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Ermeneutica delle migrazioni

Del fenomeno delle migrazioni è importante sottolineare l’inserimento nella storia degli spostamenti di
popolazioni, la diversità del fenomeno moderno rispetto al passato e le implicazioni interiori che esso
produce. Le migrazioni vanno ricollocate in questo sfondo, sul piano politico sono frutto di
configurazioni dell’epoca coloniale, dall’altra parte obbediscono a un tropismo che spinge popolazioni
verso regioni di opulenza economica. Tale fenomeno mette alla prova la pretesa di universalità dei propri
ideali e la salvaguardia della propria identità particolare.
Straniero, io stesso
Per Ricoeur dobbiamo sostituire la coppia immigrazione-emigrazione con la parola inglobante di
migrazione. Il punto di partenza è un testo biblico citato nel Levitico, che afferma “lo straniero dimorante
tra voi lo tratterete come voi stessi poiché anche voi siete stati stranieri”. Il testo lega il concetto di
ospitalità al precetto dell’amore “tratta il prossimo tuo come te stesso” nonché al ricordo di essere stato
straniero, che è uno dei pensieri fondativi dell’identità di Israele. Tale ricordo di estraneità non è però una
memoria collettiva o personale quanto simbolica. Bisogna partire dall’idea di straniero e dal ventaglio di
possibilità che essa comporta. Da un lato può essere inteso come il visitatore, dall’altro come il residente
stabilito in un luogo oppure come un lavoratore forzato, colui cioè che è costretto a vendere la propria
forza lavoro presso di noi. In quest’ultimo caso la loro vita è segnata da attori sociali da loro differenti,
essi compartecipano all’idea di libertà, all’economia di mercato e posseggono diritti sindacali senza essere
cittadini ed essendo governati senza consenso. Si staglia così contrasto tra la mobilità del lavoro e chiusura
dello spazio politico. Ad un lato ancora più estremo abbiamo poi il rifugiato, che evidenzia come la
sovranità dello Stato riguardo alla scelta della composizione della propria popolazione e accesso al
territorio. Se trattiamo invece il tema come estraneità originaria e andassimo a vedere la definizione di
straniero, essa apparirebbe come “colui che non è di casa nostra”, definizione basata dunque su
opposizione binaria noi-loro che rischia di trasformarsi in amico-nemico. Tale relazione è percepita in
quanto il sentimento di appartenenza ci spinge a considerare la nazione come una persona dotata di una
identità, mentre lo straniero risulta fuori da tale cerchio identitario. La sovranità dello Stato presenta poi
vari corollari: legame immediato tra il territorio e la sua popolazione al momento di costituzione dello
Stato, legittimato dunque a darsi uno spazio di giurisdizione e frontiere; legame tra nazionalità e
cittadinanza come due elementi coincidenti, dove il cittadino è colui che può contribuire alla
partecipazione del potere politico; la presenza della carta d’identità, con connessione tra identità personale
e appartenenza nazionale. Ciò che deriva in negativo è che lo straniero è colui che è, per il primo criterio,
fuori dal territorio, per il secondo, privo di potere politico, per il terzo, senza identità. La sicurezza della
appartenenza vacilla però alla luce della memoria simbolica di essere stati stranieri. Dobbiamo quindi
chiederci le ragioni che portano ad una destabilizzazione e alla scoperta della nostra estraneità. Il primo
momento di destabilizzazione è la comparazione, il domandarci perché noi siamo italiani e gli altri
francesi; tramite la comparazione l’identità si scopre fragile per tre motivi: difficoltà di stabilizzare la
propria coerenza nel tempo, cessata illusione che una chiusura in sé per mantenerci identici sia possibile,
convinzione che alla base della propria identità collettiva vi sia la violenza. In tal senso la xenofobia appare
come elemento naturale e spontaneo dell’uomo, non rimovibile ma controllabile se portato al livello del
linguaggio. L’elaborazione del ricordo dell’esilio consiste nel mettere in luce i pericoli connessi alla
comparazione e le minacce dell’estraneo. Un primo passo si ha tramite il linguaggio e la costatazione che
