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prima parte
seconda parte
Dinamiche dell’indebitamento
A permettere che le istituzioni finanziarie internazionali, espressione del Potere
Finanziario Globale, assurgessero ad un dominio coercitivo totale sulla politica e
l’economia di Stati sovrani è stato l’indebitamento di questi ultimi, causato
dalla diffusa ignoranza dei processi di creazione della moneta, base del credito.
Come ci ricorda opportunamente la Bifarini, il sistema è oggi lo stesso tanto nel
Terzo che nel Primo Mondo. In Occidente, il carattere mediato che, fino ad un
decennio fa, prima della crisi del 2008, ne nascondeva il volto feroce sotto
parvenze di solidarietà umanitaria e dietro la promessa di un futuro mondiale di
pace, benessere e felicità illimitata, sta svanendo del tutto in questi nostri anni.
Agli Stati, privati della sovranità monetaria e non più in grado di creare essi
moneta, non è lasciata altra possibilità, per sovvenire ai propri bisogni
finanziari, che chiedere prestiti. Ma questi prestiti sono accompagnati da
“condizionalità”, ossia dalla coatta adesione da parte degli Stati, soprattutto se
in difficoltà, ad aggiustamenti strutturali che consistono nell’indiscriminata
apertura agli investimenti esteri, nelle liberalizzazioni e privatizzazioni, in tagli
alla spesa pubblica, in politiche di forte contenimento salariale, nel divieto al
fine incentivare il liberoscambismo mondiale di produzione autarchica di
quanto sarebbe possibile produrre in casa, nella spinta alla riorganizzazione
dell’economia nazionale in economia di esportazione in modo che ciascun
popolo produca ed esporti ciò per cui ha un “vantaggio competitivo” e poi con i
proventi di tale commercio mondiale importi tutto il resto comprandolo sul
mercato mondiale anziché produrlo in proprio.
Il libero scambio è un tipo di politica economica che ben si adatta ai sistemi
coloniali, perché consente la dipendenza delle economie più deboli da quelle
più forti dato che il mercato è per sua natura essenzialmente asimmetrico. Gli
storici dell’economia conoscono molto bene il fenomeno per il quale agli inizi di
qualsiasi decollo economico – è successo anche per l’Inghilterra della
Rivoluzione Industriale nel XVIII secolo – c’è sempre il protezionismo. Esso
viene gradualmente meno, o si fa semplicemente più selettivo, senza mai
scomparire del tutto, soltanto nelle fasi successive della modernizzazione
economica. Un’economia matura ed equilibrata è sempre un mix tra protezione
e libero scambio, tra import/export da un lato e produzione interna autarchica
dall’altro. Il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) riconosceva il
cosiddetto “diritto alla protezione asimmetrica” per i Paesi in via di sviluppo. Il
WTO (World Trade Organization) vieta il protezionismo sotto qualsiasi forma.
Come, dunque, accade agli inizi di ogni processo di modernizzazione, anche nei
Paesi ex coloniali, già a partire dagli anni ’30 del XX secolo, in contemporanea
con l’affermarsi di una rinnovata coscienza nazionale ed il conseguente
svilupparsi di movimenti di liberazione a carattere sociale e nazionale, si era
formato un primo embrione di industria nazionale che aveva assoluto bisogno
di protezione dal dumping estero. Nel dopoguerra, quando il processo di
decolonizzazione ebbe ulteriori sviluppi, i Paesi ex coloniali, sostenendo questa
esigenza di protezione, adottarono politiche di tipo autarchico volte ad ottenere
l’“industrializzazione per sostituzione” (ISI, Import Substituting
Industrialization). Le merci importate furono sostituite con produzioni interne
allo scopo di tutelare, dalla concorrenza internazionale, l’industria nascente e
l’avvio dello sviluppo economico. L’Argentina di Juan Domingo Perón ne fu
l’esempio migliore. La politica autarchica procurò, a molti Paesi ex coloniali, un
periodo di crescita fino ad allora mai visto, con conseguente relativo benessere.
Si parlò di “rivoluzione industriale del Terzo Mondo”, il quale, sebbene a tassi
modesti dell’1%-2% annuo, crebbe fino agli anni settanta.
A partire da quel decennio il neoliberismo riprese forza accademica, pseudo-
scientifica, politica ed economica come conseguenza della crisi energetica che
investì tutto l’Occidente. Il blocco delle forniture di greggio da parte dei Paesi
produttori del Medio-Oriente, quale ritorsione contro l’appoggio dell’Occidente
ad Israele nel suo contenzioso con il mondo mussulmano, provocò un forte
aumento del prezzo del petrolio, la cui produzione e commercializzazione subì
una notevole rarefazione sui mercati, innescando un’altissima inflazione sui
prezzi al consumo dei beni in tutto il mondo industrializzato.
Si giunse, per tale via, alla Crisi del Debito del Terzo Mondo (1982) che cambiò
completamente la politica creditizia, fino ad allora sostenibile, che le Istituzioni
Finanziarie Globali avevano praticato verso i Paesi in via di sviluppo. Il
cambiamento della politica creditrice, nei confronti di questi Paesi, li costrinse
ad un inarrestabile processo di rimozione dei dazi commerciali, di
liberalizzazioni ed accordi di libero scambio, di privatizzazioni e misure di
riduzione della spesa pubblica destinata ai già carenti servizi locali. I “Piani di
aggiustamento strutturale”, cui furono sottoposti i Paesi in via di sviluppo a
partire dagli anni ’70, furono la prova generale delle analoghe politiche che il
Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, con la crisi del 2008,
hanno iniziato a praticare apertamente, insieme alla Bce ed alla Commissione
Europea (la cosiddetta Troika), anche verso gli Stati dell’Unione Europea in crisi
finanziaria, come nel caso della Grecia.
