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FONDAZIONE

ISMU
INIZIATIVE E STUDI
SULLA MULTIETNICITÀ Osservatorio Regionale
IN COLLABORAZIONE CON per l’integrazione e la multietnicità

Migrazioni, politiche
urbane e abitative:
dalla dimensione
europea alla
dimensione locale
Rapporto 2010
a cura di
Alfredo Agustoni
e Alfredo Alietti
Regione Lombardia – Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e
Solidarietà Sociale
Via L. Galvani 27 – 20124 Milano, Tel. +39 02 6765.1
www.famiglia.regione.lombardia.it – www.orimregionelombardia.it

Fondazione Ismu
Via Copernico 1 – 20125 Milano, Tel. +39 02 678779.1
www.ismu.org

Coordinamento editoriale: Elena Bosetti


Editing: Fabio Compostella

© Copyright Fondazione Ismu, Milano, 2011

ISBN 9788864470801
9788864470818

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Stampato a Milano nel mese di febbraio 2011


Presso Graphidea srl - Milano
OSSERVATORIO REGIONALE
PER L’INTEGRAZIONE E LA MULTIETNICITÀ

L’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità (Orim) è nato nel 20001, a segui-
to di un preciso mandato del Consiglio Regionale2, frutto della consapevolezza che l’immi-
grazione è un fenomeno strutturale che interessa in modo significativo l’Italia per la sua collo-
cazione geografica e la Lombardia per la sua rilevanza economica e produttiva. L’attività
dell’Osservatorio Regionale sull’immigrazione dà altresì pienamente attuazione allo Statuto
della Regione Lombardia3 e alla sua legge quadro in materia di interventi sociali4, che assegna-
no alla Giunta il compito di promuovere, in collaborazione con i soggetti del territorio, organi-
smi di studio e di ricerca per la raccolta e l’elaborazione delle informazioni utili all’esercizio
delle attività di governo e di amministrazione. Garantire continuità alle attività dell’Osservato-
rio Regionale sull’immigrazione significa, altresì, adempiere alla normativa nazionale in mate-
ria, che chiede alle Regioni di osservare e monitorare il processo migratorio e le manifestazioni
di razzismo e di xenofobia presenti sul proprio territorio.
L’Orim risponde all’esigenza di fornire informazioni corrette e precise sul fenomeno migra-
torio per prevenire e contrastare forme di discriminazione e assicurare un’attività di consulenza
nei confronti di coloro che sono chiamati a operare in ambito migratorio. L’Osservatorio è uno
strumento di acquisizione di dati puntuali sull’immigrazione in Lombardia, nonché un mezzo di
programmazione territoriale delle politiche e di promozione di una cultura dell’integrazione.
Nel corso di questi dieci anni di attività è stata raccolta un’importante quantità di dati che costi-
tuisce l’elemento portante dell’Osservatorio, fondamentale per lo sviluppo e l’affinamento del
sito (www.orimregionelombardia.it) e del servizio di Banca dati on line nelle diverse Sezioni
(popolazione, scuola, lavoro, salute, tratta e vittime di sfruttamento, accoglienza, associazioni-
smo e progetti territoriali).
In questi anni l’Osservatorio ha consolidato un “sistema a rete” tramite gli Osservatori Pro-
vinciali sull’Immigrazione (Opi), i quali garantiscono un flusso sistematico di informazioni a
livello territoriale. Da ciò l’indiscutibile ruolo dell’Orim di servizio alle istituzioni e agli opera-
tori, accreditato non solo come strumento di indagine e di conoscenza del fenomeno migratorio,
ma anche come laboratorio e crocevia di iniziative sperimentali che rispondono a bisogni speci-
fici, nonché, come dispositivo di monitoraggio e valutazione dell’efficacia degli interventi.
Il sistema d’azione dell’Osservatorio di Regione Lombardia trova riconoscimento anche a
livello nazionale e internazionale.

Comitato Direttore
In base alle proposte avanzate dal Comitato Direttore Integrato e dal Comitato Scientifico stabi-
lisce le linee programmatiche del piano annuale, ripartisce il budget, verifica l’attività svolta e
la divulgazione dei risultati. È costituito da:
Regione Lombardia – Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale
Roberto Albonetti (direttore generale)

1
DGR 5 dicembre 2000 n. 2526 Istituzione dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità.
2
DCR n. VI/1279 del 7 luglio 1999, con la quale il Consiglio Regionale della Lombardia, in relazione al
Programma pluriennale di interventi concernenti l’immigrazione per il biennio 1999/2000, ha impegnato la Giunta
ad istituire un Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità (BURL 2 agosto 1999, n. 31).
3
Art. 47, legge statutaria n. 1 del 30 agosto 2008.
4
Art. 11, co. 1 lett. s), LR. n. 3 del 1 marzo 2008.

3
Regione Lombardia – Unità Organizzativa Servizi e Interventi Sociali e Sociosanitari
Rosella Petrali (dirigente)
Fondazione Ismu
Vincenzo Cesareo (segretario generale)

Comitato Direttore Integrato


Propone le direttive generali per il piano di lavoro annuale. È costituito da:
Regione Lombardia – Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale
Roberto Albonetti (direttore generale)
Rosella Petrali (dirigente Unità Organizzativa Servizi e Interventi Sociali e Sociosanitari)
Enrico Boyer (dirigente Struttura Interventi per l’Inclusione Sociale)
Clara Demarchi (responsabile Unità Operativa Immigrati, Carcere e Povertà)
Fondazione Ismu
Vincenzo Cesareo (segretario generale)
Gian Carlo Blangiardo (responsabile Settore monitoraggio)
Valeria Alliata di Villafranca (responsabile Sezione consulenza enti Ce.Doc.)
Osservatori Provinciali sull’Immigrazione delle dodici Province lombarde
Altre Amministrazioni e Enti locali

Comitato Scientifico
Propone al Comitato Direttore le tematiche da affrontare, concorre alla realizzazione dei pro-
getti di ricerca, esprime pareri sulle tematiche migratorie su richiesta della Regione e sulla qua-
lità scientifica dei progetti dell’Orim. È costituito da:
Regione Lombardia – Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale
Clara Demarchi, Enrico Boyer
Fondazione Ismu
Valeria Alliata di Villafranca, Elena Besozzi, Gian Carlo Blangiardo, Vincenzo Cesareo,
Francesca Locatelli, Veronica Riniolo
Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
Patrizia Capoferri, Giuseppe Colosio
Università degli Studi di Milano Bicocca – Dipartimento di statistica
Laura Terzera
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – Dipartimento di sociologia
Michele Colasanto
Università degli Studi di Milano – Dipartimento di studi sociali e politici
Alberto Martinelli
Università degli Studi di Milano-Bicocca – Dipartimento giuridico delle istituzioni nazionali ed
europee
Paolo Bonetti
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano – Istituto giuridico
Ennio Codini

4
Politecnico di Milano – Dipartimento di architettura e pianificazione
Antonio Tosi
Caritas ambrosiana
Maurizio Ambrosini
Centro di ricerca Synergia
Luigi Mauri, Francesco Grandi
Rappresentante Tavolo Interprovinciale degli Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della
Lombardia
Giuseppina Camilli

Tavolo Interprovinciale
È costituito dai rappresentanti degli Osservatori Provinciali sull’Immigrazione, della Regione
Lombardia – DG Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale – e coordinato dalla
Fondazione Ismu. Un rappresentante degli OPI partecipa al Comitato Scientifico.

Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della Lombardia


Michela Persico, Provincia di Bergamo
Giovanna Lazzaroni, Provincia di Brescia
Anna Tacchini, Provincia di Como
Cristan Pavanello, Rosita Viola, Provincia di Cremona
Cristina Pagano, Provincia di Lecco
Giuseppina Camilli, Marta Annunziata, Provincia di Lodi
Gabriele Gabrieli, Iacopo Caropreso, Provincia di Mantova
Luciano Schiavone, Marta Lovison, Provincia di Milano
Alberto Zoia, Massimo Carvelli, Provincia di Monza-Brianza
Daniela Rolandi, Provincia di Pavia
Lucia Angelini, Provincia di Sondrio
Nadia Piantanida, Provincia di Varese
Regione Lombardia – Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà Sociale
Clara Demarchi
Fondazione Ismu
Valeria Alliata di Villafranca

Coordinamento generale
Vincenzo Cesareo (coordinatore)
Gian Carlo Blangiardo (vice coordinatore)

Coordinamento operativo
Valeria Alliata di Villafranca

Attività editoriale
Elena Bosetti (responsabile)
Fabio Compostella
Marta Lovison

5
Segreteria tecnico-organizzativa
Fabio Compostella
Ivana Di Lascio
Francesca Locatelli
Veronica Riniolo (assistente del coordinatore generale)

Segreteria amministrativa
Gianna Martinoli
Barbara Visentin

Gruppi di ricerca:

L’immigrazione straniera in Lombardia


Gian Carlo Blangiardo (responsabile scientifico), professore ordinario di Demografia, Dipar-
timento di statistica, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Laura Terzera (corresponsabile scientifico), professoressa associata di Demografia, Diparti-
mento di statistica, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Maria Paola Caria, collaboratrice presso la cattedra di Demografia, Università degli Studi di
Milano-Bicocca
Alessio Menonna, collaboratore presso la cattedra di Demografia, Università degli Studi di Mi-
lano-Bicocca
Livia Elisa Ortensi, assegnista di ricerca presso la cattedra di Demografia, Università degli Stu-
di di Milano-Bicocca
Simona Maria Mirabelli, borsista presso la cattedra di Demografia, Università degli Studi di
Milano-Bicocca
Giuseppe Gabrielli, borsista post dottorato, Dipartimento di Scienze Statistiche C.Cecchi, Uni-
versità di Bari
Laura Zanfrini, professoressa ordinaria di Sociologia dei processi economici, Dipartimento di
sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore

Altre collaborazioni
La rilevazione è stata realizzata da oltre cento rilevatori coordinati a livello provinciale da:
Cooperativa Mediazione Integrazione, Cooperativa Chance, Agenzia per la Pace, Carina Ben-
drame, Giorgia Papavero, Federica Ciciriello, Claudia Cominelli, Finis Terrae Società coopera-
tiva sociale, Said Boutaga, Cristina Taffelli, Associazione Les Cultures Onlus.
Il coordinamento regionale è stato curato da Giorgia Papavero e Laura Terzera, presso la Fon-
dazione Ismu.

Lavoro
Michele Colasanto (responsabile scientifico), professore ordinario di Sociologia, Dipartimento
di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Francesco Marcaletti, ricercatore, Dipartimento di sociologia, Università Cattolica del Sacro
Cuore
Egidio Riva, assegnista di ricerca, Dipartimento di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore

6
Salute
Alberto Martinelli (responsabile scientifico), professore ordinario di Scienza politica, Diparti-
mento di studi sociali e politici, Università degli Studi di Milano
Daniela Carrillo, antropologa, collaboratrice presso la Fondazione Ismu
Albino Gusmeroli, ricercatore sociale, collaboratore presso la Fondazione Ismu
Nicola Pasini, professore associato di Scienza politica, Dipartimento di studi sociali e politici,
Università degli Studi di Milano
Armando Pullini, medico pediatra, collaboratore presso la Fondazione Ismu

Scuola
Elena Besozzi (responsabile scientifico), già professoressa ordinaria di Sociologia dell’educa-
zione, Dipartimento di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Alessandra Barzaghi, collaboratrice presso Fondazione Ismu
Chiara Cavagnini, dottore di ricerca in Sociologia, Dipartimento di sociologia, Università Cat-
tolica del Sacro Cuore
Maddalena Colombo, professoressa associata di Sociologia dell’educazione, Dipartimento di
sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Erica Colussi, collaboratrice presso Fondazione Ismu
Emanuela Dal Zotto, collaboratrice presso la Fondazione Ismu
Francesca Peano Cavasola, assegnista di ricerca presso CirmiB Brescia
Emanuela Rinaldi, dottore di ricerca in Sociologia e metodologia della ricerca sociale, Diparti-
mento di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Mariagrazia Santagati, coordinatrice del Settore scuola e formazione, Fondazione Ismu

Diritto e normativa
Paolo Bonetti, professore associato di Diritto costituzionale, Dipartimento giuridico delle isti-
tuzioni nazionali ed europee, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Ennio Codini, professore associato di Istituzioni di diritto pubblico, Istituto giuridico, Universi-
tà Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Manuel Gioiosa, assegnista di ricerca, facoltà di Sociologia, Università Cattolica del Sacro
Cuore

Casa e accoglienza
Alfredo Alietti, ricercatore di Sociologia dell'ambiente e del territorio, Dipartimento di Scienze
Umane, Università di Ferrara, collaboratore Ismu
Antonio Tosi, professore ordinario di Sociologia urbana, Dipartimento di architettura e pianifi-
cazione, Politecnico di Milano
Valeria Alliata di Villafranca, Fondazione Ismu
Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della Lombardia

Associazionismo
Marco Caselli (responsabile), professore associato di Metodologia delle scienze sociali, Dipar-
timento di sociologia, Università Cattolica del Sacro Cuore
Matteo Bassoli, research fellow, Dipartimento di analisi istituzionale e management pubblico,
Università Bocconi
Massimo Conte, ricercatore agenzia Codici
Laura Davì, collaboratrice presso la Fondazione Ismu

7
Francesco Grandi, ricercatore responsabile Area studi immigrazione, Synergia
Francesco Marini, dottorando di ricerca, Dipartimento di Sociologia, Università Cattolica del
Sacro Cuore
Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della Lombardia

Ricongiungimenti familiari e adolescenti di origine immigrata


Maurizio Ambrosini (responsabile scientifico), professore ordinario di Sociologia dei processi
migratori, Dipartimento di studi sociali e politici, Università degli Studi di Milano
Meri Salati, (coordinatrice del gruppo di ricerca), responsabile Centro studi, Caritas ambrosiana
Paola Bonizzoni, assegnista di ricerca, Dipartimento di studi sociali e politici, Università degli
Studi di Milano
Elena Caneva, assegnista di ricerca, Dipartimento di studi sociali e politici, Università degli
Studi di Milano

Collaboratori di ricerca
Claudia Cominelli, Benedetta Marsigli, Elena Mauri, Patrizio Ponti, Sonia Pozzi hanno curato i
casi studio qualitativi e l’analisi dei questionari.

Tratta e prostituzione
Patrizia Farina, (responsabile scientifico), Dipartimento di statistica, Università degli Studi di
Milano-Bicocca

Gli enti e le associazioni che partecipano all’Osservatorio Tratta sono: Caritas ambrosiana (se-
greteria), Caritas diocesane della Lombardia; Bergamo: La Melarancia, Micaela; Brescia: Casa
Betel 2000, Impsex, Caritas parrocchiale di Ospitaletto; Como: Istituto Suore adoratrici Casa
Nazareth; Comunità Giulia Colbert; Cremona: Comunità Santa Rosa; Mantova: Porta Aperta,
Casa di Ruth; Milano: Ala Milano, Ceas, Farsi Prossimo Onlus Scs, La Grande Casa (Sesto S.
Giovanni), Lule (Abbiategrasso), Naga, Pantonoikia (Settala), Segnavia/Padri Somaschi; Pavia:
Casa Costanza Gregotti (Vigevano), Casa San Michele, Pianzola Olivelli (Cilavegna); Varese:
Gruppo Mares (Tradate)

Progetti e interventi territoriali


Antonio Tosi (responsabile scientifico), professore ordinario di Sociologia urbana, Dipartimento
di architettura e pianificazione, Politecnico di Milano
Roberto Cagnoli, collaboratore presso il Dipartimento di architettura e pianificazione, Politec-
nico di Milano
Sara Tosi, collaboratrice presso il consorzio Metis, Politecnico di Milano
Barbara Visentin, Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà So-
ciale, Regione Lombardia
Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della Lombardia

Sito e Banca Dati


Gian Carlo Blangiardo (responsabile)
Alessio Menonna (referente area Popolazione)
Giorgia Papavero (referente area Scuola-Alunni stranieri)
Maddalena Colombo (referente area Scuola-Progetti di educazione interculturale)
Armando Pullini (referente area Salute)

8
Francesco Marcaletti (referente area Lavoro)
Patrizia Farina (referente area Tratta e vittime di sfruttamento)
Maurizio Ambrosini (referente area Volontariato e terzo settore)
Valeria Alliata di Villafranca (referente area Accoglienza)
Antonio Tosi (referente area Progetti territoriali)
Marco Caselli (referente area Associazionismo)
Francesca Locatelli (raccordo Fondazione Ismu e Direzione Generale Famiglia, Conciliazione,
Integrazione e Solidarietà Sociale)
Clara Demarchi (referente Direzione Generale Famiglia, Conciliazione, Integrazione e Solidarietà
Sociale, Regione Lombardia)
Osservatori Provinciali sull’Immigrazione della Lombardia

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Indice

Premessa
di Giulio Boscagli pag. 13

Casa, immigrazione e territorio: un’introduzione


di Vincenzo Cesareo » 17
1. Il welfare abitativo di fronte alla sfida delle migrazioni, tra
“sostenibilità economica” e “sostenibilità sociale” » 17
2. Il progetto Radici (Regole per il mercato dell’alloggio: dif-
fondere informazioni e condividere iniziative) » 20
3. La ricerca sul campo » 21
4. I tavoli interistituzionali » 22
1. Migrazioni, politiche urbane e abitative: alcune riflessioni
sulle società urbane europee
di Alfredo Alietti » 25
Introduzione » 25
1.1 Il quadro delle politiche urbane e abitative in Europa » 32
1.2 Politiche contro la segregazione: alla ricerca della mixité » 41
2. Azioni pubbliche e modelli empirici: una riflessione su al-
cuni casi studio
di Roberta Cucca e Paola Pologruto » 51
2.1 Immigrati e politiche abitative: il caso francese » 51
2.2 Le politiche abitative danesi e la sfida della segregazione » 60
2.3 Il caso svedese: politiche abitative universalistiche e mix
sociale non connotato etnicamente » 65
2.4 L’incerto futuro delle politiche abitative olandesi » 68
2.5 Discriminazione e autosegregazione nelle politiche abitati-
ve inglesi » 72
2.6 Mix sociale e quote nelle politiche abitative tedesche » 77

11
3. Il caso italiano. Aree critiche, politiche e iniziative a livello
nazionale e regionale
di Alfredo Agustoni pag. 81
3.1 Questione abitativa ed edilizia residenziale pubblica in
Italia » 81
3.2 Affitto e proprietà della casa » 89
3.3 Verso una riqualificazione del welfare abitativo. Sintesi e
proposte » 99
4. Analisi e prospettive dei processi di insediamento abitativo
dei migranti in Lombardia
di Alfredo Alietti e Veronica Riniolo » 103
Introduzione » 103
4.1 Casa e migranti in Lombardia: i percorsi abitativi » 107
4.2 Mercato dell’alloggio e bisogni informativi » 111
4.3 Accesso alla casa e pratiche discriminatorie » 113
4.4 Conclusioni » 117
»
Riferimenti bibliografici » 119
Le pubblicazioni dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità » 129

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Premessa

L’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità (Orim) in dieci


anni di attività si conferma come dispositivo di conoscenza approfondita e det-
tagliata sulle dinamiche del fenomeno migratorio unico nel suo genere a livello
regionale e nazionale, avendo maturato nel tempo capacità ed esperienza nella
ricerca, nel fare rete e nella divulgazione della conoscenza.
È grazie alla continuità delle analisi che è possibile, anche quest’anno, tracciare
un quadro completo sui diversi profili e sulle implicazioni dell’immigrazione in
Lombardia, regione che accoglie un quarto dell’intera popolazione straniera
presente su territorio nazionale. La crescita delle famiglie straniere sul territorio
lombardo è uno dei molteplici indici di una progressiva stabilizzazione. Nello
specifico al 1° luglio 2010 in Lombardia risultano 192mila famiglie provenienti
da paesi a forte pressione migratoria con almeno un figlio minorenne (26mila
monogenitoriali e 166mila complete) a fronte di un milione e 130mila famiglie
complessive (115-120mila monogenitorali e un milione e 10-15mila complete)
con almeno un figlio minorenne alla stessa data. Pertanto possiamo affermare
che ormai una famiglia su sei con figli minorenni che vive sul territorio regiona-
le è composta da stranieri.
Quale ulteriore segno di stabilizzazione in regione si osserva una crescita di
seconde generazioni di immigrati. Giovani in parte legati alle tradizioni, abitu-
dini e affetti della famiglia e del paese di provenienza, ma che, allo stesso tem-
po, presentano le medesime attitudini, aspettative e progetti per il futuro dei loro
coetanei italiani. Va anche segnalata, quale ulteriore possibile elemento di radi-
camento, la crescita degli alunni stranieri nati in Italia: complessivamente
nell’a.s. 2009/10 essi rappresentano il 28% degli immigrati che frequentano il
nostro sistema scolastico.
La situazione abitativa degli immigrati in Lombardia risulta anch’essa carat-
terizzata da una progressiva – seppur lenta – stabilizzazione, testimoniata dalla
crescita di case in proprietà (il 23,2% degli stranieri) e contratti di affitto (oltre
il 50% degli stranieri), in maggioranza con regolare contratto. Al tempo stesso,
in un contesto di crisi come quello attuale, si evidenzia che un numero crescente
di soggetti si rileva incapace a garantirsi l’accesso alla casa con ripercussioni
significative sul piano della coesione sociale.

13
La crisi economica ha inciso anche sui livelli di disoccupazione della popo-
lazione straniera: i disoccupati tra la popolazione ultraquattordicenne provenien-
te da paesi a forte pressione migratoria (Pfpm) sono cresciuti dall’11,3% del
2009 al 13,0% della metà del 2010. Un dato che porta con sé il rischio reale di
far scivolare nell’area dell’irregolarità molti lavoratori stranieri, a causa del su-
peramento del periodo di 6 mesi di inattività. Il nostro Assessorato ha potuto
altresì sperimentare attraverso alcuni interventi promossi sul territorio – in ac-
cordo con il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – come il lavoro rap-
presenti un fondamentale strumento per l’integrazione degli stranieri e delle
minoranze rom e sinti. Gli esiti di queste iniziative hanno messo in luce quanto
sia importante promuovere politiche per l’inserimento e l’occupazione in grado
di rispondere alle specificità dei bisogni di ciascun target di riferimento. Per
facilitare l’effettivo inserimento occupazionale delle fasce più svantaggiate –
sotto il profilo economico, culturale e delle pari opportunità nell’accesso al
mercato del lavoro – sono necessarie azioni propedeutiche mirate, quali, ad e-
sempio, un adeguato e personalizzato accompagnamento, un sistema di tutoring,
la formazione on the job, l’alternanza formazione-lavoro, modalità di inseri-
mento “protette”, sostegno all’auto-imprenditoria.
L’Osservatorio si afferma non solo come organismo di ricerca sui diversi a-
spetti connessi all’immigrazione (popolazione, scuola, lavoro, salute, normativa,
tratta, accoglienza, monitoraggio dei progetti territoriali,…), ma anche come
strumento funzionale alla programmazione delle politiche locali regionali non-
ché nazionali. Gli studi, le analisi e le previsioni sono così al servizio della go-
vernance, fornendo le basi conoscitive indispensabili a porre in essere le strate-
gie per affrontare i cambiamenti sociali. Si veda, a titolo dì esempio, l’impegno
costante dell’Orim nell’analisi del fabbisogno di manodopera straniera da parte
del settore produttivo lombardo e delle famiglie, che contribuisce ogni anno alla
definizione dei flussi di ingresso definiti a livello di governo centrale.
È opportuno ricordare inoltre il sistema di monitoraggio e valutazione dei
progetti che si realizzano sul territorio nel campo dell’integrazione e nella pro-
mozione di approcci interculturali nel sistema scolastico. Tale raccolta di infor-
mazioni mette in evidenza la vivacità progettuale presente a livello locale, no-
nostante una sempre più esigua disponibilità di risorse, resa possibile grazie
all’impegno e alla professionalità di enti, associazioni e scuole. Al tempo stesso
si registra una pluralità di bisogni, sempre in evoluzione, che ancora attendono
interventi.
In risposta ad alcuni bisogni di integrazione, la Direzione Famiglia, con il
supporto scientifico del suo Osservatorio sull’immigrazione, promuove diretta-
mente alcune iniziative sperimentali con il sostegno finanziario dei Ministeri. Si
pensi al progetto Certifica il tuo italiano, giunto alla sua terza edizione, il cui
sistema capillare di insegnamento e certificazione della lingua risulta all’avan-
guardia nazionale e internazionale, o alla sperimentazione Valore lavoro, che ha
saputo realizzare percorsi di positivo inserimento lavorativo per rom e sinti, su-
perando la sfiducia e i pregiudizi che spesso accompagnano il tema

14
dell’integrazione di queste minoranze.
La forza di un sistema di analisi e lettura del fenomeno come quello posto in
essere con l’Orim, risiede nel lavoro di rete costruito e implementato negli anni.
Si tratta, infatti, di un contenitore di competenze istituzionali e scientifiche, che
vede la partecipazione stabile, sia nella fase di programmazione sia in quella di
realizzazione delle ricerche, dell’amministrazione regionale – DG Famiglia –,
della Fondazione Ismu, di quattro Università milanesi (Università Bicocca, U-
niversità Cattolica del Sacro Cuore, Università Statale e Politecnico), dell’Uffi-
cio Scolastico Regionale, della Diocesi di Milano e di una pluralità di altri enti e
organizzazioni chiamati a collaborare a seconda delle attività in corso.
Parte integrante del sistema Orim è la rete dei 12 Osservatori Provinciali
sull’immigrazione, che operano coordinati e in sinergia al fine di fornire il qua-
dro particolareggiato dei dati a livello locale, ma anche di mettere in luce biso-
gni e risorse specifici di ciascun territorio. Il lavoro che vede la collaborazione
tra Orim e Opi lombardi consente con continuità la rilevazione delle strutture di
accoglienza, il monitoraggio dei progetti, la mappatura delle associazioni di mi-
granti, nonché, novità di quest’anno, la realizzazione di un primo approfondi-
mento sui Consigli Territoriali per l’Immigrazione. Questi ultimi, infatti, rappre-
sentano potenzialmente una sede privilegiata di confronto locale e di scambio
tra i diversi operatori del settore sui temi e sulle problematiche connesse al fe-
nomeno migratorio, per questo un ambito di attenzione e di impegno in cui la
Regione intende concentrare energie nell’immediato futuro.
Siamo sempre più consapevoli di come, in un settore oggettivamente com-
plesso come quello dell’immigrazione, l’azione di una singola Regione non
possa prescindere da un forte coordinamento con il livello nazionale e da una
prospettiva europea. L’importanza di gestire il fenomeno non solo con attenzio-
ne alla dimensione locale e nazionale ma anche con riguardo all’evoluzione del-
le politiche europee e comunitarie ha portato l’amministrazione lombarda a par-
tecipare ad alcuni apprezzabili momenti di confronto di respiro internazionale.
Da due anni, ad esempio, la Lombardia è presente alla conferenza Metropolis,
nel cui contesto ha promosso dei workshop tematici e, nel corso del 2010, ha
partecipato a due importanti conferenze, a Riga e a Bruxelles, di esperti in mate-
ria di formazione linguistica degli stranieri, portando la propria esperienza in
materia poiché alla base della programmazione è sempre più importante la con-
divisione delle esperienze e delle conoscenze per un arricchimento reciproco ed
è con questo spirito che si muove la nostra azione.

Giulio Boscagli
Assessore alla Famiglia, Conciliazione,
Integrazione e Solidarietà sociale

15
Casa, immigrazione e territorio: un’introduzione
di Vincenzo Cesareo

1. Il welfare abitativo di fronte alla sfida delle migrazioni, tra “sostenibilità


economica” e “sostenibilità sociale”

Il presente volume espone, con ulteriori approfondimenti che nascono da


un’ampia analisi della letteratura esistente in materia e dei dati disponibili,
quanto emerso dal progetto di ricerca-intervento Radici. Regole per il mercato
dell’alloggio: diffondere informazioni e condividere iniziative, condotto da
un’équipe di ricercatori della Fondazione Ismu per conto della Regione Lom-
bardia1. Prima di illustrare l’articolazione del progetto, il quale si è sviluppato
su diverse linee di azione (redazione di una guida informativa multilingue, in-
terviste a immigrati e testimoni privilegiati, tavoli di confronto), è opportuno
fornire un inquadramento della questione abitativa degli immigrati. L’insieme
delle problematiche affrontate si colloca a cavallo tra due ordini di questioni dif-
ferenti, ma strettamente intrecciati tra loro. Il primo riguarda le trasformazioni
dei territori investiti dai flussi migratori e, in particolare, il rapporto di reciproca
influenza tra tali dinamiche e la condizione dei migranti, dove questi ultimi
vengono accolti in un territorio interessato da ininterrotti processi di mutamento
e, con la loro stessa presenza, contribuiscono ampiamente a tali processi. Il se-
condo aspetto concerne le trasformazioni che interessano i sistemi di welfare,
con particolare riferimento al problema della casa, rispetto al quale gli immigra-
ti sembrano fungere da “reagenti rispetto al funzionamento delle politiche abita-
tive, evidenziandone peculiarità e carenze” (Ponzo, 2009a: 190).
Da un lato, troviamo la casa come “bene”, cui si accede attraverso il mercato
immobiliare, in locazione o in compravendita; dall’altra c’è la casa come “ser-
vizio” e, quindi, il sistema dell’edilizia residenziale pubblica. Nel primo caso c’è
il libero mercato, che segue le proprie dinamiche; nel secondo il sistema del
welfare pubblico, che ne corregge le storture e le sperequazioni attraverso

1
Il progetto Radici. Regole per il mercato dell’alloggio: diffondere informazioni e condividere
interventi è parte integrante del Programma di sperimentazione per interventi di integrazione e
inserimento sociale per la gestione dei flussi (Attuazione Dgr n. 7435 del 13.6.2008 e decreto n.
6984 del 27.6.2008) promosso da Regione Lombardia e finanziato dal Ministero del Lavoro e del-
le Politiche sociali.

17
un’opera di “demercificazione”2. L’appena citata dicotomia tra la casa come
“bene” e la casa come “servizio” si stempera non appena ci si pone in una pro-
spettiva differente, per cui

la produzione di benessere non può restare più una prerogativa dello Stato, ma deve di-
ventare una funzione sociale diffusa, che ciascuna sfera perseguirà seguendo le proprie
specifiche modalità (Colozzi, 2002: 25).

La cooperazione edilizia non è certo una realtà inedita, avendo al contrario co-
stituito uno dei principali attori nei processi di urbanizzazione del secolo appena
trascorso. Tuttavia, negli ultimi decenni, il terzo settore ha dato prova di capaci-
tà innovative nel campo abitativo, in particolar modo iniziative mirate a target
di popolazione come gli immigrati. Sempre nel campo delle politiche abitative
hanno visto la luce interessanti esempi di collaborazione tra privato sociale,
pubbliche amministrazioni, sindacati, associazioni imprenditoriali e fondazioni
bancarie, nel quadro di una governance delle questioni abitative sempre più
complessa. Infatti, per esempio:

È evidente che le imprese che hanno bisogno di lavoratori extracomunitari per continua-
re a produrre, non possono scaricare il problema della casa per questi lavoratori chia-
mando in causa lo Stato o il volontariato. Questo problema sociale deve diventare una
responsabilità propria della sfera economica, che cercherà di rispondervi utilizzando il
proprio codice e costruendo relazioni con tutti gli altri soggetti: stato, terzo settore, fa-
miglie (…) (Colozzi, 2002: 25).

Il tema, d’altro canto, evidenzia il proprio carattere di attualità e di emergenza


in un contesto di crisi, dove un numero crescente di soggetti si rivela incapace
di garantirsi l’accesso alla “casa come bene”, mentre parimenti problematica
sembra la capacità, da parte dell’attore pubblico, di garantire la “casa come ser-
vizio”. Per richiamare le parole di un grande pensatore sociale, ci si trova di
fronte al problema della “quadratura del cerchio” (Dahrendorf, 2000), esprimi-
bile in termini di “sostenibilità”. Da una parte, si trova la sostenibilità economi-
ca dei sistemi di welfare, che numerose voci critiche, soprattutto negli ultimi
tempi, mettono pesantemente in discussione. Dall’altra parte, con riferimento
alle condizioni di vita dei cittadini, si pone al centro la sostenibilità economica
delle spese per l’abitazione: la crescente incidenza degli sfratti per morosità, co-
sì come dei nuovi acquirenti che faticano a onorare le rate del mutuo, sarà ri-
chiamata nel terzo capitolo.
Emerge, per altro verso, tutta una serie di problemi di “sostenibilità sociale”.
Le problematiche economiche e abitative che gravano sui nuclei familiari ri-
schiano di incidere pesantemente, in senso destrutturante, sulla coesione sociale.
Si possono, per esempio, manifestare conflitti tra gruppi differenti, in concor-
2
Con tale termine, ci si riferisce alla possibilità di godere di determinati servizi non sulla base di
criteri di mercato, ma in quanto esercizio di diritti di cittadinanza (Esping-Andersen, 1990: 22).

18
renza per l’accesso a una “risorsa scarsa” come il bene casa. A una lettura af-
frettata del fenomeno, seguendo magari alcuni dei più diffusi luoghi comuni,
potremmo essere portati ad attribuire, almeno in parte, ai fenomeni migratori
l’attuale crisi abitativa, quasi come se, nel nostro paese, le migrazioni non aves-
sero investito un contesto già caratterizzato da una consistente e cronica crisi
abitativa (come vedremo nel terzo capitolo).
In realtà analisi più attente e approfondite evidenziano i concomitanti costi e
benefici della presenza straniera sul mercato immobiliare: da un lato quest’ul-
tima si caratterizza per la sua capacità di riportare sul mercato risorse edilizie
che rischiavano di esserne escluse, in quanto inadeguate rispetto alla domanda
di nuclei familiari italiani; dall’altro, per lo stesso motivo, la presenza di una
consistente domanda locativa da parte di nuclei immigrati rischia di rivelarsi
una comoda occasione per ottenere canoni soddisfacenti senza bisogno di ri-
strutturare, incidendo così negativamente sulla qualità del patrimonio edilizio
(Agustoni, 2009; Agustoni, Alietti, 2009; Ponzo, 2009a).
Casi esemplari sono quello di Zingonia, in provincia di Bergamo, o di Porto
Recanati, in provincia di Macerata, dove gli immigrati si sono insediati in
enormi complessi che rischiavano l’abbandono, perché pensati in passato per
altri tipi di popolazione: per una popolazione operaia, nel caso di Zingonia, e
per una popolazione di villeggianti nel caso di Porto Recanati3. In entrambi i ca-
si, gli immigrati hanno portato al riutilizzo delle strutture abitative. Al tempo
stesso, la loro presenza ha dato vita a forme di convivenza tra mondi e culture
differenti, accomunati soltanto dalla segregazione rispetto al contesto sociale
circostante, con gli intuibili risvolti critici. Le dinamiche conflittuali che spesso
si ingenerano tra immigrati e locali o anche tra le diverse componenti dei mi-
granti4 pongono nuovamente la questione della “sostenibilità sociale”. Ciò è il
risultato anche delle problematiche forme d’insediamento degli stranieri sul ter-
ritorio, nonché del loro utilizzo “disordinato” (quantomeno agli occhi dei “loca-
li”) degli spazi pubblici (Agustoni, Alietti, 2009),
Il nostro lavoro parte da un’analisi più generale del rapporto tra migranti e
territorio, con una specifica attenzione alle politiche urbane e abitative attivate
nel contesto europeo (cap. 1), per venire a un’analisi di alcune esperienze euro-
pee (cap. 2). Dallo studio emerge l’esistenza di modelli molto differenti di wel-
fare abitativo, dove l’Italia è almeno parzialmente assimilabile a un modello
“mediterraneo”, caratterizzato da un’elevata incidenza della casa in proprietà e
da un’incidenza relativamente limitata dell’housing sociale. È un modello che si
differenzia da quello di un paese prevalentemente d’inquilini privati, come la

3
I casi in questione verranno ulteriormente approfonditi nel capitolo Abitare e insediarsi del Se-
dicesimo Rapporto Ismu sulle migrazioni in Italia (Agustoni, 2011).
4
Significativo, a questo proposito, l’omicidio di un giovane egiziano che ha avuto luogo in viale
Padova, a Milano, nel febbraio 2010, che costituisce, in realtà, la punta di diamante di una conflit-
tualità latente endemica. Per un approfondimento sul tema delle periferie urbane si veda Cesareo,
Bichi, 2010.

19
Germania, o da quello olandese, caratterizzato da un’elevata presenza dell’hou-
sing sociale. Di nuovo, al modello mediterraneo si avvicina la Norvegia, quan-
tomeno per la consistente quota di proprietà, derivante dal fatto che il governo
di questo paese ha, per anni, incentivato l’autocostruzione e la cooperazione
edilizia finalizzata all’accesso alla proprietà.
Peraltro l’assimilazione al “modello mediterraneo” non esclude che l’edilizia
residenziale pubblica, in Italia, sia comunque più consistente e radicata che in
altri paesi assimilabili al medesimo modello, come la Spagna, il Portogallo e la
Grecia. Lungi dal costituire la semplice traduzione di caratteristiche antropolo-
giche nel mercato abitativo, un simile modello, con riferimento al caso italiano,
risulta il prodotto di precise scelte politiche che hanno interessato il nostro paese
soprattutto a partire dal dopoguerra (cap. 3).
La presenza di differenti modelli, per tornare al secondo capitolo del presen-
te volume, non esclude di individuare alcune linee di tendenza che, negli ultimi
anni, accomunano le politiche abitative nei diversi paesi d’Europa: in primo
luogo, una tendenza alla dismissione del patrimonio residenziale pubblico a fa-
vore degli occupanti, che trova il prototipo nel right to buy dell’Inghilterra that-
cheriana e che, in Italia, conosce il proprio riscontro nella legge Nicolazzi del
1993. In secondo luogo, il crescente coinvolgimento di attori del terzo settore,
efficacemente evidenziato dall’analisi del caso inglese e del caso olandese (così
come, in Danimarca, dalla paradossale situazione di Copenaghen). In terzo luo-
go, una crescente attenzione al social mix, ovvero il crescente ricorso a politiche
tese a evitare la segregazione: le opzioni politiche adottate nelle diverse realtà
non sfuggono naturalmente alle critiche che verranno meglio illustrate nei capi-
toli che seguono.
Il quarto capitolo analizza i processi insediativi nel caso lombardo, con un
approfondimento dei percorsi abitativi degli immigrati.

2. Il progetto Radici (Regole per il mercato dell’alloggio: diffondere infor-


mazioni e condividere iniziative)

Il progetto Radici, elaborato anche alla luce delle problematiche ora esposte, na-
sce dalla considerazione che il disagio abitativo degli stranieri deriva, almeno in
parte, da fattori di natura “cognitiva”, cioè dalla scarsa conoscenza dei limiti e
delle opportunità del welfare e del mercato della casa. Lo straniero, spesso, non
è adeguatamente informato del settore delle locazioni e, per questo, è facilmente
vittima di situazioni vergognose, in cui si abusa della sua buona fede e della sua
ignoranza rispetto al mercato locativo. Analogamente, sovente l’immigrato non
conosce il mercato dei mutui: questo spiega la frequente adesione a quelli a tas-
so variabile che, a fronte di una prospettiva di risparmio, implicano comunque
notevoli difficoltà per molti.
Non di rado, l’immigrato ignora le opportunità offerte dal welfare abitativo,

20
e questo spiega il ritardo con cui vi si avvicina durante il suo percorso migrato-
rio, dopo esserne venuto a conoscenza in maniera non di rado occasionale.
La scarsa conoscenza delle regole di convivenza all’interno di un complesso
di edilizia residenziale pubblica o di un condominio privato costituisce, di nuo-
vo, motivo di conflitto, venendo dunque a incidere sulla “sostenibilità sociale”
come già evidenziato in precedenza. Tuttavia, le situazioni maggiormente pro-
blematiche da questo punto di vista (per esempio l’abitudine a ospitare parenti o
amici, malgrado i regolamenti dell’edilizia residenziale pubblica) dipendono
soprattutto dalle precarie condizioni abitative, piuttosto che dalla mancata cono-
scenza o dalle peculiarità “culturali”. D’altra parte, lo “stupore” con cui l’immi-
grato si vede contestare un comportamento che considerava pienamente legitti-
mo “in casa propria” è esattamente speculare rispetto allo “stupore” del “locale”
che assiste a comportamenti non consueti, ai suoi occhi “devianti”, da parte del
nuovo arrivato. Può risultare infatti difficile ragionare in termini di “condomi-
nio” per chi è abituato a pensare esclusivamente in termini di “casa”.
Proprio al problema dell’informazione è dedicata una parte del progetto Ra-
dici. Si è pensato, a questo scopo, a un agile ma completo strumento, in dieci
lingue, mirato alla diffusione delle informazioni e al rafforzamento delle com-
petenze delle famiglie immigrate su quel complesso di regole e di risorse che
strutturano il sistema abitativo nelle sue diverse componenti.

