In questa lunga citazione l'autore della Imitatio Christi ammonisce il credente a procedere per gradi
nel cammino della fede, anteponendo alla speculazione l'imitazione, alla teoria la pratica di vita, alla
visione l'audizione della voce della Trinità che si articola in modo "sinfonico". Nel 1920, quando
Heidegger si appresta a tenere il primo dei corsi dedicati alla fenomenologia della vita religiosa,
corso che avrebbe dovuto intitolarsi Fondamenti filosofici della mistica medioevale,4 l'Imitatio
Christi non solo compare, al fianco dell'opera di Eckhart, di Bonaventura e di Teresa D'Avila tra i
testi di riferimento, ma se ne trova sempre una copia sul suo tavolo di studio e di lavoro di
Heidegger. Avvenimento che non è, come vedremo in seguito, privo di significato.
Nei corsi friburghesi dedicati alla Fenomenologia della vita religiosa il filosofo tedesco elegge
l'esperienza cristiana della fede a luogo paradigmatico dell'esperienza effettiva della vita, vero e
proprio leitmotiv della sua revisione della fenomenologia in quegli anni. Quasi senza soluzione di
continuità nelle pagine delle lezioni la filosofia si immerge nelle pieghe dell'esperienza religiosa,
rivelandone un carattere che la stessa teologia -- almeno questa è la convinzione del filosofo nei
primi anni Venti -- non sarebbe stata in grado di portare alla luce. La filosofia, infatti, e nello
specifico la declinazione impressa da Heidegger alla fenomenologia della vita, che riconosce
nell'indicazione formale (das formal Anzeige) il suo strumento d'indagine principale, consentirebbe
un accesso originario all'esperienza religiosa, dal momento che ne ricalcherebbe la dinamica
essenziale -- e non certo i contenuti, spiega Heidegger, i quali piuttosto si rendono comprensibili
solo all'interno dell'esperienza stessa5 -- che ne sta a fondamento.
Intesa come modus operandi, l'indagine filosofica appare strumento eccellente capace di aprire un
varco di comprensibilità -- che non è tuttavia totale -- nel tessuto vitale dell'esperienza religiosa.6 Il
legame istituito tra filosofia ed esperienza religiosa si espone, tuttavia, costitutivamente a molteplici
obiezioni, tra cui la più importante è senza dubbio la difficoltà di comporre l'andamento di una
disciplina teoretica, universale e necessaria con la praticità, la singolarità e la libertà dell'esperienza
religiosa che prende vita nel cristianesimo. Se, insomma, in filosofia viene prima la speculazione
dell'imitazione, la teoria della pratica, la visione dell'audizione qual è il punto di congiunzione tra
filosofia e religione e, più in particolare, tra filosofia e cristianesimo?
Per comprendere il nesso che lega intimamente filosofia heideggeriana e cristianesimo è necessario
sottolineare come dalla prospettiva del giovane Heidegger l'anteriorità dei modi, seppur affermata,
non coincida, tuttavia, come mostrerò nel corso della relazione, con una superiorità assegnata alla
dimensione teoretica del pensare; quest'ultima, al contrario, viene collocata solo nel secondo stadio
del pensiero. Essa è cioè sempre riflessa e mediata.
Ma se il teoretico è il secondo stadio della riflessione -- come Heidegger ammette -- , cosa sta al
principio del pensare, ovvero cosa muove la filosofia a intraprendere una ricerca?