Le tappe di un percorso storico. Il Washington Consensus.
Onde meglio comprendere quanto è accaduto, negli ultimi cinquant’anni, è
necessario approfondire il percorso storico che ha portato alla tragica svolta in
questione.
Nel 1973, come si è detto, esplode lo shock petrolifero. L’impennata del prezzo
del petrolio produsse un’alta inflazione nei Paesi consumatori ossia in
Occidente. Contrariamente a quel che sostengono i monetaristi, non è
l’aumento della massa monetaria a precedere l’aumento dei prezzi ma è
l’aumento dei prezzi a provocare l’aumento della massa monetaria, sicché
l’inflazione non è mai un fenomeno dipendente dalla quantità di moneta in
circolazione che piuttosto segue la tendenza al rialzo, per fattori esogeni, dei
prezzi dei beni. La massa monetaria (petroldollari), generata dall’aumento del
prezzo del greggio, affluì nei Paesi esportatori di petrolio provocando una
caduta dei tassi di interesse sul mercato finanziario internazionale. Il denaro
rendeva meno ai suoi detentori che, quindi, avevano urgente necessità di
trovare nuovi sbocchi di investimento speculativo per l’enorme massa
monetaria generatasi. I “mercati” iniziarono allora a guardare al Terzo Mondo
con le sue potenzialità in ascesa ed, in quel momento, ancora in gran parte
inespresse.
Fu così che gli “investitori” – che in realtà sono sempre e solo “speculatori” –
iniziarono a finanziarie, ma a tassi di interessi sostenuti, programmi di
industrializzazione. I Paesi in via di sviluppo, con la copertura delle proprie
Banche Centrali le quali, sulle piazze finanziarie internazionali, garantivano la
sostenibilità del costo per interessi, si erano finanziati, fino a quel momento, da
un lato, mediante emissioni di prestiti obbligazionari e, d’altro lato, con gli aiuti
erogati dal Fondo Monetario Internazionale ancora operante sulla base del
paradigma keynesiano del prestito quasi gratuito. A partire dagli anni ’70, i
finanziamenti privati delle grandi banche d’affari internazionali, in cerca di
sbocchi per la massa di petroldollari, iniziarono a sostituirsi sia ai prestiti
obbligazionari sia agli aiuti internazionali. Il mercato privato del credito
soppiantò quello pubblico esponendo le economie in via di sviluppo del Terzo
Mondo alla speculazione finanziaria apolide.
Il mondo non aveva ancora superato il primo shock petrolifero quando nel 1979
ne esplose un secondo. Il costo del greggio schizzò di circa venti volte rispetto
a quello già aumentato nel 1973. Ne conseguì una nuova recessione mondiale
che provocò un crollo della domanda di materie prime che costituivano la
principale voce delle esportazioni dei Paesi in via di sviluppo. Il rallentamento
della produzione industriale nel Primo Mondo causò un calo della necessità di
approvvigionamento delle materie prime esportate dal Terzo Mondo. Di
conseguenza la bilancia dei pagamenti, con l’estero, dei Paesi in via di sviluppo
peggiorò considerevolmente costringendo gli stessi ad un forte indebitamento
nei confronti dei mercati finanziari internazionali al fine di sostenere il proprio
fabbisogno monetario.
Tra il 1973 ed il 1982 per i Paesi del Terzo Mondo, non produttori di petrolio, il
debito estero aumentò di circa 500 miliardi di dollari e, mentre essi perdevano
quel poco di sviluppo conseguito negli anni della decolonizzazione, le banche
d’affari internazionali ne approfittarono per legarli a nuovi prestiti.
Contemporaneamente gli Stati Uniti, agli inizi degli anni ’80, rivalutarono la loro
moneta come conseguenza della nuova politica monetarista di rialzo dei tassi
di interesse a scopo anti-inflattivo. I Paesi del Terzo Mondo avendo a suo tempo
contratto i propri debiti in dollari ne videro aumentare il valore in modo non più
sostenibile. Nel 1982 fecero default il Messico ed il Brasile, impossibilitati a
ripagare un debito ormai fuori controllo e si profilò il serio rischio di un contagio
sistemico a catena che avrebbe portato al collasso mondiale. Una cancellazione
dei crediti diventati inesigibili avrebbe scatenato il caos sui mercati finanziari
internazionali.
Fu in questo momento che intervennero il Fondo Monetario Internazionale ed il
suo braccio operativo, la Banca Mondiale. Si trattò di un intervento inteso a
rinegoziare gli accordi del debito contratto attraverso nuovi finanziamenti e
piani di restituzione. Ma, nel frattempo, in Occidente era completamente
cambiato il paradigma economico dominante. Le due crisi petrolifere e la
conseguente alta inflazione, con il fenomeno nuovo della cosiddetta
“stagflazione” (alta inflazione congiunta ad alta disoccupazione: uno scenario
inedito secondo la prospettiva keynesiana per la quale tra inflazione e
disoccupazione c’è un rapporto inversamente proporzionale, sicché alta
inflazione si accompagna al pieno impiego) causarono il rigetto del paradigma
keynesiano, fino ad allora vigente, in favore del monetarismo che un professore
di Chicago, Milton Friedman, riaggiornando le tesi liberiste classiche e
neoclassiche, abbandonate dai tempi di Keynes, andava riproponendo e che
trovarono avvallo politico nella destra repubblicana americana di Ronald
Reagan e nel conservatorismo inglese di Margaret Thatcher. I Chicago Boys
furono anche i consulenti delle più feroci dittature militari sudamericane, in
economia iper-liberiste, come quella cilena di Pinochet.
