessun altro, se fosse stato possibile, e mandai su e giù
lungo la catena del pozzo centrale delle squadre al comando dei più decisi.
A metà della notte, l'intero complesso delle miniere era in mano nostra, ed
un centinaio di uomini avevano raggiunto la superficie impadronendosi
degli edifici circostanti il grande pozzo. L'elevatore venne messo in fun-
zione e, un po' per volta, tutti ci trasferimmo all'aria aperta.
Furono momenti di terribile emozione. La nostra rivolta era stata rapida
ma cruenta, era costata del sangue e, quando vedemmo sopra di noi il cielo
aperto con le tre lune di Gor, dimenticammo l'orrore e la sofferenza e
piangemmo di gioia. Io avevo voluto salire su con l'ultimo gruppo, e ricor-
do che, lasciandomi alle spalle l'intreccio dei cunicoli rocciosi avvolti nel
silenzio, tenevo gli occhi fissi all'insù, quasi incredulo di vedere quel disco
di firmamento stellato farsi sempre più vicino. Allorché la piattaforma si
fermò con un sobbalzo nella recinzione dell'imboccatura, mi trovai circon-
dato da torce crepitanti e da facce barbute come la mia, da sorrisi e lacri-
me. Poi, d'un tratto, si levò un unico grido:
«Tarl di Ko-ro-ba! ...Tarl di Ko-ro-ba! ...Tarl di Ko-ro-ba!»
Erano il mio nome e quello della mia città, due nomi maledetti perché
così avevano voluto i Re Sacerdoti, ma che nella bocca di quegli uomini
suonavano come un coro di trionfo e di ribellione. Fra mani che mi batte-
vano sulle spalle e braccia che volevano stringermi, aspirai a pieni polmoni
il vento della notte e mi feci largo. Sorrisi, felice d'essere lì con quella gen-
te. Ero libero! Eravamo liberi!
A non molta distanza dall'imbocco del pozzo c'era un bacino idrico col-
legato ad un vicino torrente, e compresi che si trattava dell'impianto per
l'allagamento dell'intera miniera. Intorno alle valvole d'apertura giacevano
una ventina di guerrieri di Tharna ed altrettanti schiavi morti. Solo allora
mi resi conto che nell'ultima fase della rivolta avevamo rischiato di rima-
nere affogati, e che le prime squadre faticosamente arrampicatesi in super-
ficie si erano battute contro esperti uomini d'arme per salvarci la vita. Fui
fiero dei miei compagni, ed ancor di più lo fui quando vidi che nessuno di
loro chiedeva d'aprire quel bacino, per allargare i cunicoli dove oltre due-
cento guardiani erano stati chiusi in cella. Immaginavo il terrore di quegli
aguzzini, e sorridevo al pensiero della trepidazione con cui ora attendevano
di sentire l'acqua scrosciare nel pozzo. Ma quel rumore non l'avrebbero
sentito.
Mi chiesi se avrebbero capito che a risparmiarli erano uomini il cui ani-
mo era assetato di libertà e di giustizia, per sé e per gli altri: uomini che
avevano combattuto per uscire dall'incubo dei tunnel, che avevano dispera-
tamente voluto rivedere le campagne ed il cielo, che avevano saputo lottare
per i loro compagni. Tornando esseri umani, ad onta degli sforzi con cui
gli aguzzini avevano cercato di tramutarli in bestie, ora essi non chiedeva-
no la vendetta. Mi avevano salutato con un'ovazione gioiosa, priva di sen-
timenti acrimoniosi e funesti, e ne fui lieto più per loro che per i guardiani.
Saltai in piedi su un muretto ed alzai le braccia nella luce delle torce
chiedendo il silenzio. La folla mi si fece attorno.
«Uomini di Tharna!», li arringai. «Uomini delle altre città delle grandi
pianure... le vostre catene sono state spezzate!»
Ci fu un'ondata di mormorii e molte voci allegre mi risposero. Richiamai
la loro attenzione. «Ascoltatemi, voi tutti: in questo momento i superstiti
del corpo di guardia stanno portando la notizia della rivolta al Palazzo del-
la Regina.»
«Lasciammo che quella sgualdrina tremi!», gridò Kron.
«Se vuole l'argento dovrà venire a scavarselo lei, insieme a tutte quelle
serpentesse mascherate!», rise un altro.
«Potete scommettere che tremerà, certo,» dissi. «Siamo più di tremila
uomini decisi a tutto, e pericolosi. Ma altrettanto sicuro è che, non appena
si leverà il sole, tutti i grifonieri della città verranno mandati contro di noi,
ed anche le truppe appiedate. Capite cosa sto dicendo? E non chiederanno
di parlamentare, quelli!»
Commenti preoccupati si levarono dalla massa di schiavi, ed i sorrisi si
spensero.
«Dicci quel che dobbiamo fare, Tarl di Ko-ro-ba!», gridò Kron, pronun-
ciando il mio nome con la massima tranquillità.
«Noi non abbiamo armi a sufficienza,» affermai. «Né siamo una truppa
di guerrieri addestrati, e non disponiamo di grifoni o di tharlarion da sella.
Se affrontassimo in campo aperto i militi di Tharna, verremmo falcidiati e
sconfitti in mezza giornata.» Feci una pausa. «Per questa ragione è neces-
sario dividerci in piccoli gruppi che raggiungeranno le foreste e le monta-
gne, evitando di farci sorprendere nella pianura. Dobbiamo evitare d'essere
raggiunti dai lancieri montati sui tharlarion e dai grifonieri, che senza
dubbio saranno mandati ad inseguirci.»
«Ma almeno moriremo liberi!», gridò Andreas il Cantastorie, ed altri gli
diedero ragione a gran voce.
«Sono d'accordo con te, Andreas. Anch'io voglio morire da uomo libe-
ro... Però non siamo soltanto noi ad avere questo diritto. Pensate agli altri
schiavi di Tharna: a cosa ci servirà la libertà se non potremo farne partecipi
anche loro? Dunque dovremo nasconderci di giorno e muoverci alla spic-
ciolata di notte, formare piccoli gruppi separati e bande, e quanto prima
tornare a compiere incursioni alle Grandi Fattorie. Ma ciascuno farà ciò
che gli parrà più giusto.»
«Stai dicendo che dovremo diventare tutti guerrieri?», domandò una vo-
ce fra la folla.
«Già lo siete, qui e stanotte!», gridai quasi con ferocia. «Non avete forse
combattuto per conquistare l'aria che state respirando? E che voi siate nati
nella Casta dei Contadini, o dei Cantastorie, o dei Fabbri, o dei Sellai, con
un'arma in mano potrete essere Guerrieri. Battersi contro l'ingiustizia è il
dovere di ogni uomo!»
«Questo è vero,» disse Kron, sollevando il suo grosso martello nel silen-
zio generale.
«Ma come possiamo esser sicuri che sia questa la volontà dei Re Sacer-
doti?», chiese uno degli ex minatori, preoccupato.
«Non è da semplici uomini il saperlo. Se combattere da fuorilegge è la
loro volontà, noi lo faremo.» Sollevai la spada, puntandola al cielo. «E se
invece non lo è, amici, io vi dico una cosa: lo faremo lo stesso!»
Per un lunghissimo minuto la mia frase echeggiò nelle loro orecchie stu-
pefatte e timorose. Poi Kron esclamò:
«Sia come tu hai detto!»
«Sia come tu hai detto!» gridò qualcuno, e quindi altri ancora, finché
quelle parole eretiche divennero un coro non certo entusiasta ma deciso.
Il loro tono mi fece riflettere che mai prima d'allora degli uomini aveva-
no espresso in pubblico la loro volontà di perseguire i propri diritti, indi-
pendentemente da quello che avrebbe potuto essere il volere dei Re Sacer-
doti. E mi sembrò strano che a ribellarsi non fossero gli orgogliosi Guer-
rieri, né gli smaliziati Scrivani, i Dottori o gli Ingegneri, bensì elementi
delle Caste più infime e superstiziose, dei miseri schiavi sciamati fuori da
una miniera.
Rimasi dov'ero e guardai quella massa d'uomini dividersi in gruppetti,
avviarsi nella notte in direzione delle montagne e delle foreste, ciascuno
portandosi via le armi, e il cibo e gli oggetti dei più diversi generi apparte-
nuti ai guardiani. Il loro destino era di trasformarsi in fuorilegge, di scorda-
re le tradizioni della città e della Casta in cui erano nati, e non si trattava di
un destino a cui potessi associarmi.
Kron era andato a fermarsi accanto all'imboccatura del pozzo, e lo rag-
giunsi. Il grosso fabbroferraio era cambiato molto dal giorno in cui ci era-
vamo affrontati nell'arena; le sofferenze sembravano averlo maturato, con-
ferendo ai suoi occhi una luce triste e pensierosa. Reggeva il suo martello
come un'arma, la sola che conoscesse bene, ma qualcosa mi diceva che
presto l'avrebbe sostituito con una spada.
«Che tu possa non soffrire mai, Tarl di Ko-ro-ba!», disse, nella formula
di saluto che in Goreano era un addio.
«Che tu possa non soffrire mai, Kron di Tharna!», risposi.
«Non dimenticare la Catena 24 Ovest. Noi siamo stati compagni, lag-
giù,» aggiunse, prima d'allontanarsi.
«Compagni una volta, compagni per sempre!», dissi, annuendo.
L'uomo si volse bruscamente e scomparve nel buio, incamminandosi in
direzione opposta a quella della città. Soltanto Andreas di Tor delle Sabbie
era rimasto presso di me, con una torcia in mano. La conficcò in una fessu-
ra sulla staccionata che circondava il pozzo, e togliendosi dalla fronte l'e-
terna ciocca di capelli, mi rivolse un sogghigno.
«Bene!», disse. «Ho visitato le famigerate miniere di Tharna. Credo che
adesso andrò a dare un'occhiata alle Grandi Fattorie.»
«Buona fortuna. Spero che tu riesca a liberare la tua Linna,» gli augurai.
«Tu che intenzioni hai, Tarl? Dove vuoi andare?»
«Ho una faccenda personale in sospeso coi Re Sacerdoti. Te ne ho parla-
to, ricordi?»
«Ah!» Il giovanotto inarcò un sopracciglio, ma non per mostrare ironia.
Era preoccupato.
Per un poco ci guardammo senza parlare, mentre la torcia si spegneva
pian piano e nel cielo scuro la luce delle lune sembrava farsi più intensa.
Era una delle pochissime volte in cui si lasciava vedere triste e malinconi-
co.
«Sai una cosa, amico? Quasi, quasi vengo con te,» disse sottovoce.
Sorrisi. Andreas sapeva benissimo che nessuno era mai tornato vivo dal-
la cupe vette fra cui si nascondevano i Re Sacerdoti. «Meglio di no. Non
troveresti molti spunti per le tue canzoni, sulle Montagne di Sardar.»
«Sciocchezze, Un Cantastorie può mettere in musica tutto, anche la sua
stessa morte.»
Scossi la testa. «Mi spiace, Andreas. Non posso permettere che tu getti
via la vita seguendomi laggiù.»
Il giovanotto mi afferrò rudemente per una spalle. «Apri bene le orec-
chie, tu, prode rampollo di una prode schiatta: per me un amico conta più
di tutte le canzoni di questo mondo.»
«Quelli della tua Casta ti rinnegherebbero, sentendoti parlare così.»
«Tu credi? Forse che le mie ballate dovrebbero essere più importanti
delle imprese che esse celebrano?»
La sua risposta mi sorprese, perché sapevo che Andreas di Tor delle
Sabbie avrebbe dato un braccio o dieci anni della sua vita pur di continuare
a girare di città in città con la sua cetra in mano. Ciò che stava dicendo era
filosofia terrestre, più che goreana: talvolta il miglior poeta è colui che
agisce, e il miglior intellettuale colui che depone la penna per difendere i
suoi ideali con la spada.
«Andreas, non divagare sulle tue ambizioni. C'è una donna che ti ama e
che sta piangendo. Tu devi spezzare il suo collare da schiava. Tutto il resto
è solo illusione e polvere nel vento.»
Negli occhi del giovanotto vi fu una luce come d'agonia, ed infine annuì
più volte. «È vero. Linna può sperare aiuto solo da me, e tu non saresti
stato un vero amico se non mi avessi messo di fronte al mio primo dove-
re.»
«Componi una canzone sulla Catena 24 Ovest, Cantastorie. Ti auguro di
non soffrire mai.»
«Che tu possa vincere la tua battaglia, Guerriero!», mormorò.
Qualche volta ci eravamo stupiti d'essere amici, noi che appartenevamo
a Caste così diverse, ma forse entrambi intuivamo che fra il canto della
spada e quello della cetra non c'era quella gran differenza. La guerra, l'a-
more, la musica e il dolore, sono sempre stati legati strettamente, in ogni
terra ed in ogni epoca.
Andreas si volse per andare, un'ultima volta: «Tarl, i Re Sacerdoti ti
stanno aspettando laggiù. Lo sai, vero?»
«Come so d'essere vivo,» confermai.
Sollevò una mano, tristemente. «Tal, amico!»
Era il contrario di un addio, e mi chiesi perché avesse voluto salutarmi a
quel modo. «Tal!», risposi tuttavia.
Potevo solo credere che intendesse rivedermi ancora, finché entrambi re-
stavamo in quella zona. Ma difficilmente ne avrebbe avuto l'opportunità,
perché il mio più vivo desiderio era di cambiar aria senza por tempo in
mezzo. Ne avevo abbastanza di Tharna. Andreas s'incamminò lungo un
sentiero sterrato e disparve fra le ombre.
La prudenza voleva che neppure io indugiassi lì. Più che mai mi sentivo
rodere dalla voglia di raggiungere le Montagne di Sardar, anche se, proba-
bilmente, come aveva affermato il Cantastorie, non sarei giunto inaspetta-
to. Poche erano le cose che restavano ignote ai Re Sacerdoti, fra quante ne
accadevano sulla superficie di Gor, e gli esseri umani non potevano che
contemplare quella verità rinunciando a capire di quali mezzi essi si servis-
sero.
Perfino io, un terrestre smaliziato ed assuefatto ai misteri dell'elettronica,
mi sentivo al loro confronto un selvaggio cieco e stolto, ignorante dei pote-
ri e delle forze che essi usavano a loro piacimento. Talora mi chiedevo se
la scienza dei dominatori di Gor non fosse qualcosa di simile alla Magia, o
all'intervento soprannaturale e divino.
Avevo visto coi miei occhi lo sprigionarsi di energie sconosciute, senza
capire né come né da quale distanza esse venissero governate. Ero stato
presente alla folgorazione del più illustre fra gli Adepti di Gor avvenuta
sulla Torre della Giustizia di Ar, sette anni addietro, e già in precedenza
avevo visto la Morte di Fuoco colpire una lastra di metallo sulle montagne
del New Hampshire, sbucando dal nulla. Ai limiti della valle di Ko-ro-ba
avevo posato lo sguardo su un terreno dal quale milioni di tonnellate di
pietre erano state spazzate via senza lasciare una traccia. Sapevo che lo
stesso pianeta Gor veniva tenuto nascosto agli astronomi terrestri con l'uso
di energie cosmiche, grazie alle quali non era possibile dedurre la sua pre-
senza dagli influssi gravitazionali sulle orbite degli altri corpi celesti.
A pensarci bene, c'era da stupirsi se i Goreani non temevano assai di più
la potenza degli esseri che incombevano su di loro. Ciò che continuava a
darmi fastidio era però l'ignoranza del motivo per cui costoro mi avevano
riportato sul pianeta, né potevo dimenticare l'Adepto loro messaggero, che
mi aveva suggerito di gettarmi sulla punta della spada.
Certo non potevano desiderare che mi ficcassi in testa l'idea di raggiun-
gere l'Inviolabile, e dunque, se i loro progetti erano altri, avrebbero fatto di
tutto per spingermi su una strada diversa. Ma questo non m'interessava: io
dovevo conoscerli, scoprirli, affrontarli.
Mi guardai intorno: dappertutto buio, silenzio, edifici vuoti ed in parte
devastati. Stringendo in pugno la spada, mi avviai alla porta di quello più
vicino.

Capitolo 20
LA BARRIERA INVISIBILE

Il mio vestiario ed equipaggiamento consisteva in un perizoma grondan-


te fango e stretto in vita con una corda. Oltre a ciò possedevo la spada ed
un collare di metallo che mi avrebbe subito fatto identificare come uno
schiavo fuggitivo. A quest'ultimo inconveniente trovai subito rimedio per-
ché, non appena riuscii ad accendere una lampada, vidi una rastrelliera con
appese molte chiavi da collare. Le provai nella serratura finché una di esse
l'aprì. Ma in quelle stanze non c'era altro di utile, perché gli ex minatori
avevano spogliato i cadaveri perfino dei denti d'oro.
Un rapido giro di perlustrazione negli edifici circostanti mi portò alla
scoperta di una quantità di porte sfondate, armadietti e bauli svuotati del
loro contenuto, e cucine ripulite fin dell'ultima briciola di pane. Diverse
migliaia di uomini nudi e affamati erano passati da lì prima di me, portan-
dosi via anche gli oggetti inutili e parte della mobilia più leggera. Fu un
miracolo se trovai una vecchia tunichetta da schiavo, piuttosto lurida.
Nel caseggiato di legno che aveva ospitato l'amministrazione, ebbi la
poco allegra sorpresa di scoprire il corpo senza vita e senza vestiti di un
uomo grasso che avevo già visto un mese addietro. Era il Comandante del-
la miniera, al quale uno dei rivoltosi aveva pensato bene di conficcare nel
cranio uno spunzone metallico. Il suo corpo recava gli squarci di moltissi-
me sciabolate, e le budella gli erano fuoruscite sul pavimento. Essendo
stato il responsabile dell'allagamento della miniera avvenuto qualche anno
prima, questo era il minimo che gli potesse capitare. Stavo perdendo trop-
po tempo, e da una finestra vidi che si avvicinava l'alba.
Sotto il tavolo, presso il cadavere, c'era il fodero vuoto della spada con
cui forse aveva cercato di difendersi. Lo raccolsi e, nell'infilarvi la mia,
notai che si trattava di un oggetto di un certo valore, perché sul cinturone
erano applicati sei piccoli smeraldi. Finalmente qualcosa che avrei potuto
trasformare in denaro sonante, pensai con sollievo. Misi il fodero a tracolla
e tornai all'aperto. A oriente il cielo si stava velando di verde e di rosa, in
un'alba che i miei occhi erano ansiosi di bere attimo per attimo.
Scrutai il cielo e non vidi grifoni in volo dalla parte della città: allora
m'incamminai fra le baracche su un sentiero pieno d'erbacce. Sull'orizzonte
occidentale le tre lune si erano fatte piccole e pallide, e non avrebbero fatto
in tempo a tramontare del tutto prima del sorgere del sole. Mi fermai a
guardare Venere, la Stella del Mattino, l'astro che talvolta era visibile sia
dalla Terra che da Gor. Stranamente, soltanto allora cominciai a sentirmi
libero e voglioso di muovermi.
Per evitare gli alti cumuli del minerale di scarto, fui costretto a ripassare
presso l'imboccatura del pozzo centrale, dove una luce grigia spandeva
squallore e tinte da tragedia. Ovunque oggetti fracassati, carretti rovesciati,
sangue e corpi stesi a terra, in uno scenario che nel silenzio parlava il lin-
guaggio senza suoni della morte. Si stava alzando il vento, e mulinelli di
polvere roteavano presso i cadaveri come mangiatori di carogne venuti ad
annusarli. Una porta mezzo scardinata cigolava, sbattendo ritmicamente.
Aggirandomi qua e là trovai qualcosa che il buio aveva nascosto ai miei
compagni di rivolta: un elmetto blu ed un paio di sandali, che tolsi ad un
guerriero caduto fra i cespugli. Mi avrebbe fatto comodo anche la sua tuni-
ca, ma era zuppa di sangue, e preferii lasciarla al defunto. Equipaggiato
alla meglio, mi allontanai in fretta per i terreni incolti, un po' camminando
ed un po' correndo. Senza stancarmi troppo, percorsi in mezz'ora otto chi-
lometri, fino alla zona dove iniziavano le colture di alberi da frutta. Ero
appena giunto al riparo d'un filare di piante quando, volgendomi, vidi un
folto stormo di grifonieri planare sugli edifici della miniera.
Fu qualche ora dopo, nel passare a quattrocento metri di distanza dalla
Colonna degli Scambi, che scorsi la forma nera d'un grifone appollaiato
proprio sulla sua sommità, ed il cuore mi diede un tuffo: era Horus! Colpi-
to dalla sorpresa mi avviai da quella parte, e quasi subito il rapace s'alzò in
volo per venire a compiere dei giri esplorativi sopra la mia testa. Atterrò
quindi con un energico sbatter d'ali, e mi toccò lievemente col becco come
soleva fare, mentre io stentavo a convincermi di quel fatto insolito: deci-
samente Horus stava rivoluzionando le più comuni credenze sulla psiche
dei grifoni. Non solo mi aveva atteso nella zona per oltre un mese, ma mi
aveva riconosciuto pur conciato com'ero e non aveva esitato a venire da
me. Gli abbracciai il collo, più commosso di quanto non riuscirei a dire, e
nessuno mi avrebbe convinto che a suo modo il grande uccello non fosse
felice di rivedermi. Dopo avergli tolto dal piumaggio un certo numero di
zecche e parassiti, un rituale questo che non avevo mai mancato di compie-
re e che gli dava piacere, saltai sulla sua groppa.
«Redine uno!», ordinai.
Horus s'alzò in volo con un gracidio, portandosi rapidamente alla sua
quota favorita. Nel ripassare sopra la Colonna degli Scambi non potei fare
a meno di pensare al brutto tiro che mi aveva giocato l'ex Regina di Thar-
na. Certo neppure io ero andato molto per il sottile, ed anzi le avevo procu-
rato il più grosso spavento della sua vita, ma ora mi chiedevo cosa ne fosse
stato di lei. Ogni volta che le avevo parlato, mi era parso che al riparo di
quella sua maschera d'oro ella vivesse di sentimenti aggrovigliati e di pas-
sioni indefinibili. Per quanto fosse strano, non la odiavo, ed ancora ram-
mentavo quei momenti di malinconia tanto femminile che aveva avuto
sulle montagne, quando aveva osservato la pianura fiorita di gialli talen-
der. Ma poi rividi lo scatto del suo braccio puntato verso di me, e risentii il
suo ordine: «Catturate quella bestia!» Un impeto di rabbia mi fece contrar-
re i pugni: fra me e lei c'era ancora un conto in sospeso.
Qualunque fosse ora il suo destino, riflettei, quella insolente e spietata
femmina ne avrebbe meritato uno peggiore. Non mi auguravo che fosse
morta, tuttavia mi compiacevo nell'immaginare quello che Dorna poteva
aver studiato per lei. Dorna mi era parsa una tale jena che sicuramente la
città di Tharna doveva star conoscendo il periodo meno allegro della sua
già poco piacevole storia. Forse aveva fatto divertire sul corpo di Lara i
suoi esperti di tortura, oppure l'aveva inclusa nel menù dell'urt gigante che
viveva nei sotterranei del palazzo; magari l'aveva condannata ad essere
bollita viva in un pentolone d'olio di tharlarion, o invece l'aveva gettata in
pasto alle piante carnivore che abbondavano nelle foreste. Una cosa era
certa: Dorna non doveva sforzarsi per essere spietata. Più probabilmente
doveva aver studiato una vendetta lenta, capace di darle molte soddisfazio-
ni. Conclusi che Lara doveva trovarsi in una situazione tale che la morte le
sarebbe giunta come una liberazione.