Nei primi anni Venti, Heidegger non ha dubbi nell'indicare l'esperienza effettiva della vita come ciò
da cui la filosofia scaturisce e anche ciò a cui, attraverso un movimento di rimbalzo, deve
ritornare.7 L'esperienza effettiva è intesa, anzitutto, nel suo carattere originariamente pratico-
esistenziale. Ancora in Essere e tempo -- dove pur si assiste ad un sostanziale slittamento della
problematica centrale, poiché se ancora l'esserci effettivo è a tema dell'indagine filosofica, scopo
della ricerca non è più una sua comprensione, quanto piuttosto una illuminazione dell'essere -- alla
pràxis è assegnato un primato.8 È pratica, ad esempio, la relazione che l'esserci intrattiene con gli
enti, intesi originariamente come strumenti in vista della realizzazione di un fine. È pratica, ancora,
la relazione fondamentale con gli altri esserci, visti nella loro differenza dagli enti come non
utilizzabili.9
Ora, focalizzando l'attenzione sull'esperienza effettiva della vita Heidegger intende non tanto
sostenere che la filosofia debba rincorrere la vita nel suo darsi immediato (cioè, non si situa sulla
linea di continuità che dal vitalismo giunge, problematicamente, sino a Dilthey il quale invocava un
nacherleben l'esperienza vissuta),10 quanto mostrare come la modalità primaria del pensiero, se
accoglie la sua originaria vocazione e congiunzione alla vita, sia attuativa e cioè consista nel seguire
la dinamica costante che caratterizza l'essere, a sua volta irriducibile a quell'interpretazione
metafisica che lo riduce a semplice presenza. La critica heideggeriana al concetto di essere come
presenza, peraltro, sorgerebbe, come ha ben sottolineato il teologo Bruno Forte, da un certo influsso
della tradizione teologica cristiana e in particolar modo della riflessione sulla Trinità e sul mistero
trinitario che, frantumando l'idea stessa di un fondamento stabile e immobile, concepirebbe l'essere
in modo nettamente alternativo a quello greco. Ed è proprio sulla base della critica all'essere come
presenza che sorge l'idea che il soggetto, nell'esperienza effettiva della vita, si rapporti ai propri
oggetti non in modo estrinseco, ma sempre intrinseco e cioè all'interno di un contesto significante e
complesso che precede, o sostanzia, i rapporti stessi: il molteplice, in tal modo, viene prima tanto
della relazione biunivoca -- tra soggetto e oggetto -- quanto dello stesso soggetto individuale -- che
è a sua volta il risultato di un rapporto di identificazione e differenza con l'altro. Se da un punto di
vista strettamente storiografico Heidegger tende a collocarsi sulla scia già avviata da Husserl e dalla
fenomenologia, affermando che nella vita effettiva non vi è distanza tra soggetto e oggetto, a
differenza del maestro, il quale reputava proprio perciò necessario mettere tra parentesi la relazione
per guadagnare l'altezza e la distanza della visione, ritiene indispensabile collocare il pensiero
proprio su quel varco delicatissimo che separa la vitalità dell'esperienza effettiva dalla riflessione
mediata. Mentre la filosofia, in quanto movimento secondo rispetto alla vita, si situerebbe
pienamente ad un secondo livello, il pensiero originario, invocato a gran voce in questi primi corsi,
seguendo l'andamento vitale -- ma non perciò irriflesso -- e primo della relazionalità complessa
della vita, si collocherebbe interamente ad un livello preteoretico.11
Ora, non è senza significato che proprio in questi stessi anni alla incessante richiesta di un
sovrappiù di originarietà in filosofia e alla consapevolezza che la dimensione preteoretica sia
motore d'avvio di un'autentica riflessione ontologica si accompagni la forte presenza di temi e
motivi religiosi. Potremmo addirittura affermare che la fenomenologia della vita effettiva, ovvero
l'andamento impresso all'indagine filosofica almeno sino ad Essere e tempo, scaturisca dalla
meditazione su testi religiosi e che, perciò, essi siano ispiratori di una svolta filosofica. Non
soltanto il binomio filosofia-cristianesimo è nel giovane Heidegger ben più che accidentale, ma il
motivo della Trinità, sebbene non tematizzato esplicitamente, agisce dall'interno nella edificazione
del tessuto speculativo del suo pensiero.
L'evento esperienziale-concreto della crocifissione, letto quale momento che registra l'insorgere di
un mutamento, se per un verso è assimilabile perciò a qualsiasi altro avvenimento storico, per l'altro
è irriducibile alla dimensione storico-spaziale del tempo, poiché consiste precisamente nell'apertura
di un evento che richiede partecipazione promettendo rigenerazione.14 Una simile rigenerazione
non è, tuttavia, rimandata ad un tempo fuori dal tempo, ma in qualche modo già accade e avviene.
