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IL SISTEMA SANZIONATORIO

FUNZIONI DELLA PENA

Nel diritto penale le sanzioni sono costituite dalle pene, che consentono di identificare i fatti costituenti reato nella prospettiva
formalistica adottata dal nostro ordinamento. Le pene si caratterizzano proprio per il contenuto necessariamente afflittivo,
ossia si traducono nella privazione o nella limitazione di diritti. Al carattere afflittivo delle pene si accompagna il loro
personalismo, che trova espresso rilievo nell’art. 27 Cost. (responsabilità penale personale). Il personalismo della pena e la sua
capacità di incidere sui beni fondamentali dell’individuo danno ragione della previsione di garanzie sostanziali e processuali
rafforzate rispetto a quelle che caratterizzano l’applicazione di altre sanzioni.

Tradizionalmente si distinguono le teorie assolute alle teorie relative della pena. Secondo le teorie assolute, l’inflizione della
sanzione a seguito della commissione di un reato si giustifica di per sé, per il solo fatto che il reato è stato commesso e l’autore
ne risulta responsabile. Secondo le teorie relative, la pena si giustifica in relazione allo scopo di prevenire la commissione di
reati, rivolgendosi ora alla generalità dei consociati (prevenzione generale), ora all’autore del reato affinché non commetta in
futuro altri reati (prevenzione speciale).
La teoria retributiva attribuisce alla pena la funzione di compensare la colpevolezza del reo e per ciò solo se ne giustifica
l’applicazione: assumere che la pena assolva a scopi di prevenzione, significherebbe violare la dignità dell’autore del reato,
trasformandolo in uno strumento per il perseguimento di finalità che trascendono la responsabilità del soggetto per il fatto
commesso. Dalla teoria retributiva sono state formulate due varianti: la prima impostazione proposta da Kant, sostiene che la
pena costituirebbe un imperativo categorico con funzione di compensare la violazione del principio etico realizzata con la
commissione del reato (retribuzione morale). Un altro sviluppo della teoria è invece proposto da Hegel, per il quale la pena si
giustifica come riaffermazione simbolica dell’ordine giuridico violato: poiché il reato, quale violazione di una norma, costituisce
un male, l’inflizione di un male all’autore dell’infrazione consente di ristabilire integrità dell’ordine giuridico violato
(retribuzione giuridica). L’asse portante della teoria retributiva sta nel principio di proporzione tra la pena da un lato, e il
disvalore del fatto e la colpevolezza del soggetto per il fatto, dall’altro. Il principio di proporzione svolge un’essenziale funzione
di argine alle istanze preventive dello Stato, come ha affermato la Corte Cost. nella sentenza 364/1988 in relazione al principio
di colpevolezza.

Secondo la teoria della prevenzione generale la pena ha la funzione di distogliere i consociati dalla commissione di reati; si
parla di prevenzione generale proprio perché la sanzione si rivolge alla generalità dei soggetti che non hanno ancora commesso
il reato. Secondo il modello tradizionale (Bentham e Feuerbach) la pena, consistendo nella privazione di un bene ed avendo
carattere afflittivo, opera come intimidazione e deterrenza (prevenzione generale negativa). Secondo un modello più recente
invece, il rispetto delle norme penali non deriverebbe dalla minaccia della pena, ma dallo spontaneo adeguamento dei
consociati al rispetto degli interessi tutelati dalle norme penali, che svolgerebbero una funzione di socializzazione
analogamente ad altre istituzioni sociali come la famiglia e la scuola (prevenzione generale positiva).
Una variante di questa teoria è quella proposta da Jakobs, che attribuisce alla sanzione penale una funzione di stabilizzazione
sociale: la violazione della norma penale mette in discussione l’efficacia della stessa e compromette la fiducia che i consociati
ripongono nell’effettività del sistema normativo; spetta alla pena ristabilire tale fiducia (funzione di stabilizzazione del sistema)

