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Vincenzo Fontana

Il "Vitruvio" del 1556: Barbaro, Palladio, Marcolini


Il libro

I dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio tradutti et commentati


da Monsignor Barbaro eletto Patriarca d'Aquilegia sono editi per
la prima volta nel 1556 in uno splendido "in folio" marcoliniano,
stampato in caratteri rotondi e italici, di 151 cc. complessive.
Numerazione delle pagine e registro sono però irregolari e le
grandi silografie architettoniche disegnate in gran parte da
Andrea Palladio crearono non pochi problemi - "noi non siamo
stati prima avvertiti della grandezza della carta" (p. 20) scrive
l'autore - rimediati con l'incollare tavole su carte già impresse,
con illustrazioni a doppia pagina, o con l'aggiunta di un
foglietto mobile per non mutilare l'immagine. Ciò dà
insomma l'impressione di un menabò o comunque di un'edizione
preparata con grande cura, ma incappata poi in incidenti
riscontrabili soprattutto nei primi tre libri.
Altra caratteristica sono le tavole mobili: la pianta del piano
superiore di un baluardo è ritagliata e sovrapposta a quella
del piano inferiore; il modo per calcolare la latitudine è
illustrato da un indice stampato e ritagliato che ruota su un
quadrante graduato, come l'astrolabio marino che i naviganti
traguardano alla stella polare; infine le silografie dei teatri
greci e latini ruotano eccentricamente per dimostrare la
metamorfosi in anfiteatro secondo l'ipotesi dello stesso
Marcolini.
Tavvv. 3 e 4 mobili mediante rotazione che rappresentano
i teatri di Curione descritti da Plinio il Vecchio e studiati fra
gli altri da Leonardo.