Peculiarità della fede cristiana, fondata su un avvenimento storico, è a parere di Heidegger, l'essere
in se stessa storica, e ciò significa che essa non soltanto si temporalizza, ovvero vive nel tempo, ma
vive il tempo,15 temporalizzando fattualmente l'esistenza credente e la verità che è accolta
nell'annuncio della rivelazione. Sulla scorta di simili considerazioni Heidegger può, perciò,
affermare che solo una teologia -- da intendersi come lo sviluppo razionale e coerente di un sistema
della fede (che non lascia spazio ad alcun approccio laico al positum da cui deriva) -- capace di
accogliere la sfida di una fede storica potrà corrispondere all'essenza del factum ontologico che ne
sta a fondamento. Una simile impresa è, però, realizzabile -- è interessante il termine usato dal
filosofo tedesco -- solo per avventura, e cioè sganciandosi dalle certezze di quei sistemi che le
forniscono aprioristicamente un assetto razionale e funzionale.16
Ora la questione della Trinità, e della verità che nella e dalla Trinità scaturisce, deve essere
ricondotta al tassello primario della definizione heideggeriana della fede cristiana e cioè l'istituirsi
di un rapporto ontologico che attraverso la crocifissione si stabilisce tra l'uomo e Dio. Elemento
centrale di un simile rapporto, il Cristo è il fra-mezzo, ovvero il tramite attraverso cui è possibile,
per un verso, testimoniare la verità e, per l'altro, realizzare se stessi. Cristo non sarebbe, insomma,
termine mediano, poiché se così fosse la rivelazione si ridurrebbe ad un momento di un movimento
dialettico triadico, tale per cui colui che muore sulla croce sarebbe soltanto la pars finita di una pars
infinita. Come nell'incedere della dialettica hegeliana, si dovrebbe assumere che il tolto rimane per
essere conservato e che la morte è, perciò, soltanto un stadio strumentale alla resurrezione. Qui si
tratta, invece, di un'interruzione che genera un mutamento irreversibile, spostando l'intero
movimento dialettico dall'interno all'esterno. Cristo indicherebbe, in tal modo, il medium della
verità cristiana, e cioè la via sulla quale è necessario incamminarsi per giungere a Dio. Via della
testimonianza, della conversione e dell'esempio, la frammezzità del Cristo non soltanto incide sulla
natura della sostanza divina, spezzandone l'integrità, ma agisce nell'orizzonte mondano nel suo
insieme, ridisegnando e riconfigurando il tempo, il sapere e la stessa identità dell'esistenza credente.
Se, insomma, dalla prospettiva teologica, come peraltro nell'incedere della dialettica hegeliana, il
positum della fede cristiana si rende trasparente attraverso la dinamica trinitaria Padre-Figlio-
Spirito, dalla prospettiva dell'accesso fenomenologico -- che, si badi, non si spinge sino
all'emersione del cosa, ma si limita a tratteggiare il come di un vissuto, ovvero la modalità
attraverso cui l'esistenza cristiana si rapporta ai propri contenuti -- la fede, e dunque la Trinità, non
può essere vista e intesa in se stessa, ma piuttosto va seguita nel suo farsi storia nella storia del
singolo credente, e cioè nella sua esperienza effettiva. Heidegger, insomma, indagando il come
dell'esperienza cristiana della fede, intende mostrare l'incidenza e le fattezze che la Trinità assume
nell'esperienza effettiva del singolo. Se la fenomenologia della vita, infatti, ha lo scopo di mettere in
luce la modalità fondamentali con cui la vita effettiva è vissuta, allora il fine delle indagini
heideggeriane sul cristianesimo originario sarà mostrare come il credente viva la propria fede,
ovvero come il motivo trinitario si dialettizzi effettivamente nell'esistenza concreta.
Ora a partire dalla formula in Cristo e dall'indicazione della comunità dei credenti come corpo
mistico di Cristo -- paradigmatico è I Cor, 12, 12. 31 -- , il giovane filosofo friburghese delinea una
straordinaria dinamica di vita che vede nel motivo trinitario tanto l'attuazione di una precisa
modalità storico-effettiva, quanto l'indicazione di una verità che si contrappone nettamente a quella
greca in virtù un'identità aperta e potente.
Da qui deriva sia una specifica dinamica temporale, ermeneutica ed esistenziale trinitaria, dinamica
che Heidegger rintraccia nel tessuto delle epistole paoline, sia una configurazione della verità che si
apre alla testimonianza nell'esistenza credente ed è, perciò, nel senso dell'accesso fenomenologico,
caratterizzata da una costante inquietudine e attesa. Analizzeremo, dunque, in primo luogo il triplice
andamento della Trinità nell'esperienza della fede paolina (A) e, in secondo luogo, la specifica
configurazione della verità che dalla e nella Trinità prende vita prendendo spunto
dall'interpretazione heideggeriana del X libro delle Confessiones di Agostino19 (B).