La svolta paradigmatica trovò consacrazione sotto il nome di “Washington
Consensus”. L’espressione fu coniata nel 1989 dall’economista J. Williamson
per sintetizzare i nuovi principi economici ai quali le Istituzioni Finanziarie
Globali, nate a Bretton Woods e sopravvissute alla fine dei relativi accordi,
avvenuta nel 1971, si sarebbero d’ora in avanti ispirate perché ritenuti la
panacea per la soluzione dei problemi dell’America Latina, dell’Africa e
dell’Asia.
«Oltre ai soliti Fondo monetario internazionale e Banca mondiale – scrive Ilaria
Bifarini – prende parte all’iniziativa anche il Dipartimento del tesoro degli USA.
Un filone della letteratura economica fa coincidere con questo evento la nascita
dell’economia neoliberista (…). Con il termine “consensus” si intende un
pacchetto di dieci linee strategiche in materia economica da applicare in modo
ortodosso e indiscriminato. In ottemperanza ai principi del libero scambio
vengono prescritte la liberalizzazione del commercio e delle importazioni, la
totale apertura agli investimenti provenienti dall’estero e la deregulation, con
l’obiettivo di abolire quelle regole che ostacolano l’ingresso nel mercato e
frenano la competitività. Al fine di contenere le spese dello
Stato (ideologicamente ed erroneamente considerato) naturale nemico del …
mercato, sono inoltre previste delle regole molto stringenti per quanto riguarda
la politica fiscale e il deficit di bilancio, che prevedono limiti alla spesa pubblica
e incentivi alla privatizzazione delle aziende statali. Una linea specifica è
dedicata alla tutela del diritto della proprietà privata. Sul fronte tributario viene
invece raccomandato di allargare la base fiscale e abbassare le aliquote
marginali. Infine, le ultime due linee riguardano rispettivamente la politica dei
tassi di interesse, finalizzata a tenere bassa l’inflazione (una delle ossessioni
della dottrina neoliberista), e quella dei tassi di cambio, che devono essere
liberamente determinati dal mercato» (pp. 73-74).
Quando, dunque, le Istituzioni di Washington intervennero, per sedare la Crisi
da Debito del Terzo Mondo, il paradigma era completamente cambiato ed i
Paesi del Terzo Mondo, onde ricevere i prestiti del Fondo Monetario
Internazionale ed essere da esso sostenuti nella rinegoziazione dei debiti
contratti, dovettero soggiacere ai già citati “Piani di Aggiustamento Strutturale”
(PAS) ossia a programmi di sostegno condizionati da misure economiche di
stampo liberista. Gli Stati che si fossero sottomessi alle condizionalità imposte
dal Fondo Monetario Internazionale avrebbero goduto dei prestiti. Attraverso
detti Piani di Aggiustamento sono state imposte politiche economiche orientate
alla totale apertura al libero scambio, senza nessun riguardo per lo sviluppo
dell’industria locale. Il dogmatismo neoliberista più fondamentalista – lotta
all’inflazione, al debito pubblico, tagli alla spesa pubblica e ai già carenti servizi
statali – è stato calato dall’alto sui più poveri del mondo. Nel più assoluto
silenzio mediatico – all’opinione pubblica mondiale è stata raccontata la
barzelletta umanitaria delle Ong – il Fondo Monetario Internazionale e la Banca
Mondiale hanno fatto in Africa, con decenni di anticipo, quello che la Troika ha
fatto più tardi, nel 2015, in Grecia.
Un meccanismo perverso. Nasce la finanziarizzazione dell’economia.
Ben presto però, per il meccanismo perverso proprio ad ogni indebitamento, gli
Stati iniziarono a pagare più per la quota interessi, sempre in crescendo, che
per la quota capitale. La soluzione della crisi del debito provocò un ulteriore
indebitamento. I nuovi prestiti concessi per rimborsare il vecchio debito,
causarono un ulteriore aumento dell’ammontare del debito. Dai Paesi del Terzo
Mondo iniziarono a partire verso il Nord del mondo e l’Occidente ingenti flussi
di risorse finanziarie. Tra il 1982 ed il 1990 i Paesi poveri hanno pagato, per
“servire il debito”, circa 1.350 miliardi di dollari, ai propri creditori, a fronte di
circa 930 miliardi di dollari ricevuti in prestito. Un flusso netto di 400 miliardi di
dollari che ha portato il debito pubblico del Terzo Mondo molto al di sopra del
60% del Pil, facendo aumentare in modo drammaticamente drastico il potere
dei creditori sui debitori.
Tutto questo ha avuto anche un forte influsso sullo stile delle economie
occidentali. L’impennata dei tassi di interesse e la facilità di speculare
assicurata dalla liberalizzazione dei capitali ha indotto sempre più gli
“investitori” a preferire il mercato finanziario piuttosto che l’economia reale.
