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INDEBITAMENTO E

NEOCOLONIALISMO: ALLA RADICE


MEFISTOFELICA DELLE MIGRAZIONI
di Luigi Copertino

prima parte

L’imperialismo è un sistema di sfruttamento


che si verifica non solo nella forma brutale
di chi viene a conquistare il territorio con le armi.
L’imperialismo avviene spesso in modi più sottili.
Un prestito, l’aiuto militare, un ricatto.
(Thomas Sankara)

La crisi non riguarda solo le nostre tasche, ma l’intera civiltà


(Luciano Gallino)

Quell’inquietante sinistro balenio dietro la Matrice Globale


Una colta ed intelligente giovane economista italiana – che, avendo prima
studiato le teorie economiche mainstream, presso la Bocconi, per poi ripudiarle
in favore di un nuovo keynesismo, si definisce “bocconiana redenta” – ha
recentemente pubblicato un libro fondamentale per comprendere le vere cause
dell’emigrazione africana verso l’Europa evitando di cadere in semplicistiche
spiegazioni del tipo “invasione”, “islamizzazione”, “scontro di civiltà”.
Soprattutto per evitare di rimanere incastrati nelle stupida ed inutile querelle
tra xenofobi e xenofili. Lei si chiama Ilaria Bifarini ed il suo libro reca il titolo del
tutto esplicativo de “I coloni dell’austerity. Africa, neoliberismo e
migrazioni di massa”(2017). Consigliato a tutti, perché chiunque voglia
trattare del problema immigrazione non può prescindere dalla lettura di questo
libro ossia dalla comprensione delle dinamiche finanziario-economiche che
spingono le masse del Terzo Mondo ad emigrare. Ricordiamoci che gli uomini
sono esseri tendenzialmente radicati e non emigrano se non per necessità o,
altrimenti, se spinti da ragioni di ordine spiritualmente superiore, come nel
caso biblico di Abramo. Lasciare la propria terra, la patria natia, è per qualsiasi
uomo sempre una grande sofferenza.
In questo nostro intervento seguiremo la Bifarini nelle sue spiegazioni sulle
connessioni tra liberismo, austerità e fenomeno immigratorio. Tuttavia la nostra
sarà una esposizione impegnata a presentare la questione anche sotto una
prospettiva che, probabilmente, non è quella consueta all’autrice citata, la
quale pur mostrando un approccio anche filosofico, oltre che economico, non
sembra una frequentatrice della Metafisica Tradizionale. Vorremo, in altri
termini, sottolineare, anche alla luce della sue ricerche di economista, la oscura
presenza, in queste vicende, di una “menzognera volontà omicida”, secondo
una lettura teologica della storia che è l’unica a dare davvero conto del
“misterium iniquitatis finanziario”, da millenni carsicamente strisciante nelle
vicende umane.
«Il neoliberismo – scrive Giulietto Chiesa nella Prefazione al libro della Bifarini
– ha imprigionato il mondo in una Matrice, che è poi la “mappa del denaro”,
assai simile a quella del più famoso video games, GTA, alias “Great Theft Auto”.
La somiglianza tra le situazioni di questi due videogames è stringente.
Entrambi sono dei disegni, appunto delle “mappe”. E, come tutti i disegni,
hanno dei contorni. Oltre questi contorni non c’è più niente. (…). Studiare come
funziona il neoliberismo è come giocare a Great Theft Auto. Puoi capire
benissimo come si ammazza l’avversario là dove il disegno e i personaggi sono
stati disegnati, cioè designati ad agire, ma al contorno tutto diventa privo di
ogni logica, letteralmente inesistente. Si può solo tornare indietro. Uso questa
metafora per dire che ormai sappiamo a menadito che il neo-liberismo ha
fallito. Che tutta la sua costruzione era, ed è, “sbagliata”. Che era tutto un
inganno. Che non c’è alcuna prospettiva di salvezza. Che l’austerità è già
diventata la regola generale e non c’è nessuna alternativa ad essa. Che il
denaro continuerà a concentrarsi nelle mani dei pochissimi …, mentre
immense masse popolari saranno ridotte non in miseria, ma in schiavitù (…).
Noi abbiamo scoperto che il nuovo capitalismo (ma possiamo ancora chiamarlo
tale, questo Leviathano che ha ormai sembianze del tutto diverse?) non domina
più attraverso il capitale, la produzione di merci, l’uso della forza lavoro umana
e l’estrazione da essa del plusvalore. Domina attraverso il Debito. Un debito
sempre più universale che si crea a prescindere dagli esseri umani viventi.
Dentro la “mappa del denaro” tutti diventiamo debitori, anche se non abbiamo
mosso un dito. Debitori per lo stesso fatto di esistere. Individui, famiglie, Stati.
Tutti impossibilitati a pagare il debito che cresce vorticosamente, senza sosta.
Fino a che punto potrà crescere senza spezzare qualche equilibrio? Esso
presuppone un infinito che non esiste dunque è insostenibile. Prima o poi si
vedrà la sua insostenibilità, anche se al momento essa è nascosta dalla coltre
spessissima dell’inganno collettivo».
Frequentatori della Sapienza, nelle parole di Giulietto Chiesa percepiamo
immediatamente, da parte nostra, l’eco, che lui da marxista non coglie,
dell’antica profezia del Libro della Rivelazione. E’ la profezia che descrive il
Potere Globale dell’Avversario, dell’Anticristo. Un Potere che viene profetizzato
come mondiale e finanziario: «Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e
poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte;
e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere quel marchio…»
(Apocalisse, 13 – 16,17).
L’universalizzazione del debito, strumento di dominio globale, che, come
osserva Giulietto Chiesa, ci fa tutti debitori per il solo fatto di esistere, è, nella
Luce della Rivelazione, l’esito terminale del percorso storico, segnato dal rifiuto
dell’Amore di Dio, dell’umanità. Essa, come il figlio minore della parabola
evangelica, ha lasciato la Casa del Padre, presso la quale viveva dei “frutti della
terra”, della produzione reale, per andare a dissipare l’eredità con le prostitute
della finanza predatoria, indebitandosi fino a cadere, appunto, in servitù ed a
contendere, per fame, le ghiande ai porci.
E’ necessario tenere aperta la visuale su una prospettiva Metafisica se si vuol
comprendere l’essenza mefistofelica della finanziarizzazione del mondo ed è
nostro auspicio che prima o poi anche sagaci intelligenze come Giulietto Chiesa
ed Ilaria Bifarini, uscendo dalla gabbia immanentista – perché l’Infinito se non
esiste certo qui, esiste in prospettiva trascendente –, decidano di aprirsi alla
reale comprensione delle radici ultime della storia umana.
Il sistema di indebitamento globale è riuscito a realizzare un dominio mondiale
perché chi offre denaro trova sempre chi è disposto ad accettarlo, chi cioè
chiede denaro. La finanza apolide non sarebbe riuscita in questo disegno di
dominazione se governi e popoli fossero stati coscienti dei meccanismi di
creazione del denaro per utilizzarli eticamente ossia per finalizzare il denaro a
scopi produttivi e benefici. La mancanza di conoscenza, da parte dei popoli e
delle Autorità politiche di tali meccanismi, quasi da sempre lasciati in appalto
monopolistico alla perenne consorteria transnazionale ed apolide dei banchieri,
ha consentito alla finanza di rendersi autoreferenziale, autonoma dal Politico, e
di estendere mondialmente il proprio dominio fino a condizionare l’economia di
tutte le genti ed a diventare padrona del destino di esse, esercitando un
incontrastato potere globale di vita o di morte.
Ecco perché «… interi eserciti – ci dice ancora Giulietto Chiesa – di professori,
giornalisti, politicanti, megafoni umani affetti dalla “Sindrome di Stoccolma”
sono all’opera per imporci la loro tesi unica e ossessiva che è giusto che sia
così, che non c’è alternativa alla loro narrazione, che le nostre incontestabili
verità sono false, sono “complottismo” (…). L’intero complesso della
comunicazione … è al servizio (degli) … innominabili che gestiscono la
macchina del dominio. (…). Perché ormai … (gli innominabili) hanno i mezzi per
comprare l’intero pianeta. Con dentro non solo tutti i governi dell’Africa, ma
anche tutti i governi d’Europa. Anzi li hanno già comprati. Non solo l’Africa … è
già stata ipotecata, ma tutto il mondo occidentale lo è. La differenza, semmai,
è che … (in) Occidente il processo viene ancora mediato, con assicurate
procedure, dalle leggi che i banchieri hanno scritto di proprio pugno, dunque
“legalmente”. Anche in Europa, dove i pubblici sono ancora, in parte, in
condizione di capire, o scoprire i meccanismi, e dunque sono potenzialmente
pericolosi, seppure in misura che si riduce di giorno in giorno. E’ solo questo il
motivo per cui si procede con cautela: per evitare ripercussioni sgradite da
parte dei popoli che, nell’attesa della loro impossibile rivolta, sono già stati
marchiati con il termine “populismo”. Mentre in Africa, il capitale finanziario ha
agito con la selvaggia disinvoltura di chi non ha limiti. I prestiti sono stati di
fatto imposti a classi dirigenti locali che erano state preventivamente
trasformate in classi “compradore”. Ministri, Capi di Stato, Governi sono stati
messi a busta paga. I loro figli sono stati formati nelle università europee e
americane, dalle quali sono usciti con le idee dei magici (innominabili). Quando
non fosse bastato, le massonerie occidentali li hanno formattati sulla base delle
loro regole facendo loro credere di far parte dell’élite. Chi resisteva è stato
semplicemente eliminato».
Vecchio e Nuovo Colonialismo. Bretton Woods e le illusioni di Keynes
Ricostruendo le vicende economiche del post-colonialismo la Bifarini si accorge
che esse raccontano la storia della crisi da indebitamento dei Paesi del Terzo
Mondo. Una storia costellata da omicidi politici, come quello del leader africano
Thomas Sankara, e contrassegnata dalle politiche di indiscriminata apertura al
libero scambio, dalle liberalizzazioni e dai tagli alla spesa pubblica imposte dai
mercati e dalle Istituzioni di Washington.
La ricostruzione della Bifarini smonta la narrativa corrente, la quale utilizza i
misfatti del vecchio colonialismo otto-novecentesco per attribuire al solo
passato coloniale degli Stati europei la colpa del ritardo africano e dell’attuale
fenomeno migratorio. Ogni volta che si parla dell’Africa siamo fin troppo
abituati ad individuare il colpevole del dramma nel vecchio colonialismo e non
ci accorgiamo affatto delle ben più gravi responsabilità del neo-colonialismo
post-coloniale. Senza nulla togliere sul piano storico alle responsabilità del
vecchio colonialismo, è evidente che spostare su di esso tutta l’attenzione
serve a coprire, in realtà, le colpe successive della Banca mondiale e del Fondo
monetario internazionale, ossia degli apparati del Nuovo Colonialismo. Tali
apparati hanno fatto del Terzo Mondo il proprio laboratorio per
sperimentare l’ideologia globalista all’insegna della quale essi, del resto, sono
stati creati. Il “nuovo colonialismo” è essenzialmente intrinseco al modello
neoliberista globale. Non sono più gli Stati, come nel vecchio colonialismo, a
esercitare il loro dominio sul Terzo Mondo, bensì gli interessi delle
multinazionali e della finanza internazionale che specula e si arricchisce sul
rimborso del debito, provocando l’emigrazione di massa dall’Africa.
Questo scaricare la cattiva coscienza soltanto sul passato europeo è funzionale
all’egemonia americana. La Bifarini non lo dice apertamente. Pertanto ci
permettiamo noi di aggiungere una nota in proposito. Dietro il paravento della
libertà e dei diritti dell’uomo, la storia dell’egemonia americana sul mondo
coincide largamente con quella del sostegno statunitense alla “lotta di
liberazione” dei popoli contro le antiche forme coloniali: da quelle europee,
ispano-portoghesi, sullo stesso continente americano, a quelle franco-inglesi
nel resto del mondo. Tuttavia, a processo concluso, dobbiamo registrare che al
posto del vecchio colonialismo europeo si è imposto, per l’appunto, il nuovo
colonialismo delle multinazionali e della finanza apolide che negli Stati Uniti,
quale potenza politico-economica globale, ha trovato il suo alfiere.
Quando, nel 1944, a Bretton Woods, si riunirono le potenze occidentali, che
stavano vincendo la seconda guerra mondiale, per delineare un “Nuovo Ordine
Mondiale”, in opposizione al “Nuovo Ordine Europeo” progettato dalle, ormai
sconfitte, potenze fasciste, il più grande economista del XX secolo, l’inglese
John Maynard Keynes, colui che ha rivoluzionato la scienza economica
neoclassica fino ad allora dominante, propose la creazione di un Fondo
Monetario Internazionale e di una Banca Mondiale. La sua prospettiva
prevedeva l’istituzionalizzazione di una “camera di compensazione
internazionale” basata su di un sistema monetario globale, a cambi semi-
flessibili, che utilizzasse una moneta di conto universale, il “bancor”,
completamente sganciata dall’oro, mediante la quale fossero regolati, tra gli
Stati aderenti al sistema, avanzi e disavanzi delle rispettive bilance
commerciali e finanziarie, in modo da far convergere verso un punto di
equilibrio generale le economie deboli, in deficit, e quelle forti, in surplus.
In uno scenario di squilibri asimmetrici – osservava Keynes – non è possibile
raggiungere alcuna convergenza economica mondiale. Infatti, mentre i Paesi
poveri hanno necessità di opportune politiche intese a rafforzare la domanda
interna, per rendersi indipendenti dalle importazioni, attraverso un prudente
protezionismo a difesa del capitale nazionale (cosiddetta industrializzazione per
sostituzione), dall’altro lato, i Paesi ricchi hanno necessità di trovare sbocchi di
mercato per i loro prodotti e quindi sono indotti a favorire politiche di libero
scambio. Ma il liberoscambismo è sempre asimmetrico e crea nelle economie
più deboli una dipendenza dalle esportazioni a tutto svantaggio di qualsiasi
possibilità di sviluppo industriale autoctono. Se il protezionismo assoluto è
impensabile, dato che nessuno Stato ha in casa tutto quanto necessario alla
sua economia – e tuttavia ciascuno Stato può certamente valorizzare quanto
produce o potrebbe imparare a produrre autonomamente –, il liberoscambismo
costringe i Paesi più deboli alla dipendenza economica ed al vassallaggio
politico. Il liberoscambismo è lo strumento ideologico dei Paesi più forti ed
esportatori.
Il mondo delle relazioni umane non è perfetto – la possibilità per l’umanità di
raggiungere autonomamente la perfezione mondana è stato il tragico sogno di
tutte le utopie – ed il cristiano sa molto bene che questo dipende dalla
conseguita ferita ontologica della natura umana. L’uomo ha una interiore,
negativa, spinta all’autocentrismo, all’autorefenzialità, all’egoismo – e quindi al
dominio, alla sopraffazione, sul prossimo – che corrisponde spiritualmente al
peccato, ossia al rifiuto dell’Amore Originario nel quale l’essere umano era
stato pensato, voluto, amato e che era fonte della stessa originaria disponibilità
della natura umana, ancora integra, al dono di sé verso l’altro. Questa è la
causa spirituale ed antropologica, ineliminabile senza il risanamento della ferita
ontologica del cuore umano, delle asimmetrie che storicamente travagliano i
rapporti umani.
Alla luce di tale presupposto spirituale, possiamo ben comprendere perché,
nonostante le promesse millenaristiche di pace e felicità universale avanzate
dal liberismo, il libero mercato produce inevitabilmente polarizzazioni sociali ed
asimmetrie economiche, tra ceti e tra popoli. In uno scenario asimmetrico,
come quello riscontrabile nelle concrete relazioni storiche tra le diverse
economie nazionali, per raggiungere una convergenza di equilibrio, che il libero
mercato non può assicurare, è necessario da un lato aiutare i Paesi in deficit,
riducendo la loro dipendenza dall’estero, e dall’altro lato indurre i Paesi in
surplus a politiche interne intese ad aumentare il reddito nazionale, attraverso
maggiorazioni salariali, onde favorire le esportazioni altrui, anche se questo
significa per essi un aumento dei costi dei loro prodotti sui mercati esteri.
A Bretton Woods, Keynes propose esattamente una soluzione di tal genere. Una
governance sovranazionale ed un sistema di regole internazionali che agisse
come una camera di compensazione e mediazione tra le economie aderenti
agli accordi. Al fine di far convergere tutte le economie verso un punto
mediano di equilibrio generale, ai Paesi del Terzo Mondo, onde favorirne la
crescita in misura tale da renderli concorrenziali alla pari con l’Occidente, si
sarebbe dovuto consentire un temporaneo e prudente protezionismo, in modo
da sottrarli alla dipendenza dalle esportazioni occidentali e di innalzarne il
livello di industrializzazione interna. D’altro canto, i Paesi del Primo Mondo
avrebbero dovuto, fino al raggiungimento tendenziale del punto generale di
convergenza, non solo abbandonare le politiche mercantiliste, ossia limitare le
eccessive esportazioni verso i Paesi emergenti, ma anche favorire le
esportazioni del Terzo Mondo aumentando i livelli salariali interni al fine di
sostenere la domanda e quindi l’offerta dei Paesi in via di sviluppo. Era una
proposta che chiedeva un graduale rovesciamento dei rapporti di forza che