Al principio dell'analisi delle epistole paoline, Heidegger sottolinea con forza la differente
declinazione della temporalità presente nella predicazione paolina e nei racconti evangelici. Mentre
nei Vangeli è annunciato, infatti, l'avvento del regno di Dio attraverso il racconto della vita di
Cristo, nelle Epistole paoline è predicato il vangelo di Cristo, attraverso la cronaca del costituirsi
delle prime comunità.20 La predicazione di Paolo -- scrive Heidegger -- è totalmente incentrata su
un presente storico-esistenziale a partire dal quale il passato e il futuro vengono ridisegnati e
sottratti a una semplice interpretazione cronologica; da un lato, il passato cui rimanda l'apostolo è
memoria di un aver già saputo ed un esser già divenuti -- ovvero rimanda all'attualità di uno stato --
dall'altro il futuro della verità nuda e compiuta getta la propria ombra sul presente determinandone
l'anticipazione -- sul tempo della parousia, scrive l'apostolo, non ho bisogno di dirvi, poiché voi
sapete già con certezza (I Tes, 5, 1. 5). Paolo non annuncia, come gli evangelisti, la salvezza nel
tempo futuro, ma afferma, piuttosto, la certezza che coloro che vivono in Cristo sono già salvi,
predicando, dunque, un Messia presente. Ora sebbene l'articolazione del tempo sembri seguire
apparentemente il delinearsi della successione cronologica, ovvero il riconcorrersi di passato,
presente e futuro, in realtà il tempo determinante per il cristiano -- e questo è evidentissimo nelle
due Lettere ai Tessalonicesi -- è quello della parousia. Heidegger fornisce della parousia un'ardita
interpretazione.21 Se ci limitassimo, spiega il filosofo friburghese, a ricondurre la parousia al
contenuto meramente escatologico dell'annuncio -- che l'inizio del tempo della fine è prossimo --
non si comprenderebbe fino in fondo la specifica dinamica temporale lungo la quale il cristiano vive
il proprio tempo. Se, cioè, la parousia corrispondesse ad un determinato momento che occorre alla
fine del tempo, allora essa comporterebbe l'estinzione del tempo, ovvero il suo comparire dopo il
passato, il presente e il futuro. Il tempo della parousia si materializzerebbe nell'esistenza cristiana
cancellando e superando il tempo dell'attesa. Paolo, invece, scrive Heidegger, pur vivendo nella
sospensione tra il tempo dell'attesa e quello della parousia, non pensa una simile relazione in
termini di contrapposizione o di esclusione; al contrario, azzarda il filosofo friburghese, egli ritiene
che il tempo dell'attesa coincida con quello della parousia. Se, nell'esordio della sua interpretazione
Heidegger aveva affermato che peculiarità del cristianesimo era vivere non nel tempo, ovvero nella
successione di passato, presente e futuro, ma il tempo, qui si fa chiaro che il tempo del cristiano è il
momento sempre presente dell'attuazione di una condotta di vita.22 Il cristiano vivrebbe sulla
propria pelle l'unità del tempo, il kairòs della parousia. La dinamica temporale cristiana in un certo
senso riprodurrebbe l'andamento trinitario che, se per un verso, si delinea nella triplicità
fenomenica, per l'altro è racchiuso nell'integrità di dio. L'unità del tempo, insomma, non è un
momento che viene alla fine del tempo, poiché se così fosse passato, presente e futuro si
risolverebbero in una triade conologico-temporale. Al contrario l'istante, il kairòs, precede e
sostanzia il tempo. E tuttavia, la concrezione dell'istante esperita nell'esistenza concreta della fede
non immobilizza affatto il tempo racchiudendolo in un momento determinato. Al contrario proprio
l'istante, in quanto tempo vissuto dell'attesa, dell'inquietudine e della tribolazione dilata all'intero
corso dell'esistenza mondana, e dunque al tempo cronologico, la necessità che ogni momento sia
l'attimo propizio per la decisione ad assumere su di sé la provenienza da Dio, la presenza della
Croce e la salvezza dello spirito.
