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FILOSOFIA DEL DIRITTO

Relazione fra diritto e morale: problema centrale nella filosofia del diritto che viene analizzato e
proposto in forme molto diverse tra loro. Vi sono, in particolare, due tesi opposte tra loro:

1. Giusnaturalismo
2. Giuspositivismo

Tesi del giusnaturalismo:

• Esiste una serie di principi e idee morali che sono immutabili nel tempo che sono di per sè
validi ed esistono oggettivamente.

• Un sistema normativo non può essere qualificato come giuridico se contraddicono tali
principi morali e di giustizia.

Il Giuspositivismo, invece, nega la connessione necessaria tra diritto e morale. Per i giusnaturalisti
non vi è diritto se questo non rispetta la morale, mentre per i giuspositivisti il diritto può, e
metodologicamente dovrebbe essere separato dalla morale (differenza concettuale).

Giusnaturalismo antico.

Sono stati i sofisti (di riferiamo al giusnaturalismo antico) a distinguere per la prima volta tra
“diritto per natura” e “diritto per legge”, ed emerge la contraddizione spiegata prima. Non abbiamo
direttamente dei testi dei sofisti, ma le loro tesi ci giungono da Platone: ingiusto è ciò che è utile al
più forte, che di solito si concretizza in legge. Questa idea è il germe di quello che oggi si chiama
“legalismo etico”: la legge è giusta per il solo fatto che essa è posta.

Rilevante è l’Antigone di Sofocle. Antigone, obbedendo alla propria coscienza e trasgredendo agli
ordini del re Creonte (rappresentazione del potere), aveva dato sepoltura al fratello, che era caduto
in battaglia contro la sua città natale. Antigone giustifica il suo comportamento parlando di leggi
non scritte dicendo che queste leggi non vivono oggi o ieri, ma in eterno e nessuno conosce il
momento in cui ebbero origine.

Le tragedie mettevano in rilievo quelli che erano i problemi etici, di cui si discute ancora oggi. Si
deve obbedire alla legge solo perché imposta ed esiste anche se ingiusta?
Ciò che la legge stabilisce, solo per il fatto che è stata fissata, deve essere rispettata.

Secondo il giusnaturalismo esistono due tipi di diritto:

- diritto naturale: applicabile a tutti gli esseri viventi, animali compresi (es. è un diritto naturale
l'accoppiamento tra animali di sesso opposto). La natura crea delle norme e regola il
comportamento degli esseri viventi, umani per primi.

- diritto umano (positivo): appartenente ai cittadini.

A partire da Roma le cose si complicano, perché si individuano molteplici tipi di diritti. Ma


comunque si mantiene la partizione principale (diritto naturale vs diritto positivo).

Il giusnaturalismo sostiene la superiorità del diritto naturale rispetto a quello umano: per essere
valida e obbligatoria la legge umana deve essere conforme a quella naturale.
Da quale autorità deriva il diritto naturale? Ci sono 3 fonti:

1) volontà divina → giusnaturalismo volontaristico

2) natura biologica → giusnaturalismo biologico

3) ragione umana → giusnaturalismo razionalista (diviso in antico e moderno)

GIUSNATURALISMO A ROMA. Per Cicerone il diritto naturale è la retta ragione, è la nostra


capacità di ragionamento, è il soggetto che attraverso il proprio ragionamento lo può identificare.
Ulpiano è invece sostenitore del giusnaturalismo naturalistico e dice che il diritto naturale è quel
diritto che la natura ha insegnato a tutti gli animali, non solo all’uomo.

GIUSNATURALISMO TEOLOGICO.

Rappresentanti:
Tommaso d'Aquino: asseriva l'esistenza di tre tipi di legge:

• Divina: imposta da Dio.

• Diritto naturale: il diritto che Dio ha impresso nella mente e nella razionalità di ogni essere
umano: tutti noi condividiamo una legge che ci rende parte della stessa natura. È una legge
che l'essere umano conosce per sé stesso ed è uguale per tutti.

• Diritto positivo: legge umana che dovrebbe concretizzare quello naturale.

Per il giusnaturalismo teologico il diritto naturale è quella parte dell’ordine etico dell’universo
creato da Dio e che è conoscibile per mezzo della ragione umana. Un problema connesso a tale
posizione però è il seguente:

1) qualcosa è buono perché Dio lo vuole

2)Dio è buono e può volere solo che è oggettivamente buono

In base alla concezione teologica del giusnaturalismo le leggi positive devono affermarsi o come
CONCLUSIONI del diritto naturale o come DETERMINAZIONI/SPECIFICAZIONE che precisano
i postulati del diritto naturale.

Esempi:

PER SPECIFICAZIONE: dal principio "la vita è sacra" si può arrivare a "vietato l'aborto"

PER CONCLUSIONE: da "L'Italia ripudia la guerra" si può concludere "L'Italia ripudia la guerra in
Iraq".

Dunque per S.Tommaso il diritto positivo è la conclusione logica del diritto naturale.

S. Agostino difende invece il collegamento assolutamente necessario fra diritto e morale, un


ordinamento giuridico che non rispetta questa volontà (Stato) non è un ordinamento → Lo Stato è
quell’organizzazione che rispetta il diritto naturale (es. banda di criminali organizzati e Stato)
ILLUMINISMO GIURIDICO/ GIUSNATURALISMO RAZIONALISTA/ILLUMINISTA. E’ una
forma di difesa del diritto naturale che non deriva da comandi divini bensì dalla natura o dalla
struttura della ragione umana.

Il giusnaturalismo moderno di carattere razionalista si fonda sull’idea che la società si basi su un


contratto sociale. Presuppone che gli esseri umani abbiano un diritto non oggettivo (norme), ma
soggettivo (pretese) per il solo fatto di essere umani. Lo stato di natura è lo stato presociale. Il
contratto sociale è il modo attraverso cui si cede parte della propria libertà e si conferisce potere al
sovrano. Si delimitano i diritti del singolo e il potere del sovrano.

Con la codificazione del diritto naturale la legge sintetizzata nei codici acquista il monopolio nel
manifestare il diritto. La codificazione diventa l’involontario ponte fra giusnaturalismo e
positivismo.

LEGALISMO ETICO O GIUSPOSITIVISMO IDEOLOGICO. Nessuno, a parte parzialmente


Kelsen, fanno loro questa teoria tuttavia è importante perché è stata una delle maggiori critiche da
parte dei giusnaturalisti ai giuspositivisti. Le norme, avendo validità e forza obbligatoria, devono
essere obbedite dalla popolazione e applicate dai giudici, non facendosi scrupoli morali. Questa
posizione potrebbe essere ben descritta dalla frase di Alf Ross che dice: “La legge è la legge e in
quanto tale deve essere obbedita”. Il positivismo ideologico pretende che i giudici assumano una
posizione moralmente neutrale e che si limitino a decidere secondo il diritto vigente. Secondo tale
posizione, che è quella maggiormente contestata dai giuspositivisti, i giudici devono tener conto di
un solo principio morale: “obbedire a qualsiasi cosa il diritto vigente imponga”.

Giusnaturalismo contemporaneo

1)Finnis difende una teoria di tipo TOMISTA (caratterizzata dall’idea che esistono dei valori ultimi
a cui l’uomo può accedere razionalmente) distinguendo tra casi marginali e casi paradigmatici e
sostenendo che è importante che ogni norma si ispiri al caso paradigmatico.

1) Dworkin fa invece una critica al giuspositivismo facendo il seguente esempio:

“Il tribunale di New York deve decidere se una persona designata erede nel testamento dal nonno
potesse ereditare in base a quel testamento sebbene egli avesse , al fine di riscuotere l’eredità
assassinato il nonno. I giudici per risolvere quella questione si sono appellati ad un diritto non
scritto: “A nessuno sarà permesso di trarre profitto dalla propria frode”. Si decide sulla base di una
legge non son scritta e in questo modo Dworkin smantella tutto il giuspositivismo. C’è
necessariamente una connessione interpretativa tra diritto e morale, è necessariamente impossibile
che il diritto sia scollegato da una dimensione morale.

All'interno del diritto non ci sono solo le regole del diritto positivo, ma anche dei principi.

2) Il secondo modo di collegare diritto e morale è la FORMULA DI RADBRUCK: il diritto


intollerabimente ingiusto non sarebbe diritto, posizione che viene difesa da ALEXY che considera
l’argomentazione giuridica un caso speciale dell’argomentazione morale. Così facendo Alexy
difende la formula di Radbruck sottolinenado così la connessione tra diritto e morale.
Esiste per Alexy una morale giusta, alla quale il diritto rimanda necessariamente. Esempio: “L’Italia
è una repubblica democratica e ingiusta”  Questa è una CONTRADDIZIONE PRAGMATICA :
un diritto contrario a qualcosa che si presuppone.

3) NINO attacca il giuspositivismo sostenendo una triplice connessione necessaria tra diritto e
morale:

1) CONNESSIONE CONCETTUALE

2) CONNESSIONE GIUSTIFICATIVA

3) CONNESSIONE INTERPRETATIVA

Spiegazione delle 3 connessioni:

1) io non posso capire il concetto di diritto se non capisco il concetto di morale  il diritto non può
che essere definito in termini morali come insieme di norme giuste o non intollerabilmente ingiuste.

2) il diritto non può che giustificarsi in base alla morale

3) il diritto non può che interpretarsi in base alla morale. Esempio di Dworkin del
nipote/testamento è un esempio di giustificazione di carattere morale.

Fuller sostiene la CONNESSIONE NECESSARIA tra diritto e morale, ma non si limita a questo
bensì introducendo il concetto di "morale interna del diritto" individua le specifiche 8 finalità che
ogni ordinamento giuridico deve soddisfare:

1) generalità

2) carattere conoscibile

3) non retroattività

4) deve essere comprensibile

5) non deve essere contradditorio

6) non deve essere troppo materiale

7) l'adempimento non deve essere impossibile

8) ogni singola disposizione deve essere interpretata nel modo più congruente al testo

POSITIVISMO

Se il giusnaturalismo può essere qualificato dalle 2 tesi precedentemente menzionate più difficile la
caratterizzazione del positivismo. Le cose stanno così perché la locuzione “positivismo giuridico” è
fortemente ambigua: essa rinvia a posizioni diverse, che a volte non hanno nulla a che vedere l’uno
con l’altro.

Le 2 tesi del positivismo sono:

- ogni diritto è costruzione umana: non ci sono volontà sovraumane e se ci sono non creano diritto

- separabilità tra diritto e morale (ciò che il giusnaturalismo rifiuta).


Norberto Bobbio ha distinto tra:

1) Positivismo come metodologia (o p. metodologico)

2) Positivismo come teoria (p. teorico)

3) Positivismo come ideologia (p.ideologico)

1. GIUSPOSITIVISMO METODOLOGICO

E’ la tesi caratterizzante del giuspositivismo: l’idea che il concetto di diritto debba essere
caratterizzato in termini AVALUTATIVI: ciò si contrappone alla tesi del giusnaturalismo in cui una
norma giuridica presuppone giudizi valutativi circa l’adeguatezza di questo ordinamento a certi
principi morali o di giustizia. I giudizi di valore sono soggettivi e relativi. Tuttavia ciò non significa
che non vi siano principi morali o di giustizia universalmente validi e giustificabili razionalmente e
ciò è alla base della tesi di natura metodologica per cui bisogna distinguere il diritto che è dal diritto
che deve essere.