3. La ricerca sul campo

Il progetto Radici ha contemplato la realizzazione di una ricerca sul campo che


ha interessato sia testimoni privilegiati sia immigrati presenti sul territorio lom-
bardo. L’intervista ai testimoni privilegiati ha interessato 21 soggetti che, in vir-
tù del loro specifico ruolo nella gestione delle problematiche relative all’alloggio,
con particolare riferimento alla condizione abitativa degli immigrati, sono in
condizione di fornire un punto di vista di particolare rilievo, “esperto” nella più
ampia accezione del termine, sugli argomenti di nostro interesse. Gli intervistati
sono stati, pertanto, selezionati all’interno di un range di attori significativi: dai
sindacati inquilini alle rappresentanze della proprietà edilizia, dalle Aler e dagli
assessorati alla casa fino alle cooperative edilizie, dalle associazioni del privato
sociale alle fondazioni per il social housing. La scelta di sottoporre i nostri in-
terlocutori a interviste non strutturate è parsa particolarmente opportuna, da un
lato in relazione con la qualità dell’esperienza accumulata da ciascuno di essi,
difficilmente sintetizzabile attraverso schematizzazioni elaborate a priori;
dall’altro, in relazione con le peculiarità dei loro ruoli nella gestione delle pro-
blematiche considerate, che rendevano più interessante evidenziare le specificità
delle differenti forme d’intervento e dei singoli punti di vista, nel complessivo
quadro costituito dalle dinamiche abitative e dalla loro gestione.
Le interviste erano volte a esplorare le tre aree del coinvolgimento, delle

21
rappresentazioni del problema e delle soluzioni prospettate, ovvero:
1) le specificità dell’azione degli intervistati, nonché delle realtà istituzionali o
associative di riferimento, nella gestione delle politiche abitative;
2) i punti di vista e i giudizi relativi alla questione abitativa e alle relative poli-
tiche, con particolare riferimento al disagio delle popolazioni immigrate;
3) le soluzioni prospettate, in termini di policy e governance della questione
abitativa, con particolare attenzione alla condizione immigrata.
A queste interviste con testimoni privilegiati (che, nel presente volume, hanno
fornito in particolare materiale per la stesura del terzo capitolo) si è sommata
una ventina di racconti di vita con stranieri (di nuovo, utilizzati soprattutto nella
realizzazione del quinto capitolo), volti a mettere in luce le criticità incontrate
nel corso della loro carriera abitativa in Italia. Inoltre, date le esigenze legate al-
la redazione di una guida, che ha costituito uno degli obiettivi del nostro lavoro,
nelle interviste sia con i testimoni privilegiati sia con i migranti, si è riservata
particolare attenzione alle necessità di carattere informativo.

4. I tavoli interistituzionali

Nell’ambito del progetto Radici è stata inoltre prevista un’azione di governance,


finalizzata all’instaurazione di un dialogo tra i diversi attori, alcuni dei quali già
coinvolti nella fase di ricerca in qualità di testimoni privilegiati. Per questo mo-
tivo, soggetti diversamente posizionati nel mercato abitativo e nel settore delle
politiche abitative (dai sindacati inquilini ai rappresentanti della proprietà edili-
zia e delle amministrazioni locali, per venire agli esponenti della cooperazione
edilizia, del terzo settore e del mondo imprenditoriale) sono stati chiamati a
confrontarsi all’interno di un setting appositamente fornito da Regione Lombar-
dia – promotrice della sperimentazione – in presenza di esponenti istituzionali e
non e coordinato dall’équipe di ricerca. Di volta in volta sono state proposte le
tematiche degli incontri, partendo da un discorso generale sulle problematiche
abitative, con una particolare attenzione alla condizione degli stranieri.
Oltre a un confronto sui contenuti della guida multilingue Abitare in Lom-
bardia, i tavoli sono stati finalizzati alla condivisione, in un’ottica di governan-
ce, di possibili scenari di intervento per agevolare l’incontro tra domanda e of-
ferta nel mercato dell’alloggio nelle sue diverse declinazioni, con specifico rife-
rimento all’utenza straniera.
Non è facile riassumere gli aspetti di maggiore rilievo di un dibattito che ha
visto contrapporsi, e talora in parte riconciliarsi, posizioni ampiamente differen-
ti. Ciò nondimeno, proveremo a farlo in estrema sintesi, evidenziando anche i
punti di discordia, rimandando al terzo capitolo per una più completa trattazione
del caso italiano.
1) Centrale è il rapporto tra la crisi economica e la crisi abitativa, dove gli
immigrati sono assimilabili, in alcuni casi, ai settori meno abbienti della po-

22
polazione nostrana, ma con un insieme di svantaggi aggiuntivi. La perdita
del lavoro si collega spesso alla perdita della casa, a seguito di sfratto per
morosità o a causa dell’impossibilità di onorare il mutuo. Tuttavia, nel caso
dell’immigrato, a questo si somma l’ulteriore aggravio della ricaduta in una
condizione di clandestinità, “con una legislazione a cascata che è fatta per
creare irregolarità: perdi il lavoro, perdi la casa”, come lamenta il rappresen-
tante di un’associazione di terzo settore. La crisi economica riporta in qual-
che modo la questione abitativa al centro dell’attenzione, dove, in preceden-
za, il problema casa sembrava riguardare un numero di soggetti troppo esi-
guo agli occhi di “una politica abituata a ragionare in termini elettoralistici”.
2) Un secondo aspetto, non meno importante, concerne gli aspetti di carattere
legislativo, dove si rilevano, da parte di alcuni partecipanti, posizioni estre-
mamente polemiche nei confronti della normativa regionale del 2004.
Quest’ultima, escludendo dai benefici del welfare abitativo chi non risiede
in regione da almeno cinque anni, ha fatto della Lombardia un “laboratorio
di esclusione” che ha successivamente ispirato la normativa nazionale (leg-
ge n. 133/08). Non manca, d’altra parte, chi giustifica tale normativa alla lu-
ce della necessità di tutelare settori deboli della domanda della popolazione
autoctona, che altrimenti rischierebbero di vedersi completamente esclusi.
3) Particolare rilevanza rivestono la definizione e il ruolo dell’housing sociale,
anche alla luce del decreto interministeriale dell’aprile 2008: ci si rivolge a
una popolazione che non può affrontare il problema abitativo sul mercato,
non presentando i requisiti per l’acceso all’edilizia residenziale pubblica.
Uno dei pilastri rimane l’idea del mix sociale, che implica anche un’atten-
zione specifica alle differenti “vulnerabilità” di fronte alle quali ci si trova
ed enfatizza quindi la funzione dell’accompagnamento. Ne consegue che la
presenza e le problematiche degli immigrati meritano un approccio diffe-
renziato a seconda del territorio dove si interviene. L’obiettivo è costituito
da network locali “socialmente sostenibili”, con relazioni di buon vicinato e
che non si connotino come ghetti. L’housing sociale andrebbe, pertanto,
maggiormente sostenuto (per esempio in termini fiscali), ma anche meglio
definito per assumere una propria identità più specifica ed essere, pertanto,
anche maggiormente controllabile. Proprio sulla nuova centralità e la nuova
identità dell’housing sociale, si manifestano, d’altro canto, alcune perplessi-
tà. Per esempio da parte chi teme che la preoccupazione per la condizione
dei ceti medi, pur caratterizzata da difficoltà sul mercato degli affitti, finisca
per spostare attenzione e risorse rispetto alle esigenze delle fasce più deboli,
in una situazione caratterizzata da carenza di risorse. Similmente, l’enfasi
sul social mix rischia di portare, a parere di alcuni, a dimenticare come il
reddito costituisca “la vera variabile che consente o meno di rimanere sul
territorio”.
4) Un ulteriore aspetto riguarda la necessità e le strategie utilizzabili per il ri-
lancio dell’affitto privato. Abbastanza unanime, a questo proposito, la con-

23
statazione dell’insufficienza delle misure della legge Zagatti del 1998 volte
a incentivare il ricorso al canone concordato, mentre una soluzione potrebbe
essere costituita da ulteriori benefici fiscali, come una “cedolare secca”.
Non mancano, soprattutto tra gli esponenti della proprietà edilizia, osserva-
zioni relative agli effetti disincentivanti prodotti dalla rigidità nella scadenza
dei contratti, soprattutto con riferimento alla piccola proprietà: chi ha un ap-
partamento da dare in affitto, potrebbe averne bisogno tra due anni per pro-
prio figlio, ed è pertanto meno propenso a metterlo sul mercato.

In conclusione, i tavoli, aventi lo scopo di promuovere e facilitare un dialogo tra


le realtà coinvolte, hanno costituito un momento cruciale del progetto Radici:
essi non solo hanno fornito un importante apporto di carattere conoscitivo, ma si
sono distinti per una specifica modalità di lavoro. Questa modalità risponde in
primo luogo al bisogno, espresso peraltro dai molteplici attori coinvolti in occa-
sione degli incontri, di confronto reciproco e scambio di conoscenze. Un secon-
do elemento positivo, riconducibile a questa metodologia, è la possibilità di af-
frontare problemi spesso comuni analizzandoli e trovando soluzioni condivise.
In terzo luogo i tavoli costituiscono anche un’occasione per individuare e con-
frontare eventuali buone pratiche che sono emerse nel corso degli incontri. Il
valore aggiunto di questa esperienza progettuale è stata quindi quella di sceglie-
re una metodologia che si è dimostrata in linea con le esigenze degli operatori e
dei soggetti portatori di competenze specifiche relative al mercato abitativo.
C’è quindi ragione di ritenere che il progetto Radici, i cui esiti sono esposti
nelle pagine seguenti, ha mostrato una duplice utilità sotto il profilo sia dei suoi
contenuti, sia dell’approccio che è stato adottato nel portare avanti il lavoro.

24
1. Migrazioni, politiche urbane e abitative: alcune
riflessioni sulle società urbane europee
di Alfredo Alietti

Introduzione

Nella complessa dialettica tra società d’arrivo e processo d’integrazione le con-


dizioni abitative delle popolazioni immigrate sono ritenute decisive, in quanto
rappresentano un importante indicatore degli esiti, positivi o negativi, di tale
rapporto e l’attivazione di politiche in questo ambito risulta avere una parte con-
sistente nella politica sociale a livello locale con un forte impatto sui percorsi
integrativi delle future generazioni (Clip, 2007). La centralità della tematica as-
sume ulteriore valenza in tal senso poiché l’accesso al bene casa e la qualità dei
luoghi d’insediamento sono valutati quali passaggi ineludibili per ampliare le
chance d’interazione socio-culturale e le opportunità d’inserimento socio-
economico (Dorr, Faist, 1997; Dell’Olio, 2004). A queste considerazioni si as-
sociano il richiamo della Carta fondamentale dei Diritti dell’Unione europea sul
riconoscimento e diritto all’assistenza sociale e abitativa per tutti coloro che non
hanno sufficienti risorse, e l’invito del Parlamento europeo ai paesi membri di
cooperare al fine di implementare il diritto e l’accesso a una buona abitazione
per tutti, condizione necessaria per garantire la coesione sociale (European Par-
liament, 1997).
Tali presupposti stimolano la necessità di analizzare i caratteri generali delle
politiche indirizzate a ciò che possiamo definire “integrazione abitativa” degli
immigrati nelle aree urbane europee, al fine di evidenziarne la portata nel con-
seguire risultati adeguati a tali obiettivi generali1.

1
Nella nostra disanima useremo prevalentemente il termine immigrato e/o migrante con tutte le
sue declinazioni, nella consapevolezza che all’interno di questa categoria unificante vi sono situa-
zioni assai differenti tra loro che necessitano di precisazioni adeguate. Ad esempio, nel mondo
anglosassone la presenza di minoranze etniche modifica la portata degli strumenti legislativi
d’integrazione e dello status legale di chi vi appartiene, così come nelle società europee con mag-
giore storicità dell’immigrazione vi è da distinguere i nuovi arrivati (newcomers) dalle famiglie di
origine straniera legate alla seconda o terza generazione. Le stesse politiche abitative mutano nella

25
Il compito non è del tutto agevole, tenuto conto della molteplicità delle si-
tuazioni da analizzare a ragione dei differenti contesti sociali, economici e cul-
turali, delle cornici politico-istituzionali che hanno promosso od ostacolato tali
politiche, della natura dei regimi di welfare, e di quello abitativo in particolare,
dei modelli prevalenti d’integrazione (assimilazione vs pluralismo), dei vincoli
legislativi relativi alla legalità del soggiorno, senza dimenticare l’importanza
della distinta temporalità del fenomeno migratorio che ha modificato gli assetti
e le responsabilità dell’azione pubblica nel corso dei decenni. Tutti questi ele-
menti interagendo tra essi strutturano indirizzi di policy assai diversi l’uno
dall’altro a seconda della specificità dell’ambito nazionale di riferimento e delle
relative questioni affrontate, come emergerà in dettaglio dalle riflessioni sulle
ricerche comparative svolte in Europa. Tuttavia, si deve rimarcare il fatto che in
molti paesi europei la dimensione abitativa nelle politiche d’integrazione sia
marginale, e per quanto essa abbia pari dignità nei confronti degli altri ambiti,
quali il lavoro, la salute, la formazione linguistica, questi appaiono più coeren-
temente trattati e finanziati (Tosi, 2010; Edgar, 2004: 87-89). Del resto, come si
è sottolineato, la questione della casa è sempre stato il pilastro traballante del
welfare state nel contesto europeo (Toergersen, 1987).
Se osserviamo la vasta letteratura analitica e il gran numero di studi empirici
prodottosi sul tema del disagio abitativo migrante, possiamo individuare degli
aspetti comuni che hanno richiamato, e richiamano tuttora, l’attenzione dell’in-
tervento pubblico e conformano le politiche nazionali e locali.
Infatti, a fronte dei costanti flussi migratori e della varietà delle condizioni
abitative, titolarità e strategie alloggiative, molti dei segnali rinvenibili nelle
aree metropolitane europee e italiane collegati sia alla problematicità dell’in-
contro tra domanda e offerta nel mercato della casa, sia alle problematiche rela-
tivi ai processi insediativi, appaiono in forme, se non nella sostanza, assai simili.
I nuclei immigrati, in particolare quelli con minore anzianità migratoria, nel-
la maggioranza delle situazioni abitative soffrono di un evidente svantaggio posi-
zionale rispetto agli autoctoni, nei termini di una minore qualità alloggiativa e
residenziale, e mostrano tassi elevati di homelessness. A un complessivo acces-
so allo stock abitativo più fatiscente si associano condizioni di sovraffollamen-
to, una minore dotazione di servizi interni e, comparativamente, una più alta
vulnerabilità e insicurezza nel loro status abitativo (Eumc, 2005; Musterd, 2005;
Tosi, 2001; 2010). Inoltre, le aree urbane in cui vi è una presenza significativa
di stranieri sono contraddistinte da una crescente marginalizzazione socio-
spaziale che configurerebbe una significativa dinamica di segregazione. Vi è da
sottolineare il peso di una diffusa discriminazione indiretta e diretta che opera
all’interno del mercato della casa con le inevitabili conseguenze di restringere le

loro strategia secondo la distinta definizione che occorre. Dove è stato possibile tale distinzione è
stata richiamata.

26
possibilità di scelta e di obbligare a orientarsi nel settore meno appetibile dagli
autoctoni. Queste condizioni sono state definite come new migrant penalty (Ja-
yaweera, Choudhury, 2008) proprio al fine di evidenziare tale stato di strutturale
debolezza per il conseguimento di una “buona abitazione”.
Al di là dei meccanismi che strutturano le modalità d’insediamento e la di-
versità delle carriere abitative delle popolazioni straniere nelle città, ai quali sarà
dedicato ampio spazio2, appare delinearsi una “crisi urbana” determinata dalle
difficoltà di fornire risposte adeguate ed esaustive alla perdurante dinamica se-
gregativa vissuta in determinate aree e quartieri e alla crescente domanda di al-
loggi a basso costo da parte di soggetti vulnerabili, o con minori risorse dispo-
nibili, tra i quali i migranti costituiscono una quota rilevante.
Nell’oramai lunga storia dell’immigrazione in Europa, la questione abitativa
si ripresenta come ricorrente questione sociale. Infatti, se confrontiamo la situa-
zione degli immigrati nei paesi a forte immigrazione (Francia, Gran Bretagna e
Germania) nel periodo di crescita produttiva tra gli anni Sessanta e l’inizio degli
anni Settanta con l’attualità non sembra che vi sia stato un sostanziale mutamen-
to. La classica indagine comparativa di Castles e Kosack sulle condizioni dei
lavoratori migranti e delle loro famiglie, pubblicata nel 1973, metteva a fuoco le
condizioni di debolezza nel mercato immobiliare, la discriminazione all’accesso,
il sovraffollamento e la qualità scadente delle case. Inoltre, gli autori rilevavano
come:

le zone in cui normalmente risiedono gli immigrati sono quelle più degradate che a cau-
sa del sovraffollamento mancano dei servizi sociali essenziali (…) Poiché le abitazioni
di altre zone cittadine non sono alla portata degli immigrati, essi sempre più numerosi si
insediano in questi quartieri in numero sempre maggiore (…) [e alla fine concludono
con la preoccupazione che] se non sopravvengono mutamenti drastici nel tipo e della
distribuzione degli alloggi concessi agli immigrati si formeranno veri e propri ghetti
(Castles, Kosack, 1973: 287).

Queste sono esperienze, come detto, ancora oggi vissute da una buona parte de-
gli immigrati e ciò pone una seria riflessione sui limiti e sulle difficoltà incon-
trate nel fronteggiare tale questione a prescindere dalla variabilità degli ambiti
nazionali di riferimento. Non soltanto assistiamo al riprodursi delle situazioni di
marginalità alloggiativa per i newcomers, ma l’evolversi delle società europee
successivo ai cosiddetti gloriosi trent’anni dello sviluppo socio-economico mo-
stra i segni di un profondo mutamento che ha indebolito la capacità di garantire
o accrescere le condizioni per l’inclusione e l’integrazione socio-abitativa, non
soltanto delle popolazioni immigrate, ma anche di una parte delle popolazioni
autoctone.

2
Vedi capitolo 4 del volume.

27
A partire dalla metà degli anni Ottanta, l’entrata in crisi del modello fordista
con il suo aggregato di mediazione tra le classi sociali attraverso il welfare state
comporta una forte instabilità delle economie urbane, aggravata dalla forte con-
correnza scaturita dalla globalizzazione. La progressiva diminuzione dell’inter-
vento dello Stato e il contemporaneo avvio di un regime neoliberale nell’ambito
delle politiche sociali comportano una riconfigurazione del principio universali-
stico degli interventi di welfare in favore di quello selettivo e territoriale. In
questo quadro, la concentrazione spaziale di soggetti colpiti dai cambiamenti
socio-economici occorsi si eleva quale dimensione dominante all’interno delle
policy. La questione sociale tende, ora, a definirsi sempre più come relativa a
una dimensione localizzata e connessa alle specificità negative caratterizzanti
determinati luoghi (Simon, 2003). I quartieri popolari, in particolare quelli co-
stituiti dall’offerta residenziale pubblica, infatti, divengono un contesto critico
in cui si sommano le conseguenze negative della ristrutturazione economica e
dei processi di esclusione sociale che colpiscono sia gli autoctoni sia gli immi-
grati che nel tempo si sono insediati. L’esito di questa dinamica regressiva pro-
muove il sorgere di conflitti interetnici all’interno di un ambiente sociale depri-
vato che precedentemente erano neutralizzati dall’integrazione nei processi pro-
duttivi e dalla locale presenza di un vasto ed eterogeneo tessuto associativo, po-
litico e militante, il quale sosteneva pratiche di mutuo-aiuto e di rivendicazione
dei diritti assai importante (Alietti, 1998; Lagrange, Oberti, 2006). Il caso para-
digmatico delle banlieues rosse dell’area metropolitana di Parigi è sicuramente
il più noto e quello più discusso (Dubet, Laperoynne, 1992; Dubet, 1995; Wac-
quant, 1993).
Si assiste al sorgere nel dibattito politico e mass-mediatico di una toponoma-
stica del degrado riferita a questi spazi urbani multietnici: ghetti, quartieri diffi-
cili, in crisi, sono alcuni dei termini utilizzati per rappresentare una realtà
senz’altro pesante, ma non sempre adeguatamente rappresentata anche nei suoi
aspetti positivi3. Tale raffigurazione pubblica si afferma con continuità sia nei
paesi di vecchia immigrazione, sia in quelli di più recente arrivo riaffermando una
sorta di destino ineludibile nelle traiettorie d’insediamento immigrato (Agusto-
ni, Alietti, 2009). L’evocazione del ghetto è sociologicamente discutibile, poi-
ché la segregazione spaziale è sicuramente un fattore importante ma non suffi-
ciente a determinarlo (Wacquant, 2004); inoltre se compariamo i livelli di se-
gregazione etnica nella maggiori città europee con quelle nordamericane, emer-
gono delle sostanziali diversità. Numerosi studi comparativi, pur confermando
una relativa concentrazione di autoctoni poveri e cittadini immigrati, rilevano
una varietà di origini nazionali dei residenti, e nel caso in cui prevalgano uno o

3
In riferimento agli aspetti positivi della segregazione residenziale vi sono da segnalare le reti di
sostegno intra-etnico, la presenza di ethnic business e di istituzioni etniche che supportano i pro-
cessi d’interazione positiva con la società più ampia, vedi van Kempen, Özüekren, 1998.

28
due gruppi nazionali, il loro grado di segregazione risulta generalmente più bas-
so a quanto accade negli Stati Uniti (Musterd, 2005; Asselin et al., 2006).
Ciò nonostante, la connotazione di allarme sociale che si è affermata, ampli-
ficatasi anche al susseguirsi di rivolte nelle periferie inglesi e francesi4 da parte
dei giovani immigrati di seconda e terza generazione, e l’assunto, non sufficien-
temente problematizzato, del rapporto tra segregazione e fallimento dell’inte-
grazione (Musterd, 2003; Phillips, Harrison, 2010; Bolt, Özüekren, Phillips,
2010) hanno promosso interventi pubblici orientati alla de-segregazione non so-
lo mediante estesi progetti integrati di riqualificazione urbana, ma anche con
strumenti di tipo preventivo: ad esempio, da questa valutazione si è aperta
un’articolata e ampia discussione sulle politiche di mixité sociale mediante lo
strumento delle quote avanzate in alcuni contesti, al fine di impedire la “pro-
blematica” concentrazione spaziale delle famiglie straniere (Burkner, 2004; Si-
mon, 2003; Lagrange, Oberti, 2006; Bolt, Phillips, van Kempen, 2010). Su que-
sto dibattito torneremo più avanti data l’importanza di questo orientamento di
governo realizzato in diversi paesi fin dalla metà degli anni Settanta, eviden-
ziandone gli aspetti più controversi.
Al contempo quale conseguenza della crisi fiscale dello Stato e dell’evolu-
zione delle forme di produzione post-industriale, si rileva come all’interno delle
politiche abitative nella maggioranza dei paesi europei vi sia un processo di
convergenza verso un sistema neo-liberale caratterizzato dal ritiro dello stato
nell’offerta di social housing, dall’incoraggiamento alla proprietà, dal venir me-
no dell’imposizione di regole e di limiti nel settore locativo privato, dalla priva-
tizzazione dello stock abitativo pubblico, e dal progressivo cambiamento
dall’offerta (costruzione di alloggi) alla domanda (sostegno alla persona) nelle
strategie di policy. (European Parliament, 1997; Edgar, Doherty, Meert, 2002;
Arbaci, 2007; Whitehead, Scanlon, 2008). Ciò comporta una riduzione pesante
nell’accesso degli immigrati al bene casa, poiché generalmente non posseggono
sufficienti risorse per poter accedere al mercato privato, rafforzando una possi-
bile dinamica di marginalità e segregazione socio-spaziale. In alcuni paesi, so-
prattutto quelli dell’area meridionale, l’evoluzione delle condizioni di affitto,
privato e sociale, in termini di minore offerta complessiva e di maggiori costi
per la locazione aggrava sensibilmente le chance di ottenere un alloggio decen-
te5. Questo scenario è stato sottoposto a critiche poiché non terrebbe conto di
alcune peculiarità contestuali legate al mantenimento di un’ampia offerta socia-
le che controbilancerebbe questi indirizzi comuni. In un sistema di affitto duali-
sta, prevalente in paesi come l’Italia e in generale il Sud dell’Europa, lo Stato
controlla e residualizza il settore sociale per proteggere il mercato privato dalla

4
Vedi Lagrange, Oberti, 2006 e Amin, 2003.
5
Il caso italiano è emblematico di un mercato privato asfittico e di una liberalizzazione degli af-
fitti (vedi Ponzo, 2009c). Rinviamo l’analisi su questo punto al capitolo 3 del volume.

29
competizione, incanalando la scelta verso la proprietà; mentre in quello unitario
maggiormente presente nel Nord Europa, i due settori, sociale e privato, sono
integrati in un unico mercato per cui aumenta la competizione e la sovrapposi-
zione tra il profit e il no-profit, offrendo in tal modo una soddisfacente alternati-
va all’acquisto del bene immobile (Arbaci, 2007: 416; Arbaci, Malheiros, 2010;
Kemeny, Lowe, 1998; Kemeny 1995). L’intervento della regolazione pubblica,
in questo caso, è stato decisivo nel perseguire la finalità di minimizzare le diffe-
renze relative ai costi di locazione, alla qualità abitativa e all’attrattività sociale
tra il settore sociale e privato del mercato dell’affitto (Whitehead, Scanlon,
2008). La complementarietà del comparto d’affitto sociale nel sistema unitario
fornirebbe le condizioni per un accesso meno polarizzato al mercato abitativo, e
renderebbe conto di livelli più bassi nella differenziazione di socio-tenure mix
(mix di gruppi sociali e di titoli di godimento dell’alloggio) e di segregazione resi-
denziale etnica (Arbaci, 2007: 408).
Uno studio condotto sulle aree metropolitane di Amsterdam e Bruxelles con-
fermerebbe le affermazioni precedenti. Nel primo caso l’ampia disponibilità di
edilizia pubblica e una politica di sostegno all’affitto consentono una maggiore
dispersione territoriale dei gruppi immigrati, viceversa nel secondo la scarsità di
alloggi sociali costringe a rivolgersi al privato con la conseguenza di poter con-
tare quasi unicamente nell’offerta abitativa residuale in zone già etnicamente
connotate (Kesteloot, Cortie, 1998).
Tuttavia, possiamo rilevare che questa tendenza a privatizzare il settore abi-
tativo pubblico, resa celebre dal motto thatcheriano right to buy, si è affermata,
o si sta attivando, in alcuni paesi europei, anche in quelli culturalmente meno
sensibili a questa visione, influenzando in modo sostanziale la struttura del mer-
cato dell’affitto (Priemus, Dieleman, 2002; Edgar, 2004)6. La conseguente resi-
dualità del comparto pubblico e sociale implica necessariamente una più alta
concentrazione di ceti a basso reddito, o in condizioni di marginalità socio-
economica, al suo interno. Come rilevato da Harloe nella sua ampia analisi del
public housing in Gran Bretagna, Germania, Francia, Olanda, Danimarca e Stati
Uniti, negli anni ’80 e ’90 tale modello residuale si è indirizzato soprattutto ver-
so la cosiddetta “nuova povertà urbana” costituita in prevalenza da soggetti fuo-
ri dal mercato del lavoro ed esclusi dall’offerta privata, quindi esso diviene una
forma più o meno stigmatizzante di acceso al bene casa che viene incontro ai gruppi
politicamente, economicamente e socialmente marginali (Harloe, 1995: 523)
A queste policy constraints, sulle quali torneremo approfonditamente, si ag-
giunge, come anticipato, l’elemento di una persistente discriminazione nelle
pratiche interne al mercato privato dell’affitto. L’impatto dei pregiudizi negativi

6
Come è stato sottolineato la politica del Right to buy promossa in Gran Bretagna nel 1980 illu-
stra chiaramente l’ideologico “gioco a somma zero tra proprietà della casa e offerta sociale: più
proprietari ci sono, meno alloggi pubblici ci saranno” (Priemus, Dieleman, 2002: 193).

30
da parte dei proprietari di casa autoctoni è stato evidenziato da una serie di ri-
cerche empiriche a livello europeo e nazionale.
Nel nostro paese, solo per citare un esempio tra i molti disponibili, una ricer-
ca effettuata a Torino dal Comitato Oltre il razzismo ha evidenziato un’ampia
percentuale, pari al 71%, di opinioni contrarie espresse dai proprietari ad affitta-
re a stranieri, soprattutto se questi sono di origine marocchina e/o nigeriana, op-
pure in coppia con figli; la stessa dimensione discriminatoria è emersa dallo
studio condotto dall’associazione Piccoli proprietari di case per cui il 57% del
campione si è dichiarato contrario a dare in affitto a persone straniere (Ponzo,
2009b: 162). Nel caso inverso di disponibilità all’affitto, l’effetto discriminate si
rivela nella richiesta di canoni superiori a quelli pagati dagli italiani a parità di
abitazione (Eurispes, 2007, cit. in Ponzo, 2009b). Questa prassi, per cui l’im-
migrato in genere paga di più per un appartamento con simile o minore qualità
in confronto agli autoctoni, definita come “sovrattassa discriminatoria” (discri-
minatory surcharges), è riscontrabile nella maggioranza delle aree urbane euro-
pee (Eumc, 2005 Munch, 2009). Non vi sono strumenti per determinare con
precisione l’impatto di questo tipo di azione discriminate, anche se vi è da sotto-
lineare come la maggioranza dei paesi europei abbia deliberato leggi contro la
discriminazione alloggiativa. Nello specifico, vale ricordare l’introduzione in
Francia nel 2002 dell’eguaglianza di trattamento nell’accesso alla casa, per cui
si stabilisce nel caso di disputa che la persona vittima del rifiuto possa denun-
ciare il proprietario dimostrando la natura discriminatoria anche in base alla sola
presunzione, mentre spetta al proprietario esibire le prove e le giustificazioni
della sua decisione (Edgar, 2004).
La restrizione delle opportunità di affitto che si viene a determinare induce,
non soltanto all’aumento dei canoni di locazione, ma inevitabilmente al sovraf-
follamento abitativo e, come detto, all’eventuale concentrazione nelle zone me-
no attrattive e periferiche della città. Senza dubbio, pur nella persistenza di una
situazione di alta criticità, vi è da rilevare che la progressiva stabilizzazione e
familiarizzazione dei progetti migratori, grazie ai ricongiungimenti, ha spinto
verso soluzioni più opportune, tra cui il contributo determinante del progressivo
inserimento nell’edilizia residenziale pubblica punto di arrivo di tortuose carrie-
re abitative. Per di più, in linea con numerose indagini, sono individuabili alcu-
ne differenze tra la varietà dei gruppi nazionali immigrati per quanto concerne
le strategie residenziali e la qualità media degli alloggi (Musterd, van Kempen,
2009). Gli stessi quartieri d’insediamento migrante non sempre sono collocabili
entro una rappresentazione ghettizzante e/o segregativa nelle diverse realtà me-
tropolitane europee (van Kempen, Özüekren, 1998). Potremmo parlare, in linea
con quanto emerge dal contesto italiano, di una polarizzazione tra il migliora-
mento delle componenti stabili/familizzate dell’immigrazione versus la preca-
rietà per quelle più deboli più esposte a condizioni di estremo disagio abitativo,
tra cui una parte importante di homeless (Tosi, 2010: 360). In questo caso è in-
dividuabile una “gerarchia della vulnerabilità” che si viene a formare secondo la

31
legalità o meno dello status di soggiorno, le caratteristiche degli immigrati stessi
e i mutamenti nei mercati della casa (Edgar, 2004). Questa gerarchia presuppo-
ne una responsabilità pubblica nel differenziare i tipi d’intervento (es. prima o
seconda accoglienza) atti a favorire una progressiva inclusione abitativa, for-
nendo risorse e strumenti adeguati al grado d’integrazione o inserimento nelle
società locali.
A partire da queste note introduttive, nei prossimi paragrafi entreremo nel
merito delle questioni avanzate cercando di indicare dei possibili indirizzi di po-
licy che si sono sviluppati nei decenni in Europa rispetto ai distinti temi emer-
genti (accesso all’abitazione e segregazione). L’intento è quello di mostrare se-
condo una logica comparativa la capacità di governare le contraddizioni tra
principi di eguaglianza delle opportunità e di promozione delle condizioni per
l’accesso alla casa, previste dalle direttive dell’Unione europea, e pratiche
d’intervento che non sempre risultano in sintonia con essi o abbastanza efficaci
nel conseguire gli obiettivi previsti. Inoltre, nel tener conto della diversa natura
e del differente peso delle dinamiche pubbliche di contrasto all’esclusione abita-
tiva e ai processi di segregazione socio-spaziale, ne saranno messi in luce i ca-
ratteri d’innovazione in confronto ai tradizionali strumenti utilizzati in passato.
Ovviamente, l’analisi non copre l’intero ambito delle politiche e degli stru-
menti d’intervento, poiché ciò richiederebbe un’operazione di ricostruzione ana-
litica e di approfondimento che esula dagli intenti del capitolo, che vuole essere
uno sguardo sintetico e focalizzato sugli aspetti più rilevanti della problematica
in questione.

1.1 Il quadro delle politiche urbane e abitative in Europa

Nell’introduzione si è posta la questione della differenziazione delle politiche


secondo una serie di variabili strutturali path dependency che ne modificano gli
orientamenti, le risorse pubbliche o private attivate, gli strumenti adottati e gli
esiti conseguiti. Inoltre, a partire dalla fine degli anni ’80, la responsabilità di
implementare politiche d’integrazione nel settore abitativo, spesso con un ri-
marchevole grado di discrezionalità, si è progressivamente spostata alle autorità
regionali e locali anche in sistemi politici non caratterizzati storicamente da alti
livelli di decentralizzazione amministrativa; questo “localismo” crea una diffe-
renziazione tra Comuni, Province e Regioni rispetto ai criteri d’inclusione/e-
sclusione all’accesso dei benefici previsti per la casa e/o per l’accesso al patri-
monio di edilizia pubblica (Musterd, Murie, 2006; Clip, 2007; Eumc, 2005;
Blanc, 2010). Tutto ciò rende complicato una lettura organica e, soprattutto, si
riscontra la difficoltà di rintracciare dei modelli chiari e definiti nelle strategie
perseguite.
Tuttavia, la crescente problematicità della questione casa, delle condizioni
abitative e dei rischi di segregazione sociale e spaziale esperita in eguale misura

32
nelle città europee ha spinto verso una sempre più attenta analisi in chiave com-
parativa della diverse situazioni e delle risposte pubbliche connesse alla solu-
zione del disagio abitativo, sia da parte di istituzioni e organizzazioni sovrana-
zionali, sia da parte degli studiosi (European Parliament, 1997; Musterd, Osten-
dorf, 1998; Edgar, 2004; Eumc, 2005; Clip, 2007; Feantsa, 2008; Arbaci, 2007;
Bolt, Phillips, van Kempen, 2010).
Ciò permette di utilizzare un materiale assai articolato nelle riflessioni e ne-
gli spunti di discussione al fine di evidenziare, dentro tale molteplicità, le ragio-
ni principali che hanno sostenuto una politica piuttosto che un’altra.
In tal senso, i dati empirici raccolti in venti città europee sulla questione abi-
tativa mostrano con particolare chiarezza quanto le situazioni alle quali dovreb-
bero indirizzarsi le politiche e le stesse politiche locali attivate siano assai diffe-
renti tra di loro (Clip, 2007). I caratteri distintivi di tale ampiezza dei casi, se-
condo l’indagine svolta, sono ascrivibili a due fattori principali che raggruppano
al loro interno una serie importante di fattori, in parte già segnalati precedente-
mente:
– il contesto istituzionale, nei termini sia della configurazione del mercato
abitativo locale, il quale differisce per anzianità degli edifici, grado di pro-
prietà, localizzazione e qualità, ma anche nel grado di scarsità del bene casa
e di competizione che ne consegue; sia degli strumenti disponibili ai policy
makers per la costruzione, allocazione e miglioramento delle abitazioni, col-
legabili a livello generale alle caratteristiche strutturali del mercato, alle
norme nazionali previste per gli interventi e, infine, per le scelte strategiche
condotte a livello locale;
– la difformità delle caratteristiche delle popolazioni migranti (demografiche,
socio-economiche, linguistiche, culturali e religiose): tali diversità possono
avere dirette conseguenze per la questione abitativa, tra le quali la minore o
maggiore capacità di adeguarsi al sistema alloggiativo esistente e le even-
tuali dinamiche di coabitazione e di coesione sociale nelle aree residenziali
dove queste risiedono (Clip, 2007).
In relazione all’orientamento dominante nel mercato della casa, a livello genera-
le, lo spettro degli approcci perseguiti può variare tra i due poli estremi della
posizione neoliberale nel quale prevale una logica di mercato e uno più radicato
nella struttura di welfare e quindi con un apporto maggiore dell’intervento pub-
blico7.
La richiamata convergenza verso la liberalizzazione rende labili i confini di
questi modelli idealtipici, ampliando la zona grigia della coesistenza di entrambi
nella configurazione delle politiche. Ciononostante, se si osservano i livelli e le
forme d’intervento in materia di edilizia abitativa nell’Unione europea relativi al
1997, in alcuni paesi come l’Olanda, la Svezia e la Gran Bretagna, si registra la

7
Su questa discussione vedi il capitolo 3 dedicato ai casi studio europei.

33
più estesa offerta di alloggi a canone sociale e l’intervento statale è ragguarde-
vole con una spesa di oltre il 3% del Pil. Mentre in altri paesi, quali Francia,
Germania e Danimarca, il movimento verso la privatizzazione risulta contenuto,
per cui vi è ancora una estesa offerta di affitto privato e l’ammontare dell’inter-
vento pubblico è compreso tra l’1% e il 2%. L’Italia, insieme a Belgio, Irlanda,
Spagna, Portogallo e Lussemburgo, al contrario rappresenta l’esempio di una
predominanza della proprietà privata con un settore di alloggi a canone sociale
relativamente ridotto e dove la spesa governativa è modesta, uguale o minore
all’1% (European Parliament, 1997). Da una più recente rilevazione sulla quan-
tità disponibile di social housing8, nei singoli paesi si conferma il dato della si-
gnificativa disparità tra essi, la quale permette anche in questo caso di identifi-
care tre distinti gruppi (Feantsa, 2008):
1) i paesi con una quota importante di alloggi sociali pari al 20% dello stock
complessivo, in particolare Danimarca, Gran Bretagna, Francia, Austria;
l’Olanda rappresenta all’interno di questo raggruppamento un’eccezione po-
sitiva con una percentuale di offerta pubblica che arriva al 35%;
2) i paesi, o le regioni, con una quota moderata che va dal 5% al 10% rappre-
sentati dal Belgio, Irlanda e Catalogna;
3) i paesi con un limitato stock sociale, meno del 5%, in cui sono rinvenibili
l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Lussemburgo.
Nei contesti europei con livelli alti di possibilità alloggiativa nel parco pubblico
e sociale, le famiglie immigrate rappresentano un parte importante degli asse-
gnatari; in talune situazioni, come nel caso della Gran Bretagna, le percentuali
arrivano fino al 50% per gruppi specifici di migranti provenienti dall’area afri-
cana e caraibica, rispetto al 20% degli autoctoni.
La stessa configurazione la ritroviamo nelle aree metropolitane francesi (pari
al 30%) e del Nord Europa: in Olanda la percentuale è del 51% di stranieri
(immigrati e soggetti appartenenti alle minoranze etniche), in Danimarca si rag-
giunge il 60% (Tab. 2). Di conseguenza l’estensione dell’offerta del patrimonio
pubblico è stato, ed è tuttora, un fattore oltremodo fondamentale per rispondere
alla domanda di case delle popolazioni straniere, soprattutto se consideriamo
quale diffuso criterio di eligibilità per l’accesso, formale o de facto, la condizio-
ne reddituale. A riguardo, è utile ricordare la specificità di alcune normative le
quali limitano le possibilità di richiedere l’alloggio pubblico, ad esempio
l’introduzione della residenza per un certo numero di anni nel comune o nella
regione (vedi il caso lombardo), oppure la selezione delle domande per quote al

8
Sebbene non vi sia un chiaro e comune accordo in Europa sul concetto di social housing, pos-
siamo trovare una definizione secondo due criteri essenziali: “la fornitura di alloggi è regolata in
larga misura dall’autorità pubblica e in cui le procedure di allocazione del bene non sono di mer-
cato” (Clip, 2007: 57). Un’altra definizione evidenzia tre criteri: l’abitazione è sovvenzionata in
forme diverse dallo Stato, vi è l’applicazione di un tetto all’affitto e l’alloggio è allocato in accor-
do a determinati criteri di priorità, vedi Feantsa, 2008.

34
fine di assicurare un certo equilibrio tra residenti stranieri e autoctoni (vedi il
caso francese).