Perché mai affrontare i rischi di una impresa industriale quando si possono fare
profitti molto più alti speculando, nel mercato finanziario, sulla pelle dei popoli?
E’ nata così la cosiddetta “finanziarizzazione dell’economia”.
Attraverso la concessione di prestiti per il risanamento del debito, il Terzo
Mondo è entrato nella spirale perversa del rimborso degli interessi che
superano l’ammontare del debito originario. Secondo alcuni calcoli per ogni
dollaro prestato ne sono restituiti tredici. Questa spirale perversa nei Paesi del
Terzo Mondo ha arricchito l’élite locale e la nuova borghesia, rappresentanti
degli interessi esteri, ed ha contemporaneamente aumentato il tasso di
disuguaglianza e il livello di povertà della popolazione, alla quale pertanto non
rimane che espatriare.
In realtà le misure economiche imposte dagli organismi internazionali al Terzo
Mondo – e a seguito della crisi del 2008 ora anche al Secondo e al Primo Mondo
– servono soltanto a garantire il perpetuarsi del sistema capitalistico terminale
ossia quello caratterizzato dalla finanziarizzazione globale. L’Usura
Internazionale vive nell’illusione di poter crescere all’infinito prosperando sui
debiti. Un cristiano attento, non legato alle sole pur lodevoli e necessarie
devozioni, e conoscitore della Rivelazione, in particolare sotto il profilo della
Teologia della Storia della Salvezza, non può non riconoscere in tutto questo
l’emergere senza più veli del Potere Mondiale dell’Anticristo. Un Potere, come
profetizzato in Apocalisse 13 – 16,17, fondato sull’Indebitamento Globale. Il
sistema che Ezra Pound chiamava “Usurocrazia”.
Questo Potere Maligno è ormai globale perché è oggi evidente a tutti che le
stesse misure che hanno condannato l’Africa alla povertà endemica, e ad un
sottosviluppo senza via d’uscita, sono puntualmente riproposte in tutto il modo,
compreso l’opulento Occidente ad iniziare dall’Unione Europea. Come nel Terzo
Mondo anche in Europa si è strumentalizzato il debito per imporre l’austerity
neoliberista. Come in Europa anche nel Terzo Mondo si sperimenta l’adozione di
unioni monetarie, ad esempio, in Africa, il franco CFA, di cui diremo. Come dal
Terzo Mondo emigra la fascia più giovane della popolazione, alla ricerca di
nuove speranze, anche da nazioni europee come l’Italia sono finora emigrati
almeno mezzo milione di giovani nell’ultimo decennio. Se il Potere Unico del
Denaro non sarà abbattuto assisteremo alla “terzomondizzazione” del mondo
intero, al trionfo della globalizzazione della miseria da indebitamento.
«Faceva sì … che nessuno potesse comprare o vendere senza avere quel
marchio …», per l’appunto!
Effetti concreti dei Piani di Aggiustamento Strutturale.
L’applicazione dei PAS ha letteralmente sconvolto l’economia dei popoli che vi
sono stati assoggettati. Vediamone alcuni effetti.
Il libero scambio ha aggravato il deficit commerciale con l’estero dei Paesi del
Terzo Mondo ed i conseguenti squilibri finanziari. Laddove la produzione
autarchica consentiva di limitare l’indebitamento estero, l’importazione di beni
di consumo, spesso a caro prezzo, in sostituzione di quelli nazionali, ha
costretto quei Paesi a ricorrere in misura sempre crescente ai prestiti
internazionali. Al fine di favorire le esportazioni della produzione agricola, i
Paesi del Terzo Mondo, soggetti ai PAS, oltre a svalutare la moneta, sono stati
costretti a contrarre i consumi locali ossia a ridurre alla fame le proprie
popolazioni. L’alluvione sul mercato internazionale di materie prime e prodotti
non lavorati, conseguenza dell’induzione dei Paesi poveri alla politica
economica di esportazione, ha fatto crollare i prezzi di tali materie, sicché
l’obiettivo ipotizzato dal Fondo Monetario Internazionale, per il quale le
esportazioni avrebbero consentito l’accumulo per quei Paesi di capitali da
investire nello sviluppo industriale, non si è affatto realizzato.
I Piani di Aggiustamento Strutturale hanno riproposto il sistema di sfruttamento
che regolava i rapporti tra l’Inghilterra e le sue colonie nel quadro libero-
scambista, asimmetrico, del “Commonwealth” (il termine Commonwealth
significa, per ironia della sorte, “benessere comune” e fu coniato da Oliver
Cromwell, il dittatore puritano, stragista e macellaio).
Come ci spiega nel suo libro la Bifarini, soppressa ogni propensione
all’industrializzazione per sostituzione, l’attuale economia del Terzo Mondo è
completamente dipendente dalle esportazioni agricole e, per questo, molto
sensibile ai cambiamenti dei prezzi dei beni di consumo ed al cambio
monetario. Attualmente le economie del Terzo Mondo sono basate su una o
poche produzioni agricole e sono quindi del tutto dipendenti dalle esportazioni.