Eravamo ormai nel mese dell'equinozio primaverile. Su Gor il suo nome


era En'Kara, o più completamente En'Kara Lar Torvis che, tradotto alla
lettera, significava il Primo Giro del Fuoco Centrale. In lingua goreana Lar
Torvis, il Fuoco Centrale, era il Sole. In alcune città, al Sole ci si riferiva
in modo più poetico come Tor-tu-Gor, ovvero La Luce Sopra la Pietra
Della Casa. Il mese dell'equinozio autunnale era chiamato Se'Kara, il Se-
condo Giro.
Analogamente, i mesi del solstizio prendevano il nome dall'arco appa-
rente compiuto dall'astro: En'Var Lar Torvis era il corrispondente del Giu-
gno terrestre, quello col giorno più lungo, mentre Se'Var Lar Torvis era il
mese del giorno più corto dell'anno.
Detto fra parentesi, la cronologia era un po' la disperazione degli scolari
goreani, della cui educazione si occupavano gli Scrivani, e ciò perché ogni
città aveva un suo calendario particolare basato sulla successione storica
degli Amministratori. Per riferirsi ad un anno del passato non lo si nomi-
nava con una cifra, bensì come il Tale anno della Tale Amministrazione.
Si sarebbe potuto credere che gli Adepti avessero in comune almeno un
calendario religioso, ma così non era, e le stesse cerimonie e festività veni-
vano celebrate in date assai diverse a seconda della città o della zona. Sette
anni addietro, quando il Tiranno Marlenus aveva esteso la sua egemonia su
oltre venti città, gli Adepti di Ar avevano unificato un vastissimo territorio
anche dal punto di vista del calendario religioso. Tutto era però finito col
crollo dell'Impero e, da quel giorno, gli Adepti di quelle città erano tornati
alla loro cronologia indipendente, ciascuno ritenendo migliori le proprie
usanze.
La situazione sarebbe stata senza speranza se non vi fossero stati anche
elementi comuni a quasi tutto il pianeta, ad esempio le fiere tenute quattro
volte all'anno presso le Montagne di Sardar. Inoltre, tutte le città usavano
come riferimento secondario anche il calendario di Ar, la più vasta metro-
poli del pianeta.
Nella città di Ar, per fortuna, il calendario non si basava sulla lista degli
Amministratori e Tiranni, bensì prendeva inizio dall'anno della sua fonda-
zione, evento in realtà non meglio accertato di quello della fondazione di
Roma o di Babilonia, al quale si attribuiva però una data precisa. L'anno
corrente era dunque, secondo la cronologia di Ar, il 10.117° dalla sua fon-
dazione. A mio parere quella città non poteva risalire a più di tremila anni
addietro, vista con gli occhi di un profano in archeologia. In quanto alla
sua Pietra della Casa, che avevo avuto agio d'esaminare quando l'avevo
rubata, sarebbe stato impossibile dire se era stata scolpita mille o centomila
anni prima. La storia antica di Gor era avvolta nelle tenebre assai più di
quella della Terra.

Quattro giorni dopo la mia partenza in volo dalle campagne di Tharna


avvistai, sfumate per la lontananza, le Montagne di Sardar. Avevo viaggia-
to nella loro direzione in linea retta, come se avessi avuto una bussola nel
cervello, da vero abitante di Gor. Sulla pianura, non troppo distanti da quei
picchi corrosi dal tempo e dalle piogge, ebbi la sorpresa di vedere una vera
e propria piccola città fatta di tende, ornata da gonfaloni e bandiere svolaz-
zanti: era la fiera intercittadina del mese di En'Kara.
Feci deviare Horus a nord, perché non avevo molta voglia di rischiare
che qualche grifoniere mi riconoscesse, né intendevo perdere tempo. Era la
prima volta che viaggiavo su quelle terre e non avevo mai visto neppure in
un disegno le Montagne di Sardar, ma, nell'osservarle, mi sentii percorrere
da un brivido spiacevole.
Non erano affatto imponenti, ed anzi apparivano molto più accessibili
della Catena del Voltaj, quel magnifico e sterminato susseguirsi di vette
sulle cui pendici avevo trascorso momenti infernali.
Sette anni erano passati dal giorno in cui Marlenus, divenuto fuorilegge
per colpa mia, aveva cercato d'ammazzarmi dopo che ero stato così inge-
nuo da salvargli la vita nei pressi del suo accampamento. Per lui io ero
stato un'autentica maledizione, e gli avevo preso la figlia senza pagargli
l'enorme prezzo di sposa che richiedeva, ma in qualche modo avevamo
finito per rispettarci a vicenda. Mi domandavo dove fosse finito ora il pa-
dre di Talena, quell'uomo orgoglioso e violento che aveva saputo dominare
ogni avversario. Marlenus era una tigre, e difficilmente doveva aver rinun-
ciato del tutto alle sue ambizioni.
Decisamente, dunque, le Montagne di Sardar non possedevano un filo
della grandiosità del Voltaj. Non aggredivano il cielo con acuminate vette
e non dominavano la pianura, tuttavia possedevano qualcosa di antico e di
arcano che mi incuteva timore. Diressi il grifone da quella parte.
Le alture che vedevo estendersi lungo l'orizzonte avevano il colore nera-
stro della roccia basaltica, salvo che sulle cime e sui passi più elevati dove
biancheggiava la neve caduta quell'inverno. Con un certo stupore notai che
neppure le loro pendici ed i versanti più bassi mostravano tracce di verde,
quasi che la catena montuosa fosse stata sterilizzata della vita vegetale.
Questo non mi piacque; creava un effetto minaccioso che parlava di pau-
ra e di morte, o comunque di gelida ed inumana assenza di vita. Feci alzare
Horus fino a tremila metri, la quota in cui l'atmosfera di Gor era così fred-
da e sottile da rendere quasi impossibile la respirazione ed il volo. Ma
neppure da quell'altezza potei scorgere qualcosa d'interessante: solo nude
alture che si susseguivano a perdita d'occhio. Scesi ancora, planando avan-
ti.
Mi veniva spontaneo sospettare che nelle Montagne di Sardar non ci
fosse niente di quel che credevano gli uomini, né l'Inviolabile, né i Re Sa-
cerdoti. Forse tutto era soltanto una mera leggenda, e laggiù non avrei tro-
vato che neve e rocce spazzate dai venti gelidi. Forse le cerimonie, le pre-
ghiere, ed i templi elevati ovunque dagli Adepti, erano frode, superstizio-
ne, voci dirette al vuoto ed al gelo di montagne dove non c'era nulla. Quan-
tomeno, io non riuscivo a vedere proprio niente.
Ma, all'improvviso, Horus emise un gracidio e cominciò a precipitare in
vite, con le grandi ali che sembravano incapaci di far presa sull'aria. Mi
aggrappai freneticamente alle penne del suo collo, bestemmiando per lo
spavento, e compresi d'aver sbattuto il naso contro una prova lampante
dell'esistenza di una barriera protettiva. Era come se il grifone stesse ca-
dendo lungo una parete verticale, invisibile ed inavvertibile al tatto, in uno
spazio dove l'atmosfera non gli forniva più il sostentamento. Stridette più
volte, mentre il terrore prodotto in lui da quell'effetto gli faceva perdere del
tutto la coordinazione, quindi roteò su sé stesso.
Per un angoscioso minuto la nostra picchiata a corpo morto ci fece per-
dere duemila metri di quota, durante i quali mi trovai più spesso sotto al
grifone che sopra. Poi, quando ormai eravamo ad un centinaio di metri dal
suolo, Horus tornò in possesso delle sue capacità di volatile e dal becco gli
uscì uno stridio selvaggio. Si raddrizzò, riuscì a frenare la caduta con vio-
lentissimi colpi d'ala, poi schizzò via quasi rasente al suolo in direzione
opposta alle montagne. Per qualche minuto il grifone fu ingovernabile, ed
accelerò con frenesia senza far caso alle mie grida.
Da lì a poco, con mia meraviglia, Horus risalì rapidamente di quota fin-
ché fummo di nuovo sui duemila metri e, qui giunto, invertì la rotta filando
a tutta velocità verso la barriera invisibile. Urlai e lo percossi coi pugni,
ma fu inutile: per qualche suo oscuro motivo voleva riprovare a sorvolare
la zona proibita. E, come in precedenza, cadde vittima di quell'effetto in-
comprensibile, precipitando come un macigno.
Ignorando i miei ordini, il volatile ripeté quel tentativo per ben cinque
volte, con folle energia e cieca caparbietà, e notai che non dava segni di
spavento ma di rabbia fredda. Per mia fortuna quella sua strana lucidità lo
mise in grado d'uscire molto più facilmente dalle cadute in vite, tanto che
l'ultima non fu diversa da una normale picchiata ad ali chiuse.
Venne quindi il momento in cui ad un mio ennesimo «Redine quattro!»,
Horus si decise ad ubbidire, forse perché reso esausto da quei tentativi ir-
ragionevoli.
Lentamente planò sulla pianura fertile, a circa un chilometro di distanza
dalle tende della fiera. Ogni tanto volgeva il capo a fissarmi quasi con rim-
provero, disgustato dalla mia arrendevolezza: se fosse dipeso da lui, sem-
brava dirmi, avrebbe prima o poi trovato il punto debole del misterioso
avversario che gli aveva impedito di volare avanti, e l'avrebbe straziato a
colpi di becco e d'artiglio.
Una volta a terra, lo consolai cercando le zecche fra le sue piume, e glie-
ne gettai nel becco una dozzina. Mi accorsi che avrebbe avuto bisogno
d'una buona ripulita igienica, ma ormai non avevo né voglia né possibilità
d'occuparmene. Mi ero appena imbattuto in quella che un goreano di Casta
Bassa avrebbe definito una Magia divina, e non potevo evitare di chieder-
mi con quale energia i Re Sacerdoti avessero saturato l'atmosfera intorno
alle loro montagne.
Un'ipotesi valeva l'altra, ma quella che mi sembrava la più valida era una
sorta di campo d'onde elettromagnetiche, il cui effetto era di stravolgere
l'equilibrio di volo del grifone. L'azione era avvenuta a livello dei canali
semicircolari del suo orecchio interno, oppure sull'arco riflesso neuro-
muscolare. Mi era stato detto che ciò accadeva anche ai tharlarion da sella,
e c'era da scommettere che lo stesso valeva per buona parte della fauna di
Gor. Ma sugli uomini questo non si verificava, se era vero che molti erano
stati visti penetrare fra le montagne senza dare alcun segno di disagio, e
quindi non mi restava che tentare a piedi.
Dovevo ora mandar via Horus, e ciò non mi rendeva felice. Per un poco
rimasi li a parlargli, sebbene questo fosse sciocco ed inutile, spiegandogli
che il destino c'imponeva di separarci e stavolta forse per sempre. Poi gli
indicai la pianura, nella direzione da cui eravamo venuti, e gridai: «Ta-
buk!»
L'animale non si mosse, cosicché ordinai ancora: «Tabuk! Tabuk!»
Horus fece orecchie da mercante. Assurdamente avevo l'impressione che
si sentisse a disagio, in qualche modo conscio d'avermi deluso. E, cosa
questa ancor più irreale, sembrava rendersi conto che volevo mandarlo via
e rinunciare definitivamente ai suoi servizi. Si agitava sulle zampe, inquie-
to e nervoso.
«Adesso vai, Horus. Vai!», ripetei, indicandogli il cielo. «Cerca di ca-
vartela da solo, amico. Dove io vado non puoi seguirmi. Vola!»
Il grifone sbatté due o tre volte le ali, infine le allargò e si decise a decol-
lare. Compì due larghi giri sopra di me, mi salutò con un gracidio rauco,
poi si allontanò verso nord alzandosi in quota.
Lo seguii con gli occhi fin quando non fu che un puntolino scuro appeso
nel cielo, poi diedi una lunga occhiata esplorativa alle Montagne di Sardar.
Ero stanco ed assetato. Mi avviai a passo svelto alla volta del grande vil-
laggio di tende, chiedendomi se avrei avuto difficoltà a procurarmi un
buon pasto e qualche bicchiere di paga.
Ma avevo fatto si e no duecento metri sull'erba punteggiata di fiorellini
bianchi quando, da un folto d'alberi alla mia destra, provenne il grido acuto
d'una donna in preda al terrore.