Secondo la teoria di prevenzione speciale, scopo della pena è impedire che chi ha già commesso un reato torni a commetterne
in futuro. Anche in questo caso sono presenti due varianti. Secondo la prevenzione speciale negativa lo scopo della pena è la
neutralizzazione della pericolosità del soggetto. La prevenzione speciale positiva invece, pone l’accento sulla funzione
rieducativa: la pena inflitta al soggetto non ne neutralizza la pericolosità, ma svolge una funzione positiva di recupero
dell’autore del reato. In questo caso la prevenzione speciale è quindi da intendere come rieducazione del condannato al
rispetto dei valori condivisi dalla convivenza associata. Alla teoria della prevenzione speciale, si obietta l’incapacità di porre un
limite alla potestà punitiva dello Stato, in quanto la sanzione dovrebbe proseguire sino ad avvenuta ammenda o rieducazione
del soggetto, dando luogo ad un sistema massimamente antigarantista. È grazie a questa teoria infatti, che si sono sviluppati i
principi di umanità del trattamento e considerazione del condannato

Oggi, la dottrina maggioritaria non riduce la pena ad un’unica funzione, ma riconosce la compresenza di diverse funzioni. Il
problema non sta nel riconoscere alla pena carattere polifunzionale, quanto piuttosto nel coordinare le diverse funzioni.
È impossibile stabilire ex ante un punto di equilibrio dogmaticamente cristallizzato tra le diverse funzioni che il sistema penale è
chiamato a soddisfare, ma è comunque necessario che le diverse funzioni della pena non siano eluse, facendo prevalere una di
queste sulle altre.
Va in primo luogo ribadito un principio fondamentale in uno stato di diritto: la pena non può che assolvere ad una funzione di
prevenzione, in quanto è compito dello Stato salvaguardare la comunità dei fatti aggressivi di interessi ritenuti così
fondamentali da giustificare la previsione delle sanzioni più severe di cui l'ordinamento disponga. Deve essere invece
delegittimata la retribuzione come funzione della pena, salvaguardando il principio di proporzione che costituisce una
garanzia inviolabile di cui questa teoria si fa comunque portatrice: proporzionalità, dunque, come connotato della sanzione da
valutare in relazione al disvalore del fatto e alla colpevolezza del soggetto per quel fatto.
in secondo luogo, l’art. 27 Cost., si è espresso in ordine ai caratteri che la pena deve possedere: “le pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato “.
Da valorizzare quindi, la funzione di prevenzione speciale: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, perché è
“obbligo tassativo per il legislatore di tenere presenti le finalità rieducativa della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi
idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”. Bisogna però soffermarsi su un particolare aspetto della norma: essa non dice
che “le pene devono rieducare”, ma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dunque, la rieducazione
non può mai essere imposta; lo Stato piuttosto, deve offrire possibilità di risocializzazione, senza ridurre la pena a pura
neutralizzazione del condannato, violando il rispetto inderogabile dei diritti fondamentali della persona.