pendevano dalla parte dell’Occidente. Solo quando le diverse economie fossero
giunte al punto di convergenza generale, sosteneva Keynes, si sarebbe potuto
aprire, in condizioni di parità e di reciprocità, i rispettivi mercati ed anche i
Paesi del Terzo Mondo avrebbero dovuto abbandonare il protezionismo.
La proposta di Keynes necessitava di una “governance mondiale”
dell’economia le cui Istituzioni fossero dotate dei poteri, anche sanzionatori,
atti a indurre sia i Paesi in deficit sia quelli in surplus ad effettuare riforme
intese alla convergenza economica internazionale ossia al tendenziale
equilibrio delle reciproche posizioni commerciali e finanziarie. In sostanza
Keynes chiedeva l’istituzione di una Autorità mondiale che coordinasse le
politiche economiche degli Stati in modo da raggiungere la simmetria che il
mercato, intrinsecamente asimmetrico per natura, non è in grado di assicurare
spontaneamente.
Tutto ciò presupponeva, altresì, prestiti a basso tasso di interesse in favore dei
Paesi in via di sviluppo. A questo avrebbe dovuto provvedere una Banca
Mondiale quale organo esecutivo di un Fondo Monetario Internazionale. La
moneta di conto auspicata da Keynes, il “bancor”, sarebbe servita allo scopo. In
tal modo i Paesi poveri sarebbero stati supportati da un sistema internazionale
di credito sostenibile e, soprattutto, senza condizionalità ossia senza
imposizione di tagli alla spesa pubblica. Quest’ultima, infatti, nella prospettiva
di Keynes, avrebbe dovuto sostenere lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo
mediante la costruzione delle infrastrutture, necessarie alla crescita, e
l’edificazione di un ottimale sistema scolastico e sanitario.
Insomma, Keynes chiedeva che gli Stati occidentali praticassero un “prestare
senza (quasi) nulla sperare” onde consentire la crescita protetta e tutelata del
Terzo Mondo e solo dopo, a crescita conseguita, l’apertura reciproca dei mercati
tra le varie aree del mondo.
Keynes, che non era marxista ma piuttosto un “conservatore intelligente”,
inseguiva la sua personale “utopia umanitaria”, di segno liberale, intesa ad un
Nuovo Ordine Mondiale che garantisse la parità e l’equilibrio economico tra
Stati e popoli. Egli, che era anche un brillante frequentatore degli studi filosofici
(del resto non si può essere buoni economisti senza essere prima buoni
filosofi), invocava, quale base etica del suo progetto, ragioni di giustizia.
Il punto di debolezza del progetto keynesiano, la sua illusione “umanitaria”,
stava nel prescindere da qualsiasi fondamento metafisico delle ragioni di
giustizia invocate. Senza una trasformazione del cuore, che soltanto una
apertura all’irruzione della Luce dall’Alto garantisce, nessun uomo è capace di
«prestare senza nulla sperare» (Lc. 6, 35). Figuriamoci gli Stati o le
Organizzazioni Internazionali!
L’utopia “mondialista”, a carattere umanitario, propugnata da Keynes,
nell’auspicio di un universalismo impossibile a realizzarsi secondo prospettive
teologicamente immanenti, ipotizzava un’Autorità sovranazionale, super
partes, slegata da qualsiasi legame con questa o quella potenza, questo o
quello Stato, garante dell’equità di un sistema di scambio non asimmetrico e,
quindi, dell’equilibrio tra le parti, tutte egualmente assoggettandole ad un
unico Centro indipendente. Era, come sappiamo, un’utopia, una illusione.
Infatti, a Bretton Woods, prevalse non quello di Keynes ma il progetto proposto
da Harry Dexter White, il plenipotenziario degli Stati Uniti d’America ossia della
potenza realmente vincitrice della guerra mondiale, in quel momento, ancora in
corso ma nella sua fase finale. La Conferenza si concluse decretando che,
invece di una unità monetaria di conto universale, la moneta base del sistema
sarebbe stato il dollaro americano e tutte le transazioni commerciali come
anche le compensazioni tra le bilance commerciali e finanziarie degli Stati
sarebbero state computate nella divisa statunitense. Il dollaro diventava la
moneta internazionale alla quale le diverse monete nazionali furono collegate
in un sistema di cambi semi-flessibili dominato dalla potenza statunitense.
Contro gli auspici di Keynes, fu riconfermato anche il gold standard nella nuova
forma del gold exchange standard: il dollaro, moneta internazionale assurgeva
a copertura di tutte le altre valute essendo esso a sua volta garantito dalle
riserve auree presso la Banca centrale americana. Furono, dunque, creati,
come auspicava Keynes, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale
ma il loro controllo fu saldamente assicurato alle potenze occidentali ed in
primo luogo agli Stati Uniti.
Cambio di paradigma. Maschera e volto del globalismo.
Keynes fu il grande sconfitto a Bretton Woods. Ciononostante, tuttavia, almeno
fino a quando in Occidente prevalse l’economia di tipo keynesiano, volta a
favorire la domanda e quindi la crescita economica facendo leva sull’ascesa
sociale delle classi subalterne in un quadro di capitalismo sociale o socializzato
– un quadro, nato tra Europa ed America a partire dagli anni ’30 (Roosevelt
praticò le stesse politiche interventiste di Mussolini ed Hitler), ed andato poi in
frantumi tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del secolo scorso –, le politiche del Fondo
Monetario Internazionale, pur senza mettere in discussione l’Ordine Mondiale
instauratosi alla fine della seconda guerra mondiale, furono indirizzate al
sostegno dei Paesi Africani, ed in genere del Terzo Mondo, attraverso prestiti a
tassi di interessi relativamente contenuti onde favorire l’investimento pubblico
nelle infrastrutture, nella scuola, nella sanità, nella costruzione, in quei Paesi, di
un moderno apparato amministrativo in modo da consolidarne gli embrionali
modelli di Stato nazionale e superare l’antico e, spesso, feroce tribalismo.
Lo scenario iniziò a cambiare con la crisi che colpì i Paesi Africani negli anni ’70
quale conseguenza della crisi petrolifera che in quel momento imperversava in
Occidente e che stava mettendo in discussione i parametri stessi del
keynesismo facendo riemergere, in forma aggiornata, le idee liberiste. Un
cambiamento che fu consacrato dal “Washington Consensus”, nome con il
quale è stato chiamato il nuovo corso economico globale neoliberista.
Non si può capire cosa ha significato per il Terzo Mondo il cambio di paradigma
se non si approfondisce la conoscenza, anche sotto il profilo storico, dei
meccanismi dell’indebitamento dei Paesi poveri. «L’imposizione – ha scritto M.
Chossudovsky – di riforme macroeconomiche e commerciali sotto la
supervisione di FMI, Banca Mondiale e OMC, ha lo scopo di ricolonizzare
pacificamente i paesi attraverso la deliberata manipolazione delle forze di
mercato» (Bifarini, p. 50).
Dopo la seconda guerra mondiale era iniziato un processo di decolonizzazione,
che spesso, come ad esempio nei Paesi di tradizione mussulmana quali Egitto,
Iraq, Libia, Siria, si accompagnò a rivoluzioni politiche di tipo socialista
nazionale molto vicine ai fascismi europei precedenti la guerra. La
decolonizzazione su basi nazionali, come quella dei Paesi testé citati, portò a
risultati di crescita notevoli, fino a quando in Occidente non si è deciso di
eliminare i “cattivi dittatori”, da ultimo con le “crociate di civiltà” e le
“primavere arabe”. Nasser, Saddam, Gheddafi erano, certo, dittatori ma, al
contrario di quelli che piacciono all’Occidente come i Sauditi ed i Pinochet,
guidavano sistemi autoritari di modernizzazione e non autoritarismi militari o
dinastici di depredazione ed impoverimento dei loro stessi popoli o almeno
delle classi più deboli.
Anche in Africa ed in Asia lo sviluppo post-coloniale sembrò assumere
inizialmente un carattere nazionale ed autarchico che trovava
nell’impostazione keynesiana, pur deformata, delle politiche del FMI un
appoggio in termini di sostenibilità dell’indebitamento, senza mandare in
deflazione l’economia interna. Nonostante l’egemonia riconosciuta agli Stati
Uniti come Stato Guida del sistema, a Bretton Woods in un primo momento, un
po’ sotto l’influsso del pensiero di Keynes, un po’ per l’interesse americano-
occidentale a contendere l’egemonia mondiale all’Urss, era prevalsa comunque
l’idea per la quale bisognava ridurre le distanze tra Paesi occidentali ricchi e
Paesi in via di decolonizzazione. Per questo, nel cosiddetto “trentennio
keynesiano” furono apprestati strumenti finanziari adeguati ovvero una finanza
di credito non predatoria.
Molti credettero, in quegli anni di ottimismo – gli anni di Papa Giovanni XXIII,
dei Kennedy, di Krusciov, del Concilio Vaticano II e della pop music – che il
mondo fosse finalmente giunto alle soglie della Pace e della Prosperità Globale,
sotto il segno filosofico di un umanitarismo “buonista” nella linea pelagiana del
progressismo che si dipanava da Rousseau fino ai Beatles passando per
Compte e Saint-Simon. L’ottimismo non fu incrinato, fino agli anni ’70,
nemmeno dai chiari segni che stavano ad indicare quanto fosse illusoria
l’attesa dell’alba radiosa dell’umanità. Né la crisi dei missili a Cuba nel 1962,
né i fatti dell’Ungheria e della guerra per il canale di Suez nel 1956, della
Cecoslovacchia nel 1968, scalfirono l’attesa millenaristica del Mondo Nuovo. In
pochi si accorsero che la necessità del capitalismo post-bellico, avviatosi verso
la imminente globalizzazione, di trovare nuovi sbocchi di mercato già allora
iniziava a svelare il volto, per l’appunto, neo-coloniale dell’assetto dei rapporti
internazionali che si stava gradualmente elaborando. Stava sorgendo un Nuovo
Colonialismo senza che quasi nessuno se ne accorgesse.
«Se il colonialismo di fine Ottocento – scrive la Bifarini – era frutto del
capitalismo dell’epoca, orientato alla produzione e alla soddisfazione di una
domanda di mercato già esistente, il nuovo colonialismo è figlio di una forma
rinnovata di … capitalismo, dove alla produzione eccessiva di beni occorre far
fronte con un incremento corrispondente della domanda. Da qui l’esigenza di
nuovi mercati e nuovi schiavi, che svolgano contemporaneamente una duplice
funzione per il sistema economico globale: offrire risorse e manodopera
sottopagate e, allo stesso tempo, divenire consumatori delle merci per la cui
produzione si viene sfruttati, attraverso l’incremento dell’indebitamento e
dell’accesso al credito, da restituire con gli interessi» (pp. 58-59).
La logica del neo-colonialismo, descritta dalla Bifarini, del resto è la stessa che
aveva guidato anche la ricostruzione europea del dopoguerra. Il Piano Marshall
non fu altro che un intervento finanziario e commerciale, di sostegno, in
un’ottica geopolitica antisovietica, alle nazioni dell’Europa occidentale,
mediante il quale gli Stati Uniti smaltirono il proprio surplus produttivo
conseguenza dello sforzo bellico. Gli Stati Uniti, con il Piano Marshall, da un lato
contennero la pressione sovietica sull’Europa occidentale e dall’altro evitarono
una recessione interna.
Fino a quando gli interessi monetari sono stati sostenibili, le economie del Terzo
Mondo conobbero, in un quadro di parziale autosufficienza nazionale, un
miglioramento nel periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e il
decennio ’70. Poi però, per una serie di fattori contingenti, mentre si spegneva
l’illusione di un mondo unificato nel segno di una pianificazione economica
globale, che lasciava il posto alla nuova illusione dell’unificazione mediante le
forza spontanea del libero mercato, cadde ogni maschera ed il Nuovo
Colonialismo si mostrò per quel che è realmente.
Una logica del tipo di quella sottesa al neocolonialismo – la logica della
concorrenza universalmente benefica ossia la logica hobbesiana dell’uomo lupo
congiunta alla logica smithiana dell’empathy –, infatti, non può fermarsi ad uno
scenario internazionale fatto di relazioni bilaterali o plurilaterali, relativamente
autarchiche, pur sotto un flessibile coordinamento unitario. Essa tende
inevitabilmente allo scambio asimmetrico tra centro e periferia, e rafforza
l’egemonia della potenza o delle potenze che si pongono alla guida del sistema
ossia, nella vicenda del dopoguerra, gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali.
«Con l’espressione neocolonialismo – scriva ancora la Bifarini – si intende … il
concretizzarsi di una nuova forma di imperialismo: è il colonialismo che emerge
sotto un aspetto inedito ed ancora più pericoloso. L’espediente consiste nel
dotare il nuovo Stato dell’indipendenza e allo stesso tempo continuare a
sfruttarlo sotto l’aspetto economico, influenzandone le sue decisioni politiche e
controllandone – o meglio inibendone – lo sviluppo sociale e culturale. E’ un
colonialismo che non vuole manifestarsi in quanto tale, ma si avvale della
cooperazione internazionale per condizionare indissolubilmente la situazione
del paese, in modo da realizzare il predominio su di esso e perseguire la
massimizzazione dei propri interessi economici» (p. 57).
Il sistema neocoloniale è, pertanto, quello che lascia una apparenza di
sovranità agli Stati ma in realtà dirige dall’esterno la loro economia attraverso,
in particolare, l’indebitamento, condizionandone le scelte politiche. Non è più
un sistema di Stati colonizzatori ma un sistema di multinazionali le quali, a loro
volta, essendo non imprese nel senso tradizionale del termine ma
organizzazioni apolidi alla ricerca di immediato profitto, sono l’espressione del
potere globale della finanza transnazionale che ha conquistato in forma diretta
le leve del comando politico all’interno degli Stati occidentali. Si tratta
dell’“imperialismo internazionale del denaro” (Pio XI, 1931). Dietro una
maschera umanitaria di ottimismo progressista si nasconde l’arcigno volto
luciferino del potere globale della finanza transnazionale.
Alvaro d’Ors, un grande giurista e filosofo cattolico del novecento, ha il merito
di aver messo in evidenza il carattere mimetico, nei confronti
dell’Universalismo tradizionale a prospettive trascendenti, dell’universalismo
umanitario mediante il quale la finanza estende globalmente il suo dominio.
Egli descrivendo questo carattere di subdolo mimetismo è giunto alle stesse
conclusioni della Bifarini a proposito delle modalità di azione del
neocolonialismo apparentemente rispettoso delle sovranità nazionali.
«…la Chiesa – ha scritto il d’Ors – è una società santa universale, “cattolica”.
Ma si può dire di più: è l’unica società universale realmente santa. Le altre
società che pretendono di essere universali … finiscono, di fatto con l’essere
contrarie alla volontà di Dio, e, per ciò, compiono peccato, precisamente un
peccato d’orgoglio. Questo è molto grave, perché vuol dire che l’unità, per sé
stessa, non è sempre buona, ma che può essere riconosciuta come dannosa,
(…) A sua volta, la non-unità, che potremmo chiamare pluralismo, non è
sempre biasimevole per se stessa, ma può essere voluta da Dio. (…). L’idea di
uno Stato universale sembra contraria non solo alla naturalezza delle cose
imposte da Dio, ma anche in quanto è utopica. Per ciò, l’ambizione ad un
potere totale del mondo si prospetta oggi come il predominio di un controllo
economico nascosto, mantenendo l’apparenza di un pluralismo politico
universale. (…). L’unità forzata di uno Stato universale sarebbe contraria alla
libertà e, per ciò, alla morale cristiana. Ma nemmeno sembra essere conforme
alla volontà di Dio, poiché attenta ugualmente contro il dogma della Potestà
regia di Gesù Cristo, l’unità universale che pretende conseguire il governo
sinarchico … anzi, questo potere universale segreto, il cui fine è il dominio
universale per il controllo economico, è essenzialmente anticristiano; presenta
rischi chiaramente satanici, imitare l’unità universale della Chiesa di Cristo e
nascondersi come “autorità” clandestina fingendo che i popoli siano liberi di
eleggere altre “podestà”; effettivamente, la menzogna, che si manifesta
nell’imitazione grottesca del divino e nel travestimento davanti agli uomini, è
proprio del demonio, “padre della menzogna” e necessariamente nemico,
pertanto, della verità, che è lo stesso Gesù Cristo. Come abbiamo detto, l’unica
unità universale positivamente voluta da Dio è la Chiesa, e sembra conforme a
questa stessa volontà il fatto che esistano diverse podestà nell’ordine politico,
adattate alle differenze naturali delle nazioni: all’unità della Chiesa corrisponde
la pluralità del mondo secolare, e l’unità politica del mondo secolare, in cambio,
attenta sempre contro l’unità santa della Chiesa. (…). Tutta l’organizzazione
politica del mondo deve partire dalla pluralità politica come qualcosa voluto da
Dio, a differenza dell’unità della sua Chiesa. Tutta la pretesa di unificare il
governo del mondo, sia chiaramente, in forma di Stato universale o altra forma
di organizzazione con podestà unica su tutti i popoli, sia in maniera occulta a
modo della Sinarchia economica, è contraria alla volontà di Dio e non merita di
essere accettata come potere costituito» (Cfr. A. d’Ors, “La violenza e l’ordine”,
Cosenza, 2003, pp. 105-142).

