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NOI DUE

Il giorno in cui si conobbero non successe niente. Non fu amore a prima vista. Non si videro

arcobaleni nel cielo né farfalle che volavano di fiore in fiore. Fu un incontro di lavoro

normalissimo. Strette di mano convenzionali, un sacco di chiacchiere sul progetto e saluti

incerti. I guai arrivarono dopo.

Si vedevano quasi tutti i giorni per lavorare. Un attimo prima di arrivare sul posto, lei riceveva

un messaggio.

“Sono al bar con gli altri. Vieni?”

All’inizio si limitava a raggiungerlo. Dopo la quarta o la quinta volta cominciò a scherzarci su.

“Ma non hai mai voglia di lavorare?”

Lui sorrideva. Sorrideva con tutto il viso. Con le guance, con le labbra, con gli occhi che

diventavano curve sottili come quelli di certi cartoni animati giapponesi che lei guardava da

bambina.

Fu proprio in quei minuti passati al bar che si conobbero davvero. Lui la riempiva di

domande. Cosa aveva studiato? Che musica le piaceva? In quale zona della città abitava?

“Lontano”, rispose lei un giorno. “Vengo con i mezzi”. 

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“Allora ti riaccompagno io”.
Al tempo passato insieme prima del lavoro, si aggiunse quello dei lunghi

tragitti in macchina al ritorno. Anche lei cominciò a fare domande.

Lui sembrava felice di risponderle, così come sembrava felice di parlarle, in

generale. Aveva una fidanzata, da qualche mese. Spesso la chiamava davanti

a lei, mentre la riaccompagnava.

“Non vive qui. Tra poco si trasferirà. O magari mi trasferirò io”.

Quando disse quella frase, lei sentì qualcosa ostacolare il suo respiro. Ma

durò solo un istante. Se ne accorse a malapena. Sorrise.

“Mancherai a tutti noi. È bello lavorare con te”.

Anche lei aveva un fidanzato, anche se le sembrava da tanto di non averlo

più. Lavorava tutto il giorno e la sera, quando voleva uscire, lui faceva di tutto

per rimanere a casa. Per questo non le dispiaceva restare a parlare, dopo il

lavoro. In macchina, in una sala da the, in una pizzeria al taglio.

Non c’era nulla di male, parlavano e basta. Di ogni cosa.

“C’è la mostra di Georgia O’Keeffe. Ci andiamo?”, lui era contento come un

bambino all’idea della mostra.

Lei, fosse anche solo per l’entusiasmo che le trasmetteva, disse solo “sì”.

Nessuno dei due sentiva l’esigenza di nascondersi dai rispettivi compagni o

dal resto del mondo.

La reciproca compagnia era piacevole.

Forse più che piacevole, ma pulita, libera da ogni aspetto compromettente.

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Fu proprio davanti a uno dei fiori di Georgia O’Keeffe che lui le disse:

“Questo quadro rappresenta perfettamente quello che provo per te”.

Lei fissò la tela, cercando una risposta.

“Sono rose bianche. Raccontano un affetto puro, senza secondi fini”.

Lei tirò un sospiro di sollievo. Era una dichiarazione d’intenti che la

tranquillizzava. Significava che lui era contento così. Non voleva fare di lei la

sua amante o la sua avventura. Andava bene. Era perfetto. Sorrise.

All’uscita dal museo, lui chiamò la sua fidanzata. Rimasero al telefono alcuni

minuti mentre lei guardava il suo riflesso sulle vetrine.

Sembrava allegra. Così allegra che si riconosceva a stento.

Passarono i giorni. Il lavoro procedeva a pieno ritmo e il Natale si avvicinava.

Lui e lei si videro anche durante le feste, per una passeggiata in centro. Lui le

disse che la sua fidanzata si sarebbe trasferita alla fine di gennaio.

Lei rispose che era contenta che non se ne andasse più. Gli disse anche che

lavorare con lui era bello e che sperava potesse capitarle di nuovo.

Nello spazio dove lo staff - guidato da lui - lavorava al progetto, il freddo e

l’umidità erano intollerabili. Le assenze per malattia si moltiplicarono. Il

gruppo si trovò con un membro in meno a due giorni dalla presentazione.

Lui era fuori di sé. Fu lei a trovare un sostituto, all’ultimo momento, dopo un

milione di telefonate. Erano in macchina quando attaccò il telefono e disse

“siamo salvi”. Lui gridò “evvai!”.

Poi la baciò.

Fu rapidissimo e quasi scherzoso ma lei rimase di sasso. Non sapeva cosa

dire. Riusciva solo a pensare che quel bacio non le dispiaceva come avrebbe

dovuto. Le rose bianche. Lui aveva sbagliato. Lei aveva sbagliato.


Le cose non tornarono più come prima.

Lui provò a baciarla di nuovo, svariate volte.

Lei si sottrasse sempre, poco convinta. 

“Ho capito quello che provo per te. Sono riuscito a dirlo ad alta voce, ieri.

Per la prima volta”

Quella frase scavò piano dentro di lei.

La sua storia, nel frattempo, finì com’era iniziata: nel nulla.

Aveva paura a lasciarsi baciare di nuovo ma, d’altra parte, non poteva

rinunciare al tempo passato insieme nelle strade di notte, nei musei vuoti,

nei caffè dei quartieri che non conosceva. Continuò a vederlo, diventando

sempre meno brava a schivare i suoi baci.

Il giorno in cui nevicò s’incontrarono a metà strada, in centro.

Camminarono a lungo nella neve, guardando gli abitanti della città tutta

bianca sorprendersi delle macchine coperte e dei cespugli sommersi dal

gelo. Arrivarono là dove avevano lavorato nei mesi precedenti e dove ormai

non andavano più.

Lui le disse di aver lasciato la sua fidanzata e lei seppe che era vero.

Si arrese. Gli disse di sì, in mezzo alla neve. Bianca come le rose.

Sono passati diversi anni. Lui e lei sono ancora insieme, anche se la neve non

si è vista più. Ogni volta che il meteo promette un’imbiancata, lui la guarda.

“Ti ricordi la neve?”.


Lei non dice nulla. Annuisce, pensa alle rose bianche e dice a se stessa che è

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bello essersi sbagliati in due.
NOI DUE

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