Tab. 1 - Titolarità dell’alloggio in alcuni paesi europei


Proprietà Affitto privato Affitto sociale N. di unità sociali
V.% V.% V.% V.a.
Olanda 54 11 35 2.400.000
Austria 55 20 25 800.000
Danimarca 52 17 21 530.000
Svezia *59 21 20 780.000
Gran Bretagna 70 11 18 3.983.000
Francia** 56 20 17 4.230.000
Irlanda 80 11 8 124.000
Germania ***46 49 6 1.800.000
Ungheria 92 4 4 167.000
*Svezia: la proprietà include le cooperative.
**Francia: non è incluso il 6,1% di “altro”.
***Germania: la proprietà include il co-housing/Genossenschaften.
Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

Tab. 2 - Quota di immigrati/minoranze etniche nel settore sociale. Valori percentuali


Immigrati/minoranze etniche che Residenti nel settore sociale che sono di
abitano nel settore sociale origine immigrata/minoranza etnica
Austria *20 6
Danimarca 60 20
Gran Bretagna 28 10
Francia 30 Il doppio della popolazione autoctona
Germania Variabile tra città e regioni % alta a Berlino e Monaco
Olanda 51 34
Svezia Variabile tra città e regioni >30 nelle aree metropolitane
*Nella capitale Vienna si raggiunge il 33%. Fino al 2006 solo i cittadini austriaci avevano accesso
all’edilizia pubblica.
Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

Queste cifre rilevano una effettiva risposta alloggiativa in termini di affordabili-


ty e una situazione generalmente migliore in confronto a contesti deficitari in
questa risorsa. Tuttavia, sono da segnalare taluni elementi che allargano lo spet-
tro delle problematiche alloggiative delle popolazioni straniere. Spesso i quar-
tieri di edilizia pubblica in cui s’insediano le famiglie immigrate sono tra quelli
meno dotati di servizi, con un più alto grado di fatiscenza degli edifici, più lon-
tani dai centri urbani e, in genere, le condizioni risultano non adeguate ai biso-
gni espressi. Alcuni studi effettuati in Francia condotti all’interno del comparto
pubblico sono a proposito significativi: il 45% dei nuclei di origine turca e il
50% di quelli di origine marocchina e algerina sono considerati mal logé rispet-
to all’11% dell’intera popolazione francese (Edgar, 2004).
Ritornando a riflettere sulle politiche in senso stretto, da queste notazioni so-
no evidenti i caratteri differenziati nella strutturazione del welfare abitativo che
garantiscono, o meno, delle alternative nella strategia complessiva per far fronte

35
alla domanda di casa per i gruppi più svantaggiati e, nello specifico, delle fami-
glie immigrate.
Dal punto di vista dello sviluppo e dell’efficacia delle misure adottate per
favorire l’accesso a una abitazione decente e a basso costo per gli immigrati,
Edgar individua due fattori cardinali9:
– la capacità istituzionale dello Stato, del mercato e della società civile di va-
lutare i bisogni per l’attuazione di politiche alloggiative in questo ambito
d’intervento e il grado con cui s’implementano;
– la capacità dello Stato di fornire alloggi sia direttamente, attraverso
l’allocazione pubblica e sociale, sia indirettamente mediante il sostegno agli
attori della società civile (associazioni di costruttori, cooperative), e di avere
il potere di regolare il mercato privato, nello specifico dei proprietari di case
(Edgar, 2004: 44).
A partire da questo criterio di differenziazione, l’analisi comparativa identifica,
in linea con quanto emerso finora, un gruppo di paesi con un forte intervento
statale nella regolazione del mercato e nella fornitura di alloggi sociali, Francia,
Gran Bretagna e Svezia, e un altro con un minore impatto dello stato centrale,
una vasta area di proprietà e una ridotta offerta di edilizia pubblica costituito da
Spagna e Belgio L’aspetto degno di attenzione che amplia la riflessione riguar-
da le distinte azioni promosse all’interno dei due raggruppamenti10. La situazio-
ne francese si connota, in particolare nell’ultimo decennio, in un programma di
estensione dell’offerta pubblica, esplicitato dalla legge Solidarité et Renouvel-
lement Urbain (Sru) del 2000 la quale obbliga le autorità locali dei comuni con
più di 1.500 abitanti nella regione di Parigi (Ile de France), e superiore ai 3.500
nelle altre regioni localizzate in aree urbane con più di 50mila abitanti, a garan-
tire una quota di housing sociale pari al 20% dello stock complessivo prima del
2020 (Feantsa, 2008; Blanc, 2010). Per quei Comuni che non si adeguano a tale
prescrizione di legge è prevista una sanzione11. Dalle valutazioni condotte, però,
emerge che, sovente, le autorità locali preferiscono pagare piuttosto che rispetta-
re il dettato legislativo (Edgar, 2004; Feantsa, 2008).
In questo senso, come è stato richiamato può agire in queste aree una sorta di
sindrome nimby contro il virtuale arrivo di ceti a basso reddito, tra cui famiglie
immigrate (Whitehead, Scanlon, 2008). Inoltre, si è affermato un ruolo impor-
tante delle organizzazioni no-profit, le quali grazie al contributo statale hanno

9
La ricerca in questione riguarda lo studio sulle misure adottate in materia di accesso alla casa
delle minoranze etniche e immigrati regolari in quattro paesi dell’Europa a 15 (Belgio, Francia,
Gran Bretagna e Svezia) e in tre nuovi paesi aderenti (Slovenia, Ungheria e Romania). La nostra
discussione, per limiti di spazio ed economia del discorso, riguarderà esclusivamente i paesi rap-
presentanti della vecchia Europa a 15.
10
Le successive note fanno riferimento alle riflessioni condotte da Edgar (2004) con alcuni appro-
fondimenti estratti da ricerche comparative più recenti.
11
Per ulteriori analisi vedi il capitolo successivo.

36
avviato progetti di gestione diretta di alloggi, di accompagnamento e di media-
zione per l’accesso alla casa. Nel caso britannico, le politiche tendono a focaliz-
zarsi sul ruolo decisivo dei social landlords (autorità pubbliche e associazioni di
housing) e nel garantire che i bisogni abitativi delle minoranze etniche abbiano
effettivo riscontro nel settore dell’affitto sociale. L’idea di fondo che caratteriz-
za tale impostazione è la creazione di agenzie di controllo e di monitoraggio,
sostenute da fondi pubblici, sulle politiche allocative e su possibili discrimina-
zioni nell’accesso a livello locale. Esempi quali, il Cre (Code for Practice in
Rented Housing), o il National Housing Inspection rappresentano modalità si-
gnificative su questo piano di azione. Un punto fondamentale è il coinvolgimen-
to e il contributo delle associazioni a base etnica, non soltanto come co-attori
delegati al controllo contro gli atti discriminatori in materia, ma anche nella co-
struzione e ristrutturazione di alloggi sociali, le quali rappresentano un esempio
importante nella logica di fornire risorse e strumenti adeguati alle specifiche ne-
cessità delle minoranze immigrate12. L’apporto della società civile è risultato
quindi decisivo nel momento in cui si è indebolito l’intervento pubblico locale,
in seguito allo smantellamento del welfare abitativo avviatosi dalle politiche dei
governi conservatori. Dai dati disponibili relativi al periodo 1980-1995, si assi-
ste, infatti, a una decisiva contrazione della disponibilità abitativa fornita dalle
autorità pubbliche che diminuisce sensibilmente dal 31% al 18% (European Par-
liament, 1997). Da evidenziare, in sintonia con il contesto francese, l’attivazione
del meccanismo delle quote di affordable housing, per cui il 20% e il 50% delle
nuove, o riqualificate, aree urbane dev’essere riservato all’offerta sociale (Whi-
tehead, Scanlon, 2007).
La Spagna e il Belgio presentano complessivamente una strutturale debolez-
za nelle politiche indirizzate a migliorare l’accesso alla casa per immigrati e mi-
noranze etniche, tenuto conto della scelta di agevolare la proprietà a scapito del
settore sociale e pubblico. Per fare fronte a una costante pressione nel mercato
abitativo da parte dei gruppi svantaggiati, si è attivata in entrambi i casi una for-
te connessione con il sistema del privato sociale locale al fine di estendere le
possibilità di conseguire un alloggio decente. Nel contesto belga si sono intro-
dotte le cosiddette Agenzie di affitto sociale le quali intervengono nella transa-
zione tra il privato e il potenziale locatore, garantendo all’uno il pagamento
dell’affitto e il mantenimento delle buone condizioni dell’alloggio, all’altro un
costo di locazione abbordabile e una ragionevole stabilità nel tempo del contrat-
to d’affitto13. Negli ultimi anni, come segnalato dal rapporto Feantsa (2008), vi

12
Nella strutturazione di queste agenzie su base etnica gioca un ruolo decisivo l’impostazione
anglosassone del modello d’integrazione pluralistico rispetto al modello d’assimilazione francese.
Differenza sostanziata dal fatto che negli indirizzi di politica sociale in Francia è scomparso il ri-
ferimento all’etnia.
13
Sulle nascita di queste agenzie, sulle loro modalità operative e sulla loro efficacia nel medio-
lungo termine nel contrastare il disagio abitativo vedi De Decker, 2009.

37
è stato in Belgio uno sforzo per incrementare l’offerta di housing sociale, ma la
quota prevista di 200/300 alloggi all’anno è fortemente inferiore all’attuale do-
manda in continua crescita. Lo stesso meccanismo negoziale lo ritroviamo nel
caso spagnolo in cui l’associazionismo no-profit funge da mediatore nella rela-
zione tra il proprietario di casa e l’affittuario immigrato. Una questione a parte,
che si riscontra in alcune aree metropolitane spagnole, riguarda il fenomeno del
chabolismo, termine con il quale si definisce l’occupazione di alloggi precari da
parte di immigrati e dalla più consistente minoranza etnica rappresentata dai
rom. L’intervento di demolizione e di ri-allocazione, l’uso di residenze tempo-
ranee e la successiva acquisizione di alloggi rappresentano le principali azioni
concertate tra autorità pubbliche e il mondo associativo per assicurare una mi-
gliore condizione abitativa. Anche per questi due esempi, sebbene per ragioni
opposte alla Gran Bretagna e alla Francia, vi è stato un progressivo rafforza-
mento del ruolo del terzo settore. Questa tendenza alla delega alle strutture or-
ganizzative collegabili a vario titolo al no-profit è esplicitata a livello europeo
dal progressivo declino del coinvolgimento delle autorità locali nella gestione e
controllo diretto del patrimonio pubblico. Dai dati disponibili, il range del di-
verso peso delle autorità pubbliche e delle associazioni di housing è considere-
vole: si passa dal caso svedese in cui il 100% dello stock sociale è ancora in
mano alle amministrazioni locali, al caso inglese dove vi è un sostanziale equi-
librio, per arrivare a quello olandese dove, viceversa, la quasi totalità è a carico
delle associazioni (Whitehead, Scanlon, 2007: 11-12). In taluni casi, comunque
la possibile innovazione del rapporto sinergico tra pubblico e privato sociale ri-
mane ancorato a una ridotta scala d’intervento in confronto alle necessità.
L’esempio italiano su questo aspetto racchiude parte delle critiche rivolte al-
le citate progettualità14: dall’analisi delle esperienze promosse in Italia, la porta-
ta degli interventi innovativi tramite il coinvolgimento del terzo settore, pur
avendo dato un contributo significativo alla soluzione abitativa degli immigrati,
appare limitata dallo scarso coordinamento, dalla loro frammentazione e varia-
bilità regionale, dall’esiguità e incertezza delle risorse a disposizione (Tosi,
2010: 356). Oltre a ciò, vi è da segnalare la criticità relativa all’assenza di un
quadro normativo di riferimento, per cui tali iniziative non sono riuscite a tra-
sformarsi in politiche strutturate e a trovare una relazione sistematica con le po-
litiche pubbliche (Tosi, 2010; Ponzo, 2009c).
Un’altra dimensione assai importante dei mutamenti occorsi riguarda il so-
stegno ai gruppi svantaggiati nel mercato della casa per mezzo di contributi alle
spese di locazione nei termini di sostegno alla domanda (Door, Faist, 1997;
Feantsa, 2008). Questo tipo di intervento sussidiario è presente da tempo nei
principali contesti europei, tra cui Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda e

14
Vedi Agustoni, 2007; per maggiori approfondimenti si rimanda al capitolo 3 del volume.

38
Italia15. Pur riconoscendone l’importanza in determinate situazioni, tale stru-
mento non sembra essere così efficace nel contribuire a maggiori opportunità
alloggiative per i migranti. Si sottolinea da un lato, l’eventualità che la compo-
nente immigrata non sia sufficientemente a conoscenza di questa possibile op-
zione, dall’altro che la possibile paura di compromettere il rinnovo, o l’esten-
sione, del permesso di soggiorno induca a non fare domanda (Door, Faist,
1997). Oltre a questa dimensione propriamente collegabile allo status di “vita
sospesa” del migrante, vi sono altre ragioni per le quali s’insinuano dei dubbi
sulla sua validità. Un primo rilievo riguarda il fatto che l’ottenimento dell’aiuto
possa coprire solo in minima parte il costo dell’affitto; un secondo, più decisivo,
è che in ambito di offerta limitata il contributo serva al sostentamento dei prezzi
di locazione, e ove questi crescano inevitabilmente si dovrà aumentare la quota
destinata ai locatari per mantenere l’alloggio, correndo il serio rischio di accre-
scere i finanziamenti senza fornire degli extra benefici a chi ha bisogno (Fean-
tsa, 2008).
Queste obiezioni sono state formulate in riferimento al Fondo sociale per il
sostegno all’accesso all’affitto promosso in Italia. Com’è stato rilevato, tale
norma è apparsa, fin dall’inizio della sua applicazione non in grado di soddisfa-
re l’elevata domanda di alloggi sociali, perché per ottenere questo risultato do-
vrebbero essere impegnate contributi ingenti con il rischio che si trasformi pre-
valentemente in un trasferimento di risorse finanziarie alla proprietà immobilia-
re senza favorire lo sviluppo del mercato reale dell’affitto (Cnel, 2000 cit. in
Tosi, 2001)16.
Da queste riflessioni che hanno inquadrato alcune tra le questioni più impor-
tanti nella conformazione delle politiche abitative, è opportuna una sorta di ulte-
riore sintesi che ridefinisca i punti salienti della discussione fin qui prodotta. È
chiaro che il tema della casa, come ci ha ricordato Pierre Bourdieu, è il prodotto
di una doppia costruzione sociale alla cui determinazione lo Stato contribuisce
in modo cruciale modellando dal lato prettamente economico l’universo dei co-
struttori e dei venditori attraverso le leve fiscali e dei finanziamenti e le politi-
che di regolazione del mercato, e, dal lato propriamente sociale, formando le
propensioni e le capacità dei consumatori (incluso la tendenza all’affitto o
all’acquisto) (Bourdieu, 2005, cit. in Wacquant, 2008).
I sistemi abitativi, conseguentemente, sono caratterizzati, e si differenziano
tra loro, sia in base alle specifiche disposizione e composizione della titolarità di
possesso della casa in accordo con il livello di trasferimenti universali (tasse e
sussidi per l’acquisto della casa, le dimensioni del settore di affitto sociale e

15
Nel caso olandese il sussidio è previsto anche nel settore sociale; vedi Bolt, 2009.
16
Per ulteriori approfondimenti vedi Agustoni, 2008.

39
quello dell’affitto privato), sia alle peculiari forme di approvvigionamento del
bene (promozione e produzione) (Arbaci, 2007)17.
Dall’impatto di questa strutturazione del mercato, nel suo complesso, sui
soggetti e sulle famiglie (immigrate e autoctone) prive di risorse adeguate per
assicurarsi l’accesso e la stabilità alloggiativa, scaturisce una diversa prospettiva
relativamente al contesto sotto osservazione. La condizione abitativa nell’area
del Sud Europa (Italia, Spagna, Portogallo e Grecia) appare esprimere un’eguale
criticità in riferimento all’insediamento e all’integrazione delle popolazioni
straniere, in quanto come abbiamo ampiamente riportato, i sistemi alloggiativi
vigenti nelle principali aree del Sud Europa incoraggiano primariamente l’ac-
quisto, tendono a ridurre l’impatto del settore sociale in un sistema di affitto
dualistico e sono incapaci di affrontare il tema dell’housing affordability e in-
clusione dei migranti (Arbaci, 2008: 590). La residualità del comparto pubblico
e dell’affitto privato a costi sostenibili divengono un orizzonte particolarmente
ristretto nella ricerca di una sistemazione adeguata e stabile e implicano la con-
vergenza della domanda a basso reddito, inclusi gran parte degli immigrati, ver-
so condizioni abitative disagiate.
L’apporto delle politiche di sostegno alla persona nelle loro varianti naziona-
li appaiono strutturalmente deboli per sopperire al deficit, altrettanto strutturale,
della costruzione e della fornitura di alloggi low-cost, sia da parte delle Ammi-
nistrazioni locali, sia del no-profit o della loro partnership.
Viceversa, nelle così designate società social-democratiche del Nord Europa,
Olanda, Svezia e Germania, l’azione dello Stato ha garantito il bilanciamento
tra le distinte titolarità (proprietà, affitto privato e sociale) e una forte integra-
zione tra il mercato locativo privato e sociale. La persistenza di un vasto settore
pubblico/sociale ha scoraggiato la corsa al rialzo degli affitti, incrementando
l’accessibilità all’intero mercato dell’affitto per tutte le categorie sociali (Arba-
ci, 2007). I contesti francese e inglese mostrano, come visto, elementi ibridi che
sono il risultato di un’evoluzione neoliberale del welfare nel corso del tempo,
che hanno incentivato, a diversi livelli, il percorso di privatizzazione di parte del
patrimonio pubblico, ma al contempo si è assistito a un deciso intervento dello
Stato per aumentare l’offerta sociale, per un verso, coinvolgendo il variegato
mondo delle housing association fornendogli aiuti finanziari e autonomia ge-
stionale, e dall’altro con iniziative di pressione volte a preservare una quota di
alloggi sociali all’interno dei programmi di sviluppo urbano.
Al di là delle tante considerazioni sull’efficacia delle politiche indirizzate a
sostenere l’offerta di social housing e aiutare con trasferimenti la domanda de-

17
Sulla produzione di alloggi sociali è importante analizzare anche l’offerta pubblica di suoli edi-
ficabili e la forza di negoziazione delle Amministrazioni con gli investitori privati nel garantire
quote di nuove costruzioni in affitto anche per i ceti meno abbienti. Dove prevale la proprietà è
più frequente una dimensione speculativa rispetto a contesti con un mercato della locazione più
esteso (Arbaci, 2007).

40
bole del mercato, dalle evidenze empiriche e dalle riflessioni avanzate in Europa
da centri e network di ricerca e dalle istituzioni sovranazionali si afferma la cen-
tralità della regolamentazione statale/pubblica. Gli esiti negativi delle politiche
neoliberiste mostrano con chiarezza che vi sono scorciatoie di mercato alla di-
namica di contrasto all’esclusione abitativa in termini di chance di accesso per
quei soggetti con limitate risorse economiche L’azione dello Stato e delle sue
declinazioni locali è ancora lo strumento centrale per favorire l’equità sociale e
promuovere una più giusta politica allocativa del bene casa, avviando una stra-
tegia di governance che possa estendere la capacità di intervento.

1.2 Politiche contro la segregazione: alla ricerca della mixité

Nei paragrafi precedenti si è ampiamente sottolineata la centralità della segrega-


zione socio-spaziale delle minoranze etniche e dei cittadini immigrati nelle aree
metropolitane europee e il suo intreccio con le politiche abitative.
Questa problematica ha assunto dimensioni rilevanti nel dibattito non soltan-
to accademico, come esemplificato dal panico morale diffusosi nell’opinione
pubblica attraverso le rappresentazioni mediatiche e il discorso politico sulla co-
stituzione del ghetto, al quale normalmente si associa il termine “etnico” dive-
nendo una sorta di equivalenza generalizzata dai caratteri stigmatizzanti. La
paura della ghettizzazione, come è stato sottolineato, è fondata sull’idea di una
successione di eventi “indesiderati” che potrebbero accadere: l’aumento della
segregazione spaziale comporta l’aumento della separazione di differenti classi
sociali e popolazioni etniche, e ciò svilupperà le condizioni per la formazione
dei ghetti da cui ne conseguirà la disintegrazione della società urbana (Fortuijn,
Musterd, Ostendorf, 1998).
L’argomento di fondo su cui si focalizza la narrazione sociologica sulla po-
tenzialità negativa della segregazione territoriale delle minoranze e delle popo-
lazioni migranti è la diminuzione delle chance di sfuggire dal circuito della po-
vertà, dell’esclusione e dell’isolamento collegabili a un deficit nella disponibili-
tà di risorse locali, di opportunità lavorative e di capitale sociale (Musterd, An-
dersson, 2005; Bolt, Phillips, van Kempen, 2010).
In altre parole, la principale preoccupazione espressa dal discorso politico-
amministrativo riguarda il fallimento dell’integrazione nella “società della mag-
gioranza” che al contempo rappresenterebbe la causa e l’effetto della concentra-
zione socio-etnica. La formazione di “società parallele” che non s’intersecano, è
divenuto una issue significativa anche nell’ambito della più ampie politiche sul-
la promozione della coesione sociale avanzate sia a livello nazionale, sia a livel-
lo sovranazionale (Phillips, Harrison, 2010).
La stessa Commissione europea, in un documento sulle linee di azione per lo
sviluppo urbano sostenibile, partendo da questi assunti di fondo sottolinea come

41
“una speciale sfida è quella di prevenire la segregazione spaziale e le concentra-
zioni di esclusione nelle città” (cit. in Musterd, 2003: 625).
Il tema tocca in modo precipuo anche la questione delle seconde generazio-
ni, per le quali abitare in queste zone “a rischio” può precludere percorsi di ac-
culturazione e assimilazione, in particolare a causa della probabile segregazione
scolastica e dei prevalenti modelli culturali devianti che ridurrebbero le future
opportunità formative e professionali (Bolt, Burgers, van Kempen, 1998; Munch,
2009).
A questa configurazione d’intrappolamento nel circuito della deprivazione,
che produce nel tempo un negativo “effetto quartiere” (neighbourhood effect), si
aggiunge il processo di stigmatizzazione che può contribuire a creare il cosid-
detto address effect per cui vivere in determinati luoghi può significare per una
parte dei residenti soffrire di un’intangibile ma pervasiva forma di discrimina-
zione, ad esempio avere maggiori ostacoli nell’ottenere un posto di lavoro
(Alietti, 1999; Sampson, Morenoff, Gannon-Rowley, 2002).
La problematica della correlazione tra dinamica segregativa e deficit
d’integrazione sociale, economica e culturale apre un ventaglio di discussioni e
riflessioni supportate da una molteplicità di studi che da un lato sostengono tale
rapporto diretto, dall’altro ne mettono in discussione la validità (van Kempen,
Özüekren, 1998; Bolt, Burgers, van Kempen, 1998; Musterd, Andersson, 2005;
Musterd, 2003; 2005; Bolt, Özüekren, Phillips, 2010). In queste differenti posi-
zioni gioca una variabilità di fattori, tra cui la stessa traduzione empirica dei
concetti di segregazione e integrazione che può allargare o restringere la dimen-
sione dei fenomeni in ottica comparativa18. Bisogna stabilire, inoltre, attenta-
mente le proprietà contestuali che prefigurano situazioni e condizioni molto dif-
ferenziate tra esse. Si è accennato nelle note introduttive quanto gli indici di se-
gregazione esistente nelle grandi città nordamericane siano nettamente più alti
di quelli generalmente rilevabili nelle metropoli europee, dato che delinea una
situazione di iper-segregazione o iper-ghetto soprattutto per la minoranza afro-
americana (Wilson, 1987; Massey, Denton, 1993; Wacquant, 2006). Nel conte-
sto europeo un più esteso intervento di welfare e un maggiore investimento nel-
le azioni contro la discriminazione su base etnica rappresentano indubbiamente
aspetti importanti per mitigare, almeno in parte, il peso della segregazione terri-
toriale e i suoi eventuali effetti sull’integrazione (Wacquant, 2006; Galster, 2007).
Altresì, relativamente alla situazione europea, è opportuno considerare l’evi-
denza che a parità di livello di segregazione si riscontra un tasso diverso nel
grado d’integrazione per ciascuno dei gruppi di immigrati analizzati (Musterd,

18
La stessa categorizzazione di immigrato nelle statistiche ufficiali cambia secondo il paese di
riferimento, e può quindi influenzare in maniera decisiva il calcolo dell’indice di segregazione
(vedi Malherois, 2002; Musterd, 2003). Tale indice misura la differenziazione di un gruppo socia-
le rispetto al totale degli altri gruppi sociali residenti una determinata area e i valori espressi van-
no da 0 a 100 e corrispondono alla perfetta distribuzione e alla massima segregazione.

42
2003). Possiamo affermare, seguendo le riflessioni della Arbaci (2007), che le
dissimilarità riscontrabili nella distribuzione residenziale dei gruppi etnici nelle
città europee, in particolare tra le distinte nazionalità e tra le città del Nord e del
Sud Europa, rendono arduo individuare un singolo e invariante modello della
segregazione etnica nel vecchio continente.
Generalmente i caratteri emergenti dell’organizzazione spaziale degli immi-
grati nelle aree metropolitane del Sud Europa sono riassumibili nelle condizioni
abitative generalmente modeste, negli alti livelli d’informalità nell’accesso al
mercato immobiliare (es. affitto in nero, condivisione posti letto), nei livelli
bassi di segregazione spaziale associata a modelli di distribuzione residenziale
più articolati e nel più alto grado di sub-urbanizzazione dei gruppi non europei
(Malheiros, 2002: 108; Arbaci, Malheiros, 2010). Nel Nord Europa si registra
una convergenza per quanto riguarda i primi due caratteri, mentre vi è una più
ampia tendenza alla concentrazione di taluni segmenti di popolazione migrante
e una più diffusa presenza nelle zone centrali (inner cities). Tali osservazioni di
natura empirica pongono la necessità del principio di precauzione nell’avanzare
una ragione piuttosto che un’altra in merito alla consistenza del rapporto tra se-
gregazione territoriale e integrazione sociale.
Nondimeno, alcune caratteristiche spaziali nelle società urbane europee, in
particolar modo quelle con più antica tradizione migratoria, sono importanti nel
delineare processi di esclusione socio-spaziale collegabili al fattore etnico a par-
tire da quanto sostenuto in precedenza sui vincoli alle carriere abitative migranti
di ottenere un alloggio adeguato e/o di risiedere in quartieri non deprivati. Infat-
ti, la vasta letteratura empirica disponibile19 sui processi insediativi e immigra-
zione chiama in causa, come affermato, una serie di variabili istituzionali, socia-
li ed economiche le quali intervengono a delineare la possibile concentrazione
spaziale dei migranti in quelle zone di social housing, o di edilizia privata, mar-
cate da evidenti segni di difficoltà. Le principali sono rappresentate dallo status
socio-economico e dalla posizione dei migranti nel mercato alloggiativo, dai
meccanismi discriminatori a livello societario, dal trattamento riservato alle fa-
miglie immigrate dalle autorità di gestione dell’edilizia pubblica, dalla cornice
legislativa e, non ultimo, dall’affiliazione etnica mostrata dai migranti stessi nel
senso della scelta volontaria di vivere con altri dello stesso background etnico, o
di preferire gli aspetti connotati etnicamente del quartiere (Asselin et al., 2006:
152).
Su quest’ultima dimensione, si è da tempo evidenziato come l’autosegrega-
zione etnica risponda a esigenze specifiche delle traiettorie d’immigrazione, tra
le quali il bisogno dei nuovi arrivati di fare affidamento ai network di connazio-

19
Risulta assai complicato elencare gli studi empirici pubblicati negli ultimi vent’anni sul tema
della segregazione spaziale nelle principali riviste scientifiche. Rimandiamo alla bibliografia fina-
le per una parziale indicazione dei testi più importanti segnalati nei diversi capitoli.

43
nali per trovare una prima sistemazione abitativa, per accedere a un reddito
all’interno dell’ethnic business e/o per fare affidamento alla varietà delle istitu-
zioni etniche locali nella dialettica con le istituzioni esterne20. Vi è da aggiunge-
re ai fattori sopra elencati, l’ulteriore aspetto di una progressiva fuoriuscita dei
ceti medi autoctoni dai quartieri popolari meno dotati di qualità abitativa e con
un maggiore presenza di stranieri, come accaduto in Francia, Svezia, Germania
e Olanda nel corso degli ultimi trent’anni, dinamica che di per sé aumenta i tassi
di concentrazione spaziale (Barou, 1992; Andersson, Brama, Holmqvist, 2010)
Questi elementi appaiono manifestarsi in misura diversa a seconda del con-
testo a cui possiamo riferirci nell’analisi, contribuendo a una differente visione
sulle cause del fenomeno; conseguentemente le politiche indirizzate a combat-
terlo differiscono in modo sensibile tra i paesi europei (Bolt, 2009). Ad esem-
pio, in Gran Bretagna e in Germania vi è un crescente consenso sul fatto che
l’auto-segregazione, nei termini delle preferenze e delle scelte residenziali, sia
la causa primaria della polarizzazione etnica nelle aree urbane (van Ham, Man-
ley, 2009; Munch, 2009); viceversa nel caso svedese, la segregazione è conside-
rata primariamente l’esito di una debole integrazione nel mercato del lavoro,
dunque una delle risposte attivate è stata quella di implementare programmi di
abbassamento del tasso di disoccupazione tra le minoranze etniche (Holmqvist,
Bergsten, 2009). Rimandando al capitolo successivo gli approfondimenti sulle
esperienze condotte nei maggiori paesi europei, qui saranno discussi in generale
alcuni tra i più significativi strumenti adottati con l’intento di metterne a fuoco i
limiti, così come emergono dal vasto dibattito apertosi in seguito alla loro im-
plementazione. Dalla comparazione relativa alle politiche locali nelle aree me-
tropolitane europee affiorano tre direzioni principali, le quali tendono a sovrap-
porsi: 1) politiche rivolte a ridurre, o prevenire, la segregazione spaziale; 2) po-
litiche per ridurre gli effetti negativi della segregazione spaziale; 3) politiche
che governano l’esistente concentrazione e fanno un utilizzo positivo delle op-
portunità che sono date dalla segregazione etnica (Clip, 2007). Le prime risulta-
no essere quelle maggiormente promosse e realizzate e, come vedremo succes-
sivamente, s’intrecciano fortemente con l’ideale di creare il cosiddetto social e
ethnic mix. Le seconde e le terze, pur con dei distinguo negli indirizzi di fondo,
sono simili nel prefigurare la difficoltà di conseguire una reale ed effettiva de-
segregazione, quindi il focus si sposta su programmi di miglioramento delle
condizioni di vita e di opportunità d’integrazione mediante il ricorso a progetti
integrati di riqualificazione nei quartieri socialmente deprivati.
Tali politiche urbane, denominate area-based policies, si sono sviluppate in
tempi diversi in molti paesi europei, tra i quali il New Commitment for

20
Un’altra ragione esplicitata dalle ricerche empiriche riguarda il pericolo di subire atti di violen-
za da parte dei membri della società ricevente, motivo per cui vi è riluttanza a “uscire fuori” dai
quartieri etnici; vedi Bolt, Özüekren, Phillips, 2010: 175.

44
Neighbourhood Renewal in Gran Bretagna promosso nel 2001, il Socially Inte-
grative City (Soziale Stadt) in Germania avviatosi nel 1999, i Contrats de Ville
in Francia creati nel 1989 e recentemente sostituiti dai Contrats Urbain de
Cohésion Sociale nel 2007, il Metropolitan Development Initiative lanciato nel
1998 in Svezia e la Big Cities Policy attivata nelle quattro grandi città olandesi
(Amsterdam, Rotterdam, Utrecht e The Hague).
Le misure previste e gli strumenti adottati sono molteplici e sono fondati su
una logica d’intervento multiscopo e interattiva, orientata sia al recupero delle
strutture abitative, sia alle dinamiche d’inclusione sociale, agendo sulle leve
formative e occupazionali, sulla dotazione di servizi e sulle dinamiche parteci-
pative degli abitanti21. Nel caso specifico di aree marcate etnicamente, l’azione
si sviluppa ulteriormente nel rafforzare le risorse localmente disponibili, a
esempio agendo sul consolidamento delle economie etniche, fornendo opportu-
nità di training professionali e corsi di lingua, e aprendo canali di scambio eco-
nomici con il resto della città, oppure valorizzando l’apporto delle istituzioni
etniche e la partecipazione delle famiglie straniere nelle scelte progettuali (Ed-
gar, 2004).
Al di là di queste configurazioni, le quali inquadrano la problematica nelle
sue composite dimensioni di esclusione sociale ed economica, l’associazione tra
politiche de-segregative e la ricerca di un appropriato livello di social mixing
permea, in misura più o meno esplicita, gli orientamenti delle politiche abitative
e urbane della maggioranza dei paesi europei, pur nella loro distinta tradizione
migratoria e struttura di welfare (Musterd, Andersson, 2005; Bolt, 2009; Bolt,
Phillips, van Kempen, 2010). Il presupposto a favore di questa impostazione sta
nella convinzione dei policy makers che la mescolanza sociale possa contribuire
a ridurre gli esiti più gravi della segregazione e a neutralizzare la minaccia alla
coesione sociale.
L’obiettivo diviene possibile mediante la configurazione di programmi ad
hoc che garantiscano la coabitazione tra individui e gruppi differenziati per sta-
tus sociale e provenienza etno-nazionale al fine di consentire una più estesa
gamma di chance relazionali e un miglioramento generalizzato delle condizioni
di vita22. Le politiche di mixité in Europa non rappresentano una novità nel pa-
norama degli interventi urbani e abitativi: in Svezia tale strumento è stato adot-
tato fin dal 1974; in Gran Bretagna la creazione di quartieri socialmente misti
era già presente negli anni ’50 e, con l’avvento del New Labour, a metà anni ’90

21
Su questo approccio integrato nelle politiche urbane vedi Tosi, 1994.
22
In realtà l’idea di creare il social mix mediante la progettazione urbanistica non è certo originale
o uno strumento innovativo per far fronte alle problematiche attuali: ad esempio il movimento
delle città-giardino fondato da Hughes all’inizio del XX secolo in America profetizzava la costru-
zione di quartieri socialmente misti; su questa tradizione storica vedi il fondamentale saggio della
Sarkissian, 1976.

45
tale principio di governo ha avuto un rinnovato impulso nei progetti di rigenera-
zione urbana (Bolt, 2009; Launay, 2010).
Nel caso britannico è interessante osservare la contraddizione che sorge tra il
dettato del governo laburista nel supportare la creazione di quartieri misti e
l’introduzione della norma della libera scelta locativa (choice-based letting), in-
trodotta nel 2001 all’interno dell’offerta sociale, che può consolidare la concen-
trazione delle minoranze etniche (Edgar, 2004; van Ham, Mainley, 2009).
Il principio fondamentale dell’eguaglianza “anti-apartheid” sottostante alla
mixité si scontra necessariamente con l’altro principio fondamentale della liber-
tà di scelta con rispetto a chi e dove vivere, mostrando un evidente paradosso
(Blanc, 2010; Blanc, Bidou-Zachariasen, 2010).
La stessa evoluzione storica è osservabile in Olanda, dove tale strategia am-
ministrativa di differenziazione territoriale in chiave sociale ed etnica vigente
nell’immediato dopoguerra è tornata in auge nell’agenda politica a partire dal
1996 e ha avuto un incremento significativo nel 2002 dopo alcune turbolenze
politiche conseguenti al successo elettorale del partito di Pym Fortuyn dichiara-
tamente anti-immigrazione (Musterd, Andersson, 2005: 4).
In Germania già nel 1974 l’Associazione delle autorità comunali richiedeva,
al fine di incoraggiare i contatti interculturali, “di dissolvere, o prevenire, i ghet-
ti e di agevolare l’accesso delle famiglie immigrate in tutti i quartieri della città
al fine di incoraggiare i contatti interculturali” (cit. in Munch, 2009: 443); re-
centemente nella formulazione del Piano nazionale d’integrazione del 2007 si
riafferma il concetto che creare e sostenere aree urbane socialmente ed etnica-
mente miste rimane il principio guida dello sviluppo urbano e di quartiere
(Munch, 2009). Altresì in Francia gli interventi finalizzati a tale scopo sono stati
intensamente perseguiti a livello locale a partire dalla metà degli anni Ottanta
con alcuni interventi legislativi, tra i quali la già citata recente legge Sru del
2000 (Simon, 2003; Blanc, 2010).
Possiamo individuare due orientamenti, sovente compresenti all’interno del
singolo paese, a fondamento della ricerca di un bilanciamento residenziale posi-
tivo tra le diverse componenti sociali ed etniche:
– la diversificazione abitativa (tipologia dell’alloggio e status di occupazione)
nelle zone svantaggiate e/o nelle nuove costruzioni;
– le procedure di allocazione degli alloggi nel mercato abitativo, specificata-
mente nel comparto dell’edilizia sociale e pubblica, come prassi preventiva
e di dispersione dei ceti più poveri e famiglie immigrate.
Nel primo orientamento, l’azione si articola nella riqualificazione dello stock
alloggiativo, anche attraverso le demolizioni dei vecchi edifici e la costruzione
di nuovi e più adeguati alloggi, in grado di attrarre una parte del ceto medio, o

46
incentivare altre categorie di abitanti (es. studenti), e attivare politiche di tenure
mix (casa in proprietà, affitto di mercato e sociale)23.
Come rappresentato nel successivo grafico, gli effetti socialmente positivi
assunti dalla diversificazione abitativa si delineano in un maggiore tasso di coe-
sione sociale, nella migliore reputazione del quartiere, nella frequenza di contat-
ti tra soggetti con background sociali diversi che, a sua volta, contribuisce alla
diffusione di modelli comportamentali adeguati e alla neutralizzazione del con-
flitto tra gli abitanti.
Esempi di questo modello di intervento sono ben rappresentati da Olanda e
Danimarca (vedi cap. 2). Nel contesto francese l’azione dell’Agenzia nazionale
per il rinnovamento urbano ha previsto entro il 2011 di creare 250mila alloggi
sociali in locazione, di ristrutturarne 400mila e di demolirne 250mila (Oberti,
Lagrange, 2006: 194). Altro esempio, nel piano di Londra si fissa per le nuove
costruzioni l’obiettivo del 50% di alloggi “abbordabili”, divisi per il 60% in af-
fitto sociale e il restante 40% in affitto calmierato (Launay, 2010).

Fig. 1 - Relazioni assunte di causa ed effetto nella diversificazione abitativa24


Diversificazione Stimolare positivi cam- Implicazioni sociali
abitativa biamenti nella popola-
(demolizioni, nuove zione Migliore reputazione
costruzioni, rinnova- Social mix del quartiere o
mento urbano) Bilanciamento sociale dell’area urbana.
Coesione sociale Maggiori interazioni
Maggiore qualità sociali.
alloggiativa Prevenire cambiamenti Modelli positivi di
negativi nella popola- comportamento.
Interventi finanziari zione Diminuzione di
(vendita alloggi in Trasferimento selettivo atteggiamenti
affitto, trasferimento di di persone in mobilità conflittuali tra i
parte dello stock abita- ascendente residenti.
tivo) Opportunità di carriere
abitative

Il secondo orientamento presuppone un approccio di governo urbano peculiare


alla definizione di un accettabile mix sociale ed etnico da raggiungere con una
politica allocativa degli alloggi, in modo tale da prevenire la concentrazione di
famiglie immigrate e, quindi, i possibili pericoli di “ghettizzazione”.
In alcune circostanze le autorità locali hanno individuato una quota massima
di presenza straniera all’interno di una specifica area da non oltrepassare, come
nell’esperienza del 1972 di Rotterdam che la poneva al 5%, misura poi abban-
donata perché in contrasto con le direttive nazionali anti-discriminazione. Tut-
23
Vi è da sottolineare che in alcuni casi le area-based policies contemplano questa tipologia
d’intervento sullo stock abitativo e sulla conseguente attrattività per i nuovi residenti, rientrando
in parte nell’indirizzo del social mix (vedi il caso olandese della Big Cities Policy).
24
Il grafico è stato rielaborato dall’originale pubblicato in Kleinhans (2004: 374).

47
tavia nel 2003 il piano urbano Rotterdam Perseveres si propone:

di regolare l’afflusso di soggetti deprivati, parte di essi appartenenti alle minoranze etni-
che, nei quartieri sensibili attraverso più strette norme allocative, ad esempio aumentan-
do il livello economico richiesto ai potenziali affittuari (Kleinhans, 2004: 373).

In Danimarca e in Finlandia sebbene non vi siano programmi ufficiali di disper-


sione, tuttavia documenti d’indirizzo delle politiche incoraggiano la distribuzio-
ne spaziale attraverso le procedure di allocazione nel settore sociale (Bolt, Phil-
lips, van Kempen, 2010). Nelle indicazioni sulle strategie abitative in Inghilterra
rinvenibili nel The Green Paper Quality and Choice for All, pubblicato nel
2000, si propone la diversificazione abitativa sia nei quartieri residenziali esi-
stenti, sia in quelli nuovi, spingendo le autorità locali a promuovere la diversità
sociale mediante il cambiamento nelle politiche di allocazione (Detr, 2000, cit.
in Kleinhans, 2004: 371). In Francia, gli organismi di gestione del patrimonio
pubblico (Hlm) possono intervenire a loro discrezione per prevenire la concen-
trazione di famiglie problematiche in determinate zone considerate a rischio,
mentre in alcune municipalità tedesche, quali ad esempio Stoccarda, si stabilisce
un tetto massimo del 30% di assegnatari stranieri all’interno dei quartieri di edi-
lizia pubblica (Simon, 2003; Munch, 2009).
L’esperienza storica e la diffusione di politiche contro la segregazione cen-
trate sull’idealizzazione del social mix quale principio di intervento hanno po-
sto, e pongono tuttora, una lunga serie di analisi e contrapposizioni critiche25.
Un punto di criticità sulle politiche di mixité si muove intorno alla presun-
zione sociologicamente assai discutibile per cui la vicinanza spaziale tra gruppi,
o classi, differenti contribuisca a una maggiore prossimità nelle relazioni sociali.
Già in passato sulla debolezza di tale determinismo sociologico si sono espressi
alcuni autori come Herbert Gans (1961) il quale nella sua pionieristica riflessio-
ne sulla costituzione di balanced communities nella progettazione urbanistica
sottolineava come l’omogeneità del background socio-culturale o la similarità di
interessi e valori “è necessaria per sviluppare relazioni sociali che siano più pro-
fonde di un educato scambio di saluti tra le persone incurante della loro propin-
quità” (Gans, 1961, cit. in Bolt, 2009). Norbert Elias giunge alla medesima con-
clusione: dalla sua ricerca fondamentale, condotta tra la fine degli anni ’50 e
l’inizio degli anni Sessanta sul rapporto tra i vecchi (established) e i nuovi resi-
denti (outsider) in una comunità popolare suburbana inglese emergevano con
chiarezza le difficoltà d’instaurare scambi sociali positivi e la costante stigma-
tizzazione dei comportamenti degli outsider al fine di ricreare una distanza so-
ciale venuta meno sul piano spaziale (Elias, Scotson, 2004)26.

25
Basti pensare alla pubblicazione nel 2010 di numeri monografici dedicati al tema tra le più im-
portanti riviste di riflessione urbana Espaces et sociétés e Housing Studies.
26
Per una rivisitazione della ricerca di Elias e Scotson vedi Agustoni, Alietti, 2009.

48
Sulla stessa linea di pensiero, Chamboredon e Lemaire (1970): attraverso i
risultati del loro studio sulla trama dei rapporti quotidiani all’interno dei grand
ensembles nella cintura periferica di Parigi, osservavano che la compresenza
non fosse l’elemento decisivo nel creare relazioni dense tra i distinti gruppi di
abitanti. Tale assunto, quindi, si scontra con una realtà assai meno adattabile del
previsto, esplicitata dalla scarsa volontà dei differenti gruppi sociali a entrare in
contatto e costruire rapporti coesi che possano modificare la situazione secondo
gli intenti del social mix (Atkinson, Kintrea, 2001; Bolt, Özüekren, Phillips, 2010).
Anzi, in determinate circostanze, specificatamente quando le persone contro
la loro volontà vivono insieme, tale vicinanza può esacerbare i conflitti e accen-
tuare le rispettive appartenenze di classe e di status (De Rudder, 1989; Blanc,
Bidou-Zachariasen, 2010). Con ciò, si deve prendere atto che normalmente i ce-
ti con maggiori risorse economiche e culturali non sono così disposti ad accetta-
re di muoversi nelle zone riqualificate pur avendo la possibilità di ottenere in-
centivi fiscali e costi di locazione ridotti.
Nella sua disanima delle istanze normalizzatrici, dell’ordine e dell’armonia
sottese alle pratiche amministrative di mixité, Maurice Blanc afferma che esse
prefigurano una visione della società come costituita:

da individui “medi”, anonimi e intercambiabili, che possono essere facilmente spostati


nello spazio anch’esso “medio” e senza qualità, per pervenire a un giusto equilibrio
(Blanc, Bidou-Zachariasen, 2010: 18).