seconda parte
Dinamiche dell’indebitamento
A permettere che le istituzioni finanziarie internazionali, espressione del Potere
Finanziario Globale, assurgessero ad un dominio coercitivo totale sulla politica e
l’economia di Stati sovrani è stato l’indebitamento di questi ultimi, causato
dalla diffusa ignoranza dei processi di creazione della moneta, base del credito.
Come ci ricorda opportunamente la Bifarini, il sistema è oggi lo stesso tanto nel
Terzo che nel Primo Mondo. In Occidente, il carattere mediato che, fino ad un
decennio fa, prima della crisi del 2008, ne nascondeva il volto feroce sotto
parvenze di solidarietà umanitaria e dietro la promessa di un futuro mondiale di
pace, benessere e felicità illimitata, sta svanendo del tutto in questi nostri anni.
Agli Stati, privati della sovranità monetaria e non più in grado di creare essi
moneta, non è lasciata altra possibilità, per sovvenire ai propri bisogni
finanziari, che chiedere prestiti. Ma questi prestiti sono accompagnati da
“condizionalità”, ossia dalla coatta adesione da parte degli Stati, soprattutto se
in difficoltà, ad aggiustamenti strutturali che consistono nell’indiscriminata
apertura agli investimenti esteri, nelle liberalizzazioni e privatizzazioni, in tagli
alla spesa pubblica, in politiche di forte contenimento salariale, nel divieto al
fine incentivare il liberoscambismo mondiale di produzione autarchica di
quanto sarebbe possibile produrre in casa, nella spinta alla riorganizzazione
dell’economia nazionale in economia di esportazione in modo che ciascun
popolo produca ed esporti ciò per cui ha un “vantaggio competitivo” e poi con i
proventi di tale commercio mondiale importi tutto il resto comprandolo sul
mercato mondiale anziché produrlo in proprio.
Il libero scambio è un tipo di politica economica che ben si adatta ai sistemi
coloniali, perché consente la dipendenza delle economie più deboli da quelle
più forti dato che il mercato è per sua natura essenzialmente asimmetrico. Gli
storici dell’economia conoscono molto bene il fenomeno per il quale agli inizi di
qualsiasi decollo economico – è successo anche per l’Inghilterra della
Rivoluzione Industriale nel XVIII secolo – c’è sempre il protezionismo. Esso
viene gradualmente meno, o si fa semplicemente più selettivo, senza mai
scomparire del tutto, soltanto nelle fasi successive della modernizzazione
economica. Un’economia matura ed equilibrata è sempre un mix tra protezione
e libero scambio, tra import/export da un lato e produzione interna autarchica
dall’altro. Il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) riconosceva il
cosiddetto “diritto alla protezione asimmetrica” per i Paesi in via di sviluppo. Il
WTO (World Trade Organization) vieta il protezionismo sotto qualsiasi forma.
Come, dunque, accade agli inizi di ogni processo di modernizzazione, anche nei
Paesi ex coloniali, già a partire dagli anni ’30 del XX secolo, in contemporanea
con l’affermarsi di una rinnovata coscienza nazionale ed il conseguente
svilupparsi di movimenti di liberazione a carattere sociale e nazionale, si era
formato un primo embrione di industria nazionale che aveva assoluto bisogno
di protezione dal dumping estero. Nel dopoguerra, quando il processo di
decolonizzazione ebbe ulteriori sviluppi, i Paesi ex coloniali, sostenendo questa
esigenza di protezione, adottarono politiche di tipo autarchico volte ad ottenere
l’“industrializzazione per sostituzione” (ISI, Import Substituting
Industrialization). Le merci importate furono sostituite con produzioni interne
allo scopo di tutelare, dalla concorrenza internazionale, l’industria nascente e
l’avvio dello sviluppo economico. L’Argentina di Juan Domingo Perón ne fu
l’esempio migliore. La politica autarchica procurò, a molti Paesi ex coloniali, un
periodo di crescita fino ad allora mai visto, con conseguente relativo benessere.
Si parlò di “rivoluzione industriale del Terzo Mondo”, il quale, sebbene a tassi
modesti dell’1%-2% annuo, crebbe fino agli anni settanta.
A partire da quel decennio il neoliberismo riprese forza accademica, pseudo-
scientifica, politica ed economica come conseguenza della crisi energetica che
investì tutto l’Occidente. Il blocco delle forniture di greggio da parte dei Paesi
produttori del Medio-Oriente, quale ritorsione contro l’appoggio dell’Occidente
ad Israele nel suo contenzioso con il mondo mussulmano, provocò un forte
aumento del prezzo del petrolio, la cui produzione e commercializzazione subì
una notevole rarefazione sui mercati, innescando un’altissima inflazione sui
prezzi al consumo dei beni in tutto il mondo industrializzato.
Si giunse, per tale via, alla Crisi del Debito del Terzo Mondo (1982) che cambiò
completamente la politica creditizia, fino ad allora sostenibile, che le Istituzioni
Finanziarie Globali avevano praticato verso i Paesi in via di sviluppo. Il
cambiamento della politica creditrice, nei confronti di questi Paesi, li costrinse
ad un inarrestabile processo di rimozione dei dazi commerciali, di
liberalizzazioni ed accordi di libero scambio, di privatizzazioni e misure di
riduzione della spesa pubblica destinata ai già carenti servizi locali. I “Piani di
aggiustamento strutturale”, cui furono sottoposti i Paesi in via di sviluppo a
partire dagli anni ’70, furono la prova generale delle analoghe politiche che il
Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con la crisi del 2008,
hanno iniziato a praticare apertamente, insieme alla Bce ed alla Commissione
Europea (la cosiddetta Troika), anche verso gli Stati dell’Unione Europea in crisi
finanziaria, come nel caso della Grecia.
Le tappe di un percorso storico. Il Washington Consensus.
Onde meglio comprendere quanto è accaduto, negli ultimi cinquant’anni, è
necessario approfondire il percorso storico che ha portato alla tragica svolta in
questione.
Nel 1973, come si è detto, esplode lo shock petrolifero. L’impennata del prezzo
del petrolio produsse un’alta inflazione nei Paesi consumatori ossia in
Occidente. Contrariamente a quel che sostengono i monetaristi, non è
l’aumento della massa monetaria a precedere l’aumento dei prezzi ma è
l’aumento dei prezzi a provocare l’aumento della massa monetaria, sicché
l’inflazione non è mai un fenomeno dipendente dalla quantità di moneta in
circolazione che piuttosto segue la tendenza al rialzo, per fattori esogeni, dei
prezzi dei beni. La massa monetaria (petroldollari), generata dall’aumento del
prezzo del greggio, affluì nei Paesi esportatori di petrolio provocando una
caduta dei tassi di interesse sul mercato finanziario internazionale. Il denaro
rendeva meno ai suoi detentori che, quindi, avevano urgente necessità di
trovare nuovi sbocchi di investimento speculativo per l’enorme massa
monetaria generatasi. I “mercati” iniziarono allora a guardare al Terzo Mondo
con le sue potenzialità in ascesa ed, in quel momento, ancora in gran parte
inespresse.
Fu così che gli “investitori” – che in realtà sono sempre e solo “speculatori” –
iniziarono a finanziarie, ma a tassi di interessi sostenuti, programmi di
industrializzazione. I Paesi in via di sviluppo, con la copertura delle proprie
Banche Centrali le quali, sulle piazze finanziarie internazionali, garantivano la
sostenibilità del costo per interessi, si erano finanziati, fino a quel momento, da
un lato, mediante emissioni di prestiti obbligazionari e, d’altro lato, con gli aiuti
erogati dal Fondo Monetario Internazionale ancora operante sulla base del
paradigma keynesiano del prestito quasi gratuito. A partire dagli anni ’70, i
finanziamenti privati delle grandi banche d’affari internazionali, in cerca di
sbocchi per la massa di petroldollari, iniziarono a sostituirsi sia ai prestiti
obbligazionari sia agli aiuti internazionali. Il mercato privato del credito
soppiantò quello pubblico esponendo le economie in via di sviluppo del Terzo
Mondo alla speculazione finanziaria apolide.
Il mondo non aveva ancora superato il primo shock petrolifero quando nel 1979
ne esplose un secondo. Il costo del greggio schizzò di circa venti volte rispetto
a quello già aumentato nel 1973. Ne conseguì una nuova recessione mondiale
che provocò un crollo della domanda di materie prime che costituivano la
principale voce delle esportazioni dei Paesi in via di sviluppo. Il rallentamento
della produzione industriale nel Primo Mondo causò un calo della necessità di
approvvigionamento delle materie prime esportate dal Terzo Mondo. Di
conseguenza la bilancia dei pagamenti, con l’estero, dei Paesi in via di sviluppo
peggiorò considerevolmente costringendo gli stessi ad un forte indebitamento
nei confronti dei mercati finanziari internazionali al fine di sostenere il proprio
fabbisogno monetario.
Tra il 1973 ed il 1982 per i Paesi del Terzo Mondo, non produttori di petrolio, il
debito estero aumentò di circa 500 miliardi di dollari e, mentre essi perdevano
quel poco di sviluppo conseguito negli anni della decolonizzazione, le banche
d’affari internazionali ne approfittarono per legarli a nuovi prestiti.
Contemporaneamente gli Stati Uniti, agli inizi degli anni ’80, rivalutarono la loro
moneta come conseguenza della nuova politica monetarista di rialzo dei tassi
di interesse a scopo anti-inflattivo. I Paesi del Terzo Mondo avendo a suo tempo
contratto i propri debiti in dollari ne videro aumentare il valore in modo non più
sostenibile. Nel 1982 fecero default il Messico ed il Brasile, impossibilitati a
ripagare un debito ormai fuori controllo e si profilò il serio rischio di un contagio
sistemico a catena che avrebbe portato al collasso mondiale. Una cancellazione
dei crediti diventati inesigibili avrebbe scatenato il caos sui mercati finanziari
internazionali.
Fu in questo momento che intervennero il Fondo Monetario Internazionale ed il
suo braccio operativo, la Banca Mondiale. Si trattò di un intervento inteso a
rinegoziare gli accordi del debito contratto attraverso nuovi finanziamenti e
piani di restituzione. Ma, nel frattempo, in Occidente era completamente
cambiato il paradigma economico dominante. Le due crisi petrolifere e la
conseguente alta inflazione, con il fenomeno nuovo della cosiddetta
“stagflazione” (alta inflazione congiunta ad alta disoccupazione: uno scenario
inedito secondo la prospettiva keynesiana per la quale tra inflazione e
disoccupazione c’è un rapporto inversamente proporzionale, sicché alta
inflazione si accompagna al pieno impiego) causarono il rigetto del paradigma
keynesiano, fino ad allora vigente, in favore del monetarismo che un professore
di Chicago, Milton Friedman, riaggiornando le tesi liberiste classiche e
neoclassiche, abbandonate dai tempi di Keynes, andava riproponendo e che
trovarono avvallo politico nella destra repubblicana americana di Ronald
Reagan e nel conservatorismo inglese di Margaret Thatcher. I Chicago Boys
furono anche i consulenti delle più feroci dittature militari sudamericane, in
economia iper-liberiste, come quella cilena di Pinochet.
La svolta paradigmatica trovò consacrazione sotto il nome di “Washington
Consensus”. L’espressione fu coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson
per sintetizzare i nuovi principi economici ai quali le Istituzioni Finanziarie
Globali, nate a Bretton Woods e sopravvissute alla fine dei relativi accordi,
avvenuta nel 1971, si sarebbero d’ora in avanti ispirate perché ritenuti la
panacea per la soluzione dei problemi dell’America Latina, dell’Africa e
dell’Asia.
«Oltre ai soliti Fondo monetario internazionale e Banca mondiale – scrive Ilaria
Bifarini – prende parte all’iniziativa anche il Dipartimento del tesoro degli USA.
Un filone della letteratura economica fa coincidere con questo evento la nascita
dell’economia neoliberista (…). Con il termine “consensus” si intende un
pacchetto di dieci linee strategiche in materia economica da applicare in modo
ortodosso e indiscriminato. In ottemperanza ai principi del libero scambio
vengono prescritte la liberalizzazione del commercio e delle importazioni, la
totale apertura agli investimenti provenienti dall’estero e la deregulation, con
l’obiettivo di abolire quelle regole che ostacolano l’ingresso nel mercato e
frenano la competitività. Al fine di contenere le spese dello
Stato (ideologicamente ed erroneamente considerato) naturale nemico del …
mercato, sono inoltre previste delle regole molto stringenti per quanto riguarda
la politica fiscale e il deficit di bilancio, che prevedono limiti alla spesa pubblica
e incentivi alla privatizzazione delle aziende statali. Una linea specifica è
dedicata alla tutela del diritto della proprietà privata. Sul fronte tributario viene
invece raccomandato di allargare la base fiscale e abbassare le aliquote
marginali. Infine, le ultime due linee riguardano rispettivamente la politica dei
tassi di interesse, finalizzata a tenere bassa l’inflazione (una delle ossessioni
della dottrina neoliberista), e quella dei tassi di cambio, che devono essere
liberamente determinati dal mercato» (pp. 73-74).
Quando, dunque, le Istituzioni di Washington intervennero, per sedare la Crisi
da Debito del Terzo Mondo, il paradigma era completamente cambiato ed i
Paesi del Terzo Mondo, onde ricevere i prestiti del Fondo Monetario
Internazionale ed essere da esso sostenuti nella rinegoziazione dei debiti
contratti, dovettero soggiacere ai già citati “Piani di Aggiustamento Strutturale”
(PAS) ossia a programmi di sostegno condizionati da misure economiche di
stampo liberista. Gli Stati che si fossero sottomessi alle condizionalità imposte
dal Fondo Monetario Internazionale avrebbero goduto dei prestiti. Attraverso
detti Piani di Aggiustamento sono state imposte politiche economiche orientate
alla totale apertura al libero scambio, senza nessun riguardo per lo sviluppo
dell’industria locale. Il dogmatismo neoliberista più fondamentalista – lotta
all’inflazione, al debito pubblico, tagli alla spesa pubblica e ai già carenti servizi
statali – è stato calato dall’alto sui più poveri del mondo. Nel più assoluto
silenzio mediatico – all’opinione pubblica mondiale è stata raccontata la
barzelletta umanitaria delle Ong – il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale hanno fatto in Africa, con decenni di anticipo, quello che la Troika ha
fatto più tardi, nel 2015, in Grecia.
Un meccanismo perverso. Nasce la finanziarizzazione dell’economia.
Ben presto però, per il meccanismo perverso proprio ad ogni indebitamento, gli
Stati iniziarono a pagare più per la quota interessi, sempre in crescendo, che
per la quota capitale. La soluzione della crisi del debito provocò un ulteriore
indebitamento. I nuovi prestiti concessi per rimborsare il vecchio debito,
causarono un ulteriore aumento dell’ammontare del debito. Dai Paesi del Terzo
Mondo iniziarono a partire verso il Nord del mondo e l’Occidente ingenti flussi
di risorse finanziarie. Tra il 1982 ed il 1990 i Paesi poveri hanno pagato, per
“servire il debito”, circa 1.350 miliardi di dollari, ai propri creditori, a fronte di
circa 930 miliardi di dollari ricevuti in prestito. Un flusso netto di 400 miliardi di
dollari che ha portato il debito pubblico del Terzo Mondo molto al di sopra del
60% del Pil, facendo aumentare in modo drammaticamente drastico il potere
dei creditori sui debitori.
Tutto questo ha avuto anche un forte influsso sullo stile delle economie
occidentali. L’impennata dei tassi di interesse e la facilità di speculare
assicurata dalla liberalizzazione dei capitali ha indotto sempre più gli
“investitori” a preferire il mercato finanziario piuttosto che l’economia reale.
Perché mai affrontare i rischi di una impresa industriale quando si possono fare
profitti molto più alti speculando, nel mercato finanziario, sulla pelle dei popoli?
E’ nata così la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”.
Attraverso la concessione di prestiti per il risanamento del debito, il Terzo
Mondo è entrato nella spirale perversa del rimborso degli interessi che
superano l’ammontare del debito originario. Secondo alcuni calcoli per ogni
dollaro prestato ne sono restituiti tredici. Questa spirale perversa nei Paesi del
Terzo Mondo ha arricchito l’élite locale e la nuova borghesia, rappresentanti
degli interessi esteri, ed ha contemporaneamente aumentato il tasso di
disuguaglianza e il livello di povertà della popolazione, alla quale pertanto non
rimane che espatriare.
In realtà le misure economiche imposte dagli organismi internazionali al Terzo
Mondo – e a seguito della crisi del 2008 ora anche al Secondo e al Primo Mondo
– servono soltanto a garantire il perpetuarsi del sistema capitalistico terminale
ossia quello caratterizzato dalla finanziarizzazione globale. L’Usura
Internazionale vive nell’illusione di poter crescere all’infinito prosperando sui
debiti. Un cristiano attento, non legato alle sole pur lodevoli e necessarie
devozioni, e conoscitore della Rivelazione, in particolare sotto il profilo della
Teologia della Storia della Salvezza, non può non riconoscere in tutto questo
l’emergere senza più veli del Potere Mondiale dell’Anticristo. Un Potere, come
profetizzato in Apocalisse 13 – 16,17, fondato sull’Indebitamento Globale. Il
sistema che Ezra Pound chiamava “Usurocrazia”.
Questo Potere Maligno è ormai globale perché è oggi evidente a tutti che le
stesse misure che hanno condannato l’Africa alla povertà endemica, e ad un
sottosviluppo senza via d’uscita, sono puntualmente riproposte in tutto il modo,
compreso l’opulento Occidente ad iniziare dall’Unione Europea. Come nel Terzo
Mondo anche in Europa si è strumentalizzato il debito per imporre l’austerity
neoliberista. Come in Europa anche nel Terzo Mondo si sperimenta l’adozione di
unioni monetarie, ad esempio, in Africa, il franco CFA, di cui diremo. Come dal
Terzo Mondo emigra la fascia più giovane della popolazione, alla ricerca di
nuove speranze, anche da nazioni europee come l’Italia sono finora emigrati
almeno mezzo milione di giovani nell’ultimo decennio. Se il Potere Unico del
Denaro non sarà abbattuto assisteremo alla “terzomondizzazione” del mondo
intero, al trionfo della globalizzazione della miseria da indebitamento.
«Faceva sì … che nessuno potesse comprare o vendere senza avere quel
marchio …», per l’appunto!
Effetti concreti dei Piani di Aggiustamento Strutturale.
L’applicazione dei PAS ha letteralmente sconvolto l’economia dei popoli che vi
sono stati assoggettati. Vediamone alcuni effetti.
Il libero scambio ha aggravato il deficit commerciale con l’estero dei Paesi del
Terzo Mondo ed i conseguenti squilibri finanziari. Laddove la produzione
autarchica consentiva di limitare l’indebitamento estero, l’importazione di beni
di consumo, spesso a caro prezzo, in sostituzione di quelli nazionali, ha
costretto quei Paesi a ricorrere in misura sempre crescente ai prestiti
internazionali. Al fine di favorire le esportazioni della produzione agricola, i
Paesi del Terzo Mondo, soggetti ai PAS, oltre a svalutare la moneta, sono stati
costretti a contrarre i consumi locali ossia a ridurre alla fame le proprie
popolazioni. L’alluvione sul mercato internazionale di materie prime e prodotti
non lavorati, conseguenza dell’induzione dei Paesi poveri alla politica
economica di esportazione, ha fatto crollare i prezzi di tali materie, sicché
l’obiettivo ipotizzato dal Fondo Monetario Internazionale, per il quale le
esportazioni avrebbero consentito l’accumulo per quei Paesi di capitali da
investire nello sviluppo industriale, non si è affatto realizzato.
I Piani di Aggiustamento Strutturale hanno riproposto il sistema di sfruttamento
che regolava i rapporti tra l’Inghilterra e le sue colonie nel quadro libero-
scambista, asimmetrico, del “Commonwealth” (il termine Commonwealth
significa, per ironia della sorte, “benessere comune” e fu coniato da Oliver
Cromwell, il dittatore puritano, stragista e macellaio).
Come ci spiega nel suo libro la Bifarini, soppressa ogni propensione
all’industrializzazione per sostituzione, l’attuale economia del Terzo Mondo è
completamente dipendente dalle esportazioni agricole e, per questo, molto
sensibile ai cambiamenti dei prezzi dei beni di consumo ed al cambio
monetario. Attualmente le economie del Terzo Mondo sono basate su una o
poche produzioni agricole e sono quindi del tutto dipendenti dalle esportazioni.
Molti Stati africani – tra di essi Angola, Burundi, Congo, Guinea, Niger, Somalia,
Zambia, Nigeria, Botswana, Gabon, Uganda – vivono della produzione ed
esportazione di un solo prodotto che rappresenta almeno il 75% delle loro
entrate. Altri – tra essi Zimbabwe, Gambia, Sudafrica, Lesotho, Tanzania –
