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LIBRO PRIMO

«Sì, forse riesco a trovarlo, il bambino, se desidera proprio vederlo» disse miss Pynsent; voleva assolutamente
assecondare ogni desiderio della visitatrice, che considerava un personaggio importante e piuttosto ostico. Per andare in
cerca del fanciullo, uscì dal salottino che si era vergognata di far vedere in un simile stato di disordine, coi modelli di
carta posati sui mobili e ritagli di stoffa sparsi sul tappeto - emergendo da quel santuario un poco soffocante, dedicato
sia alle visite di convenienza che al mestiere al quale aveva votato la vita, e aperta la porta di casa dette una occhiata su
e giù per il vicolo. Fra poco sarebbe stata l'ora del tè, e lei sapeva che a quell'ora solenne Hyacinth restringeva il cerchio
dei suoi vagabondaggi. Era sconvolta, in preda all'impazienza, all'eccitazione e all'ansia di compiacere la signora
Bowerbank che non voleva far aspettare (anche se quella se ne stava lì, pesantemente seduta con aria comprensiva,
come se non avesse alcuna fretta); e preoccupata non poco al pensiero che l'oggetto delle sue ricerche potesse
presentarsi con la faccia sporca. La signora Bowerbank aveva dichiarato con tale fermezza di considerare assai lodevole
che miss Pynsent si fosse presa cura gratuitamente del bambino per tanti anni che l'umile sarta, pronta a fantasticare su
tutti tranne che su se stessa, e ignara fino a quel momento di poter costituire un esempio di altruismo, improvvisamente
desiderò di apparire completamente dedita al fanciullo così come la grassa, seria ospite credeva che fosse, e pensò come
sarebbe stato bello se egli fosse comparso tutto fresco e disinvolto e grazioso come sapeva essere a volte. Miss Pynsent,
sbattendo nervosamente le palpebre mentre guardava fuori, era agitatissima, in parte per quanto la signora Bowerbank
le aveva detto, e in parte perché, quando aveva offerto alla signora una goccia di liquore per riprendersi dalla fatica
della lunga spedizione, quella aveva risposto che non si sarebbe sognata di toccare nulla a meno che miss Pynsent non
le tenesse compagnia. Lo «scifonnié», come Amanda si ostinava a chiamarlo, ospitava una sola bottiglietta che un
tempo aveva contenuto eau de cologne, e che ora esibiva un quarto di un liquido dal caldo color oro. Miss Pynsent era
una creatura delicata; si nutriva di tè e di crescione e teneva nello chiffonier quella bottiglietta soltanto per le grandi
occasioni. Il brandy caldo diluito con acqua e addolcito da una zolletta o due di zucchero non le piaceva ma in questa
occasione del tutto eccezionale se ne versò un mezzo bicchiere. A quell'ora il bambino si piantava davanti al negozietto
di dolci sull'altro lato della strada, una bottega che vendeva anche periodici, oltre a caramelle da succhiare e lecca-lecca,
e dove libri di canzoncine e stampe erano messi in bella mostra nella sporca vetrinetta. Aveva l'abitudine di soffermarsi
lì davanti per mezz'ore intere, cercando di compitare la prima pagina dei racconti del Family Herald e del London
Journal, incantato soprattutto dall'illustrazione d'obbligo in cui venivano presentati all'occhio profano i più nobili
personaggi (sempre di altissimo lignaggio). Quando possedeva un soldino ne spendeva una parte in una chicca di
zucchero stantia, con l'altra metà comprava una filastrocca attaccata a un vivace motivo in legno intagliato. In quel
momento, comunque, non si trovava lì in contemplazione, né era visibile in alcun altro luogo scrutato dall'occhio
impaziente di miss Pynsent.
«Millicent Henning, su', dimmi, hai visto il mio bambino?» Queste parole erano state rivolte da miss Pynsent a
una bambinetta che, seduta sulla soglia della casa vicina cullava una bambola sciupata, dalla lussureggiante chioma
castana sormontata da un cappellino di paglia tutto strappato.
La bambina alzò gli occhi seguitando a cullare e lisciare il pupazzo, e con un'occhiata la cui impenetrabilità
risultava volutamente ostentata rispose: «No, miodio, miss Pynsent, non lo vedo mai.»
«Ma se stai sempre a trafficare con lui, brutta cattiva!» la rimbeccò aspramente la sarta. «Non sta giocando a
palline o... a fare i salti qui dietro l'angolo?» continuò miss Pynsent cercando di suggerirle la risposta.
«Le posso assicurare che non gioca proprio per niente,» affermò Millicent Henning con un fare da adulta che
accentuò continuando: «E non capisco poi perché dovrei essere chiamata brutta cattiva.»
«Se vuoi fare la brava, vai subito, per piacere, a cercarlo, e digli che c'è una signora venuta apposta per
vederlo.» Miss Pynsent aspettò un istante per accertarsi che l'ordine sarebbe stato eseguito ma non raccolse altra
soddisfazione che di vedersi squadrata ancora una volta da uno sguardo deciso, tale da indurla a pensare che la perfidia
di quella bambina era pari alla bellezza, un po' sporca e appannata, della sua faccetta insolente. Con un gemito
d'impotenza rientrò in casa e non appena scomparve, Millicent Henning saltò in piedi e si precipitò di corsa giù per il
vicolo verso un'altra viuzza che lo tagliava. Non credo di far torto al candore della fanciullezza dicendo che la ragione
della corsa di quella signorinella non era certo il desiderio di far piacere a miss Pynsent, ma l'acuta curiosità di sapere
chi fosse la visitatrice che voleva vedere Hyacinth Robinson. Voleva prender parte, sia pure con l'immaginazione,
all'incontro, e inoltre era mossa da un improvviso ritorno di affetto per il fanciullo dal quale si era separata appena
mezz'ora prima, con una certa asprezza. Era una creatura indipendente e nella sua cerchia domestica non c'era nessuno a
cui fosse particolarmente attaccata; le piaceva però baciare Hyacinth quando lui non la respingeva dicendole che era
odiosa: era appunto a quel gesto e a quell'epiteto che lui si era abbandonato mezz'ora prima. Ma aveva riflettuto
rapidamente (mentre si faceva gioco di miss Pynsent) che questa volta si era comportato peggio di tutte le altre.
Millicent Henning aveva solo otto anni, ma sapeva che al mondo c'erano cose più tremende.
La signora Bowerbank si era abbandonata a un lento e prolisso racconto sulla sorella, la signora Copperfield,
che era venuta a trovare da quelle parti, e confidò a miss Pynsent, sorseggiando un secondo bicchiere, il penoso calvario
dell'idropisia del marito di questa, un becchino, in possesso di un mestiere che era una vera benedizione, perché ci si
poteva sempre contare. Era una donna dalle spalle alte, torreggiante, che dava l'impressione di essere quadrata e insieme
di respirare un'aria più rarefatta, e Amanda pensò che doveva essere molto difficile farle i vestiti e si sentì girare la testa
al pensiero della quantità di spilli che sarebbero occorsi nelle prove. La sorella aveva nove figli mentre lei ne aveva
sette; quando andava a lavorare, la più grande badava agli altri. Prestava servizio nelle carceri, soltanto di giorno:
doveva trovarsi sul posto alle sette del mattino, ma la sera era libera e se ne stava comoda e tranquilla a casa sua. Miss
Pynsent trovò straordinario che, con la vita che conduceva, potesse parlare di comodità, ma capiva come si potesse
essere felici di tornarsene a casa la sera, perché a quell'ora il carcere diventava certo orribile.
«Non ha paura di loro... mai?» chiese, alzando verso la visitatrice il viso un poco avvampato.
La signora Bowerbank, che era una donna lenta, la osservò a lungo prima di rispondere, tanto che l'altra provò
vivissima la sensazione di trovarsi sotto lo sguardo della legge; e del resto chi poteva essere più strettamente legato alle
pratiche della giustizia di una donna-carceriera, soprattutto quando era così grossa e imponente? «Ho l'impressione che
siano loro ad aver paura di me,» dichiarò infine; ed era un concetto che miss Pynsent afferrò senza difficoltà.
«Immagino che di notte facciano un baccano indiavolato,» suggerì la piccola sarta confondendo prigioni e manicomio.
«Se ci si azzardano, li facciamo star zitti noi», rispose in tono perentorio la signora Bowerbank, mentre miss
Pynsent andava di nuovo alla porta, senza nessun risultato, per vedere se per caso comparisse il fanciullo. Fece
osservare alla sua ospite che non c'era altra espressione per definirlo se non «bastian contrario» dal momento che sapeva
benissimo che quasi tutti i giorni della settimana il tè era pronto a quell'ora. A questa dichiarazione la signora
Bowerbank fissando di nuovo la sua compagna con l'occhio inflessibile della giustizia, disse: «E prende sempre il suo
tè, così, da solo, come un piccolo gentiluomo?»
«Beh, cerco di darglielo ben servito, a un'ora decente,» ammise con tono colpevole miss Pynsent. «E quanto a
questo, qualcuno potrebbe affermare che è proprio un piccolo gentiluomo» aggiunse, sforzandosi di usare un tono
moderato mentre invece si rendeva conto di essere profondamente eccitata.
«C'è gente tanto sciocca da dire qualsiasi cosa. Se sono i genitori a determinare la nostra qualifica sociale, il
fanciullo ha molto poco di cui andar fiero,» continuò la signora Bowerbank col tono di chi guarda sempre le cose in
faccia.
Miss Pynsent era timidissima, ma adorava l'aristocrazia, e vi erano dei particolari, nella vita del fanciullo, a cui
non era disposta a rinunciare nemmeno per una persona che faceva pensare allo stridere di chiavistelli e al cigolio delle
catene. «Non dobbiamo dimenticarci che suo padre era molto in vista,» esclamò con voce supplichevole, stringendosi
convulsamente le mani in grembo.
«Suo padre? E chi lo sa chi era? Non risulta che abbia un padre, no?»
«Ma, non è stato forse provato che Lord Frederick...?»
«Mia cara, nulla è stato mai provato tranne che la donna pugnalò nella schiena Sua Signoria con un lungo
coltello, provocandone la morte, e che fu condannata a scontare la pena. Cosa può saperne una come quella, di padri?
Meno si parla degli antenati del fanciullo, e meglio è!»
Miss Pynsent si sentì annaspare a questo giudizio che faceva crollare in un soffio tutta la bella fantastica
costruzione che, per anni, era andata innalzando. Ma anche nel momento in cui ne percepiva il crollo, non poté
trattenersi dal cercare di salvare almeno qualche frammento. «Ma come... come,» ansimò, «aveva avuto a che fare
soltanto con la nobiltà!»
La signora Bowerbank osservò con occhio spento la sua interlocutrice. «Mia cara signorina, cosa ne sa un
esserino a modo come lei, che se ne sta tutto il giorno seduta con ago e forbici, della vita di una spregevole straniera, di
infima estrazione, una di quelle persone che vanno in giro con un coltello? Mi trovavo lì quando arrivò e so io fino a
che punto era caduta in basso. Aveva una conversazione proprio raffinata, glielo assicuro!»
«Oh, è orribile, e naturalmente io non so nulla di preciso,» disse miss Pynsent in tono querulo. «Ma non era poi
tanto in basso quando lavoravamo nello stesso posto, e spesso mi ripeteva che non si sarebbe mai sprecata per nessuno
che non fosse altolocato.»
«Sarebbe stato meglio se le avesse parlato di cose più utili per entrambe,» rispose la signora Bowerbank
mentre la sarta si sentiva redarguita tanto sul passato che sul presente. «Altolocato, poverina! Beh, ora ha toccato il
fondo. Se non le era capitato quando lavorava, è un peccato che non si sia conservato quel posto; quanto all'orgoglio
della nascita, è un argomento che il suo giovane amico farà bene a lasciare ad altri. E lei, si fidi pure di quello che le
dice una donna di mondo.»
E lo era senz'altro, come si rendeva ben conto miss Pynsent, per la quale tutto ciò era terribile, che cioè una
cara, sommessa, piccola convinzione fosse frugata dalla cruda luce del sistema penale. Si era presa cura del fanciullo
perché la maternità le era congeniale, e questa era la sola opportunità che la fortuna le aveva offerto per diventare
madre. Anche lei, come quel bimbo abbandonato, aveva avuto ben poco che potesse chiamare suo, e le sembrava che la
presenza del bambino le avrebbe conferito una qualche importanza nel ristretto mondo di Lomax Place (bastava tacere il
modo in cui ne era venuta in possesso) che sarebbe stata proporzionata alla generosità con cui avrebbe provveduto al
suo mantenimento. La sua solitudine si protendeva verso quella di lui e col passare del tempo le loro esistenze solitarie
si popolarono di centinaia di consolanti reminiscenze vagheggiate dalla mente romantica della sarta. Il fanciullo si
rivelò tutt'altro che sciocco o protervo, ma quello che più glielo rendeva caro era la convinzione che appartenesse, «per
la parte sinistra», come aveva letto in un romanzo, ad una razza antica e fiera, di cui (un giorno che aveva dovuto
aspettare, col suo lavoro, nel boudoir di una nobildonna) aveva scorso in un grosso libro rosso, consultato avidamente e
con trepidazione l'elenco dei discendenti e delle parentele acquisite. Piegò il capo di fronte alla logica stringente della
signora Bowerbank ma in cuor suo decise che non avrebbe rinunciato al fanciullo soltanto perché non trovava una
risposta a qualche parola - era del resto naturale che non vi riuscisse - e che avrebbe continuato a credere in lui e nella
propria capacità di riconoscere e rispettare le qualità di chi era migliore di lei. Credere in Hyacinth, per miss Pynsent,
significava credere che lui fosse davvero figlio dell'immoralissimo Lord Frederick. Fin dalla prima infanzia aveva
insinuato nella mente del bambino che c'era qualcosa di grande nel suo passato, e poiché la signora Bowerbank non
avrebbe mai e poi mai approvato simili corbellerie, si augurava che non le fossero rivolte domande in proposito. Non
che la piccola sartina si facesse scrupolo, a tempo e luogo, di usare le arti della simulazione: era una creatura mite e
innocente, ma raccontava frottole con la stessa prodigalità con la quale applicava i suoi merletti. Tuttavia, fino ad ora,
non era stata mai interrogata da un emissario della legge, e il cuore le battè forte quando la signora Bowerbank chiese in
tono grave, vagamente duro:
«E mi dica, miss Pynsent, l'innocente lo sa?»
«Lo sa di Lord Frederick?» replicò palpitante miss Pynsent.
«Al diavolo Lord Frederick! Lo sa di sua madre.»
«Oh, direi di no. Io non gliel'ho mai detto.»
«Ma glielo ha mai detto nessuno?»
A questa domanda, la risposta di miss Pynsent suonò più sicura e fiera; con la piacevole consapevolezza di
essersi comportata con straordinaria saggezza e opportunità, replicò: «Chi avrebbe potuto saperlo? Non ne ho mai fatto
parola ad anima viva!»
Ma la signora Bowerbank non pronunciò nessuna lode; si limitò a posare il bicchiere vuoto e a pulirsi la bocca
larga, con cura meticolosa. Poi, come se si trattasse dell'idea migliore che avesse avuto fino a quel momento, disse:
«Ah, bene, saranno anche in troppi un giorno ad informarlo!»
«Voglia Dio che possa vivere e morire senza saperlo!» gridò con passione miss Pynsent.
La sua interlocutrice la guardò con una certa condiscendenza professionale. «Mi sembra che non afferri bene
l'idea. Come può andare a trovarla, il bambino, se non deve sapere nulla?»
«Vuole dire che quella glielo dirà?» annaspò, querula, miss Pynsent.
«Dirglielo! Non ci sarà bisogno di dirgli nulla, una volta che lei lo stringerà e gli darà... quello che mi ha
detto.»
«Quello che ha detto...?» ripeté miss Pynsent sgranando gli occhi.
«Il bacio di cui le sue labbra hanno avuto sete per tutti questi anni.»
«Povera infelice!» mormorò la sarta lasciando sgorgare di nuovo tutta la sua pena. «Certo capirà che lei lo
ama,» continuò con semplicità. Poi, come per ispirazione, aggiunse: «Potremmo dirgli che è sua zia!»
«Può pure dirgli che è sua nonna, se vuole. Ma si tratta sempre di una persona di famiglia.»
«Sì da quel lato,» disse miss Pynsent irrimediabilmente perduta dietro le sue fantasticherie. «E parlerà
correntemente francese?» chiese, come ispirata. «In tal caso non la capirà.»
«Oh, un figlio capisce sempre sua madre, qualunque lingua parli» replicò la signora Bowerbank rifiutandosi di
elargire un superficiale conforto. Ma soggiunse offrendo una via d'uscita a una prospettiva irta di pericoli:
«Naturalmente dipende tutto da lei. Non è obbligata a condurre il fanciullo, se non lo desidera. Molte non lo farebbero.
Non c'è nessun obbligo.»
«E non mi accadrebbe nulla se non lo portassi?: chiese la povera miss Pynsent, incapace di liberarsi della
sensazione che in qualche modo il braccio della legge era levato contro di lei.
«La sola cosa che le potrebbe accadere è che lui un giorno possa rinfacciarglielo» fece balenare lugubremente
la signora del carcere.
«Sì, certo, se però venisse a sapere che l'ho trattenuto.»
«Oh, un giorno o l'altro lo verrebbe a sapere, non c'è dubbio. Succede sempre così... Tutto viene a galla,»
sentenziò la signora Bowerbank che sembrava avere una visione del mondo assai poco allegra. «Non bisogna
dimenticare che si tratta del desiderio d'una morente, e lei potrebbe ritrovarselo sempre sulla coscienza.»
«Non lo potrei mai sopportare!» esclamò con grande enfasi la piccola sarta, rabbrividendo; si piegò poi a
raccogliere i ritagli sparsi di mussolina e di carta arrotolandoli meccanicamente con una fretta disperata. «È terribile non
sapere che fare... ma se lei è proprio sicura che sta veramente morendo.»
«Vuole forse insinuare che finge? Sì, capita spesso... ma sappiamo come comportarci in quei casi.»
«Miodio, me lo immagino,» mormorò miss Pynsent mentre la visitatrice continuava a raccontare che l'infelice
donna, per conto della quale aveva intrapreso questo penoso pellegrinaggio, avrebbe potuto resistere una settimana o
due, ma che se avesse vissuto ancora un mese avrebbe violato (come la signora Bowerbank si sarebbe espressa) ogni
legge di natura, essendo ormai ridotta pelle e ossa e senza più nulla, tranne il desiderio assillante di rivedere il suo
bambino.
«Se ha paura di quel che potrebbe dire, non c'è da temere: non è in grado di parlare, e inoltre non vi saranno
concessi più di otto minuti,» continuò la signora Bowerbank con un tono che ricordava una disciplina ferrea.
«Non ne vorrei certo di più; quegli otto minuti mi basteranno per il resto della vita,» disse miss Pynsent con
tono conciliante. E poi, nuovamente ispirata, aggiunse: «Non pensa che un giorno potrebbe rinfacciarmi di avercelo
portato? Anche se in avvenire qualcuno gli dovesse parlare di lei, non avendola mai vista sarebbe libero di non
crederci.»
La signora Bowerbank ci pensò sopra un momento, come se si trattasse di una questione complessa e poi,
coerente come sempre al suo programmatico pessimismo, rispose: «Di una cosa può star certa; qualunque decisione
prenda, una volta cresciuto le farà desiderare di avere preso quella opposta.» La signora Bowerbank pronunciò
«opposita.»
«Miodio, meno male che ci manca ancora molto.»
«Non ci mancherà molto, una volta che l'idea gli sarà entrata nella testa! In ogni caso, Lei deve agire come
crede meglio. Ma se decide di venire, non deve aspettare che sia tutto finito.»
«Non ce la faccio a decidere.»
«Capisco,» annuì la signora Bowerbank con suprema coerenza. E apparve più seraficamente lugubre che mai
mentre, raccogliendo intorno a sé lo scialle che si era allentato, aggiunse che si sentiva molto obbligata verso miss
Pynsent la cui cortesia le era stata di grande conforto: la sua visita aveva peraltro devastato la serenità di miss Pynsent
che manifestò tutta la sua perplessità in questa estrema esclamazione:
«Se lei volesse almeno aspettare di conoscere il bambino, sono sicura che potrebbe giudicare meglio la
situazione.»
«Mia cara, non ho nessuna intenzione di giudicare, non è compito mio!» esclamò la signora Bowerbank; ma
aveva appena pronunciato queste parole che la porta della stanza si aprì cigolando e la donna si trovò di fronte un
bimbetto che la osservava. Posò gli occhi su di lui per un istante e poi, del tutto inaspettatamente, emise un gridolino
inconsulto. «È questo il bambino? Oh, Dio misericordioso, ma questo qui non può portarcelo!»
«Lo dicevo io che era timido e sensibile!» si lasciò sfuggire miss Pynsent che gli balzò incontro fermandolo
con le braccia protese, poi volgendosi ansiosamente alla visitatrice: «Così delicato e nervoso, mi si riduce uno straccio!»
Ma per quanto delicato, la sartina lo scrollò violentemente rimproverandogli di non essersi fatto trovare quando lo
cercava, e lo spinse verso la signora dalla faccia quadrata e dalla voce profonda, che sembrava riempire completamente
mezza stanza. Ma la signora Bowerbank non lo toccò; si limitò a lasciar cadere il suo sguardo da un'altezza vertiginosa
e la sua indulgenza parve come un tributo a quella fragilità sulla quale miss Pynsent si era accalorata a insistere, così
come l'ostentata serietà copriva forse l'imbarazzo di quella donna scrupolosa. «Parla alla signora, da bravo, e chiedile
scusa per averla fatta aspettare.»
Il fanciullo esitò, mentre ricambiava con lo stesso interesse l'attento esame della signora Bowerbank, poi, con
fredda, calcolata indifferenza che miss Pynsent immediatamente attribuì alla sua natura aristocratica, disse: «Non mi
pare che abbia poi tanta fretta.»
C'era dell'ironia in quelle parole, ed è un fatto indubitabile che già a dieci anni Hyacinth Robinson fosse
ironico; ma l'oggetto di quella allusione, non eccessivamente disponibile, parve non raccoglierla; reagì soltanto dicendo
a miss Pynsent, al di sopra della sua testa: «Ha il suo stesso viso, tranne la carnagione!»
«Il viso di lei? E non le ricorda affatto Lord Frederick?»
«Ho conosciuto qualche aristocratico e non tutti avevano tratti così fini»
Miss Pynsent aveva visto pochissimi nobili, ma aderì con un'eccitazione spasmodica a questa generalizzazione;
tuttavia, controllandosi, dato che il bambino era terribilmente intelligente, si limitò a dichiarare che il suo aspetto
sarebbe stato più presentabile con la faccia un po' più pulita.
«È stata probabilmente Millicent Henning che mi ha sporcato la faccia quando mi ha baciato,» annunciò in
tono lento e grave il fanciullo, tenendo gli occhi fissi sulla signora Bowerbank. Non c'era in lui alcun sintomo di
timidezza.
«Millicent Henning è una bambina molto cattiva; diventerà una poco di buono» disse miss Pynsent con
assoluta convinzione e anche - visto che la signorinella in questione le aveva fatto efficacemente da ambasciatrice - con
notevole ingratitudine.
Il bambino si ribellò subito a quella qualifica: «Perché cattiva? Per me non lo è affatto e mi piace moltissimo.»
Gli era venuto in mente all'improvviso che si era affrettato a gettare su di lei la colpa del suo aspetto disordinato e
desiderava rimediare al tradimento. Intuiva vagamente che soltanto la gravità dell'accusa lo aveva spinto a difenderla,
perché in effetti odiava le persone in cui le zone pulite erano sommerse da macchie e rigagnoli di sporcizia. Millicent
Henning in genere aveva almeno due o tre macchie procuratele dalla sua bambola contro la quale stropicciava in
continuazione il naso e la cui sporcizia era contagiosa. Era inevitabile che gli avesse lasciato un segno sotto il naso
quando gli aveva chiesto la ricompensa per essergli andata a dire che una signora lo stava aspettando.
Miss Pynsent teneva il fanciullo stretto contro le ginocchia, e sembrava presentarlo alla signora Bowerbank per
indurla a convenire con lei che aveva l'impronta di una creatura di razza. Era assai minuto per la sua età, e sebbene non
avesse l'aria malaticcia, la sua personcina sembrava quasi proclamare che non sarebbe divenuta mai alta né forte. Gli
occhi di un azzurro intenso erano distanti tra loro e accentuavano la bellezza e la dolcezza del volto, e la massa di
capelli ondulati, lunghi e folti, era di quel colore castano dorato destinato a sollevare esclamazioni deliziate nelle
signore che lo avrebbero contemplato. Le fattezze erano armoniose: la testa poggiava su un collo dritto e sottile;
l'espressione grave e aperta indicava una vivacità percettiva oltre a un profondo candore; nella sua tenera signorilità
appariva in tutto e per tutto una personcina interessante e attraente.
«Sì, è certamente un tipo che ricorda» disse la signora Bowerbank paragonandolo mentalmente agli ottusi
membri della sua nidiata che non erano mai stati in grado di afferrare nulla ad eccezione di qualche soldo che di tanto in
tanto riuscivano a sgraffignarle. Scrutò ogni particolare del suo abbigliamento: il rammendo accurato dei pantaloncini,
le lunghe calze colorate, di cui non le sfuggiva l'eleganza, come anche il fiocco sgargiante che la sarta aveva passato
intorno al colletto e che l'abbraccio della signorina Henning aveva un po' strapazzato. Certo miss Pynsent ne aveva uno
solo da accudire, ma la sua visitatrice dovette riconoscere che aveva il culto dei bottoni. «È un piacere vedere come lo
tiene bene» continuò, notando le ingegnose pezze nelle scarpe del fanciullo che le sembravano riparate esattamente
come quelle di un principino.
«Lei è troppo buona - esultò miss Pynsent. «Non l'ho mai sfiorato neppure con un ago. Sono convinta che ne
ricaverebbe un'impressione troppo forte.»
«È soltanto per guardarmi che mi ha fatto chiamare?» chiese Hyacinth con un candore che nella sua innocenza
risultava, ancora una volta, carico di sarcasmo.
«La signora è anche troppo gentile ad accorgersi di te» urlò la sua protettrice, dandogli un piccolo strattone del
tutto innocuo. «Non sei più grosso di una pulce; chissà quanta gente non ti distinguerebbe da una pulce e neanche
"ammaestrata" per giunta.»
«Quando comincerà ad andarsene per i fatti suoi, se ne accorgerà, se è grande abbastanza,» replicò
tranquillamente la signora Bowerbank, e aggiunse che ora che aveva visto com'era fatto non poteva evitare di rendersi
conto che anche l'altra parte andava presa in considerazione. Nello sforzo di parlare con la massima discrezione in
presenza del bambino (così precocemente attento) era diventata un po' enigmatica: ma miss Pynsent afferrò quello che
voleva dire quanto cioè fosse vero che il fanciullo avrebbe notato tutto e se lo sarebbe ricordato, ma che d'altra parte
proprio perché era un bambino così affascinante sarebbe stata una grossa cattiveria non soddisfare il desiderio di quella
poveretta che, se avesse saputo quale aspetto aveva, non avrebbe mai perdonato, a colei che aveva preso il suo posto, di
non averglielo mostrato. «Al posto suo me ne andrei più contenta se avessi prima visto questi boccoli», dichiarò la
signora Bowerbank in una fantasiosa impennata materna che la portò ad alzarsi, mentre miss Pynsent sentiva che
andandosene la lasciava terribilmente scombussolata, senza che nessuno dei semi gettati avesse dato il suo frutto. La
piccola sarta spedì il fanciullo al piano di sopra perché si mettesse in ordine per il tè, e accompagnando la visitatrice alla
porta la supplicò di avere un po' di pazienza, fra un giorno o due avrebbe deciso il da farsi e le avrebbe scritto. La
signora Bowerbank continuava a spaziare in una sfera superiore a quella tutte incertezze e timori della povera miss
Pynsent, e quel fare distaccato potenziava agli occhi della ospite il prestigio della sua irreprensibilità. Il dislivello
sembrò colmarsi, quando, avendo Amanda piagnucolato sulla soglia di casa un'ultima volta, vagamente e scioccamente:
«Non è una disgrazia che quella sia tanto infame?», la pesante donnona delle carceri ribadì con un tono di voce che
sembrava fatto apposta per rimbombare contro la pietra dei corridoi: «Le assicuro, ce ne sono di ben peggiori!»

II

Rimasta sola miss Pynsent si sentì tutta stravolta. Non aveva calcolato questa terza terribile crisi e la natura
stessa del caso sembrava doverla precludere. Tutto ciò che sapeva o che aveva voluto sapere, era che in uno di quei
luoghi orribili, appositamente costruiti, quella che un tempo era stata una sua compagna di lavoro stava scontando una
pena in cui era stata commutata la sentenza capitale. quando (orrore indicibile!) aveva già il cappio intorno al collo. Era
però ovviamente fuori discussione che quell'atto di clemenza potesse subire ulteriori modifiche; la povera Florentine era
dunque un po' più morta di qualsiasi defunto, senza una lapide che ne indicasse la tomba. A miss Pynsent perciò non
sarebbe mai passato per la mente che lei potesse morire di nuovo, non aveva idea di dove fosse stata internata, una volta
trasferita da Newgate (aveva voluto cancellare dalla sua mente tutta la faccenda, nell'interesse del bambino) e non
avrebbe mai potuto pensare che un giorno da quella silenziosa oscurità si sarebbe levata una voce, e soprattutto una
voce che non poteva fare a meno di ascoltare. Prima della visita della signora. Bowerbank, miss Pynsent avrebbe
giurato che non doveva rendere conto a nessuno del proprio operato; che aveva raccolto il fanciullo (che altrimenti
sarebbe morto di fame in mezzo alla strada) per spirito di carità, e lo aveva allevato, nonostante le misere e precarie
condizioni economiche, senza il sussidio di un soldo da chicchessia; che la madre si era giocata ogni diritto su di lui, e
che questo era esattamente quanto avevano pattuito fra loro - se è mai possibile parlare di accordi in momenti così
spaventosi - quando si era recata a trovarla a Newgate (quell'infausto episodio, occorso alcuni anni prima, ancora oggi
offuscava completamente qualsiasi altro ricordo di miss Pynsent): era andata a trovarla perché Florentine l'aveva
mandata a chiamare (un nome, un volto, un indirizzo sgorgato dalla memoria di un passato non troppo remoto ma finito
bruscamente, di quando lavoravano insieme) come la sola amica a cui potesse rivolgersi con una qualche speranza di
ricevere una pietosa risposta. La violenza dell'emozione non aveva reso miss Pynsent né inerte né isterica; sotto quella
spinta, al contrario, si buttò nelle faccende quotidiane, come una fuggiasca cerca scampo per viottoli poco battuti,
mettendosi a sforbiciare, cucire, imbastire, quasi volesse battere sul tempo la crisi nervosa. E mentre mani, forbici e ago
volavano, un'infinita successione di ipotesi fantastiche s'inseguivano nella sua piccola testa confusa: era dotata di
un'immaginazione accesa, e nel suo cervello l'azione riflessiva si tramutava sempre in una galleria d'immagini e di
situazioni. Si era dipinta a colori rosati il quadro del proprio avvenire, che aveva tenuto appeso per anni davanti agli
occhi: ma sentiva che la signora Bowerbank aveva praticato con mano pesante un foro nella tela. Va aggiunto tuttavia
che sebbene i pensieri di Amanda spesso non fossero altro che visioni fantastiche, riuscivano però talvolta a farle
prendere qualche decisione, e infatti quella particolare sera di settembre ne prese una estremamente grave. Decise
dunque di cercare consiglio, e a questo scopo si precipitò giù per le scale e, costringendo Hyacinth ad interrompere il
suo pasto frugale, lo spedì dall'altro lato della strada perché riferisse al signor Vetch (a meno che non si fosse già
avviato a teatro) che lo supplicava di recarsi da lei al suo ritorno, quella sera stessa, perché doveva dirgli qualcosa di
molto importante. Se fosse rincasato tardi, non importava, poteva andare a qualsiasi ora - avrebbe visto la luce accesa
alla finestra - e le avrebbe fatto un vero favore. Miss Pynsent sapeva bene che andare a dormire non le sarebbe servito a
nulla; mai e poi mai avrebbe potuto chiudere occhio. Il signor Vetch era il suo amico più illustre; provava
un'ammirazione sconfinata per la sua intelligenza e conoscenza del mondo, e per la limpidità del suo giudizio circa il
comportamento e le intenzioni umane; e già si era consultata con lui per l'educazione di Hyacinth. Al fanciullo non
occorsero spinte per andare a portare il messaggio, perché anche lui aveva il suo punto di vista nei riguardi dell'umile
suonatore, secondo violino dell'orchestra del teatro di Bloomsbury. Una volta, quell'anno, il signor Vetch era riuscito ad
ottenere due biglietti per una pantomima, e l'emozione di quella serata magica l'avevano reso sacro per Hyacinth,
fissandolo per sempre nello splendore della luce dei riflettori. Vi erano alcune cose nella vita di cui il fanciullo, già a
dieci anni, era convinto che non sarebbe stato suo destino potersi mai appagare, e una di queste era appunto quel mondo
fantastico, illuminato dalle luci della ribalta. Ma chissà, se non avesse perso di vista il signor Vetch, forse si sarebbe
presentata ancora un'altra occasione: chissà che la porta non si fosse riaperta - il violinista era uno di quei fortunati
mortali dai magici poteri, che andava a teatro tutte le sere.
Arrivò a casa di miss Pynsent verso mezzanotte; non appena udì il discreto trillare del campanello, lei andò alla
porta e lo fece entrare. Era un originale, nel più vero senso della parola: un solitario ometto, deluso, amareggiato,
scettico, che aveva visto la propria carriera musicale arenarsi, sensibile ed emotivo come un aristocratico, condannato
dalla sorte a suonare da secondo violino in un teatro di second'ordine per pochi scellini alla settimana. Aveva idee
personalissime su tutto, e non sempre troppo ottimiste. Per Amanda Pynsent incarnava l'arte, la letteratura (quella dei
cartelloni), la filosofia; le dava costantemente l'impressione di appartenere ad una classe sociale molto più elevata,
nonostante i suoi guadagni fossero ben poco superiori alle misere entrate di lei e occupasse una stanzetta nel retro di una
casa in cui non le era mai accaduto di notare una sola finestra pulita. Agli occhi della sartina emanava il fascino della
nobiltà piegata dalla fortuna; aveva rilevato che parlava in modo diverso (sebbene non avrebbe saputo indicare in cosa
consistesse la differenza, tranne forse per alcuni termini troppo crudi o troppo preziosi da tutti gli altri membri di
quell'umile agglomerato periferico; e le sue mani avevano qualcosa di spiccatamente aristocratico. (Come ho già notato
miss Pynsent nutriva un enorme interesse per quella classe sociale). Un solo aspetto della personalità del signor Vetch le
dispiaceva, cioè la sua blasfema ideologia repubblicana e radicale, e la licenziosità del linguaggio con cui era solito
riferirsi alla nobiltà. Da questo verso le procurava un enorme fastidio, sebbene quelle parole scandalose non facessero
che rafforzarle maggiormente l'intima certezza della nobile origine di lui, come più o meno le accadeva per Hyacinth.
Quelle orribili teorie (espresse con tanto acume che avrebbero potuto essere davvero pericolose se miss Pynsent non
fosse stata così saldamente aggrappata alla propria fede cristiana e di conseguenza avesse saputo bene come reagire)
non costituivano una smentita alle sue origini raffinate; potevano spiegarsi piuttosto come un legittimo risentimento per
ritrovarsi escluso dalla posizione sociale che gli spettava. Il signor Vetch era basso, grasso e calvo, sebbene non fosse
molto più anziano di miss Pynsent, la quale a sua volta non era più vecchia di certa gente che dice di avere
quarantacinque anni; andava a teatro in abito da sera con un fiore all'occhiello e portava il monocolo. Aveva l'aspetto
placido e gioviale di chi al massimo può innervosirsi per la rigidità della propria camicia. Di lui si poteva pensare che
fosse un uomo meticoloso ma immune da qualsiasi problematica, certo non un rivoluzionario e neppure un accanito
critico della vita. Talvolta, quando usciva presto da teatro, andava con un amico pianista a suonare ballabili a qualche
festicciola e dopo queste spedizioni diventava particolarmente cinico e stralunato; si abbandonava a vere diatribe contro
la borghesia britannica, meschina, grottesca, snobistica. Era raro che, parlando con miss Pynsent, si astenesse dal dirle
che aveva la levatura intellettuale di un bruco; ma era una battuta che si poteva permettere per l'amicizia che li legava
ormai da sette anni, iniziata quando (un anno dopo che era andato a vivere a Lomax Place) lei, avendo appreso dalla
lattaia che se ne stava tutto solo al numero 17, con un attacco di gastrite, era corsa a curarlo. L'aveva sempre paragonata
ad un insetto, o a un uccello, ma lei non ci badava perché sapeva che in fondo gli piaceva, come del resto a lei
sembravano belle tutte le creature alate. Quale motivo aveva poi di lamentarsi, avendolo sentito definire la Regina una
formula antiquata e l'Arcivescovo di Canterbury una grottesca superstizione?
Posò l'astuccio del violino sul tavolo ingombro di modelli e puntaspilli e guardò il fuoco sul quale il bollitore
dell'acqua sibilava gradevolmente. Miss Pynsent, che aveva messo su l'acqua da mezzora, seguì il suo sguardo e si
rallegrò al pensiero che la signora Bowerbank non si fosse completamente scolata la bottiglietta dello chiffonier. La
posò di nuovo sul tavolo questa volta con un solo bicchiere, e disse al suo ospite che, in via del tutto eccezionale, poteva
accendersi la pipa. In realtà era un'eccezione che concedeva ogni volta e, invariabilmente, al grazioso discorsetto, lui
replicava se fosse davvero convinta che le mogli degli erbivendoli e le figlie dei macellai per le quali lavorava, avessero
un olfatto talmente raffinato da riconoscere negli abiti che confezionava per loro l'odore del suo tabacco. Sapeva che la
sua clientela si limitava ai bottegai ma miss Pynsent avrebbe voluto che la cosa fosse segreta e che tutti pensassero che
gli straccetti da lei fabbricati (di gusto purtroppo assai discutibile) non dovevano assolutamente turbare le narici
femminili. Non era però mai riuscita a convincerne il signor Vetch; egli captava sempre la verità, la proditoria, nuda
verità, su tutto, in un istante. Era certa che anche adesso avrebbe messo a fuoco la grave situazione che si era creata per
Hyacinth; avrebbe intuito che, sebbene gradevolmente eccitata per ritrovarsi coinvolta negli ultimi vortici di un caso
tanto celebre a suo tempo, il suo segreto desiderio sarebbe stato di sottrarsi al proprio dovere - se era poi un dovere - e
impedire che il fanciullo venisse a conoscenza della innominabile vicenda materna, dell'onta della sua nascita, e infine
dell'occasione che lei aveva avuto di fargli vedere quella miserabile donna prima che fosse troppo tardi. Sapeva che il
signor Vetch avrebbe letto i suoi pensieri turbati, ma sperava che li avrebbe trovati naturali e legittimi; pensò che,
siccome aveva preso a benvolere Hyacinth, avrebbe voluto evitare al fanciullo una mortificazione che lo avrebbe
segnato per sempre e avrebbe forse potuto schiantarlo. Gli raccontò della visita della signora Bowerbank mentre lui,
seduto sul sofà, - nello stesso posto occupato poco prima da quella donna mastodontica, soffiava anelli di fumo nella
penombra della piccola stanza. Conosceva da anni la storia della nascita del fanciullo e non poteva aspettarsi nessuna
rivelazione sorprendente. Non si agitò affatto nell'udire dell'imminente fine di Florentine e del fatto che fosse riuscita a
far pervenire ad Amanda il suo messaggio; ritenne tutto ciò talmente normale che disse a miss Pynsent: «Pensavate che
sarebbe vissuta in eterno, scontando la sua tremenda condanna, tanto per risparmiarvi la seccatura di un dilemma e il
ricordo della sua miseranda esistenza, che avreste preferito dimenticare?». Quelle domande erano tipiche del signor
Vetch, e come non bastasse egli chiese alla donna sgomenta se fosse certa che il messaggio della sua amica (la
chiamava sua amica quell'infelice creatura) le fosse pervenuto in modo regolare. I carcerieri senza dubbio non avevano
l'autorità di far passare chiunque desiderasse visitare i detenuti; dunque lei pensava di recarsi al carcere con la sola
autorizzazione della signora Bowerbank? La piccola sarta spiegò che quella signora era venuta con l'unico scopo di
interpellarla sulla richiesta che Florentine le aveva rivolto con tanta insistenza: era stata nel braccio della signora
Bowerbank prima di essere portata in infermeria, dove ora giaceva in fin di vita, e aveva formulato il suo desiderio al
cappellano cattolico, che si era assunto l'impegno di procurarle il conforto di sapere che almeno un tentativo era stato
compiuto. Aveva creduto opportuno, per prima cosa, accertarsi che la persona che aveva preso in custodia il bambino
fosse disposta ad accompagnarlo, decisione assolutamente facoltativa, e si era consultato in proposito con la signora
Bowerbank decidendo di comune accordo che quest'ultima avrebbe preso contatto con miss Pynsent spiegandole la
situazione, lasciandola libera di decidere come meglio avesse creduto, mentre lui da parte sua si sarebbe impegnato ad
ottenere dal direttore della prigione l'eventuale permesso per quell'incontro. Miss Pynsent abitava da quattordici anni a
Lomax Place, indirizzo che Florentine non aveva mai dimenticato dal giorno in cui l'antica compagna era andata a
trovarla a Newgate (prima che la terribile sentenza venisse commutata) e le aveva promesso, in uno slancio di pietà
verso colei che aveva conosciuto nei suoi giorni onesti e limpidi, che le avrebbe salvato il figlio, sottraendolo all'ospizio
e al marciapiede, preservandolo da quel destino che aveva distrutto la madre. La signora Bowerbank aveva ottenuto una
mezza giornata di permesso, e poiché si riprometteva da tempo di farsi viva con una sorella che viveva nella zona
settentrionale di Londra, aveva soddisfatto questo impegno familiare e si era poi recata da miss Pynsent a esporle la
questione senza tante cerimonie. Ora la decisione dipendeva unicamente da lei. Aveva un giorno o due per riflettere,
non di più, perché la donna era molto malata, e poi avrebbe dovuto scrivere alla signora Bowerbank al carcere. Se
avesse accettato, la signora Bowerbank lo avrebbe comunicato al cappellano e questi, ottenuta l'autorizzazione dal
direttore, l'avrebbe inviata a Lomax Place; quindi Amanda, insieme alla piccola vittima innocente, si sarebbe
immediatamente recata sul luogo. Ma era il caso - doveva - accettare? Era questo il tremendo, sconvolgente dilemma
che miss Pynsent non si sentiva di risolvere senza un consiglio.
«Dopo tutto non è più suo, è mio, solo e per sempre mio. Vorrei vedere che si dicesse il contrario, dopo quanto
ho fatto!» si sfogò Amanda Pynsent, agucchiando sempre più velocemente una pezza che teneva appuntata sul
ginocchio.
Il signor Vetch la osservò per un poco, fumando in silenzio la pipa, col capo appoggiato all'alto, rigido
schienale dell'antiquato divano, le corte gambette incrociate alla moda dei turchi. «È vero che avete fatto molto per lui.
Siete una gran brava donna, dopotutto, mia cara Pinnie.» Quel «dopotutto» faceva parte del suo modo di parlare. In
realtà non aveva mai dubitato che fosse la migliore donna del quartiere.
«Ho fatto quel che potevo e non me ne vanto. Ma se uno ci pensa, dispiace... doverlo portare a trovare un'altra
donna. E una donna del genere ... e in un luogo come quello! Non mi sembra giusto, per un piccolo innocente.»
«Non ne sono certo. C'è anche chi pensa che queste cose fanno bene. Se da piccolo il luogo non gli piace, si
sforzerà da grande di starne alla larga.»
«Miodio signor Vetch, ma che dite! Un principino come lui!» esclamò miss Pynsent.
«Siete voi che ce lo avete fatto diventare?» domandò il violinista. «Non mi sembrate disposta ad ammettere
che sia un tratto di famiglia.»
«Di famiglia? Ma cosa ne sapete voi?» rispose subito aggrappandosi alla sua amatissima, unica idea fissa.
«È vero, chi ne sa nulla? Che cosa ne sapeva anche lei?» E poi, con tono indifferente il visitatore aggiunse:
«Perché ve lo siete incollato Pinnie? Perché avete voluto essere così superlativamente buona? Nessuno vi obbligava.»
«Non volevo essere superlativamente buona. Voglio dire, certo che lo desidero, in un certo senso, ma non è
stato quello il motivo. Capirete, non possedevo nulla di mio, non possedevo nulla al mondo tranne il mio ditale.»
«Molti l'avrebbero ritenuta una ragione sufficiente per non adottare il bastardo di una prostituta.»
«Beh, andai a trovarlo là dove stava (dove lei lo aveva lasciato con la maîtresse) e capii che genere di posto
fosse, e sentii che sarebbe stato un delitto far crescere un povero innocente in un luogo simile,» si schermì miss Pynsent,
quasi che il suo agire emotivo fosse stato un'azione criminale. «E non sarebbe cresciuto di sicuro. Quelle non si
sarebbero certo data la pena di occuparsi di un bambino indifeso. Quelle gli avrebbero giocato qualche brutto tiro, se
non altro spedendolo dritto al riformatorio. E poi, ho avuto sempre una passione per le creaturine, e a questa ho voluto
molto bene» continuò parlando quasi con la coscienza di avere agito ai limiti dell'eroismo. «Per due o tre anni mi sono
sentita molto legata ed è stata un'impresa badare a lui e ai miei impegni contemporaneamente. Ma ora è diventato come
il lavoro - sembra che vada avanti da solo.»
«Se va a gonfie vele come il lavoro, potete stare tranquilla,» commentò il violinista, pronto come sempre a
ironizzare su tutto.
«Sì, certo, ma questo non m'impedisce di pensare a quella povera donna malata, che desidera tanto sfiorare la
sua manina prima di morire. La signora Bowerbank ha detto di essere sicura che glielo porterò.»
«Chi è sicura? La signora Bowerbank?»
«Mi domando se esiste qualcosa di sacro per voi a questo mondo,» replicò miss Pynsent strappando il filo con
rabbia. «Mi piacerebbe esserci, il giorno che la smetterete di scherzare.»
«Finché ci sarete voi, non la smetterò. Che volete che vi dica? Che dovete portare il fanciullo o che dovete
lasciar piangere la madre?»
«Voglio che mi diciate se quando sarà diventato grande mi maledirà.»
«Dipende da voi: ma probabilmente vi maledirà in ogni caso.»
«Non potete crederlo davvero, perché anche a voi piace e lo amate,» osservò Amanda acutamente.
«Certo; e infatti maledirà anche me. Maledirà tutti. Se ne farà molto del nostro affetto! Non sarà mai felice.»
«Mi domando come, secondo voi, lo stia educando,» replicò con dignità la piccola sarta.
«Non siete voi ad educarlo, ma lui a educare voi.»
«È una cosa che avete sempre detto, ma in realtà non sapete nulla. Se siete convinto che fa quello che più gli
piace, allora dovrebbe essere felice. Non è bello da parte vostra dire che non sarà felice,» aggiunse miss Pynsent in tono
di rimprovero.
«Sarei pronto a dire tutto quello che volete, se servisse a qualcosa. Ma stiamo parlando di un povero piccolo
diavolo sensibile, un po' morboso, che vive nel mondo della luna introverso, con una fantasia accesa e poca costanza,
che si aspetterà sempre dalla vita molto più di quello che troverà. È per questo che non sarà felice.»
Miss Pynsent ascoltò la descrizione del suo protégé con l'aria di criticarla internamente ma per la verità non
conosceva il significato della parola «introverso» e non voleva chiederlo. «Dopo di voi è la persona più intelligente che
conosca,» disse poi, perché le parole del signor Vetch rientravano in quello che più apprezzava in lui. Che cosa
esattamente fosse, però, non avrebbe saputo dirlo.
«Grazie per avermi messo al primo posto,» replicò il violinista dopo ripetute tirate di pipa. «È un ragazzo
interessante; chiaramente è dotato di un cervello e perfino di un'anima, e da questo punto di vista... se non proprio unico
è per lo meno del tutto particolare. Sono curioso di vedere come sarà da grande. Ma non mi pentirò mai di essere
rimasto un inveterato scapolo egoista - che non si è mai lasciato attrarre da questo genere di mercanzia.»
«Beh, siete proprio consolante. Lo viziereste peggio di me,» disse Amanda.
«Forse, ma comunque in modo diverso. Non gli direi certo ogni tre minuti che suo padre era un duca.»
«Non ho mai parlato di duchi!» replicò con forza la piccola sarta. «Non ho mai detto nulla di preciso né fatto
nessun nome in particolare. Non mi sono mai neppure sognata di nominare Sua Signoria. Posso avergli detto che se un
giorno si fosse scoperta la verità si sarebbe forse trovato che era un consanguineo - un cugino o qualcosa di simile - di
una delle persone più in vista del paese. Mi sarei sentita in colpa se non gli avessi fatto trapelare almeno questo. Ma una
cosa ho sempre ribadito: che la verità non si saprà mai.»
«Siete ancora più consolante di me!» esclamò il signor Vetch dopo averla guardata con quel sorriso amabile sul
viso rotondo, e poi disse: «Non farete mai ciò che vi dico; a che serve darvi dei consigli?»
«Vi prometto che lo farò, se mi assicurerete di essere convinto che sia l'unica cosa giusta.»
«Ho mai detto qualcosa di così sciocco? Giusta... giusta? Che cosa ne sapete voi? Se volete la cosa giusta, siete
molto esigente.»
«Allora come dovrei regolarmi?» chiese meravigliata la sarta.
«Dovete considerare tutto quello che servirà a farlo scendere dal piedistallo.»
«Farlo scendere dal piedistallo, povero bambino mio?»
«Il vostro povero bambino crede di essere la perla della creazione. Non dico che ci sia qualcosa di male, in
questo: una presunzione tanto radicata e abbagliante è un complemento naturale della giovinezza e dell'intelligenza.
Non dico che ci sia un gran male, ma se volete un consiglio per come trattare il ragazzo, questo ne vale un altro.»
«Allora volete che acconsenta all'incontro?»
«L'unica cosa che voglio è che mi versiate un altro goccio... grazie. Dico soltanto: che conoscere il peggio
quando si è ancora piccoli è sempre un gran vantaggio, almeno non ci si illude di vivere nel vacuo paradiso degli stolti.
Io l'ho fatto fino all'età di quarant'anni. Poi mi sono svegliato e mi sono ritrovato a Lomax Place.» Tutte le volte che il
signor Vetch diceva qualcosa interpretabile come un'allusione a una sua precedente posizione sociale spirante un vago
sentore di distinzione, miss Pynsent osservava un rispettoso, delicato silenzio, e anche questa volta non ribatté nulla,
anche se avrebbe voluto obiettare che Hyacinth non era più «presuntuoso» (era questa la parola che avrebbe usata) di
quanto obiettivamente potesse permettersi, con la sua aggraziata figuretta, e le spiccate predisposizioni; e che, in quanto
a considerarsi una «perla» di qualche specie, sapeva anche troppo bene che abitava in una casetta dalla facciata scura, a
miglia di distanza dalle buone famiglie; una casa presa in affitto da una povera donna che teneva a pensione quel genere
di persone su cui non si poteva far troppo affidamento che pagassero settimanalmente l'affitto, e che lottava per far
quadrare il bilancio, malgrado il gratificante cartello affisso fra le due finestre:

SIGNORINA AMANDA PYNSENT


modelli e stoffe
lavori di sartoria di ogni genere:
abiti da corte, mantelli e cappellini alla moda.

Imprevedibilmente il suo visitatore, senza che lei parlasse, le lesse nel pensiero (almeno in parte) e dichiarò che
forse, per quanto riguardava la reale situazione del fanciullo, miss Pynsent la riteneva sufficientemente miserabile per
non desiderare di degradarla maggiormente. «Ma da qui a quando avrà compiuto vent'anni, si sarà convinto che Lomax
Place non è stato altro che un brutto sogno, che i vostri affittacamere e il vostro lavoro da sarta erano così immaginari
quanto volgari, e che quando un vecchio amico vi veniva a trovare a tarda ora, non era vostra abitudine preparargli
amorevolmente un bicchiere di brandy diluito con acqua. Si autodisciplinerà a dimenticare tutto: troverà il modo di
farlo.»
«Volete dire che mi dimenticherà e mi ripudierà?» gridò miss Pynsent, arrestando di colpo, per la prima volta,
il movimento dell'ago.
«Dimenticherà, senza dubbio, l'intestataria di quell'attraente insegna fuori della casa, e anche me, certo: il
calvo, panciuto violinista che vi considerava la donna più perfetta di sua conoscenza. Non voglio dire che vi ripudierà,
che farà finta di non avervi mai conosciuto; non credo che diventerà una canaglia così abietta; forse non sarà neppure un
vile; e mi dà l'idea che in lui ci sia un po' di cuore e forse anche di gratitudine. Ma la sua fantasia (che piloterà sempre i
suoi percorsi mentali) vi sottoporrà a qualche straordinaria metamorfosi. Insomma, vi rivestirà.»
«Mi rivestirà?» esclamò Amanda, che aveva completamente perso il filo del discorso del signor Vetch. «Volete
dire che riavrà le sue proprietà... che i suoi parenti lo riconosceranno?»
«Cara, deliziosa sciocca Pinnie, sto parlando in senso figurato. Non ho la pretesa di sapere quali saranno le sue
condizioni quando ci relegherà nel dimenticatoio: ma sono sicuro che il nostro destino sarà quello di essere accantonati.
Perciò non lo riempite di false idee e sottili illusioni più di quanto non gli sia necessario per poter sopravvivere. Non gli
mancherà modo di raccoglierne a sufficienza strada facendo. Dategli piuttosto una buona dose di verità fin d'ora.»
«Miodio, certo voi vedete assai più lontano di me,» mormorò Pinnie infilando l'ago.
Il signor Vetch fece una pausa, ma evidentemente non per assaporare quell'amabile interruzione. Continuò
infatti con un'improvvisa emozione nella voce: «Ditegli, gli servirà in seguito, quali sono i conti in sospeso fra lui e la
società, perché sappia come regolarsi. Se è il figlio illegittimo di una francese corrotta che ha ucciso uno dei suoi
numerosi amanti non tenetegli celato un fatto così importante. È un'origine che considero estremamente valida.»
«Diomio, signor Vetch, certo che non vi mancano le parole!» esclamò miss Pynsent con una delle sue abituali
quanto vacue osservazioni. «A starvi a sentire non so proprio cosa si dovrebbe pensare.»
«È così, mia cara, e per questa ragione: che quella è la gente con cui la società deve fare i conti; non con
persone come me o come voi.» Miss Pynsent sospirò forse per la propria incapacità di rendersi conto di quanto andava
ascoltando, forse per il terribile vizio del signor Vetch d'ingigantire le cose, specialmente quando erano già troppo
grandi per lei, e il suo amico continuò filosoficamente: «Povero piccolo diavolo, fategliela vedere, portatecelo.»
«E se poi, più in là, quando avrà vent'anni, dovesse dirmi che se non mi fossi impicciata non avrebbe mai
saputo niente, non avrebbe provato quella vergogna, che cosa potrei rispondergli allora? È questo pensiero che non
riesco a togliermi di testa.»
«Potrete dirgli che un uomo che si rammarica di essere andato a trovare sua madre che agonizzava nel letto di
un penitenziario, sospirando per rivederlo, merita assai di peggio della più acuta sofferenza che potrà mai provare.» E il
piccolo violinista, alzatosi, andò al caminetto e svuotò la pipa.
«Beh, è naturale che si sentirebbe a disagio» disse miss Pynsent riponendo il lavoro con quei movimenti
frenetici che l'avevano agitata tutta la sera.
«Nessuna recriminazione sul fatto che si senta a disagio; non è certo la cosa peggiore che possa capitargli. Se
un po' più di gente si sentisse a disagio, in questa nostra razza ottusa, stolta e vana, il mondo si risveglierebbe con
qualche idea, e vedremmo l'avvio di una qualche azione. È la supina acquiescenza, l'assenza di qualsiasi moto riflessivo,
l'impenetrabile nebbia...» Qui il signor Vetch s'interruppe di colpo: la padrona di casa gli stava di fronte con gli occhi
minacciosi e i pugni stretti.
«Anastasius Vetch, finitela, co' ste' mostruosità!,» gridò scivolando in cadenze popolaresche che le venivano
istintive quando era fortemente emozionata. «Inforcate sempre il cavallo di Orlando. Credevo che gli foste affezionato...
a quel povero piccolo infelice.»
Anastasius Vetch aveva rimesso in tasca la pipa; si mise il cappello in testa, prendendosi quella libertà da
vecchio amico e abitante di Lomax Place, e si riprese l'astuccio del violino, simile a una piccola bara. «Mia povera
Pinnie, ho l'impressione che non comprendiate una sola parola di quello che dico. A che serve parlare... Fate come vi
pare.»
«Beh, non valeva la pena che vi scomodaste a quest'ora di notte solo per dirmi questo. Non mi piace questa
faccenda... non mi piace per niente!»
Il signor Vetch per quanto gli consentiva la sua bassa statura s'inchinò a baciarle la mano con la galanteria di
un troubadour, come aveva visto fare sulle scene. «Cara amica, noi due la pensiamo diversamente e non riuscirò mai a
farvi comprendere le mie idee. È proprio perché lo amo, povero piccolo diavolo, ma voi non capirete mai. Voglio che
sappia tutto, e specialmente il peggio... sì, ho detto proprio il peggio. Al posto suo, non mi sentirei di ringraziarvi per
esservi fatta gioco di lui.»
«Farmi gioco di lui?... Ma se non penso ad altro che alla sua felicità!» esclamò Amanda Pynsent. Rimase a
guardarlo, ma in realtà inseguiva i propri pensieri: aveva rinunciato a correre dietro alle sue bizzarrie. Ricordò quello
che aveva già notato in altre occasioni, che le sue teorie erano ancora più straordinarie del comportamento. A giudicare
unicamente dal suo modo di vivere, non lo si sarebbe mai immaginato tanto immorale. «Molto probabilmente sto dando
troppo peso a questa storia,» aggiunse, «ma quello che continua a tormentarmi è il pensiero che quella lo vuole e
spasima per lui.» Prese la lampada per far luce al signor Vetch che si avviava alla porta (la scarsa illuminazione del
corridoio era venuta meno ormai da tempo). Ma prima di lasciare la casa egli si voltò all'improvviso, arrestandosi
bruscamente, il volto pacifico reso ambiguo dal bagliore enigmatico dei suoi piccoli occhi tondi.
«Che importanza ha dopo tutto? Di che vi preoccupate? Che differenza può fare quello che accadrà... sia da
una parte che dall'altra... a gente così miserabile?»

III

La signora Bowerbank le aveva fatto sapere che l'avrebbe aspettata all'ingresso di quel luogo spaventoso, e
questo pensiero aveva sostenuto miss Pynsent durante il lungo, tortuoso viaggio con continui cambi di autobus
inframmezzati da tratti a piedi. Aveva anche pensato a una carrozza, ma aveva optato di usarla per il ritorno, quando,
con tutta probabilità si sarebbe ritrovata sopraffatta dall'emozione e così sconvolta da rifugiarsi con sollievo in un
mezzo che la sottraesse agli sguardi estranei. Dubitava perfino che una volta varcata la soglia della prigione, l'avrebbero
mai più restituita alla libertà e alle sue clienti; aveva l'impressione di vivere un'avventura pericolosa e deprimente, e si
sentì invadere da una profonda commozione per l'innocente entusiasmo del fanciullo che procedeva al suo fianco, tutto
allegro, come già era accaduto in un'altra circostanza rimasta famosa negli annali di miss Pynsent, un certo afoso sabato
d'agosto in cui lo aveva accompagnato a visitare la Torre. Si era tormentata non poco, una volta presa quella decisione,
su cosa dirgli a proposito di questa visita. Aveva deciso di dirgli il meno possibile, di spiegargli soltanto che stavano
andando a visitare una povera donna che si trovava in carcere per un delitto commesso molti anni prima, che l'aveva
mandata a chiamare manifestando inoltre il desiderio, se avesse avuto qualche bambino da portare con sé - poiché i
bambini (quando sono buoni) sono vivaci e allegri - di essere rallegrata dalla presenza di un piccolo visitatore. Era
difficilissimo essere reticenti o misteriosi con Hyacinth. Voleva sapere tutto di tutto e puntualmente investì con la luce
penetrante delle sue domande la reclusa amica di miss Pynsent. Costei dovette ammettere che erano state amiche
(altrimenti che obbligo avrebbe avuto di andare a trovarla?) ma parlò come se si trattasse di una conoscenza di poco
conto (lei era rimasta viva nella memoria della reclusa soltanto perché tutti gli altri... il mondo era così duro!... le
avevano voltato le spalle), e si congratulò con se stessa della felice ispirazione che l'aveva portata a descrivere il crimine
per il quale la donna stava scontando la pena come il furto di un orologio d'oro, sottratto in un momento di estremo
bisogno. La donna aveva avuto un marito malvagio che l'aveva maltrattata e abbandonata; era stata poverissima, quasi
sul punto di morire di fame, e duramente provata. Hyacinth ascoltò la storia con avido interesse e poi disse:
«E non aveva bambini... non aveva neanche un bambino piccino?»
Questa domanda suonò a miss Pynsent foriera di futuri turbamenti, ma, accogliendola come meglio le riuscì,
rispose che le pareva infatti che la misera vittima della legge avesse avuto (tanto tempo prima) un bambino assai
piccolo, ma temeva che ne avesse completamente perso le tracce. Hyacinth doveva sapere che i bambini non avevano il
permesso di entrare nelle carceri. Il fanciullo osservò subito che naturalmente lui sarebbe potuto entrare perché era
grande. Miss Pynsent si consolò pensando a quell'altro pellegrinaggio, la visita a Newgate, dieci anni prima: era uscita
sana e salva da quella esperienza e aveva avuto perfino la consolazione di sapere che la visita aveva dato buoni frutti.
Tuttavia oggi la responsabilità era tanto più grande, e del resto non era certo per se stessa che temeva ed esitava, ma per
la tenera sensibilità del fanciullo che avrebbe potuto rimanere appannata dall'ombra di quel luogo infamante.
Percorsero l'ultimo tratto di strada a piedi, dopo essere scesi il più vicino possibile al fiume, costeggiandolo
(secondo le istruzioni che miss Pynsent, cammin facendo, era andata raccogliendo da una mezza dozzina di poliziotti,
tramvieri e piccoli bottegai) fino a giungere a un grosso, turrito edificio, riconoscibile a prima vista. Lo riconobbero
infatti non appena videro levarsi dalle sponde del Tamigi la sua mole scura che via via sembrò distendersi fino ad
occupare tutta la zona, coi suoi muri bruni e senza finestre, coi brutti pinnacoli mozzi e un'aria indicibilmente triste e
severa. Agli occhi di miss Pynsent apparve sinistro e ostile e lei si domandò perché una prigione dovesse avere un'aria
tanto crudele dal momento che era stata edificata nell'interesse della giustizia e dell'ordine - l'edificazione di una
protesta, appunto, contro il vizio e la scelleratezza. Questo penitenziario in particolare la colpì come un luogo cattivo e
corrotto quanto coloro che racchiudeva. Gettava un maleficio sulla luce del giorno e conferiva al fiume un aspetto
sporco e venefico, mentre la riva opposta, con la sua profusione di camini irti, di sgraziati gazometri e depositi
d'immondizie, aveva l'aspetto di una regione che avesse popolato a proprie spese la prigione stessa. Guardò in su verso i
lugubri cancelli chiusi, serrando istintivamente la manina di Hyacinth; e se era difficile credere che una cosa tanto
impenetrabile, cieca e muta, si sarebbe dischiusa per lasciarla entrare, si sentiva mancare il cuore al presagio che quella
stessa cosa avrebbe mai potuto darsi la pena di lasciarla uscire. Mentre indugiava, mormorando parole sconnesse contro
l'oggetto del suo viaggio, sopraggiunse un fatto del tutto imprevisto a rinfocolare i suoi scrupoli e la sua riluttanza. Il
fanciullo all'improvviso si sciolse dalla stretta e, incrociate le mani dietro la schiena, le disse, con tono rispettoso ma
risoluto, piantandosi a una certa distanza:
«Questo posto non mi piace.»
«Neanche a me, amore mio,» proruppe in un gemito la sarta. «Se sapessi quanto non mi piace!»
«Allora andiamocene. Non voglio entrare.»
Si sarebbe aggrappata ben volentieri a questa soluzione se nell'oscillare delle sue esitazioni non le fosse
improvvisamente balenato il pensiero che, dietro quelle mura lugubri, la donna che aveva concepito quel bambino stava
contando i minuti. Era viva, in quell'immensa tomba buia, e miss Pynsent ebbe l'impressione che già si fosse stabilito un
contatto. Le erano vicini, e lei lo sapeva; fra pochi istanti avrebbe assaporato la sola pietà (ad eccezione della grazia che
l'aveva scampata dalla forca) che avesse conosciuto dal giorno della sua caduta. Ancora qualche attimo e la nostra
pellegrina capì che se le fosse venuta meno la carità le sue veglie, a Lomax Place, sarebbero state popolate dai rimorsi...
forse persino da qualcosa di più amaro. C'era in agguato, dentro di lei, qualcosa che attendeva e ascoltava, pronta ad
esplodere con un fragore tremendo, un urlo o una maledizione, se avesse condotto via il fanciullo. Guardò la sua faccina
pallida, consapevole che sarebbe stato vano da parte sua ricorrere ai modi imperativi; inoltre le sarebbe sembrato
mostruoso. Ebbe un'altra ispirazione, e disse, con una voce pacata che aveva già usato in un'altra occasione:
«L'unica ragione per cui siamo qui è perché vogliamo essere buoni. Se saremo buoni, l'aspetto sgradevole della
cosa non ci toccherà.»
«Perché dobbiamo essere gentili con lei se è una donna tanto cattiva?» chiese Hyacinth. «Dev'essere una
persona spregevole. Non voglio conoscerla.»
«Ssst, ssst,» gemette la povera Amanda, avvicinandoglisi con le mani giunte. «Non è più cattiva, ora. È stato
tutto spazzato via... espiato.»
«Che significa "espiato"?» chiese il fanciullo mentre la donna s'inginocchiava per stringerselo al seno.
«È quando si è sofferto terribilmente... sofferto tanto che uno ritorna buono.»
«E lei ha sofferto tanto?»
«Per molti anni. Ed ora sta morendo. Il fatto che ci voglia vedere è la prova che ora è diventata tanto buona.»
«In che modo? Forse perché siamo buoni noi?» continuò Hyacinth con un fare così inquisitorio che la sua
compagna distolse lo sguardo da lui e fissò gravemente la desolata distesa di Battersea.
«Siamo buoni se siamo compassionevoli, se facciamo uno sforzo,» disse infine la sarta levando gli occhi verso
il bambino, come se si trovasse più in alto di lei.
«Ma se sta morendo? Non voglio vedere morire nessuno, io.»
Miss Pynsent rimase di sasso, ma la forza della disperazione ebbe il sopravvento. «Forse se andiamo da lei non
muore più. Può darsi che riusciamo a salvarla.»
Egli le puntò sul viso i suoi incredibili occhi - occhi che le davano sempre l'impressione di appartenere a una
persona più adulta e più forte di lei - e poi disse: «Perché dovrei salvare un essere simile, se non mi piace?»
«Se lei ti vuole bene, questo basta.»
Miss Pynsent si accorse che queste parole lo avevano scosso: «Allora mi vuole un grande, grandissimo bene?»
«Grandissimo. Più di chiunque altro...»
«Più di quanto me ne vuoi tu?»
«Oh,» disse Amanda prontamente «volevo dire, più che a chiunque altro.»
Hyacinth aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloncini, e stando con le gambe leggermente divaricate
distolse lo sguardo dalla sua compagna per rivolgerlo all'immensa, lugubre prigione. Lei intuì che tutto dipendeva da
quell'istante. «Va bene,» disse finalmente, «ci vengo, ma per poco.»
«Caro, caro!» mormorò piano la sarta, mentre attraversavano lo squallido semicerchio che separava il cancello
d'ingresso dalla strada poco frequentata. Fece uno sforzo per tirare il filo della campanella che le sembrò enorme e duro,
e mentre attendeva i risultati di questo sforzo, il fanciullo se ne uscì improvvisamente con questa osservazione:
«Come può amarmi tanto se non mi ha mai visto?»
Miss Pynsent si augurò che il cancello si aprisse prima che fosse costretta a rispondere, ma là dentro ci
mettevano tanto ad arrivare che Hyacinth ebbe tutto il tempo di ripetere la domanda. Così, aggrappandosi alla prima
idea che le venne in mente, disse: «Perché il bambino che aveva tanto tempo fa si chiamava anche lui Hyacinth.»
«Che razza di motivo,» mormorò il bambino guardando la sponda opposta di Battersea.
Un istante dopo si ritrovarono immersi in una vasta penombra, mentre dietro di loro si udiva un gran cigolio di
chiavi e chiavistelli. Da quel momento miss Pynsent si abbandonò nelle mani della provvidenza e in seguito non
conservò memoria di quanto era accaduto fin quando non vide profilarsi nell'oscurità di quel misterioso androne la
grossa sagoma della signora Bowerbank. Rammentava solo la sensazione di trovarsi circondata da alte mura nere, la cui
parete interna era più spaventosa dell'altra, quella che guardava il fiume; di essere passata attraverso cortili di pietra
grigia, in alcuni dei quali orribili figure che non sembravano neppure femminili, rivestite di goffe uniformi marroni
guarnite di lugubri cappucci, marciavano in circolo tutt'intorno; di essersi infilata su per scalette prive d'illuminazione,
alle calcagna d'una femmina che l'aveva presa in custodia e che procedeva lanciando parole incomprensibili all'indirizzo
di altre donne dall'aspetto inebetito che vedeva spuntare all'improvviso, simili a fantasmi, nelle loro sciatte cuffie
slegate, negli angoli misteriosi dei recessi di quel labirinto percorso da gelide correnti d'aria. Se da fuori quel luogo era
sembrato crudele alla piccola sarta, potremmo ben giurare che non le apparisse un asilo di misericordia man mano che
procedeva nel tortuoso itinerario all'interno della sezione circolare delle celle, sbirciando attraverso le grate degli
spioncini le detenute e sfiorandone altre temporaneamente ambulanti nei corridoi - donne taciturne, dagli occhi fissi,
che si appiattivano contro le mura di pietra non appena sfiorate dall'abito della visitatrice, e che miss Pynsent non osava
guardare. Mai si era sentita tanto prigioniera, in trappola; le mura serravano nuove mura e gallerie sovrastavano altre
gallerie; perfino la luce del giorno scoloriva, tanto che non era possibile capire che ora fosse. Si sentì abbandonata dalla
signora Bowerbank, e questo pensiero l'avvilì maggiormente; fu presa dal panico pensando al bambino. Anche su di lui
si sarebbe abbattuto l'orrore della scena, e con un moto di nausea presentì che una volta a casa, sarebbe stato preso dalle
convulsioni. Era un luogo assolutamente disadatto per lui, e non importava più chi lo avesse mandato a chiamare, né chi
stesse morendo. L'allucinata immobilità, l'ottusità penitenziale di quelle donne ammassate e isolate, lo avrebbero
atterrito. Strinse più forte la sua manina e avvertì che silenziosamente le si faceva più vicino. Finalmente, oscurando con
la sua ampia mole la soglia da cui si affacciava, apparve la signora Bowerbank, e miss Pynsent pensò che il prestigio e
l'autorevolezza della sua posizione la esentassero dal presentare le proprie scuse per non essere comparsa fino allora, o
dal fornire una qualche spiegazione per non aver accolto quegli impauriti pellegrini all'ingresso principale, secondo
quanto aveva promesso. Miss Pynsent non poteva far proprio lo stato d'animo di coloro che non chiedono scusa per
quanto segretamente ne provasse una certa invidia e ammirazione, dal momento che personalmente passava gran parte
del tempo a cercare scuse per mancanze che non aveva commesso. Tuttavia la signora Bowerbank non era una persona
arrogante, ma solo massiccia e meticolosa, e da quando ebbe preso in mano la sorte dei suoi titubanti amici, la sarta
riuscì a consolarsi riflettendo che neppure una donna tanto imperiosa avrebbe potuto infliggere qualcosa di sgradevole a
chi si era prodigato per renderle piacevole la visita a Lomax Place.
Si era andata via via avvicinando alla zona dell'infermeria, e, ora, scortò i propri ospiti dentro certe tristi stanze
riservate ai criminali malati. Queste stanze erano nude e munite di grate, come tutte le altre, e miss Pynsent osservò tra
sé e sé che in un luogo simile doveva essere una benedizione ammalarsi, perché guarire era impossibile, e tutto dunque
si semplificava. Comunque questa via d'uscita per il momento era stata offerta solo a poche delle compagne di sventura
di Florentine, poiché soltanto tre lettini erano pieni - occupati da pallide creature coi visi serrati dalle cuffie sordide
strettamente legate, verso le quali, in quell'acre sentina, perfino la luce giallastra si mostrava spietata. La signora
Bowerbank discretamente non prestò attenzione a Hyacinth disse con la sua voce rauca: «La troverete molto giù, non
avrebbe potuto attendere un solo giorno.» E li accompagnò attraverso un'altra porta ancora, nella stanza più piccola,
dov'erano allineati soltanto tre letti. Gli occhi inquieti di miss Pynsent, lungi dal frugare, sembrarono piuttosto esitare,
ma intuì ugualmente che nel letto di mezzo giaceva una donna e che il suo viso era teso verso la porta. La signora
Bowerbank puntò dritta verso costei e sprimacciandole il cuscino con mano esperta, rivolse un gesto d'invito e
d'incoraggiamento ai due visitatori rimasti sulla soglia aggrappati l'uno all'altra. La loro guida rammentò che avevano a
disposizione solo pochi minuti e che avrebbero fatto bene a non sciuparli, e mentre il fanciullo continuava a tenersi a
distanza, la piccola sarta avanzò da sola, guardando la malata con tutto il coraggio che le riuscì di raccogliere. Ebbe
l'impressione di accostarsi a una perfetta sconosciuta, tanto i nove anni di carcere avevano trasformato Florentine.
Percepì subito come cosa positiva non aver detto a Hyacinth che era stata graziosa (come in realtà era stata) perché non
v'era traccia di beltà nella vuota maschera esangue che le giaceva davanti, immobile. Gli aveva però detto che la donna
era buona, mentre non lo sembrava affatto, come risultò eloquente dallo sguardo che le restituì attraverso lo spazio che
si era rifiutato di colmare; anche se l'espressione supplice dei suoi strani occhi fissi - unica parte che in quel corpo
distrutto conservava ancora una parvenza di vita - la tratteneva dal ritrarsi. Ad Amanda Pynsent apparve come una
creatura priva di tratti umani e terribilmente vecchia; un essere muto e inerte, stordito e atono, là dove Florentine Vivier,
nel passato di cui non serbava più memoria, aveva impersonato il suo ideale di vivacità esente da ogni frivolezza.
Colpiva soprattutto il suo aspetto sfigurato e brutto, crudelmente alterato dalla ruvida cuffia e dai capelli corti e incolti.
Amanda, mentre le stava accanto, pensò con un certo timoroso sollievo che Hyacinth non avrebbe mai e poi mai
indovinato che una persona nella quale affioravano così poche tracce di eleganza e d'intelligenza fosse sua madre, il che
avrebbe determinato una situazione molto diversa. Al massimo avrebbe potuto immaginarsi, come aveva suggerito la
signora Bowerbank, che fosse sua nonna. La signora Bowerbank andò a sedersi, simile a una monumentale sentinella,
sul letto in fondo alla stanza e intrecciando le mani osservò, col tono neutro di chi parla per puro dovere, che la povera
diavola non avrebbe ricavato gran che dalla presenza del fanciullo se questo non si mostrava un po' più socievole.
L'osservazione evidentemente non fu raccolta dal bambino: era troppo assorbito dall'esame della detenuta. Una sedia era
stata messa presso il capezzale, e miss Pynsent l'occupò senza che la malata desse segno di accorgersene. D'un tratto,
tuttavia, alzò leggermente la mano, sfilandola da sotto la coperta, e la sarta vi posò sopra lievemente la propria. Il gesto
non suscitò alcuna reazione, ma dopo poco, sempre guardando il fanciullo, Florentine mormorò qualche parola che
nessuno dei presenti fu in grado di comprendere:
«Dieu de Dieu, qu'il est donc beau!»
«Da quando si è ammalata gravemente non ha parlato altro che francese. È impossibile farle dire una parola
cristiana,» disse la signora Bowerbank.
«Era così graziosa, una volta, quando parlava quel suo strano inglese.... e così divertente,» si azzardò a dire
miss Pynsent, nel debole tentativo di animare un po' l'ambiente. «Immagino che lo avrà dimenticato.»
«È possibile... dal momento che non ha mai esercitato troppo la lingua. Non ci ha dato mai molto da fare per
frenarle la chiacchiera,» ribatté la signora Bowerbank dando un'aggiustata alla coperta della detenuta. Miss Pynsent
l'accomodò dal lato opposto, e intanto pensava che questa barriera della lingua era proprio una salvezza: come sarebbe
potuto venire in mente al suo piccolo compagno di essere figlio di una persona che non sapeva neanche dirgli
buongiorno? Allo stesso tempo si rendeva conto che la scena sarebbe stata un po' meno penosa se avessero potuto
comunicare con l'oggetto della loro compassione. Così come stavano le cose, avevano l'aria di essere tutti riuniti per
guardarsi, e la delicata posizione di Florentine contribuiva a rendere la situazione penosamente imbarazzante. Non che
lei guardasse molto la sua antica compagna: era come se si rendesse conto che miss Pynsent era lì, e sarebbe stata felice
di ringraziarla... felice perfino di guardarla per farle piacere e per constatare quali cambiamenti, anche per lei, avessero
apportato quegli orribili anni, e fosse però consapevole di disporre di un estremo, troppo fievole guizzo di energia e di
non potersi distrarre per un solo istante dalla tensione per imprimersi dentro suo figlio. Lo assorbì con quei vitrei occhi
supplici, rinunciando a badare alla tutrice che l'aveva sostituita e che evidentemente doveva dare per scontata la sua
gratitudine. Hyacinth, dal canto suo, dopo qualche minuto d'imbarazzato silenzio - si sentiva solo il respiro della signora
Bowerbank - si ritenne appagato da quanto aveva visto e si guardò intorno in cerca di un posto dove aspettare che miss
Pynsent portasse a termine quella storia che per il momento non aveva l'aria di essere molto chiara. Sembrava
desideroso non tanto di lasciare la stanza - che sarebbe equivalso ad ammettere la propria sconfitta - ma di assumere un
atteggiamento che esprimesse tutta la sua disapprovazione per quella situazione spiacevole. Non era affatto bendisposto,
e non avrebbe potuto farlo capire meglio dal modo in cui andò a sistemarsi su un basso sgabello, nell'angolo vicino alla
porta dalla quale erano entrati.
«Est-il possible, mon Dieu, qu'il soit gentil comme ça?» bisbigliò sua madre con un fil di voce.
«Siamo felici che ti sei data la pena... che hanno avuto così buona cura di te,» annaspò miss Pynsent parlando a
vanvera; consapevole che la freddezza di Hyacinth poteva apparire eccessiva e il suo cinismo troppo accentuato, e che
l'allusione al modo in cui la povera donna era assistita non era stata esattamente un'uscita felice. Ma le sue parole non
ebbero alcuna conseguenza perché la malata, evidentemente, non aveva udito nulla, né reagì in nessun modo quando la
signora Bowerbank, col tono di chi desidera rianimare la conversazione e mostrare inoltre la propria abilità nel trattare
coi bambini, si rivolse al piccolo:
«Non c'è proprio nulla che il signorino voglia dire a questa sventurata? Non vuole raccontarle che è venuto da
tanto lontano per vederla, dal momento che è così malata? Non capita spesso ai bambini di poter visitare questo luogo
(come è capitato a questo ometto) e c'è molta gente che si riterrebbe fortunata di poter fare l'esperienza che lui ha fatto.»
«Mon pauvre joujou, mon pauvre cheri,» continuò la detenuta nel suo tenero tragico bisbiglio.
«Sta cercando di fare il bravo; si siede sempre così a casa,» disse miss Pynsent, allarmata che le parole della
signora Bowerbank potessero far nascere una scena.
«Poteva rimanersene a casa, allora... con questa disgraziata che non ha occhi che per lui,» esclamò la signora
Bowerbank con una certa durezza. Era chiaro che voleva spezzare quell'atmosfera stagnante che si era andata creando e
allo stesso tempo ammonirli a non abusare della sua efficienza per sottrarsi al loro dovere.
«Sono venuto perché mi ci ha portato Pinnie,» se ne usci Hyacinth dal suo sgabello. «Credevo che mi sarei
divertito ma non è stato così, non mi piacciono le prigioni.» E posò i piccoli piedi sul piolo dello sgabello quasi volesse
ridurre al massimo il contatto con quella istituzione.
La donna dal letto continuò il suo strano piagnucolio. «Il ne veut pas s'approcher, il a honte de moi.»
«Molti cominciano proprio così,» disse con sarcasmo la signora Bowerbank, irritata dal disprezzo del fanciullo
per una delle più belle istituzioni di Sua Maestà.
La faccina bianca di Hyacinth non mostrò segno d'imbarazzo; si volse di nuovo verso la detenuta, e miss
Pynsent intuì che un qualche straordinario muto contatto si stava stabilendo fra loro. «Era così elegante una volta; era
proprio una persona a modo,» osservò con gentilezza, sentendosi impotente.
«Il a honte de moi, il a honte, Dieu le pardonne!» continuò Florentine Vivier senza distogliere lo sguardo.
«Sta chiedendo qualcosa, nella sua lingua. Una volta ne conoscevo qualche parola,» disse miss Pynsent,
accarezzando nervosamente il letto.
«Chi è quella donna? Cosa vuole?» esplose di nuovo Hyacinth con la sua vocetta che suonò squillante nella
lugubre stanza.
«Vuole che ti avvicini a lei, vuole baciarti, signorino,» scandì la signora Bowerbank, come se parlasse di
qualcosa che non meritava affatto.
«Non voglio baciarla; Pinnie dice che ha rubato un orologio!» rispose il fanciullo con aria risoluta.
«Brutto cattivo... come hai potuto?» urlò Pinnie, facendosi di tutti i colori e alzandosi dalla sedia.
Forse l'agitazione di Amanda, che con il suo balzo aveva fatto sussultare l'ammalata, forse la penetrante
incisività con cui Hyacinth aveva annunciato la propria ripugnanza: fatto sta che, del tutto inaspettatamente e
violentemente, Florentine si alzò di scatto dal cuscino e sbarrando gli occhi e agitando convulsamente le mani gridò:
«Ah quelle infamie! Non ho mai rubato un orologio. Non ho mai rubato nulla... nulla! Ah par exemple!» Poi ricadde
indietro, singhiozzando con quella stessa passione che l'aveva rinvigorita per un attimo.
«Non mi pare che sia opportuno tormentarla più del necessario,» disse la signora Bowerbank con dignità alla
sarta. E posò la sua grossa mano rossiccia sulla paziente, per tenerla quieta.
«Più del necessario? Direi molto meno!» gridò miss Pynsent stravolta dall'imbarazzo mentre si dibatteva
spasmodicamente fra madre e figlio, quasi volesse gettarsi sull'uno per scusarsi e sull'altra per vendicarsi.
«Il a honte de moi... il a honte de moi!» ripeteva intanto Florentine fra singhiozzi disperati. «Dieu de bonté,
quelle horreur!»
Miss Pynsent si buttò in ginocchio vicino al letto e cercando d'impossessarsi di nuovo della mano della
sventurata, protestò con passione quasi altrettanto violenta (sentiva che i suoi nervi erano stati tesi fino a spezzarsi e ora
erano in frantumi) che non aveva avuto nessuna intenzione di diffamarla col fanciullo, che lui non aveva capito, che
Florentine non capiva, che aveva detto soltanto che era stata accusata, volendo far intendere che nessuno lo aveva
creduto. La francese non le prestò alcuna attenzione, e Amanda soffocò il viso e l'imbarazzo in un angolo del piccolo
duro giaciglio quando, al di sopra dei loro lamenti, si levò la voce sentenziosa della signora Bowerbank.
«Il fanciullo è davvero sensibile... è evidente! Sono delusa di come sono andate le cose... Avevo sperato che la
sollevaste un po'. Il dottore naturalmente, mi accuserà di averla ridotta in questo stato, e sarà meglio che usciamo.»
«Mi dispiace molto di avervi fatto piangere e dovete scusare Pinnie... L'avevo tempestata di domande.»
Queste parole risuonarono al fianco della sarta prostrata che rialzandosi in fretta vide che il fanciullo era
avanzato fino all'altezza del suo gomito e stava osservando da vicino la misteriosa detenuta. L'effetto che produssero fu
ben diverso dal confuso discorsetto di un momento prima. Infatti l'ammalata trovò la forza di sollevarsi un po' sul letto e
di protendere le braccia senza interrompere i suoi convulsi singhiozzi. Dalle labbra le uscivano suoni sconnessi e miss
Pynsent ebbe per un attimo la percezione di un volto scavato, dagli occhi infossati sotto le ciocche disordinate dei
capelli. Amanda, con uno slancio pari a quello di Florentine, afferrò il bambino e trascinandolo a capo del letto, lo
spinse nelle braccia della madre. «Dalle un bacio... dalle un bel bacio, e poi ce ne andiamo a casa,» mormorò disperata,
mentre le braccia di Florentine si richiudevano intorno al bimbo e la povera testa disonorata si abbandonava contro la
giovane guancia. Fu un abbraccio tremendo, incontenibile, al quale Hyacinth si piegò con istantanea docilità. La signora
Bowerbank aveva in un primo momento tentato d'impedire alla misera donna affidata alla sua custodia di sollevarsi,
palesemente spinta dal desiderio di abbreviare la scena; poi, quando vide che il fanciullo era nelle sue braccia, accettò la
situazione e giudiziosamente l'assecondò, proponendosi di far uscire tutti non appena quello slancio si fosse spento.
Sorresse col braccio vigoroso la paziente; miss Pynsent si alzò dalla sua posizione ginocchioni e rimase voltata, e vi fu
un minuto di completa immobilità durante il quale il fanciullo sostenne come meglio gli riuscì quella strana prova.
Quali pensieri passassero in quell'istante nella sua testolina stupita, la sua protettrice avrebbe poi conosciuto in un altro
momento. Prima che avesse il tempo di voltarsi di nuovo verso il letto fu sospinta rapidamente fuori dalla stanza dalla
signora Bowerbank che nel frattempo aveva adagiata sul cuscino la prigioniera, esausta e con gli occhi chiusi, e con fare
professionale aveva dato una piccola spinta a Hyacinth facendolo uscire per primo. Miss Pynsent tornò a casa in
carrozza... era completamente sconvolta; anche se, salendovi, ebbe il fugace pensiero che Hyacinth ne avrebbe ricavato
lo stimolo per esercitare una sua legittima curiosità. Con sua grande sorpresa però, egli non sembrò affatto incuriosito:
sedette in silenzio, guardando fuori dal finestrino, fin quando non fecero ritorno a Lomax Place.