Inoltre, se la maggior parte dei paesi si sforza di conseguire un bilanciamento


delle caratteristiche socio-etniche nella struttura della popolazione a livello di
quartiere, non è mai del tutto chiaro cosa esattamente costituisca un giusto mix
(Bolt, 2009). Non vi sono correlazioni statisticamente significative che possano
giustificare l’individuazione di un livello adeguato di famiglie straniere in un
quartiere, o in un condominio, per prevenire i conflitti e favorire una “ragione-
vole integrazione”. La determinazione di un’ipotetica “soglia di tolleranza” nel-
la coabitazione interetnica si presta a un uso strumentale e ideologico che raf-
forza la stigmatizzazione dei quartieri multietnici e la rappresentazione negativa
dell’immigrazione (De Rudder, 1991).
La forza ideologica di questo discorso è tale per cui non soltanto prende so-
stanza nelle scelte allocative e di sviluppo urbano, ma anche nella definizione
delle politiche e degli interventi locali. A riprova di ciò, è utile segnalare il caso
di Bruxelles dove uno degli indicatori impiegati per definire un quartiere depri-
vato dalla commissione di esperti è l’individuazione del 5% di presenza di tur-
chi e marocchini (Baeten, 2001).
Si palesa in tale misura l’occultamento che maggiore è il tasso di residenti
stranieri in una delimitata area, maggiore è la probabilità che esso sia stato già
percorso da processi di deterioramento urbanistico e sociale, dal momento che
solo in questi ambiti è immaginabile per una buona parte di essi, come ampia-
mente mostrato, una soluzione abitativa.

49
Le critiche avanzate tendono a svelare un modello d’ingegneria sociale i cui
presupposti non sono del tutto giustificati alla luce dei risultati ottenuti nella va-
rietà dei progetti condotti nelle metropoli europee. Di fatto, vi è un deficit di va-
lutazione sugli impatti delle politiche di social mix che offra un ventaglio di dati
per accrescere la capacità d’intervenire a modificare le situazioni problematiche
secondo le finalità prospettate. Il senso comune amministrativo che spesso si
delinea deve confrontarsi più incisivamente con la consistenza delle numerose
variabili, e le interazioni tra esse, le quali costruiscono il problema della segre-
gazione. Le condizioni di confinamento spaziale e d’isolamento sociale vissuti
dai gruppi sociali meno abbienti sono una realtà negativa su cui è indiscutibile
intervenire. Lo stesso ragionamento sulle potenzialità positive di configurare
quartieri misti non deve essere scartato a priori, anche tenendo in mente le dif-
ficoltà discusse inerenti ai principi e criteri operativi.
Contro le spinte centripete all’omologazione sociale ed etnica, alla specializ-
zazione territoriale e al perdurare delle dinamiche di stigmatizzazione, la me-
scolanza tra classi sociali e appartenenze etniche può rappresentare un obiettivo
di mutamento auspicabile per quanto risulti fragile (Lagrange, Oberti, 2006).
Tale fragilità è imputata al fatto che il discorso sulla mixité rinvia le disugua-
glianze e il loro trattamento alla distribuzione delle popolazioni nello spazio,
mettendo tra parentesi l’essenziale, ovvero la disuguaglianza nella distribuzione
della ricchezza (Blanc, Bidou-Zachariasen, 2010: 12). Inoltre, in gran parte dei
paesi europei, le risposte pubbliche al rischio dell’impatto negativo dei processi
segregativi sulle dinamiche d’integrazione, spesso si scontrano con una struttu-
razione delle politiche che di fatto producono tale conseguenza (Arbaci, 2007)27.
Quindi, senza un’adeguata macropolitica d’inclusione socio-economica che ac-
compagni lo sviluppo delle azioni de-segregative, a prescindere dagli strumenti
utilizzati e dalle finalità espresse, il risultato appare debole e inefficace. Le stra-
tegie future devono giocoforza trovare punti di raccordo e d’integrazione effet-
tiva tra norme che stabiliscono sia le priorità d’intervento, sia le risorse per la
diversificazione abitativa e rinnovate politiche di contrasto ai meccanismi di se-
gregazione sociale i quali talvolta poco, o nulla, hanno a che fare direttamente
con la segregazione territoriale. Infatti, come è stato sottolineato mentre:

i processi sociali possono divenire manifesti in un certo stock residenziale o in un quar-


tiere, per i crescenti livelli di segregazione sociale o per la concentrazione spaziale loca-
le di povertà, ciò non implica necessariamente che essi sono causati da o siano problemi
dello stock abitativo o della composizione del quartiere. (Musterd, 2002, cit. in Anders-
son, Brama, Holmqvist, 2010: 239) (i corsivi sono nell’originale).

27
Lo stesso si può affermare in merito alle politiche di coesione sociale; vedi Alietti, 2009.

50
2. Azioni pubbliche e modelli empirici: una riflessione
su alcuni casi studio
di Roberta Cucca e Paola Pologruto∗

2.1 Immigrati e politiche abitative: il caso francese

2.1.1 Specificità delle condizioni abitative degli immigrati

L’attuale condizione abitativa degli immigrati in Francia1 va messa in relazione


con il contesto generale che è quello di una crisi caratterizzata da una penuria di
alloggi a canone moderato e da una marcata sfasatura tra tipologia dell’offerta e
della domanda immobiliare. Sebbene le condizioni generali siano decisamente
migliorate dal 1950 a oggi, nel rapporto annuale 2009, la Fondation Abbé Pierre
stima in 3,5 milioni le persone prive di alloggio o mal logé, ai quali si sommano
circa 6,5 milioni di persone, cioè il 13% della popolazione, in situazioni “di reale
fragilità abitativa nel breve o nel lungo periodo” (degrado, morosità, sovraffol-
lamento, ecc). In questo contesto di crisi del settore, le famiglie immigrate, in
genere più numerose e con un reddito più basso rispetto alla media, hanno mag-
giore difficoltà ad accedere a un’abitazione dignitosa; inoltre, i dati dell’Insee
mostrano che mediamente gli immigrati non beneficiano delle stesse condizioni
abitative, né delle stesse prospettive di promozione residenziale dell’insieme del-
le famiglie francesi. Concentrati in alcune regioni (Ile de France, Rhône-Alpes e
Provence-Alpes-Côte d’Azur) e nelle agglomerazioni di oltre 100mila abitanti,
in primo luogo gli immigrati, e tra questi i più numerosi sono quelli di origine
non europea, sono sovrarappresentati nei quartieri svantaggiati delle periferie
urbane (Zones urbaines sensibles, Zus) corrispondenti alle zone di maggiore di-
soccupazione e povertà; in secondo luogo, tra gli immigrati i locatari prevalgono
nettamente sui proprietari e, tra i locatari il 32% risiede nel parco pubblico a


Benché il capitolo sia frutto di una riflessione comune, è possibile attribuire a Roberta Cucca i
paragrafi 2.2, 2.3, 2.4, 2.5 e a Paola Pologruto il paragrafo 2.1.
1
Su questo tema: rapporto Fondation Abbé Pierre, 2009; rapporto Haut conseil à l’intégration,
2008; Barou, 2006; Enl, Insee, 2006.

51
fronte del 17% dell’insieme delle famiglie francesi; in terzo luogo, le loro condi-
zioni abitative sono peggiori sia a livello di comfort che di superficie disponibile,
il 10% vive in uno stato di sovraffollamento a fronte del 3% del resto delle fami-
glie; in quarto luogo, le condizioni di accesso sono problematiche sia nel settore
privato che in quello pubblico dove i tempi di attesa per l’attribuzione di una
abitazione sono generalmente più lunghi che per i francesi; infine, il percorso
residenziale in seno al parco pubblico così come la mobilità verso altri statuti di
occupazione risultano particolarmente difficili. Si segnala, inoltre, una forte pre-
senza di immigrati tra i senza tetto, nel settore dell’habitat di fortuna e nei centri
di accoglienza: si tratta prevalentemente di anziani, donne sole separate con
bambini, giovani e nuovi arrivati.
Nonostante l’estrema diversità delle situazioni in relazione al paese di origi-
ne, l’anzianità di residenza, l’età e lo statuto familiare, esiste dunque una specifi-
cità delle condizioni abitative della popolazione immigrata. Come spiegarla? At-
torno alla problematica abitativa degli immigrati si annodano diverse questioni:
il contesto storico e nazionale dell’immigrazione, la congiuntura politica ed eco-
nomica del paese d’arrivo, le politiche migratorie e d’integrazione, le caratteri-
stiche socio-demografiche della popolazione immigrata, l’appartenenza a una o
all’altra “età dell’immigrazione”, la configurazione del welfare e la struttura del
parco abitativo. Qui di seguito ci proponiamo di dipanare questo intreccio attra-
verso la ricostruzione, necessariamente sintetica ma ragionata, delle grandi linee
delle politiche abitative e urbane adottate in Francia dagli anni Cinquanta a oggi.
Cercheremo di segnalare gli elementi chiave del quadro legislativo, di evidenzia-
re i punti di svolta e gli impatti che le politiche hanno avuto sulle condizioni abi-
tative degli immigrati; focalizzeremo quindi l’attenzione sulla genesi di alcuni
aspetti problematici (concentrazione e segregazione) e sulle politiche adottate
per contrastarli; infine, considereremo le recenti tendenze delle politiche pubbli-
che per favorire l’accesso all’abitazione e combattere le discriminazioni.

2.1.2 Crisi abitativa, forte impegno dello Stato nelle costruzioni sociali, foyers,
città di transito, primi accessi degli immigrati al parco Hlm (Habitation à
Loyer Modéré)

Nel corso degli anni Cinquanta, per far fronte alla crisi abitativa dovuta alla
congiunzione tra la fase di ricostruzione post bellica e l’esplosione urbana con-
seguente all’esodo rurale, i poteri pubblici lanciano un intenso programma di
costruzioni che modificherà la fisionomia urbana e la struttura del parco abitati-
vo. Tra gli anni Sessanta e Settanta nascono i grandi ensembles Hlm, costruiti
secondo logiche di produzione intensiva e destinati a ospitare la popolazione
operaia francese. In teoria, come prevede una circolare del Ministero delle Co-
struzioni del 1963, nessuna categoria di stranieri è esclusa dalla possibilità di
accedere all’alloggio sociale, di fatto però, in questa prima fase, la maggioranza

52
degli immigrati provenienti prevalentemente dal Sud Europa e dal Maghreb si
insediano in abitazioni di fortuna alimentando la crescita delle bidonvilles alle
periferie delle grandi città. In un contesto in cui è prioritario costruire case per i
francesi, la politica abitativa per gli immigrati si differenzia attraverso la crea-
zione di strutture specializzate nell’accoglienza di una manodopera il cui sog-
giorno, connesso alla favorevole congiuntura economica del paese, è condizio-
nato dalla situazione lavorativa e pensato come temporaneo. Con la creazione
della Sonacotral2 nel ’56 e del Fas (Fondo di azione sociale per i lavoratori im-
migrati) nel ’59, nascono i foyers che diventano il carattere più visibile delle con-
dizioni socio-abitative degli immigrati celibi (Sayad, 2006). In seguito,
nell’ambito del programma di soppressione delle bidonvilles (legge Debré del
1964 e legge Vivine del 1970), la formula abitativa dei foyers è affiancata dalla
costruzione di “città di transito”, in cui l’insediamento temporaneo delle fami-
glie “bisognose di un’assistenza socio-educativa” è associato a misure di ac-
compagnamento sociale considerate il presupposto necessario per accedere al
parco Hlm.
L’accesso diretto in Hlm, invece, previsto solo per le famiglie “evolute”, se-
gue la regola della dispersione secondo la quale l’ingresso delle famiglie di ori-
gine straniera negli ensembles non deve superare la quota definita tra il 15 e il
20% delle assegnazioni (Weill, 2005). Queste politiche sono messe alla prova
nella prima metà degli anni ’70 quando, con il passaggio dall’immigrazione di
lavoro a quella di popolamento, svanisce la rappresentazione dell’immigrazione
come fenomeno provvisorio e la questione abitativa diviene una delle sfide mag-
giori delle politiche d’integrazione.
Misure specifiche sono allora adottate per garantire l’uguaglianza di accesso
delle famiglie immigrate al parco Hlm: un decreto del 1973 stabilisce la sovven-
zione alle costruzioni di abitazioni per immigrati attraverso un meccanismo di
finanziamento specifico e, ne1 1976, viene creata la Commissione nazionale per
l’alloggio (Cnli), col compito di coordinare l’insieme delle azioni relative
all’abitazione di questa categoria di popolazione.

2
L’agenzia nasce sotto l’egida del Ministero degli Interni e ha come obiettivo la creazione e ge-
stione di foyers destinati ad alloggiare i lavoratori celibi algerini e, contemporaneamente, di assi-
curare l’ordine pubblico e il controllo politico-sociale e amministrativo degli immigrati. Dal 1963,
la Sonacotral divenendo Sonacotra si rivolge all’insieme dei lavoratori stranieri e dal 1992 i
foyers, trasformati in residenze sociali, diventano una risposta abitativa per le persone più svan-
taggiate, quale che sia la loro origine.

53
2.1.3 Svolta delle politiche abitative: dalle sovvenzioni alle costruzioni all’aiuto
alle persone. Fuga dei ceti medi e ripopolamento dei quartieri Hlm

Riassorbita nel 1975 la crisi abitativa, grazie alla rilevante costruzione di abita-
zioni sociali del ventennio precedente, con la riforma Barre del 1977 la Francia
riorienta le sue politiche abitative in quattro direzioni: 1) disimpegno progressi-
vo dello Stato nel settore delle costruzioni sociali; 2) adozione di dispositivi di
sostegno all’affitto (Apl); 3) misure per favorire l’accesso alla proprietà; 4) lan-
cio delle politiche territoriali di sviluppo urbano.
Questa svolta contribuisce, da un lato, a disegnare la nuova fisionomia dello
spazio con la diffusione dell’habitat pavillonaire nelle cinture urbane; dall’altro,
concorre a modificare la struttura del parco abitativo e lo statuto di occupazione
dei francesi (aumentano gli alloggi di proprietà, rimane essenzialmente invariato
il patrimonio locativo pubblico che ammonta a circa il 17% del parco abitativo
complessivo e si riduce il comparto locativo privato). Anche le traiettorie abita-
tive degli immigrati sono condizionate da questi orientamenti ma con delle diffe-
renze a seconda delle origini: portoghesi, spagnoli e asiatici cominciano ad ac-
cedere alla proprietà, maghrebini, turchi e africani iniziano a installarsi nel setto-
re pubblico occupando gli alloggi resi vacanti dalle famiglie francesi di classe
media che, sotto l’input delle politiche pubbliche, accedono massicciamente alla
proprietà. Il doppio movimento in entrata e in uscita, avvia un cambiamento del-
la composizione sociale ed etnica dei quartieri Hlm che si rafforza nei due de-
cenni successivi in cui la proporzione delle famiglie immigrate non originarie
della UE passa dal 25 al 48%. Questo processo di ripopolamento ha sullo sfondo
la crisi economica che, dalla seconda metà degli anni ’70, si ripercuote forte-
mente sull’habitat sociale e sulle condizioni dei suoi abitanti. I nuovi locatari del
parco residenziale pubblico, occupati prevalentemente nell’industria e nei settori
più dequalificati del terziario, sono duramente investiti dalla disoccupazione e
dalla precarietà connesse all’inversione della congiuntura economica e alla ri-
strutturazione del sistema produttivo.
In questo scenario, gli ensembles che accolgono la popolazione più vulnera-
bile si depauperizzano e vedono la loro condizione progressivamente degradarsi
fino a divenire l’incarnazione dello stigma sociale e il luogo simbolo della crisi
urbana.

2.1.4 Concentrazione, segregazione, discriminazione

Il posto che gli immigrati occupano nel mercato degli alloggi è, da un lato, la
risultante di un processo di esclusione che limita il loro accesso ai quartieri più
attrattivi del parco abitativo; dall’altro, è l’esito di una serie di dispositivi che
concorrono a organizzare il loro accesso ad abitazioni determinate in quartieri
determinati. Nel settore locativo la capacità di accogliere le famiglie con risorse

54
modeste è legata a una buona articolazione tra l’offerta di alloggi a canone so-
ciale e moderato e l’intervento di sostegno all’affitto. Questa capacità si è inde-
bolita nel corso del tempo per il convergere di diversi elementi i cui effetti cu-
mulativi hanno provocato l’attuale crisi abitativa e innescato un processo segre-
gativo delle famiglie con basso reddito in generale, e delle famiglie immigrate
in particolare, nei segmenti più dequalificati del parco abitativo.
Nel corso degli anni ’80 e ’90 si riduce l’accesso al settore locativo privato;
gli interventi di riqualificazione urbana che si realizzano in questo ventennio,
provocano un aumento del valore immobiliare degli antichi quartieri degradati
dei centri urbani e la riduzione di quello che aveva funzionato come “parco so-
ciale di fatto” in cui risiedeva la parte più consistente delle famiglie immigrate.
L’aumento dei prezzi non è compensato dai dispositivi di solvibilità adottati per
bilanciare le disparità economiche e permettere l’accesso e il mantenimento del-
le famiglie con reddito modesto nel comparto locativo privato, i cui affitti, nono-
stante gli aiuti, restano incompatibili con le capacità economiche delle famiglie
(Maingueneau, 2008). L’estensione nel 1985 degli aiuti all’insieme della popo-
lazione (bouclage), comporta infatti una riduzione considerevole del livello di
reddito richiesto per accedere ai benefici, la diminuzione della capacità dei so-
stegni all’affitto di rendere solvibili le famiglie e quindi la restrizione della pos-
sibilità di alloggiare nel settore locativo privato.
Con la gentrification dei quartieri centrali le famiglie con reddito modesto
hanno ormai nel parco pubblico la principale possibilità di essere rialloggiate (la
domanda di abitazioni sociali aumenta dall’inizio degli anni Ottanta, passando
da 3,3% nel 1984 a 4,3% nel 2002 e a 4,6% nel 2006), l’aumento dei prezzi sul
mercato blocca però l’uscita dalle abitazioni sociali, proprio mentre cresce con-
siderevolmente la domanda per entrarvi e si riduce l’offerta pubblica sia a causa
dello scarso tasso di rotazione, sia a causa del declino delle costruzioni sociali
avviatosi dopo la riforma del 1977. Conseguentemente, nonostante la Francia si
situi col 17% di parco pubblico nella media dei paesi europei, già a partire dagli
anni ’90 l’offerta di abitazioni sociali è insufficiente rispetto all’ampiezza della
domanda. Inoltre, con la moltiplicazione dei sistemi di finanziamento e degli
operatori convenzionati con lo Stato, si accentua la diversificazione del patrimo-
nio pubblico che si segmenta in settori più o meno attrattivi e accessibili a fami-
glie con redditi differenti; ciò porta le famiglie immigrate mediamente più pove-
re, a insediarsi negli alloggi più economici costruiti prima del 1977 e localizzati
nelle Zus. Gli effetti segregativi evidenziati, sono accentuati dall’ineguale ripar-
tizione sul territorio delle abitazioni sociali localizzate in prevalenza nelle perife-
rie dei grandi bacini industriali e in alcuni comuni in particolare; nell’Ile de
France, ad esempio, la metà del parco di habitat sociale si trova concentrata su
meno del 9% dei comuni, più della metà dei comuni non hanno alloggi sociali e
il 63% della capacità di accoglienza sociale è centrata su Parigi.
Se le condizioni economiche pregiudicano la capacità degli immigrati di ac-
cedere o di mantenersi in un alloggio privato, essi cumulano altre vulnerabilità

55
dovute alle discriminazioni basate su stereotipi etnici (Halde, 2009). Alla base di
queste discriminazioni agiscono una serie di pratiche informali adottate sia dai
singoli proprietari sia dalle agenzie immobiliari che, associando l’immigrato al
rischio locativo e sociale, ne bloccano, di fatto, l’accesso ai settori più qualificati
del parco privato. Le discriminazioni sono però in atto anche nel settore pubblico
dove (nonostante il numero consistente degli immigrati assegnatari, 32% rispetto
al 16% dei non immigrati, sembrerebbe invalidare questa affermazione), i dati
evidenziano un trattamento differenziale sia per la possibilità di accedere a
un’abitazione (il 28% delle famiglie immigrate hanno depositato la loro doman-
da di accesso all’alloggio sociale da più di tre anni, cioè due volte più della me-
dia e sono più frequentemente scoraggiate a rinnovarla, 27% contro il 15% della
media), sia per il tipo di abitazione occupata. La concentrazione degli immigrati
negli spazi più degradati, infatti, è anche la risultante delle politiche di popola-
mento deliberate dai locatori sociali e delle procedure di attribuzione che sele-
zionano i locatari, non solo in funzione del reddito ma anche della dimensione e
dell’origine delle famiglie (Geld, 2001)3. A questo proposito, l’Haut Conseil à
l’intégration (2008), parla, fra l’altro, di una “discriminazione dolce ma sistemica”
connessa alla gestione degli alloggi sociali improntata sul principio della mixité.

2.1.5 Crisi urbana, politiche della città, lotta contro la segregazione socio-
spaziale

La sovrapposizione tra spazio di povertà e quartieri Hlm, la concentrazione de-


gli immigrati, le rivolte urbane che si susseguono a partire dagli anni Ottanta,
inducono i governi a rivedere le loro strategie. Con la creazione di istanze na-
zionali come il Ministero de la Ville, la politica della città diviene uno dei pila-
stri nella lotta contro le fratture socio-spaziali; in questa prospettiva sono lancia-
ti i programmi di sviluppo dei quartieri e adottati i “contratti di città” che impe-
gnano lo Stato e le collettività locali in interventi finalizzati a migliorare la qua-
lità dell’habitat e a combattere l’esclusione sociale degli abitanti delle Zus. Le
politiche di riqualificazione urbana e sociale s’incrociano negli anni Novanta
con le politiche abitative, volte a garantire il diritto alla casa e contrastare la se-
gregazione mediante dispositivi di riequilibrio basati sul principio della mixité.
Tale principio riposa sul postulato che la concentrazione spaziale delle fami-
glie svantaggiare funzioni come un fattore che riduce le possibilità di promozio-
ne sociale, amplifica la precarietà individuale e rende durature le ineguaglianze
(Fitoussi, Laurent, Maurice, 2003). Numerosi strumenti di policy sono allora im-

3
Su questo tema si veda anche: Sala Pala, 2006; Vanoni, 2008.

56
plementati per garantire l’accesso all’abitazione delle persone più vulnerabili e
favorire la mixité: la legge Besson del 1990, la legge di Orientamento per le città
(Lov) del 1991, la legge dell’Habitat del 1994, la legge contro l’esclusione del
1998, la legge Sru del 2000, definiscono le coordinate di questo nuovo orienta-
mento. Si tratta di sviluppare un settore locativo intermedio convenzionato, ri-
durre il peso degli alloggi sociali nei quartieri più sensibili mediante il cambia-
mento della struttura dell’offerta, costruire nuove abitazioni sociali nei comuni
che ne sono sprovvisti, diversificare la popolazione nel parco sociale favorendo,
mediante l’innalzamento dei tetti di reddito, l’accesso e la permanenza delle
classi medie nel settore residenziale pubblico; è in questa prospettiva che vengo-
no lanciati i grandi progetti di rinnovamento urbano degli anni 1990/2000 che
prevedono lavori strutturali, demolizioni di alloggi sociali, ricostruzioni e inter-
venti sugli immobili degradati. Queste politiche, nonostante gli esiti positivi in
alcuni ambiti territoriali, complessivamente non hanno avuto gli effetti sperati: al
volgere degli anni ’90, soprattutto in regioni come l’Ile de France, le domande di
alloggi a canone sociale e moderato si accumulano, squats e bidonvilles si svilup-
pano e i processi di segregazione degli immigrati si accentuano.
Non solo la segregazione spaziale resiste alla volontà politica di realizzare il
mix sociale, ma addirittura la mixité ne costituisce un vettore4. La trascrizione sul
territorio di questo principio, fa emergere, infatti, un singolare paradosso: la mi-
xité, considerata la leva per lottare contro la segregazione, da un lato, legittima
l’adozione di pratiche discriminatorie sia da parte dei locatori privati che dei lo-
catori sociali entrambi reticenti ad accogliere nuovi immigrati nei quartieri più
attrattivi; dall’altro, come si è detto, concorre a organizzare l’accesso delle fami-
glie immigrate in alcune tipologie di abitazioni e nei quartieri più sensibili am-
plificando la segregazione socio-spaziale.5

2.1.6 Tendenze attuali: rilancio delle costruzioni sociali, accesso al parco pri-
vato, lotta contro le discriminazioni

Di fronte all’intensità della crisi abitativa, nell’ultimo decennio le politiche pub-


bliche oltre a rilanciare le operazioni di rinnovamento dei quartieri sensibili per
diversificare l’offerta abitativa e superare la divisione sociale dello spazio, si so-
no orientate in modo più deciso per aprire l’accesso delle popolazioni più svan-
taggiate ai quartieri più qualificati del parco abitativo sia pubblico che privato,

4
Haut Comité pour le logement des personnes defavorisées, 2005.
5
Per gli approcci critici alla mixité: Chana, Uhry, 2003; Barou, 2008; Epstein, Kirszbaum, 2003;
Simon, 2003; Tissot, 2005.

57
perché è proprio nella limitazione dell’accesso a questi ambiti territoriali che ha
origine la segregazione.
Coerentemente con questo nuovo orientamento, sia in ambito pubblico che
privato si agisce, al contempo, sul volume dell’offerta (Piano di coesione sociale
2004, Pcs) e sul carattere sociale delle nuove abitazioni. In particolare, in ambito
pubblico si assiste al rilancio delle costruzioni di alloggio sociale inteso come
“servizio di interesse generale” (l’aumento del patrimonio pubblico è regolare
dal 2000 e più accentuato dal 2005, data di implementazione del Pcs), si avvia
una migliore ripartizione delle abitazioni sociali sul territorio (è questo il senso
dell’art. 55 della legge Sru del 2000 che impone una quota minima del 20% di
abitazioni sociali del parco abitativo complessivo di ogni comune la cui popola-
zione sia pari a 3.500 abitanti), si diversifica l’offerta del comparto sociale.
In ambito privato si adottano una serie di misure destinate a sviluppare il par-
co locativo convenzionato, ad esempio, la legge Borloo del 2006 permette ai
Comuni di imporre una percentuale di alloggi sociali nei programmi di nuova
costruzione; sono inoltre previsti incentivi fiscali per i proprietari che ristruttura-
no gli alloggi vetusti come contropartita della loro destinazione ad habitat socia-
le e, per favorire l’accesso al parco locativo privato dei soggetti a basso reddito,
oltre ai consueti dispositivi di sostegno all’affitto, sono stati creati fondi sociali
complementari e istituite assicurazioni per la garanzia dai rischi locativi (Grl).
Tutte queste misure oltre ad abbassare la soglia di accessibilità contribuiscono a
rimettere sul mercato gli alloggi vacanti peraltro sottoposti a tassazione nelle re-
gioni ad alta tensione abitativa. Lo sviluppo di pratiche di intermediazione loca-
tiva da parte di associazioni, formula largamente sperimentata in Gran Bretagna,
ha invece ancora un’applicazione modesta in Francia ed è limitata ad alcune città
(es. Louez Solidaire a Parigi).
Oltre alle municipalità e i dipartimenti che detengono i poteri essenziali in
materia abitativa e urbana (legge Libertés et responsabilités locales del 2004),
protagonista di questo nuovo corso è lo Stato che non solo fissa gli obiettivi ge-
nerali delle politiche, ma interviene direttamente in caso di manifesta violazione
da parte dei Comuni dell’art. 55 della Sru, disponendo dei terreni edificabili
pubblici o suscettibili di esserlo e trasferendo al Prefetto l’autorizzazione a co-
struire per realizzare alloggi sociali. Lo Stato inoltre, per assicurare l’accesso al
comparto sociale, può ricorrere ad altri strumenti quali: la registrazione centra-
lizzata delle domande di abitazione, che permette di oggettivare l’anzianità della
domanda e di attribuire una priorità alle richieste più vecchie, il contingente pre-
fettizio che consente ai prefetti di proporre l’abitazione per le persone in difficol-
tà, diverse forme di requisizione (formulate dalla legge contro l’esclusione del
1998 e codificate dagli articoli legge n. 641-1 e seguenti del Codice di costru-
zione e abitazione, Cch) decise dai Prefetti che non comportano nessun trasferi-
mento di proprietà ma l’uso temporaneo del bene a beneficio della popolazione
più svantaggiata.

58
Le politiche pubbliche adottate per favorire l’accesso all’abitazione non pos-
sono essere dissociate dalla lotta contro le discriminazioni, esse si complementa-
no e si rafforzano concorrendo a ridurre la segregazione socio-spaziale. In que-
sto ambito, nell’ultimo decennio, si sono adottate misure specifiche quali, la de-
finizione di procedure oggettive e trasparenti per trattare le candidature e
l’attribuzione degli alloggi sociali, la creazione di Commissioni dipartimentali di
accesso alla cittadinanza (Codac) che garantiscono un sostengo alle persone og-
getto di discriminazioni e rinforzano quanto previsto dal III capitolo della legge
di Renouvelement sociale del 2002, la quale introduce dei dispositivi che interdi-
cono e perseguono le pratiche discriminatorie nell’accesso all’abitazione sia pri-
vata che sociale.

2.1.7 Conclusioni

La condizione abitativa degli immigrati, oltre a riflettere le tensioni attuali sul


mercato abitativo, rappresenta un buon indicatore della posizione che questa ca-
tegoria di popolazione occupa nelle politiche pubbliche e illustra lo scarto che
può intercorrere tra il discorso pubblico sull’integrazione e la sua traduzione
reale. Dopo la prima fase di politiche abitative “differenziate” rivolte a mano-
dopera temporanea, in corrispondenza del cambiamento strutturale dell’immi-
grazione, la questione abitativa degli immigrati consiste nella “stabilizzazione
delle loro condizioni residenziali”. Questo passaggio è segnato dall’accesso al
parco Hlm che, da un lato, traduce il modello generalista del welfare francese
per cui l’offerta locativa e gli interventi di sostegno al reddito si rivolgono indi-
stintamente a tutte le famiglie che hanno difficoltà ad accedere all’alloggio in
condizione di mercato; dall’altro, è coerente con il modello di integrazione re-
pubblicano che presuppone l’eguaglianza di accesso dei cittadini ai diritti sociali
ivi compreso il diritto all’abitazione. Un simile approccio non esclude interventi
specifici a sostegno degli immigrati, anzi, tali interventi rientrano nella logica
della cittadinanza sociale che considera la compensazione delle disuguaglianze
come una responsabilità collettiva. Quando negli anni ’80, con la crisi economi-
ca, la questione sociale non appare più residuale e gli immigrati diventano una
delle categorie che popolano il variegato mondo degli “esclusi”, le politiche
specifiche per l’abitazione degli immigrati sono riassorbite nel quadro delle po-
litiche abitative generali che s’intrecciano ormai con le politiche territoriali di
inserimento socio-economico. Questo processo d’indifferenziazione, se da un
lato è conforme al principio di uguaglianza repubblicana, dall’altro ha per effet-
to di occultare gli svantaggi delle traiettorie residenziali degli immigrati e di ac-
centuarne la differenza di condizioni rispetto al resto della popolazione. Anche
quando negli anni ’90, la segregazione s’impone come il bersaglio dell’azione
pubblica e la mixité diventa la cifra condivisa della politica abitativa degli im-
migrati e della politica dell’habitat nel suo insieme, gli indirizzi di policy adotta-

59
ti non consentono di riequilibrare il divario tra le condizioni abitative né di rea-
lizzare la distribuzione “armonica” della popolazione sul territorio; anzi,
l’applicazione del principio della mixité nei soli quartieri sensibili ha l’effetto
paradossale di limitare ulteriormente l’accesso degli immigrati all’abitazione.
L’insufficiente ripartizione spaziale degli alloggi a canone sociale e moderato,
infatti, non solo non permette di garantire la diversità dell’habitat, ma, se al con-
tempo non si interviene per aprire l’accesso delle popolazioni svantaggiate ai
quartieri più attrattivi del parco abitativo, mette in tensione il principio della mi-
xité con il diritto all’alloggio.
Al volgere del nuovo secolo, l’arsenale di dispositivi adottati per abbassare
la soglia di accessibilità dei soggetti più deboli nei settori più qualificati del par-
co pubblico e privato, la riflessione sui processi di discriminazione e le misure
adottate per contrastarli segnano l’inizio di una nuova fase. Certo lo stato delle
discriminazioni resta difficile da quantificare ed è difficile conoscerne l’evolu-
zione o, in mancanza d’indicatori omogenei, comparare la situazione della
Francia con quella degli altri paesi europei; tuttavia, il riconoscimento che la
specificità della condizione abitativa degli immigrati sia da connettere oltre che
a fattori strutturali e sistemici anche a processi di discriminazione nell’accesso,
ha indotto e induce i governi francesi ad assumere un ruolo proattivo su questo
fronte. Infatti, unitamente all’incremento dello stock abitativo pubblico, i recenti
orientamenti, che vedono lo Stato e le amministrazioni locali intervenire per re-
golare le dinamiche di mercato, ampliare l’offerta sociale e a canone moderato
nel settore privato, disegnano delle traiettorie che ci paiono convergere verso il
contenimento della crisi abitativa generale e, al contempo, il superamento
dell’ineguaglianza delle possibilità di accesso della popolazione immigrata a
un’abitazione degna.

2.2 Le politiche abitative danesi e la sfida della segregazione

“I danesi amano le loro case. I danesi parlano sempre delle loro case. I danesi
spendono un’ampia parte del loro reddito per le loro case” (Kristensen, 2007:
9); con questa descrizione si apre un recente report sullo stato delle politiche
abitative danesi, introducendo un’etichetta quasi malevola nei confronti di quel-
la che viene definita come una sorta di “ossessione” dei danesi per la propria
casa. La Danimarca e, come vedremo più nel dettaglio, l’esperienza di Copena-
ghen, rappresenta in effetti un caso di studio interessante per comprendere le di-
verse traiettorie evolutive del modello di welfare abitativo scandinavo: il conte-
sto istituzionale danese, per buona parte del secolo scorso, è stato caratterizzato
da politiche di social housing universalistiche ed estensive che oggi, soprattutto
per quanto concerne la disponibilità di alloggi sociali offerti nella capitale, si
rivelano sostanzialmente modificate.

60
Per tracciare, in modo molto sintetico, una storia delle politiche abitative in
Danimarca, è possibile affermare che il primo importante evento sia stato
l’istituzione del Ministero per la Casa, fondato già a partire dal 1947. Da quel
momento in poi, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interventi pubblici si so-
no orientati a soddisfare una forte pressione della domanda abitativa, con un
coinvolgimento immediato di attori del terzo settore e delle realtà cooperative.
Per rispondere a questo bisogno collettivo si stima che, fra gli anni Cinquanta e
Settanta, in Danimarca siano stati costruiti ogni anno almeno 10mila alloggi de-
stinati all’housing sociale (Kristensen, 2007).
Un’altra importante cesura nell’evoluzione delle politiche abitative danesi è
rappresentata dal miglioramento delle condizioni economiche della popolazio-
ne, conseguente al boom degli anni Ottanta. Tale periodo di sviluppo ha portato
a una progressiva attenuazione della tensione abitativa e a una minore richiesta
di soluzioni pubbliche, il tutto a vantaggio di una preponderante diffusione della
proprietà immobiliare privata.
Dalla fine degli anni ’70, le politiche abitative danesi si sono quindi preva-
lentemente concentrate nella riqualificazione del patrimonio pubblico, in molti
casi prevedendo la completa demolizione e ricostruzione delle aree edificate nel
secondo dopoguerra, per innalzare gli standard abitativi piuttosto carenti
dell’housing sociale.

Graf. 1 - Variazione nei titoli d’uso in Danimarca (1960-2005)

60
50 proprietà privata
40 affitto privato
case comunali
30
cooperative
20
housing associations
10 non occupate
0
1960 1970 1980 1990 2000 2005

Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

Tali programmi sono stati promossi soprattutto nelle aree a ridosso della capita-
le, mentre gli interventi di rigenerazione urbana nella città di Copenaghen hanno
avuto inizio solo a partire dagli anni Novanta. In questo stesso decennio, secon-
do alcuni osservatori, sarebbe iniziato quel periodo di sostanziale stallo in cui le
politiche di social housing danesi (Andersen, 2002) si trovano a essere ancora
oggi: innanzitutto la costruzione di nuove aree si è arrestata; in secondo luogo, i
comuni sono sempre meno propensi a rilasciare aree a destinazione d’uso e fi-
nanziamenti di sostegno per l’housing sociale, a meno che non riguardino la co-
61
struzione di appartamenti destinati a specifici target, quali la popolazione anzia-
na non autosufficiente o i soggetti disabili (Kristensen, 2007).
In questo quadro generale, il sistema di housing sociale ha decisamente rap-
presentato un riferimento importante per le popolazioni immigrate (Penninx,
2007), a partire dalla prima metà degli anni Sessanta, periodo in cui la Dani-
marca ha iniziato, piuttosto timidamente, a richiamare e accogliere lavoratori
stranieri prevalentemente provenienti da Turchia, Jugoslavia e Pakistan (nel
1974 il numero di tali cittadini non superava però nemmeno la soglia dei
20mila). La richiesta di manodopera straniera si è poi bruscamente interrotta
proprio in quegli anni, a causa delle ripercussioni sull’economia locale della cri-
si petrolifera del 1973 che hanno determinato un improvviso cambio di rotta
delle politiche immigratorie, rendendo di fatto possibile l’entrata nel paese quasi
esclusivamente attraverso l’istituto del ricongiungimento familiare. Sul finire
degli anni Ottanta, un altro importante canale di accesso al paese per le popola-
zioni immigrate è divenuto la richiesta di asilo per motivi politici: per compren-
dere la rilevanza del fenomeno è sufficiente riflettere sul fatto che tra il 1988 e il
2001 la percentuale dei permessi di residenza rilasciati per tale motivazione si è
attestata attorno al 25%; a partire dagli anni 2000, invece, i principali paesi di ori-
gine della nuova immigrazione sono stati rappresentati dai paesi dell’Est europeo.
Il risultato di queste trasformazioni è che, all’inizio del 2010, in un paese in
cui l’immigrazione è severamente regolamentata attraverso una delle più restrit-
tive normative europee (Penninx, 2007), all’incirca il 9% della popolazione è di
origine straniera (di prima immigrazione o discendente) e le nazionalità più rap-
presentate (a esclusione dei cittadini statunitensi ed EU15) sono Turchia, Iraq,
Polonia, Libano, ex Jugoslavia e Pakistan. Benché il modello di welfare univer-
salistico danese preveda un potenziale libero accesso al patrimonio abitativo
pubblico, anche in Danimarca si può osservare una particolare concentrazione
di popolazioni immigrate all’interno delle strutture di housing sociale. Come
mostrato nella tabella 1, nel 2004 quasi il 30% dei cittadini residenti all’interno
del patrimonio abitativo pubblico risultava di origine straniera, benché la quota
di popolazione immigrata in Danimarca sfiorasse l’8%.