II libro assume in questo modo un'immediatezza che viene natu-


ralmente a perdersi nelle edizioni seguenti, la latina in folio
piccolo e la italiana "in ottavo", apparse presso il senese
Franceschi nel 1567 con le tavole incise di nuovo in formato
ridotto (con aggiunte e sottrazioni) da Johan Chrieger.
Immediatezza che fa pensare alla spavalda rapidità con cui
Anton Francesco Doni scriveva le pagine de I mondi e de Gli
Inferni nell'officina tipografica del Marcolini, che subito
traduceva in stampa la parola appena scritta componendola con
le silografie proprie, del Salviati o di altri grandi pittori
manieristi: senonchè la presenza alla Biblioteca Nazionale
Marciana di Venezia di due codici cartacei con disegni a penna
di cui alcuni acquerellati (Codd. Itt. IV, 152 (5106) e 37 (5133))
considerati manoscritti preparatori dell'edizione vitruviana2,
verrebbe a dimostrare il contrario, a meno che non li si consideri
preparatori alla seconda piuttosto che alla prima edizione.
Difficoltà e pentimenti nell'impaginazione delle prime tavole o
la bizzarra trovata (probabilmente marcoliniana) delle figure
mobili stanno a dimostrare la paziente ricerca di chiarezza
scientifica nella coordinazione fra testo e immagine che
accomuna autore ed editore.
In data 30 giugno "Die ultimo Junij 1556" il Senato decide "Che
per autorittà di questo consiglio sia concesso al Fidel nostro
Francesco Marcolini che per spatio de anni Diece proximi niuno
altro ch'egli, o che haverà causa da lui, possa stampare in questa
nostra città, né in alcun luogo della signoria nostra, né altrove
stampati in quelle [città venete] vender, la traduzione et comento
sopra Vitruvio composta per il Reverendo eletto d’Acquilegia;
sotto pena di perder tutte le opere che gli fussero trovate et de
ducati 300 da esser divisi: un terzo all’accusator, un terzo al
magistrato che farà l’esecution et un terzo al detto supplicante;
d’un modo che non sia stato concesso privilegio ad altri, essendo
obbligato di osservar tutto quello che è disposto in materia di
stampe”. (Archivio di Stato di Venezia, Senato Terra, registro 40,
cc. 140r e v). Perciò le seconde edizioni latina e italiana
compaiono a distanza di undici anni.
Lo studio che Barbaro (1514-1570) inizia intorno al 1547, come scrive a conclusione del commento (p. 274), riprende certo con più
intensità, dopo il ritorno a Venezia dall’ambasciata in Inghilterra, nel 1551, e culmina nel viaggio con Palladio a Roma nel 15543, una
vera e propria campagna archeologica per verificare e ricostruire in pianta e in alzato le immagini di quella architettura antica di cui lo
scrittore romano è unica, ma insufficiente guida. Dalla collaborazione con l’architetto vicentino ne “i dissegni delle figure
importanti” (p. 40), quelle cioè dei teatri, dei templi e delle basiliche, nasce un’antologia dell’antico basata su misure oggettive da
proporre come guida ad architetti e committenti contemporanei e futuri, mentre nella esegesi della scienza e tecnica alessandrina,
compendiata nei libri vitruviani, Barbaro si dimostra padrone enciclopedico dei “perché” della natura. Dal duplice aspetto di “Vitruvius
Venetus” e di trattato di scienze naturali aggiornato e in alcuni punti originale, nasce la superiorità di questo sui “Vitruvi” che lo
precedono e su molti che lo seguiranno secondo Giovanni Poleni o il Cicognara, che definisce la traduzione "la prima veramente
italiana"4.
Pochi grafici schematici corredavano l'edizione veneziana del 1496-97 curata dal piacentino Giorgio Valla per i tipi del Bevilacqua,
mentre le belle e numerose illustrazioni dell'edizione pure veneziana del Tacuino (1511) curata da Fra' Giovanni Giocondo erano prive
di dettagli e di accurate verifiche proporzionali. Le silografie della traduzione e commento di Cesare Cesariano (Como, 1521), nono
stante gli influssi bramanteschi e vinciani, appartengono a un suggestivo mondo lombardo indeciso fra il cantiere del Duomo di Milano
e un'antichità remota vista con occhi tardo-medievali, molte tavole di esso sono riprese dal perugino Caporali (1536). Nel 1544 infine,
appare a Roma il testo commentato in latino dall'umanista Guillaume Philander che, nonostante il patrocinio dell'Accademia Vitruviana
di Claudio Tolomei, appare discontinuo e povero nel materiale illustrativo. Nel 1550 appare la traduzione illustrata di Cosimo Bartoli
dell'Architettura di L. B. Alberti in uno splendido in folio torrentiniano, fonte di ispirazione per Palladio e Barbaro, nonché esempio da
emulare. Fra il 1552 e il 1553, era imminente la pubblicazione di un Vitruvio tradotto e commentato da Giovan Antonio Rusconi per
Giolito, ma solo nel 1590 l'editore pubblicò le belle tavole intagliate senza il suo testo e senza didascalie per utilizzarle in qualche
modo dopo la morte dell'autore e rientrare nelle proprie spese. Forse l'autorevole Patriarca eletto di Aquileia, aveva eliminato la
concorrenza del pittore-architetto e Giolito aveva lasciato il passo a Marcolini, oppure il testo della traduzione non fu mai portato a
termine, come farebbe pensare la prefazione dell'editore5. Resta comunque il fatto che Rusconi ci dà per immagini un'interpretazione
diversa, complementare e dialettica dell'architettura, ricca di ornamenti ed effetti pittorici secondo il gusto di Sansovino e Tiziano, che
trionfa negli interni del Palazzo Ducale dopo l'incendio del 15746.
Il frontespizio rappresenta un arco di trionfo ispirato a quello di
Traiano nel porto di Ancona. Nel vano centrale sta la "Regina
Virtus" (che Palladio poi riprenderà nel frontespizio de I quattro libri del
1570), nelle nicchie laterali sono le personificazioni allegoriche della
geometria, astronomia e dell’ astrologia, mentre sull'attico sono
rappresentate l'architettura, la matematica, la musica e la retorica. Lo
stesso Barbaro nel testo spiega che l'arte discende dalla natura e solo
l'architettura pare "esser alla Sapienza vicina e come virtù Heroica nel
mezzo di tutte l'Arti dimorare, perché sola intende le cagioni, sola
abbraccia le belle e alte cose, sola tra tutte l'Arti partecipa delle più
certe scienze, com'è l'Arithmetica, la Geometria e molte altre, senza le
quali... ogni arte è vile e senza riputazione" (p. 7).
L’ allegoria del frontespizio include quindi l'architettura fra le arti
liberali, ma solo a patto che essa si fondi sul quadrivio e nel suo Libro
detto le quattro porte - rimasto inedito, ma di cui resta un frammento
manoscritto nel primo dei codici marciani di cui dicemmo che inizia a
c. 338r - aritmetica, musica, geometria e astrologia (comprendente
anche l'astronomia) sono gli ingressi del sapere, come nel Vitruvio
l'arco di trionfo segna la via che ogni architetto dovrà percorrere per
essere virtuoso.
Nella dedica al Cardinale Ippolito d'Este , Barbaro paragona I dieci libri a
una statua che rappresenta nelle sue membra la forma completa di
un'arte che è "Capomaestra di tutte", ma appena dissotterrata ha
bisogno di restauri e di puliture. Ciò pare ricollegarsi appunto alla
statua della "Regina Virtus" del frontespizio e lo scritto si conclude
con le lodi delle architetture promosse dal Cardinale di Ferrara in
Francia e in Italia, così che ci pare naturale una visita del prelato
veneto e di Palladio al cantiere di Villa d'Este (iniziata nel 1550) e agli
scavi di Villa Adriana durante il soggiorno del '54, tanto più che nel
commento "messer Pirro Ligori" è ringraziato "per lo studio che egli
ha fatto e fa sopra le cose antiche a benefìcio del mondo" (p. 162)7.
La via della virtù attraverso la sapienza è ardua: la grande tavola a piena
pagina posta a p. 4 e ripetuta alla fine con il registro dell'opera pare
mostrare il tempo, la fatica, ma anche la consolazione di tanto studio. La
scena è inquadrata da due cariatidi sormontate da un cartiglio sotto cui
due figure reggono in volo lo stemma del Barbaro coronato dal
cappello prelatizio con rami di palma e di alloro; da un lato Daniele
nelle vesti di Vitruvio ha ai suoi piedi una colonna, funi, carrucole,
strumenti di guerra, strumenti musicali, mentre è assorto a misurare
con un compasso una sfera armillare. Un servo gli indica il fuggire delle
ore misurate da un orologio meccanico, dalle rovine coperte di erba
spunta la cupola del Pantheon e una torre con un orologio solare. Tutto il
percorso fra arti meccaniche e liberali, fra scienza ed esperienza è
sintetizzato in questa tavola di grandi qualità pittoriche, ma anonima e di
cui più avanti tenteremo un'attribuzione.
Barbaro e Vitruvio
Daniele, pronipote di Ermolao, ne riprende la traduzione in latino della Rhetorica di Aristotele ( 1544) aggiungendovi il suo commento,
nello stesso anno appare la sua traduzione dell' Ethica Nicomachea e l'anno dopo un compendio delle opere aristoteliche di scienza
naturale. Aristotelica è la sua educazione padovana e così pure il metodo d’ intercalare alla traduzione di brani, periodi, o brevi frasi, il
suo commento spesso molto ampio. Ciò viene ad istituire un dialogo serrato e continuo che si avvale della soluzione tipografica di
usare i caratteri rotondi per la traduzione e il corsivo italico per il testo senza interrompere l'unità della pagina, come invece avviene nel
tradizionale sistema di chiosa adottato dal Cesariano dove la traduzione è circondata dal commento in parte su colonna e in parte a
pagina piena. D'altro canto Barbaro aveva pubblicato nel 1542 presso i figli di Aldo le Exquisitae in Porphyrium commentationes
dimostrando il suo neoplatonismo e lo studio di pagine scelte dal più illustre discepolo di Plotino nell'intento di conciliare i due massimi
sistemi di pensiero antichi con la Rivelazione cristiana. L'arte nasce dall'esperienza, ma l'esperto può fallire non conoscendo i difetti della
materia "che molte fiate non risponde all'intention dell'Arte" (p. 6), solo se sarà scienziato per mezzo di matematica e geometria potrà
conoscere un ordine numerico sotteso all'ordine dell'universo, una cosmologia matematica che spiega la natura da cui discende l'arte8.
Perciò l'architettura, che non può essere imitazione del reale, ma che attraverso le scienze esatte più si avvicina alla vera conoscenza, è la
più degna fra le arti, tanto che "dice Platone che l'architetto non fa mestiere alcuno, ma è soprastante a quelli che usano i mestieri" (p. 7).
Essa anzi può giudicare le altre arti perché "è scienza di molte dottrine" [ivi], come afferma Vitruvio, né si può disputare della