IV

«Dovete indovinare come mi chiamo senza che ve lo dica io» disse ridendo la ragazza mentre entrava di
prepotenza nello stretto ingresso e si appoggiava alla parete rivestita di una carta da parato sbrindellata, disegnata a
smussati rettangoli di marmo, a chiazze nere e grigie, non rinnovata ormai da anni e che sembrò venirle incontro dal
passato. Quando miss Pynsent, vedendo che la sua visitatrice era così risoluta, ebbe chiusa la porta, la luce filtrò
all'interno dalla strada attraverso il piccolo polveroso vetro sopra l'uscio, e allora tutto l'odore e l'atmosfera di quel luogo
affiorarono alla coscienza di Millicent: quell'impressione di una muffita penombra che avvolgeva nel fondo la ripida
scaletta rivestita della stessa riconoscibile striscia di linoleum, ora un po' rischiarata da una finestra aperta là dove si
piegava ad angolo (visibile già dall'ingresso) e dove poco mancava che si sbattesse la testa contro la casa di dietro. Non
era cambiato nulla, tranne miss Pynsent e, naturalmente, la fanciulla stessa. Aveva notato da fuori come l'insegna fra le
due finestre non era stata neppure aggiornata un po': recava sempre quell'assurda dicitura «cappellini alla moda», come
se la povera sartina avesse la più pallida idea del nuovo stile delle acconciature, di cui miss Henning era ormai una
perfetta conoscitrice. Si rese conto che la sartorella stava fissando il suo cappellino, una splendida composizione di fiori
e nastri; i suoi occhi avevano scrutato dalla testa ai piedi tutta la persona di Millicent, soffermandosi affascinati su quel
fastoso ornamento. La ragazza aveva dimenticato quanto la sarta fosse piccola; le arrivava a malapena alla spalla.
Aveva perso i capelli e indossava una cuffia che Millicent notò a sua volta, per domandarsi se fosse un esemplare di
quella che secondo lei era la moda corrente. Miss Pynsent alzava ora lo sguardo verso la sua persona come se fosse alta
due metri, ma la ragazza era abituata a quella sorta di meravigliata ammirazione, ed era del tutto consapevole di essere
una donna molto bella.
«Non mi fate entrare nel vostro laboratorio?» domandò. «Non voglio ordinare nulla, voglio solo avere notizie
della vostra salute. Questo è un posto poco adatto per parlare.» S'inoltrò senza chiedere permesso visto che la padrona
di casa, trasecolata, non aveva ancora indovinato chi fosse.
«La sala prove è a destra,» disse miss Pynsent con tono professionale, teso evidentemente a rimarcare la
suddivisione. Parlava come se dall'altro lato, dove lo spazio era delimitato dal divisorio della casa accanto, si aprisse un
labirinto di stanze. Entrando dietro la sua ospite vide che la giovane si era già sdraiata sul sofà, l'eterno sofà nell'angolo
destro di fronte alla finestra, ricoperto da una striminzita fodera di una strana stoffa giallina che denunciava nel colore
anni di bucati, sormontato da una stampa a colori di Rebecca al pozzo che faceva da pendant a un ritratto, sul lato
opposto, dell'imperatrice di Francia, ritagliato da una rivista illustrata e incorniciato e laccato secondo la moda del 1853.
Millicent si guardò in giro, chiedendosi cosa miss Pynsent avrebbe potuto esibire, e assorbita nel ruolo della più
splendida creatura che quel luogo avesse mai ospitato. Le vecchie cianfrusaglie erano lì sul tavolo: il puntaspilli,
l'astuccio con gli aghi, il centimetro rosa col quale da piccoli lei e Hyacinth solevano misurarsi reciprocamente; e la
stessa collezione di figurini (colse tutto in un attimo) spiegazzati, ingialliti, punticchiati dalle mosche. La piccola sarta
come al solito appariva irta di aghi e spilli appuntati ovunque sul vestito - potevano quasi sembrare il pelo ispido e rado
di un animale malato, ma non c'erano stoffe fruscianti ammucchiate qua e là per la stanza - nulla tranne una gonna e un
vestituccio liso (forse il suo) che evidentemente stava riparando e aveva gettato sulla tavola per andare ad aprire. Miss
Henning concluse rapidamente che gli affari della sua vecchia amica non erano migliorati e provò un senso di
sprezzante superiorità per una persona che conosceva così poco le allettanti offerte di Londra. Millicent era convinta di
essere perfettamente addentro alle infinite risorse della capitale.
«Dite, come sta il mio vecchio Hyacinth? Vorrei tanto vederlo,» disse, allungando due piedi smisuratamente
grandi e puntellandosi con le mani sul sofà.
«Il vecchio Hyacinth?» ribatté Miss Pynsent con un'aria di sussiego, come se non lo avesse mai sentito
nominare. Capiva che la fanciulla era vestita crudelmente, terribilmente bene, e non riusciva a immaginarsi chi potesse
essere né quale motivo l'avesse indotta a venire.
«Perché? Lo chiamate signor Robinson ora? - Avete sempre voluto che si considerasse importante. Per quanto
mi riguarda, continuerò a chiamarlo come ho sempre fatto: potete giurarci!»
«Misericordia! Tu devi essere quell'orribile piccola Henning!» esclamò miss Pynsent piantandosi davanti alla
ragazza e squadrandola da ogni verso.
«Beh, era ora che vi decideste. Credevo che mi avreste riconosciuto subito. E non c'è dubbio che una volta sia
stata orribile davvero. Ma non sono poi tanto malaccio, ora, che ne dite?» continuò con tono confidenziale la giovinetta.
«Dovevo venire da queste parti e m'è venuta voglia di passare da voi. Non mi piace perdere di vista i vecchi amici.»
«Non ti avrei mai riconosciuta... Sei migliorata al di là di ogni aspettativa,» osservò miss Pynsent con
l'innocenza della persona adulta consapevole della propria rispettabilità.
«Beh, voi, di certo, non siete cambiata; mi affibbiavate sempre i più orribili appellativi.»
«A quanto pare ora questo non ti può fare né caldo né freddo,» commentò la sarta mentre si sedeva sentendosi
però incapace di riprendere il lavoro, tanto era allibita dalla magnificenza della sua visitatrice.
«Oh, le cose mi vanno bene, ora,» dichiarò miss Henning con l'aria di chi non ha nulla da temere dal giudizio
dei suoi simili.
«Eri una bambina graziosa - non ho mai detto di no; ma non avrei mai immaginato che ti saresti trasformata
così. Sei troppo alta per una donna,» aggiunse miss Pynsent, combattuta fra gli antichi pregiudizi e l'obiettività di una
nuova valutazione.
«Beh, scoppio di salute,» disse la giovinetta; «tutti mi danno almeno ventidue anni.» Parlava con orgoglio,
privo di artificio, della propria statura e del proprio splendore fisico, e sembrava quasi disposta a far mostra della
propria esuberanza di crescita togliendosi la giacca e facendosi tastare i muscoli delle braccia. Era indubbiamente molto
ben fatta con occhi brillanti, fieri e buoni, l'ovale delicato ed espressivo, una massa di capelli castani e un sorriso che
metteva piacevolmente in risalto il biancore dei denti. La testa posava su un collo chiaro e forte, e la giovane figura era
ricca di curve molto femminili. I guanti non coprivano completamente i polsi e lasciavano intravedere, tra l'uno e l'altro
dei numerosi braccialetti d'argento che li adornavano, la pelle leggermente arrossata, e miss Pynsent constatò che le
mani non erano più delicate dei piedi. Non era una creatura aggraziata, e la piccola sarta, costantemente fedele alla
propria predilezione per le persone distinte, si abbandonò alla considerazione che, nonostante tutto il suo splendore, si
trattava di una persona molto ordinaria, anche se aveva qualcosa di indescrivibilmente fresco, positivo e soddisfacente.
Era, fino alla radice dei capelli, una figlia di Londra delle strade affollate e del traffico frenetico della grande metropoli.
Aveva tratto la sua salute e la sua forza dagli squallidi cortili e dalle strade nebbiose, e aveva popolato i parchi, le piazze
e i giardinetti con i suoi sogni ambiziosi; la città le si era infiltrata nel sangue e nelle ossa, nel suono della voce e nel
portamento della testa; lei la capiva d'istinto e l'amava con passione; ne impersonificava tutta l'immensa volgarità,
curiosità, brutalità, esperienza, lo spirito accondiscendente e insieme impudente; in una sfilata allegorica avrebbe potuto
raffigurare una specie di gloriosa "cittadina", una ninfa del selvaggio Middlesex, un fiore delle chiese congregate, un
genio della civiltà urbana, la musa del cockneismo. Queste poco caritatevoli riflessioni avrebbero causato a miss
Pynsent meno scrupoli se avesse potuto indovinare l'impressione che a sua volta aveva prodotto su Millicent e come
quel luogo, alla prosperosa giovinetta, sembrasse impregnato di povertà e di fallimenti. Da bambina, la signorina
Pynsent le era apparsa una persona linda, delicata, superiore, con le due bande di capelli fermate sulle tempie dai
pettinini, evocatrice di un mondo splendido per quel suo continuo manipolare stoffe preziose - tali almeno apparivano
all'invidiosa ammirazione di Millicent. Ma la piccola donna che ora le stava davanti era calva, scolorita e sciupata.
Appariva malaticcia, rinsecchita e malnutrita; gli occhi piccoli, acuti e sospettosi, e un'orrenda cuffietta che non riusciva
a nascondere il fatto che tutta la chioma era sparita. Miss Henning ringraziò la sua buona stella, come aveva fatto altre
volte, per non essere stata costretta a guadagnarsi la vita curva sul lavoro di cucito, un anno dopo l'altro, in quella strada
fuori mano, in una tetra stanzetta dove da tempi immemorabili tutto era rimasto uguale; l'assenza di qualsiasi
mutamento aveva un effetto esasperante sulla sua energica natura giovanile. Si compiacque della propria fortuna per
aver trovato un impiego in un settore dei tessuti tanto più eccitante e interessante, e notò che, sebbene fosse già
novembre, non era ancora stato acceso il fuoco sulla pietra del caminetto che brillava impeccabile sotto la mensola dove
una decorazione fra l'architettonico e il botanico, eseguita con i capelli dei genitori di miss Pynsent, era collocata tra una
coppia di vasi contenenti fiori di mussolina protetti da una campana di vetro. Se gli occhi della signorina Pynsent
apparivano sospettosi, occorre dire che in effetti si era messa sulle difensive per quella visita tanto inaspettata e
indesiderata che le ricordava uno dei più disonorevoli episodi degli annali di Lomax Place. Nella signorina Pynsent, la
stima per il prossimo era direttamente proporzionata alla capacità di fondare un solido nucleo familiare... ovviamente
quando ne esistessero le indispensabili premesse. Nel caso dei vari membri della famiglia Henning, tale capacità era
stata nulla, e le liti domestiche della casa vicina, che aveva avuto modo di seguire mentre lavorava seduta alla finestra
accostando appena l'orecchio al sottile tramezzo divisorio - quelle scene, che lasciavano udire frequentemente e
distintamente il rumore dei piatti che andavano in frantumi e le imprecazioni dei feriti, avevano costituito per lungo
tempo lo scandalo del vicinato, umile ma pacifico. Si sapeva che il signor Henning ricopriva un posto di responsabilità
in una fabbrica di spazzole, mentre la moglie, in casa, si occupava del bucato e del rammendo degli indumenti di una
considerevole nidiata, composta quasi interamente di figli maschi. Ma né il senso dell'economia né la sobrietà, né una
virtù ancora più importante, avevano mai regnato in quel consesso familiare. La libertà e la frequenza dei rapporti della
signora Henning con un pulisci-stufe della Euston Road, non potevano essere un segreto per uno che abitava dietro la
porta, e che alzava gli occhi dal lavoro con tanta frequenza da far sembrare miracoloso che riuscisse a portarlo a termine
così velocemente. I piccoli Henning sporchi e abbandonati a se stessi, passavano la maggior parte del tempo a ruzzolarsi
nel fango o a correre nel «pub» dell'angolo per comprare un soldo di gin, mentre l'abitudine dei loro genitori a farsi
prestare denaro, era un costante motivo d'indignazione. Non c'era un solo articolo di uso personale o domestico che la
signora Henning non avesse trovato modo, in un'occasione o nell'altra, di estorcere alla sarta: a cominciare da un
materasso, una volta che era andata incontro a una lunga degenza, per finire a una sottoveste di flanella e una teiera di
peltro. Alla fine dagli spiragli di porte e finestre Lomax Place aveva assistito all'esproprio, condotto da un padrone di
casa lungamente provato, dei beni mobili di questa interessante progenie, e all'espulsione dell'intera banda insolvente
che se ne andò alla spicciolata, berciando imperturbata e cinica, tra la ben scarsa simpatia degli abitanti della strada.
Millicent, la cui intimità infantile con Hyacinth Robinson miss Pynsent aveva sempre riguardato con una certa
apprensione - considerava la bambina una creatura perfida e temeva che insegnasse all'innocente orfano qualche
bassezza - Millicent, con le sue folte trecce, la precoce bellezza, lo sguardo fisso e provocatorio con cui fronteggiava il
mondo esterno dalla porta di casa, aveva allora dodici anni. Scomparve anche lei, vanificandosi insieme ai suoi
familiari; gli abitanti di Lomax Place li osservarono mentre doppiavano il capo - cioè voltavano l'angolo - e tornarono
alle loro occupazioni, convinti che sarebbero naufragati sugli scogli o al largo. Ma nessun rottame d'albero maestro
tornò galleggiando verso i luoghi dove avevano abitato e le impenetrabili profondità della città li avvolsero
completamente. Miss Pynsent aveva cacciato un profondo respiro di sollievo; era certa che nessuno di loro avrebbe mai
concluso qualcosa di buono e meno che meno Millicent.
Perciò, quando la giovinetta riapparve con tutte le caratteristiche di chi se l'era cavata magnificamente bene,
non poté fare a meno di chiedersi se il male non avesse semplicemente scelto quelle speciose apparenze per celebrare il
proprio trionfo. Era allarmata, ma avrebbe dato il suo ditale d'argento per conoscere la storia della fanciulla, e passò una
difficile mezz'ora divisa tra la costernazione e la curiosità. Capiva che quella creatura misteriosa e tanto familiare si
faceva gioco di lei, appagando l'antico risentimento per essere stata disprezzata e maltrattata da una piccola zitella
pettegola che oggi, vicino a lei, appariva così insignificante. Se non proprio il trionfo del male, lo era almeno
dell'impertinenza, come anche della giovinezza, della salute, e di una perizia nell'arte del vestire maggiore di quanta
potesse vantare miss Pynsent, nonostante le sue ridicole insegne pubblicitarie. Capiva, o credeva di capire, che Millicent
la voleva spaventare facendo credere di essere venuta per Hyacinth, per impossessarsene e in qualche modo traviarlo e
tentarlo. Mi dispiacerebbe attribuire alla signorina Henning fini più complessi del semplice desiderio di spassarsela,
quel sabato pomeriggio, con una passeggiata della quale le sue gambe vigorose non avevano motivo di pentirsi; ma
occorre dire che una volta indovinato furbescamente che miss Pynsent considerava lei una lupa affamata e il suo antico
compagno di giochi un tenero agnello, le rise in faccia, scanzonata e divertita, senza degnarsi di dare alcuna
spiegazione. Ma, in realtà, perché era venuta, se non per Hyacinth? Non certo per la bella faccia di miss Pynsent. Si
ricordava del fanciullo e dei loro teneri approcci, e seguendo l'estro con la capricciosità del suo spirito totalmente
indipendente - che le suggeriva ogni pretesto per girovagare per le strade di Londra e guardare le vetrine - si era detta
che avrebbe ben potuto dedicare un pomeriggio al piacere delle rimembranze, rivisitando i luoghi della sua infanzia.
Questa, per lei, aveva avuto termine con la partenza della sua famiglia da Lomax Place. Se gli abitanti di quei mal
dissimulati bassifondi non avevano mai saputo quello che era accaduto dei loro sfrattati vicini, lei di certo aveva
conservato una profonda impressione di quegli orribili anni intermedi. La famiglia era rovinata sempre più in basso,
fino a toccare il fondo, e nei momenti di maggiore umiltà Millicent talvolta si domandava quale buona stella avesse
mitigato la propria caduta permettendole anzi di risalire la china: ho detto nei momenti di maggiore umiltà perché, in
genere, si dava un'altra spiegazione della fortuna che le era capitata. Non è forse più che naturale che per una fanciulla
si compiano miracoli, quando è bella e intelligente? Millicent provava compassione per quelle giovinette che un destino
avaro aveva dotato di una sola di queste due qualità. Non era cattiva, ma non aveva nessuna intenzione di appagare la
curiosità di miss Pynsent: le sembrava di fare già abbastanza stimolandola.
Raccontò alla sarta che aveva un posto importante in un grande magazzino di mode, nei dintorni di
Buckingham Palace; era nel reparto mantelli e giacche; indossava questi articoli di vestiario per mostrarli ai clienti, e
sulla sua persona facevano così bella figura che non c'era vendita intrapresa che non andasse felicemente in porto. Miss
Pynsent disse che le sue prestazioni dovevano renderle molto. Aveva avuto un'offerta meravigliosa da un altro grande
magazzino, uno proprio immenso in Oxford Street, e stava pensando se accettarla o no. «Dobbiamo vestirci benissimo,
ma questa non è una difficoltà, dal momento che mi piace conciarmi bene,» disse alla sarta che, dopo mezz'ora di tutte
queste chiacchiere, sempre seria dietro ai goffi occhiali che aveva dovuto adottare da qualche anno, ancora non sapeva
che opinione farsi. Sull'argomento dei genitori, di quanto era loro accaduto durante tutto quel tempo, la fanciulla si
mantenne sul vago e miss Pynsent capì che il focolare domestico non aveva ai suoi occhi nessuna dimensione sacra. Si
reggeva bene sulle proprie gambe, proprio molto saldamente. Il fatto che si fermasse così a lungo, oltre la mezzora, era
la conferma che era venuta per Hyacinth, dal momento che la povera Amanda aveva appena mormorato qualche notizia,
senza dirle nulla di incoraggiante o interessante. Aveva soltanto accennato che il signor Robinson (aveva scelto con
gran cura quel termine per nominarlo) si dedicava alla rilegatura dei libri, e aveva imparato il mestiere in una ditta che
eseguiva i migliori lavori che si potessero trovare a Londra.
«Il rilegatore? Cielo!» disse la signorina Henning. «Volete dire quello che prepara i libri per la vendita? Beh,
l'ho sempre pensato che avrebbe avuto a che fare con i libri.» Poi aggiunse: «Ma non avrei mai creduto che si fosse
messo a fare un mestiere.»
«Un mestiere?» urlò miss Pynsent. «Dovresti sentire cosa ne dice il signor Robinson; lo considera bellissimo,
una vera arte.»
Millicent sorrise come per dire che sapeva bene quali fossero le idee che la gente si faceva, e disse che, molto
verosimilmente, si trattava di un lavoro comodo, ma non riusciva a vedere cosa ci si potesse trovare di bello. «Forse
volete dire che è meglio di qui,» continuò trovando finalmente uno spunto per aggredire polemicamente e coinvolgere
la rispettabilità della sarta paziente, rimasta seduta per anni nella sua buia, piccola tana in compagnia delle nebbiose,
familiari scene di Lomax Place, al di là dei vetri. Millicent amava considerarsi forte, ma non era forte abbastanza contro
tutto questo.
L'allusione al suo lavoro tanto immiserito sembrò a miss Pynsent crudelissima; ma rifletté che era del tutto
normale essere insultati, parlando con una ragazza volgare. Giudicava quella signorina con la coscienza di chi, per parte
sua, non si sente affatto volgare, e se c'era una differenza fra loro, aveva ragione di pensare che questa andasse tutta a
proprio vantaggio. Il «taglio» di miss Pynsent, come ho già detto, non era certo all'ultima moda, e l'applicazione delle
guarnizioni e l'accostamento dei colori non erano davvero impeccabili ma dal punto di vista della morale aveva il gusto
migliore del mondo. «Non ho tutto il lavoro che avevo una volta, se è questo che vuoi dire. Con gli anni mi si è
indebolita la vista e la salute non è più buona.»
Non so fino a qual punto Millicent rimanesse toccata dalla dignità di questa ammissione, ma rispose senza
reticenze che quello che ci voleva per miss Pynsent era un'aiutante in gamba, una brava ragazza di «buon gusto» che
facesse rifiorire l'azienda apportandovi idee nuove. «Vedo che le vostre sono sempre le stesse; me ne sono accorta dal
modo in cui avete attaccato il cordoncino a quell'abito,» e diresse il puntale del suo impeccabile ombrellino contro la
stoffa che la sarta teneva in grembo. Continuò a consigliarla e ad esasperarla offrendole conforto e incoraggiamenti con
mano così pesante quale la sensibilità epidermica di miss Pynsent non aveva mai sperimentato. La povera Amanda finì
per guardarla come se fosse stata una specie di attrice, una canzonettista o una prestigiatrice, e si spinse perfino a
domandarsi se quella creatura potesse essere (avesse intenzione di diventare) la «brava ragazza» che avrebbe dato
nuovo fulgore all'insegna sbiadita. Miss Pynsent, in passato, aveva avuto qualche aiutante - una volta, per pochi mesi,
perfino una «direttrice»; alcune di queste damigelle si erano rivelate esemplari veramente rari, e il ricordo delle loro
malefatte era ancora vivo nella sua memoria. Tuttavia neppure nei casi più disgraziati aveva affidato i propri interessi a
un simile campione di sconvenienza. Ma si rassicurò ben presto circa i progetti di Millicent rendendosi conto, ogni
istante di più, di trovarsi di fronte a una grande arrampicatrice sociale che aveva bisogno di un campo d'azione ben più
vasto di quell'ammuffito salottino che, chissà per quale ragione, onorava in quel momento della sua presenza. Miss
Pynsent tenne la lingua a freno come sempre quando veniva toccato il punto dolente della sua esistenza, il pensiero del
lento, inesorabile declino che era iniziato circa dieci anni prima, il giorno in cui le proprie esitazioni e i propri scrupoli
si erano risolti in uno sbaglio tremendo. L'acuta consapevolezza di aver compiuto un errore, in quell'occasione
indicibilmente importante, permaneva in lei pulsante e bruciante, come un male incurabile. Aveva inoculato nell'animo
del fanciullo il seme della vergogna e del rancore; lo aveva reso consapevole del marchio che lo segnava della piaga che
lo rendeva così struggentemente vulnerabile e lo aveva condannato alla certezza che per lui il sole non avrebbe mai
brillato come per gli altri. Da quando Hyacinth aveva sedici anni, aveva capito - o creduto di capire - cosa pensasse di
lei, e aveva vissuto allora mesi orribili - una crisi nella quale erano morte tutte le ragioni su cui aveva edificato la sua
prosperità. Quando si era resa conto del suo errore, aveva pianto tutte le sue lacrime, e il pianto le offuscò la vista
indebolendola a tale punto che per un certo tempo aveva creduto che non sarebbe stata più in grado d'infilare un ago.
Perse interesse al lavoro e le venne anche a mancare quello spirito d'iniziativa che era sempre stato il suo orgoglio.
Contemporaneamente si dileguava anche la fama di essere l'affittacamere più impeccabile di Lomax Place. Due
commercianti e un idraulico gallese con certe tendenze religiose, che per anni si erano sentiti da lei come a casa propria,
se ne andarono lamentando che i letti non venivano più rifatti come una volta, e crudelmente diffusero questa voce
ingiuriosa. Smise d'interessarsi o di curarsi di come si portassero le maniche, e in quanto a pieghe e a svasature, la sua
mente diventò tabula rasa. Cadde in uno stato di penosa debilitazione, in seguito a una lunga spossante febbriciattola,
nel corso della quale Hyacinth si prese cura di lei con una devozione che le faceva apparire ancora più grave il torto che
gli aveva recato, mentre il signor Vetch, da quando le riuscì di tenere la testa un po' sollevata, venne a sedersi al suo
capezzale aiutandola a trascorrere le lunghe ore della convalescenza. Dopo qualche tempo riprese pallidamente alcuni
contatti, per quanto riguardava l'affitto delle stanze (per l'altro aspetto della sua attività, la marea sembrava essersi
ritirata per sempre), ma nessuna cosa era ritornata come prima, e aveva capito esser quello il principio della fine. Così
infatti era stato, e adesso aspettava soltanto il sopraggiungere della morte: ne avvertiva l'imminenza, ora che una
ragazzina che aveva visto rotolarsi per strada era venuta a pavoneggiarsi davanti a lei, vestita di seta e di merletto. Un
piccolo, impercettibile sospiro di sollievo le sfuggì alla fine quando Millicent si alzò rimanendo lì in piedi a lisciare il
lucido cilindro del suo ombrellino.
«Non dimenticate di salutarmi Hyacinth,» disse la fanciulla con un fare perentorio che palesava tutta la sua
sordità per quella silenziosa protesta: «Non m'importa se voi pensate che mi sono fermata tanto nella speranza che
rientrasse per il tè. Ditegli pure che sono rimasta apposta un'ora, se volete: non vedo che vergogna ci sia nel desiderio di
rivedere l'amore della mia infanzia. Che sappia pure che l'ho chiamato così!» continuò Millicent con la sua risata
esibizionistica - tale la giudicò miss Pynsent - accordando via via questi permessi come se facesse delle grandi
concessioni. «Ditegli che gli lascio tutto il mio amore e che spero mi venga a trovare. Ma so bene che non gli direte
proprio niente. Non capisco cosa temiate: in ogni modo, vi lascio per lui il mio biglietto da visita.» Tirò fuori un piccolo
portafoglio dai colori brillanti e miss Pynsent rimase a guardarla stupefatta mentre estraeva un cartoncino stampato - le
sembrava mostruoso che uno di quegli squallidi Henning fosse sopravvissuto per poter ostentare questo simbolo di
prestigio sociale. Millicent si compiacque dell'effetto che stava producendo, mentre posava il biglietto da visita sul
tavolo, e alla vista dello sguardo cupido e incredulo della sarta si abbandonò a un altro scoppio d'ilarità. «Cosa pensate
che me ne voglia fare: potrei divorarmelo in un boccone!» gridò.
La povera Amanda non osò sbirciare oltre il pezzo di carta posato sul tavolo, pur avendo notato che conteneva,
in un angolo, l'indirizzo della visitatrice, che Millicent si era divertita a tenerle accuratamente nascosto: si alzò, posando
il lavoro con mano agitata, per poter accompagnare fin fuori la porta di casa la signorina Henning. «Non credere che mi
sforzerò minimamente per nascondergli qualcosa. Gli dirò senz'altro che sei stata qui, e quel che penso di te.»
«E sarà certo qualcosa di sgradevole... come un tempo, quando ero una bambina. Me ne dicevate di tutti i
colori, allora.»
«Certo,» disse Miss Pynsent, infastidita dalla rievocazione della sua passata intransigenza che confrontata
all'attuale evoluzione della ragazza appariva quanto mai assurda e fuori luogo. «Sei molto cambiata ora, se si pensa da
dove provieni.»
«Da dove vengo?» Millicent gettò indietro la testa e spalancò gli occhi, facendo ondeggiare tutte le sue piume e
i suoi nastri. «Vi sarebbe piaciuto vedermi incollata a questo postaccio per tutta la vita? Dal momento che voi avete
dovuto restarci, potreste almeno parlarne con più garbo.» Arrossì, alzò la voce e apparve stupenda nel suo disprezzo. «E
voi, ditemi, da dove venite, e lui - il misterioso "signor Robinson" che era l'enigma di tutto il vicinato? Speravo che un
giorno sarei venuta a saperlo, ma voi non me lo avete ancora detto!».
Miss Pynsent si voltò di scatto, coprendosi le orecchie con le mani. «Non ho niente da dirti! Esci... esci da casa
mia!» gridò con voce tremante.

Non si era accorta, nell'agitazione del momento, che la porta si apriva cedendo ad una lenta, cauta pressione
dall'ingresso, lasciando vedere la figura di un giovanotto in piedi, con una corta pipa fra i denti. Qualcosa sul suo viso
fece repentinamente intuire a Millicent Henning che aveva udito le ultime parole fin dal corridoio. Entrò come se,
nonostante la giovane età, già sapesse che quando le donne litigano, gli uomini non sono tenuti a entrare nella mischia, e
ora, evidentemente, si stava chiedendo chi fosse l'«antagonista» della sarta. Lei riconobbe immediatamente il suo
vecchio compagno di giochi, e senza alcuna titubanza, timidezza o tatto, esclamò, a voce decisamente alta,
profondamente sguaiata ed esuberante: «Dio mio, Hyacinth Robinson, sei proprio tu?»
Miss Pynsent si girò di scatto, ma rimase muta. Poi, pallidissima e tutta tremante, prese su il lavoro e andò a
sedersi di nuovo alla finestra. Dal canto suo, Hyacinth rimase in piedi a guardare nel vuoto, arrossendo fino alla cima
dei capelli. Sapeva chi era, ma non lo disse; chiese soltanto con una voce che sembrò alla ragazza molto diversa da
quella d'un tempo - la voce con cui usava dirle che era sgradevolmente noiosa - «stavate dicendo qualcosa di me?»
«Quando ho chiesto da dove venivi? Certo, perché ti avevo sentito muovere nell'ingresso,» rispose Millicent,
sorridendo. «Immagino che vieni dal lavoro.»
«Tu abitavi a Lomax Place - e mi volevi sempre baciare,» ribatté il giovane sforzandosi di nascondere la
sorpresa e la soddisfazione che provava. «Non abitava da queste parti, Pinnie?»
Pinnie, per tutta risposta, gli sgranò addosso un paio d'occhi supplici e stralunati, e Millicent scoppiò di nuovo
nella sua facile risata, della quale, tanto giustamente, la sarta aveva sentito la forzatura. «Vuoi sapere cosa sembri? Un
francesino di gesso! Non sembra un buffo francesino, miss Pynsent?» continuò come se i suoi rapporti con la padrona di
casa fossero ottimi.
Hyacinth captò un bagliore negli occhi di quella povera donna; le lesse sul viso qualcosa che ben conosceva e
che sempre lo aizzava ad una strana, perversa, dissacrante voluttà. Leggeva in lei la volontà di prostrarsi nella polvere a
far penitenza, un invito a calpestarla a suo piacimento, a sputarle in faccia, perfino. Ovviamente non aveva mai fatto
nulla di simile, tuttavia l'offerta di lei persisteva e quella incessante prostrazione e perpetua degradazione agivano da
antidoto alla piaga che gli si era per sempre insediata nel cuore e che, di notte, nella sua stanzina sottotetto, lo aveva
fatto spesso piangere. Quell'atteggiamento di Pinnie, divenuto ormai naturale, si palesava in tutta la sua evidenza ora
che la signorina Henning aveva osservato come lui somigliasse a un francese. Sapeva bene di sembrare un francese;
glielo avevano detto in molti, e spesso s'inorgogliva di sentirsi tale - proprio come uno di quei personaggi di cui aveva
letto in Michelet e Carlyle. Aveva imparato quella lingua con estrema facilità con l'aiuto di un amico, un esule di Parigi,
mentre lavoravano, servendosi di uno sdrucito dizionario di seconda mano, acquistato per uno scellino nella Brompton
Road, in una delle sue interminabili, irrequiete, tristi, corrucciate e pur sempre educative passeggiate londinesi. Sapeva
di parlarla con disinvoltura, con l'accento giusto e con appropriati gesti e movimenti delle sopracciglia e delle spalle;
cosicché, se avesse dovuto farsi prendere per uno straniero - non si sa mai quello che può accadere - ci sarebbe riuscito
egregiamente specie se avesse potuto rimediare un blusotto. Non aveva mai visto un blusotto in vita sua, ma ne
conosceva esattamente la forma e il colore, e sapeva come andava portato. Le complicate ragioni che avrebbero potuto
indurlo ad assumere l'aspetto di una persona di classe inferiore perfino alla propria non ve le avrebbe rivelate per tutto
l'oro del mondo; ma dal momento che erano sempre presenti nella coscienza del nostro fantasioso, geniale giovanotto,
ci sarà dato di vederle balenare nel corso di una più approfondita conoscenza. Ma poiché l'attuale situazione non aveva
niente a che fare con quel travestimento, arrossì ancora una volta nel sentire questo tasto sfiorato da una rumorosa,
ridanciana, bella fanciulla emersa dal suo passato. Negli occhi di Pinnie ora c'era qualcosa di più della consueta
mestizia: un muto appello quasi altrettanto patetico che, se voleva assecondarla, non trattenesse oltre la terribile
visitatrice. Non che ne avesse la minima intenzione: teneva apposta la porta aperta; e non provava nessun desiderio di
parlare alle ragazze sotto gli occhi di Pinnie, e capiva che questa qui era ben decisa a continuare a chiacchierare. Così,
senza rispondere all'accenno del suo aspetto, chiese, non sapendo bene cosa dire: «Sei tornata a vivere a Lomax Place?»
«Dio mi guardi!» gridò la signorina Henning con autentica costernazione. «Devo abitare nelle vicinanze della
ditta per cui lavoro.»
«E di che ditta si tratta?» domandò il giovane, prendendo coraggio e accorgendosi quanto fosse bella in ogni
sfumatura. Non aveva girovagato inutilmente per tutta Londra, e sapeva bene che con una ragazza dotata di quegli
attributi era de rigueur adottare un tono scherzoso e un fare piacevolmente spensierato; così aggiunse: «Si tratta del Bul
and Gate o dell'Elephante and Castle?»
«Un pub? Beh, certo la cortesia dei francesi ti manca proprio!». Le era tornato il buonumore, e il suo
risentimento per essere stata scambiata per una barista - una bellezza formosa che distribuiva boccali di peltro - si
ammorbidì a un esame più accurato della figura di Hyacinth. Era estremamente «originale», ma aveva quel nitore di
contorni di una moneta che faceva pensare gradevolmente a qualcosa di prezioso. Dal momento che si ricordava così
bene quanto le piaceva baciarlo da piccoli, avrebbe voluto fargli capire che era disposta a ripetere quel piacevole gesto.
Ma rammentò a se stessa, giusto in tempo, che doveva attenersi strettamente al ruolo di una gran dama, e si contentò di
esclamare con semplicità: «Per me l'aspetto di un uomo non conta, purché sappia tante cose. È questo che mi piace.»
Miss Pynsent si era presa la soddisfazione di non prestare ulteriore attenzione alla brillante visitatrice, ma la
tentazione di metterla in cattiva luce con Hyacinth fu grande, e come per controbilanciare la sua vivacità colse
l'occasione per rimarcare sarcasticamente: «La signorina Henning non tornerebbe a vivere a Lomax Place per tutto l'oro
del mondo. Lo considera troppo degradante.»
«E lo è infatti; è un buco orribile,» disse il giovanotto.
La frecciatina della povera sarta era caduta nel vuoto, e Millicent esclamò gaiamente: «Proprio così!» mentre
volgeva all'oggetto della sua ammirazione infantile uno sguardo che lo metteva ancor più a suo agio.
«E non pensi che io sappia molte cose?» le domandò piantandosi davanti a lei a gambe larghe, con le mani
dietro la schiena, mentre faceva oscillare la porta avanti e indietro.
«Tu? Me ne infischio di quello che sai!» disse; ma, ad ogni buon conto, egli era abbastanza intelligente per
afferrare il senso di quelle parole. Se aveva inteso dire che la sua bellezza era più che sufficiente, era una cosa che si
poteva capire, anche se molte donne avrebbero dissentito. Era rimasto di statura bassa, come già lasciava vedere fin da
piccolo - non si era mai sviluppato completamente - e inoltre era chiaro che non era esattamente un individuo forte. Di
ossatura minuta, il torace stretto, la carnagione pallida, tutto il corpo aveva un'esilità quasi infantile; e Millicent notò
anche che le mani erano delicatissime - mani, come si disse, di un signore. Quello che le piaceva era il viso un po'
spavaldo e un po' romantico, quasi istrionico, su quella piccola persona. La signorina Henning non conosceva nessun
artista di teatro, ma intuiva vagamente che era quello l'aspetto che un attore aveva nella vita privata. I lineamenti di
Hyacinth erano perfetti: gli occhi grandi e distanti esprimevano abitualmente una sorta di spiritoso candore, quasi
impertinente; e sul labbro superiore si disegnavano sottili, morbidi baffetti biondi che gli davano un'aria sorridente
anche quando aveva il cuore serrato. I capelli folti e sottili gli ricadevano ondulati sulla fronte alta ed evocatrice di
nobili gesta, e la signorina Henning aveva fatto in tempo a notare, quando era apparso, che portava il piccolo cappello,
tondo e floscio, in modo da lasciare ben visibili questi riccioli frontali. Era vestito con una vecchia giacca di velluto
marrone e portava esattamente la stessa cravatta dai colori vivaci che le agili dita di miss Pynsent solevano un tempo
fabbricare con vecchi ritagli di seta e mussola. Era trasandato e macchiato, ma un occhio esperto avrebbe subito capito
che quell'abbigliamento era del tutto intenzionale (visto che il proprio aspetto esteriore gli era tutt'altro che indifferente)
mentre a un pittore (che non prediligesse soggetti eroici) sarebbe certo piaciuto molto schizzargli il ritratto. C'era in lui
qualcosa di esotico eppure, con la sua giovane faccia spigolosa priva di freschezza ma non certo di dolcezza, e con quel
voluto cockneismo che lo pervadeva tutto, si faceva notare quanto Millicent e, proprio come lei, era il prodotto delle
strade e dell'aria di Londra. Aveva un'espressione aperta eppure leggermente dissoluta, divertita, divertente e
indefinibilmente triste. Le donne lo avevano sempre trovato commovente ma - così gli avevano più volte ripetuto - le
faceva morire dal ridere.
«Sarebbe meglio se chiudessi la porta,» disse miss Pynsent intendendo con questo che sarebbe stato bene che
facesse uscire la visitatrice.
«Sei venuta apposta a trovarci?» continuò lui, senza tener conto dell'ingiunzione, di cui aveva compreso il
senso, e augurandosi che la fanciulla si accomiatasse permettendogli così di uscire con lei. Voleva parlarle lontano da
Pinnie, che evidentemente mirava a punzecchiarla per ovvie ragioni. Ragioni che gli erano note da tempo, anche quando
si era trattato di ragazze neppure lontanamente attraenti come questa. Entrava sempre in una terribile agitazione
sospettando che volessero accalappiarlo e indurlo a contrarre un matrimonio indegno del suo rango. Il suo rango! Il
povero Hyacinth si era spesso domandato, e lo aveva spesso domandato a miss Pynsent, quale fosse. Ci aveva riflettuto
con grande amarezza, chiedendosi come avrebbe potuto mai sposare qualcuno «inferiore» a lui. Non si sarebbe mai
sposato - di questo era assolutamente certo; non avrebbe mai scaricato su altri quel fardello che aveva pesato
intollerabilmente sul suo giovane animo, quell'eredità che aveva offuscato il suo ingresso nell'età virile. Tanto più si
sarebbe preso la sua rivincita; se era possibile godersi in altro modo la tenera compagnia femminile, non c'era motivo
perché non dovesse coltivarla senza troppi alibi.
«Avevo un impegno non troppo lontano di qui e ho voluto dare un'occhiata alla vecchia bottega» disse
Millicent. «Ma se mi avessero detto che vi avrei ritrovato esattamente come vi avevo lasciato, non ci avrei creduto.»
«Ci saresti voluta tu ad aver cura di noi!» esclamò irrefrenabilmente miss Pynsent.
«Sei così clamorosamente in forma, tu!» osservò Hyacinth senza dar retta alla sarta.
«E piantala con la tua "clamorosa" sfacciataggine! Sono identica a qualsiasi altra ragazza di Londra.» E a
maggior convalida di questa dichiarazione, la signorina Henning proseguì: «Se mi chiedessi di accompagnarmi per un
tratto di strada ti risponderei che non è mia abitudine andare in giro con gli uomini.»
«Ti accompagnerò dove vorrai,» rispose con semplicità Hyacinth, quasi sapesse esattamente come andava
preso quel tipo di dichiarazione.
«Beh, solo perché ti conosco dalla nascita!» E uscirono insieme; Hyacinth evitando di guardare la povera
Pinnie (sentiva che lo fissava, bianca e piangente, dal suo angolo buio - s'era fatto troppo scuro nel frattempo per
lavorare senza il lume), mentre la sua compagna abbozzò al di sopra della spalla un gesto di saluto crudelmente
confidenziale.
La strada da Lomax Place al quartiere dove la signorina Henning (per trovarsi vicino ai magazzini di
Buckingham Palace Road) occupava una modesta camera interna, era molto lunga, ma la suggestione dell'ora era tale da
rendere quella passeggiata estremamente gradevole per il giovane che amava le strade ad ogni ora del giorno ma
specialmente al crepuscolo d'un sabato d'autunno, quando nei quartieri bassi i negozietti e le bancarelle raddoppiavano
la loro attività e rozze torce fumose illuminavano i carrettini e i banchetti che i venditori ambulanti si tiravano dietro
lungo i marciapiedi. Hyacinth vagabondava per la grande metropoli da quando era un ragazzino, ma la sua fantasia
seguitava ad essere perennemente stimolata dai preparativi domenicali che fervevano la sera tra gli operai e le filatrici,
suoi fratelli e sorelle, e si perdeva in tutto quell'affaccendato incalzarsi, in quello sporgersi dalle finestre illuminate, quel
mercanteggiare di pescivendoli e venditori ambulanti. Gli piacevano le persone che avevano l'aria di chi ha preso la
paga settimanale e si appresta a spenderla con parsimonia; e quelli che si accingevano chiaramente a farne uso
stravagante e dissoluto; e soprattutto quelli che palesemente non l'avevano presa affatto e che vagabondavano con aria
indifferente e svagata, le mani nelle tasche vuote, guardando gli altri che contrattavano i loro affari e si riempivano le
sporte, o sgranavano gli occhi davanti alle striate fette di pancetta, ai dorati blocchi o triangoli di formaggio, alle
aggraziate volute delle salsicce, nelle vetrine più ricche. Amava il riflesso dei lampioni sui marciapiedi bagnati, lo
spessore e l'odore dell'umidità fuligginosa di Londra; la nebbia invernale che avvolgeva ogni cosa di una luce appannata
e soffusa, facendo sembrare tutto più vasto e più affollato, creando aloni e tenui irradiazioni, rigagnoli e vapori sulle
superfici dei vetri. Quella sera si muoveva fra tutte queste sensazioni assaporandole in silenzio, mentre concentrava la
sua attenzione sulla compagna, congratulandosi per aver raggiunto quel grado d'intimità con una signorina che la gente
si girava a guardare. Anche lei aveva rilevato, con disprezzo, la ressa e l'affaccendarsi del sabato sera; disse che le
piacevano le strade, ma solo quelle rispettabili; non sopportava il puzzo del pesce di cui tutto il quartiere sembrava
impregnato, e non vedeva l'ora di arrivare a Edgeware Road, dov'erano diretti, una strada più confacente a una signora.
A Hyacinth sembrò totalmente diversa dalla bambinetta dai capelli lunghi che, anni addietro, a Lomax Place, teneva
sempre stretta al petto una sudicia bambola e cercava sempre la sua compagnia; era un'estranea, una nuova conoscenza,
e l'osservò perplesso, chiedendosi attraverso quali fasi fosse giunta allo stato presente.
Su questo punto lei lo illuminò soltanto un poco, pur parlando a lungo di vari argomenti; gli disse delle sue
abitudini, aspirazioni, gusti e avversioni - queste ultime erano enfatiche quanto le risate di una persona cui venga fatto il
solletico. Era tremendamente esigente, difficile da contentare, lo capiva bene; e affermò che quando una cosa perdeva
d'interesse ai suoi occhi, non la sopportava più neanche per un istante. In modo particolare era esigente nei confronti
delle compagnie maschili, e gli fece capire chiaramente che se un giovanotto voleva avere a che fare con lei doveva
usufruire di uno stipendio di almeno cinquanta scellini settimanali. Hyacinth assicurò che per il momento non
guadagnava tanto, ma lei gli rispose che il suo caso faceva eccezione, visto che sapeva tutto di lui (o, se non proprio
tutto, per lo meno molto), ed egli capì che il suo carattere reggeva il paragone con la sua bellezza. L'eccezione fu così
cospicua che, quando si furono incamminati per Edgeware Road (che conservava ancora tutta la «vita», sia pure molto
più dignitosa, della chiusura protratta fino a tarda ora) ed egli le propose di andare in un caffè a «prendere qualcosa» (in
seguito non riuscì a spiegarsi che cosa lo avesse spinto a tanto) lei accettò senza protestare - senza protestare neppure in
considerazione dei suoi magri guadagni. Per quanto magri fossero, al momento stavano tutti dentro la sua tasca (erano
destinati in parte a Pinnie) così da farlo sentire all'altezza della situazione. Millicent si servì abbondantemente di tè,
pane e burro, marmellata di lamponi, e considerò quel locale molto confortevole, mentre lui, una volta accomodatosi, fu
assalito dai dubbi sul decoro dell'ambiente, dubbi che gli erano suggeriti fra l'altro dalle fotografie alle pareti che
mostravano giovani donne in combinazione. Era affamato anche lui, non aveva ancora preso il tè, ma si sentiva troppo
eccitato e preoccupato per mangiare; la situazione lo rendeva irrequieto e gli dava i brividi: sembrava il principio di un
qualcosa di nuovo e raro. Non aveva ancora mai «pagato» neppure un bicchiere di birra a una ragazza dello stampo di
Millicent - una ragazza che frusciava e brillava e odorava di muschio - e se, come indicavano le apparenze, era
effettivamente una così gradevole rappresentante del suo sesso, le sue ore libere avrebbero subito una profonda
trasformazione, la sera, per esempio, quando si era spesso sentito come una grande lavagna su cui non fosse stato
tracciato neanche un segno di gesso. Le possibili conseguenze per i suoi risparmi (si era impegnato solennemente con
Pinnie e col signor Vetch a mettere qualcosa da parte ogni settimana) per il momento non lo preoccupavano; infatti,
anche se giudicava odioso e insopportabile essere povero, non aveva mai fantasticato, fino ad ora, sui mezzi e i sistemi
per non esserlo più. Sapeva press'a poco l'età di Millicent, tuttavia la considerava più grande, molto più grande di lui -
sembrava conoscere Londra e la vita così a fondo, e questo gli dava ancor più la sensazione di intrattenerla come se
fosse un giovane del bel mondo. Per associazione d'idee pensò al tipo di locale dove si trovavano; se questo era
effettivamente quello che sembrava, se ne sarebbe accorta subito anche lei, e molto probabilmente il fatto che non vi
facesse caso, purché il tè fosse forte e il pane considerevolmente imburrato, avrebbe fatto parte di quel piano di
iniziazione di cui lei aveva già mostrato il preambolo. Gli raccontò quello che era successo fra lei e miss Pynsent (non
la chiamò Pinnie e lui ne fu lieto, perché la cosa non gli sarebbe piaciuta) prima del suo arrivo e gli comunicò che non si
sarebbe mai più sognata di mettere piede in quella casa perché sua madre gli avrebbe cavato gli occhi. Poi si corresse:
«Ma che dico, non è tua madre! Che stupida sono! Me ne dimentico sempre.»
Hyacinth riteneva di aver collaudato ormai da anni il sistema per affrontare questo genere di allusioni, e aveva
avuto un'infinità di occasioni per sperimentarlo. Quindi guardò fisso negli occhi la sua compagna e disse: «Mia madre è
morta molti anni fa. Era una grande invalida. Ma Pinnie è stata meravigliosa con me.»
«Anche mia madre è morta,» rispose pronta la signorina Henning, come per "mettere una pezza". «Morì
improvvisamente, forse te la ricorderai.» Poi, mentre Hyacinth tentava di far emergere dal passato l'oscura figura della
signora Henning, che ricordava soprattutto corrucciata e sporca, la fanciulla aggiunse sorridendo eppure con una certa
intensità: «Ma io non ho avuto una Pinnie.»
«Hai l'aria di sapertela cavare da sola.»
«Beh, me lo auguro,» disse Millicent Henning. Poi gli chiese notizie del signor Vetch. «Dicevamo sempre che
se miss Pynsent era la tua mamma, il signor Vetch era il tuo papà. In famiglia lo chiamavamo lo spasimante di miss
Pynsent.»
«E lo è ancora,» rispose Hyacinth, «è il nostro migliore amico - o per lo meno crediamo che lo sia. Mi ha
procurato il posto dove lavoro. Vive ancora del suo violino, come un tempo.»
Millicent guardò per un po' il suo compagno e poi osservò: «Avrei creduto che ti avrebbe trovato un posto nel
suo teatro.»
«Nel suo teatro? Sarebbe stato impossibile. Non suono nessuno strumento.»
«Non dico nell'orchestra, sciocco! Saresti bellissimo in costume.» Teneva i gomiti sul tavolo, con le spalle
erette - un atteggiamento estremamente confidenziale. Fu sul punto di rispondere che non gl'importava nulla dei
costumi e che voleva essere fedele alla sua parte. Ma si fermò di colpo pensando che era proprio quanto gli veniva
vistosamente negato. La propria parte? Doveva occultarla con la massima attenzione: era destinato a passare la vita con
una maschera e un mantello preso in prestito; ogni giorno e ogni ora doveva vivere come un attore. Improvvisamente, e
con la massima disinvoltura, la signorina Henning chiese: «Miss Pynsent è una tua parente? Perché ha dei diritti su di
te?»
Hyacinth aveva la risposta pronta: era deciso a dire, come aveva fatto altre volte: «Miss Pynsent è una vecchia
amica di famiglia. Mia madre l'amava e lei amava mia madre.» Ripeté anche ora il ritornello, guardando la ragazza con
estrema tranquillità, come si era prefisso - anche se avrebbe preferito rispondere che sua madre non la riguardava
affatto. Ma lei era troppo bella per poter correre simili rischi, e il suo bel viso al di là del tavolo aveva l'aria di chiedere
tenerezza e calore. Da sempre egli portava nel cuore torture e passioni che avrebbe voluto rivelare a una donna. Pensava
che soltanto questa sarebbe stata la sua medicina: che in cambio di qualcosa che avesse lasciato cadere, sillaba a sillaba,
in un orecchio comprensivo, prossimo ad una guancia da baciare, gli sarebbero state dette in cambio parole che
avrebbero reso meno acuta la sua pena. Ma di quale donna fidarsi, quale orecchio sarebbe stato sicuro e a un tempo
adeguatamente e amorosamente interessato? Non chiedeva già troppo? Certo non avrebbe trovato rispondenza in questa
esuberante, fresca, ridente creatura la cui comprensione avrebbe mancato di quella finezza che egli andava cercando,
poiché la curiosità di lei era volgare. Hyacinth odiava la volgarità quanto la stessa miss Pynsent che da questo punto di
vista aveva scoperto da tempo quanto lui le fosse simile. Così, aveva fatto cadere l'argomento della signora Henning; si
sentiva incapace d'indagare oltre su di lei, e non aveva nessun desiderio di conoscere i rapporti familiari di Millicent.
Inoltre si era sempre sentito male fino alla nausea ogni volta che la gente si soffermava sulla faccenda della sua origine
e sul motivo per cui Pinnie si era presa cura di lui fin dalla nascita. La signora Henning era stata una donna ripugnante,
ma per lo meno sua figlia ne poteva parlare. «Il signor Vetch ha cambiato casa: è venuto via dal 17 tre anni fa,» disse,
per cambiare discorso. «Non sopportava gli altri inquilini; ce n'era uno che suonava la fisarmonica.»
Millicent non mostrò molto interesse a questa storia anche se domandò per quale ragione gli altri avrebbero
invece dovuto apprezzare il violino del signor Vetch. Poi aggiunse: «Mi pare che, dato che ci si era messo, avrebbe
potuto trovarti qualcosa di meglio di un posto di rilegatore.»
«Non era obbligato a trovarmi nulla. È un ottimo posto.»
«Non ti avrei mai immaginato in un lavoro simile,» disse la fanciulla, non tanto per dargliene atto, quanto col
tono risentito di chi vede smentiti i calcoli che si era fatto.
«Dove mi avresti voluto? Nella Camera dei Comuni? Peccato che tu non l'abbia detto prima, dove volevi
vedermi.»
Lo guardò in faccia, al di sopra della tazza, bevendo a piccoli sorsi, coma una vera signora. «Sai quello che si
diceva a Lomax Place? Che tuo padre era un Lord.»
«Non mi stupisce. È il tipo di chiacchiere che si fanno in quell'impagabile tana,» disse il giovanotto senza
battere ciglio.
«Beh, può darsi che lo fosse» azzardò Millicent.
«Per quel che me ne è venuto, avrebbe potuto essere anche il primo ministro!»
«Figuriamoci, ne parli come se non lo sapessi!» disse Millicent.
«Finisci il tè e non ti curare di come parlo.»
«Beh, non c'è dubbio che hai un bel caratterino!» rispose acida. «Mi sarei aspettata che saresti diventato un
impiegato di banca.»
«Perché, li scelgono forse per il loro carattere?»
«Sai benissimo quello che voglio dire. Eri troppo intelligente per metterti a fare l'operaio.»
«Beh, non sono intelligente abbastanza per campare d'aria.»
«Visto il tè che consumi potresti anche esserlo! Perché non hai intrapreso una qualche professione?»
«Come potevo? Chi mi avrebbe aiutato?» replicò Hyacinth con voce alquanto vibrata.
«Non hai parenti?» disse Millicent dopo una pausa.
«Che vuoi fare? Vuoi indurmi a qualche millanteria?»
Quando parlava bruscamente lei non poteva fare a meno di ridere, per nulla impermalita a giudicare dal suo
sguardo piuttosto ammirato. «Beh, mi secca che tu sia soltanto un operaio,» continuò spingendo la tazza da un lato.
«E invece lo sono,» rispose Hyacinth ma chiese il conto con l'aria di un autentico impiegato. Poi, mentre
aspettavano, spiegò alla sua compagna che non aveva idea di cosa fosse il suo lavoro e di quanto potesse essere
affascinante. «Sì, confeziono i libri per la vendita,» rispose alla sua obiezione di aver compreso perfettamente. «Ma
l'arte del legatore è un'arte squisita.»
«Così mi ha detto miss Pynsent. Ha anche detto che a casa hai qualche esemplare. Mi piacerebbe vederlo.»
«Tu non potresti comprenderne la bellezza,» sorrise lui sottilmente.
Si aspettava che lo accusasse di essere un miserabile impudente, e per un attimo sembrò essere lì lì per farlo.
Ma le parole le si cambiarono sulle labbra e rispose quasi con tenerezza: «È proprio così che mi parlavi tanti anni fa, a
Lomax Place.»
«Non me ne importa nulla. Detesto quel periodo della mia vita.»
«Oh, anch'io se devo essere sincera,» disse Millicent come desiderosa di adeguarsi a qualsiasi punto di vista.
Poi ritornò all'idea che non aveva reso giustizia a se stesso: «Avevi sempre per la testa un'infinità di cose. Non avrei mai
creduto che avresti finito per fare un lavoro manuale.»
Queste parole parvero irritarlo, e dopo aver pagato il conto, lasciando con ostentazione tre pence alla ragazza
dalle movenze languide e i capelli di un giallo falso che li aveva serviti, disse: «Puoi star certa che non lo farò neppure
un minuto più dello stretto necessario.»
«E che farai allora?»
«Un giorno lo vedrai.» Per la strada, dopo che avevano ripreso a camminare, disse: «Parli come se avessi avuto
la possibilità di una scelta. Cosa poteva fare un anonimo pezzente, seppellito insieme a un milione di altri idioti, in uno
squallido angolo di Londra? Senza aiuti, senza raccomandazioni, senza conoscere nessun professionista: non potevo
continuare a vivere alle spalle di Pinnie. «Grazie a Dio ora l'aiuto un po'. Ho preso quello che c'era.» Parlava come se
volesse difendersi dall'accusa di un tradimento.
Millicent sembrò aver raccolto l'eloquenza della sua difesa quando osservò: «Ti esprimi proprio come un
signore,» parole che lui lasciò senza risposta. Dopo un po' riprese però a parlare, e poiché la sera era definitivamente
calata, la sua compagna gli prese il braccio per il resto della strada. Quando furono arrivati alla porta di casa, le aveva
confidato che segretamente scriveva, proprio come se dovesse pubblicare; era ossessionato dal sogno di farsi un nome
nel campo letterario. La cosa sembrò farle una certa impressione, e con quella simpatica incoerenza che la
caratterizzava, se ne uscì che per conto suo, se un uomo le piaceva, non le importava nulla delle sue origini; riteneva
che la famiglia e tutta quella robaccia fossero cose superate. Hyacinth si augurò che la finisse con la sua origine, e
mentre indugiavano sulla porta, prima che lei entrasse, disse:
«Sono sicuro che sei una brava ragazza, e sono felice di averti rivisto. Ma hai proprio ben poco tatto.»
«Poco tatto, io? Dovresti vedermi all'opera quando rivendo una vecchia giacca!»
Lui rimase per un po' in silenzio, dritto di fronte a lei, le mani in tasca. «La tua fortuna è che sei così bella.»
Millicent non arrossì al complimento, né forse comprese cosa sottintendeva, ma lo guardò per un istante negli
occhi con quel suo grande sorriso che le scopriva i denti, e poi rispose, più incoerentemente che mai: «Su, andiamo, chi
sei?»
«Chi sono? Sono un piccolo miserabile ragazzo di bottega.»
«Non avrei mai creduto che potesse piacermi qualcuno in quel ramo!» replicò lei con aria vissuta. Poi accennò
all'impossibilità d'invitarlo ad entrare dal momento che si era fermamente proposta di non ricevere nessun uomo in casa,
ma non le sarebbe dispiaciuto fare un'altra passeggiata con lui, o incontrarlo da qualche parte - sempre se fosse stato
possibile. Poiché lei abitava tanto lontano da Lomax Place poteva andargli incontro a metà strada. Così, nella scura
stradina di Pimlico, prima di separarsi, fissarono con disinvoltura un appuntamento; la cosa più interessante, pensò il
giovanotto, che fino allora gli fosse stata elargita - se così si poteva dire.

VI

Qualche tempo dopo, il suo amico Poupin un giorno non si presentò alla legatoria né mandò spiegazioni, come
si usa fare in caso di malattia o di contrattempi familiari. C'erano due o tre persone che lavoravano nella ditta sulle cui
assenze, che coincidevano con il giorno successivo alla paga, era meglio non indagare, poiché costituivano di per sé
un'implicita denuncia di una debolezza ben precisa - ma in genere la ditta del signor Crook era un esempio di puntualità
e di serietà. Meno di chiunque altro, non si era mai sognato di chiedere un permesso Eustache Poupin. Hyacinth sapeva
quanto rifuggisse dal fare ricorso all'indulgenza, ed era proprio una delle ragioni della sua ammirazione per quel
francese straordinario, stoico ardente, freddo cospiratore e artista squisito, che era di gran lunga la persona più
interessante di quante avesse mai conosciuto e la cui conversazione, a bottega, lo aiutava a dimenticare l'odore dei
pellami e della colla. Le sue conversazioni! Hyacinth ne aveva ascoltate tante, e si era fatto amare da quel profugo
ardente per la solennità e il candore dell'attenzione che gli prestava. Poupin era giunto in Inghilterra dopo la Comune
del 1871, per sfuggire alle rappresaglie del governo Thiers, e vi era rimasto nonostante le varie amnistie e riabilitazioni.
Era un repubblicano vecchio stampo, di quelli del 1848, umanitario e idealista, totalmente imbevuto dello spirito di
fraternità e di uguaglianza ed eternamente sorpreso ed esasperato dal fatto che, nella sua terra d'esilio, questi sentimenti
riscuotessero tanto poco credito. Aveva decisamente diritto alla stima e alla gratitudine di Hyacinth perché alla legatoria
era stato il suo parrain , il suo protettore. Quando Anastasius Vetch aveva trovato lavoro per il giovane protetto di miss
Pynsent, era stato tramite quel francese, di cui per caso era diventato amico.
Il ragazzo era circa sui quindici anni quando il signor Vetch gli aveva fatto dono dei saggi di Lord Bacon, e il
possesso di questo volume avrebbe avuto conseguenze importanti per Hyacinth. Anastasius Vetch era povero e il lusso
di dare gli era quasi sempre negato; ma quando, una volta ogni tanto, ne assaporava la gioia, voleva che fosse completa.
Nessuno più di lui conosceva la differenza tra banale e raro, ed era capace di apprezzare un libro che si presentasse
bene, coi margini ben squadrati e la dicitura della costa ben chiara. Soltanto un libro così poteva offrire, sia pure a un
povero diavolo che una sartina d'infima categoria (sapeva che Pinnie era d'infima categoria) aveva sottratto all'ospizio.
Così, quando si trattò di far indossare al grande elisabettiano una giacchetta nuova - fatta di marocchino e dorata con
tocco discreto e delicato - andò spedito col suo volumetto di tela - un Pickerind - dal signor Crookenden, noto a tutti
quelli che se ne intendevano come principe dei legatori, anche se si sapeva che il suo lavoro, molto limitato nella
quantità, era destinato tramite un'agenzia quasi esclusivamente a un solo libraio. Anastasius Vetch non aveva intenzione
di pagare la commissione al libraio e pur sapendo essere generoso (entro i suoi limiti) quando faceva un regalo, era
anche capace di qualunque cosa per risparmiare quattro soldi. Entrò nella bottega del signor Crookenden, situata in una
fatiscente piazzetta di Soho, dove la richiesta di un lavoretto tanto da poco fu accolta, inizialmente, con gelida
impassibilità. Il signor Vetch comunque non si lasciò impressionare: spiegò con disarmante franchezza il motivo della
sua presenza: il desiderio di ottenere la migliore rilegatura possibile con la minima spesa. Chiarì con tanta precisione
quella che secondo lui era una buona rilegatura, che il proprietario alla fine si lasciò vincere da quella tipica corrente di
simpatia che, in condizioni favorevoli, si stabilisce fra l'artigiano e l'intenditore. Il lavoro del signor Vetch fu sentito
come un favore tutto particolare dovuto a un eccentrico gentiluomo la cui visita aveva rappresentato un distensivo
interludio (per il gruppo di operai in ascolto) in una giornata altrimenti puramente meccanica; e quando, tre settimane
dopo, ritornò alla bottega per vedere se fosse pronto, ebbe la soddisfazione di constatare che le sue istruzioni,
puntualmente seguite, erano state perfino migliorate. Il lavoro fu eseguito con tale perfezione artigianale da indurlo a
chiedere chi fosse la persona da ringraziare (gli era stato detto che era opera di un uomo solo) e fu così che fece la
conoscenza del più geniale artigiano della ditta, l'incorruttibile, fantasioso, infallibile Eustache Poupin.
Rispondendo a un elogio che riconobbe non stereotipo, il signor Poupin disse che aveva in casa una collezione
di campioni sperimentali in marocchino, cuoio di Russia, pergamena, coi quali, per puro e semplice amore della sua
arte, aveva occupato piacevolmente le ore libere, e che sarebbe stato lieto di mostrare al suo interlocutore se questi gli
avesse fatto l'onore di andarlo a trovare a casa sua, in Lisson Grove. Il signor Vetch si segnò l'indirizzo e per amore
della cosa in sé e per sé, una domenica pomeriggio andò a vedere gli esoterici esemplari. In quella occasione fece la
conoscenza di Madame Poupin, una signora piccola e grassa con baffi setolosi, la cuffietta bianca da ouvrière e una
competenza nell'arte del marito pari a quella di lui; ignorante della lingua inglese tranne che per la frase: «What do you
think? What do you think? (Che ne pensate, che ne pensate?)», che introduceva nel discorso con infaticabile frequenza.
Scoprì inoltre che il suo nuovo conoscente era stato un proscritto politico e che considerava l'iniqua struttura Chiesa-
Stato con occhio certo non più riverente di quello del violinista. Il signor Poupin era un socialista attivista, a differenza
di Anastasius Vecth, e un democratico progressista (anziché un dileggiatore delle cose sorpassate), un teorico, un
ottimista, un collettivista, un perfezionista e un visionario; credeva che sarebbe giunto il giorno in cui tutti gli stati del
mondo avrebbero abolito le frontiere, gli eserciti e le dogane, si sarebbero baciati sulle guance e avrebbero ricoperto la
terra di una raggiera di boulevards irradiantisi da Parigi, dove l'umana famiglia si sarebbe seduta a gruppi intorno ai
tavolini, a seconda delle varie affinità, a bere caffè, (non tè, par exemple!) e ad ascoltare musica.
Il signor Vetch non solo non si prefiggeva, ma neppure avrebbe desiderato questa beatitudine organizzata:
amava la sua brava tazza di tè e aspirava soltanto a vedere semplificata la costituzione britannica che considerava un
sistema alquanto sopravvalutato; ma le sue eresie reggevano bene quelle del piccolo rilegatore, e l'amico di Lisson
Grove diventò per lui l'emblematico rappresentante dello straniero intelligente la cui conversazione fa lievitare la nostra
pedestre cultura. Lo zelo umanitario di Poupin era tanto illimitato quanto era invece limitato il suo vocabolario (inglese)
e i due nuovi amici convennero che discutere insieme quel tanto e non più era sempre meglio di una muta armonia. Per
numerosi pomeriggi domenicali il violinista si recò a Lisson Grove, e poiché nel teatro dove prestava da tanti anni la sua
fedele opera godeva di qualche occasionale privilegio, riuscì ad ottenere, un giorno d'autunno, due biglietti di seconda
balconata. Madame Poupin e suo marito trascorsero una lugubre serata alla Commedia Inglese, dove non capirono una
parola e si consolarono aggrappandosi al concitato archetto dell'amico, giù nell'orchestra. Ma questo non incise su
quell'amicizia che in seguito avrebbe coinvolto anche Amanda Pynsent. A Madame Poupin mancava una compagnia
femminile fra quei freddi isolani, e il signor Vetch propose alla sua cara amica di Lomax Place di farle visita. La piccola
sarta che in vita sua non aveva conosciuto nessuna signora francese ad eccezione della sventurata Florentine (un
esemplare piacevole finché non aveva cominciato a sbandare), accettò la proposta nella speranza di farsi un'idea del
buon gusto del paese che quella signora rappresentava (come già aveva fatto un tempo con Florentine), ma invece si
accorse che il legatore e sua moglie erano un ibrido sconcertante di genialità e di dégagement e rimase per molto tempo
ossessionata dal ricordo della camicetta di quella signora a orribili disegni stampati, della sua mole strabocchevole non
sorretta da alcun busto, e delle sue pantofole da casa. L'amicizia, tuttavia, fu sancita tre mesi dopo con una cena, una
domenica sera, a Lisson Grove; il signor Vetch portò il violino e Amanda presentò agli ospiti il suo figlio adottivo, e
scoprì che se Madame Poupin riusciva egregiamente a guarnire un'oca Michaelmas non sapeva come «guarnire» una
grassa signora francese.
Questa signora confidò al violinista che considerava miss Pynsent proprio comme il faut - dans le genre
anglais; quanto ad Amanda e Hyacinth non avevano mai passato una sera così brillante che, nella memoria del
fanciullo, andò a collocarsi accanto alla visita al teatro del signor Vetch di qualche anno prima. Hyacinth bevve
avidamente tutte le battute che il signor Vetch scambiò col signor Poupin. Questi gli mostrò le sue rilegature, i trofei più
preziosi della sua arte, e lui si sentì istantaneamente iniziato ad un mistero affascinante. Rimase per una mezzora a
rigirarsi i libri fra le mani, mentre Anastasius Vetch lo osservava senza farsi notare. Così, quando qualche tempo dopo
miss Pynsent tornò a consultarsi per la ventesima volta col suo amico sulla «carriera» di Hyacinth - parlava come se
avesse il dubbio della scelta fra la carriera diplomatica, quella militare e quella ecclesiastica - il violinista replicò
prontamente: «Potreste fargli fare il mestiere del francese.» Alla parola mestiere la povera Pinnie assumeva sempre
un'aria solenne e distaccata e tuttavia quando il signor Vetch le chiedeva se fosse disposta a mandare il ragazzo
all'Università o a pagare la cauzione richiesta per l'apprendistato in uno studio legale o per inserirsi nelle grazie di un
direttore di banca o di un magnate, oppure se fosse in grado di pagargli un alloggio confortevole mentre corteggiava le
Muse e attendeva gli allori della letteratura - quando, ripeto, le presentava il caso con questa cinica, ironica lucidità,
tutto quello che lei poteva fare era sospirare e dire che nella vita le era riuscito di risparmiare soltanto quelle novanta
sterline che, come sapeva bene, non avrebbe potuto ritirare dalla banca senza giocarsi per sempre la sua amicizia. Il
musicista infatti le aveva detto chiaro e tondo che se per amore del ragazzo si fosse spogliata dell'unica risorsa della sua
vecchiaia, si sarebbe lavato le mani di lei e dei suoi affari. Le sue aspirazioni per Hyacinth erano vaghe, tranne per un
punto, sul quale era fanaticamente decisa: cioè che non doveva assolutamente lavorare in una botteguccia. Avrebbe
preferito vederlo fare il muratore o l'erbivendolo anziché occupato nella vendita al minuto, a incartare le candele da un
droghiere o a dare il resto di uno scellino al di là del bancone. Una volta dichiarò che avrebbe preferito piuttosto che
facesse l'apprendista da un sarto o da un calzolaio. Un cartolaio di una strada vicina aveva affisso un cartello in cui si
cercava un ragazzo per le commissioni, e Pinnie, venutolo a sapere, gli aveva presentato Hyacinth. Il cartolaio era un
individuo duro e dispotico, con una pezza su un occhio, che riteneva la paga di tre scellini alla settimana più che
generosa; una remunerazione irrisoria, secondo la sarta, per le rare capacità e virtù del ragazzo. I suoi studi erano stati
discontinui, precari, ad eccezione dei primi anni quando era stato affidato a un'anziana signora che alle funzioni di
scaccina in una vicina chiesa abbinava, assistita da una sorella - una nurse «volante» - la manipolazione - sempre a
Lomax Place, dove risiedevano - di quegli alunni che le famiglie erano in grado di esonerare dalle più urgenti funzioni
del badare al pupo o dell'andare a comprare la birra. In seguito, Pinnie aveva pagato cinque scellini la settimana per
mandarlo all'«Accademia» in una zona bene di Islington, dove c'era un «istruttore di lingue straniere,» una specie di
base di lancio per l'apprendistato all'arte dell'oratoria e del bel mondo, ma dove Hyacinth soffrì del fatto che quasi tutti i
suoi compagni, figli di negozianti di generi alimentari, pasticceri, droghieri, pescivendoli, lo sottoponevano a
umiliazioni, a paragoni vergognosi, portando a scuola, sia per uso proprio che per scambi e baratti, svariate brioches,
arance, dolciumi da succhiare e pescetti che il bambino con le mani nelle tasche vuote e in cuore la sensazione di uscire
da una casa sconfortantemente inodore, era costretto a veder divorare sotto i suoi occhi, senza essere invitato a
«favorire». Miss Pynsent non avrebbe potuto addossarsi le spese di una regolare istruzione, ma era convinta che a
quindici anni avesse già letto tutto il leggibile. In realtà le sue letture avevano subito i limiti imposti dalla necessità. Il
signor Vetch, il quale, man mano che il ragazzo cresceva aveva preso a parlare con lui sempre più spesso, lo sapeva, e
gli prestava tutti i libri che possedeva o su cui poteva mettere le mani: la lettura era la sua unica passione e l'unico
aspetto della vita che gli apparisse deprecabile era l'assenza di qualsiasi contatto diretto con una biblioteca. Egli
attribuiva a Hyacinth un'intelligenza sottile e deplorava vivamente che non potesse essere indirizzato verso qualche
disciplina liberale, ma riteneva ancora più ingiusto che un giovane con una simile espressione negli occhi fosse
condannato a misurare la fettuccia o ad affettare formaggi. Da parte sua non poteva far nulla, non avendo conoscenze
nel mondo della finanza o del commercio, o meglio era venuto a contatto con quel mondo e quelle istituzioni in un
momento della sua vita che a nessun costo avrebbe dimenticato. Quando il cartolaio ebbe chiarito i termini in cui era
disposto a trattare l'assunzione dei «fattorini» e Pinnie gli ebbe risposto che, grazie al cielo, non era ancora caduta tanto
in basso, - il signor Vetch capì che lei non aveva fatto altro che esprimere con parole più fiorite i suoi stessi sentimenti.
Naturalmente, per far carriera Hyacinth doveva cominciare col carreggiare pacchi di libri, per poi passare alla più
raffinata arte di legarli fino a raggiungere il posto di contabile o direttore, ma tanto il violinista che il suo amico e, in
ultima analisi, perfino Miss Pynsent, si rassegnarono ad accettare in blocco questa prospettiva. Il signor Vetch era
convinto che un mestiere affascinante fosse sempre meglio di un volgare «commercio», e un giorno, quando l'amicizia
con Eustache Poupin durava ormai da qualche tempo, chiese all'ardente francese se ci fosse qualche probabilità che il
ragazzo, con una sua presentazione, potesse entrare nella bottega del signor Crookenden - non esisteva luogo migliore
per apprendere il più elegante di tutti i mestieri: essere accettato in un posto simile e su richiesta di un simile artista
sarebbe stato un inizio veramente importante. Il signor Poupin ci pensò su e quella sera stessa espose la cosa alla
compagna con la quale divideva tutti i pensieri e che lo capiva meglio di quanto egli capisse se stesso. I due non
avevano figli e ne avevano sempre sentito la mancanza; inoltre avevano saputo dal signor Vetch la storia del penoso
ingresso nella vita del ragazzo. Era un reietto, un derelitto e per tanto una creatura degna del più straordinario interesse;
inoltre era uno dei loro, un figlio dell'immortale Francia, il virgulto di una razza sacra. Pur non essendo questo il punto
più autentico della presente autentica storia, abbiamo buone ragioni di credere che quella notte, a Lisson Grove, siano
state versate abbondanti lacrime su Hyacinth Robinson. Dopo un paio di giorni il signor Poupin rispose al violinista che
lui si trovava ormai da parecchi anni alle dipendenze del vieux «Crook», che in tutto quel tempo aveva svolto per lui un
lavoro che, fatto da un altro, gli avrebbe procurato bien du mal, e che non aveva mai sollecitato favori, permessi,
prestiti, aumenti. Era ora, non fosse altro per decoro, che chiedesse qualcosa, e l'oggetto della sua richiesta avrebbe
riguardato il loro piccolo amico. «La societé lui doit bien cela» sottolineò in seguito dopo che il signor Crookenden col
suo fare sbrigativo si fu mostrato favorevole, e l'affare si concluse formalmente coi ringraziamenti gentili, un poco
timidi e sommessi, tipicamente inglesi, del signor Vetch. Poupin si mostrò molto paterno quando Hyacinth iniziò a
lavorare nei maleodoranti ambienti a Soho. Lo prese sotto la sua guida, ne fece il suo discepolo, l'erede di una preziosa
tradizione, scoprì in lui una predisposizione alla filosofia, alla scienza cosmica, alla tecnologia. Gli insegnò il francese e
la dottrina socialista, lo invitò a passare le serate a Lisson Grove, a considerare Madame Poupin come una seconda o
meglio una terza madre e, in breve, lasciò un segno profondo nell'animo del ragazzo. Sollecitò e fece divampare in lui
l'innato gallicismo latente, e giunto alla soglia dei venti anni Hyacinth, saturo ormai della sua influenza, lo considerava
con un misto di venerazione e divertimento. Il signor Poupin fu la persona che più di ogni altra lo confortò nei momenti
di avvilimento, piuttosto frequenti.
Era tanto raro che si assentasse dal lavoro che, quel pomeriggio, prima di rincasare, Hyacinth si recò a Lisson
Grove per vedere cosa gli fosse successo. Lo trovò a letto con un cataplasma sul petto, mentre Madame Poupin
armeggiava sui fornelli intenta a preparargli una tisana. Il francese aveva preso la sua indisposizione con tutta gravità,
ma con rassegnazione, da persona convinta che ogni malattia sia la logica conseguenza dell'imperfetta organizzazione
sociale, e giaceva nel letto, coperto fino al mento, con un fazzoletto rosso annodato intorno alla testa. Presso il letto era
seduta una persona in visita, - un giovanotto sconosciuto a Hyacinth. Ovviamente Hyacinth non era mai stato a Parigi,
ma era ugualmente convinto che l'interieur dei suoi amici di Lisson Grove rendesse abbastanza fedelmente l'idea di
quella città. Le due stanzette di cui si componeva l'appartamento abbondavano di specchi e ritratti (stampe vecchio stile)
di eroi rivoluzionari. Il caminetto della stanza da letto era bardato con un drappo rosso che a Hyacinth sembrava
splendido; l'elemento più decorativo del salotto era un servizio di tazzine arabescate, allineate sopra un vassoio insieme
ad alcune bottiglie dorate e bicchierini destinati alla consumazione di caffè e liquori. Sul pavimento non c'erano tappeti,
soltanto stuoie e tappetini di varie forme e dimensioni disposti davanti alle sedie e ai divani. Nella stanza, dove
troneggiava uno stupendo orologio dorato stile impero, sormontato da un «gruppo» raffigurante la Virtù che riceve una
corona d'alloro dalle mani della Fede, Madame Poupin con l'aiuto di una minuscola stufa, una manciata di carbone e
due o tre pentole si dedicava a una trionfalistica cuisine. Alle finestre c'erano tende di mussola bianca, arricciate e
ariose, legate da un nastro rosa.

VII

«Soffro terribilmente, ma tanto dovremo soffrire tutti fino a che la questione sociale rimarrà così
abominevolmente e delittuosamente negletta,» disse Poupin parlando in francese e girando verso Hyacinth i suoi occhi
penetranti ed eccitati che avevano sempre la stessa espressione declamatoria, reclamatoria, proclamatoria e
perennemente rivelatrice, qualunque fosse il soggetto del discorso o l'attività del momento. Hyacinth si era seduto al
capezzale dell'amico, dalla parte opposta dello strano giovane che era stato fatto accomodare su una sedia ai piedi del
letto.
«Certo, nella loro sporca politica, la situazione del pauvre monde è l'ultima cosa a preoccuparli,» esclamò la
moglie dai fornelli. «A volte mi domando quanto durerà.»
«Durerà finché non raggiungeranno il culmine della loro imbecillità ed infamia. Continuerà fino al giorno del
giudizio, quando il riscatto dei derelitti e dei diseredati esploderà con una forza da scuotere il mondo.»
«La verità è che le cose continuano ad andare avanti senza cambiare mai,» disse Madame Poupin agitando
allegramente un grosso mestolo nella casseruola.
«Forse noi non lo vedremo ma loro sì,» rispose il marito. «Ma che dico, figli miei, lo vedo anch'io! È qui
davanti ai miei occhi in tutta la sua radiosa concretezza, specialmente ora che me ne sto prostrato - la rivendicazione, il
riscatto, la rettifica.»
Hyacinth aveva smesso di prestare attenzione non tanto perché la pensasse diversamente su quello che il signor
Poupin chiamava l'avenement dei diseredati, al contrario per l'eccessiva familiarità con quell'argomento. Era il pensiero
fisso dei suoi amici francesi che, come si era accorto da tempo, avevano una specie d'infatuazione cronica. Per loro la
questione sociale era sempre d'attualità, la politica sempre disastrosa, i diseredati sempre presenti. Si stupiva del loro
zelo, della loro tenacia, vivacità, inflessibilità, della inesauribile riserva di convinzioni e profezie che avevano sempre a
portata di mano. Era convinto di essere in fondo in fondo più amareggiato di loro, tuttavia conosceva momenti di
distrazione e di spensieratezza in cui la questione sociale lo annoiava, e dimenticava non solo i torti ricevuti, il che
sarebbe stato perdonabile, ma anche quelli degli altri in genere, dei suoi compagni di sventura. Loro invece erano
sempre sulla breccia, eternamente coerenti con se stessi e, cosa ancora più importante, l'uno con l'altro. Hyacinth aveva
sentito dire che in Francia l'istituto matrimoniale era preso alla leggera, ma era colpito dall'unione e dall'intimità della
coppia di Lisson Grove, dalla loro appassionata identità d'interessi: era rimasto soprattutto colpito il giorno in cui il
signor Poupin, in un momento di estrema se pure non indiscreta espansività, lo aveva informato che la signora era sua
moglie soltanto in senso spirituale e affettivo. Gli ipocriti conformismi e le meschine superstizioni trovavano questa
coppia esaltata assolutamente intollerante. Hyacinth conosceva a memoria il loro vocabolario e avrebbe potuto
anticipare con le stesse parole quello che in qualsiasi circostanza il signor Poupin avrebbe detto. Sapeva che «loro»,
nella sua fraseologia, indicava tutti gli esseri umani tranne il popolo, benché chi esattamente fosse il popolo nella sua
totalità era meno chiaro. Di questo sacro organismo al quale il futuro riservava le sue rivincite faceva parte la sua
persona come quella dei suoi amici francesi, Pinnie, la maggior parte degli abitanti di Lomax Place e gli operai della
bottega del vecchio Crook. Ma il vecchio Crook, che indossava un grembiule un po' più sporco degli altri ed era un
convinto progressista e che d'altro lato viveva a Putney in una villa del tutto indipendente, con una moglie che
notoriamente coltivava il sogno di un cameriere in livrea, lui, ne faceva forse parte? E soprattutto, il signor Vetch, che
col suo violino si guadagnava uno stipendio settimanale e non certo lauto, intorno al quale aleggiavano misteriosi
agganci, reminiscenze di un tempo vissuto in altre sfere, in cui fumava sigari, possedeva una cappelliera e girava in
carrozza oltre a visitare Boulogne. Anastasius Vetch si era intromesso nella sua vita molto ruvidamente, in un momento
fortemente critico, ma Hyacinth che perseguiva con rigore un comportamento equo, credeva che avesse agito secondo
coscienza e raddoppiava la stima per il violinista in risposta all'intimo disagio di lui, che si traduceva in un
atteggiamento particolarmente benevolo nei suoi confronti. Egli riteneva, in breve, che il signor Vetch nutrisse un
profondo interessamento per lui e che se mai si fosse di nuovo intromesso nel suo destino, lo avrebbe fatto in modo
diverso: a volte aveva colto certi suoi sguardi dolcissimi. Tanto più era importante stabilire se egli facesse o meno parte
del popolo, poiché il giorno della grande rivendicazione sarebbe stato soltanto il popolo a salvarsi. Era per il popolo che
il mondo era stato fatto: chiunque non ne facesse parte era contro di lui e rientrava nella schiera degli impostori,
usurpatori, profittatori, accapareurs, come soleva dire il signor Poupin. Una volta Hyacinth aveva posto la domanda
direttamente al signor Vetch che lo aveva guardato per un po' attraverso le spirali di fumo dell'eterna pipa e gli aveva
detto: «Pensi che sia un aristocratico?»
«Non sapevo che fosse un bourgeois,» rispose il giovanotto.
«Né l'uno né l'altro. Sono un bohémien.»
«Con l'abito da società tutte le sere?»
«Mio caro ragazzo,» disse il violinista, «quelli sono i più autentici.»
Hyacinth rimase soddisfatto soltanto a metà da questa risposta, perché non gli era assolutamente chiaro se i
bohémiens fossero da salvare: se ne fosse stato certo, forse lo sarebbe diventato anche lui. Eppure non aveva mai
sospettato il signor Vetch di essere un agente governativo, anche se Eustache Poupin gli aveva detto che molti avevano
proprio il suo aspetto: non certo allo scopo d'incriminare il violinista, che fin dall'inizio gli aveva ispirato fiducia e
gliene ispirava tuttora. L'agente governativo camuffato in altra veste, il prestigioso mouchard del signor Poupin era
diventato per Hyacinth un tipo familiare, e benché non avesse mai colto in flagrante nessun membro di quell'infame
confraternita, non esitava a individuarne le caratteristiche in un'infinità di persone. In ogni caso, non c'era nulla di
bohémien nei signori Poupin, che Hyacinth conosceva ormai abbastanza per non sorprendersi di come riuscissero a
combinare la passione socialista, l'impazienza incandescente per un ripulisti generale e uno straordinario decoro insieme
al culto del lavoro ben fatto. Il francese generalmente parlava come se la grande truffa attuata ai danni del popolo fosse
troppo spudorata per essere sopportata un minuto di più, e tuttavia trovava in sé tanta pazienza per la sua arte squisita e
prendeva in mano un libro con la determinazione di chi crede che ogni cosa sia costituita in maniera immutabile.
Hyacinth sapeva bene cosa pensasse dei preti e delle teologie eppure la sua religiosità di artigiano coscienzioso era tale
da ridurre il fanciullo al suo fianco ad una specie di adoratore delle sue delicate dita miracolose. «Che vuoi? J'ai la
main parisienne,» replicava modestamente il signor Poupin alle esplosioni di ammirazione di Hyacinth; e con grande
bontà, alle prime prove di quel che sapeva fare il nostro eroe, lo informò che anche lui aveva la stessa felice
conformazione: «Non c'è nessun motivo per cui tu non debba diventare un bravo operaio, il n'y a que ça.» E tutta la sua
vita infatti era praticamente regolata da questa condizione. Era felice di usare le proprie mani e i propri arnesi e di
esercitare il proprio gusto, davvero impeccabile, e Hyacinth poteva facilmente capire quanto lo tormentasse passare una
giornata nel fondo del letto. Giunse tuttavia alla conclusione che questa volta doveva sentirsi un po' consolato dalla
presenza del giovanotto seduto ai piedi del letto, verso il quale il signor Poupin mostrava chiari segni di amicizia, tanto
che il nostro eroe si domandò come mai non lo avesse visto prima, né lo avesse mai sentito nominare.
«Che intendete dire quando parlate di una forza che scuoterà il mondo?» chiese il giovanotto appoggiandosi
allo schienale della sedia con le braccia alzate e le dita intrecciate a sostegno della testa. Il signor Poupin aveva parlato
in francese, come amava fare, visto che la lingua insulare era sempre un gran tormento per lui; ma il suo visitatore parlò
in inglese, e Hyacinth capì subito che in lui non c'era nulla di francese - il signor Poupin non avrebbe mai potuto dire di
lui che aveva la main parisienne.
«Intendo una forza che spingerà la borghesia a rintanarsi, pallida di paura, dietro alle sue botti di vino e ai suoi
sacchi d'oro!» gridò il signor Poupin roteando minacciosamente gli occhi.
«E in questo paese, spero, dietro i suoi mucchi di carbone. La-la, li scoveremo anche lì,» ribadì sua moglie.
«L'89 fu una forza irresistibile,» continuò il signor Poupin. «Avreste dovuto essere presente per
convincervene.»
«E lo stesso si può dire per l'irruzione dei Versigliesi, che vi ha spediti qui dieci anni fa,» disse il giovanotto.
Vide che Hyacinth lo stava osservando, e lo guardò negli occhi, sorridendo leggermente, in modo da apparire ancor più
interessante al nostro eroe.
«Pardon pardon, io resisto!» gridò Eustache Poupin, con gli occhi accesi che spuntavano dalle lenzuola sotto
l'improvvisata berretta da notte. E Madame ripeté che stavano resistendo - era indubitabile che resistevano! Il
giovanotto scoppiò in una risata e il Padrone di casa dichiarò con una dignità che neppure la posizione supina riusciva a
compromettere, che era proprio sciocco da parte sua fare simili domande, quando sapeva bene... quel che sapeva.
«Sì, lo so, lo so,» disse il giovanotto di buonumore, abbassando le braccia e infilandosi le mani in tasca, mentre
stendeva le lunghe gambe. «Ma è ancora tutto da mettere sotto processo.»
«Oh certo, il processo si compirà su vasta scala - soyez tranquille! Sarà uno di quegli esperimenti che
costituiranno una prova.»
Hyacinth si chiese di cosa stessero parlando, e capì che doveva trattarsi di qualcosa d'importante, perché lo
sconosciuto non era tipo da interessarsi di cose futili. Era rimasto profondamente colpito da costui. Era evidente che si
trattava di una persona notevole, e si sentì leggermente dispiaciuto che per lui fosse un estraneo, vale a dire che fosse di
casa a Lisson Grove e che tuttavia il signor Poupin non avesse ritenuto fino allora il suo giovane amico di Lomax Place
degno di essergli presentato. Non so fino a che punto il visitatore, che gli sedeva di fronte, avesse letto sul viso di
Hyacinth queste riflessioni, ma poco dopo, volgendosi verso di lui, gli disse con cordialità temperata tuttavia da una
certa diffidenza - un modo che piacque al nostro eroe - «E lo sapete anche voi?.»
«Cosa dovrei sapere?» chiese Hyacinth meravigliato.
«Se sapeste cosa, vorrebbe dire che lo sapreste» esclamò il giovanotto, e rise di nuovo. Una simile replica, fatta
da chiunque altro, avrebbe molto irritato il nostro sensibile eroe, ma in questo caso lo rese ancor più curioso nei riguardi
del suo interlocutore, che aveva una risata fragorosa e irresistibilmente gaia.
«Mon ami, dovresti presentare ces messieurs,» fece notare Madame Poupin.
«Ah ça, è così che scherzate con i segreti di Stato?», disse il marito senza badarle. Poi, cambiando tono,
continuò:
«Monsieur Hyacinthe è un ragazzo dotato, un enfant très douè, per il quale provo un tenero interesse, un
ragazzo che ha un conto in sospeso. Un conto enorme! Non è così, mon petit?»
Questo fu detto con le migliori intenzioni, tuttavia Hyacinth arrossì, e senza sapere bene cosa dire, mormorò
timidamente: «Oh, quello che voglio è che mi lascino in pace!»
«È molto giovane,» disse Eustache Poupin.
«È la persona che amiamo di più di quante abbiamo conosciuto in questo paese,» aggiunse sua moglie.
«Forse siete francese,» suggerì lo strano giovane.
Sembrò a Hyacinth che il terzetto aspettasse la sua risposta: fu come se improvvisamente fosse calata una
immobilità piena di sospensione. Gli parve un momento difficile... un po' perché c'era, nell'attenzione del visitatore,
qualcosa di eccitante e d'imbarazzante, e un po' perché fino allora non aveva mai dovuto puntualizzare quel dato
importante: non sapeva proprio se era francese o inglese, né cosa avrebbe preferito essere. Il sangue di sua madre, le sue
sofferenze in terra straniera, l'indicibile, irrimediabile miseria che l'aveva consumata in un luogo e fra gente che aveva
certamente detestato - tutto questo faceva di lui un francese; e tuttavia era consapevole di alcune altre sue
caratteristiche, che non s'identificavano con queste. In anni ormai lontani era andato tessendo fin nei più minuti
particolari la leggenda intorno alla madre, costruendola lentamente, pezzo a pezzo, immerso in appassionate
fantasticherie e rimuginamenti, con le gote in fiamme e gli occhi gonfi; ma qualche volta la leggenda vacillava e
sbiadiva, e cessava di confortarlo, come egli cessava di credervi. Aveva avuto anche suo padre, e anche quello aveva
sofferto ed era morto sotto un colpo violento, e aveva pagato di persona; e si sentiva dentro anche lui, nelle pieghe
dell'animo e nelle fibre dei tessuti, quando lo sforzo di approdare a una qualche conclusione non si esauriva nel buio e
nello smarrimento in cui i dubbi lo tormentavano di nuovo incalzandolo e sospingendolo verso un gelido orrore. In ogni
modo gli sembrava di essere ben radicato in quel paese dove i suoi disgraziati genitori avevano espiato le loro colpe e di
altri luoghi non sapeva nulla. Così, quando il vecchio Poupin lo chiamò "Monsieur Hyacinthe", come aveva fatto altre
volte, ne rimase contrariato, pensò che il suo nome, che in inglese gli piaceva tanto, in francese somigliava a quello di
un parrucchiere. Il nostro giovane amico, pur vivendo con un'ombra e un marchio, non era tuttavia disposto a subire il
ridicolo. «Ah, potrei dire che non sono nulla,» rispose poco dopo.
«En v'là des betises!» gridò Madame Poupin. «Vuoi dire che non vali quanto chiunque altro? Vorrei proprio
vedere!»
«Abbiamo tutti dei conti da regolare, non lo sapevate?» disse il giovane sconosciuto.
Evidentemente voleva incoraggiare Hyacinth, del quale non gli era sfuggito il desiderio di sottrarsi alle
allusioni del signor Poupin; ma il nostro eroe capiva bene che il suo interlocutore sarebbe stato uno dei primi a
pareggiare i propri conti. Avrebbe fatto andare in malora la società, ma si sarebbe fatto pagare. Era alto e biondo, con
un'aria bonaria, ma era difficile capire - o per lo meno Hyacinth non ci riusciva - se fosse bello o brutto, con quella testa
grossa e la fronte quadrata, i capelli folti e lisci, la bocca pesante e il naso piuttosto volgare, gli occhi mirabilmente
limpidi e fermi, chiari di colore e infossati; perché, nonostante la mancanza di finezza dei lineamenti, la sua espressione
era segnatamente intelligente e risoluta, e rivelava in certo modo una pulizia morale: sembrava quasi di cogliere il ritmo
profondo e tranquillo della sua anima. Era vestito come un operaio nei giorni di festa, evidentemente si era messo l'abito
migliore per far visita a Lisson Grove, dove avrebbe trovato una signora, e portava una cravatta da poco prezzo e allo
stesso tempo pretenziosa, e della quale Hyacinth, che notava sempre queste cose, rilevò il volgare, stridulo tono di
azzurro. Aveva scarpe grosse, quasi da contadino, e parlava con un accento provinciale che Hyacinth giudicò del
Lancashire. Sebbene l'insieme non suggerisse esattamente l'idea di una intelligenza vivace, tuttavia Hyacinth capì che
era tutt'altro che stupido, e che probabilmente era dotato di un grosso cervellone proprio come alcuni sono dotati di
grossi pugni. Il nostro piccolo eroe aveva un gran desiderio di conoscere esseri superiori, e immediatamente si sentì
attratto da questo tranquillo estraneo, di cui una bilancia di precisione avrebbe indicato, alla pari dei metalli preziosi, il
valore specifico sia dei particolari che dell'insieme. Aveva la carnagione di un contadino e lo sguardo di un capo, e
avrebbe potuto essere benissimo un illustre giovane savant, travestito da artigiano. Il travestimento doveva essere stato
molto curato, perché sulle dita aveva parecchie macchie scure. La curiosità di Hyacinth al riguardo non tardò ad essere
stimolata e soddisfatta: dopo due o tre allusioni che non comprese, a un certo luogo dove Poupin e l'amico si erano
incontrati e si sarebbero incontrati di nuovo, Madame Poupin esclamò che era una vergogna non metterne a parte
Monsieur Hyacinthe che, lo poteva garantire, aveva la stoffa di un puro.
«Ogni cosa a suo tempo, ogni cosa a suo tempo, ma bonne,» replicò l'invalido. «Monsieur Hyacinth sa quanto
io mi fidi di lui, sia che lo renda un interne oggi, o che aspetti ancora un poco.»
«Cosa intendete con interne?» chiese Hyacinth.
«Mon Dieu, come dire!...» Ed Eustache Poupin lo fissò gravemente dal cuscino. «Capisci molte cose, ma temo
tu sia troppo giovane.»
«Non si è mai troppo giovani per offrire il proprio obole,» disse Madame Poupin.
«Sapete tenere un segreto?» chiese l'altro ospite, come se lo ritenesse improbabile.
«Si tratta di un complotto... di una cospirazione?» se ne uscì Hyacinth.
«Lo chiede come se volesse sapere se si tratta di un plum-pudding,» disse il signor Poupin. «Non è un
manicaretto, e non lo facciamo per divertirci. È una cosa molto seria, figlio mio.»
«Si tratta di un gruppo di operai al quale tanto lui che io apparteniamo, insieme a molti altri. Non c'è niente di
male a dirglielo,» continuò il giovanotto.
«Ti consiglio di non raccontarlo a Mademoiselle. È una donna all'antica,» suggerì Madame Poupin a Hyacinth,
mentre assaggiava la sua tisane.
Hyacinth, sconcertato e stupito, guardò prima il suo compagno di lavoro di Soho, poi la sua nuova conoscenza,
seduta sul lato opposto. «Se avete qualche piano, qualcosa a cui si possa aderire, ritengo che me lo avreste potuto dire,»
disse subito dopo a Poupin.
Quest'ultimo si limitò a guardarlo per un po', come se fosse un oggetto gradevole, e poi disse al giovanotto: «È
un po' geloso di te, ma non c'è niente di male, è tipico della sua età. Devi imparare a conoscerlo e ad apprezzarlo. Un
altro giorno ti racconteremo la sua storia; ti servirà a capire che è uno dei nostri, per forza di cose. È un puro caso che
non vi siate incontrati prima qui.»
«Come avrebbero potuto incontrarsi, ces messieurs, se Monsieur Paul non viene mai da noi? Non ci vizia
davvero!» esclamò Madame Poupin.
«Ma lo sapete, c'è la sorellina a casa a cui devo badare quando non sto al lavoro,» spiegò Paul. «Oggi
pomeriggio è stato un caso: una lady che conosciamo è venuta a farle compagnia.»
«Una lady?... una vera lady?»
«Dalla testa ai piedi,» sorrise Paul.
«Forse ti piace che s'intrometta in casa tua perché hai il désagrément di essere povero? Pare che sia
un'abitudine di questo paese, ma a me non garberebbe affatto,» continuò Madame Poupin. «Mi piacerebbe proprio
vedere una de ces dames - quelle vere - che viene a farmi compagnia!
«Ma voi non siete un'invalida; potete muovere le gambe, voi!»
«Sì, e anche le braccia» gridò la francese.
«Questa signora si prende cura anche di altre persone nel nostro quartiere e viene da mia sorella a farle un po'
di lettura.»
«Mah, siete ben pazienti voi inglesi!»
«Non combineremmo nulla senza la pazienza,» disse Paul con imperturbabile buonumore.
«Hai perfettamente ragione: puoi anche ripeterlo. Sarà un'impresa immane, e solo i forti avranno la meglio»,
mormorò il padrone di casa con aria un poco stanca, volgendo gli occhi verso Madame Poupin che si avvicinava
lentamente reggendo in mano una tazza piena fino all'orlo di tisane che continuava ad assaggiare man mano che
avanzava.
Hyacinth seguitava ad osservare con profondo interesse il suo compagno di visita e il fatto evidentemente finì
per essere notato da Monsieur Paul, perché dopo poco, accennando in direzione del letto, disse spontaneamente: «Lui
dice che dobbiamo conoscerci meglio. Personalmente non ho nulla in contrario. Mi piace conoscere gente, quando ne
valga la pena.»
Hyacinth fu tanto felice di questo discorso che non osò riprenderlo; gli sembrò per un istante che non avrebbe
saputo trattare l'argomento con sufficiente garbo. Tuttavia disse con una certa intensità: «Mi parlerete del vostro
complotto?»
«Oh, non si tratta di un complotto. Non credo che mi piacciano neppure.» E con i suoi miti, fermi, celesti occhi
da inglese, Monsieur Paul non aveva certo l'aria di un cospiratore.
«Non si tratta di una nuova era?» chiese Hyacinth piuttosto deluso.
«Beh, non saprei; si tratta di prendere una posizione su due o tre punti.»
«Ah, bien, voila du propre; fra tutti quanti gli abbiamo fatto venire la febbre!», gridò Madame Poupin che
aveva posato la tazza vicino al letto del marito e gli stava piegata sopra, con la mano sulla fronte. Il paziente era tutto
rosso, aveva chiuso gli occhi ed era evidente che la conversazione si era protratta eccessivamente. Madame Poupin lo
fece notare, aggiungendo che se i giovanotti desideravano fare amicizia, avrebbero dovuto andarsene; il loro amico
aveva bisogno di completo silenzio. Perciò quelli si ritirarono, con scuse e promesse che sarebbero tornati l'indomani a
chiedere notizie, e due minuti dopo Hyacinth si ritrovò faccia a faccia col suo compagno sul marciapiedi davanti alla
casa del signor Poupin, sotto un lampione che tentava invano di competere col buio invernale.
«È così che vi chiamate: Monsieur Paul?» gli chiese guardandolo da sotto in su.
«No, per carità; quella è soltanto la versione francese. Mi chiamo semplicemente Paul, Paul Muniment.»
«E che mestiere fai?» chiese Hyacinth, saltando immediatamente a un tono familiare perché gli parve che
l'amico gli avesse detto molto di più di quanto normalmente la frase potesse indicare.
Paul Muniment lo guardò dall'alto delle sue ampie spalle. «Lavoro per una ditta di prodotti farmaceutici
all'ingrosso, a Lambeth.»
«E dove abiti?»
«Abito al di là del fiume, nella zona meridionale di Londra.»
«Stai andando a casa?»
«Oh, sì. Me la faccio a piedi.»
«Posso farmela a piedi con te?»
Il signor Muniment lo osservò di nuovo e poi scoppiò in una risata. «Se vuoi, ti posso portare in braccio.»
«Grazie, ma credo di saper scarpinare quanto te,» replicò Hyacinth.
«Bene, ammiro il tuo coraggio e sarò lieto della tua compagnia.»
C'era qualcosa sul suo volto, e pensando a quel suo impegno sulla posizione da prendere, alla mente fervida del
giovane si parò dinanzi l'immagine di un plotone di luccicanti baionette che mise addosso a Hyacinth un gran desiderio
di seguirlo fino in fondo. Ben presto i due si avviarono nella direzione che Muniment aveva indicato. Camminando
parlarono e si scambiarono una quantità di idee e di notizie; tuttavia raggiunsero il quartiere sud-occidentale dove il
giovane chimico abitava insieme alla sorella malata, senza che quello avesse detto a Hyacinth nulla di preciso circa i
«punti» cui aveva accennato e senza che Hyacinth, da parte sua, gli avesse esposto le circostanze che, secondo il signor
Poupin, facevano di lui un diseredato. Hyacinth non aveva intenzione di fare pressioni, e per nessun motivo al mondo
avrebbe sopportato di sembrare indiscreto, e inoltre, pur essendo rimasto assai vivamente colpito da Muniment, non
voleva trovarsi costretto a parlare di sé. Di conseguenza non risultò ben chiaro come il suo compagno avesse conosciuto
Poupin e da quanto tempo durasse quell'amicizia. Tuttavia Paul Muniment fu abbastanza comunicativo, specialmente
sulle motivazioni per cui abitava in un quartiere poverissimo. Doveva mantenere la sorella che non era in grado di fare
nulla da sola; l'affitto basso gli permetteva di pagarle dottori e medicine e ogni genere di piccoli conforti. Spendeva per
lei uno scellino alla settimana in fiori. Però una volta arrivati in alto, la casa era meglio: si poteva vedere dalle finestre
della facciata posteriore la cupola di San Paolo. Audley Court, con il suo nome grazioso che a Hyacinth ricordava
Tennyson, risultò un buco ancora più angusto di Lomax Place; e aveva in più lo svantaggio che per avvicinarcisi
bisognava passare per un vicolo stretto, un corridoio fra muri alti e scuri. Il giovanotto si fermò alla porta di una di
quelle case, indugiò un poco e poi disse: «Che ne dici di venire su? Mi sei abbastanza simpatico per invitarti, e poi
potrai conoscere mia sorella; si chiama Rosy.» Parlava come se stesse facendogli una grossa concessione, e aggiunse
scherzando che Rosy apprezzava più di ogni altra cosa la visita dei giovanotti. Hyacinth non si fece pregare e salì a
tentoni, alle calcagna del suo amico, una scala buia, che gli sembrò - non si fermarono fin quando ci fu uno scalino - la
più lunga e la più ripida che avesse mai salito. Giunti in cima, Paul Muniment spinse la porta, e vedendo che la stanza
non era illuminata, esclamò dalla soglia: «Ehi, siete andati a nanna?»
«Miodio, no; stiamo qui al buio,» rispose subito una vocetta vivace. «Lady Aurora è molto cara: è ancora qui.»
La voce proveniva da un angolo così immerso nell'oscurità che era impossibile distinguere la persona che
parlava. «Meno male!» disse Paul Muniment. «Così saremo un bel gruppetto perché ho portato qualcuno con me. Siamo
poveri ma onesti e non temiamo di apparire esibizionisti affermando che possiamo permetterci una candela.»
Dopo queste parole, alla luce fioca della candela, Hyacinth vide levarsi una slanciata figuretta - una figura
angolosa e sottile con in testa un cappello largo e indefinibile, ombreggiato da un velo fluente. La sconosciuta proruppe
in una strana risata e disse: «Oh, le candele le ho portate; se avessimo voluto avremmo potuto accenderle.» Tanto il tono
che il significato delle parole annunciarono a Hyacinth che provenivano da Lady Aurora.