L'identità cristiana
È attraverso l'analisi della Lettera ai Galati che Heidegger mostra la natura peculiare dell'identità
paolina e, perciò, dell'identità cristiana più in generale. Paolo, riferendosi al momento della sua
conversione a Cristo, dice che nella sua vita è accaduta una anastrophè.23 Su questo termine il
filosofo tedesco si sofferma, sottolineando come esso non indichi semplicemente un mutamento di
vita, ma un ritorno all'origine. Non a caso Paolo dice: il Signore che mi scelse fin dal seno di mia
madre (Gal, I, 15). La conversione, dunque, genera indubbiamente una frattura nell'esistenza
paolina, ma tale frattura comporta un movimento di rimbalzo al principio, ovvero al suo essere più
proprio. Quest'ultimo, scrive Heidegger, è inscindibile tanto da Dio quanto dalle comunità cui, di
volta in volta, egli sente d'appartenere. Nella I Lettera ai Tessalonicesi si avverte concretamente
come Paolo si trasformi all'incontro con la comunità di Tessalonica e come i tessalonicesi si
trasformino all'incontro con Paolo.24 Così se la trasformazione dei Tessalonicesi dipende dal
contenuto dell'annuncio di Paolo, che l'inizio del tempo della fine è prossimo, che la contingenza e
l'imminenza di questo evento esige decisioni impellenti, allo stesso modo la trasformazione di Paolo
dipende dalla ferma fiducia che i Tessalonicesi hanno nella veracità di quell'annuncio. Paolo non è
più soltanto un singolo predicatore errante, ma un tutt'uno, ogni volta, e tutte le volte in modo
diverso, con le comunità cui si rivolge, e queste stesse sono tali nella relazione con lui. Isolare
l'identità paolina dalle comunità costituirebbe, quindi, un fraintendimento della sua situazione
esistenziale. Al contrario è necessario interpretarne l'identità in base alla triplice scansione
esistenziale della sua vita credente. La sua identità è data, infatti, dalla composizione concomitante
del suo Selbstwelt (mondo del sè), ovvero del suo essere un predicatore errante, strappato via al
fariseismo delle leggi che egli aveva difeso con fervore, del suo Mitwelt (mondo degli altri), le
comunità della Grecia e dell'Asia minore cui di volta in volta si rivolge, e del suo Umwelt (mondo
ambiente), il sovrapporsi della cultura farisaica, giudaica e pagana. L'identità paolina, insomma,
reca le tracce di un triplice andamento. E se i contenuti della situazione esistenziale si laicizzeranno
in Sein und Zeit, tuttavia resterà immutato nel tessuto speculativo dell'analisi ontologico esistenziale
la determinazione dell'identità come il frutto del mondo del sé, del mondo degli altri e del mondo
ambiente.
Il sapere cristiano
Ad uno sguardo estrinseco la dinamica conoscitiva che caratterizza l'esistenza cristiana potrebbe
riassumersi nella formula solo a chi crede sarà rivelato. Questa formula, in qualche modo,
converge con la dinamica fondamentale dell'ermeneutica, tale per cui la comprensione è possibile
solo dopo aver accettato i presupposti della comunicazione stessa. Ora, non v'è dubbio che dalla
prospettiva heideggeriana l'ermeneutica s'intrecci con la comprensione religiosa.25 E tuttavia nella
dinamica del sapere che ha luogo nell'esistenza cristiana sembrano racchiudersi e comporsi le due
modalità fondamentali dell'esperire cristiano, e cioè il vivere il tempo e l'essere già divenuti.26
Heidegger intravede un nesso tra l'attesa, la modificazione esistenziale e il sapere della fede, nesso
che si sostanzia in una dinamica a-oggettuale. Il sapere di Dio è, in qualche modo, un sapere certo --
Agostino al principio del X libro delle Confessiones scrive di sapere in modo certissimo di amare
Dio, ma di non sapere cosa ama quando ama Dio -- , ma allo stesso tempo è privo di un contenuto
determinato. Il carattere non oggettuale del sapere cristiano se, per un verso dipende dalla specifica
natura del Dio in cui si crede -- ma nel corso dell'interpretazione paolina, è bene annotare,
Heidegger non usa questo argomento -- per l'altro sembra essere il frutto della specifica modalità o
attuazione propria dell'esistenza credente.27 Scrive Heidegger: il sapere della parousia è un