supremazia di un'arte sull'altra giudicando su fatti materiali poiché "l'arte è nell'intelletto; là dove tanto è scultore e pittore il divino
Michelangelo dormendo e mangiando, quanto operando e facendo; però così si doveria considerare qual'è più degno habito nell'intelletto
di Michelangelo, o quello che egli ha della scultura, o pure quello della pittura, e così lasciare i marmi, gl'azurri, i rilievi e le
prospettive, la difficultà e la facilità delle arti" (p. 9). Nell'architettura specialmente si deve considerare l'opera materiale realizzata o
progettata "significata" e poi "la significante, dimostrativa ragione [...] ché significare è per segni dimostrare e segnare e imprimere il
segno: là dove in ogni opera da ragione drizzata e con disegno finita è impresso il segno dell'Artefice, cioè la qualità e la forma che
era nella mente di quello, perciò che l'Artefice opera prima nell'intelletto e concepe nella mente, e poi segna la materia esteriore dell'
habito intcriore" (ivi)9. L'ansia michelangiolesca fra idea e materia o le dispute dell'Accademia Fiorentina si acquietano nel commento
enciclopedico scritto dal veneziano con la fiducia di "pervenire a quella bella verità che nelle Arti si trova, acciò che con lo splendore
della virtù e della gloria scacciamo le tenebre dello errore e della morte" (p. 5).
Quando l'argomento è più vicino ai propri interessi e competenze, Barbaro scrive in maniera più diretta e viva, come quando nel libro I
illustra il rapporto fra geometria e astronomia attraverso cui gli astrologi credono che i corpi celesti "s'uniscono a mandare qua giù i
divini loro influssi" (p. 16); così la rappresentazione in pianta, prospetto e sezione permette all'architetto di verificare le proprie idee
nel disegno e attraverso la geometria ricollegare il proprio lavoro all'astronomia e alla musica. Non può improvvisarsi architetto militare e
dopo aver spiegato quanto di Vitruvio è valido al presente rimanda al Libro delle fortificazioni dei nostri tempi che Gian Iacopo
Leonardi, ambasciatore del Duca d'Urbino a Venezia, doveva pubblicare, ma include la pianta della città ideale in una cinta
modernissima di fossati e terrapieni con sei baluardi dotati di magazzini per le munizioni e cannoniere per il tiro radente o incrociato (pp.
38-39)10. Né il nostro commentatore si dilunga molto sui materiali o le tecniche di cantiere se non per spiegare i principi naturali con
alcuni versi del suo poema sulle Meteore (p. 44) inedito e, per quanto sappiamo, perduto11.
Andrea Palladio illustrazione del tempio prostilo ionico con semi pianta e
parziale sezione, sistema poi usato anche nei suoi Quatto Libri. Barbaro e
Palladio commentano il passo di Vitruvio sulla “icnografia” rappresentazione
della architettura mediante pianta, alzato e sezione al tratto ribadendo il
carattere peculiare, oggettivo e scientifico dell’architettura rispetto alle
rappresentazioni prospettiche e pittoriche. (libro I p. 22)
Città vitruviana con al centro il foro latino con
Capitolium e basilica contrapposti, la cinta
bastionata è “alla moderna”, il bastione è
rappresentato in pianta e dall’alto mediante la
carta mobile (Libro I p. 39)
Nel terzo e nel quarto libro si entra nel pieno dell'argomento "per il ché si può dire che qui comincia tutto il bello che di mano e d'ingegno
s'aspetta dallo Architetto" (p. 56); non c'è da stupirsi che sette pagine ininterrotte siano dedicate alle proporzioni aritmetiche: "Tanta è la
forza della proportione, tanta è la necessità, tanta la utilità di essa nelle cose, che niuno può né all'orecchie, né a gli occhi, né a gli altri sensi
alcuna dilettatione recare senza la convenevolezza e la rispondenza della ragione, là onde ciò che ci diletta e piace, non per altro ci diletta e
piace, se non perché in sé tiene proportionata misura e moderato temperamento" (p. 57). Qui "ragione" è ratio, la "divina" forza "dei
numeri fra loro comparati" da cui discende "la cosa significante", il "discorso", la "forma", tutto ciò insomma che rende l'architettura
eccellente; con essa si possono giudicare gli antichi e, anche se Vitruvio non fosse mai esistito, inventare e costruire "da noi stessi cose
rare et eccellenti" (ivi)12.
È sorprendente notare in questa edizione la mancanza di una tavola che invece compare in tutti i Vitruvi, quella del corpo umano iscritto
in un quadrato o in un cerchio, simbolo quasi del rinascimento; eppure, Barbaro cita nel commento "il buon Alberto Durero" per il suo
libro sulle proporzioni umane nonché Filandro e Pomponio Gaurico e dimostra una certa predilezione per il rimpic-ciolimento delle
teste, per snellezza e allungamento di alcune parti secondo il gusto manierista, ma sorvola l'argomento "non essendo questo il proprio
luogo" (p. 63)13. Pittura e scultura dovranno occuparsene, ma l'architettura è arte astratta che deve imitare rapporti e numeri che regolano
la musica e il ciclo. Per dilettare essa userà per gli occhi gli stessi mezzi che la retorica usa per gli orecchi: "come quello che è nella mente
e nella voglia nostra riposto con l'artificio di levarlo fuori di noi e portarlo altrove, le parole, le figure, la compositione delle parole, i numeri,
i membri e le chiuse fanno le idee e le forme del dire, così le proportioni, le differenze delle figure ne gli aspetti, i numeri e la collocatene
delle parti nell'Architettura fanno le idee di essa, che sono qualità delle fabriche convenienti a quelle cose per le quali si fanno" (p. 65).
Con la descrizione dei templi, inizia il dialogo fra scritto e immagine, cioè fra Barbaro e Palladio, né ad altri potremmo attribuire, se non
le piante semplicissime, i prospetti inconfondibili (né di conseguenza pare logico che chi ha tracciato alzato e sezione non sia l'autore della
pianta, anche se in scala ridotta per le ragioni su esposte). Nel quarto libro si passa dalla teoria degli ordini alla descrizione dei templi
rotondi e nel capitolo ottavo, alla fine del commento il prelato da alcune istruzioni per le chiese precedenti la riforma tridentina (ma
Barbaro fu anche presente a diverse sedute del concilio). "I Decreti de i nostri Pontefici non vogliono che gli altari si facciano d'altro che di
marmo e sopra quelli vi vogliono una pietra consecrata. Ma se stiano meglio più altari od un solo lo lascio decidere ad altri" (p. 125). La
sacrestia va posta accanto al coro nella posizione che corrisponde al "postico" - cioè alla parte dietro la cella dei templi anfiprostili -. I campanili
devono essere proporzionati con l'altezza del tempio, di pianta quadrata fino alla cella campanaria sormontata da una piramide
"sesquialtera" (di altezza pari a 3/2 della base) o "equialtera" (cioè doppia) oppure da una cupola, e utile sarebbe farvi degli orologi a
contrappesi. I cimiteri sono in genere dietro la chiesa, ma ora si usa far monumenti e seppellire all'interno, con cappelle costruite allo
scopo dove insegne e trofei vengono a soverchiare gli altari, mentre queste cose più civili che sacre starebbero meglio in piazza, che in
chiesa per esempio e memoria dei cittadini illustri14. Nel quinto libro manca l'illustrazione del fòro - anche se quello latino appare
rappresentato al centro della città ideale vitruviana (p. 38) - e solo nell'edizione latina del Franceschi la lacuna verrà colmata. Quanto alle
prigioni ricorda quella dei debitori, usata anche a Venezia e situata a Rialto, e passa poi al capitolo dei teatri che viene introdotto da un
esauriente saggio sulle armonie musicali ricondotte a rapporti aritmetici, necessario a comprendere il difficile passo vitruviano dei vasi
di rame posti di fronte alla scena per amplificare i suoni. Invece, Barbaro tralascia l'argomento delle scene perché annuncia che sta per
scrivere con l'aiuto di un ottico esperto, il veneziano Giovanni Zamberti, un trattato prospettico diviso in cinque parti che sarà molto
utile in un'età come la "nostra" di eccellenti pittori, ma pochi prospettivi". "Vedo esser sprezzata la fatica, ma lodata l'opera della
prospettiva, ammirano il ben fatto, fuggono lo studio di fare. Vogliono haver le cose belle d'altri, ma non si curano di saper farle da loro"
(p. 157). Parole queste scritte in polemica con i pittori contemporanei, maestri del colore, non del disegno; per essi scriverà quindi La
pratica della perspettiva (Venezia, Borgominieri 1568 o 1569) dove saranno rappresentate (sul modello di Serlio) le tre scene vitruviane:
tragica, comica, satirica15.
tempio in antis pianta e prospetto che anticipa quello della
basilica del Redentore (libro III, pp. 68,69)
tracciato del capitello ionico e fregio ionico (Libro III p.98)
costruzione del
capitello corinzio pp
99,100
esterno del teatro sul
modello del
colosseo pp. 152,
153
scena del teatro, creazione palladiana che anticipa il teatro Accademico di Vicenza pp. 155, 156
casa latina
Il patrizio si identifica nello stato dei Signori veneziani quando, a proposito dei porti e degli arsenali, mancando esempi antichi, descrive quello della
sua repubblica, grandioso "non per la copia de i marmi" come gli antichi, ma per la sua moderna efficienza. "I legni veramente et le galere e le navi
ridotte sono a quella perfettione che si può desiderare per l'uso e facilità grande che in esse si trova. Né voglio che prendiamo meraviglia della
grandezza del detto luogo, come di cosa che satisfaccia ad ogni huomo di giuditio, perché questo nasce da un'altra cosa più ammiranda e degna da
esser desiderata non havendosi e di grande studio acciò sia conservata havendosi. La lunga e inviolata libertà di quella città ha partorito questa
grandezza, l'uso delle cose marittime, le occasioni belle e molte sono state tali che non è potenza sì grande che in poco tempo far possa quello che
hanno fatto i Venetiani; e [è] cresciuta a poco a poco naturalmente (dirò così) questa copia, né si può con violenza generare tal cosa nella quale il
tempo e la lunghezza de gli anni n'hanno una grande giurisdittione" (p. 163). Barbaro è quindi fra i costruttori del mito di Venezia, la cui
"fortezza" ... "ha havuto per Architetto la previdenza divina e il beneficio della natura" assecondato però "dal grande amore che hanno havuto e
hanno i Cittadini verso la patria". Così nell'Arsenale "si vede l'ordine meraviglioso delle cose, che ad un muover d'occhio tutti gli armeggi d'una