VIII

Paul Muniment tirò fuori dalla tasca un fiammifero e lo accese sulla suola della scarpa poi lo avvicinò a una
candela di sego infilata in un barattolo sopra la bassa mensola del caminetto. Questo permise a Hyacinth di scorgere in
un angolo uno stretto lettino su cui era disteso un piccolo oggetto - un oggetto che gli si rivelava soprattutto per il
bagliore fisso di due occhi enormi, nei quali il bianco contrastava notevolmente con la pupilla nera, che lo scrutavano da
dietro una vivace coperta a «patchwork». La stanza buia sembrava affollata di oggetti eterogenei, e grazie a una quantità
di piccole stampe in bianco e nero e colorate, attaccate alla parete, dava l'impressione di essere ultradecorata. La
persona nell'angolo aveva l'aria di essersi messa a letto in una galleria di quadri, e non appena Hyacinth se ne rese
conto, la sua idea che Paul Muniment e sua sorella fossero persone meravigliose si consolidò ulteriormente. Lady
Aurora si aggirava davanti a lui, stranamente impettita eppure molle e fluttuante, e rise molto, in modo incerto e timido,
sulla stranezza di trovarsi ancora lì. «Rosy, ragazza mia, ti ho portato una visita,» disse il compagno di Hyacinth.
«Questo giovanotto ha fatto tutta la strada a piedi, da Lisson Grove, per venirti a conoscere.» Rosy continuava a
guardare il visitatore da sopra la coperta, e lui si sentì un po' imbarazzato, perché non gli era mai capitato di essere
presentato a una signorina in quella posizione. «Non dovete far caso se è a letto; sta sempre a letto,» continuò il fratello.
«Sta a letto proprio come una viscida trotina sta nell'acqua.»
«Miodio, se non dovessi ricevere visite perché sto a letto, ci sarebbe poco da stare allegri, non è vero Lady
Aurora?»
Rosy fece quella domanda con un tono leggero e gaio, con un lampo dei suoi occhi brillanti verso la compagna,
che rispose subito con allegria ancora maggiore e una voce che sembrò a Hyacinth strana e affettata: «No, per carità,
sembra un posto proprio normale!» E aggiunse: «E poi, è un letto così carino, così comodo!»
«Proprio così, quando me lo rassetta Sua Signoria,» disse Rosy; mentre Hyacinth meditava sullo strano
fenomeno della figlia di un pari (perché capiva che si trattava di questo) che svolgeva le mansioni di una cameriera.
«Non lo avrete rifatto di nuovo anche oggi?» chiese Muniment, dando un vigoroso pugno al materasso
dell'invalida.
«E chi lo fa, se non provvedo io?» chiese Lady Aurora. «Ci si mette un minuto, basta saperlo fare.» I suoi modi
erano scherzosamente contriti e sembrava che si riconoscesse colpevole di essersi comportata in maniera assurda; nella
fioca luce sembrò a Hyacinth di vederla arrossire, come se fosse imbarazzatissima. Ma nonostante il rossore, tutto il suo
aspetto e i suoi modi gli ricordavano un personaggio da commedia. Pronunciava la erre come se fosse una vu.
«Io lo so rifare benissimo. Lo faccio spesso quando la signora Major non viene,» disse Paul Muniment,
continuando a pestare il letto della sorella con un'esuberanza piuttosto devastatrice.
«Non ne dubito affatto!» esclamò prontamente Lady Aurora. «La signora Major deve avere un così gran da
fare.»
«Non per quel che riguarda i letti; ce ne sono solo due o tre laggiù, per così tante persone,» replicò con voce
squillante il giovanotto invaso da una specie di allegria inconsulta.
«Sì, ci ho pensato molto, non ci sarebbe posto per altri letti, sapete», disse Lady Aurora, questa volta serissima.
«In nessun posto si troverebbe molto spazio per una famiglia del genere: tredici persone di tutte le età e dimensioni,»
osservò il padrone di casa. «Il mondo è grande ma pare che lo spazio manchi.»
«Anche noi siamo in tredici a casa,» si affrettò a dire Lady Aurora, «e anche noi stiamo piuttosto stretti.»
«Non parlerete di Inglefield?» chiese Rosy dal suo pozzo d'ombra.
«A Inglefield non lo so; sto sempre in città.» Hyacinth capì che Inglefield era un tasto non gradito, infatti lei
continuò subito: «Anche da noi siamo di ogni età e misura.»
«Meno male che non sono tutti delle vostre dimensioni,» dichiarò Paul Muniment con una libertà di linguaggio
che meravigliò alquanto Hyacinth, insinuandogli il sospetto che sebbene il suo nuovo amico fosse una bravissima
persona, il tatto e la delicatezza non dovevano essere il suo forte. In seguito lo assolse riflettendo che era un rustico
provinciale, e che non aveva goduto come lui del vantaggio di vivere nella capitale; arrivò anche a domandarsi che cosa
in definitiva avrebbero avuto a che fare il tatto e le buone maniere con un simile personaggio, dal momento che il tipo di
lavoro che gli competeva in questo mondo richiedeva niente di più del semplice esercizio di una ruvida forza virile.
A quella scoperta allusione alla sua statura, Lady Aurora si girò di qua e di là un poco confusa Hyacinth vide la
sua alta figura asciutta oscillare quasi nella stanzetta buia. La sua confusione la portò fino alla porta, e con esclamazioni
abbastanza sconnesse stava per accomiatarsi quando Rosy, che evidentemente era più delicata di Paul, la fermò:
«Sciocco che sei, non capisci che Sua Signoria ti sembra tanto alta perché sta in piedi? In ogni caso, noi non siamo
tredici e possediamo tutti i mobili che ci servono, e abbiamo una sedia per tutti. Sedetevi ancora un poco, Lady Aurora,
e aiutatemi a intrattenere questo signore. Non so come vi chiamate, signore; forse mio fratello me lo dirà quando sarà
tornato in sé. Sono felice di vedervi qui, anche se non vi vedo molto bene. Chissà perché non accendiamo una delle
candele di Sua Signoria. Sono ben diverse dalle altre, di poco prezzo.»
A Hyacinth, miss Muniment sembrò affascinante; cominciava a poco a poco a distinguerla meglio, e osservava
il suo visetto pallido e puntuto, incorniciato sul cuscino da folti capelli neri. Era come una miniatura bruna, scolorita e
consumata da un'infermità congenita; a Hyacinth sembrò che avesse maniere molto delicate, ma non gli fu possibile
stabilirne l'età. Lady Aurora si lamentò che avrebbe dovuto essere già andata via da tempo; tuttavia si sedette sulla sedia
che Paul spinse verso di lei.
«Non ci crederai,» disse il giovanotto al suo ospite. «Mi hai detto come ti chiami ma me lo sono
completamente dimenticato.» Poi, dopo che Hyacinth glielo ebbe ripetuto, si rivolse alla sorella: «Un nome che non
dice molto; ci sono centinaia di Robinson nel Nord. Ma ti piacerà, è in gamba; l'ho incontrato dai Poupin.»
«Pappin,» sarebbe, più esattamente, il modo in cui pronunciò il nome del legatore francese, che poi era lo
stesso con cui Hyacinth lo aveva sempre sentito chiamare alla bottega di Crookenden. Hyacinth sapeva che la propria
pronuncia si avvicinava molto di più a quella autentica.
«Il vostro nome, come il mio, è quello di un fiore,» disse la piccola creatura dal letto. «Mi chiamo Rose
Muniment, e il nome di Sua Signoria è Aurora Langrish. Significa mattino o alba è il più bello di tutti, non vi pare?»
Rose Muniment rivolse la domanda a Hyacinth, mentre Lady Aurora la guardava, timida e muta, piena di ammirazione
per i suoi modi disinvolti, la sua sicurezza e parlantina sciolta. Suo fratello accese una delle candele portate dalla
visitatrice, e la fanciulla continuò a parlare, senza aspettare la risposta di Hyacinth: «Non vi pare giusto che si chiami
Aurora dal momento che porta la luce ovunque va? I "Pappins" sono quegli adorabili stranieri di cui vi ho parlato»
spiegò alla sua amica.
«Fa piacere conoscere gli stranieri,» esclamò Lady Aurora elettrizzata. «Di solito sono così vivaci!»
«Anche il signor Robinson è un po' uno straniero ed è anche molto vivace,» disse Paul Muniment. «Regge
bene la conversazione con il signor Pappin. Vorrei avere io il suo dono per le lingue.»
«Sarei felicissimo di aiutarti col francese, dato che ho il vantaggio di conoscerlo,» rispose con garbo Hyacinth,
rendendosi conto che queste parole avevano attirato su di lui l'attenzione di Lady Aurora; e si chiese cos'altro potesse
dire per mantenerla viva. Era la prima volta che s'incontrava con un personaggio di quella aristocrazia cui sapeva ormai
da gran tempo di appartenere lui stesso, almeno secondo miss Pynsent; e la circostanza lo interessava anche se l'aspetto
della signora denunciava ben poche caratteristiche della sua razza. Aveva press'a poco trent'anni; un naso grosso e,
nonostante l'improvviso rientrare del mento, un viso lungo e asciutto; l'aria era di una persona miope; i denti davanti
sporgevano dalle gengive superiori, che il sorriso lasciava scoperte, e i capelli biondi, raccolti in bande setose (a Rose
Muniment sembravano bellissimi) le ricadevano sulle guance rosate. Gli abiti davano l'impressione di essere stati usati a
lungo sotto la pioggia, e nel suo aspetto c'era una nota di disordine data da un buco in uno dei guanti neri, attraverso il
quale occhieggiava un dito bianco. Era banale e diffidente, avrebbe potuto essere una povera; ma la fine qualità della
pelle, la striminzita magrezza di tutta la persona, la delicatezza delle sue fattezze strane, e un certo colto modo di
esprimersi, dolce, vago, educato, tutto suggeriva la creatura di razza, il risultato di una lunga serie di ereditarietà e di
contatti privilegiati. Non era una donna qualunque: era un capriccio dell'aristocrazia. Hyacinth non la definì esattamente
in questi termini, ma ne ricavò l'impressione che se lei fosse stata una creatura semplice (ma seppe in seguito che non lo
era), i prodotti aristocratici dovevano essere cose ben complicate. Lady Aurora notò che i libri francesi erano deliziosi e
lui rispose che era un vero tormento sapere che esistevano (e lui lo sapeva bene) e non essere in grado di procurarseli.
Queste parole indussero Lady Aurora a dire, dopo una breve esitazione, che lei ne possedeva un buon numero e che
sarebbe stata lieta di prestarglieli. Hyacinth la ringraziò si profuse in ringraziamenti perfino eccessivi, valutando a pieno
la gentilezza e la splendida prospettiva di quell'offerta (conosceva bene la frustrazione di maneggiare volumi e curarne
la veste esterna, senza poterli portare a casa la sera: aveva provato a farlo, di nascosto, la prima settimana che lavorava
dal vecchio Crook, e per poco non era stato licenziato) e intanto si domandava come, in pratica, si sarebbe realizzato
quel progetto: se lei si aspettava che lui passasse a casa sua, e attendesse in anticamera che gli venissero consegnati i
libri. Rose Muniment esclamò che era proprio tipico di Sua Signoria voler sempre compensare gli altri di essere meno
fortunati di lei: si sarebbe tolta le scarpe dai piedi se qualcuno se ne fosse incapricciato. A queste parole la visitatrice
dichiarò che avrebbe smesso di venirla a trovare se la fanciulla avesse continuato a rimarcare ogni suo gesto, e Rosy,
senza dare ascolto alle proteste, spiegò a Hyacinth che Lady Aurora era convinta che il meno che potesse fare era di
dare agli altri quello che aveva. Provava tanta vergogna di essere ricca che si stupiva che i poveri non irrompessero
nella stanza italiana di Inglefield e s'impossessassero di tutti quei tesori. Era una fervente socialista: più accanita di tutti,
persino di Paul.
«Mi domando se lo sia più di me,» buttò là Hyacinth, non comprendendo bene l'allusione a Inglefield e alla
stanza italiana che Miss Muniment aveva lasciato cadere come se sapesse tutto di quei luoghi. In seguito, quando si fu
scaltrito sulle cose del mondo, Hyacinth doveva ricordarsi di quel tono di voce della sorella di Muniment - gli si
sarebbero presentate molte occasioni per analoghe osservazioni - come quello di chi è solito frequentare i nobili nelle
loro residenze di campagna; parlava di Inglefield come se ci avesse vissuto.
«Dico, non sapevo che fossi così estremista!» esclamò il padrone di casa, che era rimasto silenzioso, seduto di
fianco sopra una sedia troppo stretta di cui circondava lo schienale col grosso braccio. «Abbiamo forse avuto fra noi,
senza saperlo, un angelo?»
Hyacinth capì che voleva provocarlo, ma sapeva che il modo migliore per cavarsela era di calcare il tono:
«Come, non sapevate che ero "impegnato"? Mi meraviglio, credevo che fosse la mia principale caratteristica. So andare
fino in fondo come tutti gli altri.»
«Credevo che la tua principale caratteristica fosse quella di conoscere il francese,» replicò Paul Muniment
deridendolo così apertamente da fargli capire che non lo avrebbe preso in giro se non avesse avuto simpatia per lui, e
nello stesso tempo mettendolo in guardia contro il pericolo di darsi delle arie.
«Beh, il fatto che lo sappia conterà pure qualcosa. Ora vi dirò una frase che vi farà rizzare i capelli in testa,
proprio di quelle che suonano così bene in francese.»
«Oh sì, diteci qualcosa del genere, ci piacerebbe moltissimo!» gridò Rosy in perfetta buona fede, torcendosi le
mani per l'impazienza.
La richiesta era imbarazzante, ma Hyacinth fu salvato da un intervento di Lady Aurora che, dopo avere
annaspato inutilmente due o tre volte, disse con un tremolio nella voce che suonava, ora che gli si rivolgeva
direttamente, come l'attestato di una notevole considerazione: «Mi piacerebbe moltissimo... sarebbe così interessante...
se non vi dispiace... sapere fino a che punto siete in grado di spingervi.» Buttò la testa all'indietro portando le spalle in
avanti e, se il suo mento si fosse prestato meglio allo scopo, sarebbe sembrato che voleva puntarglielo contro.
Questa sfida non era meno allarmante dell'altra, dato che Hyacinth si sentiva lontano dall'aver pronta una frase
incisiva. Rispose tuttavia con un candore tale da annullare la sua stessa vacuità: «Beh, sono fortissimo. Ritengo di poter
toccare punte estreme dalle quali persino Monsieur e Madame Poupin si ritrarrebbero. Poupin, almeno, senz'altro. Sua
moglie non so.»
«Mi piacerebbe molto conoscere Madame,» mormorò Lady Aurora come se la cortesia le imponesse di
contentarsi di questa risposta.
«Oh, Pappin non è difficile da scavalcare!» disse Muniment. «Ha un bell'assortimento di frasi e alcune suonano
molto bene, ma da trent'anni non ha avuto un'idea nuova. È una vecchia merce che è andata invecchiandosi in vetrina
tuttavia ti riscalda perché ha in sé la scintilla del sacro fuoco. Il punto essenziale per il signor Robinson» aggiunse
rivolto a Lady Aurora, «è che vostro padre dovrebbe finire con la testa tagliata e conficcata in cima a un'asta.»
«Certo, la Rivoluzione Francese.»
«Miodio, non so nulla di vostro padre, Milady,» interruppe Hyacinth.
«Non avete mai sentito parlare del conte di Inglefield?» , gridò Rose Muniment.
«È uno dei migliori,» disse Lady Aurora, come se stesse implorando grazia per lui.
«Sia pure, ma è un proprietario terriero e gode di un seggio ereditario e di un parco di cinquemila acri tutto per
lui, mentre noi qui stiamo tutti ammucchiati in questa specie di canile.» Hyacinth ammirò la coerenza del giovanotto,
finché non si accorse che si stava divertendo; allora lo ammirò ancora di più per come sapeva unire il divertimento alle
idee profonde che certamente aveva in testa. Nella sua mente, Hyacinth associava la passione rivoluzionaria
all'amarezza; ma il giovane perito chimico nel momento stesso in cui faceva piani per il futuro, riusciva a mettere in
ridicolo i rivoluzionari per divertire persino le future vittime della rivoluzione.
«Beh, vi ho detto più di una volta che non sono affatto d'accordo con voi,» disse Rose Muniment, la cui
posizione reclina non sembrava affatto compromettere una totale partecipazione. «Farete un grosso sbaglio se tenterete
di capovolgere tutto. Le differenze ci debbono essere, in tutti i sensi, e ci saranno, questo è certo, come è certo che io
sono qui nel letto. Ritengo che sia contro natura trascinare nella polvere chi è in alto.»
«Tutto indica chiaramente che stanno per compiersi grandi mutamenti in questo paese, ma se la nostra Rosy
non è d'accordo, come possiamo esserne sicuri? È l'unica cosa che mi rende dubbioso,» continuò il fratello guardandola
con una tranquillità che denotava l'abitudine all'indulgenza.
«Beh, sarò malata, ma non sono ancora sottoterra, e se mi adatto io al mio stato - e che stato! - non vedo perché
gli altri non debbano adattarsi al loro. Sua Signoria può pure credere che io valgo quanto lei, ma avrà il suo bel da fare
per convincermene.»
«Penso che tu valga molto più di me, e conosco ben poche persone buone quanto te,» disse Lady Aurora
arrossendo, non delle proprie idee, ma della propria timidezza. Era palese che pur essendo una persona fuori della
norma avrebbe voluto esserlo molto di più. Era conscia tuttavia che la sua dichiarazione poteva sembrare alquanto
grossolana, se non se ne capiva l'esatto significato; così aggiunse, il più rapidamente possibile, considerata la sua
perenne esitazione: «C'è una cosa che dovreste ricordare, à propos delle rivoluzioni e dei mutamenti e simili: ne parlo
perché abbiamo menzionato alcuni fatti tremendi che sono avvenuti in Francia. Se il nostro paese dovesse subire
qualche grande sconvolgimento - e naturalmente auguriamoci che ciò non accada - sono dell'idea che la gente
reagirebbe in modo totalmente diverso.»
«A quale gente state alludendo?» si permise di indagare Hyacinth.
«Oh, le classi alte, quelle che hanno tutto.»
«Quelli, non li chiamiamo la gente,» osservò Hyacinth riconoscendo subito dopo che l'appunto era un po'
ingenuo.
«Come li chiamate: miserabili, malfattori?» disse Rose Muniment ridendo allegramente.
«Hanno tutto, tranne il cervello!» disse suo fratello.
«È vero che sono proprio stupidi,» esclamò Sua Signoria. «Tuttavia non credo che se ne andrebbero tutti.»
«Andarsene?»
«Voglio dire, come i nobili francesi che emigrarono tutti. Loro rimarrebbero al loro posto e resisterebbero,
impegnandosi e combattendo duramente.»
«Sono contenta, e sono certa che vincerebbero!» gridò Rosy.
«Certo non crollerebbero» continuò Lady Aurora. «Combatterebbero fin quando non fossero sopraffatti.»
«E pensate che in ultimo lo sarebbero?» chiese Hyacinth.
«Certo, mio caro,» rispose con un tono confidenziale che lo sorprese molto. «Ma naturalmente si spera che ciò
non accada.»
«Da quello che dite deduco che fra loro ne parlano per decidere la linea da seguire,» disse Paul Muniment.
Ma prima che Lady Aurora potesse rispondere Rosy s'intromise: «Per me parlarne è uno sbaglio e ritengo che
non dobbiamo farlo neanche noi! Quando Sua Signoria dice che l'aristocrazia opporrà una bella resistenza, mi piace
starla a sentire e credo che le parole che dice si convengano alla sua posizione sociale. Ma c'è qualche altra cosa nel suo
atteggiamento che, se mi è permesso dirlo, ritengo sbagliata. Quando le classi umili dovessero impossessarsi del potere
in quel modo deprecabile, se Sua Signoria si aspettasse di essere lasciata in pace senza fatica, in virtù delle dichiarazioni
da lei rilasciate in anticipo, vorrei consigliarle di risparmiarsi la delusione. Non saranno ragionevoli, né vorranno sapere
nulla. Se sono decisi a calpestare quelli che stanno meglio, non sarà certo perché lei ha voluto rinunciare a tutto per
darlo a noi, che la lasceranno andare. La calpesteranno esattamente come tutti gli altri, e diranno che dovrà pagare per il
suo titolo e le sue alte parentele e i suoi modi raffinati. Perciò le consiglio di non sciupare quello che ha avuto dalla
sorte, cercando di diminuirsi. Quando si è così in alto, bisogna rimanerci. E se un potere superiore vi fa nascere nobile,
la migliore cosa da fare è tenere alta la testa. Vi assicuro che io lo farei!»
La logica serrata del discorso e l'aggraziata sicurezza con cui la piccola invalida si era espressa colpirono
Hyacinth e ne confermarono il giudizio che fratello e sorella formavano una coppia straordinaria. La povera Lady
Aurora era rimasta profondamente colpita, non si sarebbe mai aspettata di ricevere una lezione tanto severa da una
persona così umile, e riparò la propria confusione in una serie di invocazioni supplichevoli, mentre Paul Muniment, con
il suo pregnante umorismo sempre deliberato e penetrante, ignorando o comunque non dando peso al fatto che lei era
già stata mortificata sufficientemente da sua sorella, le inflisse un'ulteriore umiliazione dicendo: «Rosy ha ragione,
Milady. Non serve a nulla tentare di vendersi. Non c'è niente che possiate fare: i vostri sacrifici sono inutili. Vi guastate
la vita ora e non potrete rifarvi, poi. Nessuno di voi si rifarà mai. Mangiate finché ce n'è; potreste non averne per
molto.»
Lady Aurora lo ascoltò tenendogli gli occhi addosso senza mai distoglierli, così che Hyacinth non riuscì a
scorgere che aria avesse. Poi gli sembrò di capirlo. Lei si alzò in fretta, non appena Muniment ebbe finito di parlare; dai
suoi movimenti si capiva che era offesa e Hyacinth avrebbe voluto dirle che secondo lui l'avevano trattata piuttosto
male. Ma non trovò l'occasione, perché lei non lo guardò neppure. Allora intuì che si era sbagliato e che il suo colorito
acceso indicava il compiacimento e la gioia per quel parlare così schietto, palese dimostrazione che i suoi amici si
sentivano finalmente liberi e a loro agio come desiderava che fossero. «Siete delle persone incantevoli, vorrei che vi
potessero conoscere tutti!» disse. «Ma ora devo proprio andare.» Si avvicinò al letto, si chinò su Rosy e la baciò.
«Paul vi accompagnerà fin dove vorrete,» disse la giovanetta.
Lady Aurora protestò, ma Paul senza aggiungere parola prese il cappello e le sorrise, come se conoscesse bene
quale fosse il suo dovere. E lei, di rimando, disse: «Allora potete accompagnarmi fino in fondo alle scale, non mi ero
accorta che fosse già così buio.»
«Prendi la candela di Sua Signoria e chiama una carrozza,» suggerì Rosy.
«Io non prendo carrozze. Vado a piedi.»
«Potete pure arrampicarvi sul tetto di un autobus se volete, tanto sarete sempre magnifica,» dichiarò Miss
Muniment, guardandola con affetto.
«Magnifica, io? Signore Iddio!» gridò la povera, devota, grottesca signora, mentre usciva con Paul che
raccomandava a Hyacinth di aspettarlo per un po'. Lei si scordò di salutarlo, e lui si chiese che mai si potesse sperare da
quella gente quando perfino i migliori - quelli che volevano essere gentili con il demos - rimanevano inevitabilmente
altezzosi. Aveva anche trascurato di accennare al prestito dei libri.

IX

«Abita a Belgrave Square; e ha un sacco di fratelli e sorelle; una sorella ha sposato Lord Warmington,»
cominciò subito Rose Muniment, apparentemente per nulla imbarazzata di essere rimasta sola con un estraneo in una
stanza che era piombata di nuovo per metà nel buio dal momento che il fratello si era portata via la seconda e più
luminosa delle due candele. Era così presa per il momento dal racconto della vita di Lady Aurora che sembrava aver
dimenticato quanto poco sapesse di lui. Sua Signoria aveva dedicato la propria vita e il proprio denaro ai poveri e agli
ammalati; non aveva alcun interesse per ricevimenti, corse, balli, picnic, i giochi di carte e la vita di società, svaghi
abituali dell'aristocrazia; simile a quelle antiche sante, sembrava uscita da una leggenda. Li aveva conosciuti, lei e Paul,
circa un anno fa tramite una loro amica, una brava donna piena di coraggio che era stata ricoverata all'Ospedale Saint-
Thomas per un'operazione. Era rimasta lì parecchie settimane, durante le quali Lady Aurora, che andava sempre in
cerca di persone bisognose di aiuto, si era fermata accanto a lei per farle compagnia e leggerle qualcosa fino al
momento in cui era rimasta in corsia. Quando la povera ragazza si separò dalla sua gentile amica, le disse che
conosceva un'altra sventurata (che non poteva essere ricoverata perché incurabile) che sarebbe stata molto riconoscente
di ricevere quelle stesse attenzioni. Aveva dato a Lady Aurora il loro indirizzo di Audley Court, e il giorno seguente
Sua Signoria aveva bussato puntualmente alla porta. Non tanto perché erano poveri - benché, in coscienza, vivessero in
notevoli ristrettezze - ma perché lei, a causa della sua invalidità, aveva ben poche soddisfazioni. Lady Aurora tornò
spesso per parecchi mesi, senza mai incontrare Paul che era sempre al lavoro; ma un giorno lui tornò a casa prima,
proprio per incontrarla e ringraziarla della sua bontà, e anche per vedere (soggiunse con un certo ritegno Miss
Muniment) se lei fosse veramente buona come l'aveva dipinta la sua stravagante sorella. Per Rosy fu un trionfo: Paul
aveva dovuto ammettere che Sua Signoria era al di là di ogni umana aspettativa. Sembrava desiderosa di rinunciare a
tutto per amore di quelli che avevano meno di lei, senza mai aspettarsi un grazie. Inoltre non faceva prediche né
pretendeva di indicarti i tuoi doveri; voleva parlarti amabilmente, a tu per tu, come a una sorella, pur avendo sorelle
vere che erano fra le persone più in vista del paese, e il loro nome era comparso sui giornali il giorno che erano state
presentate alla Regina. Anche Lady Aurora era stata presentata, con le piume in testa e lo strascico; ma aveva voltato le
spalle a tutto questo con una sorta di terrore, un vuoto rabbrividente che aveva spesso descritto a Miss Muniment. Il
giorno che incontrò Paul segnò l'inizio della loro unione, di loro tre, ammesso che questa parola valesse a definire un
rapporto così eterogeneo. Quella piccola donna, quella fanciulla lì distesa (Hyacinth non sapeva bene come definirla)
rivelò al nostro giovanotto un grande segreto che lo interessò a tal punto da cancellare ogni possibile critica per una
confidenza tanto precipitosa. Il segreto consisteva nel fatto che Milady riteneva il Paul di Rosy essere la più intelligente
di tutte le persone che avesse mai conosciuto: e ne aveva conosciute di famosissime, importantissime, le più brillanti,
perché venivano tutte a soggiornare a Inglefield, perfino trenta o quaranta alla volta. Aveva parlato con tutti e li aveva
uditi conversare nel modo più affascinante (ed era facile immaginarsi il loro impegno, in un luogo come quello dove i
saloni si susseguivano per circa un miglio e dove si accendevano tutte insieme cento candele) ma con tutto questo si era
detta - e lo aveva detto anche a Rosy- che non ce n'era uno, fra tutti quelli, che avesse la testa sulle spalle come il
giovanotto di Audley Court. Rosy non avrebbe voluto spargere questa voce nel quartiere, ma desiderava che ogni amico
di suo fratello (e capiva che Hyacinth era un vero amico dal modo in cui ascoltava) sapesse quello che pensavano di lui
le persone che avevano una certa esperienza di belle teste. Non voleva dire con questo che Sua Signoria si fosse
abbassata in nessun modo al livello di uno che si guadagnava il pane in una sudicia bottega (per intelligente che fosse),
ma era chiaro che lo stava a sentire come se fosse un vescovo, o anche di più, quanto a questo, dal momento che non
aveva una grande stima dei vescovi, come Paul del resto, da cui aveva imparato a pensarla così. Né si ombrava quando
lui tornava a casa dal lavoro prima che lei se ne fosse andata, e quella sera Hyacinth aveva potuto constatare di persona
che aveva indugiato apposta. Questa sera, ne era certa, Sua Signoria gli avrebbe permesso di accompagnarla fino a metà
strada. La notizia mise Hyacinth di fronte alla prospettiva che sarebbe rimasto a lungo con la loquace padrona di casa;
ma era contento di aspettare, perché era vagamente, stranamente eccitato dalla sua conversazione, affascinato da quel
piccolo quartierino appollaiato su in alto, impregnato di uno strano odore, stracarico di ricordi conservati e lucidati con
cura, povera casa nordica, arredata con oggetti da quattro soldi, e collegata in modo tanto inaspettato a Belgrave Square
e a grandi possedimenti terrieri. Passò una mezz'ora con la piccola, strana, acuta, invalida sorella di Paul Muniment, che
lo colpì per l'informazione e l'innato umorismo (si esprimeva tanto meglio di Pinnie e di Milly Henning) e lo sorprese,
incuriosendolo e allo stesso tempo addolorandolo alquanto, per il modo in cui parlava di se stessa, come di una persona
che appartenesse alla classe più miserabile - quella che si prostra, che si agita e si turba in presenza di persone
altolocate. Naturalmente quello era anche l'atteggiamento di Pinnie, ma Hyacinth aveva capito da tempo che nel sangue
della madre adottiva stagnava da generazioni e generazioni la pazienza plebea e che nonostante fosse di animo tenero
non aveva certo uno spirito elevato. Tuttavia sul rammarico prevalse l'interesse per il modo di esprimersi di Miss
Muniment, e gioì delle frequenti e confidenziali allusioni a un tipo di vita cui lui stesso aveva più volte pensato, era
questa la prima volta che ne sentiva parlare con una certa competenza. D'istinto era eternamente, quasi
spasmodicamente consapevole che la cerchia in mezzo a cui viveva non era che un infinitesimo, scialbo risucchio del
vortice rumoroso di Londra, e la sua immaginazione s'immergeva ripetutamente nel gorgo che la lambiva e tumultuava
d'attorno, nella speranza di essere trascinato verso una qualche visione più luminosa e felice - la visione di una vita
sociale che si svolgeva all'interno di splendide sale, piene di sorrisi e voci sommesse, dove uomini distinti e signore
altere e gentili parlavano di arte, letteratura e storia. Una volta che ebbe completamente esaurito l'argomento di Lady
Aurora, Rosy diventò più silenziosa, né fece domande dirette al suo ospite che sembrava considerare del tutto scontate.
Lui le disse che doveva permettergli di tornare prestissimo, e aggiunse, a spiegazione del suo desiderio: «Sapete che voi
due mi sembrate molto strani?»
Miss Muniment non respinse affatto l'imputazione. «Oh sì, sono certa che dobbiamo sembrare molto strani;
credo che sia un'opinione generale su noi due; specialmente su di me, che sono tanto infelice e pure tanto piena di vita.»
E rise fino a far cigolare il letto.
«Forse è una fortuna per voi essere malata; forse, con una salute maggiore, vi disperdereste,» suggerì Hyacinth
e continuò candidamente: «Non so come facciate ad essere così al corrente di tutto.»
«Non vedo perché ve lo chiediate! Ma lo capireste, forse, se aveste conosciuto mio padre e mia madre.»
«Erano persone tanto eccezionali?»
«Lo capireste se foste mai stato in miniera. Sì, proprio nelle miniere, dove si estrae lo schifoso carbone. Mio
padre viene proprio da lì, vi lavorava già all'età di dieci anni. Non andò a scuola neanche un giorno, ma riuscì ad
emergere alla luce del sole e all'aria aperta e inventò un macchinario e sposò mia madre, che veniva da Durham e anche
lei, da parte dei suoi, usciva dalle miniere e dall'orrore. Mio padre non aveva un gran bell'aspetto, ma lei era stupenda, la
più bella, coraggiosa e migliore donna di tutto il paese. Ora è morta e io non potrei andare a trovarla neanche se si
trovasse nel più vicino cimitero. Mio padre era nero come il carbone in mezzo a cui lavorava: io sono il suo ritratto, con
la differenza che lui aveva l'uso delle gambe, almeno quando l'alcool non gliele tagliava. Eppure fra lui e mia madre non
si sarebbe saputo chi scegliere per eccezionalità d'intelligenza. Ma a che serve il cervello se non si ha una spina dorsale?
Il mio povero padre ne aveva ancor meno di me, perché nel mio caso è soltanto il corpo che non riesce a star dritto, nel
suo, era la sua stessa personalità. Inventò, a uso dei negozi di macchine, un sistema per migliorarne il funzionamento,
una specie di stabilizzatore o quel che fosse, e lo vendette a Bradford per quindici sterline: inclusi i diritti, i profitti, e
tutte le speranze e il benessere della sua famiglia. Era sempre come alla deriva, e mia madre lo riportava a casa. Lei
aveva il suo bel da fare, con me, uno scricciolo di ragazzina malaticcia come sono sempre stata da quando ho aperto gli
occhi alla vita. Beh, una notte se ne andò tanto lontano che non ritornò più, se non come un mucchio di cenci
insanguinati. Era caduto in una cava di ghiaia, camminando senza saper dove. È per questo che mio fratello non tocca
nulla, neanche quel tanto che basta a bagnarsi le dita, e io bevo un goccetto, una volta alla settimana o giù di lì perché
mi dà un po' di forza. Bevo quello che mi porta Sua Signoria, nient'altro. Se fosse venuta da noi prima della morte di
mia madre, sarebbe stata una salvezza. Avevo nove anni appena quando morì mio padre, e sono più grande di Paul di
tre anni. Mia madre provvide a noi con tutte le sue forze, e ci conservò sempre decenti - se si può chiamare decente
questo inutile disastro che sono io. In ogni modo mi tenne in vita, e questa è già una prova che era in gamba. Andava al
lavatoio come se fosse una regina, con le braccia nude, la biancheria sporca, e i capelli lunghi intrecciati sul capo. Era
terribilmente bella, ma soltanto un uomo eccezionalmente intraprendente avrebbe avuto il coraggio di dirglielo. Ed è per
merito suo se abbiamo una cultura: aveva deciso che avremmo dovuto sollevarci al di sopra della massa. Nella sua
situazione tutti avrebbero pensato che non ce l'avrebbe fatta. Ma era unica nel tenerci inchiodati ai libri. Sapeva
rimanere aggrappata alle sue idee molto più di mio padre, e la sua idea fissa era che Paul studiasse e si occupasse di me.
Come potete vedere, è proprio quello che è accaduto. Come sia stato possibile, non saprei, perché non abbiamo mai
avuto un centesimo, e certo la testa di mia madre non sarebbe bastata se anche lui non avesse avuto la sua. Questione di
razza. Paul era uno di quei ragazzi che imparano più da un manifesto giallo sul muro o dall'orario ferroviario di una
stazioncina di quanto imparino molti giovani in un anno di collegio. Il suo unico collegio fu quello, povero diavolo -
imparare a volo quello che poteva. Mamma se ne andò quando più avremmo avuto bisogno di lei, circa cinque anni fa.
Ci fu un'epidemia di tifo, che naturalmente mi ignorò - me, una piccola oca, e certo sarebbe stato un magro bottino - e
invece afferrò quella gran donna. Beh, finì di rompersi la schiena, dritta e solida com'era, sopra alle sue saponate. Non
avendola mai vista, non potrete crederlo,» concluse Rose Muniment, «ma volevo solo farvi capire che i nostri genitori
almeno ci hanno lasciato due belle menti.»
Hyacinth ascoltò questo sfoggio di eloquenza - il discorso più chiaro che avesse mai udito fare da una donna -
con profondo interesse, e senza avere minimamente la sensazione di trovarsi di fronte ad una esagerazione filiale: del
resto, l'opinione che aveva di quei fratelli era tale che per stupirlo sarebbe occorso un racconto ben più meraviglioso. Il
modo stesso con cui Rose Muniment parlava delle «menti» gli procurò una strana sensazione: pronunciava quella parola
come se da una pedana stesse distribuendo premi per un'insigne impresa intellettuale. Non c'era dubbio che il debole
inventore e la forte lavoratrice fossero stati due notevoli esemplari, ma questo non sminuiva il merito dei loro
originalissimi eredi. L'insistenza con cui la fanciulla (anche ora che la sua età era divenuta un dato preciso, continuava a
considerarla una bambina) aveva parlato delle virtù della madre, aveva toccato una corda sempre pronta a vibrare, la
corda della malinconica, vana domanda su quale differenza avrebbe segnato nella sua vita una qualche calda, ricca
presenza come quella.
«Volete molto bene a vostro fratello?» le chiese dopo poco.
Gli occhi della sua ospite lampeggiarono: «Se mai litigherete con lui vi accorgerete da che parte sto.»
«Prima che possa accadere, farò in modo di piacervi anch'io.»
«È possibilissimo; ma vedreste che non esiterei lo stesso a buttarvi a mare!»
«Allora perché siete in disaccordo con i suoi punti di vista, con le sue idee sulla ribellione del popolo?»
«Perché credo che le supererà.»
«Mai. Non accadrà mai!» gridò Hyacinth. «Lo conosco solo da un'ora o due ma lo nego con tutte le mie forze.»
«È così che vi proponete di rendervi gradito, contraddicendomi?» chiese Miss Muniment con burbera
familiarità.
«A che servirebbe, dal momento che mi avete detto che sarei io ad essere sacrificato? Morire da agnello o da
pecora è la stessa cosa.»
«Non credo proprio che siate un agnello. Non potete esserlo, se volete veder cadere tutti i grandi uomini e
perpetrare le più orribili violenze.»
«Non credete nell'uguaglianza? Non volete che sia fatto nulla per i milioni di persone che gemono e si
affannano, per quelli che, dai tempi dei tempi, sono stati ingannati, schiacciati?»
Hyacinth pose quella domanda con un ardore notevole, ma ottenne l'effetto di far scoppiare la sua compagna in
una risata. «Lo avete detto come un tale di cui mi parlò Paul tre giorni fa, un ometto coi capelli ritti, appartenente a
qualche club. Paul mi fece l'imitazione di come si accalorava e pestava i piedi. Non dico che voi l'abbiate fatto, ma le
parole che avete usato erano quasi le stesse.» Hyacinth non capì a chi alludesse e non si capacitò di come Paul
Muniment potesse mettere in ridicolo quelli che parlavano in nome degli oppressi. Ma prima di avere il tempo di
riflettere che evidentemente c'era ancora una quantità di cose che avrebbe dovuto imparare sul fratello, Rosy continuò:
«Non ho niente in contrario che siano migliorate le condizioni del popolo, ma non voglio che si abbassi la testa
all'aristocrazia neppure di un centimetro. Mi piace troppo sapere che esiste, là, in alto.»
«Dovreste conoscere mia zia Pinnie: è un'altra idolatra ottenebrata,» rispose Hyacinth.
«Cominciate già a piacermi! E chi sarebbe vostra zia Pinnie?»
«È una sarta e una donna meravigliosa. Vorrei che venisse a trovarvi.»
«Temo di non essere un soggetto adatto per lei: non ho mai indossato un vestito in vita mia. Ma come donna
meravigliosa sarei lieta di conoscerla,» si affrettò ad aggiungere Miss Muniment.
«Ve la porterò un giorno di questi,» disse, e continuò abbastanza illogicamente, ma in realtà perché era irritato
dall'ottimismo della ragazza e riteneva che fosse un peccato che la sua vivace intelligenza si fosse schierata dalla parte
sbagliata: «E per voi, non vorreste un luogo migliore dove vivere?»
Lei balzò su, e per un istante gli sembrò che volesse saltare dal letto per aggredirlo: «Un luogo migliore di
questo? Dove si potrebbe trovare un luogo migliore? Tutti lo considerano adorabile; dovreste vedere, di giorno, la vista
che abbiamo; dovreste vedere tutte le cose che ho. Forse voi sarete abituato a cose bellissime, ma Lady Aurora dice che
neanche a Belgrave Square c'è una camera così accogliente. Se credete che io non sia perfettamente soddisfatta, vi
sbagliate di grosso.»
Un simile atteggiamento non poteva non irritarlo, e nella sua esasperazione rimase indifferente all'errore di
tatto commesso dando l'impressione di aver storto il naso di fronte al quartierino di Miss Muniment. La stessa Pinnie,
per quanto succube, gli aveva sempre risparmiato quel tipo di contrarietà: si lamentava del lugubre Lomax Place quel
tanto da far capire che non si era totalmente lasciata abbrutire dalla miseria. «Ma vostro fratello, non lo fate mai
infuriare?» domandò sorridendo alla sua interlocutrice.
«Infuriare? Non so per chi ci prendiate. Non l'ho mai visto perdere il controllo in vita sua.»
«Deve essere un tipo strambo! Non gl'importa nulla di... di quello di cui stavamo parlando?»
Rosy rimase silenziosa per un poco, poi rispose «Quello che importa veramente a mio fratello... beh, uno di
questi giorni, quando lo saprete, sarete voi a dirmelo.»
Hyacinth la guardò basito. «Ma non è disperatamente preso da...» Che nome poteva dare alla cosa misteriosa?
«Preso da cosa?»
«Beh, da quello che si sta preparando nell'ombra. Non fa parte di qualche cosa d'importante?»
«Vi assicuro che non so di cosa faccia parte... domandatelo a lui!» gridò Rosy, scoppiando ancora una volta in
un'allegra risata, mentre la porta si apriva facendo entrare l'oggetto di quella conversazione. «Devi essere andato al di là
del fiume con Sua Signoria,» commentò. «Mi domando chi dei due si sia goduto di più la passeggiata.»
«È una buona figliola, e ha un buon passo,» disse il giovanotto.
«Io credo che sia semplicemente innamorata di te, signor Muniment.»
«Ma che dici, mia cara; come ammiratrice dell'aristocrazia ti stai prendendo una certa libertà,» la schernì Paul,
sorridendo a Hyacinth.
Hyacinth si alzò sentendo che aveva fatto una visita molto lunga. La sua curiosità era ben lontana dall'essere
soddisfatta, ma c'è un limite al tempo che è lecito passare nella camera da letto di una signora. «Forse lo è, che c'è di
male?» buttò là.
«E sia, allora: è tanto sciocca che non ci sarebbe da meravigliarsene.»
«È sempre esistito quel tipo di persona che per averti dato una mano una volta, pretende di avere qualche
diritto su di te», disse Hyacinth. «Ma lei gioca a fare una parte o è sincera?»
«Sincera, sincerissima, amico mio! Penso che si senta un po' stretta, a casa sua.»
«Stretta, a Inglefield? Ma se c'è posto per trecento persone!» s'intromise Rosy.
«Beh, visto il genere di persone che vi abitano, non c'è da stupirsi che preferisca Camberwell. Dobbiamo essere
indulgenti con questa povera signora,» aggiunse Paul con un tono che non sfuggì a Hyacinth; gli attribuì, anzi un
enorme significato: sembrava voler dire che la gente come lui aveva capito così bene il loro gioco da potersi permettere
di essere magnanima: oppure voleva confermare l'ineluttabilità della condanna che incombeva sul capo di Sua Signoria.
Muniment chiese se Hyacinth e Rosy si fossero trovati bene insieme, e la fanciulla replicò che il signor Robinson si era
reso molto gradevole. «Allora mi dirai tutto di lui, dopo che se ne è andato, perché come sai lo conosco poco,» disse suo
fratello.
«Certamente. Ti racconterò tutto. Sai bene quanto mi piaccia farlo.»
Hyacinth trovò divertente l'osservazione della ragazza sui suoi sforzi per piacerle, quando in realtà non aveva
fatto altro che ascoltare, senza aprir bocca, la sua inesorabile parlantina; ma Paul, sia che avesse o meno intuito la
verità, commentò molto a proposito: «È meravigliosa - riesce a descrivere cose che non ha neppure lontanamente visto -
e sembrano proprio vere!»
«Non c'è niente che io non abbia visto,» dichiarò Rosy. «È il vantaggio di vivere in questa maniera. Vedo
tutto.»
«Mi pare però che non vediate le riunioni di vostro fratello, le sue società segrete e i suoi club rivoluzionari.
Avete detto d'ignorarli, quando ve l'ho chiesto.»
«Oh, non dovete chiederle quelle cose,» disse Paul chinandosi verso Hyacinth con fiero cipiglio -
un'espressione, come capì subito, assolutamente scherzosa.
«Che devo fare, allora, dal momento che non mi dite niente di chiaro?»
«Diventerà tutto chiaro quando v'impiccheranno per questa cosa misteriosa,» esclamò Rosy beffandolo.
«Perché vuoi ficcare il naso in questi brutti covi neri?» chiese Muniment posando una mano sulle spalle di
Hyacinth e scuotendolo gentilmente.
«Non appartieni forse al partito dell'azione?» domandò serio il nostro giovane.
«Guardate come si è subito impossessato di un cascame di frasi fatte!» gridò Paul con tono irrisorio, ma non
offensivo, alla sorella. «Devi aver preso questa bella frase dai giornali, pronunciata da chissà quale buffone. È quello il
partito al quale vuoi appartenere?» continuò, mentre i suoi occhi chiari passavano in rivista il piccolo amico.
«Se mi indicherai la verità, non avrò più ragione di dar retta ai giornali,» supplicò candidamente Hyacinth,
assaporando la felicità di aver fatto questa nuova conoscenza. Era convinto, e non a torto, di avere un'indole che non si
sarebbe mai piegata a chiedervi favori; ma ora sentiva che nei riguardi di Paul questo imperativo non scattava. Di fronte
a quell'uomo eccezionale si sarebbe messo in ginocchio senza avvertire la minima umiliazione.
«Di che cosa parli, infatuato giovane illuso?» continuò Paul, rifiutandosi di essere serio.
«Beh, lo sai benissimo, che vai in luoghi da cui faresti meglio a stare lontano, e che spesso, mentre sto qui a
letto, sento dei passi per le scale e sono convinta che stiano venendo a cercare le tue carte,» s'intromise lucidamente
Miss Muniment.
«Il giorno in cui troveranno le mie carte, mia cara, sarà il giorno in cui ti alzerai dal letto e ti metterai a
ballare.»
«Perché mi hai chiesto di venire a casa tua?» domandò Hyacinth rigirando il cappello fra le dita. Per un attimo
lottò per ricacciare indietro le lacrime, sentì che doveva dare un significato diverso all'ospitalità del suo amico. Si era
cullato nell'illusione che Muniment avesse visto in lui un probabile, prezioso adepto di una crociata clandestina contro
l'ordine vigente, mentre ora capiva che il vero scopo era stato quello di far passare un'ora a un'esuberante invalida.
Niente di male; se avesse fatto parte dei suoi doveri, si sarebbe seduto al letto di Miss Rose ogni giorno;
soltanto che in questo caso avrebbe voluto essere gratificato dalle confidenze di suo fratello. A questo punto il giovane
si trovò a dover confermare pienamente l'alto giudizio che Lady Aurora aveva dato dell'intelligenza di Paul: fra tante
ovvie risposte alla domanda di Hyacinth, egli ne inventò lì per lì una perfetta; e come a caso, sorridendo e senza
neppure aver capito che cosa il suo visitatore avesse voluto dire, rispose: «Perché ti ho chiesto di venire qui? Per vedere
se avevi paura.»
Di che cosa Hyacinth avrebbe dovuto avere paura rimaneva decisamente vago, ma egli rispose subito: «Credo
che ti basterà mettermi alla prova per rendertene conto.»
«Sono certa che se lo presenterai a uno dei tuoi malvagi amici di bassa lega, sarà soddisfattissimo di quello che
vedrà,» non poté fare a meno di dire Miss Muniment.
«Sono proprio quelle le persone che voglio conoscere,» proruppe Hyacinth con voce squillante.
Tanta sincerità sembrò commuovere il suo amico. «Beh, vedo che sei uno che può funzionare... Vediamoci una
sera di queste.»
«Dove, dove?» chiese ansiosamente Hyacinth.
«Te lo dirò quando ci saremo liberati di "quella".» E Muniment lo scortò fuori tutto allegro.

Parecchi mesi dopo che Hyacinth le era diventato amico, Millicent Henning fece notare come fosse ora che il
nostro eroe la portasse a divertirsi in qualche locale di lusso. Lui le propose il Canterbury Music Hall, ma lei scosse il
capo e disse che quando una signorina aveva fatto per un giovanotto quello che lei aveva fatto per lui, il minimo per
disobbligarsi era offrirle una serata in qualche teatro dello Strand. Hyacinth si sarebbe trovato molto perplesso se avesse
dovuto dire quello che esattamente lei aveva fatto per lui, ma s'era ormai chiarito che lo considerava suo creditore. Dal
giorno che era venuta a cercarlo a Lomax Place si era accaparrata in un certo senso un qualche posto nella sua vita, ed
egli aveva visto le pallide sembianze della povera Pinnie sbiancarsi ancor di più. Le minacciose previsioni di Amanda
Pynsent si erano avverate alla lettera; la menomante cometa era divenuta una stella fissa. Non gli aveva mai parlato di
Millicent, tranne una volta, qualche settimana dopo la visita della ragazza, e non lo aveva fatto in tono di rimprovero,
perché si era ormai spogliata per sempre di ogni prerogativa materna. L'unica sua arma, ormai, era un'indagine
lacrimosa, tremula, deferente, e nulla era più umile e circospetto del modo in cui se ne serviva. Ora lui non stava più in
casa neppure una sera, e passava le domeniche in un modo misterioso, che non aveva niente a che fare con l'andare in
chiesa. C'era stato un tempo in cui, dopo il tè, si era seduto sotto la lampada vicino a lei e, mentre le sue dita volavano,
le aveva letto ad alta voce le opere di Dickens e di Scott: ore felici, tali da poter illuderla che avesse dimenticato il torto
che gli aveva fatto, tanto che lei stessa era riuscita a dimenticarlo. Ora invece mandava giù il tè con tanta fretta che a
mala pena si toglieva il cappello per sedersi, e Pinnie, con l'occhio sempre vigile a qualsiasi fatto d'abbigliamento,
aveva notato che lo portava più che mai sulle ventitré, con un'aria di vittoriosa esaltazione. Canticchiava, si tormentava i
baffi, guardava fuori dalla finestra quando non c'era nulla da vedere; sembrava preoccupato, immerso in speculazioni
intellettuali, metà ansioso e metà eccitato. Durante tutto l'inverno Miss Pynsent riassunse la situazione in quattro parole,
mormorate con un filo di voce: «Quella maledetta donnaccia sfacciata!» Tuttavia nell'unica occasione in cui aveva
cercato un poco di sollievo alla sua agitazione rivolgendosi direttamente a Hyacinth, non aveva osato qualificare la
ragazza con nessun epiteto.
«C'è una sola cosa che desidero sapere,» gli disse con un tono che avrebbe potuto sembrare indifferente se,
conoscendola come la conosceva, lui non avesse già capito quello che aveva in mente. «Si aspetta che tu la sposi, mio
caro?»
«Chi si aspetta che io la sposi? Mi piacerebbe conoscerla, questa donna.»
«Sai benissimo di chi stia parlando: quella che è venuta a cercarti dall'altra parte di Londra, e ti ha trovato
subito pronto.» E al ricordo di quella scena insopportabile, la povera Pinnie per un attimo avvampò. «Non ci sono
abbastanza uomini volgari in quell'infimo quartiere dove abita senza che ne venga a caccia qui? Vorrei sapere perché
non bazzica la gente della sua razza.» Hyacinth era arrossito a quella domanda, e lei aveva scorto qualcosa sul suo viso
che le fece subito cambiar tono: «Promettimi questo soltanto, figlio mio adorato, che se ti metti negli impicci con quella
femmina lo vieni subito a dire alla tua povera vecchia Pinnie.»
«Qualche volta la mia povera vecchia Pinnie mi dà la nausea,» disse per tutta risposta. «In che sorta di impicci
pensi che dovrei trovarmi?»
«Beh, supponiamo che ti convinca che le hai promesso di sposarla.»
«Non sai quello che dici. Non vuole sposare nessuno... da come la pensa.»
«E allora, come la pensa?»
«Credi che andrei mai a raccontare le confidenze di una signora?» rispose il giovanotto.
«Che diamine, se fosse una signora non avrei alcun timore!» disse Pinnie.
«Ogni donna è una signora quando si affida alla tua protezione,» dichiarò Hyacinth con le sue maniere da
uomo di mondo.
«Alla tua protezione? Perbacco!» gridò Pinnie, sbarrando gli occhi. «E chi dovrebbe proteggere te?»
Non appena pronunciate quelle parole si pentì, perché era proprio quello il genere di discorso che provocava le
ire di Hyacinth. Ma una delle cose che più glielo facevano amare, era la sua eterna imprevedibilità e i suoi improvvisi
ribaltamenti di posizione, che si rivelavano sempre positivi. Indubbiamente non era sempre malleabile quando avrebbe
dovuto esserlo, ma talvolta sapeva essere impagabilmente mite, quando meno ce n'era ragione. In quelle occasioni a
Pinnie veniva voglia di baciarlo e aveva spesso cercato di far capire al signor Vetch il fascino di questi tratti che lei
stessa veniva scoprendo nel carattere del loro giovane amico. Ma era un tratto particolarmente difficile da descrivere e il
signor Vetch mai ammetteva d'aver capito o di aver osservato qualcosa che corrispondesse al quadro psicologico, un
poco confuso, che la sarta aveva abbozzato. In quei tempi era un conforto per lei, direi l'unico che avesse, sapere che
Anastasius Vetch capiva certamente molto di più di quanto volesse ammettere. Fingeva sempre di ritenersi assai più
intelligente di quanto occorresse, e per la sua debole, esasperata sensibilità, era una consolazione sapere che sebbene
egli parlasse del ragazzo come se fosse uno sbaglio prenderlo troppo seriamente, in realtà questo non era affatto ciò che
pensava. Anche lui lo prendeva seriamente e sentiva una certa dose di responsabilità nei suoi riguardi. Miss Pynsent si
era spinta perfino a pensare tra sé e sé che il violinista probabilmente aveva qualche risparmio, e non si era mai saputo
che avesse alcun legame. Non ne avrebbe mai, per tutto l'oro del mondo, fatto parola a Hyacinth nel timore che potesse
un giorno rimanere deluso, ma vedeva con gli occhi della fantasia un foglio protocollo ripiegato in qualche strano
cofanetto da scapolo (non riusciva a immaginarsi cosa potessero mettervi gli uomini, dentro quei cosi) sul quale il nome
del ragazzo sarebbe stato scritto a lettere enormi, alla presenza di un notaio.
«Oh, è nell'ordine naturale delle cose che io sia senza protezione,» rispose sorridendo alla sua compagna così
eccessivamente piena di scrupoli. Poi continuò: «In ogni caso, non sarà certo da quella ragazza che mi verrà qualche
pericolo.»
«Non riesco a capire perché ti piaccia,» disse Pinnie, come se avesse profuso in quella domanda tesori
d'imparzialità.
«È divertente sentire una donna che parla di un'altra,» disse Hyacinth. «Tu sei buona e gentile, e tuttavia saresti
pronta...!» ed emise un sospiro come da una profonda esperienza.
«Beh, sarei pronta a cosa? Certo non sono pronta a vederti mangiare vivo sotto i miei occhi!»
«Non devi aver paura. Non mi trascinerà all'altare.»
«Forse non ti considera degno di una rappresentante della bella famiglia Henning?»
«Non capisci, povera Pinnie,» implorò esausto. «Qualche volta mi convinco che non c'è una sola cosa della
vita che tu capisca. Uno di questi giorni lei sposerà un funzionario.»
«Un funzionario, quella?»
«Un funzionario o un banchiere o un vescovo o qualcuno di quella razza. Non vuole finire subito la sua
carriera... La vuole iniziare.»
«Beh, mi auguro che a te ti riservi per dopo!» replicò la sarta.
Hyacinth rimase per un po' senza dir nulla, poi esplose: «Di che cosa hai paura? Sarà meglio chiarire questa
faccenda una volta per tutte. Temi forse che mi sposi una commessa di negozio?»
«Oh, non lo faresti mai, vero?» gridò Pinnie con ansia propiziatrice. «così che mi piace sentirti parlare.»
«Pensi che sposerei la prima che mi volesse sposare?» continuò Hyacinth. «Il tipo di ragazza cui potrei
interessare è proprio quello che non interessa a me.» Pinnie ebbe la percezione che fossero argomenti su cui aveva già
riflettuto e non ne fu sorpresa perché fin da quando era piccolo si era abituata a vederlo ragionare su tutto. Ma era
sempre felice quando lui, da qualche cenno, lasciava intravedere l'intima consapevolezza delle proprie qualità o
alludeva al fatto che le apparenze lo tradivano. Le apparenze lo tradivano, ma neppure con l'aiuto prezioso di Pinnie era
riuscito a capire esattamente cosa fosse. Lei aveva messo a sua disposizione un'appassionata sublimazione della sua
essenza che, ove se ne fosse servito in situazioni con probabilità di effetto si sarebbe potuta definire immorale, e che
tuttavia non le aveva mai suscitato alcuno scrupolo o perplessità.
«Sono sicura che qualunque principessa potrebbe interessarsi a te, senza sentirsi sminuita,» dichiarò lei tutta
felice di essere stata tranquillizzata, come fino allora non era mai accaduto, che nessun pericolo lo minacciava. Tale
pericolo, per la sarta, era rappresentato dalla possibilità che lui sposasse qualcuna di umili origini, come lei. Tuttavia le
si affacciò un superstite dubbio, che i suoi gusti potessero essersi deteriorati, così, prima di far cadere il discorso, disse
che lui si era certamente reso conto di quello che mancava a una ragazza come Millicent Henning, per la quale certo
non valeva la pena di scomodarsi.
«Non mi preoccupo certo di quello che le manca. Sono soddisfatto di quello che ha.»
«Soddisfatto, mio caro? Che vuoi dire?» balbettò la piccola sarta. «Soddisfatto di averla come amica intima?»
«Non è possibile discutere con te di queste cose,» rispose Hyacinth con aria di superiorità.
«Certo, me ne rendo conto. Ma secondo me ti dovrebbe annoiare, qualche volta,» lasciò cadere Miss Pynsent
con furberia.
«E infatti mi annoia, te lo assicuro, fino alla morte!»
«E allora perché ci passi tutte le sere?»
«Dove vorresti che passassi le mie serate, in qualche orribile pub... o all'opera?» I suoi incontri con Miss
Henning non erano così frequenti, tuttavia non volle prendersi la pena di rettificare a Pinnie che la vedeva soltanto due o
tre volte alla settimana, e che il resto del tempo lo passava camminando per le strade (un'abitudine infantile che ancora
si portava dietro) e che di tanto in tanto aveva anche la risorsa di recarsi dai Poupin o di scambiare due parole, fumando
la pipa, sulla porta aperta di qualche casa, quando le sere non erano troppo fredde, con un amico meccanico. In seguito,
durante l'inverno, dopo che ebbe conosciuto Paul Muniment, la sua vita cambiò considerevolmente, anche se Millicent
continuò a farne parte in modo notevole. Odiava i liquori e ancor più l'odore dei luoghi dove si vendevano. Inoltre le
tante forme di miseria e di vizio che si potevano trovare riuniti in quei locali lo terrorizzavano e lo tormentavano,
ponendogli domande tanto più angosciose perché non trovavano in lui alcuna risposta. Era per lui una fortuna, ma anche
un inconveniente, che il tipo di lavoro che svolgeva nella bottega del vecchio Crook, sotto la guida di Eustache Poupin,
gli desse il gusto del bello, insegnandogli a distinguere le cose fini, a riconoscere le rare e ad odiare le volgari. Era
questo che gli rendeva odioso il brutale, violento, pesante arredo dei pubs, inondati di luce a gas, luccicanti di rami e
peltri, appesantiti da mobili massicci e dalle tinte false. Fin da giovanissimo aveva smesso di considerare il «regno del
gin» un locale principesco.
Ogni stonatura estetica, come ogni cosa di buon gusto, infiammava l'immaginazione di questo giovane
sfortunato ma sicuro del fatto suo; e nonostante vivesse a Pentonville e lavorasse a Soho, e fosse povero, ignorato,
frustrato nelle sue irraggiungibili aspirazioni, niente nella vita aveva maggior interesse e maggior valore delle proprie
sensazioni e riflessioni. Scaturivano da ogni cosa con cui entrava a contatto, e lo facevano vibrare, mantenendolo in uno
stato di eccitazione febbrile per una gran parte delle ore di veglia cosciente, e costituivano ancora adesso gli eventi e le
svolte cruciali della sua formazione. Fortunatamente spesso agivano anche da enorme diversivo. Tutto quanto osservava
gli suggeriva questa o quella idea; tutto lo colpiva, gli penetrava dentro, lo scuoteva; in breve, sapeva, della vita, più
cose di quante potessero servirgli; si sentiva talvolta come un ipotetico uomo d'affari che ricevesse troppe lettere per
posta. Un uomo d'affari però poteva mantenere una segretaria, ma quale segretaria avrebbe potuto smistare per Hyacinth
tutti gli strani messaggi che gli mandava la vita? Gli piaceva parlare di queste cose, ma purtroppo erano soltanto poche
quelle di cui poteva discutere con Milly. Lasciò che Miss Pynsent credesse che le sue ore libere fossero interamente
dedicate a quella signorina perché - si disse - anche se l'avesse ragguagliata su quello che faceva ogni sera della
settimana, nulla sarebbe cambiato: lei si sarebbe tenuta i suoi sospetti; e attribuì la propria durezza ai pesanti pregiudizi
sotto i quali era destinato a languire in questo crudele periodo del suo maturare. Importava poco che lo capissero più o
meno; certo, avrebbe potuto considerare che invece a Pinnie importava. Pinnie, che, dopo aver provato un poco di
sollievo nel sentirlo esprimersi così saggiamente sulla faccenda del matrimonio con Miss Henning, aveva lasciato che la
sua faccia sbiadita, buona e debole, a poco a poco si allungasse fino a raggiungere l'austero aspetto di sempre. Né
accennò a mutarlo man mano che i giorni passavano, perché non era un gran conforto sapere che non aveva intenzione
di sposare la giovane donna di Pimlico quando poi si lasciava tenere ben stretto da lei. Per il momento, comunque, si
limitò a dire semplicemente: «Purché tu la veda com'è, non m'importa altro.» Un sentimento che consentiva di intuire
un certo lassismo nella moralità della buona, piccola sarta. Da parte sua era irreprensibile, ma aveva vissuto per più di
cinquant'anni in un mondo di cattiverie; come tante londinesi del suo tipo e della sua stessa estrazione, aveva poca
tenerezza per il sesso debole, e il «fio che pagavano» le sembrava una logica conseguenza; le sarebbe parso un male
davvero minore se Millicent fosse stata abbandonata in lacrime, purché Hyacinth uscisse incolume dalla mischia. Fra
una giovane vita che avesse rischiato grosso, e un matrimonio prematuro, degradante, del suo adorato ragazzo, non
aveva dubbi sulla scelta. Va aggiunto che la sua opinione sull'abilità di Millicent ad autogestirsi era tale da rendere
assurdo a priori un sentimento di pietà. Pinnie riteneva che Hyacinth fosse il giovanotto più intelligente del mondo,
quanto meno del loro, ma il suo atteggiamento tradiva la convinzione che la giovanetta di Pimlico fosse ben più
intelligente. L'ingegno di lei, in ogni caso, era tale da precluderle perfino l'idea di una qualsiasi sofferenza, mentre la
sofferenza di Hyacinth nasceva, si può dire, dal suo stesso ingegno.
Dopo aver provato per tre mesi la gioia di frequentare i due fratelli di Audley Court, l'intera, intima struttura
della vita di Hyacinth parve mutare, sotto il dilagare di un romanticismo che lasciò in ombra, senza tuttavia cancellarla
completamente, la vivace figura di Miss Henning. Si ritrovò a vibrare al diapason, e a spaziare in un orizzonte arioso e
dilatato. Millicent vide dimezzato il proprio dominio, senza sapere esattamente chi le portasse via l'antico compagno di
giochi, e d'altra parte non gliene chiese ragione, non essendo lei stessa disposta a rendergli conto del proprio
comportamento. Nella cerchia in cui si muoveva, Hyacinth era definito il suo capriccio, e lei era soddisfatta di coprire,
nei confronti di lui, lo stesso ruolo, importante ma quasi esente da responsabilità. Era convinta di essere un'influenza
benefica: gli era affezionata e si occupava di lui come una sorella maggiore, mettendolo in guardia contro i pericoli
della città, come nessun'altra, poverino, aveva saputo fare, e mettendo al servizio della sua inguaribile ingenuità quel
sicuro buon senso di cui non dubitava di possedere una scorta inesauribile. Quando considerava il misero passato del
suo amico, Millicent si faceva beffe della squallida sarta (non riteneva Pinnie niente più di un gatto affamato) e quel
ruolo di guida e di saggia consigliera le piaceva immensamente. E mai sentiva di rendergli omaggio migliore come
quando assestandogli una robusta gomitata, lo apostrofava: «Sei un tipo in gamba, tu!» Quanto a sé, era convinta di
appartenere alla «migliore razza» del mondo, e di possedere una rara bellezza e una vivacissima intelligenza e, quanto
alla bontà, la miglior prova era l'affetto disinteressato che nutriva per quel moccioso di un legatore. Senza dubbio era
una creatura incredibilmente socievole, e allo stesso tempo vanitosa, grossolana, presuntuosa, avida di birra, di panini e
di ogni genere di golosità. In questo periodo rappresentò per Hyacinth l'eterno femminino, cosa che ci lascia perplessi
sui suoi gusti, considerato che era tanto esigente; ci limiteremo però a commentare che non era un esemplare molto
probante.
Si può credere che egli deplorasse la propria debolezza, pur cedendole, e che spesso si domandasse cosa lo
attraeva tanto in una ragazza che criticava sotto molti aspetti. Era volgare, goffa, ignorante fino al grottesco, e la sua
superbia andava di pari passo coi suoi difetti; mancava totalmente di tatto e di sensibilità. Tuttavia, a voler usare un
metro un poco generoso, c'era in lei un non so che di primitivo e di autentico, e il modo con cui ostentava gli attributi
che possedeva, faceva sì che la sua figuretta gli fosse sempre davanti agli occhi, mescolandosi perfino a quelle visioni
che cominciarono a turbinargli intorno dopo che Paul Muniment gli ebbe spalancato una prospettiva così ardita e
impervia. Era fiera, generosa e imprevedibile, e sebbene rozza, non era falsa né crudele. Rideva con la risata del popolo
e quando era colpita duramente piangeva con le lacrime del popolo. Quanto a lui, quando non si lasciava andare a
fantasticherie sulle dimore dei nobili e non sguinzagliava la fantasia all'ombra di un faggio ancestrale leggendo l'ultimo
numero della Revue de deux mondes, meditava su cose di natura assai diversa, si immergeva nella contemplazione delle
lotte e delle sofferenze di milioni di persone la cui vita scorreva nella stessa direzione della propria, e che, pur
suscitando in lui un disgusto che lo faceva rabbrividire e voltar loro le spalle, avevano il potere d'inchiodarlo a una
solidarietà che si trasformava in passione, convincendolo, almeno per un poco, che l'unico vero successo nella vita
consisteva nell'agire con loro e per loro. Tutto questo, strano a dirsi, lo metteva a fuoco in compagnia di Millicent,
prova del suo fantasioso ed erratico procedimento mentale. Simili idee, a lei non la sfioravano affatto: erano forse le
sole che le mancassero. Non aveva alcuna teoria su come redimere o migliorare le condizioni del popolo, che odiava
perché era sporco, con la spavalda violenza di chi ha conosciuto la miseria e sa quali strani compagni di letto ti procura;
e lei l'aveva conosciuta in maniera assai diversa da Hyacinth, allevato da Pinnie (che gli metteva lo zucchero nel tè e
non gli lasciava mancare mai le cravatte) come un vero signorino.
A sentirla parlare, sembrava che Millicent chiedesse soltanto di non sporcarsi le gonne e di sposare qualche
rispettabile commerciante di tè. Ma per il nostro eroe, lei era splendidamente plebea, in un senso che sottintendeva il
vistoso sprezzo del pericolo e tutte le altre qualità che vengono fuori in un impatto. Racchiudeva in sé il vociare
scanzonato e ignorante delle masse, e partecipava della loro capacità di nutrire passioni aggressive e difensive, e della
consapevolezza che se un giorno fosse stato necessario usare la forza, l'avevano a portata di mano. Come tutta la gente
del popolo, aspirava al comfort e al benessere, mani pulite e capelli serici, e piatti bene allineati sulle dispense, uccelli
impagliati sotto campane di vetro, foto di famiglia e altre cose del genere, simboli del successo. Né si vergognava di
essere nell'intimo così spudoratamente piccolo borghese, con l'ambizione di possedere un giardino decorato a finte
rocce, e anche sotto questo aspetto il suo carattere plebeo veniva alla luce. Conoscendo a menadito la storia della
Rivoluzione Francese, Hyacinth poteva facilmente immaginarsela (se mai si fossero alzate barricate nelle strade di
Londra) con in testa il berretto rosso della libertà e la bianca gola scoperta, per poter urlare ancora più forte la
Marseillaise del momento quale che fosse. Se mai si fossero organizzati festeggiamenti alla Dea della Ragione, nella
capitale britannica, - e Hyacinth riusciva a considerare senza un sorriso una simile eventualità, tanto era fedele al suo
credo privato che gl'imponeva di non escludere nessuna possibilità su quanto poteva accadere; se, ripeto, una tale
solenne cerimonia fosse stata ripristinata a Hyde Park, chi, meglio di Miss Henning, poteva essere scelta a figurare, in
modo imponente e statuario, come l'eroina della situazione? Era chiaro che teneva il suo irrazionale ammiratore sotto
una specie d'incantesimo, se gli riusciva di associarla a simili visioni, mentre quella consumava birra e panini a spese
sue. Se aveva un debole, era per gli scampi, e per tutto l'inverno aveva inseguito il progetto di farsi portare a Gravesend,
dove queste ghiottonerie erano più economiche e abbondanti, non appena le giornate si fossero fatte più lunghe e miti.
Non era mai tanto franca e spiritosa come quando si soffermava sui particolari di questo genere di progetti: e in quei
casi Hyacinth si ripeteva che era una gran fortuna che fosse così bella. Se fosse stata brutta non avrebbe potuto
ascoltarla; ma l'eccezionale rigoglio e il portamento superbo rendevano gradevole perfino il suo accento, investendo la
sua essenza «cockney» di sfaccettati bagliori che le garantivano un'ampia, permanente impunità.

XI

Infine lei cominciò a desiderare che i loro incontri si svolgessero su un piano più elevato, che lui le riservasse
quello che lei chiamava «un trattamento di lusso». Erano stati costretti a vedersi quasi sempre per la strada, in vie
gelide, buie nebbiose, che sembravano più grandi e fitte immerse com'erano in quella loro perpetua oscurità, dove ogni
cosa era coperta da una patina umida e granulosa, satura di un odore estremamente piacevole per Miss Henning. Amava
quanto Hyacinth vagabondare a caso, e andava pazza più di lui per le vetrine davanti alle quali indugiava a lungo,
scegliendo insaziabilmente gli oggetti che avrebbe voluto accaparrarsi. Invariabilmente lui dichiarava che le cose scelte
erano orrende, e non si faceva scrupolo di dirle che nessun'altra ragazza aveva gusti peggiori dei suoi. Ma queste
osservazioni non riuscivano a ferirla sul serio, protetta com'era da una sconfinata fiducia nel proprio giudizio. Non
aveva forse avuto modo di raffinare l'innato buon gusto nell'area di Buckingham Palace (c'era ben poco che non si
vendesse in quel grande magazzino di cui lei costituiva un ornamento) venendo quotidianamente a contatto con i più
recenti prodotti dell'industria moderna? Hyacinth si faceva beffe di quel magazzino facendole notare che in tutto il
locale, da cima a fondo, non esisteva nulla che un vero artista avrebbe degnato di uno sguardo. Per tutta risposta lei gli
domandò sarcasticamente se ritenesse quella definizione adatta ai pochi centimetri che costituivano la sua persona; ma
in realtà era affascinata, oltre che stizzita, dal suo carattere difficile da contentare, dalla sua capacità di cogliere le più
impercettibili differenze anche fra gli oggetti più eleganti. Da principio si era ritenuta un'esperta, ma ora lui la rendeva
titubante. Quando, di tanto in tanto, le indicava un oggetto passabile (cosa che capitava raramente, perché i soli negozi
in cui esistesse la probabilità di trovare cose che gli piacessero chiudevano al calare della sera) lei lo guardava
meravigliata e colpendolo di gomito esclamava che se qualcuno le avesse regalato una simile porcheria se la sarebbe
rivenduta subito per quattro soldi. Una volta o due gli chiese di voler essere così gentile da spiegarle in che cosa
consistesse la sua superiorità - non riusciva a liberarsi del dubbio che potesse esserci del giusto nei suoi apprezzamenti e
s'irritava di non essere sicura come gli altri. Allora lui le rispose che anche se glielo avesse detto non sarebbe servito a
nulla; non avrebbe capito, era meglio perciò che continuasse ad ammirare i banali prodotti di un'epoca che aveva
perduto il senso della raffinatezza. Una frase che lei ricordò, proponendosi perfino di servirsene appena se ne fosse
presentata l'occasione, ma che non fu in grado di interpretare.
Simili concessioni non erano dettate in lui dall'intento di rafforzare il legame che lo univa alla sua amica
d'infanzia ma si risolvevano lo stesso positivamente per Millicent, e la ragazza era fiera di tenere in pugno un giovane di
così eccezionale cultura. Nonostante la sua vanità, non era poi così sicura della propria perfezione da non aspirare a
qualcosa che le mancasse; era convinta che un giorno forse le poteva tornar utile ostentare come propria una parte
almeno di quella cultura; anche se accadeva che, quando, mettiamo davanti alla mostra illuminata di un gioielliere della
Great Portland Street, Hyacinth indugiasse assorto per qualche minuto, lei, lontanissima dall'immaginare i sentimenti
perversi che lo rendevano silenzioso, si abbandonava tranquillamente alle proprie fantasticherie, come era solita fare in
simili frangenti. Lei era capace di desiderare cose che non avrebbe forse mai potuto avere, di invidiare chi le possedeva
dicendo che era «proprio uno scandalo»; poteva elaborare disegni fantastici su come le avrebbe utilizzate, se le avesse
ottenute, e poi, improvvisamente, con la mente sgombra da ulteriori pensieri, passava ad un altro argomento altrettanto
intimo e personale. Spesso avvertiva un acuto senso di privazione, ma sapeva sempre porvi rimedio. Per lui la cosa era
diversa, e il rimedio terribilmente vago e irraggiungibile. Andava soggetto a depressioni durante le quali la sensazione
di essere escluso da tutto quanto amava di più nella vita, si posava su di lui come un manto funebre. Erano depressioni
amare, ma non astiose, non inducevano a desideri di vendetta né di rivalse immaginarie; semplici stati di paralizzante
malinconia, di riflessioni infinitamente tristi, durante i quali si rendeva conto che in questo mondo di lotte e di
sofferenze, la vita era sopportabile, e lo spirito riusciva ad espandersi, soltanto nelle condizioni migliori; e che una
sordida lotta che portasse alla tomba senza aver concesso di assaporare quel meglio, non sarebbe valsa il prezzo pagato
con lo squallido avvilimento che comportava.
In quelle ore, il vasto, rumoroso, indifferente mondo londinese gli appariva come un'immensa organizzazione
creata per farsi gioco della sua povertà e della sua impotenza, e allora, tutti i ninnoli più volgari, le vetrine dei gioiellieri
di terz'ordine, il giovanotto in cravatta bianca e cilindro che si pavoneggiava recandosi a un pranzo importante in una
carrozza che per poco ti schiacciava... tutti questi spettacoli familiari divenivano simbolicamente insultanti, lo
sfidavano, lo maceravano nella consapevolezza che lui era soprattutto un escluso. E nessun conforto o smentita gli
veniva dal dire a se stesso che la stragrande maggioranza degli esseri umani erano esclusi come lui, e che
apparentemente accettavano di buon grado tale situazione spiacevole. Erano affari loro: non voleva saper nulla delle
loro elucubrazioni e rassegnazioni, e se preferivano non ribellarsi né far paragoni, per lo meno lui, tra i diseredati,
avrebbe tenuta alta la bandiera. Quando aveva queste crisi, i suoi fratelli scadevano molto nella sua stima; allora la loro
funzione era quella di offrire una massiccia rappresentazione proprio di quei servili interessi che accendevano il suo
disprezzo. E l'unica cosa di cui poteva render loro atto era di fornirgliene un quadro completo. Tutto quanto, in una
grande città, potesse mobilitare la sensibilità di un giovane cui nulla sfuggiva, andava a rafforzare la convinzione che
nella vita non c'era fortuna, per «sicura» che fosse, che non avrebbe apprezzato, né privilegi, né facilitazioni, né lussi di
cui non si sentisse disposto a usufruire. Non agognava tanto al godimento, quanto alla conoscenza: il suo desiderio non
era tanto di essere vezzeggiato, quanto iniziato. Talvolta, di sabato, nelle lunghe sere di giugno e luglio, si dirigeva
verso Hyde Park, nell'ora in cui la folla di carrozze, cavallerizzi e persone eleganti era più fitta, e sebbene recentemente,
in due o tre occasioni, fosse accompagnato da Miss Henning che apprezzava lo spettacolo con esuberante senso critico,
era stato assorbito dall'intimo, doloroso dramma che privatamente si svolgeva sul palcoscenico più recondito della sua
anima. Avrebbe voluto trovarsi dentro ogni carrozza, cavalcare tutti i cavalli, sentire sul braccio la mano di tutte quelle
belle signore. E su tutte provava la vivissima sensazione di appartenere a una categoria che quei «palloni gonfiati» non
si degnavano di notare, al loro passaggio, neppure col più fuggevole sguardo. Vedevano Millicent, perché ovunque si
trovasse non era mai disdicevole guardarla, ed era una delle più belle ragazze che si potessero trovare in qualsiasi
compagnia, ma a lui tutto questo poteva solo ricordare che esistevano alte barriere umane, considerevoli abissi di
tradizioni, rive scoscese di privilegi, e dense stratificazioni di stupidità che tenevano i «par suoi» al di fuori di ogni
riconoscimento sociale.
Non era il frutto di una morbosa vanità, da parte sua, o di una irrazionale gelosia, il suo disagio era il risultato
di una profonda ammirazione per quanto gli era venuto a mancare. C'erano individui che seguiva con gli occhi, con i
pensieri, talvolta anche con i propri passi sembravano indicargli quel che significava appartenere ai fior fiore di una
civiltà privilegiata. A volte rimaneva impietrito al pensiero che la causa che aveva segretamente abbracciato, quella
causa dalla quale Monsieur Poupin e Paul Muniment (e specialmente questi) avevano rimosso da qualche mese il velo,
si proponeva l'instaurazione di un sistema che avrebbe eliminato per sempre quel particolare tipo di spettacolo. Il
pensiero di dover fare una scelta lo faceva tremare; sapeva di non potere (senza perdere la fiducia nella propria serietà)
lavorare clandestinamente per l'insediamento della democrazia, e allo stesso tempo continuare a godere, sia pure in
modo platonico, di uno spettacolo che poggiava su un odioso sistema di sperequazione sociale. Avrebbe dovuto soffrire
col popolo, come aveva sempre fatto, o cercare alibi per i ricchi, come a volte si sorprendeva quasi a fare con se stesso;
una cosa era certa: era vicino il giorno in cui queste due forze potenti sarebbero venute a confronto. Per il momento
Hyacinth sentiva di poter giustificare i propri sentimenti con buone ragioni: la sua amicizia con Paul Muniment, che era
diventata molto profonda, gli dava un forte senso di responsabilità. Muniment rideva dei suoi ragionamenti, quando li
tirava fuori, ma tuttavia si aspettava sempre che li avesse belli e pronti, e Hyacinth era eternamente ansioso di fare
quello che lui si aspettava. A volte si ripeteva che forse il suo destino era di essere lacerato fino alla spasimo, di essere
spaccato in due da interessi che lo trascinavano in direzioni opposte; forse nel sangue non gli si mescolavano linfe
opposte e dai più remoti tempi di cui aveva memoria, non c'era sempre stata una parte di lui che si prendeva gioco
dell'altra, o che riceveva da quella punzecchiature e dileggi?
Quanto alla tetra, orribile, confusa storia di sua madre, quello che Pinnie era stata in grado di raccontargli
quando lui aveva cominciato a fare domande, era stato insieme troppo e troppo poco: quella incredibile storia gli aveva
suggerito cento diverse teorie sulla sua possibile identità. Quello che era venuto a sapere e quello che aveva intuito, lo
avevano nauseato; quello che non era riuscito a scoprire, lo aveva tormentato; ma nella sua ignoranza illuminata era
riuscito a costruirsi un articolo di fede. Era emerso poco a poco dalle tenebre in cui si era venuto a trovare dopo la sfida
gettata a Pinnie - quand'era ancora un bambino - quel giorno memorabile che aveva cambiato completamente l'aspetto
della sua vita. Era stato un pomeriggio di gennaio, rientrando da una passeggiata. Lei era seduta sotto la lampada, come
sempre, col suo lavoro, e aveva cominciato a parlargli di una lettera di uno dei suoi inquilini che le raccontava come il
negozio del cognato, a Nottingham, era stato rapinato dai ladri. Lui aveva ascoltato la storia in piedi, di fronte a lei, e
per tutta risposta se n'era uscito all'improvviso: «Chi era quell'orribile donna che mi hai portato a trovare tanto tempo
fa?» L'espressione di quel pallido viso che lo guardava, il terrore per quella domanda sempre in agguato da tanti anni -
quello sguardo strano, spaventato, malato, era qualcosa che non riusciva a dimenticare, non meno della voce strozzata
con cui aveva ripetuto: «Quella orribile donna?»
«Quella donna nel carcere, anni fa - quanti anni avevo? - che stava morendo e che mi baciò come non sono mai
stato baciato, né lo sarò mai più! Chi era, chi ERA?» La povera Pinnie, dobbiamo dargliene atto, appena ebbe ritrovato
la voce, si trovò a fronteggiare una lotta: aveva retto per una settimana, e ne era uscita sfinita e dolorante ormai per
sempre, e prima che tutto fosse finito, era stato convocato Anastasius Vetch. Spronata da lui, aveva ritrattato tutte le
bugie con le quali aveva tentato di fuorviare il fanciullo, e alla fine aveva rilasciato una confessione e un resoconto che,
come fu costretto a riconoscere, costituivano tutto quello che sapeva. Hyacinth non avrebbe mai potuto dirvi perché la
crisi fosse scoppiata in quel determinato giorno né perché la sua domanda fosse esplosa in quel particolare momento. Lo
strano era che il germe della curiosità si fosse sviluppato così lentamente, che quel mistero assillante che ora,
guardandosi indietro, sembrava avergli riempito tutta l'infanzia, fosse uscito all'aperto soltanto dopo un tempo così
lungo. Naturalmente si era riavuto molto lentamente, da quella nuova, prepotente presa di coscienza, e solo poco a poco
era riuscito a ricostruire le proprie origini e a scandagliare per quanto possibile la propria «nascita». Il coraggio di
andare a ripescare sul Times, nella sala di lettura del British Museum, la cronaca del processo di sua madre per
l'omicidio di Lord Frederick Purvis, una cronaca più che esauriente, dal momento che l'affare era stato una cause
célèbre; la determinazione con cui, seduto sotto la splendida volta, la testa abbassata per nascondere gli sguardi
infuocati, ripassava sillaba a sillaba quel maledetto rapporto, erano state conquiste relativamente recenti. Alcune delle
cose che Pinnie sapeva lo facevano inorridire, ma ve ne erano altre che avrebbe dato la mano destra per chiarire, ed era
costretto; con sofferenze indicibili, a riconoscere che lei le ignorava davvero. E non capiva neanche cosa andasse
cercando il signor Vetch (forse voleva farsi perdonare il ruolo importante che aveva avuto in quella storia anni prima)
quando si permetteva di fare apprezzamenti sulla famiglia dello sventurato nobiluomo che non aveva provveduto in
nessun modo al figlio dell'assassina. Perché avrebbero dovuto provvedere a lui, quando era chiaro che si erano sempre
decisamente rifiutati di riconoscere qualunque responsabilità da parte di Sua Signoria? Pinnie si piegò ad ammetterlo,
sotto il fuoco di fila delle domande di Hyacinth: non le risultava assolutamente che Lord Whiteroy e gli altri fratelli
(non erano meno di sette, la maggior parte tuttora viventi) avessero dato segni, in nessun momento del processo, di
credere alle asserzioni di Florentine Vivier. Quelli erano affari loro. Da gran tempo aveva deciso che i propri erano ben
diversi. Non si poteva credere a quello che si voleva, e fortunatamente, in questo caso, egli non doveva fare nessuno
sforzo, perché dal momento che cominciò a vagliare i dati di fatto (non molti, e per di più meschini e odiosi), egli si
considerò senza ombra di dubbio il figlio del vile e sacrificato Lord Frederick.
Non aveva bisogno di ragionarci sopra: tutte le sue facoltà nervose e sensitive lo affermavano e lo
testimoniavano. Sua madre era stata figlia di gente violenta, francese. Tutto quello che Pinnie seppe dirgli della famiglia
di lei, fu che Florentine una volta le aveva raccontato che quando era ancora giovanissima, suo padre era caduto nelle
strade insanguinate di Parigi, col fucile in mano, combattendo sulle barricate; ci voleva quindi dall'altro lato un
aristocratico inglese, per giustificare la sua essenza, anche se doveva contentarsi di un esemplare mediocre. Questa, con
le implicazioni che comportava, era divenuta la verità di Hyacinth. L'ammissione di essere un bastardo era riscattata da
quella di essere un nobile. Si rendeva conto di non odiare la figura del padre, come sarebbe stato logico, e pensava che
fosse dovuto al fatto che Lord Frederick aveva pagato a prezzo altissimo la sua colpa. La prova della sua paternità
consisteva proprio nell'aver pagato; sua madre non avrebbe armato la propria mano per un'offesa che non fosse stata
così crudele come quella di cui il suo povero neonato era la prova vivente. Si era vendicata perché avevano abusato di
lei e la cosa più amara di quel torto era che lui, inerme vita, stava lì nel suo grembo. Era stato lui ad essere stato
sacrificato a dovere: questo il nostro giovanotto se lo ripeteva spesso. Che la sua valutazione della storia fosse
passionale e soggettiva, e si curasse ben poco delle fastidiose, contraddittorie evidenze, è provato dall'importanza che
attribuiva, ad esempio, al nome che sua madre aveva detto a Pinnie (quando quell'ottima creatura aveva accettato di
prendersi cura di lui) voleva che gli fosse imposto. Hyacinth era stato il nome del padre di lei, un orologiaio di tendenze
repubblicane, martire delle sue idee, di cui lei diceva di venerare la memoria; e quando Lord Frederick si era insinuato
nella sua vita, aveva avuto le sue ragioni per farsi conoscere semplicemente come il signor Robinson - ragioni, tuttavia,
che nonostante la luce da cui nel processo erano state illuminate - era difficile reperire, dopo tanti anni.
Hyacinth non aveva mai saputo che il signor Vetch, più di una volta, aveva detto a Pinnie: «Se il suo rancore
verso quel nobile dissoluto era autentico, perché non aveva dato al bambino il suo vero nome, anziché quello falso?»
Una domanda cui la sarta aveva risposto, un poco ingenuamente, che non avrebbe potuto chiamarlo col nome dell'uomo
che aveva assassinato perché era da immaginarsi che non avrebbe voluto accomunare il figlio a un delitto di cui si era
tanto parlato. Se Hyacinth fosse stato presente a questo battibecco, inutile dire che avrebbe preso le parti di Miss
Pynsent; la conferma che egli si fosse formato una sua precisa idea di tutta la storia sta nel fatto che i tentativi
spaventosamente indiscreti di Pinnie di esprimergli la propria commiserazione non erano riusciti a fargli buttare all'aria,
disgustato, la propria versione dei fatti. Soltanto dopo la rivelazione completa, gli divennero chiare le romantiche
allusioni di cui era stata circonfusa la sua infanzia, e delle quali non aveva mai colto prima il significato, perché gli
erano parse connaturate alla deformazione professionale della povera donna: tutto quel tagliare, e rifinire e modellare e
ricamare, e rivoltare e correggere e rifare. Quando scoprì che per anni ne aveva fatto una creatura ridicola nei confronti
e di se stesso e degli altri, avrebbe voluto picchiarla per la rabbia e la vergogna; eppure, prima di abbandonarsi allo
sdegno, aveva dovuto ricordarsi che l'oggetto di tante chiacchiere (per quanto ora lei riconoscesse di essere stata
terribilmente sciocca) era lo stesso su cui anche lui aveva speso il novanta per cento della sua esistenza, in lugubri
rimuginii. Quando aveva tentato di consolarlo della spaventosa vicenda materna, mettendosi a decantare la gloria dei
Purvis e rammentandogli che, tramite loro, era imparentato a mezza aristocrazia inglese, gli sembrò che stesse
tramutando in farsa la tragedia della sua vita; e tuttavia nonostante tutto, aveva continuato a compiacersi della
consapevolezza di essere un gentiluomo nato. Non le permise di dirgli nulla di quella famiglia, e il divieto di parlarne
era stato uno dei motivi del profondo abbattimento di Pinnie in quegli ultimi anni. Se soltanto le avesse permesso di
continuare quella sua opera di idealizzazione, Pinnie avrebbe avuto l'impressione di cancellare un poco il grande sbaglio
commesso contro di lui. Se talvolta gli capitava di vedere sul giornale il nome dei parenti di suo padre, gettava subito il
foglio. Non voleva niente da loro, e desiderava provare a se stesso che poteva benissimo ignorarli (loro, che lo
avrebbero lasciato morire come un topo) con la stessa assolutezza con cui era ignorato da loro. Sì, mille volte sì, stava
dalla parte del popolo, e dalla parte della vendetta del popolo contro quel genere di egoismi sfacciati; ma nonostante
tutto era felice di sentire che il sangue che gli correva nelle vene era responsabile della sua sensibilità raffinatissima.
Non aveva denaro per pagare i biglietti per lo Strand, specialmente considerando che Millicent Henning aveva
fatto chiaramente capire di aspettarsi qualcosa di meglio del loggione. «Che preferisci, il palco reale, o un paio di
poltrone da dieci scellini l'una?» le diceva col solito tono ironico divenuto ormai abituale nel loro dialogo. Lei aveva
risposto che si sarebbe accontentata della seconda balconata, purché fosse la prima fila - e poiché anche questi posti
comportavano una spesa che eccedeva le sue possibilità, si rivolse, una sera, al signor Vetch, al quale era già ricorso più
di una volta quando aveva avuto qualche difficoltà pecuniaria. I suoi rapporti col caustico violinista erano quanto mai
singolari, e molto più disinvolti in pratica che nella teoria. Molto tempo prima il signor Vetch gli aveva rivelato, per
coprire le spalle di Pinnie il più possibile, il ruolo che aveva avuto in quel momento cruciale, quando si era trattato di
decidere se il suo protetto dovesse essere portato a far visita alla signora Bowerbank; e Hyacinth aveva reagito alla
notizia chiedendo con una certa superiorità che diavolo ci avesse a che fare il violinista coi suoi affari privati. Il loro
vicino gli aveva risposto che si era occupato di quella storia, non tanto perché riguardava lui, ma Pinnie; e il nostro eroe
aveva lasciato cadere la cosa anche se era mancata una riconciliazione formale con quel giudice così poco ufficiale.
Naturalmente i suoi sentimenti per quell'uomo si erano immensamente modificati in seguito alla pena che il signor
Vetch si era dato per trovargli un posto dal vecchio Crook; e all'epoca di cui stiamo parlando egli aveva ormai capito da
tempo che l'autore di quel favore se ne infischiava altamente del suo giudizio per il consiglio dato nell'ora buia e
«seguiva» infatti con piacere perverso la carriera di quel giovane impastato di elementi tanto eterogenei. Hyacinth non
poteva non rendersi conto che il continuo interesse per la sua persona era dettato dalla bontà; in ogni modo era certo che
niente avrebbe potuto compensarlo di non aver conosciuto la verità, per spaventosa che potesse essere. L'abbraccio della
sua disgraziata madre sembrava rinnovare inesauribilmente questa sua convinzione e, nell'attuale stato, gli era di
conforto. Il suo maggiore risentimento per il signor Vetch nasceva dall'abitudine, da costui poco dissimulata, di
considerarlo ancora un moccioso. Si sarebbero intesi molto meglio se gli avesse dato atto che ormai era diventato un
uomo di mondo. Quell'oscuro virtuoso del violino sapeva molte cose sulla società, molte più di quanto non sembrasse, e
di fatto non appariva mai esitante; era un aspetto che veniva fuori poco a poco; tuttavia non poteva essere una buona
ragione perché assumesse l'atteggiamento di chi si pone come unico obiettivo nella vita quello di divertirsi a rimbeccare
tutto quello che il suo giovane amico diceva. Hyacinth riteneva di dar prova di una notevole tolleranza quando, di tanto
in tanto, chiedeva al suo vicino di Lomax Place di prestargli mezza corona. In qualche modo le vicende passate li
avevano legati, e se questo da una parte infastidiva il piccolo legatore, dall'altra lo commuoveva; più di una volta aveva
risolto (quando il violinista lo esasperava) di limitare il suo rapporto alla semplice richiesta di qualche favore. Il signor
Vetch non aveva mai risposto di no. Hyacinth se ne ricordò con soddisfazione quando andò a bussare, tardi, alla sua
porta, dopo avergli dato il tempo di rincasare dal teatro. Conosceva le sue abitudini, non andava mai a letto subito,
invece si sedeva vicino al camino per un'ora, fumando la pipa e preparandosi un «grog» e leggendo qualche vecchio
libro. Hyacinth sapeva quando era il momento per andare da lui dalla luce della finestra che poteva controllare dal
cortile retrostante.
«Oh lo so che non vengo a trovarla da tanto,» disse in risposta al commento con cui il vicino lo salutò, «ed è
meglio che le dica subito la ragione che mi ha portato qui, oltre al desiderio d'informarmi della sua salute. Voglio
portare a teatro una signorina.»
Il signor Vetch era paludato in una sdrucita vestaglia; l'appartamento era impregnato dall'odore del liquore che
stava bevendo. Spogliato della sua uniforme serale apparve così spennato e triste che il nostro eroe decise di sistemare
subito la faccenda, nel caso che quello volesse liquidarlo; anche lui senza dubbio aveva i suoi crediti con la vita. «Temo
che la tua signorina sia alquanto costosa.»
«Tutto è costoso, mi pare,» disse Hyacinth, come per tagliar corto.
«Specialmente le tue società segrete, immagino.»
«Che intende dire?» chiese il giovanotto con un'occhiata penetrante.
«Come, in autunno mi hai detto che ti saresti fatto socio di qualcuna di queste congreghe.»
«Qualcuna? Quante crede che ce ne siano?» Ma il nostro amico si frenò in tempo. «Pensa che se avessi fatto
sul serio ve lo sarei venuto a dire?»
«Diomio, diomio!» sospirò il signor Vetch, e continuò: «La vuoi portare al mio teatro, eh?»
«Mi dispiace dire che lì non ci vuole andare. Vuole qualcosa nello Strand: questo è il punto. Vuole vedere la
Perla del Paraguay. Vorrei non spendere una lira, purtroppo non possiedo un centesimo. Ma dal momento che lei
conosce gente di altri teatri e ho sentito dire che vi scambiate dei piaceri, à charge de revanche, ho pensato che forse
avrebbe potuto procurarmi un posto. Il lavoro è su già da tanto, e quasi tutti (tranne i poveri diavoli come me) devono
averlo visto, ormai, per cui non ci dovrebbe essere troppa ressa.» Il signor Vetch ascoltò in silenzio, e poi disse: «Vuoi
un palco?» «Oh, no, qualcosa di più modesto.» «Perché non un palco?» chiese il violinista in un tono che il giovane
conosceva bene. «Perché non ho gli abiti adatti per quel genere di posti se devo proprio dirle la ragione.»
«E la tua signorina, lei, gli abiti adatti ce li ha?»
«Direi di sì. Sembra che abbia di tutto.»
«E da dove li prende?»
«Non lo so. È impiegata in un grande magazzino e deve essere ben messa.»
«Vuoi fumarti una pipa?» chiese il signor Vetch spingendo attraverso il tavolo una vecchia borsa portatabacco;
e mentre il giovanotto si serviva continuò a tirare in silenzio.
«Ma che se ne fa di te?» chiese finalmente.
«Che se ne fa chi, di me?»
«La tua famosa bellezza - Miss Henning. So tutto da Pinnie.»
«Allora saprà anche quel che se ne vuole fare di me,» rispose Hyacinth con una risata piuttosto sarcastica.
«Sì, ma dopo tutto, poco importa.»
«Non so di che cosa stia parlando,» disse Hyacinth.
«Beh, e ora per quell'altra storia... come la chiamano?... la "Clandestina"..., ci sei dentro fino al collo?»
continuò il musicista come se non lo avesse sentito.
«Anche questo glielo ha detto Pinnie?»
«No, l'amico Pappin mi ha raccontato un bel po' di cose. Sa che hai le mani in pasta da qualche parte. E poi, me
ne accorgo anche da solo,» disse il signor Vetch.
«E in che modo, se è lecito?»
«Ti si legge negli occhi. Guardandoti, chiunque può capire che hai prestato qualche giuramento sopra ossa
sanguinanti, che appartieni a qualche banda terribile: sembra che tu voglia dire a tutti: "Neanche la tortura più lenta
m'indurrebbe a rivelare dove si tengono le riunioni".»
«Allora non me li procurate i biglietti?» disse Hyacinth dopo poco.
«Caro ragazzo, ti offro un palco. Come vedi m'interesso enormemente a te.»
Fumarono per un poco, e alla fine Hyacinth disse: «Non ha niente a che fare con la "Clandestina".»
«È ancora più deleteria, più mortalmente segreta?» chiese il suo compagno con estrema serietà.
«Credevo che lei sostenesse di essere un radicale,» rispose Hyacinth.
«Beh, lo sono, infatti... Di vecchio stampo, ligio alla Costituzione, all'acqua di rose, con la calma. Non sono
uno sterminatore.»
«Non possiamo sapere come saremo quando sarà arrivato il momento,» osservò Hyacinth con tono più
sentenzioso di quanto volesse.
«Allora, amico mio, sta forse arrivando il momento?»
«Non credo di avere il diritto di darle qualcosa di più che un avvertimento,» sorrise il nostro eroe.
«Molto gentile da parte tua, precipitarti qui, alle ore piccole, proprio per questo. Intanto, nelle poche settimane,
mesi o anni o quelli che sono che ci rimangono, vuoi accumulare più divertimenti possibili con le signorine: è
un'aspirazione legittima.» Poi il signor Vetch buttò lì, come per caso: «Vedi molti stranieri?»
«Sì, parecchi.»
«E che te ne sembra?»
«Ogni sorta di cose. Ma preferisco gli inglesi.»
«Come il signor Muniment, ad esempio?»
«Dico, che ne sa, lei, di Muniment?» chiese Hyacinth.
«L'ho visto dai Pappin. So che voi due siete amici per la pelle.»
«Un giorno si farà notare, e molto,» disse Hyacinth che era perfettamente disposto, e con notevole orgoglio, a
essere considerato socio di un uomo così eccezionale.
«Probabilissimo, probabilissimo. E che se ne farà lui, di te?» chiese il violinista.
Hyacinth si alzò: si guardarono negli occhi freddamente: «Me li procura, allora, due buoni posti di seconda
balconata?»
Il signor Vetch rispose che avrebbe fatto del suo meglio, e tre giorni dopo consegnò al suo giovane amico i
tanto desiderati biglietti. Lo accompagnò alla porta con questa raccomandazione: «Divertiti il più possibile, sai?»