Capitolo 21
COMPRO UNA SCHIAVA

Dopo un primo attimo di stupore, corsi da quella parte, guardai un fan-


goso corso d'acqua pieno d'erbe palustri, e raggiunsi alcuni cespugli. Qui
estrassi la spada e mi mossi avanti con cautela, cercando di capire da quale
punto del boschetto fosse giunto il grido. Lo udii ancora: era una voce de-
cisamente spaventata che strillava suppliche incomprensibili, seguita dalla
risata di un uomo.
Quando fui fra gli alberi, mi arrivò alle narici l'odore d'un fuoco da cam-
po. Da qualche parte c'erano degli uomini che conversavano sottovoce, ed
altri rumori indicanti la presenza di animali. Poi vidi sei o sette tende di
tela robusta e quattro carri coperti, in una piccola radura. Presso i veicoli
c'erano altrettante coppie di tharlarion da tiro, i sauriani quadrupedi stret-
tamente imparentati coi bipedi da sella, ed i due conduttori che li avevano
appena sciolti dai finimenti, sembravano non aver udito il grido della ra-
gazza o non considerarlo affatto degno d'attenzione.
Tenni la spada in pugno ed uscii dalla vegetazione esibendo un passo in-
differente. Allorché oltrepassai la prima tenda, gli inservienti mi osserva-
rono con sospettosa attenzione, ed uno si spostò di lato per controllare se
dietro di me arrivassero altri estranei, ma non avevano l'aria ostile. La sce-
na appariva perfettamente pacifica e normalissima: fuochi per cuocere il
cibo, finimenti poggiati qua e là, oggetti d'uso comune tolti dai veicoli ed
ordinati sull'erba, e la pigra immobilità dei sauriani. Mi ricordava la vita
quieta che avevo conosciuto nella carovana di Mintar, con la differenza
che il grasso mercante si portava dietro un enorme numero di carri e di
dipendenti, mentre questo accampamento era di modeste dimensioni.
Di nuovo la ragazza strillò con tutta la forza dei suoi polmoni.
Stavolta però non battei ciglio, perché i grandi carri avevano tendoni di
seta gialla e blu, e ciò era bastato ad indicarmi che si trattava di comuni
mercanti di schiavi. Con una smorfia ricacciai la spada nel fodero, poi mi
tolsi l'elmetto.
«Tal!», dissi.
I due inservienti stavano giocando a Pietre, un semplice gioco d'azzardo
consistente nell'indovinare se l'avversario aveva in pugno un numero pari o
dispari di sassolini, ed il mio arrivo li aveva interrotti.
«Tal!», rispose uno di essi.
L'altro non mi degnò di attenzione, perché si era chinato a raccogliere da
terra le monete della sua vincita. Passai loro accanto e raggiunsi la parte
anteriore della tenda più grossa; scostai la stoffa e vidi che nell'interno
c'erano due persone, una delle quali era la ragazza che aveva strillato.
Il respiro mi si bloccò per l'ammirazione. Era una bionda, con lunghi ca-
pelli d'oro zecchino e grandi occhi azzurri, completamente nuda. Stava in
ginocchio davanti a un robusto paletto conficcato al suolo, contro il quale
poggiavano le sue natiche vellutate, e tremava come un animale spaventa-
to. I suoi polsi erano uniti in due bracciali da schiava, e tenuti più in alto
della testa dalla catenella fissata al palo; un'altra sottile catena la imprigio-
nava all'altezza della vita, impedendole di alzarsi e di muoversi troppo. Era
così bella che imprecai stupefatto, e dovetti ricomporrai la tunica rozza,
inadatta a nascondere la più lieve eccitazione.
Quando avevo messo dentro la testa, sul suo volto c'era un'espressione
smarrita e sofferente, e per un attimo ella parve sul punto di supplicare il
mio aiuto. Ma, subito dopo, i suoi occhi incantevoli si velarono ancor più
di terrore, e dalla bocca le uscì un gemito. Un tremito inarrestabile scosse
il suo corpo, la testa le ricadde sul petto e gridò ancora debolmente. Dissi a
me stesso che doveva avermi scambiato per un altro mercante di schiavi.
La forma dei suoi seni e l'ansito che li faceva andare su e giù mi stavano
come ipnotizzando.
Per terra c'era un grosso braciere di ghisa colmo di carboni ardenti, il cui
calore mi riverberava sulla faccia da tre metri di distanza, ed infilati nelle
braci stavano tre ferri da marchio, col manico isolante. Seduto a gambe
incrociate dietro il braciere c'era un individuo vestito soltanto d'un paio di
larghi pantaloncini di pelle, un tipico guardiano di schiavi di quelli assunti
dai mercanti e dai banditori d'asta, massiccio, ringhioso, lucido di sudore e
fornito di una benda nera sull'occhio destro. Usò l'occhio sano per dedi-
carmi uno sguardo indifferente, e mosse i ferri fra le braci con fare esperto.
Stava aspettando con pazienza che uno dei marchi fosse almeno al calor
rosso.
Osservai le cosce della ragazza, a dir poco spettacolose, e notai che non
aveva ancora subito il marchio.
Quando un uomo catturava una femmina per tenersela in casa come a-
mante, di solito non era così poco gentile da marchiarla a fuoco, cosa che
invece costituiva la regola per i mercanti. Ricordavo però che Mintar, il
quale si occupava anche di schiavi, si guardava bene dal rovinare una ra-
gazza facendola piangere con l'esibizione dei ferri roventi, e lasciava al
futuro padrone la scelta se marchiarla o meno. In ciò veniva premiato, poi-
ché le sue ragazze si presentavano alle aste più in forma e vivaci, col risul-
tato che i suoi introiti erano maggiori.
Sia il marchio sulla coscia che il collare erano simboli di schiavitù, ma il
loro significato era diverso. Il primo scopo del collare era di rivelare a qua-
le padrone e città lo schiavo appartenesse. Il marchio era l'indicazione
permanente della condizione di schiavo, ed alle donne veniva fatto presso
la natica, in una posizione dove restasse nascosto sotto l'orlo della tuni-
chetta.
Secondo l'uso, il marchio inferto alle ragazze era la lettera iniziale e mi-
nuscola della parola «schiavo» in lingua goreana, e lo si voleva eseguito
con ferri molto sottili, in modo da lasciare sulla pelle un segno assai fine e
addirittura elegante. Gli uomini venivano marchiati con la stessa lettera,
ma in carattere maiuscolo e largo anche un centimetro.
Notando che provavo un forte interesse per la deliziosa bionda, il guer-
cio le andò accanto e l'afferrò per i capelli; poi le sollevò la testa per mo-
strarmi il suo volto.
«Molto bella, non è vero?», disse. «Merce sopraffina, e garantita vergi-
ne.»
«Attraente, sì,» commentai, in tono per nulla cordiale.
Mai mostrarsi troppo attratti da una schiava pronta per la vendita: questo
era un principio universale. In realtà, a mettermi di cattivo umore erano
state le lacrime che vedevo negli occhi di lei, ma l'uomo scambiò la mia
smorfia scontrosa con quella tipica di chi prima disprezza e poi compera.
Sorrise.
«Hai bisogno di una schiava da letto, amico? Se è così sei capitato nel
posto giusto. Del resto, alla fiera, Padron Targo non porta mai quelle buo-
ne per far le cuoche o i lavori di casa. Solo bambine da letto, e di classe.»
«No, non so che farmene di una schiava. Davo solo un'occhiata,» dissi.
Per quanto la mia risposta fosse sincera, era proprio quella che lui si sa-
rebbe aspettato da un possibile acquirente. Mi strizzò l'occhio buono, gesto
raro da parte di un guercio.
«Nessuno le ha mai messo un'unghia del mignolo addosso, lo giuro sui
Re Sacerdoti. E sai perché, amico? Te lo dirò in confidenza, caro signore:
questa verginella è più difficile da domare di uno sleen selvaggio. Ci vuole
un uomo vero per tenere in pugno una femmina così!» Ed annuì con enfa-
si.
Dopo avermi fissato per vedere se apprezzavo quel luogo comune, con-
tinuò: «Adesso la devo marchiare. Non mi piace farlo, ma non c'è altro
modo per ficcarle in capo la ragione. Io me ne intendo, credimi.»
Non dubitavo che fosse un gran praticone dei ferri roventi. Lo osservai
mentre studiava un marchio e lo confrontava con un altro. Nessuno dei due
era ancora caldo a sufficienza.
Alla vista dei ferri la ragazza mandò un grido straziante e si contorse, fa-
cendo tintinnare le catene ai polsi e alla cintura; ma non poteva muoversi
abbastanza da farsi male. Il guercio schioccò le labbra, borbottò qualcosa e
ficcò di nuovo gli attrezzi fra i carboni.
«È bella, però ha una voce che spacca i timpani,» commentò a metà fra
divertito e seccato.
Le tornò accanto. Con una smorfia come di scusa nella mia direzione af-
ferrò una ciocca dei suoi capelli, l'arrotolò a palla e gliela mise in bocca a
forza, fermandogliela con altre due ciocche annodate intorno al volto. Era
un vecchio trucco usato anche dai grifonieri per zittire le femmine appena
rapite: bagnandosi di saliva, i capelli si gonfiavano, formando un bolo che
col suo volume occupava tutta la bocca della malcapitata.
«Spiacente, dolcezza,» sogghignò, dandole un buffetto. «Ma tu e io non
vogliamo che Padron Targo s'incavoli di brutto, eh? Se si scoccia di sentir-
ti strillare, quello viene qui con la frusta e ci mena a tutti e due.»
Con un ansito soffocato la ragazza lasciò ricadere la testa in avanti, sfio-
rando col mento l'incantevole solco fra i seni. Seduto sul tappetino, l'uomo
cominciò a fischiettare fra i denti, attizzando ogni tanto i carboni.
Le mie emozioni erano contrastanti ed in subbuglio. Nel precipitarmi lì
mi ero preparato a dover combattere per aiutare una ragazza, ma ora sco-
privo che in quanto le stava accadendo non c'era nulla d'illegale e che lei
veniva trattata secondo le migliori consuetudini di Gor. Marchiarla era un
sacrosanto diritto di quei mercanti e, se avessi ceduto all'impulso di libe-
rarla, ciò sarebbe stato giudicato un furto bello e buono, proprio come se
avessi rubato uno dei carri o dei soldi.
Inoltre non potevo neanche affermare che gli schiavisti avessero l'inten-
zione di maltrattarla, perché non era certo loro interesse presentarla ai
clienti in cattive condizioni di corpo e di spirito. Era una merce, una delle
numerose femmine che avevano portato alla fiera, forse un po' meno docile
di altre e quindi bisognosa d'essere domata. Per il guercio era pacifico che
una schiava su venti o trenta facesse un po' di trambusto, e non si sarebbe
mai soffermato a pensare alla sua vergogna, alla sua umiliazione ed alla
sua paura dei ferri, che rientravano nell'ordine naturale delle cose.
Sapevo per esperienza che le altre schiave della carovana, sedute nei car-
ri dal tendone giallo e blu, stavano di sicuro chiedendosi cosa diavolo a-
vesse la bionda da fare tante scene: dopotutto cos'era un piccolo marchio?
Pensasse piuttosto a dipingersi la faccia per piacere a qualche acquirente
giovane e danaroso.
Proprio allora, sentendo il chiacchiericcio delle schiave, mi voltai e le
vidi scendere da due dei veicoli. Erano una trentina, e ridevamo e parlava-
no come un qualsiasi spensierato gruppetto di donne libere uscite a prende-
re un po' d'aria. Indossavano il camisk, che nella zona interna delle pianure
sembrava andare più di moda delle tunichette, e ciascuna aveva una cintura
metallica chiusa col lucchetto, alla quale il loro sorvegliante stava appli-
cando una lunghissima catena. L'uomo le stava conducendo al ruscello ma,
prima d'abbandonare la radura, dovette dar da bere a quelle che chiedevano
un po' di vino e soddisfare le richieste di altre: chi voleva un pettine, chi
del sapone, chi aveva un sandalo rotto, e chi desiderava esser cambiata di
posto alla catena per star vicino ad un'amica. Le osservai mentre si allon-
tanavano fra gli alberi: merce pregiata che il sorvegliante doveva custodire
con la massima cura per tutelare gli interessi di Padron Targo.
Rientrai nella tenda e vidi che i ferri erano quasi arroventati al punto
giusto. La bionda legata al paletto ansimava, in atteggiamento più smarrito
e disperato che mai.
Mi ero chiesto già molte volte perché l'uso della marchiatura a fuoco
fosse tanto comune, sapendo che esistevano pigmenti altrettanto indelebili
e tatuaggi indolori che avrebbero reso lo stesso effetto. La mia conclusione
era stata che il ferro rovente aveva un motivo psicologico, ovvero convin-
ceva lo schiavo d'essere veramente uno schiavo.
In pratica quel principio funzionava bene, lo si doveva riconoscere: nel
momento in cui il ferro si staccava dalla sua coscia, e il dolore la sopraffa-
ceva non meno del disgustoso sentore della carne bruciata, la femmina
sentiva il marchio imprimerlesi nel subconscio, nella sua stessa volontà, ed
era costretta a pensare in uno spasimo di sofferenza. Io sono sua! La sua
bruciante consapevolezza di quel fatto le sarebbe rimasta nella mente per
tutta la vita, sia che si rassegnasse sia che lottasse per non pensarci.
Ovviamente l'effetto del marchio variava molto, da donna a donna.
Quelle provenienti da famiglie miserabili non soffrivano mai per la loro
condizione quanto una ragazza di Casta Alta; le femmine nella cui parente-
la vi fossero dei guerrieri si mostravano notoriamente riottose ed intrattabi-
li, se le si umiliava col marchio, ed in questi casi era preferibile limitarsi a
metter loro il collare. D'altra parte avevo visto spesso ragazze orgogliose,
di grande intelligenza e capaci di uccidere l'uomo che le avesse sfiorate,
divenire dopo la marchiatura creature docili e ubbidienti come ad un tocco
di bacchetta magica.
I mercanti, in generale, non erano però così sottili da considerare le im-
plicazioni psicologiche del marchio. Lo usavano più che altro in omaggio
ad una tradizione risalente all'antichità, ed anche perché era di applicazio-
ne facile e rapida.
Ma una cosa era chiara: quella povera ragazza dai capelli d'oro non vo-
leva esser toccata dal ferro rovente. Non faticavo molto a mettermi nei suoi
panni, e mi faceva compassione.
Lo schiavista tolse dai carboni un paio di ferri e li esaminò con attenzio-
ne per stabilire quale di essi fosse migliore. Erano roventi, di un giallo ac-
ceso nella parte più sottile, e ciò lo fece sorridere soddisfatto.
La ragazza si contorse come una serpe, inarcandosi più volte. Il suo re-
spiro si era fatto spasmodico; negli occhi azzurri sbarrati dal terrore le ba-
lenava una luce di follia, ed il suo splendido corpo vibrava come una corda
di pianoforte. Benché avesse la bocca tappata, emise una serie di lamenti e
mugolii animaleschi; quando poi l'uomo le fu accanto, perse il controllo
del tutto e vuotò la vescica per lo spavento.
Lui non ci fece caso. Con una mano le afferrò la caviglia sinistra e le fe-
ce distendere la gamba di lato, torcendogliela all'indietro in una posizione
che la costringeva all'immobilità.
«Non agitarti, bella,» le disse gentilmente. «Se stai buona buona, ti fac-
cio un lavoretto di fino, leggero come il bacio d'una farfalla. È questione di
un attimo, ma occorre mano ferma. E tu vuoi che ti resti un marchio pulito
e artistico, vero?»
L'uomo teneva il ferro con la mano destra, in attesa del momento buono
per toccarla presso la natica. Una lunga ciocca dei capelli di lei ondeggiò,
sfiorando il marchio, e le punte si arricciarono con un filo di fumo. La ra-
gazza era tesa allo spasimo, ma rassegnata. Chiuse gli occhi, in attesa del
morso rovente a cui non poteva più opporsi.
«Non la marchiare,» dissi.
Il guercio mi guardò perplesso. «Perché no?», chiese, mentre a sua volta
la bionda volgeva il capo a fissarmi storditamente.
«Può darsi che io voglia comprarla,» borbottai.
«Ah!» Scosse le spalle con un sorrisetto e si alzò. Poi depose il ferro, u-
scì dalla tenda e chiamò: «Padron Targo!»
Appesa per i polsi, la ragazza aveva ceduto di schianto alla tensione psi-
chica ed era svenuta. Dalla tenda più vicina venne un grugnito di risposta,
quindi il tessuto giallo e blu si aprì e ne venne fuori un ometto basso e tar-
chiato: era Targo, della Casta dei Mercanti, il padrone della piccola caro-
vana. Era un individuo piuttosto volgare e vistoso nel vestire; portava un
turbante di seta rossa e piume, sandali di cuoio ornati di acquemarine ed
occhi di tigre, ed indossava una tunica ricamata, impregnata di profumo
scadente. Le sue dita scintillavano di gioielli probabilmente falsi, ed aveva
una collana fatta con monete d'argento, mentre dalle orecchie gli pendeva-
no quelle che sembravano due mezzelune dorate e punteggiate di lustrini.
La sua pelle luccicava d'olio, dal che dedussi che fino a quel momento
doveva essersi rilassato sotto le mani d'una massaggiatrice, cosa che ogni
mercante usava fare al termine dei lunghi viaggi sulle carovaniere. Da sot-
to il turbante gli uscivano due pesanti trecce di capelli neri, unti anch'essi e
grigi sulle punte. Nell'insieme aveva l'aspetto di un astuto cialtrone, ma del
resto neppure io avevo l'aria dell'intellettuale fine e prezioso.
«Buongiorno a te, signore,» disse in tono non meno untuoso della sua
pelle. Poi si volse al dipendente ed abbaiò: «Beh? Che diavolo hai da sec-
carmi, proprio adesso?»
Il guercio lo rimandò a me con un gesto. «C'è qui questo viaggiatore,
Padron Targo. Non ha voluto che marchiassi la ragazza.»
Il mercante corrugò le sopracciglia. «E perché?»
Mi sentivo sciocco. Cosa potevo rispondere a quel professionista nel
traffico della carne umana, un individuo i cui costumi erano quelli antichi
e sperimentati della sua Casta? Se gli avessi detto che m'irritava veder sof-
frire una schiava, avrebbe invocato su di me la pietà dei Re Sacerdoti come
si faceva coi matti. Eppure una spiegazione dovevo fornirgliela.
Decisi che tanto valeva dirgli la verità. «Il fatto è che non mi piaceva
vederla piangere. Tutto qui.»
Targo e lo schiavista si scambiarono un'occhiata, esattamente l'occhiata
che avevo previsto. Poi il mercante stabilì che gli conveniva fingere d'aver
capito male.
«Vuoi dire che desideri acquistarla? È così?», domandò.
Il guercio fece un passo avanti. «Sicuro, Padron Targo. Ha detto proprio
che vuole comprarla.»
«Ah!» Targo ritrovò il suo melenso sorriso professionale. «In questo ca-
so sarò onorato di trattare l'affare, signore. Tuttavia è mio dovere avvisarti
che non tengo roba di seconda scelta. Vengo direttamente dal mercato di
Ar, dove ho acquistato le più belle vergini della piazza, e quella bionda mi
è costata un pomeriggio di contrattazioni.»
«Non ho denaro con me,» dissi.
Il sorriso dell'uomo svanì come se l'avessi schiaffeggiato. «Stai dicendo
che non hai denaro con te?», ripeté.
«Neanche una moneta.»
Il mercante strinse i denti e si volse al guercio. «Marchia la ragazza. E se
un altro straccione come questo s'avvicina al campo, fallo frustare,» ordi-
nò.
Lo schiavista rientrò nella tenda e si accostò al braciere. Io sfoderai la
spada con un gesto ampio e la puntai nel ventre del mercante.
Targo sbarrò gli occhi. «Non marchiare la ragazza!», fu il contrordine
che s'affrettò a dare.
Obbediente, il guercio lasciò stare i ferri roventi. Non parve per nulla
emozionato o disturbato nel vedere che il suo padrone aveva una lama
puntata nell'ombelico, e lo interrogò con ostentata calma:
«Devo chiamare i guardiani?»
«Fai pure. Arriveranno giusto in tempo per seppellirvi entrambi,» rin-
ghiai io.
«Meglio non chiamare nessuno,» stabilì Targo, spaventato.
Lo fissai con durezza. «Non ho denaro, però ho questo cinturone.»
Con la sinistra mi tolsi il fodero da tracolla e glielo mostrai. Gli occhi
del mercante percorsero i sei smeraldi pesandoli e valutandoli in pochi
istanti. Si umettò le labbra e tossicchiò.
«Forse possiamo cercare un accordo da persone civili,» disse.
Abbassai la spada consentendogli di tirare un respiro di sollievo. Appena
il colore gli fu tornato sulle guance si volse all'altro: «Sveglia la ragazza:
tirala su!», comandò.
Con un grugnito l'uomo in pantaloncini di cuoio prese un secchio ed an-
dò a riempirlo al ruscello, e Targo ed io restammo lì a guardarci in silenzio
aspettando che tornasse. Rientrato nella tenda, il guercio versò mezza sec-
chiata d'acqua gelida sulla faccia della bionda, che sputacchiò e annaspò,
mettendosi in ginocchio. I suoi occhi restarono vacui per qualche istante
ancora, poi si riempirono di rabbia.
Targo le andò accanto, uncinò il suo mento con un dito tozzo e la co-
strinse ad alzare il viso.
«Una vera bellezza,» esordì, con tono da imbonitore. «Educata alla per-
fezione nella Casa degli Schiavi di Ar, dove le hanno insegnato le arti del
piacere ed i suoi doveri verso il padrone.»
Diedi un'occhiata al guercio e dalla sua smorfia ironica compresi che si
trattava d'una frottola, del resto prevedibile.
«Forte di petto, morbida di ventre, docile e ansiosa d'esser gradita», la
lodò ancora il mercante. «Gentile di modi, affettuosa e, una volta vestita a
dovere, garbatissima con gli ospiti del fortunato che l'acquisterà. Una vera
perla.»
Mossi la spada, sfiorando appena una guancia di lei, e con un leggero
tocco sciolsi le ciocche di capelli annodate sulla faccia. La ragazza sputò
quella che aveva in bocca, furiosamente, ed investì Targo con un'occhiata
d'odio allo stato puro.
«Tu... grosso e lurido topo di fogna!» gridò. «Putrido escremento di
tharlarion! Io ti...»
Targo la fece tacere con un ceffone, e sorrise. «Ti ho già detto di parlare
solo quando sei interrogata. Non farle caso, signore. In questo momento è
un po' nervosa.»
«Nervosa? È dolce di modi come una grifonessa. Ho visto schiave come
lei pugnalare nel sonno il loro padrone,» commentai.
«Ma nient'affatto, signore. Nient'affatto!», esclamò il mercante alzando
le mani. «Ha l'orgoglio della femmina di classe. Non pretenderai che agi-
sca e parli con l'umiltà della figlia d'un carbonaio, se avrà l'alto onore di
vivere nella casa d'un padrone fiero e nobile come te. L'ho pagata cento
denari d'oro, e ti giuro che non ho mai speso soldi più volentieri.»
Alle spalle del padrone il guercio sorrise e scosse il capo, quasi a dirmi
che con quell'ultima spudorata bugia lui non c'entrava.
«Ti saresti dunque fatto imbrogliare?», domandai. «In qualsiasi mercato
avresti potuto averla per cinquanta.»
Targo si strinse nelle spalle, per nulla smontato dalla mia competenza. In
realtà cinquanta denari d'oro erano già un prezzo elevato, attribuibile solo a
ragazze di Casta Alta oppure assai attraenti. Una femmina di origini mode-
ste e di media avvenenza, vergine, poteva esser comprata con venti o trenta
denari d'oro, a seconda del luogo. E in Ar, se davvero lei era stata acquista-
ta là, i prezzi erano fra i più bassi.
«Posso darti tre di questi smeraldi,» proposi.
A dire il vero non avevo un'idea precisa del valore di quelle pietre. Piut-
tosto seccato mi resi conto che Targo, il quale esibiva una gran quantità di
monili, doveva invece essere un esperto in materia.
«Assurdo. Tu ti fai gioco di me!», esclamò, scandalizzato.
«E sia. Ammetto che la ragazza vale almeno quattro smeraldi di questo
tipo. Osserva il taglio e la purezza. Sono pietre senza difetti, anche se non
grosse.»
«Vediamole meglio,» brontolò.
Gli porsi fodero e cinturone e lui andò a piazzarsi sulla soglia della ten-
da. Scosse la testa, esaminando le pietre controluce.
«Sono smeraldi di media qualità. Non bastano neanche tutti e sei.»
«Forse farei meglio a venderli alla fiera, allora,» dissi.
«Se vuoi.» Targo alzò le spalle. «Ma non ti daranno più di venticinque o
trenta denari d'oro.»
«Quand'è così, fammi vedere un'altra schiava,» decisi. «Ho notato che
non poche sono goffe e bruttine, ma forse ne troverò una capace di rispet-
tare il padrone.»
La mia proposta non piacque al mercante, che in realtà non aveva porta-
to con sé ragazze scadenti. Avevo però il sospetto che per qualche sua ra-
gione personale desiderasse disfarsi alla svelta della bionda, sebbene fosse
la più bella della carovana. Forse la ragazza era ricercata da parenti belli-
cosi e c'era il rischio di vederseli capitare attorno, oppure era una di quelle
mai sazie di combinare guai e di tentare la fuga. Al posto di Targo un altro
mercante mi avrebbe chiesto lui stesso di visionare le altre, nella speranza
che mi portassi via la più brutta, e invece non l'aveva fatto.
«Ma sì, facciamogli vedere le ragazze,» disse il guercio. «Questa non s'è
neanche degnata di dargli il buongiorno, quando ha sentito che il signore
era così buono da scegliere lei.»
Targo lo fulminò con gli occhi. Uscì dalla tenda a passi irritati e batté tre
volte le mani con energia. Subito da oltre gli alberi provenne un rumore di
catene e di passi, e la voce del sorvegliante incitò le schiave a sbrigarsi.
Appena le ragazze comparvero, in fila, Targo ordinò loro d'inginocchiarsi
sull'erba. Accorgendosi che c'era un possibile acquirente, alcune si riasset-
tarono il camisk, altre si accomodarono i capelli, e tutte parvero emoziona-
te. Le passai in rassegna lentamente. Ogni ragazza, quando mi fermavo
davanti a lei, alzava il viso e mi rivolgeva la frase rituale;
«Buongiorno, padrone. Compra me, padrone.»
Molte erano davvero carine, apparivano sane e pulitissime, e senza dub-
bio il mercante non avrebbe faticato a venderle con un buon guadagno. Si
trattava d'un lotto di schiave selezionate, destinate ai piaceri dell'alcova e
non poco costose. Dal loro accento compresi che venivano da ogni angolo
della grande pianura e della costa. C'era una biondina di Thentis di cui
Targo vantò la conoscenza della medicina, ed una ragazza di Tor delle
Sabbie istruita in disegno e matematica. Queste due sarebbero state certo
acquistate da qualche dottore o ingegnere a peso d'oro, dato che la bellezza
unita alla competenza in una pratica professionale faceva di loro dei pezzi
rari. Fui anche colpito da una brunetta che parlava il dialetto secco di Porto
Kar, e da due giovanette native di Ar. Le altre, pur attraenti, dovevano es-
ser nate in schiavitù e non avevano negli occhi il ricordo della libertà per-
duta.
Avrei voluto comprarle tutte e poi toglier loro il collare per sempre. La
schiavitù mi ripugnava ma, quando si trattava di ragazze giovani e indife-
se, sentivo una gran voglia di combattere quella barbara usanza a colpi di
spada. Su Gor, fra le tante cose che amavo ve n'erano anche alcune che
odiavo profondamente. Ma che potevo fare?
«Non m'interessa nessuna di queste,» dissi a Targo.
Con mia sorpresa un mormorio di disappunto corse lungo la fila delle
schiave. Due di loro, la biondina di Thentis e la bruna di Porto Kar, si co-
prirono il viso con le mani e chinarono il capo, soffocando un gemito. Vol-
si lo sguardo da un'altra parte e strinsi i denti, cercando di non vedere e
non sentire, ma avevo avuto una stretta al cuore.
Capivo che cercando di convincermi che stavano bene avevo imbroglia-
to ipocritamente me stesso. Tenute alla catena in ogni loro spostamento, in
balia del destino e della brutalità dei mercanti di schiavi, le poverine dove-
vano sentirsi fra il purgatorio e l'inferno. E nel vedere un giovanotto qual-
siasi, un qualsiasi possibile acquirente, l'ansia d'uscire da quell'incubo e
tornare ad una vita in qualche modo umana le faceva tremare e piangere.
Pur d'uscire delle mani degli schiavisti e cessare d'essere oggetti, sarebbero
andate volentieri anche con un fuorilegge. Nel dirmi «Compra me, padro-
ne», nessuna di loro aveva scherzato od ubbidito a un vuoto rituale.
Targo sembrò sollevato per la mia decisione. Mi prese subito per un
gomito e mi ricondusse alla tenda in cui era incatenata la bionda. Nel
guardarla mi chiesi perché avevo scelto lei e non un'altra. E che differenza
avrebbe fatto per me se sulla sua pelle vi fosse stato oppure no un mar-
chio? L'istituto della schiavitù non sarebbe scomparso per il semplice mo-
tivo che io lo detestavo, ed una schiava in più o in meno non avrebbe mo-
dificato una situazione d'ingiustizia. Inoltre non me la sarei potuta portare
dietro sulle Montagne di Sardar, ed abbandonarla avrebbe significato ri-
mandarla prima o poi nelle mani degli schiavisti. Dissi a me stesso che non
potevo fare stupidaggini.
«Ho cambiato idea,» borbottai. «Non me la posso permettere, E poi,
sembra che mi detesti, da come mi guarda.»
Ma proprio allora, sorprendentemente, la ragazza mutò espressione e mi
sorrise. Parlò a voce bassa, in tono assai vicino all'umiltà: «Per favore,
padrone, compra me.»
«Ehilà!», si stupì il guercio, mentre perfino Targo non riusciva a celare
la meraviglia. «È la prima volta che non apre bocca per maledirci tutti.»
Notando che la bionda mi fissava supplichevole, corrugai le sopracci-
glia. E di nuovo il mio trito sentimentalismo l'ebbe vinta, perché seppi che
non me ne sarei andato da lì senza averla tolta da quel paletto.
«Se ti accontenti dei sei smeraldi, concludiamo l'affare,» dissi a Targo.
«Non ho nient'altro da darti.»
«Hai un elmetto che potrebbe valere qualcosa,» mugolò il mercante, con
l'aria di chi si sta facendo rapinare.
«Per il cielo! Se avessi un occhio di vetro, insisteresti per cavarmelo
dall'orbita! E va bene, va bene.»
«Devo pur mangiare!», si lagnò.
Quando però ebbe fra le mani il fodero e il cinturone, la luce che gli bril-
lò nello sguardo m'informò che mi aveva estorto più di quel che sperava.
Gli consegnai anche l'elmetto, a denti stretti: sia lui che io sapevamo che
l'oggetto in realtà valeva ben poco. Adesso mi pentivo di non essere andato
alle tende della fiera per farmi valutare gli smeraldi da qualche esperto.
Come compratore ero decisamente un inetto.
La ragazza ora mi fissava con estrema intensità, cercando di leggermi in
viso quale sarebbe stato il mio destino. In effetti, essendo di mia proprietà,
da lì in avanti sarebbe dipesa da me in tutto e per tutto, e sicuramente si
chiedeva che razza di padrone sarei stato.
Gor era un mondo strano e crudele: sei pezzi di minerale verde ed un
elmetto ammaccato valevano più di una vita umana. Ma anche sulla Terra
era così, a volte.
Targo tornò nella sua tenda, dopo aver mandato il guercio a prendere la
chiave per togliere le catene alla bionda, ed io rimasi lì con lei. Il suo corpo
nudo era molto eccitante, e infatti mi eccitava. Fin troppo!
«Come ti chiami?», le domandai.
«Una schiava non ha nome, padrone. Ma potrai darmene uno a tuo pia-
cimento,» rispose.
Era vero. Su Gor uno schiavo, non essendo legalmente una persona, non
aveva neppure un'identità riconosciuta dalla legge, un po' come un animale
domestico. Dal punto di vista dei Goreani di Casta Bassa uno dei peggiori
aspetti della schiavitù era appunto la perdita del nome, al quale si sentiva-
no legati da influssi magici. Trovarsi in schiavitù era quindi anche una
situazione in cui la loro identità svaniva, una sorte di morte simbolica che
alcuni sentivano dolorosamente.
«Tu non sei certo nata schiava, ragazza,» dissi.
Lei sorrise. «No, padrone. Ho vissuto libera.»
«In tal caso mi piacerebbe chiamarti col nome che hai ricevuto alla na-
scita.»
«Tu sei davvero gentile, padrone.»
«Non parliamone.» Alzai le spalle. «Allora, qual è il tuo nome?
«Lara.»
«Guarda che combinazione. Ho conosciuto una Lara non molto tempo
fa, a Tharna. Solo che non ho mai visto il suo viso.»
Lei sollevò un sopracciglio. «Adesso lo stai guardando, Tarl di Ko-ro-
ba!»