galera, tutti gli instrumenti, tutto l'apparato non solamente si vede al luogo suo con ordine meraviglioso, ma si può prestissimamente por in opera; e
oltra l'ordinario, che per custodia del mare è sempre fuori, l'apparecchio di cento e più galere con tanta facilità si muove dal suo luogo che non si può
credere; le taglie, gli argani, le ruote, i naspi sono così ben collocati e orditi che con grande facilità levano ogni gran peso" (ivi). Il merito, aggiunge,
va dato a Nicolo Zeno, che con amore e ingegno ha riorganizzato questo mondo della meccanica dove Barbaro verrà ad attingere l'esperienza necessaria
per commentare il decimo libro16.
II prelato veneziano entra invece in polemica con i suoi concittadini nel sesto libro a proposito delle abitazioni private, Vitruvio e Andrea Palladio
daranno i nuovi esempi per rinnovare il palazzo veneziano. "Et se io posso pregare, prego e riprego specialmente quelli della patria mia che si
ricordino, che non mancando loro le ricchezze e il poter fare cose honorate, veglino ancho provedere che non si desideri in essi l'ingegno e il sapere,
il che faranno quando si persuaderanno di non sapere quello che veramente non sanno, né possono sapere senza pratica, fatica e scienza. Et se gli
pare che l'usanza delle loro fabriche gli debbia esser maestra, s'ingannano grandemente, perché infatti è troppo vitiosa e mala usanza, e si pure
vogliono concieder all'uso alcuna cosa, il che anch'io conciedo, di grafia siano contenti di lasciar moderare quell'uso da chi se ne intende, perché
molto bene con pratica e ragione si può acconciare una cosa e temperarla in modo che, levatene il male, ella si riduca ad una forma ragionevole e
tolerabile con avantaggio dell'uso, della commodità e della bellezza; et se una cosa bislonga e capace di dugento persone sgarbatamente, voglino
lasciar che sotto miglior figura si faccia lo istesso effetto, e se vogliono un determinato numero di finestre in una stanza, siano contenti di lasciarle
porre al suo luogo con gli ordini dell'arte, perché importa molto alla bellezza e non viene impedito l'uso di quelle. Et se io potrò porle lontane da gli
angoli, non sera egli meglio che porle sopra gli angoli e indebollire la casa? Deve il padre di famiglia, conoscendo quello gli fa bisogno, dire io voglio
tante stanze e tante habitationi, queste per me et per la moglie, quelle per li figliuoli, quest'altre per li servi, quell'altre per la commodità, et poi
lasciar allo Architetto che egli le compartisca e pona al luogo suo, secondo l'ordine, disposizione e misura che si conviene: seranno le istesse,
secondo il voler del padrone, ma disposte ordinatamente secondo i precetti dell'arte" (p. 179). Il "portego" deve quindi trasformarsi da sala passante
bislunga in una serie di sale quadrate ornate da colonne e collegate fra loro da anditi ornati da esedre, mentre le finestre si disporranno uniformemente
sulla facciata e le corti prenderanno l'aspetto di solenni peristilii. Ma Venezia non diventerà mai Vicenza, palazzi, come il Loredan (Vendramin
Calergi) di Mauro Codussi, il Dolfin-Manin e il Corner (la "Cà Granda") di Sansovino, il Grimani di Sanmicheli, restano frammenti di quell'immagine
nuova, romana e vitruviana che Barbaro propone invano e che Palladio dimostrerà realizzabile nei Quattro libri ( 1570, pp. 71-72) con due piante di
palazzi per siti irregolari17. Tutt'al più le polifore si trasformeranno in serliane e anche se Palladio tenterà di ricostruire la domus antica nel convento
della Carità (1561) non gli sarà concesso di costruire un protipo da cui innescare un processo di emulazione nei committenti veneziani insensibili alle
preghiere del monsignore; egli dopo essersi rivolto a loro raccomanda ad architetti e "proti" di non essere troppo arrendevoli con i clienti, "che gli
dichino il vero e gli consiglino bene e amorevolmente e che pensino bene prima che gli facciano spendere i dinari" (ivi). Ben diverse dai precetti
vitruviani sono le pratiche costruttive lagunari dove, per caso, esistono muri che poggiano su un solaio senza che al piano sottostante vi corrisponda un
altro muro: di fronte a queste assurdità Barbaro ammette che è inutile insegnare a far "belli e ragionevoli edifici" (p. 180).
Nel capitolo V possiamo leggere i gusti del committente di Paolo Veronese a Maser in materia di affreschi: definisce le grottesche "sogni
della pittura" che si distaccano dal simile e dal verisimile naturale, come "il Sofista fa cose mostruose e tali quali ci rappresenta la fantasia
quando i nostri sentimenti sono chiusi dal sonno" (p. 188). Nella pittura, come nella musica e in ogni opera umana, vi deve essere
"intenzione", cioè la rappresentazione dell'effetto, "sì come le favole denno esser utili alla vita degli huomini". "Da poi si vuoi ben sapere
contornar le cose e havere le simmetrie di tutte le parti e le rispondenze di queste fra sé et con il tutto; indi le movenze e gli atti che parino di
cose vive e non dipinte, e dimostrino gli effetti e i costumi, il che è di pochi; in somma poi (che è cosa di pochissimi) e a' nostri dì non è a pena
considerata, et è la perfettione dell'arte, fare i contorni di modo dolci e sfumati che ancho s'intenda quel che non si vede, anziché l'occhio pensi
di vedere quello che egli vede, che è un fuggir dolcissimo, una tenerezza nell'orizzonte della vista nostra, che è e non è, e che solo si fa con
infinita pratica, e che diletta a chi non sa più oltra e fa stupire chi bene la intende" (ivi). Barbaro sa descrivere tutto il fascino della pittura
veneta da Giorgione in poi e dall'atmosfera cromatica dei paesaggi "lontananti" passa poi a illustrare la sensualità delle figure, "la vaghezza e
morbidezza delle carni nelle immagini muliebri, che scuoprono i musculi, ma in modo che si intendine i panni che fanno fede del nudo, le
pieghe dolci, la sveltezza, i lontani, gli scorzi, l'altezza della vista" (ivi), ma poi interrompe il discorso per raccomandare ancora una volta
l'esercizio delle arti liberali e soprattutto le quattro discipline "che sono quattro porte principali di tutti gli edifici, strumenti, invenzioni,
che sono stati, sono e che saranno", nonché la lettura del IX libro di Leon Battista Alberti. Quanto ai colori il commento si riduce a
pochissime righe: "nel resto - egli conclude secco - io non ho provato queste cose, né voglio empir il libro di ricette" (p. 190).
Lasciata l'esperienza del cantiere il monsignore riveste i panni dello scienziato e per commentare il libro ottavo sull'origine e la natura
dell'acqua usa un lungo frammento delle sue Meteore. Tutto nasce dal ciclo e discende sulla natura e sugli uomini: "chiunque niega che '1
valor celeste / Formar non possa la mondana cera, / Certo sua mente d'ignoranza veste..." (p. 193). Perciò illustra frettolosamente l'uso della
livella ("corobate") necessaria all'idraulico per calcolare gli acquedotti e rimanda al commento di Filandro, al testo di Frontino e ai libri di
Erone.
Barbaro giunge così al nono libro dove è felice di rifondere tutta la sua passione per l'astronomia e in particolare per gli orologi solari, ma lo
sguardo non si può rivolgere al ciclo senza la completa padronanza della geometria antica o il rimando agli studi di Dùrer sulla chiocciola
di Archimede (p. 203). Problemi e teoremi classici vengono risolti e dimostrati nei primi tre capitoli, mentre nel quarto inizia la descrizione
del gran meccanismo tolemaico fatto di sfere ruotanti che nel loro movimento di anni, mesi, giorni scandiscono la vita. Dove Vitruvio o
Plinio sono carenti egli ricorre ai contemporanei e cita Jacob Ziegler (p. 217), le osservazioni del quale servirono a Copernico per la sua
rivoluzione, e se la descrizione delle costellazioni dell'emisfero settentrionale appare schematica nel testo latino, il veneziano testimonia la
disponibilità di opere contemporanee molto superiori scientificamente. "Va a torno una carta di Gioanni Stabio, d'Alberto Durerò e della
Volpaia Firentino, fatta da tutti tre insieme, nella quale sono le imagini celesti molto ben disposte, ivi è distinto il zodiaco in segni e gradi,
e poste sono le imagini secondo il sito loro distanti dal zodiaco, insieme col numero delle stelle che le adornano e la quantità e grandezza
loro, e ancho ci sono alcune stelle poste da sé, che non entrano in fare alcuna imagine, e molte ci sono, aggiunte per la relatione de' naviganti,
che appartengono all'altro polo" (p. 221). Il mondo si sta dilatando con le nuove scoperte e Barbaro si meraviglia che i "Greci" con le
"loro favole" abbiano riempito il ciclo senza essere stati smentiti fin'ora, mentre tributa un omaggio al suo maestro Federico Delfino col
pubblicare le tavole astronomiche compilate da lui nel 1520 (pp. 221-27). Certamente a Roma avrà calcolato l'ombra degli obelischi per
trame la tavola a p. 23 1 o per disquisire sull'obelisco di Augusto nel Campo Marzio, mentre il problema delle meridiane a parete lo porta a
disegnare per punti quelle curve iperboliche, che poi Federico Commandino tratterà nel suo commento agli Analemmi di Tolomeo19.
La tavola mobile a p. 228 mostra come i naviganti possono "fare il punto" nell'emisfero australe, dove "Quattro Stelle poste in croce segni
sono dell'altro polo", mentre nella pagina successiva descrive come nell'emisfero boreale oltre alla latitudine si può conoscere il tempo
dell'anno e l'ora della notte per la rotazione della stella "horologiale"20.
libro VI camini, si noti l’interpretazione del passo di Vitruvio con l’esempio del focolaio friulano al centro della stanza. Libro VIII
livella per costruire acquedotti. Libro VIII strumento geometrico di Nicomede. Libro IX costruzione della meridiana
Possiamo ritenere che il suo manoscritto De Horologis Describendis libellus della Biblioteca Marciana [Cod. Lat. Vili, 42, (3097)] contenente 56
fogli, sia stato in gran parte trasfuso nel Della ragione et uso de gli horologi, et della loro inventiom, et de gli inventori', titolo del capitolo IX. Quanto
il patriarca tenesse a questo ricchissimo e originale brano del suo commento lo dimostra il ritratto di Paolo Veronese del Rijksmuseum di
Amsterdam. Daniele apre il suo Vitruvio mostrandone parzialmente il frontespizio e dietro tiene aperta un'altra copia proprio per mostrare
l'inizio di questo capitolo. La pag. 235 dell'edizione marcoliniana (fig. 8) non corrisponde a quella dipinta, ma si tratta probabilmente di