Tab. 1 - Caratteristiche socio-demografiche dei residenti di housing sociale in Da-


nimarca. Anno 2004. Valori percentuali
Residenti Popolazione
Posizione nel mercato del lavoro
social housing totale
Attivi nel mercato del lavoro 48 68
Fuori dal mercato del lavoro (pensionati) 34 24
Altri 18 11
Redditi al di sotto o al di sopra di DKK 300.000
Sotto DKK 300,000 74 47
Sopra DKK 300,000 26 53
Provenienza
Immigrati e discendenti 23 8
Non immigrati 77 92
Fonte: Kristensen, 2007
62
Questo fenomeno è dovuto in parte all’alto numero di richiedenti asilo rifugiati
in Danimarca nel corso degli ultimi vent’anni, la cui condizione rappresenta un
fattore di priorità importante nel processo di assegnazione degli alloggi (Pen-
ninx, 2007). Un altro aspetto importante, è stato però rappresentato anche
dall’andamento del mercato immobiliare, particolarmente in rialzo in Danimar-
ca nell’ultimo decennio e soprattutto a Copenaghen, nonché dall’esistenza di
dinamiche di esclusione della popolazione immigrata nell’accesso alla proprietà
in forma di cooperativa (Penninx, 2007).
Rispetto alle condizioni abitative degli immigrati nell’housing sociale, recen-
ti report, inoltre, segnalano una particolare concentrazione di popolazione im-
migrate all’interno dello stock abitativo meno pregiato: in alcuni casi la percen-
tuale di abitanti immigrati sfiorerebbe quasi il 100%.
Per contrastare tali tendenze segregative, le politiche danesi, fino alla fine de-
gli anni ’90 sembrano essersi mosse lungo tre direzioni (Skifter Andersen, 2002):
1) interventi contro la stigmatizzazione e marginalizzazione delle aree, attra-
verso programmi di riqualificazione urbanistica del patrimonio immobiliare
pubblico, di housing sociale ed eventualmente privato;
2) iniziative promosse all’interno delle aree per contrastare le condizioni di di-
sagio più gravi e promuovere l’occupazione;
3) interventi mirati a limitare l’ulteriore concentrazione di immigrati, attraver-
so la diffusione territoriale dell’assegnazione dei richiedenti asilo.
Nel valutare complessivamente lo stato delle politiche danesi è bene però speci-
ficare che, essendo le competenze relative all’housing di responsabilità comuna-
le, il contesto nazionale risulta caratterizzato da una discreta variabilità. In par-
ticolare, è interessante analizzare con maggiore dettaglio la situazione della ca-
pitale per due motivazioni specifiche: la prima è la maggiore pressione immi-
gratoria su tale contesto rispetto al quadro nazionale; la seconda è relativa alle
profonde trasformazioni delle politiche di housing sociale che nell’ultimo de-
cennio hanno caratterizzato la storia della città danese, a causa della vendita del-
lo stock abitativo pubblico da parte dell’Amministrazione comunale, che nei
primi anni Novanta si è trovata ad affrontare una difficile crisi economica e so-
ciale. Fra il 1995 e il 1996 l’Amministrazione municipale di Copenaghen ha
quindi venduto gran parte degli appartamenti in locazione agli inquilini interes-
sati a comprare attraverso la costituzione di associazioni in forma di cooperativa
(Penninx, 2007): dal 1994 al 2004 le abitazioni di proprietà e gestione comunale
sono passate da più di 20mila unità a circa 4mila; l’incremento nei titoli d’uso
più significativo è stato invece registrato nel numero delle abitazioni in proprie-
tà in forma cooperativa: da circa 60mila a più di 80mila unità (Statistiche co-
munali Copenaghen, 2005).
Benché l’accesso all’acquisto della casa sia stato sostenuto attraverso diverse
forme di sgravio fiscale, è venuta a crearsi una notevole frattura sociale fra gli
inquilini in possesso delle credenziali minime per usufruire di questa opportuni-

63
tà e quelli sprovvisti di tali prerequisiti e, soprattutto, l’iniziativa ha ridotto dra-
sticamente il numero di abitazioni in locazione a canone accessibile.
Un’altra importante trasformazione è stata inoltre generata dagli esiti di poli-
tiche di riqualificazione urbanistica che hanno innescato processi di gentrifica-
tion (Larsen, Hansen, 2008) di interi quartieri una volta popolati dalla classe
operaia (l’esempio più celebre è stata la riqualificazione di Vesterbro), col tem-
po sostituita da popolazioni appartenenti a un’upper-middle class decisamente
meno impegnativa per i servizi e le sovvenzioni offerte dal generoso sistema di
welfare danese.
L’azione congiunta di queste due diverse politiche ha determinato l’abbatti-
mento del numero di abitazioni in locazione a prezzi contenuti nella capitale da-
nese e, contestualmente, ha determinato condizioni estremamente propizie per
l’innescarsi di processi di segregazione nelle aree di edilizia sociale più svan-
taggiate, sia a Copenaghen e sia nelle aree periurbane adiacenti alla città (An-
dersen, 2002).
Oggi l’Amministrazione municipale individua l’esistenza di aree soggette a
segregazione etnica sulla base di diversi livelli di concentrazione (Penninx, 2007):
– aree vulnerabili, in cui almeno 7 persone su 10 sono immigrate (almeno 14mila
abitanti risiedono oggi in queste aree);
– aree “ad alto rischio” in cui 5 abitanti su 10 sono immigrati (18mila abitanti);
– aree “a rischio”, in cui 3 abitanti su 10 sono immigrati (40mila abitanti).
Il dibattito attorno all’esistenza di queste aree segregate a Copenaghen è piutto-
sto vivace. Accanto all’opinione di chi ritiene che tali aree, presentandosi in al-
cuni casi anche molto omogenee da un punto di vista di composizione etnica,
possano costituire per i neoarrivati un primo approdo alla realtà danese, ricco di
reti di relazioni preziose (Andersen, 2007), è però evidente come questo proces-
so stia alimentando alcuni fenomeni decisamente preoccupanti, fra cui un pro-
cesso di segregazione scolastica che sta colpendo molte scuole di primo e di se-
condo grado (Schindler Rangvid, 2007) all’interno di queste aree.
Come stanno rispondendo quindi le politiche danesi a queste trasformazioni?
In sintesi si può affermare che gli interventi siano orientati a gestire e allentare
quelle tensioni che le stesse politiche locali negli anni hanno direttamente pro-
vocato, innescando il circolo vizioso della segregazione spaziale. La disponibili-
tà di abitazioni di housing sociale risulta dimezzata rispetto al decennio prece-
dente, a dispetto di una domanda abitativa che si è fatta molto più pressante da
parte della componente immigrata a causa dell’innalzamento dei costi abitativi
innescati dai processi di gentrification. Le recenti politiche abitative sembrano
però orientate ad attenuare le condizioni di svantaggio sociale e lavorativo che
si concentrano in queste aree, più che a combattere la concentrazione residen-
ziale su base etnica attraverso un riequilibrio dell’offerta di abitazioni accessibi-
li (Andersen, 2007). L’obiettivo, decisamente ambizioso, del programma lancia-
to nel 2006 dall’Amministrazione comunale era infatti, quello di ridurre, entro il
2010, la condizione di disoccupazione nelle aree più vulnerabili al 10%, attra-

64
verso la creazione di posti di lavoro nell’area rivitalizzando l’imprenditoria et-
nica e, laddove possibile, utilizzando criteri di assegnazione che evitino concen-
trazioni ulteriori di cittadini che usufruiscono di supporti sociali nelle stesse
aree. I risultati saranno tutti da valutare, considerata anche la difficile situazione
di crisi economica che non ha risparmiato certo la Danimarca.

2.3 Il caso svedese: politiche abitative universalistiche e mix sociale non


connotato etnicamente

Le politiche abitative, nel periodo del dopoguerra, si sono affermate in Svezia


come un importante caposaldo del sistema di welfare state universalistico.
L’obiettivo, fin dall’inizio, è stato quello di garantire un alloggio di buona quali-
tà, potenzialmente, all’intera popolazione (il termine svedese allmännytta signi-
fica in senso letterale “utile per tutti”), sulla base del principio che un migliora-
mento della situazione abitativa nel complesso migliori anche le condizioni dei
gruppi più vulnerabili. Questo principio generale è importante per poter com-
prendere alcuni aspetti specifici delle politiche pubbliche svedesi, che appaiono
orientate a supportare le condizioni abitative della popolazione immigrata attra-
verso interventi non specificamente indirizzati a tale gruppo sociale, ma poten-
zialmente rivolti a tutti i soggetti in condizione di disagio socio-economico
(Holmqvist, Bergsten, 2009).
Tale caso studio presenta analogie e differenze con l’esperienza danese pre-
sentata nel precedente paragrafo. L’analogia più rilevante riguarda le dinamiche
evolutive della disponibilità di social housing che si sono riscontrate nel secon-
do dopoguerra (Whitehead, Scanlon, 2007).

Graf. 2 - Variazione nei titoli d’uso in Svezia. Anni 1945-2004

60

50

40 proprietà privata
affitto privato
30
case comunali
20 cooperative

10

0
1945 1960 1970 1980 1990 2004

Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

65
Mentre alla fine della Seconda guerra mondiale la condizione abitativa degli
svedesi era scarsamente connotata dalla disponibilità di affitto pubblico (6%), i
dati più recenti (2004) evidenziano come all’incirca 1/5 degli svedesi alloggi in
abitazioni comunali, mentre risulta notevolmente calata la percentuale di affit-
tuari privati (dal 52% del 1945 al 21% del 2004).
Una differenza sostanziale fra l’esperienza danese e svedese è invece rappre-
sentata dall’organizzazione del sistema di housing sociale, che in Danimarca è
in gran parte gestito da associazioni no-profit, mentre in Svezia è di diretta
competenza municipale (Baldini, Federici, 2008). Attualmente, infatti, il gover-
no centrale definisce le politiche abitative nel loro complesso – fissando le rego-
le legali e finanziarie generali – mentre i Comuni sono responsabili della piani-
ficazione e dell’offerta di alloggi a livello locale, che è stata fondamentalmente
organizzata attraverso l’istituzione di aziende municipali. Nel complesso tali en-
ti sono più di 300, gestiscono circa 830mila unità immobiliari in cui alloggiano
almeno 1,4 milioni di persone (Baldini, Federici, 2008).
Anche in Svezia la pressione abitativa è molto forte all’interno delle città di
medio-grande dimensione, mentre tende a calare decisamente nei contesti rurali
o urbani di piccole dimensioni. Nelle aree rurali o depresse tende, anzi, a esservi
un eccesso di offerta di alloggi pubblici e poiché i costi legati al loro manteni-
mento sono piuttosto insostenibili, circa 5mila alloggi vengono demoliti ogni
anno (Holmqvist, Bergsten, 2009).
Per quanto riguarda i fenomeni immigratori, in Svezia, escludendo le quote
di immigrati UE15, da Stati Uniti e Finlandia (paese di storica immigrazione per
la Svezia), i cittadini stranieri rappresentano circa il 12% della popolazione,
all’interno della quale i gruppi etnici minoritari più rappresentati, dopo i finlan-
desi, sono gli immigrati provenienti dall’Iraq, dall’ex Jugoslavia e dalla Polonia
(Ekberg, 2006). Con una storia piuttosto simile a quella dell’immigrazione da-
nese, i cittadini di origine straniera hanno iniziato a immigrare in Svezia a parti-
re dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. Riassumendo sinteticamente
la storia dei flussi migratori in Svezia si possono individuare quattro principali
fasi: innanzitutto tra il 1940-48, la Svezia ha dato asilo a rifugiati politici preva-
lentemente provenienti dai paesi dell’Europa dell’Est; tra il 1949-71, è stata in-
vece accolta forza lavoro proveniente dalla Finlandia e dall’Europa del Sud; tra
il 1972 e il 1989, il canale di immigrazione più importante è stato quello del ri-
congiungimento familiare; dal 1990, invece, una buona parte dell’immigrazione
è rappresentata da richiedenti asilo e cittadini dell’Est europeo.
A fronte del mutare del contesto, una caratteristica delle politiche svedesi,
come già esplicitato, è stata quella di essere orientate a supportare le condizioni
abitative della popolazione immigrata attraverso interventi potenzialmente ri-
volti a tutti i soggetti in condizione di disagio socio-economico (Holmqvist,
Bergsten, 2009). Il principio universalistico generale alle basi della politica di
housing svedese, prevede infatti l’allocazione degli alloggi non sulla base di so-
glie di reddito bensì su liste di attesa. In ogni caso l’ampia disponibilità di hou-

66
sing sociale ha rappresentato una risorsa fondamentale per quanto concerne
l’accesso alla casa di tali popolazioni, prevedendo, fra i criteri di priorità nelle
assegnazioni, la condizione di rifugiato politico. In effetti, sebbene qualsiasi ti-
pologia di nucleo familiare possa risiedere negli alloggi pubblici, in tale settore
tendono a essere maggiormente rappresentati quelli composti da un solo genito-
re, anziani soli, immigrati e, nel complesso, le famiglie il cui reddito ricade sot-
to la soglia di povertà (Whitehead, Scanlon, 2007).

Graf. 3 - Percentuali di famiglie immigrate nei differenti contesti territoriali, per


titoli d’uso in Svezia. Anno 2002

35

30

25
proprietà privata
20 Cooperative
15 Affitto privato
Affitto pubblico
10

0
Grandi città Aree suburbane Medie città Aree rurali e
piccoli comuni

Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

In particolare, il fenomeno della concentrazione della popolazione immigrata


nelle residenze di housing sociale risulta più elevato nelle città di Stoccolma e
Göteborg, dove almeno ⅓ delle famiglie immigrate presenti sul territorio, a cau-
sa dell’alto costo delle abitazioni, risiede nel patrimonio abitativo comunale.
Per evitare eccessive concentrazioni territoriali di immigrati, nel corso degli
anni sono stati promossi strumenti che, direttamente o indirettamente, hanno
cercato di evitare fenomeni di segregazione. Dal 1985 è attiva, ad esempio, la
regola Sweden-wide, che prevede una sistemazione non concentrata territorial-
mente dei rifugiati, per evitare segregazione e sollevare le Municipalità da un
peso eccessivo per interventi e sussidi a loro favore (Ekberg, 2006).
Altre politiche sono state invece attivate per promuovere un maggiore mix
sociale, anche attraverso misure indirette.
Un dispositivo emblematico è il sostegno per l’affitto e per l’acquisto. Le
famiglie con redditi bassi possono infatti ottenere un aiuto finanziario indivi-
duale così da poter usufruire, secondo il principio ispiratore di questo intervento

67
in Svezia, del diritto della libertà di scelta della soluzione abitativa considerata
migliore dai diversi soggetti. Secondo una ricerca di Stephens e Lynch (2005),
questo sistema si è dimostrato abbastanza efficace nel supportare la popolazione
più fragile sotto il profilo socio-economico, sollevando notevolmente il reddito
individuale dal peso della locazione, ma ha avuto il limite di coinvolgere pochi
beneficiari in Svezia, rispetto a quanto successo in altri contesti nazionali come,
ad esempio, in Danimarca.
Un’altra strategia di intervento per contrastare la segregazione residenziale è
stata la promozione di politiche di mix abitativo, declinato secondo due diffe-
renti strategie di intervento (Holmqvist, Bergsten, 2009).
La prima coinvolge gli strumenti di pianificazione urbanistica, prevedendo
come principio generale quello dell’eterogeneità dello stock immobiliare. La se-
conda è quella della promozione del “diritto a comprare” attraverso la formula
della costituzione di cooperative, evitando forme di speculazione e sostenendo
l’accesso al credito per i nuclei più svantaggiati. Quest’azione è stata soprattutto
operata nei quartieri considerati “meno attrattivi” per promuovere investimenti
di riqualificazione e combattere la segregazione residenziale. Inoltre, negli ulti-
mi dieci anni, sono state attivate politiche d’intervento sociale nei quartieri che
presentavano le più alte concentrazioni di disagio. Nel 1998 è stato lanciato il
Metropolitan Development Iniziative, un progetto per migliorare la qualità degli
spazi pubblici e le strutture, ma anche per supportare progetti di contrasto alla
dispersione scolastica e l’acquisizione di competenze professionali. L’obiettivo
non è stato quello di perseguire il mix abitativo, ma di promuovere un generale
sviluppo delle popolazioni residenti nell’area, con un focus molto specifico sul
tema della lotta alla disoccupazione e il miglioramento delle condizioni
d’impiego.
In sintesi, l’esperienza svedese, pur presentando alcune analogie con il caso
danese, appare differenziarsi da quel modello nelle sue più recenti traiettorie evo-
lutive. Innanzitutto non si registrano casi così emblematici di riduzione dell’of-
ferta di housing sociale così come successo a Copenaghen, con evidenti riper-
cussioni positive in termini di disponibilità di alloggi a prezzi contenuti e condi-
zioni di segregazione spaziale della componente immigrata. Le Amministrazio-
ni pubbliche rimangono, invece, gli attori protagonisti di queste politiche, pro-
muovendo interventi ancora connotati da una logica universalistica e rivolti a
contrastare la segregazione socio-economica delle aree urbane, con un effetto
positivo indiretto sui problemi abitativi e lavorativi dei cittadini immigrati.

2.4 L’incerto futuro delle politiche abitative olandesi

L’Olanda rappresenta un caso di studio interessante per quanto riguarda le poli-


tiche abitative pubbliche innanzitutto poiché, in nessun altro paese europeo, il

68
settore di social housing arriva a coprire il 35% del patrimonio abitativo com-
plessivo, come invece avviene nei Paesi Bassi (Whitehead, Scanlon, 2007).
A differenza del contesto svedese, in Olanda nel rispondere a questo bisogno
sociale emerge il protagonismo del terzo settore (circa 500 housing associations
e fondazioni) impegnato nella gestione di più di 2 milioni di alloggi, come con-
seguenza di una politica di esternalizzazione di questo servizio operata gra-
dualmente dalla gran parte delle Amministrazioni comunali in Olanda a partire
dagli anni Ottanta (van Kempen, Bolt, 2009). Alle housing associations oggi
sono riconosciuti benefici fiscali, come l’esenzione dall’imposta sulle società e
dall’Iva (Baldini, Federici, 2008); da circa un decennio, però, sono stati interrot-
ti importanti flussi di finanziamento pubblico rivolto a queste realtà, un fattore
che secondo alcuni autori avrebbe portato, anche in Olanda, a un aumento delle
vendite di unità alloggiative pubbliche ai privati (van Kempen, Bolt, 2009).
Questa nuova politica è scaturita dalla valutazione di una sorta di eccesso di di-
sponibilità di affitti sociali a canone moderato all’interno dei contesti urbani di
maggiori dimensioni (in particolare ad Amsterdam), rispetto a una offerta più
limitata, sia in locazione che in vendita, di alloggi di livello medio-alto (van
Kempen, Priemus, 2002).
Da metà degli anni Novanta in poi, la ridotta disponibilità di sostegno pub-
blico e soprattutto un discorso politico meno orientato a sostenere l’immagine di
un settore di housing sociale non residuale, avrebbe gradualmente intaccato
quella condizione di assenza di stigma correlato al vivere in un alloggio sociale
che ha storicamente contraddistinto il settore abitativo olandese. In particolare,
nel corso degli anni, si sarebbe assistito a una maggiore concentrazione di situa-
zioni di disagio socio-economico nel patrimonio abitativo pubblico a causa della
fuoriuscita dei gruppi maggiormente benestanti, sempre più orientati ad acqui-
stare unità abitative monofamiliari all’esterno dei confini urbani (van Kempen,
Priemus, 2002).
In ogni caso, nonostante questi cambiamenti, i dati confermano un’ottima
dotazione di residenze di housing sociale in Olanda, soprattutto nei grandi centri
urbani di Amsterdam e Rotterdam dove la quota di alloggi in locazione presso
le housing associations si aggira ancora intorno al 50% dell’intero patrimonio
abitativo comunale. Le housing associations gestiscono il processo di assegna-
zione degli alloggi, sulla base della dimensione dell’alloggio e del nucleo fami-
liare, oltre che al livello di reddito dei richiedenti. In particolare, poiché gli al-
loggi a basso costo sono comunque ancora in numero insufficiente per soddisfa-
re tutte le richieste, le housing associations hanno la responsabilità di assegnarli
a chi presenta effettivamente i redditi più bassi. Anche i Comuni possono inter-
venire per regolare l’assegnazione di tali alloggi e recentemente, in alcune mu-
nicipalità (es. Delft) sono state sperimentate procedure per garantire una mag-
giore libertà di scelta ai richiedenti.
Per quanto riguarda la dimensione dell’affordability, circa il 95% degli al-
loggi in affitto ricade nel settore “regolato”, ovvero caratterizzato da un affitto

69
mensile inferiore alla soglia conosciuta come “limite di liberalizzazione”, pari a
621,78 euro nel 2007. Negli affitti regolati i canoni sono stabiliti dal governo
centrale, così come gli aumenti massimi, che oggi sono legati al tasso d’infla-
zione (Baldini, Federici, 2008).
Al di sopra di questa soglia, invece, gli affitti sono considerati “liberalizza-
ti”, determinati individualmente da locatore e locatario in base alle regole del
mercato. Inoltre, anche in Olanda, uno strumento di supporto al pagamento del
canone è l’indennità di affitto, che può essere ottenuta dagli affittuari delle hou-
sing associations, ma anche da quelli del settore privato. I beneficiari sono indi-
viduati sulla base di soglie massime di reddito e ricchezza, calcolate rispetto al
numero di componenti del nucleo familiare e per età: per quanto riguarda il so-
stegno delle fasce più basse, l’indennità può arrivare a coprire fino al 100% del
canone. Tale strumento è regolato a livello nazionale, tuttavia, in alcuni Comuni
(ad esempio Amsterdam e Zoetermeer) esiste un sistema di indennità aggiunti-
vo, finanziato da fondi comunali.
Per quanto riguarda i flussi migratori, nel 2006, su 16 milioni di abitanti, i
cittadini stranieri di prima e seconda generazione (definiti alloctoni nelle stati-
stiche ufficiali) ammontavano a circa 2,8 milioni di persone, provenienti soprat-
tutto dall’Indonesia, Turchia, Marocco, Suriname, Antille olandesi-Aruba (van
Heelsum, 2007).
A differenza dei paesi scandinavi, l’Olanda ha una più antica storia di immi-
grazione determinata dal suo passato colonialista, anche se fino all’inizio del
Ventesimo secolo è stato cospicuo anche il fenomeno dell’emigrazione di citta-
dini olandesi verso altri continenti. Per quanto riguarda i flussi in entrata, le
principali fasi storiche dell’immigrazione olandese possono essere descritte lun-
go tre periodi (van Heelsum, 2007):
1) la fase della decolonizzazione, fra il 1945 e il 1973. In questi anni i flussi
più importanti hanno riguardato l’arrivo di immigrati dall’India, dal Suri-
name e dalle Antille, anche se l’immigrazione più consistente dal Suriname
si è avuta a partire dal 1975, anno dell’indipendenza del paese sudamericano;
2) l’accoglienza di manodopera immigrata fra la metà degli anni Sessanta e Ot-
tanta. In questo periodo l’Olanda ha attratto molti lavoratori dal Sud Europa,
Turchia e Marocco, considerati inizialmente come guest workers, ma di fat-
to mai più rientrati nei paesi di origine. È verso la fine degli anni Settanta che
l’Olanda, constatata tale realtà, inizia quindi a dotarsi di politiche
sull’immigrazione, focalizzate soprattutto sul supporto sociale e interventi
volti a interrompere possibili circoli viziosi di disagio;
3) infine dagli anni Novanta in poi l’immigrazione è stata caratterizzata soprat-
tutto dai richiedenti asilo provenienti da paesi come l’Iraq, l’Afghanistan,
l’ex Jugoslavia e l’ex Unione sovietica. In questa fase le politiche avrebbero
iniziato a trasformarsi, rivolgendosi in prima istanza alla promozione
dell’integrazione attraverso lo studio della lingua e cultura olandese per i

70
neoarrivati, fino a rasentare un atteggiamento fondamentalmente discrimina-
torio nella fruizione di alcuni diritti sociali.
L’attore istituzionale maggiormente coinvolto nel governo dell’immigrazione è
il Ministero della Giustizia, che ha diversi dipartimenti dedicati alle politiche
migratorie. Recentemente, per quel che concerne le problematiche abitative de-
gli immigrati, è stato pubblicato un report dal Consiglio per lo sviluppo sociale
(2005) che ha affrontato il tema della segregazione abitativa degli immigrati. Le
competenze maggiori in questo campo appartengono però al livello del governo
locale e, in particolar modo, municipale. In generale le problematiche abitative
degli immigrati sono più diffuse nelle città di dimensione medio-grande.
Benché la disponibilità di social housing sia molto alta in città, l’offerta di
case a basso canone non riesce a soddisfare completamente la richiesta e, so-
prattutto, si registrano alcune situazioni di segregazione in quelle aree caratte-
rizzate da una percentuale di housing sociale superiore al 60% dello stock abita-
tivo. Inoltre, un altro problema diffuso fra gli immigrati è relativo alle condizio-
ni di affollamento abitativo: se, secondo gli standard olandesi, circa il 30% degli
abitanti di Amsterdam vive in case eccessivamente piccole, questa percentuale
sale al 50% fra i migranti (van Kempen, Priemus, 2003).
Dal 1994 sono stati attivati a livello nazionale dei programmi di intervento
rivolti ai contesti urbani. Il primo programma “Grandi città”, ha coinvolto circa
31 contesti e si è concentrato sul rinnovamento urbano delle aree fino al 1997,
anno di pubblicazione del “Libro Bianco sulle politiche di riqualificazione”, che
ha rivolto un invito esplicito alla diversificazione abitativa delle aree, attraverso
la demolizione di grandi complessi di housing sociale in favore della costruzio-
ne di abitazioni più costose (van Kempen, Priemus, 2003).
Dopo gli attentati di New York del 2001, la linea di intervento si è invece ri-
volta sempre più esplicitamente al contrasto alla segregazione su base etnica,
per evitare fenomeni di radicalizzazione. In particolare, nel 2007 è stato pro-
mosso dal governo nazionale un programma per promuovere “coesione sociale
e mix abitativo” in 40 distretti urbani, denominati “aree di azione”, definiti sulla
base di alcuni indicatori: percentuale di nuclei familiari con basso redito, sicu-
rezza oggettiva, condizioni abitative, percentuali di migranti, clusters di social
housing al 100% del patrimonio abitativo locale, aree degradate sotto il profilo
architettonico e a scarsa dotazione infrastrutturale. Come noto, poiché il termine
coesione sociale è nella sua essenza piuttosto ambiguo (Ranci, 2007; Alietti,
2009) è interessante evidenziare come la sua definizione all’interno di questo
programma sia stata quella della “sensazione di vivere in un’area che è casa
propria e di avere controllo sull’ambiente” (van Kempen, Bolt, 2009).
Questo programma prevede una strategia di riqualificazione urbanistica e in-
terventi sociali basata su cinque pilastri (casa, lavoro, educazione, integrazione
e sicurezza) ed esplicitamente orientata a favorire il mix sociale.
L’aspetto interessante è che, al di là dell’obiettivo generale, gli strumenti
hanno portato a risultati però assai differenti.

71
Innanzitutto, l’analisi dei programmi ha rivelato come, a livello municipale,
la concentrazione spaziale sia indicata come problematica in termini di segrega-
zione socio-economica piuttosto che su base etnica e che le questioni maggior-
mente correlate a questo fenomeno siano in termini di coesione sociale (anche
se permangono una diffusa ambiguità su questo termine e la difficoltà di una
sua operazionalizzazione), ma anche di cumulazione dei problemi, peggiora-
mento della vivibilità e limitazione della mobilità sociale e residenziale.
Un altro aspetto interessante da valutare è stato l’indirizzo dei piani attuati
dalle pubbliche amministrazioni che hanno aderito a questo programma (van
Kempen, Bolt, 2009).
1) In alcuni casi il mix sociale risulta un elemento secondario, mentre la cen-
tralità dei progetti è stata spostata sulla promozione di condizioni di integra-
zione sociale;
2) in altre esperienze il mix sociale rappresenta uno degli obiettivi delle poli-
cies implementate, ma coerentemente con la definizione di segregazione, è
promosso come mix di condizioni socio-economiche piuttosto che di origi-
ne etnica degli abitanti;
3) in altri casi la mixité è il centro dei programmi di riqualificazione, attraverso
la demolizione di interi complessi di abitazioni di housing sociale, per pro-
muovere una maggiore attrattività per le classi medio-alte;
4) vi sono però programmi dove non vi è la minima intenzione di creare mix
sociale, ma l’attenzione è rivolta solo alla convivenza sociale e a interventi
per promuovere le condizioni socio-economiche delle popolazioni residenti.
In sintesi, anche in Olanda, benché rimanga una disponibilità di alloggi di hou-
sing sociale estremamente significativa rispetto a quanto si osservi negli altri
paesi europei, si può registrare una recente tendenza a favorire interventi rivolti
a spostare le preferenze delle classi medio-alte verso l’acquisto dell’abitazione
privata, rispetto all’accesso alle abitazioni gestite dalle housing associations. Le
politiche rivolte a contrastare le difficoltà di accesso ad abitazioni poco costose
(che riguardano innanzitutto la condizione degli immigrati), non sembrano però
altrettanto vivaci.
Infine, per quanto riguarda la questione della segregazione, se è poco discu-
tibile che la concentrazione su base etnica sia vista come un problema di sicu-
rezza a livello di governo centrale, è da notare come essa sia poi declinata in
modo estremamente differente a livello municipale, ovvero da quegli attori
pubblici che sono più vicini all’ascolto dei bisogni abitativi locali e attivi nella
risposta alle loro esigenze.

2.5 Discriminazione e autosegregazione nelle politiche abitative inglesi

Secondo una classificazione adottata dall’Unione europea nel 1997 (European


Parliament, 1997), la Gran Bretagna appartiene a quel gruppo di paesi in cui il

72
settore pubblico risulta particolarmente impegnato nel campo delle politiche
abitative, con un investimento finanziario che si aggira attorno al 5% del Pil na-
zionale (Cresme, 2003). Benché nell’ultimo decennio siano intervenute delle
notevoli trasformazioni nella governance del settore abitativo pubblico inglese,
questo paese rappresenta ancora una delle realtà europee in cui l’housing sociale
può essere considerato una risorsa importante: nel 2007 quasi 2 milioni di al-
loggi risultavano gestiti da organizzazioni senza scopo di lucro (housing asso-
ciations) e altrettanti erano gestiti direttamente dagli enti locali, coprendo circa
il 20% dell’interno stock abitativo nazionale.
Anche in Gran Bretagna è dal secondo dopoguerra che è venuto a istituzio-
nalizzarsi un settore abitativo pubblico particolarmente importante, che almeno
fino agli anni Ottanta ha conosciuto un’espansione notevole grazie a un prota-
gonismo diretto delle istituzioni locali impegnate a spostare le preferenze di lo-
cazione dal mercato privato al settore regolamentato pubblico.
Nell’ultimo trentennio sono state principalmente due le trasformazioni che
hanno caratterizzato le politiche di social housing inglese. La prima è consistita
in una progressiva crescita di importanza del settore non-profit nella gestione
del patrimonio abitativo: se nel 1979 esso rappresentava solo l’1% dello stock
totale, nel 2005 raggiungeva invece l’8% (Whitehead, Scanlon, 2007). Questo
fenomeno è stato favorito dal fatto che, dalla fine degli anni Ottanta, si è affer-
mata in larga scala una politica di trasferimenti volontari dagli enti locali alle
housing associations (oggi, sono solo 200 gli enti locali che non hanno trasferi-
to tutto il loro stock abitativo al settore non-profit) e, al tempo stesso, anche le
nuove costruzioni destinate all’affitto sociale si sono concentrate nel settore
non-profit.

Graf. 3 - Declino dell’housing sociale in Inghilterra. Anni 1976-2005

6000

5000

4000

3000 housing associations


case comunali
2000

1000

0
1976 1986 1996 2001 2005

Fonte: Whitehead, Scanlon, 2007

La più importante trasformazione è stata però introdotta attraverso


l’affermazione del diritto all’acquisto della casa in locazione, ovvero il right to
73
buy. Istituzionalizzato a partire dal 1980, esso consiste nella possibilità di offer-
ta ai locatari di acquistare a prezzi scontati l’alloggio in cui risiedono da almeno
cinque anni.
Questo strumento, insieme a una complessiva trasformazione delle preferen-
ze individuali verso l’acquisto della casa, ha progressivamente portato anche in
Gran Bretagna alla predominanza della modalità abitativa della “casa di proprie-
tà”, che oggi impegna il 70% dello stock immobiliare nel paese. Il social hou-
sing, attualmente, rappresenta quindi una sistemazione abitativa se non proprio
residuale, sicuramente orientata a soddisfare le necessità dei nuclei familiari con
redditi bassi, anche se con alcune importanti distinzioni. Innanzitutto la dispo-
nibilità di tali alloggi varia molto all’interno del paese: nella zona di Londra
(Select Commitee on Economic Affairs, 2008), ad esempio, la domanda supera
di gran lunga l’offerta e inoltre, aspetto molto importante per il contesto di que-
sta ricerca, sono esclusi da questa opportunità gli immigrati il cui status non
comporta pieni diritti (in particolare fra i neoarrivati solo i rifugiati possono ac-
cedere all’housing sociale), e chi, pur avendo pieni diritti, ha vissuto per un lun-
go periodo all’estero.
Le modalità di accesso sono determinate dagli enti locali, ma all’interno di
alcune linee guida generali come (Baldini, Federici, 2008) una “ragionevole
preferenza” per i senzatetto o chi è a rischio di diventarlo; le persone che vivono
in condizioni insalubri, insoddisfacenti o di sovraffollamento; coloro che devo-
no trasferirsi per motivi di salute o altri bisogni particolari; chi si trovi in “biso-
gno prioritario”, come ad esempio le donne incinte, i nuclei familiari con figli a
carico, le persone vulnerabili a causa di disabilità mentali e fisiche, o per l’età
(in particolare tra i 16 e i 21 anni), ecc.
Nonostante questi indirizzi, nelle aree a maggiore pressione abitativa per-
mangono diversi problemi (Dell’Olio, 2004):
– il primo riguarda l’accesso all’housing sociale, soprattutto nella capitale do-
ve i tempi di attesa sono almeno di sette anni;
– un’altra questione significativa è la difficoltà a dare risposta ai bisogni degli
homeless, che in numero sempre crescente sono alloggiati attraverso solu-
zioni temporanee;
– la bassa qualità delle strutture, un problema piuttosto comune a molte strut-
ture gestite dalle autorità pubbliche;
– infine, anche in Gran Bretagna, si stanno inasprendo le situazioni di segre-
gazione spaziale su base socio-economica ed etnica.
Il fenomeno dell’immigrazione in Gran Bretagna è strettamente legato al passa-
to coloniale del paese e alla centralità che tale economia ha rivestito nello svi-
luppo europeo a partire dalla rivoluzione industriale (Rutter, Latorre, 2009). Nel
primo ventennio del Novecento, i principali flussi migratori hanno riguardato in
particolare cittadini irlandesi e i migranti provenienti da alcune aree asiatiche su
cui insistevano i territori dell’Impero inglese, quali l’India, il Bangladesh, il Pa-
kistan, ma anche i Carabi e alcuni paesi africani come il Sud Africa e il Kenya.

74
Il periodo del secondo dopoguerra è stato caratterizzato, invece, da una forte
immigrazione proveniente dai paesi del Commonwealth, fino a quando nel 1972
sono state introdotte restrizioni specifiche rispetto a tale immigrazione. Negli
stessi anni, inoltre, si sono andati ad aggiungere diverse migliaia di richiedenti
asilo, provenienti principalmente da paesi dell’Est Europa come la Polonia e
l’Ungheria.
È però negli anni Novanta che si assiste a un vero e proprio boom
dell’immigrazione, che aumenta di più di un milione arrivando a circa 5 milioni
di cittadini stranieri residenti in Gran Bretagna.
Gli anni seguenti sono stati inoltre caratterizzati da un dibattuto aumento nel
numero dei richiedenti asilo politico e, benché siano state introdotte alcune re-
strizioni specifiche, da una crescita dei flussi migratori dai nuovi paesi ammessi
nell’Unione europea.
Queste dinamiche hanno quindi determinato, nel corso del tempo, la presen-
za di una popolazione di origine straniera che nel 2007 veniva stimata attorno al
10% di quella complessiva, in cui le minoranze maggiormente rappresentate
(oltre quella irlandese) sono quelle indiana, polacca, pakistana e bengalese.
Le problematiche legate alla condizione abitativa degli immigrati in Inghil-
terra sono più accentuate rispetto a quanto si registri nei paesi scandinavi e in
Olanda, soprattutto per i neoarrivati, che come già anticipato, sono di fatto
esclusi dall’accesso all’housing sociale fino all’acquisizione della residenza, a
meno che non rientrino nella categoria dei richiedenti asilo, per cui sono state
istituite specifiche housing associations.

Graf. 4 - Distribuzione dei titoli d’uso per provenienza. Anno 2007

100%
80%
60%
40%
20%
0%
Proprietà privata Affitto sociale Affitto privato Altro

Nati in UK Nati all'estero Nati all'estero arrivati negli ultimi 5 anni

Fonte: Rutter, Latorre, 2009

Come evidenziato nel grafico 4, quindi, all’incirca il 90% del patrimonio abita-
tivo pubblico è, di fatto, in locazione a cittadini britannici, mentre è più diffusa
nella popolazione immigrata il ricorso all’affitto privato, se considerato econo-
micamente sostenibile (Select Commitee on Economic Affairs, 2008). In alcuni
contesti urbani, come ad esempio a Londra, il costo del mercato privato ha in-
75
fatti spinto notevolmente la popolazione immigrata a inserirsi nelle lunghe liste
di attesa delle housing associations e degli enti pubblici, determinando una no-
tevole presenza della componente immigrata in questo settore: nel 2007, circa il
40% dei cittadini stranieri residenti a Londra era infatti sistemato all’interno del
settore sociale (Select Commitee on Economic Affairs, 2008). Le condizioni
abitative degli immigrati che sono entrati nel sistema di housing sociale in UK,
però, sono spesso connotate da situazioni di deprivazione maggiore rispetto a
quelle dei nativi (Dell’Olio, 2004) e, inoltre, si possono osservare fenomeni di
concentrazione spaziale di gruppi etnicamente omogenei. Le ragioni di questa
concentrazione sono in parte dipendenti dalla qualità abitativa più scadente che
connota le strutture di housing sociale in cui sono inseriti gli immigrati, ma an-
che da alcune recenti trasformazioni nei criteri di accesso (van Ham, Manley,
2009). Sul modello olandese, in molte realtà inglesi è stata infatti sperimentata
una modalità di assegnazione che prevede maggiore libertà di scelta per i ri-
chiedenti rispetto al criterio delle liste di attesa. Esso prevede che i candidati per
il social housing, o i locatari di social housing che desiderano trasferirsi, possa-
no presentare domanda per l’alloggio che meglio risponde alle loro esigenze tra
quelli segnalati dalle autorità su giornali e siti internet specializzati. Questo mo-
dello, secondo le analisi effettuate da alcuni studiosi (van Ham, Manley, 2009),
in Gran Bretagna avrebbe di fatto favorito alcuni fenomeni di auto-segregazione
su base etnica, cosa non verificatasi nelle città olandesi in cui era stato prece-
dentemente sperimentato (van Ham, Manley, 2009). Si tratta di un fenomeno di
cui è difficile comprendere le motivazioni, che sono per lo più attribuite ai di-
versi modelli di integrazione culturale che connotano i due paesi. È però lecito
ipotizzare che tale tendenza sia anche attribuibile a una maggiore “consuetudi-
ne” all’insediamento in aree omogenee da un punto di vista etnico tipico della
Gran Bretagna, determinata dalla discriminazione di fondo a cui sono sottoposti
gli immigrati all’interno del mercato di locazione privato, che li conduce a cer-
care e trovare alloggio da proprietari originari dello stesso paese di provenienza
(Rutter, Latorre, 2009). È bene però sottolineare che, negli ultimi anni, la Gran
Bretagna ha introdotto alcune normative per combattere la discriminazione su
base etnica nel mercato privato, che sembrano per lo meno avere scoraggiato la
diffusione di un settore informale eccessivamente penalizzante nel campo delle
locazioni (Dell’Olio, 2004). Si tratta di un elemento che, quanto meno, sembra
in parte compensare un settore pubblico che, in Gran Bretagna, invece appare
sempre meno orientato a rispondere ai bisogni abitativi dei migranti nonostante
l’ancora ampia disponibilità di housing sociale che caratterizza il patrimonio
immobiliare.

76
2.6 Mix sociale e quote nelle politiche abitative tedesche

L’ultimo contesto nazionale esplorato è quello tedesco, che rispetto ai casi pre-
cedentemente trattati rappresenta un’esperienza più debole da un punto di vista
di stock abitativo pubblico disponibile, ma decisamente interessante per quanto
concerne i rapporti fra flussi migratori e interventi per la casa, soprattutto in re-
lazione alle dinamiche intercorse dopo la riunificazione del paese.
Innanzitutto è bene specificare che è piuttosto complesso ricostruire un qua-
dro unitario delle politiche abitative tedesche, poiché le competenze relative a
questo settore in Germania, dal 2007, sono attribuite ai Länder, il che configura
una realtà a macchia di leopardo, sia in termini di dotazione di stock abitativo,
sia in termini di modalità di gestione applicata (Whitehead, Scanlon, 2007).
In ogni caso, i dati nazionali rivelano che sui circa 40 milioni di abitazioni
esistenti in Germania nel 2004, il 43% era di proprietà privata, ben il 51% in af-
fitto privato e il 6% in affitto sociale, con una generale tendenza al ridimensio-
namento del comparto di social housing.
Un aspetto interessante del caso tedesco è rappresentato dal fatto che il si-
stema di housing sociale è regolato, in buona parte, mediante meccanismi di
mercato (Glock, Haussermann, 2004). A partire dal secondo dopoguerra il go-
verno della Germania federale, attraverso un sistema di finanziamenti e sgravi
fiscali, ha incentivato investimenti pubblici e privati per la riqualificazione di
edifici o la costruzione di nuove strutture destinate, almeno per 40 anni, a uso
sociale. Sebbene questo meccanismo abbia incentivato l’inserimento di alcuni
grandi attori privati nel settore dell’housing sociale, in molti casi ha per lo più
portato alla costituzione di aziende municipali; tali enti, una volta terminato il
periodo di destinazione a uso sociale previsto per legge, in alcuni contesti hanno
preferito alienare il proprio patrimonio, mentre in altri casi hanno deciso di con-
tinuare a impiegare le abitazioni secondo funzioni di housing sociale. È eviden-
te, però, che questo sistema ha determinato, a partire dagli anni Novanta, una
graduale diminuzione dello stock abitativo pubblico, a favore della diffusione
della locazione privata e dell’acquisto della casa.
Oggi esistono fondamentalmente tre tipologie di housing sociale in Germa-
nia (Glock, Haussermann, 2004):
– la prima, regolata a livello federale, consiste in abitazioni in affitto sociale
alle quali possono accedere esclusivamente famiglie a basso reddito;
– una seconda tipologia, presente solo in alcuni Stati, comprende appartamen-
ti di migliore qualità e a canoni di affitto più elevati, calmierati per un perio-
do inferiore rispetto ai primi e con regole per l’accesso meno restrittive;
– la terza tipologia, infine, consiste in alloggi di proprietà venduti ai potenziali
beneficiari di edilizia sociale.
Per quanto riguarda le necessità dei gruppi sociali più vulnerabili, le responsabi-
lità sono ricondotte al livello di governo municipale, con una notevole eteroge-
neità locale.