L’art. 27 Cost. costituisce norma centrale del sistema sanzionatorio, ma non risolve il problema del coordinamento tra
prevenzione speciale, prevenzione generale e principio di proporzione. Per risolvere il problema e necessario considerare la
funzione della pena in relazione alle diverse fasi in cui si articola il percorso sanzionatorio.
Comminatoria edittale della pena. Nel momento della previsione della pena da parte del legislatore assume una funzione
preminente la prevenzione generale, in quanto la sanzione penale si giustifica proprio in funzione della tutela dei beni giuridici
e per prevenire punizioni arbitrarie dell’autore del reato, quale antidoto alla privatizzazione della giustizia. L'efficacia della
risposta sanzionatoria non dipende necessariamente dall’aumento dei livelli edittali di pena. Se un reato meno grave fosse
punito con la stessa sanzione prevista per un fatto più grave, il reo non sarebbe distolto dal commettere quello più grave. Ne
consegue quindi che l'efficacia preventiva generale e speciale della pena è condizionata dalla proporzione della sanzione. È
difficile definire quale pena e quali limiti edittali siano in astratto proporzionati al precetto, in quanto il disvalore complessivo
del fatto e la pena sono entità tra loro non commensurabili. Non c'è dubbio però, che attraverso il principio di proporzione,
qualità e quantità della pena comminata in astratto diventano specchio del differente valore attribuito dall'ordinamento ai
beni giuridici offesi: come ha scritto Jehring, “la tariffa della pena misura il valore dei beni sociali”. il principio di proporzione
diventa allora un parametro di ragionevolezza affidato al prudente apprezzamento da parte del legislatore e consente di
sindacare, ai sensi dell’art. 3 Cost., la fondatezza dell'equiparazione o della differenza azione del trattamento sanzionatorio
previsto per le fattispecie poste a tutela di beni giuridici differenti. La funzione di prevenzione generale consente anche di
delegittimare pene del tutto inefficaci o perché sproporzionate per difetto o perché ineffettive. La Corte costituzionale ha
quindi chiaramente riconosciuto alla prevenzione speciale un ruolo essenziale già nella fase comminatoria in astratto della
pena.
Commisurazione e applicazione giudiziale. A differenza della fase comminatoria legale, in sede di commisurazione giudiziale
della pena al caso concreto, entro i limiti edittali fissati dal legislatore, non può rilevare la funzione di prevenzione generale.
Se, a fronte dell’incremento generalizzato dei furti nei supermercati, giudice decidesse di applicare l'autore una condanna
esemplare, l'autore del reato sentirebbe quella condanna come ingiusta: una condanna esemplare, riducendo il soggetto
strumento di politica criminale, violerebbe la sua dignità personale (art.2 Cost.). In sede di commisurazione della pena svolge
un ruolo centrale il principio di proporzione rispetto alla gravità del fatto concreto ed alla colpevolezza del soggetto per quel
fatto: solo questo connotato della pena è garanzia di uguaglianza, e di rispetto della responsabilità penale personale. La pena
proporzionata al reato in concreto commesso costituisce, come ha chiarito la Corte costituzionale nella sent. 364/1988, un
limite invalicabile alle esigenze preventive della politica criminale, che possono solo consentire, per esigenze di prevenzione
speciale, l'applicazione in favorem rei di una pena meno severa.
Fase esecutiva. In fase esecutiva svolge un ruolo preminente la funzione rieducativa della pena ed è proprio in questa fase che
si è sviluppata l’attuazione dell’art. 27 Cost., attraverso la previsione delle misure alternative alla detenzione e delle sanzioni
sostitutive delle pene detentive brevi. La Corte costituzionale ha riconosciuto la rieducazione come “diritto per il condannato“.
È dovere dello Stato conformare l'esecuzione delle pene (specie di quella detentiva) al rispetto del dettato costituzionale. Per
esigenze di prevenzione speciale la pena può subire in fase esecutiva sospensioni o riduzioni, ma non potrebbe essere aumentata
al di là dei limiti fissati dal giudice in sede di commisurazione della pena. Al contempo la finalità special preventiva esclude rigidi
automatismi nell’applicazione della pena: in fase esecutiva va favorita una valutazione individualizzata, assicurando la
progressività trattamentale e la flessibilità della pena. In questa fase però, la funzione di prevenzione generale opera in quanto
l'esecuzione della pena costituisce l'esito conclusivo della asseverazione della sanzione minacciata ab origine; sarebbe del tutto
fallimentare un sistema che alla previsione in astratto della pena facesse seguire la condanna, ma non l'esecuzione della stessa,
salvo che esigenze di prevenzione speciale giustifichino meccanismi sospensivi.
PENE

Il principio di legalità con tutti i suoi sotto principi trova applicazione anche in relazione alle pene. Con particolare riguardo alla
riserva di legge, l’art. 1 c.p. è esplicito nel riferire il principio non solo al fatto, ma anche alle pene. Invece, l’art. 25 Cost. prevede
che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Il rispetto del principio di determinatezza non ammette pene predeterminate legalmente nella durata massima. Si potrebbe allora
pensare che la determinatezza della pena possa essere assicurata attraverso la previsione di pene fisse. Sul punto, la Corte
costituzionale ha dato indicazioni in senso contrario, in quanto la modalità di individuazione della pena che si presenta più
rispettosa dei principi costituzionali sta nella fissazione di limiti edittali minimi e massimi con l'attribuzione al potere
discrezionale del giudice della determinazione in concreto della pena: in tal modo è possibile tenere conto delle specificità
oggettive e soggettive del fatto e della personalità dell’autore, rendere quanto più possibile “personale” la responsabilità penale
e adeguare la pena alle finalità di rieducazione dell'autore del fatto. Può essere ammessa la censura sotto il profilo della legittimità
costituzionale soltanto in presenza di 2 condizioni: la manifesta irragionevolezza del trattamento sanzionatorio, per violazione
dell’art. 3 Cost., oppure un parametro di giudizio che imponga una “soluzione costituzionalmente obbligata”, non potendo la
Corte costituzionale esprimere scelte di politica sanzionatoria che spettano solo al legislatore.
L'attuale sistema sanzionatorio non prevede più la pena di morte che il codice Rocco includeva tra le pene principali. L’art. 27
Cost. dispone che “non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. Successivamente la l.
13 ottobre 1994, n. 589 ne sancì in tutti i casi la sostituzione con la pena dell’ergastolo.
In ogni caso nel 2003, e stato firmato il protocollo n. 13 alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che espressamente
prevede l'abolizione della pena di morte e il divieto di apporre riserve o deroghe ai sensi dell'art. 15 della CEDU.