"licenza pittorica": l'in folio è chiaramente quello del '56 e vi appaiono le due silografie con la costruzione piana dell'orologio solare di Beroso e
con il putto che indica la ora sulla medesima proiettata sulla superficie concava di un cartiglio; "Figura, che per ornamento e bellezza havemo
fatto" scrive il Barbaro21.
Le due meridiane tracciate nei fronti delle colombare di Maser indicano, quella di sud-ovest l'ora solare e quella di sud-est il mese secondo i
segni zodiacali; esse non sono altro che la dimostrazione pratica della scienza gnomonica enunciata in queste pagine. Ma oltre alle meridiane a
muro delle quali traccia diversi schemi (fig. 9) esistono molti altri tipi di orologi solari: l'astrolabio planisferico può essere impiegato a questo
uso se è costruito secondo la proiezione ortogonale descritta da Tommaso Rojas (come lo chiama Barbaro, o Rochas) medico e professore a
Montpellier, autore del Commentarium
in Astrolabium (1551); il torquetum può essere inclinato a seconda della latitudine e orientato secondo il corso del sole, come quelli inventati da
Giovanni Stabio e da Pietro Apiano, astronomo e astrologo di Carlo V; infine molti altri tipi di orologi portatili "per i viandanti", come il
"compasso", "i quadranti, i circoli piani [che] sono quelli che stanno appesi, de i quali ne sono pieni i libri de gli horologigraphi" (p. 236). A questo
proposito Barbaro cita doverosamente Sebastian Mùnster, autore della Composito horologiarum del 1531, e dello zodiaco triangolare, che descrive nelle
pagine seguenti, ma sostiene che nulla vi è di nuovo in questi autori che già non fosse trovato dagli antichi. Dopo avere illustrato gli analemmi
necessari per costruire gli orologi solari a muro, egli passa a descrivere un tipo portatile a sospensione che corrisponde a un astrolabio piano tagliato a
metà (fig. 10), né vuole proporlo come sua invenzione: "io veduto che n'ebbi uno molto antico, senza molto pensarvi sopra, trovai la sua ragione,
benché altri per lo guadagno tenghino in riputazione queste baglie e si vadano avantando d'haverli rittrovati" (p. 243).
Fra le tavole astronomiche che sono incluse nel libro nono oltre a quelle di Federico Delfino ve ne sono di più recenti ed aggiornate, come per esempio
quella del movimento del sole per l'anno 1556 che si possono attribuire al Barbaro stesso, astronomo appassionato, ma forse anche un po' astrologo.
Come Girolamo Fracastoro crede che la sifilide derivi da un incontro nefasto di astri, anche Daniele crede che la natura sia influenzata dal ciclo e pure
gli uomini; al centro di Maser la sala dell'Olimpo dipinta dal Veronese pare mettere in forma quanto Vincenzo Cartari aveva scritto nell'opera Delle
immagini degli dei, pubblicata da Marcolini proprio nel 1556. Né il prelato pare curarsi in sede privata di questa sua passione nonostante la condanna
controriformista che segue quelle di Girolamo Savonarola (Trattato contro gli astrotogi, 1490) e di Pico della Mirandola (Adversus astrologos, 1523).
Due invenzioni tratte da Ctesibio concludono il libro. Si tratta di due orologi ad acqua. Nel primo una campana rovesciata aziona un complesso
sistema di ingranaggi che fanno girare una colonna con incise delle linee di varia inclinazione, la stessa campana solleva un'asta recante un putto
che indica sulla linea del cilindro l'ora e il mese (fig. 11). "Et invero - scrive Barbaro - è bella inventione, conosciuta dal Marcolino, e ci
dimostra molte belle cose, come parerà a chi ne farà la prova" (p. 245). Nel secondo un congegno idraulico simile muove una lancetta su un
quadrante disegnato come la rete (ararne) di un astrolabio piano. Sopra questo quadrante ne ruota uno mobile che con sottili accorgimenti
meccanici indica i segni dello zodiaco e le stagioni, il crescere dei giorni e il calar delle notti e viceversa (fig. 12). Se Vitruvio vuole "che la bolla,
che tiene la imagine del sole, sia a mano trapportata di foro in foro contra il giro del timpano, niente di meno l'ingegnoso M. Francesco Marcolino
ha trovato il modo di fare che la lenguella, che nella parte dianzi dimostra l'hore (che noi chiamiamo raggio) ritorni a dietro ogni dì di un
grado" (p. 247). Queste testimonianze rendono attendibile la notizia riportata da Anton Francesco Doni che l'editore scrisse "un trattato di
fare varie sorte di horologi da pesi, da molle, da sole, et da polvere de più sorte, et che si voltano da sé, subito che è andata giuso l'arena"22.
Riprenderemo l'argomento più avanti, ora torniamo al commento a Vitruvio.
Il decimo libro tratta della meccanica, degli ordigni di guerra, ma anche degli argani, delle pompe, delle invenzioni che alleviano il lavoro umano. Secondo
Barbaro quando la natura sembra essere avversa all'uomo può essere piegata a suo vantaggio conoscendone le leggi: "Questo modo è riposto nell'aiuto
dell'Arte, con la quale si vince la natura in quelle cose nelle quali essa natura vince noi" (p. 254). Il soggetto della meccanica sono le cose naturali, ferro, legno,
pietra, soggetti variabili e mutabili, ma le ragioni e le leggi sono matematiche, immutabili e tutte riducibili a un moto circolare. "Tutto nasce dalla leva e la
leva dalla stadera e la stadera dalla bilancia e la bilancia finalmente dalla proprietà del circolo" (ivi) poiché il circolo riunisce in sé i contrari, il mobile e
l'immobile; e in fondo il mondo stesso è con la sua "continua giratione" una macchina.
Queste riflessioni nascono dall'esperienza fatta da Barbaro all'interno dell'Arsenale e per spiegare la costruzione della "troclea" vitruviana scrive che "il più
semplice modo è drizzare una cavalletta, o gaverna che si dica, di travi o antenelle, per usare i nomi del nostro Arsenale, acciò meglio si piglie pratica di tal cose" (p.
256). Come più tardi per Galileo il grande cantiere veneziano diventa laboratorio, la voce e la cultura degli "arsenalotti" entra in queste pagine: le "fibule" diventano
"pironi", gli "orbiculi", "girelle", o "raggi", il perno dentro queste carrucole dall'"assiculo" vitruviano diventa marsione ". I ' ' molinelli ' ' sono posti ai piedi della
gaverna imperniati a "gattelli" o "castagnole" e sono vólti da "pironi" che traducono le vectes latine. I forcipi sono "ganzi" e il nobile veneziano descrive la perizia con cui
le fimi sono passate nelle carrucole di legno di bosso in maniera che il peso può essere ridotto secondo leggi matematiche, "là dove se non fusse la gravita delle funi,
l'asprezza de i raggi et la tardezza del moto per li molti ravolgimenti della fune, che sono i difetti non della forma, ma della materia, un fanciullo prestamente
alzarebbe un smisurato peso" (p. 256). Qui intuisce il contrasto galileiano fra "le imperfezioni della materia" e "le purissime dimostrazioni matematiche", ma
cerca di risolverlo con consigli pratici: "dar sapone alle funi, l'ugnere i raggi, il far bene le taglie con i raggi diritti, l'acconciar i menali [le funi] che non s'intrichino o
rodino insieme..." (ivi), ricordando infine che i molinelli si muovono meglio quanto più lunghe sono le stanghe "poiché la lunghezza si allontana dal centro,
che è immobile". Le macchine vitruviane prendono corpo e vita nella Venezia marittima che Barbaro osserva, nelle navi che caricano e scaricano, negli argani che
le traggono in squero o le varano in acqua, nella perizia con cui si ordiscono funi e sàrtie.
A proposito delle leve e delle bilancie il commentatore segue le Meccaniche di Aristotele, ma osserva che il timone guida la nave in forza della distanza fra esso e la
prua, che il remo è una leva, lo scalmo è il fulcro e il peso è il mare, mentre le rispettive braccia sono dal mare allo scalmo e da questo alla mano del "galeotto". Le
proprietà della vite ("coclea") sono spiegate attraverso le osservazioni di Girolamo Cardano nel libro diciassettesimo del De subtilitate rerum (1550).
L'esperienza diretta guida il commento della tavola che illustra vari tipi di pompe idrauliche e un mulino ad acqua. Quella a ruota con i secchi tirati da una catena può
sollevare l'acqua più in alto se i secchi sono posti sul taglio della ruota, "come io ho veduto a Bruggie, terra della Fiandra" (p. 263). A proposito della vite di
Archimede scrive: "io ho veduto questo strumento fare una mirabilissima prova nelle nostre paludi per seccar l'acque che in esse colano; e di più io ho veduto che, essendo le
paludi presso il fiume di Brenta, la ruota che volgeva la vida era posta sopra il fiume di modo che l'acqua, volgendo la ruota faceva che altre ruote e rocchelli, che
dal perno di quella alquanto discosti erano, si movessero e dessero vòlta alla vida che dalla palude cavando l'acqua la faceva cader in un vaso sottoposto da cui n'usciva
un canale di legno, per lo quale l'acqua cavata se ne andava nel fiume" (p. 264). Proprio nel 1556 viene istituito il magistrato sopra i Beni Inaiiti e la Repubblica,
seguendo le esortazioni di Alvise Cornare pare rivolgersi alla bonifica dei territori paludosi del Brenta, Marco Antonio, fratello di Daniele sarà Provveditore ai
Beni Inculti e Palladio inventerà un'idrovora a timpano con pale a turbina, descritta da Giuseppe Ceredi, piacentino, il quale però sorriderà all'idea prudentemente
espressa nel commento di Daniele, che il moto della pompa di Fusina possa considerarsi "perpetuo"23. Ancora nel 1575 il pittore Giuseppe Porta (Sal-viati) propone ai
Savi ed Esecutori alle Acque una pompa a vite di sua invenzione per prosciugare valli. Più moderna, anche se esemplificata su Ctesibio, è la pompa a stantuffo descritta per
ultima e munita di valvole di legno e di cuoio di cui appaiono molti esempi nel celebre De Re metallica di Georg Bauer (Agricola), pubblicato sempre nel 1556 da
Frobenius a Basilea; simili a questa sono le "trombe" con le quali si prosciugano le sentine delle navi.
Sullo stesso principio Barbaro illustra il funzionamento dell'organo idraulico nel capitolo XIII, alimentato invece che da mantici da due stantuffi, "moggetti", di
rame collegati con catene a due delfini che ne regolano alternativamente il movimento; "così formati - scrive Barbaro - per adornamento, sono così chiamati
(come dice il Marcolino) dal movimento loro, che rassomiglia allo effetto che fanno i Delfini nel suo apparire fuori e rituffarsi in acqua" (p. 266).
L'incastellatura delle canne appare simile a quella di un organo ad aria compressa tradizionale, senonché esso poggia su una vasca di rame parzialmente riempita