quello che usiamo è sono uno, equivalente a tutti gli altri. In tal senso un primo caso di ospitalità si da
nella traduzione come abitare una lingua, ospitare un concetto di un'altra lingua nella nostra e vederne la
commensurabilità. Il secondo passo consiste nel considerare la nostra stessa casualità, della nascita, del
luogo, del periodo; il nostro essere a casa dipenderebbe così da una estensione spaziale che avrebbe
potuto essere altrimenti. Ciò ci fa condurre ad uno stadio più avanzato del senso di estraneità, l’assenza
di diritto originario che giustifichi il nostro essere in una nazione piuttosto che in un'altra. Dal ricordo
fittizio di essere stati stranieri si sviluppa il cammino della ospitalità, definita come messa in comune
dell’atto di abitare insieme. Già il termine “ospitalità” racchiude a livello linguistico un itinerario che
ingloba il senso medievale, di generosità gratuita, il senso greco, di reciproco di protezione, e il senso
ebraico in una unica definizione: “ricevere l’ospite presso di sé dandogli alloggio e cibo”. Al dovere di
ospitalità risulta così connesso il diritto di ospitalità dello straniero nel non essere trattato come nemico
e nel candidarsi virtualmente ad essere un cittadino. Tale diritto, appartenente al diritto delle genti è privo
finora di istituzioni adeguate ed è collegato in filosofia politica alla questione della cittadinanza senza
frontiere, che slegherebbe il binomio “membro dello stato-straniero”.
L’estraneità dello straniero
La condizione di straniero
La storia produce una frammentazione tale che l’umanità non si presenta sotto forma di un corpo unitario
ma costituita in comunità che implicano una distinzione tra membri e stranieri. Differenza da non
confondere con la coppia amico/nemico, iscritta invece all’interno del problema della guerra. La prima
dicotomia appare asimmetrica, poiché l’accento è posto su un solo termine, quello che indica il membro,
mentre lo straniero è definito per negazione. Per riflettere sull’idea di straniero Ricoeur parte da una prima
osservazione dal punto di vista giuridico della giustizia. L’appartenenza ad una nazione non è oggetto
della giustizia distributiva, poiché non è un bene che viene distribuito ma che già possediamo. La
nazionalità viene solitamente definita come appartenenza giuridica di una persona alla popolazione di
uno Stato, dunque in rapporto stretto con il territorio. Diversa è la relazione tra nazionalità e cittadinanza,
due concetti che benché simili non si sovrappongono, poiché non tutti coloro che appartengono ad una
nazione possono dirsi dotati di un rapporto giuridico con lo Stato, come ad esempio i minori, e non
godono di diritti politici. In Francia ad esempio gli stranieri non hanno diritti politici, mentre in altri paesi
sono ammessi a voti per le amministrazioni locali. Ciò fa sì che la nazionalità escluda così l’idea di
straniero e dato che, in Francia, ammettere uno straniero è una decisione sovrana delle autorità politiche
dello Stato, lo straniero non solo non può esigerlo come diritto ma neanche richiederlo né esserne
autorizzato. Per comprendere lo straniero dobbiamo prima basarci sulla nostra idea di appartenenza, tale
idea non si basa su nessuna ragione chiara e trasparente, né sembra giustificabile né tantomeno spiegabile
tramite l’idea di contratto sociale. Tale vivere insieme rimane nel non detto fintanto che arriva al
confronto gli altri, che è dunque necessario per auto comprendersi, grazie al quale è il nostro stesso paese
ad apparirci come termine non definito nella coppia membro/straniero, in quanto uno dei tanti paesi che
compongono la “famiglia umana”. Così anche noi possiamo immergerci nel considerarci come lo
straniero dello straniero, cosa che riesce facile nel momento della ospitalità, di cui Ricoeur percorre tre
figure tramite l’idea di straniero a casa nostra. La prima figura è quella che vede lo straniero come
visitatore, figura pacifica che include tanto il turista come il residente, senza divenire cittadino gode di
alcuni vantaggi come la libertà di circolare, di commerciare, la sicurezza, cure mediche ed educazione.