La principale distinzione è tra pene principali e pene accessorie: le prime sono costituite secondo lo schema duale rappresentato
dalle pene detentive e dalle pene pecuniarie. Bisogna evidenziare che i reati possono essere sanzionati sia con la previsione
esclusiva della pena detentiva o della pena pecuniaria, sia con pena congiunta o alternativa.
Partendo dalla consapevolezza che il carcere di per sé non riesce a svolgere un’effettiva funzione rieducativa, il legislatore nel
1975 vara la riforma dell'ordinamento penitenziario.
Interviene anzitutto sulla disciplina dell’esecuzione della pena detentiva, valorizzando alcuni principi fondamentali in attuazione
dell’art. 27 Cost. Il cambiamento di clima si respira già dalla lettura dell'art.1 ord. penit.: “Il trattamento penitenziario deve
essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona. Il trattamento è improntato ad assoluta
imparzialità senza discriminazioni. Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. I detenuti e gli internati sono
chiamati indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non
sono considerati colpevoli fino alla condanna definitiva. Il trattamento rieducativo deve tendere, anche attraverso i contatti con
l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. In particolare, la riforma valorizza il lavoro nella sua funzione
rieducativa: “Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato” (art. 20 ord. Penit.).
La seconda importante direzione di intervento della riforma è costituita dalla comparsa delle misure alternative alla detenzione
(come l'affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà). Inoltre, quando nel 2000, viene riconosciuta una limitata
competenza penale al giudice di pace, il sistema sanzionatorio si arricchisce con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica
utilità che diventano, in relazione alle fattispecie a cui si applicano, pene principali a tutti gli effetti.

Ai sensi dell’art. 17 c.p. le pene principali sono: per i delitti l'ergastolo, la reclusione e la multa e per le contravvenzioni l'arresto
e l'ammenda.
La pena dell'ergastolo, secondo quanto indicato dall’art. 22, è perpetua ed è prevista per alcuni reati contro la personalità dello
Stato, contro l'incolumità pubblica e contro la vita, o nei casi di concorso di più delitti per ciascuno dei quali deve infliggersi la
pena della reclusione non inferiore ad anni 24. Si assiste tuttavia ad una progressiva erosione sia del regime rigidamente detentivo
sia della durata perpetua di tale pena. Quanto al regime detentivo, dopo l'espiazione di almeno 10 anni, l'ordinamento consente
ai condannati di usufruire dei permessi premio e del lavoro all'esterno; dopo l'espiazione di 20 anni e ammessa anche la
semilibertà. Quanto all’erosione della sua durata, è prevista la possibilità per il condannato all'ergastolo di usufruire della
liberazione condizionale, quando abbia scontato almeno 26 anni di pena e abbia tenuto “un comportamento tale da far ritenere
sicuro il suo ravvedimento”. La Corte costituzionale ha affermato la legittimità costituzionale dell’ergastolo in relazione all’art.
27 Cost. in forza di 2 argomenti: in primis evidenziato la teoria polifunzionale della pena, sostenendo che la funzione della pena
non è il solo riadattamento sociale del condannato; un secondo più consistente argomento fa leva sul fatto che il carattere
astrattamente perpetuo della pena dell'ergastolo non è tale alla luce della disciplina applicabile, in quanto l'ergastolano, di cui
sia sicura la rieducazione, può accedere alla liberazione condizionale. La reclusione a vita solleva problemi di compatibilità anche
con il divieto di trattamenti inumani e degradanti sancito dall’art. 3 CEDU, vincolante per il nostro ordinamento ex art. 117 Cost.
L'ergastolo non si applica ai minorenni imputabili: la Corte costituzionale ha infatti considerato che già la previsione astratta di
tale sanzione contrasta con la funzione rieducativa della pena che deve tener conto delle particolari necessità educative del
minore.
Le pene principali detentive, sono per i delitti, la reclusione (oltre all’ergastolo) e per le contravvenzioni l’arresto.
Gli artt. 23 e 25 c.p. prevedono per entrambe le tipologie limiti minimi e massimi edittali generali: la reclusione “si estende da 15
giorni a 24 anni e, l'arresto si estende da 5 giorni a 3 anni”. Si tratta di limiti derogabili dal legislatore in relazione a particolari
figure criminose come per esempio il sequestro a scopo di estorsione, oppure a scopo di terrorismo o di eversione.

