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Note sul moto in tubi

Introduzione

Nella pratica tecnica si incontrano sostanzialmente tre tipi di problemi relativi alle perdite di carico
dovute al moto di fluidi in una tubazione.
Problema I)
Si incontra quando ad esempio si deve valutare la potenza di una pompa che riesca a movimentare
una portata assegnata in un impianto.
Problema II)
Si incontra ad esempio quando avendo a disposizione una pompa (e quindi conoscendone già la
prevalenza) si debba verificare se nell’impianto circola la portata desiderata. Questo tipo di
problema si incontra quando durante la vita dell’impianto, ad esso vengono apportate delle
modifiche (messa in opera di nuove linee di tubi, nuova installazione o rimozione di
apparecchiature, sporcamento dei tubi, sostituzione di pompe, cambiamento dei parametri di
progetto [portata di una condotta oppure pressione di gauge di un serbatoio ecc.]).
Problema III)
Consiste nel calcolare di che diametro devono essere i tubi attraverso i quali deve passare una certa
portata Q con perdite di carico note. Questo tipo di problema si incontra quando sia nota la
prevalenza della pompa disponibile per la movimentazione della portata Q ma non sia ancora stata
installata la necessaria linea di tubi (pipeline). Un altro caso è quello in cui si sfrutta come forza
idromotrice la circolazione naturale.

Il problema fondamentale che consente di risolvere gli altri consiste dunque nel collegare le perdite
di carico alla portata, nota la geometria (D e L). Tale problema verrà affrontato nel prosieguo di
queste note.
N.B. Tutto quanto verrà detto qui non vale solo per l’acqua ma per qualunque liquido newtoniano.
I liquidi newtoniani sono quelli per i quali la viscosità è una grandezza che non dipende dalla
velocità ma può variare solo con la temperatura (molto) e con la pressione (poco). Nella maggior
parte dei casi si considera la viscosità dei liquidi newtoniani come una grandezza dipendente dalla
sola temperatura. Per avere i valori delle viscosità di liquidi newtoniani in funzione della
temperatura si può ricorrere al nomogramma del Perry [cap. Physical and Chemical data, sezione
Transport Properties].

Carico di un fluido. Equazione ingegneristica di Bernoulli

L’equazione ingegneristica di Bernoulli esprime il principio della conservazione dell’energia. Essa


afferma che la differenza tra il carico nella sezione 2 e il carico nella sezione 1 è pari alla differenza
tra il lavoro meccanico (per unità di massa) fornito al fluido e le perdite viscose. Qualitativamente:

Carico2 – Carico1 = lavoro meccanico fornito – perdite viscose

dove per carico si intende l’energia meccanica E (per unità di massa) posseduta dal fluido. [Notare
che il carico è dunque una grandezza specifica e perciò intensiva]. Nei tipici casi di interesse della
meccanica dei fluidi sono solitamente trascurabili i campi elettrici e magnetici. [Ciò non è
comunque sempre vero. Ad esempio, l’influenza del campo elettrico e del campo magnetico è
oggetto di studio della magnetoidrodinamica. Le equazioni della magnetoidrodinamica si
applicano allo studio del comportamento della materia allo stato di plasma (utile nei processi di
fusione termonucleare) e non mancano idee, ancorché in itinere, per altre applicazioni dei concetti
sviluppati da questa materia]. I soli potenziali che compongono l’energia totale in possesso del
fluido sono comunque, nei casi di nostro interesse, quello delle forze di pressione, quello delle forze
gravitazionali (energia potenziale gravitazionale) e quello delle forze d’inerzia (energia cinetica). Il
carico è quindi dato dalla somma di questi tre potenziali:

P 1
E= + gh + αv 2 Equazione 1
ρ 2

Pertanto l’equazione ing. di Bernoulli, sopra scritta qualitativamente, assume la seguente forma
matematica:

1 P 1 P
α 2 v 2 + 2 + gh2 − α 1v1 + 1 + gh1 = δWs − l v
2 2
Equazione 2
2 ρ 2 ρ

dove i termini α i sono i cosiddetti coefficienti di Coriolis che dipendono dal profilo di velocità
(vedi dispensa su “Bilanci macroscopici di energia” per maggiori dettagli), δWs è il termine di
lavoro meccanico per unità di massa fornito al fluido, lv è la somma di tutte le perdite viscose per
unità di massa verificatesi tra la sezione 1 e la sezione 2. Quando non vi sono perdite viscose né
somministrazione (o sottrazione) di lavoro meccanico, l’equazione di Bernoulli ci dice dunque che i
carichi alle due sezioni sono uguali. E’ importante sottolineare che, pur essendo il carico totale
costante, può benissimo accadere che non siano costanti singolarmente i singoli potenziali
(pressione, energia potenziale, energia cinetica).
Un caso del genere è ad esempio il tubo di Venturi (vedi esercitazione in aula) oppure quello di una
diramazione (vedi figura) in cui c’è una sezione di entrata (1) e due sezioni di uscita (2 e 3).

Supponiamo in questo caso per semplicità che le perdite viscose in corrispondenza della
diramazione siano trascurabili. I carichi totali E1, E2 ed E3 sono quindi tutti uguali mentre le velocità
v2 e v3 sono ovviamente in generale diverse fra loro (dipende dai diametri dei tubi e da cosa c’è a
valle) e sono comunque sempre diverse dalla velocità v1. Le pressioni P1, P2 e P3 sono dunque, in
generale, tutte diverse fra loro ma sempre in modo che vengano verificate le seguenti equazioni:

P1 1 P 1 P 1
+ gh1 + α 1v1 = 2 + gh2 + α 2 v2 = 3 + gh3 + α 3 v3
2 2 2
Equazione 3
ρ 2 ρ 2 ρ 2

che esprimono proprio l’uguaglianza dei carichi [ovvero delle energie specifiche per unità di massa]
delle tre correnti in prossimità della diramazione.
Perdite di carico e pressione ridotta. Verso del moto di un fluido

Avendo ora definito il concetto di “carico” possiamo iniziare ad affrontare il problema del calcolo
delle perdite di carico in una tubazione. Si consideri dunque un tratto di tubo a sezione circolare
con diametro costante e di lunghezza L in cui passa una certa portata Q di acqua. Il tubo è inclinato
di un certo angolo α rispetto all’orizzontale.
In condizioni statiche (liquido fermo) il liquido contenuto nel tubo vede la sua pressione variare
lungo il tubo secondo la ben nota legge di Stevino:
P + ρgh = P0 + ρgh0 Equazione 4

in cui P0 e h0 sono la pressione e la quota di una sezione scelta come riferimento e h è la generica
ascissa della quota lungo un asse verticale diretto verso l’alto. In altre parole si può dire che in
condizioni statiche la somma P + ρgh è una costante lungo il tubo.

Si usa dunque definire questa somma come una nuova grandezza, denominata pressione ridotta:
℘ ≡ P + ρgh Equazione 5