LIBRO SECONDO

Prima che il sipario si levasse su La perla del Paraguay Hyacinth e la sua amica erano già seduti ai loro posti
con perfetta puntualità. Grazie alla smania di Millicent di non arrivare in ritardo, subirono la seccatura, che era stata
proprio il motivo principale della sua riluttanza ad andare in loggione, di restare venti minuti alla porta del teatro, in
mezzo a una folla assiepata e impassibile, in attesa dell'apertura. Millicent, a testa scoperta e tutta pizzi, era uno
spettacolo splendido e procurava a Hyacinth il piacere di un giovanile orgoglio possessivo, sotto tutti i punti di vista, se
si eccettua il fatto che, mentre erano ancora in attesa di entrare, lei si era abbandonata alla brutta abitudine di dar
gomitate e di fare ad alta voce sarcastici commenti sulla situazione. In quel momento si era convinto ancora di più che
era una donna che in pubblico aveva bisogno di qualcuno che fosse pronto a difenderla e a presentare le scuse per il suo
comportamento. Hyacinth sapeva che quando una «femmina» sta appesa al vostro braccio, c'è un solo modo per
scusarsi del suo comportamento, e di nuovo rammentò che Miss Henning era per natura piuttosto incline ad attaccar
briga. Era quasi certo che lei lo ritenesse invece piuttosto avverso a quel genere di cose, e già si prefigurava coinvolto in
una situazione in cui si sarebbe dovuto far valere in qualche modo: ma non sapeva bene come, e si considerava molto
più abile a duellare con un imponente avversario usando la squisita arma della protesta verbale anziché la forza dei suoi
piccolissimi pugni.
Quando finalmente raggiunsero i posti di balconata, lei era piuttosto accaldata e in disordine, ma riuscì a
ricomporsi prima che il sipario si levasse sulla farsa che precedeva il melodramma e che nessuno dei due aveva
intenzione di perdersi. Allora un diverso eccitamento, ben più connaturale, la agitò di nuovo e si abbandonò al
divertimento delle schermaglie della farsa introduttiva. Hyacinth non la trovava altrettanto divertente, ma del resto il
teatro, di qualunque genere, gli riservava sempre qualche dolce delusione.
La sua immaginazione spaziava appassionatamente sulle luci della ribalta, rendeva dorate e brillanti le tele
sdrucite e gli accessori malandati, e si perdeva così totalmente in quel mondo fittizio che la fine di ogni lavoro teatrale,
lungo o corto che fosse, gli procurava una sensazione simile a un improvviso arresto della propria vita. Nessuno più di
lui avrebbe potuto vibrare all'unisono con l'illusione drammatica. Millicent, man mano che il pubblico aumentava, si
divertiva sempre di più e sempre più rumorosamente. Stava seduta come una vera signora, prendeva atto di tutto come
se si trovasse in un luogo a lei estremamente familiare, si appoggiava allo schienale, si piegava in avanti, si sventagliava
con aria maestosa, dava giudizi sulle toilettes e l'acconciatura di tutte le signore che entravano nel suo raggio visivo,
faceva un mucchio di domande e di ipotesi, e infine tirò fuori dalla tasca un cartoccetto di caramelle alla menta che
costrinse Hyacinth, sotto crudeli minacce, a dividere con lei. Seguì con attenzione, ma non sempre con successo, le
complicate avventure della Perla del Paraguay, attraverso lussureggianti scene tropicali, dove gli attori si muovevano
con sombrero e stiletti e le donne ballavano la cachucha oppure tentavano di sfuggire a lubrichi inseguimenti; ma di
tanto in tanto i suoi occhi si volgevano agli spettatori nei palchi o nelle poltrone, elaborando su parecchi di essi teorie
tutte personali che infliggeva a Hyacinth, mentre si andava svolgendo la commedia, procurandogli una profonda
irritazione per una così inconcepibile esibizione di frivolezza. Pretendeva di sapere chi fossero quegli individui, pur non
conoscendo le persone o i nomi, in quanto era certa, assolutamente certa, di saperli classificare socialmente, di
conoscere il quartiere londinese in cui abitassero e quanti soldi fossero disposti a spendere nell'area di Buckingham
Palace. Aveva visto l'intera città passare per quel negozio, e benché anche Hyacinth l'avesse osservata fin da piccolo,
dal suo particolare angolo visivo, la sua compagna gli faceva vedere ora tutto quello che a lui era sfuggito. Il punto di
vista di lei differiva dal suo perché era più sprezzante e irriverente. Miss Henning aveva osservato il mondo londinese
senza lasciarsi impressionare da quell'aura di alta moralità, ma con un cinismo che dava da pensare. Considerava la
maggior parte delle signore ipocrite, e per le persone del suo sesso aveva, sotto ogni riguardo, una disistima che
esemplificava con le sorprendenti notazioni raccolte nel corso della sua carriera di commessa. A Hyacinth sembrò
perciò deliziosamente incoerente quando, al terzo atto, la vide commuoversi fino alle lacrime per la Perla del Paraguay
che, scarmigliata e fuori di sé, si gettava in ginocchio implorando il duro hidalgo, suo padre, di credere, a dispetto delle
apparenze che la condannavano, alla sua innocenza a proposito di un incontro notturno con un malvagio, nel boschetto
di alberi di cocco. Ma nonostante tutto, proprio nel momento cruciale, chiese a Hyacinth chi fossero i suoi amici del
palco di proscenio, informandolo che un signore, lì seduto, aveva continuato ad osservarlo ad intervalli regolari, per una
buona mezz'ora.
«A osservare me? Questa è buona! Quando voglio essere osservato devo portarti con me!»
«Naturalmente ha guardato anche me,» rispose Millicent come se non avesse interesse a negarlo. «Ma sei tu
quello su cui vuol mettere le mani.»
«Mettere le mani?»
«Sì, sciocco; non tirarti indietro. Forse potrebbe fare la tua fortuna.»
«Beh, se vuoi fartelo venire a sedere vicino, io posso andare a fare due passi nello Strand,» disse Hyacinth
entrando nello spirito della situazione, ma senza riuscire a vedere, da dove stava seduto, nessun signore nel palco.
Millicent spiegò che il misterioso osservatore proprio in quel momento aveva cambiato posto: era andato a sedersi in
fondo al palco, che doveva essere piuttosto profondo. C'erano altre persone con lui, non visibili perché lei e Hyacinth si
trovavano sul loro stesso lato. Una era una donna, seminascosta dalla tenda: di tanto in tanto si profilava un braccio
nudo, ma coperto di bracciali, posato sulla balaustra imbottita. Hyacinth di fatto lo vide riapparire, e mentre il lavoro
seguitava a svolgersi, lo guardò con un certo interesse ma finché non calò la tela alla fine dell'atto non ci fu nessun'altra
indicazione che un signore volesse mettere le mani su di lui.
«Vorresti dire che è di me che s'interessa?» chiese Millicent improvvisamente, dandogli un colpetto di fianco,
mentre i violini dell'orchestra cominciavano a grattare sulle corde.
«Certo, io sono solo un pretesto,» rispose Hyacinth illudendosi di apparire disinvolto. Intanto il signore
indicato dalla sua compagna era tornato al suo posto, e si sporgeva fuori, appoggiando le braccia alla balaustra.
Hyacinth vide che lo stava guardando fisso, e il nostro giovanotto gli restituì lo sguardo, uno sforzo che il fatto di averlo
riconosciuto non valse a rendere meno faticoso.
«Beh, se ci conosce potrebbe anche farci un cenno, e se non ci conosce potrebbe lasciarci in pace,» dichiarò
Millicent scavalcando ogni precedente distinzione fra sé e il suo compagno. Aveva appena finito di parlare che quel
signore già seguiva la prima delle due alternative: sorrise a Hyacinth e gli fece un cenno indiscutibilmente amichevole
col capo. Millicent, accortasene, guardò il giovanotto di Lomax Place, e vide che quel cenno lo aveva fatto avvampare.
Era rosso, confuso, non si capiva bene se di piacere o d'imbarazzo. «Ehi, dico, è forse una delle tue amicizie
altolocate?» chiese prontamente. «Beh, so guardare anch'io fisso come lui.» E aggredì Hyacinth che era uno scandalo
portare una signora a teatro senza neppure possedere un binocolo per farle osservare il pubblico. «È uno di quei nobili
di cui parlava tua zia a Lomax Place? Forse un tuo zio, tuo nonno, o un cugino di primo o secondo grado? No, è troppo
giovane per essere tuo nonno. Peccato che non riesca a vedere se ti somiglia!»
In qualsiasi altro momento Hyacinth avrebbe trovato queste domande di pessimo gusto, ma ora era troppo
preso da altre riflessioni. Gli faceva piacere che il signore del palco lo avesse riconosciuto e notato, perché anche un
particolare tanto irrilevante era un riconoscimento della sua esistenza sociale; tuttavia la cosa lo sorprendeva e
sconcertava, procurando al suo temperamento eccitabile un'agitazione di cui, nonostante tutti gli sforzi per controllarsi,
l'occhiata lanciata a Millicent era la prova. Si erano incontrati tre volte, lui e l'altro spettatore; ma si erano incontrati in
luoghi tali che, a giudizio di Hyacinth, sarebbe stato più saggio scambiarsi un ammiccamento furtivo, o un palpito di
ciglia piuttosto che salutarsi così apertamente. Il nostro amico non avrebbe mai azzardato il saluto per primo, e non
perché il signore del palco apparteneva - e molto cospicuamente anche - a una classe sociale diversa dalla sua. Aveva
l'aspetto di un quarantenne, alto, magro e sciolto, indulgeva in atteggiamenti indolenti e disimpegnati, e anche a
distanza si qualificava come un pigro. Aveva un viso allungato, divertito, soddisfatto, senza baffi né basette, e i capelli
castani con la riga da una parte gli ricadevano sulle tempie in ciocche abbondanti e ben pettinate, come nei ritratti del
1820. Millicent aveva un occhio così acuto e penetrante che riuscì a mettere a fuoco tutti i particolari del suo abito da
sera, di cui approvò il «taglio»; ad osservargli le mani grandi, indice di carattere, e a notare che sorrideva in
continuazione, che gli occhi erano di un colore straordinariamente chiaro e che, nonostante avesse sopracciglia scure e
ben disegnate, la sua pelle delicata era tale che non avrebbe mai potuto produrre una barba che si rispettasse.
Mentalmente la nostra signorina lo definì un «fuoriclasse» di prima forza, e si domandò più che mai dove avesse
pescato Hyacinth. Il suo compagno sembrò leggerle nel pensiero, perché esclamò, con un piccolo sospiro di sorpresa,
quasi un'esalazione di sgomento: «Beh, non avevo proprio idea che fosse uno di quelli!»
«Potresti almeno dirmi come si chiama, per sapere come devo rivolgermi a lui, in caso venga a parlarci,» disse
la fanciulla, irritata dal riserbo del suo compagno. «Beh, certo che se fosse stato tuo fratello non ti avrebbe fatto più
sorrisi. Può darsi che voglia fare la mia conoscenza, dopotutto non sarebbe il primo.»
Il signore era scomparso ancora una volta, prova che aveva intenzione di fare proprio quello che lei supponeva.
«Non sono sicuro di essere autorizzato a dirti il suo nome.» L'intenzione di Hyacinth era di agire responsabilmente, ma
in realtà gli premeva chiaramente di ingigantire la cosa, per dare maggior lustro alla serata che stava offrendo a Miss
Henning. «L'ho incontrato in un luogo che egli può desiderare non si sappia frequenti.»
«Vai forse in posti di cui ci si deve vergognare? Non si tratterà mica di quei club politici, come li chiami tu,
dove quello schifoso giovanotto di Camberwell, il signor Muniment (come diavolo si chiama?), ti riempie la testa di
idee che non possono farti se non del male? Ma certo il tuo amico laggiù non ha l'aria di stare dalla parte vostra.»
Hyacinth si era abbandonato anche lui a queste riflessioni, ma l'unica cosa che disse a Millicent fu: «Beh,
allora forse starà dalla tua.»
«Diomio, spero che lei almeno, non sia una dell'aristocrazia!» esclamò Millicent con apparente noncuranza; e
seguendo la direzione dei suoi occhi Hyacinth vide che la sedia del palco che il suo misterioso conoscente aveva
lasciato vuota, era ora occupata da una signora che fino allora era rimasta nascosta, non la stessa che aveva fatto
intravedere la nudità di una spalla e di un braccio. Era una persona decrepita, avviluppata in un voluminoso scialle
bianco tutto gualcito, una donna forte, singolare, dall'aria straniera, con una ballonzolante parrucca bionda in testa.
Aveva un'aria placida, paziente, e un viso tondo e rugoso dove però due occhietti luminosi si muovevano senza posa. I
guanti, piuttosto sporchi, erano sproporzionatamente grandi, e intorno alla testa, che sembrava svilupparsi in senso
orizzontale quasi a far da supporto alla parrucca, portava una stretta fascia di lustrini, guarnita al centro della fronte da
un gioiello che, a giudicare dal resto del suo abbigliamento, chiunque avrebbe giudicato falso. «È sua madre, la
vecchia? Da dove ha tirato fuori quegli abiti? Sembrano presi in affitto per la serata. Frequenta anche lei il tuo
meraviglioso circolo? Mi sembra che se la passi male, no? Hyacinth interruppe la tiritera avanzando scherzosamente
l'ipotesi che la vecchia poteva anche non essere la madre di quel signore, ma sua moglie o un suo capriccio
momentaneo, e Millicent dichiarò che in quel caso, se fosse venuto da loro, non aveva nulla da temere per sé. Nessuna
meraviglia che si fosse voluto allontanare da quel palco! La persona con la parrucca - e che parrucca! - se ne stava là
seduta a guardarli, ma lei non si sentiva per niente lusingata per aver attirato l'attenzione di un simile pupazzo. Hyacinth
fece finta di ammirarne l'aspetto e lo charme personalissimo; e scommise un altro cartoccio di mentine che un'indagine
sul suo conto avrebbe rivelato che era una vecchia famosa, che si fregiava di un titolo nobiliare. Millicent rispose con
aria esperta che non aveva mai pensato che fra i nobili ci fossero delle grandi bellezze; e intanto il suo compagno si
accorse che stava lanciando occhiate furtive dietro di sé per vedere se il suo strano amico stesse arrivando, e che sarebbe
rimasta delusa se non fosse comparso. Questo pensiero non lo rese geloso, perché intanto andava considerando
mentalmente un altro aspetto della faccenda, e se avanzava ipotesi scherzose in realtà dipendeva dall'essere rimasto
effettivamente eccitato e lusingato da un incidente di cui il lettore non sarà riuscito a comprendere ancora le più vaste
implicazioni. Lo agitava non tanto il piacere di essere nelle grazie di un ricco, ma semplicemente la prospettiva di fare
esperienze nuove - una sensazione che lo trovava sempre pronto a barattare qualsiasi benessere presente - ed era
convinto che se il signore col quale aveva conversato in una segreta stanzetta di Bloomsbury, che si faceva chiamare
capitano Godfrey Sholto - il Capitano gli aveva dato il suo biglietto da visita - era uscito dal palco per una ragione più
seria delle congetture di Millicent, quella d'incontrarsi con lui, ne potevano conseguire avvenimenti eccezionali. Questa
prospettiva tramutava l'attesa in una preparazione; così, quando dopo pochi minuti si rese conto che la sua giovane
amica, col capo voltato, stava squadrando da capo a piedi colui che si trovava lì dietro di loro, sentì che il destino stava
operando un inaspettato mutamento nella sua vita. Si alzò ma non tanto rapidamente da non accorgersi che il capitano
Sholto era rimasto un istante fermo in contemplazione di Millicent, e che lei, da parte sua, aveva scrupolosamente
celebrato il rito di esaminarlo. Il capitano aveva le mani in tasca, e portava il cilindro molto indietro sulla testa. Rivolse
il più cordiale dei sorrisi alla giovane coppia della balconata, come se li conoscesse entrambi da anni, e Millicent, ora
che lo vedeva più da vicino, si accorse che si trattava di un signore raffinato e distinto, affabile nei modi, alto almeno un
metro e ottanta, nonostante il vizio o vezzo di un portamento noncurante, dinoccolato e alla buona. Sulle prime
Hyacinth ebbe l'impressione che li stesse trattando un poco come due ragazzini colti in flagrante; ma la sensazione fu
rapidamente dissipata dal tono con cui, posando una mano sulla spalla del nostro eroe, ritto nella piccola corsia
d'accesso alla fila di cui i due, grazie ai biglietti del signor Vetch, avevano occupato i primi posti, disse: «Mio caro, mi
sono proprio detto che dovevo venire a parlarti. Questo orrore di commedia mi ha fatto passare il buon umore. E come
sai, quei palchi sono terribilmente soffocanti,» aggiunse come se Hyacinth fosse, anche lui, un esperto frequentatore di
quel settore del teatro.
«Anche qui fa un gran caldo,» rispose il compagno di Millicent. All'improvviso si era accorto che faceva caldo,
che stava vicino ai candelabri, e aggiunse che la trama della commedia era assurda anche se gli pareva ben recitata.
«Oh, è la solita grossolana tradizionale commedia britannica. È l'unico teatro dove ancora la diano, e non
durerà molto neanche qui. Non può sopravvivere al vecchio Baskerville e alla signora Ruffler. Miodio, come sono
vecchi! Lei me la ricordo, e già non era più una ragazzina, da quando mi portavano a teatro da piccolo, nelle vacanze di
Natale. Tra tutti e due devono fare circa un centottant'anni, eh! Ho il sospetto che verso la metà sarà un gran
piagnisteo,» continuò il capitano Sholto con lo stesso tono cordiale, disinvolto, incoraggiante, rivolgendosi a Millicent,
sulla quale, in verità, i suoi occhi si erano posati fin dal principio quasi ininterrottamente. Lei sostenne quello sguardo
tranquilla, ma una certa forzatura nel suo riserbo lasciava capire (cosa verissima) che non era solita conversare con
signori sconosciuti. Volse il viso a quelle parole (aveva già dato al visitatore modo di osservarlo a lungo) e si allontanò
nella corsia mentre quello, dando le spalle al palcoscenico, si appoggiava al parapetto della balconata guardando
Hyacinth che intanto, vista la piega presa dalle cose, aveva cominciato a chiedersi perché fosse venuto. Era desideroso
di mostrarsi lusingato dalla sua cortesia, ma non sapeva cosa dire, così su due piedi, a una persona di cui capiva
benissimo la qualità mondana, una qualità percepita, giacché non era minimamente ostentata. Capì subito che il
capitano Sholto non aveva preso sul serio quel lavoro teatrale, e preferì accantonare l'argomento su cui invece avrebbe
potuto discutere a lungo. D'altro lato, la presenza di una terza persona, rendeva inopportuno alludere a quanto avevano
discusso insieme al «Sole e Luna», né riteneva che il visitatore se lo aspettasse, anche se a dire il vero era una persona
di spirito, pronto a divertirsi con niente, anche con un esoterico socialismo e con un piccolo legatore che aveva modi da
gentiluomo molto più di quanto ci si potesse aspettare. Forse il capitano Sholto, dopo che si era prodigato per
fraternizzare con loro, si sentiva un poco imbarazzato per non essere riuscito a carpire neppure un sorriso alla rara
virtuosità di Millicent; ma non lo fece pensare a Hyacinth e continuò il discorso precisando che era stata proprio la
prospettiva della fine della vecchia tradizione britannica a spingerlo ad andar lì quella sera. Era in compagnia di una
signora che aveva vissuto molto all'estero e non aveva mai visto nulla di simile, e che prediligeva tutto quanto c'era di
caratteristico. «Sapete, lo stile di recitazione è molto diverso, all'estero,» disse rivolgendosi di nuovo a Millicent, la
quale, questa volta, rispose: «Oh, sì, certo,» osservando di nuovo la vecchia signora del palco e riflettendo che aveva
l'aria di chi aveva visto tutto quello che al mondo c'è da vedere.
«Non siamo mai stati all'estero,» disse candidamente Hyacinth guardando l'amico nel fondo di quei suoi
singolari occhi chiari, i più sbiaditi occhi che avesse mai visto.
«Oh, beh, si dicono un mucchio di sciocchezze in proposito,» rispose il capitano Sholto; una frase che lasciò
Hyacinth perplesso, non sapendo a cosa si riferisse, mentre Millicent decise di lanciarsi in una sua osservazione.
«Fanno un chiasso tremendo, là sul palcoscenico. Deve essere poco piacevole, in quei palchi.» Si sentiva un
gran battere e pestare, dietro il sipario, il rumore di pesanti scenari che venivano spostati.
«Oh sì, è molto meglio qui. Per me, questi sono i posti migliori,» disse il visitatore. «Mi piacerebbe molto
restare con voi per il resto della serata. Il guaio è che ci sono le signore... ben due,» continuò come se stesse prendendo
la cosa in seria considerazione. Poi, posando di nuovo una mano sulla spalla di Hyacinth, gli sorrise brevemente e si
abbandonò a un'ulteriore confidenza. «Amico mio, è anche questa una delle ragioni che mi ha portato qui su da te: una
delle mie dame ha un gran desiderio di conoscerti!»
«Di conoscere me?» Hyacinth si sentì impallidire; il primo impulso che provò a questo annuncio - un impulso
che emergeva dalle profondità dell'inconscio - fu il sospetto che si trattasse di qualcosa connessa con il suo parentado,
da parte del padre. Per un attimo la faccia liscia e luminosa del capitano Sholto, da cui s'irradiava una proposta tanto
inaspettata parve ondeggiargli davanti agli occhi. Il capitano continuò dicendo che aveva parlato alla signora della loro
conversazione e che lei era immensamente interessata a quelle cose - «sai a cosa alludo, lo è veramente» - e che, in
seguito a quanto le aveva raccontato, lo aveva supplicato di chiedere a... al suo giovane amico (Hyacinth capì all'istante
che il capitano si era dimenticato il suo nome) di andare da lei se non gli dispiaceva.
«Ha un gran desiderio di conoscere una persona in possesso di una visione del mondo come la tua, capisci? E
nella sua posizione, non le capita mai d'incontrarne... con suo grande disappunto. Così, quando ti ho visto, stasera, mi ha
detto subito che doveva conoscerti a tutti i costi: spero che non ti secchi, è soltanto per un quarto d'ora. Forse è meglio
che ti avverta che è una persona abituata a non sentirsi mai rifiutare nulla. "Va' a prendermelo," così, come se fosse la
cosa più semplice del mondo. Ma è in buona fede: non dico per quel che riguarda te, questo è sottinteso, ma per tutta la
faccenda, tua e mia. Dovrei anche aggiungere - e non guasta di certo - che è la donna più affascinante del mondo,
proprio così! Davvero, ragazzo mio, è forse la donna più interessante d'Europa.»
Il capitano Sholto aveva parlato così, con la massima naturalezza e semplicità, e Hyacinth, ascoltandolo, pensò
che forse avrebbe dovuto offendersi all'idea di essere considerato strumento da sollazzo di quei capricciosi, per non dire
impudenti sfaccendati, ma, non si sa perché, non si sentiva offeso affatto, e, dato il ruolo che anelava a giocare nella
vita, era meglio accettare simili situazioni con calma e buone maniere piuttosto che affrontare lo sforzo di evitarle.
Certo non era possibile che la signora del palco fosse in buona fede: forse lo credeva, ma restava improbabile. D'altra
parte, anche tu, quando sei venuto a teatro in pompa magna, te ne infischiavi della causa per cui eri andato alla riunione
nella angusta, clandestina stanzetta di Bloomsbury. Lo stesso poteva dirsi del capitano Sholto, ma per Hyacinth non era
ancora affatto chiaro se quello ci credesse veramente. In ogni caso, non era quello il momento di questionare in merito
alla sincerità della signora, e in capo a sessanta secondi il nostro giovanotto aveva deciso che dopotutto poteva
accontentarla. Va però aggiunto che l'intera vicenda continuò a fargli ballare il mondo davanti, a sembrargli fittizia e
fantasmagorica; cosicché, al paragone, suonò confortevolmente reale la voce di Millicent che, dopo avere spostato gli
occhi dall'uno all'altro, esclamò: «Va bene tutto, ma chi si occuperà di me?» Caduta la maschera di sussiego, erompeva
il grido della natura.
Nulla avrebbe potuto essere più elegante e affettuoso del modo in cui il capitano Sholto la rassicurò: «Mia cara
signorina, le pare che io potrei dimenticarmi di lei? Speravo che una volta accompagnato il nostro amico e fatte le
presentazioni, lei mi permettesse di tornare qui e prenderne il posto, in sua assenza.»
Hyacinth era molto preoccupato al pensiero d'incontrarsi con la donna più interessante d'Europa, ma a questo
punto guardò Millicent Henning con una certa curiosità. Lei si mostrò all'altezza della situazione. «Le sono
obbligatissima, ma non so ancora chi sia.»
«Oh, le dirò tutto!» esclamò con benevolenza il capitano.
«Avrei dovuto presentarvi,» s'intromise Hyacinth, e disse a Miss Henning il nome del suo illustre conoscente.
«Dell'esercito?» chiese la signorina, come se volesse essere sicura della sua classificazione.
«Sì... non di marina! Ho lasciato l'esercito, ma ti rimane sempre appiccicato addosso.»
«Signor Robinson, avete forse intenzione di lasciarmi?» chiese Millicent con la più grande compitezza.
La fantasia di Hyacinth era così sfrenatamente sguinzagliata da far dileguare ogni pensiero sui doveri verso la
fanciulla che gli si era affidata per quella sera. Le parole della ragazza lo richiamarono rapidamente alle sue
responsabilità; e tuttavia c'era qualcosa nel tono con cui le aveva pronunciate che gliela fecero osservare ancora più
intensamente mentre replicava: «Oh, cara, no... naturalmente. Rimanderò a un'altra occasione l'onore di conoscere la
vostra amica,» aggiunse, rivolto al visitatore.
«Ah, ma caro amico, tutto si può sistemare facilmente,» mormorò il signore con evidente disappunto. «Non
sarà mai che la signorina... la signorina... rimanga sola.»
A Hyacinth balenò per un attimo l'idea che alla radice di tutto ci fosse il desiderio del capitano Sholto di
entrare nelle buone grazie di Millicent; poi si chiese perché la donna più interessante d'Europa avrebbe dovuto prestarsi
a quel gioco, adattandosi a ricevere la visita di un piccolo rilegatore soltanto per assecondarlo. Forse non era poi tanto
interessante, ma, anche in quel caso, a lei cosa gliene sarebbe venuto? Con grande sorpresa di Hyacinth sul viso di
Millicent si disegnò un sentimento di comprensione per la sua rinuncia, mentre, volgendosi al capitano Sholto, gli
chiedeva con riflessiva imparzialità: «Si potrebbe sapere il nome della signora che vi manda?»
«La principessa Casamassima.»
«Diomio!» gridò Millicent Henning, e subito, per riparare il più possibile alla volgarità commessa: «E si
potrebbe sapere di che cosa vuole parlargli?»
«Delle classi inferiori, della nascente democrazia, della diffusione delle idee e di tutto il resto.»
«Le classi inferiori? Pensa forse che noi ne facciamo parte?» chiese la ragazza con una strana risata
provocante.
Senza dubbio il capitano Sholto era l'uomo più pronto del mondo: «Se vi vedesse, vi riterrebbe una delle
signore più in vista del paese.»
«Non mi vedrà mai!» rispose Millicent in modo da far capire che lei, almeno, non era una che si lasciava
chiamare con un fischio.
Farsi chiamare con un fischio da una principessa corrispondeva, per Hyacinth, a una di quelle umiliazioni
sopportate generalmente con buona grazia dagli eroi dei romanzi francesi di cui si dilettava. Ma nonostante questo, al
capitano che indugiava incombente come un Mefistofele convertito a una imperscrutabile causa benefica, disse, con
l'aria di chi non si lascia corrompere: «Voi che siete stato nell'esercito, sapete bene che non si deve abbandonare mai il
proprio posto.»
Per la terza volta il capitano posò una mano sulla spalla del suo giovane amico, e per un attimo il suo sorriso si
fermò in silenzio sopra Millicent Henning. «Se ti dicessi semplicemente che desidero intrattenermi con la signorina non
ne ricaverei nulla: quindi ti dirò tutta la verità: voglio parlare di te con lei!» E, con un colpetto affettuoso a Hyacinth, gli
significò che quell'idea non poteva non renderlo gradito alla compagna del giovanotto, e nello stesso tempo quanto egli
stesso gli fosse bene accetto.
Hyacinth si era reso conto della manovra affettuosa, ma rassicurò Millicent che avrebbe fatto quello che lei
desiderava. Aveva deciso che nessun membro dell'aristocrazia, giustamente destinata a soccombere, avrebbe mai
dovuto pensare che egli tenesse in poco conto una figlia del popolo. «Per me vai pure,» disse Miss Henning. «Sbrigati...
sta per alzarsi il sipario.»
«Molto carino da parte sua! La raggiungerò fra tre minuti!» esclamò il capitano Sholto.
Fece scivolare una mano sotto il braccio di Hyacinth, e mentre il nostro eroe indugiava, un poco a disagio e
guardando interrogativamente Millicent, questa rispose, con la sua vivace franchezza: «Questa Principessa... Spero che
mi racconterai tutto di lei.»
«Oh, penserò io a parlargliene,» rispose il capitano perfettamente a suo agio, mentre portava via il giovanotto.
Va detto che anche Hyacinth si domandava che razza di principessa fosse, e l'attesa dell'incontro gli fece battere il
cuore, fin quando, dopo ripide scale e corridoi tortuosi raggiunsero la porticina del palco di proscenio.

II

La prima cosa che lo colpì, dopo che il suo amico ebbe aperta la porta, fu la vicinanza della scena, sulla quale
si era già alzato il sipario. La commedia era in atto, le voci degli attori penetravano nel palco ed era impossibile parlare
senza disturbarli. Questa almeno fu la sua interpretazione del modo silenzioso in cui il suo accompagnatore lo spinse
dentro e, senza annunciarlo o presentarlo, semplicemente gli indicò una sedia bisbigliando: «Siediti lì; vedrai e sentirai
magnificamente bene.» Sentì la porta che si chiudeva alle spalle e capì che il capitano Sholto se ne era andato. Almeno
Millicent non sarebbe rimasta sola troppo a lungo. Due signore erano sedute nella parte anteriore del palco, così grande
che lo spazio rimasto fra loro era ancora considerevole; mentre stava lì in piedi, dove lo aveva lasciato il capitano
Sholto - sembrava che non si fossero accorte della porta che si era aperta - si voltarono e lo guardarono. I suoi occhi si
posarono dapprima su quella strana persona già intravista da lontano; da vicino, appariva ancora più strana, e gli fece un
piccolo cenno cordiale col capo. L'altra era in parte nascosta dalla tenda del palco, tirata apposta per ripararla dagli
occhi curiosi del pubblico; aveva un'aria giovanile e il modo più semplice per definire l'effetto immediato che
l'accogliente espressione del bel volto produsse su Hyacinth è dire che lo stordì. Rimase lì come lo aveva lasciato
Sholto, un poco confuso e rigido, finché la più giovane delle due dame gli tese la mano - la sinistra, l'altra rimase
appoggiata alla balaustra del palco - in attesa, cosa che con estrema mortificazione capì, ahimè troppo tardi, che lui le
porgesse la sua. Mutò il gesto in un cenno d'invito, e gl'indicò in silenzio, ma con grazia, di spostare in avanti la sua
sedia. Egli eseguì l'ordine, e prese posto fra loro; poi, per una decina di minuti, fissò il palcoscenico, senza voltare gli
occhi neppure quel tanto da poter vedere Millicent, in balconata. Guardava lo spettacolo, senza vedere nulla; non
sentiva altro che la presenza della donna seduta lì, vicino a lui, alla sua destra, così fragrante e luminosa che gli pareva
di vederla, pur con la testa voltata. Era stata la visione di un istante, e pure continuava a rimanergli davanti, velando di
una foschia bianca quanto accadeva sulla scena. Sapeva di essere imbarazzato, sconvolto, stralunato: fece un enorme
sforzo per riprendersi e analizzare lucidamente la situazione. Si chiedeva se fosse il caso di dire qualcosa, di guardarla
ancora, di assumere un qualche atteggiamento; se lei lo considerasse un pagliaccio, uno scemo; se fosse veramente
bella, o se il suo fosse soltanto uno di quei fascini superficiali che a una seconda occhiata sarebbe svanito. Mentre era
immerso in questi pensieri passarono alcuni minuti e nessuna delle due signore parlò; guardavano lo spettacolo
perfettamente immobili, e lui ne dedusse che era quella la cosa giusta da fare e che anche lui doveva rimanere muto
finché non gli si rivolgesse la parola. A poco a poco si riprese, rientrò in possesso delle sue facoltà, e spostò gli occhi
sulla Principessa. Lei se ne accorse immediatamente e ricambiò l'occhiata con uno sguardo attento e gentile. Era
inequivocabilmente una principessa: non avrebbe potuto aderire maggiormente all'idea che quella parola romantica
evoca. Era bionda, luminosa, sottile, naturalmente maestosa. La sua bellezza era qualcosa di perfetto; stupiva ed
esaltava; poterla guardare, sembrava già un privilegio, una ricompensa. Se la prima impressione di Hyacinth era stata di
esaltazione, non dipendeva dalla sua ingenuità, era esattamente l'effetto che la principessa Casamassima produceva
anche sulle persone di più consumata esperienza e più esigenti. I suoi occhi scuri, azzurri o grigi - certamente non
marroni - erano dolci e splendidi, e vi era una straordinaria nobiltà nel portamento del suo capo. Quel capo, dove due o
tre stelle di brillanti rilucevano tra i folti capelli delicati che ne definivano la forma, faceva pensare a qualcosa di antico
e di illustre, qualcosa che Hyacinth aveva ammirato da sempre - il ricordo era vago - in una statua, in un quadro, in un
museo. La purezza delle linee e dei volumi delle gote, del mento, del labbro e della fronte, un incarnato che sembrava
pulsare e risplendere, un irradiarsi di grazia, maestà, successo: di tutte queste cose era improntato trionfalmente il volto
della Principessa, e il suo ospite, appoggiandosi tremante alla sedia sotto l'emozione della scoperta, si chiedeva se fosse
composto della stessa materia di cui era plasmata quell'umanità fino allora conosciuta. Tuttavia, quell'essere che
appariva divino, si mostrava indubbiamente sensibile alle necessità umane, desiderosa di vederlo a suo agio, contento;
nella sua benevolenza aleggiava una specie di intimità, come se lo avesse già visto molte altre volte. Indossava un
sontuoso abito scuro, perle al collo, e reggeva in mano un antico ventaglio rococò. Egli osservò tutto e concluse infine
che anche se non avesse voluto altro da lui, sarebbe stato ugualmente contento, avrebbe voluto continuare così, tanto gli
piaceva starsene lì, con quelle belle signore, racchiuso in uno spazio buio e confortevole che sembrava delimitare la
luminosità della scena e dava l'illusione di far parte di una commedia nella commedia. L'atto era lungo, e lo stato di
abbandono nel quale le sue compagne lo avevano lasciato poteva essere una questione di calcolata bontà, che gli
avrebbe dato tempo di abituarsi a loro, di capire quanto fossero innocue. Dopo un poco guardò Millicent, e vide che il
capitano Sholto seduto vicino a lei non condivideva quel concetto delle buone maniere, dato che le rivolgeva la parola
ogni cinque minuti. Come lui, anche la giovinetta della balconata stava perdendo il filo della commedia, per tenere gli
occhi fissi sul suo amico di Lomax Place che controllava benissimo dal suo posto. Egli aveva completamente
dimenticato le complicazioni paraguayane: dopo mezz'ora avrebbe potuto occuparsene di nuovo, se non fosse
subentrato il pensiero di quello che la Principessa avrebbe potuto dirgli al calare del sipario - o che non avrebbe detto
affatto. Il quesito angoscioso, ora che la soluzione si avvicinava, lo mise di nuovo in agitazione. Guardò la vecchia
signora alla sua sinistra, e pensò essere normale che una principessa avesse una dama di compagnia - dava per scontato
che fosse una dama di compagnia - il più diversa possibile da sé.
Questa anziana signora era priva di qualsiasi regalità e grazia tutta rannicchiata, con le mani incrociate sullo
stomaco e le labbra sporgenti, seguiva austeramente lo spettacolo. Tuttavia voltò spesso il capo verso Hyacinth, e allora
la sua espressione mutava; ripetendo quel cenno del capo gioviale, incoraggiante, quasi materno, sembrava volergli dire
che comprendeva pienamente l'anomalia della sua situazione meglio di quanto potesse la serena beltà del lato opposto.
Era come se lo esortasse a non perdere la testa, a fare comunque affidamento sulla sua presenza, se fosse accaduto il
peggio. Quando finalmente calò il sipario, passarono alcuni istanti prima che la Principessa parlasse, mentre il suo
sorriso sembrava scrutare l'ospite come a indovinare quello che più di ogni altra cosa egli avrebbe voluto sentirsi dire.
In quel momento sarebbe stato possibile capire ciò che doveva poi scoprire in un secondo tempo, che tra i difetti cioè di
questa signora (e doveva scoprirne molti) il timore esagerato del luogo comune non era il meno accentuato. Si aspettava
qualche commento sulla commedia, ma quello che disse, con estrema amabilità e gentilezza fu: «Mi piace conoscere
ogni genere di persone.»
«Sono certo che non incontrerà alcuna difficoltà,» rispose Hyacinth.
«Oh, quando si desidera troppo una cosa, diventa difficile. Non tutti sono compiacenti come voi.»
Hyacinth non riuscì a trovare, lì per lì, una risposta adatta, ma la vecchia signora gliene tolse la pena,
esclamando con accento straniero: «Siete stato molto cortese; non credevo che sareste venuto... da due persone così
strane.»
«Sì, siamo infatti due strane persone,» disse la Principessa divertita.
«Non è affatto vero che la Principessa incontri qualche difficoltà: fa sempre fare a tutti quello che vuole,»
continuò la sua compagna.
La Principessa le lanciò un'occhiata, e poi disse a Hyacinth: «Si chiama Madame Grandoni.» Il tono non era
troppo confidenziale, ma aveva un timbro allegro, come se trovasse giusto intrattenerlo, a loro spese, visto il disturbo
che si era dato. Sembrava anche implicare che Madame Grandoni era fatta apposta per procurare questo spasso.
«Ma non sono italiana... ah no!» urlò la vecchia signora. «Nonostante il nome, sono una onesta, brutta,
sfortunata tedesca. Ma cela n'a pas d'importance. Anche lei, con un nome simile, non è italiana. È un caso; il mondo è
pieno di casi. Ma non è neppure tedesca, poverina.» Sembrava che Madame Grandoni tenesse gioco alla Principessa, e
Hyacinth la trovò estremamente buffa. Dopo poco, lei aggiunse: «È affascinante la persona con cui eravate.»
«Sì, molto affascinante,» rispose Hyacinth, affatto dispiaciuto di aver avuto modo di dirlo.
La Principessa non disse nulla, e Hyacinth capì che dal posto che occupava nel palco non poteva aver visto
Millicent, ma che comunque non avrebbe mai raccolto una simile allusione. Come se nulla fosse, domandò: «Vi sembra
interessante la commedia?»
Esitò, poi disse la verità: «Devo confessare che ho perso completamente il filo di quest'ultimo atto.»
«Ah, povero ragazzo molestato!» gridò Madame Grandoni. «Lo vedi... Lo vedi?»
«Che c'è da vedere?» chiese la Principessa. «Se siete seccato di trovarvi qui, ora, ci troverete di vostro
gradimento più tardi, almeno credo. Siamo interessate alle stesse cose che interessano voi. Ci interessiamo molto al
popolo,» continuò la Principessa.
«Oh, un momento, un momento. Parla per te!» la interruppe la vecchia signora. «A me non interessa affatto il
popolo, non lo capisco e non lo conosco. Un animo nobile, di qualsiasi classe sociale sia, quello, lo rispetto; ma non
simulerò mai un amore per le masse ignoranti, dal momento che non lo provo. Del resto, non è cosa che riguardi questo
signore.»
La principessa Casamassima aveva l'abilità di ignorare completamente tutto ciò che non intendeva prendere in
considerazione. Non assunse nessuna aria di superiorità, quanto di una pensosa, tranquilla, opportuna distrazione, e poi
tornò al punto che voleva. Non protestò per quanto aveva detto la sua compagna, ma disse a Hyacinth, quasi vagamente
consapevole di un certo suo assurdo impegno: «Abita con me; è tutto per me, è la migliore donna del mondo.»
«Sì, per fortuna, nonostante i miei tanti difettucci, sono buona come il pane,» ammise Madame Grandoni.
Pur sentendosi ormai meno imbarazzato di quando era arrivato, Hyacinth non era tuttavia meno confuso: si
domandò ancora una volta se per caso non ci si stesse servendo di lui per qualche scopo misterioso: tanto gli sembrava
strano che due persone di un mondo tanto diverso dal suo volessero, di propria iniziativa, prendersi la briga di dare
spiegazione l'una dell'altra a un infimo rilegatorello. A questo pensiero si sentiva avvampare: temette improvvisamente
di essere caduto in una trappola. Si rendeva conto di apparire spaventato e capì anche che la Principessa se ne era
accorta. Fu questo, forse, che le fece dire: «Se vi siete perso gran parte della commedia, dovrei forse raccontarvi quello
che è accaduto.»
«Pensi che a te presterebbe maggiore attenzione?» chiese Madame Grandoni.
«Se mi diceste... se mi diceste!» e Hyacinth si fermò. Avrebbe voluto dire: Se mi diceste che significa tutto ciò,
e che volete da me sarebbe forse più pertinente; ma le parole gli morirono sulle labbra e si mise a sedere con lo sguardo
fisso perché la donna alla sua destra era davvero troppo bella. Era troppo bella per chiederle qualunque cosa, e per
giudicarla secondo una logica comune; e come avrebbe mai potuto sapere quello che era naturale per una persona
avvolta da tanta grazia e splendore? Forse era nelle sue abitudini mandare a chiamare ogni sera, qualche insulso
estraneo che la divertisse; forse così viveva l'aristocrazia straniera. Nel suo viso era assente ogni traccia di durezza - per
il momento almeno: era illuminato soltanto da un sentimento di bontà, eppure sembrava penetrare ciò che gli stava
passando per la mente. Lei non si provò nemmeno a rassicurarlo ma c'era tutto un mondo di tenerezza nel modo in cui
gli disse: «Sapete che credo di essermi già dimenticata cosa è successo...? È una storia complicatissima; qualcuno
veniva scaraventato giù da un precipizio.»
«Ah, siete proprio una bella coppia,» commentò Madame Grandoni, con una lunga, esperta risata. «Vi posso
raccontare io ogni cosa. La persona buttata giù nel precipizio era l'incorruttibile eroe e lo rivedremo nel prossimo atto,
più vivo che mai.»
«Non mi raccontate nulla. Ho tante domande da fare.» Hyacinth aveva voltato il capo in una muta protesta
quando si era sentito paragonare alla Principessa, e ora sentiva che lei lo stava osservando. «Cosa ne pensate del
capitano Sholto,» continuò lei all'improvviso, con suo grande stupore, se, nella situazione in cui si trovava, poteva
esserci ancora qualcosa che lo sorprendesse; e mentre lui esitava, non sapendo che dire, aggiunse: «Non è un tipo
singolare?»
«Lo conosco pochissimo.» Ma non appena ebbe pronunciato queste parole, si accorse che era una risposta assai
poco intelligente, anzi, sciocca e insulsa, e non certo tale da soddisfare la Principessa. Indubbiamente non aveva detto
ancora niente che potesse metterlo in buona luce, e così continuò, a casaccio: «Voglio dire che non l'ho mai incontrato a
casa sua.» La frase risuonò ancora più sciocca.
«A casa sua? Oh, ma lui non sta mai in casa. Viaggia per tutto il mondo. Stasera per esempio avrebbe potuto
trovarsi benissimo nel Paraguay - ma che posto, quello! - come qui. È quello che si dice un cosmopolita. Non so se
conoscete questa razza: molto moderna, sempre più comune, ed estremamente noiosa. Preferisco i cinesi. Mi ha
raccontato di aver avuto molti colloqui interessanti con voi. È per questo che gli ho detto: "Per favore, chiedetegli di
venire qui da me. Un po' di conversazione interessante, questa sì che sarebbe una bella novità.".»
«Grazie del complimento!» disse Madame Grandoni.
«Ah, mia cara, tu ed io, lo sai, non parliamo mai: ci capiamo benissimo lo stesso!» Poi la Principessa continuò,
rivolgendosi a Hyacinth: «Le donne non sono ammesse?»
«Ammesse?»
«In quelle sedute... come le chiamate?... quelle riunioni di cui il capitano Sholto mi ha parlato. Mi piacerebbe
tanto parteciparvi. E perché no, poi?»
«Non vi ho mai visto delle signore,» disse Hyacinth. «Non so se sia il regolamento, certo è che vi ho incontrato
soltanto uomini,» sorrise, anche se quella assenza gli sembrava seria, e non riusciva a capire quale fosse il gioco del
capitano Sholto, né, vista la compagnia che frequentava, come fosse riuscito a farsi ammettere nel piccolo circolo
sovversivo di Bloomsbury. «Sapete, non mi pare che dovrebbe andare in giro a raccontare i fatti nostri,» aggiunse.
«Capisco. Forse lo credete una spia, un agent provocateur o qualcosa di simile.»
«No,» disse Hyacinth dopo una pausa. «Penso che una spia sarebbe più cauta... si maschererebbe meglio. E
inoltre ha udito ben poco.» Parlava in tono leggermente divertito.
«Volete dire che non è al corrente dei retroscena?» chiese la Principessa piegandosi un poco in avanti e
avvolgendo il giovanotto con lo sguardo dei suoi begli occhi profondi, come se ormai fosse già abituato a lei e non
potesse più turbarsi di fronte a tanto interesse. «Certo che no,» seguitò tra sé, «e non li conoscerà mai. Lo sa bene, ed è
per questo che è al di là delle sue possibilità rivelare veri segreti. Quello che mi ha raccontato è interessante, ma
naturalmente mi ero accorta che non si trattava di cose tali che le autorità ignorassero. Era stata soprattutto la
conversazione con voi ad averlo colpito profondamente, come vi ho detto, e anch'io ne sono rimasta impressionata.
Forse non sospettate neppure il quadro che ha fatto di voi.»
«Non mi sembra molto difficile,» disse Hyacinth con perfetto candore, ricordandosi che a Bloomsbury aveva
parlato con grande veemenza e aveva trovato del tutto normale che il suo cordiale amico gli avesse offerto dei sigari e
avesse dato importanza alle teorie di un giovane artigiano intelligente e originale.
«Non ne sono molto sicura! Comunque voglio dirvi che non dovete avere alcun timore per quel che riguarda il
capitano Sholto. È onestissimo e se anche vi foste confidato con lui più di quanto evidentemente avete fatto, sarebbe
incapace di tradirvi. Tuttavia non vi fidate: non perché non sia una persona sicura, ma perché...» Si riprese. «Non
importa. Ve ne accorgerete da solo. Si è interessato di quelle questioni solo per farmi piacere. Perché possiate capire,
sarà meglio che vi dica che farebbe qualsiasi cosa per me. Ma sono affari suoi. Io volevo sapere, imparare, indagare su
quello che stava accadendo; e per una donna questo è molto difficile, specialmente una donna della mia posizione,
conosciuta fino alla nausea e alla quale si attribuisce sempre qualche fine maligno. Così Sholto si è impegnato ad
informarsi per me. Poveretto; ha dovuto indagare su tanti fatti! Quello che volevo, in particolare, era che facesse
amicizia con qualcuno dei capi, con qualche tipo veramente rappresentativo.» La Principessa parlava con voce bassa e
profonda, e tuttavia il tono era perfettamente naturale e semplice, e suggeriva cose meravigliose e affascinanti quali lui
non poteva neppure immaginare. Si esprimeva infatti in un modo completamente nuovo per il suo interlocutore; e la
pronuncia delle parole, come la costruzione delle frasi, rispondevano esattamente alle prerogative da lui attribuite alle
persone dell'alta società - quella Società che era deciso a distruggere.
«Non è possibile che il capitano Sholto mi ritenga uno dei capi!» esclamò, deciso a non farsi prendere in giro.
«Mi ha detto che eravate una persona molto originale.»
«Ma non mi conosce, e - se mi permettete di dirlo - credo che neanche voi mi conosciate. Come potreste? Sono
uno qualsiasi delle tante migliaia di giovanotti della mia classe sociale - immagino che sappiate quale sia - nel cui
cervello stanno fermentando certe idee. Non c'è nulla di originale in me. Sono giovane e molto ignorante; è solo da
pochi mesi che ho cominciato a parlare della possibilità di una rivoluzione sociale con uomini che ci avevano pensato
molto prima di me. Non sono che una particella,» concluse Hyacinth, «nella grigia immensità del popolo. Tutto quello
che ho da offrire è la mia buona fede e un gran desiderio che sia fatta giustizia.»
La Principessa lo ascoltava attentamente, e il suo atteggiamento gli fece sentire come, rispetto a lei, egli si
esprimesse da persona poco usa a conversare: gli sembrò di stare facendo sforzi ridicoli, di balbettare ed emettere suoni
volgari. Per un po' lei non disse nulla, lo guardava soltanto col suo impagabile sorriso: «Vi sto forzando ad aprirvi!»
esclamò finalmente. «Siete molto più interessante, per me, che se foste un essere eccezionale.» Queste parole turbarono
Hyacinth che tradì la sua emozione abbassando gli occhi. Sappiamo bene quello che pensava della sua appartenenza al
gregge comune. Senza dubbio la Principessa comprese, perché aggiunse subito: «Allo stesso tempo, vedo bene che siete
una persona notevole.»
«Notevole in che senso?»
«Beh, avete grandi idee.»
«Tutti ne hanno, al giorno d'oggi. A Bloomsbury in massimo grado. Ho un amico (che capisce tutta questa
faccenda molto meglio di me) che non le sopporta: secondo lui sono una follia, un pericolo, una calamità. Poche idee,
particolarissime purché siano giuste - è quello che ci vuole.»
«Chi è questo vostro amico?» chiese improvvisamente la Principessa.
«Ah, Cristina, Cristina!» mormorò Madame Grandoni dall'altro lato del palco.
Cristina non la degnò d'uno sguardo, e Hyacinth, che non aveva afferrato il rimprovero e sapeva solo che le
donne personalizzano sempre tutto, replicò: «Un giovanotto che abita a Camberwell e lavora per una grande ditta
farmaceutica.»
Se nella descrizione del suo amico aveva intenzionalmente calcato la mano quasi a sfidare i limiti della
sopportabilità della sua compagna, si era sbagliato di grosso. Lei sembrò contemplare intenerita l'immagine che le
parole di lui avevano evocato, e chiese subito se il giovane fosse anche lui intelligente e che probabilità aveva
d'incontrarlo. Il capitano Sholto non lo aveva mai visto? E in tal caso, perché non le aveva parlato anche di lui? Alla
risposta di Hyacinth che probabilmente il capitano Sholto lo aveva visto ma forse senza parlarci, la Principessa, con
sorprendente spigliatezza, gli chiese se non volesse condurre da lei, un giorno, la persona così vivacemente descritta.
Hyacinth lanciò uno sguardo a Madame Grandoni, ma quella degnissima donna era intenta ad esaminare il
teatro con un vecchio occhialino fuori moda, dal lungo manico dorato. Fin dai primi contatti si era reso conto che la
principessa Casamassima non amava le frasi artificiose, e ora intuì felicemente che, anche se ne avesse avuto il
desiderio, sarebbe stato fuori luogo mettersi a far complimenti con quella signora. «Non so se sarà disposto a venire. In
casi simili, è uno uomo imprevedibile.»
«Ragione di più per volerlo conoscere. Ma in tutti i casi, voi verrete, vero?»
Il povero Hyacinth balbettò qualcosa sull'inaspettato onore; dopotutto, aveva una ereditarietà francese, e non
gli riusciva facile adeguarsi alla goffaggine che la quotidianità della sua lingua abituale sembrava imporgli. Ma
Madame Grandoni, posando la lente, quasi gli tolse la parola di bocca, esortandolo allegramente: «Andate a trovarla...
andateci un paio di volte. Vi tratterà come un angelo.»
«Mi dovete trovare molto strana,» disse malinconicamente la Principessa.
«Non so cosa pensare. Mi ci vorrà del tempo.»
«Vorrei potervi ispirare confidenza, vorrei che vi fidaste di me,» continuò. «Non dico soltanto voi,
personalmente, ma anche tutti gli altri che la pensano come voi. Vi accorgereste che sono pronta a seguirvi molto
lontano. Proprio ora stavo parlandovi del capitano Sholto; ma chi mai potrà farsi garante per me?» E la sua tristezza si
mescolò ad un sorriso che a Hyacinth parve indescrivibilmente magnanimo e commovente.
«Non certo io, mia cara, te io assicuro!» esclamò la sua vecchissima amica, prorompendo in una risata che fece
voltare verso il palco gli spettatori della platea.
Contagiato da quella vivacità, Hyacinth trovò il coraggio di dire: «Io mi fiderò di voi, se voi farete lo stesso!»
ma un attimo dopo si rese conto che queste parole suonavano più confidenziali di una dichiarazione di sfiducia.
«Gira e rigira la cosa è sempre la stessa,» disse la Principessa. «La mia compagna non si farebbe vedere in
pubblico insieme a me se non fossi una persona rispettabile. Se ne sapeste di più sul mio conto, capireste che cosa ha
sollecitato la mia attenzione verso la grande questione sociale. È una storia complessa, e i particolari non
v'interesserebbero; ma forse un giorno, quando avremo parlato più a lungo, potrete mettervi al mio posto. Sono
serissima, sapete - non mi sto divertendo a curiosare. Sono convinta che viviamo nel paradiso degli illusi, e che la terra
ci si muove sotto i piedi.»
«Non è la terra che si muove mia cara; sei tu che stai facendo le capriole» s'intromise Madame Grandoni.
«Ah, tu, amica mia, hai la fortuna di credere solo a quello che ti fa comodo. Io credo solo a ciò che vedo.»
«Vuole gettarsi nella rivoluzione, guidarla, illuminarla,» disse Madame Grandoni rivolgendosi a Hyacinth e
parlando, ora, con imperturbabile solennità.
«Sono convinto che potrebbe guidarla in qualunque direzione le piacesse!» rispose il giovanotto, incantato. La
dignità sublime, purissima, con cui la Principessa aveva parlato e che sembrava celare un fremito di contenuta passione
gli fece tremare i polsi, e nonostante il significato di quelle parole gli riuscisse abbastanza oscuro - le sue aspirazioni
sembravano essere ancora piuttosto vaghe - il tono, la voce, lo splendido viso indicavano un animo generoso.
Lei ricambiò la sua appassionata dichiarazione con un sorriso serio e un melanconico scrollare del capo. «Non
pretendo tanto, e la mia buona amica si sta facendo gioco di me. Naturalmente è più che logico: cosa c'è infatti di più
assurdo per una donna che abbia un titolo, gioielli, carrozza, servi e una posizione sociale, come comunemente si
chiama, che simpatizzare con la lotta per il miglioramento delle classi inferiori? "Rinunciate a tutto e vi seguiremo,"
potreste giustamente dirmi. E sono pronta infatti a rinunciare a tutto, ma soltanto quando sarà utile alla causa; vi
assicuro, è la difficoltà minore. Non voglio sdottorare, voglio imparare; e soprattutto sapere à quoi m'en tenir. Siamo
alla vigilia di grandi mutamenti o non lo siamo? E tutte queste forze che si stanno raccogliendo clandestinamente,
nell'ombra, di notte, in piccole camere segrete, celate allo sguardo dei governi dei poliziotti, di ottusi "statisti" - che Dio
li perdoni! - tutto questo è forse destinato, una bella mattina, ad esplodere e a incendiare il mondo? O si risolverà invece
in un fuocherello subito soffocato da cospirazioni oziose, sterili eroismi, aborti di movimenti rimasti isolati? Voglio
sapere à quoi m'en tenir,» ripetè, fissando il suo visitatore con occhi ancor più luminosi, quasi che lui potesse darle una
risposta lì per lì. Poi, con tono diverso, aggiunse: «Scusatemi, ho l'impressione che conosciate il francese. Mi pare che
me lo abbia detto il capitano Sholto.»
«Lo conosco un po',» rispose Hyacinth. «Ho sangue francese nelle vene.»
Lo osservò come se le avesse sottoposto un problema. «Sì, vedo bene che non siete le premier venu. Allora, il
vostro amico, quello di cui mi avete parlato, è un chimico; e voi... di che vi occupate voi?»
«Sono soltanto un rilegatore.»
«Deve essere delizioso. Mi rileghereste alcuni libri?»
«Dovreste portarli a bottega, e lì posso fare soltanto il lavoro che mi viene assegnato. Potrei però cavarmela da
solo a casa,» la rassicurò Hyacinth.
«Lo preferirei. E cos'è che chiamate casa?»
«Il luogo dove abito, a nord di Londra; una stradina di cui certo non avete mai sentito parlare.»
«Come si chiama?»
«Lomax Place, per servirvi,» rise.
Lei sembrò rispecchiare la sua innocente allegria: non temeva affatto di mostrargli quanto le piacesse. «Non
credo infatti di averla mai sentita. Ma non conosco bene Londra: non vi ho vissuto a lungo. Ho passato la maggior parte
della vita all'estero - mio marito è uno straniero, dell'Italia meridionale. Non viviamo sempre insieme. Non ho
assimilato i modi del vostro paese - né di nessuna società, non è vero? Oh, questo paese - ci sarebbe tanto da dire e tanto
da fare come voi, naturalmente, sapete meglio di ogni altro. Ma voglio imparare a conoscere Londra; m'interessa più di
quanto riesca a dire; questa immensa, popolosa, fumosa, umana città. Intendo la vera Londra; la gente, con tutte le sue
sofferenze e le sue passioni; non Park Lane e Bond Street. Forse voi potreste aiutarmi, mi fareste un vero regalo; è per
questo che desidero conoscere uomini come voi. Vedete, non è così, per capriccio, che vi ho importunato, stasera.»
«Sarò felice di mostrarvi tutto quello che conosco. Ma non è molto, e, soprattutto, non è molto gradevole,»
disse Hyacinth.
«Con chi abitate, a Lomax Place?» chiese, un po' vezzosamente, come per farsi perdonare la domanda.
«Il capitano Sholto si sta congedando dalla signorina, sta tornando qui,» annunciò Madame Grandoni mentre
ispezionava la balconata col suo occhialino. Da qualche minuto l'orchestra aveva cominciato a suonare l'ouverture
dell'atto successivo.
Hyacinth aveva avuto un attimo di esitazione: «Abito con una sarta.»
«Con una sarta? Intendete... intendete?» ma la Principessa si arrestò.
«Volete dire vostra moglie?» chiese con più coraggio Madame Grandoni.
«Forse vi affitta delle camere?» suggerì la Principessa.
«E quante credete che ne abbia? Mi dà tutto, o per lo meno, lo ha fatto fino ad ora. Mi ha allevato; è la migliore
creatura del mondo.»
«Faresti bene a ordinarti un vestito da lei,» buttò là Madame Grandoni.
«E i vostri, dove sono?» continuò la Principessa.
«Non ho famiglia.»
«Proprio nessuno?»
«Proprio nessuno. Né l'ho mai avuta.»
«Ma il sangue francese di cui avete parlato, perfettamente riconoscibile nei vostri lineamenti - non avete affatto
la fisionomia inglese o meglio quell'assenza di espressione tipicamente inglese - quello, deve pure esservi venuto da
qualcuno.»
«Sì, da mia madre.»
«Ed è morta?»
«Da tanto.»
«Una grossa perdita, perché le madri francesi, in genere sono tutto per i loro figli.» La Principessa guardò il
ventaglio dipinto che continuava ad aprire e chiudere, e poi disse: «Un giorno dovete venire da me: ci metteremo
d'accordo.» Hyacinth capì che la sola risposta da dare era d'inchinarsi silenziosamente in tutta la sua lunghezza, e si alzò
dalla sedia. Mentre rimaneva in piedi, consapevole di essersi fermato abbastanza, e allo stesso tempo ignaro di come
fare a ritirarsi, la Principessa, posato il ventaglio chiuso sopra un ginocchio e tenendone l'impugnatura serrata fra le
mani, alzò verso di lui i suoi strani, bellissimi occhi, e disse: «Pensate che succederà presto qualcosa?»
«Qualcosa?»
«Che ci sarà una crisi, che vi farete sentire?»
Notò stupito che sul volto della bellissima donna si dipingeva un'espressione ad un tempo invitante, tentatrice,
irridente, che lo spinse a dire, un poco goffamente: «Farò in modo d'informarmi...» come se gli avesse chiesto se la sua
carrozza fosse alla porta.
«Non ho idea di che cosa stiate parlando, ma per carità non seguitate così per un altro paio d'ore. Voglio vedere
cosa accade alla Perla,» s'intromise Madame Grandoni.
«Ricordatevi di ciò che ho detto: rinuncerei a tutto... a tutto,» e la Principessa continuò a guardarlo. Poi gli tese
la mano, ma questa volta egli sapeva ciò che doveva fare.
Quando augurò la buona notte a Madame Grandoni, la vecchia signora gli bisbigliò con un sorriso vagamente
comico: «Eh sì, è una donna rispettabile!» E fuori nell'atrio, dopo che ebbe chiuso dietro di sé la porta del palco, si
sorprese a rievocare queste parole e a ripetere meccanicamente: «È una donna rispettabile!» Erano ancora sulle sue
labbra quando si trovò faccia a faccia col capitano Sholto che di nuovo gli afferrò le spalle e lo scrollò nel modo
confidenziale e accattivante che sembrava essere la specialità di quell'ufficiale.
«Mio caro sei proprio nato sotto una buona stella.»
«Non l'avrei mai detto,» disse Hyacinth cambiando colore.
«Ma come, che cos'altro vuoi? Hai il dono, il dono prezioso di suscitare l'interesse delle donne... e che
interesse!»
«Sì, andatelo a chiedere alle signore del palco! Mi sono comportato in modo balordo,» dichiarò Hyacinth,
sopraffatto, ora, dal rammarico di aver perso un'occasione unica.
«Non mi diranno certo questo. E la signorina di sopra, allora?»
«Beh,» disse Hyacinth serio. «E allora?»
«Non mi ha parlato che di te. Puoi immaginare il piacere che m'ha fatto.»
«Non fa piacere neanche a me. Ma devo salire.»
«Oh sì, sta contando i minuti. Che persona affascinante!» aggiunse il capitano Sholto. Mentre Hyacinth se ne
andava gli gridò dietro: «Non temere, andrai lontano.»
Quando il giovanotto riprese il suo posto nella balconata vicino a Millicent, lei non lo salutò né gli fece
domande sulla sua avventura nel settore più privilegiato del teatro. Voltò solo un attimo il suo bel viso verso di lui, ma
poiché neanche Hyacinth aveva voglia di avviare una conversazione, il silenzio continuò - continuò fin dopo che il
sipario si fu levato sull'ultimo atto della commedia. L'attenzione di Millicent però non era più assorbita da quanto
accadeva sul palcoscenico, e a metà d'una scena violenta, con colpi di pistole e urla selvagge, disse infine al suo
compagno: «Proprio un bel tipo, la tua Principessa, da quel che sento!»
«E si può sapere cos'è che sai di lei?»
«So quello che mi ha raccontato quel tale.»
«E sarebbe?»
«Beh, è un tipaccio come poche. Il marito ha dovuto perfino cacciarla di casa.»
Hyacinth si ricordò dell'accenno fatto dalla stessa signora alla propria situazione coniugale; avrebbe voluto
ugualmente rispondere a Miss Henning che non credeva a una sola parola, ma si trattenne, e dopo un istante, disse
semplicemente: «Beh, non me ne importa nulla.»
«Non te ne importa? A me sì, invece!» urlò Millicent, e poiché la rappresentazione in corso e la spasmodica
attenzione dei vicini rendevano impossibile mantenere la conversazione su quel tono, si accontentò di borbottare, in
tono più sommesso, dopo aver seguito l'azione per cinque minuti: «Cielo, che cumulo di insopportabili banalità!» E
Hyacinth si chiese se avesse mutuato l'espressione dal capitano Sholto.

III

Non disse nulla, né a Pinnie né al signor Vetch, che una gran dama si era interessata a lui; lo disse invece a
Paul Muniment, al quale ora confidava molte cose. All'inizio aveva provato un certo timore per questo amico nordico,
scanzonato e onesto, che mostrava di venerare la logica e la critica a tal punto da odiare ogni tipo di conversazione
leggera. Ma più tardi aveva scoperto che era un uomo al quale si poteva dire tutto, a patto di non aspettarsi compassione
più che comprensione. Come rivoluzionario era stranamente moderato e indulgente anche verso l'insulto. La vista di
tutte le cose che intendeva cambiare, evidentemente non aveva l'effetto di irritarlo, e se scherzava su quanto gli stava
particolarmente a cuore, lo faceva con un umorismo scevro da cattiveria - il difetto che Hyacinth a volte gli riscontrava
era caso mai di essere innocente come un fanciullo. Il nostro eroe gli invidiava la capacità di abbinare l'insofferenza per
la diffusa miseria del genere umano alla tipica giovialità dell'onesto lavoratore che la domenica si mette la sua camicia
pulita, e non avendo dissipato la paga settimanale la sera prima, soppesa alternativamente le attrattive dell'Epping Forest
e di Gravesend per trascorrere una lieta giornata. Non parlava mai con acredine dei suoi fatti personali e della sua vita
quotidiana; sembrava che non gli fosse mai venuto in mente che, ad esempio, fosse la «società» la vera responsabile
dello stato della colonna vertebrale di sua sorella, anche se Eustache Poupin e sua moglie (pur essendo anche loro
altrettanto pazienti) avevano fatto di tutto per farglielo ammettere, ritenendo, evidentemente, che se ne sarebbe sentito
sollevato. All'apparenza non aveva interesse per le donne, ne parlava raramente e sempre in termini rispettosi, e non
aveva mai mostrato di avere una fidanzata, a meno che Lady Aurora Langrish non fosse da considerare tale. Non
beveva mai birra, né fumava la pipa; la sua voce era sempre chiara, le guance fresche e l'occhio imperturbabilmente
intelligente, e una volta suscitò in Hyacinth una specie di indulgenza da-fratello-maggiore per la gioia stupefatta e
l'espressione credula con cui in un luna park di Astley, dove i due si erano recati, aveva seguito lo scadente spettacolo di
una pantomima equestre. Una volta definì il giovane rilegatore un ardito furfantello e in quel caso l'opinione che
Hyacinth si era fatto di lui salì talmente che l'epiteto acquistò quasi il valore di un titolo nobiliare. Il nostro eroe aveva
riposto in lui una fede sconfinata; aveva sempre sognato una grande amicizia, e questa era la migliore occasione che gli
si fosse mai presentata. Nessuno avrebbe potuto vivere quel sentimento più nobilmente, più validamente di Hyacinth, né
avrebbe saputo coltivare con intelligenza maggiore quel particolare rapporto privato. Talvolta si dispiaceva che le sue
confidenze non fossero ricambiate con più slancio, e che su alcuni punti importanti del programma socialista Muniment
non si sbilanciasse e non mostrasse il fond du sac, come lo chiamava Eustache Poupin, ad un ammiratore così
appassionato. A certi specifici interrogativi, rispondeva talvolta con molta libertà, e non di rado faceva sussultare
Hyacinth come quando, a una domanda su quale fosse il suo punto di vista sulla pena capitale rispose che lungi
dall'augurarsene l'abolizione l'avrebbe estesa ulteriormente, applicandola anche a quelli che mentivano o si ubriacavano
per vizio; tuttavia il suo amico aveva la sensazione che si tenesse stretta la carta migliore e che perfino al circolo di
Bloomsbury, dove erano ammessi soltanto i migliori, covasse pensieri segreti che nessuno era degno di ricevere. Così,
lungi dal sospettare che il suo programma fosse limitato, Hyacinth era convinto che avesse in mente cose straordinarie;
che le stesse elaborando per approdare all'estrema conclusione, qualunque essa fosse; e che il giorno in cui si fosse
deciso a rivelarle, con la porta del club guardata a vista e il consesso dei soci vincolati da un tremendo giuramento, si
sarebbero guardati tutti l'un l'altro, col fiato mozzo e pallidi in volto.
«Vuole conoscerti; mi ha chiesto di portarti da lei; era serissima» diceva intanto il giovanotto raccontando la
sua avventura con la signora del palco; la quale avventura, tuttavia, ora che ci ripensava, gli sembrava strana come un
sogno e poco suscettibile di avere un seguito, nelle ore di veglia.
«Portarmi? portarmi dove?» chiese Muniment. «Parli come se fossi un campionario del tuo negozio, o un
cagnolino in vendita. Mi ha mai visto? Crede che sia più piccolo di te? Cosa ne sa lei di me?»
«Beh, prima di tutto che sei mio amico, e questo le basta.»
«Vuoi dire che a me dovrebbe bastare che lei sia amica tua? Ho idea che ne farai di strane amicizie, nella vita:
più di quante farò in tempo a conoscere. E come potrei andare a trovare una delicata creatura, con simili zampe?» disse
Muniment mostrando le dieci dita macchiate dal lavoro.
«Comprati un paio di guanti...» Hyacinth capiva che l'obiezione era sensata, ma poco dopo aggiunse: «No,
invece non lo devi fare per niente. Lei ama vedere mani sporche.»
«Allora, buon dio, non c'è problema! Non ha bisogno di chiamare me per questo. Ma sei sicuro che non si stia
prendendo gioco di te?»
«È possibile, ma non vedo cosa gliene potrebbe venire.»
«Non sei tenuto a trovare scuse per le classi privilegiate. Il loro enorme lusso non genera che guai, e voglie
spudorate; sono capacissimi di fare del male tanto per farlo. E poi, è sincera?»
«Se non lo fosse, dove andrebbe a finire la tua spiegazione?» chiese Hyacinth.
«Oh, non ha importanza. Di notte tutti i gatti sono bigi. Comunque sia, è una donna frivola, oziosa, piena di
fisime, forse perfino dissoluta.»
«Se la conoscessi, non parleresti così.»
«Dio mi salvi dal conoscerla, se deve corrompere anche me!»
«Allora pensi che mi corromperà?» chiese Hyacinth con un'espressione e un tono di voce tali da provocare
un'esplosione d'ilarità nel suo amico.
«Come potrebbe, quando sei già tutto un grumo di corruzione?»
«Non pensi che...?» E Hyacinth prese un'espressione seria.
«Vuoi dire che se lo pensassi seriamente non lo direi? Non hai notato? dico tutto quello che penso!»
«Non è vero, neppure la metà. Sei muto come un pesce.» Paul Muniment guardò l'amico, colpito sul vivo da
quelle parole; poi aggiunse: «Allora, se ti dicessi l'altra metà dell'opinione che ho di te, pensi che saresti contento?»
«Ti risparmio la fatica, sono un giovane intelligente, coscienzioso, che promette bene, e chiunque sarebbe fiero
di considerarsi mio amico.»
«È questo che ti ha raccontato la tua Principessa? Deve essere proprio un bel soggetto!» esclamò Paul. «Per
caso, non ti ha pulito le tasche, mentre parlavate?»
«Certo, dopo pochi attimi mi sono accorto che mi mancava il portasigari d'argento con lo stemma dei
Robinson. Ma a parte gli scherzi,» continuò Hyacinth «non credi possibile che una donna della sua razza voglia sapere
quello che succede fra gente come noi?»
«Dipende da che razza si tratta.»
«Beh, una donna carica di gioielli, magnifici, con un profumo meraviglioso e i modi di un angelo. Mi domando
se le signorine delle profumerie abbiano maniere simili, certo non hanno simili gioielli. È strano, lo so, questo suo
interesse, ma comprensibile. Perché poi non dovrebbero esistere persone altruiste e sentimenti disinteressati?»
«Così come esistono signore preoccupatissime dei loro gioielli e dell'effetto che fanno. Seriamente parlando,
come dici tu, è perfettamente comprensibile. Non mi stupisce minimamente che l'aristocrazia si preoccupi di sapere
cosa stiamo tramando e voglia darci un'occhiata. Al posto loro, mi sentirei molto a disagio, e se fossi una donna dai
modi angelici, molto probabilmente sarei anch'io ben contento di accaparrarmi un piccolo, tenero, sensibile rilegatore e
spremerlo ben bene, povera animuccia!»
«Hai paura che le racconti dei segreti?» urlò Hyacinth facendosi rosso dall'indignazione.
«Segreti? Che segreti potresti raccontarle, mio povero marmocchio?»
Hyacinth girò il capo dall'altra parte. «Non ti fidi di me. Non ti sei mai fidato.»
«Un giorno ci fideremo, non temere,» disse Muniment che chiaramente non aveva nessuna intenzione di essere
duro con Hyacinth, anzi gli sarebbe riuscito impossibile. «E quando lo faremo, piangerai dalla delusione.»
«Beh, tu certo non piangerai,» rispose Hyacinth. E poi chiese all'amico se secondo lui la principessa
Casamassima fosse una spia famigerata - avrebbe dovuto essere un demonio - e perché, in tal caso, non pensasse la
stessa cosa di Sholto, e bisognava credere che non lo pensasse dal momento che lo avevano ritenuto degno di entrare e
uscire a piacer suo dal circolo di Bloomsbury. Muniment non sapeva neanche di chi parlasse, non avendo mai avuto a
che fare con quel signore. Riuscì però a rammentarsene vagamente, dopo che il suo compagno gli ebbe descritto
l'aspetto del capitano. Allora, con il solito fare allegro, disse che non lo aveva preso per nient'altro che un imbecille; ma
anche se fosse riuscito a intrufolarsi fra loro con l'intenzione di tradirli, a quali elementi avrebbe potuto appigliarsi - che
cosa, di quanto aveva visto e udito, avrebbe potuto usare contro di loro? Se gli era venuto l'uzzolo di penetrare nei
circoli dei lavoratori (ora Paul si rammentava della prima sera che era venuto, portato da quello stipettaio tedesco che
aveva sempre il collo fasciato e fumava la pipa con un fornello grande come una stufa); se provava gusto ad infilarsi un
cappellaccio in testa e a fumare tabacco fetido e chiamare i propri «inferiori» «miei cari compagni», se pensava che così
si sarebbe fatto un'idea del popolo e gli sarebbe andato incontro a metà strada per trovarsi preparato a fronteggiare
quanto sarebbe accaduto: tutto questo era affar suo, e si accomodasse pure, per quanto doveva essere un bel pezzo di
sciocco chi preferiva passare una serata in un buco come quello quando poteva starsene comodo in uno di quei
maledetti club pieni di poltrone e di lacchè, nella Pall Mall. E poi, che ci trovava, a Bloomsbury? Niente altro che una
«riunione sociale» notevolmente stupida, con pipe di terracotta e un pavimento di terra battuta, insufficiente
riscaldamento e appena una metà dei giornali più importanti; e dove gli uomini, come tutti sapevano, erano radicali a
oltranza e, per la maggior parte, idioti a oltranza. Poteva tutt'al più lasciar andare qualche pacca sulla schiena e
informarli che la Camera dei Lord non sarebbe arrivata neanche all'estate, ma che rivelazioni sarebbero state? Era
semplicemente sullo stesso piano della principessa di Hyacinth: nervoso, impaurito, incalzato dalla necessità di rendersi
conto coi propri occhi di quanto stava succedendo.
«Oh, è tutt'altro tipo rispetto alla Principessa. Sono sicuro che non è sullo stesso piano!» obiettò Hyacinth.
«Diverso, senza dubbio: lei è una bella donna, e lui è un uomo brutto; ma credo che né l'uno né l'altra ci
salveranno o rovineranno. La loro curiosità è normale, ma io ho ben altro da fare che cercare di soddisfarla; perciò puoi
dire a Sua Altezza Serenissima che le sono molto obbligato.»
Hyacinth rifletté un attimo, poi disse: «Quando cerchi di soddisfare la curiosità di Lady Aurora e ti mostri
desideroso di darle tutte le spiegazioni che vuole, che differenza c'è? Se lei ha qualche diritto a mostrare il suo
interessamento, perché non dovrebbe averlo la mia Principessa?»
«Se è già tua, cos'altro può volere?» chiese Muniment. «Tutto ciò che so e che vedo di Lady Aurora è che
viene a far compagnia a Rosy, le porta il tè e l'assiste. Se la Principessa è disposta a fare altrettanto, vedrò quello che
potrò fare per lei, ma a parte questo non proverò mai un briciolo d'interesse per il suo interesse per le masse, o per
questa massa particolare!» E poi, col pollice macchiato, indicò la propria persona. Il suo tono dispiacque a Hyacinth,
stupito che quanto era accaduto a teatro non gli apparisse un incidente interessante, emozionante. Sembrava aver preso
il racconto del suo compagno come fine a se stesso; ma quando, poco dopo, riferendosi alla signora misteriosa, usò
l'espressione che stava «tremando dalla paura», l'altro esplose: «Mai, per nulla al mondo: non ha paura di niente, lei!»
«Ah, ragazzo mio, certo non di te!»
Hyacinth non raccolse quell'uscita un poco rozza, ma riprese, con un candore che lo metteva al sicuro da ogni
ulteriore scherno: «Pensi che potrebbe farmi del male, se il nostro incontro dovesse avere un seguito?»
«Probabilmente sì, ma tu la dovrai colpire di rimando, e duramente anche. È la tua natura, lo sai bene: prendere
quello che c'è da prendere, vivere la tua vita, gratificare i sensi; io sono soltanto un selvaggio irsuto. Devo pensare alla
casa e badare alla bottega; ma tu sei uno di quegli avidi furfantelli che devono girare il mondo. Saresti un elemento
decorativo per la società, un giovanotto da giornale illustrato. È meglio però che tu lo sappia,» aggiunse Muniment un
istante dopo: «Se ti farà del male dovrà fare i conti con me.»
Già da qualche tempo Hyacinth aveva pensato di portare Pinnie a far visita alla damigella allettata di Audley
Court, alla quale aveva promesso che la sua benefattrice (aveva detto a Rose Muniment che si trattava della sua madrina
- era suonato così bene!) sarebbe andata a renderle omaggio. Ma la cosa era stata rimandata per via di qualche debole
esitazione della sarta, che non riusciva ad immaginare che ci fossero al giorno d'oggi, a Londra, persone tanto derelitte
da poter avere bisogno di vedere la sua faccia. Aveva perso ogni interesse per la vita sociale e sapeva che ormai non
faceva più la stessa figura in pubblico di quando poteva esibire la sua competenza in fatto di moda sulla propria
figuretta, con l'ausilio di una gran quantità di stecche di balena. Inoltre intuiva che Hyacinth aveva strani amici e idee
ancora più strane; sentiva un suo smodato interesse per la politica e che in qualche modo non stava dalla parte giusta,
per quanto poco sapesse di partiti e di cause, ed era vagamente convinta che queste idee sovversive non facevano altro
che moltiplicare i guai dei poveri i quali, secondo teorie che Pinnie non aveva mai analizzato ma che si trovava radicate
dentro come una fede religiosa, avrebbero dovuto essere sempre della stessa opinione dei ricchi. La loro povertà li
rendeva già abbastanza diversi senza che andassero a cercarsi altre differenze, Quando finalmente accompagnò
Hyacinth a Camberwell, una domenica pomeriggio di mezza estate, lo fece con atteggiamento sospiroso, scettico, e di
malavoglia; ma se lui lo avesse desiderato, lo avrebbe accompagnato a una soirée a casa dello spazzino. Il pericolo che
Rose Muniment fosse uscita non era più probabile di quello che uno dei leoni di bronzo accovacciati, di Trafalgar
Square, si fosse messo a camminare giù per Whitehall: l'aveva però avvertita, e quando aprì la porta, obbedendo a un
vivace, acuto invito, vide che lei aveva avuto la felice idea di chiedere a Lady Aurora di aiutarla ad intrattenere Miss
Pynsent. Almeno così dedusse vedendo la nota figura di Sua Signoria che si alzava. Era la prima volta che la rivedeva.
Presentò la sua accompagnatrice alla padrona di casa, e subito Rosy ne ripeté il nome alla signora di Belgrave Square.
Pinnie si inchinò fino a terra quando Lady Aurora le porse la mano, e poi si lasciò scivolare silenziosamente sopra una
sedia vicino al letto. Lady Aurora rise e si dette da fare in modo cordiale, allegro e al tempo stesso piuttosto inconsulto,
e Hyacinth capì che non ricordava affatto di averlo già conosciuto. La sua attenzione però era rivolta principalmente a
Pinnie. La osservava attentamente per vedere se in questa occasione importante avrebbe riesumato quella cortesia un
poco rigida, aggraziata, raffinata, di cui possedeva il segreto, e che gli aveva fatto paragonare la sua capacità di catturare
un sentimento delle cose al morso di un paio di mollette da zucchero d'argento. Non solo per amore di Pinnie, ma anche
per se stesso, sperava che apparisse come una piccola donna superiore; e si augurava che non perdesse la testa nel caso
Rosy avesse cominciato a parlare di Inglefield. Evidentemente Rosy le aveva fatto una profonda impressione, perché
continuava a ripetere: «Cara... Cara!» a mezza voce, mentre la bizzarra fanciullina le andava spiegando in fretta in fretta
dal letto che nulla al mondo le sarebbe piaciuto di più che poter esercitare la sua deliziosa professione, ma che non
poteva stare seduta e non aveva mai tenuto un ago in mano, eccetto una volta, ma dopo tre minuti lo aveva fatto cadere
sulle lenzuola ed era entrato nel materasso, così che da allora aveva sempre temuto che rispuntasse fuori e la pungesse:
la cosa non si era ancora verificata e forse non sarebbe accaduta mai, lei se ne stava quieta, attenta ai movimenti. «Forse
avete pensato che sia stata io a ricamare la sciarpetta che porto intorno al collo,» disse Miss Muniment. «Forse avete
pensato che era il minimo che potessi fare, stando qui tutto il giorno a letto, padrona assoluta del mio tempo. Ma invece
non ci ho messo neanche un punto. Sono la più grande signora di Londra. Non alzo mai un dito per me. È un regalo di
Sua Signoria: un lavoro stupendo di Sua Signoria. Che ve ne pare? Avete mai conosciuto nessuno più bravo di lei? E
guardate il ricamo - guardatelo solamente - e ditemi che ve ne pare.» La fanciulla si tolse quella striscetta di mussola dal
collo e la gettò a Pinnie che la guardò tutta confusa balbettando: «Cara, cara, cara,» un poco per affetto e un poco
perché, con tutto il dovuto rispetto, quel comportamento le sembrava davvero molto strano.
«È un lavoro orribile; lo vedete bene,» disse Lady Aurora. «Era solo per scherzo.»
«Certo, è tutto uno scherzo,» urlò l'incontenibile invalida. «Tutto, tranne il mio stato di salute. Quello, tutti
ammettono che è una cosa seria. Quando Sua Signoria mi manda cinque scellini di carbone, è solo per gioco; e quando
mi manda una bottiglia di Porto sopraffino, è un altro scherzo, e quando sale settantasette gradini (sono settantasette, lo
so benissimo, anche se non li salgo né li scendo) per passare la serata con me, in piena stagione londinese, quello è lo
scherzo più bello di tutti. So tutto sulla stagione londinese, pur non uscendo mai, e so bene a cosa rinuncia Sua Signoria.
È proprio una giocherellona, ma io, per fortuna, so come prendere gli scherzi. Vedete, non è proprio il caso di essere
suscettibili, non vi pare, miss Pynsent?»
«Oh mia cara, sarei così felice di poter fare anch'io qualcosa; sarebbe migliore... migliore...» la povera Pinnie
s'impuntò.
«Sarebbe migliore del mio pessimo lavoro; io non ho la minima idea di come si facciano queste cose,»
completò Lady Aurora.
«Le assicuro che non volevo dire questo, signora, volevo dire soltanto che sarebbe più comodo. Qualsiasi cosa
lei desideri,» continuò la sarta come se fosse in causa l'appetito dell'invalida.
«Ah ma vedete, io non porto nulla, solo una giacchetta di flanella per sentirmi in ordine,» rispose Miss
Muniment. «Mi piacciono però le belle coperte, come potete vedere voi stessa,» e appoggiò le mani, compiaciuta, sulla
vivace copertina a patchwork. «Ora, Miss Pynsent, non vi sembra che anche questo sia uno degli scherzi di Sua
Signoria?»
«O mia buona amica, come puoi? Non ho mai fatto tanto!» la interruppe Lady Aurora con visibile disagio.
«Beh, mi avete dato quasi tutto, tanto che a volte non lo so più nemmeno io. Questa mi è costata sei pence, per
cui è lo stesso che se fosse un regalo. Sì, soltanto sei pence alla lotteria di un bazar, a Hackney, a beneficio della
Cappella Wesleyan, tre anni fa. Un giovanotto che lavora con mio fratello e abita da quelle parti, gli offrì un paio di
biglietti, e lui ne prese uno e io l'altro. Quando dico «io» naturalmente voglio dire che lui ne prese due, perché come
potrei trovare (e naturalmente voglio dire come potrebbe trovare) una moneta da sei pence in quella tazzina sulla
mensola del caminetto, se non ce l'avesse messa lui stesso? Naturalmente il mio biglietto vinse, e, naturalmente, poiché
il letto è la mia abitazione, la vincita fu una bella coperta con tutti i colori dell'arcobaleno. Oh, chi ha mai avuto tanta
fortuna come me?» Rosy chiacchierava, ammiccando furbescamente verso Hyacinth, quasi a provocarlo con le sue
ottimistiche contraddizioni.
«È molto carina ma se, per cambiare, vi facesse piacere averne un'altra, io ho tanti ritagli,» disse Pinnie, con
una generosità che fece pensare al giovanotto stesse superando se stessa.
Rose Muniment posò la mano sul braccio della sarta e le rispose senza mezzi termini: «No, nessun cambio,
nessun cambio. Quale cambio, quando qui c'è già tutto? C'è tutto, qui, tutti i colori che si siano mai visti, inventati,
sognati, da quando il mondo è stato creato.» E con l'altra mano accarezzò teneramente la sua coperta variopinta. «I
vostri ritagli saranno tanti, ma non potete averne quanti ce ne sono qui. E più ne mettereste insieme, più la nuova
coperta assomiglierebbe a questa cara, meravigliosa, vecchia amica. Invece, mi è venuta un'altra idea, molto, molto
carina, e forse Sua Signoria indovina di che si tratta.» Rosy teneva le dita sul braccio di Pinnie, e sorridendo volse gli
occhi luminosi dall'una all'altra delle sue amiche, come per unirle e fonderle il più possibile in un unico interesse per lei.
«Riguardo a quello che dicevamo pochi minuti fa, non potrebbe Sua Signoria spingersi un pochino oltre su quella stessa
linea?» E poiché Lady Aurora appariva turbata e imbarazzata, tutta rossa per essere stata chiamata a rispondere così
pubblicamente a un indovinello, l'amica inferma venne in suo aiuto. «Rimarrete sorpresa da prima, ma poi non lo sarete
più quando vi avrò spiegato: quello che ho in testa è semplicemente un'incantevole vestaglia rosa!»
«Un'incantevole vestaglia rosa!» ripeté Lady Aurora.
«Con una bella guarnizione nera! Non vedete nessun rapporto con quanto stavamo dicendo prima che i nostri
buoni visitatori entrassero?»
«Sarebbe graziosissima!» intervenne Pinnie. «Ne ho confezionate, proprio così, ai miei tempi, o anche in un
bel punto di azzurro, guarnito di bianco.»
«No, rosa e nero - rosa e nero, che si addicono alla mia carnagione. Forse non lo sapevate neppure che avevo
una carnagione, ma sono pochissime le cose che non ho! Tutto quello che voglio, come voi avete detto con tanta bontà:
beh, ora desidero questa vestaglia! Sua Signoria, ora, capisce il rapporto, non è vero?»
Lady Aurora assunse un'espressione preoccupata, da una parte come se si sentisse colpevole che il senso
ancora le sfuggisse, dall'altra come se avesse valutato i probabili disagi che questa improvvisa richiesta potevano
comportare per le modeste risorse della sarta. «Una vestaglia rosa ti starebbe molto bene, e Miss Pynsent è così
gentile,» disse, mentre Hyacinth andava considerando fra sé e sé che la richiesta era un poco stravagante, dal momento
che Pinnie avrebbe dovuto ovviamente provvedere anche alle stoffe, oltre che alla confezione. L'amabile semplicità con
cui l'invalida la prendeva per sua creditrice era tuttavia, a parer suo, perfettamente in carattere, e pensò che, dopo tutto,
quando si è immobilizzati a quel modo, si ha diritto di allungare la mano (nel caso specifico non la si poteva allungare
neanche troppo) e afferrare tutto il possibile. Pinnie dichiarò di sapere esattamente quello che Miss Muniment voleva, e
promise di darsi subito da fare per confezionarle una cosina perfetta; e Rosy continuò col dire che avrebbe dovuto
spiegare a cosa serviva quell'articolo di vestiario, ma che si rendeva necessario un altro indovinello. Lo avrebbe posto a
Miss Pynsent e a Hyacinth, dando loro tutto il tempo per risolverlo: di cosa avevano parlato, lei e Lady Aurora, prima
della loro venuta? Congiunse le mani, e gli occhi le brillarono dall'entusiasmo, mentre continuava a girarli da Lady
Aurora alla sarta. Che potevano immaginarsi? Quale poteva essere, secondo loro, la cosa naturale, deliziosa, stupenda,
considerando anche che andava pensata la sua esatta collocazione? Hyacinth suggerì, successivamente, una gabbia di
passeri giavanesi, un carillon e una doccia - o forse anche un ritratto a grandezza naturale di Sua Signoria, e Pinnie gli
lanciò un'occhiata di traverso, un'occhiata un poco spaventata, pensando che forse stava spingendo troppo oltre lo
scherzo. Rose finalmente li liberò da quello stato di suspense, e annunciò: «Un sofà, proprio un sofà, ecco! Che ne dite?
E a chi altro poteva venire l'idea se non a Sua Signoria? Il merito è tutto suo; se n'è uscita fuori con questa pensata
mentre stavamo chiacchierando. Mi pare che stessimo parlando di quella strana sensazione che si prova sotto le scapole
quando non si cambia mai posizione. Ne ha parlato come di un tipo di frizione più efficace - ve ne sono di così nocive! -
o di un altro cucchiaino di quella roba americana. Ci stiamo pensando su, e uno di questi giorni, senza fretta, troveremo
il posto giusto, il più adatto e il più accogliente. Ora spero che capirete il nesso con la vestaglia rosa,» continuò rivolta a
Pinnie «e spero che capirete l'importanza della domanda: "che cosa possiamo eliminare?". Vorrei che vi guardaste
intorno un pochino e mi diceste la vostra risposta a un'ipotetica domanda "c'è qualche cosa che può essere eliminata?"»