Ai sensi dell’art. 17 c.p. la pena pecuniaria per i delitti è multa e per le contravvenzioni è l’ammenda.
Le pene pecuniarie consistono nel pagamento allo Stato di una somma di denaro entro i limiti minimo e massimo stabiliti dalla
legge: qualora la pena prevista per il reato non indichi limiti minimi e massimi, si deve fare riferimento ai limiti generali previsti
dagli art. 24 e 26 c.p. Tali limiti minimi e massimi, analogamente a quanto osservato in relazione alla pena detentiva, non
vincolano il legislatore, che ha la facoltà di prevedere per singole figure di reato multe o ammende superiori ai massimi generali
previsti dal Codice penale. Non soggiacciono ai limiti edittali previsti in generale dagli articoli appena richiamati, le pene
pecuniarie proporzionali, il cui ammontare è determinato da un moltiplicatore individuato dalla fattispecie concreta. Ai sensi
dell’art. 133-ter, Il giudice può disporre che la multa o l'ammenda venga pagata in rate mensili, che può essere concessa sia a
coloro che versano in una temporanea difficoltà di pagamento, sia al soggetto non abbiente.

Le pene accessorie hanno tendenzialmente un carattere interdittivo, dal momento che consistono in una privazione di
determinati diritti o facoltà o nella limitazione del loro esercizio. Sono previste pene accessorie specifiche per i delitti e altre per
le contravvenzioni. Caratteristica delle pene accessorie, oltre al loro inevitabile collegamento con le pene principali, è quella di
un maggiore automatismo. Questo si manifesta attraverso una ridotta discrezionalità del giudice, che non è solo tenuto ad
infliggere la pena accessoria in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, ma è spesso vincolato nella determinazione della
loro durata.
Ai sensi dell’art. 37 c.p. “Quando è la legge stabilisce che la condanna importa una pena accessoria temporanea, e la durata di
questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta, o che
dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il
limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”.

Se in tema di pene accessorie la discrezionalità del giudice ha fortemente limitata, negli altri casi il legislatore delinea una cornice
edittale, fissando un minimo ed un massimo, all'interno della quale e attribuito al giudice il potere di stabilire discrezionalmente
la pena concretamente inflitta. I criteri per l'esercizio del potere discrezionale da parte del giudice sono stabiliti dall’art. 133 c.p.,
che li raggruppa all’interno delle categorie della gravità del reato e della capacità a delinquere del soggetto.
La gravità del reato deve essere desunta dal giudice: 1) Dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall'oggetto, dal tempo, dal luogo e
da ogni altra modalità dell’azione; 2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; 3) dall’intensità
del dolo o dal grado della colpa.
Il giudice deve tenere conto altresì della capacità a delinquere che va ricavata: 1) dei motivi a delinquere e dal carattere del reo;
2) dai precedenti penali e giudiziari e dalla condotta dalla vita del reo antecedenti al reato; 3) dalla condotta contemporanea o
susseguente al reato; 4) dalle condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.