77
Le differenze che connotano la situazione abitativa tedesca non sono però at-
tribuibili solo al sistema di governance e alle competenze locali in materia, ma
derivano anche dalla diversa tensione abitativa che caratterizza i territori della
ex Germania dell’Est e dell’Ovest (Burkner, 2004). Come noto, nella seconda
metà del Novecento, i due contesti hanno conosciuto uno sviluppo assai diffe-
renziato del settore abitativo, che oggi si concretizza in una minore disponibilità
di alloggi nelle aree economicamente più attive dell’ex Germania dell’Ovest e
in una sovrabbondanza di alloggi, spesso in stato abitativo scadente, che caratte-
rizza diverse aree depresse dell’Est. Per intervenire su questo fenomeno, ad
esempio, nel 2002 il Governo federale ha lanciato il programma “Recupero Ur-
bano dei nuovi Stati federali”, i cui obiettivi principali sono stati la riqualifica-
zione dello stock edilizio e dei quartieri residenziali, e la demolizione di circa
350mila appartamenti sfitti da lungo tempo per stabilizzare il mercato immobi-
liare locale.
Le questioni relative alla riunificazione hanno avuto notevoli ripercussioni
anche sui fenomeni migratori in Germania. Dopo la Seconda guerra mondiale,
sono rientrati in Germania dell’Ovest circa 12 milioni di rifugiati politici e cit-
tadini espulsi durante il conflitto bellico e prima della costruzione del muro di
Berlino nel 1961, circa 3,8 milioni di persone sono emigrate dall’Est all’Ovest
(Lüken-Klaβen, 2007). Dal 1950 al 1970 le principali ondate migratorie sono
state però collegate alla necessità di manodopera per assecondare il quasi mira-
coloso ciclo di crescita economica tedesco, attraverso i cosiddetti Gestarbeiter.
Nel 1973 erano circa 4 milioni i cittadini stranieri residenti nel paese, che negli
anni Settanta continuarono a crescere soprattutto a seguito dei ricongiungimenti
familiari.
Alla fine degli anni Ottanta, con la caduta della Cortina di ferro, inizia una
nuova fase dell’immigrazione in Germania, principalmente costituita dall’in-
gresso degli Spataussiedler, ovvero da cittadini provenienti dall’Est europeo, a
cui negli anni Novanta si sono aggiunti circa un milione di richiedenti asilo pro-
venienti dall’Africa e dall’Asia.
Nel 2006 erano circa 7 milioni i cittadini residenti in Germania in possesso
di cittadinanza straniera, di cui circa il 30% proveniva dall’Unione europea, il
47% da altre regioni dell’Europa, il 12% dall’Asia: i turchi con 1,75 milioni di
presenze costituiscono il gruppo di minoranza etnica più numeroso, seguito dai
cittadini dell’ex Jugoslavia, italiani, polacchi e greci. Se a questo numero si
sommano, però, anche i tedeschi di seconda generazione e i cittadini naturaliz-
zati, la percentuale sale a circa il 20% della popolazione in generale.
Benché fino al 1998 siano prevalse interpretazioni politiche che non raffigu-
ravano la Germania come un paese di immigrazione (Munch, 2009), già a parti-
re dalla fine degli anni Settanta non sono comunque mancate politiche di inte-
grazione coordinate da una apposita Commissione. Per quanto concerne le poli-
tiche abitative in particolare, la buona disponibilità di social housing che ancora
si registrava in quel decennio aveva permesso un significativo accesso dei mi-

78
granti nei numerosi quartieri di edilizia sociale presenti nei centri urbani tede-
schi di maggiore dimensione, soprattutto a seguito dei primi massicci trasferi-
menti di parte della classe operaia tedesca verso altre soluzioni abitative. È però
proprio in quegli stessi anni che inizia a diffondersi un’attenzione pubblica piut-
tosto vivace nei riguardi delle problematiche segregative e della necessità di
promuovere interventi per affermare un maggiore mix sociale all’interno delle
aree a maggiore concentrazione (Munch, 2009): nel 1975 viene per la prima
volta stabilito un limite all’insediamento urbano degli immigrati attraverso il
sistema delle quote al 12% della popolazione locale, un limite per la verità mai
rispettato per una serie di regolamenti europei che già allora ne rendevano diffi-
cile l’applicazione.
Negli anni Novanta, a causa di una progressiva privatizzazione del settore
pubblico conseguente anche alla necessità di recuperare finanziamenti per gli
investimenti da attuare nei territori della Germania dell’Est, il disagio abitativo
degli immigrati si è fatto però più urgente. A fronte di un mercato privato piut-
tosto inaccessibile per i gruppi sociali più vulnerabili, anche a causa di una di-
scriminazione diffusa (Munch, 2009), la strategia delle istituzioni è stata quella
di promuovere una maggiore deregolazione degli investimenti privati nell’housing
sociale, ad esempio attraverso il rilascio di maggiori concessioni e di aree da de-
stinare alle nuovi costruzioni. Tale strategia ha però dimostrato risultati ambi-
gui, soprattutto in termini di aggravamento delle dinamiche segregative, a causa
di procedure di allocazione sempre meno basate su criteri di mescolanza sociale
e, in un’ottica soprattutto di mercato, sempre più attente a soddisfare l’urgente
domanda abitativa delle popolazioni immigrate. Le difficoltà ad accedere al
mercato privato, più che una propensione di per sé auto-segregativa (Munch,
2009), avrebbero quindi dato avvio (o rafforzato) la costituzione di aree omoge-
nee da un punto di vista etnico all’interno delle abitazioni di housing sociale.
Il permanere di una percezione pubblica particolarmente avversa alla costi-
tuzione di quartieri etnici, ha riacceso l’attenzione delle istituzioni nei confronti
del social mix: agli inizi degli anni 2000, ad esempio, molte aziende private e
municipali coinvolte nel sistema di social housing hanno recepito alcune indica-
zioni federali relative ai criteri di assegnazione delle abitazioni, prevedendo che
l’80% degli alloggi sia da destinare a cittadini europei.
Questa “ossessione” per il mix sociale è riscontrabile anche in alcune politi-
che promosse a livello locale (Lüken-Klaβen, 2007). Ad esempio ad Amburgo,
nel 2004, l’Amministrazione comunale ha promosso interventi tesi a favorire la
mobilità di studenti verso quartieri a rischio segregazione, attraverso un piano di
sussidi all’affitto. Anche Stoccarda ha attivato tutta una serie di interventi tesi a
evitare fenomeni di concentrazione spaziale, attraverso una particolare attenzio-
ne a strategie di riqualificazione urbana dei quartieri a rischio di degrado abita-
tivo e di segregazione urbana.
È bene però specificare che, recentemente, le autorità locali tedesche si sono
anche dimostrate molto attive nell’intervenire su altre questioni correlate al di-

79
sagio abitativo dei migranti. Il programma “Città sociale” della città di Stoccarda
(Lüken-Klaβen, 2007), ad esempio, ha incentivato una serie d’interventi orientati
esplicitamente a promuovere migliori condizioni d’integrazione culturale degli
immigrati nei quartieri a rischio; inoltre, attraverso servizi di mediazione cultura-
le attivi in diverse aree ad alta concentrazione, l’Amministrazione si è impegna-
ta a smorzare eventuali possibili situazioni di conflitto.
Al di là delle più note e, per certi versi discutibili, politiche di mix sociale,
gli interventi di contrasto al disagio abitativo dei migranti e a favore delle loro
opportunità d’integrazione sono quindi largamente presenti nei contesti locali
tedeschi. Tuttavia essi appaiono compensare solo in parte una situazione conno-
tata da forti criticità per la popolazione immigrata, generata da una regolazione
delle politiche pubbliche dipendente da meccanismi di mercato e da atteggia-
menti discriminatori nell’ambito della locazione privata.

80
3. Il caso italiano. Aree critiche, politiche e iniziative a
livello nazionale e regionale
di Alfredo Agustoni

3.1 Questione abitativa ed edilizia residenziale pubblica in Italia

3.1.1 Scene di “guerra tra poveri” e cronaca di una crisi annunciata

Il luogo comune della “guerra tra poveri” attorno alla casa comincia a proporsi
nella vulgata giornalistica in relazione con la comparsa e poi con la repentina
crescita dei migranti nelle graduatorie dell’edilizia residenziale pubblica1, quasi
come se gli immigrati fossero andati a occupare uno spazio nell’ambito del wel-
fare abitativo, impedendo l’accesso al bene casa a segmenti bisognosi della po-
polazione italiana. Basandoci, in poche parole, sul luogo comune appena men-
zionato, potremmo ricavare l’impressione che i fenomeni migratori abbiano si-
gnificativamente contribuito alla crisi abitativa, soprattutto nei settori medio-
bassi del mercato immobiliare e, segnatamente, nell’ambito dell’edilizia sociale,
laddove prima sarebbe esistita un’offerta adeguata alla domanda.
Del tutto differente è la situazione, dal momento che gli immigrati si sono
inseriti in una situazione di cronica crisi del mercato e del welfare abitativo, ca-
ratterizzata, tra l’altro, da un’offerta residenziale pubblica relativamente irriso-
ria2. Nel nostro paese, solo l’8% dei richiedenti accede a un alloggio residenzia-
le pubblico, mentre:

una indagine del Cresme ha accertato che in Italia la pur consistente produzione edilizia
tra il 2000 e il 2005 ha realizzato un misero 1% di alloggi pubblici e un numero trascu-
rabile di alloggi a canone calmierato (Fondazione Michelucci, 2009: 6).

1
Cfr. par. 3.1.4.
2
Cfr. par. 3.1.2.

81
3.1.2 Nuova governance, risorse carenti. Recenti trasformazioni nel settore
dell’Erp

Nel complesso, il patrimonio edilizio residenziale pubblico ammonta, in Italia, a


800mila unità abitative (sarebbero, secondo stime Eurostat, il 4,5% delle unità
abitative prese nel loro complesso e il 20% di quelle locate: Tab. 1). Questo pone
il nostro paese in una posizione tutto sommato peculiare. Sicuramente assimila-
bile, al pari di Grecia, Spagna e Portogallo, a un “modello mediterraneo” (enfasi
sulla proprietà della casa, per cui l’Italia è seconda alla sola Spagna, e debolezza
del settore dell’edilizia sociale), si caratterizza comunque per un peso relativa-
mente maggiore dell’edilizia residenziale pubblica, pressoché assente in Grecia
ed estremamente esigua nei paesi iberici (Minelli, 2004; Poggio, 2006).

Tab. 1 - Patrimonio di edilizia sociale in affitto. Valori percentuali


Edilizia sociale Edilizia sociale
su totale occupati su totale locati
Olanda 34,6 76,8
Svezia 21,0 45,0
Regno Unito 21,0 66,0
Danimarca 20,0 43,0
Francia 17,5 45,5
Finlandia 17,2 50,0
Austria 14,3 35,4
Irlanda 8,0 45,0
Belgio 7,0 23,0
Germania 6,5 12,5
Italia 4,5 23,0
Portogallo 3,3 15,8
Spagna 0,9 12,6
Fonte: elaborazione Censis su rapporto Housing Statistics in EU 2004

Ciò nondimeno, secondo il Cresme, al 2003, la menzionata crisi del comparto


spiega il peso irrisorio, rispetto ad altri paesi europei, del budget destinato alle
politiche abitative sul complesso delle spese sociali: siamo allo 0,1% in Italia,
contro il 5,6% della Gran Bretagna, il 2,9% della Francia, oltre il 2% della Gre-
cia e della Danimarca, attorno all’1% dell’Olanda, della Spagna e della Germania.
La comprensione di una situazione di questo genere, d’altro lato, richiede
una sia pure sommaria ricostruzione delle trasformazioni che hanno interessato
il settore negli ultimi anni.
A sessant’anni dal testo unico (Rd n. 1165/38), che standardizzava l’impianto
degli Iacp su base provinciale, secondo un modello centralistico, con la nuova
normativa “di fine secolo” (Dl n. 112/98, titolo III) ci troviamo di fronte a una
fondamentale rivoluzione nella governance dell’edilizia sociale. Alla base delle
menzionate trasformazioni sta la regionalizzazione di quest’ultima: mentre il
livello centrale conserva competenze d’indirizzo generale, alle regioni spetta
l’organizzazione e la gestione delle risorse e l’attuazione di politiche volte ad
affrontare il disagio abitativo.

82
Viene così scardinato il vecchio impianto degli istituti autonomi provinciali,
riorganizzati secondo scelte che variano da Regione a Regione:

con il decentramento regionale e locale delle politiche della casa – scrive Anna Pozzo
(2009: 7) – viene ridefinita non solo la collocazione dell’ente, che risponde ora a regole
e politiche regionali, ma vengono rimessi in discussione anche i livelli di autonomia e di
dipendenza degli enti.

Si va dal prevalere di un modello societario di diritto privato, sia pure di pro-


prietà pubblica (è il caso della Toscana e della Provincia autonoma di Trento),
alla creazione di enti pubblici di natura non economica (come nelle Marche, in
Basilicata, Calabria, Piemonte e nella Provincia autonoma di Bolzano), alla più
frequente opzione per una forma di ente economico di diritto pubblico (con una
maggiore o minor autonomia organizzativa e gestionale). Gli enti per la casa –
continua tuttavia Anna Pozzo – si trovano costretti ad applicare canoni definiti
dalla regione, “senza compensazione da parte” di quest’ultima. Mentre, da parte
dei Comuni, gli ex Iacp si vedono per lo più selezionare l’utenza, senza poter
così intervenire sulla composizione di un mix sociale che sarà poi loro compito
gestire.
La regionalizzazione, nel complesso, produce una situazione caratterizzata
da una più difficile gestione e coordinamento a livello nazionale. D’altro canto:

i processi di aziendalizzazione hanno messo gli enti in condizione di muoversi più libe-
ramente nello svolgere la propria funzione, nel trovare forme di organizzazione più fles-
sibili (grazie alla creazione di società strumentali) e nell’avviare rapporti di partenariato
col settore privato (Dexia, Censis, Federcasa, 2008: 3).

Ciò nondimeno, a fianco delle menzionate trasformazioni nella governance del


welfare abitativo, non si può evitare un riferimento alla drastica riduzione delle
risorse destinate all’abitazione sociale nell’ultimo quarto di secolo. Nel 1984, la
spesa pubblica finanziava la realizzazione di 34mila abitazioni in edilizia sov-
venzionata, nel 2004 le abitazioni ultimate in tutta Italia sono state solo 1.900.
Nel 1984 si realizzavano 56mila abitazioni in regime di edilizia agevolata o
convenzionata, nel 2004 solo 11mila (Ancab, Cresme, 2006: 2). Nel complesso,
negli ultimi dieci anni si sono realizzati 60mila alloggi di edilizia sociale a fron-
te di una domanda più che decupla (Cecchi, 2009). L’Aler di Milano è stato ca-
pace di soddisfare, nell’ultimo anno, circa il 10% della domanda (1.500 asse-
gnazioni su 15mila domande), come lamenta uno dei nostri intervistati. Anche
nel caso bresciano, le poche centinaia d’alloggi in costruzione rappresentano
una risposta esigua alle diverse migliaia di domande giacenti.
Cosa spiega, in primo luogo, l’impressionante, se non drammatica, contra-
zione delle risorse? Opinione da più parti espressa, come si accenna nell’introdu-
zione del volume, è che, per un certo lasso di tempo, la continua crescita dei nu-
clei proprietari di casa (Tab. 2) abbia prodotto nei responsabili delle politiche

83
abitative la sensazione illusoria di trovarsi di fronte a un problema superato o,
quantomeno, ormai residuale – questo, anche nel quadro di:

uno scenario caratterizzato dal forte calo della pressione della domanda residenziale sul-
le aree urbane, dal diminuito numero delle nuove famiglie che ogni anno si formano ri-
spetto agli anni ’60 e ’70 e, soprattutto, dalla difficile gestione del patrimonio di edilizia
economico popolare (Ancab, Cresme, 2006: 2).

Tab. 2 - Titolo d’occupazione delle abitazioni. Valori percentuali


Proprietà Affitto Altro
1961 45,8 46,6 7,6
1971 50,8 44,2 5,0
1981 58,9 35,5 5,6
1991 68,0 25,3 6,7
2001 71,4 20,0 8,6
Fonte: dati censuari Istat

La diminuzione di nuovi nuclei familiari, che negli anni Ottanta e Novanta ave-
va ridotto la pressione sul mercato abitativo, conosce inoltre, a partire dallo
scorcio del secolo, un’inversione di tendenza, in buona parte legata all’uscita di
casa dei baby boomer, all’aumentata incidenza di separazioni e divorzi, e, non
ultimo, all’immissione sul mercato di popolazione immigrata (Ancab, Cresme,
2006; Censis, Dexia, Federcasa, 2008)3.
A questo si somma, nel determinare la crisi del settore residenziale pubblico,
la fine dell’esperienza della Gestione case per i lavoratori (GesCaL)4, a partire
dai tardi anni Novanta. La GesCaL, con tutte le condivisibili perplessità relative
ai meccanismi di finanziamento e alla mancata identità tra contribuente e desti-
natario5, ha comunque consentito negli anni Sessanta e Settanta di finanziare
cospicue realizzazioni nel campo dell’edilizia sociale, come già negli anni Cin-
quanta i fondi della gestione Ina-Casa6.
Di fronte al rinnovato manifestarsi dell’emergenza abitativa e all’evidente
carenza di risorse, nel febbraio 2007, il parlamento promulga la legge n. 9/07
che stabilisce procedure e tempi per la predisposizione di un piano di edilizia abi-
tativa e l’obbligo di fornire alloggio a categorie bisognose sottoposte a misure di

3
Dai 22.226.000 nuclei familiari presenti in Italia nel 2000, siamo passati, stando a
un’elaborazione Censis su dati Istat ai 24.282.000 del 2007.
4
Dopo che già da vent’anni la GesCaL era stata soppressa in quanto “ente inutile”, la fine dei
fondi GesCaL (provenienti da una trattenuta dello 0,35% sugli stipendi, cui corrispondeva
un’analoga somma devoluta dai datori di lavoro) viene stabilita da una sentenza della Corte costi-
tuzionale. Le motivazioni della sentenza poggiavano principalmente sull’utilizzo di una significa-
tiva parte dei fondi per finalità differenti da quelle istituzionali. La riscossione dei contributi per i
fondi GesCaL ha termine il 31 dicembre 1998, con il passaggio delle competenze dell’Erp alle
Regioni (che gestiranno in seguito le rimanenze dei fondi).
5
Molte polemiche hanno riguardato il fatto che fondi provenienti dalle buste paga fossero utiliz-
zati per costruire case di cui non beneficiavano solo i lavoratori dipendenti.
6
Grazie a questi ultimi, nel periodo 1949-62 vengono realizzati oltre 350mila alloggi.

84
sfratto. Un tavolo di stakeholder predispone e approva, in breve tempo, linee
guida finalizzate alla stesura di un “Piano casa”. Alla fine del 2007 sono stan-
ziati 1.060 milioni di euro per implementare politiche abitative, 640 dei quali
avrebbero dovuto essere destinati all’edilizia residenziale pubblica.
Tali stanziamenti non sono probabilmente adeguati rispetto all’entità del bi-
sogno cui s’intende fare fronte. Ma, cambiata la maggioranza, la legge finanziaria
dell’anno successivo (n. 133/08) ne sospende l’erogazione, utilizzandoli per isti-
tuire un fondo e dettando alcuni principi per un successivo piano nazionale di
edilizia abitativa. Non manca ugualmente chi lamenta che, ancora alla fine del
2009, nessun cantiere sia stato aperto con i fondi della 9/07 (Cecchi, 2009: 3).

3.1.3 La legge n. 560/93 e la svendita del patrimonio residenziale pubblico

Il ridimensionamento del settore residenziale pubblico a partire dagli anni ottan-


ta rientra, sicuramente, almeno in parte, nello “spirito del tempo”, caratterizzato
da una più generale propensione allo smantellamento delle politiche sociali.
Questo è evidente anche in altri contesti nazionali, dove pure l’edilizia sociale
aveva un peso incommensurabilmente superiore rispetto all’Italia: è il caso bri-
tannico, dove le politiche thatcheriane di dismissione del patrimonio edilizio
pubblico attraverso la vendita agli inquilini (right to buy)7 riducono, dagli anni
Ottanta a oggi, di circa i ⅔ un patrimonio che in precedenza annoverava circa il
30% delle unità abitative a livello nazionale.
A partire dai primi anni Novanta, anche in Italia ci si muove in questa stessa
direzione. La legge Nicolazzi (560/93) non è la prima nel suo genere, ma
s’inserisce, ultima e importante iniziativa, all’interno di una “caratteristica
dell’edilizia sociale in Italia fin dalle sue origini”, cioè “il suo essere costante og-
getto di privatizzazione”. Questo, a dispetto degli “importanti programmi di edili-
zia pubblica varati nel secondo dopoguerra”, ha “favorito la diffusione della
proprietà della casa tra le famiglie delle classi medie e a basso reddito, a scapito
della costruzione di un ampio comparto di affitto sociale” (Baldini, Poggio,
2009: 2)8.
La filosofia della legge Nicolazzi, che dal 1993 ad oggi ha portato alla ven-
dita (o, meglio, alla “svendita”) del 19% delle abitazioni pubbliche, non è certo
immotivata nella propria impostazione di base. Si tratta di creare nuovi proprie-
tari di casa (cioè i vecchi inquilini delle case popolari) per reinvestire i ricavi
nella costruzione di nuovi alloggi residenziali pubblici. Il problema è l’entità dei
ricavi.

7
Vedi, a questo proposito, l’analisi condotta da Roberta Cucca nel cap. 2.
8
Vedi anche, per approfondimenti a tale riguardo, Agustoni, Rozza, 2005.

85
Tab. 3 - L’andamento delle vendite del patrimonio ex Iacp. Anni 1993-2006
Alloggi venduti Ricavi (mln. euro)
1993 4.956 115
1994 4.533 105
1995 9.933 231
1996 16.133 375
1997 14.444 336
1998 17.007 414
1999 17.756 413
2000 10.714 284
2001 10.500 192
2002 7.050 198
2003 10.731 206
2004 9.289 233
2005 9.484 232
2006 12.238 331
Totale 154.768 3.665
Fonte: Federcasa

Gli inquilini, che oltre una certa fascia di reddito sono costretti ad accettare la
proposta o, in alternativa, a lasciare l’alloggio, si trovano in ogni caso padroni
di casa con un esborso che, in questi anni, si è mediamente attestato attorno a
23.500 euro9. In questo modo, il costo della realizzazione di un nuovo alloggio
richiede la vendita di quattro unità abitative.

3.1.4 Gli stranieri nell’edilizia residenziale pubblica

All’interno del parco abitativo residenziale pubblico, soprattutto nelle regioni


dell’Italia settentrionale, la presenza di famiglie di immigrati ha cominciato a
consolidarsi a partire dallo scorcio del secolo (Agustoni, 2007): il 18,9% a Parma,
il 15,5% a Brescia, 15,2% ad Ancona, il 14,2% a Bologna, il 14% a Perugia, il
12,9% a Milano, solo per citare alcuni casi (Dexia, Censis, Federcasa, 2008).

Tab. 4 - Titolari di abitazione Erp per macroripartizione geografica (totali e immi-


grati extracomunitari)
2001 2004 Differenza %
Italia 2.057.704 1.835.922 -10,8
Nord 790.036 727.135 -8,0
Centro 457.567 358.138 -21,7
Sud 810.101 750.649 -7,3
Immigrati extracom. 47.287 (2,3%)* 73.761 (4%) +35,9
Nord 30.443 (3,9%) 51.999 (7,2%) +70,8
Centro 16.432 (3,6%) 20.357 (5,7%) +23,9
Sud 412 (0,051%) 1.405 (0,19%) +241,0
*Tra parentesi la percentuale di immigrati extracomunitari sul totale
Fonte: Federcasa

9
Come si ricava agevolmente dalla tabella 3, dividendo i 3.665 milioni di euro ricavati per i
154.768 alloggi venduti dal 1993 ad oggi.

86
Interessante, a partire dalla tabella sopra riportata, l’evolversi della situazione
nell’edilizia residenziale pubblica dal 2001 al 2004. A fronte di una contrazione
dei residenti in alloggi pubblici (in buona parte dovuta alla già citata legge Ni-
colazzi), aumentano gli stranieri, in valore assoluto e ancora di più in percentua-
le. L’incremento è significativo nell’Italia settentrionale, dove la quota degli
immigrati sulla popolazione dell’Erp quasi raddoppia, e un po’ più contenuto
nell’Italia centrale. Apparentemente straordinario è l’aumento della componente
straniera nelle case popolari dell’Italia meridionale, dove in realtà la quota degli
immigrati extracomunitari rimane irrisoria (pari allo 0,19% del totale nel 2004).
Come già evidenziato nel par. 3.1.1, la comparsa di immigrati tra i beneficia-
ri dell’edilizia sociale non ha soltanto fornito materiale al consolidarsi di luoghi
comuni, ma ha anche finito per costituire una risorsa simbolica di agevole uti-
lizzo nelle retoriche politiche, per cui:

il conflitto viene indirizzato verso gli stranieri, tralasciando l’insufficienza delle politi-
che e delle risorse destinate alla casa, vero nodo delle difficoltà abitative delle famiglie
italiane e immigrate (Fondazione Michelucci, 2009: 6).

Generalmente, la percentuale dei migranti sui beneficiari di un alloggio residen-


ziale pubblico è inferiore alla quota dei migranti sulla popolazione dei comuni
capoluogo considerati, con una serie di variazioni. A Milano gli immigrati pe-
sano, sui residenti in alloggi Aler, per circa il 12%, mentre rappresentano il 14%
della popolazione cittadina. A Firenze la quota degli immigrati sui beneficiari
dell’alloggio pubblico e sul complesso della popolazione cittadina possono es-
sere, grosso modo, equiparati, assestandosi attorno al 9-9,5% del totale. L’im-
migrato, peraltro, è soggetto a una ben nota situazione di discriminazione nel
settore dell’affitto privato10, che pure “non fa punteggio” in graduatoria, ma che
contribuisce ampiamente a spiegare la crescente pressione sul settore residen-
ziale pubblico. I dati che ricaviamo dall’analisi, relativamente ai punteggi, sem-
brano inoltre sfatare il mito del particolare vantaggio di cui gli stranieri si trove-
rebbero a godere in questo settore11.
L’art. 38 della legge n. 40/98 (Turco-Napolitano) stabilisce che gli immigra-
ti, regolarmente soggiornanti nel nostro paese, hanno gli stessi diritti, con rife-
rimento all’accesso ai benefici del welfare abitativo, degli italiani. Se la succes-
siva legislazione, dapprima regionale e poi nazionale, è intervenuta su tali op-
portunità d’accesso, lo ha fatto in senso restrittivo. Con una modifica all’appa-
renza irrilevante, la successiva legge Bossi-Fini (n. 189/02) richiede una durata
almeno biennale del permesso di soggiorno, riducendo contestualmente a due

10
Cfr. par. 3.2.1 del presente capitolo e, per un approfondimento, il par. 4.3.
11
Dove gli stranieri, più frequentemente “avvantaggiati” da un reddito basso, da un ampio nucleo
familiare e da una pregressa situazione di affollamento, scontano una percentuale sensibilmente
minore di sfratti e una minore anzianità: circa il caso di Firenze, vedi la già citata analisi della
Fondazione Michelucci, 2009.

87
anni la durata massima dei permessi di soggiorno – dove poi, nella prassi:

accade che le questure, in sede di primo rilascio, ma talvolta anche in occasione di rin-
novi, accordino per la durata di un anno il permesso di soggiorno, anche quando la leg-
ge consentirebbe (e anzi forse imporrebbe) di concederlo biennale in modo “che un la-
voratore straniero legalmente e non occasionalmente soggiornante può vedersi escluso
dall’accesso” ai servizi abitativi (Corvaja, 2009: 99).

Rimane che la legge 40 ha funzionato, almeno per un certo periodo di tempo,


come strumento per:

reagire (…) contro la discriminazione anche nei confronti di atti delle amministrazioni
(regolamenti, bandi) che escludano gli stranieri dall’edilizia pubblica o, comunque, di-
scriminino tali soggetti, richiedendo loro condizioni ulteriori per la partecipazione o fa-
vorendo in altro modo i cittadini italiani nella formazione delle graduatorie (Corvaja,
2009: 96).

Una decina d’anni fa, la Regione Puglia si è trovata a fare fronte al ricorso di un
nordafricano escluso dalle graduatorie per l’assegnazione della casa popolare, in
quanto sprovvisto della cittadinanza italiana. Molto semplicemente, i criteri di
assegnazione degli Iacp pugliesi non contemplavano ancora l’assegnazione di
case a cittadini stranieri e non si era ancora avvertita l’esigenza di modificare le
normative sulla base del fatto che non erano mai pervenute domande da parte di
immigrati, la cui presenza in regione non era pure un fatto nuovo.
Ben diversa (anzi, per certi versi antitetica) è la situazione che si presenta
nello stesso periodo in Lombardia. Sempre all’inizio del nuovo millennio, il
Comune di Milano inserisce un regolamento che attribuisce un punteggio alla
cittadinanza nella formazione delle graduatorie, proprio in ragione del crescente
numero di domande provenienti da immigrati. Anche a seguito di un’azione che
ha visto protagonista il Sicet, con sentenza del 22.3.2002, il Tribunale di Milano
respinge come discriminatoria la decisione del Comune, alla luce della legge n.
286/98 (Agustoni, 2007).
Due anni dopo, con una legge regionale del 2004, l’anzianità di residenza (al-
meno cinque anni di residenza continuata in Lombardia) viene inserita come cri-
terio generale, a prescindere dalla cittadinanza italiana o straniera12. Si tratta di
un provvedimento che porta uno dei nostri interlocutori a vedere la Lombardia
come un “laboratorio dell’esclusione” (ma che, secondo altri intervistati, trova
un’almeno parziale giustificazione nella necessità di difendere le fasce più de-
boli della popolazione italiana, le vittime delle “nuove povertà”, dalla concor-
renza di nuclei familiari stranieri che non sempre si pongono agli ultimi gradini
del reddito). Il carattere continuativo della permanenza, che la legge pone come

12
In questo modo, la normativa regionale evita di porsi in palese contrasto con la legge Turco-
Napolitano. A sostegno della normativa lombarda è peraltro intervenuta una successiva sentenza
della Corte costituzionale (n. 32/2008).

88
requisito, appare un aspetto particolarmente problematico. Funzionari di una
delle Aler contattate menzionano il caso ipotetico di una persona che, in relazione
con le vicissitudini della vita, dovesse trasferire la propria residenza in un’altra
regione e, poi, fare rientro in Lombardia. Qualora dovesse averne bisogno, nei
cinque anni successivi al suo rientro, il soggetto in questione si troverebbe
escluso dai bandi per l’assegnazione dell’alloggio popolare.
La legislazione lombarda finisce per costituire il modello della legislazione
nazionale che, con il “Piano casa” contenuto nella legge n. 133/08, stabilisce
almeno “cinque anni di residenza nella stessa regione, ovvero dieci anni di resi-
denza sul territorio nazionale”13 per accedere ai benefici del welfare abitativo
(ivi compresi gli stanziamenti del fondo per il sostegno all’affitto, che attira un
numero crescente di stranieri).

3.2 Affitto e proprietà della casa

3.2.1 Indicatori di disagio

La storia della regolamentazione degli affitti in Italia è facilmente riassumibile.


A oltre sessant’anni di “blocco dei fitti” (1917-78), segue un ventennio di regi-
me a “equo canone” (1978-1998) e, quindi, la completa liberalizzazione del set-
tore. La legislazione sull’equo canone (legge n. 392/78) è il prodotto di un in-
terminabile decennio di lotte nelle piazze e dibattiti nelle aule del Parlamento,
soprattutto a partire dallo “sciopero per la casa” del 1971. La lunga gestazione
della legge termina nella fase dei governi di “solidarietà nazionale” (1978-79),
come la gestazione di altre riforme del tempo, per esempio la riforma sanitaria
(Agustoni, Rozza, 2005).
Più o meno felice a seconda dei punti di vista, la legge sull’equo canone costi-
tuisce, secondo i suoi oppositori, un indiscutibile fattore di depressione
dell’offerta. D’altro canto, la completa liberalizzazione introdotta dalla legge
Zagatti (n. 431/98)14 conduce a una rapida crescita degli affitti. Tra il 1999 e il
2009, l’aumento dei canoni ex novo o rinnovati è stato del 130% a livello nazio-
nale e del 145% nelle aree metropolitane (Sunia, 2009a), a fronte di redditi medi
familiari pressoché stagnanti. La liberalizzazione del settore consente peraltro
l’affermarsi di una “pratica generalizzata”, come l’imposizione di canoni mag-
13
Già nel 2003, i dieci anni di residenza sul suolo nazionale erano stati inseriti nella legislazione
friulana. L’“ovvero” del Piano casa, che a parere di alcuni tra i nostri testimoni privilegiati non è
privo di elementi di ambiguità (non essendone chiaro fino in fondo il carattere congiuntivo o di-
sgiuntivo) unisce gli elementi discriminatori caratteristici della legislazione friulana e di quella
lombarda. Per un’attenta disamina dei dubbi di costituzionalità di provvedimenti che, direttamente
o indirettamente, limitino l’accesso degli stranieri ai benefici del welfare abitativo, vedi Corvaja,
2009.
14
La legislazione sull’equo canone era già stata parzialmente modificata dalla legge sui “patti in
deroga” del 1992.

89
giorati, ad hoc, per gli stranieri (tale pratica, come vedremo meglio nei prossimi
paragrafi, costituisce uno dei più significativi fattori dello specifico disagio abi-
tativo degli immigrati)15.
Gli effetti della completa liberalizzazione sono facilmente identificabili in
almeno due indicatori di sofferenza del settore abitativo.
1) L’aumento degli sfratti per morosità sul totale, dove, a una ripresa del nu-
mero di sfratti in valore assoluto dopo il 2004, si associa il costante aumento
degli sfratti per morosità (dal 27% del 1990 si passa al 52,4% del 1997 e,
quindi, all’89% del 2009). A questo fenomeno si associa, inscindibile nelle
sue cause, il parallelo aumento della morosità nell’edilizia residenziale pub-
blica16: una crescente quota di assegnatari non si dimostrano in condizione
di pagare il pur modesto canone, con l’inevitabile impatto sugli introiti delle
aziende per la casa, che potrebbero essere altrimenti reinvestiti nella realiz-
zazione di alloggi popolari – dove “l’aumento generalizzato delle morosità,
è senz’altro da mettere in relazione con l’impoverimento generale della po-
polazione che abita nei quartieri di edilizia sociale pubblica” (Dexia, Censis,
Federcasa, 2008: 48).

Tab. 5 - Procedure di sfratto in Italia (totale sfratti, sfratti per morosità e percen-
tuale di morosità su totale)
Sfratti Sfratti per morosità Sfratti per morosità su
Anno
v.a. v.a. totale (v. %)
1997 50.226 26.322 52,4
1998 44.919 25.269 56,9
1999 38.944 24.203 62,1
2000 39.406 25.412 64,5
2001 40.500 26.937 66,5
2002 40.130 27.154 67,7
2003 39.284 27.781 70,7
2004 45.535 32.112 70,5
2005 44.988 33.200 73,8
2006 44.897 33.893 75,5
2007 41.888 32.540 77,7
2009 - - 89,0
Fonte: Censis su dati Ministero dell’Interno

2) Il secondo indicatore può essere individuato nella “marginalizzazione eco-


nomica” della popolazione inquilina, con riferimento al crescente allonta-
namento dei ceti medi e medio-alti dall’affitto e, quindi, alla crescente inci-
denza dei più modesti quintili di reddito tra chi vive in affitto. In poche pa-
15
A tale proposito vedi anche il cap. 4 del presente volume.
16
Cresciuta, dal 2001 al 2006, dal 12 al 15% del totale dovuto, con punte del 50% a Palermo, del
32% a Cagliari e di oltre il 25% a Brindisi, Bari, Latina, Roma, Torino e Nuoro (in alcuni di que-
sti casi più significativi, come a Roma e Torino, il trend sembra comunque quello di una riduzio-
ne della morosità, forse a seguito di un’implementazione dei controlli). A Catania, nel 2001 si
registrava l’incredibile quota del 92% di morosità sul totale dovuto e a Cosenza del 75%. In en-
trambi i casi, mancano aggiornamenti per il 2006 (Dexia, Censis, Federcasa, 2008).

90
role, dietro alla costante diminuzione delle famiglie che abitano in affitto, si
occulterebbe una sostanziale stabilità dei nuclei meno abbienti e una più si-
gnificativa diminuzione di quelli dotati di maggiori disponibilità economiche.

Tab. 6 - Percentuale di famiglie in affitto per quintili di reddito


1° 2° 3° 4° 5°
Totale
Quintile Quintile Quintile Quintile Quintile
1983 38,3 46,1 28,9 27,6 16,3 31,5
1987 34,1 37,7 27,2 27,2 17,4 28,7
1991 35,7 29,0 23,4 19,8 12,3 24,1
1995 39,0 30,3 22,2 17,7 7,8 23,4
2000 32,8 26,9 20,4 15,0 7,3 20,5
2004 39,8 28,6 18,4 12,6 7,1 23,1
Fonte: Censis su dati Banca d’Italia, 2006

Al progressivo allontanamento dei ceti medi e medio-alti dall’affitto sembra avere


contribuito, soprattutto a seguito della fine dell’equo canone (legge n. 458/98), la
scarsa attrattiva di questa forma di occupazione della casa, di fronte a tassi del
mutuo che, per un certo numero di anni, si sono rivelati meno onerosi dello
stesso canone di locazione (Nomisma, 2007).
Un’indagine condotta alcuni anni addietro da Censis, Sunia e Cgil (2007) evi-
denzia come solo l’11% di un campione di 5mila inquilini si riveli del tutto
soddisfatto della propria condizione abitativa, al punto da non manifestare alcu-
na intenzione di cambiare, mentre oltre il 45% si dichiara abbastanza o del tutto
insoddisfatto. Tra gli aspiranti all’acquisto di una casa, il 47% motivano la loro
opzione sulla base della maggiore convenienza del mutuo rispetto all’affitto e il
30% enfatizzano la loro aspirazione alla proprietà in quanto tale.
Se la maggiore convenienza dal mutuo sembra una motivazione quasi indi-
pendente dal reddito, l’accesso alla proprietà interessa in prevalenza i ceti meno
abbienti, più bisognosi di sicurezza economica (36% contro 22%). I nuclei con
oltre 20mila euro di reddito, invece, sembrano prevalentemente interessati dal
desiderio di rispondere alle esigenze di autonomia di un figlio (17% contro
9,6%) o di inserirsi in un migliore contesto abitativo (9,1% contro 4%).
In una situazione di questo genere, solo gruppi economicamente marginali,
incapaci di accollarsi l’acquisto di un’abitazione, hanno continuato a rivolgersi
al mercato degli affitti che, orfano dell’equo canone, si rivela comunque sempre
meno abbordabile per una popolazione a basso reddito, spiegando l’incremento
degli sfratti per morosità (Dexia, Censis, Federcasa, 2008). La già citata indagi-
ne Censis, Sunia, Cgil (2007) evidenzia come il 66% dei residenti in affitto (il
74,7% nei maggiori centri urbani) giustifichino la propria condizione sulla base
dell’impossibilità economica di accedere alla proprietà, contro il 25,1% che
chiama in causa la convenienza economica dell’affitto e l’8,3% che si dichiara
riluttante all’immobilizzazione di cospicue risorse economiche.
La legge Zagatti contempla peraltro alcuni accorgimenti, finalizzati al soste-
gno degli inquilini. In primo luogo, sono previste agevolazioni di carattere fi-

91
scale17 per affitti che rispettino un canone concordato, a livello locale, dalle as-
sociazioni degli inquilini e dei proprietari di casa. D’altro canto, l’entità di tali
agevolazioni si rivela assolutamente insufficiente a compensare i mancati introi-
ti dei proprietari che, optando per il canone concordato, non approfittano
dell’incremento dei canoni sul libero mercato. Questo conduce, in maniera ab-
bastanza repentina, a una quasi totale marginalizzazione di questa misura.
Secondo strumento, pensato in funzione delle esigenze dei nuclei meno ab-
bienti, è costituito dal Fondo di sostegno per l’affitto: una forma di integrazione
del reddito di famiglie disagiate che si trovino a sostenere un canone d’affitto
relativamente elevato.
Si tratta, anzitutto, di uno strumento che non ha mancato di destare alcune
perplessità, perché potenziale base di un circolo vizioso che, interferendo con i
meccanismi di mercato, avrebbe artificialmente sostenuto l’entità dei canoni. Un
simile effetto perverso, tuttavia, avrebbe potuto essere concretamente prodotto
solo da un finanziamento di una certa entità. Al contrario, a partire dal 2001,
l’entità dei fondi stanziati a sostegno del reddito delle famiglie inquiline (già
limitati ab origine) va incontro a una drastica riduzione (dai 361 milioni di euro
del 2000 ai 211 del 2009 e i 143 del 2010).

Per converso, aumenta il numero delle famiglie che chiedono di farvi ricorso,
soprattutto per effetto dell’accresciuto livello d’informazione (che interessa na-
turalmente anche gli immigrati, sempre più numerosi tra i richiedenti e tra i be-
neficiari). Se, in questo modo, sembrano esorcizzati i paventati effetti sul mer-
cato degli affitti, è altresì assottigliato l’impatto del Fondo sulle condizioni di
vita dei nuclei inquilini che ne beneficiano18.
La possibilità di beneficiare del fondo non è immediatamente nota agli stra-
nieri che pur presentano i requisiti. È solo con il tempo, magari attraverso il pas-
saparola, che i potenziali beneficiari immigrati vengono a conoscenza dell’oppor-
tunità. D’altro lato, soprattutto con riferimento agli stranieri, l’istituzione del
Fondo per il sostegno all’affitto, per accedere al quale è necessario un contratto
di locazione regolarmente registrato, porta all’emersione e alla regolarizzazione
di una vasta area di affitti in nero.
L’allontanamento di un crescente numero di famiglie dal mercato dell’affitto19
contribuisce a spiegare il ciclo positivo, a livello nazionale, nella compravendita

17
Sconto del 30% sull’imponibile Irpef, che arriva al 70% quando viene locato a un conduttore in
condizione di disagio abitativo per sfratto. Lo sconto previsto per i canoni liberi è invece del 15%.
18
Un contributo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto portare l’incidenza degli affitti al di sotto
del 14% dei redditi delle fasce più basse e del 24% delle altre, non è nei fatti mai riuscito a portare
l’incidenza media al di sotto del 50% (Sunia, 2009a).
19
Che, naturalmente, sarebbe errato attribuire in via esclusiva alla fine dell’equo canone e al disa-
gio presente nel settore degli affitti. Si tratta infatti di un processo che, con Fernand Braudel, po-
tremmo inquadrare nella longue durée, che risponde a un’ampia varietà di motivi (dal desiderio di
sicurezza alla qualità della casa come bene rifugio) e che contribuisce ad assimilare il nostro pae-
se a quello che già sopra abbiamo definito “modello mediterraneo”.