IV

«Da parte mia non vedo nulla da cui vorrei separarmi,» rispose Pinnie; e mentre osservava la stanza, Lady
Aurora, con discrezione per sollevare Amanda da quella responsabilità, si alzò e si voltò verso la finestra che era aperta
sulla sera estiva e lasciava entrare ancora gli ultimi raggi della luce del giorno. Hyacinth poco dopo le andò vicino e
guardò con lei la massa bruna dei comignoli e le piccole case nere coperte di tegole fuligginose. L'aria calda, densa del
luglio londinese stagnava sotto di loro, impregnata dall'eterno rumore della città che sembrava talvolta vanificarsi nel
silenzio, per poi diventare di nuovo una voce possente non appena ci si fermava ad ascoltarla. Qua e là, alle povere
finestre, brillava una luce torbida, e più in alto, in una sfera più chiara e senza fumo, un cielo ancora limpido e
luminoso, una debole stella d'argento, guardavano in giù. Il cielo era lo stesso che si curvava in lontananza sopra campi
dorati e colline violacee e giardini dove cantavano usignoli, ma da questa visuale tutto ciò che copriva la terra era brutto
e sordido e sembrava proclamare e testimoniare la fatica del lavoro. Dopo un poco, con grande stupore di Hyacinth,
Lady Aurora gli disse: «Non siete mai più venuto a prendere quei libri.»
«I libri che vi offriste gentilmente di prestarmi? Non sapevo che avessimo un accordo preciso.»
Lei uscì in una risatina imbarazzata: «Li ho scelti e messi da parte: sono pronti.»
«Siete molto gentile,» si affrettò a dire il giovanotto. «Li verrò a prendere, uno di questi giorni, con enorme
piacere.» Non era sicuro che ci sarebbe andato, ma era il minimo che potesse dire.
«Ve lo dirà lei dove abito,» continuò Lady Aurora, accennando con la testa verso il letto, come se fosse troppo
timida per dirglielo lei stessa.
«Sono sicuro che conosce benissimo la strada, ogni strada e ogni angolo!» rise Hyacinth.
«Mi ha chiesto di descriverle più volte il percorso che faccio per venire,» aggiunse la sua compagna. «Credo
che poche persone conoscano Londra meglio di lei. Non dimentica mai nulla.»
«È una deliziosa streghetta: mi terrorizza!» ammise lui.
Lady Aurora volse lo sguardo timido su di lui. «Oh, è così buona, così paziente!»
«Sì, e così eccezionalmente saggia e terribilmente presente a se stessa.»
«Oh, è incredibilmente intelligente,» disse Sua Signoria. «Chi ritenete che sia il più intelligente?»
«Il più intelligente?»
«Il fratello o la sorella?»
«Oh, io credo che lui diventerà primo ministro.»
«Veramente? Oh, come sono contenta!» gridò lei, con una vampata di rossore. «Mi rallegro tanto a sentire che
voi lo riteniate possibile. Perché dovrebbe essere proprio così, se le cose andassero per il giusto verso.»
Hyacinth non aveva fatto quella dichiarazione fideistica per vellicare i sentimenti di Sua Signoria, ma di fronte
allo slancio con cui lei aderiva alle sue parole, gli sembrò di averla presa in giro. Eppure non alterò minimamente il suo
pensiero quando aggiunse, poco dopo, che si aspettava moltissimo da Paul Muniment: era certo che il mondo avrebbe
sentito parlare di lui, che l'Inghilterra aveva bisogno di lui, e che un giorno la folla lo avrebbe acclamato. Conoscendolo,
era impossibile non rendersi conto di quanto fosse forte e del ruolo importante che gli spettava.
«Sì, nessuno lo crederebbe; nessuno lo crederebbe,» aggiunse lei, dandogli la misura del bene che le aveva
fatto. Ed anche per lui era una gioia estrinsecare l'opinione che aveva del suo amico: sentiva che il proprio giudizio
diventava sempre più limpido e acquistava la forza dell'anelito e della profezia. Questo apparve chiaro specialmente
quando chiese perché mai la natura avrebbe dovuto dotare Paul Muniment di una così straordinaria capacità
raziocinante, abbinata ad una grande potenza fisica - perché era forte come un mulo - se non avesse avuto l'intenzione di
destinarlo a compiere grandi cose per i suoi simili. Hyacinth confidò a Sua Signoria che riteneva molto stupida la gente
della sua stessa classe sociale - anzi, avrebbe dovuto senz'altro affermare che erano cervelli di terz'ordine. Magari non
fosse così, perché Dio solo sapeva quanto si sentisse ben disposto verso di loro, e come non chiedesse altro che
condividere la loro sorte; ma era costretto a riconoscere che secoli di miseria, di lavoro malpagato, di alimentazione
cattiva e insufficiente e di alloggi miserabili non avevano avuto un effetto favorevole sulle facoltà mentali di quella
gente. A maggior ragione, un essere eccezionale come il loro amico rappresentava una forza enorme: c'era tanto da fare,
tante cose da sanare. Poi Hyacinth ripeté che le persone delle classi umili come quella cui lui stesso apparteneva, non
avevano veramente la facoltà di ragionare; i loro cervelli si erano come atrofizzati, e ospitavano solo due o tre concetti.
Si accorse però che queste critiche mettevano a disagio la sua compagna; si era voltata e si dimenava vagamente, come
desiderosa di protestare; ma era troppo educata per interromperlo. Lui non voleva tormentarla, ma certe volte non
poteva frenare la perversa soddisfazione di insistere sulle proprie basse origini, di rigirare il coltello nella piaga che si
andava infliggendo con questi riferimenti così espliciti, per dimostrare che, se il posto che in questo mondo gli spettava
era incommensurabilmente infimo, almeno lui non si faceva illusioni né su se stesso né sulla propria razza. Lady Aurora
rispose, appena le riuscì, che conosceva molto bene i poveri - non i poveri come Rosy, ma quelli irrimediabilmente
poveri, coi quali aveva più dimestichezza di quanto Hyacinth potesse sospettare - e spesso le accadeva di rimanere
colpita dal loro talento e umorismo, e dalla padronanza del linguaggio che rendeva la loro conversazione tanto più
interessante di quella ascoltata nei salotti. Spesso li trovava estremamente intelligenti.
Hyacinth le sorrise e replicò: «Quando si tocca il fondo della miseria può accadere di diventare ricchi e
straordinari di nuovo. Quanto a me, temo di non essere sceso tanto in basso. Nonostante le molte occasioni che mi si
sono presentate, non ho ancora conosciuto dei poveri assoluti.»
«Io ne conosco moltissimi.» Lady Aurora esitò, come se temesse di vantarsi, poi disse: «Credo di conoscerne
più di chiunque altro.» C'era qualcosa di commovente e di sublime in questa dichiarazione semplice e timida che lo
confermò nell'impressione che, in qualche modo misterioso, incongruo e perfino grottesco, lei fosse un'autentica eroina,
una creatura dai nobili ideali. Forse la donna intuì che lui si stava abbandonando a riflessioni lusinghiere nei suoi
riguardi perché un istante dopo disse precipitosamente, come se non ci fosse nulla che la spaventasse più di un
probabile complimento: «Vostra zia è una donna molto amabile: sono sicura che anche Rosy la pensa così.» Non
appena dette queste parole, arrossì di nuovo, quasi temendo che lui potesse attribuirle una volontà di contraddizione
nell'aver esemplificato il caso della zia come riprova che anche fra i tipi umili, di ceto diciamo medio, non mancavano
elementi positivi. Non c'era motivo di pensare che questa non fosse stata, di fatto, la sua intenzione, per cui, senza
risparmiarla, egli replicò: «Intendete dire che fa eccezione a quanto ho affermato?»
Lei balbettò un poco, poi, visto che non era stata risparmiata, decise a sua volta di non risparmiarlo: «Sì, e
anche voi fate eccezione; finirete per farmi credere che mancate di intelligenza. Ma i Muniment non lo pensano,»
aggiunse.
«E neppure io, questo però non significa che le eccezioni non siano rare. Nelle mie vene scorre sangue che non
è del popolo.»
«Capisco,» disse Lady Aurora, in tono comprensivo. E continuò con un sorriso: «Allora voi siete ancor più
eccezionale, paragonato ai ceti superiori!»
Il suo modo di prendere la cosa non poteva essere più gentile, ma questo non valse a non far sentire a Hyacinth
di essere stato estremamente indiscreto. Fino a un istante prima si era ritenuto immune da ogni tentazione di alludere
mai alle sue origini misteriose perché, se avesse lasciato trapelare una certa vanità (e non aveva nessuna intenzione per
il momento, di fare esercizio di umiltà) avrebbe inevitabilmente rasentato il grottesco. Non aveva mai aperto bocca con
chicchessia della sua origine, dal giorno tremendo in cui quella questione era stata trattata alla presenza del signor
Vetch, a Lomax Place - mai, né con Paul Muniment, né con Millicent Henning, né con Eustache Poupin. Aveva sempre
avuto l'impressione che la gente si fosse fatta qualche idea sul suo conto: quello che ne pensava Miss Henning gli era
ben noto, e anzi, a questo proposito, aveva il sospetto che quello che li univa non fosse altro che una segreta
determinazione, da parte di lei, di soddisfare la propria curiosità prima di liquidarlo. Ma mentre era sempre andato fiero
della sua impenetrabilità, ecco che alla prima tentazione presentatasi (se si poteva chiamare tale), aveva cominciato a
pavoneggiarsi come un idiota. Si fece di fuoco, non appena ebbe parlato, in parte pensando all'oggetto della propria
vanteria, e in parte per l'assurdità della sfida lanciata a quell'esemplare di nobiltà che gli stava davanti. Sperò che non
avesse dato importanza a quanto aveva sentito, e in verità lei non manifestò alcuno stupore di fronte all'accenno a un
suo lignaggio, aveva troppa delicatezza per farlo; sembrò soltanto notare il suo imbarazzo, ma subito lui s'inflisse una
lezione di umiltà rimarcando: «Vedo che passate la maggior parte del vostro tempo fra i poveri, e sono sicuro che sarete
benedetta per questo. Ma francamente non capisco perché una signora come voi debba dedicarsi, senza un obbligo
preciso, a gente come noi. Dobbiamo essere una ben miserabile compagnia, paragonata a quella che potreste avere.»
«Mi piace tanto... non potete capire.»
«È proprio quello che dico. La nostra piccola amica allettata non fa altro che parlare della vostra casa, della
vostra famiglia, dello splendore dei vostri giardini e delle vostre serre; saranno certo magnifici.»
«Vorrei che non lo facesse. Davvero, vorrei tanto che non lo facesse. Mi fa sentire così male!» disse con foga
Lady Aurora.
«Lasciatela dire: ci prova tanto gusto.»
«Sì, molto più di noialtri,» sospirò Sua Signoria con aria d'impotenza.
«Beh, come fate a lasciare tutte quelle belle cose per venire a respirare quest'aria irrespirabile, a circondarvi di
oggetti odiosi, accostarvi a gente il cui male minore è di essere ignorante, brutale, sporca? Non parlo delle signore qui
presenti,» aggiunse Hyacinth con un tono che Millicent Henning (che lo ammirava e detestava a un tempo) spesso si
chiedeva dove andasse a pescare.
«Oh, vorrei tanto farvi capire!» esclamò Lady Aurora guardandolo con occhi turbati, imploranti, come se
inaspettatamente fosse diventato irraggiungibile.
«Ma tutto considerato credo di capire! La carità fa parte della vostra natura, ed è una specie di passione.»
«Sì, sì, è proprio una specie di passione!» ripeté vivacemente Sua Signoria, tutta riconoscente per quella
parola. «Non so se si tratti di carità - per lo meno non rientra nelle mie intenzioni - ma qualunque cosa sia è una
passione, è la mia vita - è tutto ciò che mi preme.» Si arrestò come se ci fosse qualcosa d'impudico nella sua
confessione, o se non si fidasse del suo ascoltatore; ma poi, evidentemente, la gioia di potersi giustificare per una
eccentricità così vistosa, accompagnata all'ebbrezza di scaricarsi di tante emozioni profonde che si erano accumulate
nella sua anima, ebbero il sopravvento: «Già a quindici anni volevo vendere tutto quello che possedevo per darlo ai
poveri; e da allora ho sempre desiderato di rendermi utile: sentivo che il cuore mi si sarebbe spezzato se non ci fossi
riuscita!»
Il profondo rispetto da cui Hyacinth fu pervaso non gli impedì tuttavia di dire, con parole che suonarono
vagamente condiscendenti alle sue stesse orecchie: «Immagino che siate molto religiosa.»
Lei guardò l'oscurità che si andava addensando, i tetti fuligginosi delle case, l'alone sfocato dei lampioni al di
sopra delle strade: «Non lo so, ciascuno ha le sue idee: alcune possono sembrare strane. Credo che ci siano molti preti
che facciano del bene, altri non mi piacciono affatto. Ne venivano sempre tanti da noi; a mio padre piacciono in modo
particolare. Credo di aver conosciuto troppi vescovi, di aver vissuto troppo all'ombra della chiesa. Non dico che nella
mia famiglia ritengano che si debba essere esattamente come si dovrebbe, però, per quanto mi riguarda, mi considerano
molto strana sotto tutti i punti di vista, ed è indubbio che io lo sia. Devo aggiungere che non li metto a parte di tutto ciò
che faccio: a che serve, se tanto non capiscono? Siamo in dodici, in famiglia, di cui otto femmine; e se credete che sia
tutto meraviglioso come s'immagina lei, vorrei che lo sperimentaste per un poco di tempo! Mio padre non è ricco e solo
una di noi è sposata, Eve, e non siamo per niente belle, e poi... ci sono tante altre cose d'ogni genere,» continuò la
giovane donna, alzando brevemente lo sguardo su di lui, ormai lanciata. «Non mi piace la società, e non piacerebbe
neanche a voi se conosceste quella londinese, o almeno una parte,» temperò Lady Aurora. «Non riuscireste mai a
immaginare tutte le ipocrisie e scempiaggini che si devono sopportare: ma me ne sono liberata: ora faccio quel che
voglio, anche se ho dovuto lottare. Ho la mia libertà, e questa è la massima fortuna nella vita, dopo quella di essere
considerata un poco eccentrica e perfino un poco matta, che è una fortuna ancora maggiore. Sapete, sono veramente un
po' pazza: non dovete stupirvene, se lo sentite dire in giro. E questo, perché rimango in città quando gli altri vanno in
campagna: in autunno, d'inverno, quando qui non c'è nessuno (salvo quei tre o quattro milioni di persone) e la pioggia
cade, cade giù dagli alberi, nel grande parco melanconico dove abitano i miei. Forse non dovrei dirvi tutte queste cose,
ma poiché di fatto le dico, sarò davvero matta, e allora tanto vale farsi conoscere per quello che si è. Quando si fa parte
di una famiglia di otto figlie femmine con pochi soldi (pochi, se non altro perché siano abbastanza per ciascuna di noi) e
con nient'altro da fare se non uscire con l'impermeabile in compagnia di tre o quattro sorelle, è facile perdere il ben
dell'intelletto. Certo c'è il villaggio, che non è per niente bello, e ci sono persone da accudire, e Dio sa se non ne hanno
bisogno: ma bisogna lavorare nell'ambito della parrocchia, e lì ci sono altre quattro figlie, tutte zitelle, ed è squallido e
deprimente, e uno ne ha fin sopra i capelli, perché non capiscono nulla di quello che dici o pensi. E poi, sono stupidi, lo
ammetto, quei poveri contadini: sono proprio ottusi, ottusissimi. Preferisco Camberwell,» disse Lady Aurora sorridendo
e riprendendo fiato dopo quella tirata nervosa, affrettata, quasi incoerente cui si era abbandonata ansimando, con strani
accenti discontinui e contorti, incalzata dal timore di potersi improvvisamente pentire non tanto del suo sfogo quanto
del suo egotismo.
A Hyacinth si presentò sotto una luce insospettata, ed egli capì che sotto la sua goffaggine da nubile
aristocratica si celavano tumultuose passioni. Nessuno avrebbe sospettato che fosse animata da quell'ironico spirito
vendicativo. Ma più di tutto egli vedeva in questa timorosa, scrupolosa eppure chiaramente generosa creatura, una
persona che non avrebbe trascurato nessuna occasione per infierire contro le istituzioni in mezzo alle quali era cresciuta
e a cui aveva violentemente reagito. Aveva sempre immaginato che il reazionario fosse un apostata delle dottrine
liberali, ma l'amica di Rosy dava ora a quel termine un nuovo significato; era come se a spingerla alla presente
esasperazione fossero stati il signorotto di campagna, il parroco e l'influenza conservatrice di quell'ambiente
aristocratico britannico che il nostro giovanotto aveva sempre considerato la massima espressione di civiltà. Con ogni
evidenza Sua Signoria era un'originale, e un'originale piena di coraggio, ma per Hyacinth era un vero dolore sentirla
parlare con tanta indifferenza di Inglefield (specialmente del parco) e di tutte le opportunità che dovevano abbondare a
Belgrave Square. Aveva sempre creduto fermamente che in un mondo di sofferenze e ingiustizie, queste cose, anche se
non completamente giuste, erano però molto affascinanti. Se non valevano a procurare le tentazioni più squisite, dove
mai si sarebbe potuto trovarle? Guardò Lady Aurora con una espressione che voleva essere un tributo alla sua
improvvisa vivacità, e disse: «Capisco, ora, perché volete fare del bene, dal momento che siete una specie di santa!»
«Una specie un poco curiosa,» rise Sua Signoria.
«Ma non capisco perché non vi debba piacere quello che vi viene dalla vostra posizione sociale.»
«Non voglio saper nulla della mia posizione sociale. Voglio vivere, io!»
«E questa la chiamate vita?»
«Ve lo dirò, se proprio ci tenete, qual è la mia posizione sociale: è l'immobilità della tomba.»
Hyacinth rimase sorpreso dal suo tono, ma tuttavia le replicò ridendo apertamente: «Ah, ho detto bene, siete
proprio una santa!» Lei non rispose perché in quel momento si aprì la porta, e l'alta figura di Paul Muniment uscì
dall'oscurità delle scale per entrare nella luce crepuscolare, ora debolissima, della stanza. Gli occhi di Lady Aurora,
mentre si posavano su di lui, sembravano asserire che quella visione poteva essere la vita. Un'altra persona, altrettanto
alta, comparve dietro di lui, e, con suo grande stupore, Hyacinth riconobbe l'insinuante figura del capitano Sholto. Paul
lo aveva condotto con sé per intrattenere Rosy, sempre propenso, più che propenso, a presentare a quella signorina
qualunque persona, da un primo ministro a un boia, che potesse procurarle una distrazione. Dovevano essersi incontrati
al «Sole e Luna», e se il capitano, colta l'occasione favorevole, aveva usato le tecniche di approccio che era solito
adoperare con tutti, non ci voleva molto a capire come Paul lo avesse strumentalizzato. Ma qual era il gioco del
capitano? Non possiamo certo sostenere che il nostro giovanotto fosse in grado di rispondere quella sera stessa alla
domanda. L'imprevisto portò un'aria di festa, e la padrona di casa, anche senza alzare la testa dal cuscino, si mostrò
all'altezza della situazione. Suo fratello presentò il capitano Sholto come un signore che anelava ardentemente a far
conoscenza di persone straordinarie, e lei lo fece sedere al suo capezzale, sulla sedia dalla quale Miss Pynsent si era
prontamente alzata, e gli chiese chi fosse e da dove venisse, e in che modo avesse conosciuto Paul, e se avesse molti
amici a Camberwell. Sholto aveva abbandonato quell'aria grandiosa che lo contraddistingueva a teatro: la studiata
trascuratezza del suo abbigliamento sortiva lo stesso effetto ottenuto da Hyacinth, anche se evidentemente era dettata da
motivi diversi. Hyacinth si chiese però come mai, con tutto il suo travestimento, egli rimanesse, inequivocabilmente, un
gentiluomo irreprensibile nonostante l'enfatico, quasi ispirato entusiasmo che gli faceva reputare affascinante e curiosa
ogni cosa. Spiccava, nella povera, stracarica stanzetta di Rosy, in mezzo a quei suoi abominevoli tentativi di
arredamento, e sembrava a Hyacinth un essere venuto da un altro emisfero, per elargire al luogo e alla compagnia un
sorriso (non si poteva definire falso né sgradevole, ma certo era decisamente studiato), divenuto ormai stereotipo per
l'uso continuo che ne faceva nell'ambiente militare e a corte. Il sorriso si fece più intenso quando si posò sul nostro eroe,
che salutò come avrebbe fatto con un caro amico dal quale fosse stato troppo a lungo e dolorosamente separato. Era
disinvolto, cordiale, squisitamente amabile e semplice; era, in tutto e per tutto, un enigma.
Rosy comunque seppe subito come trattarlo: evidentemente per lei non rappresentava un problema, e
considerava la sua visita la cosa più naturale del mondo. Gli espresse educatamente tutta la sua gratitudine, ma con l'aria
di ritenere che la gente che saliva le sue scale fosse sempre, in fondo, ripagata del disturbo. Sottolineò che il fratello
doveva averlo incontrato quel giorno per la prima volta, perché in genere il suo modo di sigillare una nuova amicizia era
di portare subito a casa con sé la nuova conoscenza. E quando il capitano Sholto insinuò che se a lei quei poveri diavoli
non fossero andati a genio sarebbero stati certamente liquidati subito, ammise che le cose sarebbero andate proprio così,
se avesse negato la sua approvazione: tuttavia, fino a quel momento, non aveva mai dovuto ricorrere a tanto. In parte,
perché non le aveva ancora portato mai nessuno di quei suoi orribili compagni di banda, gente che frequentava per
motivi irriferibili. Di quelli, in genere, aveva un'opinione assai bassa, e non nascondeva al capitano Sholto che si
augurava che lui non ne facesse parte. Rosy parlava come se il fratello rappresentasse il distretto di Camberwell alla
Camera dei Comuni, e lei avesse scoperto che la carriera parlamentare provocava un rilassamento del costume. Il
capitano approvò tuttavia il suo punto di vista, e le disse che il signor Muniment e lui erano venuti in contatto in quanto
amici del signor Hyacinth Robinson; gli erano entrambi così affezionati che avevano subito trovato un motivo di
reciproca intesa. Sentendosi chiamare in causa in modo tanto elogiativo, Hyacinth Robinson si volse a guardarlo, e vide
che il capitano Sholto si dava un gran da fare a intrattenere Rosy, proprio come gli risultava che avesse fatto con Milly
Henning quella sera, a teatro. Non c'erano sedie sufficienti per tutti, e Paul prese dalla sua stanza uno sgabello a tre
gambe, poi si apprestò a fare il tè per tutti, con l'ausilio di una teiera di metallo e di un fornelletto a spirito, il tutto
preparato insieme a una dozzina di tazze, probabilmente in onore della piccola sarta che era venuta da tanto lontano. La
piccola sarta - osservò compiaciuto Hyacinth - si era abbandonata a un'animata conversazione con Lady Aurora che,
piegata su di lei, arrossiva, sorrideva, balbettava e appariva così nervosa che Pinnie, paragonata a lei, sembrava
maestosa e serena. Esposero subito a Hyacinth il piano che avevano ideato, come se avessero formato una specie di
massoneria, e cioè che Miss Pynsent sarebbe andata con Sua Signoria a Belgrave Square, per definire certi particolari
riguardanti la vestaglia rosa. Sua Signoria sperava, con l'approvazione di Miss Pynsent, di poter contribuire alla
confezione dell'indumento, con una pregevole «pezza» marrone che aveva già fatto onorato servizio, e che avrebbe
potuto essere tinta del colore giusto. Pinnie, era evidente, si trovava in uno stato di esaltazione quasi religiosa; visitare
Belgrave Square e collaborare così strettamente con la nobiltà erano cose che non avrebbe mai apprezzato abbastanza.
Del privilegio di collaborare materialmente con Lady Aurora, cominciò a fruire senza indugio quando quella insinuò
che per il signor Muniment sarebbe stato alquanto complicato preparare il tè, e che era meglio se si fossero occupate
loro della cosa. Paul acconsentì simulando una certa compassione per la loro invadenza e facendo osservare che, in ogni
caso, ci volevano ben due donne per soppiantare un uomo, e Hyacinth lo trascinò verso la finestra per chiedergli dove
avesse incontrato Sholto e cosa ne pensasse. Si erano incontrati a Bloomsbury, come Hyacinth aveva immaginato, e
Sholto aveva fatto di tutto per entrare nelle sue grazie, proprio come un curato di campagna cerca di farsi benvolere
dall'arcivescovo. Si era informato di questo e quello: della situazione della mano d'opera nella East End, della terribile
vicenda della vecchia morta di fame a Walham Green, dell'opportunità di manifestare più sistematicamente per le
strade, e del progetto di far entrare uno di loro - uno del gruppo di Bloomsbury - alla Camera. «Si è comportato in modo
civilissimo,» disse Muniment, «e non mi sono ancora accorto che mi abbia vuotato le tasche. Mi guardava quasi
aspettandosi che io lo esortassi a rappresentarci, come membro del gruppo di Bloomsbury. Fa troppe domande, ma se le
fa perdonare non prestando alcuna attenzione alle risposte. Mi disse che avrebbe dato qualunque cosa per vedere
l'"interno" di un lavoratore. Sulle prime non capivo da che parte volesse squartarmi: voleva un esemplare adatto, uno
dei migliori; ne aveva visti un paio, che però non riteneva che fossero indicativi. Penso che si riferisse alla bella casa di
Schinkel, lo stipettaio, e volesse fare dei paragoni. Gli ho detto che non sapevo bene che razza di esemplare potesse
essere la mia casa, ma che sarebbe stato il benvenuto, se voleva darci un'occhiata, e, in ogni modo, che conteneva un
paio di rarità: immagino che se ne sia reso conto, conoscendo Rosy e la nobildonna. Volevo farlo ammirare da Rosy: è
bravissimo a mettersi in mostra, anche se forse è l'unica cosa in cui riesca. Gli ho detto che aspettavamo gente, questa
sera, e che perciò sarebbe stata una buona occasione, perché venisse anche lui: ha assicurato che trovarsi coinvolto in
una serata del genere era stato il sogno della sua vita. Aveva l'aria di essere impaziente, come se avessi dovuto
mostrargli un tesoro nascosto, e ha insistito per accompagnarmi a casa in carrozza. Forse medita di introdurre l'uso delle
carrozze tra la classe lavoratrice; certo, mi darò da fare per rispedirlo a casa sua, se sono queste le sue intenzioni. Strada
facendo mi ha parlato di te; mi ha detto che era un tuo amico intimo.»
«Cosa ha detto di me?» chiese ansiosamente Hyacinth.
«Piccolo furfante vanitoso!»
«È così che mi ha chiamato?» disse Hyacinth candidamente.
«Ha detto che eri semplicemente sorprendente.»
«Semplicemente sorprendente?» ripeté Hyacinth.
«Per una persona di così bassa estrazione.»
«Beh, io sarò strano, ma lui lo è ancora di più. Non ti sembra, ora che lo conosci?»
Paul sbirciò il suo giovane amico: «Vuoi sapere quello che è? È un procacciatore.»
«Un procacciatore? Che vuoi dire?»
«Beh, uno strumento, se preferisci.»
Hyacinth sgranò gli occhi: «Uno strumento di chi?»
«O anche un pescatore d'alto mare, se ti piace di più: a te la scelta, fra questi paragoni. Mi sono venuti tutti alla
mente mentre tornavamo a casa in carrozza. Lui getta le reti e tira su i pesciolini - quei graziosi, lucenti, sguscianti
pesciolini. Sono tutti per lei, che se li "inghiotte".»
«Per lei? Vuoi dire la Principessa?»
«E chi, se no? Stai attento, girino mio!»
«E perché dovrei stare attento? L'altro giorno mi hai detto il contrario.»
«Sì, ricordo, ma ora ho capito qualcos'altro.»
«Ha parlato di lei? Che ha detto?» domandò ansiosamente Hyacinth.
«Non posso dirti quello che ha detto, ma ti dirò quello che ho capito io.»
«E sarebbe?»
Naturalmente avevano parlato a bassa voce, e le loro voci erano coperte dal chiacchiericcio di Rosy là
nell'angolo, e dalle disinvolte risate con cui il capitano Sholto le accompagnava, oltre che dalle parole, molto discrete
ma sincere, di Lady Aurora e di Miss Pynsent. Muniment però parlava ancora più sommessamente, tanto che Hyacinth
trattenne il fiato in attesa di udire la risposta che arrivò poco dopo: «È un mostro!»
«Un mostro?» ripeté il nostro giovanotto, da cui, quella sera, il suo amico era destinato a non ricavare altro che
esclamazione ed echi.
Paul guardò il capitano che sembrava essere sempre più preso da Rosy. «Non credo che ci sia nulla da temere,
da lui, è soltanto un paziente pescatore.»
Bisogna ammettere che questa definizione era in un certo senso giustificata dal modo in cui il capitano Sholto
andava ripescando tutti i minimi dettagli che contribuissero a dargli una conoscenza più approfondita dei suoi ospiti.
Quando il tè fu pronto, Rosy chiese a Miss Pynsent di essere così cortese da servirlo. Non credevano che fosse ora che
Sua Signoria si riposasse un poco? E Hyacinth comprese che nel suo innocente ma inveterato autocompiacimento
desiderava compensare e incoraggiare la sarta, offrendole la possibilità di darsi un poco da fare e di eseguire quella
piacevole incombenza. Ma Sholto saltò su e pregando Pinnie di lasciarsi aiutare, le tolse la tazza di mano e la povera
Pinnie, la quale aveva capito immediatamente che altro non era se non un misterioso personaggio, allibita
dall'eterogeneità di quanto lo circondava, non abituata ad essere trattata come una duchessa (perché i modi del capitano
erano un monumento di rispettosa galanteria) si lasciò cadere sopra una sedia sorridendo con occhi imploranti a Lady
Aurora, consapevole che, per quanto conoscesse a fondo le leggi del buon vivere, mai, prima di allora, si era trovata in
una situazione analoga. «Quante famiglie potranno abitare in un fabbricato come questo? E cosa potete dirmi dei servizi
igienici? Per esempio, ci sono altre persone, oltre voi, su questo pianerottolo? Che piano è, il terzo o il quarto? E lo
considerate un esempio tipico di casa popolare?» Con domande di questo tipo il bravo gentiluomo li intrattenne durante
il tè, mentre Hyacinth rifletteva che, qualunque fosse la bontà delle intenzioni, la curiosità paternalistica dei suoi
interrogativi tradiva una imperdonabile mancanza di finezza e di tatto. Il capitano s'informò delle occupazioni, delle
possibilità economiche, delle abitudini degli altri inquilini, dell'affitto che pagavano, dei rapporti che avevano fra di loro
e in seno alle proprie famiglie. «Direste che c'è una notevole mancanza di... sobrietà?»
Paul Muniment che aveva mandato giù tutto d'un fiato la sua tazza di tè (nessuno ne aveva avuta una seconda),
guardò fuori dalla finestra il buio che ormai si era addensato e, le mani in tasca, si mise a fischiettare, certo poco
educatamente ma con grande energia. Aveva deciso che il visitatore era affare di Rosy e che qualunque cosa dicesse o
facesse era tutto grano per quell'infaticabile piccolo mulino. Lady Aurora si contorceva dall'angoscia, e il fatto che il
nostro eroe si rendesse perfettamente conto di quanto lei considerasse volgare il nuovo personaggio, è la prova di come
egli possedesse l'infallibile istinto del «signore». Lei, inoltre, era piuttosto seccata - Hyacinth scoprì quella sera che
Lady Aurora era anche capace di seccarsi - dalle pronte risposte di Rosy: quell'esile persona distesa raccontava al
capitano tutto quello che voleva sapere, prendeva le sue domande come un doveroso tributo all'umile rispettabilità, e,
quanto agli abitanti di Audley Court, sapeva fornirgli statistiche e aneddoti che aveva misteriosamente raccolti per conto
proprio. Alla fine Lady Aurora, che Paul Muniment non si era premurato affatto d'intrattenere, si congedò da lei
indicando nello stesso tempo a Hyacinth che per il rimanente della serata Miss Pynsent era affidata alle sue cure. Pinnie
avrebbe lasciato che la trascinassero nuda verso mostruosi rituali ora che stava per essere condotta proprio a Belgrave
Square, ma Hyacinth era certo che si sarebbe comportata nel modo più dignitoso; e quando si offrì di andarla a
prendere, più tardi, lei gli rammentò, a mezza voce, e con un sorrisetto triste, tutti gli anni in cui, già a notte calata, era
solita girare l'intera Londra per consegnare il suo lavoro, avvolto in un panno.
Come d'abitudine Paul Muniment accompagnò Lady Aurora in fondo alle scale, e il capitano Sholto e Hyacinth
rimasero soli con Rosy per qualche minuto, e questo fornì al capitano l'occasione di dire al suo giovane amico, mentre
raccoglieva cappello e bastone: «Da che parte siete diretto, dalla mia, per caso?» Hyacinth capì che sperava nella sua
compagnia e si rese conto che, per quanto sembrasse strano che Paul avesse accettato la compagnia di quell'individuo, e
per invadente che questi si fosse mostrato proprio in quell'occasione, il suo modo di fare era così cordiale che anche
questa volta, come già a teatro, non avrebbe saputo resistergli. Il capitano si curvò sul letto di Rosy come se fosse stata
una gran dama sdraiata sul sofà di raso, e le promise di tornare presto e spesso; poi i due uomini se ne andarono e per le
scale incontrarono il loro ospite che saliva. Hyacinth si sentì inesplicabilmente un poco a disagio che il suo amico lo
avesse incontrato insieme al «procacciatore». Dopotutto, se Paul lo aveva invitato a casa sua per fargli conoscere la
sorella, perché l'ammirato discepolo di Paul non avrebbe dovuto andarci a passeggio? «Ritornerò, e anche molto spesso,
sapete? Finirete per considerarmi un vero seccatore!» annunciò il capitano mentre dava la buonanotte a Muniment.
«Vostra sorella è una persona interessantissima, fra le più interessanti che abbia mai incontrato, e poi il posto, e tutto il
resto, esattamente quello che volevo conoscere, anzi molto di più... originale e nuovo. È stato proprio un diversivo
piacevole, una cosa riuscitissima!»
Il capitano scese un poco a tentoni giù per la buia tromba delle scale, mentre Paul Muniment, dall'alto, gli
offriva la fioca illuminazione di una tremolante candela, e rispondeva alle sue cortesie con un «Oh, beh, dovete
prenderci così come siamo!» accompagnato da uno scoppio d'ilarità schietta e tuttavia non ostile.
Mezz'ora dopo Hyacinth si trovava nell'appartamento del capitano Sholto, seduto sopra un ampio divano
ricoperto da tessuti e cuscini persiani, a fumare il sigaro più costoso che le sue labbra avessero mai assaporato. Lasciato
Audley Court, il capitano lo aveva preso sottobraccio, e insieme si erano incamminati, chiacchierando del più e del
meno, verso il ponte di Westminster (costeggiando il fiume, sotto l'ospedale di Saint Thomas) quando Sholto se n'era
uscito con un: «A proposito, perché non venite su da me a vedere il mio appartamentino? Contiene alcuni oggetti che
potrebbero interessarvi: quadri, cose raccolte qua e là, e anche alcune rilegature sulle quali potreste darmi il vostro
parere.» Hyacinth acconsentì senza esitazione; aveva ancora nelle orecchie l'eco delle domande che il capitano aveva
posto a Rosy, e non vedeva perché non avrebbe dovuto, da parte sua, cogliere l'occasione per accertarsi, come avrebbe
detto il suo compagno, del modo in cui viveva un uomo del bel mondo.
Questo specifico esemplare, abitava in una casa un poco all'antica nella Queen Anne Street, di cui occupava i
piani superiori, e aveva riempito le stanze dagli alti pannelli di legno con le spoglie dei suoi viaggi e con tutti i ritrovati
del gusto moderno. Si sarebbe detto non esistesse paese che non avesse saccheggiato, e quei trofei, per Hyacinth,
significavano una borsa meravigliosamente piena. Tutto l'insieme, dal cameriere personale, dalla voce pacata e neutra il
quale, dopo avere versato il brandy in lunghi bicchieri fece saltare i tappi della soda, al delicato piatto d'argento nel
quale Hyacinth era stato invitato a depositare la cenere del suo sigaro, tutto era una tale rivelazione per il nostro
estasiato giovane, che egli si sentì ad un tempo ammutolito e depresso, tanto perentoria era stata la presa di coscienza
che per fare una persona civilizzata occorrevano migliaia di cose che non avrebbe mai posseduto né conosciuto. Spesso,
nelle sue passeggiate serali, si era domandato che cosa ci fosse dietro ai muri di certi grandi dimore, dalle finestre
illuminate, nella West End, ed ora lo sapeva. E saperlo lo lasciava stordito.
«Allora, ditemi, che ne pensate della nostra amica, la Principessa» disse il capitano mettendo in mostra le
comode pantofole gialle che il servitore lo aveva aiutato ad indossare al posto delle scarpe. L'ansia con cui aspettava la
risposta faceva pensare che avesse atteso con impazienza il momento adatto per porre quella domanda.
«È bella... bella,» rispose Hyacinth quasi trasognato, mentre girava gli occhi per la stanza.
«L'ha molto interessata quello che avete detto; le piacerebbe tanto rivedervi. Vuole scrivervi... immagino che
vada bene l'indirizzo del "Sole e Luna", e mi auguro che andrete da lei, se ve lo propone.»
«Non so... non so, mi sembra tutto così strano.»
«Cos'è che vi sembra strano, mio buon amico?»
«Tutto! Il fatto che io sia seduto qui, il fatto di essere stato presentato a quella signora; che lei desideri
rivedermi e scrivermi, come voi dite; e poi, questo vostro alloggio, con tutti i suoi oggetti strani e rari appesi ai muri, o
scintillanti sotto la luce rosata di quella lampada. E voi, sì anche voi: il più strano di tutto.»
Il capitano rimase a guardarlo attraverso le spirali di fumo così fisso e muto dopo quest'ultima osservazione che
Hyacinth pensò di averlo forse offeso: ma l'impressione svanì ben presto perché Sholto, dopo ulteriori manifestazioni di
gentilezza e ospitalità, trovò modo di lasciar cadere nel discorso l'osservazione che sapeva quanto fosse importante, coi
tempi che correvano, non limitarsi a gustare il solito «goccetto» - dal momento che erano destinati «per quanto concerne
i rapporti fra le classi e tutto quel genere di cose, sapete» - ad assistere a cambiamenti davvero rivoluzionari. Il capitano
parlava come se, da parte sua, fosse un perfetto figlio del suo tempo (e voleva conoscere tutto quello che c'era da
sapere) fino alla punta delle sue gialle ciabatte. Hyacinth si accorse di non essere stato da parte sua molto comunicativo
nei riguardi della Principessa; non appena riuscì a controllare il proprio nervosismo, riferì al suo ospite quello che Milly
gli aveva detto a teatro sul conto di lei, e chiese se la giovinetta aveva capito bene, che la Principessa cioè era stata
cacciata di casa dal marito.
«Sì, l'ha messa letteralmente in mezzo alla strada... o prato che sia, visto che la scena, mi pare, ebbe luogo in
campagna. Ma forse Miss Henning non vi ha detto, o forse sono io a non averlo detto, che il Principe, adesso, darebbe
tutto quanto possiede per riaverla. Potete immaginarvi una situazione più assurda?» disse il capitano ridendo in un
modo che a Hyacinth sembrò alquanto dissacratorio.
Con gli occhi sbarrati s'immaginò la scena, che poteva paragonare solo all'unico incidente del genere di cui
avesse mai avuto esperienza: la violenta espulsione dai pub di donne ubriache. «Quella creatura meravigliosa... che cosa
può aver fatto?»
«Oh, lo aveva fatto sentire un imbecille!» rispose prontamente il capitano.
Poi portò la conversazione su Miss Henning, dichiarandosi felice che Hyacinth gli desse l'occasione di
parlarne. Si erano trovati magnificamente, insieme; forse lei glielo aveva detto. Erano diventati amici per la pelle - en
tout bien tout honneur, s'entend. C'era dunque un altro tipo di donna londinese, di origine plebea, ma intelligentissima; e
quanta poca giustizia le si faceva, normalmente; e che splendore! Ma lei, si capisce, era un esemplare meraviglioso.
«Amico mio, ne ho viste di donne, di tutti i paesi,» continuò il capitano «e le ho conosciute intimamente, e so quel che
dico; e quando vi dico che quella... che quella...!» Poi si fermò all'improvviso, ridendo democraticamente. «Ma forse mi
sto lasciando andare un po' troppo: dovete fermarmi, sapete. In ogni modo mi congratulo con voi, con tutto il cuore.
Prendete un altro sigaro. E ditemi, che stipendio pensate che le diano, in quel grande magazzino? Lo conosco, anzi ho
intenzione di andarci a comprare dei fazzoletti.»
Hyacinth non capiva cosa intendesse il capitano Sholto quando diceva di essersi lasciato andare o quando si era
congratulato con lui; e affettò identica ignoranza sull'argomento dei guadagni di Millicent. Inoltre non aveva voglia di
parlare né di lei né della propria vita privata. Voleva sapere dell'altro riguardo al capitano e venire a conoscenza di cose
che si armonizzassero con l'atmosfera romantica del suo appartamento che ricordava vagamente certi romanzi di
Bulwer. Il suo ospite lo accontentò in pieno raccontandogli una ventina di interessanti avventure, spesso sorprendenti,
che gli erano capitate in Albania, nel Madagascar e perfino a Parigi. Hyacinth lo indusse senza nessuna fatica a parlare
di Parigi (una Parigi vista da una diversa angolazione di quella di Monsieur Poupin) e se ne rimase lì seduto a bere,
completamente incantato. L'unico neo che offuscò lo splendore dalla serata furono le rilegature dei libri: con tutta
consapevolezza fu costretto a rivelare al suo amico che non erano quanto di meglio si potesse trovare. Quando lasciò la
Queen Anne Street, era troppo eccitato per tornarsene a casa; si mise a camminare per Londra con la testa piena di
immagini e di pensieri strani, finché le grigie strade cominciarono a schiarirsi alla luce dell'alba estiva.

South Street, Mayfair, non offre nelle domeniche pomeriggio d'agosto uno spettacolo allegro, eppure il
Principe era rimasto in piedi dietro ai vetri della finestra a guardare per dieci minuti la scena serenamente deserta: le
imposte chiuse delle case di fronte, il solitario poliziotto all'angolo che nascondeva uno sbadiglio con la mano guantata
di bianco, la stessa illuminazione smorzata che sembrava rispettosa del giorno sacro della settimana britannica.
Quell'atteggiamento, tuttavia, era una caratteristica del nostro personaggio, e una delle cose che più avevano esasperato
sua moglie; egli riusciva a restare immobile, talvolta appoggiandosi dove capitava per sorreggere la sua persona alta e
magra, ad osservare pacatamente e taciturnamente qualsiasi oggetto che gli si presentasse davanti, con la testa
aristocratica piegata secondo l'inclinazione che gli riusciva più comoda, per periodi eccezionalmente lunghi. Al primo
ingresso nella stanza aveva dedicato la sua attenzione alla ricca mobilia e all'arredamento che, aveva subito notato, era
sontuoso e vario; alcuni oggetti, li riconobbe come vecchi amici; erano cianfrusaglie a cui la Principessa era
particolarmente affezionata e che l'avevano accompagnata nei suoi straordinari vagabondaggi; altri invece gli erano
sconosciuti e denotavano chiaramente che la passione di lei per «collezionare oggetti» non si era smorzata. Fece due
considerazioni: la prima, che il suo tenore di vita era costoso come sempre - l'altra, che nessuno come lei amava la
mise-en-scène, e che il suo talento nell'arredare un ambiente era ineguagliabile. Ovunque aveva vissuto, i suoi
appartamenti erano sempre stati i più affascinanti d'Europa.
Gli risultava che la casa di South Street l'avesse affittata soltanto per tre mesi, eppure, santo cielo, che cosa non
ci aveva messo dentro! Il Principe fece questa constatazione senza ira, perché non era quello il suo stato d'animo attuale.
Egli era capace d'infuriarsi al punto da far paura anche a se stesso, ma sinceramente riteneva che questo gli accadesse
soltanto quando veniva provocato al di là di ogni umana sopportazione mentre, abitualmente, era mite e conciliante
quanto i suoi modi, estremamente urbani, facevano presentire. Nulla in lui dava a vedere che fosse un gentiluomo
intrattabile o vendicativo: i suoi lineamenti erano irregolari, e il colore della pelle aveva una tonalità biliosa, ma gli
occhi marrone scuro, che riuscivano ad essere a un tempo interessanti e ottusi, esprimevano bontà e malinconia; la testa
poggiava sul lungo collo, con un piglio attento, interessato, e i capelli neri, tagliati a spazzola, insieme a una barbetta
sottile e puntuta, completavano la rassomiglianza con quei vecchi ritratti di illustri personaggi napoletani vissuti al
tempo della dominazione spagnola. Oggi poi, in ogni caso, era venuto lì armato di umiltà e buone intenzioni e non si era
permesso il minimo brontolio per la lunga attesa alla quale era stato costretto. Sapeva anche troppo bene che se la
moglie avesse acconsentito a riprenderlo con sé, glielo avrebbe fatto scontare in ben altro modo che questa piccola,
innocua attesa nel salotto. Ci volle un quarto d'ora prima che la porta si aprisse, e neppure allora si trattò della
Principessa, ma soltanto del sopraggiungere di Madame Grandoni.
Dapprima evitarono accuratamente l'uso di qualsiasi parola. Lei avanzò con entrambe le mani protese, afferrò
quella di lui e la trattenne per un attimo, guardandolo con grande benevolenza. La sua faccia florida e spiritosa si era
allungata in modo quasi comico, e i due, coi loro gesti silenziosi e solenni, avrebbero potuto essere scambiati per
conoscenti che s'incontrassero in una casa dove stessero per aver luogo delle esequie funebri. Era infatti una casa su cui
era discesa la morte, come apprese ben presto dall'espressione di Madame Grandoni: qualcosa era morto per sempre lì
dentro, ed egli avrebbe potuto dar inizio alla cerimonia della sepoltura, se avesse voluto. Tuttavia la decrepita amica di
sua moglie non era tipo da continuare a lungo su quel tono, e dopo averlo fatto sedere accanto a sé sul divano, si mise a
scuotere lentamente e ripetutamente la testa con un'espressione che lasciava già trapelare l'inizio di una interpretazione
meno tragica dei fatti.
«Mai... mai... mai?» disse il Principe con una profonda voce rauca, una voce che contrastava con la sua figura
così sottile. Il suo aspetto era quello tipico degli ultimi discendenti di famiglia antichissima, che oggi noi qualifichiamo
esangui, ma il timbro della voce avrebbe potuto benissimo servire per il grido di guerra di un qualche antenato bellicoso
dalla voce di basso.
«Lei conosce sua moglie meglio di me,» rispose in italiano, che evidentemente parlava con facilità, nonostante
un forte accento gutturale. «Ho cercato di parlarle: è questo che mi ha trattenuta. L'ho esortata ad incontrarla. Le ho
detto che non gliene poteva venire alcun danno e che non si sarebbe dovuta sentire minimamente compromessa. Ma Lei
conosce sua moglie,» ripeté Madame Grandoni con un tono già un po' meno intenso.
Il Principe Casamassima abbassò gli occhi verso i suoi stivali: «Chi conoscerà mai completamente una persona
come quella? Avevo sperato che mi concedesse almeno cinque minuti.»
«Ma a che scopo? Ha forse qualche proposta da farle?»
«A che scopo?! Ma per posare gli occhi su quello splendido viso!»
«È questa la ragione per cui è venuto in Inghilterra?»
«E quale altra ragione potevo avere?» chiese il Principe, fissando con occhi dolenti il lato opposto della strada.
«A Londra, in una giornata come questa, già,» disse la vecchia signora in tono comprensivo. «Mi dispiace
proprio tanto per Lei; se avessi saputo della sua venuta le avrei scritto che poteva risparmiarsi il disturbo.»
Egli emise un profondo, interminabile sospiro. «Mi chiedete cosa desidero proporle. Quello che chiedo è che
mia moglie non continui a uccidermi goccia a goccia.»
«Mi sembra che questo sarebbe più probabile se viveste insieme!» esclamò Madame Grandoni.
«Cara amica, non mi pare che lei sia ancora morta,» rispose tristemente il nobiluomo.
«Io? Oh, per me è passato il tempo in cui era possibile uccidermi. Sono dura come la pietra, io. Ho superato le
mie malinconie ormai da tempo. Ho sopportato molto più di quanto Lei, Principe, non abbia dovuto sopportare. Mi sono
augurata la morte mille volte, ma alla fine sono rimasta viva. I nostri guai non ci uccidono, principe mio. Siamo noi che
dobbiamo cercare di ammazzarli. Ne ho seppelliti parecchi, io. E poi, Cristina mi vuol bene, il perché lo sa il diavolo!»
aggiunse Madame Grandoni.
«E Lei è così buona con Cristina,» disse il Principe, posandole la mano sul polso grassoccio e grinzoso.
«Che vuole? La conosco da tanto tempo, e non le mancano grandi qualità.»
«A chi lo dice!» e si guardò di nuovo per qualche attimo, in silenzio, gli stivali. Poi riprese improvvisamente:
«Che aspetto ha, ora?»
«È sempre la stessa: sembra un angelo sceso ieri dal cielo che sia rimasto deluso della sua prima giornata sulla
terra!»
Il Principe evidentemente era una persona semplice e la metafora alquanto ardita di Madame Grandoni gli
accese la fantasia. Il suo viso s'illuminò un poco, e rispose con entusiasmo: «Ah, è l'unica donna che abbia conosciuto la
cui bellezza non si offuschi mai, neppure per un istante. Non conosce giornate nere. È bellissima anche quando è in
collera!»
«Oggi è splendida, ma non è andata in collera,» disse la vecchia signora.
«Neppure quando le sono stato annunciato?»
«Non mi trovavo con lei, in quel momento: ma quando mi ha mandato a chiamare e mi ha chiesto di venire a
parlarle, non lo ha fatto con veemenza. E perfino quando mi sono messa a discutere, cercando di persuaderla (e sapete
bene come questo non le piaccia affatto), anche allora è rimasta perfettamente calma.»
«Forse perché ormai mi odia e disprezza troppo?»
«Cosa posso dirle, caro Principe, visto che non la nomina mai?»
«Mai, mai?»
«Mi sembra sia comunque preferibile che se inveisse e sparlasse di Lei.»
«Vuole dire che questo potrebbe rappresentare una speranza per il futuro?» chiese rapidamente il giovane.
La sua vecchia amica fece una pausa. «Volevo dire che è preferibile per me,» rispose con una risata che suonò
così cordiale da sdrammatizzare abbastanza bene l'equivoco.
«Vedo che mi vuole ancora bene e che le sto a cuore,» disse, mentre volgeva su di lei i suoi occhi tristi ma
grati.
«Mi dispiace tanto per Lei. Ma che vuole?»
Evidentemente il Principe non aveva alcun suggerimento da dare, e per tutta risposta si limitò ad emettere un
altro lugubre lamento. Poi s'informò se sua moglie si trovasse bene in quel paese e se intendesse trascorrere l'intera
estate a Londra. Sarebbe rimasta a lungo in Inghilterra e - se gli era permesso di fare quella domanda - quali piani
aveva? Madame Grandoni spiegò che la Principessa aveva trovato la capitale inglese di suo gusto, assai più di quanto ci
si sarebbe potuto aspettare, e in quanto a piani, non ne aveva né più né meno di quanto fosse solita. Gli risultava forse
che avesse mai portato a termine un impegno, o fatto nulla che avesse prima progettato o promesso? All'ultimo
momento faceva sempre il contrario, esattamente quello che fino allora non era stato preso neppure in considerazione;
ed era per questo che Madame Grandoni stava facendo, per proprio conto, i preparativi. Cristina, ora che tutto era finito,
avrebbe lasciato Londra da un giorno all'altro, ma senza che nessuno sapesse dove fossero diretti, fin quando non
fossero giunti a destinazione. La vecchia signora s'informò se al Principe, da parte sua, piacesse l'Inghilterra. Egli spinse
in fuori le labbra e disse: «Come potrebbe piacermi qualcosa, in questo momento? E poi, c'ero già stato: ho molti amici
qui.»
La sua compagna si accorse che aveva ancora molte cose da dirle e da chiederle, ma che esitava nel timore
d'incorrere in qualche appunto o rimprovero che la sua dignità - nonostante la sua posizione di persona
irrimediabilmente sconfitta - avrebbe avuto difficoltà ad accettare. Si guardò intorno con aria svagata, e poi disse:
«Volevo vedere coi miei occhi come vive.»
«Capisco, è più che naturale.»
«Ho sentito dire... ho sentito dire...» e il principe Casamassima tacque.
«Ha sentito dire un mucchio di sciocchezze, non ho dubbi.» Madame Grandoni lo guardava come se
presentisse quello che stava per venir fuori.
«Che spende un mucchio di denaro,» disse il giovane.
«Senz'altro, è verissimo.» La vecchia signora sapeva che, per quanto egli fosse molto cauto a spendere il
denaro che gli veniva da cospicue proprietà cui un tempo erano state dedicate molte cure, non era la prodigalità di sua
moglie ad affliggerlo maggiormente in quel momento. Sapeva inoltre che per spendacciona e amante del lusso che
fosse, Cristina non si era mai fino allora sbilanciata oltre i limiti dell'appannaggio che il Principe le aveva assegnato al
momento della loro separazione, appannaggio che aveva stabilito lui personalmente in base a quello che riteneva le
fosse necessario per mantenere un tenore di vita degno del suo nome, per il quale aveva uno smodato rispetto. «Lei è
convinta di essere un modello di economia, di contare ogni scellino,» continuò Madame Grandoni. «Se c'è una virtù di
cui si vanta è il suo senso dell'economia. È proprio l'unica lode di cui si considera degna.»
«Mi domanda se sia al corrente che io,» - esitò un istante, poi proseguì - «non spendo quasi nulla. Ma preferirei
vivere di pan secco piuttosto di sapere che in un paese come questo, in mezzo all'alta società inglese, lei non facesse la
sua degna figura.»
«La sua figura la fa. In quanto a dignità, come potrebbe essere altrimenti, con me al suo fianco?»
«Lei è la cosa migliore che Cristina abbia, mia cara amica. Fin quando le resterà vicina, mi sentirò abbastanza
tranquillo, e una delle ragioni della mia venuta è proprio quella di farmi promettere da lei che non la lascerà mai.»
«Per carità, non c'invischiamo in promesse inutili,» esclamò Madame Grandoni. «Lei, Principe, conosce bene il
valore che può avere qualsiasi impegno con la Principessa: sarebbe come se le promettessi di rimanere in una vasca da
bagno dove scorre acqua bollente. Quando comincerò a scottarmi dovrò pur saltar fuori, fossi anche nuda. Resterò
finché potrò, ma non rimarrei mai se dovessi fare certe cose.» Madame Grandoni pronunciò queste ultime parole con
enfasi, e per un istante lei e il suo compagno si guardarono profondamente negli occhi.
«Di quali cose sta parlando?»
«Non posso dirle di che cosa si tratta. È assolutamente impossibile prevedere quello che Cristina farà; in
qualunque situazione è capace di riservarci sempre qualche grossa sorpresa. Ma le cose di cui parlo le so riconoscere
appena le vedo, e sono tali da farmi lasciare questa casa su due piedi.»
«E dunque, se non se n'è ancora andata...?» chiese lui, con ansia.
«È perché ho creduto di far meglio restando.»
Sembrò solo parzialmente soddisfatto da questa risposta. Tuttavia, dopo un istante aggiunse: «Per me sarebbe
completamente diverso. E se qualcosa di quelle da voi accennate dovesse verificarsi, vedo solo un motivo in più per
desiderare che lei rimanga. Lei potrebbe interporsi, arrestare...» S'interruppe al rude ghigno germanico di lei.
«Le sarà capitato forse di trovarsi qualche volta a Roma, quando il Tevere ha straripato, è vero? Che avrebbe
pensato se avesse udito la gente dire a quei poveracci del ghetto, di Ripetta, che se ne stavano lì col fango fino alle
ginocchia, che avrebbero dovuto "interporsi", "arrestare"?»
«Capisco bene,» disse il Principe abbassando gli occhi. Sembrava che li avesse chiusi, per un attimo, vinto da
un lento spasimo. «Non so dirle neanch'io cos'è che mi tormenta tanto,» continuò subito dopo. «Questo pensiero fisso
che talvolta mi fa saltare il cuore in gola. È una paura angosciosa.» E infatti il suo viso pallido e il respiro affannato
avrebbero potuto appartenere a qualcuno che si fosse visto comparire davanti uno spettro.
«Non c'è bisogno che me lo dica. So benissimo cosa prova, povero amico mio.»
«Ritiene dunque che un pericolo ci sia, che lei trascinerà il mio nome nel fango, farà quello che nessuno ha mai
osato fare? Non glielo perdonerei mai,» affermò a mezza bocca; e il suono rauco della voce rese quel bisbiglio
particolarmente intenso.
Madame Grandoni vagliò la possibilità di dirgli (per prepararlo al peggio) che per la moglie il suo nome aveva
lo stesso valore dell'etichetta che s'incolla sui bagagli, ma dopo rapida riflessione decise di rimandare quella
precisazione ad altro momento. E poi, si disse, il Principe avrebbe ormai dovuto capire che Cristina non dava alcun
valore al suo malaugurato vincolo con una razza ignorante e superstiziosa, e disprezzava gli italiani per il
provincialismo, la parsimonia e la superficialità (considerava la loro conversazione il non plus ultra dell'infantilismo) e
la loro fatua convinzione di avere una preminenza nel grande mondo moderno era stata più d'una volta oggetto della sua
pubblica derisione. Infine si limitò a dire: «Caro Principe, sua moglie è una donna orgogliosissima.»
«E come potrebbe non esserlo? Ma il suo orgoglio è diverso dal mio. E inoltre ha certe idee, certe opinioni!
Alcune decisamente mostruose!»
Madame Grandoni sorrise: «Sì, ma perdono d'importanza, se Lei è lontana.»
«E allora perché mi dice di capire i miei timori, di riconoscere le storie che ho sentito?»
Non so se la buona signora sotto tante pressioni, perdesse la pazienza. Certo è, con una sensibile asprezza, che
proruppe in un: «Cerchi di capire, cerchi di capire questo; Cristina non riconoscerà mai, né a Lei né al suo nome né alle
sue illustri tradizioni un'importanza maggiore di quella che riconosce a se stessa, ma anzi molto, molto minore.»
Sembrò per un momento che il Principe si soffermasse ad analizzare questa frase ambigua e pur tanto
perentoria. Poi, lentamente, si alzò tenendo il cappello in mano e si mise a camminare per la stanza a passi delicati e
solenni, come se i lunghi piedi sottili gli facessero male. Si fermò davanti a una finestra e lanciò un'altra occhiata alla
South Street, poi si voltò e chiese improvvisamente, con una voce cui evidentemente aveva cercato d'infondere un tono
di curiosità più distaccata: «Ha suscitato ammirazione, in questo paese? Vede molte persone?»
«La considerano molto diversa, naturalmente. Ma lei vede solo chi le piace. La maggior parte della gente
l'annoia a morte,» aggiunse coscienziosamente Madame Grandoni.
«Allora perché mi ha detto che questo paese le piace?»
La vecchia si alzò dal suo posto. Aveva promesso a Cristina, la quale detestava l'idea di trovarsi sotto lo stesso
tetto col marito, che avrebbe contenuto la visita in un tempo molto ristretto, e questa mossa era intesa a significare, col
maggior tatto possibile, che era il caso di porvi termine. «È la gente del popolo che le piace,» rispose, incrociando le
mani sullo stomaco rivestito di raso gualcito, alzando verso di lui gli occhi decrepiti ancora arguti: «Sono le classi
inferiori, il basso popolo.»
«Il basso popolo?» Il Principe rimase pietrificato da questa notizia fantastica.
«La povera gente,» continuò la sua amica, che si divertiva a vederlo così stupefatto.
«La plebaglia londinese... la più orribile... la più brutale...?»
«Oh, ma lei si adopera per elevarla.»
«Dopotutto, quello che mi avevano detto era proprio qualcosa del genere,» disse il Principe con aria grave.
«Che vuole? Non si preoccupi, non durerà!»
Madame Grandoni vide però che queste confortanti assicurazioni non venivano raccolte. Il viso di lui era
rivolto verso la porta, che era stata aperta con violenza, e tutta la sua attenzione era monopolizzata dalla persona che in
quel momento stava varcando la soglia. Anche lei guardò da quella parte e riconobbe il piccolo artigiano che Cristina in
modo tanto eccentrico e così tipicamente suo, aveva attirato nel palco quella sera a teatro - aveva informato in seguito la
sua vecchia amica che gli aveva comunicato di andare a trovarla.
«Mr. Robinson!» annunciò in tono altisonante e impersonale un ben addestrato servitore.
«Non durerà molto,» ripeté Madame Grandoni al Principe sebbene quelle parole avessero l'aria di essere
pronunciate piuttosto per le orecchie del signor Robinson.
Mentre lei faceva cenno al cameriere di lasciare aperta la porta e di attendere, Hyacinth rimase in piedi a
guardare alternativamente la strana vecchia, che gli sembrava più strana che mai, e l'alto signore straniero (riconobbe a
prima vista che si trattava di un forestiero) i cui occhi sembravano sfidarlo, divorarlo, e intanto si chiedeva se per caso
avesse commesso un errore, rammentando contemporaneamente a se stesso di avere in tasca il biglietto della
Principessa, con tanto di giorno e ora scritti chiarissimi, in quella sua splendida calligrafia.
«Buongiorno, buongiorno, spero che stiate bene,» disse Madame Grandoni con disinvolta cordialità,
voltandogli però subito le spalle per chiedere all'altro, nell'altra lingua, mentre gli porgeva la mano: «Allora lei lascerà
Londra... fra un giorno o due?»
Il Principe non rispose: continuò a squadrare dalla testa ai piedi il piccolo rilegatore, come per cercare di
scoprire chi diavolo fosse. A Hyacinth sembrava quasi che i suoi occhi andassero in cerca di un pacchettino che avrebbe
dovuto avere sotto il braccio, e senza il quale il suo aspetto era incompleto. In confidenza possiamo però dire al lettore
che, vestito con una cura prima d'allora ignota, e trasformato in un essere nuovo di zecca secondo la straordinaria
metamorfosi operata dalla domenica inglese sui lavoratori cockney salariati, con la bella testa scoperta e il viso attraente
illuminato dallo stupore, il giovanotto di Lomax Place con tutto avrebbe potuto essere scambiato tranne che con un
portapacchi. «La Principessa mi ha scritto chiedendomi di venire a trovarla, Madame,» disse, quasi a prevenire
un'eventuale accusa di tempestività.
«Lo credo bene,» e Madame Grandoni guidò il Principe verso la porta, mentre gli esprimeva l'augurio di un
ottimo viaggio di ritorno in Italia. Ma lui rimaneva immobile e rigido; sembrava aver raggiunto una conclusione nefasta
nei riguardi del signor Robinson. «Devo rivederla, è necessario. Non è possibile che...»
«Va bene, ma non in questa casa, lo sa.»
«Vuole allora farmi l'onore d'incontrarsi con me?» E poiché la vecchia signora esitava, aggiunse con intensità
improvvisa: «Carissima amica, la supplico in ginocchio!» Dopo che lei acconsentì ad incontrarlo, appena fosse stato
possibile, in un giorno e luogo che le avrebbe indicato, egli si portò alle labbra quelle nocche decrepite, e senza più
guardare Hyacinth, si voltò. Lei ordinò al servitore di annunciare alla Principessa l'altro visitatore, e poi si avvicinò al
signor Robinson, fregandosi le mani e sorridendo, con la testa tutta piegata da una parte. Egli ricambiò in modo vago il
sorriso, incerto su quanto gli avrebbe detto. Le sue parole con sua grande sorpresa, furono:
«Mio povero giovane, posso prendermi la libertà di chiedervi che età avete?»
«Certamente, Madame. Ho ventiquattro anni.»
«E voglio sperare che siate un bravo lavoratore, e moderato sotto tutti i punti di vista, e... come dite voi in
inglese, steady, con la testa sulle spalle.»
«Non credo di essere esattamente uno scavezzacollo,» disse Hyacinth senza offendersi. Pensava che la vecchia
lo trattasse con eccessiva condiscendenza, ma la perdonò.
«Non so come si deve parlare, in questo paese, ai giovanotti come voi, senza essere prese per impiccione e
invadenti.»
«Il vostro modo di parlare mi piace,» si affrettò ad assicurare Hyacinth.
Lei lo guardò fisso, e poi ostentando comicamente una gran dignità, disse: «Siete molto bravo. Sono lieta che
io vi diverta. È chiaro che siete intelligente e svelto,» continuò, «e sarebbe un peccato se rimaneste deluso.»
«Che intendete dire, perché deluso?»
«Beh, ho idea che vi aspettiate grandi cose venendo in una casa come questa. Se vi sto importunando dovete
dirmelo. Sono molto all'antica e non conosco le usanze di questo paese. Parlo come negli altri paesi ci si rivolge ai
giovanotti come voi.»
«Non mi scompongo tanto facilmente,» assicurò Hyacinth con una brillante impennata. «Per aspettarsi
qualcosa, bisogna prima sapere, capire, non vi pare? Ed io sono qui, e non so né capisco. Sono venuto soltanto perché
una signora che mi sembra molto bella e molto gentile, mi ha fatto l'onore di mandarmi a chiamare.»
Madame Grandoni lo scrutò per un istante come colpita dalla sua bellezza, e da quell'indefinibile eleganza che
gli stava appiccicata addosso. «Vedo bene che siete molto svelto, molto intelligente; no, non somigliate a quei
giovanotti di cui parlavo. A maggior ragione...!» e s'interruppe, con un piccolo sospiro. La sua missione si stava facendo
un poco troppo difficile. «Voglio mettervi in guardia, e non so come farlo. Se foste un giovane di Roma, sarebbe
diverso.»
«Di Roma?»
«È li che abito, nella città eterna. Se vi ferisco, potete spiegarvelo così - voi non siete come loro.»
«Non mi ferite affatto, vi prego, credetemi: m'interessa molto ciò che dite» disse Hyacinth senza accorgersi che
anche il suo poteva sembrare un tono di condiscendenza. «Su cosa volete mettermi in guardia?»
«Ecco... voglio solo darvi un piccolo consiglio. Non rinunciate a nulla.»
«A cosa potrei rinunciare?»
«A voi stesso. Non lo fate. Lo dico nel vostro interesse. Mi pare che abbiate un piccolo, onesto mestiere, non
ricordo più quale... Comunque, qualunque esso sia, ricordatevi che farlo bene è la cosa migliore a cui possiate aspirare,
meglio che far visite eccezionali, perfino meglio che riuscire gradito alla Principessa!»
«Capisco quello che volete dire!» rispose Hyacinth, calcando un poco il tono. «Ma io amo appassionatamente
il mio lavoro, ve lo assicuro.»
«Sono felice di sentirvelo dire. Tenetevelo stretto e state quieto. Siate diligente e bravo e tirate avanti così. Ho
capito, l'altra sera, che siete uno di quei giovani che vogliono vedere tutto cambiato - sono certa che ce ne sono
tantissimi anche in Italia e anche nella mia cara vecchia Germania, che ritengono giusto lanciare bombe nel bel mezzo
di masse innocenti, e scaricare le pistole contro i governanti o contro chicchessia. Ma non ne voglio parlare: potrebbe
sembrare che lo facessi nel mio interesse, e invece la verità è che, a me, non me ne importa nulla. Sono così vecchia che
tutto quello che posso sperare è di trascorrere i pochi giorni che mi rimangono senza ricevere una pallottola da qualche
parte. Ma voi, prima di spingervi troppo in là, vi prego, cercate di capire se avete veramente ragione.»
«Non è tanto il fatto che mi attribuite idee che forse non ho,» disse Hyacinth facendosi tutto rosso, ma
provando tuttavia una grande simpatia per Madame Grandoni. «Voi parlate senza nessuna esitazione dei nostri sistemi e
dei nostri metodi, ma se dovessimo usarne altri a voi più graditi...!» e seguitando ad arrossire, il giovanotto sorridendo
scosse due o tre volte il capo con aria intensa.
«Non me ne piace nessuno!» urlò la vecchia signora. «Mi piace la gente che sopporta i propri guai come
abbiamo sempre fatto tutti. E in quanto alle ingiustizie, vedete, sono molto buona a ripetervi: non rinunciate a quello
che avete per nessuna cosa al mondo. Vi farò portare del tè,» soggiunse, mentre si avviava fuori della stanza,
mostrandogli la rotonda, bassa, vecchia schiena e trascinandosi dietro, sul tappeto, un misero strascico che aveva perso
ogni splendore.

VI

Lo aveva messo in guardia anche il signor Vetch contro quello che le donne brillanti avrebbero potuto fare di
lui - era stata soltanto una parola sulle labbra del violinista, ma una parola molto significativa. Era stato messo in
guardia da Paul Muniment, ed ora l'avvertimento veniva da una persona perfettamente qualificata in materia; e questo
non era valso che a ingigantire l'emozione che per tutti quegli ultimi tre giorni lo aveva tenuto col fiato sospeso.
Un'emozione, tuttavia, che non gli faceva presagire future, temibili conseguenze; mentre osservava il salotto della
principessa Casamassima e respirava quell'aria che gli sembrava indicibilmente dolce e rarefatta, sperava che
quell'avventura lo avrebbe coinvolto soltanto per una minima parte rispetto a quanto sembrava aver voluto intimare la
vecchia signora. Esaminò una ad una tutte le varie sedie, i divani, le ottomane sparse per la stanza, con l'intenzione di
sedersi sul più sontuoso, e poi per ragioni note soltanto a lui, si sprofondò in un sedile rivestito di broccato rosa, con le
gambe e l'intelaiatura d'oro zecchino, e vi rimase seduto immobile, col cuore che gli batteva rapidissimo, e lo sguardo
che trascorreva irrequieto da un oggetto all'altro. Lo splendore e la suggestione dell'appartamento del capitano Sholto
erano stati completamente offuscati dalla scena che gli si offriva, e poiché la Principessa non si faceva scrupolo di farlo
aspettare (erano passati venti minuti, durante i quali il cameriere era entrato e aveva posato sopra un tavolinetto un
servizio da tè assolutamente smagliante) Hyacinth ebbe tutto il tempo di contare gli infiniti bibelots (quasi tutti erano
addirittura impensabili per lui), tangibili concretizzazioni della personalità di una donna di gran classe, e di capire che
nella loro bellezza ed estrosità si rifletteva non solo un intero mondo artistico ma una raffinatezza di scelta da parte di
chi li possedeva; una complessità di pensieri e, perfino, angosciose profondità di carattere.
Quando finalmente la porta si aprì e il servitore, nuovamente apparso, la spalancò al massimo per lasciare un
ampio spazio che agevolasse il passaggio di una persona importante come la sua padrona, l'ansia di Hyacinth si acuì
spasmodicamente, come talvolta gli era accaduto a teatro aspettando l'entrata di una celebre attrice. In questo caso,
l'attrice stava per recitare per lui soltanto. Passò ancora un istante prima che entrasse, e quando arrivò era vestita con
tanta semplicità - oltre al fatto che ora la vedeva per la prima volta in piedi - da sembrarle completamente diversa. Gli si
avvicinò rapidamente, in modo un poco rigido e riservato, ma nella sua schietta stretta di mano era palese il desiderio di
essere spontanea e disinvolta. Poteva anche sembrare una persona diversa, ma questa persona era di una bellezza ancora
più radiosa. Il chiarore del suo viso sembrava voler dissipare qualunque dubbio che avesse potuto insidiare o tormentare
il nostro giovanotto sulla realtà dell'immagine che lei gli aveva dato di se stessa la volta precedente. E nello stato di
grazia che gli veniva dalla sua presenza, non avrebbe saputo quello che di lei lo colpiva maggiormente: se la fierezza o
l'affabilità.
«Vi ho fatto aspettare tanto, ma il mio salotto ha fama di non essere poi un luogo troppo brutto; vi sono tante
cose da osservare, e forse ne avrete notata qualcuna. Ad esempio, da quella parte c'è una collezione di miniature
piuttosto curiosa.» Parlava a scatti, velocemente, quasi consapevole che stabilire una comunicazione per loro poteva
essere difficile, e tentasse di trovare subito la nota giusta che li mettesse a loro agio, scongiurando quel pericolo.
Sempre rapidamente si sedette davanti al vassoio del tè e ne versò una tazza che gli porse senza domandargli se lo
desiderasse. Lui la prese con mano tremante, sebbene non ne sentisse affatto voglia: era troppo nervoso per bere il tè,
ma non gli sembrava concepibile rifiutare. Bisbigliò che infatti aveva guardato tutti quegli oggetti, ma che ci sarebbero
volute ore per rendere giustizia a tanti tesori, e lei gli chiese se amava le opere d'arte, aggiungendo subito, comunque,
che forse non aveva avuto troppe occasioni di vederle, nonostante naturalmente le collezioni pubbliche aperte a tutti.
Rispose con franchezza che alcuni dei momenti più felici della sua vita li aveva passati al British Museum e alla
National Gallery, e questo sembrò interessarla enormemente e lo pregò subito di dirle la sua impressione su alcuni
quadri e oggetti antichi. Fu così che in brevissimo tempo, almeno così gli parve, si trovò a discutere Bacco e Arianna, e
i marmi di Elgin, con una delle donne più in vista d'Europa. È vero che fu lei a sostenere la maggior parte della
conversazione, passando precipitosamente da un argomento all'altro, ponendogli domande senza poi attendere la
risposta, descrivendo e dando giudizi su oggetti, puntualizzando stati d'animo, servendosi di una fraseologia del tutto
nuova per lui ma che gli sembrava illuminante ed esatta, come quando, ad esempio, si chiese che cosa fosse l'arte se non
una sintesi intesa a suscitare piacere, o quando disse che non le piaceva affatto l'Inghilterra ma che l'amava
assurdamente. Non gli passò per la mente che queste dissertazioni potevano suonare pedanti. Improvvisamente lei buttò
là: «Madame Grandoni mi ha detto che avete visto mio marito.»
«Ah, così quel signore era vostro marito?»
«Purtroppo sì. Che ne pensate?»
«Non so cosa pensare...!» supplicò Hyacinth.
«Vorrei non saperlo neanch'io! Non l'ho visto da quasi tre anni. Oggi ha cercato di me, ma mi sono rifiutata di
vederlo.»
«Ah!» e il giovanotto rimase a guardarla, non sapendo come avrebbe dovuto accogliere questa inattesa
confessione. Poi, siccome l'inesperienza, talvolta, suggerisce alcune soluzioni felicissime, decise di dire,
semplicemente, quello che gli passava per la mente, e aggiunse: «La cosa, naturalmente, vi ha innervosita.» Più tardi,
quando aveva già lasciato la casa, si domandò stupito come avesse trovato il coraggio, a quel punto, di esprimersi in
termini tanto familiari.
Ma lei aveva accolto le sue parole con una breve risata, piena di stupore: «Come lo sapete?» E prima che lui
avesse il tempo di rispondere, aveva continuato: «Il fatto che voi mi abbiate detto questa frase, in questa maniera, mi fa
capire quanto avessi ragione a chiedervi di venire a trovarmi. Sapete, ho avuto qualche esitazione, ma ora so che avete
una grande sensibilità. Lo avevo capito anche l'altra sera a teatro, altrimenti non vi avrei chiesto di venire. Posso
sbagliarmi, ma a me piacciono le persone che capiscono quello che gli si dice e anche quello che non si dice.»
«Non crediate che capisca troppo. Potreste sbagliarvi,» dichiarò coscienziosamente Hyacinth.
«Avete pienamente confermato la prima impressione che mi ero fatta di voi,» rispose la Principessa, sorridendo
quasi a significargli che lo trovava davvero simpatico. «Li scopriremo, i limiti della vostra comprensione! Sono proprio
terribilmente nervosa. Ma passerà. Come sta vostra cugina, la sarta?» chiese poi d'un tratto. E dopo che Hyacinth ebbe
tracciato un breve quadro della povera Pinnie - descrivendola piuttosto in gamba per la sua età e tuttavia vecchia e
stanca, triste e delusa - lei esclamò con impazienza: «Ah, beh, non è mica la sola!» e ritornò con disinvoltura al discorso
interrotto: «Non è stata solo la visita di mio marito - assolutamente inattesa - a rendermi così irrequieta, ma il pensiero
che voi, dopo essere stato tanto gentile da venire qui, poteste domandarvi perché, dopotutto, io ne abbia fatto un caso
tanto importante, e ritenere anche del tutto improbabile ogni spiegazione che potessi addurre.»
«Non chiedo spiegazioni,» disse Hyacinth con grande presenza di spirito.
«È molto carino da parte vostra, e vi prenderò in parola. Le spiegazioni, in genere, peggiorano le cose. Non
desidero però che pensiate (come avreste potuto benissimo fare l'altra sera) che voglia trattarvi come un curioso
animale.»
«Non m'importa, come mi trattate,» disse lui con un sorriso.
Seguì un lungo silenzio, poi lei continuò: «Tutto quello che chiedo a mio marito è di lasciarmi in pace. Ma
niente. Si rifiuta di trattarmi con la mia stessa indifferenza.»
Hyacinth si chiese quale fosse la giusta risposta a una simile dichiarazione, e gli sembrò che il minimo che ci si
potesse aspettare da lui - cosa che riuscì a fare con totale convinzione - fossero le parole: «Non deve essere facile
provare indifferenza per voi.»
«E perché poi, quando mi comporto come una persona odiosa? E so esserlo - non c'è dubbio! Devo però dire
onestamente che con il Principe mi sono comportata in modo estremamente ragionevole e che la maggior parte dei torti
- quelli grossi, che ci hanno portato a una decisione - sono stati da parte sua. Mi direte che è esattamente quello che
dichiara ogni donna che ha fatto scempio del proprio matrimonio. Ma potete chiedere a Madame Grandoni.»
«Che mi direbbe di occuparmi dei fatti miei.»
«È vero, direbbe proprio così,» esclamò ridendo allegramente la Principessa. «E non capisco neppure perché
debba importunarvi con le mie beghe domestiche; è solo che volevo trovare il modo di provarvi che ho fiducia in voi,
dopo che voi me ne avete dimostrata tanta. Ho parlato della separazione da mio marito perché la sua improvvisa
apparizione in casa mia ha fatto tornare la storia alla ribalta, anche se l'argomento è piuttosto noioso. Inoltre, voglio che
sappiate che non ho molto rispetto per le differenze sociali, che in questo paese sono della massima importanza. Non c'è
dubbio che, per qualche verso, facciano comodo, ma quando esistono buone ragioni - ragioni affettive - per ignorarle, e
ci si lascia invece condizionare da qualche tetra superstizione che impone a ciascuno di rimanere al proprio posto, allora
mi sembrano ignobili. Che non ci siano poveri è veramente un affare che riguarda tutti. Se siete socialista, immagino
che la penserete come me; ma poiché la coscienza delle differenze di classe per gli inglesi è una specie di religione,
potrebbe esservisi appiccicata addosso pure a voi (anche se mi rendo conto, ogni istante di più, che siete poco più
inglese di me), così che se, a dispetto delle vostre teorie democratiche, resterete scandalizzato dal mio modo di metterle
in pratica (dal momento che sono anche le mie teorie) sarà meglio chiarire subito che in questo caso, non sarebbe
possibile nessuna intesa fra noi e tanto varrebbe separarci prima di andar oltre.» Si interruppe il tempo necessario per
dar modo a Hyacinth di dichiarare con grande enfasi che lui non si scandalizzava facilmente e poi, senza pause,
avidamente, parlando come se si liberasse da un peso e volesse con il cumulo delle parole rendere meno anormale il
loro strano rapporto, si spinse fino a dichiarare che la sua volontà era di conoscere la gente del popolo, e conoscerla
intimamente - i lavoratori e quelli che lottavano e soffrivano - perché era convinta che costituivano la parte più
interessante della società, concludendo poi con la domanda: «E portarsi dietro, in questi rapporti, l'affettazione delle
buone maniere e dei modi delicati, non sarebbe forse una cosa di pessimo gusto? Se non riesco a sbarazzarmene è
meglio che li lasci in pace. Ma non posso lasciarli in pace. Quella gente mi preme, mi affascina, mi tormenta. Ecco...
dopotutto è semplice: voglio conoscerla e voglio che voi mi aiutiate a farlo.»
«Vi aiuterò molto volentieri, meglio che posso. Ma rimarrete delusa,» disse Hyacinth. Gli sembrava
stranissimo che nel giro di due giorni due signore dell'alta società avessero trovato modo di esprimergli la stessa
misteriosa aspirazione. Era vero: un vento, nato chissà dove, soffiava sull'aristocrazia. Tuttavia, anche se nelle parole
della principessa Casamassima echeggiava la stessa passione che aveva colto in quelle di Lady Aurora, e pur sentendosi
obbligato a scoraggiare la sua interlocutrice attuale come aveva fatto con l'altra, sentì che la forza che animava la
Principessa era ben altra dalle timide, coscienziose, ansiose eresie dell'amica di Rose Muniment. Il carattere delle due
donne era diverso quanto il loro aspetto e il modo di parlare, e questo, forse, rendeva ancor più significativa la loro
curiosità.
«Non ne ho il minimo dubbio,» rispose. «Non c'è una cosa nella vita che non mi abbia delusa profondamente.
Ma, delusione per delusione, questa mi piacerà più delle altre. Eppure non riuscirete a convincermi che tra la gente di
cui parlo, il carattere, le passioni e le motivazioni non siano più genuine, totali, più naives. La gente dell'alta società è
così mortalmente banale. La famiglia di mio marito risale al V secolo, eppure lui è l'uomo più noioso d'Europa. E il tipo
di persone che il mio matrimonio mi obbligava a frequentare era proprio questo. Oh, se sapeste quello che ho passato,
converreste con me che qualche intelligente meccanico (naturalmente gli stupidi non m'interessano) sarebbe già una
piacevole alternativa. Dovevo cominciare da qualcuno - non vi sembra? - così l'altra sera ho cominciato da voi!» Ma
non appena pronunciate queste parole la Principessa si affrettò a precisare, mentre la consapevolezza dell'errore fatto
illuminava il suo volto rendendolo, a giudizio di Hyacinth, ancora più nobile e più teneramente bello: «La sola
obiezione, per quanto vi riguarda, è che voi non avete nulla della gente del popolo, oggi neppure l'abito.» I suoi occhi lo
squadrarono dalla testa ai piedi facendolo vergognare. «Avrei preferito che foste venuto con gli abiti che portate quando
andate al lavoro.»
«Ma allora, diventa vero che mi considerate un animale raro,» ribatté lui.
Forse per confutare quell'affermazione, dopo poco lei riprese a raccontargli le sue vicende private. Doveva
sapere chi fosse, a meno che il capitano Sholto non lo avesse già informato, e gli parlò del suo parentado - americano da
parte materna, italiano da quella paterna - e come aveva passato la prima gioventù vagabondando come una
bohèmienne in mille luoghi diversi (sempre in Europa; non era mai stata in America e sapeva ben poco di quel paese,
anche se desiderava moltissimo attraversare l'Atlantico) abitando in massima parte a Roma. I suoi avevano voluto farla
sposare, quasi fosse un oggetto da vendere per amore di una grande fortuna e di un nome altisonante, ma il matrimonio
era riuscito male, come solo il suo peggiore nemico avrebbe potuto augurarle. I suoi genitori erano morti, fortunati loro,
e lei non aveva nessuno tranne Madame Grandoni, che le apparteneva soltanto nel senso che la conosceva da quando
era bambina; erano come vincolate, per così dire, da quegli anni non semplici ma sostanzialmente innocenti. Non che lei
fosse stata esattamente candida; aveva avuto una pessima educazione. Aveva conosciuto però qualche brava persona,
gente degna di rispetto, ma Madame Grandoni era la sola ad esserle rimasta vicina. Comunque anche lei avrebbe potuto
andarsene, un giorno. La Principessa sembrò voler sottintendere che il destino l'avrebbe obbligata a prendere iniziative
tali da mettere a dura prova la fedeltà della vecchia signora. Ci sarebbe voluto troppo tempo per raccontargli tutte le fasi
attraverso cui era giunta a pensarla a quel modo: il proprio disgusto per un'infinità di organismi sociali, la ribellione
contro l'egoismo, la corruzione, la cattiveria, la crudeltà, l'idiozia di coloro che, in tutta Europa, stavano al potere. Se lui
avesse conosciuto il suo modo di vivere, il milieu in cui per anni era stata condannata a rigirarsi, l'evoluzione delle
proprie idee (Hyacinth fu felice di sentirla usare quel termine) gli sarebbe apparsa un fatto perfettamente normale. Era
stata umiliata, maltrattata, torturata; era convinta di appartenere anche lei ad una delle tante classi sociali che soltanto
una rivoluzione avrebbe potuto riequilibrare. In ogni caso le rimaneva sempre il rispetto di se stessa, ma voleva
recuperarne anche dell'altro, e l'unico modo era di gettarsi in qualche iniziativa che le facesse dimenticare le proprie
vicende private e le permettesse di capire i guai e gli sforzi altrui. Hyacinth l'ascoltò con uno stupore che, man mano
che lei parlava, si trasformava in una resa deliberata; appariva così spontanea, viva, così squisitamente generosa e
sincera. Dopo mezz'ora che stavano insieme, lei era riuscita a rendere facile e normale la loro situazione, e se una terza
persona fosse sopraggiunta in quel momento non avrebbe notato nulla per poter pensare che amichevoli scambi di visite
fra piccoli rilegatori e principesse napoletane non fossero la norma, a Londra.
Hyacinth aveva conosciuto molte donne che parlavano sempre di sé e delle loro faccende private - una volgare
loquacità era, secondo lui, la principale caratteristica del gentil sesso, quale fino allora gli era accaduto di conoscere -
ma capì subito che la gran dama che ora si prendeva la briga di aprirgli il suo cuore non era donna dedita ai
pettegolezzi; che anzi doveva essere, in linea di massima, una persona orgogliosa, con un riserbo pieno d'ironia, così da
risultare, per alcuni, assolutamente sfuggente. Niente di più facile che fosse volubile, eppure l'ipotesi che le simpatie e
curiosità del momento fossero soltanto un capriccio, non suonava come presagio sinistro per il visitatore. Non sarebbe
stato, in ogni caso, un capriccio nobile e interessante? E perché sarebbe dovuto uscire da quell'argenteo raggio lunare
che in quel momento splendeva sul suo cammino? Dobbiamo aggiungere che era molto lontano dal comprendere tutto
quello che lei gli diceva: alcune allusioni e implicazioni erano così difficili da captare che più che altro lo costringevano
a prendere atto di quanto fosse limitata la propria conoscenza della vita. Le sue parole evocavano una quantità di
nebulose immagini che era condannato a non conoscere, e da cui si sentiva tanto più turbato perché non ne possedeva la
chiave. Questo era vero specialmente per quegli accenni alla vita in Italia, nella proprietà del marito, e ai suoi rapporti
con i familiari di lui, che ritenevano di averle fatto un grande onore accogliendola nella loro augusta cerchia (facendo
buon viso a cattivo gioco) dopo aver mosso mari e monti per tenervela fuori. Il posto che le era stato assegnato in mezzo
a quella gente e quello che aveva dovuto sopportare dalla loro boria, dalle loro idee e usanze (sebbene quali fossero, il
suo ascoltatore non aveva ben capito) le avevano evidentemente impresso nell'animo un'inestinguibile avversione e
disprezzo; e Hyacinth capì che la forza di quella vendetta o di quel disprezzo, l'avrebbe portata lontano, rendendola
moderna, democratica ed eretica à outrance, l'avrebbe portata a giurare su Darwin e Spencer e tutti gli scienziati
iconoclasti, oltre che sullo spirito rivoluzionario. Indubbiamente Hyacinth non aveva ragione di lamentarsi della propria
inadeguatezza a comprendere la Principessa, se riusciva già a realizzare che era stata una passione privata a giocare un
ruolo tanto forte nella formazione delle sue idee. Tuttavia quel preambolo, in fondo così esente da ogni asprezza, non
l'aveva sminuita minimamente ai suoi occhi che la vedevano come una creatura ricca delle più lusinghiere doti:
brillante, delicata, complicata, ma complicata con qualcosa di sublime.
Soltanto dopo averla lasciata si rese conto che nonostante avesse parlato tanto lei, aveva costretto a parlare
anche lui. Tirò un profondo sospiro pensando che non aveva poi fatto la figura dell'imbecille, come sarebbe potuto
accadere. L'eccitazione che gli veniva dall'interesse e dall'ammirazione per lei lo avevano salvato, senza dargli alla
testa, e lo avevano spinto a dimostrarle che anche lui, a modo suo, era una persona notevole; tuttavia lo avevano anche
tenuto in uno stato d'ansia e di tensione, come se avesse partecipato a un evento solenne, a una qualche iniziazione
ancora più formale di quelle che si diceva avessero luogo in tenebrosi circoli sotterranei. In realtà, aveva detto più di
quanto avrebbe voluto quando lei gli aveva rivolto alcune domande sulla sue affiliazioni "radicali"; aveva parlato come
si trattasse di un movimento vasto e affermato, mentre invece, almeno per il momento, per quanto poteva saperne lui
per conoscenza diretta, era ristretto nei confini di quelle quattro mura coperte dall'orribile carta da parato, del piccolo
club «Sole e Luna». Si rimproverò per questa leggerezza, che però non era stata originata dall'orgoglio. Era stato solo il
timore di deludere la sua ospite, di sentirla dire: «Allora, perché siete venuto a trovarmi, se non avete nulla di più
interessante da dirmi?» - una domanda alla quale, naturalmente, egli avrebbe potuto replicare con prontezza, se ne
avesse avuto il coraggio, che lui non le aveva mai chiesto di venire, e che la sua visita era stata voluta da lei. Ma era
troppo ansioso di tornare, per avere l'ardire di fare quel discorsetto. Tuttavia quando lei esclamò, cambiando
bruscamente argomento, come faceva sempre, «Mi domando se vi vedrò ancora!» egli rispose, con assoluta sincerità, di
non ritenere possibile che una cosa così deliziosa avesse probabilità di ripetersi. C'era un tipo di felicità che certe
persone non sperimentavano mai, mentre per altre era un fatto normale. E concluse: «È vero che ho provato questo
stesso sentimento dopo avervi salutata, l'altra sera a teatro, e invece eccomi qui!»
«Sì, eccovi qui,» disse pensosamente la Principessa - come se la cosa fosse più seria e imbarazzante di quanto
non avesse immaginato. «Per quanto mi riguarda, essenzialmente non c'è nulla d'inconcepibile nel fatto di rivedervi; ma
potrebbe darsi che per voi non sia mai più così piacevole. Forse si è trattato di quella felicità che arriva una volta sola.
In ogni caso, sto per partire.»
«Capisco, tutti lasciano la città...!» disse Hyacinth, all'altezza della situazione.
«Anche voi, signor Robinson?» chiese la Principessa.
«Beh, in genere, no. Può darsi però che quest'anno riesca ad andare al mare per tre o quattro giorni. Mi
piacerebbe portarci la mia vecchia. L'ho fatto anche in passato.»
«E a parte questo, lavorerete sempre?»
«Sì, ma vorrei capiste che io amo il mio lavoro, e che è una vera fortuna, per un ragazzo come me, averlo.»
«E come fareste, senza? Morireste di fame?»
«No, non credo che morirei di fame,» rispose giudiziosamente il nostro amico.
Lei assunse un'espressione afflitta, ma poco dopo proseguì: «Mi domando se verreste a trovarmi in campagna,
da qualche parte.»
«Accidenti!» esclamò Hyacinth trattenendo il respiro. «Siete così gentile che m'imbarazzate.»
«Non siate banal, per favore. Lasciate che lo siano gli altri. A che vale cercare qualcosa di nuovo, in altri
campi, se anche voi diventate banal? Vi ho chiesto se verreste.»
Non avrebbe potuto dire se in quel momento si sentisse sprofondare nell'abisso o librare in aria. «Sì, credo di
sì, anche se non so proprio come - ci sarebbero parecchie difficoltà da superare; ma verrò dovunque vorrete.»
«Volete dire che non vi è possibile lasciare il lavoro così, su due piedi? E che potreste perderlo, ed aver
bisogno di denaro, e trovarvi a disagio?»
«Sì, ci sarebbero difficoltà del genere. Come vedete, sul piano pratico, quando una persona come voi diventa
amica di uno come me si creano immediatamente ostacoli e complicazioni d'ogni genere.»
«È così che mi piace sentirvi parlare,» disse la Principessa con una gentilezza dimessa che gli sembrò quasi
sacra. «Dopotutto, non so neppure dove mi troverò: devo fare qualche stupida visita, da cui mi aspetto, come unico
conforto, di far trasalire un bel po' di gente. Tutti, qui, mi considerano una grande eccentrica, e non c'è dubbio che lo
sia! Lo potrei essere molto di più, col vostro aiuto. Perché, dopotutto, non dovrei avere il mio rilegatore personale?
Sempre presente, capite - sarebbe tremendamente chic. Potremmo divertirci enormemente, non credete? In ogni modo,
sarò di ritorno a Londra non appena finita la corvée: sarò qui l'anno prossimo. Nel frattempo, non vi scordate di me,»
continuò, alzandosi in piedi. «Anzi, ricordatevi che aspetto che voi mi accompagniate nei bassifondi,... in luoghi
malfamati.» Perché mai il pensiero di quelle scene di miseria dovesse illuminarle il volto, è una cosa inspiegabile; ma il
sorriso che rivolse a Hyacinth - che, pur stando in piedi era leggermente più basso di lei - era eccezionalmente radioso.
Poi, con una voce altrettanto incantevole, aggiunse, riprendendo il discorso fatto qualche istante prima: «Mi rendo
perfettamente conto degli ostacoli che esistono sul piano pratico; ma pur non essendo, per natura, una donna
perseverante, anzi, mi lascio facilmente scoraggiare, non mi sembrano insormontabili. Esistono anche per me, e se voi
mi aiuterete a superare i miei, io farò lo stesso per voi.»
Queste parole, che gli risuonavano continuamente nella testa sembravano dargli le ali e tenerlo sospeso e
librato in aria, quando uscì, quel pomeriggio, da South Street. Aveva in casa una copia dei poemetti di Tennyson - una
raccolta completa, in un volume, stampato su due colonne e in condizioni ancora passabili nonostante il grande uso. Lo
smembrò quella sera stessa, e per tutta la settimana seguente passò le ore libere nella sua stanzetta, e, munito degli
arnesi che teneva per uso personale, e con un pezzetto di cuoio di Russia di un delicato azzurro, prelevato dalla bottega
del vecchio Crook, si dedicò all'opera di rilegatura del libro con tutta l'abilità di cui era capace. Lavorò con religiosa
passione e riuscì a produrre un capolavoro di estetica e di solidità di cui si compiacque quanto Monsieur Poupin al
quale, una settimana dopo, mostrò il frutto delle sue fatiche, e che si lanciò in elogi assai più sviscerati del vecchio
Crook, che invece borbottò qualche parola di approvazione, sempre troppo guardingo per voler creare dei precedenti.
Hyacinth portò il volume a South Street per farne dono alla Principessa, sperando che lei non avesse ancora lasciato
Londra, nel qual caso avrebbe chiesto al domestico di consegnarglielo con un biglietto elaborato durante l'intera nottata.
Ma il maestoso maggiordomo lasciato a guardia della casa che aprì la porta e guardò in giù verso di lui, come se si
trovasse alla finestra del secondo piano in un attimo ribaltò la sua fervida visione trasformandola in un alto muro
anonimo. La Principessa era assente già da qualche giorno; colui che la rappresentava fu tanto gentile da informare il
giovanotto con il pacchetto che era in visita da un «diuca» in un angolo remoto del paese. Si offrì tuttavia di prendere in
consegna e anche d'inoltrare qualunque cosa Hyacinth desiderasse affidargli; ma il nostro eroe si sentì improvvisamente
male all'idea di abbandonare quel suo umile tributo nel vasto, forse impersonale, sconosciuto, ambiente «diucale».
Decise, per il momento, di tenere con sé il pacchetto: lo avrebbe offerto di persona quando l'avesse rivista, e si ritirò
senza separarsene. Più tardi lo vide come una specie di anello di congiunzione tra lui e la Principessa e dopo tre mesi
non gli sembrava più che quel libretto squisito fosse un suo dono a lei, ma che, al contrario, gli fosse stato regalato dalla
più affascinante donna d'Europa. Quasi sempre, sensazioni e impressioni rare, momenti di felicità intensa, per il nostro
giovane si tingevano, retrospettivamente, di un alone mitico e leggendario; così quel capolavoro eseguito dopo averla
vista l'ultima volta, sotto l'impulso dell'emozione, diventò la prova e la misura insieme del suo sentimento - come se uno
spettro, dileguandosi, gli avesse lasciato fra le mani una reliquia palpabile.

VII

Per quanto la faccenda lo toccasse solo indirettamente, può interessare però il lettore sapere che prima della
visita al Duca, Madame Grandoni aveva accordato al principe Casamassima l'incontro a due promessogli quel triste
pomeriggio domenicale. Sgusciò fuori da South Street subito dopo colazione - un pasto che in casa della Principessa
veniva servito, secondo le usanze straniere, alle dodici -, attraversò l'afosa solitudine che in quella stagione avviluppa il
quartiere, ed entrò nel Parco, dall'erba già bruciata e calda su cui vaporava una fumosa cortina di calore, tiepido e
insipido réchauffé - così sembrò almeno alla nostra vecchia amica - della tipica nebbia londinese. Il Principe, come
convenuto, l'aspettava al cancello, e insieme andarono a sedersi sotto gli alberi lungo il viale, tra il disordine delle sedie
vuote, senza nulla che distraesse la loro attenzione dallo spettacolo di uno o due cavallerizzi, superstiti di una gara
ippica di circa quindici giorni prima, le cui vane esibizioni sulla sella erano rese ancora più squallide dalla desolazione
del luogo. Rimasero lì circa un'ora, nonostante madame Grandoni, con tutta la sua tendenza ad interpretare
ottimisticamente ogni cosa, non riuscisse a capire quale conforto potesse mai rappresentare per il suo afflitto compagno.
Non aveva nulla da dirgli che potesse migliorare la sua situazione, mentre lui continuava a fantasticare su un progetto
che la circostanza che non fosse domenica non valeva a rendere meno irrealizzabile; né poteva illudersi di sentirsi più
vicino alla moglie in compagnia di una persona che le era stata accanto. Avrebbe preferito vederlo rassegnato, ma
d'altra parte era disposta ad incoraggiarlo, a collaborare alla sua sottile illusione, pur non approvando il modo in cui si
era comportato all'epoca dell'ultima violenta crisi che aveva chiuso l'incredibile storia del suo rapporto con Cristina. Si
era comportato proprio come un ragazzo viziato, dal carattere difficile, violento; aveva fatalmente perduto tutta la
dignità e la saggezza dando alla Principessa un vantaggio che lei aveva afferrato a volo e che avrebbe tenuto stretto per
sempre. Non si era comportato da uomo; le aveva aizzato contro i propri zii (come se a lei importasse qualcosa dei suoi
zii, per quanto uno di loro fosse un illustre prelato), si era mostrato sospettoso e geloso sempre, puntualmente, al
momento sbagliato, provocando in lei un risentimento tanto più aperto quanto più era giusto. Non era stato né furbo né
forte abbastanza da far valere le proprie ragioni e aveva spostato tutta la polemica su un piano in cui la moglie era
troppo esperta e agguerrita per non ottenere, almeno apparentemente, la vittoria.
Inoltre venne fatto a Madame Grandoni, via via che si protraeva l'incontro con il suo affranto amico, di
riflettere sopra un'ulteriore considerazione. Le riuscì tanto più agevole in quanto, oltre ad essere svelta per natura, e
capace di stigmatizzare le situazioni, sempre, nel corso della sua vita romana, ai cari vecchi tempi (anche se per lei
erano stati misti ad amarezza) aveva vissuto con artisti, archeologi, stranieri genialoidi, gente che amava la buona
conversazione, lanciava idee e ci ricamava sopra. Le venne in mente cioè che anche se le cose non fossero arrivate a
quella crisi definitiva, il temperamento di Cristina, attivo, mobile, ironico, con tutte le sue arditezze e le sue impazienze,
non avrebbe tollerato a lungo la compagnia mortalmente monotona del principe. La vecchia signora, quando si erano
incontrati, aveva esordito dicendo: «Naturalmente vorrà sapere subito se lei le manda un qualche messaggio. No, mio
povero amico, devo essere sincera: gliel'ho chiesto, ma lei mi ha assicurato di non avere nulla, assolutamente nulla da
dirle. Sapeva che sarei uscita per incontrarla - non l'ho fatto en cachette. Non approva, ma accetta per questa volta, dato
che lei ha fatto il grande errore di cercare di avvicinarla. Abbiamo parlato di lei per cinque minuti, ieri sera, dopo che
avevo ricevuto il suo biglietto; vale a dire che io ho detto quello che pensavo, mentre Cristina, bontà sua, mi ascoltava.
Alla fine ha parlato anche lei, con perfetta calma e con l'aria di essere la persona più ragionevole del mondo. Non mi ha
chiesto di riferirle quello che ha detto, ma lo faccio lo stesso, perché mi sembra che sia un buon surrogato di un
messaggio: "Cerco di tenere occupata la mente, di crearmi qualche interesse, nell'odiosa situazione in cui mi trovo; mi
sforzo di dimenticare me stessa, i miei guai e le mie delusioni, con l'aiuto delle poche doti che possiedo. Dopotutto al
mondo ci sono cose più interessanti, e spero di riuscire a dedicar loro tutta la mia attenzione. Non mi sembra troppo
chiedere al Principe, da parte sua, di fare lo stesso sforzo coscienzioso, e di lasciarmi in pace", questo è quanto mi ha
detto sua moglie. È tutto quello che ho da offrirle.»
Dopo aver parlato, Madame Grandoni si sentì turbata dal rimorso: il Principe aveva un viso pallidissimo,
stupito, ferito. Aveva creduto che quelle parole sarebbero servite da saggio ammonimento, ma ora capiva che, venendo
da sua moglie, suonavano crudeli, e si sentì crudele lei stessa per averle riferite. In fondo non erano altro che
un'allusione appena velata alla mediocrità di lui, una mediocrità che, dopotutto, non era criminosa né programmatica né
scelta. Di che poteva interessarsi il Principe, quali interessi poteva cercarsi, e quali doti, santo cielo, possedeva? Era
ignorante come le squallide pecore londinesi che stavano pascolando lì vicino a loro, e limitato come il nastro del suo
cappello.
Aveva preso un'aria penosa: era come se stesse rimuginando su quell'insulto che riusciva a intuire più che a
decifrare, consapevole di non poter fare appello alla propria inettitudine senza convalidare ampiamente le ragioni di sua
moglie. Guardò Madame Grandoni con un viso contratto, e per un istante lei temette che si mettesse a piangere. Non
disse nulla, però, forse timoroso di commuoversi, così che la sua sola risposta fu una sofferenza silenziosa, durante la
quale lei gentilmente posò la mano su quella di lui. Senza dubbio il Principe avrebbe potuto fare molte cose che non
fece, tanto che quando Cristina la interrogò, Madame Grandoni non seppe raccontarle nulla. La vecchia signora infine
cambiò argomento: commentò quale strano paese fosse l'Inghilterra, da tanti punti di vista; accennò ai loro probabili
spostamenti estivi e autunnali, maturati negli ultimi giorni; ma alla fine, come se non l'avesse udita, egli se ne uscì
chiedendo chi fosse il giovanotto che era entrato, proprio mentre lui stava uscendo, quel giorno della sua visita.
Madame Grandoni si arrischiò a dire la verità: «È il rilegatore della Principessa.»
«Il suo rilegatore? Vuole dire uno dei suoi amanti?»
«Principe, come può illudersi che Cristina potrà mai più vivere con lei,» chiese, per tutta risposta, la vecchia
signora.
«Allora perché lo riceve nel suo salotto, annunciato come un ambasciatore e con in mano un cappello come il
mio? Dove erano i suoi libri, le sue rilegature? A lei, questo non lo direi,» aggiunse, come se questa dichiarazione
giustificasse le sue parole. «Le ho spiegato l'altro giorno che sta studiando il popolo, le classi inferiori. Il giovanotto che
Lei ha visto fa parte dei suoi studi.» Non poté fare a meno di ridere, mentre gli offriva questa interpretazione personale,
ma la sua ilarità non trovò alcuna eco.
«Ci ho pensato sopra a lungo, molto, molto a lungo; ma più ci penso e meno riesco a capire. Lei non crede che
sia pazza? Devo dire subito che non m'importerebbe se lo fosse!»
«Pazzi lo siamo tutti, credo,» disse Madame Grandoni; «ma la Principessa non lo è più degli altri. No, vuole
provare tutto; e in questo momento sta provando a fare la democratica o meglio la radicalista ad oltranza.»
«Santodio,» mormorò il giovane. «E qui che dicono, quando vedono il rilegatore?»
«Non lo hanno ancora visto e forse non lo vedranno mai. Ma anche se lo vedessero, importerebbe poco, perché
qui tutto è permesso. Tutto quello che chiedono è che un individuo sia, in un modo o nell'altro, straordinario - uomo o
donna fa lo stesso - e un rilegatore andrà bene come chiunque altro.»
Il Principe rifletté un poco, poi disse: «Come può sopportare la sporcizia, il cattivo odore?»
«Non so di che stia parlando. Se intende parlare del giovanotto che ha incontrato in casa - e, per inciso, quella
era la prima volta che veniva e la Principessa l'aveva visto una sola volta - se si riferisce al piccolo rilegatore, non è
certo sporco, specialmente come noi intendiamo. Le persone di quel tipo qui non sono come i nostri cari romani. Hanno
tutti una spugna grossa come la sua testa; le ho viste nei negozi.»
«Sono pieni di gin, con orribili facce violacee,» disse il Principe. E subito dopo chiese: «Se lo aveva visto
soltanto una volta, come mai è entrato nel suo salotto in quel modo?»
La sua amica lo guardò un po' duramente: «Creda almeno a quello che dico io, mio povero amico! Non si
dimentichi che è proprio così che ha rovinato tutto, trattando una persona (e che persona!) come se fosse una bugiarda.
Cristina ha molti difetti, ma non questo; è la ragione per cui riesco a vivere con lei: dirà sempre la verità.»
Ovviamente non fu piacevole per il Principe sentirsi ricordare il suo più grosso errore, e arrossì un poco alle
parole di Madame Grandoni. Ma non ammise il suo sbaglio, e lei dubitò perfino che lo riconoscesse. In ogni caso egli
sottolineò, con un fare importante, come se avesse ancora molto da dire a suo discapito: «Ci sono cose che è meglio
tenere segrete.»
«Tutto dipende dalla paura che si ha. Cristina non ne ha mai. Oh, le garantisco, è molto pervicace, e quando il
gusto di osservarla e vedere come metterà in pratica le sue ispirazioni non ha più il sopravvento, allora anch'io perdo la
pazienza. Quando non affascina, esaspera. Ma in quanto a Lei, dal momento che è qui e potrei non rivederla per molto
tempo o forse mai più (alla mia età... ho centoventi anni!), posso ben darle la chiave di alcuni aspetti della condotta di
sua moglie. Potrebbe aiutare a considerarla un poco meno fantastica. Alla base di molte sue azioni sta il fatto che si
vergogna di averla sposato.»
«Meno fantastica?» ripeté il giovane sgranando gli occhi.
«Lei può anche obiettare che non c'è niente di più stravagante - o perfino di più pazzo - ma sa - o se lo ignora
non è certo perché Cristina non glielo ha detto - che la Principessa è convinta di aver venduto se stessa, in un momento
nero della sua vita, per un titolo e per una fortuna. E la ritiene una così terribile prova di superficialità che non le basterà
un'intera vita vissuta da persona seria per cancellare quell'onta.»
«Sì, so benissimo che vuol fare intendere di esservi stata costretta. E ora, pensa di comportarsi da persona
seria?»
«Il giovanotto che avete visto l'altro giorno ne è convinto,» disse sorridendo la vecchia signora. «Talvolta lei
presenta le cose in modo diverso: dice di essersi dedicata con passione alla ricerca di un atteggiamento "moderno" e
questo condensa in una sola parola tutto quello che lei e la sua famiglia non siete.»
«Certo, non siamo nulla di simile, grazie a Dio! Diomio diomio!» gemette il Principe. Sembrava così esausto
dalle sue riflessioni che rimase seduto sulla sedia anche dopo che la sua compagna, sollevando la mole corpulenta e
strapazzata, gli ebbe proposto di fare una passeggiatina. Non era cattiva di natura, ma aveva già notato che ogni volta
che si trovava col marito di Cristina, il corso della conversazione la portava sempre, come diceva lei, a cozzare contro di
lui. Dopo questi scontri usava cambiare discorso, e quando il Principe finalmente si fu alzato e le ebbe offerto il braccio,
tentò anche questa volta di parlargli di cose che non gli causassero amarezze. S'informò della salute e della vita dei suoi
zii, ed egli rispose con ricchezza di particolari, come gli era stato insegnato a fare in casi simili; ma quando, dietro
richiesta di lei, furono giunti al cancello più vicino alla South Street (non gli permise di andar oltre) aveva già pronta
una domanda che lei non aveva certo sollecitata. «E chi è, e che fa, questo capitano inglese? Si dicono molte cose sul
suo conto.»
«Il capitano inglese?»
«Godfrey Gerald Sholto - come vedete so molte cose di lui,» disse il Principe pronunciando senza difficoltà
quei nomi inglesi.
Si erano fermati vicino al cancello, al limite di Park Lane, e due carrozze da nolo si diressero precipitosamente
verso di loro da opposte direzioni. «Sapevo che me ne avrebbe parlato, e in fondo è quello che le stava più a cuore
sapere!» esclamò Madame Grandoni con un sospiro. «In realtà è l'ultima persona di cui si deve preoccupare; non conta
proprio niente.»
«Perché?»
«Non lo so - forse perché esistono alcune persone che non contano nulla. Neanche lui pensa di rappresentare
qualche cosa.»
«E come mai, se Cristina lo riceve continuamente e lascia che l'accompagni ovunque?»
«Forse proprio per questo. Quando la gente le dà il modo di stancarla, si comporta senza preoccupazioni. In
ogni caso, non ha ragione di esserne geloso più di quanto non lo sia di me. Sholto è una comodità, un factotum, che
lavora senza paga.»
«Non è innamorato di lei?»
«Certo, ma senza speranza.»
«Ah, poveretto!» disse il Principe con aria tetra.
«Ma lui accetta la situazione meglio di Lei, Principe. Si occupa - come gli ho sentito raccomandare dalla stessa
Principessa - si occupa anche di altre donne!»
«Oh, che mostro!» esclamò il Principe. «Però, intanto la vede.»
«Sì, ma lei non vede lui!» esclamò ridendo Madame Grandoni mentre si voltava per andarsene.