Con la l.24 novembre 1981, n. 689, fanno il loro ingresso le sanzioni sostitutive della pena detentiva breve. Esse sono la pena
pecuniaria, la libertà controllata e la semidetenzione e la loro sostituzione è di competenza dello stesso giudice che pronuncia
la sentenza di condanna a pena detentiva, sostituita con una delle indicate sanzioni nello stesso dispositivo della sentenza;
invece, le misure alternative alla detenzione sono applicate dal tribunale di sorveglianza in fase esecutiva dopo il passaggio in
giudicato della sentenza.
La semidetenzione consiste nell'obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno in un carcere e in una serie di limitazioni (divieto
di tenere a qualsiasi titolo armi, sospensione della patente di guida, ritiro del passaporto).
Con la sanzione sostitutiva della libertà controllata il soggetto è libero, ma sono imposti una serie di limiti (divieto di allontanarsi
dal Comune di residenza salvo autorizzazione, obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno presso il locale ufficio di pubblica
sicurezza).
La pena pecuniaria viene disposta nella specie corrispondente alla pena detentiva sostituita: multa al posto della reclusione e
ammenda al posto dell'arresto. Il potere discrezionale del giudice è finalizzato a scegliere la sanzione “più idonea al reinserimento
sociale del condannato”. Nel procedere alla sostituzione si utilizzano i seguenti criteri di ragguaglio: un giorno di pena detentiva
equivale a un giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà controllata (art.57). Per determinare l'ammontare della pena
pecuniaria il giudice individua innanzitutto il valore giornaliero al quale può essere assoggettato l’imputato, tenendo conto della
condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare; moltiplica poi tale valore per i giorni di pena
detentiva da sostituire.
La semidetenzione è la libertà controllata sono considerate per ogni effetto giuridico come pena detentiva della specie
corrispondente a quella della pena sostituita, mentre la pena pecuniaria si considera sempre come tale. Questa differenza ha
effetti sulla disciplina della revoca: infatti, in caso di inosservanza di una qualsiasi delle prescrizioni concernenti la semidetenzione
la libertà controllata, la restante parte della pena si converte nella pena detentiva sostituita secondo i criteri di ragguaglio.
Le misure alternative alla detenzione costituiscono lo strumento principale per dare attuazione alla funzione rieducativa della
pena. Permettono di evitare o contenere il contatto con in carcere quando è in corso o si profila un percorso di risocializzazione
che potrebbe essere ritardato dalla rigida esecuzione della pena detentiva. La loro importanza è duplice: alleggeriscono il circuito
carcerario e si presentano più efficaci sul piano della prevenzione speciale positiva, considerato che il tasso di recidiva dei soggetti
che accedono alle misure alternative è notevolmente più basso rispetto a quello dei detenuti che hanno scontato la pena in
carcere. Mentre le sanzioni sostitutive della pena detentiva breve, come si è visto, sono applicate dal giudice della cognizione
all'esito del processo e con la stessa sentenza che pronuncia la condanna, le misure alternative intervengono nella fase di
esecuzione della sentenza di condanna a pena detentiva e sono di competenza della magistratura di sorveglianza.
Le misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario sono l'affidamento in prova al servizio sociale, l'affidamento in
prova in casi particolari, la semilibertà e le varie forme di detenzione domiciliare.
L'evoluzione della disciplina e stata condizionata dalle necessità di soddisfare due esigenze: l'esigenza deflattiva, a fronte del
sovraffollamento crescente dei penitenziari italiani e l'esigenza di rafforzare il senso di sicurezza collettiva. Al contempo però, il
legislatore si è mosso nella direzione di differenziare i presupposti di accesso alle misure alternative, guardando al reato oggetto
di condanna o alla tipologia di autore: nella prima direzione si muovono le forti restrizioni introdotte per gli autori dei reati in
materia di criminalità organizzata; nella seconda sono invece stati previsti più recentemente dalla legge c.d. ex Cirielli, nei
confronti dei recidivi, specie dei recidivi reiterati ex art. 99. La l. 251/2005 aveva escluso dalla sospensione dell’ordine di
carcerazione i condannati ai quali fosse stata applicata la recidiva reiterata: per costoro si aprivano immediatamente le porte del
carcere. Questa disciplina disfavore nei confronti dei recidivi reiterati è stata abrogata nel 2013, nell'ambito delle misure rivolte
a contenere gli accessi in carcere così da ridurre il tasso di sovraffollamento. Con particolare riguardo agli stranieri regolari, l’art.
16 TU prevede l'espulsione come misura alternativa, quando debbano scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore
a 2 anni.