Capitolo 22
CORDE GIALLE

Quando la ragazza fu liberata dalla catena, la sollevai sulle braccia e mi


feci indicare la tenda usata come locale di soggiorno e riposo. Lì avremmo
atteso che ci consegnassero un vestito da schiava ed un collare, come vole-
va l'usanza. Sul pavimento erano distesi alcuni tappeti dai colori vivaci, e
dalle pareti pendevano leggeri arazzi di seta. La luce era fornita da tre
lampade ad olio appese a catenelle, perché quella del sole non filtrava al-
l'interno, e qua e là erano disposti comodi cuscini. Da un lato c'era uno di
quei giacigli forniti di cinghie che venivano chiamati Letti del Piacere, ed
una rastrelliera con staffili morbidi di vario genere.
Deposi Lara sul pavimento, e subito il suo sguardo corse preoccupato a
quella specie di letto.
«Prima di... di tutto,» mormorò, «vuoi prendere il tuo piacere con me?»
«C'è tempo,» dissi. Avrei desiderato bere qualcosa, ma non scorgevo
giare né boccali.
La giovane donna s'inginocchiò davanti a me, poi si chinò con la fronte
al suolo e si tirò avanti i capelli per scoprirsi la nuca.
«Frustami pure, padrone,» disse sottovoce.
La presi per le spalle e la tirai in piedi. Lei mi fissò sorpresa. «Non mi
hai comprata per vendicarti e uccidermi? Ora puoi farlo.»
«Ma se non sapevo neanche chi eri,» brontolai.
«È vero. Però... appena ti ho visto ho pensato che mi avevi cercata per
uccidermi.» Abbassò gli occhi. «Ma non ne ero sicura.»
«Vedo che la paura di essere uccisa non ti abbatte molto.»
«Io sono stata Regina. Preferisco morire piuttosto che vivere come una
schiava, sappilo!»
«Affari tuoi. Non ho pagato sei smeraldi per il dubbio piacere di toglierti
la vita, comunque.»
Lei alzò la testa di scatto. «Dammi la tua spada, guerriero. Mi getterò
sopra di essa, come si conviene ad una donna del mio rango.»
«Il tuo nuovo rango non esige atti di questo genere,» le ricordai. «E poi
non voglio il sangue di una donna sulla mia arma.»
«Ah!», esclamò Lara. «Dimenticavo lo stupido orgoglio della tua Ca-
sta.»
«Sciocchezze. Sei una donna giovane e bella. Per te non è ancora il mo-
mento di andare nella Città dei Morti.»
La ragazza rise brevemente. «Ma tu mi hai comprata, e di certo non vor-
rai rinunciare alla tua vendetta, ora che puoi averla. Io sono la donna che ti
ha fatto frustare, che ti ha condannato a morte, che ti ha tradito. Tutte le
tue sofferenze le devi a me. Ignoro come tu sia potuto fuggire dalle minie-
re di Tharna, ma hai l'aspetto di chi ha vissuto momenti di dolore.»
Strinsi i denti. «Ti consiglio di non parlare di quest'argomento. Se vuoi
bene a te stessa, lascia che io dimentichi,» sibilai.
Lara indietreggiò di un passo. «Io non ho dimenticato niente di ciò che
ho fatto a te. Niente!», esclamò, sfidandomi con uno sguardo in cui legge-
vo che non s'aspettava pietà né intendeva chiederla.
Pur essendo nuda e indifesa nelle mie mani, e conscia che avrebbe dovu-
to soccombere miseramente a qualunque cosa avessi voluto farle, mi fron-
teggiava orgogliosa ed eretta. Allo stesso modo avrebbe atteso d'essere
sbranata da un larl selvaggio: per lei era importante saper morire a testa
alta, come aveva vissuto, e dovetti ammirare il suo coraggio. In quell'at-
teggiamento era ancor più bella. Per un attimo il suo labbro inferiore tre-
mò, e per reprimere anche quel piccolo sintomo di paura se lo morse così
forte che ne uscì una stilla di sangue. Dovetti girarmi e distogliere lo
sguardo da lei, altrimenti avrei ceduto all'impulso puramente sessuale di
sollevarla da terra e mangiarla viva.
«Non ho intenzione di farti del male,» dissi, rauco. E feci un sospiro per
calmarmi.
«Perché no? Per quale motivo mi hai comprata?»
«Per liberarti. Solo per questo.»
«Davvero non sapevi che ero Lara di Tharna?»
«Te l'ho detto: non lo sapevo,» ripetei, seccato.
«Ma ora lo sai.» Sbatté le palpebre. «Mi metterai a bollire in un caldero-
ne d'olio, o mi getterai alle piante carnivore, oppure... mi darai in pasto al
tuo grifone. Vero?»
Quando nominò il rapace, il suo tono mi parve così buffo che scoppiai a
ridere. Lara assunse un'aria stupita, poi impallidì.
«Il grifone no!...», ansimò.
«Horus non si è ancora dimenticato di te, ci puoi scommettere. E quella
bestia ha continuamente fame.»
La ragazza si erse in tutto il suo metro e settanta di statura, ed affermò:
«Ho il diritto di sapere quale morte mi aspetta.»
«Intanto ti restituirò la libertà. Per morire hai tempo finché vuoi,» dissi.
Lara mi fissò per due minuti buoni con gli occhi spalancati, poi sulle ci-
glia le apparve una lacrima. Le sue spalle furono scosse da un tremito vio-
lento e, chinato il capo, scoppiò in singhiozzi.
Cedetti all'impulso di circondarla dolcemente con un braccio, le accarez-
zai la testa, e con mia meraviglia quella che era stata l'altera dominatrice di
una città, la gelida femmina dalla maschera d'oro, mi poggiò la fronte sul
petto tremando come una bambina smarrita.
«Non può essere,» gemette. «Io merito ancor di peggio che essere una
schiava, lo so bene!»
«Non è del tutto vero. Ricordo anche altre cose di te: ricordo quando or-
dinasti al carceriere di non frustarmi, e quando dicesti che non era sempre
facile essere una Regina, e la sera in cui osservavi una distesa di talender
ed io fui così insensibile da chiedere cos'erano i fiori per te.»
Immobile fra le mie braccia alzò il viso rigato di pianto. «Perché mi hai
riportato a Tharna, quel giorno?»
«Volevo scambiare la tua libertà con quella di due miei amici.»
«Non desideravi l'oro e l'argento della città?»
«Ci sono cose più importanti.»
Lara si scostò, improvvisamente scontrosa. «Pensavi che io... non fossi
abbastanza bella?»
In un altro momento avrei sorriso, ma la sua vicinanza mi provocava
troppo. «Sei bella in modo quasi insopportabile... Lo sei al punto che mille
guerrieri darebbero la vita per osservarti una volta sola. Per donne come te
gli uomini uccidono e le città si danno battaglia.»
«Ma non mi vedi come una schiava... una bestia?»
«Solo uno sciocco mercante vedrebbe in te la schiava. Per un uomo può
essere una gran vittoria avere una donna come te.»
«Allora non mi avresti venduta al mercato degli schiavi, come dicevi?»
Visto che stavo zitto, domandò: «Perché non mi prendesti per te?»
Quell'interrogativo era abbastanza singolare, visti il suo carattere e la sua
educazione, tipicamente femminile. La fissai a disagio, sapendo che ora
rischiavo d'offendere il suo orgoglio. «Non sarei stato libero di farlo. La
mia donna è Talena, la figlia di Marlenus l'ex Tiranno di Ar.»
Lei tirò su col naso. «Un guerriero può avere molte schiave,» disse, a-
sciugandosi gli occhi. «Sicuramente nel tuo Giardino del Piacere, dovun-
que esso sia, numerose belle prigioniere portano il tuo collare. Non è co-
sì?»
«Non ho schiavi, né Giardino del Piacere, né casa.»
«Sei uno strano guerriero,» mormorò. Fece un passo avanti. I suoi seni
erano due coni perfetti, e sulla levigata seta del suo ventre la peluria dorata
del pube era qualcosa di superiore ad ogni descrizione. «Non mi desideri?»
«Guardarti significa volerti.»
«Allora prendimi, poiché sono tua!», si offrì.
Lasciai vagare gli occhi nell'interno della tenda, evitando di guardarla.
«È molto difficile capirti,» brontolai.
«Io sono un animale sciocco e pazzo!», gridò Lara.
Dopo quest'incredibile dichiarazione, la ragazza bionda corse verso una
parete della tenda ed afferrò uno degli arazzi, nascondendovi dentro il vol-
to. Dopo qualche secondo mi accorsi che stava di nuovo piangendo. Quan-
do poi si volse a fissarmi aveva gli occhi arrossati e accusatori.
«Tu mi riportasti a Tharna!», esclamò con rabbia.
«Per amore dei miei amici,» precisai.
«E per il tuo onore.»
«Anche per l'onore, è vero.»
«Io odio il tuo senso dell'onore!», gridò, tremando.
Allargai le braccia. «Non ero insensibile a te, ma ci sono cose che devo-
no venir prima della bellezza di una donna. La libertà di...»
«Io ti odio! Ti odio!», m'interruppe lei.
«Benissimo. Mi dispiace.»
La ragazza scosse il capo più volte, poi ebbe una lieve risata amara. Se-
dette su uno dei morbidi cuscini e si strinse le ginocchia fra le braccia,
poggiandovi sopra il mento. Inclinò il capo e mi guardò dal basso in alto.
«No. Non è vero che ti odio,» mormorò.
«Lo so.»
«Ma ti ho odiato... Oh, sì! Quando ero Regina di Tharna ti ho odiato e
detestato con tutte le mie forze.»
Rimasi zitto. Sapevo che stava dicendo la verità. Ricordavo le sensazioni
virulente che sembravano ribollire dietro la sua maschera d'oro, confuse ed
inesplicabili.
«Guerriero, tu lo sai perché io... io che fui Regina ed ora sono una schia-
va miserabile, ti odiavo tanto?», domandò.
«Me lo sono chiesto,» ammisi.
«Ti odiavo perché la prima volta che ti vidi mi parve che tu fossi uscito
da un sogno. Un sogno che avevo fatto mille volte, per anni ed anni.» La
sua voce si abbassò in un sussurro. «In questo sogno io vedevo me stessa
nel mio palazzo, 'orgogliosa e fiera, in mezzo al Consiglio ed alle mie
guardie, seduta sul trono d'oro. Poi, ad un tratto, il soffitto si frantumava
come vetro percosso dal fulmine, e da esso scendeva un guerriero in sella
ad un grifone gigantesco. Allora il guerriero colpiva, uccideva e sconfig-
geva le guardie... mi rapiva sul suo grande volatile e, dopo avermi tolto le
vesti nel cielo di Tharna, mi portava prigioniera nella sua città, per mar-
chiarmi e mettermi il suo collare.»
«So che le ragazze giovani e belle vivono le loro paure in sogni come
questo,» dissi.
«E nella sua città,» continuò Lara, «il grifoniere del sogno mi vestiva di
veli, mi ornava di campanelle i fianchi e le caviglie, e ordinava che dan-
zassi per lui. Io non potevo... non potevo oppormi, dovevo ballare e balla-
re, perfino la Danza dell'Amore e quella della Frusta. Infine mi prendeva
fra le braccia con brutalità e mi costringeva a servirlo nel suo piacere come
una bestia.»
«E a questo punto dall'incubo ti svegliavi?»
La ragazza rise, arrossì, ed i suoi occhi brillarono stranamente. «No, non
era un incubo,» confessò.
«Non ci arrivo. Tu dovresti detestare certe cose. So che a Tharna sei sta-
ta educata alla castità più assoluta.»
«È vero, ma nelle braccia di quel guerriero io imparavo cose che Tharna
non poteva insegnarmi. E nel sogno apprendevo il fiammeggiante splendo-
re della vergogna e della passione. Le sue mani creavano sulla mia pelle i
fiori e le montagne verdi, le grida dei grifoni selvaggi ed il morso feroce
del larl... Per la prima volta mi accorgevo di avere un corpo di donna, e dei
sensi, e di poter gioire e soffrire soltanto con essi. Imparavo di essere come
lui, e di poterlo amare!»
Dopo una pausa mormorò ancora: «Non mi sarei tolta il suo collare dalla
gola neppure per tutto l'oro e i gioielli di Tharna. Capisci?»
«Ma in questo sogno tu eri una schiava,» le feci osservare.
«Forse che in Tharna ero libera?», disse in tono di sfida. Poi si accigliò.
«Naturalmente, poiché portavo la maschera ed occupavo un'altissima posi-
zione, io ho sempre aborrito questo sogno, ho sempre cercato di scacciarlo
da me. Era una cosa terribile, poiché suggeriva che io, la Regina, potevo
celare nel più profondo del mio spirito la natura ripugnante degli animali.»
Sorrise con mestizia. «Quando ti vidi, guerriero, mi accorsi con spavento
che i tuoi occhi erano quelli del grifoniere del sogno. E, come odiavo lui,
odiai te, poiché eri parte delle cose che dentro di me si agitavano... che mi
volevano distruggere dall'interno. Allora ebbi paura, e ti desiderai, e ti de-
testai come nessun altro.»
«Comprendevi davvero la portata di questi tuoi sentimenti?»
«Sì. Ero conscia del desiderio che era nato in me,» La sua voce si fece
quasi inudibile. «Sebbene fossi la Regina di Tharna, desiderai giacere ai
tuoi piedi sul tappeto rosso, legata con le corde gialle.»
Ricordavo che aveva già menzionato quegli oggetti, nella sua sala del
trono, e che in quel momento era sembrata perdere il controllo.
«Qual è il significato del tappeto rosso e delle corde gialle?»
«Nei tempi antichi, a Tharna, le cose erano molto diverse da oggi,» dis-
se. «Non credere che fossero migliori... Non lo erano.»
E fu così che nella tenda di quell'accampamento di schiavisti, Lara mi
fece un riassunto della storia della sua città.
Qualche secolo addietro Tharna non era stata affatto diversa da tutti gli
altri agglomerati urbani di Gor, e le sue donne si trovavano in stato di as-
soluta sudditanza rispetto agli uomini. Una parte del Rito di Sottomissione
imposto alle femmine catturate dai grifonieri consisteva nel legarle con
lacci gialli e stenderle nella posa voluta su un tappeto rosso. Il giallo era il
colore dei talender, da sempre associati alla femminilità ed all'amore car-
nale, mentre il rosso simboleggiava il sangue e quindi un aspetto della de-
florazione intesa come sottomissione.
L'uomo che aveva imprigionato la femmina e che intendeva farne la sua
amante si metteva su di lei, nudo anch'egli, stringendole le spalle fra le
ginocchia. Le prendeva la testa fra le mani, alzandole il viso verso il suo
ventre, e pronunciava quelle che erano le ultime parole che lei udiva come
donna libera:

Piangi, tu che nascesti in libertà.


Ricorda il tuo orgoglio e piangi.
Ricorda i tuoi giorni felici e piangi.
Ricorda che mi fosti nemica e piangi.
Ora sei prigioniera, sola e indifesa.
Ora sei legata con le corde gialle.
Ora sei nuda sul mio tappeto rosso.
Per la legge di Tharna tu sei mia.
Per la legge di Tharna tu sei schiava.
Piangi, schiava, ed onora il tuo padrone.

A questo punto il catturatore costringeva la ragazza ad aprire la bocca e


passava alla parte puramente carnale del Rito. L'amplesso si prolungava in
tutti i suoi aspetti soliti, ed al termine di esso la femmina era considerata
ufficialmente una schiava.
In seguito era venuto il tempo in cui queste pratiche erano cadute in di-
suso per essere sostituite da rituali molto più brevi e diversi. Il trattamento
riservato alle schiave si era fatto più umano, sebbene le ragioni di ciò fos-
sero da ricercarsi nel maggior numero di servizi domestici che si esigeva
da loro. Gli uomini avevano infatti finito per accorgersi che le schiave do-
cili ed affezionate erano molto più utili in casa, e soprattutto non scappa-
vano alla prima occasione.
Lo stesso ragionamento era valso a liberalizzare molto la posizione delle
mogli e di ogni donna nata libera in città, ed a questo era seguita un'evolu-
zione nei rapporti fra i sessi simile a quella verificatasi nel XX Secolo sul-
la Terra, sebbene assai più lenta. Anche a Tharna ciò era stato per ragioni
economiche, in una situazione dove il benessere aumentava continuamen-
te. Si erano così poste le premesse di un cambiamento, sebbene si fosse
ancora lontanissimi del matriarcato.
Ma un bel giorno Tharna era scesa in guerra contro due città vicine, e nel
giro di alcuni anni aveva finito col perdere i nove decimi della sua popola-
zione maschile. Per motivi d'ordine gli uomini si erano visti costretti a ce-
dere l'una dopo l'altra le redini dell'amministrazione civile alle donne fin-
ché, al termine della lunga guerra, queste si erano trovate a governare di
fatto l'economia cittadina. Il conflitto era finito senza vincitori né vinti, con
Tharna spogliata di ogni ricchezza ma già trasformata in un matriarcato e
popolata quasi interamente da donne. Negli anni successivi si era sviluppa-
ta una mentalità che avrebbe voluto essere pacifista, ma che in realtà adde-
bitava al maschio la rovina economica e le stragi della guerra. L'uomo era
stato legalmente definito un essere inferiore, immorale e stupido come le
bestie, e da lì aveva preso l'avvio quel suo stato di sottomissione di cui io
avevo avuto agio di osservare e sperimentare gli effetti finali. Ovviamente,
ogni processo evolutivo era stato lento, quasi inavvertibile. Il matriarcato
aveva finito per contraddire le aspirazioni pacifiste da cui era sorto, anche
se non tanto per colpa sua quanto per le pressioni esterne e per la necessità
di sopravvivere.
Tutto ciò non mi stupiva molto: si trattava di meccanismi sociali che a-
givano e si modificavano sotto la spinta di fattori complessi, al di fuori
della piena consapevolezza dei governanti ed indipendentemente dalla loro
volontà. La stessa Regina e le Maschere d'Argento erano marionette in
balia d'ingranaggi culturali invisibili ai loro occhi. Ciò che trovavo davve-
ro vistoso e anomalo era l'educazione impartita ai maschi, i quali venivano
allevati nell'autoconsapevolezza d'essere delle bestie inferiori, mentre con
le femmine si faceva il contrario. Il risultato di ciò era la totale mancanza
di rispetto che gli uomini avevano per sé, l'autodegradazione e, come con-
seguenza immediata, la vergogna delle donne allorché si accorgevano di
un naturale trasporto verso di loro. I tabù legati al sesso ed al peccato, di
carattere sociale anziché religioso, plasmavano in modo drastico la psiche
delle donne ancor più di quella degli uomini.
Come terrestre emancipato sapevo che l'uomo non deve aver bisogno di
schiacciare la donna per essere virile, sempreché egli riesca a ridimensio-
nare il mito della virilità. Allo stesso modo trovavo assurdo che per essere
femminile la donna dovesse cedere ad un supposto istinto di sottomissione.
Tuttavia, perfino nell'evoluta società occidentale della Terra, questo tipo di
psicologia è assai raro, e in realtà predominano atteggiamenti culturali op-
posti. Logico quindi che su un mondo poco evoluto come Gor l'uomo fosse
virile solo se sottometteva la femmina, ed ella si realizzasse in uno stato di
sudditanza. In Tharna questi concetti basilari, rovesciati in modo tanto
clamoroso, originavano conflitti psichici in realtà assai più vicini ad esplo-
dere di quanto alle Maschere d'Argento piacesse illudersi. La storia di Lin-
na era emblematica: lei stessa aveva inconsciamente fatto di tutto perché
Andreas le togliesse la maschera. E Lara era stata trascinata sull'orlo di una
psicosi.
Cosa sarebbe accaduto nel caso d'una rivoluzione che scalzasse le donne
dal potere? C'era da scommettere che il pendolo sociale avrebbe oscillato
con violenza in direzione opposta: la molla compressa nella mente degli
uomini sarebbe scattata d'un colpo, portandoli ad un eccesso di rivalsa al
quale le donne non si sarebbero forse opposte per niente. E con un lungo
passo indietro Tharna sarebbe ritornata ai tempi del tappeto rosso e delle
corde gialle.
Stavo riflettendo sulla cosa, quando a distrarmi intervenne la voce di
Targo, dall'esterno. Come ad un segnale, e facendomi sussultare per la
sorpresa, Lara s'inginocchiò a terra ed incrociò i polsi nella posizione della
schiava. Il mercante fece il suo ingresso portando un fagottello, ed approvò
con un'occhiata l'atteggiamento della ragazza.
«Mi compiaccio, signore. Sembra che con te abbia appreso in fretta l'e-
ducazione,» disse. Mi consegnò quindi un camisk ed un collare. «Questi
sono un mio regalo, e non c'è altro da pagare. Puoi portarti via la schiava
quando vuoi.»
«Grazie,» risposi.
In realtà avrei dovuto maltrattarlo, perché un mercante onesto avrebbe
aggiunto diversi altri oggetti ed un paio di vesti più decenti. Quel camisk
non era una tunichetta da schiava, e inoltre appariva sudicio. Il collare era
un rudere rugginoso con una chiave consunta. L'uomo tolse di tasca due
corde gialle, lunghe un braccio, e mi strizzò l'occhio.
«Dal tuo elmetto blu ho capito che sei di Tharna,» ridacchiò.
«Deduzione sbagliata. Io non vengo da quella città.»
«Come ti pare. Sono affari tuoi.» Gettò le corde sui tappeti e aggiunse:
«Se avessi una frusta da schiavi te la darei, ma penso che potrai usare un
ramoscello, provvisoriamente.»
«Non avrò difficoltà, certo,» dissi. Gli ributtai fra le mani il camisk e il
collare. «Questi stracci non mi servono. Portami un vestito adatto ad una
donna libera, e dei sandali.»
Targo assunse un'espressione vacua. «Vuoi dire che sei venuto con
un'altra dorma?»
«Sto parlando di lei.» Indicai Lara col pollice. «Ha diritto ad un vestito,
come spero converrai.»
Il mercante alzò gli occhi al cielo come per chiamarlo a testimone, poi
fissò alternativamente la ragazza e me. «Non è che mi stai prendendo in
giro, signore?»
Lo afferrai per una spalla e lo condussi fuori. «Ti ho chiesto una veste
decente. Una qualsiasi andrà bene.»
«Ma che i Re Sacerdoti mi salvino! Dove credi che io possa trovare una
veste da Donna Celata? Questo è l'accampamento di un mercante di schia-
vi, mica la bottega di un sarto!»
«Vedi cosa puoi trovare, o ti toccherà tenerci qui a cena,» lo esortai,
spingendolo verso i carri.
Stavo perdendo la pazienza. Come tutti i mercanti di schiavi, Targo do-
veva avere casse di vesti d'ogni genere, che i suoi dipendenti avevano leva-
to di dosso a donne catturate da loro stessi.
Da lì a poco l'uomo tornò con un abito ripiegato, di certo il peggiore fra
quanti ne possedeva, e dei sandali. Mise la roba a terra.
«Ecco qua,» brontolò. E se ne andò.
Feci un sorriso alla ragazza. «Temo che non sia roba di lusso, ma dovrai
adattarti.»
Lei si alzò ed andò a chiudere i bordi di stoffa dell'ingresso, poi tornò
davanti a me. Le lampade mandavano riflessi rosati sul suo splendido cor-
po nudo, e di nuovo la sua vicinanza mi bloccò il respiro. Si chinò, raccol-
se le due corde gialle, e poggiò ancora la fronte sul tappeto.
«Ehi! ...Non ti ho forse reso la libertà?», esclamai.
Lei alzò una mano, porgendomi le corde in silenzio. Notai che stava
tremando.
«Non sono un uomo di Tharna,» protestai.
«Ma io sono una donna di Tharna.» Sollevò il volto. «E sotto di me c'è
un tappeto rosso.»
«Non vuoi essere libera?»
«Non lo sono ...Tu sai che non lo sono,» sussurrò. E, vedendo che stavo
zitto, aggiunse: «Per favore: legami, padrone!»
Fu così che presi quei due pezzi di corda delle sue mani, e lei si sdraiò
all'indietro. Le legai i polsi alle caviglie. Quando mi fui tolto la tunica
sdrucita, mi portai sopra di lei, le strinsi le spalle fra le ginocchia, e le af-
ferrai il capo fra le mani secondo il Rito antico di Tharna. E Lara, che un
tempo aveva dominato con orgoglio quella città ribellatasi agli uomini, e
che adesso era insieme donna libera e schiava, vide diventare realtà il so-
gno che per anni l'aveva fatta tremare.
Più tardi mi raccontò di com'era stata allevata ed educata, mi narrò di
sua madre e della dinastia di Regine che l'avevano preceduta sul trono, e
del modo in cui i membri della Casta dei Dottori si occupavano di far con-
cepire le donne della città. L'aspetto più singolare del matriarcato era l'isti-
tuzione del matrimonio, che semplicemente non esisteva: uomini e donne
vivevano separati le loro vite, ed i bambini dei due sessi venivano educati
in zone apposite della città, da cui non uscivano in pratica quasi mai. La
famiglia era un concetto sconosciuto.
Lara sapeva bene come andavano le cose nelle altre città, tuttavia di ciò
aveva un'infarinatura soltanto teorica. Mi disse che durante il viaggio da
Ar alla Fiera di En'Kara ne aveva parlato molto con le altre schiave. Que-
sto l'aveva resa curiosa, malinconica, desiderosa di rapporti umani più au-
tentici. In un mese di schiavitù aveva appreso su sé stessa e sulle sue aspi-
razioni cose che in ventisette anni da donna libera aveva continuato ad
ignorare.