VIII

La vestaglia rosa che Pinnie si era impegnata a confezionare per Rose Muniment diventò un oggetto
importante a Lomax Place, un oggetto che offriva alla povera Amanda un costante spunto per parlare di uno dei grandi
avvenimenti della sua vita - la visita a Belgrave Square da Lady Aurora, dopo il loro incontro al capezzale di Rosy.
Aveva raccontato l'episodio al suo compagno in tutti i più minuti particolari, ripetendo mille volte che la gentilezza di
Sua Signoria era stata al di là di ogni immaginazione. La grandiosità della casa di Belgrave Square figurava, nella sua
narrazione, come qualcosa di opprimente e favoloso, anche se temperata dalle fodere di tela d'Olanda marrone sui
mobili, e dalla nudità della scalinata e dei saloni dov'erano stati tolti tutti i ninnoli. «Se appare già così sontuosa, quando
sono fuori città, che sarà mai quando ci sono tutti ed è tutto esposto?» chiese, con aria smarrita; si permise di criticare
soltanto due cose, una delle quali era lo stato dei guanti e dei nastri del cappello di Lady Aurora.
Se non avesse temuto di apparire indelicata rivelando di aver notato lo stato pietoso di quegli oggetti, sarebbe
stata felicissima di offrirsi per eventuali piccoli rammendi. «Se soltanto venisse qui da me una o due volte alla settimana
la terrei in ordine come si addice a una persona del suo rango,» commentò Pinnie che già si vedeva con l'ago in mano a
lavorare disinteressatamente e freneticamente a vantaggio dell'aristocrazia. Aggiunse che Sua Signoria si era così
malridotta con tutti quei viaggi avanti e indietro a Camberwell; e anche se fosse arrivata a pezzi, in cima a quelle
terribili scale, era poco probabile che qualcuno, lassù, potesse fare qualcosa per lei, con quella strana creatura malata
(era proprio troppo artificiosa) la cui unica attività consisteva nel pensare al proprio abbigliamento e alla propria
carnagione. Se la voleva rosa, va bene, l'avrebbe avuta rosa; ma per Pinnie c'era qualcosa di sconsacrato, in quella
faccenda, come imbellettare un cadavere o vestire un gatto. Era questa la seconda cosa che aveva criticato; le riusciva
molto difficile comprendere l'importanza che Sua Signoria attribuiva a quelle persone così arriviste. Certo, la ragazza
era un'infelice, messa lì come un cagnolino sopra una mensola, ma forse a casa di Sua Signoria avrebbero parlato di
cose più adatte alla maestosità di quei soffitti dorati sotto i quali si muovevano. Lady Aurora, notando la sua
ammirazione, le aveva mostrato tutta la casa, portando personalmente in mano la lampada, mentre diceva a una vecchia
lì presente - una domestica «di fiducia», dalla cuffia piena di nastri che avrebbe volentieri buttato fuori Pinnie, se si
potesse buttare fuori qualcuno col solo sguardo - che poteva fare a meno benissimo di lei. Se la vestaglia rosa, nelle
varie fasi del suo sviluppo, aveva riempito il salottino marrone (sul manichino sembrava terribilmente lunga)
costituendo con quel suo colore rosa una presenza invadente, un fatto che in quel luogo non si verificava da molto
tempo, era soltanto in virtù della sua connessione a Lady Aurora, non già perché appartenesse alla sua umile amica.
Un giorno, quando Hyacinth tornò a casa, Pinnie gli annunciò subito che Sua Signoria era venuta a vederla -
per dare il suo giudizio prima degli ultimi ritocchi. La sarta insinuò che, nel caso specifico, i suoi gusti si erano rivelati
molto strani e quanto meno aveva idee piuttosto imbarazzanti riguardo alle tasche. Che cosa se ne doveva fare delle
tasche la povera signorina Muniment e che cosa ci avrebbe mai messo dentro? Lady Aurora però aveva trovato che
l'indumento superava ogni sua aspettativa, ed era stata più affabile che mai, informandosi di come stavano tutti a Lomax
Place, non per impicciarsi, come faceva talvolta qualcuno di quei signoroni, con aria di condiscendenza, ma proprio
come se la gente umile fosse del tutto considerevole, e aveva perfino temuto che la propria curiosità potesse apparire
«presuntuosa». Con la stessa discrezione aveva chiesto ad Amanda di raccontarle la sua storia e aveva mostrato grande
interesse per la carriera del suo giovane amico.
«Ha detto che hai dei modi affascinanti,» si affrettò ad aggiungere Miss Pynsent, «ma ti giuro sulla mia vita,
Hyacinth Robinson, che non mi è sfuggito assolutamente nulla di quanto potesse dare adito a chiacchiere per te
spiacevoli.» Queste parole furono un palese gesto di eroismo da parte di Pinnie che già sapeva come Hyacinth l'avrebbe
guardata, con uno sguardo fisso, silenzioso, inesorabile, come se lei fosse ancora capace di chiacchiere disgustose (nella
speranza che le sue rivelazioni la gratificassero di un qualche prestigio) e di sciorinare poi, ad addolcire la pillola, la
vuota teoria di una sublime discrezione. Gli occhi di lui sembravano dire: «Come faccio a crederti, e d'altra parte come
faccio a provare che stai mentendo? Sono impotente, perché non riuscirò mai a provarlo senza informarmi dalla persona
con la quale, nella tua incorreggibile mania, sei andata a vantarti, gettando là accenni misteriosi e succulenti. Sai bene
naturalmente che non mi presterei mai al tuo gioco.» Pinnie soffriva atrocemente per queste accuse, eppure vi si
esponeva spesso, perché non sapeva negarsi la gioia, ancora più grande della pena, di far sapere a Hyacinth quanto fosse
stimato, ammirato e quanto tutti si meravigliassero, più o meno esplicitamente, di quei «modi affascinanti» che erano
stati apprezzati da Lady Aurora: questo tipo d'interesse sembrava celare dei sospetti nei riguardi del suo segreto -
qualcosa che richiamava, quando tentava di dare un nome a quella sensazione, un bestiale attendrissement, parola che
rinnegava subito e che pure amava per la vaga dolcezza del suo suono. Quando Pinnie gli disse che Lady Aurora si era
mostrata un po' sorpresa che non fosse mai andato a Belgrave Square a ritirare i famosi libri, pensò che era veramente
ora di andarci, se non voleva rovinarsi la reputazione di uomo di mondo e intanto rifletteva sulla incredibile stranezza di
questa nuova fase della vita che gli si era aperta davanti, da un giorno all'altro: una fase in cui la sua compagnia
sembrava essere diventata indispensabile alle signore dell'alta società, e le sue oscure origini una fonte di attrazione. Lo
stavano accalappiando, una dopo l'altra, e coinvolgevano perfino la povera Pinnie, usandola come intermediaria per
raggiungerlo; e si domandò, con divertita ironia, se questo non significasse che il suo destino lo stava tradendo - che gli
aristocratici, riconoscendolo misteriosamente affine a loro (con quel raffinato flair per il quale andavano famosi) non
andassero da lui per risparmiargli il disturbo di andare lui da loro.
Era già tardi (l'inizio di una sera di autunno) e Lady Aurora era in casa. Hyacinth aveva calcolato mentalmente
a che ora si sarebbe alzata da tavola; per qualche strano motivo questa operazione di «alzarsi da tavola» era stata sempre
strettamente legata, nella sua mente, con la nobiltà. Non sapeva che il pasto principale di Lady Aurora consisteva in una
piccola porzione di pesce e una tazza di tè servita su un piccolo vassoio, nel tinello-salotto, ora spoglio. Aprì la porta a
Hyacinth la stessa sprezzante vecchia di cui Pinnie gli aveva parlato, la quale ascoltò la sua richiesta e lo accompagnò,
attraverso tutta la casa alla presenza della signora, senza che le sue labbra sigillate si aprissero per un solo istante. La
brava padrona di casa stava seduta nel tinello-salotto, illuminato da un paio di candele, e sembrava sommersa da una
quantità di carte spiegazzate e di libri mastri. Stava facendo dei conti, consultando alcune note e prendendo appunti; si
era presa la testa fra le mani e le onde di seta dei suoi capelli si opposero al tentativo di rassettarsi, che lei fece non
appena vide entrare il piccolo rilegatore. La pressione delle dita aveva lasciato piccole strisce rosse sulla pelle rosata.
Esclamò subito: «Oh, siete venuto per i libri, siete molto gentile;» e lo fece passare in fretta in un'altra stanza dove, gli
spiegò, li aveva fatti portare perché lui li scegliesse. Quella fretta, sulle prime, gli fece supporre che lei desiderasse
sbrigare quell'incombenza nel minor tempo possibile e che se ne andasse, ma poi si rese conto che il suo nervosismo e
la sua timidezza erano tali da offrire di lei sempre un'immagine sbagliata. Voleva che si fermasse, desiderava parlargli,
e se gli aveva fatto fretta con i libri, era solo perché avessero il tempo poi per occuparsi di cose meno pratiche.
Hyacinth, dopo mezz'ora, si convinse ancora di più che Sua Signoria, come si era avventurato a dirle nel corso del loro
ultimo incontro, era una vera santa. Personalmente rimase un poco deluso dei libri, pur scegliendone tre o quattro, tutti
quelli che poteva portare, e promettendo di tornare a prendere gli altri. Denunciavano la scarsa dimestichezza di Lady
Aurora con la letteratura francese, e un gusto un poco puerile. C'erano parecchi volumi di Lamartine, e una collezione
delle memorie spurie del Marquise de Crequi; ma per il resto la piccola raccolta consisteva principalmente in
Marmontel, Madame de Genlis, Le récit d'une soeur, e nei racconti di M.J.T. de Saint Germain. Ma gli scrittori della
scuola moderna più rappresentativi, quei realisti spinti e convinti di cui Hyacinth aveva sentito parlare e sui quali
desiderava da tempo mettere le mani, evidentemente non erano riusciti a farsi strada nella candida collezione di Lady
Aurora, anche se vantava un paio di romanzi di Balzac, che sfortunatamente erano proprio gli stessi che il nostro
giovanotto aveva già letto più volte.
Una sensazione molto piacevole tuttavia permeò quei momenti passati nella grande, scura, fredda casa vuota,
dove, qua e là, occhieggiavano e brillavano mobili monumentali - non affollati e casuali come in casa della Principessa -
mentre le fantastiche modulazioni della voce di Lady Aurora svegliavano echi che lo facevano sentire un privilegiato, a
godersela così, con decoro, libero da presenze limitatrici. Lei parlò ancora dei poveri del Sud londinese, e in particolare
dei Muniment, che, pareva, avessero l'unico difetto di non essere poveri abbastanza per i suoi gusti, e non
sufficientemente esposti a pericoli e privazioni perché lei potesse aiutarli. A Hyacinth piacque per questo, anche se
avrebbe preferito che parlasse d'altro - non sapeva neppure lui di cosa - a meno che, come Rose Muniment, non
desiderasse anche lui sentirla parlare di Inglefield. In compagnia della povera gente, non lo infastidiva parlare delle loro
tristi condizioni, talvolta ne ricavava perfino una strana, selvaggia soddisfazione; ma si accorse che parlandone con i
ricchi cadeva ogni interesse; i ricchi non avevano lo strumento dell'esperienza personale per poter capire la povertà. I
loro errori e le loro illusioni, e la presunzione di aver capito cosa volesse dire «necessità» e «sporcizia» quando non lo
sapevano affatto, gli avrebbe sempre provocato una irritazione più o meno imprecisata. A Hyacinth venne in mente che
se considerava manchevole di questa capacità intuitiva perfino la coscienziosissima Lady Aurora, sarebbe stato poi
molto strano farsi paladino del gioco della principessa Casamassima.
La padrona di casa non fece la minima menzione di Pinnie, ed egli intuì che Lady Aurora aveva voluto
metterlo sul piano in cui la gente non esprime né sorpresa né approvazione per le buone maniere dei rispettivi parenti.
Capì che lo avrebbe sempre trattato da gentiluomo e che anche una sua eventuale, lieve ingratitudine verso di lei, non
gli sarebbe mai stata rinfacciata. Da parte sua non avrebbe avuto occasione di dirle - come era accaduto con la
Principessa - che si sentiva considerato un curioso animale; e provò quella sensazione, sempre così gradevole, di
imparare qualcosa di nuovo, di prendere cioè atto dell'esistenza di tanti modi diversi (e chissà quanti ce n'erano ancora
che non conosceva) per essere una donna di classe. Il modo che Lady Aurora sembrava aver preferito per conversare
con lui sui grandi problemi della povertà e delle riforme era lo stesso che avrebbe usato se lui fosse stato un affabile
aristocratico (del tipo di Lord Shaftesbury) sovvenzionatore di molte opere di beneficenza, e noto per la larghezza di
vedute nei confronti delle imprese filantropiche. Gli tornò alla mente più che mai la possibilità che Pinnie avesse
chiacchierato, avanzando i suoi diritti di nobile; lo sospettò più vivamente di quando la sarta gli aveva riferito gli
apprezzamenti di Sua Signoria, ma si rammentò che lui stesso era stato lì lì per comportarsi da imbecille, i giorni prima,
lasciandosi sfuggire un accenno alla sua dannata origine. In ogni modo, si sentì lusingato dalla delicatezza della figlia
del «pari» che aveva dato semplicemente per scontato che fosse «uno di loro»; e pensò che avesse o meno conosciuto la
sua storia (ed era certo che neanche dopo vent'anni in sua compagnia avrebbe scoperto se la conosceva o no), quella
sfumata cortesia, quel tatto innato, che riusciva a coesistere perfino con la sua estrema goffaggine, erano le stigmate di
quella «razza superiore» alla quale i romanzieri alludono quando parlano dell'aristocrazia. Le uniche parole ad avere
una sfumatura di superiorità, furono quelle che Lady Aurora, guardandolo un poco dall'alto, gli disse in tono allegro e
incoraggiante: «Immagino che da un giorno all'altro vi metterete a lavorare in proprio.» Gli parve di una
condiscendenza così crudele che non riuscì a ricambiarle un sorriso adeguatamente privo di malizia: «Oh miodio, no,
non lo farò mai. Qualunque tentativo di mandare avanti un'azienda fallirebbe miseramente, non sono affatto portato per
quel genere di cose.»
Lady Aurora assunse un'aria sorpresa: «Oh, capisco, non vi piace... non vi piace...!» Esitò. Egli capì che stava
per dire se non gli piacesse l'idea di dedicarsi completamente a un mestiere; ma la fermò in tempo per impedirle di
attribuirgli dei sentimenti tanto sciocchi e precisò che aveva inteso dire semplicemente questo: l'unica sua vocazione era
di fare il suo lavoro, qualunque esso fosse, con abilità e buon gusto, e ancor più, di essere pagato per il lavoro fatto. Il
suo concetto degli «affari», della riuscita, non andava oltre. «Oh certo, me lo immagino!» esclamò Milady lanciandogli
tuttavia uno sguardo che denunciava come in realtà non lo capiva e fosse rimasta perplessa. Prima che se ne andasse, gli
chiese improvvisamente (non era stato detto nulla che giustificasse la domanda) che cosa pensasse del capitano Sholto
che aveva incontrato l'altra sera a Audley Court. Non gli sembrava una persona molto strana? Hyacinth confessò di sì, e
subito Lady Aurora incalzò con ansia: «Non vi sembra decisamente volgare?»
«Come potrei giudicarlo io?»
«Lo potete, e come... proprio come chiunque altro!» Poi aggiunse: «Mi sembra un vero peccato che loro
stringano rapporti con gente di quel genere.»
«Loro», naturalmente, erano Paul Muniment e sua sorella. «Con una persona forse un poco volgare?» -
Hyacinth giudicò squisita questa preoccupazione. «Ma pensate alla gente che conoscono - a tutti quelli che li
circondano - pensate a tutta Audley Court!»
«I poveri, gli infelici, le classi operaie? Oh, quelle non le chiamo volgari!» gridò Milady con occhi raggianti. Il
giovanotto, quella sera, rimasto a lungo con gli occhi aperti prima di addormentarsi, rise fra sé e sé, ma senza cattiveria,
di quel timore che lui e i suoi amici potessero essere contaminati da un amico intimo di una Principessa. Si domandò se
non avrebbe trovato perfino la Principessa un tantino volgare.

IX

Non bisogna pensare che i suoi rapporti con Millicent fossero rimasti indenni dall'eccezionale incidente che
l'aveva sfiorata con la sua ala, a teatro. Tutta la vicenda aveva prodotto una forte impressione sulla giovinetta di
Pimlico; per settimane, ogni volta che si vedevano, lei tirò fuori una quantità di osservazioni sull'argomento e benché le
facesse comodo conservare un atteggiamento scandalizzato per la villania del modo di procedere della Principessa e di
qualificarla una sfacciata straniera del tipo da cui chiunque fosse al corrente di come andavano le cose a Londra si
sarebbe tenuto alla larga, era chiaro quanto fosse felice di essersi trovata gomito a gomito con una persona così brillante
e di aver visto confermata, in così alte sfere, la stima che portava al suo amico. Lo assicurò che le critiche che muoveva
alla signora del palco posavano tutte sulle informazioni ricevute dal capitano Sholto, quando era andato a sedersi vicino
a lei - informazioni che variavano a seconda del momento; mantenendo però la costante caratteristica di essere tutte
indifferentemente negative per la Principessa. Hyacinth aveva i suoi dubbi che il capitano si fosse espresso in termini
poco discreti, sarebbe stata una cosa del tutto innaturale per lui. Era, è vero, una persona artificiosa - e forse aveva detto
a Millicent, che molto probabilmente lo aveva bombardato di domande, che quella sua illustre amica era separata dal
marito, ma per il resto, era molto più verosimile che la ragazza avesse dato libero sfogo alle sue facoltà inventive di cui
lui, ogni tanto, aveva avuto modo di accorgersi, stimolate da quello spirito distruttivo, per metà infantile e per metà
plebeo, teso a far crollare tutto quello che fosse più grande di lei; da quell'energia sfrenata che ne avrebbe fatto
un'eroina nel contesto di una rivoluzione. Hyacinth (lo abbiamo già detto) non riteneva Millicent falsa, e gli sembrò
prova di un candore assoluto che lei inventasse storie assurde, oltraggiose, contro una persona che sapeva soltanto di
detestare e dalla quale non poteva sperare in cambio né stima né qualsiasi apprezzamento. Con le persone intimamente
insincere è impossibile sapere come la pensano, ma da questo punto di vista Miss Henning non avrebbe mai potuto
esser accusata di lasciarvi nel dubbio. Sul capitano invece fu molto sbrigativa e non ritenne di dover riferire il resto
della conversazione e ostentò la sua aria più indifferente, con Hyacinth, il quale, per ripagarla delle critiche fatte alla sua
nuova amica, alluse con notevole ironia alla nuova conoscenza quella che a sua volta lei aveva fatto.
Secondo lui, l'ammirazione di Sholto per la bella donna dai colori sgargianti della seconda balconata, era alla
base di tutta la storia: aveva persuaso la Principessa a vestirsi dei panni della rivoluzionaria e di voler pertanto conferire
con il piccolo agitatore, lassù, in modo da potersi sedere al posto di quel giovincello facilmente ingannabile. Al tempo
stesso, non sarebbe mai venuto in mente al nostro giovanotto di nascondere che la signora del palco aveva dato seguito
alla cosa: si contentò di dire che questo non faceva parte del complotto originario, ma era il semplice risultato - non del
tutto assurdo - del fatto che lui si era mostrato molto più affascinante di quanto la Principessa potesse aspettarsi.
Descrisse con qualche variante la sua visita a South Street, ben sapendo che non avrebbe mai sentito il bisogno, con la
sua amica d'infanzia, di mistificare quel genere di esperienza. Non tanto per la probabile scena di gelosia e di trionfo
che avrebbe potuto scatenare - erano altre le cose che gli facevano paura; la sua gelosia, con tutta la violenza, la
temerarietà e perfino un certo illogico humour di cui si condiva, lo divertiva e metteva in risalto la franchezza, la
passionalità, il piglio che gliela facevano tanto amare. Non si sarebbe mai curato di risparmiare la suscettibilità di Miss
Henning; quanto gli fosse affezionata non avrebbe saputo dire, ma il suo non avrebbe mai potuto essere un affetto
delicato, e il loro rapporto era chiaramente destinato a essere nient'altro che uno scambio di scontri e ammaccature, di
uscite sarcastiche e scambievoli défis. Lei gli piaceva, in modo strano, assurdo; ma dopotutto tormentarla - lei sapeva
incassare - era meglio che risparmiarla. Non pensava che la fanciulla potesse avere qualche serio motivo di essere
gelosa della Principessa; non gli veniva in mente di porre a confronto i sentimenti che poteva suscitare in cuori tanto
diversi, né quelli che gli si potevano accendere in reazione a quelli provocati nell'una o nell'altra. Senza dubbio non era
esente da una certa leggerezza, ma non riusciva ad associare mentalmente una gran dama con una commessa
esuberante, intente a contenderselo come l'ambito premio di una gara. Come avrebbero potuto mai aver qualcosa in
comune - per trascurabile che fosse il desiderio di accaparrarsi Hyacinth Robinson? Una cosa che non disse a Millicent
e che non aveva alcun desiderio di dirle, era la faccenda del tutto diversa del suo pellegrinaggio a Belgrave Square. Può
darsi che si fosse innamorato della Principessa (era troppo presto per definire l'emozione e lo smarrimento che lei gli
aveva procurato) ma certamente non avrebbe mai provato un trasporto per Lady Aurora; e tuttavia gli avrebbe procurato
un dolore molto più grande di quello provato nell'altro caso sentire Millicent sparlare dell'angelo consolatore di Audley
Court. Forse la differenza stava nel fatto che era difficile per Millicent arrivare a scalfire la Principessa, mentre Lady
Aurora era più alla sua portata.
Dopo la visita al suo appartamento, Hyacinth aveva perso di vista il capitano Sholto, che non si era più fatto
vedere al «Sole e Luna», la piccola taverna che mostrava al mondo la sua faccia comune e normale, mentre offriva, nel
retro, un insospettato, segreto rifugio a macchinazioni impegnate a fondo. Nulla di più naturale che il capitano in questa
stagione fosse assorbito dagli svaghi abituali della società cui apparteneva; e il nostro giovanotto dava per scontato, a
meno che non viaggiasse al seguito della Principessa, nell'eterna speranza di essere notato un giorno da lei, che si
trovasse con ogni probabilità impegnato ad affrontare i mari ventosi del Nord sopra uno yacht o acquattato sugli
Altipiani scozzesi a caccia di cervi; la conoscenza che il nostro eroe aveva delle notizie d'attualità del suo paese gli dava
la certezza che la gente ricca in autunno fosse dedita inevitabilmente all'una o all'altra di queste occupazioni. Se invece
il capitano non era intento a nessuna delle due cose, allora era sicuramente in viaggio per l'Albania, o almeno per Parigi.
Beato lui, rifletté Hyacinth, mentre con la fantasia lo vedeva immerso in avventure esotiche, intanto che i suoi giovani
piedi irrequieti continuavano a percorrere, durante quelle stagnanti settimane di settembre e ottobre, i noti marciapiedi
di Soho, Islington e Pentonville, e le squallide strade tortuose che collegano quei quartieri di operai. Aveva detto alla
Principessa che talvolta, in quel periodo, si prendeva una vacanza, e che c'era la probabilità che avrebbe accompagnato
al mare la sua veneranda compagna; tuttavia per il momento gliene mancavano i mezzi. Hyacinth stava passando un
periodo in cui sentiva acutamente la mancanza del denaro, e pensava continuamente che la piacevole compagnia
femminile comportava un continuo ricorrere alla tasca. Non soltanto era senza un soldo, ma aveva anche debiti: doveva
«pence» e scellini a questo e a quello, come avrebbe detto lui stesso, e la ragione del suo abbattimento era fatta per metà
di rimorso e per metà di rassegnazione al pensiero delle molte volte in cui non aveva potuto fare a meno di fondi per
non deludere qualche signorina dalle pretese ben precise, e risaliva essenzialmente a una certa crisi (che così poteva
chiamarsi) della sua vita, quando cioè si era reso conto che non ci si poteva recare in visita da una principessa nudo e
crudo. Così, quest'anno non aveva chiesto, come tutti gli altri operai, il permesso annuale di una settimana al vecchio
Crook - Eustache-Poupin, che non aveva mai lasciato Londra dal suo arrivo, proprio quell'estate, assecondato dalla sua
coraggiosa moglie, si lanciò alla scoperta dell'ignota Inghilterra, con la scusa di un biglietto di andata e ritorno per
Worthing che non sapeva come utilizzare. Il modo migliore per non spendere, anche se non certo il migliore per far
denaro, era pur sempre quello di continuare a recarsi giornalmente alla vecchia, nota, squallida bottega dove, man mano
che le giornate si accorciavano e l'aria di novembre s'ispessiva in un color giallo livido, la fiammella scoperta del gas
che spesso bruciava dalla mattina alla sera illuminava le brutture dalle quali mani esperte si sforzavano di cavar fuori
qualcosa di bello - e le brutture di quell'ambiente squallido e disordinato, di quelle malconce pareti prive di parati, dei
tavoli da lavoro macchiati e tagliuzzati, delle finestre che guardavano su una sporca viuzza piovigginosa, di quelle
braccia scoperte, delle sordide schiene strette nei panciotti, dei grembiuli chiazzati di macchie, degli odori del corpo,
delle spalle pazienti, ostinate, irritanti, e delle inevitabili facce segnate e volgari dei suoi compagni di lavoro. I rapporti
del nostro giovane amico coi suoi colleghi potrebbero essere raccontati in un capitolo a parte, ma tutto quello che qui si
può dire a riguardo è che il bravo, piccolo artigiano di Lomax Place aveva in un certo senso una doppia personalità, e
per quanto vivesse nella bottega del signor Crookenden, ancor più ne viveva fuori. In quel piccolo mondo affaccendato,
che sapeva di colle, di resine, di pellami, dove la paga e la birra erano i principali argomenti di conversazione, era stato
bollato per il suo modo di fare come uno straniero, ma capace di stranezze anche in fatto d'imparzialità. Non si era fatto
strada in quel posto senza aver prima scoperto che l'operaio inglese, quando è animato ed è allegro, diventa alquanto
greve, e ne aveva fatto le spese anche in modo pesante. Per tutto il primo anno aveva sognato, reprimendo l'ira e
inghiottendo le lacrime, il giorno beato in cui lo avrebbero lasciato in pace, giorno che col tempo era arrivato, poiché
essere abili ha sempre i suoi vantaggi, a patto di esserlo notevolmente, e Hyacinth lo era stato tanto da crearsi un modus
vivendi che aveva fatto esclamare al signor Poupin: «Enfin, vous voila ferme!» (il francese, lui pure terribilmente
éprouvé all'inizio, aveva sempre mostrato una irsuta fermezza e contrapposto alla volgarità insulare una dignitosa
finezza). Da allora le scene di Soho erano diventate una quotidiana, oscura, fantomatica proiezione di ombre relegata
nel passivo della vita, incapace del minimo apporto alla realtà, o quanto meno alla ambizione, tranne per un
insufficiente numero di scellini, il sabato sera, e sporadici, spasmodici ricordi per qualche lavoro delicato che avrebbe
potuto essere ancora più delicato, o di altri segreti del mestiere nel quale si vantava di essere insuperabile tranne che dal
sublime Eustache.
Una sera di novembre, dopo aver saldato un debito considerevole con Pinnie, gli restava ancora una corona in
tasca, una corona che sembrava roteare come una banderuola incalzata dal soffio di una dozzina di probabili usi, tutti
validi. Era andato a fare una passeggiata, pensando vagamente di spingersi fino a Audley Court. E nel profondo di
questo piano nebuloso, sul quale il respiro umido delle strade, che quella sera in particolare sembrava rendere le cose e i
luoghi notevolmente distanti, aveva soffiato un certo gelo, si era insinuata l'idea di come sarebbe stato bello portare
qualcosa a Rose Muniment, che si deliziava di regaletti da sei pence e alla quale, da qualche tempo, non aveva portato
nulla. Finalmente, dopo aver vagabondato qua e là, incerto fra una visita a Lambeth e la possibilità che quelle due o tre
ore che aveva davanti trovassero Millicent Henning disponibile, decise che, se bisognava dilapidare una corona, la cosa
più semplice era cercare di cambiarla. Si era ritrovato dalle parti di Mayfair, un po' per accorciare la strada e un po' per
istintiva autodifesa; quando si sta correndo il rischio di spendere avventatamente i propri soldi, c'è tutto da guadagnare a
immettersi in un quartiere dove, specialmente a quell'ora, non c'erano negozi alla portata di piccoli rilegatori. Ma
evidentemente Hyacinth aveva cantato vittoria troppo presto, perché gli venne in mente di cambiare a un pub la sua
moneta d'oro in più agevoli pezzi d'argento. Quando decideva di entrare in quei locali, la scelta, di preferenza, era per il
più decoroso; non si sapeva mai che gente ci fosse al di là della porta a vento. I pub che scintillano qua e là in mezzo al
grigiore residenziale del vasto quartiere che ruota intorno a Grosvenor Square, risentono della raffinatezza della zona,
così che il nostro amico non fu minimamente sorpreso (era entrato in quella sezione del locale contrassegnata «bar
privato») di trovare un solo cliente appoggiato al bancone sul quale, dopo aver educatamente enunciato la sua richiesta,
Hyacinth posò la moneta. Rimase però molto sorpreso quando, guardando meglio, si accorse che quel bevitore solitario
era il capitano Godfrey Sholto.
«Mio caro ragazzo, che straordinaria coincidenza!» esclamò il capitano. «Per una volta ogni cent'anni che entro
in un locale come questo!»
«Neanch'io ci vengo spesso. Credevo foste nel Madagascar,» disse Hyacinth.
«Perché non sono più venuto al "Sole e Luna"? Beh, sono stato sempre fuori città, sapete. E poi, - mi capite? -
voglio stare molto attento. È il modo migliore per farsi strada, no? Ma ho l'idea che voi non crediate alla mia
discrezione!» disse ridendo Sholto. «Che devo fare per farvi capire? A proposito, volete un brandy e soda?» continuò,
come se questo avrebbe aiutato Hyacinth a capire. Sembrava un poco agitato e, se fosse stato possibile attribuire un
sentimento simile a un individuo così indipendente e stravagante, anche leggermente confuso e vergognoso di essere
stato visto in un locale così plebeo. Eppure, non lo era più del «Sole e Luna». Questa volta era vestito in modo consono
alla sua posizione sociale, senza la bombetta e la giacca trasandata, e Hyacinth lo guardò con invidia pensando al
fascino che un sarto poteva conferire alla vita. Più che mai il nostro eroe ebbe la sensazione che fosse proprio uno di
quelli che spesso, mentre passeggiava osservando la gente, aveva guardato con stupore ed invidia, quel tipo d'uomo di
cui uno diceva trattarsi d'«un fuori classe» volendo così indicare che lui, e i par suoi, avevano il mondo in tasca. Sholto
esortò la barista a non gingillarsí e a preparare subito il brandy e soda che Hyacinth, per semplificare le cose, aveva
deciso di accettare: forse era proprio così che si comportavano i «fuori classe». E quando il giovanotto ebbe preso il
bicchiere non aveva forse l'aria di esortarlo a non indugiare oltre a bere, e di sorridergli con aria divertita come se la
combinazione di un rilegatore così piccolo con un bicchiere così grosso fosse piuttosto comica? Tuttavia il capitano si
dette la briga di chiedergli come aveva passato l'autunno e che nuove aveva di Bloomsbury e anche d'informarsi di
quella brava gente al di là del fiume. «Non potete credere l'impressione di quella sera, sapete.» Poi continuò, con fare
disinvolto: «E così adesso avete intenzione di rimanervene tranquillo, per tutto l'inverno?» Il nostro eroe lo guardò
stupefatto: si domandava quale altra importante alternativa potesse avere; non pensò lì per lì che fosse quel genere di
domande che i fuori-classe si scambiano incontrandosi dopo l'elegante parentesi estiva, e che il suo amico era caduto
vittima di una momentanea distrazione. In realtà il capitano si riprese subito: «Oh ma certo, voi avete il vostro lavoro, e
cose simili;» e poiché Hyacinth non era riuscito a mandar giù tutto d'un fiato il contenuto del grosso bicchiere, gli
chiese se aveva notizie della Principessa. Il nostro giovane rispose che le uniche notizie potevano essere quelle che il
capitano forse avrebbe avuto la bontà di dargli, ma aggiunse che era stato a trovarla il giorno prima della sua partenza.
«Ah, ci siete andato? Avete fatto bene, proprio bene.»
«Ci sono andato perché lei gentilmente mi aveva scritto di andare.»
«Ah, vi aveva scritto di andare?» Il capitano lo fissò per un attimo coi suoi strani occhi incolori: «Lo sapete che
siete un essere dannatamente privilegiato?»
«Lo so bene.» Hyacinth arrossì e si sentì alquanto sciocco. La barista, che aveva sentito quella strana coppia
parlare di una principessa, si mise a fissarlo anche lei, appoggiando i gomiti sul bancone.
«Lo sapete che c'è gente che darebbe la testa per ricevere un invito da lei?»
«Non ne ho alcun dubbio!» - e si rifugiò in una risata che suonò meno spontanea di quanto avrebbe voluto,
mentre si chiedeva se il suo interlocutore non appartenesse a quella categoria. In quel caso la barista avrebbe avuto
ragione di guardarlo stupefatta, perché per quanto Hyacinth fosse convinto di essere figlio di Frederick Purvis, era
sempre incredibile che la Principessa lo preferisse al capitano Sholto. E la sensazione d'incredibilità era rafforzata dal
modo impeccabile con cui il suo compagno continuò a parlare, un modo che presupponeva una lunga scuola.
«Ah, vedo che sapete come prendere la cosa! E se siete in contatto con lei, perché dite di poter avere sue
notizie per mezzo mio? Mio caro amico, io non ricevo sue missive. Forse vi sembrerebbe naturale, ma non è così.» E, a
una nuova risata di Hyacinth che poteva sembrare ambigua, aggiunse: «Tanto peggio per me - è questo che volete
dire?» Hyacinth rispose che soltanto una volta aveva avuto l'onore di ricevere un biglietto e gli raccontò di aver saputo
da lei stessa che le sue lettere erano sempre dettate dal capriccio del momento: a volte scriveva moltissimo, mentre altre
faceva passare mesi senza toccare la penna. «Oh, immagino benissimo quello che avrà potuto dirvi!» rispose il capitano
con l'aria di saperla lunga. «Allora, aspettate il prossimo capriccio! Sta facendo visite, sapete, a un bel po' di famiglie
illustri. È una gran cosa trovarsi con lei da qualche parte, una grandiosa commedia.» Specificò, ora che se ne ricordava,
di aver sentito dire che aveva preso, o aveva intenzione di prendere, per qualche mese, una casa in campagna, e
concluse dicendo che se Hyacinth non aveva intenzione di finire il suo brandy e soda, potevano pure andare. Hyacinth
non aveva in realtà molta sete, e mentre uscivano, il capitano, per spiegare la sua presenza nel pub (fu l'unico accenno)
osservò che tutti i suoi amici sapevano bene quanto amasse quelle baracche fuori mano. «Avrete certo notato,» disse,
«quanto ami esplorare. Se non avessi esplorato, non vi avrei mai conosciuto, non vi pare? Quella ragazza era piuttosto
carina, avete notato che bella figura? Peccato che abbiano sempre mani così orribili.» Istintivamente Hyacinth si era
diretto verso sud, ma Sholto, infilandogli una mano sotto il braccio, lo pilotò nella direzione opposta. Il pub da dove
venivano si trovava quasi all'angolo della strada. Appena svoltato il capitano accelerò l'andatura come se avesse una
ragione precisa per affrettarsi. Rallentò però il passo alla vista di una giovane donna che, venendo dalla direzione
opposta, girava l'angolo altrettanto velocemente, e dette uno strattone a Hyacinth che da parte sua aveva già intravisto il
viso della ragazza - come una luce che illuminasse l'oscurità - e si era messo a gridare:
«Ciao, Millicent!» gli uscì spontaneamente dalle labbra, mentre il capitano, riprendendo a camminare, gli
diceva: «Che succede, chi è, la tua graziosa amica?» Hyacinth si rifiutò di proseguire e ripeté il nome di battesimo di
Miss Henning così forte che la ragazza, che li aveva già superati senza voltarsi, fu costretta a fermarsi. Allora fu certo di
non essersi sbagliato, anche se Millicent rimase muta. Si fermò e lo guardò con la testa alta, mentre lui si avvicinava,
districandosi da Sholto, che rimase indietro ancora un istante prima di unirsi a loro. Il cuore di Hyacinth si era messo a
battere forte; l'incontro con la ragazza in quel luogo, a quell'ora, lo aveva fortemente sorpreso. Ma quando lei si mise a
ridere di gusto e gli chiese perché la stesse guardando come se fosse una cavalla imbizzarrita, dovette riconoscere che
non c'era nulla di così straordinario, dopotutto, nell'incontro casuale fra due persone che giravano con tanta frequenza
per le strade di Londra. Millicent non aveva mai nascosto che di sera doveva «trotterellare» per varie commissioni; e
quando, una volta, le aveva obiettato che per una giovane donna rispettabile, meno andava in giro da sola tanto meglio
era per la sua rispettabilità, gli aveva chiesto quanto, secondo lui, le stesse a cuore la rispettabilità e aveva aggiunto che
se le avesse regalato una carrozza, o la fosse andata a prendere con un mezzo tre o quattro volte alla settimana, avrebbe
indubbiamente conservato illibata la reputazione. Con la sua straordinaria abilità a cambiare le carte in tavola, ostentò a
sua volta una grande meraviglia ed esclamò:
«Che diavolo stai facendo da queste parti? Sono certa che stai andando a far danno da qualche parte!»
«Buonasera Miss Henning; che piacevole incontro!» disse il capitano scappellandosi con un allegro svolazzo.
«Oh, come va?» rispose Millicent, come se lì per lì non l'avesse riconosciuto.
«Dove andavi così di fretta, che stai facendo?» domandò Hyacinth guardando dall'uno all'altra.
«Dico, non ho mai visto dei modi simili, per uno che gironzola come te!» gridò Miss Henning. «Sto andando a
trovare un'amica - una domestica - in Curzon Street. Hai qualcosa da ridire?»
«Non vogliamo saperlo, non vogliamo saperlo!» s'intromise Sholto dopo che lei aveva parlato senza la minima
esitazione. «Da parte mia, odio l'indiscrezione. Dov'è che non può andare una donna affascinante quando incede con
passo leggero nel buio che si addensa?»
«Ehi, che state dicendo?» chiese con fare sussiegoso la ragazza al compagno di Hyacinth. Era risentita,
sospettando che avesse voluto insinuare che in effetti il suo piede non era affatto leggero.
«Verso quale missione pietosa, quale segreto impegno?» rise il capitano.
«Segreto un corno!» urlò Millicent. «Voi due, piuttosto, girate sempre in coppia?»
«D'accordo, cambieremo strada e ti accompagneremo fino alla casa della tua amica» disse Hyacinth.
«Va bene,» replicò Millicent.
«Va bene,» aggiunse il capitano; e i tre si diressero insieme verso Curzon Street. Camminarono per un po' in
silenzio, mentre il capitano fischiettava. Poi Millicent si voltò improvvisamente verso Hyacinth.
«Non mi hai ancora detto dove stai andando, sai?»
«Ci siamo incontrati in quel pub,» disse il capitano, «ed eravamo entrambi così imbarazzati di esserci scoperti
in un luogo simile che ce ne siamo venuti via insieme senza pensare a dove saremmo andati.»
«Quando esce con me ostenta di non poter soffrire quei locali,» dichiarò Miss Henning. «Avrei dovuto dare
un'occhiata là dentro per vedere chi c'era.»
«Beh, è piuttosto carina,» continuò il capitano. «Mi ha detto di chiamarsi Giorgiana.»
«Ci sono andato per farmi cambiare una corona,» disse Hyacinth, fiutando una certa aria di disonestà in giro e
ben felice di poter, da parte sua, dire tranquillamente la verità.
«Per farti cambiare la cuffia di tua nonna, vuoi dire! E poi ti consiglierei di tenerti stretto il tuo denaro; per
quanto ce n'hai!» esclamò Millicent.
«È per questo che mi stai dicendo un mucchio di bugie?» buttò lì Hyacinth. Mentre camminavano si era
concentrato tutto su un pensiero, nel tentativo di alimentare e soffocare a un tempo un suo sospetto. Era livido all'idea di
essere stato preso in giro; tuttavia riuscì a dire a se stesso che nella vita, grazie a Dio, bisognava sempre far posto al
caso, e che avrebbe potuto mettersi completamente dalla parte del torto con un'accusa infondata. Solo più tardi,
raccogliendo le impressioni capì - almeno così gli parve - che i suoi sospetti erano fondati; per il momento, non appena
l'ebbe formulata, si vergognò della vivace risposta data a Millicent. Avrebbe potuto per lo meno aspettare e vedere cosa
gli riservava Curzon Street.
La ragazza lo aggredì immediatamente: «Bugie? bugie?» chiedendogli se era quello il modo di trattare in
pubblico una signora. Si era fermata di colpo a un incrocio e continuò, con una voce così acuta che Hyacinth si rallegrò
al pensiero che la strada a quell'ora era deserta: «Hai un bel coraggio a parlare di falsità, quando ti basta che una donna
ti faccia gli occhi dolci da un palco!»
«Ti proibisco di parlare di lei,» la interruppe il giovanotto tremando.
«E perché poi non di "lei"? Non crederai che sia una donna perbene, spero!» La risata di Millicent risuonò nel
quartiere silenzioso.
«Mio caro amico, tu lo devi sapere, visto che sei stato a casa sua,» disse con un magnifico sorriso il capitano.
Hyacinth lo guardò stupefatto, irritato e sorpreso a un tempo della parte ambigua che quello stava giocando in un
incidente che senza dubbio poteva diventare serio, ma che comunque non era da prendersi alla leggera. «Certo che ci
sono stato dalla principessa Casamassima, grazie a voi. Dopo che siete stato voi ad insistere che ci andassi, dopo che mi
trascinaste voi da lei, me ne fareste una colpa, ora? E poi voi, chi diavolo siete, che volete da me?» gridò il nostro eroe,
mentre, in un attimo, gli si affollavano nella mente tutte le perplessità e le preoccupazioni che il capitano gli aveva
suscitato e che non era riuscito a mettere bene a fuoco. L'improvvisa ondata di rancore cancellò all'istante ogni altra
seduzione.
«Amico mio, qualunque cosa io sia non sono un imbecille,» rispose quel gentiluomo con imperturbabile
serenità. «Non vi rimprovero nulla. Volevo solo mettere pace fra voi. Amici miei... amici miei,» e col suo fare consueto
posò una mano sulla spalla di Hyacinth mentre portando l'altra sul cuore s'inchinava verso la fanciulla con un gesto
galante che aveva qualcosa di paterno: «Questo assurdo malinteso deve assolutamente finire, come si conviene a tutte le
liti fra innamorati.»
Hyacinth si ritrasse dal contatto del capitano e disse a Millicent: «Tu non sei realmente gelosa... di nessuno. Fai
solo finta tanto per gettarmi la polvere negli occhi.»
A questa uscita Miss Henning reagì con parole decisamente pesanti, ma il capitano, con le sue ripetute proteste,
le spazzò via: non erano altro che una cara, deliziosa, terribile coppia era veramente interessante vedere come nelle
persone pari loro le primitive passioni sonnecchiassero a fior di pelle. Giunse quasi a spingerli nelle braccia l'uno
dell'altra e concluse che per fugare quel malumore dovevano andare tutti insieme al cabaret del Pavillon, il più vicino
locale del genere nel quartiere, lasciando che la domestica di Curzon Street pettinasse da sola la parrucca della sua
padrona. Il lettore lo ha già conosciuto come un uomo di grande disinvoltura, e senza dubbio ora si sarà reso conto di
quanto fosse giustificata quella definizione: avanzò la sua proposta con tanta amabilità che i suoi compagni salirono
senza protestare su una carrozza che si diresse, rotolando rumorosamente, verso il locale scelto, con Hyacinth
schiacciato in mezzo agli altri due, sull'orlo del sedile. Due o tre volte il nostro giovanotto si sentì salire il sangue alla
testa pensando che se fra quei due c'era un'intesa, ora, dietro le sue spalle, avevano tutto l'agio di metterla a punto. Se
quella intesa si fosse consolidata a suo danno, quella serata sarebbe stata un'occasione d'oro, e quel pensiero gl'impedì
di distrarsi anche quando, al «Pavillon», il capitano riservò un grosso palco privato e ordinò dei gelati. A Hyacinth
interessava così poco quella sua piccola piramide rosata che lasciò la consumasse Millicent, che aveva finito la propria.
Si rese conto però che, se aveva preso una cantonata, sarebbe stata molto grossolana, e si astenne dunque dal formulare
la domanda che gli veniva continuamente alle labbra, frenando l'impulso di chiedere al loro ospite perché diavolo gli
avesse fatto tanta fretta nel pub se non si trovava lì apposta ad aspettare Millicent. Sappiamo che agli occhi di Hyacinth
uno dei meriti di quella signorina era l'incapacità di ingannare, e si chiese se fosse possibile, per una fanciulla, cambiare
così da un mese all'altro. Era un pensiero consolante; ma, nonostante tutto, prima di lasciare il «Pavillon», decise, con
una delle sue geniali intuizioni, di aver capito benissimo quello che intendeva Lady Aurora quando aveva detto che il
capitano Sholto era una persona volgare.

Paul Muniment era solito piombare in silenzi improvvisi, mentre gli altri parlavano, ma questa volta non aveva
aperto bocca da mezz'ora. Quando parlava, Hyacinth lo ascoltava quasi col fiato sospeso e quando non diceva nulla, lo
guardava fisso ascoltando gli altri attraverso la mediazione del suo viso limpido. Al «Sole e Luna» però Muniment si
curava pochissimo del suo giovane amico, e non faceva nulla che desse a vedere una loro intima amicizia; Hyacinth a
volte capiva come si seccasse dell'incapacità del piccolo, ansioso rilegatore a nascondere la stima che gli portava. Si
chiedeva se si trattasse di un atteggiamento deliberato, di una calcolata misura prudenziale da parte di Muniment o, se
più semplicemente, fosse una manifestazione di una certa bruschezza, insita nel suo carattere, che senza essere duro era
per natura insofferente di ogni smanceria. Al «Sole e Luna» le smancerie erano ridondanti, certe sere, l'eccesso di
idiozie sembrava far scoppiare il locale e ci si vergognava di trovarsi mescolati a tanta ovvia fatuità e sfacciata
ambizione. Tutti, ad eccezione di una o due persone, si coprivano di ridicolo dando colpi sul tavolo e ripetendo di
continuo frasi vuote in cui sembravano assommare in quel momento l'intero patrimonio mentale. Alcuni blateravano
incessantemente: «L'ho già detto nel febbraio scorso, e una volta per tutte, quello che ho detto ho detto»; altri
chiedevano eternamente: «E che diavolo me ne faccio di diciassette scellini, di diciassette dannati scellini? Che me ne
faccio, me lo dite?» una domanda che, a dire il vero, finiva sempre per ricevere una risposta breve. E altri ancora
ripetevano a sazietà che se non oggi era domani, e molti ribadivano di continuo che l'unico modo di rimettere in piedi le
cancellate del parco era di ritirarle su. Un piccolo calzolaio dagli occhi rossi e la faccia grigiastra, il cui aspetto non
piaceva a Hyacinth, raramente cambiava il suo ritornello. «Beh, siamo o non siamo in buona fede? È quello che vorrei
sapere.» Per conto suo era terribilmente in buona fede, ma sembrava che non avesse altro modo per dimostrarlo; era
molto legato (anche se stavano sempre a litigare) a un omaccione non meglio identificato, dal viso paonazzo e il respiro
affannoso, che passava per un esperto di cani, aveva mani grassocce e portava all'anulare un grosso anello d'argento con
certi capelli incastonati. Hyacinth sosteneva trattarsi del pelo di un terrier che da vivo era stato alquanto aggressivo.
Aveva sempre in bocca lo stesso ritornello: «Beh, siamo o non siamo arrivati al punto in cui moriamo di fame? Mi
piacerebbe sentire l'opinione dei presenti, su questo argomento.»
Quando il tono scadeva a questi livelli, Paul Muniment rimaneva assolutamente zitto, contentandosi di
fischiettare, poggiato all'indietro, con le mani in tasca e gli occhi fissi sul tavolo. Hyacinth spesso credeva fosse sul
punto di esplodere e di cantare ai presenti tutto quello che pensava di loro - gli era perfettamente chiaro quello che gli
passava nella testa: ma Muniment non mise mai a repentaglio la propria popolarità fino a quel punto; la considerava -
così disse una volta al suo giovane camerata - un'arma troppo preziosa per cui si era munito di santa pazienza dando al
tempo stesso una dimostrazione di come bisognasse sempre usare la propria testa. Hyacinth non era a dire il vero troppo
sicuro di quanto Paul fosse popolare, e l'unico rimprovero che muoveva all'amico era proprio la tendenza a ritenersi più
popolare di quanto in realtà fosse. Muniment considerava la maggior parte dei suoi colleghi dei perfetti imbecilli, ma
Hyacinth era convinto di sapere meglio di lui fino a che punto lo fossero; ed era proprio l'imprecisione di questo
giudizio a determinare, in un certo senso, l'erronea valutazione di Muniment sulla propria influenza - un'influenza che
sarebbe stata più forte di qualsiasi altra il giorno in cui avesse deciso di esercitarla. Hyacinth si augurava l'avvento di
quel giorno. Soltanto allora avrebbero saputo tutti dove stessero realmente, e quel benessere per cui si stavano battendo
ciecamente, faticosamente, impigliati in una sorta di torbida nebbia intellettualistica sarebbe passato dallo stadio della
mera discussione e di doloroso, acuto spasmodico anelito, a quello di una solida, inamovibile realtà. Muniment era
unanimemente approvato, quando parlava, mentre, quando non era presente, era messo in discussione con allusiva
saccenteria. Tutti erano d'accordo che egli sapesse vedere più lontano di qualunque altro, ma era sospettato di voler
spingere le sue previsioni più lontano di quanto fosse necessario; come disse una sera uno dei più inveterati
frequentatori del club, sarebbe stato sufficiente che questo individuo avesse calibrato la propria lungimiranza alla
distanza di un lancio di pietra. Si diceva inoltre che non avesse nulla, personalmente, di che lamentarsi, o che, pur
avendolo, non si lamentasse mai - un atteggiamento che non poteva non recare insito, latente, il seme di un eventuale
disinteresse. Hyacinth si rendeva conto di essere passibile della stessa imputazione, ma non poteva farci nulla; gli
sarebbe stato impossibile esibire a prova dell'autenticità dei suoi sentimenti, al «Sole e Luna», lo stato del suo
guardaroba o denunciare che da sei mesi non metteva in bocca un pezzetto di bacon. Alcuni membri del club costretti a
una forzata disoccupazione, si dilungavano sulle vane peregrinazioni in cerca di lavoro, le crudeli rispostacce subite, gli
aneddoti vivaci sull'insolenza che circola negli uffici, racconti che davano a volte a Hyacinth la spiacevole sensazione
che se fosse toccato a lui di ritrovarsi senza lavoro, sarebbe stata tutta colpa sua, visto che aveva in mano un mestiere
sicuro su cui poter decisamente contare. Non si rendeva conto, comunque, che in quella piccola banda di esseri
malcontenti (piccola soltanto se si contavano le persone che si riunivano di volta in volta; amava fantasticare sulla sua
potenziale vastità, densa di misteriose ramificazioni e affiliazioni), il suo ruolo era preciso e inequivocabile: sarebbe
stato meraviglioso riuscire a trovare tanta energia e sicurezza da renderlo operante. Era convinto - e la prova era
nell'aria, nella facilità con cui era riuscito a metter piede nel «Sole e Luna» - che Eustache Poupin si fosse preso la briga
di divulgare la storia della sua origine, della tragedia di sua madre; per cui, in qualità di vittima di una società infame e
di leggi inique, gli avevano riconosciuto un conto da saldare più grave di quelli di quasi tutti loro. Era un rivoluzionario
ab ovo, e questo faceva dimenticare le sue cravatte eleganti, quella tranquillità economica di incerta natura che si
sospettava lo tenesse con le spalle al coperto, l'uso dell'h (fin da piccolissimo era riuscito a pronunciarla perfettamente)
e il fatto di possedere una mano felice - un particolare che in un sistema egualitario poteva diventare pericoloso. Non ne
aveva mai chiesto conto a Poupin perché doveva troppo al francese per poterlo rimproverare di aver preso un'iniziativa
promossa unicamente dalla premura. Inoltre, il suo collega della bottega del vecchio Crook, gli aveva detto, quasi a
premunirsi contro l'accusa d'indiscrezione: «Ricordati, figlio mio, che sono incapace di sollevare il velo che hai voluto
stendere sopra la tua tormentata individualità. La tua dignità morale non avrà mai nulla da temere da me. Ma ricordati
che fra i diseredati esiste un linguaggio mistico che fa a meno di prove, una massoneria, una divinazione; si
comprendono fra loro anche a mezze parole.» Era dunque con una mezza parola che Hyacinth era stato capito a
Bloomsbury; ma un'innata delicatezza gl'impediva di valersi della propria posizione di vantaggio e di servirsi della
commiserazione altrui, - che sebbene strana e oscura non per questo era meno concreta, - per la scalata al successo. Non
aveva nessun desiderio di diventare un capopopolo solo perché sua madre aveva ucciso il proprio amante ed era morta
scontando la condanna: queste circostanze esigevano impegno, ma anche una certa umiltà. Quando la riunione al «Sole
e Luna» andava a gonfie vele e splendeva di quell'onestà che era il fondamento di tutto il suo pensiero speculativo
dimostrando come la massa popolare non fosse altro se non un leone assopito che già respirava più rapidamente e
cominciava a sgranchirsi e ad arrotare le unghie, in quei momenti, talvolta perfino eccitanti, Hyacinth aspettava quasi di
sentirsi assegnare da una voce il compito particolare che doveva svolgere. La sua ambizione era di svolgerlo
brillantemente, di offrire un esempio - magari un esempio per i posteri - di dedizione pura, giovanile, quasi fanciullesca.
Si rendeva conto di non avere l'autorità per fare promesse o assumersi le responsabilità del salvatore, e non invidiava
colui su cui avrebbe gravato questo fardello. Muniment sì, era in grado di portarlo, e il primo credo di Hyacinth era il
proprio impegno ad aiutarlo, a costo di qualsiasi sacrificio. Era allora, in quelle sere di più intense vibrazioni, che
aspettava il sacro segno.
Quei segni si fecero più frequenti in quel secondo inverno, perché il momento era difficilissimo; in quel mondo
sotterraneo in cui si viveva con le orecchie attaccate al suolo, il profondo, eterno gemito della miseria di Londra sembrò
ingigantirsi fino a fare da sottofondo all'intera vita. L'aria putrida giungeva laggiù appiccicata ai soprabiti umidi di
uomini silenziosi, e rimaneva lì, sospesa, finché fermentava in un calore nauseante attraverso il quale brutte facce si
squadravano serie, e pipe dall'aroma penetrante emettevano da parte loro sbuffi di fumo con ostinata fierezza, quasi a
proclamare che ormai non rimaneva più altro: né pane, né carne, né birra, né scarpe, né coperte, né le povere cose al
monte di pietà, né il focolare spento, a casa. Allora Hyacinth restava colpito dalla saggezza dei suoi compagni, dalle
loro intenzioni gravi che non lasciavano presagire nulla di buono per le classi danarose; e se ancora accadeva che
l'autore del monotono quanto vano ritornello «Che diavolo me ne faccio di mezza sterlina?» riscuotesse larghi consensi,
il nostro eroe tuttavia più di una volta percepì che finalmente si era maturi per la rivoluzione. La sensazione fu
particolarmente acuta quella sera, cui avevo cominciato ad accennare quando Eustache Poupin si fece strada a fatica
attraverso gli altri e annunciò, come se si trattasse di una grande notizia, che nell'Est di Londra, quella sera, c'erano
quarantamila uomini senza lavoro. Si guardò tutt'intorno con gli occhi dilatati, mentre prendeva posto. Sembrava volersi
rivolgere a tutti e a ciascuno, per responsabilizzare tutti i presenti in ascolto. Doveva la sua posizione di prestigio al
«Sole e Luna», al modo brillante con cui personificava la figura del rifugiato politico, il magnanimo cittadino illibato
buttato fuori dal letto nel cuore della notte, strappato a forza dal focolare domestico, dai suoi cari e dalla sua
professione, e scaraventato al di là del confine con addosso soltanto un pastrano. Poupin si esibiva in questo ruolo ormai
da molti anni, ma non aveva mai perso il fascino del proscritto oltraggiato; e il quadro appassionato da lui dipinto
dell'amarezza dell'esilio, commuoveva perfino coloro che sapevano con quanto successo avesse trasferito i suoi penati a
Lisson Grove. Era opinione generale che avesse subito ogni traversia per amore delle proprie opinioni; e i suoi
ascoltatori di Bloomsbury, che anche nei momenti di rabbia più feroce si sentivano pur sempre inglesi, non sembravano
rendersi conto, anche se capivano tante altre cose, che il suo appello a simpatizzare con lui perché lo accogliessero
come uno di loro, mancava decisamente di tatto. La forza del suo discorso aveva imposto l'enunciato che al di fuori
della bella, suprema Francia, non esisteva altro luogo degno di essere nominato, e aveva lasciato l'impressione che quel
paese fosse dotato di uno charme sovrannaturale. Muniment una volta confidò a Hyacinth la sua certezza che se gli
fosse stato permesso di tornare in Francia (cosa che poteva verificarsi da un giorno all'altro visto che la Repubblica era
tanto indulgente da estendere continuamente le amnistie ai «comunards») ci sarebbe restato molto male, perché là non
avrebbe potuto fare il rifugiato, e in ogni modo era convinto che a Londra fosse rifiorito proprio in virtù delle sue
sofferenze.
«Perché ci dite questo come se si trattasse di una notizia sensazionale? Forse non lo sappiamo e non lo
abbiamo sempre saputo? Ma avete ragione, ci comportiamo come se non ne sapessimo nulla,» disse il signor Schinkel,
lo stipettaio tedesco che aveva introdotto il capitano Sholto al «Sole e Luna». Aveva un viso lungo, macilento, bonario,
i capelli unti, e portava perennemente una sciatta benda intorno al collo, che sembrava coprire qualche malattia: «Voi ce
lo ricordate - il che va benissimo; ma noi lo dimenticheremo fra mezz'ora. Non siamo persone serie.»
«Pardon, pardon; per quel che mi riguarda, non sono d'accordo!» rispose Poupin tamburellando sul tavolo con
la punta delle dita: «Se non sono una persona seria, non sono niente.»
«Oh no, voi siete qualcuno,» disse il tedesco fumando, con aria assorta, la sua pipa monumentale. «Siamo tutti
qualcuno, ma temo che non serva a nulla.»
«Beh, le cose potrebbero andar peggio senza di noi. Preferisco di gran lunga trovarmi qui, in questo letamaio,
che altrove,» sottolineò il grassone che s'intendeva di cani.
«Certo, è piacevolissimo, specialmente se avete davanti la vostra birra, ma non lo è altrettanto ai "docks", dove
cinquantamila anime muoiono di fame. È una serata molto brutta,» continuò lo stipettaio.
«Non potrebbe essere peggiore,» disse Eustache Poupin guardando il tedesco quasi lo ritenesse responsabile
delle parole del grassone. «È tanto orribile che l'immaginazione si ritrae, si rifiuta...!»
«Oh, che c'importa dell'immaginazione!» dichiarò il grassone. «Vogliamo un corpo compatto, in assetto di
marcia.»
«Cosa intendete per corpo compatto?» chiese il piccolo calzolaio dalla faccia grigia. «Spero che non vi riferiate
al vostro.»
«Lo so io che voglio dire,» disse il grassone in tono severo.
«Bravo! Forse ce lo direte anche a noi un giorno o l'altro.»
«Forse lo capirete da soli, anche prima che scocchi l'ora,» s'intromise l'uomo dall'anello d'argento. «Forse
allora vi ricorderete.»
«Beh, sapete, Schinkel la pensa diversamente,» disse il calzolaio accennando col capo al tedesco che fumava
come una ciminiera.
«Non me ne importa niente di quello che si dice!» esclamò il cinofilo guardando fisso davanti a sé.
«Si dice che sia un anno brutto... I titoli dei giornali,» continuò il signor Schinkel rivolgendosi ai presenti. «Lo
dicono apposta... per dare l'impressione che ci siano anche anni buoni. Ora, chiedo: qualcuno qui li ha mai visti questi
anni buoni? Sono ancora da venire: potrebbero iniziare anche stasera se lo volessimo: tutto sta a vedere se siamo capaci
di comportarci seriamente per qualche ora. Ma sarebbe chiedere troppo. Il signor Muniment ha l'aria molto grave;
sembra che stia aspettando il segnale, ma non parla... non parla mai quando vorrei sentire la sua voce. Medita soltanto...
oh, ne sono certo. Ma pensare senza parlare è quasi peggio che parlare senza pensare.»
Hyacinth aveva sempre ammirato l'aria distaccata, indifferente che Muniment assumeva ogni qualvolta
l'attenzione del pubblico si spostava su di lui. Personalmente quelle manifestazioni di curiosità o di ostilità lo avrebbero
sconcertato terribilmente. Quando parecchie persone riunite, e specialmente gli accoliti del «Sole e Luna», lo
guardavano o lo ascoltavano, arrossiva e balbettava, ritenendo che se non poteva parlare a un milione di ascoltatori
(cosa decisamente eccitante) tanto valeva rivolgersi a due o tre: venti erano un numero tremendo.
Muniment sorrise per un istante, di buonumore; poi, dopo un attimo di esitazione, guardando il tedesco e lui
soltanto, come se le parole da lui dette fossero degne d'attenzione ma la risposta che stava per dare potesse anche essere
ignorata da tutti gli altri, disse semplicemente: «Hoffendahl è a Londra.»
«Hoffendahl? Gott in Himmel! » esclamò lo stipettaio togliendosi la pipa di bocca. E i due si scambiarono una
lunga occhiata. Poi il signor Schinkel disse: «La cosa mi sorprende, sehr. Ne siete proprio certo?»
Muniment continuò a guardarlo. «Se me ne sto zitto per una mezz'ora mentre tutt'intorno turbinano tanti
preziosi suggerimenti, pensate che parli troppo poco. Poi quando apro bocca per dire tre parole, dite che parlo troppo.»
«Oh no, non è vero... Voglio che ne diciate altre tre di parole. Mi basterà sentirvi dire che lo avete visto.»
«Lo credo bene! Pensate che sia uno di quegli uomini di cui si può affermare impunemente di averlo visto?»
«Sì, quando non lo si è visto!» intervenne Eustache Poupin, che era restato in ascolto. Ora tutti erano attenti.
«Dipende dalla persona a cui si parla. Ma qui?» chiese il tedesco.
«Oh, qui!» esclamò Paul Muniment in tono strano, mentre riprendeva a fischiettare in sordina.
«Attento... attento; mi farete credere di non averlo visto,» gridò Poupin con il suo tono eccitato.
«È esattamente quello che voglio,» disse Muniment.
«Nun, ho capito,» disse lo stipettaio riportandosi la pipa alle labbra dopo un intervallo impressionante quasi
quanto l'arresto di una vaporiera in mezzo all'oceano.
«Qui? qui?» ripeté indignato il piccolo calzolaio. «Questo luogo vale quanto quello da cui viene lui. Potrebbe
darci un'occhiata e vedere che gliene pare.»
«È un luogo di cui potreste dirci qualcosa,» suggerì il grassone come se non avesse atteso che quell'occasione
per aprir bocca.
Prima che il calzolaio avesse il tempo di capire l'insinuazione qualcuno domandò con voce petulante e rauca di
chi diavolo stessero parlando; e il signor Schinkel rispose che stavano parlando di un uomo che non aveva fatto ciò che
aveva fatto semplicemente scambiando con gli amici idee astratte, anche se preziose, in una bettola rispettabile.
«Che diavolo ha fatto allora?» chiese qualcun altro. E Muniment rispose che aveva passato dodici anni in una
prigione prussiana e che la polizia seguitava a tenerlo sott'occhio.
«Beh, se lo chiamate qualcosa di utile, devo dire che preferisco la bettola!» gridò il calzolaio, rivolto a tutti i
presenti e con una faccia, secondo Hyacinth, particolarmente ripugnante.
«Doch, doch, doch, è utile!» rispose filosoficamente il tedesco, avvolto dalle sue nuvole giallognole.
«Volete dire che voi non siete pronto a tanto?» chiese Muniment al calzolaio.
«Pronto a cosa? Credevo che quel genere di luoghi li avremmo fatti saltare per aria; credevo che fosse proprio
quello l'obbiettivo più importante del nostro lavoro.»
«Li faranno saltare per aria ancora meglio quelli che ci sono stati rinchiusi,» disse il tedesco; «a meno che non
siano diventati marci, come il pesce catturato da troppo tempo. Ma Hoffendahl è ancora tutto d'un pezzo.»
«Ah no, non si deve far saltare per aria nessuna proprietà di valore,» continuò Muniment. «Non sono i luoghi
ad essere sbagliati, ma l'uso che se ne fa. Vogliamo tenerli in piedi e costruirne perfino degli altri. Ma la differenza sarà
che ci metteremo dentro la gente giusta.»
«Da quanto dite... Griffin apparterrebbe alla gente giusta,» disse il grasso indicando il calzolaio.
«Credevo che avremmo beccato le loro capocce... di tutta quella maledetta banda,» protestò il signor Griffin,
mentre Eustache Poupin andava spiegando ai presenti come il grande Hoffendahl fosse uno dei martiri della causa, un
uomo che ne aveva passate di tutti i colori... uno dei più puri... che era stato sfregiato, marchiato a fuoco, torturato,
quasi spellato vivo, e non aveva mai rivelato ai suoi aguzzini i nomi che quelli cercavano. Era mai possibile che non si
ricordassero di quella massiccia offensiva concertata all'inizio del Sessanta, fatta scoppiare contemporaneamente in
quattro città del continente, e che, nonostante tutti gli sforzi per soffocarla (alcuni editori e giornalisti erano stati
allontanati solo per averne fatto cenno) aveva aiutato la questione sociale più di qualsiasi altra cosa mai tentata prima.
«Per via di quel trattamento che gli hanno propinato, di cui ci avete parlato?» chiese qualcuno ingenuamente; al che
Poupin rispose che si era trattato di uno di quegli insuccessi che finiscono con l'essere più gloriosi di qualsiasi successo.
Muniment disse che era stata soltanto una fiammata, ma il suo pregio consisteva nel fatto che, pur essendovi coinvolte
una quarantina di persone (di ambo i sessi), soltanto uno era stato catturato e aveva pagato. Era stato proprio Hoffendahl
ad essere arrestato. Certo, aveva sofferto molto, aveva sofferto per tutti; ma dal loro punto di vista - quello di fare
economia di materia prima - la cosa si era risolta in un successo.
«Volete sapere quello che penso di tutti quegli altri? Li considero dei maledetti vigliacchi!» gridò il grassone;
ed Eustache Poupin, rivolgendosi a Muniment, espresse la speranza che in effetti egli non approvasse una simile
soluzione, non considerasse l'economia di eroi un vantaggio per nessuna causa. Da parte sua apprezzava il tentativo di
Hoffendahl perché, più di ogni altra cosa - tranne, naturalmente, la Comune - aveva scosso dal tempo della Rivoluzione
Francese, il marcio apparato dell'attuale ordinamento sociale, e perché proprio quell'impunità - quella inafferrabilità
degli individui coinvolti - aveva infuso nelle classi rapaci, in tutta l'Europa, un brivido che non si era ancora spento. Per
parte sua, però, si rammaricava che nessun compagno della vittima si fosse fatto avanti e avesse chiesto di dividere con
lui torture e prigionia.
«C'aurait été d'un bel exemple!» disse il francese con un tono così pacato che anche quelli che non lo capivano
compresero che stava dicendo qualcosa di bello. Lo stipettaio osservò invece che chiunque di loro al posto di
Hoffendahl si sarebbe comportato esattamente allo stesso modo. Potevano pure tacciarlo di essere un vanaglorioso (il
signor Schinkel disse «fanaglorioso»); rimaneva certo che avrebbe fatto altrettanto se si fossero fidati di lui e se gli altri
lo avessero preso.
«Prima voglio sapere esattamente qual è il piano, poi accetterò,» disse il grassone, il quale sembrava pensare
che ci si aspettasse una qualche assicurazione da lui.
«Beh, e chi lo deve fare, il piano, eh? È proprio di questo che stiamo parlando,» rispose il suo antagonista
calzolaio.
«Un bell'esempio, dite, vecchio mio? E lo chiamate un bell'esempio?» chiese Muniment a Poupin con aria
divertita. «Un bell'esempio d'imbecillità! C'è poi tanta gente capace, in giro?»
«Capace di grandezza di spirito, certamente no.»
«La grandezza di spirito di solito finisce per far commettere errori grossolani. Il primo dovere di un individuo è
quello di non farsi arrestare. È il solo modo di dimostrare di essere capaci.»
A queste parole Hyacinth sentì il bisogno di parlare. «Ma qualcuno deve pur pagare, no? Non è sempre stato
così?»
«Sono certo che tu saresti pronto!» rispose Muniment senza guardarlo. «Se mai riusciranno a prenderti, fa'
come Hoffendahl, e fallo come se fosse una cosa naturale. Ma se non ti prendono, sentilo come un dovere supremo,
come una religione, di conservarti immune per un'altra occasione. La terra è piena di bestie immonde che sarei ben
felice di vedere spazzate via a migliaia; ma quando si tratta di uomini onesti e coraggiosi, protesto contro il concetto che
se ne debbano sacrificare due quando ne basta uno solo.»
«Trop d'arithmetique... trop d'arithmetique!... Tipicamente inglese!» gridò Poupin.
«Senza dubbio; e come potrebbe essere altrimenti? Non condividerete mai la mia sorte, se ne avrò una, e se lo
potrò evitare!» rise Muniment.
Poupin lo guardò esterrefatto per quella ruvida allegria come se considerasse l'inglese frivolo, oltre che
calcolatore, poi riprese: «Se devo soffrire, mi auguro di farlo per la causa dell'umanità sofferente, ma anche per quella
della Francia.»
«Oh, spero che non dobbiate più soffrire per la Francia,» disse il signor Griffin. «Non gli è bastato, a
quell'insaziabile paese, tutto quello che avete dovuto sopportare?»
«Bene, vorrei sapere cosa è venuto a fare qui, Hoffendahl: certo è un gesto molto amichevole. Ma cosa intende
fare per noi?... È quello che vorrei sapere,» disse in tono polemico un individuo seduto dall'altra parte del tavolo,
opposto a Muniment. Si chiamava Delancey e si era presentato come lavorante in una fabbrica di acqua brillante; ma
Hyacinth segretamente pensava che fosse un parrucchiere - un'idea suggerita dalla cresta di capelli lucidissima che gli si
arricciava sul capo, oltre che dal modo in cui usava mettersi dietro l'orecchio, come se fosse un pettine, la matita che gli
serviva per prendere appunti durante le discussioni al «Sole e Luna.» Nutriva opinioni personali che esponeva di
frequente; aveva occhi acquosi (Muniment una volta li aveva definiti «occhi d'acqua-brillante») e un odio personale per
un lord. Voleva sovvertire tutto, tranne la religione che invece riscuoteva la sua approvazione.
Muniment rispose che non era ancora in grado di dire perché il rivoluzionario tedesco fosse venuto in
Inghilterra, ma che sperava di poter avere qualche notizia in proposito per la prossima riunione. Una cosa era certa:
Hoffendahl non era venuto così, senza motivo, e si sentiva di affermare che in breve tutti loro si sarebbero resi conto
che avrebbe dato un contributo alla causa per loro più importante. Era dotato di grande esperienza, dalla quale tutti
avrebbero tratto vantaggio. Se esisteva una qualche probabilità di riuscita, Hoffendahl certo avrebbe saputo
indicargliela. «Sono perfettamente d'accordo con i più di voi - o almeno mi pare,» continuò Muniment con il suo fare
vivace, allegro, ragionevole. «Sono d'accordo con voi che è venuto il momento di decidere e di agire. Sono d'accordo
con voi che lo stato attuale è...» si fermò un istante, poi continuò con lo stesso tono amabile: «è infame e diabolico.»
Queste parole non furono salutate da un consenso unanime: alcuni dissero che se quell'olandese voleva venire a
farsi una fumata di pipa con loro, sarebbero stati contenti di vederlo... avrebbe potuto individuare per loro i punti
nevralgici; altri erano dell'avviso che avevano avuto consigli da stomacare un maiale e che non avevano bisogno di
riceverne ancora. Tutto quello che volevano era dar prova della loro forza senz'altre ciance; agire per una causa o per
qualcuno; uscire allo scoperto e fracassare subito qualcosa - e perché no? - quella stessa notte. Mentre se ne stavano lì a
parlare, c'era mezzo milione di persone a Londra che non sapeva come procurarsi un pasto per l'indomani - quello che
avrebbero dovuto fare, a meno che non fossero un'accozzaglia di donnette inconcludenti era indicare a quella gente
dove procurarselo, offrirglielo anzi, con le loro stesse mani. Hyacinth ascoltava, con animo contrastato,
quell'accavallarsi d'iterazioni, quell'alternarsi di ventate calde e fredde; quella sera, nel retrobottega del «Sole e Luna»,
circolava un eccitamento autentico, una pulsante concitazione da cui si sentiva contagiato. Ma nello stesso tempo
inseguiva un suo pensiero; si chiedeva cosa avesse in serbo Muniment (perché era sicuro che Paul non fosse sincero) e
la sua fantasia, che si era accesa al pensiero dell'imminente incontro con l'eroico Hoffendahl e che seguitava a
rimuginare sull'alternativa se sfuggire o affrontare il proprio destino, era tesa verso la prospettiva di probabili pericoli -
e si domandava in che modo, in una determinata situazione, avrebbe risolto il problema del sacrificarsi per tutti. Il
chiacchiericcio rumoroso, contraddittorio, vano, teorico, continuava ma la sola cosa che gli riuscì di mettere a fuoco era
che si stava discutendo il progetto di irrompere nei panifici, e che già si parlava di macellerie e drogherie, e perfino di
rivendite di pesce. Era in uno stato di esaltazione, tutto preso da un acuto desiderio di trovarsi faccia a faccia col
sublime Hoffendahl, udirne la voce e toccare la sua mano mutilata. Era pronto a tutto: è vero che, da parte sua, era
ancora in condizioni di mangiare a sufficienza a pranzo e a colazione, anche se poveramente, e che i suoi compagni
probabilmente si stavano comportando in modo ancora più brutale e goffo del solito; tuttavia, una vampata di passione
popolare gli aveva infiammato le guance e il cuore, e gli pareva che tutto l'orrore delle piaghe e delle ferite di Londra gli
si parasse davanti mostruosamente dilatato, le malattie, l'eterna miseria invano ululante nel buio, e per contrasto, granai,
depositi di tesori e luoghi di delizie dove regnava la sazietà più sfacciata. In tale stato d'animo capiva che non c'era
bisogno né di pensare né di ragionare: parlavano i fatti, in modo imperioso, come l'urlo dell'annegato; e infatti era ormai
vero che mentre la pedanteria temporeggiava, la carestia e l'angoscia si erano accampate stabilmente. Sapeva che
Muniment disapprovava quegli indugi e riteneva che fosse arrivato il giorno della resa dei conti. L'ultima volta che
avevano parlato, il suo saggio amico gli aveva dato più che mai l'impressione di potersi annoverare fra gl'interventisti,
anche se in quella occasione aveva ripetuto ancora una volta che quella particolare formula alla quale il piccolo
rilegatore era tanto affezionato non era altro che un ammasso di sillabe insensate. Odiava quell'etichetta pretenziosa,
buona per i politicanti e i dilettanti. Tuttavia era stato chiarissimo su un punto: che il loro gioco ora doveva essere
quello di spaventare l'opinione pubblica, e spaventarla efficacemente; far credere che tutti i turlupinati avevano formato
una lega, avevano realizzato che con l'unione sarebbero diventati imbattibili. In realtà non l'avevano formata né avevano
acquisito una coscienza di classe - anche su questo punto Muniment era stato chiarissimo. Ma nonostante ciò l'opinione
pubblica era facile da spaventare e quanto più grave la minaccia, tanto più il popolo ci guadagnava. Se Hyacinth avesse
cercato una prova che la fede può trascendere la logica, l'avrebbe trovata, quella sera, in quella pacata dichiarazione; ma
le parole dell'amico gli tornavano alla mente soprattutto per pungolare la sua ansia di capire cosa stesse pensando in
quel momento. Muniment non prendeva parte alle chiacchiere generali; aveva fatto sedere Schinkel vicino a sé, e i due
sembravano discorrere a loro agio mentre l'aria già fumosa si faceva più densa, l'andirivieni degli agitatori più concitato
e il rossore dei visi più acceso. Hyacinth si chiedeva soprattutto perché Muniment non lo aveva detto prima a lui, che
Hoffendahl era a Londra e che lo aveva visto, perché lo aveva certamente visto anche se aveva eluso la domanda di
Schinkel - Hyacinth lo aveva capito immediatamente. Gli avrebbe chiesto dopo altre informazioni; e nel frattempo si
augurava senza rancore, ma con rammarico paziente e consapevole, che Muniment lo trattasse con un po' più di fiducia.
Se intorno a Hoffendahl c'era un qualche segreto - ed evidentemente c'era: era giusto che Muniment, pur avendo
annunciato il suo arrivo con una certa drammaticità, non volesse dividere con la gente rozza che gremiva la stanza tutto
ciò che sapeva - se c'era qualche segreto da custodire gelosamente Hyacinth sperava che fosse data proprio a lui
l'occasione di dimostrare che sapeva comportarsi responsabilmente. Si sentiva accaldato e nervoso; si alzò
improvvisamente e, passando attraverso un corridoio buio, tortuoso, bisunto, che comunicava col mondo esterno, uscì
sulla strada. La temperatura rigida e gelida lo rinfrancò, e rimase lì davanti al pub a fumarsi una pipa. Figure
inzaccherate entravano e uscivano, un pover'uomo zuppo e stracciato, con una faccia spugnosa e bluastra, che era stato
scaraventato fuori, si mise a fiottare nella luce abbagliante dei lampioni. Le pozzanghere luccicavano tutt'intorno, e la
strada silenziosa, affiancata da case basse e nere, si stendeva a perdita d'occhio, a destra e sinistra, sotto quel nevischio
da pieno inverno, andando a sparire nel cuore dell'immensa, tragica città dove sotto lo sporco cielo notturno stava in
agguato, minacciosa, mostruosamente immobile un'incommensurabile povertà che urlava il suo dolore soltanto nella
surriscaldata arena che si era lasciato alle spalle. Che fare? Quali possibilità si sarebbero presentate? La discordanza dei
pareri che aveva ascoltato rendeva più disperata l'impotenza di tutti. L'unico vero desiderio che nutriva, mentre se ne
stava lì in piedi, era di vedere quel gruppo esaltato ed illuso, con Muniment in testa, sollevarsi dal torpore e, raccolta dai
tuguri e dalle tane la miriade dei miseri, riversarsi nelle piazze dei ricchi e far udire la propria voce possente e affamata
iniettando nei benpasciuti indifferenti un terrore che li avrebbe fatti crollare. Indugiò ancora un quarto d'ora, ma la
grande minaccia non dava segni di esplosione, e alla fine tornò alla stanza rumorosa con un senso di smarrimento,
domandandosi quale idea migliore della sua (che al nostro giovanotto sembrava avere almeno il pregio di essere
un'idea) Muniment stesse rimuginando in quella sua mente lungimirante.
Rientrando, vide che la riunione si stava sciogliendo disordinatamente, o almeno confusamente, e che, certo,
per quella sera non si sarebbe verificato nessun tentativo di portare aiuto a qualche vittima. Erano tutti in piedi e se ne
andavano fra uno stropiccio di panche e di sedie, schiene curve e il parsimonioso abbassarsi della fiammella del gas, in
una gamma svariata di disgusti e rassegnazioni. Un attimo dopo che Hyacinth era entrato, il signor Delancey, il presunto
parrucchiere, saltò sopra una sedia in fondo alla stanza e inveì, facendoli fermare tutti esterrefatti:
«Bene: prima di lasciarci voglio che sappiate tutti quello che mi colpisce. Non c'è un solo uomo fra tutti voi
che non abbia paura per la sua dannata pelle... Paura, paura, paura! Io sono pronto ad andare dovunque con chiunque,
ma per D..., a quanto vedo, sono il solo. Non c'è un figlio di madre fra voi che voglia mettere a repentaglio la sua
preziosa carcassa!»
Il discorsetto colpì Hyacinth come un pugno sul viso: si sentì direttamente apostrofato, come se gli fosse stato
gettato addosso uno sgabello a tre gambe o qualche orribile scarpone chiodato. Gli parve che la stanza si sollevasse e
oscillasse su e giù, mentre prendeva coscienza della fragorosa esplosione di risate, proteste, grida di «Ordine, ordine!»
insieme a qualche chiara parola detta da Muniment: «Ehi, Delancey, scendi subito giù» - e alla voce di Eustache Poupin
che urlava: «Vous insultez le peuple - Vous insultez le peuple» ed altri apprezzamenti non troppo eleganti. Un istante
dopo si ritrovò issato anche lui su una sedia davanti al barbiere mentre a quella vista l'eccitazione di tutti si mutava in
una divertita suspense. Era la prima volta che chiedeva la parola, subito accordata. Era convinto di essere impallidito -
forse si sarebbero anche accorti che stava tremando. Si augurò solo di non rendersi ridicolo, poi disse: «Non mi par
giusto quello che va dicendo. Ci sono anche altri, oltre a lui. Ma in ogni modo io parlo per me; e ritengo di far bene: non
posso farne a meno. Io non ho paura; di questo sono sicurissimo. Sono pronto a fare tutto quanto possa approdare a
qualcosa di buono - qualsiasi cosa... qualsiasi cosa... non me ne importa nulla. In una causa come questa amo il pericolo
che può comportare. Non considero affatto preziose le mie ossa, quando si tratta di cose più importanti. Quando si è
sicuri di non aver paura e si è accusati ingiustamente, non c'è ragione di star zitti.»
Gli sembrò di aver parlato per un tempo interminabile, e quando ebbe finito si rese a malapena conto di quello
che era accaduto. Gli sembrò quasi di trovarsi sotto ai piedi di quegli uomini che lo calpestavano con l'intenzione di
applaudirlo e di trattarlo benevolmente, di essere deriso e beffato, urtato e pungolato fra le costole. Si sentì spinto contro
il petto di Eustache Poupin che sembrava singhiozzare, mentre qualcuno diceva: «Hai sentito questo dannato
furfantello, fiero come un leone?» Fu proposto un confronto fra lui e il signor Delancey per vedere chi fosse più forte,
che per qualche ragione non ebbe luogo, e dopo cinque minuti la folla aveva lasciato la sala non certo per ricostituirsi
all'esterno in un corteo rivoluzionario. Paul Muniment lo aveva afferrato e diceva: «Ti prego di restare, piccolo
desperado. Mi prenda un colpo se mi sarei mai aspettato di vedere te sulla tribuna!» Muniment si fermò e il signor
Poupin e Schinkel si attardarono, coi loro cappotti, sotto la superstite fioca lampada a gas in quel locale privo di
ventilazione dove il club di Bloomsbury pareva ricostituirsi ad ogni riunione.
«Sul mio onore, hai del coraggio!» disse Muniment guardandolo dall'alto, con la faccia seria.
«Naturalmente penserai che si tratta di una bravata, "una spacconata", come dice Schinkel, ma non lo è.» Poi
Hyacinth chiese: «In nome di Dio, perché noi non facciamo qualcosa?»
«Ah, ragazzo mio, a chi lo dici!» esclamò Eustache Poupin, incrociando le braccia con aria disperata.
«Chi intendi, quando dici "noi"?,» disse Muniment.
«Tutti noi. Siamo in molti ad essere pronti.»
«Pronti per cosa? Non c'è nulla da fare, qui.»
Hyacinth lo guardò stupefatto: «Allora perché diavolo ci vieni?»
«Non credo che ci verrò ancora molto. È un posto dove quello che vedi è pure troppo.»
«Mi domando se io non abbia visto troppo in te,» si arrischiò a dire Hyacinth guardando l'amico.
«Non dovete dir questo... Sta per presentarci a Hoffendahl!» esclamò Schinkel, mettendo via la pipa in un
astuccio grande quasi quanto quello di un violino.
«Ti piacerebbe vedere "l'uomo-chiave", Robinson?» chiese Muniment con lo stesso tono grave e insolito.
«L'uomo-chiave?» e Hyacinth girò gli occhi dall'uno all'altro dei suoi compagni.
«Non lo hai ancora visto... anche se tu lo credi.»
«E perché non me lo hai mostrato prima?»
«Perché non ti avevo mai visto prima sulla tribuna,» disse con un tono un po' più leggero.
«Al diavolo la tribuna! Mi fidavo di te.»
«Proprio così. Ho voluto prender tempo.»
«Non venire, a meno che tu non abbia deciso, mon petit,» disse Poupin.
«State andando ora a... vedere Hoffendahl?» «È lui l'uomo-chiave» gridò Hyacinth.
«Non lo strillare ai quattro venti, adesso. Lui vuole conoscere un perfetto piccolo gentiluomo, e se tu non lo
sei...!» continuò Muniment.
«È proprio vero? Ci stiamo andando tutti?» continuò ansiosamente Hyacinth.
«Sì, questi due sono addentro alla cosa. Non sono due luminari, ma possono andare,» disse Muniment
guardando Poupin e Schinkel.
«Anche tu sei un uomo-chiave, Muniment?» chiese Hyacinth, intercettando quello sguardo.
Muniment abbassò lo sguardo su di lui: «Sì, e tu sei l'agnello sacrificale che lui vuole. Sta all'altro estremo di
Londra. Dobbiamo prendere una carrozza.»
«Calmo, figliolo; me voici!» e Poupin condusse fuori il giovane amico.
Si allontanarono dal «Sole e Luna» e soltanto dopo cinque minuti incontrarono la carrozza che conferì
importanza e dignità al loro viaggio. Quando furono seduti, Hyacinth apprese che «l'uomo-chiave» si fermava a Londra
solo per tre giorni, ma poteva anche partire l'indomani, ed era uso ricevere visite nelle ore più impensate. Stava per
scoccare la mezzanotte; il percorso sembrò interminabile a Hyacinth divorato dall'impazienza e dalla curiosità. Si era
seduto vicino a Muniment che lo circondò col suo braccio forte reggendolo per tutta la strada, quasi a segnare un tacito
accordo. La cosa piacque a Hyacinth fin quando non gli balenò il pensiero che non si trattasse per caso di un gesto
istintivo per trattenerlo da eventuali ripensamenti. Alla fine, nessuno parlò più, e la carrozza continuò a sobbalzare nel
buio fitto, e quando si fermò il nostro giovanotto, in quella oscurità piovigginosa, aveva completamente perso il senso
dell'orientamento.

LIBRO TERZO

Hyacinth si alzò presto, cosa che gli costò poco sforzo visto che non aveva chiuso occhio tutta la notte. Si vestì
rapidamente, augurandosi che la sua comparsa non facesse sorgere strane idee su di lui - stimolato dallo spettacolo che
si apriva al di là dalla finestra: un vecchio giardino con parterres dalle strane figurazioni, intervallate da prati che agli
occhi «cockney» del nostro eroe sembrarono verdissimi. A un'estremità del giardino, un muretto in mattoni, ricoperto di
muschio, che dall'altra parte dava su un canale, fossato o grazioso vecchio stagno che fosse (non sapeva neppure lui che
nome dargli), e da questa fronteggiava una vasta porzione del corpo principale della casa - la camera di Hyacinth si
trovava in un'ala che guardava la facciata posteriore, vasta e irregolare - di un colore sontuosamente grigio laddove
l'edera e gli altri fitti rampicanti lasciavano intravederlo. Ogni suo angolo era come un quadro: dal tetto rosso spiovente,
interrotto da enormi comignoli e curiosi abbaini e da ogni sorta di frontoni e finestre a vari livelli, alle innumerevoli
toppe e spunzoni, fino all'escrescenza architettonica particolarmente affascinante dov'era situato uno stupendo
quadrante d'orologio, un quadrante coperto di dorature e stemmi ma che mostrava i segni degli anni e delle intemperie.
Non era mai stato in campagna in vita sua - la campagna vera, come la chiamava lui, una campagna che non fosse
semplicemente una sfrangiatura di Londra - e lì, dalla finestra aperta, entrava il respiro di un mondo stupendamente
nuovo e indicibilmente refrigerante, dopo le ultime ore febbrili; la sensazione di un'aria dolce, assolata e carica di aromi
stranamente puri e gradevoli, e di un silenzio pieno di armonie provenienti in gran parte dalla voce dei numerosi uccelli.
Prossimi o remoti, sparsi dovunque, si alzavano altissimi pacifici alberi; e tutto quanto il suo sguardo incontrava era
soltanto un dettaglio di spazi più grandi e di più complessi scenari. Era un mondo in attesa di rivelarglisi e che lo stava
aspettando coperto di rugiada, sotto la sua finestra. Bisognava quindi scendere e prenderne possesso, per quanto
possibile.
Quando era arrivato, la sera prima alle dieci, aveva avuto l'impressione che il parco si stendesse per un miglio,
una volta varcato il cancello; aveva sentito l'acciottolio della ghiaia sotto le ruote della carrozza, aveva visto il bagliore
di molte finestre suggerire una situazione di allegria, dentro la casa, mentre la facciata alzava verso il cielo stellato una
miriade di effetti conturbanti. Si sentì sollevato quando lo informarono che la Principessa, data l'ora avanzata, lo
pregava di scusarla; lo avrebbe visto l'indomani; il rinvio gli avrebbe dato modo di riprendersi e di guardarsi intorno.
Aveva cominciato a farlo subito, da quando si era seduto a tavola in un ampio, alto salone, con il domestico, che aveva
già conosciuto a South Street, in piedi dietro la sedia. Non si era chiesto come sarebbe stato trattato: non aveva idea se
in una residenza di campagna avrebbero fatto distinzioni sociali e sottolineato i vari gradi d'importanza; ma fu evidente
che per lui era stato ordinato il meglio. L'accoglienza ricevuta lo lasciò più che soddisfatto e accrebbe la sua
eccitazione. Il pasto era squisito - anche se tutti gli altri sensi erano così tesi da far sparire la fame, e mangiò senza
sapere quello che mangiava - e il grave servitore gli riempì come un automa il bicchiere di un liquore che gli ricordò
alcuni versi di Keats dell'Ode a un usignolo. Si chiese se a Medley avrebbe udito l'usignolo (non era certo della stagione
in cui cantava) e anche se il domestico avrebbe cercato di parlargli, se avesse idea di chi era, conoscesse o sospettasse la
sua identità, per quanto, dopo tutto, non ne avesse nessun motivo tranne, forse, la modestia del bagaglio che
accompagnava il visitatore di Lomax Place. Il signor Withers, tuttavia (era quello il nome che Hyacinth aveva udito
pronunciare dal vetturino della carrozza), non aveva dato alcun segno di socievolezza se non quello di chiedergli a che
ora volesse essere chiamato al mattino; alla quale domanda il nostro giovanotto aveva risposto che preferiva non essere
chiamato affatto, si sarebbe svegliato da solo. Il domestico replicò «Benissimo», mentre Hyacinth pensava che
probabilmente la sua presenza lì lo lasciava molto perplesso, e prendeva in considerazione la possibilità di dargli
prudentemente un'idea della sua identità prima che potesse scoprirla da solo in modo meno piacevole. Una simile
iniziativa, oltre tutto, lo avrebbe liberato dal peso e dall'imbarazzo di attenzioni cui non era avvezzo; ma non ne fece
nulla, per il semplice fatto che prima ancora di parlare scoprì di desiderare proprio quello che aveva temuto. L'intima
avversione al concetto di essere servito, svanì: si era già reso conto che non avrebbe voluto perdersi nessuna attenzione
e che non c'era nulla a cui non fosse preparato. Era conscio di avere probabilmente ringraziato eccessivamente il signor
Whiters, ma questo non poteva evitarlo, era una sua abitudine incontrollabile e un errore che senza dubbio avrebbe
commesso sempre.
Aveva dormito in un letto fatto apposta per garantire un riposo perfetto, tale però da vietargli, in qualche modo,
ogni abbandono in una stanza larga e alta, con lunghe specchiere che rimandavano sguardi spettrali anche dopo che la
luce era stata spenta. Alle pareti c'erano numerose stampe, mezzetinte, e vecchie incisioni che, forse a torto, ritenne di
rara e finissima esecuzione. Durante la notte si alzò parecchie volte, accese la candela e andò a guardarle. Si vide in uno
dei lunghi specchi e in quel luogo dove ogni cosa assumeva proporzioni eccezionali, gli sembrò più che mai che il figlio
di Mademoiselle Vivier, privo di una sua dimensione sociale, fosse quasi impercettibile. Per le scale incontrò cameriere
armate di piumini e scope, ne vide altre, attraverso porte aperte, inginocchiate davanti ai caminetti; e si convinse che lo
guardavano con più sfacciataggine che se fosse stato il tipo di ospite abituale. Ma queste riflessioni cessarono di
tormentarlo non appena uscì all'aperto e cominciò a vagare per il parco, dapprima lasciandosi andare un po' ovunque,
restringendo poi il raggio dei movimenti alle immediate vicinanze. Per un'ora vagò estatico, trattenendo il fiato,
scrollando la rugiada dalle fitte felci e dalle ricche siepi di confine del giardino, assaporando l'aria fragrante, sostando
continuamente, sopraffatto da sensazioni sublimi che gli strappavano mormorii rapiti. Tutta la passeggiata fu un
continuo riconoscere cose già note: per tutta la vita aveva sognato un luogo simile, pieno di quelle stesse cose, una
simile mattinata e un'occasione simile. Era l'ultimo giorno di aprile e tutto era fresco e luminoso; i grandi alberi,
nell'aria mattutina, erano tutto un tremolio di teneri germogli. Girò e rigirò intorno alla mirabile casa, cogliendone ogni
particolare e assimilandone i pregi, godendo tutto l'insieme e domandandosi se la Principessa non stesse osservando i
suoi movimenti dalla finestra e se per caso non le riuscissero sgraditi. La casa non le apparteneva, l'aveva
semplicemente affittata per tre mesi; il fatto che egli ne fosse così preso non poteva certo lusingare l'orgoglio
principesco. C'era qualcosa in quei muri grigi che si drizzavano sul prato verde, che lo commuoveva fino alle lacrime:
l'idea del duraturo che per la prima volta gli si presentava dissociata dalla miseria e dalla sordida infermità; aveva
vissuto fra gente che considerava la vecchiaia soprattutto una sopravvivenza da condannare e vilipendere. La solidità
privilegiata di Medley proclamava un sereno successo sociale, una fusione di dignità e di lustro.
Un servitore lo venne a cercare in giardino per annunciargli che la colazione era servita. Non ci aveva neanche
pensato, alla colazione, e camminando verso casa seguito dall'impassibile lacchè, quell'offerta gli parve un dono
stravagante, inatteso e romantico. Capì che avrebbe fatto colazione da solo, e non fece domande. Ma quando ebbe finito
il cameriere entrò per comunicargli che la Principessa lo avrebbe ricevuto dopo il pranzo e intanto gli faceva sapere che
la biblioteca era a sua completa disposizione. «Dopo il pranzo». Quelle parole sembrarono allontanare sempre più il
momento per il quale era arrivato fin lì, e rimase sbalordito che per lei fosse valsa la pena invitarlo da un sabato sera a
un lunedì mattina, quando lasciava passare tanto tempo senza che s'incontrassero. Ma non si sentiva né trascurato né
impaziente; le tante emozioni che provava erano già di per sé una cospicua ricompensa, e cosa poteva esserci di meglio
dell'aspettare in una casa simile una signora meravigliosa? Il signor Withers lo scortò fino alla biblioteca e lo lasciò lì,
impalato in mezzo alla stanza, a guardare sbalordito i tesori con cui avidamente e rapidamente andò prendendo
confidenza. Era una vecchia stanza marrone di grandi dimensioni - anche il soffitto era marrone, sebbene istoriato da
raffigurazioni pallidamente dorate - dove file su file di coste finemente impresse reclamavano imperiosamente
l'attenzione. Un fuoco di legna crepitava in un ampio camino e alle finestre c'erano nicchie con profondi sedili, e
poltrone quali non aveva mai visto prima, lussuose, ricoperte in pelle, con un leggio per sostenere il libro; e davanti a
una delle finestre, una grande scrivania, fornita di un vasto assortimento di carta e penne, calamai e tamponi,
francobolli, candelieri, gomitoli di spago, fermacarte, tagliacarte. Non avrebbe mai immaginato che esistessero tanti
accessori da corrispondenza, e prima di allontanarsi scrisse un biglietto a Millicent, con una scrittura perfino più
aristocratica del solito - la sua era una grafia molto minuta, ma al tempo stesso meravigliosamente sciolta e bella - in
massima parte per il piacere di vedere le parole «Medley Hall» stampate a caratteri rossi di tipo araldico in cima al
foglio. Dopo un'ora aveva esplorato tutta la collezione, rimuovendo quasi ogni volume col desiderio di poterselo tenere
una settimana, per rimetterlo rapidamente a posto non appena il suo sguardo si posava sopra un altro dall'aspetto ancora
più ricco di attrattive. Si imbatté in rilegature rare, dalle quali ricavò qualche idea - idee che si sentiva perfettamente in
grado di realizzare. In quel momento la vera felicità s'indentificò per lui nell'essere rinchiuso per un mese o due nella
«casa del tesoro» di Medley. Si dimenticò del mondo esterno e la mattinata sfumò - quella bella domenica primaverile -
mentre indugiava nella stanza.
Stava inerpicato sulla scaletta quando udì una voce che diceva: «Temo che siano polverosissimi; in questa
casa, sapete, c'è una polvere secolare,» e guardando in giù vide, in mezzo alla stanza, Madame Grandoni. Si dispose
subito a scendere per salutarla, ma lei esclamò: «Restate, restate, se non soffrite di vertigini possiamo parlare anche
così! Sono venuta semplicemente a dirvi che siamo in casa, e a pregarvi di portare pazienza. La Principessa vi riceverà
probabilmente fra qualche ora.»
«Lo spero proprio,» replicò Hyacinth dal suo piolo, piuttosto deluso da quel «probabilmente.»
«Naturlich,» disse la vecchia signora, «ma talvolta c'è stato chi è venuto e se ne è andato senza averla vista.
Dipende dal suo stato d'animo.»
«Anche quando è lei ad avere invitato?»
«Oh, e chi lo sa quando è lei ad invitare?»
«Ma a me, sapete, mi ha mandato a chiamare,» dichiarò Hyacinth guardando in giù, colpito dal modo in cui
spiccava, vista dall'alto, la parrucca di Madame Grandoni.
«Oh sì, vi ha mandato a chiamare, povero il mio giovanotto!» La vecchia signora lo guardò da sotto in su con
un sorriso, e per un poco rimasero così, in silenzio. Poi aggiunse: «Anche il capitano Sholto è venuto, nello stesso
modo, più di una volta, e se n'è andato con le pive nel sacco.»
«Il capitano Sholto?» ripetè Hyacinth.
«Sicuro; se continuiamo a parlarci così a distanza dovrò chiudere la porta.» Tornò indietro, mentre lui la
seguiva con gli occhi, e chiuse la porta; poi avanzò nella stanza, col suo decrepito passo strascicato, camminando come
se calzasse scarpe troppo grandi per il suo piede. Hyacinth scese dalla scaletta. «È così, è una capricciosa.»
«Non capisco il vostro modo di parlare di lei,» commentò Hyacinth grave; «siete la sua amica e tuttavia ne
parlate in termini non troppo lusinghieri.»
«Caro giovanotto a lei dico cose assai peggiori, sul suo conto, di quelle che direi mai a voi. Sono villana, è
vero, anche verso di voi, che dovrei trattare con particolare cortesia. Ma non sono falsa. Non fa parte della natura dei
tedeschi. Un giorno mi sentirete. Io sono amica della Principessa; possa non averne mai una peggiore! Ma vorrei essere
anche amica vostra. Che volete? Forse non serve a nulla. In ogni modo, eccovi qui.»
«Sì, decisamente eccomi qui!» rispose Hyacinth con un sorriso forzato.
«E quanto vi tratterrete? Perdonate la domanda: fa parte della mia villania.»
«Rimarrò fino a domattina. Devo essere al lavoro a mezzogiorno.»
«Perfetto. Ricordate che l'altra volta vi ho esortato a rimanere fedele al vostro lavoro?»
«Un buon consiglio. Ma temo che esageriate credendomi in pericolo.»
«Meglio così» disse Madame Grandoni. «Anche se, guardandovi bene, ho i miei dubbi. È chiaro che siete uno
di quegli individui che piacciono alle donne. Ne sono certa, piacete anche a me. Alla mia età - centoventi anni - posso
ben dirlo, no? Se ve lo dicesse la Principessa sarebbe diverso; ricordatevi che... che un complimento sulle sue labbra
sarebbe meno discreto. Ma forse non ne avrà mai l'occasione: potreste non tornare mai più. Alcuni sono venuti una sola
volta. Vedremo bene. Devo precisare che non ho nulla contro un giovanotto che si prende una vacanza, un piccolo
svago tranquillo, una volta ogni tanto,» continuò Madame Grandoni col suo fare incoerente, discorsivo, familiare. «A
Roma se la prendono ogni cinque giorni: decisamente, troppo spesso. In Germania, meno. In questo paese mi sembra
che la vacanza sia quasi una fatica in più: le domeniche inglesi sono così complicate! In ogni modo, questa sarà
bellissima per voi. Siate felice, sentitevi a vostro agio; ma andatevene domani!» E con questa ingiunzione Madame
Grandoni si avviò alla porta, mentre lui si affrettava ad aprirgliela. «Posso dirlo, perché non è casa mia. Sono anch'io un
ospite come voi. E talvolta anch'io penso che me ne andrò l'indomani!»
«Non credo che voi dobbiate guadagnarvi ogni giorno da vivere, come me. E questa è una ragione per me
ineccepibile,» disse Hyacinth.
Lei si arrestò sulla soglia, puntandogli in faccia i suoi occhi espressivi, brutti e dolci. «Sono povera quasi
quanto voi, credo. E non emano, come voi, un'aria di nobiltà. E tuttavia sono una nobildonna,» disse la vecchia signora
scuotendo la parrucca.
«Mentre io non lo sono!» disse Hyacinth con un profondo sorriso.
«Sempre meglio che diventarlo, come la nostra amica. Non se ne ricava nessuna felicità.»
«Non per noi, forse; ma per gli altri!» Da dove si trovava guardò l'atrio ampio, foderato di legno, decorato,
illuminato dall'alto e chiuso da un lontano soffitto affrescato e tutta quella grandiosità si specchiò nei suoi occhi pieni di
ammirazione.
«Vi piace tanto, qui... Vi dà tanto piacere?» chiese Madame Grandoni.
«Oh, moltissimo... moltissimo!»
Lo osservò ancora per un istante. «Poverino! » mormorò mentre si allontanava.
Un paio d'ore più tardi la Principessa lo mandò a chiamare e, scortato al piano di sopra attraverso corridoi
ricoperti da tappeti cremisi e tappezzati di quadri, fu introdotto in un ampio salone luminoso che, come seppe in seguito,
fungeva da boudoir. Attraverso la porta gli era giunto il suono di una musica ed era quindi preparato a trovarla seduta al
piano, e magari che continuasse a suonare anche dopo il suo ingresso. Volse il viso verso di lui, e gli sorrise senza
alzare le dita dai tasti, mentre il domestico pronunciava solennemente il nome di Hyacinth, come se fosse arrivato in
quel momento. La stanza, situata in angolo e illuminata da due lati, era larga e assolata, con le imbottiture di cinz dai
colori freschi e gai, arredata con sofà di ogni tipo e sedili bassi e confortevoli, tavolinetti a portata di mano, con grossi
vasi colmi di fiori primaverili; dappertutto libri, giornali, riviste, fotografie con autografi di personaggi celebri, e
l'impronta del lusso e di un ritmo piuttosto indolente di vita. Hyacinth rimase lì, senza avvicinarsi troppo, e la
Principessa, continuando a suonare accennò, sorridente, a un sedile vicino al pianoforte. «Mettevi lì e ascoltatemi.»
Hyacinth eseguì e lei suonò a lungo senza guardarlo, lasciandogli così la possibilità di posare gli occhi sul suo viso e sul
corpo, mentre lei errava con lo sguardo, svagata, assente, con un'espressione di felicità serena, come rapita nella musica,
da cui era blandita e pacificata. Una finestra vicina era socchiusa, e la tenera luminosità del giorno, e tutti gli aromi
della primavera effondevano nella stanza innocenza e allegria. La Principessa gli sembrò meravigliosamente giovane e
bella, così esile e semplice, e anche così cordiale, nonostante non si fosse interrotta e non gli avesse teso la mano, che si
rilassò nella poltrona e capì che ogni impaccio e nervosismo stavano dileguandosi e che poteva abbandonarsi fiducioso
alla sua bontà, alla disinvolta spregiudicatezza con la quale lei evidentemente lo avrebbe sempre trattato. In quel suo
fare, deferente e cameratesco insieme, sembrava animata da buone e sagge intenzioni. Suonava con molto sentimento,
un pezzo dopo l'altro; Hyacinth non aveva mai udito una musica né una interpretazione di così alto livello. Due o tre
volte volse gli occhi verso di lui, occhi illuminati da quella incantevole espressione che costituiva l'essenza della sua
bellezza: una luce soffusa che sembrava partecipare di un'estate perenne e che d'altra parte suggeriva il pensiero di
stagioni ed esperienze passate che avevano lasciato un sublime ricordo. Gli chiese se amava la musica e aggiunse,
ridendo, che avrebbe dovuto domandarglielo prima, mentre lui rispondeva - glielo aveva già detto a South Street ma
sembrava che se ne fosse dimenticata - che ne era appassionatissimo.
Il nostro giovane apprezzava in massimo grado la bellezza femminile, adorava tutti gli stimoli del suo grande
potere, i recessi del suo mistero, ogni suo elemento, ogni delicatezza di forme, ogni sfumatura che operasse
quell'incantesimo. Così, anche se avesse apprezzato meno le strane armonie che la Principessa traeva dallo strumento e
il suo talento, l'interesse che provava per lei non ne avrebbe sofferto né gli sarebbe stato meno gradito osservarne il
profilo e i movimenti, il nobile contorno della testa e del viso, il raccolto splendore dei capelli, la freschezza pari a
quella di un fiore palpitante che non aveva bisogno di sottrarsi alla luce. Era vestita di colori chiari, semplicemente,
come una fanciulla. Continuando a suonare, gli chiese che cosa gli sarebbe piaciuto fare quel pomeriggio: aveva nulla in
contrario a una gita in carrozza con lei? Era quasi certa che la campagna gli sarebbe piaciuta. Sembrò non prestare
attenzione alla risposta, che fu sommersa dal suono del pianoforte; ma se lo avesse fatto, non avrebbe avuto dubbi sui
desideri di lui. Avvolse con uno sguardo l'insieme della stanza, mentre le sue mani percorrevano su e giù la tastiera; poi,
improvvisamente, si fermò, si alzò e andò verso di lui. «Forse non vi seccherò mai più così. Ora avete conosciuto il
peggio. Volete chiudere il piano, per favore?» Egli eseguì l'ordine e lei andò dall'altro lato della stanza, dove sprofondò
in una poltrona. Quando lui si fu avvicinato gli disse: «È proprio vero che non avete mai visto un parco o un giardino né
altre bellezze naturali?» Stava alludendo alla dichiarazione della sua lettera di risposta al biglietto col quale lei gli aveva
proposto di fare una corsa a Medley. E quando le ebbe assicurato che era verissimo, esclamò: «Che gioia... che gioia!
Non sono mai riuscita a mostrare qualcosa di nuovo a nessuno e l'ho sempre desiderato... specialmente con una persona
sensibile e fine. Allora verrete con me per una scarrozzata?» Parlava come se gli chiedesse una grande concessione.
Così ebbe inizio quel rapporto - tanto strano, considerata la loro rispettiva posizione sociale - che lo aveva
portato a Medley e che avrebbe attraversato fasi singolari. La Principessa aveva la straordinaria abitudine di dare tutto
per scontato, di non ammettere difficoltà, di presupporre che i suoi desideri venissero senz'altro esauditi. Intrattenne il
suo ospite per altri dieci minuti - tempo principalmente occupato dalle esclamazioni di gioia di lei per il fatto che
Hyacinth aveva visto così poche cose di quelle che costituivano Medley - (dove avrebbe potuto vederle, santocielo, si
chiedeva lui); e quando si fu riposata un poco dallo sforzo di suonare, gli propose di andar fuori insieme. Era una grande
camminatrice, e aveva bisogno della sua passeggiata quotidiana. Lo lasciò per un poco dandogli da guardare l'ultimo
numero della Revue de deux mondes, richiamando la sua attenzione su un racconto di Monsieur Octave Feuillet (era
curiosa di sapere cosa ne pensasse); per ricomparire con un cappello scuro e un parasole chiaro, calzando un paio di
guanti leggeri e presentandosi in quell'attimo come l'incarnazione dell'eroina della novella di Monsieur Feuillet nella
quale Hyacinth si era immediatamente immerso. Scendendo le scale, le venne in mente che lui non aveva ancora visto la
casa e che sarebbe stato divertente mostrargliela; così tornò sui suoi passi e se lo portò su e giù un po' da per tutto,
persino in quella grande cucina all'antica dove trovarono un ometto rosso in viso, con giacca bianca, grembiulone e
berretto bianco (che si tolse, per salutare il piccolo rilegatore) con il quale la sua compagna parlò in italiano, lingua che
Hyacinth conosceva abbastanza per capire che si rivolgeva al cuoco con la seconda persona singolare, come se fosse
stato un suo vassallo. Si ricordò che i tre moschettieri erano soliti parlare allo stesso modo ai loro lacchè. La Principessa
spiegò che l'uomo dal berretto bianco era un essere delizioso (non poteva soffrire i domestici inglesi, pur essendo
costretta a tenerne due o tre), che le preparava una serie di risotti e polente - lei aveva i gusti proprio di una contadina.
Mostrò a Hyacinth ogni particolare: il caratteristico angolino restaurato che era stato una cappella; la scala segreta che
era servita ai cattolici al tempo delle persecuzioni (i proprietari di Medley come la Principessa, erano osservanti della
vecchia credenza). La galleria dei musicanti, sopra l'atrio; la stanza tappezzata di parati che i visitatori venivano ad
ammirare, da lontano; e quella degli spettri (queste due camere, che a volte venivano confuse fra loro, erano di fatto ben
distinte) dove una figura orribile faceva di tanto in tanto la sua apparizione - uno spettro nano dalla testa enorme, il
primogenito spodestato, in tempi antichissimi, reputato da tutti un idiota mentre non lo era affatto, e che era finito
soppresso in qualche modo. La Principessa offrì al suo ospite il privilegio di dormire in questa stanza, dichiarando però
che nulla al mondo l'avrebbe indotta a entrarci da sola, perché lei era una creatura sciocca, preda di abiette superstizioni.
«Non so se posso definirmi una persona religiosa e, nel caso, se la mia sia una religione superstiziosa; ma sono molto
attaccata ai miei tabù.» Fece attraversare in fretta il salotto al suo giovane amico, dicendo che ci sarebbero tornati poi;
era una stanza piuttosto banale, come tutti i salotti delle case di campagna inglesi; ma se gli faceva piacere, sarebbero
andati a sedervi dopo cena. Lei e Madame Grandoni, di solito si fermavano al piano di sopra, ma avrebbero fatto tutto
quello che lui avesse desiderato.
Finalmente uscirono all'aperto e cammin facendo lei spiegò - per premunirsi contro qualsiasi imputazione di
stravaganza - che, benché la casa dovesse indubbiamente apparire eccessivamente grande per due donne tranquille, e
sebbene non fosse quella che avrebbe voluto, era tuttavia molto più economica di quanto forse immaginava; non
l'avrebbe neppure presa in considerazione, se non fosse stata economica. Doveva sembrargli assurdo che una persona
che si schierava per il popolo vivesse in una dimora sfarzosa, di quaranta o cinquanta stanze. Fu questa una delle due
volte in cui alluse alla sua infatuazione per la «causa»; ma fu un'uscita opportuna, perché Hyacinth aveva infatti rilevato
la contraddittorietà della situazione. Ci aveva pensato per tutta la giornata, abbandonandosi anche a qualche
considerazione su quel modo tragicomico della Principessa di ritirarsi in un suo paradiso privato per risolvere il
problema dei bassifondi. L'ascoltò perciò con grande attenzione mentre lei, coscienziosamente, gli spiegava come
avesse preso la casa soltanto per tre mesi, perché voleva riposarsi di un inverno trascorso in visite e comparse in
pubblico (che era poi il modo in cui gli inglesi, nonostante idolatrassero il «focolare domestico» passavano la vita) ma
non desiderava tornare in città troppo presto; doveva però confessare che aveva sempre la casa di South Street che
all'ultimo momento aveva preferito tenere, piuttosto che traslocare. Uno doveva pur metterle da qualche parte, le
proprie cose, e quello non era forse un dépot come un altro? La casa di Medley non era esattamente quanto lei avrebbe
scelto, se avesse agito a modo suo. Ma non era stato così. Non agiva mai a modo suo; era stata costretta a prenderla dai
proprietari, che l'avevano incontrata da qualche parte e le si erano messi alle costole, persuadendola che l'avrebbe potuta
avere per una sciocchezza, non più di quanto avrebbe pagato il piccolo cottage coperto di caprifoglio, la vecchia
canonica dal pergolato di glicine, il tipo di casa cioè di cui era andata in cerca. Per di più era una di quelle vecchie
dimore un po' ammuffite, tanto lontane dalla città, difficili da affittare a buon prezzo; senza contare che, in quanto a
comodità, era proprio una casaccia. Per Hyacinth le tre ore di treno erano state un susseguirsi di palpiti lieti e non era
certo la distanza ad averlo impressionato; quanto alla «casaccia», chiese alla Principessa perché la chiamasse così. Lei
replicò che cascava a pezzi, era impossibile sotto tutti i punti di vista, piena di spettri e di cattivi odori. «È l'unica
ragione per cui l'ho presa. Non voglio che m'immaginiate sprofondata nel lusso o incurante di gettar via il mio denaro.
Mai più.» Hyacinth non aveva modo di misurare fino a qual punto il suo parere potesse premerle, e capiva che
nonostante lo ritenesse una creatura da «iniziare» e fosse divertita dalla sua naiveté, amava tuttavia trattarlo come un
vecchio amico, a cui si raccontano i propri problemi. Senza dubbio stava recitando alla perfezione la parte che si era
imposta, e tutto era chiaro a Hyacinth tranne il motivo per cui la recitasse.
Uno soprattutto dei giardini di Medley gli rapì il cuore; era circondato da alti muri di mattoni, con alberi di
albicocchi e prugni nella parte più assolata, vialetti dritti bordati da bei fiori all'antica, spiazzi immensi dove sorgevano
dritti, alberi da frutta, mentre la mentuccia e la lavanda impregnavano l'aria del loro odore. Nel lato sud si affacciava su
un piccolo canale abbandonato e lì era stato rialzato un terrapieno lungo e largo, coperto di tenera erbetta, che nel punto
più alto formava una splendida terrazza verde. In una giornata estiva non c'era niente di più incantevole che
passeggiarvi con qualcuno avanti e indietro, tanto più che ad una delle estremità c'era un curioso padiglione, una specie
di sala da tè, che coronava la scena con la sua aria vecchiotta e offriva riposo e riparo, un rifugio dal sole e dalla
pioggia; mentre dal lato opposto una costruzione gemella era adibita alla custodia di arnesi da giardiniere e vasi vuoti. Il
primo padiglione era tappezzato con una curiosa carta cinese su cui erano disegnati gruppetti di persone simili nei visi a
gattini ciechi, che bevevano il tè a gruppi, accosciati sul pavimento. Conteneva anche un traballante mobiletto
intarsiato, dalle vetrine verdastre, attraverso le quali si potevano vedere tazze e piatti di valore, oltre a una noce di cocco
intagliata e a due idoli esotici. Nella mensola sopra un sofà non troppo comodo, nonostante i cuscini di una sbiadita
tappezzeria che sembrava un'ingenua esercitazione di ricamo, si allineavano romanzi fuori moda e fuori commercio -
romanzi impossibili a reperirsi altrove, e che sembravano non poter avere altra ubicazione. Sulla mensola del camino
c'era una ciotola piena di petali di rosa disseccati misti a spezie aromatiche, e il tutto dava l'impressione di una certa
umidità.
Hyacinth passeggiò avanti e indietro sulla terrazza con la Principessa finché questa, di colpo, si ricordò che lui
non aveva pranzato. Hyacinth protestò dicendo che quello era l'ultimo dei suoi pensieri, ma lei dichiarò che non lo
aveva fatto venire fino a Medley per vederlo morire di fame, e che dovevano rientrare per mangiare. Tornarono facendo
però un gran giro attraverso il parco, così da disporre ancora di una mezzora per parlare. Gli spiegò che lei faceva
colazione alle dodici, secondo la moda straniera, e prendeva il tè nel pomeriggio; visto che anche lui era forestiero,
forse gli sarebbe piaciuta quell'usanza, e in tal caso, il mattino seguente, avrebbero fatto colazione insieme. Poteva farsi
portare in camera, al risveglio, caffè o qualunque cosa volesse. Dopo essersi abbondantemente figurato la scena di un
domestico che gli metteva vicino al letto un vassoio d'argento, Hyacinth disse che veramente, per quel che riguardava
l'indomani, avrebbe dovuto far ritorno a Londra.
C'era un treno alle nove - sperava che non le dispiacesse se lo prendeva. Lei lo guardò, seria e dolce come se
stesse inseguendo un'idea astratta, e poi disse: «Sì, mi dispiace moltissimo. Non domani... un altro giorno.» Lui non
replicò e la Principessa cambiò discorso; o meglio, la sua replica fu silenziosa e consisteva nella riflessione che avrebbe
lasciato Medley al mattino, qualunque cosa lei dicesse. Non poteva permettersi di restare: non poteva ritrovarsi
disoccupato. Anche Madame Grandoni lo giudicava importante: pur apparendo a volte enigmatica, la vecchia signora
era inequivocabilmente incisiva nelle sue dichiarazioni. Tuttavia, non poteva ignorare la protesta della Principessa; una
protesta che temeva potesse degenerare in qualcosa di meno disinvolto delle parole pronunciate, tradursi in una
situazione imbarazzante. Era stata meno solenne, meno esplicita di Madame Grandoni, ma nella leggera pressione
esercitata su di lui e nel modo in cui aveva dichiarato la propria preferenza, colse come un avvertimento che la sua
libertà stava sfumando - quella libertà che era riuscito a conservare (almeno fino all'altro giorno, quando Hoffendahl vi
aveva acceso un'ipoteca sopra) e il cui possesso lo aveva in certo senso consolato di altre privazioni. Tali riflessioni lo
turbavano. Che sarebbe stato di lui se avesse dovuto aggiungere una nuova servitù a quella già accettata al termine della
lunga, trepidante scarrozzata sotto la pioggia, nella camera da letto di una casa che neppure ora sapeva bene dove si
trovasse, mentre Muniment, Poupin e Schinkel, tutti visibilmente pallidi, ascoltavano e accoglievano la promessa?
Muniment, Poupin, Schinkel... come si sentiva distaccato da loro in quel momento; quanto poco era rimasto del
giovanotto che li aveva seguiti in carrozza; e con quanta meraviglia - almeno gli ultimi due - se lo avessero visto ora, si
sarebbero chiesti cosa mai stesse facendo!
A dire la verità anche Hyacinth se lo chiedeva, mentre la Principessa accennava ai luoghi e alle persone
conosciute, alle impressioni e conclusioni raccolte dal loro ultimo incontro. Si atteneva unicamente a questo genere di
argomenti; sembrava volerlo distrarre da ogni preoccupazione, e lui si sorprese della cura con cui evitava la questione
dei bassi fondi e dei sacrifici che aveva intenzione di fare. La Principessa, senza far nessun nome, parlò poi dei propri
amici, del loro temperamento, delle loro case, modi di fare, dando per scontato, come prima, che Hyacinth la seguisse.
Per quel tanto che la seguì, Hyacinth s'interessò del racconto, ma con se stesso fu costretto a riconoscere che metà del
tempo non sapeva neppure di cosa stesse parlando. In tutti i casi, se fosse capitato a lui di stare in compagnia di duchi -
lei non li chiamò duchi, ma era sicuro che si trattasse di qualcosa del genere - ne avrebbe ricavato soddisfazioni
maggiori. In complesso gli sembrava che la Principessa giudicasse severamente il mondo inglese - ne stimava assai
poco l'umorismo e ancor meno la moralità. «Sapete, gli uomini non dovrebbero mai essere corrotti e tetri allo stesso
tempo,» disse; e Hyacinth, ripensandoci, decise che non concordava affatto con quell'interpretazione dell'aristocrazia,
vista unicamente come un'accozzaglia di gente noiosa. A volte, provava un certo piacere a sentirla definire dissoluta, ma
gli dispiacque il malevolo resoconto che la Principessa ne fece. Quanto a sé, lasciò cadere, lei non aveva una moralità
convenzionale - avrebbe dovuto premetterlo - ma non era mai stata accusata di stupidità. Forse lui non se ne sarebbe
accorto, ma la maggior parte delle persone con cui aveva avuto a che fare, la ritenevano fin troppo acuta. La seconda
allusione ai loro futuri progetti (i suoi e di Hyacinth) fu quando disse: «Avevo deciso di conoscerla» - stava ancora
parlando della società inglese - «sperimentarne personalmente la fisionomia prima di buttarla a mare. Ho vissuto qui un
anno e mezzo, ormai, e ritengo di averla capita. Si tratta ancora e sempre del vecchio régime, della corruzione e della
stravaganza irte di iniquità e abusi, su cui la Rivoluzione Francese è passata come un turbine; o forse anche di una
replica del mondo romano, nella sua decadenza, gottoso, apoplettico, depravato, sazio, infarcito di ricchezze e di
spoglie, egoista e cinico, che attende ormai la venuta dei barbari. Voi ed io siamo i barbari, sapete.» La Principessa era
però molto vaga nelle sue critiche, e non gli riferì nessun aneddoto - cosa che gli dispiacque un poco - rivelatore sulle
persone che le avevano offerto ospitalità. Ma non poteva trattarlo proprio come se fosse stato un ambasciatore. Così, in
difesa dell'aristocrazia, rispose che non era possibile che fossero tutti una manica di lazzaroni (si espresse in questi
termini: lei gli aveva fatto capire quanto le piaceva che parlasse come la gente del popolo) perché lui conosceva una
persona - una nobildonna - che era uno degli esseri più puri, gentili, coscienziosi che si potessero immaginare. A queste
parole lei si fermò di scatto e lo guardò. Poi gli chiese: «Di chi parlate...una nobildonna?»
«Non credo ci sia nulla di male a dirlo: è Lady Aurora Langrish.»
«Non la conosco. Che persona è?»
«Mi piace moltissimo.»
«È carina, intelligente?»
«Non è carina ma è molto fuori del comune,» disse Hyacinth.
«Come l'avete conosciuta?» E poiché lui esitava, aggiunse: «Le avete rilegato qualche libro?»
«No, l'ho incontrata in un posto che si chiama Audley Court.»
«E dov'è?»
«A Camberwell.»
«E chi ci abita?»
«Una giovane donna cui faccio visita, perché è immobilizzata a letto.»
«E la signora di cui parlate... come si chiama... Lady Lydia Languish... ci va anche lei?»
«Sì, spessissimo.»
La Principessa, gli occhi fissi su di lui, fece una pausa. «Mi ci porterete?»
«Con grande piacere. La giovane donna di cui parlo, è la sorella dell'uomo... quello che lavora per una grande
ditta di prodotti chimici... che, forse ricorderete, vi ho già nominato.»
«Sì, me lo ricordo. Sarà uno dei primi posti dove andremo. Sapete, mi dispiace,» aggiunse la Principessa
riprendendo a camminare. Hyacinth le chiese cose le dispiacesse, ma lei non tenne conto della domanda e continuò:
«Forse va a trovare lui.»
«Lui chi?»
«Il giovane chimico... il fratello,» disse con aria serissima.
«Può darsi,» rispose Hyacinth ridendo. «Ma è una donna veramente a posto.»
La Principessa ripeté che le dispiaceva, e di nuovo lui chiese perché - forse perché Lady Aurora era così? Ma
lei rispose: «No; per non essere la prima... come l'avete chiamata... nobildonna, che avete incontrato.»
«Non vedo che differenza faccia. Non dovete certo temere di non farmi effetto.»
«Non pensavo a questo. Pensavo che forse siete meno intatto di quello che avevo supposto.»
«Ma io non lo so quello che voi avevate supposto,» disse Hyacinth con un sorriso.
«No, come potreste saperlo?» rispose con uno strano sospiro la Principessa.