Una definizione del tipo di quella proposta dal giusnaturalismo rende impossibile questa distinzione
perché per essa nulla è diritto se non deve esserlo. Un giuspositivista metodologico può dire senza
contraddirsi che i giudici sono moralmente obbligati a disapplicare determinate norme giuridiche.
Alcuni autori, come BENTHAM, AUSTIN, ROSS E HART definiscono diritto un sistema
normativo che presenta caratteri fattuali empirici peculiari, senza prendere in considerazioni
proprietà di natura normativa. E’ la posizione del REALISMO. Infatti il positivismo metodologico
ha due correnti:

1)REALISMO GIURIDICO: contesta la compatibilità del giuspositivismo metodologico con l’idea


di caratterizzare il diritto come un sistema di norme

2) NORMATIVISMO/POSIZIONE NORMATIVISTA

Il REALISMO GIURIDICO si fonda su 3 tesi:

1) Tesi della separabilità tra diritto e morale: tra diritto e morale ci possono essere solo
connessioni contingenti e non necessarie

2) I giudizi di valore non sono veri o falsi, ma solo emotivamente giusti (emotivismo etico)3

3) Scetticismo interpretativo (che può essere radicale o moderato): ogni caso giudiziario è
difficile: ogni disposizione giudiziaria ha più significati.

La dottrina e la teoria del diritto dovrebbero occuparsi di fatti, non di valori; soprattutto non
dovrebbero valutare il diritto: valutazione che sarebbe solo espressione delle emozioni individuali di
chi valuta.

Tutti i giusrealisti aderiscono allo scetticismo interpretativo: alcuni radicale (l’interpretazione è


autentica creazione di diritto), la maggioranza moderato (l’interpretazione è solo partecipazione alla
produzione del diritto). Tutte le concezioni hanno in comune, oltre all’attenzione per l’effettività,
anche l’opposizione al formalismo giuridico e al legalismo.
Le correnti giusrealiste possono essere descritte come quelle che hanno un’impostazione soprattutto
descrittiva ed empirica. Tutti i giusrealisti hanno un’interpretazione piuttosto scettica
dell’interpretazione giuridica: sottolineano infatti l’indeterminatezza ineliminabile delle norme
generali e astratte e la natura creativa (almeno in parte) della loro applicazione ai casi concreti.

Il realismo è diviso in diverse correnti:

- REALISMO AMERICANO

- REALISMO SCANDINAVO

- REALISMO ITALIANO (genovese)

REALISMO AMERICANO. Il realismo si può definire come un atteggiamento scettico nei


confronti delle norme giuridiche. Come scrive Hart è una reazione contro un atteggiamento
opposto: il formalismo nei confronti delle norme e dei concetti giuridici, tipico soprattutto dei
sistemi di Civil Law. La circostanza di non avere a che fare con codici dotati della pretesa di
incarnare la ragione ha messo in grado i giudici di Common Law di avvertire con maggiore
chiarezza dei colleghi di Civil Law che le norme giuridiche sono luni dal presentare le proprietà
formali che normalmente si attribuiscono loro. Secondo una larga corrente del giusnaturalismo
americano e parte del giusnaturalismo scandinavo il diritto non consiste affatto di norme
giuridiche. Sintesi di tale posizione è la frase del giudice Holmes: “Se volete conoscere il diritto e
nient’altro che il diritto dovete guardare ad esso come un uomo cattivo, che si preoccupi solo delle
conseguenze materiali prevedibili sulla base di tale conoscenza e non come un uomo buono che per
la sua condotta trova ragione dentro al diritto o anche fuori in ciò che la coscienza gli detta”. Per il
realismo giuridico le norme giuridiche sono importanti nella misura in cui ci aiutino a predire
quello che faranno i giudici. Secondo i giusrealisti bisogna ricondurre il diritto sulla terra e
costruire una scienza giuridica che descriva la realtà giuridica mediante proposizioni empiricamente
verificabili. Se cerchiamo dei fatti, cosa mai potremo trovare che costituiscano il diritto se non le
decisioni dei giudici. Cosa succede dal punto di vista dell’uomo buono è un problema morale.

Il realismo americano ha come obiettivo dare una descrizione del diritto che permette di prevedere
il più efficacemente possibile le decisioni giudiziarie concrete. Questi realisti americani sostengono
che al centro del diritto non stanno le norme generali e astratte, ma piuttosto la somma delle singole
decisioni giudiziarie. Essi sostengono che le norme abbiano al più una funzione predittiva, cioè
permettono di prevedere quale sarà il vero diritto, quello dei tribunali. Il realismo americano è
inoltre caratterizzato da una forma estrema di scetticismo interpretativo.

REALISMO SCANDINAVO. Il giusrealismo scandinavo è un’altra corrente del realismo giuridico


secondo cui la conoscenza del mondo sarebbe accessibile senza la mediazione dei concetti. Il
realismo giuridico scandinavo ha in comune con la corrente nordamericana un interesse prevalente
per l’effettività del diritto. Anche per la maggior parte di loro la scienza giuridica è un discorso
empirico predittivo dei comportamenti giuridici. Anche il giusrealismo scandinavo è scettico
riguardo alla teoria dell’interpretazione. Il filosofo più importante di tale corrente è Ross. Ross
respinge l’idea di una specifica validità a priori del diritto e sostiene in polemica con Kesen che le
norme non hanno alcuna specifica realtà e non esistono a meno che non vengano osservate e
sentite come vincolanti dai loro destinatari. Sul compito e la natura della scienza giuridica Ross
la qualifica come empirica e predittiva. Per Ross il diritto è l’insieme delle norme non valide, ma
vigenti.

Da un lato, Ross sembra sposare una tesi di Verdross , che sarà poi ripresa da Hans Kelsen : la
legge non può determinare completamente il contenuto contenuto della decisione giurisdizionale; la
legge si limita a disegnare una cornice (Rahme), entro la quale diverse soluzioni sono egualmente
possibili; e la scelta di una soluzione a preferenza di un’altra non può che dipendere da criteri extra-
giuridici (politici o morali) .

(b) Dall’altro lato, Ross osserva che la cornice disegnata dalla legge è astratta, mentre la decisione
del giudice riguarda un caso concreto, e però – afferma – tra l’astratto è il concreto vi è un
“crepaccio” (Kluft), un abisso, che la logica non può colmare . Ecco dunque che, nel concretizzare
la legge, il giudice necessariamente crea diritto .

GIUSREALISMO GENOVESE

La scuola di Genova e il suo fondatore Giovanni Tarello ha sostenuto una forma di scetticismo
interpretativo radicale. La tesi 3 infatti si ricollega alla differenza tra DISPOSIZIONE E NORMA.

Guastini sottolinea e dimostra come in realtà le stesse distinzioni create dalla dottrina rendono il
diritto ancora più discrezionale.

CRITICHE AL REALISMO
1) Non tutte le disposizioni sono ambigue: è il contesto a renderle ambigue.

Esempio: se una signora dice: “Che freddo!” può essere un’informazione (che si sta abbassando la
temperatura) oppure magari sta chiedendo qualcosa da mettersi. Da questo punto di vista si
introduce la differenza tra casi facili e casi difficili. Non è sempre necessario interpretare: nei casi
facili si può applicare direttamente.

2) Il Realismo si sofferma troppo sui casi giudiziari, ma non tutto il diritto va davanti ad un giudice
che poi comunque può sbagliare

3) Il Realismo sostiene che i giudici prima decidono e poi cercano la giustificazione nella norma per
la loro decisione, ma questa dell’ordine è solo una questione psicologica, il fatto è che il giudice
motiva la sentenza in modo logico. Prima o poi la decisione del giudice non è più modificabile, ma
comunque il giudice può sbagliare.

4) Il Realismo sostiene che il vero creatore delle norme è l’interprete però se non ci sono norme,
non esiste nemmeno il giudice. Il giudice infatti dipende da norme di competenza.

GIUSPOSITIVISMO IDEOLOGICO

Le norme del diritto positivo hanno validità o forza obbligatoria e le loro disposizioni devono essere
necessariamente obbedite dalla popolazione e applicate dai giudici astraendosi dai loro eventuali
scrupoli morali. Nessuno sostiene tale posizione, se non parzialmente Kelsen. Il giuspositivismo
ideologico pretende che i giudici osservino una posizione moralmente neutrale e che si limitino a
decidere secondo il diritto vigente. Il giuspositivismo ideologico è una posizione avalutativa,
secondo cui i giudici obbedire a qualsiasi cosa il diritto vigente disponga. Vi sono 2 interpretazioni
del principio di avalutatività:
1) i giudizi di valore sono vietati ad uno studioso perché sono radicalmente soggettivi

2) i giudizi di valore sono ammessi ma alla condizione di distinguerli dai diritti di fatto.

FORMALISMO GIURIDICO  POSITIVISMO GIURIDICO COME TEORIA

Per il positivismo formalista valgono le seguenti tesi:

1) tutto il diritto è positivo: l’unico diritto esistente è positivo. Per un positivista ogni diritto è
sempre posto.

2) tutte le norme sono comandi  quando si parla di norme si pensa alla prescrizione. Tutte le
norme sono comandi o frammenti di comandi.

3) il diritto è sempre coattivo. Per questa teoria la coazione è la caratteristica definitoria. Per altri
invece il diritto non poggia solo sulla minaccia della forza, ma anche sull’accettazione da parte dei
consociati.

4) Tutte le norme sono prodotte dallo Stato  non si accetta che ci possano essere diversi
ordinamenti giuridici che non dipendono dallo Stato

Secondo tale concezione il diritto è formato esclusivamente o prevalentemente da precetti di tipo


legislativo, ovvero norme promulgate esplicitamente da organi centralizzati e non, per esempio da
norme consuetudinarie o giurisprudenziali. Questa concezione sostiene che l’ordinamento giuridico
è sempre: a) completo (non presenta lacune), b) coerente (non presenta contraddizioni), c)
determinato (le sue norme non sono né vaghe né ambigue). d) obbligatorio

Questa idea del diritto come ordinato e completo è profondamente diversa dal realismo, è una
posizione molto fiduciosa come testimonia il fatto che i giuristi si limitano ad applicare
meccanicamente. Neppure in questo caso possiamo dire che i principali rappresentanti postivvisti
aderiscano a questa concezione del diritto.

Un giusnaturalista dirà che se i giudici sono moralmente obbligati a disapplicare una norma questa
non è una norma giuridica; un giuspositivista ideologico dirà invece che se una norma è giuridica i
giudici sono necessariamente obbligati ad applicarla.

CRITICA DEL FORMALISMO GIURIDICO

Hart definisce il positivismo formalista “nobile sogno”, l’antiformalismo “incubo” e aggiunge nel
mezzo la “teoria mista, ovvero la teoria di ricerca dominante definita come “veglia”, uno stato di
controllo critico, attivando il quale è possibile distinguere i casi in cui i giudici interpretano il diritto
preesistente e lo applicano dai casi in cui creano nuovo diritto. Hart critica il modello del bandito
(“ciò che rende obbligatorio il comportamento prescritto dalle norme giuridiche è l’esistenza di
sanzioni che si applicano nel caso di trasgressioni"). Il diritto secondo Hart è invece previsto da
norme che prevedono sanzioni. Alla base del diritto c’è per Hart una base consuetudinaria.

Hart invece dirà che alla base del diritto c’è una norma consuetudinaria ed è quella che lui chiamerà
REGOLA. Secondo Hart alla base di ogni regolamento giuridico esiste una regola sociale che esiste
fra i giudici che usano gli stessi criteri di validità. Certamente i giudici tedeschi avranno criteri
diversi da quelli italiani. Criteri diversi implicano un diverso ordinamento. Tale non è una regola
scritta, ma è una pratica sociale che consta di:

1) ripetizione di un comportamento abituale

2) oltre all’abituale c’è anche un atteggiamento per cui chi non agisce così viene criticato

L’ordinamento giuridico è VALIDO, COMPLETO E OBBLIGATORIO. Il diritto per Hart ha 2


funzioni:

1) regole primarie finalizzate a restringere la libertà umana

2) norme secondarie senza le quali il diritto non esisterebbe. Infatti il diritto non serve solo a
restringere a libertà, ma anche a facilitare la vita offrendo molte possibilità. Esempi: possibilità di
fare testamento, aprire una S.p.A.