d'acqua e l'aria spinta dagli stantuffi in una tramoggia alza l'acqua nelle canne secondo i comandi della tastiera, producendo un suono "tremante",
particolarmente apprezzato da Nerone. I principi di questa macchina idraulica, ricostruita" con l'ingegno e il lume dell'ingegnoso Marcolino", si fondano su
Ctesibio e su / moti spiritali di Erone che Barbaro dice di aver tradotto24. In un lato del giardino della villa di Ippolito d'Este a Tivoli c'è la fontana
dell'organo idraulico, ma l'edicola che conteneva lo strumento ideato dal francese Claude Vernard è oggi vuota.
Barbaro dimostra molto meno interesse per i capitoli conclusivi del libro che trattano le macchine di guerra, descritte da Vitruvio in maniera poco chiara e
non confrontabili con testimonianze attendibili, e poi così superate da non motivare un'inutile erudizione.
Palladio e Vitruvio
Le tavole dei templi e degli ordini, del teatro, della basilica e della casa non sono molte, ma bastano a esprimere l'interpretazione che
Palladio (1508-1580) da di Vitruvio e della architettura antica. E poiché esse appaiono estremamente schematiche, con accenni com-
pendiari e interrotti di ogni decorazione che non sia necessaria a illustrare il discorso esse collimano con le concezioni di Barbaro.
Mentre ne 7 quattro libri si trovano accenni alle venature dei marmi delle colonne e l'architetto sembra indugiare su alcune notazioni
pittoriche negli spaccati di muri e vòlte, qui ogni membro architettonico appare nella sua forma pura e incontaminata. Nel quarto libro
Palladio descrive i templi che ha visto e ha scelto di misurare e riprodurre nella sua antologia della "vera" architettura, mentre qui non
vi è più un riferimento preciso a questo o quel monumento; così Vitruvio diventa regola universale del classicismo, insegna non a
imitare ma a comporre cose "degne degli antichi". Pianta e alzato con la sezione composti nella stessa tavola bastano a indicare la
simmetria, la disposizione, l'ordine dell'edificio in maniera inequivocabile e a rappresentarne l'idea con tutte le grandezze e proporzioni
necessarie, mentre ombre e prospettive sono inutili. È lo stesso concetto che si trova nella Lettera a Leone X di ignoto autore, ma
vicino all'ambiente raffaellesco: "E perché el modo del dissegnar che più si appartiene allo architecto è differente da quel del pictore, dirò
qual mi pare conveniente per intendere tutte le misure e sapere trovare tutti li membri delli edifici senza errore". Dalla pianta si passa
al prospetto e alla sezione per tracciati ortogonali di linee parallele, "e in tali disegni non si diminuisca nella extremitate, ancora che lo
edificio fosse tondo, né ancora se fosse quadro, per farli mostrare due faccie. Perché lo architecto, dalla linea diminuita, non può pigliare
alcuna giusta misura..." [R. BONELLI (a cura di), Lettera a Leone X, in Scritti rinascimentali di architettura, Milano 1978, pp. 480-81].
La tavola che illustra le cariatidi è in tutti i Vitruvi illustrati, da fra' Giocondo in poi (fig. 15), e Palladio (se ne è l'autore) indulge ancora nella
descrizione delle statue-colonne, ma poi le aggettivazioni si diradano, diventano annotazioni frettolose di pochi segni a un estremo del prospetto e della
sezione per suggerire che possono continuare nello spazio lasciato bianco fra le linee. Anche alcune piante dei templi appaiono tagliate a metà (fig.
16) forse per le ragioni di difformità fra i legni già preparati e il formato delle carte, ma anche forse per stimolare un intervento attivo del lettore che deve
mentalmente raddoppiare l'immagine ribaltandola per ottenere quella intera. "Hora la infraposta pianta - scrive Barbaro - si deve intendere che
dall'altro capo habbia, come dall'uno, e le colonne e i gradi e benché sia più picciola dello inpié egli però si deve intendere della istessa grandezza" (p. 20).
"Come ho voluto intendere da quelli che lavorano nell'Arzanà de Venetiani"25 lo spazio fra uno scalmo e un altro da la misura che regola
tutto il corpo della galera, così dalla larghezza della colonna si prende il modulo che regola gli spazi fra le colonne e la loro altezza (p. 25).
Le differenze di scala fra la pianta e il prospetto corrispondente sembrano proporre un esercizio per dimostrare dell'invarianza di modulo e
proporzione al variare delle misure assolute. L'architetto "virtuoso" deve trovare negli scritti e nelle tavole regole per comporre e non disegni
da imitare. Forse di questo Barbaro aveva a lungo discusso con Palladio fra il 155 1 e il 1556. "Più volte ho desiderato -egli scrive - di
communicare le fatiche mie con altri e in commune investigare la verità, accioché quello che non può far uno solo fatto fusse da molti,
ma questo per alcuna cagione che io non so non mi è venuto fatto, eccetto che ne i dissegni de le figure importanti ho usato l'opera di M.
Andrea Palladio Vicentino, Architetto il quale ha con incredibile profitto tra quanti ho conosciuto e di vista e di fama e per giudicio de
huomini eccellenti acquistato la vera Architettura, non solo intendendo le belle e sottili ragioni di essa, ma anco ponendola in opera, sì
nei sottilissimi e vaghi disegni delle piante, di gli alzati e de i profili, come ne lo esequire e far molti e superbi Edifici) in patria sua e
altrove che contendono con gli antichi, danno lume a' moderni e daran meraviglia a quelli che verranno. Et quanto appartiene a Vitruvio
l'artificio de i Theatri, de i Tempi, de le Basiliche e di quelle cose che hanno più belle e più scerete ragioni di compartimenti, tutte sono
state da quello con prontezza d'animo e di mano esplicate e seco consigliate, come da quello che di tutta Italia con giudici ha scielto le più
belle maniere de gli antichi e misurate tutte l'opere che si trovano. Ne i disegni adunque ha guardato più ale misure che alle pitture, perché
Vitruvio insegna le proporzioni e non le adombrationi delle opere" (p. ,49).
Giustamente Tafuri ha notato che Palladio usa l’accorgimento di rendere trasparenti le colonne per disegnare il portale dorico o ionico.
ordine tuscanico,
ionico, corinzio,
colonne, fregi,
portali pp.
117,118, 119
tempio rotondo
periptero p. CXXV
libro V interno
della basilica
dove si
riconosce
chiaramente
l’invenzione
palladiana,
definita da
Barbaro
“bellissimo
edificio" pp.
133, 134
pianta e sezione della
ricostruzione della
basilica di Vitruvio con il
tempio di Augusto Libro
V, pp. 135, 136
Nei disegni autografi di Palladio si ritrova la stessa concisione e pulizia, il disegno non è fine a sé stesso, bensì strumento per esprimere
l'idea, cioè il progetto. Le cornici, i capitelli, le basi sono forme con le quali comporre opere originali pur seguendo le regole classiche,
perciò le tavole palladiane di questo Vitruvius Venetus ottengono a differenza di quelle degli altri commenti lo stesso successo universale
delle architetture. Viceversa le architetture di Palladio non ammettono inganni ottici e fughe prospettiche, i piani si sovrappongono senza
profondità nelle facciate dei suoi "templi cristiani", le cornici si semplificano e si appiattiscono, pietra d'Istria o mattone intonacato "a
marmorino" sono materiali intercambiabili e indifferenti alle forme. Il fregio dell'ordine dorico è illustrato con un frammento dell'angolo
dove metà di un bucranio, un triglifo e un terzo di patera o i piedi della statua posta sul coronamento sono sufficienti a suggerire
l'immagine del tutto (fig. 17), mentre il disegno della decorazione della cornice rivolta verso il basso è aggiunto a lato di seguito
all'aggetto di questa visto di prospetto. La visione da sotto in su appare inedita e innaturale (fig. 18) ma è l'unica che mostri la generazione
geometrica del capitello corinzio: esso di per se stesso è un'architettura dove "la campana" è rivestita da ornamenti naturalistici (le foglie
di acanto) strettamente inscritti dentro il tracciato di riga e compasso. Nella tavola della porta ionica (fig. 19) le colonne diventano diafane
per mostrare gli stipiti retrostanti, strombati come nel vestibolo del cenacolo di S. Giorgio. Il commento sembra abbreviarsi e retrocedere
davanti alle immagini che mostrano "l'idea" palladiana della basilica di Giulio Aquilio (che il patriarca interpreta come aquileiese). Anche
qui il prospetto laterale interno è rappresentato in un frammento (fig. 20) dove ogni profondità e chiaroscuro viene eliminato per non
alterare i rapporti fra le colonne dei due ordini e le nicchie alterne ad arco o trabeate. Anche la famosa tavola della scena del teatro latino è
interrotta appena oltre l'arco centrale (fig. 21) e gli incavi delle esedre sono appena suggeriti dall'addensarsi delle colonne e dallo scorcio
di un arco in quella centrale, ma Palladio e Barbaro non possono esimersi da usare la prospettiva nelle scene dove compare l'obelisco
vaticano. La tavola, scrive Daniele, nasce "con grande pensamento consultando questa cosa della quale non ne havemo essempio antico.
Insieme con nostro Palladio si ha giudicato questa esser convenien-tissima forma, e di più siamo stati aiutati dalle ruine d'un teatro antico
che si trova in Vicenza tra gli horti e le case d'alcuni cittadini, dove si scorgono tre nichi della scena, là dove noi havemo posto le tre porte, e il
nichio di mezzo è bello e grande e ci ha dato alquanto di lume. Specialmente [ciò si deve] al buon giudicio e esperienza, che ha il detto
Palladio, in ogni bella maniera di fabrica e il gusto delle cose antiche, e se altro ci manca lo lasciamo al giudicio e alla inventione de gli
altri che potranno forse aggiugnere alle cose nostre amorevolmente qualche osservazione" (p. 167).
Ma poi questo rapporto di stima fra Barbaro e Palladio si spezzerà e nella seconda edizione latina e italiana del 1567 l'architetto non verrà
più nominato, né l'autore terrà la promessa di includere il libro secondo delle case private di Andrea nella nuova edizione, come scriveva
nel commento del '57 (p. 178). Forse dopo Maser le loro strade si dividono. Eppure Giovan Battista Maganza, fingendosi "povero boaro"
si rivolge a Daniele Barbaro ricordandogli la collaborazione palladiana:
E senza barba Andrea
Che g'ha si dertamen insegnolò
Quel bel Svetrulio, che ghi deschiarò
El se vede ivelò
In pe de fierri, ovrar le man, e '1 becco,
E la snatura che xe l'Architecco:
Ta de domene stecco
Que defferientia xe caro Paron
Da vu a mi, da 'n pallazzo, a un cason.