II

Era in biblioteca, dopo il pranzo, quando gli fu annunciato che la carrozza era alla porta. Entrando nell'ingresso
trovò Madame Grandoni con cuffia e mantello in attesa che la sua amica scendesse. «Vedete, vengo con voi. Sono
sempre presente,» disse in tono gioviale. «La Principessa mi vuole con sé perché mi prenda cura di lei, ed io eseguo. E
poi, non mi lascio mai sfuggire l'occasione di una scarrozzata.»
«In questo siamo diversi: questa sarà la prima della mia vita.» Riuscì a sottolineare questa differenza senza
amarezza, era troppo felice della prospettiva che lo attendeva per pensare che la presenza della vecchia signora potesse
guastargli il piacere. Non aveva niente da dire alla Principessa che l'altra non potesse udire. Non si rammaricò della sua
presenza neanche dopo che lei, rispondendo alla sua dichiarazione, ebbe osservato, parlando in tono più sentenzioso del
necessario: «Non mi sorprende affatto che non abbiate passato la vita in carrozza: le carrozze non hanno nulla a che fare
col vostro mestiere.»
«Per fortuna!» rispose lui. «Sarei stato un cocchiere alquanto ridicolo.»
La Principessa comparve e salirono tutti su un grande calesse quadrato, un veicolo all'antica, molto alto dalla
carrozzeria verde, una gualdrappa sbiadita e un sedile posteriore dove era sistemato il lacchè (la Principessa aveva detto
che era tutto incluso nella casa), calesse che rotolò vigoroso e leggero per i viali tortuosi e attraverso i cancelli dorati del
parco, sormontati da un enorme stemma. Il procedere di questo terzetto apparentemente male assortito, emanava una
non so quale rispettabilità, e tale percezione contribuì a far sentire a Hyacinth che stava vivendo un avvenimento
decisamente memorabile della sua vita. Potevano anche esserci in serbo per lui gioie più grandi - a questo punto aveva
perso la bussola e non sapeva dove sarebbe approdato - ma mai più nella vita si sarebbe sentito una persona così
rispettabile. La scarrozzata durò a lungo e fu esauriente, ma poche parole furono scambiate durante il tragitto. «Vi
mostrerò tutta la campagna: è squisitamente bella, parla al cuore,» aveva annunciato la sua ospite quando si erano
mossi; e aveva aggiunto, con tutta la sua aria forestiera, accennando con un piccolo movimento del capo al ricco,
civilissimo paesaggio «Voila ce que j'aime en Engleterre».
Per il resto, rimase seduta davanti a lui nella sua silenziosa bellezza, sotto il parasole di pizzo che oscillava
dolcemente, seguendo il suo sguardo, cercando i suoi occhi ogni volta che la carrozza passava vicino a qualcosa
particolarmente affascinante; sorridente come se condividesse totalmente il piacere di lui; e di tanto in tanto
richiamando la sua attenzione su qualche scorcio, su qualche particolare pittoresco, con tre parole dalla cadenza dolce
come una carezza. Madame Grandoni sonnecchiò per quasi tutto il tempo, il mento posato sulla pellegrina di
spelacchiato ermellino nella quale si era avvolta, tornando in sé, di tanto in tanto, per salutare il paesaggio con piccole
grida di gioia, un poco confuse e articolate nella prima lingua che le veniva in mente. Pur nell'estasi di quelle ore
incantevoli, Hyacinth non smarrì mai la coscienza di una vertiginosa purezza e rimase solennemente immobile come se
una mossa falsa potesse spezzare l'incantesimo, lasciando calare il sipario sullo spettacolo. Lo percepiva, in particolare,
quando il suo sguardo si spostava dagli oggetti che gli si paravano davanti strada facendo (ciascuno dei quali non era
altro che la ricca immagine di qualcosa cui aveva sempre anelato) alla donna più bella d'Inghilterra seduta lì, proprio
davanti a lui, a suo totale beneficio, quasi fosse stato un pittore incaricato di farle il ritratto. Più di una volta gli si
appannò la vista e gli occhi gli si riempirono di lacrime.
La sera dopo cena, sedettero in salotto, come la Principessa aveva promesso, o piuttosto minacciato, di fare. La
minaccia consisteva, per lui, nel fatto che le signore si sarebbero fatte belle mentre lui si sarebbe sentito più misero che
mai in quella compagnia e in quell'ambiente avendo già indosso l'unico indumento che si avvicinasse a una giacca «di
buon taglio» in suo possesso e che non poteva cambiare con quel tipo di abito che la gente civile (questo almeno lo
sapeva, anche se non era in grado di emularla) indossava intorno alle otto. E infatti le signore, quando scesero per la
cena, erano tutte parate; tuttavia egli rifletté che era più contento di essere vestito in quel modo - per disadatto che fosse
il suo abbigliamento - anziché offrire come Madame Grandoni uno spettacolo alquanto comico. Sempre più si
convinceva che se alla Principessa non importava nulla che fosse povero, non doveva importargliene neanche a lui. Non
se l'era andata cercando, quella situazione, vi ci era stato spinto; né era il frutto di una segreta aspirazione a farsi strada.
Quanto poco importasse alla Principessa - anzi quanto la divertisse giocare un tiro alla società accettando Hyacinth così
com'era - quella società falsa e convenzionale che lei aveva voluto conoscere a fondo per disprezzarla con cognizione di
causa - era risultato chiaro da come lo aveva presentato al gruppetto che avevano trovato ad aspettarli nell'atrio, al
ritorno dalla passeggiata in carrozza: quattro signore, una madre e tre figlie, venute in visita da Broome, una località che
distava di lì un cinque miglia. Da quel che capì anche Broome era una grande dimora, e Lady Marchant, la madre,
moglie di un grosso possidente terriero. Spiegò che si erano fermate perché il domestico aveva assicurato che la
Principessa sarebbe tornata presto, servendo poi il tè senza aspettare il suo arrivo. La sera s'era fatta piuttosto fresca; nel
salone era acceso il fuoco e tutti vi si accostarono sedendo intorno alla tavola da tè, sotto un soffitto altissimo che
arrivava fino al tetto della casa. Hyacinth s'intrattenne soprattutto con una delle figlie, una ragazza molto fine, dalla
schiena dritta, lunghe braccia, con il collo avvolto in un boa di pelliccia così stretto che per guardarsi di lato doveva
ruotare l'intero corpo. Aveva un bel viso privo di espressione sul quale la fiamma scherzava senza animarlo, una bella
voce e, di tanto in tanto, la padronanza di poche, brevi parole. Chiese a Hyacinth con quale muta amasse cacciare e se
fosse appassionato di tennis, e mangiò tre pasticcini.
Il nostro giovanotto comprese che Lady Marchant e le figlie erano già state a Medley e capì anche che
l'accoglienza della Principessa, la quale probabilmente le considerava noiose, non era stata entusiastica, la sua fantasia
si lanciò perfino ad approfondire i reconditi motivi che, malgrado tanta freddezza, le aveva spinte - le principesse erano
rare in quel paese - a tornare una seconda volta. La conversazione al lume della fiamma - mentre il nostro giovane si
sforzava con una certa impazienza di intrattenere la bella divoratrice di paste (forse lo aveva contagiato lo stato d'animo
della Principessa nei confronti di quello stato di cose) - la conversazione, intramezzata dal lieve tintinnio delle delicate
tazzine da tè, si mantenne il più educata possibile, considerato il chiarissimo parti-pris della Principessa di mettere in
fuga, come si suol dire, la povera Lady Marchant. Chiedeva con garbo spiegazioni su tutto, specialmente su quel che
intendeva dire Sua Signoria con i suoi sottili accenni, tanto che Hyacinth non riusciva a capire quale interesse potesse
avere a sembrare tanto ottusa. Soltanto in seguito seppe che la famiglia Marchant agiva sui suoi nervi in modo tutto
particolare, irritandola fino alla follia. Hyacinth si domandò cosa sarebbe accaduto se la persona con la quale stava
intrattenendo una conversazione (sia pure modesta) fosse venuta a sapere che il suo interlocutore era un pezzente
artigiano londinese; e pur essendo contento che la fanciulla non avesse scoperto la sua identità (né attribuiva la
laconicità delle sue frasi a questo motivo) si domandò per un attimo se non fosse suo dovere rivelargliela, per non farsi
bello sotto false spoglie. Chi poteva pensare che fosse - o meglio, chi non pensava che fosse - quando gli aveva chiesto
se andava a caccia e se era «appassionato di tennis»? Forse era il buio; se la penombra del grande salone fosse stata più
chiara avrebbe capito subito che non era uno di loro. Pensava che si era già trovato molte volte in compagnia dei ricchi,
ma avevano sempre saputo chi era e avevano avuto il tempo di decidere come trattarlo. Per la prima volta una giovane
gentildonna non sapeva, ma la prova era andata bene. Decise di non smascherarsi per non tradire al tempo stesso la
Principessa. Stava a lei piegarsi verso Miss Marchant e dirle: «Sapete, è un piccolo, misero rilegatore che si guadagna
pochi scellini alla settimana in una orrida strada di Soho. Ci sono tante storie meschine, e alcune, temo, persino orribili,
collegate con la sua nascita. Penso di avere il dovere di dirvelo.» Si augurò quasi che lo dicesse davvero, per godersi la
reazione violenta che la notizia avrebbe suscitato e fantasticava, incuriosito al massimo, su cosa avrebbe fatto Miss
Marchant in un caso simile e quante esclamazioni - o che completo silenzio denso di stupore - sarebbero saliti al soffitto
affrescato. Ma non spettava a lui prendere iniziative, era entrato in un vicolo cieco dove le responsabilità erano cadute.
Il tè aveva svegliato Madame Grandoni; e ad ogni pausa della conversazione interveniva e salvava la situazione
parlando di Roma, dove avevano passato un inverno, descrivendo in modo molto divertente come alcune famiglie
inglesi (che conosceva da quasi mezzo secolo e aveva ritrovato una sera a Roma) ispezionassero rovine e monumenti
intrufolandosi perfino nelle grandi cerimonie della Chiesa. Era chiaro che le quattro signore non sapevano cosa pensare
della Principessa; ma anche nell'incertezza che Madame Grandoni fosse una dama di compagnia prezzolata, si sentivano
paghe al pensiero che la buffa, semplice, grassa signora avesse conosciuto i Millington, i Bunbury e i Tripp.
Dopo la cena (durante la quale la Principessa si abbandonò a qualche osservazione scherzosa sui loro ospiti
dichiarando che Hyacinth doveva assolutamente andare con lei a ricambiare la visita per conoscere la loro casa e il loro
andamento di vita) Madame Grandoni sedette al piano, su preghiera di Cristina, e suonò per un'ora. C'era tanto spazio
nell'ampio salotto, e i nostri amici si erano seduti lontano l'uno dall'altra. La musica della vecchia signora filtrava
discreta attraverso la tenue luce di numerose candele, conosceva dozzine di arie italiane, che sapevano di canti popolari
dimenticati, cui fece seguire una serie di dolci, lamentosi Lieder tedeschi, che risvegliarono, senza violenza, gli echi
dell'alta, sfarzosa sala. Era la musica di una vecchia signora e sembrò tremolare un poco, come avrebbe potuto fare la
sua voce. La Principessa, sprofondata in una comoda poltrona, ascoltava dietro lo schermo di un ventaglio. Almeno,
Hyacinth pensò che stesse ascoltando, poiché non fece alcun movimento. Poi Madame Grandoni si allontanò dal piano e
si diresse verso il giovanotto. Aveva preso con sé un libro francese dalla copertina rosa che teneva stretto sotto il
braccio, mentre lo guardava.
«Mio povero piccolo amico, devo darvi la buonanotte. Non vi rivedrò per qualche tempo poiché, se prendete
un treno del mattino, avrete lasciato la casa prima che mi sia messa la parrucca, e non mi mostro mai a un uomo senza.
Mi sono occupata tutto il giorno della Principessa per tenerla lontana dai pericoli, e ora per un poco l'affido a voi.
Abbiatene buona cura, ve ne supplico. Ho bisogno di mettermi in libertà; alla mia età, a quest'ora non c'è niente di
meglio. Che volete? Odio sentirmi stringere,» continuò Madame Grandoni che tuttavia sembrava essere riuscita ad
evitare ogni costrizione, pur indossando l'abito da cerimonia. «Non rimanete alzati fino a tardi,» aggiunse, «e tu, non lo
trattenere, Cristina. Ricordati che per un giovanotto attivo come il signor Robinson, che si reca tutti i giorni al lavoro,
non c'è niente di più stancante che una vita oziosa come la nostra. Perché, dopotutto, che facciamo? Ha gli occhi
stanchi. Basta!»
Durante il discorsetto la Principessa, che non aveva replicato neanche alle parole rivolte direttamente a lei,
rimase nascosta dietro il ventaglio; ma dopo che Madame Grandoni se ne fu andata, abbassò quello scudo blasonato, e
posò gli occhi su Hyacinth. Infine disse: «Non state lì seduto, lontano mezzo miglio. Venitemi vicino. Voglio dirvi
qualcosa che non posso urlare da un capo all'altro della stanza.» Egli si alzò subito e contemporaneamente anche lei si
alzò così che, muovendosi incontro, si trovarono di fronte, a metà strada, davanti al grande camino di marmo. Lei
rimase lì, aprendo e chiudendo il ventaglio, e poi cominciò: «Dovete essere sorpreso che non vi abbia ancora parlato
della nostra grande causa.»
«No davvero: non mi stupisco più di nulla.»
«Quando usate quel tono, sento che non diventeremo mai amici,» disse la Principessa.
«Speravo che lo fossimo già. Dopo tutte le gentilezze che mi avete usato, non c'è nulla che possiate chiedermi
che...»
«Che non fareste volentieri? So quello che state per dire, e non dubito che siate sincero. Ma cosa me ne faccio
del vostro zelo se continuate a considerarmi una donna frivola, vuota, senza cuore, che si comporta senza un minimo di
buon gusto e vi opprime con goffe attenzioni? Forse mi considerate una spaventosa, sfacciata, famelica civetta.»
«Che vuole civettare con me?» disse Hyacinth con modestia. «Sarei un bel presuntuoso!»
«Avete il diritto di essere presuntuoso quanto vi pare dopo tutte le avances che ho fatto! Chi più di voi! Ma
insistete nel volervi sentire umile, e questo è molto esasperante.»
«Non sono io ad essere esasperante; è la vita, la società, e tutte le difficoltà che ci attorniano.»
«Sono esattamente dello stesso parere... che sono esasperanti; che quando io mi rivolgo a voi con franchezza,
con candore, disinteressatamente... solo perché mi piacete, e per nessun altro motivo al mondo... perché mi aiutiate a
ignorare e scavalcare queste convenzioni e assurdità, trattandole col disprezzo che meritano, voi abbassate gli occhi,
arrossite perfino un po', vi fate piccolo piccolo e tentate di sgusciar via, parlando di generica devozione e della vostra
insignificanza. Ricordatevi bene: voi cessate di essere insignificante dal momento che io ho a che fare con voi. Mio
caro,» continuò la Principessa, con quel suo tono disinvolto, spregiudicato, familiare, che riceveva nobiltà dalla sua
bellezza, «c'è gente che sarebbe felice di essere oscura come voi.»
«Che volete che faccia, allora?» chiese Hyacinth con la maggior calma possibile.
Se avesse supposto con questa domanda che, partendo da lui ed essendo pronunciata con sensibile impazienza,
poteva risultare alquanto imprevedibile, di procurarle un imbarazzo momentaneo, si sarebbe sbagliato di grosso. Lei
rispose immediatamente: «Voglio che mi diate tempo! È tutto quello che chiedo ai miei amici in genere, tutto quello che
ho chiesto ai migliori amici che abbia mai avuto. Ma nessuno di loro lo ha fatto; nessuno, tranne l'ottima creatura che è
uscita or ora. Lei mi ha capito da sempre.»
«È quello che vi chiedo anch'io, da parte mia,» disse Hyacinth con un sorriso, ostentando la stessa presenza di
spirito di un giovane prigioniero sottoposto a un processo in cui sia in palio la sua vita. «Datemi tempo, datemi tempo!»
mormorò, guardando lo splendore di lei.
«Mio caro Hyacinth, vi ho dato dei mesi! - Dei mesi, da quando ci siamo incontrati la prima volta. E anche
adesso, non vi ho forse dato l'intera giornata? L'ho fatto apposta, a non parlare dei nostri piani. Sì proprio i nostri piani...
so quello che dico. Non vi mettete a fare lo stupido, con la vostra bella faccia intelligente non ci riuscireste. Volevo
lasciarvi libero di godervela a modo vostro.»
«Oh, me la sono goduta infatti,» disse Hyacinth.
«Bisognerebbe essere molto esigenti per non godersi questo posto. Ho desiderato principalmente per questo di
avervi qui: volevo osservare l'impressione che una casa come questa, vista per la prima volta, avrebbe fatto su una
natura sensibile come la vostra e, vi assicuro, ne è valsa la pena. Vi ho già accennato come consideri straordinario che
voi siate quello che siete pur non avendo mai visto... come chiamarle?... cose belle, deliziose, antiche. Vi ho osservato;
e sono assolutamente sincera. Voglio che ne vediate ancora... ancora...!» esclamò la Principessa con improvvisa enfasi
che, se rivolta a qualcun altro, sarebbe stata scambiata da Hyacinth per appassionata tenerezza. «E voglio parlarvi, tra
l'altro, anche di questo. Sarà per domani.»
«Domani?»
«Ho notato che Madame Grandoni, poco fa, dava per scontato che sareste partito. Ma lei non ha niente a che
fare con questa faccenda. E poi, è così poco intuitiva!»
Hyacinth scosse il capo sorridendo debolmente e pensando che ormai la sua decisione era presa. «Non posso
restare.»
Lei ricambiò il sorriso, ma c'era qualcosa di stranamente commovente - come un rimprovero triste e gentile -
nel tono in cui replicò: «Non dovreste rattristarmi così, non è carino.»
Hyacinth aveva fatto i suoi conti senza quel tono di voce; di colpo, gli sembrò che tutti i ragionamenti
crollassero, e andassero in frantumi. Per un attimo rimase immobile a occhi bassi, poi disse: «Principessa, voi non
potete immaginare... e come potreste?... in quale marea di misere, penose preoccupazioni siete andata a incappare. Non
ho denaro... non ho abiti.»
«Che dovete farvene del denaro? Non siete mica in albergo.»
«Ma ogni giorno che passo qui è un giorno di paga che va in fumo. Io campo della mia paga giornaliera.»
«Lasciate che vi dia io una paga. Lavorerete per me.»
«Che significa... lavorare per voi?»
«Rilegherete i miei libri. Ne ho moltissimi, stranieri, in brossura.»
«Parlate come se mi fossi portato dietro i miei arnesi!»
«No, non penso che lo abbiate fatto. Ma vi darò la vostra paga ora, e mi farete il lavoro dopo, con comodo. Se
poi vi occorre qualcosa, potrete andare a Bonchester a far spese. Ci sono ottimi negozi, me ne sono servita anch'io.»
Sotto l'effetto stimolante della sua presenza, Hyacinth stava inseguendo una quantità di pensieri: inseguiva
soprattutto queste due riflessioni: primo, che non era bello accettare denaro da una donna (anche se tale opinione non
trovava molto seguito né a Pentoville né a Soho) e secondo che era ancor meno bello lasciare che una donna come
quella vi si mettesse davanti in ginocchio. Ma occorse più di un minuto perché un'opinione prendesse il sopravvento
sull'altra, e prima che questo accadesse udì la sua amica dire in tono pacato, distaccato: «Se crediamo nell'avvento della
democrazia, se ci sembra giusto e se sosteniamo che la grande marea, riversandosi sul mondo, spazzerà via una miriade
d'iniquità e di crudeltà, perché non tentare, coi nostri poveri mezzi - bisogna pur cominciare, no? - di introdurre lo
stesso spirito nella nostra vita più privata e nel nostro modo di essere? Io voglio farlo, cerco di farlo, nei miei rapporti
con voi, per esempio. Ma voi vi ritraete; non siete democratico neanche un po'!»
L'accusa di razzismo patrizio era una mossa molto astuta da parte di lei; tuttavia Hyacinth rimase abbastanza
lucido (pur esitando un poco nel timore che le sue parole potessero offenderla) da dire con franchezza: «Sono stato
messo in guardia contro di voi.»
Lei non sembrò raccogliere l'offesa. «Non mi è difficile capire perché. Certo il mio comportamento - anche se
ho fatto ben poco fino ad ora - deve apparire molto strano. Che vuole? come dice Madame Grandoni.»
Una specie di nocca di seta celeste, che faceva parte della guarnizione del suo abito, le ricadeva lungo il fianco,
fra le pieghe. Gli occhi di Hyacinth si erano soffermati per un attimo su quei lucidi cappi, ed ora ne afferrò uno e se lo
portò alle labbra. «Eseguirò qualunque lavoro mi darete da fare. Se me lo darete di proposito, e tanto per essere
generosa, è affar vostro. Io stesso stabilirò il prezzo. Mi ha indotto ad accettare la consapevolezza che farò un buon
lavoro; meglio di chiunque altro; almeno avrete questa ragione, per impiegarmi. Vi ho portato un libro... servirà a farvi
un'idea. L'ho fatto per voi l'anno scorso e venni a South Street per offrirvelo, ma eravate già partita.»
«Me lo darete domani.» Queste parole contenevano un tale senso di sollievo nel trovarlo così ragionevole, oltre
al cordiale desiderio di ammirare la testimonianza del suo talento, che rimase sorpreso quando, un minuto dopo, lei
disse con aria noncurante: «Chi è stato a mettervi in guardia contro di me?».
Temendo che pensasse a Madame Grandoni, scelse la risposta più facile, non avendo alcun desiderio di tradire
la vecchia signora e considerando come la scarsa probabilità che il suo amico di Camberwell acconsentisse ad
incontrare la Principessa (nonostante lei si proponesse di andare a casa loro) scongiurava ogni danno per tutti. «Un mio
amico di Londra... Paul Muniment.»
«Paul Muniment?»
«Credo di avervi fatto il suo nome la prima volta che ci siamo incontrati.»
«La persona che aveva detto qualche cosa d'interessante? Ho dimenticato cosa.»
«Sarà stata sicuramente interessante, se l'ha detto lui. È una persona molto equilibrata.»
«Il suo ammonimento mi lusinga, allora! Ma cosa sa di me?»
«Nulla, naturalmente, tranne quel poco che gli ho detto io. Ma parlava soltanto in senso generale.»
«Mi piace il suo strano nome... Paul Muniment,» disse la Principessa. «Se rassomiglia al suo nome, dovrebbe
piacermi.»
«Vi piacerebbe molto più di me.»
«Che ne sapete voi quanto... o quanto poco mi piacete? Sono decisa a tenervi stretto soltanto per quello che
potrete farmi vedere.» S'interruppe un attimo mentre i suoi splendidi occhi profondi sembravano accendersi, a causa di
pensieri reconditi che lo confondevano e lo sfidavano insieme. Poi di nuovo, con la sua voce incantevole, tornò
all'argomento. «In linea di massima, bien entendu, il vostro amico aveva ragione ad ammonirvi. Ora, quella linea di
massima è proprio quanto mi sono impegnata a rendere più insignificante possibile. È proprio per ridurla a zero che
parlo, che mi comporto così, con voi. Cos'altro pensate che stia facendo? Voglio usare ogni immaginabile astuzia per
colmare quel vuoto assurdo che sta lì aperto, fra me e voi. Sapete quanto poco mi curi delle "posizioni sociali" - ve lo
dissi a Londra. Per amor del cielo, fatemi sentire che ci sono riuscita almeno un poco.» La rassicurò sufficientemente,
giacché cinque minuti dopo lei non si preoccupava minimamente che potesse partire. Tutt'altro! Scoppiò in
un'improvvisa risata e invece di insistere sull'argomento, se ne uscì in una delle sue singolari battute: «Dovete
assolutamente venire con me dai Marchant. Sarà bellissimo vedervi là.»
Passeggiando avanti e indietro per il salotto vuoto, dopo che lei se ne fu andata un po' bruscamente e, gli parve,
senza nessuna cerimonia e come se nulla fosse, gli venne in mente se non fosse quella la ragione principale per cui lei
voleva tenerlo lì, per farsi aiutare a giocare uno dei suoi tiri alla brava gente di Broome. Continuò a camminare così, a
lume di candela, più di quanto non si rendesse conto, finché venne il cameriere, che si fermò sulla soglia ad osservarlo
attentamente, in silenzio, come per fargli capire che stava scombussolando le usanze della casa. Aveva detto alla
Principessa che la sua decisione di restare era dovuta alla sicurezza con cui sapeva di poter esercitare il suo mestiere al
servizio di lei; ma questa era soltanto una parte delle ragioni che lo spingevano a dimenticare quanto si era detto a
Lomax Place, analizzandosi come mai gli era accaduto prima, quando le aveva scritto la lettera con la quale accettava
l'invito a Medley. Ci sarebbe andato, aveva ragionato, solo perché un uomo deve essere sempre galante, specialmente se
è soltanto un povero piccolo rilegatore; ma una volta lì, avrebbe insistito per sapere che cosa ci si aspettava da lui. Il
repentino cambiamento che ora si era operato nasceva dall'aver cessato di chiedersi quale fosse il mistero. Tutti gli
ammonimenti, le riflessioni, le congetture su quanto ci fosse di verosimile, di delicato, di naturale, di probabile, e anche
sul valore della sua indipendenza, erano diventati irrisori per lui. Il calice di un'esperienza sublime - una settimana in
quel luogo incantato, una settimana di assenza da Lomax Place e dal vecchio Crook come non aveva mai neppure
sognato - era lì pronto per essere bevuto, colmo del vino purpureo dell'amore, della realtà, della civiltà, e non poteva
respingerlo. Anche se doveva tornarsene a casa pieno di vergogna, gli sarebbe però rimasto per sempre nella bocca il
sapore del nettare. Salì le scale sotto lo sguardo del domestico, e girando l'angolo del corridoio per recarsi nella sua
stanza, si trovò faccia a faccia con Madame Grandoni. Evidentemente era uscita allora dalla sua stanza, la cui porta era
rimasta aperta; forse aveva aspettato di udire i suoi passi. Indossava una vestaglia che doveva assicurarle la possibilità
di respirare a suo agio, ma non si era separata dalla parrucca. Aveva ancora sotto il braccio il libriccino rosa francese, e
le sue mani grassocce incrociate davanti, facevano come da fibbia alla vita generosa.
«Datemi una notizia positiva, signor Robinson!» disse arrestandosi bruscamente.
«Quale notizia positiva, Madame Grandoni?»
«Che prenderete il treno del mattino.»
«Non posso, perché sarebbe falso. Al contrario, è stato stabilito che resterò. Mi dispiace molto che la cosa vi
addolori, ma, che vuole?», udì la sua voce che osava quasi essere «sfacciata.»
Madame Grandoni era una donna di spirito, ma non ricambiò il sorriso; lo guardò per un attimo, con durezza e
poi, scrollando in silenzio ma in modo eloquente le spalle, se ne tornò in camera strascicando i piedi.

III
«Posso indovinare il nome del vostro amico al primo colpo. È Diedrich Hoffendahl!» Avevano passeggiato
sempre più lentamente, la mattina seguente, e una volta pronunciate queste parole la Principessa si fermò del tutto,
rimanendo lì in piedi, sotto un grande faggio, con gli occhi posati su Hyacinth e le mani piene di primule. Hyacinth
aveva fatto colazione a mezzogiorno con la sua ospite e con Madame Grandoni; ma per fortuna la vecchia signora non
si era unita a loro quando la Principessa, più tardi, gli aveva proposto di accompagnarla in una passeggiata nel parco.
Gli raccontò che la sua veneranda amica le aveva detto, di primo mattino, quanto fosse stato di pessimo gusto non aver
fatto partire in pace il loro compagno; ma lei aveva replicato che sui gusti c'è poco da discutere e che, già in passato,
avevano avuto divergenze di opinione in proposito senza che per questo succedesse nulla di male. Hyacinth commentò
che fra tanti argomenti ingrati, si augurava che non scegliessero proprio lui per litigare, e la Principessa lo rassicurò che
lei non litigava mai su nessun argomento: riteneva che ci fossero sistemi diversi per regolare i rapporti con gli altri; e lui
si chiese se non intendesse dire che quando le differenze di opinioni si facevano troppo acute troncava completamente il
rapporto. Da parte di lei, perciò, esistevano le stesse, scarse probabilità che avrebbero mai litigato di quante ce ne
fossero per lui: la loro sarebbe stata una grande amicizia, o niente. Di ora in ora la Principessa la consolidava, ed è facile
immaginare quanto il suo ospite si sentisse al sicuro con lei, se ben presto cominciò a raccontarle quello che gli era
accaduto tre mesi prima, a Londra, di notte, o meglio alle prime ore del mattino, un avvenimento che aveva
completamente mutato la sua vita... anzi, poteva dire che aveva mutato i termini sui quali quella si reggeva. Si rendeva
conto dell'oscurità di quest'ultima frase, ma essa esprimeva sufficientemente il nuovo sentimento che lo aveva assalito,
da quella interminabile, snervante scarrozzata sotto la pioggia.
La Principessa aveva aperto il discorso non appena lasciata la casa, per farsi perdonare di averlo evitato il
giorno prima, dicendo all'improvviso: «Ora ditemi cosa sta accadendo fra i vostri amici. Non parlo delle amicizie di
convenienza, ma dei vostri colleghi, i vostri fratelli. Où en etez-vous al momento? Non c'è niente di nuovo? Sta per
accadere qualcosa? Mi pare che non facciate altro che gingillarvi e ciondolare.» Hyacinth sapeva che, di recente, si era
tutt'altro che gingillato, ma prima che si prendesse la pena di contestare l'accusa, lei se ne uscì con tutt'altro tono: «Che
rabbia non poter chiedere nulla senza che a buon diritto chiediate a voi stesso: "Dopotutto, cosa ne so? Potrebbe anche
darsi che sia stata assoldata dalla polizia..."»
«Non mi è mai venuto in mente,» protestò galantemente Hyacinth.
«Potrebbe accadere, però, da un momento all'altro. Anzi, penso proprio che dovrebbe accadere.»
«Se foste pagata dalla polizia non vi preoccupereste certo di me.»
«Ve lo farei credere di sicuro! Sarebbe il mio primo pensiero. Comunque, se non avete questi noiosi sospetti,
tanto meglio,» disse la Principessa; e si mise di nuovo a fargli domande su quanto stava accadendo dietro le quinte.
Nonostante la totale mancanza di dubbi sulla sua onestà - era certo che non avrebbe mai covato il pensiero che
potesse agire per la parte avversa - non si abbandonò subito alle confidenze; ma al termine di una buona mezz'ora, le
confessò che si era compiuto l'avvenimento più importante della sua vita, non più tardi dell'altro giorno, nel modo più
inatteso. E per spiegare di cosa si trattasse, aggiunse: «Ho giurato su quanto c'è di più sacro.»
«E che cosa avete giurato?»
«Ho fatto un voto, un voto solenne, alla presenza di quattro testimoni,» continuò Hyacinth.
«E di che cosa si tratta?»
«Ho impegnato la mia vita,» disse, sorridendo volutamente.
Lo guardò sbalordita, come se cercasse di capire in che modo avrebbe realizzato quell'impegno; ma non fece
trapelare il minimo atteggiamento critico, la sua faccia rimase ineccepibilmente seria. Camminarono ancora un poco,
scambiandosi occhiate silenziose. Poi lei disse: «Adesso, sono ancora più contenta che siate rimasto!»
«È stato infatti uno dei motivi per rimanere.»
«Avrei preferito che aveste aspettato... fin dopo che eravate stato qui,» volle tuttavia aggiungere.
«E perché fin dopo essere stato qui?»
«Perché allora, forse, non avreste impegnata la vostra vita. Avreste potuto trovare dei motivi per non farlo.» E
con questo si arrese, come Hyacinth, di fronte all'assolutezza della scelta. Hyacinth rispose di non avere il minimo
dubbio che la sua influenza lo avrebbe indebolito; ma senza prestare attenzione alle sue parole, lei continuò: «Abbiate la
bontà di dirmi di che cosa state parlando.»
«Non vi temo, ma non farò alcun nome,» disse Hyacinth, e le raccontò quanto era accaduto in quel locale di
Bloomsbury, durante quella notte cui ho già accennato. La Principessa ascoltava con grande interesse, mentre
passeggiavano interrompendosi spesso sotto gli alberi ingemmati. Le vecchie querce e i vecchi faggi che, come oggi, si
rinnovavano al sole, e che nel grigio novembre sarebbero stati nudi, non avevano mai fatto da testimoni a una così
straordinaria serie di confidenze da quando la prima coppia aveva camminato, in cerca di un luogo isolato, su quei
declivi erbosi e per le vallette ammantate di felci. Fra le altre cose, il nostro giovanotto menzionò che non andava più al
«Sole e Luna» perché capiva, ora, - ma avrebbe dovuto farlo da tempo - che quel privilegiato tempio della loro fede in
cui si ribadiva che tutto dovesse maturare lì - altro non era che una mistificazione. Era stato un bell'ingenuo ad averlo
preso in un primo tempo sul serio. Lo aveva fatto essenzialmente sull'esempio di un suo amico, del quale si fidava; ora
si scopriva che l'amico (per inciso, si trattava anche questa volta di Paul Muniment) aveva sempre considerato tutti i
convenuti una massa di tergiversatori e andava lì per averne conferma. Non ce n'era uno che si potesse definire un uomo
di prim'ordine, se si escludeva un altro suo amico, un francese chiamato Poupin - e anche Poupin era magnifico, ma non
era di prim'ordine. Da quando Hyacinth aveva conosciuto l'uomo che era l'incarnazione del progetto decisivo, poteva
dirlo. Aveva sentito che era grande, dall'istante in cui lo aveva visto.
«Avete visto chi, signor Robinson?» chiese la Principessa.
«Non so se posso dirvelo, anche se credo in voi! Sto parlando dell'uomo straordinario col quale mi sono
impegnato.»
«A dare la vita?»
«A fare una certa cosa che, in una particolare circostanza, lui mi richiederà. E chiederà appunto la mia povera,
piccola carcassa.»
«Questi progetti "decisivi" sono destinati a fallire... sfortunatamente» mormorò la Principessa, aggiungendo in
fretta quell'ultima parola.
«Lo dite con sollievo o con rimpianto?» chiese Hyacinth. «Questo non fallirà... per quanto sta in me. Volevano
un giovane disposto a tanto: beh, il posto era vacante e l'ho preso io.»
«Senza dubbio avete ragione. Dobbiamo pagare per tutto quello che facciamo.» Enunciò con placida freddezza
questa dura legge e poi disse: «Credo di conoscere la persona di cui vi siete messo in balìa.»
«Può darsi, ma ne dubito.»
«Pensate che non abbia potuto andare tanto lontano? E perché no? Vi ho dato parecchie prove che non sono il
tipo che si tira indietro.»
«Beh, se è vero che conoscete il mio amico, allora siete andata veramente lontano.»
Sembrò che la Principessa stesse lì lì per pronunciare un nome, ma si fermò in tempo e invece disse, con
subitaneo ardore: «Non vorrebbero per caso anche una giovane donna disposta a tanto?»
«Mi risulta che non abbia molta stima delle donne, il mio uomo di prim'ordine. Non si fida di loro.»
«E per questo che lo chiamate di prim'ordine? Vi siete quasi tradito, però.»
«Credete che ce ne sia soltanto uno ad avere quest'opinione?» riprese Hyacinth.
«Uno soltanto che, pur sostenendola, rimanga un essere superiore. È un'opinione ben difficile da conciliare con
altre assai più importanti.»
«Schopenhauer c'è riuscito brillantemente,» disse Hyacinth.
«Che cosa deliziosa, che voi conosciate il vecchio Schopenhauer!» esclamò la Principessa. «Anche la persona
a cui penso è un tedesco.» Hyacinth lasciò passare questa frase senza provocarla per timore di essere a sua volta
provocato, e lei continuò: «Certo, un impegno come il vostro deve cambiare tutto, drasticamente.»
«Ha cambiato questo: che ora ho acquistato una nuova dimensione della realtà, della consistenza di quello che
stiamo preparando. Prima me ne stavo fuori, sui gradini del tempio, insieme ai fannulloni e ai perdigiorno; ora sono
entrato all'interno del santuario. Sì, ho visto il sancta sanctorum.»
«E lo trovate sbalorditivo?»
«Ah, Principessa!» sospirò il giovanotto.
«Allora è proprio una cosa reale, solida?» proseguì. «proprio questo che ho cercato di stabilire, da tempo.»
«È al di là di ogni immaginazione. A prima vista non trapela nulla, ma in realtà c'è un immenso mondo
sotterraneo brulicante d'infiniti impulsi diversi, di passione e dedizione rivoluzionaria. Mi sorprende soprattutto il modo
in cui è organizzato. Lo sapevo già, o almeno credevo di saperlo. Ma quando ne ho preso contatto, è stato come una
rivelazione. Sopra questo mondo si muove tutta la società: gente che va e viene, che compra e vende, che beve, che
balla, che fa soldi e che fa all'amore, e che non sembra sapere niente, sospettare niente, pensare niente; e la cattiveria
impazza, e la miseria di metà del mondo viene qualificata "un male necessario", e in mezzo a tutto questo, intere
generazioni marciscono e muoiono di fame, e un giorno segue l'altro, e tutto va per il meglio in un mondo perfetto. Ma
questa è soltanto una faccia della realtà: l'altra è che tutto ciò è destinato alla rovina! Nel silenzio, nell'ombra, sotto i
piedi di ciascuno di noi, vive e opera la rivoluzione. È una trappola meravigliosa, gigantesca, sul cui portello la società
celebra i suoi riti. Una volta che il meccanismo sarà messo a punto si farà una prova generale. È proprio per questa
prova generale che hanno bisogno di me. Fili invisibili, impalpabili sono sparsi ovunque, si snodano dappertutto, si
attorcigliano là dove nessuno penserebbe mai di cercarli. Non è assolutamente strano e incredibile, ad esempio, che
esistano proprio qui?»
«Me lo fate credere,» disse, pensosa, la Principessa.
«Importa poco che ci si creda o meno!»
«Avete avuto una visione,» continuò lei.
«Pardieu! Ho avuto proprio una visione! L'avreste avuta anche voi, se foste stata là.»
«Quanto vorrei esserci stata!» dichiarò lei con un tono carico di così ambigue implicazioni che Hyacinth,
cogliendole a volo, nell'attimo in cui aveva finito di parlare, rispose con una breve, incongrua risata...
«No, avreste rovinato tutto. Lui mi ha fatto capire sentire, fare tutto ciò che ha voluto.»
«E perché avrebbe voluto proprio voi?»
«Semplicemente perché gli sono sembrato la persona adatta. È affar suo; io non lo so. Quando incontra la
persona adatta, fa una crocetta col gesso. Io mi sono seduto sul letto. C'erano soltanto due sedie nella piccola stanza
sporca, e il suo paltò faceva da tenda davanti alla finestra. Lui rimase in piedi, si appoggiò al muro proprio davanti a
me, con le mani dietro la schiena. Mi disse qualcosa in modo estremamente pacato. Anch'io ero tranquillo, almeno
penso; e in verità c'era solo il povero Poupin che strepitava, per amor mio: secondo lui, non sapevamo cosa stessimo
facendo; voleva richiamare l'attenzione sulla mia esigenza d'immolarmi. Ma non si trattava di questo - la verità è che la
cosa era più forte di me. Lui, e l'altro tedesco, occupavano le due sedie e Muniment si era seduto su un vecchio, curioso
baule imbottito di crine, che cascava a pezzi, un oggetto dall'aspetto insolito.» Hyacinth non aveva fatto caso alla
piccola esclamazione con la quale la sua compagna aveva accolto, nella sua ultima frase, la parola «altro.»
«E Muniment, che ha detto?» chiese.
«Oh, lui ha detto che andava bene. È chiaro che se n'era convinto dal momento in cui aveva deciso di portarmi
con sé. Sapeva cosa voleva, l'altro.»
«Capisco.» Poi la Principessa aggiunse: «Abbiamo uno strano modo di amarvi.»
«Chi intendete, quando dite "noi"?»
«I vostri amici. Il signor Muniment e io, per esempio.»
«Per me va bene comunque, ma voi due non provate gli stessi sentimenti. Ho il sospetto che a voi dispiaccia.»
«Che cosa dovrebbe dispiacermi?»
«Che abbia messo la testa in un cappio.»
«Ah, siete scortese... credevo di essere riuscita a mascherarlo così bene!» gridò la Principessa. Hyacinth
riconobbe che la sua discriminazione era stata odiosa, e gli sembrò per un istante di percepire un accenno di pianto nella
voce di lei. La Principessa distolse lo sguardo, e poi, fermandosi di colpo, disse, come ho già riferito prima: «Il vostro
uomo è Diedrich Hoffendahl.»
A queste parole Hyacinth sgranò gli occhi e rimase a bocca spalancata. «Allora ci siete dentro veramente... più
di quanto supponessi.»
«Sapete che non si fida delle donne,» disse con un sorriso la sua compagna.
«Perché mai vi siete data la pena di sapere da me certe cose, se siete stata in contatto con lui?»
Lei esitò un poco: «Oh, voi siete molto diverso. Mi piacete di più,» aggiunse.
«Ah, se è per questo!» mormorò Hyacinth.
Vide la Principessa arrossire, come già un'altra volta, e questa sua vulnerabilità, anche se riscoperta, aveva in
sé qualcosa d'inatteso e di tremendamente toccante. «Non tentate d'inchiodarmi alle mie incoerenze,» disse con
un'umiltà che si accordava bene col suo rossore. «Certo, sono molte, ma dovete essere buono e lasciarle passare
inosservate. E poi, in questo caso, non sono così serie come sembrano. In quanto prodotto del "popolo" e di quello
strano mondo clandestino in fermento (è così vero quello che ne dite) voi m'interessate di più, mi intrigate più perfino di
Hoffendahl, per straordinario che lui sia.»
«Vi dispiacerebbe dirmi come e dove vi è capitato d'incontrarlo?» le chiese.
«A Vienna, tramite due amici, due adepti rivoluzionari appassionati e menti di prim'ordine; napoletani,
originariamente poveretti, come voi emigrarono anni fa in cerca di fortuna. Uno di loro è maestro di canto, la persona
più preparata e dotata, in questo campo, che abbia mai conosciuto. L'altro, niente meno, è un pasticciere! Confeziona la
più squisita patisserie fine. Ci vorrebbe troppo tempo per raccontarvi come abbia fatto la loro conoscenza e in che modo
mi abbiano messo in contatto col maestro, come lo chiamavano, di cui parlavano trattenendo il fiato. Non è da ieri -
anche se vi pare impossibile - che m'interesso di queste cose. Ho scritto a Hoffendahl e ne ho ricevuto parecchie lettere;
il maestro di canto e il pasticciere garantivano per me. L'anno dopo m'incontrai con lui a Wiesbaden; ma non posso
raccontarvi i particolari di quell'incontro senza implicare un'altra persona di cui, per ora almeno, non ho alcun diritto di
parlare. Naturalmente Hoffendahl mi fece un'enorme impressione; mi colpì proprio come un Maestro, come l'autentico
genio di un nuovo ordine sociale, e capisco perfettamente quanto anche voi possiate esserne rimasto colpito. Quando,
tre mesi fa, si recò a Londra, venni a saperlo, e seppi anche dove gli si poteva scrivere. Lo feci, e gli chiesi di potermi
incontrare da qualche parte. Gli dissi che l'avrei raggiunto in qualunque luogo, per oscuro che fosse, se lo riteneva
necessario. Mi rispose con una lettera affascinante che vi mostrerò - non contiene nulla di compromettente - ma declinò
la mia offerta, appellandosi alla brevità del suo soggiorno e a impegni pressanti: mi scriveva, ma non si fidava. Un
giorno si fiderà!»
Hyacinth era stato preso alla sprovvista sentendo quanta strada la Principessa aveva già fatto, e la risposta di lei
quando le chiese perché non avesse scoperto subito le sue carte, lo rassicurò solo parzialmente: «Pensavo che il mio
silenzio fosse il modo migliore per far parlare voi.» Non era arduo farlo parlare, ora, e prima che la passeggiata fosse
terminata le aveva esposto, in modo più esplicito, quello che Hoffendahl richiedeva da lui. Si trattava semplicemente di
questo: avrebbe dovuto tenersi pronto, nei prossimi cinque anni, all'esecuzione, a un dato momento, di un'azione che, in
tutta probabilità, gli sarebbe costata la vita. Non era chiaro, per il momento, di quale azione si trattasse, ma dalla pena
che comportava, che sarebbe certamente stata capitale, era possibile farsene un'idea. Sapeva con certezza soltanto che
andava eseguita all'istante, e senza mezzi termini, senza far domande, porre condizioni, senza scrupoli, nel modo che
sarebbe stato prescritto al momento giusto dal quartier generale. Probabilmente si sarebbe trattato di sparare su
qualcuno... qualche sfacciato impostore delle alte sfere; ma se poi l'individuo meritasse o meno di morire, non era affare
di nessuno. Una volta riconosciuta la saggezza di Hoffendahl - e in quella notte era sembrata risplendere come una
grande, fredda, luminosa aurora boreale - non era ammissibile metterla in discussione in quel caso particolare. Aveva
fatto voto di ubbidire ciecamente, il voto che i padri gesuiti rendono al capo del loro ordine. Proprio perché i gesuiti
erano stati fedeli al loro voto (ma, in primo luogo, avevano direttori di prim'ordine) la loro organizzazione era divenuta
potente, di quella particolare potenza che chiunque pensasse come Hyacinth e come la Principessa doveva perseguire.
Non era poi certo che sarebbe stato catturato, dopo il coup, come non era certo che sarebbe riuscito ad abbattere il suo
uomo; ma era qualcosa a cui anelare, qualcosa che aveva accentrato la sua attesa e la sua passione. Probabilmente non si
sarebbe preoccupato di salvare la pelle perché non sopportava il pensiero di sottrarsi, di nascondersi, di sconfessarsi.
Nel caso che avesse dovuto sparare, la sorte che gli sarebbe toccata era naturalmente meritata. Quando si accetta di
compiere un gesto simile bisogna anche essere pronti a pagare di persona, e lui era pronto. Non sarebbe stato un
giudice, ma semplicemente un esecutore. Non pretendeva di sapere le benefiche conseguenze o la portée della sua
piccola azione; non aveva gli estremi per vagliarla e semplicemente era fiducioso che, al quartier generale, sapevano
quel che facevano. L'importante era appartenere a un grande organismo di cui non riusciva a misurare la vastità - a
qualcosa che sarebbe scoppiato simultaneamente in una dozzina di paesi diversi. Bisognava sentirsi partecipe di questa
immensa simultaneità. C'era da sperare che il piano non fallisse, e in tutti i casi lui non avrebbe fallito,
indipendentemente dagli altri. Non lo diceva solo perché Hoffendahl gli aveva fatto l'onore di affidare a lui l'incarico,
ma perché riteneva che il Maestro sapeva scegliersi i suoi uomini. A dire il vero nessuno lo aveva preavvisato; il suo
nome era stato fatto, da un momento all'altro, da chi sta sempre all'erta. Rimaneva però il fatto che quando si trovò
Hyacinth di fronte, riconobbe in lui quel tipo di piccoletto che aveva in mente - uno di quelli che riuscivano a passare
tra le fessure. L'umanità, secondo lo schema di Hoffendahl, era classificata e suddivisa con rigore tipicamente
germanico ed esclusivamente dal punto di vista della rivoluzione - a seconda, cioè, se servisse a far avanzare quella
causa o la intralciasse. Il lavoretto affidato a Hyacinth era una piccolissima parte di quanto Hoffendahl era venuto a fare
in Inghilterra, dove manovrava altri innumerevoli fili che Hyacinth non conosceva né aveva interesse a conoscere, solo
si stupiva della portentosa abilità con cui Hoffendahl riusciva a districarli. Li muoveva con la stessa padronanza con cui
un grande musicista - la stessa Principessa - dominava la tastiera; trattava ogni cosa, ogni persona, istituzione, idea,
come altrettante note del suo grande massacro sinfonico. Un giorno, laggiù nella scala dei soprani, il dito mignolo del
compositore avrebbe premuto un tasto e si sarebbe udito per un istante un piccolo acuto «crack.»
Era impossibile che dopo dieci minuti al nostro giovanotto sfuggisse di avere monopolizzato, soggiogandola,
l'attenzione della Principessa: lo ascoltava come non aveva mai ascoltato nessuno, prima. Era felice dell'effetto che
aveva su di lei, e la consapevolezza di quanto fosse tenue il filo a cui era appeso il proprio futuro, consapevolezza ora
rinnovata dal suono della sua voce che ne parlava, lo fece riflettere che qualunque cosa gli portasse gioia, qualunque
briciola rubata al banchetto della vita, oggi era tutto di guadagnato per la sua giovane bramosia di esperienze. Il lettore
avrà compreso come avesse vissuto anelante e trepido da quando si era impegnato a rendere un servigio all'umanità; ma
la primitiva emozione si era, alla fine, spenta, lasciando posto a cento irrequietezze e vane congetture - a un'esaltazione
cui si alternava la disperazione e che, insieme alla disperazione, riusciva a nascondere meglio di quanto lui stesso non
supponesse. Sarebbe inorridito al pensiero che la sua compagna potesse aver colto un'incertezza nella voce, mentre le
raccontava la sua storia; ma per quanto ormai assuefatto all'idea del pericolo e rassegnato ad averlo sposato, e sebbene
non insensibile al fascino che sentiva di emanare, come un qualche famoso personaggio da romanzo, non poteva
tuttavia immaginare quanto la Principessa considerasse eccezionale, sotto questo punto di vista, la sua lucidità, la
compostezza e il buonumore. Comunque lei tentò di celare la propria meraviglia, persuasa che la dignità le imponesse
di mostrarsi a sua volta pronta a un sacrificio così totale. Aveva l'aria - o si sforzava di averla - di accettare per amor suo
tutto quanto egli accettava; ma c'era qualcosa di forzato nel sorriso (anche se amabile) che gli rivolse mentre diceva: «È
una cosa molto seria... proprio molto seria, non è vero?» Rispose che il serio doveva ancora venire... non era certo
particolarmente triste (in paragone) passeggiare in quel bel parco e parlare con lei della cosa, e in quel momento a lei
venne in mente che forse Hoffendahl non gli avrebbe fatto sapere più nulla, lasciandolo così ad aspettare tutto quel
tempo sur les dents, in uno stato d'inutile attesa. Hyacinth ammise che sarebbe stata una grossa turlupinatura, ma
dichiarò che ormai, in un modo o nell'altro, anche se in maniera diversa, era fatta e che, in ogni caso, si sarebbe
adeguato alla grande regola religiosa: vivere ogni ora come se dovesse essere l'ultima.
«Volete dire in santità? - in grande recueillement?» chiese la Principessa.
«No, per amor di dio: semplicemente con un senso di totale gratitudine per ogni bel momento in più.»
«Se è per questo ci saranno molti bei momenti.»
«Tanto meglio... se saranno belli come questo.»
«Non sarà la stessa cosa a Lomax Place.»
«Vi assicuro che da quella notte, Lomax Place è migliorata.» Hyacinth se ne stava lì, sorridente, con le mani in
tasca e il cappello all'indietro.
La Principessa sembrò considerare attentamente e con estrema curiosità tanto le sue parole che il suo
affascinante aspetto e atteggiamento. «Così, se dopotutto non verrete chiamato, sarete stato completamente felice.»
«Avrò avuto dei bei momenti. Forse il complotto di Hoffendahl ha soltanto questo scopo: forse Muniment
glielo avrà suggerito.»
«Chi lo sa? Comunque, con me, dovete continuare come se nulla fosse cambiato.»
«Cambiato da quando ?»
«Dal giorno del nostro primo incontro, a teatro.»
«Continuerò come vorrete voi,» disse Hyacinth. «Ma una differenza sostanziale ci sarà sempre, sapete.»
«Quale differenza?»
«Che io avrò cessato di avere a cuore quello che a voi preme tanto.»
«Non capisco,» confessò con tutto il candore della sua bellezza.
«Non giudicate sufficiente che io dia la vita per la maledetta causa,» proruppe il giovane, «senza doverla anche
amare?»
«La maledetta causa?» mormorò la Principessa, spalancando i suoi occhi stupendi.
«Certo, rimane sacra come sempre, soltanto che a farmi pena ora sono i ricchi, i fortunati.»
«Capisco. Siete straordinario. Siete meraviglioso. Forse vi fa pena mio marito,» aggiunse dopo un attimo.
«Lo considerate un fortunato?» chiese Hyacinth riprendendo a camminare.
Ma lei ripeté soltanto: «Siete straordinario. Sì, siete proprio meraviglioso.»
«Beh, è proprio quello che voglio essere!» fu la sua risposta.
Ho riferito per intero la conversazione perché rappresenta un capitolo estremamente importante nella storia di
Hyacinth. Non ci dilungheremo invece a rintracciare e riferire tutte le fasi attraverso le quali si consolidò l'amicizia
della principessa Casamassima con il giovanotto da lei scelto per suo rilegatore personale. Al termine di una settimana
aveva improntato la sua natura esplosiva a una paradigmatica compostezza, così da apparire la personificazione della
giustizia e del rispetto sociale; e durante questo periodo - un periodo di strane scoperte per il nostro giovanotto -
accaddero molte altre cose. Una di queste fu che si recò a Broome con la sua compagna per ricambiare la visita di Lady
Marchant e delle figlie. L'episodio sembrò suscitare nella Principessa una gaiezza ironica. Quando vennero via,
Hyacinth le chiese perché non avesse detto alle signore chi fosse: altrimenti, che gusto c'era? E lei rispose:
«Semplicemente perché non mi avrebbero creduto. Ed è tutta colpa vostra!» Era la stessa osservazione fatta dopo tre
giorni che si trovava lì (il tempo era cambiato e il pomeriggio piovoso li aveva costretti a restare in casa) quando
improvvisamente e come di sfuggita se ne era uscita con un: «È straordinario davvero che voi conosciate il povero,
caro, vecchio "Schop".» Aveva risposto che sembrava le riuscisse impossibile abituarsi alle sue piccole virtù, e poi si
era lanciato in una lunga conversazione, più lunga di quella che ho già narrato, abbandonandosi ad altre confidenze. Mai
prima di allora aveva potuto assaporare le gioie del dialogo - le più grandi che conoscesse - con altrettanta facilità. La
Principessa ammise che meritava ogni riconoscimento, ma osservò che mentre lui, senza dubbio, si conosceva bene,
doveva dare agli altri, meno edotti, il tempo di capirlo. «Vi ho osservato continuamente da quando siete qui - tutti i
particolari del vostro comportamento - e ogni giorno sono più intriguée. Non c'è in voi una sola intonazione volgare, né
un gesto poco fine, non fate mai sbagli, fate e dite sempre tutto in modo perfetto. Venite da quella misera tana angusta
che mi avete descritto, e sembra che abbiate vissuto da sempre in una villa di campagna. Anzi, siete molto meglio!
Jugez donc, dal modo in cui vi parlo! Non devo mai concedervi neanche la minima attenuante. Ho conosciuto degli
italiani che avevano un tatto e una disinvoltura innati, ma non sapevo che tali doti fossero reperibili anche tra gli
anglosassoni nei quali vengono invece inculcate con moneta sonante; qualche volta si trovano anche in certe orribili
americane "raffinate"».
«Intendete dire che sono un gentiluomo?» chiese Hyacinth con uno strano tono, mentre guardava fuori il
giardino bagnato.
Lei esitò, poi disse: «Sono io che faccio degli sbagli!» Cinque minuti dopo se ne uscì con un'osservazione che
lo commosse quasi più di qualunque altra gli avesse mai rivolta, una osservazione che sublimò l'idea che si era fatta
della delicatezza e della bontà di lei e lo pose di fronte a se stesso come se le sue parole lo ritraessero in una sorta di
conciso ritratto: «Quanto è strano e amaro il destino: essere così come siete, essere cosciente delle vostre possibilità, ed
essere costretto a guardare tutte le cose belle che offre la vita aldilà di una vetrina di pasticciere.»
«Ogni classe sociale ha i suoi svaghi,» rispose lui sentenziosamente perverso, a dispetto della sua emozione.
Ma la battuta non guastò il muto accordo di raggiungere mete ancora più alte di reciproca comprensione e prima che si
separassero quella sera egli le raccontò cose che non erano mai uscite dalle sue labbra - cose che gli ribollivano dentro
dal giorno che si era fatto spiegare da Pinnie il perché della visita alle carceri. In breve, le raccontò chi era.

IV

Fece molte passeggiate solitarie, al di là dei cancelli del parco, per la campagna circostante - passeggiate in cui,
benché assorto nelle riflessioni sulla "stramberia" del suo destino, riusciva tuttavia a prestare una stupefatta attenzione
alla verde penombra di viali fittamente fronzuti, ai verdi sentieri che portavano da un recinto all'altro e sembravano
suggerire una felicità pastorale, un qualche segreto campestre; le siepi fitte di fiori incredibilmente comuni e dei quali
non conosceva i nomi, il pittoresco prestigio dei cottages dai tetti di paglia, il mistero e la dolcezza delle azzurre
lontananze, le fiorenti carnagioni dei contadini, la squisita delicatezza delle bambine che facevano piccole riverenze dai
bordi della strada (un tipo di omaggio che già aveva immaginato); la morbida sensazione della zolla erbosa sotto piedi
che avevano calcato penosamente le sole pietre dei marciapiedi. Una mattina, mentre si dirigeva verso casa, dopo una
lunga camminata, udì dietro di sé il rumore degli zoccoli di un cavallo, e girandosi vide un signore che stava per
sorpassarlo, diretto verso i cancelli di Medley. Continuò per la sua strada e quando il cavallo gli passò vicino si accorse
che il cavaliere aveva rallentato l'andatura. Allora si voltò di nuovo e riconobbe in quell'individuo il suo florido,
occasionale amico, il capitano Sholto. Il capitano lo affiancò, salutandolo con un sorriso e con un cenno del frustino.
Hyacinth lo guardò sorpreso, perché non aveva sentito dire dalla Principessa che lo stesse aspettando. Capì però subito
dopo che non era così; e intanto notò il perfetto equipaggiamento di Sholto, composto di affusolati pantaloni, speroni,
un frustino da caccia e un curioso panciotto; realizzando di trovarsi di fronte ad un ennesimo aspetto della multiforme
natura di Sholto, ancora non sperimentato. Sembrava altissimo, incombente, arroccato sul suo grande sauro, e Hyacinth
notò che se il cavallo era accaldato, il cavaliere era fresco come una rosa.
«Buongiorno mio caro amico. Immaginavo che vi avrei trovato qui!» esclamò il capitano. «Meno male che vi
ho incontrato, così non devo arrivare fino alla casa.»
«Che motivo avevate per credere che fossi qui?» chiese Hyacinth un po' preoccupato dell'opportunità di quella
domanda, mentre intanto pensava, guardando quel bell'uomo sopra un animale non meno bello, che doveva essere
molto piacevole saper montare a cavallo. Durante i pochi giorni passati a Medley aveva già avuto occasione di notare
che il contatto con il lusso e con una gamma infinita di sensazioni, aveva accresciuto il suo desiderio di assaporare
piaceri ancora più irraggiungibili.
«Perché sapevo che la Principessa era capace d'invitarvi,» disse Sholto. «E poi, al "Sole e Luna" m'hanno detto
che non eravate passato da molto tempo, mentre sapevo che in genere ci andate spesso, non è vero? Così, ho messo
insieme tutte queste cose e ho concluso che dovevate essere fuori città.»
Era una risposta chiara e franca, e anche soddisfacente se non fosse stato per quell'irritante accenno alla
Principessa «capace d'invitarlo». Sapeva meglio del capitano quanto fosse stata eccentrica, da parte di lei, quella
richiesta, ma un mutamento recentemente avvenuto nel suo animo gli rendeva sgradevole sentirselo dire da un altro, e in
particolare da un tale che, un certo giorno, parecchi mesi prima, gli aveva dato seri motivi per essere giudicato
sfavorevolmente. Non aveva più visto Sholto dalla sera in cui, per una serie di strane combinazioni aveva dovuto
rimanersene immobile ad ascoltare buffe canzonette in compagnia di Millicent Henning e del suo ammiratore. Il
capitano non aveva dissimulato la sua ammirazione: Hyacinth si era fatto l'idea che usasse quella tattica per apparire
innocente. Quando aveva accompagnato a casa Millicent, quella sera (con Sholto si erano salutati all'uscita del
«Pavillon») c'era una certa tensione fra la giovanetta e il suo amico d'infanzia. Se ne era sentite dire quattro, per dirla
alla Millicent; gli aveva dato una lavata di capo con la palese speranza che rimanesse memorabile, per averla sospettata,
per averla insultata davanti a un ufficiale. Il suo tono e la sua superba spavalderia lo avevano reso assolutamente inerme
infine, si era messo ad osservarla con l'eccitamento con cui avrebbe guardato un'esperta ma incolta attrice che si
sforzasse di dar vita a una passionalità a parer suo fittizia. Riconosceva più attendibile la propria gelosia e il sospetto
che quella faccenda gli ispirava che non le acute rimostranze di lei vivacizzate da violente mosse del capo e scrollate di
gonna. Ma si sentiva frustrato e messo in ridicolo e riparò nel sarcasmo che andò a spuntarsi contro il feroce scherno di
lei, tentando alla fine di darsi un contegno facendo quelle orribili «spallucce» alla francese, come le chiamava Millicent,
con le quali lo aveva già accusato di condire la sua conversazione.
L'atmosfera non si era più rasserenata, anche se alla fine l'argomento della lite era stato lasciato cadere e
Hyacinth si ripromise di controllare i movimenti della sua compagna di giochi, come non aveva mai fatto prima. Lei gli
aveva fatto capire che lo teneva d'occhio, com'è facile immaginare, e va detto che da quella sera a teatro lui si era sentito
in una posizione di svantaggio, relativamente al diritto di controllarla. Poco contava che fosse stata lei ad averlo quasi
spinto nel palco della Principessa (perché fino allora non era mai stata gelosa neanche lei, e inoltre era divorata dalla
curiosità di sapere cosa «tramasse» una persona come quella e solleticata dalla speranza di poterle rubare qualche idea),
né aveva più valore il fatto che i suoi rapporti con quella gran dama si basassero sul comune interesse per le sofferenze
dell'umanità. In ogni modo, quali ne fossero le ragioni, rimase vero che per parecchie settimane l'atmosfera si mantenne
carica d'elettricità, e poco poteva contare da che parte sarebbero scoppiati tuoni e fulmini. Hyacinth si sorprese molto
quando scoprì che il tradimento o meno di Millicent era importante, per lui, e cercò di convincersi che di fatto non lo
era; ma sentiva che fra loro esisteva un'affinità ben più profonda di qualunque contrasto, e il non vederla affatto gli dava
maggior tormento che vederla dare in escandescenze pur di nascondere le proprie scappatelle. Una voce interiore gli
diceva che quel suo miscuglio di bellezza e di rozzezza, la sua volgare vitalità, quello spirito di contraddizione e di
possesso insieme, tutto ciò che le era proprio, avevano finito per rendergliela indispensabile. Lo annoiava e lo irritava,
ma se da un lato aveva gusti abominevoli, era però anche piena di vita, e il suo frusciare e ciarlare, le sue storie
fantastiche, la pessima grammatica e la salute florida, la sete insaziabile, l'acutezza delle sue percezioni e le opinioni
paradossali, i suoi errori e i suoi trionfi, facevano ormai tutti parte del familiare, umano brusio del piccolo mondo di
Hyacinth. Poteva consolarsi dicendo che era lei a cercare di rappacificarsi con lui molto più di quanto egli tentasse con
lei, e gli piaceva credere, anche se la logica zoppicava, che non se la «spassava» a sue spese. Inoltre, se veramente
avesse avuto dei rapporti con un «signorone» non vedeva perché avrebbe voluto tenersi un rilegatore. Va aggiunto che,
recentemente, aveva cessato di pensare all'ambiguità di Millicent perché, sebbene si fosse fermato a Medley per amore
delle sofferenze dell'umanità si rendeva conto che dichiararlo (ove lei gliene avesse chiesto conto) avrebbe avuto un
valore altrettanto risibile dei discorsi di lei. Quanto a Sholto, si trovava nella delicata posizione di averlo assolto,
accettandone l'ospitalità, la generosità. Non poteva perciò litigare con lui se non con un nuovo pretesto. Tale pretesto il
capitano era stato molto attento a non fornirglielo e Millicent gli aveva detto che dopo l'incontro a tre, per la strada,
Hyacinth aveva costretto quel povero gentiluomo a lasciare l'Inghilterra, dopo essere stato insultato dalle sue volgari
insinuazioni ancora più (perché «più?», si domandò Hyacinth) di quanto non lo fosse stata lei. Quando le chiese cosa ne
sapesse, lei, degli spostamenti del capitano, non si fece scrupolo di rivelargli che quest'ultimo era andato a trovarla nel
grande magazzino per una piccola compera (un paio di bretelle di seta, se ricordava bene, e ammise senza remore che si
trattava di una debole scusa) e le aveva chiesto, tutto preoccupato, se il suo degnissimo amico (era così che lo aveva
chiamato - per cui, come Hyacinth poteva vedere, era animato da buone intenzioni) era ancora arrabbiato. Millicent gli
aveva risposto che sì, lo era - tanto peggio per lui; e allora il capitano le aveva detto che non importava, dal momento
che era in procinto di lasciare l'Inghilterra per parecchie settimane (Hyacinth - lo aveva chiamato Hyacinth, questa volta
- non poteva mettersi in testa delle idee su un uomo che stava all'estero, no?) e sperava che di lì al suo ritorno la piccola
nube sarebbe stata fugata. Sholto aveva aggiunto che era meglio che lei avesse raccontato francamente a Hyacinth -
raccomandandole al tempo stesso di essere gentile col loro sensibile amico - la sua visita al negozio. Il loro candore,
quelle sollecitudini, potevano anche essere vere; ma due o tre sere dopo quel discorso, Hyacinth passò e ripassò davanti
all'abitazione del capitano nella Queen Anne Street, per riscontrare qualche segno della sua presenza a Londra. Tutto
era buio, decise però di suonare il campanello per chiedere notizie del padrone di casa, e fu solo quando il già noto
maggiordomo, che, con il puro fatto d'indossare una giacca del padrone confermava eloquentemente la propria
dichiarazione, lo informò che il capitano era a Montecarlo, si consolò un poco.
«Siete ancora in collera?» chiese senza rancore il capitano, e un istante dopo aveva fatto passare sopra la sella
una lunga gamba ed era sceso da cavallo, incamminandosi a fianco del suo giovane amico tenendo l'animale per le
redini. Hyacinth fece finta di non capire perché gli venne in mente che dopotutto, anche se non aveva a suo tempo
perdonato al capitano il tradimento di cui lo sospettava, nella posizione in cui si trovava, ai piedi della Principessa, non
poteva mostrarsi risentito, e geloso di un'altra donna. Rifletté che la Principessa, in un certo senso, era stata un tempo
proprietà di Sholto, e se desiderava en fin de compte litigare con lui per via di Millicent, avrebbe dovuto evitare di
cacciare di frodo nella riserva del capitano. Per la prima volta gli venne l'idea che quest'ultimo forse aveva voluto
praticare uno scambio; benché vada aggiunto che la Principessa, alludendo di sfuggita un paio di volte al suo amico
ufficiale, non gli aveva dato nessun motivo di credere che avallasse i diritti del capitano su di lei. Sholto lo informò che
si trovava a Bonchester, a sette miglia di distanza da lì. Era arrivato da Londra e si era sistemato nella locanda. Quella
mattina aveva preso a nolo un cavallo (Hyacinth aveva creduto che si trattasse di un bell'animale, ma Sholto ne parlava
come di un infernale ronzino) perché aveva provato l'improvviso desiderio di vedere come se la passava il suo giovane
amico.
«Me la passo benissimo, grazie,» disse Hyacinth breve breve, non capendo cosa potesse importargliene.
«Spero che comprendiate il mio interessamento. Mi sento responsabile - sono io che le ho parlato di voi.»
«Ci sono moltissime cose che non comprendo, ma quella che capisco meno di tutte è il vostro interessamento
per me. Perché diavolo...?» e Hyacinth s'interruppe, esterrefatto dalla violenza della sua domanda. Poi continuò: «Se
fossi in voi, non darei un soldo per una persona come me.»
«Il che prova quanto sia diversa la mia natura dalla vostra. Ma non lo credo, mio caro ragazzo: voi siete troppo
generoso per questo.» La imperturbabilità di Sholto sembrava andare di pari passo con l'irritazione che produceva sugli
altri e lo proteggeva perfino dal brusco risentimento che la sua mancanza di tatto suscitava. Mancanza di tatto che si
manifestò ancor più marcatamente quando continuò: «Volevo vedervi qui, proprio con i miei occhi. Volevo vedere che
aspetto avevate da addomesticato - ed è uno spettacolo buffo! Naturalmente capite cosa voglio dire, anche se esigete
sempre una spiegazione. Io non so dare spiegazioni, in nessuna situazione. Ed è per questo che mi piace la gente
intelligente, che ne fa a meno. È stato un gesto decisamente grandioso, da parte di lei, avervi invitato qui.»
«Grandioso, senza dubbio, ma non certo sorprendente, visto che, come dite, le sono stato presentato da voi.»
«Oh, quella è una cosa che ha valore per me, ma non per lei!» rispose Sholto. «Alla Principessa possono stare a
cuore alcune cose, ma la mia opinione non è fra queste. Una buona azione merita una ricompensa. Vorrei che voi, ora,
le parlaste di me!»
«Non vi capisco né, credo, voglio capirvi,» disse Hyacinth, mentre il suo compagno gli camminava a fianco.
Questi gli mise una mano sul braccio, obbligandolo ad arrestarsi, e rimasero per un momento faccia a faccia.
«Dico, caro Robinson, non vi sarete per caso già guastato, dopo solo una settimana? Non è possibile che siate geloso!»
«Geloso di chi?» chiese Hyacinth il quale, in quella strana situazione, non aveva ben capito l'allusione.
Sholto lo guardò per un poco, poi, con una risata, disse: «Non parlo di Miss Henning.» Hyacinth si voltò, e il
capitano riprese a camminare, infilando un braccio sotto al suo e l'altro fra le redini del cavallo. «Che coraggio, che
insolenza, che cranerie! Non esiste in tutta Europa un'altra donna che l'avrebbe fatto!».
Hyacinth rimase zitto per un poco, poi disse: «E questo è niente. Avreste dovuto vedermi l'altro giorno a
Broome, da Lady Marchant.»
«No! Vi ha portato anche li? Darei dieci sterline per essercimi trovato! Non c'è n'è un'altra come lei» gridò il
capitano allegramente, con entusiasmo.
«Non ce n'è un altro come me... per esserci andato.»
«Perché, non vi è piaciuto?»
«Anche troppo... anche troppo. Ma sono eccessi pericolosi.»
«Oh, vi sosterrò io,» disse il capitano. Poi, rallentando il passo. «C'è la possibilità d'incontrarla?» chiese. «Non
voglio entrare nel parco.»
«Non volete entrare in casa?» chiese stupito Hyacinth.
«Oh no, non finché ci siete voi.»
«Allora chiederò alla Principessa di voi e così si chiarirà questa storia una volta per tutte.»
«Fortunato furfante, voi e le vostre chiacchiere accanto al fuoco!» mugolò il capitano. «Dove si siede, ora, la
sera? Non vi dirà nulla, tranne che sono un maledetto seccatore; ma anche se fosse disposta a spendere qualche parola
su di me, non vi servirebbe a niente, perché neanche lei mi conosce.»
«Siete l'unico essere al mondo di cui si possa dire una cosa simile,» replicò Hyacinth.
«Lo sono, e me ne vanto. L'intelligenza non c'entra: la Principessa ne ha da vendere. Ve lo dissi quando vi
presentai, che era la donna più intelligente d'Europa, e non ho cambiato opinione. Ma certe pieghe misteriose non si
penetrano a meno di non possedere sentimenti umani, quello che comunemente si dice un po' di cuore. La Principessa,
non sa di cosa si tratti, anche se ora, indubbiamente, penserete che ne sia ricolma. Ma un giorno ve ne accorgerete. Per
me, non m'importa un'acca quanto cuore abbia. Mi ha già ferito talmente che ormai non può farmi del male e il mio
interesse per lei prescinde dai suoi sentimenti. Osservarla, adorarla, contemplarla, vederla vivere la sua vita, estrinsecare
la sua straordinaria natura mentre l'attenzione che mi concede è la stessa che si concede a un postino intento a bussare
ad altre porte, è decisamente la sola cosa che desidero. Non me ne viene nulla, ma rimane pur sempre la mia
occupazione prediletta. Potete credermi o no, non ha nessuna importanza, ma sono l'individuo più disinteressato che
esista. Lei potrà giudicarla una perfetta idiozia, e naturalmente lo è, ma non del tutto.»
Fu Hyacinth, questa volta, a fermarsi allibito dalla naturalezza del suo compagno, e dalla semplicità di
sentimenti che gli giungeva nuova e del tutto insospettata. Rimase a guardarlo per un momento, immobile, pensando
ancora una volta alla stranezza di ritrovarsi destinato a ricevere le più imprevedibili confidenze dalla gente del bel
mondo. Quali doti possedeva per ricevere tale tributo? L'onore era una qualità facilmente eliminabile, sebbene,
guardando Sholto attentamente, scoprisse nei suoi occhi chiari qualcosa di strano - una specie di sconfinata plaga di
fedeltà che riduceva l'aspetto fantastico di un eventuale consenso alla sua amicizia. «Vi prego, continuate,» disse subito
dopo.
«Quello che vi ho detto or ora è il mio solo ed unico scopo nella vita. Tutto il resto non è altro che l'astuzia con
cui il giocoliere cerca di nascondere il trucco per far riuscire il gioco.»
«Che significa "tutto il resto"?» domandò Hyacinth pensando a Millicent Henning.
«Oh, tutta la paglia che mastichiamo per ingannare l'appetito, tutto il marciume in cui sguazziamo nella vana
speranza di approdare a qualcosa di positivo: tutte le idiozie (e voi lo sapete) che voi ed io abbiamo sentito a
Bloomsbury e che io stesso ho affermato, maledizione, con una sicurezza degna di miglior causa. Non ricordate le mie
parole - un'opinione personale - sulla trasformazione in atto dei rapporti tra le classi? L'imminente crollo della crosta
terrestre! Sono convinto che quelli che stanno in cima al mucchio sono migliori di quelli che stanno sotto che sono
decisi a restarci e che, a meno di non essere una massa di buoni a nulla, ci resteranno.»
«Allora, non ve ne importa nulla della questione sociale?» chiese Hyacinth con un'aria smarrita.
«Me ne sono interessato perché interessava a lei. Ma non mi è servito a nulla,» sorrise Sholto. «Mio caro
Robinson,» continuò, «c'è una sola cosa al mondo che m'interessi: dare uno sguardo a quella donna, quando mi è
possibile - e quando non lo è, avvicinarmi a lei, come sto facendo ora.»
«Un modo molto strano.»
«Senza dubbio. Ma se va bene a me, dovrebbe andar bene anche a voi. Desidero da voi soltanto questo: che la
convinciate ad invitarmi a pranzo.»
«Convincerla?...» gli fece eco Hyacinth.
«Ditele che mi trovo a Bonchester e che sarebbe un innocuo gesto di bontà.»
Continuarono a camminare finché giunsero al cancello, quando Hyacinth disse improvvisamente: «Allora,
avete abbracciato la causa sociale perché l'aveva abbracciata lei. Ma sapete, per caso, perché lei lo abbia fatto?»
«Amico mio, lo dovete scoprire da solo. Io vi ho messo sulla strada giusta, ma non posso camminare per voi!»
«Capisco... capisco. Ma potete almeno dirmi questo: se un anno fa eravate ammesso in casa sua,
l'accompagnavate a teatro e così via, perché ora non più?»
Gli occhi gialli di Sholto si fecero di nuovo strani: «Ora è il vostro turno, amico caro, ma ciò non significa
necessariamente che da qui a un anno lo sarà ancora. Era già stanca di me, allora, e naturalmente lo è ancor di più oggi,
per la semplice ragione che sono diventato più seccante. Mi ha mandato a quel paese, e io voglio ritornarne, per qualche
ora. Vedete quanto sono discreto... non passo neppure i cancelli.»
«Le dirò che vi ho incontrato,» disse Hyacinth. Poi, in tono leggero, aggiunse: «Intendevate questo, quando
dicevate che non aveva cuore?»
«Il suo modo di trattarmi? No! no! parlavo di come tratta voi.»
Queste parole ebbero un effetto enorme su Hyacinth ma non gl'impedirono di accompagnare l'amico - l'aspetto
più straordinario di quell'incontro era che la speranza di una breve conversazione con lui, se la sorte lo avesse assistito,
aveva motivato non solo la cavalcata di Sholto, ma la sua stessa presenza nelle vicinanze di Medley, in una ammuffita
locanda di una noiosa cittadina-mercato - non gl'impedirono, ripeto, di sopportare la compagnia del capitano ancora per
un miglio, tornando indietro con lui. Il nostro giovanotto si soffermò ancora un poco sull'argomento, ma scoprì un altro
paio di ragioni per ammirare la disinvolta semplicità con cui il suo compagno si era tolto la maschera (oltre alle
motivazioni del suo interessamento per la causa rivoluzionaria), dopo che gli ebbe chiesto all'improvviso che cosa
avesse avuto in mente quella sera della precedente estate, quando era andato - non aveva ripetuto la visita con la stessa
frequenza promessa - a causa di Paul Muniment, a Camberwell. Che voleva? Chi era andato a cercare?
«Cercavo la prima cosa che mi fosse capitata, che avrebbe potuto colpire la sua fantasia. Non capite che sto
sempre in cerca di qualcosa? C'è stato un tempo in cui andavo a caccia di messali miniati, e un altro in cui collezionavo
orribili storie di spiriti (lei voleva alimentare la sua credenza negli spiriti), e tutto questo per lei. Il giorno in cui mi
accorsi che stava rivolgendo la propria attenzione alla democrazia nascente, incominciai a collezionare piccoli
democratici. Fu così che collezionai anche voi.»
«Muniment capì subito il vostro piano. E cosa avete trovato ad Audley Court che servisse al vostro scopo?»
«Beh, penso che la donnetta dagli occhi sporgenti - mi fa pensare a una cavalletta allettata - possa andare. E ho
anche preso nota dell'altra, la vergine matura dal naso aquilino, l'aristocratica suora di carità. Le tengo in serbo per
future offerte propiziatorie.»
Hyacinth si fermò. «E di Muniment, non potete farvene nulla?»
«Oh mio caro amico, in confronto a voi è un povero diavolo!»
«Questa è l'unica cosa stupida che abbiate detto. Ma non ha importanza, dal momento che ha tanta antipatia per
la Principessa - per quel che ne sa di lei - che non si presterebbe mai ad incontrarla.»
«Ah, è così che dice? Allora la incontrerà!» gridò Sholto.