Le norme primarie stabiliscono e impongono obblighi, ma esistono anche altre norme relative ad
altre norme che conferiscono poteri le cosiddette norme secondarie. Hart distingue 3 tipi di norme
secondarie:

1) NORME DI GIUDIZIO (elimina l’inefficienza)

2) NORME DI MUTAMENTO (elimina la staticità)

3) NORME DI RICONOSCIMENTO (elimina l’incertezza dalla società)

Kelsen definisce “NORMA FONDAMENTALE una norma la cui validità può essere derivata da
una norma superiore. Tutte le norme la cui validità può essere ricondotta ad un’unica norma
fondamentale costituiscono un sistema di norme o un ordinamento”

INDETERMINATEZZE DEL LINGUAGGIO

Ross e Hart hanno chiarito il tipo di indeterminatezza che un ordinamento giuridico può presentare:
lacune e contraddizioni logiche, vaghezza e ambiguità linguistica.

NEOCOSTITUZIONALISMO

Lo Stato legislativo di diritto poggia su 3 caratteristiche:

1) esistenza di diritti sovraordinati alla legge, fondamentali e costituzionalizzati

2) distinzione tra costituzione rigida e flessibile.

3) autorità giuridicamente unitaria

L’autorità incontra limiti negativi (cose che non si possono fare) e limiti positivi (rimuovere gli
ostacoli). Quattro sono le discussioni che riguardano il neocostituzionalismo:

1) Da cosa dipendono i diritti fondamentali?

2) La Costituzione è davvero normativa in senso stretta?

3) Interpretazione e applicazione di norme costituzionali.


4) Controllo di costituzionalità delle leggi

1° QUESTIONE

Se un giusnaturalista vuole spiegare questa questione di solito si rifà alla morale. Se un positivista
vuole spiegare ciò invece darà due risposte:

1) alcuni principi sono fondamentali perché la Costituzione è rigida, ciò la rende inattaccabile da
parte del legislatore odierno

2) Il diritto è fondamentale perciò merita di essere tutelato dalla Costituzione –> proteggi amo
rigidamente alcuni diritti composti dalla società come inviolabili. --> Ci sono dei diritti
fondamentali riconosciuti come tali dalla società e perciò tutelati dalla Costituzione

Non è dunque necessario rifarsi alla morale per riconoscere che alcuni diritti sono più importanti
degli altri. C’è anche una lettura morale della Costituzione. Alexy e Nino sostengono per esempio la
tesi della CONNESSIONE NECESSARIA DEFINITORIA (il diritto non può che essere definito in
termini morali), IDENTIFICATIVA (il diritto non può che identificarsi in base alla morale),
GIUSTIFICATIVA (il diritto non può che giustificarsi in base alla morale), INTERPRETATIVA (il
diritto non può che interpretarsi in base alla morale).

2° QUESTIONE. La Costituzione è normativa? Che comportamenti regola? DISTINZIONE TRA


REGOLE E PRINCIPI. La regola è “Vietato parlare ad alta voce”, il principio dice: “Si deve
difendere la libertà”. Il comportamento che obbliga a tenere non è molto chiaro. Il principio è una
norma molto astratta. Le norme costituzionali hanno un antecedente completamente aperto. La
Costituzione è normativa in senso debole, visto che ha concetti così gerarchici e astratti. Ci sono
anche norme molto chiare: “I cittadini hanno diritto di voto”. Io sono cittadino, ho diritto di voto.

La TERZA DISCUSSIONE sull’ INTERPRETAZIONE e sull’APPLICAZIONE è strettamente


legata alla precedente.

- Visione realista: le norme sono sempre potenzialmente in conflitto tra loro. Il conflitto va risolto
attraverso il bilanciamento, che consiste nel fare una GERARCHIA ASSIOLOGICA. La gerarchia
assiologica, che viene fatta dalla Corte Costituzionale, è INSTABILE in quanto oggi può dire che
prevale un valore, domani un altro.

- Per la lettura GIUSNATURALISTA sarà la morale a determinare il risultato del bilanciamento.

Le regole si applicano attraverso il MODUS PONENS. Se una proposizione è vera, anche la


premessa è vera, allora anche la conseguenza è vera. Es: “Se guadagni più di 200€ devi pagare 1
tassa” PREMESSA –> Susanna deve pagare 1 tassa (conseguenza).

Ferrajoli sostiene che si dovrebbero bilanciare non le norme, ma i fatti. “Pubblicare o non
pubblicare? E’ una foto del presidente del Consiglio di grande rilievo…è privata, irrilevante” –>
bilanciare i fatti.

La QUARTA DISCUSSIONE riguarda il controllo di costituzionalità delle leggi. Il diritto è


costituzionalizzato però c’è un ampia letteratura contraria al controllo giudiziario della
costituzionalità delle norme. Una visione di Costituzione è quella per cui la si interpreta come punto
di partenza del dibattito democratico ( concezione deliberativa): nel Parlamento si dialoga,. La
PARTECIPAZIONE DEMOCRATICA aggiunge all’esito del procedimento legislativo qualcosa che
senza tale partecipazione non ci sarebbe potuto essere  in questo senso deve prevalere il
Parlamento sulla Corte Costituzionale  posizione molto fiduciosa e ottimista. Un’altra posizione
meno ottimista vede nella democrazia la regola della maggioranza. La maggioranza può fare ciò
che vuole: il 50%+1 decide che la maggioranza è schiava e perciò si rende necessario il controllo di
costituzionalità.

LINGUAGGIO GIURIDICO E DEFINIZIONE DEL DIRITTO-NORME GIURIDICHE-SISTEMI


GIURIDICI.

Il diritto è un esempio dei molteplici usi che si possono fare del linguaggio. Quando ci si riferisce
alla parola si indica tra “ “. La parola ha una sua denotazione (riferimento alle cose cui il termine si
applica) e connotazione (i caratteri comuni alle cose cui un termine si applica). Bisogna distinguere
anche per l’enunciato. Da cosa dipende il significato della parola? Dipende dal contesto in cui esse
compaiono!

Le parole non hanno significato isolatamente, ma solo se inserite in una frase di senso compiuto.
detta enunciato: frase contenente almeno un verbo e poi eventualmente un soggetto e un predicato,
detti termini.

La proposta è quella di distinguere PROPOSIZIONI (di tipo empirico o analitico) da quelli che
intendono giudicare (GIUDIZI DI VALORE e NORME). Questa divisione si chiama GRANDE
DIVISIONE ed è una suddivisione abbastanza recente, che come si vedrà, non può essere intesa
DICOTOMICAMENTE (esclusività ed esaustività).

Per distinguere le norme dalle proposizioni si possono ipotizzare diversi criteri:

1) criterio morfo sintattico è irrilevante: posso usare parole normative per un enunciato
descrittivo e viceversa

2) criterio pragmatico: fa riferimento agli usi, intenzioni con cui vengono usate le parole, cercando
di cogliere l’effetto che l’enunciato provoca

3) criterio semantico: noi diciamo che una norma è inopportuna, ma non che è vera/falsa

3 sono i criteri che classificano gli enunciati in norme:

1) effetto diretto: le proposizioni informano, le norme giudicano

2) le proposizioni sono apofantiche (vere o false), le norme no

3) criterio della direzione di adattamento: le proposizioni mondolinguaggio mentre le norme


sono linguaggio  mondo

Prendiamo l’esempio. “Tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”:

se lo dice la Costituzione tale frase è una NORMA

se lo dice un avvocato è un’INFORMAZIONE.

Le parole in sé non vogliono dire nulla dipende dal contesto in cui vengono dette.
Le proposizioni , come detto, si dividono in empiriche e analitiche. Le proposizioni empiriche
sono anche dette contingenti e sono verificabili o falsificabili in base all’esperienza. Esempio:
“Oggi c’è il sole”.

Un enunciato può poi esprimere quei significati conoscitivi, che sono le proposizioni analitiche, o
piuttosto necessarie come “Un triangolo è un poligono con 3 lati”. Mentre la verità delle
proposizioni empiriche è contingente, ossia dipende dai fatti che possono sempre mutare, la verità o
la falsità delle proposizioni analitiche è necessaria , nel senso che dipende dalla definizione stessa
dei termini impiegati. Le differenze con le proposizioni empiriche sono che il loro effetto diretto è
informare, ma sui significati delle parole, non sulle cose. Le proposizioni analitiche sono
apofantiche ma la loro verità è necessaria non è contingente. Inoltre le proposizioni analitiche si
adattano solo indirettamente al mondo, mentre si adattano direttamente al mondo.

I giudizi di valore invece sono predicazioni di qualità valutative rispetto ad un ente. Esempio: “La
vita è sacra”. C’è una discussione metaetica sul fatto se essi vanno intesi come soggettivi o
oggettivi. La metaetica nota come prescrittivismo ha tentato di ridurli a norme. Infatti i giudizi di
valore sono generici , astratti e funzionano come i principi: entrambi giustificano le regole. La
differenza sta nel fatto che i principi sono pur sempre norme, servono a guidare il
comportamento , non a valutarlo.

La discussione metaetica su oggettività e soggettività dei valori può ormai essere formulata in
termini di monismo di valori o di pluralità di valori. La prima è la teoria per cui tutti i valori
discendano da un unico valore ultimo, specifico e prevalente sugli altri (giustizia, dignità, ..). Il
pluralismo invece è la teoria per cui i valori ultimi sono oggettivi, nel senso che sulla loro lista vi è
ampio accordo, ma anche plurimi, generici e confliggenti: sicchè molti giudizi di valore comportano
la loro specificazione e prima ancora la soluzione dei loro possibili conflitti, dal momento che sono
fatalmente soggettivi. Se si volesse sostenere l’oggettività dei giudizi pro o contro l’aborto si
incontrerebbero molte difficoltà: prima bisognerebbe individuare i valori rilevanti, poi bilanciare
questi valori, trovare un punto di equilibrio da fissare poi in una regola del conflitto fra sacralità
della vita e salute della donna.

Infine un enunciato può esprimere norme: significati normativi che guidano il comportamento. Le
norme possono guidare il comportamento in 2 modi: o direttamente come fanno le regole o
indirettamente come fanno i principi.

Le norme si distinguono dalle proposizioni empiriche sulla base dell’effetto diretto: le


proposizioni informano, le norme guidano la condotta. Le norme si distinguono poi dalle
proposizioni analitiche: le prime contingenti, le seconde necessarie. Non esistono norme
necessarie, anche le varie connessioni tra diritto e morale postulate dai giusnaturalisti sono in realtà
contingenti e su ciò si fonda il discostamento tra il diritto che è e il diritto che dovrebbe essere (tesi
della serabilità). Infine le norme si discostano anche dai giudizi di valore in quanto i giudizi di
valore non guidano il comportamento, lo valutano.

Le norme giuridiche sono di solito espresse o esplicite, ossia formulate in enunciati, detti
disposizioni di cui le norme sono il significato. Non vi è corrispondenza biunivoca fra enunciati e
significati, disposizioni e norme: una stessa norma può essere espressa da diverse disposizioni ,
una stessa disposizione può esprimere diverse norme.
La Grande divisione, interpretata non dicotomicamente, distingue non solo proposizioni empiriche
e norme, ma proposizioni empiriche, proposizioni analitiche, giudizi di valore e norme. Tutto
ciò solleva il problema della legge di Hume ; occorre cioè chiedersi, non solo se da proposizioni
possano dedursi norme, ma quali siano i rapporti logici fra tutti e quattro i tipi di significato appena
distinti.