Capitolo 23
RITORNO ALLA CITTÀ GRIGIA

Dopo essere usciti dall'accampamento del mercante Targo, Lara ed io ci


incamminammo su per un lungo declivio erboso e, giunti sulla cima di
esso, ci fermammo a riposare. A meno di un chilometro di distanza pote-
vamo scorgere l'allegro spettacolo offerto dai variopinti padiglioni della
fiera di En'Kara e, al di là di essa, come un miraggio, le pendici sfumate di
scuro delle Montagne di Sardar. Sulla pianura oltre i padiglioni, a breve
distanza da essi, c'era la lunghissima palizzata di tronchi appuntiti che se-
parava la zona libera da quella considerata sacra. Lo sbarramento, antico e
possente, si estendeva a perdita d'occhio da un orizzonte all'altro.
Tutti coloro che si recavano sulla catena montuosa - vecchi stanchi della
vita, idealisti bislacchi, opportunisti che calcolavano di ricevere vantaggi
dalla conoscenza di cose proibite, fanatici in cerca dell'immortalità - dove-
vano passare sulla strada centrale della fiera ed attraversare il portone della
palizzata, un poderoso battente doppio sostenuto da travi di legno ormai
quasi pietrificato.
Ed in quel momento qualcuno lo stava oltrepassando, perché fin da dove
ci trovavamo potemmo sentire il clangore dei pesantissimi catenacci di
ferro che venivano tirati indietro: era un suono sordo e cupo, quasi un fu-
nereo preludio ai pericoli cui l'ignoto viaggiatore andava incontro in quella
terra di morte.
La ragazza bionda mi sorrise. Non indossava una veste da Donna Celata,
bensì un comune abito da donna libera che con un paio di forbici aveva
scorciato, tagliando l'orlo alle ginocchia e le maniche all'altezza dei gomiti.
Era grazioso, d'un colore giallo brillante, e se l'era fermato alla vita con
una cintura scarlatta regalatale da una delle schiave. I sandaletti di cuoio
rosso, una volta lucidati con l'olio, si erano rivelati più che decenti. Sulle
spalle si era gettato un mantello di lana scarlatta che avevo insistito per
farmi dare da Targo, poiché alla sera da quelle parti faceva freddo.
Sembrava felice, spensierata, e ciò metteva di buonumore anche me.
Nella tenda aveva avuto l'opportunità di scegliere un mantello fornito di
cappuccio e reticella per il viso, e con mia grande soddisfazione l'aveva
rifiutato: si era detta desiderosa di camminare senza impedimenti. Adesso,
nel vedere quegli splendidi capelli d'oro che svolazzavano al vento, la sua
avvenenza mi scaldava il cuore. Forse aveva le sue ragioni personali per
non voler più nascondere il volto, ragioni che ancora non capivo a fondo,
tuttavia non potevo che sorridere di quella sua aria bella e spregiudicata.
Ero stupito dalle sue trasformazioni: da Regina di Tharna era diventata
una schiava, ed un mese più tardi aveva saputo trasformarsi rapidamente in
una donna libera, fiera in un modo nuovo e ammirevole. Ma i miei pensieri
dovettero tornare alle Montagne di Sardar ed all'appuntamento che avevo
laggiù con il destino, perché i catenacci del grande portone si richiusero ed
a noi arrivò l'eco del tonfo.
«Qualcuno è andato a morire dove muoiono i folli,» disse Lara.
«Così pare. Ma ciascuno ha le sue ragioni.»
«Forse. Però laggiù c'è lo stesso genere di sorte per tutti.»
Accennai di sì in silenzio. Le avevo parlato del mio desiderio, del biso-
gno, della ferrea risoluzione d'avventurarmi in quel luogo. Ed avevo anco-
ra nelle orecchie la sua imprevedibile risposta:
«Credi che io non avrei il coraggio di venire con te?»
Sapeva, come tutti, che mai un essere umano era tornato vivo dalle mon-
tagne; conosceva forse ancor meglio di me i poteri arcani e terribili dei Re
Sacerdoti, eppure non aveva battuto ciglio nel pronunciare quelle parole.
«Sei libera. Puoi costruire la tua vita come vorrai,» le avevo ricordato.
«Se fossi tua schiava mi ordineresti di venire con te. Ora non ho il colla-
re... Ti seguirei di mia spontanea volontà.»
Avevo scosso la testa, senza capirla. Io non avevo nulla da perdere: mi
era stato tolto tutto ciò che poteva dare un senso alla mia vita, e volevo
delle risposte oppure la distruzione. A muovere i miei passi erano la curio-
sità, la voglia d'ottenere vendetta ed una rabbia frustrante. Ma lei da cosa si
stava lasciando spingere? Non mi piaceva l'idea che fosse nata ad una vita
libera e nuova per chiuderla subito nel nulla, per gettarla prima d'averla
assaporata. Infatti, sulle Montagne di Sardar, tanto io che lei saremmo pro-
babilmente morti. Decisi che non l'avrei portata con me per nessun motivo.
Le cinsi le spalle con un braccio e ci avviammo insieme giù per il pendi-
o. Lei mi fissò stupita.
«Non andiamo alla fiera? Che vuoi fare? Di qua c'è soltanto la pianura,»
disse.
«Quella porta di legno può aspettare ancora un po', e così anche i Re Sa-
cerdoti. Adesso si va da un'altra parte.»
«Dove?»
«Per prima cosa a Tharna. Tu sei la Regina e devi tornare sul trono,» ri-
sposi.
Lara si fermò ed i suoi occhi si riempirono di lacrime. «Non voglio. E
poi su quel trono c'è un'altra,» sussurrò.
«Questo non significa niente. Tu discendi da una stirpe di Regine ed il
tuo non è un titolo che si possa rubare, come un trono od una maschera
d'oro. E non mi risulta che a scacciarti sia stato il tuo popolo.»
Le sue spalle tremavano. «È questo che vuoi?»
«Sì, Lara.» L'abbracciai con dolcezza. «Voglio questo.»
La ragazza allontanò le mie mani. Tornai a stringerla e le asciugai le la-
crime con un dito. «Bella Regina... dovrai dimenticarmi e scacciarmi dai
tuoi pensieri. Non posso portarti a morire fra le montagne, e neppure la-
sciarti qui dove saresti indifesa. C'è soltanto una soluzione giusta.»
«Trovi giusto che io torni in quella città? La odio!», esclamò.
«Tharna è la sola città dove tu possa vivere libera. E lo sarai perché, se
davvero la detesti, userai il tuo potere per renderla migliore.»
«Ma cosa dovrò fare?», mormorò.
«Ama il tuo popolo, lascia che i bambini giochino nelle strade e le ren-
dano vive con le loro risa, impara a soffrire ed a gioire con la gente sem-
plice, ma tienila per mano. E via queste lacrime: una vera Regina piange
solo nel segreto del suo cuore.»
Lara sorrise tristemente. «Proprio tu dici questo, dopo avermi insegnato
ad essere donna? Io non ho mai riso né pianto veramente, prima di cono-
scerti.»
Raccolsi un talender fra l'erba e glielo infilai fra i capelli. «Le città di
Gor sono governate da Amministratori o da Tiranni, guerrieri che s'impon-
gono al popolo per la loro forza o per l'abilità, ed il popolo li rispetta. An-
che tu, da quando tua madre ti lasciò il trono, hai cercato di diventare un
idolo d'oro del quale la gente avesse paura. Ma ora che non hai più la ma-
schera, hai scoperto l'esistenza di una forza più grande.»
«Intendi l'amore, vero?»
«Chiamiamola la forza della vita. Se riuscirai a farti amare dalla tua gen-
te, Tharna diventerà la regina delle città.»
Lara mi osservò muta per un poco, poi disse: «Credo di amarti.» Lasciati
i piani erbosi della pianura, ci allontanammo dalle montagne e dal villag-
gio della fiera in direzione di Tharna.
Si avvicinava il tramonto, e davanti a noi si prospettava una marcia di
almeno quindici giorni su terreni nei quali le possibilità di sopravvivenza
per due esseri umani erano a dir poco precarie. Stavo già pensando a cerca-
re un posto sicuro dove trascorrere la notte, quando per caso alzai gli occhi
al cielo. Subito mi fermai.
«Lara,» dissi, afferrandola per un braccio. «Guarda lassù.»
Stupita, la ragazza osservò il cielo. «Mi sembra che ci sia un grifone so-
pra di noi. Deve aver visto qualche antilope ...viene giù come una freccia.»
Ridacchiai. In effetti il volatile stava piombando verso il suolo ad ali
chiuse, in una picchiata impressionante. Dalla quota di duemila metri pre-
cipitò in verticale finché sembrò che si sarebbe sfracellato al suolo; poi,
all'improvviso, aprì le ali come un paracadute, producendo uno schiocco
simile ad un'esplosione, e filò verso di noi ad una velocità di oltre duecento
chilometri all'ora.
«È Horus,» dissi. «Soltanto a un fulmine d'inferno come lui piace volare
così. E ci ha visti. No, non aver paura, sciocca!»
Lara si era stretta a me con un gridolino. Il rapace si stava comportando
in modo ormai quasi prevedibile, rifiutando d'abbandonarmi con una fedel-
tà ed una pazienza che nessuno avrebbe avuto il diritto d'aspettarsi da un
animale della sua razza. Compì alcuni giri sopra di noi e quindi atterrò con
leggerezza. Corsi ad abbracciargli il collo.
Horus stridette un paio di volte, agitò la testa in modo che spaventò Lara
e la fece correre via, poi mi diede alcuni colpetti su un fianco col becco
enorme. Quella notte restammo a dormire in un boschetto. Il mattino suc-
cessivo convinsi Lara che sul dorso del grifone non le sarebbe accaduto
nulla di male, e partimmo in volo.

La fiamma della rivolta divampata nelle miniere d'argento non si era


spenta. I ribelli, ignorando i miei incitamenti alla prudenza e memori solo
di quelli alla libertà, si erano sparsi nei campi e negli allevamenti delle
Grandi Fattorie. Avevano spezzato le catene degli schiavi, trasformato in
armi gli attrezzi agricoli, massacrato i sorveglianti muniti di frusta e fatto a
pezzi i distaccamenti isolati di guerrieri. Durante i primi due giorni, mi-
gliaia di uomini infuriati e vendicativi si erano sparsi per le campagne,
incendiando gli edifici e distruggendo le attrezzature. I raccolti, ancora
immaturi, erano stati dati alle fiamme, e nell'intera zona si era creato un
incredibile caos nel quale i guerrieri di Tharna non avevano potuto far nul-
la d'efficace.
Soffocati o disturbati dal fumo che si levava dai campi, i grifonieri ave-
vano viste drasticamente ridotte le loro possibilità d'intervento, e dall'alto
avevano assistito impotenti alla sconfitta delle truppe appiedate. Gli attac-
chi portati ai ribelli si erano fatti sempre più sporadici e disorganizzati,
finendo col cessare del tutto, e al tramonto del terzo giorno la città era ri-
masta isolata al centro delle campagne in rivolta.
Lara ed io eravamo all'oscuro di questi avvenimenti, ma quando due
giorni dopo l'inizio del nostro viaggio di ritorno avvistammo i primi campi
di Sa-Tarna, cominciammo a renderci conto della situazione. L'ombra del
grifone passava sopra staccionate abbattute, stalle e granai devastati, greg-
gi abbandonate, alloggi per gli schiavi anneriti dalle fiamme ed alberi da
frutta ridotti a neri monconi. Il fuoco aveva mutato in cenere colture e frut-
teti, e questo significava intanto che qualunque esito avrebbe avuto la mia
missione per Tharna si prospettava un inverno di fame.
Montata davanti a me, Lara osservava lo spettacolo desolante della sua
terra, muta e sgomenta.
«È terribile ciò che hanno fatto!», riuscì solo a mormorare.
«Non più terribile di quel che era stato fatto a loro,» la corressi. Il mio
tono la zittì.
Ci alzammo in quota. In vari posti erano visibili drappelli di guerrieri,
impolverati e poco numerosi, che seguivano il percorso delle strade sterra-
te in apparenza disinteressandosi alle bande di schiavi che potevano ancora
essere attestate nelle fattorie o nei boschetti. Dei rivoltosi non vidi traccia,
almeno sui terreni aperti, e ne dedussi che dovevano essersi dispersi nelle
foreste a nord e ad est. Ma mi sbagliavo e, se avessi notato che i guerrieri
si dirigevano a marce forzate verso Tharna, avrei intuito fin da allora quel
che stava accadendo in città.
Ai bordi della zona coltivata il terreno non era molto alberato, ma pur
sempre a sufficienza per offrire riparo dagli assalti dei grifonieri e sfuggire
alle squadre montate su tharlarion. Più avanti sorvolammo delle alture
rocciose sulle quali potei scorgere degli uomini. La comparsa del grifone
non li impressionò più di tanto, ed a un ordine del loro capo si appostarono
fra i macigni. Erano schiavi fuggitivi, diretti alle montagne, e fui sorpreso
nell'accorgermi che quasi tutti avevano arco e frecce. Un buon arciere po-
teva scoraggiare senza troppo scomporsi l'assalto aereo di un grifoniere,
visto che disponeva di un bersaglio di grosse dimensioni. Feci girare al
largo Horus prima che gli arrivasse una freccia in corpo.
Qua e là scorsi bande di razziatori, che sostavano nei luoghi dove restava
in piedi una casa colonica da spogliare. I cadaveri sparsi al suolo un po'
dovunque erano molti. Non ci voleva un grande sforzo di fantasia per capi-
re che gli schiavi non si erano limitati a fuggire, e che a parte alcuni dediti
allo sciacallaggio, la maggior parte aveva seguito una stessa linea di con-
dotta. Mi chiedevo se la rivolta fosse divampata anche all'interno delle
mura cittadine, coinvolgendo gli uomini in tunica grigia.
In seguito venni a sapere che era accaduto proprio questo, e fin dal mat-
tino stesso in cui avevamo lasciato la zona delle miniere, quando un mi-
gliaio di ex minatori erano riusciti a penetrare in città: i popolani di Casta
Bassa si erano sollevati in massa contro i guerrieri, alcuni quartieri erano
stati teatro di violentissimi combattimenti, ed un incendio aveva ridotto in
macerie una decina di torri. Fu dunque l'insurrezione di oltre ventimila
cittadini a rendere più facile il dilagare degli ex schiavi nelle campagne.
Fin dal giorno successivo i tre quarti della città erano caduti in mano ai
ribelli, e molte Maschere d'Argento erano state catturate, mentre Dorna e
un migliaio di guerrieri si erano asserragliati nelle torri meglio difendibili
intorno alla caserma ed al palazzo reale. Ovunque avvenivano atti di vio-
lenza, esecuzione sommarie e brevi azioni belliche da parte dell'una o del-
l'altra fazione. Ma la truppa di cui disponeva Dorna era composta da pro-
fessionisti e, sebbene inferiori in ragione di uno a venti, i guerrieri avevano
saputo creare una situazione di stallo che prometteva di durare fino all'e-
saurimento delle scorte di viveri.
Fu la sera del terzo giorno che avvistammo le grigie torri di Tharna.
Nessuno si era ancora avvicinato per investigare sulla nostra identità, seb-
bene fossimo passati a bassa quota sotto due piccoli stormi di grifonieri. In
distanza, minuscoli sui poderosi cilindri di pietra, volavano quindici o ven-
ti grifonieri che però non mostrarono intenzione d'accostarsi neanche
quando fummo sulla verticale delle mura.
Da più parti si levavano ancora spirali di fumo bianco, che la brezza se-
rotina trascinava sulla campagna. Il portone principale era aperto, e sulla
strada che usciva verso la campagna vidi piccoli gruppi di ribelli armati.
Non c'erano carri in movimento, né sulle vie principali né intorno al mer-
cato, dove ogni attività era stata sospesa. Una fila di edifici in legno, ester-
ni alla città ed usati come depositi dai commercianti, era ridotta ad un cu-
mulo di ceneri nere. Nei pressi della porta qualcuno aveva tracciato grandi
scritte sulle mura, con vernice gialla: «VIA LE CATENE» e «LIBERTÀ O
MORTE», ed anche «NO ALLA SCHIAVITÙ».
Feci atterrare Horus proprio sulla stretta strada difensiva che correva sul-
la sommità delle mura, ad una cinquantina di metri dall'arco del grande
portone, e poi lo mandai via in volo. In una situazione più tranquilla l'avrei
legato ad uno dei tanti anelli o posatoi per grifoni, o l'avrei affidato ai re-
cinti dove un inserviente l'avrebbe nutrito e ripulito, ma servizi di quel tipo
non esistevano più in città, e preferivo che Horus se la cavasse da solo,
confidando che non si sarebbe allontanato troppo.
Lara non aveva aperto bocca durante l'ultima fase del volo, e nei suoi
occhi leggevo solo paura e sconforto.
Presso i merli giaceva un guerriero dall'elmo blu, ferito, che nel vederci
arrivare si era alzato in piedi a fatica. Con un mugolio di dolore venne len-
tamente verso di noi. C'era da giurare che l'avevano lasciato lì per morto e
poi ignorato, visto che l'intera zona periferica sembrava in mano ai ribelli.
Il guerriero fece quattro passi soltanto e quindi ricadde a terra esanime. Mi
chinai su di lui e gli tolsi l'elmo, che sulla sinistra appariva squarciato dalla
freccia di una balestra.
Aveva capelli biondi, e dimostrava si e no diciott'anni. Il colpo alla testa
doveva esser stato forte, perché sopra l'orecchio gli si era formato un gru-
mo di sangue largo un palmo. Lo trassi a sedere ed egli aprì gli occhi, an-
naspò con una mano sul fodero della spada e fece l'atto d'impugnare un'el-
sa che non c'era più.
«Non temere. Non agitarti,» dissi.
Esaminai la ferita e vidi che il cuoio capelluto era stato tagliato dalla
punta della freccia, segno che il colpo gli era arrivato di sbieco. Probabil-
mente, riflettei, l'osso era ancora intatto. L'abbondante perdita di sangue
era almeno valsa a farlo credere morto. Usai una striscia della sua tunica
grigia per fasciargli il capo.
«Non farti vedere da nessuno e te la caverai,» dissi.
«Sei un ribelle?», domandò. «Io ho combattuto per la Regina, contro di
voi. Era mio dovere.»
«Lo so. Un guerriero ha i suoi obblighi di Casta.»
Il giovanotto aveva parlato con un tono da cui potevo desumere che bat-
tersi per le Maschere d'Argento e Dorna non gli era piaciuto. Probabilmen-
te molti suoi compagni si sarebbero schierati volentieri coi rivoltosi, fra cui
avevano certo parenti e amici, ma anche in Tharna l'onore di un guerriero
imponeva comportamenti indiscutibili. Nei suoi occhi leggevo che, se a-
vesse potuto, si sarebbe subito alzato per tornare a combattere, senza pen-
sare a ciò che la sua coscienza gli suggeriva. Avendo fatto un giuramento
dello stesso genere, io non potevo che capirlo e rispettarlo.
«Tu non hai lottato per la Regina, ragazzo,» dissi. «Se sei un uomo d'o-
nore, devi riconoscerlo.»
Lui ansimò, sollevandosi a sedere. «Perché dici questo? Vuoi insultar-
mi?»
«No, te l'assicuro. Sto dicendo che ti sei battuto per Dorna, e dunque hai
messo la tua spada al servizio di un'usurpatrice.»
Il guerriero mi fissò senza capire, a denti stretti. Gli indicai la ragazza
che attendeva accanto a noi. «Questa che tu vedi è Lara di Tharna. Nelle
sue vene scorre il sangue delle Regine della città, e solo lei ha diritto a
questo titolo.»
«Lara è stata rapita da un grifoniere oltre un mese fa,» disse lui. «Ero
presente ai Giochi, quando accadde.»
«Quel grifoniere sono io.»
Il giovane mi fissò a lungo, mentre pian piano la sua espressione muta-
va. Parlò in un sussurro: «È vero ...Ora ricordo il tuo viso.» I suoi occhi
corsero a Lara, rivelando enorme stupore.
«Io sono la tua Regina,» rivelò lei. «Questo guerriero mi condusse alla
Colonna degli Scambi, e lì venni imprigionata da Dorna e da alcuni suoi
complici. La traditrice mi portò quel giorno stesso ad Ar, dove in sua pre-
senza venni venduta come schiava e sotto falso nome. Ma questo guerriero
mi ha liberato, ed ora sono tornata fra la mia gente.»
«Ed io ho combattuto per Dorna!», gemette lui. I suoi occhi si riempiro-
no di lacrime, «Sono indegno della mia Casta. Ho disonorato la spada che
ho ricevuto dalle tue stesse mani, Regina!»
Di colpo chinò la fronte ai piedi di lei e restò immobile, tremando come
una foglia. Con sua meraviglia Lara lo prese per le spalle e lo fece rialzare.
Una donna di Tharna stava toccando un uomo!
«Hai fatto ciò che dovevi. Sono fiera di te, guerriero,» disse.
Lui chiuse gli occhi e si abbandonò indietro fra le mie braccia. La ragaz-
za mi guardò con aria smarrita, soffocando un grido.
«No,» la tranquillizzai. «Non è morto. È debole per la perdita di sangue,
ma nient'altro.»
«Guarda là!», gridò lei, indicando alle mie spalle.
Sei militi in tunica grigia, armati di lancia e scudo, erano sbucati da una
grossa garitta comunicante con l'interno delle mura e stavano correndo
verso di noi.
«Guardie di Palazzo!» Lasciai il guerriero ferito ed impugnai la spada.
Da come tenevano le armi, vidi subito che i primi tre si stavano accin-
gendo a scagliare le lance. Ancora una ventina di passi e ci avrebbero presi
di mira con tutta sicurezza. Imprecando, afferrai Lara per un polso e, seb-
bene recalcitrasse, la costrinsi a correre in direzione opposta. La scala in-
terna non era lontana.
«Aspetta!», protestò. «Devo parlare con loro e farmi riconoscere.»
«Muoviti!», sbottai, forzandola a procedere a lunghi balzi. «Scendiamo
da qui!»
Feci appena in tempo a trascinarmela dietro nel rotondo pozzo della sca-
la a chiocciola: sei lance rimbalzarono sulla pietra mancandoci di poco.
Una volta raggiunta la base del muraglione, fuggimmo rasente ad esso fino
ad un gruppo d'alberi polverosi. Venti metri più in alto, i militi avevano
recuperato le lance, ma si limitarono ad osservarci. Evidentemente non se
la sentivano di scendere, né di scagliare le armi in una zona dove forse
avrebbero avuto timore a recuperarle.
Ci allontanammo in una direzione a caso lungo le strette e tortuose viuz-
ze che portavano al centro cittadino. Alcune erano impraticabili a causa
delle macerie annerite dal fuoco; i negozi e gli appartamenti ai piani infe-
riori delle torri apparivano saccheggiati; suppellettili d'ogni genere scara-
ventate fuori dalle finestre ingombravano il selciato. Per alcuni minuti non
incontrammo nessuno, a parte i cadaveri di guerrieri e popolani già maleo-
doranti, ma avevo la sensazione che qualcuno ci spiasse. Dovunque sui
muri c'erano scritte, per lo più di «VENDETTA» e «LIBERTÀ». Le porte
erano quasi tutte sbarrate dall'interno.
«Fermi!», gridò una voce.
Ci arrestammo di colpo. Da un portone davanti a noi erano sbucati dodi-
ci uomini armati nei modi più diversi, che si allargarono con l'idea di bloc-
carci la ritirata. Indietreggiammo in una piazzetta priva di uscite, scopren-
do solo quando ormai era tardi che si trattava di una trappola.
«Sono ribelli!», gemette Lara, pallidissima.
«Così pare,» dissi.
Sulle loro facce barbute leggevo la furia, la fredda decisione, e la capaci-
tà d'uccidere con indifferenza. Erano sporchi di fango e di sangue, reduci
da continui tafferugli e massacri, ed ora si aggiravano come una banda di
lupi in cerca di altra violenza.
Quando ci trovammo con alle spalle soltanto un muro ed un portone
chiuso, Lara gridò, ed io protesi la spada. A quel gesto gli uomini risero
ferocemente. Ma anche sul mio volto si dipinse l'ombra d'un sorriso crude-
le: sapevo che avrei potuto battermi fino a rendere il selciato scivoloso del
loro sangue.
Ma cosa ne sarebbe stato di Lara? Non ce l'avrei mai fatta a tenerli lon-
tani da lei. Erano ex schiavi dei campi, e quasi tutti avevano addosso delle
piccole ferite, ma non si trattava più di gente che lottava per la libertà: co-
me animali fuggiti dalla gabbia, solo un brutale festino di morte lì avrebbe
appagati. E non avrebbero certo avuto pietà di una donna, nel baratro d'ir-
ragionevolezza in cui tutto a Tharna sembrava esser scivolato.
«Stai sempre dietro di me!», avvertii la ragazza, vedendo che alcuni di
loro si preparavano ad attaccare.
«Tarl di Ko-ro-ba!», gridò in quel momento una voce dall'imbocco della
piazzetta.
Un individuo cencioso si fece largo scostando con energia le armi degli
altri. Era un ex minatore magro e sparuto, segnato da vecchie cicatrici di
frustate e, quando mi arrivò dinanzi, lo riconobbi subito: si chiamava
Frost, e per un mese avevo avuto negli occhi la sua faccia, nella miniera 24
Ovest. Con un ansito di gioia si precipitò ad abbracciarmi.
«Prost, vecchio topo di chiavica!», ghignai. «Sei venuto a presentare il
conto ai tuoi ex padroni?»
«Puoi giurarlo, guerriero!» Si rivolse quindi agli altri e gridò: «Compa-
gni, stavate per fare una fesseria. Questo è Tarl di Ko-ro-ba!»
I ribelli avevano subito mutato espressione. Con un urlo selvaggio alza-
rono le braccia in segno di giubilo, e da lì a pochi secondo mi avevano già
issato sulle loro spalle per portarmi in trionfo lungo la strada. In breve
nacque una certa confusione, perché dalle torri uscirono molti altri uomini
ed il mio nome volò di bocca in bocca. Dalle finestre dei piani più alti cen-
tinaia di ex schiavi e di popolani si affacciarono, ed il corteo si trasformò
in una vera e propria processione.
Da disordinate che erano, le voci cominciarono a cantare in coro, e stu-
pito riconobbi una delle canzoni che Andreas il Cantastorie ci aveva inse-
gnato mentre scavavamo l'argento. A quanto pareva era diventata l'inno
della rivoluzione.
Lara, molto più meravigliata di quanto lo fossi io, mi correva accanto
nella calca, cercando di restarmi vicina il più possibile.
Di strada in strada l'assembramento di cui ero il punto focale si accrebbe
sempre di più, e calcolai ad occhio che in quei quartieri i ribelli dovevano
essere oltre diecimila. Avevano eretto barricate dappertutto e, dove esiste-
vano gli appositi infissi, erano stati tesi dei fili d'acciaio anti-grifone. Dieci
minuti più tardi arrivammo a destinazione: il luogo era una taverna a me
già nota, la stessa dove mi ero ubriacato di pessimo kal-da nella mia prima
notte da turista in città. Gli schiavi liberati l'avevano eletta a loro quartier
generale.
Sulla soglia c'era ad attendermi la muscolosa figura di Kron, il fabbro,
che non aveva rinunciato al suo pesante martello e lo portava appeso alla
cintura come una mazza da guerra. I suoi occhi azzurri scintillavano di
soddisfazione quando mi batté una poderosa manata sulle spalle. Ma, a
quel punto stavo anch'io ridendo per la gioia, perché dietro di lui avevo
scorto il volto di Andreas. Li abbracciai entrambi.
«Benvenuto a Tharna, amico!», urlò Kron.
Andreas si scostò, consentendomi di vedere la ragazza bruna che era so-
praggiunta alle sue spalle. Indossava vesti da donna libera e non aveva più
il collare alla gola, ma il suo sorriso era sempre lo stesso.
«Linna!», esclamai. La baciai sulle guance ed ella rise felice. «L'hai avu-
to il tuo Cantastorie, finalmente. Come stai?»
«Sono viva, e grazie a te,» rispose lei, commossa.
Andreas fece scostare gli uomini che si ammassavano davanti al locale e
mi spinse verso la porta. «È un piacer vederti, amico!»
«Per me è come una sbornia, invece,» dissi. «Credevo d'averla fatta fini-
ta con le tue canzonette, ma la città ne è piena.»
«È un segno del destino che tu sia qui, guerriero,» disse Kron, senza
mollare il braccio che mi aveva afferrato. «Abbiamo bisogno di te e della
tua spada.»
«Qual è la situazione?»
«Il palazzo è inespugnabile,» brontolò lui. «Peggio ancora, sembra che i
guerrieri al soldo della Regina abbiano scorte inesauribili e, se non li bat-
tiamo entro due giorni, saremo costretti ad abbandonare la città in mano
loro. Il cibo sta per finire, e gli uomini sono troppi.»