Molti Stati africani – tra di essi Angola, Burundi, Congo, Guinea, Niger, Somalia,
Zambia, Nigeria, Botswana, Gabon, Uganda – vivono della produzione ed
esportazione di un solo prodotto che rappresenta almeno il 75% delle loro
entrate. Altri – tra essi Zimbabwe, Gambia, Sudafrica, Lesotho, Tanzania –
producono ed esportano non più di quattro produzioni locali. Il commercio
agricolo africano è per tre quarti verso i Paesi occidentali. Ogni variazione del
livelli dei prezzi sul mercato internazionale, pertanto, si trasforma in una
tragedia per detti Paesi, in sicura carestia.
Questo rischio endemico è stato aggravato dalle draconiane misure imposte,
con i PAS, dal Fondo Monetario Internazionale. Dette misure costringono i Paesi
del Terzo Mondo, indebitati, ad utilizzare le risorse finanziarie derivanti
dall’esportazione delle loro mono-produzioni per il pagamento del debito
estero, a danno di qualsiasi possibilità di accumulazione interna di capitale e,
quindi, di sviluppo locale. Sono state, pertanto, le stesse “condizionalità” a
porre le basi dell’immancabile fallimento dei PAS. Il Fondo Monetario
Internazionale ha finito per alimentare una assurda spirale deflattiva che ha
condotto direttamente alla riduzione degli investimenti e dei consumi. Il
Malawi, nel 2002, come ci dice la Bifarini, è stato devastato da una gravissima
carestia provocata dall’esportazione pressoché totale delle scorte di grano del
Paese in ossequio al solito PAS suggerito, ovvero imposto, dal Fondo Monetario
Internazionale. Dietro la solita giustificazione ufficiale della crescita e dello
sviluppo, lo scopo vero del Fondo era, in realtà, quello di rendere possibile allo
Stato africano, attraverso gli introiti dell’esportazione di grano, il rimborso di
una tranche del pagamento dei prestiti sul debito estero. Che questo sarebbe
costato la morte per fame di migliaia di persone era considerato un prezzo
sostenibile purché i creditori internazionali non conseguissero perdite.
Il Fondo Monetario Internazionale, a causa delle sue politiche neoliberiste, è
responsabile di veri e propri genocidi. Agli occhi del cristiano consapevole della
molteplicità delle sembianze che l’unico volto del Maligno può assumere nel
corso della storia, l’analogia con la “Grande Fame” provocata dalle politiche
comuniste di Josef Stalin negli anni ’30 in Ucraina è immediata. Ancora una
volta, il cristiano non può non cogliere, nelle politiche neoliberiste del Fondo
Monetario Internazionale come in quelle dell’URSS di Stalin, l’agire, analogo
nell’uno e nell’altro caso, di colui il quale «… è stato omicida sin dal principio e
non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui», di colui che
«Quando parla dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della
menzogna» (Gv. 8,44). Le promesse menzognere sono, infatti, uno dei segni da
cui il cristiano può riconoscere la presenza dell’Avversario che, appunto, come
dice l’evangelista Giovanni, “è padre della menzogna”.
«I paesi africani – scrive ancora Ilaria Bifarini – sono stati investiti dalle
dinamiche spregiudicate del libero mercato internazionale senza una
preventiva protezione del settore industriale e agricolo, costretti da un lato ad
acquistare beni manifatturieri e macchinari a prezzi sempre più cari, dall’altro a
vendere le proprie materie prime sempre più a buon mercato. Per conquistare i
mercati esteri hanno favorito lo sviluppo delle coltivazioni da esportazione a
scapito dell’autosussistenza, producendo esclusivamente per il mercato estero
e non per il consumo locale. Paradossalmente, la fame in Africa non è causata
dalla mancanza di risorse, bensì dalla loro esportazione: si esporta la
produzione invece di consumarla. La Nigeria, ad esempio, fino agli anni Ottanta
era un importante esportatore di prodotti agricoli, poiché a latere delle grandi
imprese e delle multinazionali esisteva una diffusa produzione agricola di
piccoli proprietari terrieri locali. In breve tempo questo settore è praticamente
scomparso e la Nigeria è oggi costretta a importare la maggior parte dei propri
beni di consumo. L’agricoltura, che nel 1980 rappresentava il 35% del Pil del
Paese, nel 2015 è scesa fino al 18%, di cui l’11,5% dipendente dalla produzione
delle multinazionali. Avendo scoperto che lo sviluppo irrazionale del settore
terziario offre guadagni più alti attraverso l’utilizzo di manodopera a bassissimo
costo, gli imprenditori stranieri hanno indotto la fuga dei giovani dalle
campagne, che si sono riversati nelle città, generando un eccesso di
manodopera urbana, causa a sua volta di un ulteriore abbassamento dei salari.
I giovani nigeriani si trovano dunque in un paese la cui economia sembra
essere in costante crescita, ma con un mercato del lavoro sempre più
competitivo, in cui l’emigrazione è spesso l’unica via di salvezza dalla povertà
endemica. (…). La completa apertura al commercio e le liberalizzazioni hanno
danneggiato i posti di lavoro tradizionali e i settori manifatturieri deboli non
industrializzati, mentre hanno premiato il settore finanziario, portando a un
aggravamento del livello di disuguaglianza. In Nigeria, ad esempio, l’indice di
Gini – che misura l’iniquità nella distribuzione della ricchezza – nel periodo che
va dal 1985 al 1997, è cresciuto di circa il 40%. Gli unici a instaurare un
rapporto proficuo con i creditori e gli investitori esteri e ad arricchirsi dalle
misure di austerità, calate dall’alto delle istituzioni di Washington, sono stati i
rappresentanti dell’élite africana» (pp. 76-80).