92
degli immobili, che raggiunge il suo culmine nel 2006, superando del 75% i li-
velli di dieci anni prima (845mila transazioni, contro le 483mila del 1996). Se-
gue, negli anni immediatamente successivi, una repentina inversione di tenden-
za, soprattutto nei comuni non capoluogo20, che in precedenza avevano per con-
tro trainato il settore. Ci troviamo, in questo modo, di fronte a un ulteriore fatto-
re di sofferenza nel settore abitativo: quello caratteristico dei nuovi acquirenti,
spesso nuclei familiari appena costituiti o immigrati, che faticano a onorare il
mutuo contratto21.
In una situazione di questo genere, il mercato si caratterizza, negli ultimi an-
ni, per una rinnovata crescita della domanda di abitazioni in affitto, a causa del-
la maggiore difficoltà di accesso al credito per giovani coppie, stranieri, studen-
ti. A questo corrisponde, per altro verso, un aumento dell’offerta (dove, in un
contesto di forte instabilità finanziaria, aumentano negli ultimi anni gli investi-
menti sul mattone). L’aumento dell’offerta, tuttavia, non sembra incidere nel
senso di una diminuzione dei canoni d’affitto (Sunia, 2009a: 8).

3.2.2 Inquilino sospetto o facile risorsa. Lo straniero nel settore dell’affitto privato

Per venire alle specifiche difficoltà degli stranieri sul mercato dell’affitto priva-
to (che, come si è visto, costituisce la modalità abitativa prevalente), dobbiamo
sicuramente chiamare in causa le resistenze che si incontrano da parte di pro-
prietari di casa e agenzie immobiliari, già adeguatamente messe in luce da un
insieme di ricerche ormai datate22, senza che la situazione sia, in ogni caso, di
recente mutata (Sunia, 2009b). Tali resistenze si inseriscono, più che altro, nel
quadro di un circolo vizioso, per cui le difficili condizioni degli stranieri nel set-
tore dell’alloggio contribuiscono a spiegarne il “disordine abitativo” che, a sua
volta, motiva le resistenze (queste ultime, molto spesso, si spiegano a partire da
esperienze negative, direttamente vissute dai proprietari in questione o cono-
sciute a partire da un “sentito dire”).
Le resistenze all’affitto, a loro volta, contribuiscono a spiegare il disagio abita-
tivo degli immigrati: “la scelta spesso è obbligata, quindi se ho un monolocale a
Milano in via Padova l’inquilino è quasi sicuramente uno straniero. Dove il pro-
prietario può scegliere, e in questo spesso sbagliando, sceglie l’inquilino italiano”,
osserva uno dei nostri testimoni privilegiati, rappresentante di un’associazione
20
Nel primo trimestre del 2009, il mercato immobiliare registra un arretramento del 18,7% rispet-
to al primo trimestre dell’anno precedente: un arretramento del 15,8% caratterizza i comuni capo-
luogo e del 19,8% i comuni minori (Sunia, 2009a: 4).
21
Specie se a tasso variabile: si tratta di una soluzione frequentemente scelta dagli immigrati,
spesso relativamente “sprovveduti” rispetto ai locali e attratti dalle condizioni iniziali più conve-
nienti. Stando a una ricerca condotta nel 2009 da Nomisma, il 37% dei circa 4,5 milioni di fami-
glie che hanno contratto un mutuo si trovano in difficoltà nel rimborso della rata mensile (Anci,
2010: 20).
22
Rimandiamo alle precedenti edizioni del rapporto Orim.

93
della proprietà edilizia (anche perché, prosegue un altro rappresentante della pro-
prietà, “se devo pensare chi mi ‘tira il pacco’, lo immagino nero o arabo”).
L’immigrato si viene, di conseguenza, a inserire nel mercato abitativo come
“soggetto debole”, facile vittima di discriminazione e di ricatto. Solo in parte,
tale situazione di relativo disagio viene lenita da una maggiore capacità di atti-
vare reti e risorse relazionali indiscutibilmente superiore rispetto agli italiani
poveri (Ponzo, 2009c).
La diffusa pratica di affitti maggiorati per gli stranieri23, cui sovente corri-
sponde una più mediocre qualità abitativa, costituisce un fatto ormai abbastanza
noto, al punto da non necessitare di particolari commenti. Costituisce, per di
più, una pratica che ha avuto il “via libera” con la deregolamentazione del mer-
cato degli affitti, a partire dalla legge n. 431/98. Anche l’affitto in nero, o regi-
strato per una cifra inferiore rispetto a quella pagata, costituisce la regolarità dei
casi (Sunia, 2009b: 4)24.
Il recente “pacchetto sicurezza” (legge n. 125/08), molto severo nei confronti
di chi affitta a immigrati clandestini (prevedendo una pena detentiva fino ai tre
anni), ha indiscutibilmente, tra i suoi vari obiettivi, quello di contrastare deplo-
revoli pratiche, come quella dello sfruttamento abitativo dei settori più deboli e
marginali della popolazione immigrata. Rimane il fatto che un provvedimento
di questo genere incide ulteriormente in senso negativo sul “capitale di fiducia”
che gli immigrati possono mobilitare sul mercato delle locazioni.
Alcuni esponenti della proprietà edilizia da noi intervistati mettono, per
esempio, in evidenza come la normativa in questione comporti la necessità di
farsi garanti della regolarità del permesso di soggiorno dei propri inquilini stra-
nieri. Si tratta, tra l’altro, di una disposizione che difficilmente si accorda con le
norme sulla durata e rinnovabilità del contratto che la legislazione prevede a tu-
tela dell’inquilino (dove il permesso di soggiorno dura meno di un contratto
d’affitto). Il locatore rischia, pertanto, di affittare un alloggio a uno straniero in
regola con le carte, senza poter fornire garanzia che quest’ultimo lo sia ancora
l’anno successivo.
A questo si aggiunge un altro problema, che di nuovo erode il “capitale di fi-
ducia”, cioè la pratica del subaffitto, estremamente diffusa tra gli stranieri, spes-
so all’insaputa del proprietario di casa25 (o anche dell’ente gestore, nel caso
dell’edilizia residenziale pubblica). Tale pratica costituisce un ulteriore prodotto
del disagio abitativo degli stranieri, ma pone il proprietario nella condizione di
ignorare l’identità delle persone che (spesso per un breve periodo di tempo e
con un elevato turnover) abitano l’alloggio affittato. Sono anche segnalati casi

23
Secondo le più recenti rilevazioni, gli immigrati pagherebbero un canone maggiorato del 30-
50% rispetto agli italiani (Sunia, 2009b: 4). A tale proposito vedi anche il cap. 4 del presente vo-
lume.
24
L’imposta corrispondente evasa, sempre secondo le stime del Sunia, sarebbe pari a un miliardo
di euro che, se recuperati, potrebbero costituire un’importante risorsa per le politiche abitative.
25
Vedi anche il cap. 4 del presente volume.

94
nei quali il conduttore “ufficiale” scompare, lasciando il padrone di casa di fron-
te a una “popolazione” formalmente inesistente.
La frequente mancanza di fonti di reddito certificabili impedirebbe, secondo
alcuni dei nostri intervistati, di costruire un adeguato livello di fiducia fondato
sulla “calcolabilità del rischio”. Lo stesso effetto sortisce la consapevolezza del-
le maggiori difficoltà a rientrare in possesso della propria casa in occasione di un
provvedimento di sfratto, a causa delle peculiari condizioni familiari dei migranti:

il problema rimane sostanzialmente identico, la paura di non poter rientrare in possesso


della casa in tempi brevi nel caso di eventuale morosità o scadenza. I tempi
dell’esecuzione dello sfratto sono assai lunghi rispetto ai 4 mesi, in media, che il tribu-
nale concede all’inquilino per lasciare l’immobile. Poi c’è la questione delle categorie
‘protette’ dagli sfratti, con il paradosso che ad esempio, gli anziani over 65 non trovano
chi affitta la casa

lamenta uno stakeholder da noi intervistato.


Tutto questo rientra, come si diceva, in un più complessivo problema ineren-
te la fiducia, cioè le difficoltà nella costruzione di un adeguato livello di fiducia
(il proprietario ha, per esempio, paura che l’affitto non venga pagato, che
l’alloggio non venga restituito nelle condizioni iniziali o che venga utilizzato
per attività non conformi al contratto), che pone al centro dell’attenzione il pro-
blema della presentazione (l’immigrato ha bisogno di intermediazione e garan-
zie: questo spiega il significato delle numerose iniziative in questo senso di
amministrazioni e associazioni del privato sociale, forti di una certa immagine e
credibilità).

3.2.3 Segno d’integrazione e soluzione estrema. Lusinghe e rischi della proprietà

Altro fenomeno da prendere in esame, di nuovo non privo di elementi problema-


tici, concerne l’accesso alla proprietà della casa26 – dove non mancano, intui-
bilmente, aspetti sia virtuosi sia problematici. Come sottolineato da più parti,
l’accesso alla proprietà riguarda, già dalla fine degli anni Novanta e soprattutto
nell’Italia settentrionale, un numero crescente di nuclei migranti, che rimane
comunque minoritario rispetto alla “moda” rappresentata dall’affitto privato
(Tab. 8).

Tab. 7 - Titolo d’occupazione dell’alloggio da parte di stranieri per macroarea


Centro Nord Sud Totale Italia
Proprietà 11,8 3,4 10,9
Affitto solo o con familiari 48,8 49,2 48,8
Affitto con altri 22,3 24,4 22,5
Fonte: Menonna, Rimoldi, Terzera, 2006

26
Per una più attenta analisi del caso torinese, vedi Ponzo (2009c).

95
Le ragioni di questo crescente interesse per la proprietà, dove non di rado ve-
diamo numerosi nuclei stranieri coinvolti nell’acquisto di un alloggio, derivano
anche dalle già esposte difficoltà che gli immigrati incontrano sul mercato
dell’affitto: “il passaggio tra la condizione di inquilino a quella di proprietario”,
in poche parole, “può nascondere criticità nell’accesso a una casa adeguata a
canoni contenuti, quando non la necessità di emanciparsi da un mercato
dell’affitto discriminante verso gli stranieri” (Ponzo, 2009c: 190). Tali difficoltà,
d’altro canto, non esauriscono da sole la spinta all’acquisto, che spesso tradisce
l’esigenza di accedere a una situazione abitativa regolare e stabile, soprattutto in
relazione con le problematiche legate al ricongiungimento familiare, e il deside-
rio di “sentirsi a casa propria”: non sono casuali i legami tra l’anzianità migrato-
ria e l’incidenza della proprietà della casa, indipendentemente dalla macro-area
geografica (Censis, 2006: 46; Menonna, 2006: 115; Ponzo, 2009c).
Gli immigrati si accontentano spesso di un patrimonio edilizio relativamente
fatiscente, ma la vicinanza ai mezzi di trasporto si rivela un requisito essenziale
per una popolazione spesso non automunita. Questo spiega la tendenziale con-
centrazione in aree degradate, purché prossime a nodi della rete dei trasporti
(stazioni ferroviarie, metropolitana, ecc.).
Nodo critico dell’accesso alla proprietà, come segnalano alcuni dei nostri
stakeholder, è costituito dal rapporto con il sistema finanziario e dei mutui: vi
sono, infatti:

numerosi immigrati che comprano l’abitazione senza avere prima cumulato risparmi e
divengono proprietari solo grazie all’erogazione di mutui a copertura totale del valore
dell’abitazione di durata trentennale (Ponzo, 2009c: 189).

Soprattutto dopo il 2004, i mutui concessi sono cresciuti a un tasso più veloce
rispetto alla compravendita di case. Questo significa che un numero crescente di
famiglie, italiane come straniere, si sono indebitate, con la doppia incognita co-
stituita, da un lato, dal tasso spesso variabile e, dall’altro, dal reddito familiare
(Bravi, Giaccaria, 2009). Di fronte al mondo della finanza e al sistema dei mu-
tui, peraltro, lo straniero è spesso completamente sprovveduto, ostacolato dalle
difficoltà linguistiche nonché da un relativo “analfabetismo contrattuale”: un
nostro intervistato, funzionario di un’organizzazione inquilina, ci riporta, come
esempio delle difficoltà cognitive che gli immigrati incontrano sul mercato abi-
tativo, il fatto che molti si rechino presso la sede del suo sindacato convinti di
rivolgersi a un ufficio pubblico in grado di gestire le risorse e gli alloggi27.
Alcuni dei nostri testimoni privilegiati stigmatizzano, d’altro canto, il com-
portamento di alcune agenzie, che spesso non tutelano sufficientemente gli im-
migrati ma li “portano a rogitare a tutti i costi, senza seguire i passaggi previsti
dalla legge”. Dopo l’acquisto le persone si trovano di fronte all’imprevisto di
spese condominiali precedentemente non pagate e/o arretrati, si scoprono pro-
27
A tale proposito vedi anche il cap. 4.

96
prietari di alloggi sui quali pende un’ipoteca, oppure gravati da lavori straordi-
nari di cui nessuno gli aveva mai parlato. Gli acquirenti divengono, di conse-
guenza, incapaci di affrontare le spese. La frequente opzione per mutui a tasso
variabile ha finito per mettere in difficoltà numerose famiglie: non è raro il ca-
so, sottolineato da alcuni nostri testimoni privilegiati, di migranti estromessi
dall’alloggio per il quale avevano già cominciato a pagare il mutuo. Per la prima
volta nel 2009, come evidenzia la tabella sottostante, osserviamo una sia pur lieve
flessione, in Lombardia, della percentuale di stranieri residenti in proprietà.

Tab. 8 - Andamento delle compravendite, complessive e concluse da immigrati ex-


tracomunitari. Anni 2006-2008
Totale Comprav. Comprav. Var.% Var. %
Anno
comprav. immigrati immigr. (%) annua (tot.) annua (imm.)
2006 800.000 131.000 16,4 - +12,9
2007 770.000 135.000 17,5 -3,75 +3,0
2008 600.000 103.000 15,1 -22,1 -23,7
Fonte: Scenari Immobiliari, 2009

Tab. 9 - Regione Lombardia: distribuzione percentuale delle forme di occupazione


dell’alloggio (2001-2009)
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009
Proprietà 8,5 8,9 10,9 14,1 14,7 18,7 22,1 22,3 22,1
Affitto
(solo o con
parenti) 45,9 48,6 48,4 43,8 49,2 50,1 49,9 50,6 52,4
Affitto
(con altri) 20,8 23,9 20,1 24,3 20,7 17,8 15,0 14,1 11,3
Fonte: Menonna, 2010

3.2.4 Un breve sguardo all’Italia meridionale

Una situazione particolarmente critica è quella segnalata, con riferimento a


quattro regioni dell’Italia meridionale, dalla cooperativa Alisei (2009)28, attiva
nel campo dell’autocostruzione. Le problematiche segnalate fanno soprattutto
riferimento a una maggiore situazione di instabilità e irregolarità in queste re-
gioni (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), che per altro verso si caratterizzano
come ambito di primo approdo piuttosto che non di stabilizzazione della popo-
lazione straniera, la cui incidenza sulla popolazione totale rimane piuttosto limi-
tata. L’irregolarità abitativa sembra interessare soprattutto le aree rurali, dove la
gran parte degli stranieri occupa alloggi, spesso del tutto inadeguati, in maniera
del tutto informale (oltre il 40% di affitti in nero e il 10% di occupazioni abusi-
ve). Una situazione di questo genere, d’altro canto, interessa anche un quarto
28
La ricerca è stata condotta tramite un campionamento “a grappolo” e ha interessato più di 8mila
intervistati, oltre a numerosi “testimoni privilegiati” a livello locale.

97
della popolazione straniera che pure abita nelle zone centrali delle principali
aree metropolitane del Mezzogiorno.
Circa il 60% degli intervistati ha trovato alloggio grazie al sostegno delle reti
familiari o amicali, mentre il 17% alloggia presso il datore di lavoro. La mobili-
tà alloggiativa risulta elevata (oltre metà degli intervistati ha cambiato 2 o 3 vol-
te abitazione nel corso degli ultimi cinque anni), mentre le prime fasi della “car-
riera abitativa” sono caratterizzate da condizioni di particolare difficoltà. Molto
acuta si rivela la problematica in Campania, dove oltre il 50% degli intervistati
non dispone di un alloggio in affitto e abita in situazioni di fortuna. In particola-
re, la zona di Castel Volturno, così come la Piana del Sele, sembrano simboleg-
giare adeguatamente l’estremo disagio di un’instabile popolazione bracciantile,
mentre, per contro, Mazara del Vallo in Sicilia sembra costituire un esempio
“virtuoso”, in buona parte dovuto alla relativa “familiarizzazione” dei locali ri-
spetto all’ormai consolidata presenza di pescatori di origine nordafricana.
Come più in generale per il mercato dell’affitto, la familiarità e il sentimento
di affinità culturale (la “contiguità etnico-territoriale”, come la definiscono gli
autori della ricerca) giocano un ruolo di primo piano. Per questo, i nordafricani,
che per lungo tempo hanno condiviso il “condominio Mediterraneo”, sembrano
integrarsi meglio di altri gruppi nazionali e incontrano per questo meno resi-
stenze (il già menzionato caso dei tunisini di Mazara ne è un esempio).

3.2.5 Esempi di buone pratiche nella governance locale

L’esigenza di costruire un adeguato capitale di “fiducia”, evidenziata al par. 3.2.1,


si colloca alla base di un ampio complesso di “buone pratiche” che, nei contesti
locali e regionali, soprattutto nell’Italia settentrionale, hanno mobilitato una si-
nergia di attività pubbliche e private29.
Già altrove (Agustoni, 2008) abbiamo avuto modo di individuare, sia pure
ricorrendo a una semplificazione che non rende giustizia alla complessità delle
realtà locali, un modello veneto, dove al privato sociale spetta un ruolo trainante
rispetto al pubblico, e un modello emiliano, dove è l’attore pubblico (il Comune,
la Provincia o l’ente per la casa) a prendere l’iniziativa e a coinvolgere, in varia
misura, sindacati, associazioni di categoria e associazioni del privato sociale.
Iniziativa degna di nota è costituita dal Consorzio Villaggio Solidale di Padova,
soprattutto in quanto capace di costruire una rete (dapprima in altre province del
Veneto e, in seguito, anche fuori dai confini regionali, in Emilia, Piemonte,
Lombardia, Sardegna, Friuli e Umbria) che coinvolge altre realtà, già operanti
sul territorio o sviluppatesi su impulso e modello del Consorzio.

29
Esempi di intervento del privato sociale nel sostegno abitativo agli stranieri, attraverso attività
tese a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta, fornire garanzie ai proprietari di casa, ac-
compagnare e seguire i nuclei inseriti nell’alloggio o, anche, l’autocostruzione, sono peraltro nu-
merose. Rimandiamo per questo a Censis, 2005 e Agustoni, 2008.

98
Interessante, nel caso bolognese, la realizzazione nel 2006 di un’Agenzia me-
tropolitana per l’affitto, soggetto pubblico che nasce con lo scopo di agevolare
l’incontro tra domanda e offerta, individuando gli alloggi sul mercato e propo-
nendosi come garante delle transazioni di fronte ai proprietari. Anche prima che
si realizzasse l’esperienza bolognese, agenzie pubbliche di analoga natura (cioè
assimilabili al modello dell’Agenzia sociale per la casa)30 erano nate in altre cit-
tà, come Padova (dietro stimolo del già menzionato Consorzio), Vicenza, Cese-
na, Rimini, Modena, Parma e Forlì. Degna di nota, a Bergamo, l’attività di Casa
Amica. Quest’ultima, nata nel 1993 dalla cooperazione delle istituzioni locali e
del privato sociale, ha negli anni differenziato le proprie attività, affiancando a
un’attività d’intermediazione tra domanda e offerta, una di costruzione per
l’affitto sociale (grazie a un bando Cariplo) e, infine, in virtù dell’expertise ac-
cumulata, un attività di stimolo e consulenza rispetto agli enti pubblici (piccoli
comuni ecc.).
Significative, a Milano, alcune esperienze di collaborazione tra gli enti per la
casa e il privato sociale nella ristrutturazione e nella gestione di alloggi, anche
grazie a un bando della Fondazione Cariplo: è il caso di Dar=Casa, cooperativa
edilizia attiva anche nella costruzione di abitazioni a canone moderato, che ha di
recente compiuto un importante intervento nel quartiere Stadera, e della Fonda-
zione S. Carlo. Da segnalare, sempre a Milano, l’iniziativa del Villaggio Baro-
na, dove si sono realizzate, recuperando aree industriali dismesse, alloggi da as-
segnare a canone moderato, secondo un criterio di mix sociale, e comunità fa-
miglia. Altro esempio degno di nota, sempre a Milano, è costituito dall’attività
d’intermediazione svolto dalla Casa della Carità attraverso un’associazione
creata ad hoc (“Una casa anche per te”), che allo stato attuale gestisce l’affitto
di una dozzina di nuclei familiari. La Casa della Carità stipula il contratto con i
locatori e poi con gli affittuari, fornendo ovviamente garanzia per eventuali
danni e morosità.

3.3 Verso una riqualificazione del welfare abitativo. Sintesi e proposte

Possiamo sintetizzare, in ragione di una relativa convergenza dei punti di vista


di soggetti anche relativamente eterogenei, le proposte che emergono dalle in-
terviste ai nostri stakeholder e dalla letteratura sopra utilizzata. Anzitutto, viene
posto l’accento sull’esigenza di un rifinanziamento dell’edilizia residenziale
pubblica che, nel quadro delle politiche per la casa, si trova a svolgere un ruolo
insostituibile31. Si parla, quindi, di un nuovo protagonismo dei soggetti pubblici
– dove questo non esclude “nuovi modelli di edilizia sovvenzionata, che vedano

30
Soggetto costituito con il concorso di enti pubblici e di attori del privato sociale, finalizzato a
favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta.
31
Come in parte fa il Dpcm del 16 luglio 2009, sulla scorta dell’art. 11 della legge n. 133/08.

99
come protagonisti i soggetti del no-profit housing”32 (Ancab, Cresme, 2006: 10).
In secondo luogo, l’attenzione si concentra sull’esigenza di incidere sul mer-
cato degli affitti privati, al di là dei limiti della vecchia normativa sull’equo ca-
none, ma anche della completa liberalizzazione contemplata dalla legge n.
431/98. Diversi dei nostri intervistati (rappresentanti della proprietà edilizia,
cooperative e realtà impegnate nell’housing sociale) evidenziano l’esigenza di
maggiori incentivi pubblici (per esempio incentivi di natura fiscale33 o di natura
urbanistica, con la concessione di aree edificabili gratuitamente o a prezzi con-
tenuti o, ancora, forme di compartecipazione finanziaria). Si potrebbe menzio-
nare, venendo agli ultimi anni, quanto realizzato dal Comune di Milano, che ha
utilizzato gli strumenti della cosiddetta legge Borghini (legge regionale n. 8/05)
per approvare un Piano che individua 46 aree, per un totale di 1,2 milioni di me-
tri quadrati: sono tutte aree di proprietà comunale, destinate a servizi su cui at-
tuare progetti di edilizia residenziale sociale e di edilizia per studenti. Di questo
piano sono già state utilizzate 8 aree (4 del progetto “Abitare 1” e 4 del Progetto
“Abitare 2”), su cui sono stati investiti 140 milioni di euro. Alcuni dei nostri in-
tervistati, legati ad associazioni inquiline, guardano ad esso con un certo inte-
resse. Similmente, il Comune di Roma ha proposto di acquistare aree dell’agro
definite come agricole ma non di pregio, da destinare all’edificazione, previo
mutamento di destinazione. L’acquisto da parte del Comune dovrebbe risultare
conveniente per i proprietari, in virtù del cambio di destinazione, anche se il
prezzo risulterà inferiore rispetto a quello normalmente corrisposto per un’area
edificabile.
Un altro tipo d’approccio, volto a favorire la disponibilità di locazioni a buon
mercato, è quello seguito per esempio dai Comuni di Torino e Firenze, consi-
stente nell’imposizione di una quota sul totale edificato da destinare all’affitto a
canone concordato (Dexia, Censis, Federcasa, 2008).
Altro strumento indicato da alcuni dei nostri intervistati, è costituito dalla co-
siddetta “cedolare secca”: un’aliquota fissa sui proventi derivanti dall’affitto a
scopo di abitazione neutralizzerebbe il disincentivo costituito, per il locatore,
dall’eventualità di trovarsi in uno scaglione di reddito più elevato e, per lo stes-
so motivo, favorirebbe l’emersione di una certa componente di locazione in ne-
ro34. In questo modo, si favorirebbe l’immissione di alloggi sul mercato e
l’emersione di affitti in nero. Un provvedimento di questo genere, d’altra parte,

32
Un tentativo di implementare forme di cooperazione tra soggetti pubblici e privati può essere
individuato nella proposta di legge d’iniziativa del Cnel, presentata nell’agosto 2009, per
l’istituzione di Agenzie territoriali per l’abitare sociale, sulla base di esperienze di un certo rilievo
già radicate a livello locale. Si tratta di agenzie di diritto privato che, con il sostegno degli enti
locali, si fanno carico di una serie d’attività di sostegno alle esigenze abitative (dall’incontro tra
domanda e offerta all’accompagnamento all’acquisto e alla ristrutturazione di alloggi dismessi).
33
Non manca chi ricorda gli effetti virtuosi, nel rilancio dell’attività edilizia del dopoguerra, della
legge Tupini del 1951, che prevedeva un lungo periodo di esenzione dalle imposte per i costruttori.
34
Il provvedimento è stato, successivamente alla nostra ricerca, effettivamente fatto proprio dal
governo con il Decreto sul federalismo municipale del 4.8.2010.

100
potrebbe avere un suo valore soprattutto se si applicasse a chi affitta a canone
concordato: allo stato attuale delle cose, il canone non è sostenuto da incentivi
fiscali sufficienti a renderlo conveniente per i proprietari di casa.
Ampio credito riscuote35, pertanto, un’impostazione volta a evidenziare i po-
tenziali effetti benefici di una collaborazione tra il settore pubblico e il settore
cooperativistico o del privato sociale, che si rivelerebbe in grado di rispondere
alle esigenze di un target sociologicamente variegato, anche in un’ottica di so-
cial mix, che:

non va erroneamente inteso come un mix di soluzioni abitative diverse, ma come coesi-
stenza di un insieme composito di persone che hanno come bisogno comune quello del-
la casa.

I soggetti in questione proverrebbero:

da contesti socio-economici differenti, in modo da evitare la creazione di ghetti, dove la


sfida è quella di procurare soluzioni abitative in locazione che non superino il 25% del
reddito

sostiene un nostro intervistato, esponente di spicco del privato sociale.


Un’impostazione di questo genere, che enfatizza il ruolo del settore coopera-
tivo e associazionistico, con una funzione “sussidiaria” del settore pubblico e
una particolare attenzione ai ceti medi e al social mix, ha tuttavia dei critici.
Questi ultimi osservano come la crescente attenzione rivolta ai ceti medi rischi
di distrarre risorse destinate alle esigenze dei settori più bisognosi della popola-
zione (come osserva un nostro intervistato, esponente di un’associazione inqui-
lina) e, dall’altro, costituisca un disincentivo per un rilancio dell’affitto privato,
che sarebbe in grado di rispondere in maniera più adeguata alle esigenze del ce-
to medio.
Questa è, in effetti, la posizione di alcuni rappresentanti della proprietà edili-
zia, a parere dei quali si renderebbe necessaria, da un lato, una più significativa
presenza dell’edilizia residenziale pubblica per i settori maggiormente deprivati
della popolazione, i quali finiscono per “drogare” il mercato dell’affitto privato,
agevolando la scelta di affittare case in pessime condizioni e a basso costo (an-
ziché ristrutturarle) e promuovendo, in questo modo, la creazione di ghetti so-
ciali ed etnici. All’intervento pubblico per i meno abbienti, dovrebbe invece af-
fiancarsi un regime di mercato per i ceti medi e alti, dove una politica volta al
contenimento dei prezzi non sia realizzata attraverso sistemi “vincolistici” quale
era l’equo canone, ma attraverso una politica d’incentivi come quella sopra de-
lineata.

35
Per esempio tra diversi dei nostri intervistati, soprattutto appartenenti al settore associazionisti-
co o cooperativistico.

101
4. Analisi e prospettive dei processi di insediamento
abitativo dei migranti in Lombardia
di Alfredo Alietti e Veronica Riniolo

Introduzione

Nell’introdurre l’analisi sulle politiche abitative si è enfatizzato quanto l’avere


una sistemazione adeguata sia considerato uno tra i bisogni umani più importan-
ti, insieme a un buon lavoro e a una soddisfacente vita familiare, e sia determi-
nante nel misurare la qualità della vita degli individui (Clip, 2007). Nella speci-
ficità delle popolazioni immigrate, la dimensione abitativa diviene un passaggio
essenziale nell’orizzonte delle dinamiche d’inserimento nelle nostre società lo-
cali e diviene un significativo indicatore del livello d’integrazione nel presente e
nel futuro delle seconde generazioni (Clip, 2007)1. Inoltre, dal punto di vista le-
gislativo il possesso di un alloggio è prerequisito legale, insieme a un contratto
di lavoro, per l’ottenimento del permesso di soggiorno2. A questo si associa la
necessità di ottenere il documento di idoneità alloggiativa quale condizione per
presentare richiesta di ricongiungimento familiare e per l’ottenimento, per e-
sempio ma non solo, del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo
periodo (ex carta di soggiorno). Di conseguenza, il problema della cosiddetta
integrazione abitativa si pone su un duplice livello: da un lato, diviene una delle
condizioni per la legalità della residenza nel contesto di arrivo, dall’altro rappre-
senta un fattore che amplia le chance dei percorsi integrativi. Tuttavia, le carrie-
re abitative dei cittadini immigrati sono contrassegnate da difficoltà e ostacoli
all’interno di un mercato della casa assai poco favorevole e di obblighi istitu-
zionali altrettanto svantaggiosi. Su quest’ultimo punto, è utile anticipare le valu-
tazioni espresse da uno dei testimoni privilegiati intervistati nel corso del nostro

1
Con il concetto di integrazione ci riferiamo a “quel processo multidimensionale finalizzato alla
pacifica convivenza, entro una determinata realtà storico-sociale, tra individui e gruppi cultural-
mente e/o etnicamente differenti, fondato sul reciproco rispetto delle diversità etno-culturali, a
condizione che queste non ledano i diritti umani fondamentali e non mettano a rischio le istituzio-
ni democratiche” (Cesareo, Blangiardo, 2009: 23).
2
D.lgs 25 luglio 1998, n. 286, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immi-
grazione e norme sulla condizione dello straniero”, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n.
189 (cosiddetta legge “Bossi-Fini”).

103
studio, il quale sottolinea come la concessione dell’idoneità alloggiativa preveda
vincoli molto differenziati all’interno dello stesso contesto regionale. Nel caso
della regione Lombardia, questi vincoli sono molto stretti, ad esempio sulla cer-
tificazione dell’impiantistica, che rende l’ottenimento di tale documento parti-
colarmente difficoltoso.
Di conseguenza, nell’analisi dei processi d’integrazione, la questione allog-
giativa assume un valore imprescindibile, anche se definire il concetto di inte-
grazione abitativa e individuare gli indicatori più idonei per valutarne il grado
raggiunto non appare così semplice3. Negli anni sono stati individuati alcuni in-
dicatori generali mediante i quali è ipotizzabile delineare un quadro di sintesi
della situazione: ad esempio l’acquisto della casa, l’anzianità di proprietà, l’ac-
cesso ai servizi di base, la qualità dell’abitazione, l’attrattività del quartiere e,
infine, l’affordability, termine con il quale s’intende evidenziare la possibilità di
pagare un costo di locazione adeguato alle proprie risorse economiche (Eumc,
2005: 85). A un livello più approfondito possiamo individuare i seguenti aspetti
che tengono conto di ulteriori elementi significativi ai fini della qualità abitativa
(Grandi, 2008: 378):
1) titolo di godimento dell’abitazione (quota di abitazioni occupate in affitto da
nuclei stranieri; quota di abitazioni occupate di proprietà di nuclei stranieri);
2) affollamento (indice di affollamento degli stranieri per abitazione; indice di
affollamento per stanza);
3) condizioni qualitative delle abitazioni (percentuale delle abitazioni occupate
da stranieri con necessità di risanamento; distribuzione delle abitazioni oc-
cupate da stranieri per epoca di costruzione);
4) stabilità/radicamento della popolazione straniera (incidenza dei cittadini in
possesso di permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare sul totale
dei cittadini in possesso di permesso di soggiorno; durata media della pre-
senza);
5) politiche pubbliche di sostegno (quota di accesso dei cittadini stranieri agli
alloggi di edilizia popolare).
Su questa linea è opportuno richiamare anche lo schema proposto da Ponzo
(2009a: 139) che classifica le variabili che incidono sull’integrazione abitativa
mettendo in luce quattro grandi insiemi:
1) variabili migratorie: paese di origine e d’insediamento, percorso migratorio
(anzianità migratoria, status giuridico, situazione familiare);
2) variabili della reciprocità: capitale sociale collettivo (modelli familiari, mo-
delli di genere, fiducia); capitale sociale individuale (reti sociali, risorse so-
ciali);
3) variabili del mercato: mercato del lavoro, mercato abitativo, mercato credi-
tizio, reddito, spese abitative;
3
Del resto lo stesso concetto di integrazione è sottoposto a una verifica continua ed è assai dibat-
tuto; su questo vedi Zincone (2001, 2009). Nel presente capitolo assumeremo come definizione
quella presentata nella nota 1.

104
4) variabili della re-distribuzione: politiche abitative, strategie di accesso e uti-
lizzo delle risorse abitative pubbliche.
In tale formulazione, è interessante l’introduzione della dimensione del capitale
sociale costituito dai network etnici, elemento assolutamente imprescindibile
nella ricerca di una sistemazione sia nel periodo iniziale del progetto migratorio,
sia nelle fasi successive. Questo insieme di indicatori, e le variabili loro correla-
te, tendono a interagire formando una realtà caratterizzata da una differenzia-
zione delle traiettorie e delle condizioni alloggiative dei gruppi di cittadini im-
migrati. Traiettorie e condizioni abitative che si modificano secondo i cambia-
menti avvenuti nel progetto migratorio, ad esempio attraverso i ricongiungimen-
ti familiari, e/o dello status giuridico.
Osservando l’andamento nel tempo delle prospettive d’integrazione abitati-
va, emerge un dato interessante riguardante una polarizzazione nelle carriere a-
bitative tra la parte sempre più ampia, che manifesta una certa stabilità, e la par-
te di newcomers, la cui situazione è connotata da una forte precarizzazione e di-
sagio (Ponzo, 2009a; Tosi, 2010)4. Nel primo caso, all’inizio del 2000, Tosi os-
servava che una “normalità” dei percorsi abitativi, ovvero una via non assisten-
ziale del problema, è già una realtà per la maggior parte degli immigrati (Tosi,
2000: 139). Indubbiamente questa autosoluzione della condizione alloggiativa
nasconde una latitanza delle politiche e, sovente, molte delle sistemazioni in af-
fitto risultano precarie e non adeguate (Tosi, 2000).
Nel secondo caso, i soggetti all’inizio del loro insediamento, a cui si aggiun-
ge la componente più debole, vivono una condizione di esclusione abitativa, se
non un peggioramento complessivo.
Nell’ambito di tale polarità, è opportuno ribadire la strutturazione di una
domanda migrante articolata secondo modelli di accesso alla casa e d’insedia-
mento territoriale assai differenti tra loro, che dipendono dalla variabilità delle
situazioni di vita e dei progetti migratori, a loro volta determinati, positivamente
o negativamente, dall’offerta disponibile nel mercato e dalle politiche abitative
perseguite. Senza dimenticare la persistenza e diffusione della discriminazione
che limita le opportunità e indirizza una buona parte di famiglie immigrate ver-
so il comparto abitativo più fatiscente e meno appetibile per gli autoctoni5.
Partendo da tali questioni, qui abbozzate, il capitolo affronterà i percorsi di
insediamento abitativo dei migranti sul territorio lombardo, adottando una pro-
spettiva diacronica, ovvero monitorandone l’evoluzione dall’arrivo al momento
dell’intervista. In particolare, si affronteranno non solo le condizioni abitative
della popolazione straniera, intese come caratteri dell’insediamento abitativo,
ma verranno anche presi in considerazione gli aspetti relazionali del vivere su
un determinato territorio. Relazioni che, muovendosi dal micro al macro livello,
gli immigrati instaurano con il locatario e/o i vicini di casa, fino ai rapporti con

4
Per una discussione vedi il capitolo 3 di Alfredo Agustoni.
5
Per un approfondimento vedi paragrafo 4.3 del presente capitolo.

105
il territorio, intesi come la capacità dei migranti di rivolgersi ai sindacati degli
inquilini, alle associazioni, alle agenzie.
Tali aspetti relazionali, nello specifico i rapporti con gli attori del territorio,
richiamano a loro volta un’altra tematica, di seguito trattata, che assume una
certa rilevanza in particolare per i migranti: i bisogni informativi.
Gli immigrati giunti nel nostro paese6, infatti, sono portatori di alcune speci-
fiche peculiarità, quali per esempio la scarsa conoscenza della lingua e/o la
mancanza di conoscenza dei diritti e dei doveri connessi al mercato dell’allog-
gio (Clip, 2007) con alcune conseguenze sulle modalità del loro ingresso nello
stesso. Infine il capitolo si chiude con un’analisi delle pratiche discriminatorie e
di sfruttamento di cui i migranti sono spesso vittime nei loro percorsi di accesso
alla casa.
I molteplici aspetti ora richiamati sono i risultati di un’indagine condotta sul
territorio lombardo tra il settembre 2008 e il dicembre 2009, attraverso intervi-
ste qualitative semi-strutturate rivolte a 15 cittadini stranieri e 22 testimoni pri-
vilegiati7, questi ultimi selezionati all’interno di un range di attori significativi,
dai sindacati inquilini alle rappresentanze della proprietà edilizia, dalle Aler e
dagli assessorati alla casa fino alle cooperative edilizie, dalle associazioni del
privato sociale alle fondazioni per il social housing8. Le interviste ai testimoni
privilegiati sono state volte a esplorare le tre aree del coinvolgimento, delle rap-
presentazioni del problema e delle soluzioni prospettate, ovvero:
1) le specificità dell’azione degli intervistati, nonché delle realtà istituzionali o
associative di riferimento, nella gestione delle politiche abitative;
2) i punti di vista e i giudizi inerenti la questione abitativa e le relative politi-
che, con particolare riferimento al disagio delle popolazioni immigrate;
3) le soluzioni prospettate, in termini di policy e governance della questione
abitativa, con particolare attenzione alla condizione immigrata.
Le narrazioni raccolte si vanno ad aggiungere a una bibliografia oramai ampia
sulle condizioni e traiettorie abitative dei migranti: questo rappresenta un ulte-
riore piccolo tassello nella conferma delle problematiche emergenti e dei diffe-

6
Quando si parla di “immigrati” è opportuno ricordare che alcuni hanno solo un passato/
background d’immigrazione, in quanto costituiscono la seconda o terza generazione: è quindi pre-
feribile parlare di immigrazioni al plurale.
7
Con testimoni privilegiati ci si riferisce a coloro che, in virtù della loro particolare posizione e
ruolo professionale, hanno fornito una propria visione e analisi rilevante e informata rispetto alla
questione abitativa per l’analisi del mercato dell’alloggio.
8
Nell’ambito di tale ricerca, sono stati intervistati rappresentanti delle seguenti istituzioni/enti:
sindacati degli inquilini (Sicet e Sunia/Apu), Osservatorio Regionale sulla condizione abitativa,
Assolombarda, Federabitazione, Alcab-Legacoop, Ance Lombardia, Asspi, Aler di Milano, Aler
di Brescia, Casa della Carità, Federcasa Lombardia, Fondazione Cariplo, Fondazione San Carlo,
Dar-Casa, Comune di Milano – Assessorato alla Casa, Comune di Brescia – Assessorato alla Ca-
sa, Fondazione Housing Sociale, Confedilizia, Anammi (Associazione nazional-europea ammini-
stratori d’immobili), Fiaip (Federazione italiana agenti immobiliari professionali), Compagnia
delle opere.

106
renti punti di vista delle agenzie istituzionali che costruiscono, nella fattispecie,
la visione del difficile rapporto tra immigrazione e bene casa.