producono ed esportano non più di quattro produzioni locali. Il commercio
agricolo africano è per tre quarti verso i Paesi occidentali. Ogni variazione del
livelli dei prezzi sul mercato internazionale, pertanto, si trasforma in una
tragedia per detti Paesi, in sicura carestia.
Questo rischio endemico è stato aggravato dalle draconiane misure imposte,
con i PAS, dal Fondo Monetario Internazionale. Dette misure costringono i Paesi
del Terzo Mondo, indebitati, ad utilizzare le risorse finanziarie derivanti
dall’esportazione delle loro mono-produzioni per il pagamento del debito
estero, a danno di qualsiasi possibilità di accumulazione interna di capitale e,
quindi, di sviluppo locale. Sono state, pertanto, le stesse “condizionalità” a
porre le basi dell’immancabile fallimento dei PAS. Il Fondo Monetario
Internazionale ha finito per alimentare una assurda spirale deflattiva che ha
condotto direttamente alla riduzione degli investimenti e dei consumi. Il
Malawi, nel 2002, come ci dice la Bifarini, è stato devastato da una gravissima
carestia provocata dall’esportazione pressoché totale delle scorte di grano del
Paese in ossequio al solito PAS suggerito, ovvero imposto, dal Fondo Monetario
Internazionale. Dietro la solita giustificazione ufficiale della crescita e dello
sviluppo, lo scopo vero del Fondo era, in realtà, quello di rendere possibile allo
Stato africano, attraverso gli introiti dell’esportazione di grano, il rimborso di
una tranche del pagamento dei prestiti sul debito estero. Che questo sarebbe
costato la morte per fame di migliaia di persone era considerato un prezzo
sostenibile purché i creditori internazionali non conseguissero perdite.
Il Fondo Monetario Internazionale, a causa delle sue politiche neoliberiste, è
responsabile di veri e propri genocidi. Agli occhi del cristiano consapevole della
molteplicità delle sembianze che l’unico volto del Maligno può assumere nel
corso della storia, l’analogia con la “Grande Fame” provocata dalle politiche
comuniste di Josef Stalin negli anni ’30 in Ucraina è immediata. Ancora una
volta, il cristiano non può non cogliere, nelle politiche neoliberiste del Fondo
Monetario Internazionale come in quelle dell’URSS di Stalin, l’agire, analogo
nell’uno e nell’altro caso, di colui il quale «… è stato omicida sin dal principio e
non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui», di colui che
«Quando parla dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della
menzogna» (Gv. 8,44). Le promesse menzognere sono, infatti, uno dei segni da
cui il cristiano può riconoscere la presenza dell’Avversario che, appunto, come
dice l’evangelista Giovanni, “è padre della menzogna”.
«I paesi africani – scrive ancora Ilaria Bifarini – sono stati investiti dalle
dinamiche spregiudicate del libero mercato internazionale senza una
preventiva protezione del settore industriale e agricolo, costretti da un lato ad
acquistare beni manifatturieri e macchinari a prezzi sempre più cari, dall’altro a
vendere le proprie materie prime sempre più a buon mercato. Per conquistare i
mercati esteri hanno favorito lo sviluppo delle coltivazioni da esportazione a
scapito dell’autosussistenza, producendo esclusivamente per il mercato estero
e non per il consumo locale. Paradossalmente, la fame in Africa non è causata
dalla mancanza di risorse, bensì dalla loro esportazione: si esporta la
produzione invece di consumarla. La Nigeria, ad esempio, fino agli anni Ottanta
era un importante esportatore di prodotti agricoli, poiché a latere delle grandi
imprese e delle multinazionali esisteva una diffusa produzione agricola di
piccoli proprietari terrieri locali. In breve tempo questo settore è praticamente
scomparso e la Nigeria è oggi costretta a importare la maggior parte dei propri
beni di consumo. L’agricoltura, che nel 1980 rappresentava il 35% del Pil del
Paese, nel 2015 è scesa fino al 18%, di cui l’11,5% dipendente dalla produzione
delle multinazionali. Avendo scoperto che lo sviluppo irrazionale del settore
terziario offre guadagni più alti attraverso l’utilizzo di manodopera a bassissimo
costo, gli imprenditori stranieri hanno indotto la fuga dei giovani dalle
campagne, che si sono riversati nelle città, generando un eccesso di
manodopera urbana, causa a sua volta di un ulteriore abbassamento dei salari.
I giovani nigeriani si trovano dunque in un paese la cui economia sembra
essere in costante crescita, ma con un mercato del lavoro sempre più
competitivo, in cui l’emigrazione è spesso l’unica via di salvezza dalla povertà
endemica. (…). La completa apertura al commercio e le liberalizzazioni hanno
danneggiato i posti di lavoro tradizionali e i settori manifatturieri deboli non
industrializzati, mentre hanno premiato il settore finanziario, portando a un
aggravamento del livello di disuguaglianza. In Nigeria, ad esempio, l’indice di
Gini – che misura l’iniquità nella distribuzione della ricchezza – nel periodo che
va dal 1985 al 1997, è cresciuto di circa il 40%. Gli unici a instaurare un
rapporto proficuo con i creditori e gli investitori esteri e ad arricchirsi dalle
misure di austerità, calate dall’alto delle istituzioni di Washington, sono stati i
rappresentanti dell’élite africana» (pp. 76-80).
La già debole domanda delle economie del Terzo Mondo viene depressa con
tagli di bilancio imposti dai PAS rendendo impossibile ogni crescita. La
motivazione ufficiale del FMI per imporre i tagli alla spesa pubblica è il
cosiddetto “crowding out”, concetto introdotto da Milton Friedman e che sta ad
indicare il presunto “spiazzamento” degli investimenti privati da parte di quelli
pubblici. In realtà nei Paesi del Terzo Mondo non esiste alcuna spesa privata
locale che possa essere spiazzata da quella pubblica, sicché la motivazione
ufficiale è soltanto una copertura ideologica per nascondere la razzia delle
risorse native da parte dei capitali esteri ed apolidi. Il “crowding out” si è
rivelato una impostura pseudo-scientifica anche in Occidente, perché
l’esperienza ha dimostrato piuttosto che gli investimenti privati inseguono
quelli pubblici. Questo perché gli investimenti privati fuggono laddove manca o
è debole la domanda aggregata, il cui maggior sostegno resta comunque la
spesa pubblica.
«La riduzione dei deficit statali – ci informa sempre Ilaria Bifarini – non è
generata dall’aumento degli introiti fiscali, ma dai tagli o addirittura
dall’eliminazione delle spese sociali e degli investimenti pubblici. Tramite la
cosiddetta “revisione della spesa pubblica”, a partire dalla fine degli anni
Ottanta la Banca mondiale controlla rigidamente la struttura del bilancio
statale dei paesi africani, raccomandando la minimizzazione dei costi “per
favorire la riduzione della povertà in modo efficace ed efficiente”. I tagli imposti
alla spesa statale e l’introduzione di tariffe per i servizi pubblici hanno
annientato i progressi realizzati nei decenni anteriori negli ambiti
dell’educazione e della sanità, negando a molti africani la possibilità di
accedere ai servizi. Ovunque il tasso d’iscrizione degli studenti
all’insegnamento elementare, medio e superiore si è abbassato sensibilmente
nella prima metà degli anni Ottanta, come risultato dell’applicazione dei PAS.
Molte scuole, prima sovvenzionate dallo Stato, sono scomparse. Per rimborsare
il debito estero sono stati effettuati tagli drastici nei preventivi disposti per
l’educazione, attraverso il licenziamento di docenti e la riduzione delle ore di
lezione. Nel settore della sanità si è assistito a un peggioramento generale del
sistema di cura e prevenzione: scarsità del personale medico, mancanza di
farmaci e attrezzature elementari, degenerazione degli ospedali in focolai
d’infezioni, mancanza di requisiti minimi d’igiene e condizioni di lavoro
inaccettabili. Le spese della sanità sono divenute esclusivamente a carico delle
famiglie, in una situazione di assenza di qualsiasi sistema di soccorso e di
assistenza. In Zambia la spesa sanitaria è stata dimezzata tra il 1990 e il 1994,
e la spesa per i bambini in età da istruzione primaria è stata più bassa nel 1999
rispetto alla metà degli anni Ottanta. In Tanzania la spesa pro capite in sanità e
istruzione è risultata inferiore di un terzo nel 1999 rispetto alla metà degli anni
Ottanta. Quale inevitabile conseguenza, si è assistito all’aumento
dell’analfabetismo, alla riduzione dell’aspettativa di vita e alla ricomparsa di
epidemie già debellate o sparite in altre parti del pianeta. Tali interventi hanno
minato lo sviluppo e impoverito milioni di persone in tutto il mondo, e
continuato a farlo, in misura maggiore nei paesi in via di sviluppo, dove le
politiche degli enti economici e internazionali e le pratiche degli speculatori
finanziari operano indisturbate, dietro lo scudo di un finto e ingannevole
umanitarismo» (pp.80-82).
La chiusa della citazione della Bifarini, circa il “falso e ingannevole
umanitarismo” ci riporta, forse ad insaputa della nostra brillante economista,
ancora a Giovanni 8,44, all’ammonimento sulla presenza nelle vicende umane
di colui che è menzognero ed omicida fin dalle origini del mondo.
L’industria nazionale, laddove esisteva, nel Terzo Mondo, è stata esposta non
solo alla concorrenza estera ma anche alla predazione dei capitali stranieri che
l’hanno acquistata a prezzi stracciati, senza alcun riguardo per il mantenimento
dei livelli occupazionali indigeni. La privatizzazione dei servizi pubblici ha
significato per la maggior parte della popolazioni l’impossibilità di accedere ai
più basilari servizi sanitari o scolastici. Nel solo Mali gli aggiustamenti
strutturali hanno fatto aumentare del 120% il costo della vita mentre in Costa
d’Avorio hanno ridotto del 50% il reddito pro-capite. L’applicazione delle ricette
neoliberiste ha riportato il reddito pro-capite dell’Africa ai livelli precedenti il
1960 vanificando i miglioramenti che si erano ottenuti nel dopoguerra. Le fasce
più deboli delle popolazioni del Terzo Mondo hanno subito un peggioramento
abissale delle loro condizioni di vita.
L’attuazione dei PAS è stata accompagnata da una forte corruzione. Per
conquistare il favore delle élite politiche africane, latino-americane e asiatiche,
il Fondo Monetario Internazionale si è trasformato in una vera e propria
centrale erogatrice di tangenti. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale giustificano i fallimenti delle politiche economiche da essi
imposte denunciando la corruzione dei governi del Terzo Mondo che
impedirebbe l’ottimale funzionamento degli aggiustamenti economici. In realtà,
la corruzione è una conseguenza piuttosto che una causa della situazione del
Terzo Mondo. I dittatori e le élite locali sono i rappresentanti ed i garanti degli
interessi economici e finanziari transnazionali. E’ l’ingerenza del Fondo
Monetario Internazionale nonché l’applicazione di un modello economico
inadeguato che ha impedito ogni possibilità di sviluppo dell’economia e
dell’industria locale.
Ilaria Bifarini, nel suo libro, osserva che, dopo quasi quarant’anni di
aggiustamenti strutturali, conseguenza delle misure di austerity che sono state
introdotte nel continente africano e in tutto il Terzo Mondo a seguito della crisi
del debito del 1982, il debito pubblico dei Paesi in via di sviluppo si è ridotto. In
generale, attualmente, il debito pubblico medio dell’Africa subshariana è su
livelli medi molto bassi in termini percentuali rispetto ai Paesi ad economia
avanzata. Questo è vantato dal Fondo Monetario Internazionale come un
successo. Ma in realtà il rovescio della medaglia del presunto successo è la
pauperizzazione e la fame endemica. Uno Stato che non spende è uno Stato
nel quale i cittadini non godono di protezione sociale. Non a caso i Paesi
africani di maggiore emigrazione sono quelli con un debito pubblico tra i più
bassi, che invece, secondo l’ideologia fondo-monetarista dovrebbero essere in
una fase di così forte crescita da trattenere la popolazione in loco. Se, al
contrario, la popolazione di questi Paesi emigra, è segno che la riduzione del
debito è stata effettuata nell’interesse esclusivo dei creditori, ossia delle grandi
banche d’affari internazionali, evitandone, con gli interventi del Fondo
Monetario Internazionale, il default da inesigibilità. L’abbattimento del debito è
stato raggiunto mediante la devastazione di qualsiasi infrastruttura materiale,
industriale o sociale da poco realizzata nei decenni precedenti.
Esiste un chiaro nesso tra austerità ed emigrazione. La Bifarini afferma che
autorevoli economisti fanno risalire l’origine delle attuali politiche neoliberiste,
e dunque delle correlate misure di austerity, proprio a quanto già sperimentato
nell’Africa post coloniale. È, infatti, impressionante come proprio quei Paesi in
cui i piani di riduzione del debito hanno avuto maggior successo sono quelli di
principale emigrazione. Un esempio, per la Bifarini, è la Nigeria, paese di
provenienza di gran parte dei migranti che arrivano sulle nostre coste. La
Nigeria ha abbattuto il debito pubblico fino al 15%, valore tra i più bassi al
mondo. Ma proprio questa riduzione, in quanto non corrisposta da un quadro di
sovranità monetaria ossia dalla possibilità di politiche espansive supportate
dalla finanziarizzazione dello Stato da parte di una Banca centrale nazionale, è
causa dell’emigrazione nigeriana, dato che l’auspicio sottostante ai PAS, ossia
che dopo l’aggiustamento sarebbero arrivati fiumi di capitale straniero ad
investire nel Paese africano, non si è affatto realizzato. Situazione analoga per
Eritrea, Gambia, Costa d’Avorio e altri.
Mafia fondomonetarista ed emigrazione.
La Crisi del Debito del Terzo Mondo, esplosa nel 1982, venne viene
ufficialmente dichiarata risolta agli inizi degli anni novanta. La dichiarazione
seguiva al fatto che i PAS avevano raggiunto lo scopo di aiutare la crescita dei
Paesi colpiti dalla crisi? Macché! Agli inizi degli anni ’90, il Fondo Monetario
Internazionale era riuscito nel suo vero intento originario che era quello di
garantire le grandi banche d’affari occidentali nel rientro dei rimborsi dei
prestiti concessi ai Paesi in via di sviluppo. Il rimborso in favore degli
speculatori globali è, infatti, avvenuto mediante i salvataggi operati dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale a spese dei pubblici erari di
tutti gli Stati aderenti al sistema finanziario internazionale. I salvataggi hanno
collocato i “cattivi prestiti” sui mercati secondari del debito sovrano, ovvero li
hanno caricati sui bilanci degli Stati sovvenzionatori del Fondo. Dove non
c’erano le condizioni per effettuare salvataggi socializzando le perdite e
privatizzando i profitti, si è adottato il sistema alternativo di dichiarare
inesigibili i prestiti ma continuando comunque a pretenderne il rimborso da
parte dei Paesi del Terzo Mondo indebitati. Allo scopo non si è esitato a ricorrere
al ricatto ed alla minaccia militare o, più efficacemente, alla minaccia
dell’esclusione del Paese non pagante, con il marchio di “cattivo debitore”, dai
circuiti dei mercati internazionali e dai futuri prestiti del Fondo Monetario
Internazionale. Un comportamento analogo a quello degli usurai di quartiere o
della mafia. In fondo, a ben rifletterci, il Fondo Monetario Internazionale è una
mafia di usurai globali.
Esattamente come accaduto di recente per la Grecia, la crisi del debito del
Terzo Mondo è stata dichiarata superata solo quando ha cessato di essere un
pericolo per i mercati finanziari internazionali. Come è noto, la Grecia è stata
dichiarata nell’estate del 2018 fuori dal programma di austerità soltanto
perché, attraverso i prestiti condizionati concessi dalla Troika (FMI, BCE, Banca
Mondiale), non sussistevano più rischi di insolvenza per i creditori internazionali
ossia le grandi banche d’affari, in particolare quelle tedesche e francesi. Nel
frattempo, però, la Grecia è stata ridotta alla fame, senza che il suo
indebitamento sia effettivamente cessato. Infatti, l’esposizione di Atene ora è
verso le Istituzioni della Troika che agiscono mediante l’ESM o “fondo salva
Stati” ossia un fondo, appositamente creato in seno all’Unione Europea, per
accollare ai bilanci pubblici le perdite delle grandi banche franco-tedesche. Un
fondo, dunque, “salva banche”, non “salva Stati”.
«Nel 1997 – afferma Ilaria Bifarini – i paesi in via di sviluppo scoprono di
possedere oltre due trilioni di dollari in debito estero da rimborsare, cresciuti in
modo esponenziale rispetto alla cifra già imponente di 1,3 trilioni di dollari dei
primi anni Ottanta, quando è scoppiata la crisi del debito. Poiché alla radice
della crisi del debito dei paesi poveri vi era stato il rallentamento della crescita
economica nelle principali economie industrializzate negli anni Settata e gli
shock petroliferi, l’intervento con strumenti monetari e finanziari sul Terzo
Mondo non poteva rappresentare una valida soluzione in termini di economia
reale e prospettive di crescita, ma piuttosto ha creato i presupposti per
l’aggravarsi del problema. I limiti delle politiche dei prestiti sono stati avvertiti
anche dalle più potenti banche del mondo e la crisi del debito ha contribuito in
modo significativo alle turbolenze finanziarie internazionali» (pp.67-68).
Le politiche neoliberiste del FMI e le multinazionali, attraverso la strategia
dell’indebitamento verso i “mercati”, hanno, dunque, squassato l’economia
africana, che fino agli anni ’70 era in una fase di avvio dello sviluppo. La stessa
strategia a partire dagli anni ’80 è stata gradualmente applicata in Europa e gli
effetti più nefasti non hanno mancato di manifestarsi, come la crisi esplosa nel
2008 ha reso a tutti evidente. In Africa la strategia, complici governi dittatoriali
corrotti e le classi dirigenti occidentalizzate, è stata eseguita con molta più
rapidità e senza tanti complimenti. Anche i giovani dei Paesi europei
maggiormente sottomessi al potere della finanza, come quelli africani, sono
oggi costretti a emigrare per cercare lavoro. Ma per loro non c’è nessun
business dell’accoglienza nei Paesi di destinazione.
Con il suo libro, la brava Ilaria Bifarini, al di là dei luoghi comuni e dello scontro
tra xenofobi e xenofili, aiuta a capire in termini oggettivi, sotto il profilo
economico, il fenomeno migratorio e le sue cause, tutte risalenti alla strategia
del dominio mediante indebitamento. Intorno al 2050 la popolazione africana
raddoppierà passando da 1,2 a 2,5 miliardi di abitanti. Per il mancato sviluppo,
impedito dalla neo-colonizzazione da indebitamento, l’Africa non ha realizzato
quella che storici, demografi ed economisti chiamano la “transizione
demografica” ossia l’equilibrio tra tasso di incremento demografico della
popolazione e sviluppo economico. L’Africa è rimasta prigioniera della
cosiddetta “trappola maltusiana”. La contemporaneità tra esplosione
demografica e povertà endemica, causata dalle fallimentari politiche
economiche neoliberiste, ha reso l’emigrazione lo strumento più facile, a
disposizione delle corrotte élite locali e dei neo-colonizzatori finanziari, per
contenere i conflitti sociali ed etnici. Si tratta tuttavia di una pseudo-soluzione
perché l’effetto dell’emigrazione sull’economia locale è peggiorativo dato che
essa priva i Paesi di origine della forza lavoro più giovane e intraprendente.
Nonostante questo effetto dannoso, l’emigrazione viene pianificata dalle
Istituzione globaliste con la complicità dei governi locali.
La Bifarini ci informa, nel suo libro, dell’esistenza di organizzazioni non
governative specializzate nel “prestito” all’emigrazione. Queste organizzazioni,
nella loro propaganda, presentano l’emigrazione come un modello di crescita
per i Paesi del Terzo Mondo. Alle famiglie del Terzo Mondo sono concessi prestiti
finalizzati a consentire ai propri figli di emigrare. La prospettiva presentata alle
famiglie è quella per la quale un figlio emigrato è una risorsa economica perché
esso invierà a casa il denaro guadagnato all’estero. In realtà, però, le rimesse
dei migranti servono innanzitutto per rimborsare il prestito ricevuto sotto pena
di sanzioni e conseguenze dannose per i familiari rimasti. Si tratta di rimesse
alle quali sono inoltre applicati provvigioni molto alte sicché si è creato un
fiorente business che specula sulla miseria umana. Non sbaglia chi
paragonasse dette Organizzazioni Non Governative a clan mafiosi di usurai. I
mezzi usati, compreso il ricatto di conseguenze per i familiari rimasti in patria,
sono del tutto identici.