La già debole domanda delle economie del Terzo Mondo viene depressa con
tagli di bilancio imposti dai PAS rendendo impossibile ogni crescita. La
motivazione ufficiale del FMI per imporre i tagli alla spesa pubblica è il
cosiddetto “crowding out”, concetto introdotto da Milton Friedman e che sta ad
indicare il presunto “spiazzamento” degli investimenti privati da parte di quelli
pubblici. In realtà nei Paesi del Terzo Mondo non esiste alcuna spesa privata
locale che possa essere spiazzata da quella pubblica, sicché la motivazione
ufficiale è soltanto una copertura ideologica per nascondere la razzia delle
risorse native da parte dei capitali esteri ed apolidi. Il “crowding out” si è
rivelato una impostura pseudo-scientifica anche in Occidente, perché
l’esperienza ha dimostrato piuttosto che gli investimenti privati inseguono
quelli pubblici. Questo perché gli investimenti privati fuggono laddove manca o
è debole la domanda aggregata, il cui maggior sostegno resta comunque la
spesa pubblica.
«La riduzione dei deficit statali – ci informa sempre Ilaria Bifarini – non è
generata dall’aumento degli introiti fiscali, ma dai tagli o addirittura
dall’eliminazione delle spese sociali e degli investimenti pubblici. Tramite la
cosiddetta “revisione della spesa pubblica”, a partire dalla fine degli anni
Ottanta la Banca mondiale controlla rigidamente la struttura del bilancio
statale dei paesi africani, raccomandando la minimizzazione dei costi “per
favorire la riduzione della povertà in modo efficace ed efficiente”. I tagli imposti
alla spesa statale e l’introduzione di tariffe per i servizi pubblici hanno
annientato i progressi realizzati nei decenni anteriori negli ambiti
dell’educazione e della sanità, negando a molti africani la possibilità di
accedere ai servizi. Ovunque il tasso d’iscrizione degli studenti
all’insegnamento elementare, medio e superiore si è abbassato sensibilmente
nella prima metà degli anni Ottanta, come risultato dell’applicazione dei PAS.
Molte scuole, prima sovvenzionate dallo Stato, sono scomparse. Per rimborsare
il debito estero sono stati effettuati tagli drastici nei preventivi disposti per
l’educazione, attraverso il licenziamento di docenti e la riduzione delle ore di
lezione. Nel settore della sanità si è assistito a un peggioramento generale del
sistema di cura e prevenzione: scarsità del personale medico, mancanza di
farmaci e attrezzature elementari, degenerazione degli ospedali in focolai
d’infezioni, mancanza di requisiti minimi d’igiene e condizioni di lavoro
inaccettabili. Le spese della sanità sono divenute esclusivamente a carico delle
famiglie, in una situazione di assenza di qualsiasi sistema di soccorso e di
assistenza. In Zambia la spesa sanitaria è stata dimezzata tra il 1990 e il 1994,
e la spesa per i bambini in età da istruzione primaria è stata più bassa nel 1999
rispetto alla metà degli anni Ottanta. In Tanzania la spesa pro capite in sanità e
istruzione è risultata inferiore di un terzo nel 1999 rispetto alla metà degli anni
Ottanta. Quale inevitabile conseguenza, si è assistito all’aumento
dell’analfabetismo, alla riduzione dell’aspettativa di vita e alla ricomparsa di
epidemie già debellate o sparite in altre parti del pianeta. Tali interventi hanno
minato lo sviluppo e impoverito milioni di persone in tutto il mondo, e
continuato a farlo, in misura maggiore nei paesi in via di sviluppo, dove le
politiche degli enti economici e internazionali e le pratiche degli speculatori
finanziari operano indisturbate, dietro lo scudo di un finto e ingannevole
umanitarismo» (pp.80-82).
La chiusa della citazione della Bifarini, circa il “falso e ingannevole
umanitarismo” ci riporta, forse ad insaputa della nostra brillante economista,
ancora a Giovanni 8,44, all’ammonimento sulla presenza nelle vicende umane
di colui che è menzognero ed omicida fin dalle origini del mondo.
L’industria nazionale, laddove esisteva, nel Terzo Mondo, è stata esposta non
solo alla concorrenza estera ma anche alla predazione dei capitali stranieri che
l’hanno acquistata a prezzi stracciati, senza alcun riguardo per il mantenimento
dei livelli occupazionali indigeni. La privatizzazione dei servizi pubblici ha
significato per la maggior parte della popolazioni l’impossibilità di accedere ai
più basilari servizi sanitari o scolastici. Nel solo Mali gli aggiustamenti
strutturali hanno fatto aumentare del 120% il costo della vita mentre in Costa
d’Avorio hanno ridotto del 50% il reddito pro-capite. L’applicazione delle ricette
neoliberiste ha riportato il reddito pro-capite dell’Africa ai livelli precedenti il
1960 vanificando i miglioramenti che si erano ottenuti nel dopoguerra. Le fasce
più deboli delle popolazioni del Terzo Mondo hanno subito un peggioramento
abissale delle loro condizioni di vita.