Capitolo 24
GLI UOMINI DELLA REGINA

La porta del locale era stata verniciata d'un giallo brillante, e la scritta
che diceva QUI SI VENDE KAL-DA ripassata in rosso. Più sotto qualcu-
no aveva usato lo stesso pennello per aggiungere la parola: LIBERTÀ.
Scesi gli scalini di pietra e vidi che all'interno era pieno di gente, tanto
che stavolta la si sarebbe scambiata per una delle bettole delle altre città.
Del grigiore e del silenzio di Tharna non restava più nulla: le mie orecchie
erano assalite dalle voci, dal rumore dei boccali, e dalle risate di uomini
che avevano visto l'inferno troppo da vicino per non amare ogni attimo di
vita rimasto loro.
L'illuminazione era fornita da un centinaio di lampade ad olio, e dalle
pareti pendevano bandierine ed arazzi coi colori delle Caste più popolari.
Per terra erano stati distesi tappeti le cui tinte minacciavano di uniformarsi
in breve tempo a quella del kal-da, che scorreva rapido fuori dalle botti.
Faceva caldo. Dietro il bancone il gestore era indubbiamente l'uomo più
indaffarato della città e sudava, imprecando contro i ridanciani avventori
che lo costringevano a correre qua e là; ogni tanto poi correva alla scaletta
che portava al piano superiore chiedendo che qualcuno scendesse a dargli
una mano.
Sulla destra, oltre i tavoli, era stata montata una piattaforma di assi sulla
quale cinque strumentisti stavano distribuendo nel locale un'allegra musi-
chetta di sottofondo. Al nostro ingresso attaccarono una melodia classica
di Gor, dal tono epico e barbarico, e quello fu il loro benvenuto.
La presenza dei musicanti mi stupì, perché la loro Casta era stata consi-
derata fuorilegge a Tharna come quella dei Cantastorie e parecchie altre. Il
matriarcato non aveva agito a caso togliendo al popolo la musica, il ballo,
il gioco d'azzardo ed altri svaghi fra cui il principale restava il sesso: alla
dinastia di Regine non importava tanto dominare una città seria ed opero-
sa, quanto una città dove i cuori degli uomini non conoscessero emozioni
pericolosamente vive.
Fermandosi al centro del locale, Kron annunciò il mio arrivo ai compo-
nenti lo stato maggiore della rivoluzione, ed invitò tutti i presenti ad un
brindisi, usanza questa che aveva appreso dagli stranieri. Gli uomini si
alzarono.
«Tal, guerriero!», tuonarono le loro voci.
«Tal a voi, combattenti della libertà,» risposi, agguantando un boccale.
Bevemmo il vino tiepido, e quello fu il solo momento in cui ogni bocca
rimase chiusa. Accanto a me anche Andreas, Lara e Linna avevano ricevu-
to il kal-da e sorridevano lietamente. Mi chiesi che impressione facesse
quella taverna alla bionda Regina. Ovviamente nessuno degli uomini ave-
va il minimo sospetto sulla sua identità, ed io non avevo intenzione di rive-
larla. Non ancora, almeno. Nei suoi occhi si leggeva una comprensibile
preoccupazione in merito, e stava cercando fra un sorriso e l'altro d'inviar-
mi degli sguardi d'intesa.
«Stai tranquilla. Comportati come una popolana e non parlare troppo,»
le sussurrai in un orecchio.
La ragazza annuì. Kron ci prese per le braccia e ci pilotò al tavolo di
centro del locale, davanti all'orchestrina. Mentre sedevamo, gli occhi di lei
guizzavano da una parte all'altra, colmi di stupore, e compresi che per lei
quelli non erano più uomini di Tharna ma gente nuova e sconosciuta, i cui
modi forse non le spiacevano affatto, ed anzi, la facevano sorridere.
Molti erano gli occhi che si fermavano sul suo volto, e se gli sguardi
d'ammirazione che le piovevano addosso non le causavano imbarazzo, ciò
era semplicemente perché non ne comprendeva ancora il pieno significato.
Aveva molto da imparare dalla vita, e pensai che stesse cercando di co-
struirsi una nuova personalità con tenacia ammirevole.
«Hai fatto un errore,» le mormorai. «Guarda Linna.»
La brunetta non aveva osato sedersi: com'era costume delle donne gore-
ane nei locali pubblici, si era inginocchiata a terra, accanto alla seggiola di
Andreas. In Ko-ro-ba, molti anni addietro, mio padre aveva emesso un'or-
dinanza con cui sì concedeva alle donne di sedere come gli uomini, essen-
do quanto mai antipatico trovarsi al fianco una ragazza piazzata a quel
modo umile sul pavimento. Ma altrove quello era l'uso, e non si poteva
sgarrare. Lara fu svelta ad inginocchiarsi come l'altra, e le due si sorrisero
attraverso il tavolo per consolarsi a vicenda.
«Vino per tutta la clientela, oste dannato!», gridò Kron.
Il gestore doveva aver sentito quella frase cento volte almeno negli ulti-
mi giorni, e con voce ancor più forte ribatté: «Ah, sì? E chi paga?»
«Paga la rivoluzione!», ghignò il biondo.
Ma Andreas si tolse di tasca quello che era senza dubbio un denaro d'oro
e lo lanciò all'uomo, che l'afferrò al volo con l'abilità che già gli conoscevo
e fece un sorriso largo quanto il bancone.
«Un Cantastorie che offre da bere?», esclamai, esibendo un'enorme sor-
presa. «Ora ho proprio visto tutto!»
«L'oro scorre come il sangue, di questi tempi,» commentò lui.
Notai che sui tavoli c'erano scarsissime cibarie: due soli tipi di verdure e
poca carne. Le risorse alimentari di Tharna erano state distrutte dagli stessi
schiavi, che ora rischiavano di pagarne le conseguenze. Anche il kal-da era
più scadente che mai. Per loro fortuna gli uomini avevano voglia di stare
allegri e non ci badavano troppo.
Le sorprese non erano però finite. Kron batté le mani tre volte, e dietro
una tenda ci furono dei movimenti. Sentii un tintinnio di campanelli, quin-
di fui costretto a sbarrare gli occhi: nello spazio fra noi e l'orchestrina era-
no comparse quattro fanciulle terrorizzate, vestite di seta scarlatta e scelte
senza dubbio per la loro avvenenza, che qualcuno aveva fatto agghindare
come danzatrici. Ad un segnale sonoro del capo musicante alzarono le
braccia, gettarono indietro la testa e cominciarono a ballare con movenze
inesperte ma di ottimo effetto. Per quanto fossero evidentemente delle no-
velline, sapevano agitare i campanelli fissati ai fianchi ed alle caviglie con
apprezzabile tempismo, ed un applauso le incoraggiò a darci dentro.
Cercai gli occhi di Lara per vedere che reazione provocava in lei quella
scena, e restai perplesso nell'accorgermi che ne appariva divertita.
Diedi di gomito ad Andreas. «Dove siete riusciti a procurarvi delle
Schiave del Piacere?», chiesi, usando la più comune espressione goreana.
Avevo notato che ciascuna di loro portava un elegante collare d'argento.
Il Cantastorie si era fatto portare una pietanza e v'intingeva il pane. A
bocca piena fece un sogghigno. «Dietro ogni Maschera d'Argento c'è una
potenziale Schiava del Piacere. Ne abbiamo catturate una ventina e messe
a fare il primo lavoro utile della loro vita.»
«Andreas!», gridò Linna, dandogli su un braccio uno schiaffo che gli fe-
ce volar via il pane.
«Scusa, tesoro mio.» Il giovanotto si girò a sbaciucchiarle un orecchio
ed il collo finché la brunetta non si decise ad abbandonare l'aria offesa.
«Sul serio quelle sono Maschere d'Argento?», domandai a Kron.
Lui mi fece l'occhiolino. «Sicuro. Belle figliole, vero?»
«E dove hanno imparato a ballare?»
«È nell'istinto delle femmine, no?», borbottò lui.
Dovetti reprimere un sorriso. Kron aveva espresso la tipica opinione del
maschio medio goreano. E tuttavia anche questo era una specie di progres-
so, considerando che il fabbro era stato educato a Tharna...
«Ma perché queste ragazze danzano?», chiese ingenuamente Lara.
«Perché se non lo facessero si prenderebbero una razione di frustate. Ec-
co perché!», fu la risposta di Kron.
Lara sbatté le palpebre, senza capire. Il fabbro le spiegò: «Vedi cos'han-
no intorno alla gola? È un collare. Abbiamo fuso le loro maschere d'argen-
to per farne collari da schiava.» E ridacchiò.
Da lì a poco lungo la scala che portava al piano superiore apparvero altre
cinque ragazze, vestite soltanto col camisk ed il collare, ed il gestore le
spedì subito a servire ai tavoli sbraitando ordini. Erano anche queste piut-
tosto carine, silenziose e decisamente spaurite. Ciascuna manovrava un
pesante vassoio di legno e, nell'aggirarsi fra gli avventori, sopportava oc-
chiate con l'imbarazzata umiltà delle schiave novelle.
Un paio di loro lanciarono occhiate d'invidia a Lara ed a Linna, ma le al-
tre le fissarono addirittura con odio. Sembravano dirle: perché voi non
portate il collare? Perché non servite questi uomini come siamo costrette a
fare noi?
Con mio grande sbalordimento, Lara si tolse il mantello di lana, si alzò
in piedi e prese il vassoio dalle mani di una delle ragazze. Poi cominciò a
portar da bere ai clienti facendo la spola fra il banco di mescita ed i tavoli.
Le schiave fecero tanto d'occhi, quindi apparvero sollevate e colme di
muta gratitudine, perché con quel gesto la bella bionda stava dicendo loro
che non si considerava superiore, né privilegiata per il fatto d'essere libera.
«Che ne dici?», chiesi a Kron. «Non ti sembra che la mia amica sia una
vera Regina?»
Il fabbro annuì con ammirazione. «Quella sì che è una femmina, guerrie-
ro. La eleggerei volentieri Regina della Rivoluzione.»
Andreas sollevò il boccale. «Alla Regina della Rivoluzione, allora!», e-
sclamò. «E possa Dorna crepare d'invidia. A proposito, Tarl, come si
chiama la tua biondina?»
Non risposi, aiutato in questo anche dal fatto che d'improvviso Linna s'e-
ra alzata. Dopo aver lanciato ad Andreas un'ironica occhiata di sfida, la
brunetta prese a servire ai tavoli come Lara.

Quando Kron si fu stancato d'ammirare le danzatrici, batté le mani tre


volte, e le ragazze tornarono di corsa dietro la loro tenda con un tintinnio
di campanelli. A quanto avevo capito, il biondo era considerato da tutti il
capo indiscusso.
Si volse a me, brandendo il boccale. «Andreas mi aveva detto che eri
partito per andare sulle Montagne di Sardar. Come mai hai cambiato ide-
a?»
Evidentemente il fatto che fossi ancora vivo significava per lui che non
mi ero neppure accostato a quella zona. Risposi: «La mia intenzione è an-
cora quella di andarci. Ma prima ho una cosa da fare qui a Tharna.»
«Ottimo!», approvò. «La tua spada ci servirà, guerriero. Quale affare
devi sbrigare?»
«Voglio rimettere la Regina Lara sul trono della città,» dissi.
Kron e Andreas mi fissarono allibiti. «Ci stai prendendo in giro?»
Il fabbro aggiunse subito: «Non se ne parla neanche. Io non so cosa ti
abbia messo in testa un'idea tanto pazza, però un fatto è certo: noi non vo-
gliamo più Regine a Tharna!»
«Ragiona, Tarl,» protestò Andreas. «Lei è tutto ciò contro cui abbiamo
combattuto. Se dovesse tornare sul trono, sarebbe non solo una sconfitta,
ma anche una beffa. Tharna tornerebbe come prima, e la rivolta sarebbe
stata peggio che inutile.»
«Tharna non tornerà mai più come prima. Quei tempi sono finiti per
sempre!», dichiarai.
«Può darsi,» disse Andreas. «E magari ci farò sopra una canzone. Ma
non credo che piacerebbe molto agli ex schiavi, se il suo finale fosse quel-
lo che proponi tu.»
Osservai Kron e vidi che annuiva a denti stretti. La sua allegria se n'era
andata. Capivo benissimo quel che stava pensando, e non avevo dubbi che
dal suo punto di vista la mia decisione fosse insensata.
«Niente da fare!», ripeté, duro. «Se è questo che vuoi, dovrai prima uc-
cidermi.»
«Tu sei uno dei miei compagni della Catena 24 Ovest. Non parlare co-
sì.»
Il biondo tacque per un poco, poi i suoi occhi azzurri si piantarono nei
miei. «È vero. Né tu né io possiamo dimenticarlo.»
«Allora lasciami parlare.»
La nostra conversazione era stata seguita anche da altri sette od otto uo-
mini, i maggiori caporioni della rivolta cittadina. Girarono le sedie e le
panche verso il nostro tavolo, e ci si fecero attorno con espressioni gravi.
Li guardai in volto uno dopo l'altro.
«Voi siete uomini di Tharna,» dissi. «Ma non dovete dimenticare che
anche i guerrieri al servizio di Dorna sono nati in questa città.»
«E chi lo dimentica?» bofonchiò uno. «Mio fratello è nelle Guardie di
Palazzo.»
«Allora ditemi questo: è una buona cosa che combattiate fra amici o ad-
dirittura fra consaguinei?»
«Non siamo animali,» ringhiò Kron. «A nessuno piace questo. Però, co-
s'altro si può fare?»
«La soluzione è una sola,» affermai. «I guerrieri e le Guardie di Palazzo
hanno giurato fedeltà alla Regina. Ma la Regina per cui si stanno battendo
è un'usurpatrice. L'unica che ha diritto legale al trono è Lara.»
«Ma lei è scomparsa più d'un mese fa, lo sanno tutti,» mi corresse una
voce. «Non c'era una figlia che potesse essere sua erede, e la legge preve-
deva che sul trono salisse l'Eletta di Tharna. Ora la Regina è Dorna, questa
è la realtà.»
«Ti sbagli, amico. Lara non è affatto scomparsa per sempre. Si trova in
città. Anzi ti dirò di più... È qui, in questo locale.»
D'istinto Kron si volse a guardare le cameriere, poi la tenda dietro cui
stavano le danzatrici. Mi fissò accigliato, probabilmente senza credermi.
«Ah, sì? Allora dovrà essere giustiziata. Finché Lara è viva, la rivolu-
zione non può dirsi vinta. Anche se al potere c'è Dorna.»
«Questo non è necessariamente vero,» obiettai.
«Deve morire!», ripeté il biondo.
«No. Anche lei ha conosciuto la frusta ed il collare da schiava. Ora Lara
sa cosa sono le catene e perché è necessario spezzarle.»
Dai presenti si levarono mormorii di meraviglia e d'incredulità. Alcuni
ridacchiarono e scossero il capo.
«Ascoltatemi: bisogna che i guerrieri di Tharna sappiano che Dorna è
un'usurpatrice, e che Lara è con noi ...Sì, con noi. Soltanto questo li con-
vincerà che battersi non è più un fatto d'onore.»
Kron osservò ancora le ragazze intente a servire ai tavoli. «Se davvero
Lara è in questa taverna, non ne uscirà viva,» dichiarò.
«Invece deve vivere!», esclamai. «Solo lei può imporre dei veri cam-
biamenti in città. Solo lei può unire ribelli e guerrieri sotto un'unica ban-
diera di libertà, nuova e diversa. E lo farà, ve lo giuro, perché ha capito
quanto crudele e misera fosse la vita fra queste mura. Guardatela!»
Le ragazze si erano immobilizzate. Uno dei musicanti scostò la tenda
dietro cui sedevano le danzatrici, che ci sbarrarono addosso occhi colmi di
timore. Fra loro non ce n'era una che avesse l'aria d'essere stata la domina-
trice di Tharna.
«Lara ha diritto a una seconda possibilità,» dissi.
«Dopo che abbiamo versato il sangue per la sua ingiustizia?», sbottò
Kron.
«No. Abbiamo combattuto contro leggi ingiuste, contro una società in-
giusta, e non contro una ragazza giovane.»
Il fabbro batté un pugno sul tavolo. «Lei portava la maschera d'oro. Lei
era il potere!»
Un po' esitanti, le cameriere ripresero a servire ai tavoli. Kron si spostò
per consentire che Lara gli deponesse davanti un altro boccale di kal-da, e
la ragazza ne consegnò uno a ciascuno di noi.
Il biondo la guardò con un sorriso. «Tu cosa ne pensi? È giusto o no che
quella femmina paghi per le sue colpe? Sentiamo il parere di una donna.»
«Chi ha sbagliato deve pagare... Oppure riparare,» rispose lei.
«Metteremo te sul trono, occhi di cielo,» disse Andreas. «Ti va l'idea?»
«Sì,» mormorò lei. «Però non porterò mai più la maschera d'oro. Mi ha
sempre dato un gran fastidio, se proprio volete saperlo.»
Kron rimase come paralizzato a guardare il suo bel viso, dove non si
leggevano né paura né orgoglio, ma solo l'ombra d'un sorriso un po' timi-
do.
«Mia Regina...», sussurrò. «Mia Regina!»
Nella taverna vi fu un interminabile minuto di silenzio, poi Lara s'avvi-
cinò all'orchestra. Salì sul podio.
«Non vi prometto nulla, cittadini. Le campagne sono distrutte, la città è
in miseria, e tutti noi siamo poveri. Però potremo ricostruire ...Abbiamo la
possibilità di trasformare Tharna in una città nuova. Vi sarà un Consiglio
delle Alte Caste, come nelle altre città, e le nostre istituzioni muteranno.
Voi formerete libere famiglie, e queste famiglie avranno figli ad educare i
quali chiameremo gli Scrivani e gli Adepti come avviene altrove. Io non
sono stata una buona Regina, e forse non lo sarò neppure in futuro. Dipen-
derà anche da voi, che siete il cuore e l'anima della città.»
«E che ne sarà degli schiavi dei campi e delle miniere?» domandò una
voce. «Forse li rimetterete al lavoro, tu e le tue Maschere d'Argento?»
Gli occhi della ragazza ebbero un lampo. «Non vi saranno più Maschere
d'Argento, se riusciremo a sconfiggere Dorna. E da questo momento io
dichiaro illegale il collare, la tunica da schiavo, la catena e la frusta! Thar-
na diventerà la città della libertà.»
Un coro di grida entusiaste accolse le sue ultime frasi. Poi, con loro me-
raviglia, le danzatrici e le cameriere si videro circondate da gruppetti di
uomini che tolsero loro i collari d'argento e li spezzarono.