terza parte

L’Unione Monetaria Africana ed il franco CFA


Un ruolo chiave, in Africa, della strategia neocoloniale lo ha svolto l’imposizione
di una moneta unica nella forma del franco CFA, che, come ricorda Serge
Michailof, «… è gestito a Francoforte in funzione di criteri che non hanno alcun
rapporto con le preoccupazioni delle economie africane» (citato in Bifarini cit.,
p. 118).
L’acronimo sta per “franco delle Colonie Francesi Africane”. Istituito nel 1945 a
Bretton Woods e trasformato nel 1958 in “franco della Comunità Francese
dell’Africa”. Un cambiamento soltanto nominale in sintonia con il vento della
decolonizzazione apparente che soffiava nel dopoguerra. In quel clima post-
bellico sembrò a Parigi più carino parlare di “Comunità Francese dell’Africa”
piuttosto che di “Colonie Francesi Africane”.
Il franco CFA è la moneta unica dell’intera area francofona africana. Fino al
2002 era legato con cambio fisso al franco francese, adesso è ancorato
all’euro. La Francia si è riservata la funzione di garante della convertibilità della
moneta africana, sottraendo tale competenza alla stessa BCE. Le nazioni
africane che usano detta moneta devono depositare presso il Tesoro francese il
65% delle proprie riserve valutarie estere. Parigi inoltre detta le linee di politica
monetaria che le due principali Banche Centrali Africane devono seguire. Si
tratta del Banque Centrale des Etats de l’Afrique de l’Ouest, che ha
competenza sugli Stati aderenti all’Unione Economique et Monétaire Ouest
Africaine (Togo, Niger, Senegal, Guinea Bissau, Mali, Benin, Costa d’Avorio,
Burkina Faso), e del Banque des Etats de l’Afrique Centrale che ha competenza
sugli Stati aderenti alla Communauté Economique et Monétaire de L’Afrique
Centrale (Ciad, Giunea Equatoriale, Congo Brazzaville, Repubblica
Centrafricana, Gabon, Camerun).
Le unioni monetarie, realizzate tramite cambio fisso o tramite moneta unica,
hanno il vantaggio di annullare il rischio di cambio per gli investimenti esteri e
per il commercio internazionale. Quindi, in Africa, del cambio fisso si sono
avvantaggiate le multinazionali occidentali mentre l’economia locale è rimasta
soffocata dalla rigidità del cambio prima con il franco francese e poi con l’euro,
quindi dall’impossibilità di esportare le proprie produzioni con una moneta
leggera ossia a un prezzo più basso. Attraverso la moneta unica, in altre parole,
gli Stati africani hanno perso, se mai l’hanno avuta, la sovranità monetaria: La
moneta unica, sottratta al controllo degli Stati africani, ha favorito la libera
circolazione dei capitali che, secondo i dati del Global Financial Institute, ha
significato per l’area francofona africana la fuga di 850 miliardi di dollari tra il
1970 ed il 2008, con conseguente rimpatrio dei profitti da parte della
multinazionali senza che neanche un euro restasse sul territorio africano.
Mediante il franco CFA le nazioni francofone dell’Africa assolvono al ruolo di
magazzino di riserva di materie prime e manufatti per l’Occidente. Non può
meravigliare se contro la moneta unica africana stia insorgendo un movimento
panafricano. Un suo militante senegalese, Kemi Seba, è stato arrestato per
aver bruciato in pubblico banconote di franchi CFA. Nulla di tutto questo è
trapelato sui media occidentali megafono del Potere Internazionale del Denaro.
Le unioni monetarie nella storia sono state rarissime e generalmente hanno
avuto esiti catastrofici. Secondo la dogmatica liberista, che considera la
moneta una merce, è il mercato che delinea l’area valutaria ottimale. Quindi
basta aprire le frontiere alla libera circolazione dei capitali ed adottare una
moneta unica per assicurare l’afflusso di capitali e la crescita. La narrativa sulle
aree valutarie ottimali è strumentale al dominio coloniale del capitale apolide e
delle economie più forti che controllano la moneta unica o il rapporto di cambio
unico. Un’area valutaria ben funzionante ed efficace è conseguente soltanto
alla presenza politica di uno Stato e quindi di un bilancio statale unico, non al
mercato. Negare ad un’area la propria sovranità monetaria significa tagliare
alle radici la possibilità di progettare, nel più vasto concerto internazionale,
autonome politiche di sviluppo locale. Infatti, come è accaduto nell’eurozona,
anche nel caso della moneta unica africana sono emersi immediatamente tutti
gli effetti negativi delle unioni monetarie, ad iniziare dagli squilibri nelle bilance
dei pagamenti provocati proprio dalla moneta unica – per alcuni di valore
troppo alto, per altri troppo basso – e dall’ossessione dell’inflazione che porta
ad attuare politiche di austerità che sfociano nella deflazione e pertanto nello
stop della crescita. L’accanimento contro l’inflazione ha condannato alla
stagnazione economica quindici Paesi dell’Africana francofona, che insieme
totalizzano più di cento milioni di abitanti.
«… i leader africani – ha dichiarato in una intervista l’economista africano
Nicholas Agbohou, autore del libro “Le Franc CFA et l’Euro contre l’Afrique”
– vanno a Parigi con le valigie piene di franchi CFA che scambiano con franchi o
dollari. Ma le banche centrali africane sono obbligate a riscattare questi CFA
che i leader hanno lasciato in Francia e che la Francia non vuole tenere. E
devono farlo con una valuta forte! Quindi dal 65% dei proventi sulle
esportazioni, che rimangono in deposito per le operazioni (…). Supponiamo che
un paese come il Niger, che non è in grado di pagare i propri funzionari,
esporta prodotti per il valore di un miliardo di dollari, automaticamente deve
lasciare in Francia un deposito di 650 milioni di euro. Questo è assurdo! Nel
frattempo i nigeriani muoiono di fame” (…). Prima di fissare il cambio franco
CFA con l’Euro, solo la Francia aveva voce in capitolo sulle nostre economie.
Ora è tutta l’Europa! Peggio ancora, le misure draconiane di Bruxelles sono
incompatibili con le esigenze delle nostre economie. Ecco perché io insisto a
ripudiare al più presto il CFA. Nessun paese può svilupparsi senza
l’indipendenza monetaria» (citato in Bifarini cit., pp. 120-121).
Forse iniziamo a comprendere perché mai Sarkozy impose alla Nato ed all’UE la
sua aggressione militare contro la Libia di Gheddafi che stava progettando una
unione monetaria alternativa con una moneta gestita e controllata dagli stessi
africani.
Esaminando la questione dalla nostra ottica nazionale, italiana, è possibile
cogliere in questa dipendenza monetaria di gran parte dell’Africa dalla Francia
non solo la causa principale delle emigrazioni in sé ma la causa del fatto che
queste migrazioni, approfittando del Trattato di Lisbona e della debolezza fino a
tempi recenti dimostrata dai nostri governi – dai governi di un’Italia
invertebrata, per parafrasare quanto un Ortega y Gasset lamentava della sua
Spagna – sono eterodirette, dalla stessa Francia spalleggiata dalla Germania,
verso il nostro Paese. Lo ha ben spiegato Piero Laporta, in un lungo reportage a
puntate su “La Verità” del 18 e del 24.08.2018, evidenziando anche i
retroscena finanziari e geopolitici per i quali il nuovo corso politico italiano stia
rompendo le uova nel paniere a Parigi e Berlino. Della ricostruzione di Laporta
citiamo, qui, i passi più salienti relativi alla sovranità monetaria francese
sull’Africa.
«Mentre i bombardieri francesi – scrive dunque Laporta – sorvolavano
indisturbati il territorio italiano per colpire Gheddafi, fu chiaro che il governo e
le autorità istituzionali italiane agivano da fedeli vassalli del governo sovrano di
Parigi, esattamente come i vassalli dell’Africa francofona. Questi aggiogati con
il franco africano, noi con l’euro franco tedesco. Avete capito bene: la Francia
stampa moneta in Africa. Una sporcizia vecchia, risalente all’immediato
dopoguerra, ignorata da troppi. Il 65% delle riserve di valute dei Paesi africani
francofoni … sono nella Banca centrale francese, sotto il controllo del ministero
delle Finanze di Parigi dal 1961. (Gli Stati africani francofoni) … sono sotto il
tacco francese: pagano il pizzo sui contratti di forniture, sulle esportazioni, su
ogni centesimo del loro Pil, adottano il franco della Comunità finanziaria
d’Africa (FCA) stampato a Parigi. La Francia succhia da questi popoli 500
miliardi di euro ogni anno. (…). I governanti delle colonie hanno due opzioni. Se
dissentono, muoiono: per infarto, per incidente aereo, per un colpo di Stato …
Se obbediscono, vivono da satrapi. Le loro popolazioni? Povere e disperate,
sono sollecitate a migrare. Se rimanessero monterebbe una violenza
irresistibile e crescente almeno dal 2000, quando allo sfruttamento francese si
è aggiunto quello cinese. Devono dunque emigrare. Dove? Vorrebbero andare
in Francia o, se possibile, in Germania, persino nell’Europa del Nord, ricca e
felice, magari a Bruxelles, in Belgio, ex Paese coloniale dove si parla francese.
Dopo tutto si sentono affini, quasi mitteleuropei, francesi per cultura e lingua
dopo un secolo di sfruttamento. La Francia, la Germania e l’Ue preferiscono che
rimangano in Italia. Il governo francese ha schierato al confine con Ventimiglia i
peggiori scherani che mai si sono visti dai tempi di Vichy. Per 70 anni, dal
manifesto di Ventotene, ci dissero che “nazione” è una bestemmia, invece
“europeismo” è la medicina. Oggi è chiaro: nazione è una bestemmia, a meno
che non sia “nazione francese” e “nazione tedesca”. Se qualche africano vuole
abbeverarsi direttamente alla fonte della cultura francese, deve fermarsi nel
lager di Ventimiglia. (…). In altri termini la Francia sovranista cura i propri
interessi con la valuta delle colonie africane e con quella delle colonie europee.
Questa condizione francese apparentemente forte, persino tracotante, è in
realtà il tallone d’Achille dell’impero franco tedesco. Francesi e tedeschi lo
sanno bene. Per tale motivo devono tenerci sotto il tacco, trovando sponda
nella dirigenza del Partito democratico, così come in precedenza – in misura
meno avvertibile – la trovarono nella dirigenza del Partito socialista e in frazioni
della Democrazia cristiana e del Partito comunista italiano. Aldo Moro (che
aveva compreso e tentato di opporsi all’egemonia franco tedesca, nda), per
capirci, è morto a Parigi prima ancora che gli sparassero a Roma. L’oppressione
franco tedesca, come qualunque dominio illegale, deve crescere
incessantemente; se si arresta è destinata a soccombere alla reazione dei
dominati. (…). Parigi e Berlino non possono tornare indietro, non possono
fermarsi, ora devono puntare al bottino grosso. Spogliare la Grecia fu uno
scherzo: aeroporti, qualche isola, industrie zero, terre poche, risparmi privati
ridicoli, Pil inferiore alla Brianza. Bastò un boccone (…). Per l’Italia è diverso. Un
capitale enorme, tanto appetibile quanto arduo da ingoiare. (…). Come possono
rapinarci? Il sistema è sempre il medesimo: creare il caos per imporre il proprio
ordine, uccidendo, calunniando, rovinando chiunque si opponga. Enrico Mattei,
Giovanni Leone, Aldo Moro, Benedetto XVI. Un tempo bastò attizzare gli
“opposti estremismi” e prezzolare qualche banchiere. Oggi devono operare su
scala più vasta e più subdola: l’immigrazione incontrollata è l’arma perfetta,
disarticola il sistema socio politico italiano, allenta la tensione in Africa, prepara
la strada a una nuova discesa dei barbari al di qua delle Alpi, annunciati dalla
Troika, per conquistare il bottino italiano, beninteso in nome dell’Unione
europea e della solidarietà».
«La Cina – conclude, poi, Laporta – dilaga nell’Africa francofona, protetta dalle
truppe francesi e dai prezzolati ascari locali. Parigi ne ricava un tornaconto
considerevole, pompando non meno di 500 miliardi ogni anno dai popoli
francofoni africani e stampando autonomamente moneta – il franco africano –
unica privilegiata, la Francia, fra i membri Ue, a battere moneta. La stampa
autonoma di moneta è la massima dichiarazione di sovranismo da parte d’un
Paese altrimenti impegnato a predicare l’europeismo. Francia, Germania e Cina
creano povertà in Africa, alimentano i flussi migratori, riversandone gli effetti
innanzitutto sull’Italia. La destabilizzazione, la povertà, le conflittualità, cioè le
cause principali delle migrazioni di massa, originano da Parigi, Berlino e
Pechino. In Africa e in Cina si generano masse di denaro nero, incontrollabili,
con le quali corrompono i governi amici e destabilizzano gli ostili, pagano le
Ong, i mercenari, le tv, i politici, le istituzioni, inclusi gli intellettuali italiani, un
tanto al chilo. (…). La massa di denaro nero, circolante fra l’Africa e la Cina,
spiega la tenacia di quanti in Italia sono genuflessi agli interessi franco
tedeschi. La prima questione politica da porre sul tavolo di Bruxelles … è …
l’incongruenza d’una Ue, gravata da spese per le migrazioni e per “aiutare gli
africani a casa loro”, mentre la Francia (con la Germania) sfrutta bestialmente
l’Africa, in antitesi proprio ai principi fondanti dell’Unione europea, gli stessi
principi evocati per esigere – a nostre spese – l’accoglienza per i migranti
africani. La Francia e la Germania insieme favoriscono lo sfruttamento della
Cina sugli africani, aumentando così esponenzialmente le cause delle
migrazioni. (…). Le politiche franco tedesche per l’immigrazione africana
riversano in Europa le masse di migranti, al servizio di uno scopo strategico più
alto: assicurare le risorse all’impero franco tedesco, cioè assoggettare agli
interessi franco tedeschi tutte le nazioni europee, in primo luogo quelle
affacciate sul Mediterraneo. (…) Francia e Germania, sottomettendo l’Italia,
intendono controllare tutto il Mediterraneo allargato, fino al Golfo Persico e
all’Asia. Senza il Mediterraneo, l’Ue sarebbe tagliata fuori dalle tre principali vie
di comunicazione – Gibilterra, Suez e Dardanelli – che spalancano le porte
verso il mondo intero. (…). Germania e Francia, sottomettendo le nazioni
mediterranee, pongono le fondamenta del loro impero. L’Unione europea, i suoi
trattati, i suoi regolamenti, le sue istituzioni sono strumentali a tale scopo
strategico, il cui successo ha come esito inevitabile la conquista dell’Italia (…).
Germania e Francia – con determinate cerchie statunitensi e britanniche –
iniziarono il cammino mediante una guerra, cominciata dopo il 1989, tuttora in
corso».
Dall’Austerità all’Apocalisse
«Quando si tratta di aver a che fare con l’austerity – ha osservato Andrew
Rugaisra, imprenditore e scrittore ugandese, citato dalla Bifarini –, l’Africa ha
scritto il libro di testo. Le dure misure economiche adottate dal governo
irlandese (durante la crisi iniziata nel 2008, nda) su indicazione del Fondo
monetario internazionale e dell’Unione europea sono analoghe ai programmi di
austerità – o programmi di aggiustamento strutturale (PAS) – a cui molti paesi e
governi africani sono stati costretti ad aderire negli anni Ottanta e Novanta» (in
Bifarini, p. 182).
Lo scomparso Luciano Gallino ammoniva che la crisi emersa in Occidente nel
2008 non riguarda soltanto l’economia ma la stessa civiltà umana. L’Onu ha
proclamato l’“Agenda 2030” annunciando la scomparsa della fame e della
povertà entro quella data. L’obiettivo sarà raggiunto, sostiene il documento
onusiano, mediante appropriate politiche di austerità, apertura indiscriminata
al libero commercio mondiale, abbattimenti di frontiere e dazi, e riduzione della
spesa pubblica fino al minimo possibile. La deregolamentazione dei mercati
finanziari non subirà alcun arresto benché la speculazione lucri sul debito degli
Stati, perché, secondo l’Onu, il problema sarà risolto eliminando il debito
pubblico. Apprendiamo così che, nonostante i fallimenti di tutte le politiche
neoliberiste finora sperimentate, gli organismi globalisti non intendono
demordere. Essi continuano a promettere che mediante le politiche di
aggiustamento strutturale si genererà un aumento notevole degli investimenti
su scala globale e, quindi, di conseguenza dell’occupazione e dei salari,
nonostante che tutti i dati empirici degli aggiustamenti, dove sono stati
realizzati, ci dicono che il loro esito è stato, a contrario di quanto promesso,
deflazione, depressione e drammi sociali.
Dopo l’Africa, è ora la volta dell’Europa intrappolata nella gabbia costruita
dall’eurocrazia globocrate. Le misure di austerità attuate dall’Unione Europea,
insieme alla Banca Centrale Europea ed al Fondo Monetario Internazionale (la
tristemente famosa Troika), sono assolutamente analoghe ai Piani di
Aggiustamento Strutturale applicati, devastandone il tessuto umano e sociale,
in Africa. In Grecia, abbattuta dal 2011 la spesa pubblica per la sanità, il virus
dell’HIV ha avuto un aumento di diffusione del 52% mentre il tasso dei suicidi
economici è schizzato nel solo 2012 del 25%. Entro il 2020 la politica di
austerità neoliberista coinvolgerà i due terzi dei Paesi del mondo senza più
distinzioni tra Primo, Secondo o Terzo Mondo. Mediante gli aggiustamenti
strutturali, l’ottanta per cento della popolazione mondiale sarà assoggettata al
Potere Internazionale del Denaro. L’austerità provocherà un crollo del 7% del Pil
mondiale e la scomparsa di 12 milioni di posti di lavoro. E sarà solo l’inizio. Di
conseguenza i flussi migratori dall’Africa verso l’Europa aumenteranno
esponenzialmente. Il peggioramento delle condizioni di vita in Africa, causate
dall’austerità, spingerà interi popoli a migrare verso zone che, benché
anch’esse soggette a forme di austerità, saranno ancora parzialmente in
migliori condizioni. Ma, come è intuibile, l’arrivo di masse di migranti
provocherà destabilizzazione sociale, paura, lotta per le residue risorse
disponibili, violenza endemica, odio inter-razziale ed un caos endemico in una
sorta di “terzomondizzazione” del Primo Mondo alla quale non corrisponderà
affatto – altra falsa promessa dei globalisti – e la “primomondizzazione” del
Terzo Mondo.
Margaret Thatcher difendeva il Modello Unico Globale ringhiando «There is not
alternative». La convinzione che non vi siano, o non vi siano più, alternative è
talmente penetrata nelle assopite coscienze che nessuno sembra
scandalizzarsi che ai disastri del neoliberismo si risponda con maggiori dosi di
austerità ossia con lo stesso veleno. Si fa credere alla gente che il rimedio al
male sia il male stesso. Si pratica la politica parassitaria del pidocchio che vive
del sangue altrui e viene raccomandato il salasso pur sapendo che così si
ucciderà il malato.
«In una sorta di nuovo “umanesimo globalista” – osserva la Bifarini –, i popoli
del Nord e quelli del Sud vengono trattati senza discriminazioni, secondo la
nuova etica dell’austerità redentrice (…). Così i giovani occidentali, che per la
prima volta nel dopoguerra si trovano ad essere più poveri dei loro genitori …,
e la gioventù africana, sempre più numerosa e con sempre minori possibilità di
trovare un’occupazione …, ricorreranno alla stessa disperata soluzione:
l’emigrazione. (…) La globalizzazione si è propagata in tutte le regioni del
mondo, incluse l’Europa occidentale e il Nord America, imponendo in nome del
modello unico neoliberista il sacrificio della sovranità economica…» (pp. 196-
197).
Il richiamo della Bifarini all’“umanesimo globalista” ci riporta ancora al Libro
della Rivelazione, laddove a proposito del nome della Bestia o del numero del
suo nome – nella Tradizione biblica le lettere dell’alfabeto corrispondono ai
numeri e quindi ogni nome ha un numero corrispondente – è detto «Qui sta la
sapienza. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un
nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei» (Ap. 13, 18). Il 7, nella
numerologia sacra, è il numero della perfezione divina corrispondente alla
somma del 4, che simboleggia la creazione immanente, e del 3 simbolo
dell’Essenza Trinitaria di Dio. Il triplice 6 simboleggia il prometeico tentativo
dell’umanità, sedotta dall’omicida padre della menzogna, di emulare ed
eguagliare il Creatore del Cielo e della Terra.