con h diretto verso l’alto. La comodità dovuta all’uso di questa grandezza ℘ sta appunto nel fatto
che, diversamente dalla P, essa è costante lungo il tubo quando al suo interno non c’è alcun flusso
(liquido fermo), qualunque sia l’inclinazione del tubo rispetto all’orizzontale!
Mettiamoci ora nel caso di fluido in moto all’interno del tubo e supponiamo, per fissare le idee, che
esso si muova dalla sezione 1 verso la sezione 2. La distribuzione di pressioni all’interno del tubo
non sarà più idrostatica e quindi la pressione ridotta ℘ non sarà più una costante ma varierà lungo
il tubo. In particolare in condizioni stazionarie (portata costante) vi sarà una differenza di pressione
ridotta tra la sezione 1 e la sezione 2. In un tubo a diametro costante, questa differenza ℘2 −℘1 è
dovuta alle perdite di carico distribuite lungo il percorso dalla sezione 1 alla sezione 2. Tali perdite
sono dovute agli attriti interni al fluido (perdite viscose). [E’ appena il caso di ricordare che
quando si parla di “perdite” non si intende ovviamente che l’energia si perde (quella si conserva
sempre!) ma che una parte dell’energia meccanica (carico) presente in seno al fluido si degrada in
energia termica non più riutilizzabile per fornire lavoro all’esterno] In particolare la pressione
ridotta alla sez.1 è maggiore di quella alla sez.2 (quindi ℘2 −℘1 < 0 ). Da dove si deduce questa
affermazione? Essa si ricava facilmente applicando l’equazione ingegneristica di Bernoulli al tratto
di tubo considerato.
1 1 P −P
α 2 v 2 − α 1v1 + 2 1 + g (h2 − h1 ) = δWs − l v
2 2
Equazione 6
2 2 ρ
Sfruttando la definizione di pressione ridotta tale equazione si può riscrivere nel seguente modo:
1 1 ℘ −℘1
α 2 v 2 − α 1v1 + 2 = δWs − l v
2 2
Equazione 7
2 2 ρ
Considerando regime stazionario (portata volumetrica costante) e diametro costante ho che le
velocità di ingresso e di uscita sono uguali e quindi i termini cinetici si elidono a vicenda. Non
tengo conto del termine di lavoro meccanico dato che nel tubo considerato non c’è nessun modo di
introdurre o di estrarre lavoro agli alberi (shaft work). Riordinandola, l’equazione precedente si
riduce a:
℘2 −℘1
= −lv Equazione 8
ρ
L’equazione ingegneristica di Bernoulli ci dice quindi che, nelle condizioni sopra specificate, la
differenza di pressione ridotta è proporzionale all’energia dissipata per unità di massa di liquido (lv).
Dal Secondo Principio della Termodinamica so che si può integralmente trasformare lavoro in
calore senza altre conseguenze sull’universo ma non si può trasformare integralmente calore in
lavoro senza che null’altro accada. Per questo motivo lv che rappresenta l’aliquota di energia
meccanica (per unità di massa) che è stata convertita in calore deve essere sempre non negativa
(lv>= 0). In caso contrario (lv<0) si violerebbe il Secondo Principio della Termodinamica.
Guardando l’ultima equazione, tutto questo ci fa capire che se, in un tubo a diametro costante,
misuro una differenza di pressione ridotta ℘2 −℘1 negativa, il verso del flusso va dalla sezione 1
alla sezione 2. In caso contrario (℘2 −℘1 > 0 ), il verso del flusso va dalla sezione 2 alla sezione 1.
Nel caso che il diametro non sia costante, il verso del flusso non è più rilevabile con la differenza di
pressione ridotta (infatti in quel caso i termini cinetici nell’eq. ing. di Bernoulli non si elidono!). Si
deve in quel caso applicare la condizione più generale: lv>0. Grazie al Secondo Principio ho quindi
un modo per determinare il verso del flusso in una condotta qualunque. Tale proprietà è
particolarmente utile per determinare il verso del flusso sui vari tratti di una rete molto complessa
costituita da moltissime tubazioni interconnesse tra di loro (ad esempio nella rete di distribuzione
idrica di una città).

Relazione costitutiva tra perdite di carico e velocità. Analisi


dimensionale
Nella pratica tecnica rimane comunque il problema di calcolare le perdite viscose lv in funzione
della velocità (o della portata) nel tubo. L’equazione ingegneristica di Bernoulli è infatti solo un
bilancio di energia. Essa esprime soltanto l’affermazione ben nota per cui l’energia totale si
conserva. L’equazione ing. di Bernoulli non è dunque in grado di fornirmi la relazione costitutiva
tra perdite viscose e velocità. Per ottenere tale relazione si deve fare ricorso all’analisi dimensionale
e a prove sperimentali. Il modo in cui si ottiene tale relazione è spiegato nel paragrafo seguente a
carattere ridotto.

Cos’è e a che serve l’analisi dimensionale?