glaubende Wissen, ovvero un sapere credente.28 Si noti che Heidegger qui utilizza un participio
attivo (glaubende) e non passivo (glaubente). Se avesse scelto un participio passivo allora
significherebbe che il sapere che possiedono è dai cristiani creduto. Heidegger, invece, intende
sottolineare una diversa configurazione e cioè che è questo stesso sapere, al quale i cristiani si
affidano, ad attuarsi nella modalità del credere. Nell'ansia e nella tribolazione si articola il sapere
credente, un'ansia e una tribolazione che connotano la fede nel suo statuto più autentico e che non
cesseranno nemmeno quando sarà presente la perfezione (I Cor, 13, 13). Il sapere, insomma, della
fede non consta di una stabilità che sola può essere garantita dall'immobilità dell'oggetto creduto. Al
contrario proprio la dinamica intrinseca all'oggetto della fede, la Trinità come esplicazione sempre
attuale della rivelazione, riveste il sapere di una costante inquietudine. Fede e inquietudine non
rappresentano, in tal modo, momenti distinti o stadi che si escludono reciprocamente, quasi a
immaginare che all'instabilità della prima debba seguire la stabilità della seconda, ma la trama della
stessa esistenza credente.29
Vorrei chiudere il mio intervento riferendomi a una pagina molto bella del corso del 1922 Agostino
e il Neoplatonismo. In questo corso Heidegger pone l'accento sul carattere di transizione
dell'esperienza religiosa agostiniana, che scandisce il passaggio tra lo Ur-Christentum, luogo
originario della fede, e la Romanitas, intesa come mediazione e incorporazione delle categorie
filosofiche greche in vista di una stabilizzazione della fede. Questo passaggio investe l'intero plesso
concettuale del cristianesimo, ma è forse la concezione della verità a subire il contraccolpo più
decisivo. Sebbene Agostino si situi al principio della Romanitas, si può tuttavia ancora riconoscere
nella sua speculazione la dimensione autentica del cristianesimo e della verità che nella e dalla
Trinità scaturisce.
La verità della Trinità non coinciderebbe, insomma, dalla prospettiva agostiniana con il possesso
stabile di un contenuto, ma con l'assunzione in proprio di un compito che deve esser costantemente
esercitato dal credente nell'esercizio della sua fede: mantenersi desti e vigili, come scrive
ripetutamente l'apostolo di Tarso nelle sue lettere.
L'incontro con la verità non ha niente a che fare con il possesso di un oggetto o con il sapere stabile
di una nozione, ma coincide con la possibilità di corrispondere all'annuncio di Dio che diviene
attraverso il Cristo invito partecipazione e nello Spirito promessa di realizzazione.
Georgia Zeami. «La verità incompiuta della Trinità». Elaborare l'esperienza di Dio [in linea], Atti
del Convegno «La Trinità», Roma 26-28 maggio 2009, disponibile su World Wide Web:
<http://mondodomani.org/teologia/>, [**41 B].
Note
1. Soprattutto in ambito cattolico, già durante i primi anni della ricezione italiana, ne sottolinea
il carattere ateistico C. Mazzantini, Martino Heidegger. Osservazioni critiche sulla sua
dottrina dal punto di vista della filosofia neoscolastica, in "Rivista di filosofia
neoscolastica" 1935, pp. 268-282, a cui fa seguito A. A. Colombo, Martin Heidegger. Il
ritorno dell'essere, Il Mulino, Bologna 1964. Paradigmatica è poi l'interpretazione di L.
Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in «Annuario filosofico» (5) 1989. Testo
2. A sottolineare, invece, il carattere religioso del suo pensiero M. Jung, Das Denken des Seins
und der Glaube an Gott. Zum Verhältnis von Philosophie und Thologie bei Martin
Heidegger, Königshausen & Neumann, Würzburg 1990; P. De Vitiis, Il problema religioso
in Heidegger, Bulzoni, Roma 1995; H.-G. Gadamer, L'ultimo Dio. La lezione filosofica del
XX secolo, Reset, 2000; L. Samonà, Implicazioni etico-religiose della fatticità, in Heidegger
e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, A. Ardovino (a cura
di), Guerini, Milano 2003, pp. 189-208; S. Poggi, La logica, la mistica, il nulla. Una
