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555 KM IN SUDAFRICA
Ecco le bramate candide dune. Eccole, finalmente nostre e nostre solamente, una sera serena, fino a
che il sole esce di scena. Eccole, ancor più bianche, in una mattina che il sole stenta a scaldare. Non
c’è niente, a De Hoop, forse lo spruzzo di qualche balena venuta qui a partorire e, al di là delle alte
curve color panna, una fitta macchia verde che corona l’orlo dell’oceano. Eppure è difficile
allontanarsene. Non c’è nulla, qui, e il luogo è alquanto inospitale, ma si sente... si capisce che il
vuoto, qui così percepibile, non è assenza, ma è la presenza potenziale di ogni forma, di ogni vita.
E, finalmente, smettiamo di voler controllare e spiegare e ci arrendiamo al mistero.

“La mente è come un paracadute: funziona solo se è aperta”, ha notato Einstein. Ma quanto deve
essere aperta la mente del viaggiatore per capire le mille personalità del Sudafrica? Qui, alla De
Hoop Nature Reserve, ci seduce quell’”ignoto amor”, “quell’amor ch’è palpito dell’universo intero,
misterioso, altero” (Alfredo, “La Traviata”, atto I). Ma il Sudafrica è pieno di simili rivelazioni, e si
ritorna con la sicurezza, che dal cuore s’è fatta strada fino alla mente, che “c’è un’intelligenza e un
potere in tutta la natura e in tutto lo spazio che sono sempre creativi e che rispondono con infinita
sensibilità” (Geneviève Behrend). Inconsciamente ponevamo a quelle dune il nostro interrogativo, e
l’anima nostra si beava dell’implicita risposta, silenziosa ma chiarissima al nostro cuore. Era un
dialogo subliminale tra noi, appartenenti a una cultura la cui energia non riesce più a convogliarsi in
realizzazioni permanenti, e l’assoluto, dove “gli elementi di tempo e spazio sono completamente
assenti” (Thomas Troward). Nella volatilità dei nostri giorni, nel cui tumulto tutto si suicida
gettandosi in un passato che non abbiamo mai il tempo di mettere in prospettiva, questo viaggio
merita di assurgere a punto fermo, perché nei suoi tanti volti il Sudafrica ci ha presentato l’intero
spettro della vita, rivelandoci come l’intero globo ci sostenti.

E non solo noi. Il bufalo avanzava con una manciata di steli in bocca, macinandoli con apparente
indifferenza, ma sul groppone abbiamo ben notato le scorticature e il sangue. Ha attraversato la
strada, intasata in quel punto dalle auto che erano state avvertite di una “scena di caccia”, ed è
sparito nella boscaglia che digradava verso una pozza d’acqua. Le auto parevano incollate
all’asfalto e difatti, dopo qualche minuto, ecco la leonessa, magra, i garretti escoriati, percorrere la
medesima pista lentamente, come ubriaca dalla fame, dalla stanchezza o dalla malattia e, a seguire,
il leone, altrettanto incerto sull’esito dello scontro, il cui risultato non sapremo mai. Al Kruger la
politica dei ranger è di lasciare che la natura segua il suo corso e, per quanto ci dispiaccia, a noi
visitatori è solo concesso di essere spettatori. Testimoni d’una scena semplice che però, vissuta in
prima persona, ci rivela l’interdipendenza di tutte le forme di vita come nessun documentario del
National Geographic può fare. Gli animali al Kruger non danno appuntamenti, ed ogni
avvistamento è pura fortuna. Un elefante con zanne lunghe come il primo che abbiamo incontrato,
cinque minuti dopo aver pagato l’ingresso alla Phalaborwa Gate, non lo avremmo più visto. Un
vecchio solitario, probabilmente, e scontroso, ma più ci ha preoccupato quello che, ore dopo,
muoveva a passi decisi verso di noi – tutti abbiamo una foto del gigante minaccioso – noi increduli
che non fosse, come tutti gli animali del Kruger, abituato alle vetture. Altri elefanti ancora hanno
mostrato segni di impazienza, fermandosi magari sul ciglio della strada studiando da che parte
affrontare i nostri Toyota Quantum che, col fiato sospeso, rimanevano immobili, per poi decidere
che si trattava forse di ferraglia già morta e, annoiati, proseguivano da altra parte il loro giorno.