La risoluzione di problemi pratici di progetto nella meccanica dei fluidi (ma non solo nella meccanica dei fluidi!)
richiede sia lo sviluppo di modelli teorici che di risultati sperimentali bene organizzati. Raggruppando le grandezze
significative ai fini dello studio di un particolare fenomeno, è possibile ridurre il numero delle variabili che appaiono
nelle equazioni e quindi raggiungere un risultato più compatto (in termini di equazioni o grafici) applicabile a tutte le
situazioni simili. Ad esempio nel caso di nostro interesse, le perdite di carico lv sono dipendenti dalle proprietà del
fluido ( ρ e µ ), dalla geometria (L e D) e dalla velocità v. Se riusciamo a raggruppare queste 6 grandezze in un numero
minore di gruppi adimensionali indipendenti allora il numero di prove sperimentali da fare per trovare la relazione che
governa il fenomeno sarà significativamente diminuito. In altre parole invece di variare una per una queste grandezze
(viscosità, diametro, densità ecc.) basterà variare, uno per uno, solo i gruppi adimensionali indipendenti! Esiste un
teorema fondamentale (teorema Π di Buckingham) che ci assicura che il numero di gruppi adimensionali indipendenti
è minore del numero di grandezze coinvolte nel fenomeno. Il teorema Π afferma infatti che in un problema fisico che
include n grandezze (ad es. viscosità, densità, corrente elettrica ecc.) in cui ci sono m dimensioni (ad es. massa,
lunghezza, tempo, carica elettrica ecc.), le grandezze in gioco possono essere raggruppate in n-m gruppi adimensionali
indipendenti. Se ho n grandezze An essenziali per la descrizione di un fenomeno fisico so per certo che deve esistere una
relazione funzionale del tipo:
F ( A1 , A2 ,..., An ) = 0
Ma se riesco a trovare un n-m gruppi adimensionali indipendenti allora l’equazione governante il fenomeno coinvolge
non più n bensì n-m variabili (proprio i gruppi adimensionali di cui sopra):
f (Π 1 , Π 2 ,..., Π n ) = 0
Pertanto un gruppo adimensionale può così essere ricavato in funzione di tutti gli altri:
Π 1 = f (Π 2 , Π 3 ,..., Π n )
Prendiamo ad esempio il classico caso del moto di un pendolo. Sappiamo che le grandezze fisiche coinvolte nel
fenomeno sono: l (lunghezza del filo), g (accelerazione di gravità), m (massa appesa al filo), T (periodo del pendolo).
Ho quindi a che fare con 4 grandezze significative. Per quanto riguarda le dimensioni delle grandezze coinvolte esse
sono:
[g]=L*T-2
[m]=M
[l]=L
[T]=T
In queste 4 grandezze ho quindi 3 dimensioni: massa, lunghezza, tempo (M, L, T). Vi sono dunque 4-3=1 gruppi
adimensionali indipendenti. Per trovare una relazione governante il fenomeno dunque prendo tre (ossia tante quante
sono le dimensioni!) delle quattro grandezze in cui siano coinvolte tutte le dimensioni (M, L, T). Ad esempio considero
m, g ed l. L’unico gruppo adimensionale si può ricavare allora nel seguente modo:
Π1 = m x1l y1 g z1 ⋅ T
Devo fare quindi in modo che gli esponenti (x1, y1, z1) si compensino in modo da fornire un gruppo che non abbia
dimensioni. In pratica devo fare in modo che:
( ) ( ) ( ⋅ − ) ⋅ =
in cui ho sostituito al posto delle grandezze le rispettive dimensioni e ho imposto che la grandezza risultante sia
completamente priva di dimensioni (il che spiega gli esponenti tutti nulli a secondo membro). In altri termini, gli
esponenti devono rispettare le seguenti equazioni:
x1 = 0
y1 + z1 = 0
− 2 ⋅ z1 + 1 = 0
Da questo sistema lineare si ricava facilmente che z1=0.5, y1=-0.5 e x1=0. Tornando alla definizione del gruppo