(MAGAGNÒ, MENON e BEGOTTO, La prima parte de le rime, Padova 1558, pp. 19rev).
ricostruzi
one del
tempio
toscano
libro IV
pp.
CXXVIII,
126
La costruzione della voluta ionica e Giuseppe Salviati
La costruzione della voluta ionica è una famosa crux vitruviana. Il suo tracciato è descritto per la prima volta in maniera scientifica da Dùrer nel primo
capitolo deli'Unterweisung der Messung (1525), senonché la sua spirale risulta del tutto diversa dai modelli antichi e (oseremmo dire) decisamente brutta
architettonicamente. Nel 1544 appare la costruzione di Philander ancora insoddisfacente e nello stesso anno quella molto più bella di Giuseppe Porta detto
il Salviati, ma non sotto il suo nome.
La pubblica Francesco Marcolini nella terza edizione del Quarto Libro delle Regole Generali di Sebastiano Serlio aggiungendola a quella dell'architetto
bolognese e dichiarandola come propria invenzione (cc. XXXVIIv-XXXVIIIr). Verìtas filia temporis si legge nell'impresa dell'editore e nel 1552 egli pare
fare ammenda con il pubblicare La regola di far perfettamente col compasso la voluta et del capitello ionico et d'ogn'altra sorte sotto il nome di Giuseppe Salviati in
unaplaquette in folio. Il pittore la dedica a Barbaro e scrive di averla inventata a Padova fra il 1540 e il 1541. "Poco tempo dopo -aggiunge - essendo io
ritornato in Venetia, Messer Sebastiano Serlio... hebbe notitia di questa mia inventione dal mirabile e ingegnoso M. Francesco Marcolini, col quale teneva molta
dimestichezza, e con esso lui venuto un giorno a casa mia per vederla, mostrò che gli piaceva sommamente, e lodolla per la migliore che infin a quest'hora russe
stata ritrovata, e datogli la regola di farla, mi promise che se per alcun tempo gli russe accaduto di metterla in luce, egli sotto il mio nome l'haveria publicata".
Stranamente Barbaro sembra ignorare o non voler riconoscere questa opera. Nel terzo libro scrive: "Della voluta veramente io ne ho trovato dieci inventori per
loro sagramento, e molti che non fanno altro di Vitruvio che la voluta, se pur la fanno bene, che però non rendeno conto... Io ragionando più volte con
Messer Andrea Palladio Architetto Vicentino e mostrateli alcuni modi di tirar la voluta a sesta molto differenti di quelli di Alberto, Philandro e del Serlio,
benché pareva che io m'incontrassi con le parole di Vitruvio, niente-meno la voluta non era garbata, dove, non satisfacendo io ancho a me stesso, egli, che è molto
pratico di fabbricare, e intendente se alcun'altro si trova, mi espose la sua inventione, nata dal misurare con diligenza ogni capitello antico, e veramente è
quella" (p. 95).
Ora la costruzione di Palladio è del tutto simile a quella di Salviati e si basa sull'inscrizione di un quadrato al centro, "occhio" della voluta sui vertici del quale
far centro con il compasso a varie aperture, ma la tavola a pagina 95 non dimostra ciò che è scritto (fig. 22) e ce ne da solo il risultato finale. Solo in
appendice al volume troviamo un'esatta immagine della costruzione (fig. 23), Salviati è ricordato come inventore defraudato, ma Barbaro non ammette il
plagio da parte sua e di Palladio. Nel tempo Salviati verrà risarcito e la sua costruzione apprezzata anche in età neoclassica quando Gian Antonio Selva scrive
Delle differenti maniere di descrizione della voluta ionica e particolarmente della regola ritrovata da Giuseppe Porta detto il Salviati (Padova 1814).
L'ingegnoso Marcolini
Francesco Marcolini da Forlì è un personaggio chiave per capire il clima artistico e culturale della Venezia del manierismo. Ancora oggi per le poche notizie
biografiche che abbiamo, dobbiamo basarci sulle Memorie biografiche di Raffaele De Minicis che accompagnano il Catalogo ragionato di opere stampate di Gaetano
Zaccaria (Fermo 1850) seguito poi dagli Annali... di Scipione Casali (Forlì 1861).
Dopo Giovanni e Gregorio de' Gregori, grandi stampatori forlivesi a Venezia, nel 1534 Marcolini compare come editore della Passione di Giesù, dei Seffe Salmi,
della Cortigiana e del Ragionamento della Nanna e della Antonia di Pietro Aretino26.
Si serve della tipografia di Giovan Antonio de' Nicolini da Sabio e solo nel 1535 apre quella sua a santa Ternita, vicino all'arsenale e a S. Francesco della Vigna. Essa
coincide con la sua casa dove crea un ambiente culturale simile all'accademia di Aldo quanto diverso per i cambiamenti in corso nel gusto artistico e culturale
italiano e veneziano.
Il fatto che la sua attività al suo nascere a Venezia (non sappiamo infatti quali esperienze avesse fatto in precedenza, forse a Firenze o a Roma) sia tutta legata
all'Aretino, allora nel pieno della sua attività creativa, potrebbe indurre a pensare che lo scrittore stesso lo invitasse a venire nella città dove sotto il doge
Andrea Gritti iniziava una nuova stagione artistica. Nel 1537 fa da "compare" al battesimo di Adria, primogenita dell'Aretino, insieme con Fra' Sebastiano
del Piombo, e poi anche della secondogenita Austria. "Compare" è chiamato da Vasari e da Leone Leoni, ma soprattutto le Lettere, di Pietro Aretino sono
la fonte principale per conoscerlo. Nel 1536 pubblica il Cantus liber di Adriano Willaert cui seguiranno poi altri tre titoli musicali e l'anno dopo il suo
primo libro di architettura le Regole Generali, il quarto dei Libri di Serlio, cui si aggiungono altre cinque opere in prima edizione - il terzo Libro delle Antichità di
Roma e d'Italia di Serlio (1540), // magno palazzo del Cardinale di Trento di Andrea Mattioli ( 1539), La regola di far la voluta ionica... di Giuseppe Salviati
(1552), il Vitruvio ( 1556) e Del modo di fare le fortificazioni di Giacomo Lanteri (1559).
Sebastiano Serlio Tracciato della voluta ionica Il quarto libro Venezia Marcolini 1537, Giuseppe
Porta detto Salviati, Regola di fare la voluta ionica, Venezia Marcolini 1551 31
Vasari testimonia che Serlio scelse Marcolini per la sua esperienza di intagliatore e incisore in legno e infatti i libri serliani in folio con i loro
frontespizi e le grandi tavole spesso a doppia pagina, accompagnate da testi esplicativi in un corsivo elegante e chiaro inventato da
Marcolini, sono il manifesto del manierismo italiano e veneto. Serlio infatti nella sua dedica delle Regole del'3 7 si rivolge al doge Andrea
Gritti che "in Venetia, ricetto di tutto il ben humano e divino, ... ha condotto al servigio de la sua inclita Republica questi singular
huomini, che così fanno stupenda questa Città di nobili ed artificiosi edifici come la fece Dio mirabile di natura e di sito". Essi sono lo
Scarpagnino, Sansovino e Sanmicheli, che insieme con Francesco Maria I della Rovere, duca d'Urbino, ha fortificato Verona e Legna-
go, Tiziano "ne le cui mani vive l'idea di una nuova natura non senza gloria de l'Architettura", Vettor Fausto inventore della quinquire-
me, e gentiluomini dilettanti come Gabriele Vendramin, Marcantonio Michiel e Francesco Zeno. A Padova Alvise Cornaro "architetto da
sé grande, ma fautor grandissimo di tutti gli architetti" e infine Alessandro Strozzi. Marcolini stesso interviene con aggiunte e osser
vazioni nelle edizioni successive del libro serliano aggiungendovi nel 1540 una lettera ad Alvise Cornaro. Il forlivese non è solo
disegnatore ed incisore manierista, ma dilettante di architettura. Nel 1545 costruisce il ponte lungo a Murano "de legno a modo non
più visto in Venetia essendo podestà ser Sebastian Badoer", come si legge nella cronaca di Stefano Magno conservata alla Marciaria
[Cod. it. VII, 513-518 (7879-7884), VI, p. 41]. A questo proposito vi è la lettera dell'Aretino a Sansovino del luglio 1545: "E grande il
piacere ch'io sento del ponte del quale è suto authore il Marcolino" dove lo scrittore ringrazia Jacopo per aver scelto il modello
dell'editore e averlo consigliato con la sua esperienza, così "M. Francesco nostro ha dato con sì superbo edificio l'anima al corpo di
Murano"27. L'"ingegnoso" libraio è ingegnere e Anton Francesco Doni cita un suo Discorso sopra tutti gli ingegneri antichi e moderni
nella Seconda libraria (Marcolini 1555).
Fra il '45 e il '50 c'è un vuoto nell'attività editoriale. Isabella, la moglie amatissima, si ammala e lui la porta nel '46 a Cipro,
nell'agosto del '48 è già morta: "Agosto se ne va e voi non venite" gli scrive Aretino "onde io ne vivo come persona strana, che invero ogni
altra conversazione mi pare di forestiere e non di amico, se lecito è chiamare con tale nome un fratello"28. Lo scrittore commosso lo
accoglie al suo ritorno nel dicembre dello stesso anno, ma fra di loro non vi saranno più i rapporti affettuosi di prima.
La nuova stagione editoriale si apre con la collaborazione di Anton Francesco Doni e Marcolini è il segretario dell'Accademia Peregrina che
riunisce intorno al bizzarro scrittore amici nuovi e vecchi, l'incisore e antiquario Enea Vico, Jacopo e Francesco Sansovino, Tiziano,
Giuseppe Salviati e Danese Cattaneo. Si tratta di una esperienza rapidissima che si conclude dopo il 1552 con il ritorno del Doni a
Firenze, ma ricca di frutti, come Gli inferni, I Mondi, La Zucca, I marmi, La Libraria, dove le silografie di Marcolini, del Salviati,
forse di Tiziano e di altri si mescolano al testo, si scambiano
per essere ripetutamente reimpiegate
Daniele Barbaro può essere considerato fra i vecchi amici. Nel 1542 pubblica presso di lui la Predica dei Sogni che pare avvicinarsi al
tema delle Sorti, intitolate giardino dei pensieri di Marcolini stesso ( 1540), poi messo all'indice per il suo contenuto chiromantico. Forse
per questo Daniele, dopo la sua elezione al Patriarcato di Aquileia nel 1551, si terrà lontano dall'Accademia, ma lo sceglie come
editore del suo Vitruvio e come consulente non solo per gli orologi ad acqua e per l'organo idraulico, ma per un'altra questione.
Libro X orologio e organo idraulico ricostruiti con la collaborazione di Marcolini
Plinio il Vecchio descrive due teatri inventati da Curio, essi erano di legno e venivano fatti ruotare di modo che, levate le scene, si componevano
in un anfiteatro. Proprio su questo argomento Ermolao Barbaro aveva chiesto la consulenza di Fra' Giocondo per le sue Castigationes plinianae
secundae (Roma, 1495) e nel 1496-1497 Leonardo ne da una soluzione (Cod. I di Madrid, fol. HOr). Del movimento di questi teatri anche
Girolamo Cardano nel Desubtilita-te aveva cercato di dare una spiegazione con un grafico che Daniele riporta nel commento (p. 162). Ciò non
toglie che gli restino delle riserve e scriva: "Mentre io stava in questa consideratione, mi sopravvenne l'ingenioso Messer Francesco Marcolini,
col quale comunicando il mio pensiero, egli con la prontezza con la quale trova i modi di sciogliere ogni quesito, facimente mostrò che facendo i
centri dove andavano i perni ne l'un capo del diametro dell'orchestra, i theatri si sarebbon voltati e rivoltati e congiunti insieme. E fattone la prova
con le piante de i theatri quivi descritti, riuscì mirabilmente, aggiungendo che in più luoghi si dovevano porre de i ruotoli di bronzo grossi
accioché i theatri russerò da quelli sostentati e portati e con facilità rivoltati" (p. 162). Probabilmente la prova poteva funzionare solo con piante
ritagliate e non con teatri di legno come quelli allestiti da Vasari o da Palladio a Venezia, ma questo bastava a Barbaro e tanto gli piaceva da
aggiungere in appendice del libro le due tavole mobili (figg. 2 , 3 ) dove la rotazione è ottenuta con un pezzette di spago assicurato da tasselli di
carta incollata alla pagina e alla figura ritagliata.
Le grandi silografie "pittoriche" dell'exergo e quelle degli orologi idraulici e delle pompe, infine anche quella del contamiglia terrestre e marino e
dell'organo ad acqua potrebbero essere attribuite al Salviati, ma il pittore che aveva firmato l'antiporta delle Sorti del Marcolini mostra uno stile
molto diverso. Quindi noi propendiamo per l'attribuzione all'editore stesso, almeno nell'ideazione e nella sorveglianza dei suoi intagliatori (figg.
7, 11, 12, 13, 14); solo chi era stato inventore di quei congegni poteva rappresentarli senza fraintenderli. Il Doni nella Zucca (155 1, I, p. 24)
descrive l'illustrazione allegorica della Sapienza "come bene la dipinse M. Francesco Marcolini" e nei Marmi (II, p. 85) presenta l'allegoria del
matrimonio come "inventione" del forlivese30. Francesco aveva fatto del rapporto immagine, stampa il pregio dei suoi prodotti librari e
implorava Vasari che desse una "figuretta" per un madrigale del Doni, ma alla fine della sua attività le illustrazioni diventano rare. Dopo il '59
non si hanno più suoi libri e si pensa sia morto intorno al '60, mentre i legni della sua officina circolano per le stamperie veneziane fino al Seicento.
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1
Le pagine 39, 40, 156 sono ripetute due volte, da p. 157 si salta a p. 167 e dopo la p. 169 viene la p. 160. Le tavole incollate sono a pp. 21-22, 71-72 e 85-86; quelle con fogli piegati
sono a pp. 69, 71, 78, 125 CXXV, 127 CXXVII. Le tavole mobili si trovano a pp. 39 e 228 e nell'appendice V2 e V3. Esistono però varianti da esemplare a esemplare. Cfr. L. H. FOWLER,
E. BAER, The Fowler Arcbitectural Collection.,. Catalogne, Baltimore 1961, scheda (407), pp. (319-20) dove si riporta l'attribuzione delle tavole a Giuseppe Porta su disegno di Palladio
secondo quanto già scritto in Berlin Catalog, 1814 e NAGLER, Kiìnstler Lexicon, X. p. 481, XI, p. 524. C'è da dire però che il Salviati appare come disegnatore di illustrazioni e non come
incisore; per es. della "crocifissione" inclusa nella.Contemplatio totius vitae et Passionis D. N.J. Cristi per la quale Giovanni Ostaus ottiene il privilegio di stampa dal Senato insieme con
Marcolini per il Vitruvio.
2
Cfr. L. OLIVATO PUPPI, Architettura e utopia nella Venezia del Cinquecento, Milano 1980, schede, pp. 178-79. Il primo Cod. è di cc. 369 e contiene quattro frammenti della traduzione.
Solo il quinto Libro è autografo del Barbaro e porta delle varianti rispetto al testo stampato, mentre gli altri sono di mano di un copista. Solo due disegni possono essere considerati
preparatori all'edizione del '56 con postille di mano del Barbaro. Il secondo Cod. è di cc. 109, tutto di mano di un copista con scarsi e insignificanti disegni. Difficilmente l'edizione può
essere uscita da questo materiale, mentre invece rimane il menabò della Pratica della perspettiva di Barbaro nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, Cod. It., IV, 40 (5447).
3
L’11 gennaio 1554 Palladio concorre a Venezia per la carica di Proto del Magistrato del Sal, ma vince Pietro Guberni. Forse a questa data risalgono i progetti per un palazzo a
Venezia, cfr. L. PUPPI, A. Palladio, Milano 1973, II, pp. 290-91; G. BELLAVITIS, I progetti di P. per due palazzi a Venezia, in Palladio e Venezia a cura di L. PUPPI, Firenze 1982, p. 59. Il
viaggio a Roma si colloca fra i primi mesi del 1554 e l’estate dello stesso anno; cfr. G. G. ZORZI, / disegni delle antichità di A. Palladio, Venezia 1958, p. 21 e L. PUPPI, Scrittori
vicentini dell’architettura del sec. XVI, Vicenza 1973, pp. 41-42. Cfr. inoltre E. FORSSMAN, Palladio e l’antichità in Palladio Catalogo della mostra (Vicenza 1973), Milano 1973, pp. 17-26.
4
Cfr. G. POLENI, Exercitationes Vitruvianae, Padova 1739, pp. 73-82; L. CICOGNARA, Catalogo Ragionato,.., Pisa 1821, I, p. 132; L. VAGNETTI, L. MARCUCCI, Per una conoscenza
vitruviana, regesto cronologico e critico, in "Studi e documenti di Architettura", n° 8, settembre 1978.
5
Cfr. V. FONTANA, "Arte e isperienza" nei trattati d'architettura veneziani del Cinquecento, "Architectura", Mùnchen, Vili, 1978, pp. 60-68 e ID. scheda in Architettura e Utopia... cit.,
p. 208 nonché L. OLIVATO scheda ivi, p. 181. Nel 1570 Gabriele Giolito annunciava la traduzione di Rusconi "in modo che tosto si spera con molte belle et utili figure darlo alla stampa"
nella collana delle Gioie.
6
Cfr. A. BEDON, // Vitruvio di Giovan Antonio Rusconi, "Ricerche di Storia dell'arte", 19, 1983, pp. 85-90.
7 Barbaro cita Pirro Ligorio a proposito del Circo Massimo. A Venezia nel 1553 è pubblicato il Libro di M. P. L. napoletano delle antichità nel quale si parla di circi e anfiteatri,
unico dei suoi studi antiquati stampato. Barbaro nel viaggio da Venezia all'Inghilterra sostò probabilmente a Fontainebleau dove ammirò il palazzo del Cardinale d'Este, la
"grand Ferrare" costruito da Serlio fra il 1544 e il 1556. Cfr. E. MANDOWSKY e C. MITCHELL, Pirro Ligorio's Roman Antiquities The drawings in MS. XIIIB7 in thè National Library
in Nap/es, London 1963.