Tutto in Sudafrica vive, e vive grazie all’acqua. L’acqua stessa è spettacolo al Blyde River Canyon,
dove pinnacoli, cascate e peculiari erosioni ci hanno riempito gli occhi il primo giorno di viaggio.
La sequenza delle attrazioni ha meritato sulle guide il nome di Panorama Route, e l’avevamo
inaugurata con la visita all’Alanglade House Museum, la magione del governatore inglese del
villaggio di cercatori d’oro di Pilgrim’s Rest, che s’era fatto innalzare una residenza in mattoni
come gli autoctoni non ne avevano mai costruito in vita loro. Per essere una “prima”, il risultato è
stato eccellente: mentre gli schiavi del sogno aureo sgobbavano sulla costa della collina
prospiciente, i signori non si facevano mancar nulla. Gli scavi continuano, ma il processo di
estrazione del metallo è condotto secondo procedure moderne. Non scava più invece l’acqua alle
Bourkes’ Luck Potholes, dove i mulinelli creati dall’incontro del fiume Blyde e del fiume Treur
perforarono nei millenni la roccia come trapani giganti, affidando all’erosione il completamento di
incredibili sculture psichedeliche. L’acqua ora scorre tranquilla in cascatelle, e ci si chiede quanto ci
abbia messo a creare il profondo solco del canyon. Il tramonto ci ha sorpresi alle Three Rondawels,
tre formazioni cilindriche che ripetono la forma delle capanne tradizionali. Il silenzio, lo spazio, la
perfetta solitudine e l’inconsapevole magnificenza del luogo ci hanno indotto a una mezz’ora di
adorazione, e ci siamo staccati solo perché la strada per Phalaborwa era ancora lunga.

All’interno del Kruger dorme chi prenota con mesi di anticipo, ma si possono trovare sistemazioni
piacevoli anche fuori. E’ il caso della Timbavati Safari Lodge, con graziose capanne in muratura e
soffitto in paglia, a pochi chilometri dalla Orpen Gate. Al di là della piscina, dietro al bar – a cui
mancava solo la spina per la birra per dar l’impressione d’esser stato portato in volo dagli angeli
direttamente dall’Inghilterra – un recinto di canne protegge la zona ristorante. La cena è a buffet,
con due tipi di carne, varie verdure e perfino polenta. Non abbiamo ancora finito di mangiare che
irrompono dei ragazzini e dei giovani in pelli d’animale e piume, brandendo lance e archi, cantando,
ballando e accennando movenze di lotta e di caccia. Sebbene le tribù siano state molte e non sempre
in buoni rapporti tra loro, la cultura dominante della zona è zulù, e questo è il nostro primo
assaggio. Ne avremo più ampia dimostrazione più a sud, a Eshowe, dove non ci siamo potuti
permettere le capanne a cinque stelle della catena alberghiera di lusso Protea, ma dove almeno
abbiamo potuto assistere ad una descrizione della vita in un villaggio tradizionale, riprodotto lì in
miniatura, e partecipare a una vera e propria festa come si celebrava nelle comunità nelle grandi
occasioni, dove ognuno metteva in mostra le proprie capacità migliori: gli uomini con lunghe lance
e scudi, le donne con coloratissimi vestiti di perline. Il nostro cicerone, un ragazzotto dall’ottimo
inglese, e i suoi compagni, che si sono esibiti in una gara di lancio del giavellotto contro il teschio
di un elefante appeso al recinto di tronchi, è bello, alto e pasciuto. Forse i suoi consanguinei che,
pochi chilometri più in là, continuano a dipendere dalla terra per la loro sopravvivenza, non hanno
una vita così facile. E mentre osserviamo le ragazze lanciare le gambe in aria quanto più in alto
possibile su un ritmo pleistocenico, ci accorgiamo che non riusciamo a entrare in sintonia con
questa cultura troppo grezza, e che i nostri mondi non avranno che quella serata in comune. In
viaggio, una sorta di sesto senso aumenta le percezioni, ma non riusciamo comunque ad uscire
abbastanza da noi stessi per partecipare e capire.