adimensionale ottengo quindi:
−1 1 g
Π1 = m 0l 2 g 2 ⋅ T = ⋅T
l
Quindi la massa non gioca alcun ruolo nell’equazione governante il fenomeno! Come si vede l’analisi dimensionale ci
ha permesso di conseguire un risultato fisico senza nemmeno sapere quale sia l’equazione che governa il fenomeno! Da
quanto detto prima, inoltre, la generica equazione governante il fenomeno fisico F(m,l,g,T)=0 si può ridurre a:
f (Π 1 ) = 0
Ovvero:
g
f T =0
l
In generale questo equivale a dire che un gruppo adimensionale può essere espresso in funzione di tutti gli altri. In
questo caso però abbiamo un solo gruppo adimensionale. Ciò significa che esso è uguale ad una costante!
g
T =k
l
Pertanto volendo ricavare il periodo delle piccole oscillazioni del pendolo:
l
T =k⋅
g
dove k è un numero puro (cioè privo di dimensioni). Faccio un singolo esperimento in cui conoscendo lunghezza e
accelerazione di gravità, misuro il periodo e così determino k! Faccio notare ancora una volta che in nessun momento
ho impostato un’equazione differenziale o algebrica che descrivesse il fenomeno. Questo risultato è stato ottenuto solo
tramite l’analisi dimensionale e un numero limitato di prove sperimentali (in questo caso addirittura una sola!).
Si intuisce facilmente quale sia la potenza di questo metodo quando viene applicato a fenomeni molto più complicati di
quello delle piccole oscillazioni di un pendolo.
Nel caso di moto di un liquido in un tubo, il teorema di Buckingham mi dice che ho 6-3=3 gruppi adimensionali
indipendenti. Un procedimento simile a quello seguito nel caso del pendolo (più complesso ma identico dal punto di
vista procedurale) mi permette di ricavare per il moto viscoso di un liquido all’interno di un tubo i gruppi adimensionali
indipendenti: lv , ρvD , L .
v2 µ D
Sempre per quanto detto nella parte generale sull’analisi dimensionale posso affermare che deve esistere una generica
relazione che leghi tutti e soli questi tre gruppi adimensionali:
l ρvD L
g v2 , , =0
v µ D
Questo significa anche che uno dei tre può sempre essere espresso come una funzione dei soli altri due gruppi
adimensionali. Poiché ci interessa calcolare le perdite viscose esplicitiamo tutto in funzione del primo:
lv ρvD L
=g ,
v 2
µ D
A questo punto ho già raggiunto un grosso risultato. So che la dipendenza delle perdite di carico in funzione della
velocità può essere determinata facendo uso di una funzione g di due sole variabili: i gruppi adimensionali ρvD e L .
µ D
Posso fare ancora meglio se faccio una considerazione fisica: se in un tubo di lunghezza L ho una certa perdita di
carico, mi aspetto che lungo un tubo lungo 2L avrò una perdita di carico doppia. Poiché L compare solo nel gruppo
adimensionale L posso scrivere:
D
lv L ρvD
= ⋅g
v2 D µ
che è qualitativamente un’equazione molto diversa dalla precedente in quanto so già in che modo le perdite di carico
dipendono dalla lunghezza del tubo. Rimane dunque incognita una funzione di un solo gruppo adimensionale che è
proprio il numero di Reynolds. Qual è l’espressione di questa funzione? Come nel caso del pendolo, a tale quesito
l’analisi dimensionale non può dare una risposta. Quello che serve è una serie di esperimenti in cui variando il numero
di Reynolds misuro le perdite di carico (ad es. con un manometro) e quindi mi ricavo l’espressione della funzione
g (Re) . Ho così trovato un modo per determinare la relazione costitutiva tra perdite di carico e velocità senza scrivere
nessuna equazione differenziale.