L'affidamento in prova al servizio sociale è la misura alternativa, disciplinata dall’art. 47 dell'ordinamento penitenziario.
Presupposti per la sua applicazione sono essenzialmente: la durata della pena da espiare non superiore a 3 anni e la valutazione
che tale misura sia ritenuta sufficiente alla rieducazione del reo ed assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri
reati. A seguito della crisi del sovraffollamento carcerario, il limite è stato innalzato a 4 anni, qualora il condannato abbia serbato,
quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, un comportamento tale da giustificare il giudizio positivo
sulla concessione della misura. Viene concessa dal tribunale di sorveglianza sulla base dei risultati dell’osservazione della
personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto. Tuttavia, la misura può essere disposta senza procedere
all'osservazione in istituto, se il condannato ha dimostrato un comportamento tale da consentirne l'applicazione. Come indicato
dal nome, l'affidamento prevede un programma con il servizio sociale: l’affidato è libero, ma gli è imposta l'osservanza di una
serie di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, il divieto di frequentare
determinati luoghi ed al lavoro. L'affidamento in prova è revocabile qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge
o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova. L'esito positivo del periodo di prova estingue la
pena detentiva ed ogni altro effetto penale.
L'affidamento in prova in casi particolari è oggi disciplinato dall’art. 94 TU stupefacenti, finalizzato a dare prevalenza alle esigenze
terapeutico-riabilitative in caso di pena detentiva da eseguire nei confronti di persona tossicodipendente o alcoldipendente, ti
abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi.
Ai sensi dell’art. 48 ord. Penit. per semilibertà si intende la possibilità offerta al condannato di trascorrere parte del giorno fuori
dall’istituto carcerario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. L’ammissione
al regime di semilibertà è disposta dal tribunale di sorveglianza in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento,
quando vi sono i presupposti per un graduale reinserimento del soggetto nella società. È revocabile in ogni tempo nel caso in cui
il condannato non si dimostri idoneo al trattamento. In caso di mancato rientro del semilibero, se il ritardo non supera le 12 ore
si configura un illecito di natura disciplinare; nel caso in cui il ritardo si protraesse oltre 12 ore, il soggetto è da ritenersi evaso.
La detenzione domiciliare si presenta in diverse forme e da disciplinata dall’art. 47-ter ss. Ord. Penit.
La prima forma è quella che permette alle madri di prole di età non superiore a 10 anni, che abbiano espiato una certa parte di
pena, di scontare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, o in luogo di cura, assistenza o accoglienza,
al fine di consentire la loro cura e l'assistenza dei figli, sempre che non sussiste il pericolo di commissione di ulteriori reati.
La seconda forma a quella prevista per i malati affetti da AIDS o da grave deficienza immunitaria, qualora siano necessari
supporti terapeutici incompatibili con d'esecuzione carceraria.
Ugualmente in chiave umanitaria può essere letta la detenzione domiciliare concessa a persona che, al momento dell'inizio
dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i 70 anni di età.
La seconda linea di politica criminale ha potenziato l'utilizzo tra detenzione domiciliare come strumento di contrasto al
sovraffollamento carcerario. La detenzione domiciliare a termine, sostitutiva del rinvio dell'esecuzione e la detenzione domiciliare
generica per condanne sino a 2 anni di pena detentiva. La detenzione domiciliare è revocata si è il comportamento del soggetto,
contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure o quando vengono a cessare
le particolari condizioni soggettive che ne avevano giustificato l'applicazione.
il condannato che si allontana, commette il delitto di evasione di cui all’art. 385 c.p. La denuncia per evasione comporta la
sospensione del beneficio e la condanna ne comporta la revoca.

L’art.54 ord. Penit. prevede quale misura alternativa alla detenzione la liberazione anticipata, che consiste nella detrazione di 45
giorni per ogni singola semestre di pena detentiva scontata. La detrazione è concessa condannato a pena detentiva che ha dato
prova di una partecipazione all'opera di rieducazione ai fini del suo più efficace reinserimento nella società. La valutazione della
detrazione va fatta singolarmente per ogni singolo semestre, considerando il comportamento tenuto dal detenuto.

I permessi premio permettono di valutare il comportamento del detenuto concedendo allo stesso periodi limitati di libertà. I
presupposti soggettivi di applicazione sono costituiti dalla regolare condotta del detenuto in istituto e dall’assenza di pericolosità
sociale. La durata dei singoli permessi premio non può essere superiore a 15 giorni, per un massimo complessivo di 45 giorni
l'anno.