Forse intuendo l’essenza preternaturale di questa tragica dinamica mondiale, la
Bifarini ad un certo punto introduce significativamente l’idea di una “Apocalisse
dell’austerità” sulla scorta di due studiosi, l’economista D. Stuckler e il
professore di medicina S. Basu, i quali hanno annotato che «Il prezzo
dell’austerity si calcola in vite umane. E quelle ormai perse non potranno più
essere recuperate quando il mercato azionario tornerà a salire» (cit. in Bifarini,
p. 184).
Le Istituzioni della Globalizzazione promettono felicità, benessere e pace
universali ma intanto, con le politiche da esse pervicacemente imposte,
nonostante ogni fallimento, programmano la depressione mondiale, la povertà
globale e la guerra endemica. Sappiamo, per averlo già ricordato, a chi
appartengono l’Inganno, la Menzogna e l’Odio Anti-Umano. Egli è «… omicida
sin dal principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui»
sicché «Quando parla dice il falso, parla del suo, … è menzognero e padre della
menzogna» (Gv. 8,44).
La colonizzazione da debito e l’Anomos
La Rivelazione contiene, sparsi in diversi luoghi, l’annuncio del futuro, benché
momentaneo, trionfo dell’Omicida e del Padre della Menzogna. Nella Tradizione
islamica è chiamato Al Dajjāl ossia, per l’appunto, il “Mentitore”. Nella
Tradizione ebraico-cristiana è l’Anticristo. Se ne parla nelle Lettere di Paolo
(“l’uomo del peccato”, “il figlio della perdizione”), nelle lettere di Giovanni e
nell’Apocalisse ed è raffigurato come «il Principe del male che verrà a regnare
sul mondo alla fine dei tempi, prima che il ritorno definitivo del Figlio dell’Uomo
instauri i Cieli Nuovi e la Terra Nuova». La lotta, infatti, dice san Paolo, è contro
le “potenze dell’aria” che tentano di dominare su questo mondo. Nella
Metafisica tradizionale l’elemento aereo – da non confondere o ridurre
all’atmosfera terrestre –, connesso con la dimensione psichica, animica, è lo
spazio ontologico nel quale agiscono tanto le forze sovrannaturali, ad esso
superiori, quanto quelle preternaturali come, appunto, quelle angeliche
decadute.
La raffigurazione assunta nel corso dei secoli da questo Avversario, tanto nella
teologia quanto nell’immaginario popolare, è stata sovente quella di un crudele
persecutore dei Veri Credenti, un despota tirannico e malvagio che avrebbe
sottoposto i fedeli del Cristo al martirio di sangue. Da Giuliano l’apostata e
Nerone fino a Lenin e Stalin, passando per Napoleone ed Hitler, nella storia
molti hanno senza dubbio assunto il ruolo di persecutore dei credenti. Del resto
molti altri, nei limiti del proprio tempo e nelle concrete circostanze storiche da
essi vissuti, hanno invece assunto il ruolo di Katéchon, della forza frenante che
trattiene incatenato il Mentitore impedendogli di manifestarsi appieno,
dall’Impero Romano (secondo una tradizione patristica ripresa da Tommaso
d’Aquino e Dante) a Francesco d’Assisi, dal Barbarossa al beato Carlo
d’Asburgo. Qualcuno, oggi, vede nella Russia di Putin un baluardo, un
Katéchon, contro il globalismo anticristico.
Esiste tuttavia un’altra tradizione, non n contrasto ma complementare alla
prima, secondo la quale l’Avversario non si manifesterà nella violenza – o
almeno non solo in essa – quanto piuttosto mediante un mimetismo subdolo.
Egli si presenterà all’umanità quale annunciatore di una Nuova Era di pace e
felicità universale. Il suo sarà un mimetismo talmente suadente da ingannare
molti tra gli stessi credenti. Di questa antica tradizione c’è traccia, ad esempio,
nell’affresco del Signorelli, nella Cattedrale di Orvieto, che raffigura la “Predica
dell’Anticristo” e nel quale l’Avversario è colto, nel momento della sua
predicazione, in sembianze “cristomimetiche”. Il suo volto, infatti, come
raffigurato dal Signorelli è simile a quello di Cristo ma oscuramente ambiguo e
tale da suscitare, nello spettatore, una sensazione di inquietudine e paura.
Nell’affresco, il Falso Predicatore è raffigurato circondato da una folla plaudente
mentre, sullo sfondo, si assiste alla scena del massacro di coloro che gli si sono
opposti.
Nel romanzo “The Lord of the World”, del 1907, Robert Hugh Benson si è
richiamato a questa antica tradizione raffigurante l’Avversario come un
“umanista”, un maestro di tolleranza, un ecumenista. Un sorridente inquinatore
piuttosto che un rumoroso antagonista di Cristo. Uno svuotatore della fede
dall’interno piuttosto che un aggressore esterno.
Anche lo scrittore russo Soloviev, nel suo romanzo “I racconti dell’Anticristo”,
ha richiamato questa antica visione suadente dell’Avversario. Soloviev
immagina il mondo futuro unito sotto un unico Imperatore esaltato da tutti
quale “gran benefattore dell’Umanità” per aver sconfitto fame e povertà. Nel
racconto solo alcuni tra i cristiani, da lui inutilmente tentati con offerte
mondane onde portarli dalla sua, gli resistono fino alla persecuzione finale.
Nel 1916, in un’opera giovanile, Carl Schmitt, forse il più grande filosofo della
politica e del diritto del XX secolo, riprese l’antico tema dell’Avversario
suadente commentando il libro di Theodor Däubler “Aurora Boreale”
(“Nordlicht” ossia luce del nord) sulla scorta della citazione di un passo del
“Sermo de fine mundi” di sant’Efrem Siro, da lui stesso scovato. Secondo la
tradizione, profetica, di quel passo, nella sua versione latina, l’Impostore «erit
omnibus subdole placidus, munera non suscipiens, personam non praeponens,
amabilis omnibus, quietus universis, xenia non appetens, affabilis apparens in
proximos, ita ut beatificent eum omnes homines dicentes: Justus homo sic
est!». Tradotto: «Subdolamente, piacerà a tutti, non accetterà cariche, non farà
preferenze di persone, sarà amabile con tutti, calmo in ogni cosa, ricuserà i
doni, apparirà affabile con il prossimo, così che tutti lo loderanno esclamando:
“Ecco un uomo giusto!”».
Commentando questo passo, Carl Schmitt osserva che esso sembra anticipare
lo scenario odierno nel quale un Potere Mondiale si va imponendo nel nome del
bene dell’uomo mentre, in concreto, va realizzando la “cattività universale”.
Nel suo commento, il grande giurista tedesco non manca di sottolineare che
l’“amabile” Avversario, preannunciato sulla scorta di una più antica tradizione
dall’Efrem latino, provvederà a tutti i bisogni dell’umanità compresi quelli
spirituali proponendosi come un Potere Etico in nome della “Religione
dell’Umanità”, una fede ricomprensiva di tutte le fedi, ecumenica, aperta,
mondiale, globalista, che avrebbe avuto dalla sua la forza transnazionale della
tecnica e della finanza.
Ma c’è anche un altro aspetto dell’Avversario, come descritto nell’antica
tradizione alla quale stiamo facendo riferimento, ed è l’Anomia/Anonimia.
Tra Nomos e Nome c’è una stretta connessione ontologica.
Dio si rivela, in Esodo 3, 14, svelando il Suo Inaccessibile Nome, rendendo cioè
possibile all’uomo attingere alla Sua Essenza. L’“Io Sono Colui che Sono”
suona, nel suo contemporaneo apofatismo e catafatismo, come un
velare/svelare. Il Nome di Dio, dell’Essere Trascendente, è sì un Nome – quindi
indica una Identità propria, personale – ma è Universale. Il Suo Nome rivela Dio
quale Infinito Personale, o Persona Infinita, che nulla, di ciò che per Lui ed in Lui
esiste come altro da Lui, può contenere, racchiudere, costringere. Dio non è
reificabile, non è del tutto concettualizzabile, sicché, per rendersi almeno in
parte all’uomo accessibile, deve rivelarglisi prendendo Lui l’iniziativa. E,
rivelandosi all’uomo, deve farlo ponendo un limite al Suo Splendore perché se
gli si manifestasse del tutto senza veli la creatura ne sarebbe folgorata. A Mosé
è ingiunto non solo di togliersi i calzari sulla terra santa della Teofania sinaitica
ma anche di voltare le spalle, di “non guardare” Dio, pena la morte istantanea.
Biblicamente sul Nome di Dio è fondato il Nomos, la Legge, che, appunto, Mosé
riceve nel Decalogo al termine della grandiosa Teofania del roveto, il quale, nel
Fuoco dello Spirito, arde ma non brucia. Il Decalogo corrisponde anche alla
Dieci Parole o Lettere che, secondo la tradizione cabalista autentica, sono state
usate dal Creatore nell’Opus Magnum della Creazione dei Piani Multipli della
Realtà.
Se, dunque, Dio ha un Nome e dona all’uomo un Nomos – la cui essenza
profonda, al culmine della Rivelazione, Gesù Cristo svelerà essere l’Amore di
Dio e del prossimo – come potrebbe l’Antico Avversario soggiacerGli,
sottomettersi al suo Nome/Nomos? Per l’Avversario non c’è altra strada che
convincere l’umanità che l’Adorazione del Nome di Dio è una sottomissione,
uno strumento di tirannia, e che il Nomos di Dio è costrizione, gabbia per la
libertà dell’uomo, limite al suo auto-deificarsi. Nel suo subdolo mimetismo,
l’Avversario seduce l’uomo con una falsa sapienza, una gnosi spuria, opposta
all’autentica Sapienza, alla Vera Gnosi, Rivelata da Dio. Questa falsa sapienza
presenta come supposta fonte dell’essere l’Impersonale, il Vuoto, il Nulla
principiale. Nella falsa gnosi dell’Avversario, Dio non è Infinito Personale, non
può avere un Nome e non può che essere Anonimo. Di conseguenza non può
imporre all’uomo alcun Nomos. Tutto sta, nella prospettiva dell’Avversario, nel
convincere l’uomo che Dio ne opprime la libertà assoluta e che egli in quanto di
natura già divina, in sola attesa di risveglio, deve liberarsi dall’oppressione
tirannica. Deve, come ha fatto lui, l’Antico Avversario di Dio, proclamare forte il
proprio “non serviam”. Nella sua suadente strategia, dunque, L’Impostore,
l’Omicida, il Mentitore, si presenta non già più da Avversario, quale in effetti
egli è, ma come Liberatore dell’Umanità, come Emancipatore dalla Legge
Divina e dalla legge di natura, come A-Nomos. Per operare, nella storia, in
modo A-nonimo.
Laddove Cristo viene ad adempiere la Legge, consentendo all’uomo di
adempierla a sua volta non, però, mediante la pretesa umana di una pelagiana
osservanza moralistica ma mediante la Sua Grazia, che sola rende possibile
l’osservanza dell’essenza della Legge ossia l’Amore di Dio e del prossimo,
l’Avversario viene ad annunciare l’Anti-Nomia che è una sola cosa con l’A-
nonimia.
Lo Stato moderno – superiorem non recognoscens – nasce nel XVI secolo come
una trasposizione sul piano politico e giuridico, una laicizzazione, dell’idea
teologica del Corpus Misticum Christi che la Chiesa attribuisce a Sé stessa per
indicare che, nella comunione sacramentale restaurata tra l’uomo e Dio in
Cristo, è generata la Comunità teologale, sovra-mondana, degli eletti che
regneranno, nell’evo futuro, con l’Agnello assiso sul Trono della Nuova
Gerusalemme. La trasposizione di tale idea nel “corpus misticum politicum” ha
generato la nascita dei moderni Stati intesi quali impersonali, astratte, persone
giuridiche che, a differenza del Corpo Mistico di Cristo nel quale il singolo
ritrova la sua radice ontologica e quindi la sua salvezza, fagocita singoli e corpi
intermedi. Thomas Hobbes non poteva meglio illustrare questa ambiguità, alla
base della moderna forma politica dello Stato, cui è connessa la sovranità
stessa, che con l’immagine del Leviatano fatta apporre sul frontespizio
dell’omonima opera e raffigurante il Sovrano a guisa di un Macro-Antropos
composto, meccanicamente, dall’unione di tutti i suoi sudditi. Con ciò il filosofo
inglese voleva indicare l’essenza appunto a-nomima dello Stato come inteso
dal contrattualismo giuridico ovvero come ente di umana autocostruzione che
dichiara di trovare in sé, e solo in sé, la sua norma ed il suo nome. Che,
pertanto, non solo rigetta la Legge Superiore ma ripudia anche il Nome che è a
fondamento di tale Legge ossia il Nome di Dio e, quindi, il Suo Volto
manifestato nell’Incarnazione del Verbo in Cristo. Ecco perché il Senza Legge è
anche Senza Nome, l’A-nomos è anche Anonimo.
Questo medesimo processo di, ambigua e blasfema, trasposizione mondana
della Corporeità di Cristo è alla base anche della formulazione giuridica,
concettuale, delle società anonime di capitali, ossia delle persone giuridiche
private. Esse, storicamente, nascono in parallelo con la formazione dello Stato
moderno. Se nel medioevo la personificazione giuridica di beni o di gruppi
sociali – ovvero il riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico di un
complesso di attribuzioni di diritti e doveri in capo ad una “societas hominum”
– poteva avvenire esclusivamente per i beni ecclesiali, le Chiese particolari e, a
maggior ragione, per la Chiesa Universale, dato che si trattava, come detto, del
Corpus Misticum Christi, o di parti di Esso, il cui contenuto umano, su un piano
metapolitico e metagiuridico, quindi anche, meta-sociale, stava nel Suo
Fondatore in comunione mistica con gli eletti alla salvezza, nell’età moderna
beni e capitali vengono personificati in modo fittizio ed astratto riconoscendo
essi una personalità giuridica anonima ossia priva di contenuto umano e
costituita come controparte a sé stante rispetto ai soci, persone fisiche, che la
fondano.
Una società anonima è giuridicamente persona altra dal gruppo dei suoi soci,
tanto se considerati singolarmente quanto se considerati insieme. Il socio di
una società anonima non è proprietario del capitale conferito alla società ma è
soltanto un creditore con diritto di lucrare, nel limite di volta in volta stabilito
dal gruppo concreto che amministra la società, gli utili dell’attività. L’azione di
una società anonima non è un titolo di proprietà ma un titolo di credito. La
proprietà del capitale conferito è della società anonima quale fittizia persona
giuridica, priva di contenuto umano ma guidata da coloro che ne sono
amministratori. Il capitale azionario è “anonimo”, senza volto umano,
impersonale e, come tale, tende all’“anomia” ossia a sganciarsi dalla norma
sociale. Per la società anonima non vale il detto “ubi societas, ibi ius” perché
per essa l’elemento societario e quello giuridico tendono a divaricarsi fino a
contrapporsi. Ecco perché le società anonime sono state lo strumento
privilegiato dell’affermazione del capitalismo impersonale, transnazionale,
apolide, che resta tuttavia manovrato e controllato da una sorte di club
mondiale di “Superiori Incogniti”. Non a caso tutte le grandi banche d’affari
globali e le multinazionali sono società anonime.
In quanto non titoli di proprietà ma di credito, le azioni sono naturaliter oggetto
della “borsa valori” nella quale si gioca a speculare sui valori azionari
indipendentemente, o perlomeno progressivamente sempre più
indipendentemente, da qualsiasi loro connessione con il sottostante reale, i
beni e la produzione concreta. Questo spiega perché esistono mercati di titoli
“over the counter” (OTC) ossia mercati non regolamentati, altamente
speculativi, e perché il capitale azionario, anche nei mercati regolamentati, è
sempre volatile, non territorializzato, non socializzato. Solo con un capitale di
tal genere sono possibili trucchi speculativi come quelli di consentire agli
azionisti l’aumento del valore delle azioni attraverso operazioni di redditività
artificialmente creata. Ad esempio riducendo il personale delle società per
aumentare gli utili oppure consentendo di pagare i manager con stock di azioni
in modo che essi si facciano guidare più dai rendimenti borsistici che dalla
crescita reale dell’azienda o ancora consentendo l’acquisto da parte della
società anonima delle sue azioni di nuova emissione per aumentarne
illusoriamente il valore e poi rivenderle sopravalutate.
Le società anonime, nella loro versione multinazionale, trionfano storicamente,
imponendosi senza più vincoli di alcun genere, insieme al capitalismo
finanziario transnazionale in una creazione continua di denaro dal denaro,
sempre di più senza alcuna connessione con la produzione reale, con il capitale
reale ossia quello immobilizzato. Anche per tale via la globalizzazione ha
accresciuto in modo abissale le distanze sociali tra vertice e base all’interno
delle stesse nazioni e tra l’establishment transnazionale e popoli su scala
mondiale.
«Nei paesi del Terzo Mondo come in quelli del Vecchio Continente – ci spiega la
Bifarini – … una fascia sempre maggiore della popolazione mondiale assiste al
peggioramento delle proprie condizioni economiche e umane. (…) una élite
sempre più ristretta, fautrice di una globalizzazione ad oltranza, che superi ogni
confine territoriale e culturale, aumenta in modo inaudito la propria ricchezza.
A oggi, un manipolo di otto uomini possiede beni quanto 3,6 miliardi di persone
… che, con la loro sofferenza, garantiscono il loro impero globale. (…). La
ricchezza globale è sempre più slegata dalle attività produttive e commerciali
dell’economia reale, ma è generata dal mondo della finanza e dalla
speculazione. Sotto il vessillo di una finta libertà, l’ideologia neoliberista
impone la dittatura incontrastata delle maggiori banche e multinazionali
mondiali. Come … in Africa e in gran parte del Terzo Mondo, lo stesso processo
di ristrutturazione economica, che fa leva sullo strumento del debito per la
creazione e lo sfruttamento della povertà, viene applicato nei paesi del Primo
Mondo. E’ la “terzomondizzazione” dell’Occidente, che crea e alimenta divisioni
tra classi sociali e gruppi etnici, una sorta di “apartheid sociale”, in cui i
cittadini sono sempre più indifesi e abbandonati dallo Stato. (…). La grande
entità dei flussi di capitale estero … attraverso … prestiti, finanziamenti e
investimenti diretti esteri non … (crea) … sviluppo delle economie nazionali,
ma piuttosto un’alleanza … tra le élite locali e quelle straniere, rappresentate
da banchieri e multinazionali. (…). Le condizioni alle quali i prestiti sono …
concessi esercitano il giogo più potente e subdolamente vessatorio … mai
imposto (…). L’adesione a politiche economiche e sociali eterodirette dai poteri
internazionali, senza nessuna considerazione della situazione … (delle) …
comunità, rende impossibile l’uscita dalla povertà …, rafforzando piuttosto il
loro rapporto di dipendenza nei confronti dei neocolonialisti travestiti da
benefattori. Le peggiorate condizioni economiche hanno costretto gli Stati
africani a richiedere nuovi prestiti, ingabbiati nel vincolo del consolidamento
fiscale creato per essi dalle istituzioni di Bretton Woods, le stesse cui si
rivolgono per uscirne. E’ la trappola dei debiti, la medesima di cui sono vittimi i
paesi europei con alto debito pubblico e che ha portato molti studiosi ed
economisti a evidenziare un parallelismo tra la Grecia e l’Africa. E’ il modus
operandi del neoliberismo, standardizzato e spregiudicato, che non tiene conto
delle distinzioni tra paesi e culture, tanto da apparire una teoria ecumenica. Chi
muove le trame de sistema economico mondiale … non ha … senso di
appartenenza nazionale e d’identità culturale; si tratta di individui sradicati, il
cui paese di nascita spesso non coincide con quello di residenza e il cui
identificativo si perde dietro codici di conti e partecipazioni cifrati. E’ il nuovo
colonialismo che, per imporre il proprio dominio, ha smesso di far leva sul
capitale e sul lavoro e usa lo strumento del debito» (pp. 177-180).
I manipolatori dell’economia mondiale, i finanzieri e gli speculatori d’assalto, ci
dice dunque la Bifarini, sono degli sradicati, degli apolidi, senza nome, anonimi,
che celano la propria identità perversa dietro codici cifrati. Torna prepotente
l’antica profezia che connette il “nome segreto” della Bestia – perché anche la
Scimmia di Dio ha un nome, emulativo di quello Divino – al suo “numero”, al
suo codice identificativo, alla sua cifra che nascostamente, anonimamente, ne
cela il volto luciferino sotto parvenza di “umanismo”, di “nome d’uomo”:
«Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero
un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o
vendere senza avere quel marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo
nome … Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un
nome d’uomo. E tal cifra è seicentosessantasei» (Apocalisse, 13 – 16,18).