Il mattino dopo uscimmo dalla torre dove aveva sede la taverna, e Kron
radunò gli uomini. Subito ci mettemmo in marcia verso il Palazzo della
Regina, alla testa di un'autentica fiumana di ribelli armati. Voltandomi,
vidi le strade così piene di folla da sembrare incapaci di contenerla, e lance
che si agitavano come migliaia di steli d'erba al vento. Ci attendeva una
giornata durissima, sanguinosa, a meno che non fossi riuscito a dare alla
battaglia di Tharna la piega che speravo, ma tutti intonavano canzoni e
slogan bellicosi, e su ogni faccia si poteva leggere che quella sarebbe stata
la mattina decisiva.
In testa a quel disordinato esercito procedeva un quintetto ancor più ete-
rogeneo: Kron, un fabbro armato di martello; Andreas, un Cantastorie va-
gabondo; io, un fuorilegge senza patria condannato dai Re Sacerdoti; ed
una ragazza dai lunghi capelli d'oro che camminava a testa alta, libera e
fiera, e nei cui occhi brillava la voglia di vivere e di conoscere il nuovo
mondo che aveva scoperto dentro di sé.
Fin dall'inizio i nostri movimenti erano stati osservati dai grifonieri in
volo sulla città, e le forze difensive schierate intorno al palazzo erano certo
state informate che i ribelli avevano smesso di comportarsi come razziatori
per adottare una tattica più decisa.
Appena giunto all'imbocco della strada che conduceva alla torre della
Regina, vidi che fra i muraglioni laterali erano state erette tre imponenti
barricate di solide travi. La più vicina era larga sessanta metri ed alta quat-
tro, la seconda larga una quarantina ed alta cinque, mentre la terza, eretta
dove i muri si stringevano a formare un triangolo sul cui vertice c'era la
minuscola porta d'acciaio, raggiungeva i sei metri d'altezza. Subito alzai le
braccia, ordinando agli uomini di arrestarsi.
I tre sbarramenti apparivano munitissimi, tutt'altro che improvvisati ed
anzi costruiti come mura, sulla cui sommità erano appostati non meno di
duecento arcieri. Giudicai che dietro di essi vi fossero a dir poco altri cin-
quecento uomini.
«Indietro, indietro!», gridai. «Tutti si fermino!»
A forza di urla e di imprecazioni facemmo arrestare l'esercito, la cui
massa ci stava spingendo pericolosamente avanti. Appena gli uomini si
furono attestati su quella posizione, mi feci consegnare uno scudo ed una
lancia, in aggiunta alla mia spada, e procedetti da solo verso il primo sbar-
ramento.
Sul tetto del poderoso edificio cilindrico potei scorgere le teste di nume-
rosi grifoni, piazzati lassù dai loro conduttori. Non mi preoccupavano mol-
to, visto che centinaia dei nostri disponevano di archi e lance. Fino a quel
momento i grifonieri avevano evitato di portare attacchi al suolo fra le tor-
ri, cosa che per loro si sarebbe risolto in un suicidio, e contavo che conti-
nuassero a tenersi alla larga. Mi aspettavo che usassero le possibilità d'at-
tacco dei grandi rapaci solo come ultima risorsa.
Arrivato ad un'ottantina di metri dalla barricata, abbassai lo scudo e bat-
tei la lancia a terra, nel gesto che significava la richiesta di una tregua mo-
mentanea. Sulla cima del primo sbarramento un guerriero che era stato
accovacciato fino a quel momento su una passerella, si alzò in piedi e, seb-
bene portasse l'elmetto, lo riconobbi dalle movenze: era il capitano Thorn.
Abbassando anch'egli lo scudo, fece cenno che mi avvicinassi.
Il percorso mi parve dieci volte più lungo, soprattutto perché non mi fi-
davo di quell'uomo. Era un guerriero, e dunque legato al codice d'onore,
ma già una volta si era dimostrato più proclive ad ubbidire agli ordini di
Dorna che alle regole della sua Casta. Essere sotto la mira dei suoi arcieri
non mi rallegrava lo spirito.
Quando però fui ai piedi della barricata e potei guardare negli occhi i
guerrieri appostati sulla passatoia dietro di essa, vidi che avevano ben
compreso il senso della mia mossa: sebbene Thorn e Dorna fossero infidi,
difficilmente gli altri avrebbero commesso l'azione infamante di colpire a
tradimento un parlamentare.
Il capitano si tolse l'elmetto. «Tal, guerriero!».
«Tal, capitano di Tharna!», lo salutai anch'io.
L'uomo aveva più che mai un aspetto deciso e battagliero e, nel vederlo
in faccia, pensai che i recenti scontri l'avevano reso più duro e virile di
come lo ricordavo. Portava i capelli annodati in due trecce laterali che gli
scendevano sulle spalle, e dietro la nuca uniti in una coda di cavallo alla
mongola. I suoi occhi un po' obliqui mi fissarono con intensa ostilità.
«Avrei fatto meglio ad ucciderti alla Colonna degli Scambi,» esordì.
Ignorando il suo tono sprezzante, parlai a voce alta, per farmi ascoltare
da tutti i guerrieri riuniti oltre quel vallo:
«Nel nome della Regina Lara, unica ed indiscussa sovrana di Tharna, io
vi ordino di deporre le armi. È desiderio della Regina che non scorra più il
sangue fra il suo popolo. Voi avete ricevuto la spada di guerriero dalle
mani di Lara, giurandole fedeltà e ubbidienza, ed ella ora domanda che
osserviate il codice d'onore della vostra Casta. Chiunque difenda l'usurpa-
trice Dorna, è un traditore. La Regina mi manda da voi perché riconosciate
immediatamente il vostro errore, e garantisce il perdono a chi abbandonerà
subito colei che le ha rubato il trono.»
Il mormorio che si levò dietro gli sbarramenti m'informò che le mie pa-
role avevano colpito quegli uomini. Thorn strinse i pugni, e rispose a voce
ancor più alta della mia:
«Tu menti! Lara è morta. Dorna è la sola Regina della città!»
«Io vivo, invece!», gridò una voce alle mie spalle.
Mi voltai e vidi con disappunto che Lara era corsa avanti, sfidando tutti
gli archi puntati su di noi. Una freccia isolata, scagliata contro di lei che
non era protetta dalla tregua formale, e la città avrebbe visto continuare il
massacro fino alla sua completa distruzione.
Thorn la guardò con una freddezza che dovetti quasi ammirare. Tutto
doveva essersi aspettato, salvo che trovarsi di fronte la ragazza non soltan-
to libera ma alla testa dei suoi stessi ex schiavi.
«Non è Lara!», gridò, rivolto ai suoi uomini. «Non facciamoci ingannare
da questo trucco!»
«Io sono Lara, razza di serpente. E tu lo sai!», esclamò ella.
«Ah, sì? Ma le Regine di Tharna portano la maschera d'oro, e non si fa-
rebbero mai vedere col volto scoperto come le schiave o le donnette dap-
poco,» la derise lui. «Non te l'avevano detto, forse?»
«Non parlarmi così! D'ora in avanti non vi saranno più maschere per le
donne di Tharna. Questo lo stabilisco e lo ordino io, Lara, tua Regina e
Signora!», rispose seccamente lei.
«Dove avete raccolto quest'imbrogliona? Quanto denaro le avete pro-
messo?», gridò Thorn, sempre a beneficio dei suoi uomini.
«L'ho liberata dalla schiavitù,» risposi.
L'uomo rise forte e molti altri si unirono a lui, sghignazzando aperta-
mente.
«La schiavitù a cui l'avevi condannata tu!», continuai. Poi mi rivolsi an-
cora ai guerrieri: «Io sono l'uomo che rapì la vostra Regina nel giorno dei
Giochi. Io stesso la portai quella sera alla Colonna degli Scambi per otte-
nere il riscatto, e in quel luogo incontrai il capitano Thorn e Dorna con
altri due guerrieri. Subito dopo venni catturato con un tranello e fui portato
alle miniere. Ma Lara non poté rientrare in città, perché Thorn e Dorna la
condussero in volo al mercato degli schiavi di Ar. Laggiù la Regina fu
venduta ad un mercante di nome Targo, il cui accampamento è oggi alla
Fiera di En'Kara. Ed è stato da questo mercante che io l'ho acquistata, per
ridarle la libertà ed il trono.»
«Bugie e fantasia!», urlò Thorn.
«Dalla vendita di Lara i due traditori ricavarono cinquanta denari d'oro,»
dissi. «E mi è stato rivelato dai dipendenti del mercante Targo che in Ar
Dorna se li fece incastonare in una collana. A questo giunse la sua spudo-
ratezza.» La cosa mi era stata riferita dal guercio, prima che lasciassimo le
tende del mercante.
Subito sulla sinistra della barricata s'alzò una voce: «Dorna porta una
collana fatta con cinquanta denari d'oro, è vero. E prima di questi fatti nes-
suno gliel'aveva mai vista.»
«Menzogne e stupidaggini!», inveì Thorn, facendosi paonazzo. «Chi ha
parlato? Questo è tradimento!»
«Voi tutti l'avete udito dire poco fa che gli sarebbe piaciuto uccidermi
alla Colonna degli Scambi. Questo vi conferma che c'incontrammo là. E
voi sapete in quale giorno egli vi andò.»
«Sicuro!», confermò una voce. «Dicci perché hai preso con te solo due
guerrieri in quell'occasione, Thorn. Molti se lo chiesero.»
Il capitano volse il capo per identificare l'autore della domanda, treman-
do di furia.
Fui io a rispondere. «Non è ovvio? Lui e Dorna volevano che quella ma-
novra restasse segreta. E, se non osarono uccidere la Regina, non fu certo
per bontà d'animo: essi sapevano che una donna di Tharna avrebbe sofferto
molto più per la schiavitù in una città straniera che per una pugnalata nel
cuore.»
Sulla barricata si alzò un altro guerriero e, quando costui si tolse l'elmo,
riconobbi il ragazzo che avevamo incontrato sulle mura. Appariva un po'
debole, ma la sua voce suonò squillante:
«Quel guerriero dice la verità, ed io gli credo!»
«È un tranello per dividerci,» latrò Thorn. «Torna al tuo posto o ti farò
giustiziare!»
Il ragazzo non si mosse. Altri nove o dieci guerrieri si levarono in piedi,
a sostegno della sua affermazione.
«Ai vostri posti, canaglie!», gridò il capitano.
«Voi siete della Casta dei Guerrieri,» li arringai io. «La vostra spada è
legata all'onore di questa città e agli ordini di una sola persona: la Regina.»
«Io ubbidisco alla Regina Lara!», decise il giovane guerriero.
Con un'agilità che non mi aspettavo, date le sue condizioni fisiche, si ca-
lò giù dalla palizzata e corse a inginocchiarsi davanti a Lara, deponendo la
spada ai suoi piedi.
Lei sorrise. «Riprendi la spada, guerriero. Tu la impugnerai per me, co-
me hai giurato.»
«Fino alla morte, mia Signora!», esclamò lui, rialzandosi. Si volse quin-
di a Thorn, levando l'arma sulla sua testa. «Nel nome di Lara, Sovrana di
Tharna, io terrò fede al codice della mia Casta. Tu, traditore che difendi
un'usurpatrice, getta le armi e preparati a rispondere delle tue colpe!»
«Quella donna non è Lara!», abbaiò ancora il capitano.
«E tu come fai ad esserne tanto sicuro? Forse vuoi darci a intendere che
conoscevi il suo volto?», lo rimbeccò uno dei guerrieri.
La domanda era astuta perché, se Thorn avesse risposto di sì, avrebbe
implicitamente ammesso d'averle strappato la maschera con la forza e, se
avesse risposto di no, la sua ostentata sicurezza sarebbe stata inspiegabile.
Infatti l'uomo non seppe cosa ribattere e rimase zitto.
«Non voglio che abbiate dubbi su di me,» disse Lara con calma. «Fra
voi c'è qualcuno che ha servito nella sala della Maschera d'Oro? Se è così,
si faccia avanti e dica se riconosce la mia voce.»
«È la Regina!», gridò un altro, levandosi l'elmetto. «Non ho dubbi, com-
pagni. Troppe volte l'ho sentita parlare per sbagliarmi.»
«Tu sei Stam,» disse lei. «Caposquadra alla porta settentrionale. Mi fosti
segnalato perché sai scagliare la lancia più lontano di chiunque altro fra i
miei guerrieri. E alla Fiera di En'Kara, nel secondo anno del mio regno,
vincesti la gara di lancio con quest'arma.»
Il guerriero che stava accanto a Stam si liberò dell'elmo, e Lara puntò un
dito anche verso di lui.
«E tu ti chiami Tairis, grifoniere, ferito in un'incursione contro la città di
Thentis l'anno prima che io salissi al trono.»
«Ed io chi sono?», chiese un terzo, scoprendosi il capo.
La ragazza si accigliò. «Non ti riconosco,» disse, dopo una pausa d'in-
certezza.
Parecchi, guerrieri fecero udire un mormorio di delusione. Ma l'uomo
aggiunse: «E infatti non puoi conoscermi. Sono un mercenario proveniente
da Ar, ingaggiato dopo che fosti rapita.»
«Onore alla Regina Lara!», gridò uno dei militi, saltando giù dalla barri-
cata e mettendo la spada ai piedi della ragazza.
Lei gliela rimise in mano con un sorriso. Ma intanto il grido del guerrie-
ro veniva ripetuto da una quantità di bocche e, dietro agli sbarramenti, vi
fu un rumore di travi che venivano rimosse. Dieci secondi dopo, una se-
zione della barricata fu rovesciata a terra, ed altre vennero tolte e spinte di
lato.
«Onore alla Regina Lara! Morte all'usurpatrice!», si gridava da più parti.
I guerrieri a difesa del Palazzo erano circa settecento, e tutti s'inginoc-
chiarono rispettosamente. La ragazza fece loro cenno di rialzarsi, poi si
voltò e sollevò le braccia in direzione di Kron e delle prime file dei ribelli.
«Uomini di Tharna, mio popolo!», li chiamò con voce chiara. «Venite ad
abbracciare i vostri concittadini, e sia la pace entro le nostre mura!»
Vidi con soddisfazione che la sua attitudine al comando non era poi mu-
tata troppo. Il suo volto fiero e bellissimo le conferiva molto più fascino
carismatico della maschera d'oro, cosa che lei sembrava aver compreso
alla perfezione. Thorn era nel frattempo scomparso dietro i resti della bar-
ricata, e non riuscii a vedere dove si fosse cacciato.
La strada si stava riempiendo di uomini, ed i guerrieri e i ribelli frater-
nizzavano, si abbracciavano e facevano confusione. Per gli ex schiavi pro-
venienti da altre città ciò significava solo la conclusione di una rivolta, ma
per gli uomini di Tharna era la fine d'una lotta fratricida che a nessuno era
certo piaciuta.
Con un braccio attorno alle spalle di Lara, oltrepassai le tre barricate, se-
guito da Kron, da Andreas e Linna, e numerosissimi fra soldati ed ex ribel-
li. Il Cantastorie mi sorrise, però avrei scommesso che non vedeva l'ora di
deporre lo scudo e la lancia per sostituirli con una cetra. Davanti alla pic-
cola porta che dava accesso al palazzo, mi fermai, e chiesi che portassero
una torcia.
Tenendo alto lo scudo, spinsi il battente d'acciaio che era socchiuso, e
questo si aprì a rivelare soltanto la tenebra più completa ed il silenzio. At-
tesi che gli uomini mi consegnassero una torcia accesa e quindi illuminai
l'interno. Il pavimento appariva solidissimo, ma per precauzione non vi
poggiai i piedi; ordinai invece che si stendessero al suolo due travi lunghe
una decina di metri tolte dalla palizzata, e solo allora mi avventurai nello
strettissimo corridoio. Stavolta la trappola non scattò, tuttavia non intende-
vo correre rischi.
«La Regina non deve ancora entrare, non è prudente. Aspettatemi fuo-
ri!», ordinai agli altri.
Ci furono proteste ed avvertimenti in tono allarmato, però Lara e Kron
avevano imparato a darmi retta senza discutere e tennero all'esterno gli
uomini. Proseguii da solo nel cunicolo e poi per un passaggio più ampio,
finché non giunsi in un corridoio spazioso. Non c'era anima viva e non
sentivo rumori di alcun genere.
Andai avanti un po' a caso attraverso varie stanze collegate da brevi cor-
ridoi, chiedendomi dove fosse la sala della Maschera d'Oro, accompagnato
solo dall'eco dei miei passi. Le lampade che vedevo erano tutte spente, ed
avrei detto che nel palazzo non c'era più nessuno. Ad un tratto, in fondo ad
un ultimo corridoio, scorsi un portone socchiuso e più oltre una luce viva.
Spostai il battente e mi trovai nella sala del trono, ben illuminata da doz-
zine di torce fissate alla pareti. Su quella di fondo campeggiava l'enorme
effigie d'oro, e davanti al grande simbolo regale, assisa sullo scranno mas-
siccio, c'era una donna che indossava la maschera aurea e gli indumenti di
stoffa dorata della Regina di Tharna. Stava zitta e immobile. Sul suo petto
pendeva la collana fatta di cinquanta denari d'oro, ed i suoi occhi erano
imperscrutabili.
Di fronte a lei, al centro della sala, c'era un guerriero con l'elmo blu sot-
tobraccio, armato di scudo e di lancia. Era Thorn. L'uomo voltò il capo a
guardarmi, poi si rimise l'elmo senza fretta. Impugnata saldamente la lan-
cia, si assicurò d'avere lo scudo ben fissato all'avambraccio sinistro, e rise
brevemente.
«Ti stavo aspettando!», disse.

Capitolo 25
SUL TETTO DELLA TORRE
Il grido di battaglia di Tharna e quello di Ko-ro-ba echeggiarono assieme
sotto il soffitto a volta, quando Thorn ed io ci gettammo di corsa l'uno con-
tro l'altro.
Entrambi scagliammo la lancia nello stesso istante, imprimendo all'arma
la più devastante violenza: le due aste di legno saettarono tanto vicine da
sfiorarsi a mezza strada, e poi impattarono sonoramente sullo scudo che
ciascuno di noi aveva subito sollevato.
La punta in bronzo dell'arma del mio avversario sfondò come carta i set-
te strati di cuoio martellato del mio scudo, sbucando a pochi centimetri dal
braccio con cui lo sostenevo e rimanendo incastrata nello spessore. Con
un'imprecazione lasciai cadere a terra quell'arnese, diventato ormai ingom-
brante; ma intanto anche il capitano di Tharna si era visto obbligato a libe-
rarsi dello scudo, perché la mia lancia l'aveva oltrepassato fino a metà del
manico.
Sfoderammo le spade e, senza quasi tirare il fiato, ci affrontammo con
furia selvaggia, in un duello fatto di larghi fendenti di diritto e di rovescio.
Nessuno di noi si concesse finezze da scuola di scherma: miravamo a tran-
ciare la carne e le ossa, ed il suono delle due affilate lame di bronzo che si
scontravano, era vibrante come quello d'una campana. Era la musica incal-
zante e terribile che accompagna un ballo mortale. Cinque volte avventai
l'arma mirando ai fianchi ed all'elmo, e quindi fu lui a tentare quattro pode-
rosi colpi sia alti che bassi ma, al termine di quei lampeggianti semicerchi
di metallo, la lama urtò solo l'altra lama. I contraccolpi erano così forti che
mi si ripercuotevano nella colonna vertebrale.
Del tutto impassibile, assente come una statua, la donna dalle vesti d'oro
sedeva sul trono osservando attentamente lo scontro. Di fronte a lei un
guerriero in tunica grigia ed elmo blu affrontava un fuorilegge vestito di
una consunta tunica rossa. Si rendeva conto che la sua stessa vita dipende-
va dall'esito di quel duello? Gettandole un'occhiata, vidi le nostre due figu-
re riflesse sulla sua fredda e liscia maschera aurea. Le torce proiettavano
sulle pareti le ombre sfumate dei corpi e delle spade, trasformandole in
scuri giganti alti fino al soffitto che lottavamo in un mondo di titani a due
dimensioni.
Ma Thorn non era un titano né un gigante: imprimendo una rotazione al-
la spada, colpii la sua di sbieco, le lame scivolarono l'una sull'altra e la mia
spezzò di netto l'elsa che gli proteggeva la mano. Il fendente gli tagliò via
tre dita, e la sua arma cadde al suolo: un istante più tardi, gli affondai la
spada nel petto spietatamente. L'uomo si rovesciò sul pavimento a braccia
spalancate, ed una chiazza di sangue s'allargò sulle mattonelle sotto di lui.
La vita gli sfuggiva da quella terribile ferita, ed i suoi occhi obliqui fissa-
rono il soffitto come se vedessero qualcosa al di là di esso. Ma io non an-
simavo neppure. Avevo incontrato avversari ben più validi di lui.
«Ti sei battuto bene,» dissi, come imponevano il mio ed il suo onore.
Con una certa sorpresa vidi che gli restava ancora un filo di vita in cor-
po, perché riuscì a sussurrare: «Idiota... sono io che ho vinto!»
La sua testa ricadde di lato. Era morto. Domandandomi cos'avesse volu-
to dire, lo fissai per un poco. Su quella frase aveva sprecato l'ultimo respi-
ro della sua vita, dunque perché gli era parso tanto importante pronunciar-
la? Scossi le spalle e mi volsi a fronteggiare la donna assisa sullo scranno
d'oro.
Soltanto allora lei si mosse. Lentamente, come trasognata, discese i tre
scalini e venne ad arrestarsi presso il cadavere. Poi si lasciò cadere in gi-
nocchio, poggiò la fronte sul suo petto insaguinato, e nella sale silenziosa
risuonarono accorati e strazianti i suoi singhiozzi.
Ero allibito. Senza far caso a quello che facevo asciugai il sangue della
spada con l'orlo della mia tunica, e la rinfoderai.
«Mi dispiace per il tuo dolore,» dissi.
Lei parve non udirmi neppure. Feci qualche passo verso la grande porta
d'ingresso, per starle lontano e lasciarla un poco sola con la sua angoscia,
un sentimento che per la verità mi appariva inverosimile. Nei corridoi in-
terni sentii il suono di voci e di passi che si avvicinavano lungo il percorso
già seguito da me. I guerrieri ed i ribelli stavano entrando nel palazzo, evi-
dentemente preoccupati per la mia sorte.
Anche la donna udì i rumori e rialzò il capo. Dietro quei fori ovali, i suoi
occhi luccicavano di lacrime, e le lacrime della gelida cospiratrice che a-
veva giocato la carta del potere e dell'ambizione erano l'ultima cosa che mi
sarei aspettato di trovare in quell'edificio. Poi parlò, per la prima volta:
«È vero ...Thorn ha vinto la sua battaglia, guerriero,» disse.
«Se è così, la sua è una ben strana vittoria. Ora è andato nella Città dei
Morti. E, in quanto a te, Dorna, sei mia prigioniera.»
Lei ebbe una risata che era la quintessenza dell'amarezza, e scosse il ca-
po. Si portò le mani al viso e con un gesto quasi di disgusto ne strappò via
la maschera d'oro. Soffocai un'imprecazione. Inginocchiata accanto alla
salma di Thorn non c'era Dorna, bensì la ragazza che avevo incontrato
tempo addietro e che il capitano aveva preso come sua Schiava del Piace-
re: Vera di Ko-ro-ba.
«Come vedi, il mio padrone ti ha giocato. Egli sapeva che non era da lui
uccidere Tarl Cabot, ma il suo vero scopo era di guadagnare tempo per
Dorna. Ed ora ella può fuggire.»
«Ma perché ti sei prestata al suo gioco?», sbottai.
Vera si asciugò gli occhi con dita tremanti. «Thorn è stato buono con
me. E per me egli era...»
«Al diavolo, era il tuo padrone!», la interruppi. «Un padrone che ti ha
messo il collare. E adesso torni una donna libera.»
«Io gli ho voluto bene,» mormorò la ragazza, e di nuovo poggiò la fronte
sul petto del cadavere con un gemito penoso.
In quel momento entrarono nella sala venticinque o trenta uomini, pre-
ceduti da Lara e da Kron. Indicai loro la giovane donna chinata al suolo, e
ordinai:
«Lasciatela stare. Non è Dorna, è soltanto una delle schiave di Thorn che
aveva indossato le tue vesti. Si chiama Vera, ed è nativa come me di Ko-
ro-ba. Non voglio che le sia fatto del male.»
«E dov'è Dorna?», ringhiò Kron.
«Fuggita, purtroppo.»
Lara mi si fece accanto. «Ma il palazzo è circondato.»
«Sangue d'un grifone. Al tetto!», esclamai. «Fammi strada, presto!»
Lara corse all'ingresso di un corridoio ed io le tenni dietro. C'era buio
pesto, ma la ragazza conosceva il percorso a menadito e, dopo aver attra-
versato un dedalo di locali, si arrestò alla base di una scala a chiocciola
piuttosto ripida, incassata nella parete esterna dell'edificio.
«Per di qua!», disse, ansando.
La feci scostare e, tenendo una mano poggiata al muro come guida, salii
nell'oscurità, più in fretta che potevo. Dopo almeno cinquecento gradini,
vidi sopra di me la fessura d'una botola, la sollevai, ed un fiotto di luce
accecante mi costrinse a socchiudere gli occhi. Alle narici mi giunse l'odo-
re familiare dei grifoni misto ad un altro meno piacevole. Balzai fuori e mi
trovai sulla piatta sommità della torre.
C'erano tre uomini: due Guardie di Palazzo ed un altro che riconobbi su-
bito come l'aguzzino dalla gonna di pelle che si occupava della sala di tor-
tura negli scantinati del palazzo. E costui teneva alla catena l'urt gigante
con cui a suo tempo avevo avuto a che fare.
I due militi stavano terminando di fissare all'imbracatura d'un grifone dal
piumaggio verde un grosso contenitore di vimini, del tipo usato dagli ine-
sperti per farsi trasportare con maggiore comodità e sicurezza. E nel cesto-
ne stava seduta una donna ammantellata il cui volto era nascosto da una
maschera d'argento.
«Ferma!», ordinai. «Scendi da lì, Dorna. Non illuderti di andare lonta-
no.»
«Uccidi! Uccidi!», gridò l'aguzzino, puntando la frusta nella mia dire-
zione e dando una pedata all'uri.
Un attimo dopo, la spaventosa bestiaccia stava correndo verso di me.
La velocità di quel feroce roditore grosso come un bufalo era tale che in
tre soli salti superò i cinquanta metri di distanza e mi fu addosso, spalan-
cando le fauci. Alzai la spada a due mani, conficcandogliela dritta in gola,
e la sua testa scartò di lato. Nell'aria esplose uno squittio, così acuto che
dovette essere udito anche fuori dalle mura di Tharna, ma l'animale non
parve debilitato dalla ferita e scosse il capo con furia, strappandomi l'arma
delle dita. Una delle sue spalle pelose mi colpì in mezzo al petto e, per non
essere travolto a terra, affondai le mani nel vello puzzolente lasciandomi
trascinare da una parte e dall'altra.
Sentii il clangore della spada che rimbalzava sulla pietra, e mi attaccai
con tutta la mia forza a quel collo massiccio per evitare di venir raggiunto
dai denti lunghi come pugnali. L'urt cercava di scuotermi via per poi az-
zannarmi e, se vi fosse riuscito, mi avrebbe squartato in un batter d'occhio.
Ad un tratto si lasciò cadere a terra e rotolò su sé stesso per schiacciarmi.
Non vi riuscì perché, pur restandogli appeso al collo, gli saltai a piè pari
sul ventre. Quando si rialzò sulle quattro zampe, ero aggrappato al suo
pelame, fuori portata della bocca: allora prese a girare in tondo sgroppando
come un bue al rodeo. Nel frattempo, l'uomo in gonnellino di cuoio aveva
recuperato la mia spada e ci stava seguendo in quel folle carosello, alla
ricerca del momento buono per infilarmela in corpo.
Ero in una posizione difficilissima. Tutte le volte che l'urt volgeva il ca-
po nel tentativo d'addentarmi, dovevo scattare avanti con un ginocchio, per
bloccargli la mandibola, e intanto mi vedevo costretto a compiere sforzi
frenetici per farlo girare ed allontanarmi da lui. Il sangue che colava dalla
bocca del mostruoso roditore m'inzuppava le gambe.
Dopo un paio di minuti buoni di quella danza infernale mi trovai nella
posizione che l'aguzzino aspettava, e sentii l'ansito di soddisfazione con
cui mi venne addosso. Ma, un attimo prima che la spada si affondasse nel-
la mia schiena, mollai la presa e sgusciai sotto la pancia pelosa dell'urt. La
lama s'infilò nel fianco della bestiaccia. Poi una zampata mi fece rotolare
via, e gemetti di dolore. Quando riuscii ad alzarmi in ginocchio vidi, come
in un'allucinazione, l'individuo barcollare di lato con la faccia rossa di san-
gue: l'urt s'era girato ad addentargli la testa, ed ora un occhio gli pendeva
fuori dall'orbita sospeso ad alcuni orribili filamenti rossi.
Balzai in piedi. Però adesso la bestia stava fissando una nuova preda, e
fu su di essa che avanzò ferocemente. Pazzo di dolore, l'aguzzino urlò un
ordine e, indietreggiando, riuscì a colpire con la spada il muso dell'anima-
le. Le fauci gli azzannarono una spalla, mentre una zampata lo rovesciava
al suolo presso il bordo del tetto, e quindi i denti dell'uri gli schiacciarono
il cranio come una noce. L'animale cominciò subito a divorare il corpo del
suo ex padrone, ed io ne approfittai per correre a raccogliere la spada. Misi
tutta la mia forza in quel colpo da spaccalegna: la pesante lama di bronzo
si abbatté fra le orecchie del roditore, aprendogli la sommità del cranio e
facendone schizzare fuori grumi di materia cerebrale. L'urt cadde sul corpo
della sua vittima, squassato da tremiti convulsi.
Volgendomi verso il grifone, vidi che Dorna, nel cesto, teneva in mano
le sei redine. Evidentemente si proponeva di guidarlo da sola, ed un sem-
plice gesto le sarebbe bastato per decollare. Se ancora non aveva tirato la
redine numero uno era solo perché lo spettacolo della mia morte le sarebbe
piaciuto più d'ogni altra cosa al mondo, ma adesso i suoi occhi erano tanto
colmi d'odio da sembrare fusi nel lucido metallo della sua maschera.
«Ammazzatelo!», ordinò ai due guerrieri.
Mi feci avanti pronto a combattere, tuttavia gli uomini non accennarono
minimante ad estrarre le armi contro di me; anzi uno di essi fissò la donna
con malcelato astio.
«Tu hai scelto d'abbandonare la città. D'ora in avanti sarai solo una fuo-
rilegge, un niente,» disse.
«Bestia insolente!», strillò lei. Si rivolse all'altro guerriero e gli comandò
di uccidere il collega.
L'uomo si tolse l'elmo e fece una smorfia seccata. «Non hai più diritto di
dare ordini a nessuno, donna.»
«Traditori! Animali!», sbraitò Dorna.
«Se tu avessi avuto il coraggio di restare a morire nella sala del trono,
noi ci saremmo battuti per te,» osservò ancora il primo.
L'altro aggiunse. «Sei ancora in tempo. Rimani, affronta il tuo destino da
vera Regina, e le nostre spade ti difenderanno. Ma, se preferisci fuggire
come una fuorilegge, noi non ti ubbidiremo.»
«Io vi maledico, traditori!», inveì lei.
Mi ero fermato ad una quindicina di metri dal terzetto e, quando la don-
na tornò a guardarmi, potei sentire l'intensità del suo odio come un feno-
meno fisico, una sorta di radiazione che si sprigionava da lei.
«Il capitano Thorn è morto per te,» dissi.
Dorna rise, stridula. «Quel pazzo! Era uno stupido animale, come tutti
voi.»
Dovetti riflettere che non aveva torto: perché mai Thorn, un guerriero,
aveva abiurato agli obblighi della sua Casta mettendosi al servizio di una
donna simile, se non per pazzia? Aveva complottato, tradito, rinunciato al
suo onore, e per trarne poi quali vantaggi? Anche se tutto fosse andato
secondo i suoi desideri, in Tharna sarebbe rimasto solo un uomo, un essere
considerato inferiore, né avrebbe certo avuto più denaro di quanto non
avrebbe potuto averne servendo fedelmente Lara.
Come se Dorna mi avesse letto nei pensieri, d'un tratto esclamò: «Io
concessi a quel misero animale di adorarmi da lontano, così come si devo-
no adorare gli esseri superiori. Da molti anni ero la sua padrona.»
Dunque questa era la risposta? Davvero Thorn aveva amato una donna
di cui non conosceva il volto, e che mai gli avrebbe concesso di toccarla?
Ero propenso a credere che fosse stato proprio così: il cuore umano è più
imprevedibile che mai quando sono in ballo sentimenti come l'amore. E, se
quell'uomo era stato capace di farsi voler bene da Vera, significava che in
lui esistevano passioni molto meno truci di quanto avrei supposto. Mi di-
spiacque averlo dovuto uccidere. Thorn si era tormentato in una sua trage-
dia privata, senza speranza di soddisfazione, ed era stato mille volte più
umano della femmina per cui si era sacrificato.
«Ti conviene arrenderti,» dissi.
«Mai!» La parola venne quasi sputata dalla sua bocca.
«Dove credi di poter andare? Cosa speri di riuscire a fare?»
Dorna doveva sapere d'aver poche probabilità di cavarsela da sola, in
qualunque località di Gor intendesse rifugiarsi. Sebbene fosse astuta, piena
di risorse e certo fornita di denaro, era una donna e, senza la protezione di
un guerriero, sarebbe finita male. Nelle Terre Selvagge sarebbe stata ucci-
sa da qualche predatore, forse perfino dal suo stesso grifone, ed altrove
chiunque non avrebbe esitato a farla schiava.
«Resta qui ed affronta la giustizia di Tharna. Potrebbe esser meglio per
te,» le suggerii.
«Tu sei un povero pazzo,» ringhiò.
Nella destra stringeva la redine uno. Un lieve strappo ed il grifone si sa-
rebbe levato in volo. Ed avrei scommesso che era il volatile più veloce e
resistente fra quanti ne erano rimasti in città. Mi voltai e vidi che dalla bo-
tola stavano uscendo Lara e Kron, e dietro di loro altri guerrieri. La ragaz-
za bionda corse al mio fianco.
«Sei ferito?», domandò, ansiosa. Poi la voce di Dorna la fece voltare.
«Eccoti dunque, Lara!», esclamò la donna. «Senza velo, né maschera...
Mai avrei creduto che la tua vergogna giungesse a tanto. Sei come questi
animali, scaduta al rango di Donna Abbietta!»
«È un onore essere insultata da te,» replicò lei, ironica.
«Lo sapevo ...L'ho sempre saputo che dentro di te c'era la bestia,» sbottò
Dorna. «Tu non meritavi il trono delle Regine, sgualdrina. E la maschera
d'oro era mia di diritto. Mia!»
«Non ci saranno più maschere d'oro a Tharna, né d'argento. La nostra
diventerà una città nuova,» disse Lara.
La donna scosse le spalle. Girò lo sguardo su quelli che erano saliti al
seguito della Regina, esprimendo in silenzio un enorme disprezzo. Poi il
suo volto d'argento si volse a me.
«Addio, Tarl di Ko-ro-ba,» disse. «Non dimenticarti di me, perché un
giorno la mia vendetta ti raggiungerà!»
Detto ciò strattonò la redine di partenza. Il grifone allargò immediata-
mente le ali balzando nel cielo, ed il cestone scivolò al suo posto sotto il
corpo dell'animale, sorretto dalle robuste cinghie di cuoio. Non potei far
altro che stare a guardare, visto che nessuno dei presenti aveva un arco per
tentare d'abbatterla. Accanto a me, Lara non disse nulla, e tenne gli occhi
fissi sul volatile finché esso fu un puntolino diretto alle lontane montagne.
Verso quale destino era fuggita Dorna, la Maschera d'Argento? Perché si
era presa la briga d'annunciarmi una futura vendetta? Tutto ciò a dire il
vero non mi faceva né caldo né freddo: ero convinto che da sola non sa-
rebbe vissuta più di qualche giorno, e che sarebbe stata ancora fortunata se
fosse finita in mano ad un mercante di schiavi, il quale l'avrebbe almeno
alloggiata e nutrita.
Se sotto la maschera celava un volto attraente, qualcuno l'avrebbe acqui-
stata per il suo Giardino del Piacere, oppure l'avrebbe messa a lavorare
come danzatrice e prostituta. Se invece non aveva la fortuna d'essere pia-
cente, sarebbe stata venduta come sguattera di cucina, o magari ceduta per
pochi denari a qualche popolano di Casta Bassa, oppure ad un artigiano
che l'avrebbe fatta sudare nella sua bottega.
Una cosa era certa: fuori dalle mura di Tharna l'attendeva una vita in vi-
olento contrasto con quella cui era abituata, e difficilmente sarebbe riuscita
a sopportarne gli aspetti negativi. Fuggendo, si era condannata ad una sorte
per lei peggiore della morte.
A me non importava proprio niente di lei: prima ancora che il suo grifo-
ne fosse scomparso nelle brume pomeridiane, stavo già pensando a tutt'al-
tre cose.
Lara mi prese per mano. «Vieni,» disse.
Ma i miei occhi rimasero puntati nella direzione in cui sorgevano le nere
e terribili Montagne di Sardar. Ero impaziente di partire.