In base a considerazioni basate sull’analisi dimensionale si può definire un fattore di attrito,


funzione del solo numero di Reynolds, legato alle perdite di carico nel seguente modo:

1 lv D
f (Re ) = Equazione 9
2 v2 L
[Notare il fattore ½ !]

Se abbiamo modo di conoscere come il fattore di attrito dipenda da Re allora possiamo calcolare
finalmente le perdite di carico lv. Attenzione! Nei manuali di ingegneria esistono almeno due
diverse versioni di tale fattore che differiscono tra loro solo per un fattore numerico. E’ quasi
superfluo dire che ai fini di un corretto calcolo numerico delle perdite di carico bisogna porre
estrema attenzione a quale versione del fattore di attrito è stata riportata sul manuale in uso. In
questo corso, quando si parlerà di fattore di attrito si farà sempre riferimento alla versione appena
fornita del fattore di attrito noto come fattore di attrito di Fanning.
Si è già detto che al fine di poter calcolare le perdite di carico lv devo sapere come il fattore di attrito
dipenda dal numero di Reynolds. La dipendenza di questa funzione dal numero di Reynolds può
essere determinata analiticamente nel limite di bassi Re (Re<2100 ossia moto laminare) ed è data
da:
16
f = Equazione 10
Re
Per alti valori del numero di Reynolds (Re>2100) l’espressione di f è nota analiticamente solo in
intervalli limitati di Re. La forma grafica della dipendenza di f da Re è comunemente nota sotto il
nome di abaco di Moody. Esso fornisce in forma grafica la relazione quantitativa di cui abbiamo
bisogno e nei problemi numerici che incontriamo va quindi conteggiato come una ulteriore
equazione.
Un esempio di problema III. Impianto di riscaldamento a circolazione naturale
Un caso in cui si incontra il terzo tipo di problema (vedi introduzione) è quello in cui si voglia
sfruttare la circolazione naturale dovuta alla differenza di densità di un liquido causata da una
differenza di temperatura. Ciò viene fatto negli impianti di riscaldamento di piccola potenzialità, in
particolare nelle zone montane o comunque dove l’uso di pompe di circolazione non sia
consigliabile a causa dell’irregolarità e/o scarsa qualità (in termini di frequenza e voltaggio) della
fornitura di energia elettrica. Nel caso della circolazione naturale è la differenza di densità
dell’acqua tra andata e ritorno a garantire il salto di pressione necessario a vincere le perdite
distribuite (fortemente dipendenti dal diametro del tubo) e localizzate (gomiti, contrazioni,
espansioni ecc.).
∆Pcn = (ρ rit − ρ and )gh

Nell’equazione precedente compare la differenza tra la densità dell’acqua al ritorno e la densità


all’andata e il dislivello fra il radiatore e la caldaia. La differenza di temperatura che causa questa

Figura 1 ABACO DI MOODY


differenza di densità è spesso fissata tra 70°C (temperatura al ritorno) e 90°C (temperatura
all’andata ossia all’uscita dalla caldaia). E’ chiaro che essendo la differenza di temperatura a fare da
“pompa” non c’è praticamente possibilità di incrementarne la forza (l’unica è aumentare il dislivello
h). Oltre a minimizzare le perdite concentrate bisogna dunque dimensionare accuratamente il
diametro della tubazione (perdite distribuite) in modo che le perdite di carico siano minori o uguali
del ∆P dovuto alla circolazione naturale.

L’uso dell’abaco di Moody è però comodo solo quando si richieda di calcolare le perdite di carico
essendo note la geometria e la portata. Nel caso che sia incognita la velocità oppure il diametro
bisogna risolvere un sistema di due equazioni in forma grafica. In particolare:

1) Calcolo del diametro


Moltiplicando il fattore di attrito per la quinta potenza del numero di Reynolds si fa scomparire il
diametro D ottenendo:
lv ρ 5Q 3
f (Re ) ⋅ Re 5 = 32 Equazione 11
π 3µ 5 L
f = f (Re ) Equazione 12

A secondo membro dell’equazione 11 compare infatti una serie di costanti, raggruppabili in una
costante AD tutte note nel caso in esame (diametro incognito). Passando ai logaritmi, la 11,
rappresentata sull’abaco di Moody, è una retta di pendenza 5:
Log ( f ) = AD − 5 ⋅ Log (Re ) Equazione 13

La soluzione del sistema della 11 e della 12 può essere trovata graficamente intersecando sul
piano dell’abaco di Moody la curva con la retta rappresentata dall’equazione 13. L’ascissa
dell’intersezione rappresenta infatti il valore del numero di Reynolds che soddisfa
contemporaneamente la 11 e la 12. Dal numero di Reynolds si ricava facilmente il diametro.

2) Calcolo della portata


Si procede similmente al caso in cui l’incognita è il diametro. Stavolta il fattore di attrito si
moltiplica per il quadrato del numero di Reynolds per far scomparire la velocità:
lv ρ 2 D 3
f (Re ) ⋅ Re =
2
Equazione 14
2µ 2 L
La 10, passando ai logaritmi, fornisce una retta logaritmica di pendenza 2:
Log ( f ) = AQ − 2 ⋅ Log (Re ) Equazione 15

Intersecando tale retta con la curva sul piano dell’abaco di Moody si ottiene il valore di Re che
soddisfa il sistema.