L’attuazione dei PAS è stata accompagnata da una forte corruzione. Per
conquistare il favore delle élite politiche africane, latino-americane e asiatiche,
il Fondo Monetario Internazionale si è trasformato in una vera e propria
centrale erogatrice di tangenti. La Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale giustificano i fallimenti delle politiche economiche da essi
imposte denunciando la corruzione dei governi del Terzo Mondo che
impedirebbe l’ottimale funzionamento degli aggiustamenti economici. In realtà,
la corruzione è una conseguenza piuttosto che una causa della situazione del
Terzo Mondo. I dittatori e le élite locali sono i rappresentanti ed i garanti degli
interessi economici e finanziari transnazionali. E’ l’ingerenza del Fondo
Monetario Internazionale nonché l’applicazione di un modello economico
inadeguato che ha impedito ogni possibilità di sviluppo dell’economia e
dell’industria locale.
Ilaria Bifarini, nel suo libro, osserva che, dopo quasi quarant’anni di
aggiustamenti strutturali, conseguenza delle misure di austerity che sono state
introdotte nel continente africano e in tutto il Terzo Mondo a seguito della crisi
del debito del 1982, il debito pubblico dei Paesi in via di sviluppo si è ridotto. In
generale, attualmente, il debito pubblico medio dell’Africa subshariana è su
livelli medi molto bassi in termini percentuali rispetto ai Paesi ad economia
avanzata. Questo è vantato dal Fondo Monetario Internazionale come un
successo. Ma in realtà il rovescio della medaglia del presunto successo è la
pauperizzazione e la fame endemica. Uno Stato che non spende è uno Stato
nel quale i cittadini non godono di protezione sociale. Non a caso i Paesi
africani di maggiore emigrazione sono quelli con un debito pubblico tra i più
bassi, che invece, secondo l’ideologia fondo-monetarista dovrebbero essere in
una fase di così forte crescita da trattenere la popolazione in loco. Se, al
contrario, la popolazione di questi Paesi emigra, è segno che la riduzione del
debito è stata effettuata nell’interesse esclusivo dei creditori, ossia delle grandi
banche d’affari internazionali, evitandone, con gli interventi del Fondo
Monetario Internazionale, il default da inesigibilità. L’abbattimento del debito è
stato raggiunto mediante la devastazione di qualsiasi infrastruttura materiale,
industriale o sociale da poco realizzata nei decenni precedenti.
Esiste un chiaro nesso tra austerità ed emigrazione. La Bifarini afferma che
autorevoli economisti fanno risalire l’origine delle attuali politiche neoliberiste,
e dunque delle correlate misure di austerity, proprio a quanto già sperimentato
nell’Africa post coloniale. È, infatti, impressionante come proprio quei Paesi in
cui i piani di riduzione del debito hanno avuto maggior successo sono quelli di
principale emigrazione. Un esempio, per la Bifarini, è la Nigeria, paese di
provenienza di gran parte dei migranti che arrivano sulle nostre coste. La
Nigeria ha abbattuto il debito pubblico fino al 15%, valore tra i più bassi al
mondo. Ma proprio questa riduzione, in quanto non corrisposta da un quadro di
sovranità monetaria ossia dalla possibilità di politiche espansive supportate
dalla finanziarizzazione dello Stato da parte di una Banca centrale nazionale, è
causa dell’emigrazione nigeriana, dato che l’auspicio sottostante ai PAS, ossia
che dopo l’aggiustamento sarebbero arrivati fiumi di capitale straniero ad
investire nel Paese africano, non si è affatto realizzato. Situazione analoga per
Eritrea, Gambia, Costa d’Avorio e altri.
Mafia fondomonetarista ed emigrazione.
La Crisi del Debito del Terzo Mondo, esplosa nel 1982, venne viene
ufficialmente dichiarata risolta agli inizi degli anni novanta. La dichiarazione
seguiva al fatto che i PAS avevano raggiunto lo scopo di aiutare la crescita dei
Paesi colpiti dalla crisi? Macché! Agli inizi degli anni ’90, il Fondo Monetario
Internazionale era riuscito nel suo vero intento originario che era quello di
garantire le grandi banche d’affari occidentali nel rientro dei rimborsi dei
prestiti concessi ai Paesi in via di sviluppo. Il rimborso in favore degli
speculatori globali è, infatti, avvenuto mediante i salvataggi operati dal Fondo
Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale a spese dei pubblici erari di
tutti gli Stati aderenti al sistema finanziario internazionale. I salvataggi hanno
collocato i “cattivi prestiti” sui mercati secondari del debito sovrano, ovvero li
hanno caricati sui bilanci degli Stati sovvenzionatori del Fondo. Dove non
c’erano le condizioni per effettuare salvataggi socializzando le perdite e
privatizzando i profitti, si è adottato il sistema alternativo di dichiarare
inesigibili i prestiti ma continuando comunque a pretenderne il rimborso da
parte dei Paesi del Terzo Mondo indebitati. Allo scopo non si è esitato a ricorrere
al ricatto ed alla minaccia militare o, più efficacemente, alla minaccia
dell’esclusione del Paese non pagante, con il marchio di “cattivo debitore”, dai
circuiti dei mercati internazionali e dai futuri prestiti del Fondo Monetario
Internazionale. Un comportamento analogo a quello degli usurai di quartiere o
della mafia. In fondo, a ben rifletterci, il Fondo Monetario Internazionale è una
mafia di usurai globali.