Capitolo 26
UNA LETTERA DI TARL CABOT

Scritta nella città di Tharna,


il ventitreesimo giorno di En'Kara,
nel 4° anno del regno di Lara Regina,
10.117° dalla fondazione di Ar.

Agli uomini della Terra, salute.

Gli avvenimenti di cui avete letto il resoconto sono stati da me messi per
iscritto nei giorni successivi al ritorno al trono, nella città di Tharna, della
Regina Lara. Adesso nei miei pensieri arde solo il desiderio di cercare i Re
Sacerdoti, là nell'Inviolabile, l'unico luogo dove le domande che assillano
la mia esistenza possono avere risposta.
Tre giorni di viaggio su un grifone mi basteranno per raggiungere
quell'enorme palizzata, la rudimentale barriera di legno che circonda per
intero le Montagne di Sardar. Cosa accadrà quando sarò laggiù? Lo ignoro.
Armato delle mie armi da guerriero oltrepasserò il massiccio portone,
così come per millenni hanno fatto prima di me tanti uomini, innumerevoli
ardimentosi spinti da motivi non troppo diversi dai miei, nessuno dei quali
è mai più tornato indietro a raccontare ciò che ha visto e saputo.
Non sono del tutto certo che questo manoscritto giungerà a voi, là sulla
vecchia e cara Terra, ma appena giunto alla Fiera di En'Kara lo affiderò ad
uno scrivano. Là ve ne sono molti. Gli chiederò di consegnarlo ad uno de-
gli Adepti che conoscono qualcosa delle misteriose vie di comunicazione
fra Gor e la Terra. Dunque questo mio messaggio è affidato alla volontà
dei Re Sacerdoti stessi, così come da loro potrà dipendere la mia sorte.
Sono esseri incomprensibili: non so se mi siano amici o nemici, ed ignoro
se per me provino interesse oppure assoluta indifferenza.
Eppure si sono presi il disturbo di lanciare un anatema su di me, hanno
portato chissà dove mio padre e la mia amata Talena, mi hanno costretto a
soffrire, a lottare, e ad uccidere. In qualche modo riesco ad intuire che an-
che a Tharna si sono serviti di me, - della cieca ostinazione con cui sempre
affronto la realtà - per introdurre mutamenti sociali. Hanno distrutto dalle
fondamenta Ko-ro-ba, e con lo stesso distacco intellettuale hanno fatto sì
che un'altra città rinascesse alla vita. Il loro comportamento è così enigma-
tico che questa parola mi sembra ancora inadeguata a definirlo.
Ma lasciate che spenda due parole per la città di Tharna: in questo mo-
mento tutto fa credere che diventerà il centro abitato più singolare ed inte-
ressante di Gor.
La sua Regina, la splendida e orgogliosa Lara, è senza dubbio unica fra
tutti coloro che dominano le moltissime città del pianeta. Così come un
tempo ella regnava con la forza del potere, oggi tiene nelle sue mani il lu-
minoso vessillo di una giustizia nuova, ed i suoi sudditi la adorano.
Appena è tornata sul trono non ha fatto emanare ordinanze punitive od
incarcerare chi ebbe ad ostacolarla, bensì ha proclamato l'amnistia genera-
le. Ma le Maschere d'Argento sopravvissute ai giorni della rivolta, in ori-
gine circa cinquecento, sono state meno della metà, perché i ribelli hanno
dato loro la caccia anche dopo la fuga di Dorna e ne hanno uccise molte.
So che una trentina o forse più sono scappate dalla città, e oltre centocin-
quanta sono state prese e tenute per qualche giorno in prigione, finché non
hanno compiuto atto di formale sottomissione alla Sovrana. Le altre donne
libere di Tharna hanno dovuto rassegnarsi a perdere i loro diritti di esseri
superiori.
Il giorno in cui i disordini sono cessati, ho presenziato alla pubblica di-
struzione della Maschera d'Oro, il gigantesco volto aureo appeso nella sala
del trono, che Lara ha fatto staccare dal muro e mandare in fonderia. Pesa-
va almeno una tonnellata. Con esso sono state coniate dalla zecca reale
monete per acquistare cibo in attesa del prossimo raccolto.
La città si è trovata di fronte ad una situazione economica assai grave, ed
i primi rimedi di Lara hanno dovuto essere drastici per riorganizzare il
tutto. Ha istituito subito il nuovo Consiglio, formato da membri delle Caste
Alte e da rappresentati di quelle basse, e ciò l'ha costretta a chiamare in
città personaggi fino ad oggi quasi sconosciuti al popolo di Tharna: gli
Adepti, vitali per i loro contatti tecnici e scientifici coi Re Sacerdoti; gli
Scrivani, che hanno preso in mano le redini dell'istruzione e dell'ammini-
strazione pubblica, e molti Dottori ed Ingegneri. Tutti costoro sono stranie-
ri, e la Regina ha dovuto promettere loro vantaggi in abbondanza ed un
ottimo trattamento, ma si sono già rivelati indispensabili.
Le miniere d'argento non sono state rimesse in attività, tuttavia si è sco-
perto che l'enorme quantità di questo metallo finora estratta permette di
coniare moneta e porre mano ai lavori di ricostruzione. Fin dall'inizio sulle
torri sono cominciati ad apparire rivestimenti di materiale edile, colorato
così vivacemente che i cittadini seguono i lavori sgranando all'insù occhi
meravigliati. La città ha preso vita, sono giunti oggetti e stoffe di fattura
straniera, la Casta dei Mercanti sta facendo affari d'oro, il commercio al
minuto ha avuto la più grossa spinta da secoli a questa parte. Il grigio è
stato abolito dai vestiti per decisione unanime, e la gente delle Caste Basse
esibisce con orgoglio e fantasia i propri colori.
In appena quindici giorni la città è diventata irriconoscibile. Sulle strade
sono comparse carovane di carri provenienti da altre zone, perché si è
sparsa la voce che a Tharna si può vendere su un mercato quasi vergine, ed
i commercianti son gente quantomai svelta a gettarsi sulle buone occasio-
ni. Nel cielo i grifonieri vanno e vengono in un traffico continuo, spesso
scendendo sulle strade per divertirsi a spaventare i passanti. Le Guardie di
Palazzo e quelle delle mura devono impegnarsi al massimo per mantenere
l'ordine nelle strade, e molti nuovi guerrieri sono stati ingaggiati fra gli ex
ribelli.
Mentre scrivo queste righe ho ai piedi ricchi sandali provenienti da Tor
delle Sabbie, indosso una tunica rossa tessuta in Ar, una cintura acquistata
da un mercante di Porto Kar, ed alle pareti delle mie stanze pendono arazzi
di Thentis dai bellissimi colori. In un certo senso la città è in preda alla
confusione, ad attività frenetiche, all'euforia, e da un altro punto di vista mi
pare assai desiderosa di ordine. Lara è costretta ad usare il pugno di ferro
nel guanto di velluto e lavora sodo, ma il suo fascino personale è tale che
non fatica affatto ad imporre l'autorità regale. Sempre più mi convinco di
non aver sbagliato a riportarla sul trono: è diventata la Regina della rico-
struzione, della rinascita, abile in questo tempo di crisi come lo sarà in
futuro quando la situazione si sarà assestata.
Non è ancora ben chiaro quale sarà l'influsso delle città straniere su
Tharna. Soprattutto sembra difficile abolire interamente la schiavitù, su cui
si basa l'economia del pianeta, perché è gradita agli Adepti ed alle Caste
Alte. Ignoro come Lara risolverà il problema. La situazione civile fra uo-
mini e donne è confusa e, sebbene sia ormai legale l'istituto della famiglia,
ci vorrà molto tempo prima di ridimensionare i complessi ed i tabù legati
al sesso. Sto già assistendo ad un fenomeno abbastanza singolare: gli uo-
mini di Tharna preferiscono cercare una Libera Compagna fra donne di
altre città, ed a questo scopo fanno acquistare altrove schiave a centinaia
per poi liberarle.
Da quando la Regina va in giro a volto scoperto, le vesti da Donna Cela-
ta sono cadute in disuso, ma è soltanto una moda e mi domando quanto
durerà.
C'è poco altro da dire.
Kron non fa più il fabbro: è stato ammesso a far parte del Consiglio in-
sieme ai rappresentanti delle Caste Basse, una ventina in tutto. Andreas e
Linna lasceranno presto la città, per andare liberamente in giro dove me-
glio piacerà loro. La cetra del Cantastorie provvederà a mantenerli entram-
bi, e spero con tutto il cuore che siano felici e fortunati.
Vera di Ko-ro-ba, la mia concittadina, è rimasta al Palazzo Reale in qua-
lità di ancella. Sovente la vedo riccamente vestita e pettinata, e so che Lara
la usa come consigliera per quel che riguarda la moda femminile. Ma è
malinconica, si sente estranea alla città, e nel suo cuore restano confitte
spine simili alle mie. Anche lei ha perduto la famiglia, gli amici, e l'atmo-
sfera frizzante di quelle torri fra cui trascorse l'infanzia.
Questa mattina mi sono recato a salutare Lara, e l'ho trovata impegnata
in una discussione con due Adepti circa la costruzione di un loro tempio.
Nei suoi occhi ho letto che fa di tutto per non amarmi, e che forse riuscirà
a dimenticarsi di me, se ce la metterà tutta. L'ho baciata sulla bocca.
«Sei la più bella Regina di Gor,» le ho detto scherzando. «Ma anche la
più indaffarata.»
«Faccio quello che posso,» ha risposto lei, stringendosi a me. «E, se avrò
la tentazione d'essere altera e crudele, ricorderò i giorni in cui fui una
schiava nella carovana di Padron Targo, quando un guerriero senza patria
venne a comprarmi per sei smeraldi ed un elmetto ammaccato.»
«Quel Targo mi ha imbrogliato spudoratamente,» dissi.
«Ne sei certo? Quanto valgo per te? Dillo!»
L'ho baciata sugli occhi per cancellare le sue lacrime. «Devo dirti addio,
dolce Lara. Ma non dimenticherò mai che per un pomeriggio la mia schia-
va fu una Regina dai capelli d'oro.»
«Una Regina su un tappeto rosso, legata con le tue corde gialle... Me le
sento ancora strette ai polsi, Tarl di Ko-ro-ba,» ha sussurrato.
Dopo un ultimo bacio ci siamo separati. Ora è il momento che io pensi a
partire, e non ho idea di quel che mi accadrà.
Da sette anni mi chiedo quali segreti si celino nell'Inviolabile, chi siano
in realtà i Re Sacerdoti, i loro agenti che viaggiano su silenziose astronavi
discoidali, e quali progetti abbiano per Gor e per la Terra. Devo sapere
perché la mia città è stata distrutta pietra per pietra, perché la mia gente è
stata dispersa, e quale destino è toccato a mio padre ed alla donna che amo
più di me stesso.
Ma, oltre tutte queste domande, in me esiste il rosso demone della ven-
detta, il desiderio di colpire quegli esseri, chiunque siano, e di fargliela
pagare per ciò che ho sofferto. Talena, mio padre ed i miei amici, hanno
patito dagli atti dei Re Sacerdoti dolori e privazioni, e non so neppure se
siano in vita o miseramente periti in luoghi lontani. Questo è il motivo per
cui io, Tarl Cabot, guerriero di Ko-ro-ba, giuro sangue e vendetta in rispo-
sta all'anatema lanciato su di me.
Forse è follia parlarne e scriverne così apertamente, ed è follia il rite-
nermi capace di lanciare una sfida a creature che potrebbero annientarmi in
un breve istante. Sono appena un mortale, armato come un barbaro ed i-
gnorante di tutto ciò che potrebbe consentirmi una sia pur minima possibi-
lità di farcela. Eppure devo tentare.
Fuori dalla finestra vedo accendersi lanterne colorate sui ponti aerei e
nelle strade. La gente è allegra, ed alla sera la vita ferve nelle taverne. La-
sciare tutto questo mi rende malinconico.
Dei misteri che si nascondono nell'Inviolabile non m'importerebbe nulla,
se avessi ancora la mia casa e Talena, perché assai più dolce mi sarebbe la
vita nella Ko-ro-ba di un tempo, lontana da questi problemi arcani e inde-
finibili. Talvolta mi sorge il dubbio che i Re Sacerdoti siano stati così spie-
tati proprio per far sì che io sollevassi lo sguardo verso di loro, per spin-
germi a compiere imprese che non avrei mai desiderato senza un pungolo
tanto bruciante. Ciò che allora mi consola è la consapevolezza d'avere il
libero arbitrio, la possibilità d'aggirare i loro misteriosi progetti e di scon-
volgerli, e di piantare nella cultura di Gor semi da cui nasceranno piante
sconosciute perfino a loro. Anch'io posso giocare la mia partita.
In altri momenti rifletto invece che forse i Re Sacerdoti non sanno niente
di me, che non mi considerano neppure una loro pedina, e che sono all'o-
scuro di ciò che faccio e dei miei propositi.
È il momento di deporre la penna.
Il pensiero che da quelle montagne non sia mai uscito un uomo vivo mi
opprime, perché io amo la vita. In questo mondo selvaggio l'ho assaporata
nei suoi aspetti più crudeli e più dolci, nelle sue miserie e nella sua gloria.
Ho imparato che è splendida e terribile insieme. L'ho vista nelle possenti
torri cilindriche delle città, nel volo di un grifone, nelle movenze di una
bella donna, nel clangore delle armi e nello scoppio del fulmine sulla pia-
nura verde. L'ho trovata al tavolo d'una taverna e sul campo di battaglia,
nella carezza d'una fanciulla e nel colpo d'artiglio di un carnivoro, nei cu-
nicoli opprimenti di una miniera d'argento e nel profumo dei fiori di talen-
der. Sono grato al destino d'aver conosciuto tutto questo.
Scende la sera sulle torri di Tharna, e le finestre s'illuminano di lanterne
colorate e fiaccole. Gli odori del cibo si disperdono nell'aria quieta, e dalle
mura giungono le grida rituali delle guardie che annunciano l'ora ai com-
militoni ed ai loro concittadini.
Le ombre dei grandi edifici a cilindro si fanno scure, e presto si confon-
deranno nella notte. Pochi faranno caso ad uno straniero che lascerà la cit-
tà, e forse nessuno da qui ad un mese ricorderà che un giorno la spada di
un fuorilegge ne spezzò le secolari catene. Chissà se Andreas comporrà
una canzone sulla rivolta di cui fummo protagonisti?
Le mie armi sono già pronte, lo zaino attende poggiato presso la porta.
Non sono molti gli oggetti che lascio qui, ed ancor meno quelli che porterò
con me. Nel cielo sento uno stridio lontano, alto e possente sulla campagna
erbosa: è il richiamo di un grifone selvaggio dalle ali nere.
Non ho bisogno di altro.

Tarl Cabot
Guerriero di Ko-ro-ba.

UNA NOTA CHE CONCLUDE IL MANOSCRITTO

Il resoconto di Tarl Cabot si chiude con questa sua lettera. Non c'era
nient'altro nel plico consegnatomi da Harrison Smith perché ne curassi la
pubblicazione. Nei mesi successivi al suo inspiegabile e misterioso recapi-
to non sono pervenuti da lui messaggi di alcun genere.
È mia opinione che, come egli dichiara con tanta fermezza, si sia davve-
ro avventurato nelle Montagne di Sardar, ma le mie supposizioni su quan-
to possa essergli accaduto laggiù valgono le vostre. Se tuttavia oggi è an-
cora vivo, sono propenso a credere che farà di tutto per comunicare nuo-
vamente con noi.
J. N.

FINE

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