Tale condizione è basata su ciò che Kant chiama il diritto di visita, ossia il diritto che lo straniero ha di
non essere considerato nemico quando mette piede in uno Stato. La seconda figura è quella dello straniero
come immigrato, ossia come visitatore forzato che non sceglie ma è necessitato, la loro vita è segnata da
altri attori economici e politici, detengono stessi diritti sindacali e d’alloggio dei membri della nazione ma
sono governati senza il loro consenso e la loro permanenza è legata al lavoro. Questi costituisce anche
una loro prima problematica, dato che, entrando nel mondo del lavoro entrano in concorrenza sul
mercato con i cittadini, facendo stridere così il tema della mobilità del lavoro con la chiusura dello spazio
politico della cittadinanza. Ricoeur propone una risposta questa problematica basata su due livelli: il primo
relativo alla giustizia politica, con una ammissione allo Stato di primo grado distinta da una di secondo
grado come la naturalizzazione; il secondo relativo al diritto umano d’ospitalità. La terza figura è poi
quella dello straniero come rifugiato, che fa leva sul diritto alla protezione da parte di popolazioni
perseguitate e sul dovere di aiuto nella forma della tradizione dell’asilo. Se fino al XX sec. era un fenomeno
destinato fondamentalmente ai singoli, nel periodo delle migrazioni di massa, la sua presenza implica un
conflitto tra l’asilo con la protezione della sovranità territoriale. La politica di accoglienza dei rifugiati
dipende dalla sovranità nazionale ponendo però il problema del passaggio dallo status di rifugiato al diritto
d’asilo, gli Stati non possono respingere richieste di asilo ma possono stabilire lo status di rifugiato; il
problema risiede nelle pratiche di riconoscimento e se la dimostrazione di appartenenza ad un tale status
sia prerogativa del solo rifugiato.
Molteplice estraneità
Il saggio di Ricoeur si propone di indagare le nozioni di alterità ed estraneità distinguendo il livello
metafisico, inteso come funzione “meta” e il livello relativo alla comprensione e all’interpretazione del sé
umano. La funzione “meta” si caratterizza per una doppia strategia di gerarchizzazione e pluralizzazione
dei “generi maggiori” (terminologia platonica) come lo “stesso” e “l’altro”. Platone inserisce la categoria
dell’altro nel Sofista al quinto rango di una gerarchia, supplementare rispetto a quella precedente, sui
generi maggiori, con la particolare caratteristica di diffondersi tramite le altre.
Fragile identità
La domanda “chi?” può essere posta tanto al singolare quanto al plurale (chi sono, chi siamo), tale
sdoppiamento è reso legittimo tramite la prova del tema della memoria. La memoria appare infatti come
non soltanto una identità personale ma intima, Locke non a caso proponeva di identificare tra loro i
termini di identità, coscienza e memoria, dove per identità intendeva il primato dello stesso sulla alterità,
una identità a sé che culmina nel momento riflessivo, ossia quando si riconosce uguale in tempi differenti
e tale continuità è garantita dalla memoria. Tuttavia per Ricoeur la memoria è anche memoria condivisa,
commemorazione, tant’è che Ricoeur si interroga se non fosse la memoria personale un prodotto sociale,
come dimostrerebbe il dato che per estrarre ricordi più antichi si necessita spesso di aiuto da parte degli
altri. La nostra memoria è dunque sempre unita a quella degli altri, il che rende complessa l’operazione di
attribuire la memoria a qualcuno e ci autorizza a passare costantemente dal livello della persona a quello
della comunità. La prima causa della fragilità dell’identità è data dal suo rapporto con il tempo,
problematico relativamente alla nozione di “stesso” attraverso il tempo. La psicoanalisi ci ha dimostrato
come sia difficile per il soggetto affrontare il passato, tant’è che egli spesso prova resistenza nei confronti
della rimozione facendo sì che i propri fantasmi sia ripetuti e trasformati in azioni che influenzano sé e
gli altri. Allo stesso modo anche le memorie collettive sono memorie ferite con però una difficoltà
maggiore per quanto riguarda la realizzazione del lavoro della memoria e anche la eventuale cura analitica.