quarta ed ultima parte


Thomas Sankara.
Thomas Sankara è uno dei personaggi più importanti della storia dell’Africa
contemporanea. E’ considerato una sorta di Che Guevara africano. Divenne
presidente dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, nel 1983, e con straordinaria
lucidità e lungimiranza smascherò il piano egemonico dei poteri finanziari
internazionali per ricolonizzare il continente africano mediante il debito. Ebbe il
coraggio di denunciarlo apertamente durante l’assemblea dell’Organizzazione
per l’Unità Africana in un discorso memorabile e impressionante per la sua
attualità.
«Le origini del debito – affermò in quell’occasione – risalgono alle origini del
colonialismo: quelli che ci hanno prestato denaro sono gli stessi che ci avevano
colonizzato. (…). Il debito di oggi è … il neocolonialismo, soltanto che i
colonizzatori di oggi si sono trasformati in quelli che voi chiamate assistenti
tecnici. (…). Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei
finanziatori, che ci sono stati consigliati, raccomandati. (…). Noi ci siamo
indebitati per 50, 60 anni e più, cioè siamo stati portati a compromettere i
nostri popoli per 50 anni e oltre. Il debito nella sua forma attuale è una
riconquista dell’Africa sapientemente organizzata in modo che la sua crescita e
il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente
estranee, in modo che ognuno di noi diventi schiavo perenne di quelli che
hanno avuto … la furbizia di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono
di rimborsare il debito: non è un problema morale. (…). Il debito non può essere
rimborsato, prima di tutto perché se non paghiamo, i nostri finanziatori non
moriranno: siamone pur certi. Invece, se paghiamo, noi moriremo: siamone
ugualmente sicuri. Quelli che ci hanno indebitato hanno giocato con noi come
in un Casinò. Fino a che hanno guadagnato, non c’era nessun problema, ora
che rischiano di perdere vogliono indietro tutti i soldi giocati. Ci dicono che
abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, ci dicono che se non paghiamo ci
sarebbe la crisi, e invece no. Hanno giocato con le regole del loro gioco, e
possono anche perdere. Ma noi paesi africani dobbiamo stare uniti su questo
punto, perché se il Burkina Faso sarà l’unico a rifiutarsi di sottostare a questo
gioco, io non ci sarò alla prossima conferenza» (citato in Bifarini, pp. 116-117).
Purtroppo fu buon profeta, pagò il suo coraggio con la vita. Due mesi dopo quel
discorso, il 15 ottobre 1987 venne assassinato, a soli 37 anni, da Blaise
Compaoré, l’amico di una vita e suo successore appoggiato dalla Francia e
dalle altre potenze internazionali.
Con Thomas Sankara il Burkina Faso, attraverso una politica saggiamente
“autarchica”, di sostegno alla produzione nazionale ed ai consumi locali e di
indipendenza dai poteri finanziari internazionali che prosperano sul commercio
internazionale, conobbe una fase di crescita attenuando l’atavica condizione di
miseria. Furono impiantate strade ed infrastrutture essenziali allo sviluppo
economico, costruite centinaia di scuole ed ospedali, potenziato il sistema
idrico per favorire l’agricoltura autoctona, costruita una rete di vaccinazione
per l’infanzia e l’intera popolazione contro morbillo, rosolia e tifo. Le condizioni
di vita del popolo registrarono notevoli miglioramenti in termini di
alimentazione e di disponibilità delle risorse idriche. Dopo la sua morte, il
Burkina Faso seguirà fedelmente il tracciato neoliberista – apertura
indiscriminata al commercio internazionale, privatizzazioni, indebitamento
estero – imposto dal Potere Finanziario Globale. Oggi il Burkina Faso è uno dei
paesi più poveri del mondo.
Keynes, il sovranismo e la sinistra.
Come abbiamo detto, nel dopoguerra, nel periodo che gli economisti chiamano
“Trentennio glorioso”, l’applicazione di politiche keynesiane consentì sia
all’Occidente sia al Terzo Mondo uno una espansione economica mai prima
conosciuta. Fu quello il periodo più florido della storia moderna. Il neo-
liberismo, che subentrò, ha fatto dimenticare, tanto nell’Accademia quanto nei
media, che lo Stato, storicamente, è stato il miglior garante del mercato perché
ha corretto le sue inefficienze tanto economiche che sociali. La
stigmatizzazione neoliberista dello Stato, quale fonte di tutte le inefficienze, e
la deificazione del mercato non trovano alcun fondamento scientifico né
empirico. Affinché il mercato possa funzionare è fondamentale che lo Stato
svolga il suo ruolo di tutela dei cittadini più svantaggiati e di redistribuzione
della ricchezza per contenere e ridurre la disuguaglianza sociale e gli scontri di
classe. I quali, a dispetto dei marxisti, non portano a nulla, non portano al
comunismo o al paradiso in terra, ma alla distruzione politica, economica e
sociale con danno innanzitutto per i più deboli ed i più poveri.
Le ricette sovraniste – come quelle di Putin, della Le Pen, di Salvini – vanno
nella direzione del recupero della sovranità statuale sui meccanismi economici
e monetari, come prefigurata dal keynesismo. La sinistra cosmopolita, nella sua
versione socialdemocratica, nel dopoguerra si impadronì del pensiero
economico di un conservatore – che tale, e non un marxista, era Keynes – e
della concezione interventista dello Stato – emersa dagli sviluppi storici dello
Stato nazionale nel XX secolo, a partire dagli anni del primo dopoguerra e, per
certi versi, sin dalla seconda metà del XIX secolo – per sostenere la costruzione
di un Welfare nazionale in tutti gli Stati industrializzati. Ma la sinistra, proprio
perché naturaliter globalista, nel momento epocale del passaggio dalla
modernità caratterizzata dallo “statuale” alla postmodernità contrassegnata
dal “mercatismo”, non poteva non abbandonare il keynesismo ed abbracciare il
neoliberismo come ideologia mondialista di sostituzione del vecchio
internazionalismo marxista. Il ritorno al keynesismo è oggi, invece, il cavallo di
battaglia dei movimenti sovranisti, sorti nel punto di intersezione tra la “destra
sociale” e la “sinistra nazionale”. Non a caso il meglio dell’intellighenzia della
sinistra socialista sta passando, o almeno inizia a guardare con simpatia, al
sovranismo.
Questo spiega lo scontro politico in atto in Europa. L’attuale modello
dell’Unione Europea è il neoliberismo secondo la versione ordoliberale di
matrice tedesca. Esso, già collaudato nei Paesi del Terzo Mondo, con le sue
politiche di “austerity”, le privatizzazioni ed i tagli alla spesa pubblica,
impoverisce i cittadini privandoli delle prestazioni dello Stato sociale, la
conquista più importante del secolo scorso. In uno di quei rari documenti,
prevalentemente ad uso interno della ristretta cerchia degli “iniziati” e che di
tanto in tanto trapelano anche all’esterno, lo stesso Fondo Monetario
Internazionale è stato costretto ad ammettere a denti stretti, tra le righe,
l’erroneità delle sua ideologia economica. Come sottolinea Ilaria Bifarini,
l’Istituzione di Washington ha riconosciuto, nei suoi studi appunto ad uso
interno, che le misure di consolidamento del debito – quel che i media
chiamano “austerità” – provocano un aumento del livello di disoccupazione e
del tasso di disuguaglianza tra la popolazione. Per salvare sovranità e
democrazia è oggi più che mai necessario cambiare rotta e riprendere il
discorso da dove era stato lasciato nel momento della neo-rivoluzione
reaganiano-thatcheriana, abbandonando Milton Friedman per tornare a
guardare a Keynes pur con tutti gli aggiustamenti necessari che il
cambiamento del secolo comporta.
Al fine di difendere il mercato da sé stesso – ossia conservarne la capacità di
aumentare l’efficienza produttiva e di scambio ponendo, però, rimedio alle sue
tragiche inefficienze etiche e sociali – è più che mai necessaria una presenza
non meramente regolatrice ma anche interventista dello Stato, dell’Autorità
Politica in genere. In altri termini al fallimentare slogan neoliberista “meno
Stato, più mercato” occorre opporre lo slogan “Più Stato per garantire il
mercato”.
«Secondo uno dei falsi miti più accreditati – spiega la Bifarini – … lo Stato
rappresenterebbe un impedimento per il mercato. In realtà l’evidenza empirica
rivela l’esatto contrario. Se analizziamo l’evoluzione della spesa pubblica
nazionale, ci accorgiamo di come essa sia cresciuta in modo esponenziale a
partire dal XX secolo (…). A fine Ottocento si assestava introno al 10%, nel
1920 raddoppiava, e dopo un ventennio risultava quadruplicata. (…) la
dimensione del settore pubblico (cresce) … con l’espandersi del commercio
(…). Tali risultanze, poco divulgate tra l’opinion pubblica e gli economisti stessi,
contraddicono uno degli assiomi fondamentali (del neoliberismo) (…).Tuttavia,
se una simile correlazione tra Stato e mercato risulta sbalorditiva per i
“pensatori” del neoliberismo, la sua ragione è in realtà piuttosto intuitiva: i
cittadini dei paesi più esposti al commercio …necessitano di una maggiore
presenza dello Stato, quale tutela dai rischi e dalle incertezze generate dal
libero mercato. Attraverso politiche di assistenza alle fasce svantaggiate e
impoverite (dal mercato) … lo Stato svolge un ruolo fondamentale nel gestire
l’impatto della redistribuzione del reddito sul livello di disuguaglianza all’interno
della popolazione e permette alle economie di beneficiare dell’apertura degli
scambi» (pp. 167-169).
La presenza di un ruolo attivo, e non solo regolativo, dello Stato nel mercato è
oltretutto importante proprio sotto il profilo delle possibilità di sviluppo delle
nazioni. La storia – lo abbiamo già detto ma repetita juvant – attesta che la
modernizzazione delle nazioni non ha mai seguito il paradigma mercatista del
liberismo e che non esistono mercati nel senso moderno, ossia mercati
capitalisti ed industriali, che non siano l’esito delle politiche dell’Autorità
pubblica nel pieno possesso ed esercizio della propria sovranità politica,
compresa quella monetaria.
L’Inghilterra ha avviato la Prima Rivoluzione Industriale non applicando i
principi della fisiocrazia francese o i suggerimenti di Adam Smith ma attraverso
un forte impulso dirigistico governativo sostenuto, certo a scopo speculativo
ma questo è un altro discorso, dalla Banca d’Inghilterra e dalle conquiste
coloniali di materie prime. Quindi, anche sotto questo ultimo profilo, con il
sostegno statuale dato che gli eserciti moderni sono pubblici e non privati. Gli
Stati Uniti d’America, nel XIX secolo, sono passati da colonie agricole inglesi a
moderna nazione industrializzata mediante la politica di dirigismo e
protezionismo. Nel XIX secolo, infatti, il protezionismo dirigista era chiamato
“sistema americano”. Un economista tedesco a lungo vissuto in America,
Friedrich List, lo fece conoscere e lo diffuse teoreticamente in Germania
preparando l’humus culturale del dirigismo bismarchiano – un dirigismo non
privo dei primi elementi storici di welfare – che sarà alla base del decollo
industriale della Germania riunificata.
Tra i Paesi non europei che hanno seguito il dirigismo economico per
modernizzarsi e sfuggire al destino di colonizzazione, che fu la sorte di quasi
tutti i popoli extra-europei del mondo, il caso più importante è rappresentato
dal Giappone che costretto, alla del fine XIX secolo, a suon di cannonate dagli
Stati Uniti d’America e dalle altre potenze occidentali, ad aprirsi al commercio
internazionale, avviò, sotto la ferma guida imperiale, un processo di
modernizzazione che assunse dall’Occidente i modelli economici e la tecnologia
industriale ma adattandoli al proprio contesto tradizionale e culturale. Furono,
ad esempio, “industrializzati” gli antichi rapporti feudali: le grandi famiglie
dell’aristocrazia nipponica, come i Kawasaki ed i Suzuki, si trasformarono in
famiglie di industriali ed i loro servi da contadini in operai conservando il
legame feudale, che li teneva uniti al padrone, nella forma del contratto di
lavoro a vita che, se da un lato, limitava la loro libertà, dall’altro, li assicurava
economicamente non potendo essere licenziati in nessun caso. Evitato un
destino di sottomissione coloniale, il Giappone diventò una potenza di primo
piano, come dimostrò la sonora sconfitta che esso inflisse alla Russia zarista
nella guerra del 1905. Per questo fu accreditato nel club mondiale delle nazioni
che contano che all’epoca erano soltanto quelle europee con la propaggine
statunitense non ancora diventata mondialmente egemone. La Cina che, al
contrario, non si modernizzò, diventò preda delle politiche coloniali occidentali.
«La storia dimostra – concorda con noi la Bifarini – come nessun paese
avanzato abbia raggiunto la propria condizione di sviluppo seguendo
l’approccio ortodosso al libero mercato indicato dal Fondo monetario
internazionale e dalla Banca mondiale, ma solo attraverso una diffusa
protezione industriale e il sostegno da parte dei governi nazionali. Il successo
del Giappone, in particolare, è da ricondursi al ruolo chiave esercitato dallo
Stato attraverso l’incentivo alla creazione delle industrie e delle infrastrutture
nazionali e l’aumento dei dazi sulle importazioni per promuovere l’industria
locale. Tali politiche hanno incentivato a tal punto lo sviluppo dell’industria
cotoniera nipponica che nel 1914 arriva a soppiantare le esportazioni
britanniche nel mercato asiatico. La burocrazia (si trattava, però, di una
burocrazia imperiale educata nella via cavalleresca del Bushido, l’antico codice
d’onore samurai, e quindi votata ad una mission nazionale, nda) si è
trasformata in alleato della crescita del paese, rimuovendo gli ostacoli agli
investimenti, come la tassazione eccessiva, i ritardi burocratici e le
infrastrutture carenti. Il governo ha investito nei servizi sociali e nel sostegno
alle aziende nazionali, attraverso tariffe protettive, svalutazioni monetarie,
sovvenzioni e altri strumenti che favoriscono le politiche industriali e la
formazione del capitale umano. Perché, infatti, un paese possa trarre vantaggio
dalla globalizzazione occorre che prima abbia raggiunto una solidità del proprio
assetto sociale e industriale, attraverso la tutela delle industrie nascenti e della
stabilità interna. Secondo il premio Nobel per l’economia J. Stiglitz, l’Africa
dovrebbe trarre preziosi insegnamenti dall’esperienza di sviluppo nipponica
(…). Per farlo i governi africani … dovrebbero attuare politiche … che
favoriscano la ristrutturazione delle economie nazionali (…). E’ attraverso le
infrastrutture, le leggi e il sistema educativo … che un governo modella la
struttura economica degli Stati. I paesi in via di sviluppo più attivi al mondo,
ossia quelli dell’Asia orientale, hanno fatto esattamente questo, seguendo una
rotta totalmente diversa dalle direttive neoliberiste del Washington Consensus;
e, al contrario di queste ultime, le loro politiche hanno funzionato. I paesi
africani dovrebbero ispirarsi a questi esempi di successo per avviare le loro
politiche di sviluppo e … il Giappone può svolgere un ruolo chiave per l’Africa. E
non solo per l’Africa … ma per l’Europa e l’Italia in particolare: seguire un
modello economico di sviluppo che investa nella spesa pubblica e nel capitale
umano, rifuggendo l’ossessione neoliberista dei “globocrati” di Bruxelles per la
riduzione del debito e le politiche di austerity» (p. 173-174).
Necessità ed utilità del debito pubblico.
All’avvio ed al mantenimento delle condizioni della modernizzazione economica
il debito pubblico è assolutamente necessario, sicché l’ideologia dominante che
lo raffigura all’opinione pubblica come il “mostro” da abbattere risponde
esclusivamente agli interessi dell’usurocrazia finanziaria mondiale che lucra, in
termini di rendita improduttiva, sul lavoro dei popoli. L’usurocrazia finanziaria
apolide, impadronitasi dei meccanismi sovrani della creazione dal nulla di
denaro, spinge i popoli ad indebitarsi con i “mercati internazionali”. Per far
questo ha convinto tutti che l’inflazione sia sempre e comunque un male e che,
per evitare che l’Autorità politica abusi del potere sovrano di creazione
monetaria ingenerando inflazione, la Banche centrali debbano essere
indipendenti dagli Stati e rispondere soltanto al club finanziario internazionale
garantendone gli interessi.
Il “debito pubblico” è sempre “credito privato”. Pertanto due sono le ipotesi sul
campo. La prima è quella per la quale lo Stato abbia come creditori, come è
stato fino agli anni ’80 in un sistema nazionale sano, i cittadini che comprano il
suo debito mediante il risparmio privato, rendendo così possibile allo Stato di
finanziarsi ed al contempo di mettere detto risparmio in circolo ossia renderlo
produttivo e non lasciarlo inoperoso. La seconda è quella per la quale creditrici
dello Stato siano le banche d’affari globali ed i loro fondi esteri speculativi, che
lo indebitano per aumentare il proprio profitto da rendita finanziaria speculativa
vanificando, con il peso degli interessi sul debito, ogni sforzo di politica sociale
o produttiva a beneficio dei cittadini.
Quando il debito pubblico è in mani sovrane esso è nient’altro che una partita
di giro tra Stato e cittadini. Una partita di giro che, da un lato, consente la
creazione ex nihilo di denaro per scopi sociali e, dall’altro, di ripartire la
ricchezza della nazione tra le sue componenti, siano essi i singoli o i corpi
intermedi associati.
«L’agenda neoliberista – ci dice ancora la Bifarini – si basa su due pietre miliari:
l’aumento della concorrenza attraverso la deregolamentazione e l’apertura dei
mercati – inclusi quelli finanziari – alla concorrenza estera; la riduzione del ruolo
dello Stato, attraverso la privatizzazione dei beni pubblici e la limitazione della
possibilità di incorrere in deficit fiscale e accumulare debito da parte del
Governo. A partire dagli anni Ottanta questa dottrina economica … viene
applicata a macchia di leopardo in tutto il mondo, a partire proprio dai paesi più
poveri (…). La ricetta neoliberista prevede dei tetti al debito pubblico – di
frequente stabiliti al 60% del Pil, come nel caso dell’Eurozona – da perseguire
attraverso privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica, nonostante la teoria
economica preveda scarse indicazioni riguardo al livello ottimale del debito
pubblico. (…). Un piano scadenzato di riduzione del debito è valido … solo se il
costo che il paese deve affrontare è sufficientemente basso; al contrario, non
comporta alcun beneficio nel caso in cui i costi siano alti, poiché per abbattere
il debito pubblico occorre alzare … la tassazione …oppure effettuare tagli alla
spesa produttiva, o peggio ancora applicare entrambe queste misure. (…). Di
fronte alla scelta tra convivere con … (il) debito pubblico, lasciando che sia la
crescita del Pil a farlo diminuire, o destinare il surplus di bilancio al suo
abbattimento, un governo con un sufficiente margine fiscale farà meglio a
seguire la prima strada. Le politiche di austerity non solo … comportano costi
per il welfare, ma danneggiano anche la domanda aggregata, aggravando così
il problema della disoccupazione. E’ stato calcolato che in media un
consolidamento del debito pari all’1% del Pil aumenta dello 0,6% il livello di
disoccupazione di lungo termine e fa crescere dell’1,5% in cinque anni il tasso
di disuguaglianza. (…). Nonostante (ciò) il Fondo monetario internazionale
continua a prescrivere ricette che includono l’austerity, senza alcun riguardo
per (i) … poveri »
Il pretesto della corruzione. Il caso dello Zimbabwe.
Alcuni esempi consentono di capire a fondo l’iniquità mefistofelica del
meccanismo dell’indebitamento. L’Uganda spende annualmente 30 dollari pro
capite per ripagare il debito ai creditori esteri mentre la spesa governativa per
la sanità è di soli 3 dollari a persona. Il 33%per cento della spesa pubblica del
Mozambico è destinata al “servizio del debito” ossia a pagare il debito estero,
mentre per l’istruzione pubblica resta soltanto il 7,9%. In molti Paesi africani
l’alimentazione dipende ormai dalle importazioni perché non esiste più
l’agricoltura locale di un tempo che garantiva la sussistenza. Nelle zone
agricole sono spariti i piccoli appezzamenti dei contadini sostituiti dal latifondo
coltivato ad un unico prodotto: quello che è richiesto dal mercato globale. Le
risorse finanziarie, in valuta pregiata, ottenute dalle esportazioni servono
tuttavia a pagare il debito, non allo sviluppo interno. Una pur leggera flessione
delle esportazioni rende insolvibile lo Stato sul versante del suo indebitamento
estero. I Paesi indebitati sono tenuti a ripagare i debiti con valuta pregiata, la
cui unica fonte significativa di approvvigionamento consiste nella esportazione
di materie prime. Il prezzo di queste è però dipendente dai “capricci” del
mercato. Quando i prezzi sul mercato scendono i Paesi più indebitati si trovano
strozzati dagli elevati interessi. L’infernale meccanismo li obbliga a restituire
più volte il capitale ottenuto in prestito mentre la valuta pregiata, che devono
introitare per far fronte al debito, costa sempre di più in rapporto al valore della
loro moneta.
Il debito contratto costringe i Paesi dell’Africa subsahariana ad impiegare circa
il 20% del loro prodotto lordo per il pagamento dei soli interessi, una cifra
maggiore di quattro volte degli investimenti nel servizio sanitario interno. Il
debito estero è un vero e proprio macigno che impedisce di impostare
qualsivoglia politica di sviluppo. Un macigno che diventa ancora più pesante
per via delle conseguenti politiche di austerità e dell’incapacità tecnica
congiunta alla corruzione di molti governi nell’amministrare i prestiti, che
spesso non vengono usati per aiutare la propria gente. E’ persino accaduto che
si siano costruiti ospedali multipiano in zone desertiche oppure che il debito sia
stato usato per acquistare armi.
La corruzione, l’incapacità amministrativa e tecnica non possono tuttavia
essere una esimente per gli Usurai Globali, come la propaganda neoliberista
pretende. L’indebitamento è sempre un arma nelle mani dei creditori che, così,
possono decidere del destino di un popolo come meglio loro aggrada, secondo i