Alle misure alternative è opportuno affiancare la liberazione condizionale, che pur essendo prevista dal Codice penale tra le
cause di estinzione della pena, presenta elementi che la rendono omogenea alle misure alternative alla detenzione. Per essere
ammessi alla liberazione condizionale sono necessari tre presupposti. Il presupposto soggettivo è costituito dal comportamento
del detenuto tenuto durante il tempo di esecuzione della pena, “tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento”. Il secondo
presupposto è costituito dai limiti di pena già scontata: il detenuto deve aver scontato almeno 30 mesi e comunque almeno
metà della pena inflittagli. Sono ammessi alla liberazione condizionale anche i condannati alla pena dell'ergastolo dopo che
abbiano scontato 26 anni di pena detentiva. È infine previsto il presupposto risarcitorio dell'adempimento delle obbligazioni civili
derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempierle. La liberazione condizionale è
revocata se la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole. In tal caso, il tempo trascorso in
libertà condizionale non è computato nella durata della pena il condannato non può essere riammesso alla liberazione
condizionale.

Il sistema penitenziario tuttavia è connotato dalla differenziazione dei percorsi penitenziari, in quanto accanto la disciplina di
carattere generale, se ne affiancano altre con elementi di specificità.
Il regime di sorveglianza particolare si applica ai condannati, agli internati via gli imputati che presentano elementi di pericolosità
specifica. La sorveglianza è disposta dall'amministrazione penitenziaria per un periodo non superiore a sei mesi, ma prorogabile
e comporta “le restrizioni strettamente necessarie per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza, all'esercizio dei diritti dei
detenuti e degli internati e alle regole di trattamento previste dall’ordinamento penitenziario.
Una seconda ipotesi è regolata dall’art. 41-bis ord. Penit., il c.d. carcere duro, che comporta limitazioni alle regole interne del
trattamento penitenziario finalizzate a contrastare i collegamenti dei detenuti con la criminalità organizzata. Il provvedimento è
di competenza del ministro della Giustizia e ha come destinatari i detenuti internati per reati in materia di criminalità organizzata
di tipo mafioso e terroristica. Sono giustificate solo le restrizioni “necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per
impedire collegamenti con l'associazione” (Misure di elevata sicurezza interna, determinazione dei colloqui nel numero di uno al
mese ed organizzati in modo da impedire il passaggio di oggetti e con un controllo auditivo e di video registrazione, limitazione
delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, limitazione della permanenza all'aperto. Il
provvedimento ha durata pari a 4 anni ed è prorogabile per successivi periodi, ciascuno pari a 2 anni. La proroga è disposta
quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno.
Un'ultima ipotesi è quella per i condannati per i reati di violenza sessuale o di reati sessuali in danno di minori. In questi casi la
disciplina speciale è connotata da finalità di prevenzione speciale e di supporto terapeutico. Per questi condannati, nei quali la
commissione di reati a danno di minori è connessa a disturbi della personalità, è prevista la possibilità di “sottoporsi ad un
trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno”.

Con il D.lgs. 28 agosto 2000, n.274, è stata attribuita al giudice di pace la competenza penale in relazione ad una serie tassativa
di reati. Le pene previste per i reati attribuita alla competenza del giudice di pace non sono mai di tipo carcerario ed anche la
disciplina della revoca non prevede la loro conversione in pene detentive. Tuttavia, la maggior mitezza di queste sanzioni, si
accompagna ad un elemento di disciplina che intende garantirne l'effettività: l'esclusione della sospensione condizionale della
pena. Le sanzioni sono quindi meno severe, ma si applicano.

La commissione di un reato obbliga riparare le conseguenze da esso derivate. L’art. 185 c.p. stabilisce che “ogni reato obbliga alle
restituzioni” e che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole
e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”.
La prima forma di riparazione è la restituzione, che obbliga a ripristinare lo status quo antecedente alla commissione del fatto di
reato. L'obbligazione di maggiore rilievo è il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale. L’art. 2043 c.c. infatti
dispone che “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a
risarcire il danno”. Altresì e risarcibile il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.
Più recentemente sono state riscoperte le potenzialità sanzionatorie del risarcimento del danno attribuendo alle condotte
riparatorie natura di causa di estinzione del reato. Con riferimento ai reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, il giudice,
sentite le parti e l'eventuale persona offesa, dichiara con sentenza estinto il reato, enunciandone la causa nel dispositivo, quando
l'imputato dimostra di avere proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato,
mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. Spetta al giudice
valutare se le attività risarcitorie e riparatorie a siano idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di
prevenzione.

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