Un trucco per mettersi sulla stessa lunghezza d’onda è far leva sugli istinti, e le numerose donne del
gruppo non hanno saputo frenarsi davanti ad un asilo infantile in Lesotho. La maestra è stata tanto
gentile da concedere una mezz’ora alla nostra visita inaspettata – credo la nostra offerta l’abbia poi
compensata dello scompiglio causato – e veramente i piccoli negretti erano così belli che anche a
me è venuta la tentazione di rubarne uno e di portarmelo a casa. Adorabile è dir poco: quegli occhi
innocenti, quella fiducia completa, il figlio che non ho mai avuto e due volte disperatamente
desiderato, la magia della vita davanti agli occhi nella sua ineffabile semplicità: come resistere? Gli
arazzi, che erano il motivo della sosta a Teyateyaneng, sono passati in secondo piano. Abbiamo
comunque visitato le tessitrici, nel loro laboratorio davanti all’asilo, ed ho pure comprato un arazzo
raffigurante degli impala intorno ad una pozza d’acqua mentre un grande baobab – pallido come
una presenza spettrale – osserva degli orici in corsa sullo sfondo. Esotico? Dipende con quali occhi
lo si guarda. Giorno dopo giorno, via via che vedevamo gli animali nel loro ambiente, si sviluppava
in noi un’abitudine alla loro presenza, sapevamo di condividere il medesimo territorio, la medesima
esistenza – un essere hic et nunc che, sebbene con forme diverse e secondo altre coordinate, ci
accomunava: la partecipazione alla stessa vita. E così quella scena di fili di lana – lana che porta
ancora l’odore della sua pecora – mi è familiare anche se l’ho vissuta solo per pochi giorni: in
viaggio si è completamente calati nel presente e le impressioni del momento e, dopo, i ricordi, sono
amplificati.

Impala – inaspettatamente, visto che costellano la savana come da noi le macchie nere di gomma da
masticare i nostri marciapiedi – non ne abbiamo visti alla Hluhluwe Game Reserve, e nemmeno, il
giorno prima, alla Mlilwane Game Reserve. In compenso, a Mlilwane li abbiamo mangiati a cena –
e la loro carne è deliziosa, prevedibilmente simile al nostro agnello. E Hluhluwe ci ha regalato la
vista dell’ultimo “big five” che ci mancava: il rinoceronte. Infatti, sebbene col binocolo, il “big
five” più difficile da vedere, il leopardo, lo avevamo visto al Kruger. Immobile, sull’erba di un’isola
del fiume Sabie, sventagliava a tratti la coda come un gatto nervoso. Il ponte era gremito e per
vederlo ho osato uscire dal pulmino.