interpretazione del giovane Heidegger, Edizioni della Normale, Pisa 2006. Testo
3. M. Heidegger, Phänomenologie des religiösen Lebens, GA. Bd. 60, Hrsg. M. Jung, T.
Regehly und C. Strube, Klostermann Frankfurt a. M. 1995; tr. it. Fenomenologia della vita
religiosa, F. Volpi (a cura di), Adelphi, Milano 2003. Testo
4. Il corso avrebbe dovuto tenersi nel 1918-1919, ma venne poi disdetto. Di esso rimangono
bozze e appunti preparatori. M. Heidegger, I fondamenti filosofici della mistica medioevale,
in Fenomenologia della vita religiosa, cit., pp. 381-421. Testo
5. Ivi, p. 90 e ss. Testo
6. Ivi, p. 105-106. Testo
7. Ivi, p. 40. Testo
8. Cfr. F. Volpi, L'esistenza come "praxis". Le radici aristoteliche della terminologia di Essere
e tempo, in AA. VV., Filosofia, 1991, pp. 215-252; Essere e tempo: una versione dell'Etica
Nicomachea? Heidegger e il problema della filosofia pratica, in Heidegger e la filosofia
pratica, P. Di Giovanni (a cura di), Flaccovio, Palermo 1994, pp. 333-370. Testo
9. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Nimeyer Verlag, Tübingen 1967; tr. it. Essere e
tempo, P. Chiodi (a cura di), Longanesi, Milano 1976, §§15-18; 25-27. Testo
10. Cfr. W. Dilthey, Das Problem der Religion, G.S., IV, Lipsia-Berlino 1924, pp. 288-305.
Testo
11. Cfr. M. Heidegger, L'idea della filosofia e il problema della visione del mondo, G. Cantillo
(a cura di), Guida, Napoli 1993. Testo
12. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, a cura di N. De Feo, La Nuova Italia, Firenze
(Scandicci) 1994. Testo
13. Ivi, pp. 9-14. Testo
14. Ivi, p. 10. Testo
15. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. p. 118. Testo
16. M. Heidegger, Fenomenologia e teologia, Ivi, p. 18. Testo
17. Si tratta del corso tenuto a Freiburg nel semestre invernale 1920-1921. M. Heidegger,
Introduzione alla fenomenologia della religione, in Fenomenologia della vita religiosa, cit.,
pp. 33-203. Testo
18. Ivi, pp.119-120; p. 177. Testo
19. Si tratta del corso tenuto a Freiburg nel semestre estivo 1921. M. Heidegger, Agostino e il
Neoplatonismo, in Ivi, pp. 205-377. Testo
20. Ivi, p. 120 Testo
21. Ivi, p. 90 e ss. Testo
22. Ivi, p. 140. Testo
23. Ivi, p. 108. Testo
24. Ivi, p. 133. Testo
25. Cfr. M. Heidegger, Aus einem Gespräch der Sprache. Zwischen einem Japaner und einem
Fragenden, in Unterwegs zur Sprache, Hrsg. F.-W. Von Hermann, GA Bd. 12,
Klostermann, Frankfurt a. M. 1985, pp. 83-155; tr. it., Da un colloquio all'ascolto del
linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 83-125. Testo
26. «L'essere divenuti è inteso nel senso che accogliendo ciò che va accolto si entra in una
relazione con Dio». M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit., p. 135. Testo
27. «Questo sapere è del tutto diverso da ogni altro sapere e ricordare. Esso risulta soltanto dal
contesto della situazione dell'esperienza cristiana della vita», ivi, p. 134 Testo
28. Ivi, p. 142. Testo
29. Cfr. la voce Pistèuo curata dal fraterno amico di Heidegger R. Bultmann in Theologisches
Wörtebuch zum Neuen Testament, G. Kittel (hrsg.), Stuttgart 1959; tr. it., Grande lessico del
Nuovo Testamento, F. Montanini- G. Scarpat- O. Soffritti (a cura di), Paideia, Brescia 1975.
Testo
30. Cfr. Agostino, Confessiones, X, 30-34. Testo
31. Ivi, p. 259. Testo
32. «Potuimus putare verbum tuum remotum esse a coniunctione hominis et desperare de nobis,
nisi caro fieret et habitaret in nobis». Agostino, Confessiones, X, 43, 69. Testo