8 Ciò è espresso nel dialogo dell'Eloquenza composto nel 1535 e pubblicato nel 1557.

9 Barbaro è in contatto con Benedetto Varchi che nella Lezzione... nella quale si disputa della maggioranza dell'ani letta all'Accademia Fiorentina nel 1546 e pubblicata nel '49
(pp. 75-77) pone l'architettura dopo la medicina in nome di Vitruvio, di Alberti e di Aristotele, mentre pittura e scultura sono subalterne.

10II testo manoscritto del Leonardi è ora pubblicato a cura di T. SCALESSE in "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura dell'Università di Roma", XX-XXI, Roma
1975. L'indice è riportato da Barbaro, pp. 39-40. Tramite Leonardi, Palladio diede consigli per il porto di Pesato, progettato da Bartolomeo Genga fra il 1551 le il 1553.

11 Non mancano annotazioni interessanti sulla sabbia (p. 47) e sulla calce (ivi), sulle pietre e sul modo di murarle (p. 49), sulle fondazioni veneziane (pp. 50-51) e sul legname
(p. 55).

12Per le proporzioni geometriche e aritmetiche Barbaro si basa sul testo dell'arabo al Kindi ("Alchindo") conosciuto tramite Filippo Archinto, legato papale a
Venezia. Cfr. inoltre R. WITTKOWER, Principi architettonici nell'età dell'umanesimo(1962), Torino 1964, pp. 69-7le 132-35.

13Continua riportando le proporzioni anatomiche secondo il De Subtilitate di G. Cardano e nell'edizione latina del '67 aggiunge la figura umana, ma senza le implicazioni
cosmiche di quadrati e cerchi inscritti o circoscritti, ridotta a puro studio delle membra fra loro. Cfr. E. PANOFSKY, // significato delle arti visive, Torino 1962, p. 86.

14Barbaro parlando dei triclini li paragona a mastabe turche (p. 174) e parlando delle cucine cita il parere dell'"architetto che fece il palazzo d'Urbino", mostrando di
conoscere i codici di Francesco di Giorgio (p. 178). A proposito delle abitazioni monastiche le vuole con chiostri, giardini, biblioteche e cenacoli, ma nell'edizione latina del
'67 aggiunge prescrizioni molto severe per i conventi di monache, tipicamente postridentine: "Loca tuta... parietibus altis circumsepta, fenestrarum luminibus non
emineant vicina aedificia, suis viridariis aliunde quam a coelo aperto non sit prospectus" (p. 155).

15 Di questa opera esistono tre codici alla Marciana: uno latino Scenographia Pictoribus et Sculptoribusperutilis [Cod. Lat. Vili, 41 (3069)] e due italiani. Il Cod. It. IV, 39
(5446) di cc. 310 è in grande misura autografo con figure a penna, alcune acquerellate, e contiene un materiale più ampio di quello pubblicato, il secondo è il menabò di
cui abbiamo parlato a nota 2.

16 Nicolo Zeno il Giovane (1515-1565) fu ambasciatore presso Carlo V ed ebbe corrispondenza con l'Aretino, Patrizi lo chiama "grande matematico". Del 1555 è la sua
organizzazione dell'Arsenale, nel 1556 è provveditore ai Beni Inculti e promuove la bonifica del basso Padovano, l'anno dopo è Provveditore alle Fortezze e capo dei X.
Marcolini è in famigliar!tà con lui e con la sua casa, nel '57 ne pubblica Dell'origine dei Barbari che distrassero per tutto il mondo l'imperio di Roma, onde hebbe principio la
città di Venetia, dove Zeno rivendica la nobiltà dei primi Veneziani, patrizi di Padova e di Oderzo fuggiti sulle lagune per conservare la propria libertà ed eredi dell'impero
romano.
17 Cfr. V. FONTANA, Costruire a Venezia nel Cinquecento... in "Atti del Convegno di Storia dell'Arte del C.N.R." Roma 1979, pp. 41-53.

18 Cfr. Io., Appunti sulle malte e i mattoni in uso nei cantieri veneziani del Cinquecento da documenti e trattati dell'epoca, in COMUNE DI VENEZIA, // mattone di Venezia, "Atti del
Convegno" Venezia 1979, pp. 39-52 e ID., Tecnica, scienza e architettura, in Architettura e Utopia... cit., pp. 187-208. Per il trattato del Cornaro cfr. G. Fiocco, Alvise Cornare, il
suo tempo e le sue opere, Vicenza 1965, pp. 77-79.

19 Per "analemma" qui si intende il tracciato delle coordinate su cui l'ombra dello gnomone indica l'ora, il mese; il giorno. Federico Commandino (1509-1575) pubblica a
Venezia i Ptolemaei Planisphaerium e lordani Planisphaerium (Aldus, 1558) entrando in contatto con Paolo Manunzio e con l'Accademia di Federico Badoer. Dopo il
fallimento di questa egli pubblica a Roma il Ptolomaei liber de analemnate instauratus et commentariis illustratus cui aggiunge un Liber de horologiorum descriptione (Paolo
Manunzio, 1562), dove descrive tipi di orologi verticali, equinoziali, astronomici..., calcolati sull'orizzonte di Roma. Acustica e astrologia interessano contemporaneamente
anche Giuseppe Salviati di cui resta nella Biblioteca Marciana di Venezia il Cod. It. IV, 309 (5094) su questo argomento; cfr. B. BOUCHER, Giuseppe Salviati, pittore e matematico,
"Arte Vene-ta", XXX, 1976, pp. 219-24; D. Mc TAVISH, Giuseppe Porta called G. Salviati, New York and London, 1981.

20 Queste cognizioni provengono dall'Arte del navegar di Pedro de Medina, cfr. V. ZUBOV, Vitruve et ses commenteurs du XVI' siede, in La Science au XVI siede, Paris 1960, pp. 69-90.

21 Cfr. P. ROSSI, scheda in Architettura e Utopia... cit., pp. 242-43.

22 Cit. in R. DE MINICIS, Memorie biografiche, in G. ZACCARIA, Catalogo ragionato di.opere stampate per F. M., Fermo 1850, p. x. A. F. DONI, Seconda Libraria,
Marcolini, Venezia 1555, p. 86.

23 Cfr. V. FONTANA, Tecnica, Scienza e arch... cit., pp. 188-93.

24 Questa traduzione pare sconosciuta, bisogna attendere la fine del Cinquecento perché appaia quella dell'Aleotti, detto l'Argenta. G. B. ALEOTTI, Gli artificiosi et curiosi moti
spiritali... di Herone Alessandrino, Ferrara 1589.

25 Si noti la citazione dantesca. Un'altra si trova a p. 253: "ora condotti siamo all'ultimo lavoro".

26 Cfr. A. QUONDAM, Nel giardino del M. Un editore veneziano tra Aretino e Doni, "Giornale storico della letteratura italiana", XCVII, 497, 1980, pp. 75-116.

27 P. ARETINO, Terzo libro delle lettere, Parigi 1609, p. 28. Del ponte parla il Brusantini nel suo poema Angelica innamorata, (canto XXIX, ottave 64-65) paragonandolo a
quello di Cesare, studiato da Fra' Giocondo, Cardano, Paolo Manunzio e Palladio.

28 ID. , Quinto libro..., p. 28.

29 Cfr. C. RICOTTINI MARSILI-LIBELLI, Anton Francesco Doni, scrittore e stampatore, Firenze I960.

30 Cfr. M. MURARO, D. ROSAND, Tiziano e la xilografia veneziana del Cinquecento, Vicenza 1976, pp. 141-42; A. GENTILI, II problema delle immagini nell'attività di F. M., "Giornale
storico della letteratura italiana", XCVII. 497, 1980, pp 117-25.

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