Che cos’è una deduzione? Una deduzione in base alla legge logica del sillogismo è un insieme di
proposizioni, alcune delle quali sono chiamate premesse. La conclusione non deve dire nulla che
non sia già stato detto nelle premesse. Su questo tema e in particolare sull’indeducibilità è
fondamentale un passo di Hume che sottolinea come gli autori nei loro scritti di etica, dopo un po’
fanno un salto ingiustificato, impercettibile, ma importantissimo sostituendo alla copula “è” il
“dover essere” senza darne alcuna doverosa spiegazione.

Chiariamo ancora un po’ meglio cos’è il sillogismo con il seguente esempio di sillogismo pratico, o
giudiziale:

Premessa maggiore: Tutti i ladri devono essere puniti.  norma astratta

Premessa minore: Tizio è un ladro  proposizione concreta

Conclusione: Tizio deve essere punito

In questo esempio la legge del sillogismo è rispettata

Si possono dedurre norme da proposizioni empiriche? Nel caso di deduzioni di conseguenze


normative da premesse conoscitive (giusnaturalismo antico), la legge del sillogismo viene
violata. E’ la cosiddetta fallacia naturalistica, ovvero la pretesa di dedurre norme da proposizioni.
Esempio: “E’ naturale che la cosa senza proprietario diventi del primo che se ne appropria, si è
sempre fatto così , si deve fare così”. Ma questa è solo un’argomentazione, plausibile, ma non
stringente, valida come norma forse nel mondo antico caratterizzato da sovrabbondanza di beni, ma
non funziona più così nel mondo moderno caratterizzato da relativa scarsità di beni.

Dalla proposizione empirica sulla diffusione del libero mercato non può dedursi alcuna norma;
infatti se ne argomentano due diametralmente opposte tra loro, il che mostra che trattasi di
argomentazione, non di deduzione. Esempio: dalla proposizione empirica “Il libero mercato è
diffuso..” si può arrivare tanto alla conclusione “… dunque il libero mercato deve essere protetto”
quanto “…dunque deve essere vietato” a seconda del giudizio che di esso viene dato in una
premessa implicita. Questo tipo di sillogismo con premessa implicita si dice entinema.

Dunque da proposizioni e norme (come nel sillogismo pratico) si può dedurre, non dalle sole
proposizioni , caso in cui si può solo argomentare adducendo ragionamenti meno stringenti della
deduzione.

Si possono dedurre norme da proposizioni analitiche? Questo era il modo di ragionare del
giusrazionalismo moderno “E’ razionale fare così”, conclusione “Si deve fare così”. Hume però
fa notare che la ragione non detta leggi etiche, come pensavano i giusrazionalisti, ma ha una facoltà
meramente conoscitiva. Questo tipo di fallacia si chiama fallacia razionalistica.

Infine possono dedursi norme da giudizi di valore? “La vita è sacra” è sia un giudizio di valore sia
un principio e giustifica la regola “Non uccidere” ma la giustifica non deduttivamente ma per
specificazione. La specificazione è solo un argomentazione : la specificazione può giustificare
conclusioni differenti e anche opposte. Il giudizio di valore della sacralità della vita non è l’unico
rilevante per valutare l’omicidio; possono essere rilevanti molti altri, che vanno bilanciati
(conciliati, contemperati) con esso: legittima diesa, stato di necessità, aborto, eutanasia, guerra,
pena capitale.

Il linguaggio ha delle indeterminatezze, tra cui se ne distinguono 2 principali: l’ambiguità e la


vaghezza. L’ambiguità è relativa ai termini, la vaghezza è relativa ai significati. Mentre
l’ambiguità può eliminarsi tramite definizioni, distinguendo i diversi significati, la vaghezza di tali
significati non può mai eliminarsi del tutto. Per rendere più preciso il significato da definire
(definiendum) le definizioni utilizzano sempre almeno un altro termine (definiens): il quale deve
essere certo meno indeterminato del definiendum , altrimenti la definizione sarebbe inutile, ma non
è mai del tutto determinato.

Il primo tipo di indeterminatezza è l’ambiguità: il termine indica cose diverse benché dotate di
caratteri comuni e comunque tali da suscitare il dubbio a quale cosa ci si riferisca.
L’ambiguità va distinta dall’omonimia accidentale: che si ha quando uno stesso termine indica cose
del tutto differenti, prive di qualsiasi caratteristica comune. Esempio: mano => 1) parte del corpo
2)carte

L’ambiguità ha diverse fonti:

1) fonte sintattica

2) fonte semantica

3) fonti pragmatiche

4) legata all’uso degli argomenti interpretativi

L’ambiguità di fonte semantica è legata al dubbio che si può creare tra processo e prodotto.
Esempio:

Andrea ama la musica  ambigua:

1)A. sa suonare

2) A. gode dei risultati fatti da altri

Un altro tipo di ambiguità, oltre al processo-prodotto, è quello tra senso colloquiale e senso
tecnico. Per esempio il termine offerta nel linguaggio quotidiano ha un senso vago diverso da
quello specifico datogli dal diritto.

L’ambiguità sintattica è data dalla presenza di certe parole o subordinate che danno la
possibilità di 2 letture diverse:

“L’aborto è possibile se la donna è violata, è demente”

Su questa virgola c’è stata molta discussione: servono entrambe le condizioni o ne basta 1 sola.

L’ambiguità pragmatica è visibile per esempio in questo esempio:


“Potete giocare a qualcosa dopo cena.”

E’ chiaro che in questo qualcosa c’è qualcosa di escluso, per esempio i giochi sessuali sono
sicuramente esclusi.

“Sarei certamente lieto che tu rimanessi”

1) chiedo di rimanere

2) indifferente

3) è ironico: bisogna andare via

Anche gli argomenti interpretativi creano ambiguità:

“I cittadini possono votare”  gli stranieri possono votare? è totalmente assente il riferimento agli
stranieri. c’è una lacuna, si possono dunque usare diversi argomenti:

- argomento a contrario: solo se cittadino ho diritto di votare. Un tipo di argomento letterale

- analogia: come i cittadini anche gli stranieri possono votare

A seconda delle strategie che si usa si può fare del diritto un’altra cosa e usare il diritto per dare
ragione alla parte che si desidera.

“I cittadini possono votare”

I minorenni?

senso letterale  sì

argomento di discernimento coloro che godono di sufficiente capacità di discernimento (che


abbia una certa maturità).

L’ambiguità può essere risolta con una decisione del giudice o con lo studioso del diritto che
difende un’interpretazione o l’altra.

L’ambiguità riguarda la connotazione del termine (i caratteri distintivi delle cose cui si applica),
la vaghezza invece è la sua denotazione (le cose stesse cui si applica).

La vaghezza può essere:

- combinatoria

- quantitativa

- potenziale

La vaghezza quantitativa fa riferimento a proprietà individuali. Quanto denaro occorre per poter
essere definito ricco? La vaghezza in questo caso è quantitativa.

La vaghezza combinatoria è un dubbio legato alla mancanza di un minimo comune denominatore


tra i vari significati del termine. Esempio: la parola “gioco”.
La vaghezza potenziale è la vaghezza quantitativa e combinatoria che ogni parola in quanto tale
potenzialmente ha: ogni concetto potrebbe diventare poco chiaro a seconda delle circostanze.

I rimedi all’indeterminatezza del linguaggio sono le definizioni le quali hanno forma x=y e dove x
si dice definiendum (termine da definire) e y definiens (termine o espressione che serve a definire).
Le definizioni devono soddisfare i seguenti requisiti: non possono essere circolari, non possono
ripresentare il termine definiendum nel definiens.

Quanto alle funzioni, ai diversi fini del definire si danno anzitutto definizioni lessicali, le quali
informano sui significati che il termine ha già: come le definizioni fornite dai dizionari.

Un altro tipo di funzioni relativamente alle funzioni sono le definizioni stipulative (o


convenzionali) che attribuiscono un significato tecnico al termine, completamente diverso
rispetto a quelli che eventualmente (può essere anche un termine nuovo) aveva già. Si ricorre alle
definizioni stipulative soprattutto nell’ambito delle scienze naturali, che non tollerano ambiguità e
vaghezze: anche se il termine tecnico può poi entrare nell’uso ordinario, e diventare anch’esso
ambiguo e vago.

Sempre rispetto alla funzione si danno ridefinizioni, le quali scelgono uno dei significati che il
termine ha già, in base alla sua definizione lessicale ed eventualmente lo precisano, così
attribuendogli un significato non tecnico ma tecnicizzato.

Infine ha solo la forma della definizione pur non essendolo, la definizione persuasiva alla quale
possono ridursi certe definizioni “pubblicitarie” tipo “La libertà è partecipazione”, “La vera libertà è
indossare impermeabili Passalacqua”, espressioni che non definiscono affatto la parola libertà.

Quanto alle tecniche definitorie le definizioni si distinguono in connotative che si servono della
connotazione del termine (riferendosi ai caratteri comuni alle cose indicate) e denotative che si
servono della denotazione del termine (riferendosi alle cose indicate). Una larga tradizione
filosofica tende a privilegiare le definizioni connotative e a diffidare delle definizioni denotative:
ritenute (non autentiche definizioni, ma) mere esemplificazioni.

E’ connotativa per antonomasia la definizione per genere prossimo e differenza specifica che
ricorre alla tecnica consistente nell’indicare prima il genere prossimo, ossia la classe cui appartiene
il definiendum (ad esempio: “L’uomo è un animale”) poi la caratteristica specifica che lo distingue
dalle altre appartenenti alla stessa classe (“L’uomo è un animale razionale”).

Fra le altre definizioni connotative bisogna ricordare: la definizione per sinonimia consistente nel
fornire un termine sinonimo, ossia dotato dello stesso senso del termine definito; la definizione
operativa, usata quando il termine definiendum indica il risultato di un’operazione e si può rinviare
all’operazione per definirne il risultato (si può definire “valore” ad esempio illustrando le procedure
di valutazione); la definizione in uso o contestuale, consistente nel parafrasare un enunciato
contenente il termine definiendum da definire con un altro enunciato, assunto come sinonimo, nel
quale lo stesso termine non ricorra (altrimenti la definizione sarebbe circolare).

E ‘denotativa per antonomasia la definizione esemplificativa o per esempi che sceglie entro la
denotazione del termine una o più cose idonee a illustrarne il significato. Ad esempio “cereali” piò
definirsi adducendo esempi come frumento, mais e riso. Qui l’elencazione è meramente
esemplificativa, se fosse esaustiva si tratterebbe di definizione per enumerazione: una definizione
usata già dai giuristi romani e che sfugge alle critiche di solito rivolte alle definizioni denotative.

La definizione ostensiva invece consiste nell’indicare con un gesto una cosa cui si applichi il
termine definiendum. Alcuni hanno proposto un nuovo tipo di definizione, la definizione per casi
paradigmatici per definire termini dal significato combinatoriamente vago; infatti, mancando di
connotazione (caratteri comuni a tutte le cose indicate) tali termini non sarebbero definibili per
genere e differenza. Gli esempi sono paradigmatici, ossia indubbi: si può dubitare che siano giochi
la politica o la finanza – benchè si parli metaforicamente di gioco politico e di giocare in borsa – ma
non il calcio, il poker o lo schiaffo al soldato. Poi si usa la clausola di somiglianza “e cose simili a
queste” assumendo i casi paradigmatici a pietra di paragone per tutti gli altri.