Ciò si comprende se si analizza il caso particolare della elaborazione del lutto, dove il soggetto per
disinvestirsi dal ricordo devo rompere il legame con il defunto sotto l’imposizione del principio di realtà
oppure soccombere e cadere nella depressione. Una seconda causa della fragilità dell’identità è il
confronto con l’Altro. Se ne ha un primo esempio in biologia quanto il corpo rigetta un organo
trapiantato, mentre due sono le eccezioni fondamentali: il cancro e il feto. Tale difesa assume forme
culturali nella nascita e sviluppo della lingua; le lingue non sono veramente ospitali e commensurabili le
une con le altre. L’altro minaccia l’integrità del sé costituito per la sua semplice esistenza in quanto
differente dall’io. Sul piano collettivo il fenomeno è legato all’ideologia, in cui movimento in cui
l’avversario è sempre accusato di marciare all’interno dell’ideologia stessa.
Il dialogo delle culture
Ricoeur riflette qui sul modello di tolleranza, sulla messa in discussione della sua validità e sul tentativo
di una rifondazione del modello positiva, che elimini la sinonimia con il concetto di astensione con cui
oggi è implicito. La tolleranza ha pagato un alto prezzo per trasformarsi in virtù, combattendo contro
l’intolleranza come principio forte della natura umana di imporre il proprio potere agli altri legittimato
dalla disapprovazione delle credenze e modi di vita differenti dal proprio. Ricoeur vuole invece delineare
le tappe che hanno portato alla rinuncia verso la violenza e alla presunzione di una verità totale. Il primo
passo è tratto dalla definizione di tolleranza del dizionario: sopporto ciò che disapprovo perché non ho
il potere di impedirlo. A livello storico Ricoeur paragona questo primo livello alla Pace di Westfalia. La
seconda tappa è quella che afferma: io disapprovo ma sforzo di comprendere senza aderire. Si spacca qui
la pura adesione ad un ideale e vi è un’apertura, tramite l’immaginazione, verso dove si trova l’altro. Sul
piano storico Ricoeur lo paragona ai personaggi del primo ecumenismo: Erasmo, Melantone, Leibnitz. Il
terzo stadio segna un passo decisivo: disapprovo ma rispetto la libertà in quanto riconosco il diritto di
manifestarla pubblicamente. Non è ancora verità condivisa ma diritto riconosciuto o diritto all’errore.
Storicamente è rappresentato dal periodo illuminista dove religiosi e illuministi si disapprovavano a
vicenda. È in tale periodo che si forgiano le libertà positive. L’ultimo stadio è invece quello cruciale: ne
approvo, ne disapprovo le vostre ragioni e forse tali ragioni esprimono un bene e un vero che non
comprendo per via della finitezza umana. In questo ultimo si arriva a delegittimare la disapprovazione.
Non si ha più uno spaccamento nella convinzione ma nella verità, il soggetto non ritiene più di essere in
contatto con tutta la verità ma accetta che un altro possa toccare un lato della verità differente dal mio.
La verità quindi mi appare come qualcosa che non domino e che non costituisco e che dunque nelle
proposizioni degli altri che io non comprendo ci sia della verità e che questa sia fuori di me. Da questo
stadio la società odierna contemporanea occidentale ha poi per Ricoeur ricavato un quinto stadio, quello
del passaggio dalla tolleranza alla indifferenza. Quest’ultima può essere frenata solamente dalla idea di
nocività, che funge da meccanismo di arresto dell’indifferenza

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