Esattamente come accaduto di recente per la Grecia, la crisi del debito del
Terzo Mondo è stata dichiarata superata solo quando ha cessato di essere un
pericolo per i mercati finanziari internazionali. Come è noto, la Grecia è stata
dichiarata nell’estate del 2018 fuori dal programma di austerità soltanto
perché, attraverso i prestiti condizionati concessi dalla Troika (FMI, BCE, Banca
Mondiale), non sussistevano più rischi di insolvenza per i creditori internazionali
ossia le grandi banche d’affari, in particolare quelle tedesche e francesi. Nel
frattempo, però, la Grecia è stata ridotta alla fame, senza che il suo
indebitamento sia effettivamente cessato. Infatti, l’esposizione di Atene ora è
verso le Istituzioni della Troika che agiscono mediante l’ESM o “fondo salva
Stati” ossia un fondo, appositamente creato in seno all’Unione Europea, per
accollare ai bilanci pubblici le perdite delle grandi banche franco-tedesche. Un
fondo, dunque, “salva banche”, non “salva Stati”.
«Nel 1997 – afferma Ilaria Bifarini – i paesi in via di sviluppo scoprono di
possedere oltre due trilioni di dollari in debito estero da rimborsare, cresciuti in
modo esponenziale rispetto alla cifra già imponente di 1,3 trilioni di dollari dei
primi anni Ottanta, quando è scoppiata la crisi del debito. Poiché alla radice
della crisi del debito dei paesi poveri vi era stato il rallentamento della crescita
economica nelle principali economie industrializzate negli anni Settata e gli
shock petroliferi, l’intervento con strumenti monetari e finanziari sul Terzo
Mondo non poteva rappresentare una valida soluzione in termini di economia
reale e prospettive di crescita, ma piuttosto ha creato i presupposti per
l’aggravarsi del problema. I limiti delle politiche dei prestiti sono stati avvertiti
anche dalle più potenti banche del mondo e la crisi del debito ha contribuito in
modo significativo alle turbolenze finanziarie internazionali» (pp.67-68).
Le politiche neoliberiste del FMI e le multinazionali, attraverso la strategia
dell’indebitamento verso i “mercati”, hanno, dunque, squassato l’economia
africana, che fino agli anni ’70 era in una fase di avvio dello sviluppo. La stessa
strategia a partire dagli anni ’80 è stata gradualmente applicata in Europa e gli
effetti più nefasti non hanno mancato di manifestarsi, come la crisi esplosa nel
2008 ha reso a tutti evidente. In Africa la strategia, complici governi dittatoriali
corrotti e le classi dirigenti occidentalizzate, è stata eseguita con molta più
rapidità e senza tanti complimenti. Anche i giovani dei Paesi europei
maggiormente sottomessi al potere della finanza, come quelli africani, sono
oggi costretti a emigrare per cercare lavoro. Ma per loro non c’è nessun
business dell’accoglienza nei Paesi di destinazione.
Con il suo libro, la brava Ilaria Bifarini, al di là dei luoghi comuni e dello scontro
tra xenofobi e xenofili, aiuta a capire in termini oggettivi, sotto il profilo
economico, il fenomeno migratorio e le sue cause, tutte risalenti alla strategia
del dominio mediante indebitamento. Intorno al 2050 la popolazione africana
raddoppierà passando da 1,2 a 2,5 miliardi di abitanti. Per il mancato sviluppo,
impedito dalla neo-colonizzazione da indebitamento, l’Africa non ha realizzato
quella che storici, demografi ed economisti chiamano la “transizione
demografica” ossia l’equilibrio tra tasso di incremento demografico della
popolazione e sviluppo economico. L’Africa è rimasta prigioniera della
cosiddetta “trappola maltusiana”. La contemporaneità tra esplosione
demografica e povertà endemica, causata dalle fallimentari politiche
economiche neoliberiste, ha reso l’emigrazione lo strumento più facile, a
disposizione delle corrotte élite locali e dei neo-colonizzatori finanziari, per
contenere i conflitti sociali ed etnici. Si tratta tuttavia di una pseudo-soluzione
perché l’effetto dell’emigrazione sull’economia locale è peggiorativo dato che
essa priva i Paesi di origine della forza lavoro più giovane e intraprendente.
Nonostante questo effetto dannoso, l’emigrazione viene pianificata dalle
Istituzione globaliste con la complicità dei governi locali.
La Bifarini ci informa, nel suo libro, dell’esistenza di organizzazioni non
governative specializzate nel “prestito” all’emigrazione. Queste organizzazioni,
nella loro propaganda, presentano l’emigrazione come un modello di crescita
per i Paesi del Terzo Mondo. Alle famiglie del Terzo Mondo sono concessi prestiti
finalizzati a consentire ai propri figli di emigrare. La prospettiva presentata alle
famiglie è quella per la quale un figlio emigrato è una risorsa economica perché
esso invierà a casa il denaro guadagnato all’estero. In realtà, però, le rimesse
dei migranti servono innanzitutto per rimborsare il prestito ricevuto sotto pena
di sanzioni e conseguenze dannose per i familiari rimasti. Si tratta di rimesse
alle quali sono inoltre applicati provvigioni molto alte sicché si è creato un
fiorente business che specula sulla miseria umana. Non sbaglia chi
paragonasse dette Organizzazioni Non Governative a clan mafiosi di usurai. I
mezzi usati, compreso il ricatto di conseguenze per i familiari rimasti in patria,
sono del tutto identici.
terza parte