DIRITTO IL SENSO DOTTRINALE

Il termine diritto è ambiguo, presenta diversi significati, il primo dei quali è quello dottrinale. Qui
c’è una grande discussione sul fatto se il diritto è o meno una scienza. I giusrealisti hanno escluso
che la dottrina sia una scienza, ma hanno indicato i modi in cui potrebbe diventarlo. Kelsen ha
invitato la dottrina ad astenersi dall’interpretare in proprio le disposizioni giuridiche, limitandosi a
ricostruirne una cornice di interpretazioni : a questa condizione essa potrebbe diventare una
scienza. Ross, a sua volta, ha sostenuto che un’autentica scienza giuridica debba limitarsi a
registrare le interpretazioni passate dei giudici al fine di prevedere le loro interpretazioni future. I
realisti più estremi di Ross invece dicevano che delle norme non gliene importa nulla, che esse sono
solo un grazioso giocattolo con cui predire cosa avrebbero fatto i giudici.

Per accertare se le cose stanno effettivamente così distinguiamo 3 tipi di enunciati dottrinali:
conoscitivi, interpretativi e critici.

La dottrina anzitutto produce enunciati conoscitivi: ad esempio elenca i significati attribuiti o


attribuibili a disposizioni giuridiche, registra interpretazioni passate e prevede interpretazioni future,
rileva la validità, la vigenza o mera applicabilità delle norme.

La dottrina produce poi enunciati critici, ovvero enunciati apertamente normativi. Questo avviene
quando la dottrina riconosce che nessuna interpretazione di una data disposizione è soddisfacente:
sicchè bisognerebbe cambiare la stessa disposizione. In questi casi la dottrina, invece di proporre
interpretazioni agli organi dell’applicazione, propone riforme allo stesso legislatore: nel
presupposto che il diritto vigente sia talmente ingiusto, inefficiente o malfatto da non essere
correggibile per via d’interpretazione, ma solo cambiandolo. Gli enunciati interpretativi (che
vedremo subito dopo), se si accetta la teoria kelseniana della cornice adottata dagli scettici
moderati, scelgono entro una cornice di possibili significati; gli enunciati critici invece ammettono
implicitamente che dentro la cornice non si trova alcuna norma soddisfacente e invitano il
legislatore a cambiare la cornice formulando una nuova disposizione. Questi enunciati ono
pacificamente ammessi dalla metodologia giuspositivista, alla luce del Principio di Avalutatività il
quale non vieta affatto di valutare o di prescrivere, ma impone solo di farlo apertamente. In
particolare i giuristi ammettono di poter conservare l’ambito titolo di scienziati solo a patto di non
sostituirsi al legislatore: astenendosi dal provvedere essi stessi alla riforma del diritto tramite
l’interpretazione dottrinale. La dottrina dunque può rispettare il Principio di Avalutatività anche
criticando il diritto e proponendone la riforma, a patto di farlo apertamente.
Gli enunciati interpretativi sono quelli intermedi, c’è ambio dibattito se siano da classificare come
“conoscitivi” o “normativi”. Gli enunciati interpretativi non si limitano a registrare le
interpretazioni altrui, come vorrebbero Kelsen e Ross, ma ne producono di proprie. I formalisti
sostengono che gli enunciati interpretativi siano conoscitivi, i sostenitori continentali e latino-
americani della teoria mista neppure si pongono il problema ammettendo la verità delle sole
interpretazioni dottrinali relative ai casi chiari. In definitiva si può dire che gli enunciati
interpretativi dottrinali non sono mai esclusivamente conoscitivi ma sempre debolmente
normativi: l’interpretazione dottrinale non produce mai autentiche proposizioni su norme.

DIRITTO IL SENSO SOGGETTIVO

In senso soggettivo il diritto indica la situazione favorevole attribuita ad un soggetto da una


norma. Il senso soggettivo deriva dal senso oggettivo. Il diritto soggettivo oggi è sempre più usato
nel senso soggettivo di diritti al plurale lasciando il posto a 3 significati più specifici: situazioni
favorevoli semplici, o micro-diritti, situazioni favorevoli complesse, o macro-diritti; situazioni
meramente argomentative, o diritti-ragioni.

Nella prima accezione “diritti” significa situazioni favorevoli semplici, o micro-diritti. Le 4


situazioni favorevoli in questa classificazione fatta da Hohfeld consta di 4 situazioni favorevoli per
un soggetto, allo stesso tempo definite nei termini di 4 posizioni sfavorevoli ad altri soggetti:

diritto (pretesa ) d un soggetto = dovere (obbligo) di un altro soggetto

libertà di un soggetto = non pretesa di un altro soggetti

potere di un soggetto = soggezione di altro soggetto

immunità di un soggetto = non potere di altro soggetto

La tesi di Hohfeld è stata molto criticata per varie ragioni:

1) avrebbe ridotto il linguaggio del diritto al linguaggio del permesso, obbligo, divieto

2) la sua tesi sarebbe troppo semplice e riduttiva e soprattutto statica, cioè non terrebbe conto
dell’evoluzione dei diritti che dunque evolvendosi fanno riferimento a qualcosa di dinamico.

Nella seconda accezione “diritti” significa situazioni favorevoli complesse, o macro-diritti. I


micro-diritti giuridici infatti non sussistono singolarmente, ma solo aggregati in macro-diritti;
diverse combinazioni di libertà, pretese, immunità, poteri. Esempio: l’istituto della proprietà ha
varie facoltà in sé contenute: la pretesa di non essere turbati nel possesso e nell’uso del bene, la
libertà di possederlo o di usarlo, il potere di alienarlo o di donarlo, l’immunità da appropriazioni,
alienazioni o donazioni altrui

Nella terza accezione “diritti” indica situazioni favorevoli, per dire così, meramente argomentative.
Infatti avere un diritto non significa solo, né principalmente avere un micro-diritto o una
combinazione di macro diritti, significa avere una ragione, un principio, un argomento, una
GIUSTIFICAZIONE per reclamare intere ondate di doveri e di diritti.

Oltre a quella di Hohfel ci sono altre 2 teorie anglosassoni su ciò che ci sarebbe dietro al diritto:
1) teoria dell’interesse: un diritto è un interesse giuridicamente protetto. Ogni volta che c’è un
diritto c’è un interesse soggettivo.

2) teoria della volontà: la volontà alla base del diritto soggettivo. Avere un diritto su qualcosa
significa che l’individuo su quel qualcosa l’individuo è sovrano.

E’ evidente che a seconda della teoria che si sceglie le conseguenze sono molto diverse. Di solito è
prevalente la teoria dell’interesse (più pluralistica, dal momento che ai diversi tipi di interessi
corrispondono diversi tipi di diritti) mentre la teoria della volontà ha come ultimo fondamento
l’autonomia individuale.

DIRITTO IN SENSO OGGETTIVO

I sensi dottrinale e soggettivo infatti presuppongono il senso oggettivo: l’unico significato


autonomo.

Si può cercare di definire il diritto in senso oggettivo attraverso la definizione per genere prossimo e
differenza specifica. Austin per esempio ha scelto questo tipo di definizione definendo il diritto
come comando supremo del sovrano. (La sua definizione di sovrano è la seguente: se un uomo
determinato è abitualmente obbedito dalla maggior parte dei componenti della società, senza che
egli a sua volta abbia l'abitudine di obbedire ad un superiore, è sovrano in questa soicetà e la
società, incluso il sovrano, è una società politica indipendente). Così poi era stato costretto a negare
che potessero chiamarsi propriamente il diritto consuetudinario, costituzionale e internazionale, i
quali almeno nell’Ottocento non presentavano quei caratteri. Questo tipo di definizione è
chiaramente sottoinclusiva dal momento che questa norma non si applica a molte cose che vengono
comunemente chiamate diritto benché non presentino affatto i caratteri della normatività, della
coattività e dell’istituzionalizzazione.

Altri hanno pensato che il diritto potesse essere definito solo per casi paradigmatici.

CLASSIFICAZIONE DELLE NORME

Le norme sono state classificate da Wright nel lontano 1963 e classifica vari tipi di norme:

1) Il primo tipo di norme sono le prescrizioni: norme che guidano la condotta dicendo cosa bisogna
fare. Le prescrizioni sono il tipo paradigmatico di norma prodotta intenzionalmente o
legislativamente. Le prescrizioni sono un tipo paradigmatico di norma, è un caso nel quale
l’attitudine a guidare il comportamento è indubbio.

Tutte le norme sono prescrizioni? No anche se per gli autori del giuspositivismo teorico sì. In
ogni caso è innegabile che la maggior parte delle norme sono prescrizioni.

2) Un altro tipo di norme sono le norme costitutive: norme che costituiscono attività o qualità che
non esisterebbero senza quella norma (S.p.A.,…). Queste norme assomigliano alle regole del
gioco. La grammatica, per esempio, sono le regole costitutive di una lingua e per fare una mossa
corretta bisogna rispettarla.
3) Regole tecniche. Sono sempre enunciati normativi condizionali. Sono regole tecniche che
indicano come si deve fare per raggiungere un certo scopo. Un esempio di queste regole sono anche
le ricette per cucinare. Le regole tecniche non sono vere né false , ma poggiano su una
proposizione anancastica. Le norme tecniche, sono per esempio, quelle che può dire un avvocato
al suo cliente. Le norme giuridiche non sono regole tecniche.

4) Consuetudini. Le consuetudini sono comportamenti ripetuti (regolarità) seguiti dai consociati


ritenendoli obbligatori. La consuetudine nasce come effetto non intenzionale dell’abitudine:
regolarità di condotta (aspetto esterno nella terminologia di Hart) che diviene una consuetudine
quando si comincia a parlare in termini normativi: assumendo che si debba fare così e criticando
chi non lo fa (aspetto interno, sempre nella terminologia hartiana). Le norme consuetudinarie
non sono scritte da nessuna parte, precisare il loro contenuto è dunque molto difficile. Chi studia il
comportamento consuetudinario dovrebbe essere in grado di capire in cosa consistano le norme
consuetudinarie.

5) Norme morali. Von Wright formula alcuni esempi sui quali vi sono poche discussioni: tra essi il
dovere di adempiere le promesse e quello di onorare i genitori. Ci sono due grandi interpretazioni
filosofiche di esse: a) la concezione che si potrebbe chiamare teologica che considera le norme
morali come emanate da un'autorità, cioè Dio. Per questa interpretazione le norme morali sarebbero
prescrizioni. b) L'altra interpretazione potrebbe dirsi teleologica, che considera le norme morali
come una specie di regole tecniche che indicano la via per ottenere un fine.A seconda del fine al
quale le norme morali sono connesse abbiamo 2 correnti principali: l'eudemonismo per la quale il
fine è la felicità dell'individuo; l'uilitarismo per il quale il fine è il benessere della società. Altre
concezioni negano che le norme morali possano identificarsi con qualche tipo di norma principale
già considerato e le classificano come autonome o sui generis, questa posizione si chiama di solito
deontologismo.

6) Norme ideali. Queste sono norme che non si riferiscono direttamente ad un azione ma
stabiliscono uno schema o un modello ottimale del tipo di azione (o oggetto) all'interno di una
classe: così esistono norme che determinano cos'è un buon attore, un buon avvocato, un buon
coltello, un buon camino, un buon ladro. Le norme ideali, cioè menzionano le virtù caratteristiche
all'interno di una classe.