Ricordo che la caduta di pressione (sia quella manometrica P che quella ridotta ℘ ) in un condotto
di diametro costante si può facilmente ricavare dalle perdite di carico lv applicando l’equazione di
Bernoulli al caso specifico (equazione 8).
Il metodo grafico riesce a fornire soluzioni abbastanza accurate solo se si pone particolare cautela e
precisione nel suo uso. Come si nota dall’abaco di Moody in realtà il fattore di attrito è una
funzione del solo numero di Reynolds soltanto nel caso di tubi lisci. Se il tubo è scabro (cosa che
sempre accade nella realtà) il fattore di attrito è una funzione di Reynolds e della scabrosità ε
D
dove ε rappresenta un indice della scabrosità che viene poi normalizzato rispetto al diametro del
tubo. Se la scabrosità non è trascurabile è evidente che il calcolo del diametro è ulteriormente
complicato se ci si serve dell’abaco di Moody. Per tutti questi motivi, nella risoluzione di problemi
numerici può essere spesso più comodo ricorrere ad una espressione analitica. In letteratura se ne
trovano un certo numero valide in intervalli ben definiti di Re. Alcune di esse tengono in conto
anche la scabrosità dei tubi (vedi Tabella 1).

Tabella 1
NOME EQUAZIONE ESPRESSIONE Validità e Caratteristiche
Eq. Colebrook 1 ε 1.256 Re>3000
= −4 ⋅ Log + Implicita in f
f 3.7 D Re f Esplicita nella portata
Eq. Churchill 1 0.27 ⋅ ε 7
0.9 Re>4000
= −4 ⋅ Log + Esplicita in f
f D Re Esplicita nelle perdite di
carico
Eq. Blasius f = 0.0791 ⋅ Re −0.25 4000<Re<105
Per Log si intende il logaritmo in base 10

Guardando l’abaco di Moody si nota come la scabrosità del tubo incrementi il fattore di attrito
rendendolo quasi indipendente dal numero di Reynolds al di sopra di un certo valore critico. Può
essere utile conoscere tale valore in quanto al di sopra di esso il fattore di attrito può essere posto
pari ad una costante e quindi nella progettazione (e nella risoluzione degli esercizi) le perdite di
carico potranno essere considerate semplicemente proporzionali al quadrato della velocità (vedi
definizione di fattore di attrito). Per il calcolo di tale valore critico si può fare uso della correlazione
di Davies:
ε
20 3.2 − 2.46 ⋅ Ln
D
Re critico = Equazione 16
ε
D
In regime turbolento sono state inoltre sviluppate alcune equazioni esplicite nel termine incognito
(di volta in volta portata, perdite di carico o diametro). Si riporta di seguito la casistica consueta:

1) Calcolo della portata Q

Q π ε 1.78µ
=− Log + Equazione 17
l 2 3 .7 D l
D 2
D v ρD D v
L L
Questa equazione si ottiene combinando l’eq. di Colebrook con la definizione di fattore di
attrito di Fanning. Essa è pertanto valida per Re>3000.

2) Calcolo delle perdite di carico lv


lv
D5
L = 0.203
2 2
Equazione 18
Q ε5.74
Log + 0.9
3.7 D Re
L’errore che si commette usando l’eq. 18 è <1% in valore assoluto nell’intervallo
5*103<Re<108, 10-6< ε <10-2.
D
3) Calcolo del diametro
0.25 0.20 0.20
l l
5
D v ε5 v
L = 0.125 L µ5
+ Equazione 19
Q 2
Q 2
l
ρ Q v
5 3

L
L’errore che si commette nell’uso dell’equazione 19 è <2% in valore assoluto nell’intervallo
3*103<Re<3*108, 2*10-6< ε <2*10-2.
D

A futura memoria si riporta infine una semplicissima formula per il fattore di attrito in tubi lisci:
f = 0.04 ⋅ Re −0.16 Equazione 20

che è di uso frequente nella pratica tecnica ma solo per calcoli estremamente rozzi. Se ne
sconsiglia perciò l’uso per la risoluzione dei problemi numerici che verranno proposti durante
questo corso. Essa potrebbe comunque essere utile per fornire un valore di primo tentativo,
quando questo sia necessario. Per avere un’idea di quanto grande sia l’errore commesso usando
l’eq. 20 basti guardare alla sua rappresentazione grafica nell’abaco di Moody (curva D).

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