Oltre al giro alla Mlilwane, a piedi o in mountain bike, lo Swaziland ci ha regalato l’esperienza di
un peculiare sito per matrimoni e feste ispirato allo stile organico e variopinto di Gaudì, la “House
on Fire”, e il vitalissimo mercato settimanale di Manzini, la capitale. Ad alcuni di noi la vista di
alcune matrone spaparanzate sui banchi, dimensioni da balena incinta, non uscirà più dalla mente.
Non s’è osato, ovviamente, fotografarle: la reazione avrebbe potuto essere devastante. Ma, più che
quelli di Manzini o del mercato d’artigianato della Ezulwini Valley, sono i souvenir di Baobab
Batik e di Swazi Candles quelli per cui vale la pena fare spazio in valigia. Batik di gusto raffinato
fatti a mano – il negozio è anche laboratorio e la commessa è anche artista – e candele d’ogni forma
e colore, con relativi profumi: è il momento di tirar fuori la carta di credito. A questo proposito, vale
la pena scegliere con cognizione di causa il taglio da dare ad un viaggio in Sudafrica. “Che far
degg’io? Gioire, di voluttà nei vortici perire” (Violetta, “La Traviata”, atto I). Sì, come Violetta
possiamo darci alla pazza gioia, perché il costo a terra di un viaggio in Sudafrica, anche fatto in
tutta comodità come il nostro, rimane contenuto. Le restrizioni sono imposte non dai prezzi ma
dalle distanze: in tre settimane abbiamo percorso più di 5.500 chilometri e tanto di quel paese è
stato visto dal finestrino. Ma quando scendevamo abbiamo fatto di tutto: un morning game drive
(avvistamento animali in automezzo speciale) la mattina presto allo Hluhluwe, un night game drive
all’Isimangaliso Wetland Park, un giro in barca a caccia (fotografica) di coccodrilli e di ippopotami
sull’estuario a St. Lucia... Sappiamo di gruppi che hanno anche fatto il bagno nelle acque
dell’Oceano Indiano a Cape Vidal, lo stesso del famoso profumo al pino silvestre, ma la
temperatura, il vento e – dettaglio non trascurabile – la presenza occasionale di squali ci hanno
dissuaso. Invece, volentieri siamo andati a vedere le pitture rupestri a Giant’s Castle e ci siamo
avventurati in un trek al Golden Gate Highlands National Park, due parchi nella bella catena
montuosa dei Drakensberg. I piacevolissimi chalet invitavano a sospendere il nostro pellegrinaggio
e a fermarci per una vacanza residenziale. Spazi, grandi spazi, e uno sciacallo dalla gualdrappa alla
ricerca del pasto quotidiano in un campo ocra come il suo pelo: solo la gualdrappa nera sul dorso ci
ha permesso di localizzarlo. Cosa poteva trovare in quell’infinito vuoto?

Le distanze sono un elemento importante quando si programma un giro del Sudafrica. Abbiamo
appena fatto in tempo ad arrivare a Malealea, il nostro pied-à-terre in Lesotho, per visitare il
villaggio o per fare una passeggiata panoramica. Il paese è poverissimo, ma il lodge è il
catalizzatore delle attività del villaggio, offrendo alla gente la possibilità di lavorare per i servizi ai
turisti. La sera, prima di cena, si esibiscono due gruppi: un coro e un gruppo rock. Pezzenti possono
essere, ma sanno come si fanno le cose, e hanno la buona volontà per farle bene. Alloggiavamo
attorno ad un grande cortile alberato, in quelle che sembravano le casette dei nani, con tendine
colorate alle piccole finestre e le coperte del caso (1.850 metri d’altitudine, nel loro inverno). Il
generatore viene spento alle 22, e il bar del lodge ha permesso agli alcolizzati del gruppo di
fraternizzare fino a tarda ora, mentre i più anziani prendevano rifugio sotto le trapunte.
L’accoglienza organizzata e generosa dà a Malealea un’aria di casa, e le coltivazioni a terrazze sono
uno spettacolo. “Si ridesta in ciel l’aurora, e n’è forza di partir” (Tutti, “La Traviata”, atto I), dopo
aver ripacchettato i bagagli alla luce delle pile, visto che la corrente viene riaccesa solo alle 9. E le
distanze oggi ci obbligano a una giornata intera in pulmino. In verità quest’aurora è oscurata da
minacciose nubi viola, e per strada incontreremo sprazzi di sereno, di nuovo nubi, pioggia, grandine
grossa così, folate di neve e di nuovo sereno. Il prato della fattoria che ci farà da casa per questa
notte è coperto da un dito di neve ghiacciata. Ma, di nuovo, il benvenuto è straordinario, e possiamo
vedere come vivevano i ricchi coloni olandesi. La cena, preparata personalmente dalla padrona di
casa, è ottima – l’unica differenza è che il sufflé di zucca, col quale loro amano accompagnare le
verdure, è talmente dolce che lo scambiamo per dessert. I mobili sono ingombri di merletti e di
vecchie foto di famiglia, un pianoforte e la zona soggiorno completano la lunga sala da pranzo.
Fanno corona alla casa principale le ex-stalle ed altre costruzioni, tutte ristrutturate per accogliere i
rari turisti: siamo qui perché la fattoria Doornberg era l’unica struttura vicino a Nieu Bethesda in
grado di ospitare tutte e sedici le persone del gruppo. La fermata era assai curiosa: a metà del secolo
passato, una matura signora del paesino, sola da lunga data, aveva deciso di dedicarsi alla bellezza.
Finita di decorare la casa, ha popolato il piccolo giardino con una infinità di personaggi di cemento
e vetro: un luogo davvero singolare, specchio della fantasia fervida e febbrile di quest’artista sui
generis, che ci ricorda che meraviglie che cerchiamo a volte le scopriamo negli esseri umani: le
persone con cui viviamo sono in realtà misteriose e remote. La salvaguardia delle diversità, dei
linguaggi e delle culture di nicchia è l’unica difesa contro la globalizzazione. La Owl House, dopo
decenni di abbandono, è stata riconosciuta come eredità culturale e viene ora valorizzata per la sua
visionarietà.