COMPONENTI E CLASSIFICAZIONI DELLE PRESCRIZIONI

Prima componente della prescrizione è il carattere, o qualificazione deontica del comportamento


regolato. Le prescrizioni possono essere classificate come:

COMANDI e DIVIETI (che insieme formano la classe delle norme imperative)

FACOLTA’ E PERMESSI (che insieme formano la classe delle norme non imperative)

Seconda componente delle prescrizioni è il contenuto ossia l’atto o l’attività (successione di atti)
regolato. Rispetto al contenuto le prescrizioni si distinguono in astratte, relative ad azioni tipo, e
concrete, relative a istanze o esempi di azioni-tipo (fattispecie concrete, casi concreti) come
l’omicidio di Abele da parte di Caino. Le decisioni giudiziali sono tipicamente prescrizioni concrete
(e particolari), le leggi tipicamente prescrizioni astratte ( e generali).
Occorre poi distinguere fra astrattezza e genericità. Una norma si dice generica quando oltre a
essere astratta se ne possono specificare molte diverse norme (non concrete ma solo) meno
astratte quali “vietato uccidere persone” o “vietato uccidere feti”.

Terza componente delle prescrizioni sono le condizioni di applicazione: le circostanze che


devono verificarsi perché la norma debba essere adempiuta. Rispetto alle condizioni di
applicazione, le prescrizioni si distinguono in categoriche come “E’ obbligatorio dire la verità”,
nelle quali le condizioni di applicazione, se vi sono, restano implicite e norme ipotetiche come “Se
si testimonia in un processo allora è obbligatorio dire la verità” nelle quali le condizioni di
applicazione divengono esplicite.

Quarta componente delle prescrizioni è l’autorità normativa: il soggetto – individuale o


collettivo – che le produce. Rispetto all’autorità normativa, le prescrizioni si distinguono in
autonome, ove l’autorità coincida con il destinatario, ed eteronome, ove non coincida; le
prescrizioni morali sarebbero tipicamente autonome (ognuno sarebbe il legislatore morale di se
stesso), le prescrizioni giuridicamente tipicamente eteronome (il legislatore sarebbe pur sempre
altro dai cittadini).

Quinta componente delle prescrizioni è il destinatario: il soggetto o i soggetti cui esse si


rivolgono. Rispetto al destinatario, le prescrizioni si distinguono in generali, rivolte a una classe
aperta di soggetti e particolari, rivolte ad una classe chiusa di soggetti. Sono tipicamente particolari
(e concrete) le decisioni dei giudici, tipicamente generali (e astratte) le leggi.

Sesta componente delle prescrizioni è la formulazione: la disposizione di cui costituiscono il


significato. Esistono anche prescrizioni implicite che non sono il significato di una disposizione, ma
vengono ricavate da disposizioni esplicite già dotate di altri significati.

Settima componente delle prescrizioni è la sanzione: una pena per la violazione (sanzione
negativa) o un premio per l’adempimento (sanzione positiva). Anche la sanzione, come la
formulazione, è considerata da Von Wright elemento accidentale e non essenziale delle
prescrizioni; il giuspositivismo teorico invece sostiene che la differenza specifica delle norme
giuridiche rispetto alle norme morali sarebbe appunto la sanzione; una prescrizione non sanzionata,
anche espressa da una disposizione giuridica, sarebbe ancora una prescrizione, come le prescrizioni
morali, del costume o del galateo, ma non sarebbe una prescrizione giuridica. La sanzione giuridca,
secondo Kelsen, è un atto coercitivo consistente nella privazione di qualche bene (per esempio la
vita, la proprietà, la libertà, l'onore,...). In base a questa definizione l'omicidio si distingue dalla
pena di morte, sebbene entrambi siano atti coercitivi consistenti nella privazione della vita, per il
fatto che solo il secondo è esecitato da un soggetto autorizzato. Secondo Kelsen una norma giuridca
è quella che prescrive una sanzione giuridica.

Kelsen distingue poi anche tra norme giuridiche primarie e secondarie. Le norme giuridiche
primarie sono quelle che prescrivono, a certe condizioni, che un soggetto sia privato dei suoi beni
per mezzo della forza. Sono queste le norme giuridche genuine: solo queste costituiscono una
componente necessaria del diritto. Le norme giuriche secondarie sono meri derivati logici dalle
norme primarie, e la loro enumerazione ha senso solo ai fini di una spiegazione più chiara del
diritto. Per esempio dalla norma primaria "se qualcuno uccide lo si deve condannare alla pena della
reclusione" si ricava la norma secondaria "non si deve uccidere". In generale: se la norma primaria è
"dato A deve essere P, la secondaria sarà "dover essere non A".
Analizziamo sulla base di quanto spiegato una norma: “Vietato fumare”

Quanto al carattere (la modalità deontica impiegata) si tratta di una norma imperativa, in particolare
di divieto. Quan00to al contenuto si tratta di norma astratta : che regola un azione-tipo (fumare).
Quanto a condizioni di applicazione, si tratta di prescrizione ipotetica: il divieto vale solo a una
condizione esplicita, trovarsi in luoghi chiusi, Quanto ad autorità, si tratta di una norma eteronoma:
prodotta da un legislatore diverso dai destinatari. Quanto agli stessi destinatari, si tratta di norma
generale: una prescrizione rivota alla classe aperta costituita da tutti i cittadini italiani. Quanto alla
formulazione, si tratta di norme espresse: il significato di una data disposizione. Quanto alla
sanzione, infine, si tratta di norma sanzionata negativamente, con una multa.

QUALI SONO LE CARATTERISTICHE DEFINITORIE DELLE NORME GIURIDICHE?

In prima approssimazione il problema delle caratteristiche distintive delle norme giuridiche è stato
affrontato dal giuspositivismo teorico solo come problema generalissimo della distinzione tra diritto
e morale: trovando una prima risposta in una teoria del diritto come regola della forza. Questa
teoria è stata seguita da Hobbes, secondo il quale al fine di evitare il conflitto di tutti contro tutti
che sarebbe sempre possibile nello stato di natura, e di conservare il bene principale – la vita – gli
uomini dovrebbero rinunciare a farsi giustizia da soli e delegare l’uso della forza al sovrano: ossia
allo Stato (moderno) che diventa così l’unico soggetto autorizzato a esercitare la forza entro un
determinato territorio.

La teoria del diritto come regola della forza è stata poi sostenuta dalla sociologia otto-novecentesca;
in particolare da Weber, lo stesso inventore del Principio di avalutatività: “lo Stato è quella
comunità umana che, nei limiti di un determinato territorio, esige per sé (con successo) il
monopolio della forza fisica legittima”.

In seconda approssimazione il problema delle caratteristiche distintive delle norme giuridiche ha


trovato risposta in un’autentica teoria delle norme giuridiche: la teoria di Kelsen dei frammenti di
norma. Così la maggioranza degli enunciati che compongono un sistema giuridico formerebbero le
premesse delle autentiche norme, nelle quali, conseguentemente, deve figurare sempre una
sanzione. Secondo Kelsen in altri termini un sistema giuridico di fatto sarebbe composto solo da
tante norme quante sono le sanzioni giuridiche previste: ognuna di tali norme sarebbe
straordinariamente complessa, dato che il loro antecedente sarebbe l'insieme di una serie enorme di
enunciati. All’ovvia obiezione che non tutte le norme giuridiche sono sanzionate giuspositivisti e
giusrealisti hanno ribattuto che norme del genere non sono norme giuridiche “complete”; bensì
frammenti di norme giuridiche complete.

(132) La prima obiezione è stata fornita da Nino che dice che non tutte le norme sono coattive.

La seconda obiezione è di Hart che ribadisce che non tutte le norme prevedono sanzioni.

La terza obiezione, di Bobbio, è che se fosse vero che tutte le norme prevedono sanzioni, significa
che tutte le norme si rivolgono ai giudici. Una norma diventa giuridica nel momento in cui
appartiene ad un ordinamento giuridico.

NORME GIURIDICHE: DEFETTIBILITA’


Secondo la teoria della forma logica, dalla premessa di una norma (se X dove x indica il caso
regolato) deve seguire la conseguenza (“allora y, dove y indica la conseguenza normativa). Se si
verifica la premessa x, la conseguenza ne segue indefettibilmente, ossia senza eccezioni diverse da
quelle previste (dalla stessa norma giuridica o da altre)? Oppure ne segue solo defettibilmente ,
ossia a patto che non si verifichino eccezioni implicite, non previste esplicitamente (né dalla stessa
norma né da alcun’altra)?

Alchourron ipotizza che le norme giuridiche obbediscano ad una logica diversa dalla logica
ordinaria. La logica ordinaria prevede il rinforzo della premessa: dato l’enunciato ipotetico “se x
allora y” si possono sempre aggiungere condizioni implicite rispetto a quelle originariamente senza
che questo muti le conclusioni. Secondo la logica ordinaria, in virtù della norma del Codice della
strada in presenza di un semaforo rosso bisogna fermarsi in ogni caso, incluso il caso che mi stia
seguendo un serial killer. Nel diritto tuttavia ci possono essere delle eccezioni implicite: ad esempio
potrebbe darsi quel che si chiamerà il caso del semaforo dimenticato: l’automobilista potrebbe
imbattersi, in una strada deserta e con perfetta visibilità, in un semaforo funzionante dimenticato
dagli operai dopo la fine dei lavori stradali. Se il principio che giustifica l’obbligo di fermarsi fosse
evitare incidenti, allora si potrebbe sostenere che l’obbligo viene meno: nel nostro caso infatti
passare col rosso non produce pericoli di incidenti immediati. Si può comunque dire che le norme
giuridiche seguano anch’esse la logica ordinaria, rinforzo della premessa compreso, ma che i
giuristi invochino talvolta eccezioni implicite: usando non la logica, ma l’interpretazione, in più
sensi di interpretazione.

Dworkin ha criticato il giuspositivismo prima adducendo l’argomento dei principi (il diritto sarebbe
formato anche da principi, non solo da regole), poi sostenendo che il diritto sarebbe interpretazione:
nel caso del semaforo si potrebbe fare eccezione invocando la ratio sottostante: se il divieto si
giustifica per il pericolo d’incidenti e pericolo non c’è allora viene meno anche l’obbligo di fermarsi
al semaforo rosso.

L’applicazione dovrebbe essere deduttiva, dovrebbe essere la deduzione della soluzione del caso
concreto sussumendolo (sussulsione) nella norma astratta o deducendone una norma concreta:
norma che peraltro non sarebbe neppure una norma a se stante ma una mera deduzione. Come
hanno intuito i sostenitori della defettibilità interpretativa, d’altronde, spesso i giuristi interpretano
restrittivamente la disposizione invocando eccezioni implicite (argomento della dissociazione) e
ricavandone una norma meno astratta di quella ricavabile dalla formulazione letterale: “Fermarsi al
semaforo rosso diventa così “Fermarsi (solo) al semaforo rosso che permette di evitare incidenti”.

Se sono defettibili le regole, i principi lo sono a maggior ragione. E’ dubbio che i principi siano
apllicabili al caso concreto: intanto perché si tratta di norme inapplicabili direttamente, ma solo
indirettamente tramite regole; poi perché la stessa applicazione indiretta di un principio può essere
frustrata dall’applicazione indiretta di un altro principio che prevale su di esso nel bilanciamento.
Le regole astratte vengono disapplicate quando la loro applicazione ad un caso concreto
produrrebbe risultati avvertiti come assurdi o ingiusti. Le regole sono sempre sotto- e sovrainclusive
rispetto ai casi di applicazione.