propri interessi. Che la corruzione di alcuni governi o l’incapacità tecnica di altri
sia soltanto un pretesto per legittimare la sopraffazione del debito è stato
dimostrato dal comportamento delle Istituzione di Washington nei casi nei quali
i fondi presi a prestito sono stati correttamente utilizzati. Come, ad esempio,
nel caso dello Zimbabwe.
La Banca mondiale aveva concesso a questo Paese africano un prestito per un
totale di 646 milioni di dollari. Il governo dello Zimbabwe amministrò con
saggezza i fondi ottenuti, utilizzandoli per dare impulso alla propria economia.
Mediante una protezione, intelligente e misurata, delle proprie industrie, lo
Zimbabwe aveva conquistato l’autosufficienza alimentare ed aveva persino
diversificato la produzione destinata all’esportazione piazzando i propri vini sul
mercato europeo. Attraverso il controllo degli scambi ed un elevato livello di
spesa pubblica a favore dell’istruzione e della sanità il Paese aveva avviato un
decollo economico di tutto rilievo. I buoni risultati di questa politica economica
aveva consentito allo Zimbabwe il pagamento puntuale del debito contratto
senza chiedere dilazioni ed evitando i pesanti programmi di aggiustamento
strutturale con le loro ricette di liberalizzazioni commerciale e finanziaria, di
tagli alla spesa pubblica, di svalutazione monetaria ed aumento dei tassi di
interesse, di deflazione salariale.
La puntualità dello Zimbabwe nell’onorare i debiti non fu affatto apprezzata
dalla Banca mondiale che congelò un ulteriore prestito richiesto dal Paese.
«Non volevano che lo Zimbabwe avesse successo adottando quella che era per
loro la strategia di sviluppo sbagliata», ha spiegato Colin Stoneman, docente
della York University. L’episodio dimostra che il vero obiettivo delle Istituzioni
della Globalizzazione Finanziaria non è lo sviluppo dei Paesi del Terzo Mondo
ma soltanto l’applicazione di un paradigma economico, quello neoliberista, che
contempla – dietro un velo moralistico di “preoccupazione umanitaria” –
l’egemonia mondiale di chi crea e controlla il denaro. Il caso dello Zimbabwe
insegna che ai creditori internazionali non interessano i rimborsi quanto riuscire
a mantenere un predominio sui Paesi indebitati, siano essi del Terzo, del
Secondo o del Primo Mondo. L’usurocrazia non opera per ragioni economiche
ma, soprattutto, per ragioni ideologiche, dogmatiche, allo scopo di imporre il
neoliberismo quale unico modello di sviluppo.
Un antico rimedio sempre efficace: il Giubileo
La Chiesa, lungo i secoli è sempre stata attenta al problema
dell’indebitamento, e della sue tragiche conseguenze umane e sociali, quale
espressione del mistero di iniquità che agisce nella storia. Dai Padri della
Chiesa fino a Tommaso d’Aquino, passando per Agostino, sulla scorta delle
parole evangeliche di Cristo, il prestito ad interesse è sempre stato visto come
un male alla stregua della guerra, frutto dell’originario sviamento ontologico
dell’uomo. Come la guerra, non eliminabile in assoluto nell’attuale condizione
post-edenica dell’umanità, anche la pratica del prestito, nella prospettiva
cristiana, deve essere controllata, circoscritta, limitata. Come la guerra così
anche il prestito ad interesse è considerato un male ineliminabile a causa del
peccato ma da mettere in quarantena attraverso norme e meccanismi che
piuttosto lo costringano a funzionare con il massimo vantaggio del bene
comune ed il minimo danno alla comunità.
In questo la Chiesa è erede della tradizione biblica del giubileo «Dichiarerete
santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione del paese per tutti i
suoi abitanti…In quest’anno del Giubileo ciascuno tornerà in possesso del suo»
(Levitico 25,10 – 25,13). Il Giubileo, mediante la redistribuzione delle terre, la
remissione dei debiti e la liberazione di coloro che erano caduti in schiavitù per
debiti, offriva a tutti la possibilità di un “nuovo inizio”, di un ristabilimento di più
eque condizioni di partenza nelle relazioni sociali ed economiche. Sulla scorta
dell’Antico Testamento, la remissione dei debiti ha trovato il suo universale
sigillo finale nella preghiera sacerdotale del “Padre Nostro” insegnata da Gesù
Cristo.
Fedele a questa millenaria tradizione, la Chiesa non ha mancato di far sentire la
sua voce anche nella nostra epoca. Nel 1931 Pio XI condannava, nell’enciclica
Quadragesimo Anno, l’“imperialismo internazionale del denaro”. Sulla scia di
Pio XI, espressamente citato, nell’enciclica Populorum Progressio del 1967,
Paolo VI auspicava un cambiamento delle politiche delle Istituzioni di
Washington affinché «i Paesi in via di sviluppo non correranno più il rischio di
vedersi sopraffatti dai debiti il cui soddisfacimento finisce con l’assorbire il
meglio dei loro guadagni». Nell’enciclica Sollecitudo rei socialis, del 1987, Papa
Wojtila denunciò che il meccanismo del finanziamento internazionale, anziché
servire ad aiuto ai Paesi del Terzo Mondo, era diventato un cappio al collo dei
popoli ad esso soggetti. Nella Centesimus annus, del 1991, ancora Giovanni
Paolo II indicò chiaramente quale è il limite oltre il quale il prestito di denaro
diventa usura internazionale: «È certamente lecito – scrisse Papa Wojtila – il
principio che i debiti debbono essere pagati; non è lecito però chiedere o
pretendere un pagamento quando questo verrebbe a imporre, di fatto, scelte
politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione intere popolazioni. Non si
può pretendere che i debiti contratti siano pagati con insopportabili sacrifici».
Nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente del 1994, sempre Papa
Wojtila tornò sul problema e chiese ai cristiani di «… farsi voce di tutti i poveri
del mondo, proponendo il Giubileo come un tempo opportuno per pensare, tra
l’altro, a una consistente riduzione, se non proprio al totale condono, del debito
internazionale, che pesa sul destino di molte Nazioni». Nella Bolla di indizione
dell’Anno Santo, la Incarnationis mysterium, Papa Giovanni Paolo II tornò a
denunciare che: «Non poche Nazioni, specialmente quelle più povere, sono
oppresse da un debito che ha assunto proporzioni tali da renderne
praticamente impossibile il pagamento», dove il riferimento particolare ai
popoli più poveri allargava l’orizzonte anche alle nazioni del Primo Mondo,
segno che già in quel momento si andava delineando quel che, dopo la crisi del
2008, è palese a tutti ossia che il Potere Internazionale del Denaro non impone
un dominio dei popoli ricchi sui popoli poveri quanto invece il dominio mondiale
dei ceti capitalistici ovvero il dominio globale della Finanza Apolide ed
Autoreferenziale su tutti i popoli del mondo. Come profeticamente annunciato,
quale segno imminente dei Tempi Ultimi, in Apocalisse, 13 – 16,17 «Faceva sì
che tutti … ricevessero un marchio … e che nessuno potesse comprare o
vendere senza avere quel marchio…».
Quando, però, si parla di Potere Internazionale del Denaro è necessario aver
chiara consapevolezza che non è possibile riconoscere a dette Istituzioni della
Globalizzazione il ruolo di interlocutore moralmente e politicamente legittimo.
Questa consapevolezza spesso manca oggi nella stessa Chiesa cattolica che
continua a rivolgersi a quelle Istituzioni, create a tutela dei “mercati finanziari”
e non certo dei popoli, nella speranza vana di indurne un cambiamento di
paradigma e di comportamento.
In un recente il documento sulla finanza predatoria la Congregazione per la
Dottrina della Fede ha indicato alcune vie risolutive. Tra esse il ripristino di
normative regolatrici e “repressive” della finanza speculative sul modello del
Glass Steagall Act, a suo tempo introdotto negli anni ’30 da Roosevelt, o della
legge bancaria italiana del 1936. Un limite, notevole, a nostro giudizio, lo si
riscontra verso la fine del documento in questione, dal n. 32 in poi, dove
parlando del debito pubblico non si fa alcun accenno al fatto che esso è
determinato, in primis, dalla perdita da parte degli Stati della sovranità sulla
moneta, che in una situazione di normalità non è creata dai mercati ma
appunto dagli Stati, sicché quando, come avviene oggi, sono i mercati ad
essere padroni dei meccanismi di creazione monetaria, è evidente che si
rovesciano i rapporti naturali costringendo gli Stati a chiedere moneta agli
“investitori” (rectius “speculatori”).Tuttavia, nonostante questa svista, il
documento è ben impostato nella parte tecnica, dove è chiaramente
riconoscibile il fondamentale contributo di un competente e valido economista
quale Leonardo Becchetti. Ma ad una parte tecnica molto ben elaborata,
corrisponde more solito, nella parte teologico-morale, un linguaggio,
tipicamente postconciliare, troppo conciliante. Si parla di “comitati etici”, di
“operatori finanziari responsabili”, di “finanza auto-responsabile”, che è come
chiedere esercizi di virtù coniugale alla moglie fedifraga. Un linguaggio più
anatemico – sul tipo di quello del catechismo di san Pio X (“defraudare la
mercede agli operai è peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”) o di
quello di Pio XI (“funesto ed esecrabile imperialismo bancario o imperialismo
internazionale del denaro” – Quadragesimo Anno, 1931) non guasterebbe
affatto. L’atteggiamento meno anatemizzante di un tempo non è per niente
efficace, neanche verso i fedeli. Essere Madre non significa essere permissivi.
Una buona Madre, per il bene dei suoi figli, deve essere giustamente esigente
ed anche, se necessario, intransigente, pur considerando i limiti imposti dalla
fragilità umana.
Tornare ad usare lo stile duro dell’anatema, come usava in altri ambiti in
passato, iniziando dal chiamare i “mercati” con il nome più appropriato di
“usurai mondiali” servirebbe a meglio rafforzare le difese anche spirituali dei
cristiani. A chi obietta che, così, la Chiesa rischierebbe uno scontro epocale,
mentre il linguaggio ora usato è più prudente e realistico, si deve ricordare da
un lato che Essa ha per missione quella di contendere con il “mondo”, nella
prospettiva di vincerlo con Colui che il “mondo” ha già vinto, e dall’altro lato
che non è meno realistico prendere atto che chi controlla il denaro – salvo casi
personali nei quali la Grazia potrebbe portare ad una trasformazione del cuore
– non cederà mai con le buone il suo potere e che piuttosto, al fine di non
perdere la faccia di fronte all’opinione pubblica, ricorrerebbe al mascheramento
per nascondere il volto della propria iniquità e continuare impunemente a
strozzare i popoli.
Ne abbiamo la riprova sperimentale. Alla fine del secolo scorso una rumorosa
campagna propagandista, orchestrata da diverse “organizzazioni umanitarie”
che fecero leva anche sulle denunce della Chiesa, nella prospettiva del
proclamato “Giubileo del 2000”, indusse le Istituzioni Finanziarie Mondiali ad
annunciare, nel 1995, un programma di alleggerimento, fino all’80% fu
dichiarato, del debito estero dei Paesi indebitati. Il programma fu denominato
Heavily indebted poor countries (HIPC). Ma in cosa consistette detto
programma e quali infingimenti esso nascondeva lo spiega bene questo
commento della rivista specializzata “Aggiornamenti Sociali” del settembre –
ottobre 1999
«Le iniziative fin qui assunte – si legge nel commento – dalla comunità
internazionale non si sono dimostrate capaci di interventi significativi per la
riduzione se non cancellazione del debito. La più recente iniziativa lanciata nel
1996 è quella denominata HIPC (Heavily Indebted Poor Countries): promossa
dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale si rivolge ai paesi
più poveri con l’intento di rendere “sostenibile” il pagamento di una quota
ridotta del debito contratto, coinvolgendo le tre principali categorie di creditori
(creditori commerciali, essenzialmente le banche private, creditori bilaterali,
vale a dire i paesi ricchi e creditori multilaterali, le istituzioni finanziarie
internazionali, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in primo
luogo). Essa coinvolge i c.d. Club di Parigi e Club di Londra, che riuniscono i
creditori pubblici e privati e prevede un intervento di riduzione del debito fino
all’80% per i paesi che abbiano un debito dichiarato insostenibile in base a due
parametri: un rapporto costo annuale del debito estero/esportazioni superiore
al 25% ed un rapporto valore totale del debito/esportazioni superiore al 250%. I
limiti di questa pur importante iniziativa si sono tuttavia dimostrati troppo
pesanti. Troppo ristretto è il numero dei paesi che possono partecipare
all’iniziativa, avendo le caratteristiche per poter accedere alla riduzione del
debito: sui 41 paesi più poveri solo 20 avrebbero le caratteristiche per
accedere ma finora solo sei hanno potuto concretamente avviare le trattative e
solo uno sta godendo delle agevolazioni. Troppo lungo è il tempo di attesa per
poter avere concretamente delle agevolazioni: prima di poter usufruire della
riduzione i paesi devono sostenere per un lungo tempo (fino a sei anni) un
periodo di osservazione e controllo, durante il quale devono dimostrare di aver
applicato con successo le politiche di risanamento concordate con il Fondo
Monetario Internazionale e nel frattempo continua a crescere il peso del
servizio del debito. Troppo ristretto è il concetto di sostenibilità del debito,
definendo debito sostenibile un debito che di fatto richiede un impiego di
risorse che comporta necessariamente una limitazione fortissima delle politiche
sociali e di sviluppo. Infine lo stretto legame esistente tra la possibilità
dell’ammissione all’intervento di riduzione del debito e le politiche di
aggiustamento strutturale (PAS) richieste dal Fondo Monetario Internazionale:
si tratta di programmi che di fatto intervengono sulle politiche interne di un
paese, limitandone l’autonomia, decise in modo non trasparente e sotto
controllo democratico, applicando ricette economiche che non tengono conto
delle specificità dei singoli paesi, con effetti devastanti sulle politiche sociali,
richiedendosi tagli consistenti della spesa pubblica: divengono necessari il
ridimensionamento dei programmi di istruzione, di sanità, licenziamenti nel
settore pubblico, abbandono di investimenti, ecc. Il debito diventa
teoricamente sostenibile dal punto di vista finanziario, ma si compromette il
futuro del paese; i piani di aggiustamento strutturale non dovrebbero avere una
dimensione pienamente finanziaria, ma tener conto che politiche di
miglioramento del livello di vita della popolazione, sotto il profilo sanitario,
dell’alimentazione e dell’istruzione e politiche di promozione della piccola
imprenditorialità sono risorse per il futuro che consentendo lo sviluppo
dell’economia sia pure nel lungo periodo diventano presupposti per un reale
risanamento delle economie dei paesi poveri. Il limitato successo conseguito
finora dallo strumento HIPC è riconosciuto del resto dalle stesse istituzioni
finanziarie internazionali: in un recente rapporto Banca Mondiale e FMI
riconoscono che “i pagamenti per il servizio del debito dopo aver ricevuto
l’assistenza HIPC non sono significativamente differenti da quelli in corso nel
periodo anteriore all’ammissione all’intervento”. L’intervento finora
programmato porterà ad una riduzione del servizio del debito di soli 200 milioni
di dollari per anno, vale a dire l’1% di quanto pagano ogni anno per il servizio
del debito i 93 paesi più povero ed indebitati. Il rapporto mette anche in luce
come stiano peggiorando le condizioni dei paesi più poveri sotto un altro
profilo: nel 1994 i paesi HIPC hanno ricevuto nuovi prestiti per 8,3 miliardi di
dollari, restituendo 7 miliardi di dollari, avendo quindi un credito aggiuntivo di
1,3 miliardi di dollari oltre ad aiuti per 10 miliardi di dollari; nel 1997 i nuovi
prestiti assommano a 8,7 miliardi di dollari, a fronte di pagamenti per il debito
di 8,2 miliardi di dollari, con una perdita di 200 milioni di dollari, da sottrarre
agli aiuti ricevuti per 7,6 miliardi di dollari: in sostanza in tre anni il rapporto di
dare ed avere tra paesi poveri e paesi ricchi è peggiorato del 34%».
Chiunque abbia mai avuto a che fare con la propria banca onde concordare con
essa condizioni di maggior sostenibilità di un mutuo sa benissimo come la
banca, sempre così disponibile quando si tratta di concedere un prestito,
diventa all’improvviso restia se non dura nell’opporsi a qualsivoglia
ristrutturazione del debito che non si risolvi, in sostanza, in un mero maquillage
dell’operazione iniziale, senza effettive rinunce dalla parte del creditore.
Quindi con il potere finanziario non c’è altra alternativa che l’uso della forza
repressiva. Una forza che solo gli Stati, concertando tra loro mezzi e modalità,
possono efficacemente esercitare.
L’era oscura dell’umanità
E’ iniziata un’era oscura per tutti i popoli del mondo, l’era dell’indebitamento
globale.
Il FMI dal 1987 ha ricevuto dai Paesi africani 2,4 miliardi di dollari in più di
quanto ha effettivamente dato agli stessi Paesi. Nel solo 1997 le istituzioni
finanziarie internazionali hanno incassato 272 miliardi di dollari in interessi e
rate di ammortamento del debito estero. Le condizioni alle quali sono concessi i
prestiti – altissimi tassi di interesse e mancanza di diritti per il debitore – se
praticate da una qualsiasi banca all’interno degli Stati del Primo Mondo
sarebbero immediatamente dichiarati in sede giudiziaria di carattere usuraio.
Generalmente i tassi di interesse che sono applicati ai Paesi poveri sono
almeno quattro volte superiori a quelli accordati ai Paesi occidentali. La
giustificazione avanzata è nella minore solvibilità e nel maggior rischio nel
prestare ai Paesi del Terzo Mondo. In realtà, se davvero fossero queste le
giustificazioni, i prestatori internazionali non dovrebbero neanche pensare di
far prestiti il cui rimborso, da parte di economie che non hanno la possibilità di
sostenere un onere così rilevante, è sicuramente inattendibile. Chi mai
presterebbero ad uno spiantato il proprio denaro? Pertanto le motivazioni
devono essere cercate altrove ed esattamente nella volontà delle Istituzioni
della Finanza Globale di estendere su scala mondiale un dominio attraverso la
creazione ed il controllo del denaro. Un dominio che – come già osservato – con
la crisi del 2008 abbiamo iniziato a vedere all’opera anche sulla pelle dei popoli
occidentali, sicché non possiamo continuare, come in genere fanno i cosiddetti
“terzomondisti”, a trattare del problema alla stregua di una egemonia dei Paesi
ricchi su quelli poveri. Qui si tratta dell’egemonia mondiale del capitalismo
finanziario sull’intero pianeta. Alla distruzione delle economie sottoposte alla
austerità da indebitamento, il Potere Mondiale del Denaro fa fronte con il
meccanismo di nuovi prestiti per rimborsare prestiti precedenti, in un
ininterrotto ciclo di indebitamento perpetuo, reso possibile dal fatto che governi
e popoli hanno ceduto la propria sovranità monetaria, ossia il controllo delle
procedure di creazione ex nihilo del denaro, alle Istituzioni della
Globalizzazione.
Allo scopo di rientrare nei parametri del Trattato di Maastricht, il governo
italiano dell’epoca, guidato dalla sinistra di Romano Prodi, nel 1999 impose agli
italiani una manovra di bilancio “lacrime e sangue”, un sacrificio di 60.000
miliardi delle vecchie lire. Dopo quasi vent’anni è possibile dire che quello fu un
sacrificio per incaprettare la nazione secondo i paradigmi dell’usurocrazia
transnazionale. L’Italia, come qualsiasi Stato occidentale, vedrebbe andare in
frantumi il sistema di welfare, o quel che ne rimane, costruito nel suo passato
da intere generazioni con il proprio duro lavoro, se dovesse affrontare ogni
anno una manovra economica di queste dimensioni, con aumenti della
pressione fiscale, licenziamenti massicci nel settore pubblico e tagli drammatici
della spesa sanitaria, educativa ed assistenziale. Ebbene questo è esattamente
lo scenario che gli Organismi di Washington impongono da decenni ai Paesi del
Terzo Mondo.
Nel 1980 il debito estero dei paesi in via di sviluppo assommava a 658 miliardi
di dollari Usa, nel 1990 era salito a 1.539 miliardi di dollari ed oggi si calcola
che il debito abbia raggiunto la somma di 2.200 miliardi di dollari, vale a dire
circa il doppio del prodotto interno lordo dell’Italia. La dinamica in crescendo
delle cifre del debito internazionale sono la spia dell’allargarsi di profonde
disparità non solo tra i singoli Paesi del mondo ma anche tra l’élite globale ed il
resto dell’umanità. I processi di globalizzazione, commerciale e finanziaria, non
stanno affatto portando ad una crescita più equilibrata per tuti. Le promesse
dei globalisti si stanno rivelando false nello stile del loro ispiratore, colui dal
quale in Gv. 8,44 ci è stato raccomandato di guardarci.
Oltre 80 paesi hanno redditi pro-capite più bassi di quelli che avevano dieci
anni fa, una famiglia media africana consuma oggi il 20% in meno rispetto a 25
anni fa. Il divario di reddito tra il quinto più ricco della popolazione mondiale ed
il quinto più povero si sta accrescendo spaventosamente. Nel 1960 era di 30 a
1, nel 1997 era già al 74 a 1, oggi è al 95 a 1. Cresce anche la concentrazione
della ricchezza. I 200 personaggi più ricchi al mondo hanno più che
raddoppiato il proprio patrimonio negli ultimi anni. Essi, con oltre 1.000 miliardi
di dollari USA, posseggono un patrimonio pari al reddito del 41% della
popolazione mondiale. I paesi OCSE con il 19% della popolazione globale
controllano il 71% del commercio globale di beni e servizi, il 58% degli
investimenti diretti esteri. La globalizzazione ha creato uno scenario nel quale,
mediante la rete transnazionale, soggetti privati contano più di singoli Stati e
nel quale l’esasperata logica della competizione globale genera situazioni di
instabilità finanziaria, scontri commerciali, rapporti di egemonia, violazione dei
diritti dei popoli, che sono le premesse per le guerre del futuro. O per la Guerra
del Futuro.
L’Anomos proprio a questo mira, alla distruzione dell’Opera Magna della
Creazione perché essa riflette la Bellezza e la Bontà del Creatore.

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