Altrettanto singolare è la vicina Valle della Desolazione, una muraglia perfettamente verticale di
roccia bruna che si erge al di là d’un profondo burrone. Meno interessante la visita della vicina
Graaff-Reinet, graziosa cittadina con alcuni edifici coloniali ben conservati. Unica, e
indimenticabile, invece l’esperienza di toccare e giocare con due cuccioli di leone, uno tigrato e
l’altro bianco, presso uno strano posto, un mix di coffee shop, emporio turistico e allevamento
predatori sulla strada verso l’Addo Elephant Park. Altro tipo di cuccioli da rubare… Ad Addo il
gruppo s’è diviso: una metà ha affrontato la rigidità d’un morning game drive, imbacuccati con
tutto quel che c’era di caldo, e premiati dall’avvistamento di una famiglia di leoni. L’altra metà ha
preferito visitare il parco in pulmino, ed anche loro hanno fatto degli interessanti avvistamenti di
elefanti. Un’oretta sulla spiaggia di Jeffrey’s Bay per vedere i famosi supertubes – ma i surfisti non
riuscivano a decollare, forse per il vento contrario – per poi chiudere la giornata in bellezza col
brivido di volare da una chioma all’altra della foresta di Tsitsikamma, imbracati di tutto punto, nel
Canopy Tour. Ma lo Tsitsikamma National Park è soprattutto il punto di partenza per due dei più
famosi trek del Sudafrica, percorsi di sei giorni ciascuno. Noi abbiamo camminato le prime ore
dell’Otter trail – non facile ma immensamente gratificante. La rabbia con cui l’oceano si scaglia
contro le saldissime rocce che escono come lastre verticalmente dalla riva, il cielo plumbeo, la
verginità di quel luogo hanno cambiato qualcosa dentro di noi. “La vera scoperta non consiste nel
trovare nuovi territori, ma nel vederli con nuovi occhi” (Marcel Proust). Vai allo Tsitsikamma e
davvero ti rifai gli occhi.