Esempio dell’eredità.. testamento… ci mostra che se la regola veniva applicata indefettibilmente


bisognava dare l’eredita al nipote, seppur questa soluzione era immorale.
La norma invece è stata applicata defettibilmente portando un’eccezione implicita applicando il
principio: “Nessuno può trarre beneficio dal proprio illecito”. Ci sono dei casi per cui vige una
presunzione di indefettibilità, per altri no (esempio: incriminatrici speciali che fissano i reati nel
diritto penale)

NORME CHE CONFERISCONO POTERI

Hart fa un importante critica alla concezione di Kelsen sulla struttura delle norme giuridiche. In
particolare la teoria austiniana-kelseniana non darebbe conto di un'importante gruppo di norme, che
hanno la funzione di conferire poteri. Hart poi critica l'idea di Kelsen che le norme giuridiche si
dirigano ai funzionari: idea che disconosce la funzione del diritto di motivare la condotta dei
cittadini, e che presuppone la considerazione dell'ordinamento giuridco solo dal punto di vista
dell'uomo malvagio. Hart propone dunque di considerare l'ordinamento giuridico come un insieme
di diversi tipi di norme o regole, classificate in primarie e secondarie, nel modo seguente:

Regole primarie. Sono le regole che prescrivono agli individui di realizzare certi atti, lo vogliano o
no; impongono in un certo senso obblighi dato che hanno forza coercitiva, non si dirigono solo ai
funzionari, ma anche, e forse principalmente ai cittadini, indicando loro comportamenti. Esempio
tipico: norme del Codice Penale.

Le norme che conferiscono poteri potrebbero considerarsi consuetudini, come sostiene Hart che
concepisce il diritto come un’unione di norme che impongono obblighi e che conferiscono poteri.
Queste norme sono di tre tipi: 1) norme di giudizio che istituiscono giudici per applicare e
sanzionare le norme che impongono obblighi. 2) norme di mutamento le quali istituiscono organi
centralizzati come monarca o Parlamento autorizzandoli a mutare le norme che impongono
obblighi. Trasformano l'ordinamento giuridico in dimamico, indicando i procedimenti attraverso i
quali possono essere introdotte regole primaire per mutare il sistema. Un esempio di queste regole è
l'articolo 70 della Costituzione Italiana che dà competenza al Parlamento per esercitare la funzione
legislativa. 3) norma di riconoscimento la quale fissa i criteri per distinguere le norme giuridiche da
tutte le altre norme (le norme giuridiche sono quelle che appartengono a un sistema giruidico).
Esempio: "Sono diritto in questo paese tutte le regole dettate dal legislatore A o da chi è autorizzato
da lui".

SISTEMI GIURIDICI

Perché esista un sistema giuridico ci deve essere tra gli elementi un certo tipo di relazione.

Il diritto di per sé non sarebbe un sistema, è ricostruito come tale dagli studiosi. I primi a fare
sistemi giuridici sono stati i giusrazionalisti che credevano che da un insieme breve di norme
attraverso SPECIFICAZIONE, DETERMINAZIONE e DEDUZIONE si poteva arrivare ad un
sistema. La migliore teoria della sistemazione è stata elaborata da Alchourron e Bulygin in “Sistemi
normativi” (1971) riduce i sistemi ad un’attività meramente deduttiva: scelte le norme da sistemare,
se ne deducono tutte le conseguenze logiche e al massimo si compongono le antinomie e si
risolvono le lacune.

Ipotizziamo di dover ricostruire a mo’ di sistema le regole sull’adozione e sulla possibilità di voto in
questo caso
1) scegliere le norme riguardanti e vedere come si possa ricostruire le regole che devono essere
condizionali in senso stretto (modus ponens)

2) bisogna rendere esplicite e vedere le conseguenze che si possono ottenere. Nel fare ciò si vedrà
se ci sono lacune, contraddizioni, ridondanze. Quali sono le proprietà rilevanti per votare. Gli autori
sopraccitati di “Sistemi normativi” sostengono la tesi della “rilevanza del sistema”, ovvero
distinguere ciò che è rilevante, da ciò che non lo è. Per esempio nel caso in oggetto non è rilevante
se il cittadino è genovese, ma solo se la maggiore età e la cittadinanza. I casi possibili sono sempre
frutto di (casi rilevanti)^2 come si può vedere:

1° caso possibile: cittadino e maggiorenne

2° caso possibile: cittadino ma non maggiorenne

3° caso possibile: non sia cittadino ma sia maggiorenne

4° caso possibile: non sia cittadino non sia maggiorenne

3) la riformulazione del sistema prendendo in considerazione il problema da risolvere. Se ci sono


lacune, contraddizioni bisogna eliminare le lacune, presentare il sistema in modo alternativo, più
economico, il giurista non è competente a cambiare a livello sostanziale. Si crea così un nuovo
sistema diverso nella sua presentazione, ma logicamente equivalente.

L’ordinamento giuridico può essere visto come un sistema da due punti di vista diversi:

1) statico

2) dinamico

Nel primo caso a partire da certe norme di base posso ottenere quelle che si possono dedurre. A
partire da una norma molto generica, posso ottenerne un’altra più concreta, meno vaga attraverso la
determinazione/concretizzazione. Non c’è nessun atto, cambiamento, è una relazione tra contenuti:
il contenuto di una norma mi consente di ottenere un’altra norma. Un esempio è il processo di
specificazione: se l’articolo 21 C. dice che si deve rispettare la libertà degli individui  gli studenti
universitari hanno il diritto di pubblicare i propri appunti. Possiamo arrivare a tutte le norme
staticamente a partire dalla prima attraverso un’operazione di tipo logico (premessa maggiore-
minore- conclusione via modus ponens). La raffigurazione statica conveniva soprattutto a un
diritto non istituzionalizzato e di produzione dottrinale. Il modello dinamico invece diveniva
necessario per affigurare un diritto istituzionalizzato; le cui norme sono prodotte solo dal legislatore
oppure da costituente, legislatore e giudici, come nello Stato costituzionale. L’ordinamento
dinamico è strutturato in 3 principali livelli: costituzione, che delega al legislatore la produzione di
leggi; legislazione, che delega ai giudici la produzione delle sentenze; sentenze, che non essendo
affatto dedotte dalle leggi, bensì specificate entro la cornice legislativa, concorrono anch’esse alla
produzione del diritto. Mentre in un sistema statico ogni regola sarebbe deducibile dai principi, e
chiunque potrebbe dedursela da sé, in un ordinamento dinamico le norme sono prodotte solo dagli
organi delegati a produrle. La norma superiore, peraltro, costituisce solo una cornice entro cui
l’autorità delegata sceglie la norma inferiore da produrre. Al vertice dell’ordinamento vi è una
norma fondamentale che non è posta, ma presupposta perché se non la presupponessimo cadrebbe
tutta la catena della validità e quando questa riesce ad essere accettata largamente allora è nato un
nuovo ordinamento giuridico. Secondo questa visone di ordinamento dinamico la 1° Costituzione è
un atto puramente creativo del diritto. La 1° Costituzione è puramente creativa, l’altra è puramente
applicata. Il Parlamento applica la Costituzione, il giudice applica la norma ordinaria.

I sistemi giuridici sono sistemi misti perché sono certamente dinamici, ma al contempo statici. Una
domanda che ci si può fare è la deducibilità è una condizione necessaria perché 1 norma si applichi
al sistema? Ci sono all’interno dell’ordinamento norme che non si deducono dalle precedenti sono
le NORME IRREGOLARI, cioè norme meramente vigenti, norme prodotte per mera delegazione
dal legislatore violando la costituzione o dal giudice violando la legge. Anche tali norme
appartengono al sistema, a meno che non vengano annullate dalla Corte Costituzionale. Per alcuni
la deducibilità è condizione SUFFICIENTE: basta che si possa dedurre perché appartenga, per altri
no essendo che la deducibilità non è un atto umano, come invece secondo la visione positivista ci
dovrebbe essere.

La stessa domanda la si può fare per il criterio di legalità. La delegazione fa riferimento non solo
all’organo, ma anche alla procedura. Se noi (studenti) decidiamo di abrogare qui una norma,
siccome noi non abbiamo competenze e titoli questa norma non esiste. La norma deve essere frutto
di un organo competente per essere valida. Se l’ha fatta l’organo competente, ma la procedura è
irregolare, si va incontro ad ANNULLABILITA’. Se invece fosse condizione sufficiente basta
l’organo competente indipendentemente dal contenuto. Se l’organo competente, ma in violazione
di norme gerarchicamente superiore non è valida. Le relazioni che esistono:

Il primo criterio di collegamento e di appartenenza al sistema delle norme giuridiche è la deduzione:


una norma appartiene al sistema quando è deducibile da un’altra norma giuridica. La debolezza
della deducibilità è che qualsiasi ragionamento, anche il meno rigoroso, può essere formulato in
forma logico-deduttiva: basti pensare alle argomentazioni giusnaturalistiche, che possono sempre
riformularsi come entinemi, ossia come deduzioni conformi alla Legge di Hume.

Il secondo criterio di collegamento e di appartenenza al sistema delle norme giuridiche è la


delegazione: una norma appartiene al sistema quando è prodotta da un organo delegato a produrla
da un’altra norma giuridica. Negli ordinamenti giuridici che una norma sia deducibile o no dalla
norma superiore rileva solo per l’annullamento della norma inferiore irregolare dalla Corte
Costituzionale. Kelsen, per esempio afferma: "se si chiede perchè questa norma individuale sia
valida come parte di un ordinamento giuridico si deve avere la risposta: essa è stat posta
conformemente al codice penale. E se si chiede quale sia il fondamento della validità del codice
penale si giunge a toccare la costituzione dello stato, secondo le cui disposizioni è stato compilato il
codice penale da parte di un organo competente a mezzo di un procedimento prescritto dalla
costituzione. Se ci si chiede però quale sia il fondamento della validità della costituzione, su cui
poggiano tutte le classi e gli atti giuridici compiuti sulla base della legge, si giunge forse a una
costituzione più antica e così infine a quella storicamente originaria che fu promulgata da un
singolo usurpatore o da un'assemblea formatisi in un modo qualsiasi".

Questa frase di Kelsen si chiama "catena di validità". Kelsen sostiene che una norma è valida
quando è conforme a ciò che è stabilito da un'altra norma valida, per ciò che concerne: a) l'organo
che deve formularla b) il procedimento mediante il quale essa deve essere formulata c) il contenuto
che deve avere.
Il terzo criterio di collegamento e di appartenenza al sistema delle norme giuridiche è
l’argomentazione: una norma appartiene al sistema quando la sua applicabilità è comunque
giustificata: per deduzione, per delegazione e anche per argomentazione (analogia, argomento a
contrario, specificazione, astrazione,…). Diritto così finisce per indicare anche l’interpretazione dei
giuristi o comunque oltre alle fonti del diritto, tutte le operazioni interpretative e argomentative
compiute a partire dalle stesse fonti. Da un insieme di norme esplicite, per argomentazione, si può
ricavare qualsiasi norma implicita: a rigore, si potrebbe anche distinguere fra diritto e morale – che
al massimo sarebbero analiticamente separabili, non empiricamente separati – ma non vi sarebbe
più alcuna reale differenza: il diritto diverrebbe una sorta di morale positiva prodotta dai giudici.

Altra domanda ce ci può porre è: quali sono le condizioni che permettono di distinguere un sistema
giuridico da un altro?

1) il criterio territoriale. Il criterio di individuazione di un sistema giuridico che parrebbe spontaneo


usare fa riferimento all'ambito di applicazione territoriale del sistema in questione. Il diritto italiano
si distingue dal diritto argentino perché mentre il primo è applicabile nel territorio italiano, il
secondo è applicabile nel territorio argentino. Due norme appartengono allo stesso sistema giuridco
quando sono applicabili in uno stesso territorio, e due norme appartengono a diversi sistemi
giuridici quando sono applicabili in territori distinti. Però tale criterio appare viziato di circolarità:
dato che il territorio si individua tramite il sistema giuridico che si applica in esso. Ossia, è
necessario prima distinguere un sistema giuridico da un altro per poter poi distinguere un territorio
statale da un altro.