4.1 Casa e migranti in Lombardia: i percorsi abitativi

Il territorio lombardo, nel corso degli ultimi dieci anni, è stato interessato da
un’evoluzione non solo quantitativa del fenomeno migratorio – si è passati, in-
fatti, dai circa 420mila stranieri stimati al 1° gennaio 2001, ai 1.170mila al 1°
luglio 2009 (Blangiardo, 2010) – ma soprattutto qualitativa. Si registra, infatti,
un processo di progressiva stabilizzazione della popolazione straniera, come
dimostrano molteplici fattori: una tendenza al riequilibrio di genere, l’innalza-
mento di circa 2 anni dell’età media della popolazione immigrata a testimonian-
za di un “invecchiamento” di quest’ultima, una crescita del numero di nuclei
familiari con figli e, di riflesso, il conseguente aumento del numero dei minori.
È registrabile, inoltre, una sempre più marcata “uscita” dalla città che, pur la-
sciando inalterato il primato di presenze alle città di Milano e Brescia, vede un
progressivo interessamento delle restanti aree provinciali (Blangiardo, 2010).
Tali tendenze ed evoluzioni del fenomeno nella regione Lombardia, in parti-
colare la crescita di nuclei familiari che si fanno portatori di nuove esigenze abi-
tative, pongono con sempre più evidenza la questione dell’integrazione abitativa
dei migranti, in quanto l’alloggio, come oramai riconosciuto, costituisce un e-
lemento chiave nel processo di stabilizzazione sul territorio (Grandi, 2008: 376;
Ponzo, 2009a: 9).
Alla luce delle interviste condotte ai migranti e ai testimoni privilegiati9 e
sulla base dei più recenti dati sul trend negli ultimi dieci anni relativi al territo-
rio lombardo, si osserva un generale miglioramento delle condizioni abitative.
In particolare, è incrementata la percentuale dei proprietari di casa, che nel 2009
ha raggiunto il 22% – mentre le più recenti stime a livello nazionale la valutano
al 16,7% – ossia un valore che è più del doppio di quello del 2001. Tuttavia oc-
corre evidenziare che negli ultimi 1-2 anni si sono osservati fenomeni dapprima
di forte rallentamento e poi addirittura di lieve diminuzione delle quote di pro-
prietari di abitazioni (Blangiardo, 2010). Al tempo stesso è opportuno valutare
con attenzione se un alto numero di proprietari di casa corrisponda a una mag-
giore integrazione abitativa o sia piuttosto l’esito di una scelta “obbligata” a
causa di un mercato privato con caratteristiche peculiari (alti prezzi degli affitti,
alloggi fatiscenti) e della scarsa offerta di case in edilizia residenziale pubblica,
caratteristica che allontana molto l’Italia dall’Europa del Nord10. Quindi se a li-
vello aggregato è possibile registrare una dinamica positiva, altre questioni ri-
mangono aperte: accanto a una maggioranza di stranieri che hanno trovano nel

9
Vedi nota 8.
10
A tale proposito vedi il capitolo 1 del presente capitolo.

107
tempo una qualche forma di stabilità abitativa, permane come anticipato una
preoccupante area di precarietà e disagio.
Ma quali sono gli elementi che condizionano i percorsi abitativi dei migranti
e, più in generale, come valutare l’integrazione abitativa degli stranieri giunti in
Italia? La letteratura a tale proposito, pur con alcuni punti comuni, pone di volta
in volta l’accento su fattori differenti, individuando variabili legate ora ai mi-
granti ora al contesto di arrivo. Tra le prime – ovvero le variabili riferibili alla
dimensione del migrante – si annoverano per esempio la fase del percorso mi-
gratorio, il progetto d’insediamento, la cultura dell’abitare di cui l’immigrato si
fa portatore, la propria capacità di reddito (Golinelli, 2008: 58). Altri autori (Ö-
züekren, Ergoz-Karahan, 2010: 356) sottolineano l’importanza delle differenze
culturali anche all’interno di gruppi di immigrati provenienti dallo stesso paese
nell’influenzare i percorsi abitativi ed eventuali condizioni di segregazione11.
Attenzione viene posta anche al capitale sociale e individuale di cui i migranti si
fanno portatori.
Una seconda tipologia di variabili – come sopra richiamato legate al contesto
d’arrivo – sono riconducibili alla normativa in tema di immigrazione, alle politi-
che abitative, alle caratteristiche del mercato immobiliare, all’accessibilità degli
alloggi ai migranti e infine ai fenomeni di discriminazione (Golinelli, 2008: 58).
Partendo ora dalle interviste ai migranti condotte nell’ambito di questa ricer-
ca, e alla luce delle testimonianze di alcuni attori significativi del contesto lom-
bardo, s’intende ricostruire la carriera abitativa di coloro che giungono nel no-
stro paese, nello specifico nella regione Lombardia, cercando di individuare,
dove possibile, alcune regolarità.
Lo stadio iniziale è caratterizzato da una condizione di forte problematicità
alloggiativa fino a casi di homelessness. Infatti, il dato che accomuna molte sto-
rie di immigrazione al momento dell’arrivo, e che può proseguire per un certo
periodo, è la difficoltà di reperire un alloggio. Dalle nostre testimonianze si evi-
denzia la condizione di estrema fragilità relativa a tale fase contrassegnata
dall’assenza di un alloggio adeguato che costringe a trascorrere la notte in strada
o in sistemazioni provvisorie. Esempi tratti dalle interviste riportano con chia-
rezza queste situazioni estreme, in cui la soluzione temporanea sovente è rin-
tracciabile nelle strutture di accoglienza. È il caso, ad esempio, di E.C, di nazio-
nalità macedone, arrivato in Italia senza documenti e che vive per i primi sei
mesi in strada sulle panchine. Grazie all’aiuto di operatori delle parrocchie rie-
sce a trovare un lavoro e un posto letto in una comunità di accoglienza. Un altro
caso, A.R., salvadoregna, giunge in Italia credendo di potersi appoggiare a lon-
tani parenti per una prima sistemazione. Svanita tale speranza, si ritrova sola in

11
I due autori, confrontando nello specifico i percorsi dei turchi emigrati a Berlino e i turchi emi-
grati a Istanbul, osservano come la provenienza (rurale o urbana), le esperienze passate e presenti
degli immigrati, il loro modo di osservare la società in cui vivono e le loro interazioni con il con-
testo sociale incidono profondamente sulle scelte abitative e sui percorsi di integrazione (Özüe-
kren, Ergoz-Karahan, 2010: 356).

108
strada. Ottiene una sistemazione per quella notte grazie all’aiuto di una signora
di nazionalità ucraina, una cui amica – assistente familiare – la ospita presso la
casa dell’anziana signora che cura (a proprio rischio), finché trova accoglienza
presso una struttura della Caritas.
La storia di chi emigra in Italia in qualità di primo membro familiare, come
confermato anche altrove (Blangiardo, 2010: 141) è spesso caratterizzata da un
periodo iniziale di ospitalità gratuita presso amici o parenti, oppure presso strut-
ture di accoglienza o luoghi di fortuna. La presenza di familiari o di un network
etnico sembra tuttavia attutire parte delle difficoltà iniziali12, orientando il mi-
grante appena giunto in Italia verso quei canali, già sperimentati dai suoi prede-
cessori, per l’accesso a un’abitazione – spesso in condizioni di subaffitto e so-
vraffollamento – e per il reperimento di un lavoro13. Altri, non potendo contare
su un familiare già giunto in Italia, si appoggiano a propri connazionali prece-
dentemente emigrati. Paradigmatica a questo proposito è l’esperienza di H.I.,
proveniente dal Pakistan, giunto in Italia 8 anni fa irregolarmente. Trova siste-
mazione la prima notte nell’appartamento di un amico pakistano a Milano, dove
sono già presenti altri 5/6 connazionali. Il secondo giorno, l’amico lo conduce a
Desio (MB), comune che vede la presenza di una numerosa e radicata comunità
pakistana. Qui vive in un appartamento di un edificio dichiarato inagibile
dall’Asl con altre 7/8 persone pagando 250 euro mensili per un posto letto e il
mangiare.
Il momento dell’arrivo in Italia risulta, quindi, marcato da forti disagi e diffi-
coltà, che rende i migranti particolarmente vulnerabili e a volte, come nel caso
di un’intervistata, vittima di raggiri da parte degli stessi familiari. L’ospitalità
gratuita da parenti, amici e conoscenti appare dunque molto legata alla bassa
anzianità migratoria e si realizza laddove sono presenti forti catene migratorie
all’interno della comunità (Blangiardo, 2010). È comunque opportuno sottoli-
neare che l’anzianità migratoria costituisce solo uno dei fattori esplicativi dei
processi d’integrazione abitativa dei migranti (Ponzo, 2009a: 143), accanto ad
altri fattori economici e sociali legati al contesto, come sopra richiamato.
Ulteriore modalità diffusa, soprattutto tra le assistenti domiciliari – spesso
donne sole – è l’ospitalità sul luogo di lavoro. La co-residenza con il datore di
lavoro rappresenta una possibile risposta alla fragilità del migrante giunto in Ita-
lia, una sorta di “letto sicuro” (Catanzaro, Colombo, 2009: 99).

12
I.S., proveniente dal Senegal e giunto in Italia 20 anni fa, si appoggia inizialmente al fratello
stabilitosi a Roma, il quale non solo lo ospita, ma svolge un vero e proprio ruolo di “orientamen-
to”. Tuttavia lo spostamento dei fratelli a Brescia ripropone la stessa emergenza abitativa che li
vede alternare soluzioni abitative più o meno idonee: ex alberghi trasformati in residence per im-
migrati, subaffitti, un motel abbandonato per poi accedere a un centro di accoglienza.
13
Questo elemento accomuna le storie di immigrazione anche in paesi e contesti molto differenti:
per esempio i turchi provenienti dalle zone rurali del proprio paese e migrati nella città di Istanbul
sono accolti nelle case di familiari precedentemente trasferitisi e da questi aiutati anche nel reperi-
re un lavoro (Özüekren, Ergoz-Karahan, 2010: 361).

109
Questa modalità di ricercare ospitalità sul luogo di lavoro trova conferma
nella testimonianza di una donna salvadoregna, la quale vive e ha vissuto presso
gli anziani che cura in qualità di assistente domiciliare o presso le case nelle
quali ha lavorato come domestica. Nelle occasioni in cui perde o decide di cam-
biare occupazione, trova sistemazione temporanea presso le amiche. Nella sua
ricerca del lavoro privilegia un’occupazione che le garantisca anche il pernot-
tamento.
Una parte delle assistenti domiciliari arriva comunque a prendere in affitto
una casa o ad acquistarla. L’acquisto tuttavia non può essere considerato in ma-
niera univoca un approdo ideale: la stipula di mutui al 100% o la richiesta di ga-
ranzie al datore di lavoro testimoniano una condizione di ulteriore vulnerabilità
e dipendenza del migrante.
La condivisione dell’alloggio con il datore di lavoro appare spesso una deci-
sione dettata anche da una volontà di risparmio economico, così come la coabi-
tazione con altri immigrati che, per questi ultimi, si pone spesso come scelta
obbligata per gli alti costi degli affitti sul mercato, ma costituisce – laddove
prende la forma di sovraffollamento – una forte criticità.
Un intervistato appare consapevole delle problematiche legate al sovraffol-
lamento, ma al tempo stesso evidenzia che è importante indagarne le cause: è
difficile sostenere da soli le spese, considerando che parte dello stipendio viene
rimandato al paese di origine:

Non affittano a immigrati perché dopo pensano che vanno a vivere tanti immigrati.
Quello è vero. Ma c’è un motivo dietro. Se io prendo in affitto una casa e sono un ope-
raio come altri che prende 1.000 euro al mese, meglio dividere tra 4 o 6 persone, così
paghiamo 200 euro. Poi come abbiamo molte famiglie nel paese rimandiamo i soldi a
casa. Io mando minimo 400 euro al mese al mio paese e poi ho la macchina, l’assicura-
zione (...) (H.I., Pakistan).

Questa testimonianza sottolinea il problema degli affitti – alti e difficili da so-


stenere14 – arginato mediante la coabitazione con altri migranti, che peggiora la
qualità dell’abitare. Come confermato anche altrove (Özüekren, Ergoz-Karahan,
2010: 361), i bassi costi dell’abitare derivanti dal condividere l’appartamento
con altri connazionali permettono ai migranti di trasferire una maggiore parte
dei risparmi ai familiari rimasti nel paese di origine. Al contempo le diffuse si-
tuazioni di sovraffollamento divengono “uno dei principali motivi di preoccu-
pazione dei locatari italiani” al momento di affittare un alloggio a immigrati
come segnala un operatore del sindacato degli inquilini.
Un altro testimone privilegiato afferma:

14
Un rappresentante dei sindacati degli inquilini intervistato segnala che presso i propri sportelli
la questione degli affitti – alti e difficili da sostenere – è una tra le principali problematiche segna-
late dall’utenza immigrata, insieme alla difficoltà ad accedere a una casa in affitto.

110
Un altro problema è quello del subaffitto, uno entra e poi mi ritrovo 20 persone. Questo
si aggrava nelle situazioni di subaffitto “selvaggio”: quello che ha affittato scompare e
lascia le altre persone senza nessuna garanzia.

La fatiscenza e la scarsa qualità degli alloggi presso i quali i migranti risiedono


appare un ulteriore elemento comune ai percorsi abitativi15, così come peraltro
confermato dalle interviste ai testimoni privilegiati. Un rappresentante dei sin-
dacati degli inquilini, infatti, sottolinea che la tipologia degli appartamenti ac-
quistati dai migranti è medio-bassa e che si tratta generalmente di alloggi con
metrature ridotte, aspetto altresì ampiamente segnalato dalle interviste ai mi-
granti16. Infatti, nei resoconti, accanto al degrado dell’alloggio, spesso si mette
in evidenza l’inadeguatezza dell’appartamento per quanto concerne le dimen-
sioni relativamente ai propri bisogni specifici. Gli immigrati appaiono dunque
esposti a condizioni di vita insoddisfacenti e inappropriate (Robinson, Reeve,
Casey, 2007: 30).
Un vero e proprio salto nella qualità dell’abitare può essere a volte favorito e
incentivato dal progetto di ricongiungere la propria famiglia. Ciò, infatti, impli-
ca spesso un cambiamento nel modo di intendere la propria permanenza in Italia
e, soprattutto, le modalità alloggiative. Il proprio percorso di vita nel paese di
arrivo, stabilizzandosi e assumendo i caratteri della permanenza, richiede quindi
standard superiori rispetto a quelli ricercati in precedenza, quando le priorità si
risolvevano nel risparmiare quanto eventualmente guadagnato per rimandare al
proprio paese di origine, anche a costo, o meglio proprio tramite, scelte abitative
di basso costo e degradate. La transizione da situazioni di incertezza abitativa a
soluzioni sicure e adeguate tuttavia è ricca di ostacoli e la stabilità ottenuta può
essere difficile da mantenere (Robinson, Reeve, Casey, 2007: 30).

4.2 Mercato dell’alloggio e bisogni informativi

Il progetto Radici, nell’ambito del quale è stata sviluppata la presente ricerca, si


è posto tra gli obiettivi primari la diffusione di una corretta conoscenza delle re-
gole del mercato dell’alloggio. Tale obiettivo è stato perseguito mediante la rea-
lizzazione di una guida multilingue contenente le informazioni pratiche per il

15
Abitazioni sotto standard e prive dei servizi minimi accomunano i percorsi migratori di molti
migranti giunti in Europa: è il caso, per esempio dei turchi giunti a Berlino prima degli anni Set-
tanta. “The dwellings could be described as extremely substandard, that is, lacking basic ameni-
ties such as indoor toilets, bathroom and central heating. These building very often needed repair
but their rents were low” (Özüekren, Ergoz-Karahan, 2010: 363). “Le abitazioni possono essere
descritte come estremamente sotto-standard: mancano infatti le strutture base come servizi interni,
bagno e riscaldamento. Questi edifici necessitavano spesso di essere riparati ma i loro affitti erano
bassi”.
16
Nel corso della sua carriera abitativa, un intervistato, di nazionalità pakistana, ha risieduto in
diversi alloggi fatiscenti, uno dei quali dichiarato inagibile dall’Asl.

111
reperimento di un alloggio e per una corretta e pacifica convivenza17. “Il posses-
so di un buon capitale informativo rispetto alle reti presenti sul territorio – come
sottolineato altrove (Grandi, 2008: 379) – può essere visto come segnale di in-
tegrazione”.
La difficoltà di trovare un’abitazione appropriata per sé e per la propria fa-
miglia è riconducibile da un lato agli ostacoli nella comprensione di come fun-
ziona il mercato dell’alloggio e dall’altro al fatto che spesso i canali informativi
sono legati alla propria comunità di appartenenza: le informazioni sono spesso
quasi esclusivamente veicolate dai propri connazionali (Özüekren, Ergoz-
Karahan, 2010: 362). Oltre ai propri connazionali con una maggiore anzianità
migratoria, altra fonte di informazione sono i datori di lavoro (Ponzo, 2009a:
125). Le interviste ai rappresentanti dei sindacati hanno messo in luce la cre-
scente attività di consulenza e assistenza da questi ultimi svolta nel corso degli
ultimi anni, sebbene in altri contesti differenti (ibid.) sia stato registrato un ruolo
modesto e marginale di sindacati e associazioni degli inquilini come riferimento
per l’utenza immigrata. Gli intervistati hanno inoltre rilevato che i migranti si
rivolgono alle strutture sindacali senza conoscerne ruolo e funzioni, ma utiliz-
zando tale canale in maniera strumentale al fine di raccogliere le informazioni
necessarie. Tale contatto, sottolinea un intervistato, avviene peraltro nel mo-
mento in cui la soglia delle criticità cui il migrante deve far fronte è elevata,
come per esempio il rischio di perdere la casa, e quasi mai in forma preventiva.
Sempre nel corso delle interviste agli attori significativi nel territorio lom-
bardo, è emersa un’esigenza ulteriore: fornire informazioni non sempre esauri-
sce le esigenze dei migranti, ma occorre accompagnarli nel rapporto con le ban-
che e le agenzie, assistendoli su alcune questioni che a volte risultano loro in-
comprensibili, come ad esempio il pignoramento. I migranti coinvolti nella ri-
cerca hanno messo in luce come la difficoltà linguistica faciliti situazioni di de-
bolezza nei confronti delle agenzie di intermediazione. Queste ultime, come ri-
portato nel corso di un’intervista:

(…) portano a rogitare senza seguire tutti i passaggi previsti dalla legge e spesso dopo i
preliminari gli procurano i finanziamenti e arrivano al rogito senza neppure fargli vede-
re la cartina della casa; al rogito le agenzie hanno già gli assegni prestampati e intestati;
dopo l’acquisto le persone si trovano a dover affrontare spese condominiali preceden-
temente non pagate e/o arretrati che hanno azioni legali in corso, oppure spese per lavori
straordinari di cui nessuno gli ha mai parlato, cosicché gli acquirenti si trovano subito in
condizioni di non poter affrontare le spese.

Il problema di una scarsa conoscenza della lingua e delle conseguenti difficoltà


a muoversi sul mercato dell’alloggio sono segnalate dalla maggior parte degli
intervistati. Un operatore del sindacato degli inquilini in particolare rileva che:

17
Per una descrizione dettagliata del progetto Radici vedi Vergani, Locatelli, Riniolo, 2010: 23.

112
spesso gli immigrati capiscono l’italiano ma non lo sanno né leggere né scrivere; inoltre
può succedere che le traduzioni nelle loro lingue non siano particolarmente affidabili
(es. arabo-egiziano).

A ciò si aggiunge la difficoltà di comprensione di alcuni concetti non comuni a


tutte le culture, come quello di nucleo familiare e di condomino.
Un immigrato intervistato inoltre mette in evidenza che, proprio a causa di
una bassa conoscenza della lingua, spesso i migranti si lasciano convincere ad
acquistare una casa anche in assenza di condizioni economiche adeguate.
Un intervistato appartenente alla Casa della Carità, ente del privato sociale, ha
sintetizzato in tre punti i problemi informativi: 1) conoscenza della lingua; 2) co-
noscenza dei propri diritti; 3) conoscenza di strutture e opportunità sul territorio.
Essere migranti in cerca di casa rende sempre più vulnerabili e soggetti a una
serie di situazioni critiche e raggiri, spesso anche da parte degli stessi connazio-
nali. Una donna di nazionalità peruviana nel corso dell’intervista ha più volte
ripetuto l’importanza della conoscenza di norme, diritti e doveri, sottolineando
nello specifico che consiglierebbe agli altri migranti di verificare con molta at-
tenzione i contratti di locazione che intendono stipulare.

4.3 Accesso alla casa e pratiche discriminatorie

Una tematica che percorre in maniera trasversale le questioni sopra affrontate


(percorsi abitativi e bisogni informativi relativi al mercato dell’alloggio) riguar-
da le pratiche discriminatorie18 di cui i migranti, ma non solo19, sono spesso vit-
time, anche nel mercato abitativo. Numerose indagini e ricerche in Europa e in
Italia hanno messo in luce quest’aspetto che limita in modo decisivo le opportu-
nità e le scelte abitative delle famiglie straniere (Eumc, 2005; Osservatorio dio-
cesano delle povertà e delle risorse, 2008).
Considerando la classica distinzione tra discriminazione diretta e indiretta20,
nel nostro specifico caso, nel mercato abitativo, è stato possibile rilevare sia casi

18
Con discriminazione s’intende in generale “un trattamento che si riserva a una persone (o a una
situazione) diverso da quello che abitualmente si pratica rispetto alla maggioranza degli individui.
Entrando più nello specifico aggiungiamo a diverso anche meno favorevole” (Articolo 3, Osserva-
torio sulle discriminazioni, 2009: 35).
19
Una recente inchiesta (4 luglio 2010) condotta a livello nazionale dal quotidiano “la Repubbli-
ca” ha messo in luce il fenomeno delle case negate in affitto in base all’orientamento sessuale del
potenziale inquilino, in merito al quale si è espresso con toni duri anche il Ministero delle Pari Op-
portunità: “Sono episodi inaccettabili, indegni di un paese civile e democratico come è il nostro”.
20
Discriminazione diretta “sussiste quando a causa della sua razza ed origine etnica, una persona
è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata un’altra in situazione analoga” (Direttiva
2000/43, art. 2, comma 2, lett. A). Discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio
o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine
etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale dispo-
sizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi im-

113
di discriminazione diretta – nell’accesso all’acquisto e all’affitto dell’abitazione
– sia casi di discriminazione indiretta.
Numerose sono le testimonianze raccolte, attraverso le interviste ai migranti
e quelle ai testimoni privilegiati, nelle quali è evidente l’azione discriminatoria.
Un migrante di nazionalità pakistana rileva, infatti:

Tanti dicono a stranieri non vogliamo affittare la casa (H.I., Pakistan),

aggiunge ancora:

E poi una casa di 80mila euro viene data a uno straniero a 100mila, 120mila euro (H.I.,
Pakistan).

Accade, infatti, che alcuni proprietari di casa esigano affitti più alti di quelli che
normalmente chiederebbero per alloggi di bassissima qualità (Dell’Olio, 2004:
119).
In altre testimonianze viene enfatizzato come le agenzie immobiliari, dopo il
primo contatto con il potenziale inquilino immigrato, non lo richiamino. Com-
portamenti discriminatori da parte delle agenzie immobiliari e dei locatari sono
rintracciabili anche in altre città italiane, quali Torino (Ponzo, 2009a: 73) e an-
che a livello nazionale (Asal, Coop. La Casa, Ics, Lunaria, 2001).
Ma quali sono le ragioni alla base di tali comportamenti discriminatori e del-
la diffidenza dei locatari nei confronti degli stranieri?
In primo luogo vi è il timore che l’immigrato non paghi l’affitto (Ponzo,
2009a: 74), così come testimoniato dalle parole di un testimone privilegiato:

Per gli immigrati il problema è che c’è un carico di pregiudizi notevole, se devo imma-
ginare chi mi può “tirare il pacco” lo immagino nero, arabo. Dove il proprietario può
scegliere, e in questo spesso sbagliando, sceglie l’inquilino italiano.

In secondo luogo vi è la preoccupazione legata alla regolarità della permanenza


del migrante, aggravata dalla recente introduzione del cosiddetto “pacchetto si-
curezza” (legge n. 94/2009) che, come sottolineato altrove (Agustoni, 2010:
143), “si trasforma paradossalmente in una forma di insicurezza, almeno per chi
sia disposto ad affittare casa a stranieri”. Secondo l’art 1, comma 14 infatti:

chiunque a titolo oneroso, al fine di trarre ingiusto profitto, dà alloggio ovvero cede, an-
che in locazione, un immobile ad uno straniero che sia privo di titolo di soggiorno al
momento della stipula o del rinnovo del contratto di locazione, sia punito con la reclu-
sione da sei mesi a tre anni.

piegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari” (Direttiva 2000/43, art. 2, comma
2, lett. B).

114
Esponenti della proprietà edilizia intervistati mettono in luce che l’esigenza di
farsi garanti della regolarità del permesso di soggiorno dei propri inquilini stra-
nieri non rientra nelle competenze dei locatori, rischiando di trasformare il loca-
tore in una sorta di “funzionario di polizia” (ibid.). Si tratta, tra l’altro, di una
disposizione che difficilmente si accorda con il regime 4+4, in considerazione
del fatto che il titolo di soggiorno di un immigrato ha durata inferiore ai quattro
anni. Il locatore, come di nuovo ricordato da esponenti della proprietà edilizia,
rischia, pertanto, di affittare un alloggio a uno straniero in regola al momento
della stipula del contratto, senza poter fornire garanzia che quest’ultimo goda di
un regolare titolo di soggiorno anche negli anni successivi21.
Altre motivazioni alla base della diffidenza dei locatari nell’affittare alloggi
a immigrati sono riconducibili ai timori che questi ultimi commettano reati22,
alla violazione delle regole di convivenza, alla mancata cura dell’appartamento
e al timore che i potenziali inquilini ospitino parenti e amici (Ponzo, 2009a: 74).
Spesso tutto ciò è riconducibile a una più generale diffidenza nei confronti del
diverso, se non a veri e propri atteggiamenti mixofobici (Bauman, 2007: 54-68)
e xenofobici.
Accanto alle discriminazioni dirette sopra richiamate, nei percorsi di inseri-
mento abitativo dei migranti in Lombardia sono rintracciabili anche forme di
discriminazione indiretta. Secondo alcuni, il criterio dei cinque anni di residenza
nella regione Lombardia23 agisce da fattore escludente per molti migranti – ma
non solo – nell’accesso ai benefici del welfare abitativo, dall’edilizia residenzia-
le pubblica al fondo sostegno per l’affitto (Agustoni, 2010: 142). Secondo la te-
stimonianza di un operatore del sindacato degli inquilini:

la Regione Lombardia è un laboratorio di esclusione sotto il profilo abitativo. Sono state


elaborate una serie di norme che non agevolano l’accesso alla casa, soprattutto per gli
immigrati.

21
A tale proposito vedi anche il capitolo 3 del presente volume e Agustoni, 2010: 143.
22
Come emerge da uno studio sull’evoluzione del fenomeno criminalità che mette a confronto
italiani e stranieri, “l’andamento tendenzialmente costante della delittuosità sul territorio lombar-
do è avvenuto in un quadro di forte aumento del fenomeno migratorio che negli ultimi dieci anni è
cresciuto del 300%”. Il rapporto tra immigrazione e criminalità non è univoco e sono molteplici le
letture e le analisi proposte. Tuttavia alcuni dati possono offrire uno spunto di riflessione: com-
plessivamente in Lombardia dal 2000 al 2005 il numero degli stranieri denunciati è aumentato del
18,3% a fronte di un aumento degli stranieri, compresi gli irregolari, pari al 105%. Inoltre il tasso
di stranieri autori di reato è diminuito in Lombardia del 10,1%, contro una crescita degli autori
italiani del 42%. Infine è opportuno segnalare che “molti dei reati commessi da immigrati sono
legati alla loro stessa condizione di stranieri, come la violazione della normativa sull’immigra-
zione e tutti i reati ad essa connessi” (Caneppele, Mugellini, 2010: 372).
23
Secondo il Piano casa contenuto nella legge finanziaria del 2008 (legge n. 133/2008, art. 11)
per accedere ai benefici del welfare abitativo gli immigrati devono risiedere sul suolo nazionale
da almeno dieci anni, ovvero nella stessa regione da almeno cinque anni.

115
Dall’altro lato, altri giustificano tale normativa sostenendo che essa sia necessa-
ria per tutelare i settori deboli della domanda della popolazione autoctona, che
altrimenti rischierebbero di vedersi sottratte una parte delle risorse (ibid.).
Le discriminazioni sono facilitate dalla condizione di estrema vulnerabilità
in cui spesso i migranti si trovano e la loro condizione abitativa spesso differi-
sce da quella degli autoctoni: in media i migranti e le minoranze etniche appar-
tengono ai gruppi più vulnerabili e risentono di basse condizioni abitative (Clip,
2007: 2.2.1). Al tempo stesso tuttavia i migranti non devono essere visti come
mere vittime, incapaci di mettere in atto strategie positive, individualmente o
collettivamente, per migliorare la loro condizione abitativa (ibid.). I migranti e
le minoranze etniche sono infatti agenti attivi capaci di cambiare e trasformare il
sistema di limiti e vincoli all’interno del quale si trovano a operare le scelte le-
gate alla casa (Robinson, Reeve, Casey, 2007: 4).
Interessante rilevare che nel corso delle interviste, a fronte di risposte nega-
tive alla domanda se fossero stati vittime di una qualche forma di discrimina-
zione, i migranti riportassero storie o aneddoti nei quali è possibile rintracciare
situazioni classificabili come discriminazioni. È il caso di un intervistato di na-
zionalità pakistana: nega di aver mai subito discriminazioni, ma dal suo raccon-
to emerge che in passato non ha ottenuto l’appartamento in affitto sopra il cugi-
no connazionale perché il proprietario preferiva non stabilire due famiglie im-
migrate nello stesso edificio.
Ciò può essere verosimilmente spiegato tenendo in considerazione che “il ri-
conoscimento della discriminazione è subordinato alla consapevolezza della pa-
rità dei diritti” (Articolo 3. Osservatorio sulle discriminazioni, 2009: 38).
E, ovviamente, alla conoscenza degli stessi diritti che, come già sopra ri-
chiamato, è spesso lacunosa. Nel caso dei migranti, la percezione della discri-
minazione subita aumenta con il crescere dell’integrazione nella società d’arrivo
(Articolo 3. Osservatorio sulle discriminazioni, 2009: 38).
Secondo i dati raccolti, parte delle difficoltà che il migrante incontra a con-
tatto con la società d’arrivo, nello specifico nel momento in cui si confronta con
il mercato dell’alloggio, può essere risolta attraverso forme di accompagnamen-
to e intermediazione da parte di un soggetto terzo – famiglia, associazioni del
privato sociale, agenzie – riconosciuto e rispettato dalle due parti24, cioè pro-
prietario e inquilino o venditore e compratore. Un rappresentante dei piccoli
proprietari immobiliari sottolinea il problema della presentazione, tramite la
quale l’immigrato acquisisce una sorta di legittimità che ne riduce lo stereotipo
negativo: ciò può rientrare in un più complessivo problema inerente la costru-
zione di un adeguato livello di fiducia. Da qui la genesi di molteplici iniziative
tra le quali l’attività di intermediazione svolta dalla Casa della Carità25. Il pro-
cesso di intermediazione, visto come strumento di neutralizzazione della di-

24
A tale proposito vedi anche Osservatorio diocesano delle povertà e delle risorse, 2008: 68.
25
A tale proposito vedi il paragrafo 3.2 del presente volume.

116
scriminazione, sembra tuttavia non funzionare in molti casi, per cui è necessario
ribadire quanto sia determinante il fardello dell’essere straniero (Asal, Coop. La
casa, Ics, Lunaria, 2001: 12).

4.4 Conclusioni

Dalle note di ricerca riportate risultano confermati quei caratteri di problemati-


cità nel rapporto tra popolazioni migranti e accesso all’alloggio. È rilevante ri-
marcare quanto le difficoltà riscontrate a livello micro possono essere ricondot-
te, e sono sovente, effetti, di politiche assunte a livello macro, regionale, nazio-
nale e/comunitario (Grandi, 2008: 389). In tal senso manca ancora infatti un ap-
proccio organico capace di affrontare in maniera sistematica una serie di que-
stioni collegabili alle pratiche insediative al fine di promuovere e allargare le
chance di un’effettiva integrazione abitativa.
Analizzare le carriere abitative dei migranti pone di fronte a un’opzione: da
un lato spiegare i percorsi abitativi di questi ultimi facendo riferimento al conte-
sto sociale nel quale s’inseriscono con le sue regole, opportunità e vincoli oppu-
re, dall’altro lato, cercare una spiegazione nel loro agire come individui. Tale
dilemma, riconducibile a quello alla base del pensiero sociologico tra olismo e
individualismo, può essere in parte superato rintracciando quegli elementi capa-
ci di dare conto di una circolarità tra il migrante e le sue scelte da un lato e il
contesto abitativo e la società nel suo complesso dall’altro. Infatti, nel corso de-
gli ultimi anni vi è, come anticipato, un ampio riconoscimento che i migranti
sono agenti attivi capaci di cambiare e trasformare il sistema di limiti e vincoli
all’interno del quale si trovano (Clip, 2007). Ciò nondimeno è opportuno sotto-
lineare che i cittadini immigrati, rispetto ai nazionali, sperimentano una situa-
zione di svantaggio nell’accesso al mercato dell’alloggio (Ponzo, 2009b: 331),
in virtù dei richiamati fattori esterni che il migrante, giunto nel nuovo contesto
sociale, si trova ad affrontare (pratiche discriminatorie – dirette o indirette, alti
costi degli affitti ecc.). Quanto emerso nel corso della presente ricerca, così co-
me peraltro sostenuto altrove (Robinson, Reeve, Casey, 2007: 4), mette in evi-
denza che l’azione individuale dei migranti è capace di rafforzare, resistere o
trasformare le pratiche e i meccanismi insiti nel mercato dell’alloggio, attivando
quindi una vera e propria circolarità tra azione e struttura.
Inoltre, vi è la questione sempre più importante della coabitazione sul mede-
simo territorio con gli altri gruppi, autoctoni e/o immigrati, con le implicazioni
di carattere relazionale che ciò comporta. “Abitare – infatti – è un processo
complesso, è un rapporto non solo con un luogo fisico, ma anche con un am-
biente e con una comunità” (Golinelli, 2008: 67). È rilevante premettere che la
coesione sociale e la prevenzione dei conflitti nelle zone residenziali sono im-
portanti fattori per la qualità dell’abitare nello specifico e della qualità della vita
in generale (Clip, 2007).

117
Nella maggioranza delle testimonianze raccolte emerge un buon rapporto
con i vicini italiani e con limitati episodi di conflitto, in linea con altre ricerche
che hanno indagato tale aspetto (Ponzo, 2009a; Agustoni, Alietti, 2009). Un
rappresentante del sindacato degli inquilini, infatti, sottolinea come le situazioni
di conflittualità tra migranti e altri inquilini siano limitate e comunque non arri-
vino a manifestazioni esplicite di rifiuto. Tuttavia, prosegue, qualora sorgano
tensioni, e ciò avviene perlopiù nei quartieri Erp dove è presente un’elevata per-
centuale di anziani, esse sono perlopiù legate a occupazioni abusive, mancato
rispetto delle regole civiche, gestione delle case e utilizzo dello spazio pubblico.
Del resto, come un operatore della cooperativa Dar=Casa ha affermato, la pro-
blematicità della convivenza è più forte laddove esistono situazioni di abusivi-
smo e irregolarità. Il deficit di offerta alloggiativa pubblica è un fattore che si
ripercuote sulle relazioni tra immigrati e autoctoni, conducendo alla cosiddetta
“guerra tra poveri” per aggiudicarsi risorse scarse (Dell’Olio, 2004: 120), che
può aggravarsi se alimentate da una propaganda xenofoba.
Nondimeno, pezzi di città si sono trasformati da tempo in luoghi dove si spe-
rimentano, non senza problemi, forme di convivenza interetnica su cui è neces-
sario approfondire le dinamiche relazionali e assumersi la responsabilità pubbli-
ca di un progetto articolato d’inclusione e intervento locale. Il rischio di una
progressiva segregazione territoriale su base sociale ed etnica, sia nei quartieri
di edilizia residenziale pubblica sia nel mercato privato più fatiscente, è un oriz-
zonte ancora lontano se confrontiamo la situazione di Milano con le altre me-
tropoli europee, ma la persistente mancanza di azioni di sostegno può nel me-
dio-lungo periodo aggravare la situazione.
Conseguentemente, il livello d’analisi dovrà tener conto da un lato,
dell’attivazione di politiche abitative che possano rimuovere gran parte degli
ostacoli incontrati dai gruppi più vulnerabili – di cui le famiglie immigrate rap-
presentano una quota significativa – nel cercare risposte al bisogno della casa,
dall’altro di promuovere condizioni soddisfacenti per assicurare una pacifica
coabitazione nei quartieri multietnici.

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Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale di Mantova, Annuario
statistico dell’immigrazione straniera Anno 2003. Approfondimento territoriale nel-
la Provincia di Mantova. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2004.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale di Milano, Approfon-
dimento territoriale: il caso della Provincia di Milano. Annuario statistico
dell’immigrazione straniera. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale
per l’integrazione e la multietnicità. Anno 2003, Milano, 2004.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Prefettura di Pavia-Ufficio territoriale del Go-
verno, Approfondimento territoriale: il caso della Provincia di Pavia. Annuario sta-
tistico dell’immigrazione straniera. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Re-
gionale per l’integrazione e la multietnicità. Anno 2003, Milano, 2004.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale di Sondrio, Secondo
rapporto sull’immigrazione straniera nella Provincia di Sondrio, Milano, 2004.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale di Varese, Annuario
statistico dell’immigrazione straniera. Anno 2003. Approfondimento territoriale nel-
la Provincia di Varese. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2004.

135
2005
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo, Rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo. Annuario statistico. Anno
2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale sull’immigrazione di
Brescia, L’immigrazione straniera in provincia di Brescia. Nel quadro delle attività
dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2005
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provinciale di Como, Annuario
statistico dell’immigrazione straniera. Approfondimento territoriale nella Provincia
di Como. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità. Anno 2004, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Secondo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statisti-
co 2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Sesto rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico. Anno
2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Quinto rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno 2004.
Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la mul-
tietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Quinto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statistico.
Anno 2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano,
L’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Anno 2004, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Secondo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. An-
no 2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Terzo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2005.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Quarto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico.
Anno 2004. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2005.

136
2006
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo, Quarto
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo. Annuario statisti-
co. Anno 2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Como, Terzo Rappor-
to sull’immigrazione straniera in Provincia di Como. Annuario statistico. Anno
2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Terzo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statistico
2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Settimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico. An-
no 2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Sesto rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno 2005.
Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la mul-
tietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Sesto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statistico.
Anno 2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano, Nono rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Annuario statistico. Anno
2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Terzo rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. Anno
2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Quarto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2006.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Quinto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico.
Anno 2005. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2006.
Maiorino S., Ortensi L., Valtolina G.G. (a cura di), Ricongiungimenti familiari di immi-
grati in Provincia di Milano. Indagine conoscitiva: l’esperienza del servizio Minori
e Famiglia della Provincia di Milano, Fondazione Ismu, Osservatorio Provinciale di
Milano, Milano, 2006.

137
2007
Farina P. (a cura di), Futuro plurale. Percorsi dei giovani stranieri nel mantovano,
Fondazione Ismu, Osservatorio Provinciale di Mantova, Milano 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo, Quinto
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo. Annuario statisti-
co. Anno 2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Bergamo, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Como, Quarto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Como. Annuario statistico
2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Como, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Quarto
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statisti-
co 2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Cremona, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Ottavo rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico. Anno
2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Lecco, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Settimo rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno
2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Lodi, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Settimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statisti-
co. Anno 2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Mantova, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano, Decimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Annuario statistico.
Anno 2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Quarto rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. Anno
2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Pavia, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Quinto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Sondrio, 2007.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Sesto rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico. Anno
2006. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Varese, 2007.

138
2008
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo,
L’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo. Anno 2007, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Brescia,
L’immigrazione straniera nella Provincia di Brescia. Anno 2007, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Como, Quinto Rap-
porto sull’immigrazione straniera in provincia di Como. Annuario statistico. Anno
2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Sesto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statistico.
Anno 2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Nono rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico. Anno
2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Ottavo rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno 2007.
Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la mul-
tietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Ottavo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statistico.
Anno 2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano, Undicesimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Annuario statistico.
Anno 2007. Dettaglio per i 22 Ambiti Territoriali e per la Provincia di Monza, Mi-
lano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Quinto rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. Anno
2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Sesto rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2008.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Settimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico.
Anno 2007. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2008.
Marcaletti F. (a cura di), Lavoratori immigrati e fenomeno infortunistico in provincia di
Sondrio, Fondazione Ismu, Osservatorio Provinciale di Sondrio, Milano, 2008.

139
2009
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo,
L’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo. Anno 2008, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Brescia,
L’immigrazione straniera nella Provincia di Brescia. Anno 2008, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Como, Sesto Rappor-
to sull’immigrazione straniera in provincia di Como. Annuario statistico. Anno
2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Settimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statisti-
co. Anno 2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Decimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico. An-
no 2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Nono rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno 2008.
Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la mul-
tietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Nono rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statistico.
Anno 2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano, Undicesimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Annuario statistico.
Anno 2008. Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Monza-Brianza, Pri-
mo rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Monza-Brianza. Annua-
rio statistico. Anno 2008, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Sesto rapporto
sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. Anno
2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Settimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2009.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Ottavo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico.
Anno 2008. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2009.

140
2010
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Bergamo, Ottavo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Bergamo Annuario statistico.
Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Brescia,
L’immigrazione straniera nella provincia di Brescia. Annuario statistico. Anno
2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Como, Settimo Rap-
porto sull’immigrazione straniera in provincia di Como. Annuario statistico. Anno
2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Cremona, Ottavo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Cremona. Annuario statistico.
Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lecco, Undicesimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Lecco. Annuario statistico.
Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Lodi, Decimo rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Lodi. Annuario statistico. Anno
2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Mantova, Decimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Mantova. Annuario statisti-
co. Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per
l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Milano, Dodicesimo
rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Milano. Annuario statistico.
Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Monza-Brianza, Se-
condo rapporto sull’immigrazione straniera nella provincia di Monza-Brianza. An-
nuario statistico. Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale
per l’integrazione e la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Pavia, Settimo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Pavia. Annuario statistico. An-
no 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e
la multietnicità, Milano, 2010.
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Sondrio, Ottavo rap-
porto sull’immigrazione straniera nella provincia di Sondrio. Annuario statistico.
Anno 2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione
e la multietnicità, Milano, 2010.

141
Fondazione Ismu, Regione Lombardia, Osservatorio Provincia di Varese, Nono rappor-
to sull’immigrazione straniera nella provincia di Varese. Annuario statistico. Anno
2009. Nel quadro delle attività dell’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità, Milano, 2010.

I volumi sono consultabili a Milano, presso il Centro Documentazione (Ce.Doc.)


della Fondazione Ismu in via Galvani n. 16, aperto il lunedì, il mercoledì e il gio-
vedì dalle 9.30 alle 16.00 e il martedì dalle ore 9.30 alle ore 17.30. È possibile ac-
cedere ai testi anche collegandosi al sito:
www.orimregionelombardia.it

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