Allo Tsitsikamma inizia anche la famosa Garden Route, una panoramica strada costiera, lungo la
quale il paesino di Knysna ci offre le sue famose ostriche per pranzo mentre, più all’interno, ci
aspettano le Cango Caves, una delle dieci maggiori attrazioni del Sudafrica. Avrei voluto visitarle
seguendo il percorso “avventuroso”, ma le foto in internet dei visitatori che avanzano a forza di
gomiti lungo stretti cunicoli hanno fatto optare il gruppo per il più tranquillo percorso standard. E di
nuovo andiamo a dormire in una fattoria, e di nuovo una cena squisita, con un bisteccone di struzzo
degno degli asados argentini. Non dimenticherò mai l’arrivo: appena hanno sentito i pulmini
parcheggiare davanti al caseggiato, i padroni sono usciti con un vassoio e 16 bicchierini d’un
liquore fatto in casa. In questo periodo di difficoltà economiche, debbono aver aspettato il nostro
arrivo con la stessa impazienza che avevamo noi di riposarci in un posto accogliente. La notte, il
cielo era terso e pieno di stelle. Abbiamo tentato più volte, nel corso del viaggio, di identificare le
costellazioni, chiedendoci se si potessero vedere anche quelle del nostro cielo, ma la geografia che
veramente vale non è quella che viene insegnata a scuola… Il giorno successivo siamo andati a
visitare i genitori, forse, del cucciolo bianco di leone che ci eravamo spupazzati. Li abbiamo trovati
sdraiati, annoiatissimi, nel recinto di un parco tematico inteso a promuovere scambi di animali rari
tra gli zoo del mondo. Le passerelle sopraelevate ci hanno permesso un’ottima visuale degli
splendidi esemplari di animali rari – pipistrelli da frutta egiziani, uno strano facocero, giaguari,
leopardi, condor… e il museo di Swellendam ci ha dato una panoramica della civiltà contadina dei
coloni olandesi e inglesi della punta del continente. Sebbene remota rispetto alla nostra cultura, è
comunque un piacere calarsi nell’anima di questa terra. “L’osservazione pura, non turbata da
volontà o finalità alcuna, l’esercizio fine a se stesso di vista, udito, odorato, tatto, è un paradiso di
cui i più raffinati di noi hanno profonda nostalgia, ed è in viaggio che riusciamo a perseguirla nel
modo migliore e più puro”, ha scritto Hermann Hesse. Un piacere soddisfatto dal museo Drostdy di
Swellendam che è, nel suo genere, uno dei più belli e completi del Sudafrica. Dalle sue candide
mura alle candide dune della De Hoop Nature Reserve sono meno di tre ore, ma via via che ci si
avvicina i conducenti debbono stare sempre più attenti alle buche dello sterrato. Le ore alla De
Hoop rimangono nella memoria come staccate dal resto del viaggio, quasi fosse una parentesi
ultraterrena. La situazione era mistica: priva d’ogni cosa ma piena di una forza che tutti noi
sentivamo. Noi! Chi ci ha disciplinato nella conoscenza del mondo e di noi stessi? In assenza di veri
maestri (e in presenza di una moltitudine di falsi profeti), provvede il viaggio.

Ma De Hoop era l’ultimo atto della nostra identificazione con l’oceano, con gli animali, con i vasti
spazi del Sudafrica. Già la visita a Kassiesbaai, il quartiere dei pescatori di Arniston, colle sue
ristrutturate casette candide e fotogeniche, cominciava a riportarci nell’artefatto, nell’intenzionale.
E Cape Agulhas è solo il punto più meridionale del continente, e non ha nulla dell’entusiasmante
crudezza dello Tsitsikamma. Foto di rito col gruppo, visita al bellissimo faro, e l’addio, il giorno
dopo, agli animali, affidato alle balene di Hermanus e ai pinguini di Betty’s Bay. All’avvicinarci a
zone più popolate, l’albero della vita che ci aveva nutrito con la poesia (avevamo un fotografo-poeta
tra noi), con l’amore (forse!), la natura, il sole, la bellezza, la luna, l’armonia, le stelle, la vita, le
risate, la speranza, gli uccelli, l’amicizia, l’humour, si trasformava nell’albero della conoscenza, coi
suoi frutti amari. D’ora in ora percepivo ricomparire il mio muro di protezione, mentre scivolavo
nuovamente nella mia maschera, nel mio ruolo. Lì per lì non ce ne siamo resi conto, ma il brindisi
che abbiamo fatto alla cantina Hartenberg – tutto il territorio di Stellebosch è un tripudio di vigne e
storiche aziende vinicole – è stato l’addio al Sudafrica selvaggio, e il ritorno a sentirci insignificanti
sassolini sul fondo del mare della vita.

Le costruzioni storiche lungo la costa orientale della Penisola del Capo ci fanno ridere, noi che
abbiamo tremila anni di storia, ma le cabine sulla spiaggia di Muizenberg, dove Agatha Christie si
cambiava negli anni ’20, quando trovava una mezza giornata per andare a fare surf, sono ancora
coloratissime, ed è un piacere perverso perdersi nelle antichità dei negozi di rigattiere di Kalk Bay.
Io ho comprato alcuni long playing che avranno forse la mia età e un’edizione ancor più vecchia
dell’opera completa di Oscar Wilde: prima o poi voglio imparare a parlare e a scrivere. Snobbiamo i
pinguini di Boulders ed entriamo nel Parco della Punta del Capo. La penisola termina con due
speroni, e la camminata dalla Punta del Capo, col vecchio faro in cima, e il Capo di Buona
Speranza, una mezz’ora più a ovest, è uno dei momenti che più rimane impresso per le dimensioni
dello spettacolo della montagna e dell’oceano. Tentiamo di imboccare la panoramica Chapman
Peak’s Drive, che alcuni gruppi erano riusciti a percorrere nonostante fosse interrotta, ma la strada è
sbarrata e ci obbliga a un lungo giro per raggiungere la costa occidentale della penisola. Ecco i
Dodici Apostoli, i picchi neanche tanto ben riconoscibili che si affacciano sull’Atlantico. Sui massi
granitici della spiaggia di Clifton scattiamo le ultime foto al sole, che va nelle Americhe.