2) Il criterio della produzione da parte di un legislatore determinato: un sistema giuridico sarebbe


formato da tutte le norme prodotte da un determinato legislatore. Questo criterio implica che un
mutamento del legislatore originario determina un mutamento del sistema giuridico: se si sostituisce
il sovrano, viene in essere un diritto differente, benchè questo sia composto dalle stesse norme di
quello precedente. Quest'ultima conclusione è ammissibile quando si verifica un mutamento
violento del sovrano. Nel caso di un colpo di Stato si potrebbe anche ammettere che il sistema
giuridico sia mutato: ma quando si verifica una successione non violenta di un sovrano ad un altro
appare ingiustificato parlare di mutamento del sistema giuridico.

3) il criterio della norma fondamentale. Tra le soluzioni incentrate sull'identificazione di una norma
suprema, la più celebre è quella di Kelsen. Kelsen, come abbiamo visto, fa dipendere la validità di
una norma dalla sua derivazione da un'altra norma valida. Così perviene a una prima norma positiva
del sistema, per esempio la Costituzione, e si domanda se anche'essa sia valida, ossia se appartenga
al sistema. Dare una risposta affermativa a questo quesito è condizione necessaria per affermare la
validità di tutte le norme che derivano da essa. La norma fondamentale di Kelsen non è una norma
formulata da qualche legislatore umano o divino, ma è un presupposto epistemiologico, una specie
di ipotesi di lavoro che i giuristi utilizzano tacitamente nelle loro elaborazioni. In base alla norma
fondamentale che presupponiamo al vertice di un sistema giuridico, possiamo distinguerlo dagli
altri. I diversi sistemi si differenziano, secondo Kelsen, per avere origine da differenti norme
fondamentali. Per esempio la Costituzione Italiana sarebbe valida perché la sua produzione sarebbe
autorizzata da una norma presupposta dai giuristi del seguente tenore: "L'Assemblea Costituente,
riunitia il 22 dicembre 1947, era autorizzata ad approvare la Costituzione". Che cosa dice Kelsen
della validità della norma fondamentale? Le sue spiegazioni non sono molto chiare , benchè
suggerisca che la validità della norma presupposta dovrebbe a sua volta essere presupposta, e che
questa validtà non può essere sottoposta a giudizio, ma dev'essere accettata dogmaticamente.
Alcune criticità di questa teoria sono state formulate da Raz. Raz infatti sostiene che il contenuto
della norma fondamentale kelseniana dipende da quali sono le norme positive ultime del sistema. Se
si decide che la norma suprema dell'ordinamento giurdico italiano è la Costituzione del 1948,
formuleremo la norma fondamentale con un contenuto che autorizza a dettare questa Costituzione.
Questo vuol dire che prima di formulare la norma fondamentale abbiamo già individuato un sistema
giuridico e ne abbiamo ordinato gerarchicamente le norme, per cui la norma fondamentale non
svolge alcun ruolo nell'individuazione di un determinato diritto e nella determinazione della sua
struttura. Se non si fosse già individuato l'ordinamento giuridico italiano, non vi sarebbe alcuna
ragione per non formulare, ad esempio, una norma fondamentale che conferisca congiuntamente
validità alle norme della Costituzione italiana e a quelle della Costituzione francese

4) il criterio della regola di riconoscimento. Hart propone di ovviare al problema ricorrendo al


criterio della regola di riconoscimento che, come abbiamo visto, egli considera peculiare di tutti i
sistemi giuridici. In primo luogo Hart elude la difficoltà in cui incorre Kelsen quando questi
sostiene che la validità della norma fondamentale deve presupporsi, sostenendo che della regola di
riconoscimento non ha senso predicare la validità o l'invalidità, dato che essa serve precisamente
per determinare quando le altre norme sono valide. Interrogarsi sulla validità della regola di
riconoscimento, dice Hart, equivale a chiedersi se il metro-campione depositato a Parigi - che serve
a fissare l'esatta lunghezza delle misure del sistema metrico decimale - sia, esso stesso, dell'esatta
lunghezza. In secondo luogo, la regola del riconoscimento di Hart non è, a differenza della norma
fondamentale di Kelsen, una mera creazione intellettuale, un'ipotesi del pensiero giuridico, ma è
una norma positiva, una pratica sociale. Tuttavia anche Hart fallisce nell'intento di individuare
criteri di identificazione e di appartenenza funzionanti e anche il suo fallimento è determinato dalle
difficoltà connesse all'individuazione della regola di riconoscimento. Come ha messo in luce Raz,
Hart non riesce a giustificare l'asserzione secondo cui in ogni ordinamento giuridico c'è una sola
regola di riconoscimento. Se Hart ammettesse però che un sistema giuridico può avere più di una
regola di riconoscimento, allora l'individuazione di un sistema non potrebbe basarsi sulla singolarità
della regola di riconoscimento. Nel migliore dei casi si dovrebbe cercare qualche elemento comune
che colleghi tra loro e distingua dalle altre le regole di riconoscimento di uno stesso sistema; ma
allora sarebbe questo elemento comune a servire, in ultima istanza, da criterio per l'individuazione
di un sistema giuridico.

5) il criterio di riconoscimento da parte degli organi primari. Il fallimento del tentativo di Hart di
trovare criteri di invidividuazione e di appartenenza che funzionino ci offre, tuttavia, un importante
insegnamento: non dobbiamo cercare l'elemento unificatore di un ordine giuridico in una qualche
norma "sovrana" - come la regola di riconoscimento - ma piuttosto nel riconoscimento delle norme
del sistema compiuto da certi organi dell'applicazione. Raz è lo studioso che più ha insistito sul fatto
che i criteri di identificazione e di appartenenza non devono basarsi sull'identità di certi organi
creatori di norme (come pensava Austin), nè sull'individuazione di certe norme o regole
fondamentali (come sostengono Kelsen e Hart), ma sugli organi che applicano queste norme a casi
particolari (tesi che è stata proposta anche da pensatori come Alf Ross).

Nemmeno questo criterio risolve il problema, tuttavia possiamo concludere in via provvisoria
almeno che 2 norme non derivate appartengono allo stesso sistema giuridico quando sono
riconosciute (sia direttamente oppure attraverso pratiche generali di riconoscimento) da organi i
quali siano in condizione di disporre misure coattive ricorrendo alla stessa organizzazione che
esercita il monopolio statale della forza. Tale concezione comporta che il sistema muti non soltanto
quando si produca una modificazione sostanziale dell'apparato coercitivo, ma anche ove cambino le
norme primitive che gli organi primari dispongono.

Cosa succede quando finisce un ordinamento e ne inizia un altro?

1) C’è una rivoluzione. Esempio: una colonia si rende indipendente. E’ questo un caso di rottura
della legalità.

2) C’è una secessione. Non è necessaria una rottura della legalità perché lo Stato madre può
autorizzare, dare permesso. Non è necessaria la rottura della legalità.

La cosa certa è che non è necessaria la rivoluzione, la violenza, l’illegalità è sufficiente che cambia
la norma fondamentale, la regola di riconoscimento: quando cambiano queste norme si dà vita ad un
nuovo ordinamento giuridico. A questi effetti, come afferma Ross, non c'è differenza ad esempio tra
la convocazione di un assemblea costituente per riformare la costituzione e la decisione del
presidente della Repubblica di modificarla con un atto tirannico: il risultato sarà in ogni caso un
mutamento dell'ordnamento giuridico.

Una nozione centrale è quella di validità. Cosa significa che una norma è valida all’interno del
sistema? Gli studiosi di Kelsen hanno detto che ci sono 3 sensi di validità:

1) la validità come esistenza. La validità è il modo in cui esistono le norme giuridiche.

2) una norma è valida quando è stata regolarmente creata dall’organo competente, attraverso la
procedura.

3) se una norma è valida significa che è obbligatoria. Per tale ragione Alf Ross definisce Kelsen
quasi positivista. Dire che una norma è valida è dire che è obbliatoria e che si deve obbedire.

Secondo questa interpretazione di Kelsen dire che una norma è valida equivale a dire che essa esiste
e ha forza obbligatoria, ed è una condizione necessaria di tale validità, esistenza, o forza
obbligatoria, che la norma appartenga ad un sistema vigente.

Per validità di una norma s’intende in primo luogo la sua appartenenza al sistema sulla base del
criterio della deduzione e del criterio della delegazione. Una cosa è la validità e l’applicabilità

VALIDITA’ ED EFFICACIA. Una norma può essere efficace rispetto ad un destinatario specifico in
un momento specifico.

VALIDITA’ E OBBLIGATORIETA’ Che relazione c’è tra validità e obbligatorietà? Perché si deve
pagare la multa al vigile e la stessa pretesa del mafioso non deve essere obbedita? L’obbligatorietà
dipende dalla norma fondamentale. L’obbligatorietà dipende dalla morale. O si cade nel
dogmatismo o nella circolarittà. La tesi che si legge è la tesi per cui le ultime norme non sono
valide.

Per vigenza di una norma s’intende la sua conformità al solo criterio della delegazione: dunque ciò
che i giuristi chiamano verità meramente formal e che Kelsen predica delle norme irregolari. Una
norma (regola) è solo vigente quando è prodotta dall’autorità normativa competente e rispettando le
procedure ma il suo contenuto viola le norme superiori. Anche se illegali costituzionalmente (Corte
Costituzionale).

MERA APPLICABILITA' Per mera applicabilità si intende l'utlizzabilità da parte dei giudici o
pubblici funzionari di norme meramente implicite: appartenenti al sistema non perché valide o
vigenti, ma solo perché le si può ricavare argomentando (per analogia, a contrario, per
specificazione, argomentazione) a partire da una norma esplicita. Per analogia: ad esempio, una
norma implicita ricavata ex art.12 c.2 Prel. da una norma esplicita , al fine di colmare una lacuna. A
contrario: ad esempio la norma implicita "non sono elettori i non cittadini" ricavata dalla norma
esplicita "sono elettori tutti i cittadini" . Per specificazione: ad esempio la norma implicita "vietato
l'aborto" ricavata dal principio "la vita è sacra". Per astrazione: ad esempio il principio della laicità
dello stato ricavato per astrazione dagli articoli 7 e 8 della Costituzione. Tutti questi sono casi di
norme meramente implicite, nè valide nè vigenti nel sistema giuridico italiano, ma solo applicabili.

Si tratta di mera applicabilità perché ovviamente anche le norme valide e vigenti sono applicabili: la
mera applicabilità è una situazione ulteriore, che si dà solo per norme non valide e non vigenti.
Occorre infine precisare che questa ridefinizione di applicabilità non corrisponde ai due principali
significati attribuiti ad "applicabilità" dai teorici del diritto: applicabilità interna e applicabilità
esterna. L'applicabilità interna è la semplice idoneità di una norma a risolvere un caso concreto: il
fatto che quel caso rientri - possa venire sussunto - nella premessa della norma astratta dalla quale
può dedursi il caso concreto. Ma una norma può essere internamente applicabile al caso concreto,
ed essere inapplicabile nel nostro senso; si pensi a una norma ricavata per analogia da una norma
penale: che risolverebbe un caso concreto ma violerebbe il divieto di analogia. L'applicablità
esterna invece è l'obbligo fatto dagli organi dell'applicazione da una norma appartenente al sistema:
il caso più comune è il cosiddetto diritto internazionale privato, che regola l'applicabilità di norme
straniere nel diritto interno. Neppure l'applicabilità esterna, proprio come l'applicabilità interna,
coincide con la mera applicabilità di norme implicite; le due coincidono solo in quanto in entrambi i
casi sono comunque applicabili dai giudici e pubblici funzionari norme non appartenenti al nostro
sistema giuridico.

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