Forse serve più di un giorno a Città del Capo per capirne la bellezza che tutti decantano. A me ha
fatto l’impressione di un mélange non riuscito di magniloquenza coloniale, di imprendibili fortezze
bancarie e di comune edilizia popolare tra cui compaiono preoccupanti tratti contemporanei. Bella è
la presenza, imponente ma non incombente, della Table Mountain, che oggi è opportunamente
sgombra di nubi e, con un piccolo sforzo della nostra mascotte portafortuna (abbiamo bucato solo
due volte, e se non è fortuna questa….), si libera anche del forte vento permettendoci la salita in
funivia, per l’ultimo paesaggio da cartolina. Il pomeriggio, chi va alla Robben Island, un tributo ad
una storia che il Sudafrica sta lavorando per cambiare, chi fa un giro della città alla ricerca di quegli
introvabili cappellini della Coppa del Mondo per i parenti, e la sera all’Acquario, il gioiello del
Victoria & Alfred Waterfront. E’ la moda dell’architettura contemporanea: Barcellona e Lisbona,
per menzionare solo i porti più vicini a noi, hanno recentemente recuperato il loro affaccio sul mare
con la riqualificazione di Port Vell e di Barceloneta e la creazione del Parque das Nações
rispettivamente. Città del Capo ha fatto lo stesso rivitalizzando le strutture in disuso della baia, e
senza necessità di un’Olimpiade. In realtà, poco lontano dal Waterfront, abbiamo visto operai
lavorare giorno e notte al nuovo stadio per le partite del 2010. Ospitare un evento di portata
mondiale significa, per un paese sviluppato, un’occasione di rinnovamento, e per uno emergente il
raggiungimento della maggiore età, l’entrata nel consesso delle nazioni che contano. Il Sudafrica ha
fatto molta strada dall’abolizione dell’apartheid nel 1992 ma le città rimangono ancora pericolose –
per questo abbiamo accuratamente evitato sia Johannesburg che, a malincuore, Durban, dove
avremmo trovato mercati odorosi e templi indù. E pure a Città del Capo, dopo una certa ora, è
meglio non avventurarsi. Forse, quando torneremo, troveremo un paese più libero anche per i
bianchi.

Per il momento, forse non potremo, con Roy Batty, il replicante impersonato da Rutger Hauer in
“Blade Runner”, proclamare: “Ho visto cose che voi non credereste: navi d’assalto bruciare non
lontano dalla spalla di Orione, ho osservato raggi-C brillare nel buio vicino alla Porta di Tannhauser
– tutti questi momenti sarebbero perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”, ma il Sudafrica ci
ha sorpreso con momenti altrettanto incredibili e indelebili. “I veri viaggiatori son quelli che
partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini, qualsiasi cosa possa succedere non si
tirano indietro e dicono sempre ‘Andiamo’, e non sanno perché”, ha scritto Charles Baudelaire.
“Andiamo”, annunciamo sempre con un sorriso, e quando torniamo è difficile trovar le parole giuste
per raccontare. “Com’è grande il mondo alla luce delle lampade! Agli occhi del ricordo, com’è
piccolo!”: è così piccolo, che tutti i 5.555 km percorsi in Sudafrica stanno tutti nella mia memoria,
vividi come un sogno più lungo della notte. Solo, non vi so comunicare le emozioni di quella strada:
dovete percorrerla di persona.

Renzo Pin (coordinatore 4308)


31 dicembre 2009

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