«Ma certo che può venire, e fermarsi quanto vuole!» esclamò la Principessa quando Hyacinth, quel
pomeriggio, le ebbe detto del suo incontro. Parlava con quel tono dolce, con quell'espressione di allegra sorpresa che
assumeva quando qualcuno chiedeva formalmente (sembrava considerarlo superfluo) il suo permesso. La noncuranza
con cui accolse la preghiera di Sholto - intesa a minimizzare la cosa, come se non fosse degna di essere vagliata - faceva
apparire il resoconto fatto da Sholto a Hyacinth del loro rapporto, uno scherzo arzigogolato e non pertanto meno
sciocco. Mandò a Bonchester un messaggero con un biglietto, e il capitano arrivò appena in tempo per vestirsi per il
pranzo. La Principessa era sempre in ritardo, e la toletta di Hyacinth, in queste occasioni, richiedeva un tempo
considerevole (era profondamente cosciente delle manchevolezze del proprio abbigliamento e tuttavia cercava di
convincere se stesso che erano onorevolissime, e che l'unico abito dignitoso che potesse indossare fosse quello
professionale); perciò, quando il quarto componente del gruppetto scese in salotto, Madame Grandoni era l'unica che
già si trovasse lì.
«Santissima Vergine! Che piacere vedervi! Qual buon vento vi porta?» esclamò non appena Sholto fu entrato
nella stanza.
«Non sapevate della mia venuta?» chiese lui. «Dunque, la notizia del mio arrivo non ha fatto scalpore?»
«Io non so mai niente di quel che accade in questa casa. Ho rinunciato a saperlo, ed era ora. Me ne rimango
nella mia stanza.» Nel viso della vecchia signora era sparita ogni traccia della abituale allegria: esprimeva soltanto ansia
e perfino una certa durezza, e quell'ottima donna, in quel momento, aveva assunto, forse, come mai prima, l'aria di una
duenna che prendesse seriamente il proprio compito. Appariva quasi maestosa. «Ora che siete qui, va meglio. Ma le
cose vanno molto male.»
«Molto male, mia cara?»
«Forse voi siete in grado di dirmi dove veut en venir Cristina. Le sono stata sempre fedele - sempre devota. Ma
oggi ho perso la pazienza. Non ha senso.»
«Credo di non capire del tutto cosa vogliate dire,» disse Sholto. «Ma se vi conosco bene, debbo dirvi che mi
sembra che tutto vada a meraviglia.»
«Sì, sì, conosco la vostra musica: siete peggio di lei perché siete un cinico. Ma la faccenda ha passato i limiti. È
più che grave. Sto pensando a quello che devo fare.»
«Precisamente. Io so quello che probabilmente farete.»
«Oh, ma questa volta non tornerò indietro!» dichiarò la vecchia signora. «È uno scandalo troppo grande.
Intollerabile. E temo di renderlo peggiore.»
«Cara Madame Grandoni, voi non potete né peggiorarlo né migliorarlo,» replicò Sholto, sedendosi vicino a lei,
sul sofà. «In realtà non c'è nessuna probabilità che si possa parlare di scandalo, per la nostra amica. Lei è al di sopra e al
di fuori di simili considerazioni, di simili pericoli. Le scivolano sopra; tiene tutto in così poco conto, non si cura di
nulla. E inoltre dispone di una forza notevole: non fa mai nulla di male.»
«E allora, ditemi, come lo chiamate quando una signora invita un rilegatore a venire a stare da lei?»
«E che differenza c'è tra un rilegatore e un vescovo? Dipende tutto da chi è la signora, e che tipo di donna sia.»
«Per prima cosa avrebbe dovuto preoccuparsi di non separarsi da suo marito con cento pretesti!» urlò Madame
Grandoni.
«Ma alla Principessa è permesso anche questo. È insolito, eccentrico, fantastico se volete. Ma non è
necessariamente una cattiveria. Dal suo punto di vista, la nostra amica si comporta bene. E poi, ha le sue idee.»
«Le sue idee sono la cattiveria fatta persona.»
«E che importa?» chiese Sholto «dal momento che la tengono tranquilla?»
«Tranquilla? E la chiamate tranquillità, questa?»
«Naturalmente, se foste tranquilla anche voi. E poi, anche guardando la cosa nel peggiore dei modi chi
potrebbe dire che lui è il suo rilegatore? È l'ultima cosa che si potrebbe pensare.»
«Ah, per questo, se l'è scelto con cura,» mormorò la vecchia signora, con aria accigliata.
«Se lo è scelto? Ma sono stato io a sceglierglielo, mia cara!» gridò il capitano con una risata che dimostrava
quanto poco condividesse la sua preoccupazione.
«Già lo avevo dimenticato, a teatro,» disse Madame Grandoni, guardandolo come se le si confondessero le idee
e parallelamente si facesse strada nella sua testa una certa avversione per il suo interlocutore. «Gli avete fatto proprio un
buon servizio, a quel povero diavolo!»
«Sicuramente dovrà essere sacrificato. Ma perché avrei dovuto preoccuparmi tanto di lui? Non sono stato forse
sacrificato anch'io?».
«Oh, se lui se la prendesse come ve la siete presa voi...!» e gli sbuffò quasi in faccia il suo scherno.
«Che ne sapete voi, come l'ho presa? Si fa quel che si può,» disse il capitano sistemandosi lo sparato. «In ogni
modo, ricordatevi una cosa: lei non dirà a nessuno chi è, per amor suo, così come lui non lo dirà per amore di lei. E,
visto che sembra più un poeta, o un pianista, o un pittore, non accadrà nulla di quel che temete.»
«Anche così non va bene,» disse Madame Grandoni. «E poi quello, magari, è capace di lasciarselo scappare di
bocca da un momento all'altro.»
«Se a lui non importa, non importerà neanche a lei! Del resto, è affar suo.»
«È orribile che lo rovini così,» continuò la vecchia signora. «Come riuscirà mai a tornare indietro?»
«Se volete che se lo tenga a tempo indeterminato, non siete coerente. E poi, se dovrà pagare, se lo sarà
meritato. Non è che un ignobile, piccolo cospiratore contro la società.»
Madame Grandoni rimase muta per un poco: poi guardò il capitano con un'espressione grave che avrebbe
dovuto colpirlo se la sua raffinata spavalderia non lo avesse reso immune da quel tipo di suggestione. «E allora Cristina,
cosa dovrebbe meritarsi?» chiese con solennità.
«Quello che le accadrà: tutto ciò che in futuro la farà soffrire. Ma non sarà certo la perdita della reputazione. È
troppo raffinata per questo.»
«Voi inglesi siete strani tipi. Forse perché è una Principessa?» rifletté ad alta voce Madame Grandoni.
«Oh no di certo, il suo casato non vale nulla, qui da noi. Possiamo batterla tranquillamente. Ma quello che è
imbattibile...» e s'interruppe.
«Che cos'è?» chiese la sua compagna.
«Ma, la perfezione della sua indifferenza per le opinioni degli altri e la naturalezza della sua eccentricità: è
quello che mi ha fatto perdere la testa.»
«Oh voi, poi!» esclamò Madame Grandoni, con una scrollata di spalle.
«Se avete una così bassa opinione di me, perché mi avete detto, or ora, che eravate contenta di vedermi?»
replicò subito Sholto.
«Perché siete una persona in più, e, che più conta, un frequentatore abituale della casa, così la situazione è
meno... come l'avete chiamata?... eccentrica. Nun,» continuò subito dopo «finché ci sarete voi io non me ne andrò.»
«Contateci. Non mi muoverò di qui finché non mi cacceranno.»
Lei lo fissò con i suoi piccoli occhi turbati che non lasciavano trapelare nessun particolare entusiasmo a
quest'annuncio. «Non capisco perché dovrebbe piacervi restare, in tale circostanza.»
«Cara Madame Grandoni, il cuore di un uomo, pur non essendo quel labirinto senza uscita che è il cuore di una
donna, è pur sempre complicato. Pensate che non sappia cosa accadrà a quel povero disgraziato?»
«Siete spaventoso!» disse la vecchia signora. Poi aggiunse, con voce mutata: «È troppo buono, per una sorte
simile.»
«E io? Non lo ero anch'io, per la mia?» chiese il capitano.
«Niente affatto!» replicò Madame Grandoni, alzandosi e allontanandosi da lui.
La Principessa era entrata, accompagnata da Hyacinth.
Poiché l'ora del pranzo era passata da un pezzo, la vecchia signora pensò che la coppia si fosse incontrata
trattenendosi in conversazione nell'atrio. Hyacinth osservò con vivissimo interesse il modo in cui la Principessa salutava
il capitano - un modo semplice, disinvolto, cordiale. A tavola non lo trattò come un estraneo, lo rese al contrario
partecipe di tutto, come se fosse di famiglia, una madame Grandoni, solo un po' meno venerabile, e al tempo stesso non
gli prestò nessuna particolare attenzione che obbligasse i loro occhi ad incontrarsi. Aveva detto a Hyacinth che non le
piacevano gli occhi del capitano, come del resto nessun'altra parte della sua persona. Naturalmente l'ammirazione, da
qualunque parte venisse, non poteva non essere gradita, in qualche modo, ad una donna sensibile, ma di tutte le
impressioni che lei aveva mai potuto lasciarsi sfuggire, quella che Sholto aveva captato, un disgraziato giorno, meno
confortava l'ipotesi che lei fosse lusingata. Indubbiamente il capitano le era tornato utile, a volte, ma per il resto era
stato come un ronzio nelle sue orecchie. Era così poco interessante, così superficiale, così poco impegnato e tanto futile,
e davvero così frivolo nonostante le sue pretese (delle quali lei era indicibilmente satura) di essere completamente preso
da un unico pensiero. Il fatto che un uomo la amasse non era mai stato di per sé un motivo sufficiente a suscitarle
qualche interesse, ma doveva ammettere onestamente che la maggior parte di coloro che l'avevano amata avevano
sempre avuto qualcosa, nella personalità e nella situazione, che le aveva dato da pensare. Non fino al punto da far
danno, salvo, forse, uno o due casi, ma pur sempre un qualche tratto personale.
Sholto era un inglese strano e non particolarmente edificante, secondo le descrizioni della Principessa; una di
quelle strane figure uscite da una società in disfacimento, prodotto di civiltà corrotte e logore. Era un peso - un perfetto
egoista, nonostante la sua aria devota e disinteressata. Non valeva nulla in sé e per sé, non aveva personalità né meriti
tranne quelli derivatigli dalla tradizione, per riflesso, per spirito d'imitazione e per superstizione. Aveva un albero
genealogico piuttosto lungo - veniva da una avvizzita, fatiscente «famiglia di signorotti», gente che aveva un certo
prestigio locale ma mancava assolutamente d'importanza in un ambito più vasto; si era preso la massima cura del suo
piccolo patrimonio. Aveva viaggiato spesso in tutto il mondo «per il gusto di cacciare», con quel crudele, selvaggio
modo che hanno gli inglesi di distruggere, eliminare creature più belle, più elevate, più agili di loro. Aveva un po' di
buon gusto, un po' d'intelligenza, s'intendeva un po' di libri, aveva un po' di mobilio, parlava un po' di francese e
d'italiano (ma ne esagerava la conoscenza) e possedeva una quantità immensa di sicurezza e d'ignavia. In fondo,
riusciva a rappresentare proprio questo - un ozio inutile, fatuo, lussurioso, e al tempo stesso pretenzioso, quel genere di
ozio che porta la gente a inventarsi occupazioni fittizie in mancanza delle reali. La grande fissazione di Sholto, dopo
quella di essere il suo schiavo, era di sentirsi un cosmopolita, immune da ogni pregiudizio. Quanto ai pregiudizi, la
Principessa non poteva dir niente, né le importava; ma lo aveva visto all'estero, lo aveva visto in Italia, e doveva dire
che lui non aveva capito nulla di quella gente. La prima volta che lo aveva incontrato era stato parecchi anni fa, poco
dopo il suo matrimonio. Lui non l'aveva adorata di primo acchito - era accaduto poco a poco. Era stato soltanto dopo la
separazione dal marito che aveva preso a girarle attorno, proprio nel periodo in cui quello l'aveva fatta molto soffrire.
Ma doveva dargli credito di una cosa: mai, per quanto ne sapesse, aveva avuto l'impudenza di presentarsi sotto altra
veste che quella dell'innamorato senza speranze e senza armi. Era proprio su questo che puntava - erigersi come un
luminoso esempio di costanza non premiata. Lei non riusciva a capire cosa stesse aspettando - forse la morte del
Principe. Ma il Principe non sarebbe morto, né lei lo desiderava. Non voleva mostrarsi spietata, e dopo tutto si trattava
pur sempre di una figura che solleticava la sua vanità; ma certo, qualunque fossero i sentimenti del povero Sholto, per
quattro quinti erano riducibili a pure declamazioni. Non era affatto un individuo semplice, tranquillo, era impastato di
centinaia di affettazioni e pose, conseguenza di una vita che non gli aveva imposto compiti o scelte e di una nascita
privilegiata. La Principessa rilevò la propria felicità che Hyacinth non avesse una posizione privilegiata, e che fosse
stato costretto a fare qualcos'altro nella vita oltre al solo divertirsi; erano questi gli amici che voleva avere, ora. Aveva
detto più volte a Sholto: «Vi sono tante persone che gradirebbero la vostra compagnia; perché non andate da loro? È
una perdita di tempo, la vostra.» Era convinta che avesse seguito il suo consiglio e che non fosse affatto quella creatura
tutta presa di lei, annichilita, come amava definirsi. Una volta le aveva detto che si stava sforzando d'interessarsi ad altre
donne - pur aggiungendo che non serviva a nulla. Come poteva allora pensare che servisse a qualcosa quello che
faceva? A questo punto Hyacinth non disse alla Principessa che aveva buone ragioni per credere che gli sforzi del
capitano, in quel senso, non fossero stati completamente vani; ma lo rimuginò in silenzio, convincendosene sempre più.
Riconobbe un'altra nota di vero nell'osservazione della sua compagna, che il povero Sholto usciva fuori da tutte le sue
descrizioni come uno strano miscuglio. Per quanto frivolo, c'era però in lui anche qualcosa di sinistro; e confessò di
aver provato a volte l'impercettibile sensazione che un giorno avrebbe potuto farle del male. Fu un'osservazione che
fece arrestare il nostro giovanotto sulla soglia del salotto, per chiederle a bassa voce: «Avete paura di lui?»
La Principessa sorrise come non gli aveva mai sorriso prima. «Dio mio, in che modo lo dite! Vorreste ucciderlo
per me?».
«Dovrò uccidere qualcuno, lo sapete; perché non lui, giacché ci sono, se v'importuna?»
«Ah, amico mio, se doveste uccidere tutti quelli che mi hanno dato fastidio!» gemette divinamente, mentre
entravano nella stanza.

VI

Capì subito che c'era qualcosa di strano dall'espressione del viso di Lady Aurora che rimase a guardarlo sulla
porta della stanza, aperta in risposta al suo bussare. Che faceva nella camera da letto di Pinnie? - Un luogo miserrimo,
dove la sarta, nel suo deferente ritegno, non avrebbe mai fatto entrare una persona così importante, almeno che non vi
fosse spinta da una ragione grave. Aveva un'aria solenne, e non rideva con la sua abituale risata incoerente; si era tolta il
grande cappello antiquato, dal velo cascante, e si portò un dito alle labbra. Hyacinth aveva avuto un primo allarme
subito dopo aver aperto, come faceva sempre, la porta con la chiave e aver trovato che nella stanzetta a destra del
corridoio dove Pinnie aveva sempre vissuto da tempi immemorabili, il fuoco era spento e non c'era nessuno. Non
appena pagato il vetturino che gli aveva portato il bagaglio fin nell'ingresso - non aveva l'abitudine di pagare vetturini e
si rese conto di avergli dato troppo, ma era troppo impaziente per curarsene, in quella sua improvvisa ansia, si era
precipitato su per la misera scala che, nonostante la preoccupazione gli sembrò più misera che mai, aveva bussato
chiamando con voce tremante e gli era stato subito aperto da Lady Aurora. Lei si era ritirata un istante nella stanza,
lasciandolo a fissare il vuoto, sgomento, poi ne uscì di nuovo, chiudendosi dietro la porta - il tutto con l'aria di
ordinargli di non fare alcun rumore. Hyacinth si sentì talmente male all'idea di essersi indugiato a Medley mentre nella
casetta alla quale doveva tanto regnava il dolore, che non riuscì a trovare la forza di articolare parola e ubbidì
meccanicamente a quel muto, imperioso gesto col quale la nobile visitatrice lo pregava di seguirla al piano di sotto.
Soltanto quando si trovarono nel salotto deserto - per la prima volta notò l'odore poco elegante che vi stagnava - chiese:
«Sta morendo... È già morta?». Era il minimo che si potesse dedurre dal mesto sguardo di Lady Aurora.
«Caro signor Robinson, mi dispiace tanto per voi. Volevo scrivervi, ma le avevo promesso che non lo avrei
fatto. È molto malata, povera cara... stiamo molto in pensiero. È cominciato dieci giorni fa, e credo sia mio dovere dirvi
che è molto peggiorata.» Lady Aurora parlava con un imbarazzo e una reticenza maggiori del solito - con foga, e
tuttavia con evidente pena, fermandosi di tanto in tanto per vedere come lui reagiva, e poi continuando a parlare, con un
piccolo sorriso propiziatorio. Apprese così quanto era accaduto, quale dottore era stato mandato a chiamare e che forse
era opportuno attendere un poco prima di entrare, dal momento che da una mezz'ora la malata si era assopita in un
sonno meno agitato del solito e sarebbe stato un peccato correre il rischio di svegliarla. Il dottore, così almeno era
sembrato a Sua Signoria, aveva prescritto la cura giusta, ma aveva constatato che le erano rimaste poche risorse. Non
era naturalmente un medico di gran fama, il dottor Buffery che viveva lì all'angolo, tuttavia sembrava molto esperto; lei
stessa si era presa la libertà (mentre lo confessava le sfuggì una delle sue curiose risate e si colorò in viso) di mandare a
chiamare una persona anziana, rispettabile - una brava infermiera conosciuta da molti medici. Al momento era uscita,
doveva prendere un poco d'aria, una volta al giorno - «soltanto quando vengo io, naturalmente» si era affrettata a dire
Lady Aurora. La cara Miss Pynsent si era portata addosso un raffreddore senza curarlo. Hyacinth sapeva certo quanto
fosse trascurata, in quel senso: si prendeva così poca pena di sé. «Naturalmente un raffreddore è un raffreddore, per
tutti, non è vero?» chiese la sua amica, come se volesse criticare la vecchia teoria secondo cui gli umili non sono in
grado di avere la meglio contro le aggressioni del male. Dieci giorni prima aveva preso di nuovo freddo,
addormentandosi di sera sulla sedia lì in salotto, lasciando spegnere il fuoco. «Non sarebbe stato nulla se fosse stata
bene come noi, naturalmente» continuò la benefattrice, «ma nello stato in cui era, le cose sono andate diversamente. Era
stata una giornata umidissima - il freddo preso attaccò i polmoni, procurandole un'infiammazione. Il dottor Buffery dice
che era deperita, sapete... così debole e giù, l'organismo non poteva reagire.» Il giorno dopo aveva avuto forti dolori e
febbre alta, ma si era alzata lo stesso. La gentile amica della povera Pinnie non disse a Hyacinth quanto tempo fosse
passato prima che lei fosse accorsa in aiuto, né con quale mezzo l'avessero avvertita, e capì che sorvolava su quel punto
spinta dal nobile intento di non fargli sentire che la loro paziente aveva sofferto per la sua assenza, o che lo aveva
chiamato invano. Quest'ultima supposizione non sembrava propriamente esatta, dal momento che Pinnie si era opposta
all'idea che gli scrivessero. «Sono venuta subito,» disse solamente Lady Aurora. «Sono stata felice dell'occasione. Da
allora ha avuto tutto - se non fosse stato così triste vedere una persona aver bisogno di tanto poco. Voleva assolutamente
che voi restaste dove eravate: si era aggrappata a quell'idea. Vi dico la pura verità, signor Robinson.»
«Sono io che non so cosa dirvi... siete così straordinariamente buona, così angelica,» replicò Hyacinth,
scombussolato e amareggiato da una strana, insospettata vergogna. La vicenda che aveva appena vissuta, lo splendore
che lo aveva ravvolto e a cui aveva attinto così abbondantemente, quel rapporto innaturale al quale si era abbandonato
mentre la sua povera, misera madre putativa lottava da sola contro la morte - capiva che era questo; tutta la casa era
colma del presentimento di quell'estremo, rigido orrore - l'enormità del contrasto lo trafisse come una lama mentre il
brutto incidente della sua assenza si trasformava in una perversità tutta sua. «Non posso biasimarvi, quando siete così
gentile, ma Dio avesse voluto che fossi stato informato!» proruppe.
Lady Aurora, a mani giunte, lo supplicò di non giudicarla ingiustamente. «Certo era una grande responsabilità,
per noi, ma credevamo giusto agire come lei ci aveva scongiurato. Lo ripeteva continuamente che la vostra visita non
doveva essere abbreviata. Quando sareste arrivato sareste stato ancora in tempo. Io non so bene dove siate stato, ma
diceva che era una cosa così piacevole. Continuava a ripetere che vi avrebbe fatto un gran bene.»
Hyacinth sentì riempirsi gli occhi di lacrime. «Sta morendo... sta morendo! Come può sopravvivere nello stato
in cui è?»
Si gettò sul vecchio sofà giallo, il sofà della sua vita e di tanti anni che l'avevano preceduta, e nascose il capo
sullo sdrucito bracciolo. Lunghi singhiozzi gli uscirono dalle labbra - singhiozzi nei quali tante emozioni accumulate di
recente e lo strano, acuto conflitto di sentimenti che lo aveva assediato per tre settimane, trovarono uno sbocco e una
sorta di soluzione. Lady Aurora gli si sedette vicino e gli posò sul capo, delicatamente, la punta delle dita. Così, per un
minuto, mentre le lacrime scorrevano e lei rimaneva in silenzio, egli sentì il loro timido tocco consolatorio. Dopo un
minuto sollevò il capo: gli era tornato alla mente quel «noi» detto da lei poco prima, e le chiese di chi avesse inteso
parlare.
«Oh, del signor Vetch, non lo sapete? Ho avuto il piacere di fare la sua conoscenza; non c'è una persona più
gentile di lui.» Poi, mentre Hyacinth rimaneva silenzioso, fremente, ferito al pensiero che Pinnie fosse rimasta affidata
al violinista mentre lui faceva il pagliaccio nell'alta società, Lady Aurora aggiunse: «È un musicista valente. Pinnie
all'inizio, gli aveva chiesto di portare il suo violino: pensava che l'avrebbe sollevata.»
«Gli sono molto obbligato, ma ora che sono qui non c'è bisogno che si disturbi,» disse Hyacinth.
Evidentemente c'era stata una certa freddezza nel suo tono, perché Sua Signoria si azzardò a replicare, dopo un
attimo di esitazione: «Lasciatelo venire, signor Robinson; lasciate che vi stia vicino! Mi domando se sapete quanto...
quanto affetto nutra per voi.»
«Ancora più sciocco: l'ho sempre trattato come un bruto!» dichiarò Hyacinth facendosi rosso.
Da come aveva parlato capì più tardi che Lady Aurora conosceva ormai decisamente il suo segreto, o meglio,
uno dei suoi segreti, visto che, da come si erano messe le cose negli ultimi mesi, ne stava facendo una vera e propria
collezione. Lei conosceva il segreto più piccolo - non certo il più importante; doveva averlo captato dalle dichiarazioni
di Pinnie. Ma nel momento in cui faceva quella riflessione rimase colpito dalla completa caduta di ogni suo
risentimento per quei tradimenti, dell'indifferenza improvvisa per l'inaridirsi di quella sua piccola, intima fonte. La
coscienza di possedere un vasto tesoro di esperienze sommergeva del tutto quella particolare angoscia, e dato il poco
tempo che gli era rimasto non poteva poi avere tutta quest'importanza che la gente si scambiasse a bassa voce qualche
allusione sul suo marchio segreto. Venne presto il giorno in cui si convinse - senza affliggersene punto - che di quel
marchio si era parlato molto.
Dopo che Lady Aurora lo ebbe lasciato, promettendogli di chiamarlo al momento opportuno, si mise a
camminare su e giù per il freddo salotto irrancidito, assorto nei suoi pensieri. Il trauma di perdere Pinnie si era già
dileguato; di recente aveva imparato ad accettare l'idea della morte, così che la piccola sarta, nel prendere commiato
dalla vita, sembrava già beneficiare di questa singolare disciplina. Di vivo, in quel desolato centro dell'improduttiva
attività di Pinnie, restavano ora i diversi occhi con cui era tornato fra quegli oggetti che per venti anni gli erano stati così
familiari. Il quadro era lo stesso, e tutti i suoi orribili elementi, ricoperti dalla speciale patina oleosa dell'aria mefitica di
Lomax Place, formavano, attraverso i miseri vetri della finestra, un triste chiaroscuro - attestavano, nella loro povertà
tirata a lustro, l'attrito della sua breve vita; eppure gli occhi coi quali guardava l'insieme avevano nuovi termini di
paragone. Aveva sempre considerato quello spettacolo brutto e sordido, ma il suo aspetto oggi era penoso quasi fino al
disgusto; non poteva pensare di averlo per anni accettato e perfino, un poco, rispettato. Era atterrito al pensiero del
terribile servizio che gli aveva reso la sua esperienza di grandezze. Niente di male averla assimilata con una rapidità di
cui si era meravigliato per primo; ma ora che la sua sensibilità si era così acuita, quale nuovo rapporto avrebbe potuto
stabilire con i più umili, rapporto che per sua natura non tollerava compromessi? Benché fosse ormai primavera
inoltrata c'era una pioggerella nera nell'aria e la stanza emanava una putredine consumata, una umidità trasudante dalle
strade fangose dove le apparecchiature protettive erano ridotte a una stretta fessura. Non c'era da stupirsi che a lungo
andare Pinnie ne avesse risentito, nessuna meraviglia che il suo denutrito organismo avesse perduto ogni difesa e
cessato di reagire. Al pensiero della sua angusta vita di stenti, della paziente, tediosa fatica dell'ago e delle forbici che
trovava il suo esito lì, in una sala-prove dove non c'era nulla da provare e che faceva solo pensare a quel taglio di
maniche che non andava più, le lacrime gli salirono nuovamente agli occhi; ma le ricacciò indietro quando udì un
timido scampanellio alla porta che fu subito aperta dalla piccola, sudicia serva, assoldata per assistere la solitaria
abitante della casa - una domestica facilmente impressionabile, strabica in modo notevolmente sgradevole, e che irritò
Hyacinth perché calzava scarpe male appaiate che avevano in comune soltanto la vecchiaia e si emulavano nella corsa
allo slabbramento. Non aveva udito la voce del signor Vetch nell'ingresso, forse perché aveva soltanto bisbigliato,
tuttavia il giovanotto non si sorprese quando, usando tutte le precauzioni per non far cigolare la porta, lo vide entrare nel
salotto. Sulle prime il musicista non disse nulla; si guardarono soltanto per un lungo minuto. Hyacinth capì cosa il
signor Vetch voleva sapere da lui - se era al corrente di quanto era accaduto a Pinnie; ma il resto, quello che aveva
dentro gli occhi, che avevano assunto un'espressione diversa, finora mai vista, il nostro eroe lo scoprì poco a poco.
«Non credete che avreste potuto scrivermi un rigo?» disse alfine Hyacinth. Il risentimento per essere stato
lasciato all'oscuro di tutto lo aveva ormai abbandonato, tuttavia ritenne che la domanda fosse lecita. Si aspettava però
una risposta sarcastica e rimase sorpreso dal tono mite e ragionevole con cui il signor Vetch disse:
«Ti assicuro che non sono mai stato, in tutta la vita, più tormentato delle mie responsabilità. C'erano ovvie
ragioni per richiamarti a casa, e tuttavia non ho potuto fare a meno di desiderare che portassi a termine la tua visita. Ho
soppesato le due cose: è stato molto difficile»,
«Non so immaginarmi nulla di più semplice: quando i propri cari, le persone più vicine stanno morendo,
generalmente si è mandati a chiamare.»
Il visitatore sorrise in modo stranamente polemico. Se Lomax Place e la sofisticata abitazione di Miss Pynsent
avevano assunto agli occhi di Hyacinth un nuovo aspetto di volgarità, si può bene immaginare come la mancanza di un
abbigliamento gradevole e la rassegnata trasandatezza che caratterizzavano la vecchiaia del signor Vetch potessero
reggere al confronto dei suoi nuovi modelli. Il domestico di Medley, tirato a lucido, portava su di sé, a profusione, le
impronte del suo successo nella vita. «Mio caro ragazzo, questo era un caso eccezionale,» rispose il violinista. «La tua
visita aveva una sua importanza.»
«Non so cosa possiate saperne voi; non ricordo di avervi mai detto niente al riguardo.»
«No, è vero, non mi hai mai detto un gran che. Ma se, come è probabile, hai visto la gentile signora che sta di
sopra, avrai saputo che Pinnie ha insistito perché tu non venissi disturbato. Ci ha minacciato di odiarci, se ti avessimo
fatto tornare all'improvviso. E sai cosa significa questo!» Poiché Hyacinth, a queste parole, si girò con un gesto irritato,
il signor Vetch continuò: «Senza dubbio è una creatura piena di assurde fantasie, povera cara; ma non ti azzardare a
mancarle di rispetto. Ti posso assicurare che se anche si fosse trovata qui sola, sofferente, morente, senza un essere
umano ad accudirla e con nessun'altra alternativa che morire in un angolo, come un gatto affamato, avrebbe preferito
affrontare la sua sorte piuttosto che abbreviare di una sola ora la tua esperienza di nuovi orizzonti.»
Hyacinth sembrò rimuginare con aria lugubre. «Certo, capisco quel che volete dire. Ma ha sempre fabbricato le
sue illusioni - tutte - sul nulla. Non riesco a immaginare cosa ne sappia delle mie «esperienze», dei miei orizzonti.
Quando sono partito le ho detto poco più di quanto abbia detto a voi.»
«Le è bastato quello che ha cercato di indovinare, di capire. Si è messa in testa che ti eri creata una relazione
che ti avrebbe, in un modo o nell'altro, reintrodotto nel tuo ambiente. Non ha fatto che parlare della tua importante
parentela. Nella sua mente, lo sai, gli aristocratici sono tutti una cosa sola e nulla di più semplice che la persona - che lei
immagina molto infatuata di te - di cui sei stato ospite, parlasse della cosa ai suoi amici.»
«Oh beh,» disse Hyacinth «sono felice di non avervi fatto mancare questo diversivo.»
«Ti assicuro che è stato uno spettacolo meraviglioso.» Poi il musicista aggiunse: «Mio caro, ti prego, lasciale
quell'illusione.»
«Lasciargliela? Farò molto di più!» rispose Hyacinth. «Le dirò che i miei importanti amici mi hanno adottato e
che sono tornato qui in qualità di Lord Robinson.»
«Non avrà bisogno d'altro per morire felice,» disse il signor Vetch.
Cinque minuti dopo, quando il vecchio amico ebbe confermato a Hyacinth quanto già gli aveva detto Lady
Aurora circa le condizioni di Miss Pynsent, di cui il brav'uomo era venuto a chiedere notizie una mezza dozzina di volte
al giorno - cinque minuti dopo, sulla coppia era calato un grande silenzio, mentre il nostro giovane attendeva da Lady
Aurora il segnale per salire. Il violinista, che aveva acceso la pipa, guardò fuori dalla finestra, come se quella veduta
fosse un diagramma di tutto il grigio passato; e Hyacinth, a passi discreti, si mise a camminare per la stanza con le mani
in tasca. Finalmente il signor Vetch, senza togliersi la pipa di bocca e senza voltarsi, osservò: «Penso che potresti essere
un po' più franco, con me, in quest'ora, e in queste condizioni così critiche.»
Hyacinth si fermò, chiedendosi in tutta onestà cosa intendesse il suo compagno, perché, per il momento, non
aveva coscienza di essersi sforzato di nascondergli qualcosa - a parte quello che non poteva dirgli: al contrario, gli
sembrava che la sua vita fosse particolarmente sciorinata davanti a tutti ed esposta ai commenti più spiacevoli. Ma in
quel momento si accorse che qualcosa era mutato; la voce del signor Vetch aveva un tono che non aveva mai udito
prima - mancava di quell'inflessione sarcastica che, in altri tempi, lo aveva indotto a credere che l'impenetrabile vecchio
si stava divertendo a sue spese. Era come se il suo atteggiamento fosse cambiato, fosse diventato più palesemente
deferente, conseguenza di un nuovo, rispettoso riguardo verso Hyacinth per essere cresciuto e divenuto più importante,
o per essere semplicemente diventato indicibilmente enigmatico. Se la prima reazione nei confronti del vecchio vicino
di Miss Pynsent, su cui poco prima era stato perplesso circa il posto da assegnargli nella lista delle persone da
sacrificare (essendo un gentiluomo ed una delle persone più degne); se il sentimento che il signor Vetch aveva fatto
sorgere nel suo animo ormai abituato, dopo un mese circa, a forme di indubbia signorilità, non era stato certo il piacere
di fraternizzare con lui, l'intima insofferenza che si era maturata nel cuore di Hyacinth fu repentinamente corretta da una
di quelle subitanee reazioni o rapide conversioni di cui il giovanotto rimaneva spesso vittima. Di fronte all'appello del
violinista, denso evidentemente di significati maggiori di quelli espressi, di fronte alla sua appassita vecchiaia, ai suoi
abiti che suggerivano un'annosa, univoca, minima destinazione e portavano impresse tutte le gualciture e i segni
dell'uso, di fronte al suo aspetto fisico che testimoniava un'estrema parsimonia, e un disinteresse per la piega dei calzoni
a vantaggio di qualcosa d'altro - tutte queste cose si trasformarono in altrettanti impulsi che lo spinsero a voltarsi e a
muovergli incontro in una resa commossa a quella invincibile fedeltà, quella umile, costante, unidirezionale pratica del
dovere quotidiano e di un'arte, dopotutto, molto suggestiva; laddove quel tipo di gente con cui il nostro figliol prodigo si
era di recente intrattenuto, passava freneticamente da una forma di egoismo all'altra, e non riusciva neppure a vivere
nello stesso luogo per più di tre mesi di seguito.
«Che volete che faccia, che dica, che vi racconti? Volete sapere cosa ho fatto in campagna? Vorrei saperlo io
per primo,» disse Hyacinth senza arroganza.
«Ti sei divertito tanto?»
«Sì, certo... dal momento che non sapevo di Pinnie. Sono stato in una bella casa, con una bella donna.»
Il signor Vetch si era voltato; appariva molto imparziale, attraverso il fumo della pipa. «È proprio una
Principessa?»
«Non so cosa intendiate con "proprio": suppongo che tutti i titoli siano assurdi; comunque, erano unanimi nel
chiamarla così.»
«Sai quanto abbia sempre desiderato far parte della tua vita, ma oggi questo desiderio è diventato più forte che
mai,» disse il vecchio fissando il suo compagno negli occhi.
Hyacinth ricambiò lo sguardo per un istante. «Che cosa ve lo fa dire, proprio ora?»
Sembrò che il violinista ci riflettesse un poco sopra, e alla fine rispose: «Perché stai per perdere la migliore
amica che abbia mai avuto.»
«Potete star certo che lo so. Ma se ho voi...!» aggiunse il suo compagno.
«Oh, io! Io sono un vecchio stanco della vita.»
«Penso che sia la sorte di tutti. Ma se credete che possa esservi di qualche aiuto, dovete appoggiarvi a me,
utilizzarmi.»
«È proprio quello che stavo per dire io a te,» disse il signor Vetch. «Vorresti un po' di denaro?»
«Certo che ne vorrei! Ma perché lo dovreste offrire proprio a me!»
«Perché mentre lo mettevo da parte, un poco alla volta, avevo te nel cuore.»
«Caro signor Vetch,» replicò il nostro giovane; «mi avete fatto troppo posto nel cuore. Non lo merito,
credetemi, e per molti motivi. Potrei guadagnare denaro a sufficienza per i miei bisogni, o per lo meno quel tanto che mi
è dovuto, se me ne stessi tranquillamente a Londra a fare il mio lavoro. Come sapete, sono in grado di guadagnarmi di
che vivere decorosamente.»
«Sì, sì lo so. Ma se te ne stessi tranquillo a Londra che ne sarebbe della tua Principessa?»
«Oh, si arrangiano sempre, le signore della sua razza.»
«Che io possa essere impiccato se capisco di che razza si tratta!» gridò il signor Vetch senza ridere. «Sei stato
tre settimane senza lavorare, eppure hai un'aria insolitamente florida.»
«Grazie, il mio sostentamento non mi è costato nulla. Quando si va ospiti di persone del bel mondo, non si
paga la propria quota,» spiegò Hyacinth con garbo. «Inoltre, la signora che mi ha ospitato, mi ha fatto una splendida
proposta di lavoro.»
«Che genere di lavoro?»
«L'unico che sappia fare. Mi manderà un mucchio di libri da rilegarle.»
«E li pagherà un prezzo stravagante?»
«Oh no, sarò io a stabilire il prezzo.»
«Ma non ti pare che questo genere di affari sia piuttosto sgradevole... trattandosi di una signora di cui hai
accettato l'ospitalità,» chiese il signor Vetch.
«Sgradevolissimo! È per questo che farò il lavoro e non accetterò alcuna ricompensa.»
«La tua Principessa è piuttosto scaltra!» rise freddamente il violinista.
«Sarà, ma non potrà obbligarmi ad accettare soldi, se io non voglio,» disse Hyacinth.
«No, ma da me li dovrai accettare.»
«Avete strane idee sul mio conto,» dichiarò il giovanotto.
Il signor Vetch si volse di nuovo verso la finestra, mormorando che aveva idee strane un po' su tutto. Poi, dopo
una pausa, soggiunse: «E ci hai fatto l'amore, con la tua gran dama?»
Si era aspettato un moto d'impazienza, in risposta, e rimase alquanto sorpreso nel sentire Hyacinth dire: «Come
spiegarvi? È una cosa diversa.»
«Allora forse è lei che ha fatto l'amore con te.»
«Se la vedeste, capireste quanto sia assurda questa supposizione.»
«E quando potrei mai vederla?» rispose il signor Vetch. «In mancanza di tanto onore, penso che ci sia del vero
nelle mie supposizioni.»
«Lei guarda più lontano,» disse Hyacinth semplicemente. «Non è affatto improbabile che voi la vediate: vuole
conoscere i miei amici, la gente che abita nel quartiere. E voi la interessereste particolarmente per le vostre idee.»
«Ah, io non ho più idee ormai... più nessuna!» se ne uscì tristemente il vecchio. «Le avevo solo per spaventare
Pinnie.»
«Era facile spaventarla,» disse Hyacinth.
«Sì, e anche facile rassicurarla. Beh, sono contento di conoscere qualcosa della tua vita,» sospirò lievemente il
suo vicino. «Ma stai attento che la tua signora non ti conduca troppo lontano.»
«Che significa "troppo lontano"?»
«Non è forse una cospiratrice socialista, una che sguazza in mezzo a complotti e tradimenti? Non vuole forse
una rettifica generale, come la chiama Eustache?»
Hyacinth lasciò cadere una pausa di silenzio. «Dovreste vedere la casa, cosa indossa, come mangia e beve.»
«Vuoi dire che non è coerente con le sue teorie? Mio caro ragazzo, sarebbe una strana donna se lo fosse; in
ogni modo, ne sono lieto.»
«Lieto?» ripeté Hyacinth.
«Voglio dire per te, quando stai con lei; almeno assapori il lusso!» esclamò il signor Vetch, voltandosi con un
sorriso.
In quel momento un colpetto dato da Lady Aurora sul pavimento del piano di sopra annunciò che finalmente
Hyacinth poteva salire da Pinnie. Il signor Vetch udì il rumore e lo riconobbe, e fu spinto a dire con notevole enfasi:
«Quella sì che è una donna in cui teoria e pratica vanno di pari passo.»
Hyacinth, dalla soglia, mentre lasciava la stanza, si fermò il tempo sufficiente per replicare: «Beh, quando
verrà il giorno di abbandonare tutto, la mia amica... vedrete!»
«Sì, non dubito che ci saranno cose che accetterà di sacrificare,» rispose il vecchio. Ma Hyacinth ormai non era
più a portata d'orecchio.

VII

Il signor Vetch aspettò al piano di sopra che Lady Aurora scendesse a dargli le notizie che attendeva con ansia.
Aveva idee ben precise, riguardo a Pinnie. La sera prima gli era sembrato che avesse la morte in volto e, nel complesso,
riteneva che fosse un momento ottimo per abbandonare il suo fardello terrestre. Aveva buone ragioni per credere che il
futuro non le riservasse niente di buono. Nei riguardi di Hyacinth invece era tutt'altro che tranquillo perché, anche se
sapeva che si era messo con strani compagni, e anche se da un pezzo aveva approvato e caldeggiato che il ragazzo si
disimpegnasse da solo e risolvesse da solo il problema delle sue origini, la mancanza di una più vasta conoscenza della
situazione lo teneva preoccupato. Aveva spento la pipa prevedendo l'arrivo di Lady Aurora e, privato di quel sostegno,
cadde maggiormente in preda di certi timori che lo avevano assalito in seguito a una recente conversazione, o meglio,
un tentativo di conversazione, avuta con Eustache Poupin. Era stato per mezzo del francese che aveva saputo quel poco
che sapeva sulla strana avventura di Hyacinth nell'alta società. Con Pinnie infatti Hyacinth aveva fatto mistero della sua
destinazione, limitandosi a dirle che c'era di mezzo una signora e che, né il bagaglio migliore che avesse potuto mettere
insieme, né le camicie più impeccabilmente piegate sarebbero stati all'altezza della situazione. Poupin che aveva visto
Godfrey Sholto al «Sole e Luna», era venuto a sapere da Hyacinth che la presenza del capitano a Bloomsbury era
dovuta all'influenza nella sua vita di una donna straordinaria - influenza che ora, per il meglio o per il peggio, stava
rischiando di coinvolgere lo stesso Hyacinth. Sholto era l'anello che univa il giovanotto a una società per la quale
l'importanza di Lisson Grove, sul piano universale, era unicamente quella di servire da scorciatoia - troppo scomoda per
essere usata di frequente - per raggiungere Bayswater; per cui, se Hyacinth aveva lasciato la città con un cappello nuovo
e guanti di capretto, doveva averlo fatto per dirigersi verso quella sfera superiore, in seguito a una qualche
sollecitazione della summenzionata influenza femminile. Il francese riferì tutto questo in termini piuttosto espliciti,
com'era sua abitudine, al vecchio violinista; ma il suo modo di parlare era forzato e rinviava ad altri più importanti
retroscena, così che la curiosità del signor Vetch ne era rimasta più eccitata che soddisfatta. Le sue parole contenevano
implicazioni misteriose; evidentemente dolorose per il narratore; e apparivano confuse e incerte, del tutto prive di quella
forbita qualità che caratterizzava le allusioni meno serie del signor Poupin. Il violinista s'era fatto l'idea che il suo amico
avesse in mente qualcosa che non era libero di svelare, qualcosa che riguardava Hyacinth e che, per quanti avessero a
cuore il singolare giovanotto, poteva costituire una fonte non lieve di ansietà. Il signor Vetch per conto suo, si coccolò
quest'ansia in una forma definitiva: persuase se stesso che il francese aveva condotto Hyacinth troppo lontano sulla
strada della critica sociale, lo aveva spinto per qualche sentiero pericoloso dove la più piccola svista avrebbe potuto
riuscirgli fatale. Quando, in una successiva occasione, si lasciò sfuggire la natura dei suoi sospetti, Poupin si fece tutto
rosso e dichiarò di avere la coscienza a posto. Era una delle sue caratteristiche sembrare adirato, quando si faceva rosso,
e il signor Vetch ne dedusse che, nonostante le rimostranze, il suo disappunto fosse la prova di un agire sconsiderato.
Ma prima che i due si separassero, Eustache tradì ancora la sua emotività versando lacrime la cui origine non era chiara
e che, in un certo senso, avevano l'aria di essere dedicate a Hyacinth. Quell'incontro si era svolto a Lisson Grove senza
però che Madame Poupin si facesse vedere.
Nel complesso il vecchio si sentiva in balia di supposizioni che lo indussero a misurare quanto fossero ormai
lontani i guizzi democratici della sua gioventù. Aveva finito per accettare tutto - anche se a dire il vero non riusciva a
mandar giù l'idea che qualcuno avesse giocato un brutto tiro a Hyacinth - per interessarsi perfino alla politica corrente,
anche se fin dai tempi antichi aveva sempre ritenuto - opinione radicata nei Poupin di oggi - che fosse inventata apposta
per gettar polvere agli occhi dei riformatori disinteressati e per impedire una soluzione socialista. Aveva rinunciato da
tempo a quel problema: non c'era modo di risolverlo senza complicare ulteriormente l'intricata matassa degli affari
umani che, una volta raggiunti i sessantacinque anni, cessano per lo più di esasperare. Il signor Vetch provava ancora
una certa ostilità verso i libri di preghiere e i vescovi, e se a volte si vergognava un poco di aver accettato questo
mondo, poteva però consolarsi riflettendo che in ogni caso continuava a ripudiare quell'altro. L'idea di grandi
cambiamenti, tuttavia, finì relegata tra i sogni giovanili; perché un cambiamento nei rapporti tra gli uomini cos'altro è se
non una combinazione diversa degli stessi elementi? Se gli elementi potessero essere trasformati, allora varrebbe la
pena di prendere in considerazione la cosa; invece, non soltanto è impossibile introdurne di nuovi - ma non si è neppure
trovato il sistema di liberarsi dei vecchi. I pezzi sulla scacchiera sono pur sempre le passioni, le gelosie, le superstizioni
e l'umana stupidità, e la loro posizione, nei confronti reciproci, può servire soltanto alle tetre, invisibili Parche che
giocano la partita rimanendo sedute, ricurve sul tavolo, per secoli. Tale indifferenza si era impossessata del nostro
suonatore di violino a misura che aumentava la dimensione della sua pancia e il piccolo mucchio di mezze corone e
sovrane che aveva accumulato in una scatola di latta chiusa da un solido lucchetto, riposta sotto il letto, e i vincoli
commisti di affetto e consuetudini che lo legavano alla sarta e al suo figlio adottivo. Se il bisogno di esigere dalla
società una risposta alla quale riteneva di avere diritto non era più un'esigenza imperiosa come in passato, quando la sua
conversazione scandalizzava Pinnie, tanto meno si sentiva di esigerla da Hyacinth, e, nell'ipotesi che il potere costituito
si trovasse a «fare i conti» con lui, non era di buon gusto importunarlo con le donazioni che aveva progettato. Temeva
invece che quel giovane interessante potesse essere spinto, da gente senza scrupoli, ad eccessi ad un tempo deplorevoli
e ridicoli. Va anche detto che il signor Vetch si era segretamente riproposto di lasciargli qualcosa.
Lady Aurora fece capolino nella stanza, senza far rumore, dopo circa mezz'ora che Hyacinth ne era uscito, per
dire al violinista che altri doveri la reclamavano ma che l'infermiera era venuta e il dottore aveva promesso di
affacciarsi verso le cinque. Sarebbe tornata la sera stessa, ma nel frattempo c'era Hyacinth dalla zia, che lo aveva
riconosciuto senza recriminazioni, anzi era apparsa felicissima di vederselo di nuovo vicino, e se ne stava lì, ad occhi
chiusi, debolissima e muta, tenendogli la mano. L'irrequietezza si era placata, e la febbre era caduta, ma il polso quasi
non si sentiva più e Lady Aurora non gli nascose che si stava spegnendo lentamente. Il signor Vetch era ormai
rassegnato al fatto, e dopo che Sua Signoria lo ebbe lasciato solo si accese un'altra filosofica pipa, rimanendo lì fin
quando non giunse il dottore che tante volte in passato era venuto nel lugubre salottino deserto a trascorrere una serata
allietata da caldi bicchierini. Sembrava quasi di sentire ancora, nell'aria, l'eco delle piccole semplici esclamazioni di
sorpresa e vacue contraddizioni, delle trepide reazioni ai loro paradossali ragionamenti; tuttavia quella stanza aveva
assunto un'aria di abbandono e di morte come se lei fosse già sottoterra. Pinnie era stata sempre una fautrice del
pensiero di «mettere tutto da parte»; la quantità immensa d'impicci accumulati ne era la prova, ma ancor di più si era
accanita a mantenere il tappeto in uno stato impeccabile; e anche in quell'occasione, prima di ammalarsi, aveva trovato
la forza di spazzare e di mettere in ordine la stanza quasi presaga che non avrebbe mai più ricevuto le sue cure. Perfino
il vecchio violinista che certo non possedeva la sensibilità estetica di Hyacinth, aveva notato come la stanza avesse
assunto il freddo decoro di un luogo predisposto a un funerale. Dopo che il dottore ebbe visitato Pinnie quel
pomeriggio, non rimasero dubbi che il salotto sarebbe stato presto teatro di tristi preparativi.
Miss Pynsent, tuttavia, resse agli attacchi del male per altri quindici giorni circa, e durante quel periodo
Hyacinth rimase costantemente nella stanza di lei. Non tornò più dal vecchio Crook, e a causa di forza maggiore i suoi
rapporti con quella ditta sembrarono sospesi a tempo indeterminato. Per tutto il periodo che Pinnie ebbe bisogno di lui,
soltanto due volte si assentò per più di due minuti da Lomax Place. Una volta andò fino ad Audley Court, dove rimase
un'ora; un'altra s'incontrò con Millicent Henning, con cui aveva preso un appuntamento, e fece una passeggiata con lei
sull'embankment. Cercò di trovare un'ora di tempo per andare a ringraziare Madame Poupin che aveva offerto
affettuosamente e ripetutamente una tisane preparata secondo una ricetta che la coppia di Lisson Grove riteneva
insuperabile (però poco apprezzata, in genere, dai loro amici), ma fu costretto a ringraziarla della gentilezza con un
rispettoso biglietto redatto con una certa fatica, ma anche con molta soddisfazione, in francese, una lingua estremamente
adatta, secondo lui, a quel tipo di convenevoli. Lady Aurora tornò ripetutamente nella casa buia, dove esplicò la sua
opera benefica con veglie, con suggerimenti di moderne misure d'igiene, ingegnandosi, più di quanto il suo imbarazzo
potesse mai far supporre, a tenere con Hyacinth una conversazione intesa a distrarlo, e preparando il tè (durante la
malattia di Pinnie se ne consumò una gran quantità, in quella casa) con un sistema molto più pratico di quello
abitualmente adottato a Pentonville. Si fece messaggera di svariate comunicazioni e di una quantità di consigli medici
per conto di Rose Muniment, che, per quanto gli arrivassero di seconda mano, finirono con l'irritare Hyacinth
apparendogli dettati da un interessamento troppo coraggioso per non sembrare stravagante: si aveva l'impressione che
Rose fosse rassegnata ai guai degli altri quasi quanto ai propri.
Il giorno dopo il suo ritorno da Medley, Hyacinth era stato preso dall'acuto bisogno di fare qualcosa di concreto
e di grande per amore di Pinnie. Si sentiva assalire dalla rabbia al pensiero che lei morisse logorata dalla sua povera
professione e dall'incancellabile rimorso per il tiro che gli aveva giocato da bambino - come se lui non l'avesse da tempo
perdonata, e anzi lo considerasse un gesto di altissima saggezza - schiacciata dall'atteggiamento inflessibile del suo
protetto. Voleva fare qualcosa per provare a se stesso la propria totale disponibilità nei riguardi dell'inferma: e fece
pressioni col dottor Buffery perché chiamasse a consulto un dottore della West End, sempre che il dottore della West
End acconsentisse a incontrarsi col dottor Buffery. Per mezzo di Lady Aurora si riuscì a trovare un luminare che non fu
contrario al gesto condiscendente - lei non lo aveva fatto venire di sua iniziativa perché da una parte aveva esitato ad
imporre al piccolo menage di Lomax Place la spesa di una simile visita, e dall'altra, nonostante le sue strette economie
per amore dei poveri, non aveva i mezzi per affrontarla da sola. In previsione della parcella del grande personaggio,
Hyacinth ricorse al signor Vetch per un prestito, come aveva già fatto altre volte. Il grand'uomo arrivò e si mostrò
estremamente cortese verso il dottor Buffery, apprezzandone la prestazione, che giudicò «assennata», nel caso
specifico; si fermò qualche minuto guardando Hyacinth di sopra le lenti - sembrava più interessato a lui che alla
paziente - mentre quasi tutta la popolazione di Lomax Place usciva in strada per guardare il suo cocchio. E per
concludere, non volle nessuna remunerazione. Liquidò la faccenda con un gesto educato - fatto che contrariò e deluse
Hyacinth che si vide sfumare la soddisfazione di fare qualcosa per Pinnie; sebbene, quando riferì la cosa, più o meno, al
signor Vetch, il caustico musicista accolse l'osservazione con un'espressione divertita che, in quella circostanza, rischiò
di essere poco opportuna.
Hyacinth in ogni modo aveva fatto tutto quello che poteva, e il dottore alla moda aveva prescritto delle
medicine che implicavano una visita a una costosa farmacia di Bond Street, prospettiva che, in un certo senso, riuscì a
consolare il nostro giovanotto. Il declinare di Pinnie tuttavia non si arrestò, e dopo una settimana o giù di lì dal suo
ritorno da Medley, una sera, mentre era seduto solo con lei, gli sembrò che quel mite spirito fosse già volato via. La
valida infermiera era scesa per la cena e, per le scale, il potente odore del guanciale in frittura, annunciava che, al piano
inferiore, regnava una maggiore allegria. Hyacinth non riusciva a capire se la sua vecchia amica fosse sveglia o
dormisse. Non riteneva che avesse perso conoscenza, anche se per più di un'ora non aveva dato segni di vita.
Finalmente la malata gli tese una mano, come se sapesse che egli era lì vicino e desiderasse toccarlo, e mormorò:
«Perché è venuta? Non volevo vederla.» Poco dopo, poiché continuava a parlare, Hyacinth comprese a chi stesse
alludendo; la sua mente era tornata indietro di anni, fino a quel terribile giorno - gli aveva raccontato tutti i terribili
particolari - quando la signora Bowerbank aveva fatto irruzione nella sua pacifica esistenza e aveva scosso la sua
sensibile coscienza con un messaggio dal carcere. «Rimase seduta così a lungo... così a lungo. Era così enorme, ed io
così spaventata... si lamentava... si lamentava e urlava... una cosa spaventosa... non potevo impedirlo!» I suoi pensieri
vagavano dalla signora Bowerbank, che nel salottino tutto in disordine troneggiava sul sofà giallo, alla tragica creatura
di Millbank, la cui voce, da un'ora, si stava ripercuotendo nelle sue orecchie e mescolata a queste confuse visioni,
l'eterna angosciosa sensazione che avrebbe potuto agire diversamente. Erano tutte cose già chiarite, per quel che
riguardava Hyacinth ma in quel momento ad agitare così tormentosamente Pinnie era il bisogno di pentirsi, di espiare
ancora. Lo nauseava constatare che per lei tutto questo fosse ancora una necessità, e chinandosi le mormorò
teneramente tutto quanto gli veniva alle labbra che potesse confortarla. Le disse di non pensare più a quel triste periodo,
così lontano ormai, che da tempo aveva cessato di avere qualunque incidenza per entrambi; di concentrarsi solo sul
futuro quando sarebbe ritornata sana e forte, e lui avrebbe avuto cura di lei e se la sarebbe tenuta con sé e l'avrebbe
accudita meglio - molto meglio di quanto non avesse fatto prima. Aveva pensato a tante cose, standosene lì accanto a
Pinnie, a guardare le ombre proiettate dalla lampada da notte - ombre alte, imponenti, di oggetti piccoli e bassi - e
seduto in mezzo ad esse, con la fantasia sbrigliata più che mai, aveva inseguito il pensiero delle probabili conseguenze
che lo avrebbero coinvolto se la sarta non lo avesse adottato da piccolo: il riformatorio, e il marciapiede, l'ignoranza e il
freddo, la sporcizia e l'accattonaggio, notti passate rannicchiato sotto i ponti o negli androni, i parassiti, la fame e le
percosse, forse anche il riaffiorare prepotente di una predisposizione ereditaria al delitto - queste cose che vedeva con
una lucidità senza precedenti gli si affollavano alla mente quasi fossero un suo corredo naturale. In tal caso, i rapporti
intimi con una principessa, le visite a belle, antiche dimore di campagna, perfino il meditato proposito dell'atto
terroristico contro le classi privilegiate, sarebbero stati ben lungi dalla sua portata; e l'intervento di Pinnie che lo aveva
salvato da quel destino mettendogli questi lussi a portata di mano assumeva l'aspetto del privilegio, non più del danno,
quando si avesse la magnanimità di riconoscerlo.
Gli occhi di lei erano aperti e lo fissavano, ma quel lampo penetrante che la piccola sarta aveva diretto verso
Lomax Place mentre, seduta alla finestra, lavorava d'ago, li aveva abbandonati completamente. «Là no... che ci farei, io,
là?» chiese a voce bassissima. «Con i nobili no, ... i nobili...» e le mancò la voce.
«Che vuoi dire? I nobili cosa?».
«Lo sai... lo sai...» continuò, facendo un altro sforzo. «Non sei stato con loro? Non ti hanno ricevuto?»
«Ah, non saranno loro ad allontanarci, Pinnie. Non s'intrometteranno fra noi fino a quel punto,» disse Hyacinth
cadendo in ginocchio presso il suo letto.
«Tu devi allontanarti... ne sarei felice. Lo sapevo che alla fine ti avrebbero trovato.»
«Povera Pinnie, povera Pinnie,» mormorò il giovane.
«È stato solo per questo... ora me ne vado,» sospirò.
«Se resterai con me non avrai ragione di temere,» le sorrise.
«Oh, che cosa penserebbero?» disse in tono querulo.
«Ma io preferisco te,» insistette lui.
«Mi hai avuta da sempre. Ora è il loro turno; hanno aspettato.»
«Sì, hanno proprio aspettato!» disse Hyacinth.
«Ma si faranno perdonare; si faranno perdonare ogni cosa!» ansimò la poveretta. Poi, con un ultimo sprazzo di
energia aggiunse: «Non potevo... non potevo fare altrimenti...» Non dette più segni di conoscenza e quattro giorni dopo
cessò di vivere. Hyacinth e Lady Aurora erano con lei, ma nessuno dei due se ne accorse, quando accadde.
Hyacinth e il signor Vetch sorressero la bara con l'aiuto di Eustache Poupin e di Paul Muniment. Al funerale
c'erano Lady Aurora e Madame Poupin e una ventina di vicini di Lomax Place, ma la persona più distinta - per lo meno
all'apparenza - tra tutti i presenti, fu Millicent Henning, che con la sua espressione grave e bella, il comportamento
dignitoso e la sobria eleganza del ricco tailleur nero, richiamò l'attenzione di tutti. Il signor Vetch che da quando
Hyacinth era tornato da Medley era andato perfezionando una sua idea fissa, tre giorni dopo la sepoltura di Pinnie si
decise ad esporla al suo giovane amico. Il funerale aveva avuto luogo un venerdì, e Hyacinth aveva detto che il lunedì
mattina sarebbe tornato dal vecchio Crook. Era la sera di domenica e Hyacinth era andato a fare una passeggiata tutto
solo, come ai vecchi tempi, senza né Millicent Henning, né Paul Muniment. Quando rincasò trovò il violinista che lo
aspettava e intanto smoccolava una candela di sego nella triste sala di prova. Aveva tre o quattro cartuccelle in mano,
che rivelavano i segni della sua scrittura, e Hyacinth indovinò, cosa vera ma non completamente, che era venuto a
parlargli d'affari. Pinnie aveva lasciato un piccolo testamento, e aveva incaricato il suo vecchio amico di farsene
esecutore; questo fatto era già noto al nostro eroe, che lo aveva considerato del tutto naturale. Il signor Vetch lo informò
del contenuto del semplice, assennato documento, e disse di aver dato un'occhiata agli «affari» della sarta.
Consistevano, gli affari della povera Pinnie, nella mobilia della casa di Lomax Place, nell'impegno di pagare il restante
quarto dell'affitto, e in una somma di denaro custodita nella Cassa di Risparmio. Hyacinth si sorprese nel sentire che le
economie di Pinnie fruttavano ancora dopo tanto tempo (le cose erano andate così male, per lei, negli ultimi anni, e
spesso erano rimasti senza denaro in casa) finché il signor Vetch gli ebbe spiegato con inequivoca chiarezza che si era
personalmente occupato di quel piccolo gruzzolo che lei aveva accumulato in tempi relativamente prosperi, decisa a
sacrificarlo soltanto in casi estremi. Il lavoro era diminuito, ma, quando arrivava, poteva ancora eseguirlo, e il denaro
doveva essere tenuto da parte nell'eventualità che rimanesse impedita. Provvidenzialmente era morta prima che quel
giorno arrivasse, e la sommetta in banca le era sopravvissuta, anche se ridotta a una metà. Gli unici debiti che lasciava
erano l'affitto di casa e le spese della malattia. Naturalmente il violinista era certo - si affrettò ad assicurare al suo
giovane amico - che qualora Pinnie fosse diventata invalida, avrebbe potuto contare completamente su di lui, in cambio
dell'assistenza che lei gli aveva dato in passato. Ma cosa sarebbe accaduto se a Hyacinth fosse successo qualcosa? Se
fosse incorso in qualche grave sanzione penale a causa delle sue mire rivoluzionarie che, per quanto poco dannose per
la società, in un paese dove l'autorità, anche se temperata, preferiva a volte dare punizioni esemplari, avrebbero potuto
farlo finire fra le mura di una prigione? Ad ogni modo, buona o cattiva che sarebbe stata la sua sorte, a furia di
economizzare, un po' qua e un po' là, era riuscita a metter via qualche risparmio, di cui una piccola parte, una volta
pagati tutti i conti, si sarebbe salvata. Lasciava tutto a Hyacinth - tutto, eccetto una coppia di candelabri placcati e il
vecchio chiffonnier che un tempo era stato così grazioso; queste cose Pinnie pregava il signor Vetch di accettarle in
segno di riconoscenza per tutti i preziosi servigi che le aveva reso. La mobilia, e tutto quello che non voleva conservare,
Hyacinth avrebbe potuto venderla in blocco, e col ricavato cancellare i vecchi rancori. Il denaro sarebbe rimasto a lui;
ammontava, una volta pagati i debiti, a circa trentasette sterline. Nel menzionare questa cifra il signor Vetch sembrava
sottintendere che Hyacinth sarebbe rimasto padrone di una bella sommetta. E anche al giovanotto - nonostante le sue
recenti esperienze, questo denaro piovuto dal cielo sembrò tutt'altro che disprezzabile; gli offriva, inaspettatamente, la
possibilità di non tornare subito a lavorare dal vecchio Crook. Questo, fin quando non si ricordò dei ripetuti prestiti del
violinista, e non si rese conto che, una volta saldate le pendenze, gli sarebbero rimaste a mala pena venti sterline. Anche
quella somma, comunque era molto di più di quanto avesse mai avuto in tasca tutto in una volta. Ringraziò il vecchio
per quanto gli aveva comunicato e commentò - e non c'era alcuna ipocrisia nelle sue parole - che si rammaricava che
Pinnie non si fosse goduta quella piccola fortuna, quando era ancora in vita. Ma il violinista replicò che quel pensiero le
aveva reso più di qualsiasi altro investimento; era certo infatti che non sarebbe vissuta abbastanza per goderla, e la
certezza della sua consistenza l'aveva fatta sognare riguardo all'effetto che avrebbe prodotto sul suo splendido ragazzo
quando fosse «sopraggiunto» per lui qualcosa di bello.
«Ma di che effetto parlava... che intendete?» chiese Hyacinth. Ma appena pronunciate quelle parole si accorse
di sapere già quello che il vecchio avrebbe detto - era stato un accenno alla convinzione di Pinnie che un giorno si
sarebbe riunito ai suoi «parenti» e le trentasette sterline gli avrebbero permesso di far bella figura e per un attimo il
signor Vetch lo guardò come se avesse sulle labbra quella precisa frase. Tuttavia, dopo un istante rispose in modo del
tutto diverso.
«Sperava che saresti andato all'estero per conoscere il mondo.» Il violinista guardò il suo giovane amico e
aggiunse: «Desiderava in modo particolare che andassi a Parigi.»
Hyacinth si era fatto pallido a quell'idea e per un poco non disse nulla. «Ah, Parigi!» gemette infine.
«Avrebbe voluto che facessi anche una scappata fino in Italia.»
«Sarebbe bello, senza dubbio, ma c'è un limite a quello che si può fare con venti sterline.»
«Che vuoi dire con venti sterline?» chiese il vecchio, sollevando le sopracciglia mentre le rughe della fronte, al
lume della candela, scavavano ombre profonde.
«È quanto rimane dopo che avrò regolato i conti con voi.»
«Che vuoi dire: i conti con me? Non prenderò certo il tuo denaro.»
Gli occhi di Hyacinth si soffermarono sulla eloquente trasandatezza del suo interlocutore. «Non vorrei essere
troppo scortese, ma supponiamo che tocchi a voi di rimanere senza risorse.»
«Mio caro ragazzo, mi rimarrà l'unica risorsa che restava a Pinnie: pretenderò che tu mi assista nella
vecchiaia.»
«Potrete farlo senza timore, tranne per il pericolo che avete menzionato poco fa - che venga messo in prigione
o finisca impiccato.»
«È proprio perché ritengo che, se vai all'estero, ci sia meno pericolo, che ti esorto a cogliere questa occasione.
Vedrai il mondo e ti piacerà di più. Capirai che la società, anche così com'è, ha qualche buona qualità,» disse il signor
Vetch.
«Non l'ho mai amata tanto quanto in questi ultimi mesi.»
«Ah, aspetta a vedere Parigi!»
«O Parigi Parigi,» ripeté Hyacinth stralunato, mentre guardava la fiammella torbida della candela quasi a
rintracciarvi splendide visioni: atteggiamento, voce ed espressione che il violinista interpretò come la vibrazione di una
segreta corda ereditaria e insieme il sintomo di un acuto senso opportunistico.

LIBRO QUARTO

Il boulevard era tutto animato, splendente di luci, popolato di gente disparata e allegra, coi suoi splendidi
negozi e caffè che si potevano vedere attraverso porte aperte o immensi cristalli lucidi, con gli sfarzosi atrii dei teatri e
le luci lampeggianti delle carrozze, il rumoreggiare compatto delle voci e dei passi, il fragore del piacere e della
prosperità, tutta la magnificenza di Parigi, in un perfetto pomeriggio di giugno. Hyacinth aveva camminato tutto il
giorno - aveva camminato dall'alba al tramonto tutti i giorni di quella settimana, da quando era arrivato - e ora era
assalito da una profonda stanchezza, da una tremenda apatia, che tuttavia non mancava di procurargli un senso di
piacere, per quella dolce sazietà; si sistemò allora su una sedia, a un tavolino del caffè Tortoni, non tanto per riposarsi
quanto per assaporare quella estenuata sensazione. Aveva tanto veduto, provato tante emozioni, imparato tanto, aveva
goduto, vibrato, riso e sospirato tanto durante quegli ultimi giorni che era cosciente del pericolo che minacciava il suo
equilibrio e della necessità di controllare le proprie finanze.
Questa sera si sarebbe fermato; si sarebbe semplicemente seduto all'aperto nel più elegante caffè di Parigi, a
tastarsi il polso e passare in rassegna le proprie impressioni. Aveva pensato di recarsi al Variétés che luccicava di luci
intermittenti attraverso il rado fogliame degli alberi cui poco giovava l'asfalto, dal lato opposto della grande arteria. Ma
l'impressione ricevuta a Chaumont - per il momento la accantonò; provava un senso di benessere pensando che gli
restava ancora tempo per vedere il succès du jour. Analoga sensazione gli venne dalla decisione di ordinarsi un
marquise, quando il cameriere con l'impeccabile sparato e le fedine che emergevano dal lungo cilindro bianco del
grembiule, venne a prendere l'ordinazione. Sapeva che si trattava di una bevanda costosa - lo aveva appreso quando
l'aveva sentita nominare per la prima volta la sera precedente, mentre sedeva in poltrona durante un entr'acte della
Comédie Française. Un signore vicino, un giovane in abito da sera, parlando con un conoscente della fila di dietro, gli
aveva consigliato di rinfrescarsi con quella bevanda di lusso, dopo lo spettacolo: non c'era nulla di meglio che si potesse
bere in una serata afosa, all'aria aperta. Il cameriere portò a Hyacinth un lungo calice di champagne, dove si scioglieva
un gelato di ananas, e il nostro eroe pensò che non si era aspettato di più, quando aveva cercato un tavolo libero sulla
terrazza del Tortoni. Pochissimi tavoli erano vuoti, ed era convinto che gli altri fossero tutti occupati da celebrità; ad
ogni modo era esattamente il genere di persone che si aspettava e che aveva sperato d'incontrare quando, a Lomax
Place, la straordinaria occasione (ancor più straordinaria del suo primo incontro con la Principessa) di andare all'estero
con le tasche piene di quattrini, era diventata una realtà. Conosceva l'esistenza del caffè Tortoni dallo studio della
narrativa francese, e mentre era seduto lì, provò la vaga sensazione di trovarsi a fraternizzare con Balzac e Alfred de
Musset: l'aria era piena di echi e reminiscenze delle loro opere, che si mescolavano alle indefinibili esalazioni, a quello
strano odore composito, metà gradevole metà mefitico, del boulevard. «Splendida Parigi, affascinante Parigi» - quel
ritornello, frammento di un'invocazione, preludio senza epilogo, risuonava, all'infinito, nelle orecchie di Hyacinth.
Uniche parole articolate a trovar sfogo in quell'inno di ammirazione tacitamente indirizzate alla capitale francese dal
primo momento del suo soggiorno. Riconobbe, salutò con mille e mille palpiti la città dei suoi antenati materni - era
fiero di far parte di tutta quella grandezza, di una tangibile civiltà che all'apparenza non aveva alcuna ruvidezza.
Provava, certo, anche qualche perplessità, o perfino, di tanto in tanto, una repulsione che non aveva previsto, come, ad
esempio, quando mise a fuoco che la città più brillante del mondo era anche la più macchiata di sangue; ma la
percezione di comprenderla e di amarla ebbe il sopravvento, e gli dette le ali... sembrò trasportarlo verso più vasti campi
del sapere, verso sensazioni ancora più sublimi.
In passato, a Londra, aveva ripetutamente pensato al padre di sua madre: l'orologiaio rivoluzionario che aveva
conosciuto l'estasi delle barricate e l'aveva pagata con la vita; e i suoi sogni ad occhi aperti non erano stati turbati
dall'esiguità delle sue informazioni. Se lo raffigurava, nella mente, questo mistico antenato, basso come lui e coi capelli
ricci, immensamente abile nel suo lavoro, e con un'innata disposizione all'eloquenza, oltre alle molteplici, affascinanti
caratteristiche dei Francesi. Ma era irrequieto e un po' pazzo, forse anche immorale; pieno di guai e debiti e passioni
incontrollabili; la sua vita era stata bruciata da una febbre incurabile e la tragica fine ne era stata la logica conseguenza.
Sarebbe stato però un incanto udirlo parlare, subire il contagio di un'allegria che neppure la follia politica poteva
smorzare perché suo nipote era convinto che parlasse un francese antico, delizioso e amabile nell'accento come nella
fraseologia, scevro dalle volgarità della lingua d'uso. Questo vago eppur vivido personaggio divenne il compagno
abituale del nostro giovane amico dal momento del suo arrivo. Si aggirava per le strade per mano al figlio di Florentine,
gli si sedeva di fronte, a pranzo, al tavolino del ristorante, scolava con lui la bottiglia, allungava un po' il conto... e gli
forniva un'infinità di notizie e consigli. Conosceva il segreto del giovanotto senza bisogno che gli fosse raccontato, e lo
guardava da sopra la minuscola tovaglia dove il grosso cubo di pane, spinto un poco da un lato, lasciava appena spazio
ai suoi gomiti - Hyacinth si meravigliava che la gente, a Parigi, avesse mai patito i morsi della fame quando le pagnotte
erano così grandi; lo scrutava con occhi colmi di profonda, gentile, luminosa comprensione, mentre le labbra
sembravano mormorare che se si deve morire domani è meglio mangiare e bere e gratificare tutti i sensi, il più possibile,
subito. Nulla di venerabile nessun'aria autorevole o inquisitoria in questa edificante, impalpabile presenza; il giovanotto
considerava Hyacinth e Vivier come se fosse partecipe della vita del proprio tempo, così da condividere agevolmente le
sue gioie e i suoi dolori. Dopo essersi ripetutamente chiesto dove poteva essere stata eretta la barricata sulla quale era
caduto il nonno, finalmente riuscì a soddisfare la propria curiosità - sebbene non mi sia possibile risalire il corso delle
sue induzioni - e a localizzarla nella Rue Saint-Honoré, vicinissima alla chiesa di Saint-Roch. I due avevano
vagabondato insieme per tutti i musei, i giardini e le principali chiese - il martire repubblicano si mostrò molto
condiscendente in proposito; per arcate e gallerie, su e giù per i grandi viali, attraverso ponti e soprattutto, spessissimo,
lungo il fiume, le cui banchine rappresentavano un divertimento senza fine per Hyacinth che indugiava per mezze ore
vicino alle cassette dei libri usati, poggiate sul parapetto, riempendosi le tasche di volumi da cinque soldi, mentre le
luminose fabbriche sulla Senna mandavano lampi e bagliori sotto di lui, e sulla riva opposta il glorioso Louvre si
protendeva sui due lati per un miglio. Il nostro giovanotto ricavò dal Louvre un piacere analogo a quello di un ospite
privilegiato, lo stesso che aveva provato nella povera Medley ormai dimenticata; s'ingolfò nel Museo per tutta una
giornata; non si saziava di guardare certi quadri, di ammirare lo splendore dei grandi pavimenti in cui si specchiavano i
soffitti affrescati. Tutta Parigi lo colpì come una città estremamente artistica e decorativa; gli sembrò di aver vissuto
fino allora in un mondo buio sciatto, filisteo, un mondo dove imperava il gusto del Little Peddlington, e dove il senso di
un ordinamento estetico non aveva mai avuto favore. Nella sua città ancestrale invece era esistito da sempre, e la sua
spiccata sensibilità lo raccoglieva e gli faceva mormorare costantemente quel ritornello, ogni volta che i grandi
monumenti lo obbligavano ad arrestarsi di colpo, annegati in quella luce argentea, perlacea, o quando li vedeva
trascolorare in delicate tonalità bluastre, nello sfondo di panorami monumentali. Gli sembrava che la città affermasse la
propria personalità e lo facesse con sommo stile, mentre Londra rimaneva incerta e sfocata, indefinita, opaca e anonima.
Davvero splendida Parigi, affascinante Parigi!
Eustache Poupin gli aveva dato lettere di presentazione per tre o quattro amici democratici, ardenti sostenitori
della questione sociale che in parte, per qualche miracolo, erano sfuggiti alla crudeltà dell'esilio, in parte avevano patito
l'oltraggio del condono: essi, a dispetto dei mouchards repubblicani, non meno infami di quelli imperiali, e nonostante i
periodici rigurgiti di un despotismo che aveva soltanto mutato i propri bottoni e sostituito i francobolli tenevano viva la
sacra scintilla che un giorno sarebbe divampata in una fiammata. Hyacinth però non aveva alcuna intenzione di
consegnare quelle lettere; le aveva accettate soltanto perché Poupin aveva provato una gioia solenne a scriverle e anche
perché non aveva avuto il coraggio di dire alla coppia di Lisson Grove che da quella terribile notte da Hoffendahl aveva
mutato animo nei confronti del suo sogno. Invece di concentrarsi maggiormente, si sentiva più disimpegnato, ed era
perciò insensato con questo disimpegno, andare ad eccitare gli amici di Poupin - uno dei quali abitava a Batignolles e
gli altri nel Faubourg Saint-Antoine - illudendoli di avere a cuore ciò che stava loro a cuore, e in pari misura. Per il
momento, gl'importava, sopra ogni altra cosa, non già il pensiero di come bisognasse distruggere la società che lo
circondava ma ben più quello delle cose eccellenti e preziose che aveva prodotto, dei monumenti pieni di bellezza e di
forza che aveva eretto. Che la distruzione l'attendesse era un'evidenza tangibile che sarebbe spettato a lui e agli altri
rendere manifesta; ma da quando la verità gli si era parata di fronte in tutta la sua grandezza, aveva avvertito il
mutamento, almeno parziale, dei suoi sentimenti; una reazione violenta, identica a quando aveva rivelato alla
Principessa di provare pietà per i ricchi, per coloro che erano considerati felici. Le ore trascorrevano mentre indugiava
ancora da Tortoni e per un attimo provò rimorso per non essersi messo in contatto con gli amici del povero Poupin, di
aver trascurato l'occasione di far conoscenza con persone leali.
E chi al mondo, pensandoci bene, era leale come lui, e aveva dato prova, sia pure segreta, di esserlo? Quel
pensiero bastava a farlo assolvere, di fronte a se stesso, anche se aveva passato il suo tempo cinicamente divertendosi,
fra teatri, musei e amene passeggiate. Non gli era venuto meno il sentimento che gli aveva fatto accettare
l'incoraggiamento del signor Vetch - quella sensazione per cui dal momento che era destinato a morire nel fiore degli
anni, era giusto si gettasse a capofitto nel meraviglioso, orribile mondo. Era una considerazione più che normale: strano,
invece, era il gesto del violinista, quel desiderio di far qualcosa per lui, spedirlo lontano. Più strano di tutto era che il
signor Vetch sembrava voler ignorare che il suo giovane amico, quell'anno, aveva già dissipato sufficientemente il suo
tempo - fatto certo assai raro nella vita degli artigiani londinesi. Questa fu una delle tante cose cui pensò Hyacinth; poi
pensò anche alle altre, in ordine e alla rinfusa; era forse la prima volta che era rimasto seduto tanto a lungo da aver
tempo di raccogliere le proprie idee. Centinaia di ricordi del recente passato gli si affollarono nella mente, e capì che in
quegli ultimi sei mesi aveva vissuto più intensamente che in tutto il resto della sua vita. Finalmente riuscì a metter
ordine nella successione degli avvenimenti e a riassaporare alcuni di quei rari, incomparabili momenti. Specialmente
l'ultima settimana a Medley aveva assunto ormai colori fiabeschi, era diventata l'eco di una canzone; la poteva rileggere
come una novella rilegata in pergamena e oro, osservarla come avrebbe guardato un quadro di squisita fattura. Il
soggiorno era stato perfetto, fino all'ultimo, e neppure i tre giorni compromessi dalla presenza di Sholto erano riusciti a
romperne l'incanto, perché i tre che seguirono prima della sua partenza - la Principessa stessa ne aveva dato il segnale -
furono i più importanti. Allora aveva compreso chiaramente che lei era sincera, pronta all'estremo sacrificio. Sentì che
era ormai la propria pietra di paragone, guida, metro di misura, eterno riferimento; e prendendo possesso della sua
mente in così alto grado, lei l'aveva totalmente rinnovata. Era una dimensione del tutto nuova, ed ora che si trovava in
un paese straniero notò quanto la conversazione di lei, straniera anch'essa, lo avesse preparato a comprenderlo. A Parigi
vide moltissime donne, e le notò quasi tutte - specialmente le attrici; internamente paragonando i loro movimenti,
linguaggio, abbigliamento, con quelli della sua eccezionale amica. La considerò al di sopra di loro sotto tutti i punti di
vista, anche se una o due attrici sembravano aver l'aria di copiarla.
Il ricordo di quegli ultimi giorni trascorsi con lei lo toccava ora come il contatto di una guancia bagnata di
lacrime. Negli ultimi momenti d'intimità, straordinariamente ricchi di rivelazioni, aveva versato lacrime per lui, ed egli
sospettava che si proponesse di impedire il compimento del voto fatto a Hoffendhal e alla sconfinata organizzazione che
Hoffendahl rappresentava. Aveva finto di accettarlo, e si era limitata ad affermare che quando egli avesse recitato la sua
parte si sarebbe prodigata per salvarlo - avvolgendolo con una nube come la dea madre dell'eroe troiano era solita
escamoter Enea, nel poema di Virgilio. La sua intenzione era, invece, d'impedirgli di recitare la parte. Era sincera per
quanto riguardava se stessa, non lui. La conseguenza più importante del loro legame in cui lei, senza mai abbassarsi, lo
aveva portato in qualche modo sempre più in alto, fino al culmine massimo, era stata l'acquisizione della
consapevolezza di essere all'altezza di qualunque cosa. Quando, l'ultimo giorno, le aveva chiesto se avrebbe potuto
scriverle, gli aveva risposto di sì, fra due o tre settimane. Le aveva scritto della morte di Pinnie e poi, di nuovo, poco
prima di partire; e lo aveva fatto tenendo conto dei suoi desideri, a proposito della loro corrispondenza - non voleva né
frasi vaghe né proteste d'affetto né complimenti; voleva sapere tutto della sua vita, fino ai minimi, più «gelosi» dettagli.
Così le aveva raccontato tutta la storia dello smantellamento di Lomax Place, compresa la vendita della mobilia e di
altri oggetti similmente orribili. Le aveva detto quanto ne aveva ricavato - una cifra miserabile, ma sufficiente per
cominciare a pagare qualche debito, e le aveva inoltre raccontato che uno dei sistemi adottati dal signor Vetch per
spedirlo in tutta fretta a Parigi era stato di mettergli in mano trenta sterline attinte alla sua piccola scorta, per arrotondare
la somma ereditata da Pinnie - somma destinata unicamente a quella escursione, anche se nessuno degli amici di
Hyacinth l'avrebbe considerata misera, e neppure rispettabile. Le fece osservare inoltre che aveva finito per accettare le
trenta sterline perché purtroppo la sua particolare situazione - lei avrebbe capito a cosa alludeva - portava a un
rilassamento del senso della dignità, e tentava gli individui ad afferrare quanto più potevano rendendoli tolleranti verso i
propri capricci quando si presentavano come conforti.
Quello che non disse alla sua luminosa amica fu il modo in cui Paul Muniment e Millicent Henning lo avevano
accolto al suo ritorno da Medley. L'accoglienza di Millicent era stata delle più strane, inaspettatamente calma, non gli
aveva fatto scenate e sembrava aver perso l'abitudine di coprire il proprio agire equivoco con aggressive rimostranze.
Sembrava contenta che si fosse introdotto fra i ricchi, apprezzava tanto il successo che era portata a trattarlo con
maggiore tenerezza, ora che egli lo aveva raggiunto. Tentò di farsi raccontare il tenore di vita che si conduceva in una
casa dove s'invitava la gente senza richiesta di pagamento, e lo sorprese e consolò che non si abbandonasse alle sue
vecchie punzecchiature contro la Principessa. Si lasciò andare invece a una quantità di esclamazioni quando rispose ad
alcune domande - esclamazioni che avevano tutto il sapore di Pimlico: «To', guarda un po'!» e «Oh, per la miseria!» - e
incorse più che mai nell'odioso intercalare. «Già, proprio così,» surrogato consueto di una risposta intelligente e solidale
a quello che lui diceva. Ma non ironizzò sulle prerogative della Principessa; anzi, tenne a freno il suo scherno anche
quando se ne presentava l'occasione. Hyacinth valutò che era stata una mossa felice, da parte sua, non l'avrebbe
sopportata (nervoso e preoccupato com'era per Pinnie) se avesse avuto il cattivo gusto di comportarsi volgarmente e con
impertinenza, in un momento simile. In quello stato di tensione avrebbe rotto ogni rapporto con lei per sempre - ne
sarebbe rimasto disgustato. Gli dava già abbastanza fastidio la volgarità del suo modo di parlare. Due o tre strafalcioni
in particolare gliela rendevano più sgradita di quanto ne valesse la pena - come quando diceva "ripieno" invece di
"pieno" "svenduto" invece di "venduto" o quando osservò che lui ormai avrebbe "dato un calcio" al suo lavoro da
Crook. Era come se si aspettasse di sentirla parlare meglio delle signore «bene». In ogni caso, queste frasi le aveva
sentite molte volte in passato, eppure oggi riteneva che valesse la pena litigarci sopra, tanto gli sembravano
imperdonabili. Non che avesse voglia di litigare, perché se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe dovuto ammettere
che la sua relazione intima con la Principessa faceva ormai cadere qualsiasi possibile rivendicazione su Millicent.
Millicent fu, comunque, un modello di discrezione; era evidente che mirava a convincerlo della reciproca opportunità di
rispettare ognuno la libertà dell'altro. Miss Henning desiderava essenzialmente arrivare a un accordo su questo punto, e
Hyacinth s'impedì d'indagare sull'uso che lei intendeva fare della sua libertà. L'aveva vista spesso, dopo la morte di
Pinnie, nel mese che aveva preceduto la sua partenza per Parigi, perché il rispetto della reciproca indipendenza, in
qualche modo, non aveva significato la fine del loro rapporto, e del resto era normale che in quel momento doloroso lei
fosse tenera. I sentimenti di Hyacinth nei confronti di Pinnie erano molto profondi, e Millicent fu così intelligente da
capirlo; per conseguenza in quell'occasione si mostrò decisamente dolce. Gli parlò quasi come fosse stata una madre, e
lui un bambino convalescente: lo chiamava il suo carissimo caro, il suo prezioso piccolo mascalzone, il suo vecchio
ragazzo; moraleggiò abbondantemente, si astenne dal bere birra (finché seppe che aveva ereditato una fortuna); e
quando una volta lui le disse (moraleggiando un poco a sua volta) che dopo la morte di una persona amata siamo assaliti
dal ricordo di tutte le volte in cui abbiamo mancato di gentilezza, di generosità, lei replicò, con una dignità che rese le
parole quasi complementari all'atteggiamento filosofico: «Già, proprio così!»
C'era qualcosa nel comportamento di lei, in quel periodo, che indusse Hyacinth a chiedersi perfino se nel
proprio aspetto non ci fosse qualche mistica emanazione, o anche se qualche segno sul suo viso non tradisse per caso la
situazione in cui si trovava grazie a Diedrich Hoffendahl; cominciò a sospettare di nuovo l'operato di quel «dannato
attendrissement» che da tempo aveva notato in coloro che avevano usufruito delle allusioni di Miss Pynsent. La pietà
che Millicent gli riservava non rientrava nelle ragioni della sua simpatia per lei; e per di più era stata sempre mitigata
dalla propria abilità a renderla furibonda. Quella sera, sul boulevard, mentre guardava gli infiniti volti che gli si
susseguivano davanti, gli balenò fra gli altri il pensiero che era strano come lei potesse piacergli, perfino ora, perché,
dio solo sapeva se gli piaceva tanto di più la Principessa, e finora aveva sempre creduto che quando un sentimento del
genere ti si metteva dentro, scacciava via ogni altro interesse minore. Ma si rendeva conto che lei esisteva ancora come
una presenza prepotentemente femminile, e che non si sentiva di averla liquidata, come del resto era accaduto a lei, e
che nonostante tutte le cose che ora aveva da ammirare, era sempre un conforto ricordare la sua robusta bellezza e la sua
notevole intemperanza. Hyacinth pensava a lei allo stesso modo di un giovane barbaro dei tempi antichi che avesse fatto
un viaggio a Roma pensando alla sua amante dacia o iberica in attesa del suo ritorno su qualche frastagliata costa della
provincia. Se Millicent considerava la visita di Hyacinth a una «lussuosa dimora» la prova del successo che lo attendeva
- Hyacinth avrebbe avuto qualche difficoltà a spiegare in che modo riuscisse a conciliare questo atteggiamento di
Millicent con l'altro da lui attribuitole: che cioè avesse intravisto tra i suoi capelli ricciuti una corona spettrale, quasi un
sinistro segno del destino, l'aureola del martirio - se Miss Henning, al suo ritorno da Medley aveva pensato che fosse
passato dalla parte vincente, era logico che il viaggio le apparisse come un ulteriore fatto prestigioso; e infatti quando
Hyacinth stava per partire, parlò di questo suo fruire di una prerogativa delle classi ricche, come se avesse ideato lei il
viaggio, e vi avesse contribuito materialmente con i fondi necessari. Fin dall'inizio aveva affermato che le piaceva solo
la gente di spirito, e Hyacinth non ne aveva mostrato mai tanto come quando se ne andò «all'estero» munito, secondo la
moda dei bei tempi del signor Vetch, di una cappelliera. Hyacinth si ripeteva senza amarezza che naturalmente in sua
assenza la relazione con Sholto avrebbe prosperato sopra un terreno più facile; e tuttavia in quel momento il suo remoto
volto inglese che trionfava sulle livide facce parigine lì attorno, inspiegabilmente non era offuscato dall'ombra di quel
gentiluomo. Era forse la luce luminosa di Parigi che gli faceva vedere le cose con più chiarezza, ad ogni modo si ricordò
intenerito di qualcosa detta da lei l'ultima volta che si erano visti, che lo aveva profondamente commosso. Hyacinth le
aveva fatto affettuosamente osservare che ora che Miss Pynsent non c'era più, lei era, ad eccezione del signor Vetch, la
persona che lo aveva conosciuto da più tempo tra tutte quelle della sua cerchia. E Millicent aveva replicato che il signor
Vetch non sarebbe vissuto in eterno, e che allora lei avrebbe avuto la soddisfazione di essere la sua più vecchia amica.
«Oh, per questo, neanch'io vivrò in eterno,» aveva detto Hyacinth, e lei gli aveva chiesto se per caso non fosse debole di
polmoni. «No, per quanto mi risulta, no; ma potrei essere fatto a pezzi in un disordine;» e quando lei prese a beffarlo per
la sua stupida mania di mandar tutto all'aria - come se importassero a qualcuno le richieste dei venditori ambulanti o di
gente tipo quella della East End! - lui si mise a chiederle se fosse soddisfatta di come andava il mondo e se ritenesse che
non si doveva far nulla per quelli che, al termine di una vita di sfruttamento, come unica ricompensa finivano all'ospizio
e nella fossa comune.
«Non m'importerebbe niente di tutto ciò se dovessi essere tu il capro espiatorio,» aveva risposto con semplicità
guardandolo col suo bellissimo sguardo fiero. Poi aveva aggiunto: «Posso dirti soltanto, signor Robinson, che se mai
qualcuno dovesse farti qualche torto...!» e si era interrotta di nuovo, gettando la testa all'indietro, come l'avesse cinta
dalle piume di una capotribù, mentre Hyacinth le chiedeva cosa avrebbe fatto in un caso simile. «Beh, una resterebbe a
prendere la cosa nelle sue mani,» aveva annunciato e il tono era stato chiaro e spavaldo. Gli sembrò uno strano destino -
sebbene non più strano delle circostanze della sua nascita, che il proprio ricordo dovesse venire perpetuato da una
commessa, carica di braccialetti di finto argento, ma poi rammentò che Millicent era uno splendido esemplare di donna,
agli antipodi delle femminucce querule, e che il suo temperamento esuberante e indipendente, annullava molte disparità.

II

D'altro lato neppure l'intensa vita parigina ebbe il potere di trasfigurare l'impressione lasciatagli dagli scambi
d'idee con Paul Muniment, durante le settimane che seguirono la morte di Pinnie - una impressione molto più grave di
qualsiasi desiderio di rinuncia o di oblio che potesse collegare a Millicent. Non era affatto chiaro perché fossero stati
improntati a tanta tristezza. La voce di Muniment era stata più che mai chiara nell'associarsi all'approvazione generale
per il progetto del giovane di concedersi il più caratteristico svago della gente ricca - un incoraggiamento talmente
unanime da rendere quasi ridicolo quel suo viaggio a Parigi. Che mai gli era preso, a tutti... pensavano che non fosse
capace d'altro che di divertirsi? Il signor Vetch era stato il più entusiasta, ma anche gli altri gli avevano dato pacche
sulle spalle, proprio come aveva visto fare ai compagni di Soho quando si veniva a sapere che la loro «signora» li aveva
resi ancora una volta padri. Poupin aveva usato lo stesso tono, e così pure sua moglie, e perfino il povero Schinkel, con
la sua eterna benda, aveva sentito il bisogno, quando si erano incontrati a Lisson Grove, di osservare che una piccola
puntata al di là del Reno, giacché c'era, gli avrebbe aperto gli occhi su grandi meraviglie. I Poupin versarono lacrime di
gioia, e le lettere che ho già menzionato e che erano rimaste sulla mensola del caminetto della stanzetta occupata dal
nostro eroe, in un hotel-garnì altissimo e un po' sbilenco nella rue Jacob (un indirizzo fornito anche quello da Lisson
Grove, perché il garnì era retto da un cugino in secondo grado di Madame Eustache), questi preziosi documenti erano
stati approntati dal servizievole esiliato, giorni e giorni prima che il suo giovane amico fosse pronto a partire. Fu quasi
un sollievo per Hyacinth sentirsi dire dal vecchio Crook - l'unico sincero dissenziente - che era un cretino a regalare i
soldi a quegli schifosi francesi. Il degno datore di lavoro era rimasto disgustato da quella novità; se aveva voglia di una
vacanza, perché non se la prendeva, come si era sempre fatto a Soho, da tempi immemorabili, facendo una gita a
Brighton o prendendosi una sbornia di due o tre giorni? Il vecchio Crook aveva ragione. Hyacinth ammise di essere un
cretino e provò un po' di disagio a non saper spiegare perché non cercasse di non esserlo, e perché si ritenesse in diritto
di richiedere quella vacanza.
Paul, naturalmente, ne aveva capito il motivo; e il suo sorriso di approvazione era di un candore che provocò a
Hyacinth una strana, inesprimibile stretta al cuore. Sapeva già che il suo amico l'aveva sempre considerato un
personaggio decorativo, capace solo di blande manifestazioni dell'impegno sovversivo, in una parola buono unicamente
a dimostrare che la rivoluzione non era, necessariamente, una prerogativa dei violenti e degli ignoranti; ma di fronte
all'allegro stoicismo con il quale Muniment accettava il sacrificio cui si era votato il nostro eroe questi aveva ritenuto
necessario rivedere completamente la primitiva opinione che si era fatta del carattere del suo vigoroso amico. Il risultato
non fu una perdita dell'ammirazione ma l'insorgere di una sorta di terrore. Fin dall'inizio aveva apprezzato Muniment
anche per l'inflessibilità del suo carattere, ma ora gli sembrava che sotto il peso di quel che sapeva, mostrasse una
coerenza sublime. Hyacinth sentiva che, personalmente, non sarebbe mai stato capace di tanto. Era in grado di accettare
il duro incarico di Hoffendahl e di mandarlo in porto; ma non avrebbe mai provato la stessa fermezza nei riguardi di un
altro, non si sarebbe mai potuto svincolare dai propri sentimenti al punto da spingere verso quel terribile «lavoro» un
esserino a cui apparentemente fosse affezionato. Che Muniment avesse dell'affetto per lui non aveva mai pensato di
metterlo in dubbio. Ne aveva tutta l'aria anche quel giorno; non era stato mai tanto amabile, più serenamente loquace; si
comportava come un fratello maggiore consapevole che il «più piccolo» è un ragazzo intelligente, e si compiace della
cosa anche se non c'è nessuno, lì intorno, ad ammirarlo. Quella momentanea tendenza ad interrompere il loro rapporto,
quando si trovavano al «Sole e Luna», non si ripeteva mai altrove; ad Audley Court, talvolta si limitava a rimproverare
il suo giovane amico di prenderlo troppo sul serio. Ma oggi, quel suo fedele ammiratore, non sapeva proprio cosa
pensare: l'episodio che aveva al centro la figura di Hoffendahl, per quanto se ne poteva giudicare, aveva inciso ben poco
nel suo atteggiamento. Per essere un servitore leale - un agente efficiente - era straordinariamente limpido, la
deplorazione e l'accusa si posavano molto raramente sulle sue labbra. La critica di tutto - dal momento che tutto era
sbagliato - gli assorbiva un tempo ben irrilevante. Sembrava quasi vergognoso di lamentarsi, e infatti, quanto a sé, col
passare dei mesi gli restavano ben poche ragioni di lamentele. Aveva avuto un aumento alla fabbrica di prodotti chimici
e stava prendendo in seria considerazione l'eventualità di cercare una stanza più ampia per Rosy. Quando parlava in
difesa degli altri, non assumeva mai un tono patetico - lo considerava poco professionale. E la sua massima denuncia
dei guai dell'umanità era l'allusione, di tanto in tanto, a certe statistiche, certi «dati» che riguardavano le paghe, le
domande di assunzione e la riduzione della mano d'opera. Era particolarmente versato in quel settore, e si muoveva
agilmente nell'aria rarefatta delle cifre e dei dati scientifici dove Hyacinth aveva difficoltà a seguirlo, tanto gli sembrava
asfittica. Per quanto semplice e buono, sensibile alla sofferenza degli animali, pietoso e rispettoso verso gli insetti, e
maniaco di sbaciucchiare gli sporchi ragazzini di Audley Court, il bagliore fulmineo e sarcastico degli occhi tradiva
talvolta la scarsa stima che nutriva per i poveri, rivelando come, senza farsi illusioni su chi si accaparrava ogni cosa, ne
coltivava ancor meno su quelli che non lo facevano. Era dotato di un enorme buon senso, ed era questa la ragione
principale dell'ammirazione di Hyacinth, che pur aspirando al possesso di quella qualità, trovava difficile conquistarla.
L'assenza di passionalità nel carattere di Muniment, la sua smagliante freddezza, la sua competenza disinvolta
e precisa, quel suo mantenersi lindo (tranne per quelle tenui macchie di medicinali sulle mani) anche in ambienti
sporchi, rappresentavano un insieme di qualità che al suo ammiratore erano sempre sembrate particolarmente
invidiabili. La più invidiabile di tutte era la forza d'animo che gli permetteva di mettere da parte i propri sentimenti a
vantaggio del bene pubblico, pur dando l'impressione di avere a cuore anche quelli. Il nostro amico pensava che se fosse
stato lui a presentare a Hoffendahl un giovane adatto al suo scopo, e Hoffendahl lo avesse accettato fidandosi di lui e
sistemando così la faccenda, personalmente avrebbe preferito non rivedere più quel giovanotto. Era questa la sua
debolezza, mentre Paul si era comportato ben diversamente. Va aggiunto che non aveva fatto nessun accenno alla loro
visita al grande organizzatore così che anche Hyacinth, per puro orgoglio, aveva tenuto la lingua a freno sull'argomento.
Se il suo amico, di proposito, rifiutava di angustiarsi per lui, non sarebbe andato certamente a sollecitarlo (tanto più che
non lo avrebbe neanche voluto), riportandolo impazientemente sulla questione. Dapprima rimase sorpreso della
disponibilità di Muniment a prendere in considerazione l'ipotesi di un assassinio; ma dopo tutto era un uomo dalle
ampie vedute (si aveva quasi l'impressione che maturasse in continuazione nuove idee) e se un colpo di pistola era
quello che ci voleva, non era certo tipo da sollevare pedanti obiezioni. È vero che, per quanto riguardava la sua
tranquilla accettazione di quanto poteva accadere a Hyacinth, il nostro giovanotto gli aveva accordato il beneficio del
dubbio pensando che forse Muniment aveva buone ragioni di credere che non si sarebbe mai arrivati a quegli estremi e
che si stava soltanto prendendo lo sfizio di vedere fino a che punto il coraggio del piccolo rilegatore avrebbe retto. Ma
allora perché si era tanto interessato al viaggio a Parigi del piccolo rilegatore? Paul non se ne sarebbe curato affatto se
fosse stato convinto che non c'era nulla da temere. Disprezzava l'ozio, e nonostante l'indulgenza che più di una volta
aveva generosamente mostrata verso il serpeggiante amore per gli agi dell'amico, il massimo che avrebbe detto, in
questa circostanza sarebbe stato: «A Parigi? Al diavolo! Non ti sei già pasciuto abbastanza, non te la sei spassata
abbastanza là in campagna con la tua nobildonna, non ti pare che faresti meglio a riprendere in mano i tuoi arnesi prima
di scordarti come si usano?» Rosy aveva avuto un'uscita simile apostrofandolo con disinvolta familiarità - qualunque
fossero le sue intenzioni era stata solo un poco meno caustica di Crook. Aveva detto che il signor Robinson amava la
vita comoda, lussuosa, proprio come lei, e si congratulava di vedere che aveva i mezzi e il tempo per concedersela. Oh,
il tempo... quella sì era una cosa grande! Parlava con conoscenza di causa, perché ne aveva personalmente goduto i
vantaggi. E fece intendere - o si sbagliava? - che la fortuna di Hyacinth emulava la propria anche nel fatto di avere una
illustre, benefica amica (una vera benedizione per lui, ora che aveva perso la cara Miss Pynsent) che lo ricopriva di
piccole attenzioni. Rose Muniment, in una parola, era stata più esasperante che mai.
Col passare delle ore il boulevard era divenuto ancora più animato e Hyacinth si domandò se non fosse
sconveniente occupare per tante ore il tavolo. Sul lato opposto, il teatro rovesciava la sua folla; la gente si infittì sulla
larga area asfaltata e sulla terrazza del caffè; signori distinti accompagnati da signore che sapeva già come catalogare -
des femmes très chic - entravano dalle portiere del Tortoni. Il profumo notturno di Parigi sembrava farsi più intenso, e si
librava nell'aria rimanendovi sospeso, mescolato alle luci infinite e ai molteplici suoni, fino a dissolversi sotto forma di
mille diverse sollecitazioni e opportunità, rivolte, tuttavia, in prevalenza, a coloro nelle cui tasche tintinnava un poco
d'oro spiccio. Le elucubrazioni avevano reso Hyacinth tutt'altro che torpido, al contrario: si ritrovò irrequieto ed
eccitato, e una specie di dolce strazio del luogo e dell'ora gli penetrò nelle vene. Ma era circa mezzanotte e si alzò per
avviarsi verso casa, in direzione della Madeleine. Passò per la rue Royale, dove, al confronto, regnava una certa quiete;
e quando raggiunse place de la Concorde per traversare il ponte di fronte al Corps Législatif si ritrovò quasi solo. Si era
lasciato dietro quello sciame umano e gli affollati marciapiedi, e la splendida piazza era lì, silenziosa, sotto le stelle
d'estate, in tutta la sua ampiezza. Si poteva udire lo scroscio delle grandi fontane e il fruscio del boschetto delle
Tuileries mosso dal vento, da un lato, e della indistinta distesa degli Champs Elysées, dall'altro. Tutto quel quartiere - la
place Louis Quinze, la place de la Révolution - gli aveva procurato dal giorno del suo arrivo una forte emozione; subito
aveva ritrovato il suo imperioso senso storico. In rapida visione gli era sembrato di vedere la ghigliottina al centro, dalla
parte dell'indecifrabile obelisco; le carrette dei condannati, con le vittime in attesa, erano situate intorno al cerchio oggi
reso maestoso dai monumenti delle città di Francia. La grande leggenda della rivoluzione francese, un sole che si leva
da un mare di sangue era più reale qui che in qualunque altro luogo; e stranamente non erano presenti turpitudini né
orrori, ma la sua meravigliosa forza, il suo spirito rigeneratore, non distruttivo. L'ombra del passato era cancellata dalla
moderna bellezza della fontana e della statua, dalla maestosa prospettiva e dalla composizione; e mentre indugiava,
prima di traversare la Senna, lo invase una strana sensazione che gli fece battere il cuore fino a sentirsi mancare... la
sensazione di tutte le cose che lo tenevano legato alla terra, la dolcezza del non morire, il fascino delle grandi città, la
gioia del viaggiare e della scoperta, la magnanimità dell'ammirazione. Le lacrime gli salirono agli occhi, come era
accaduto più volte negli ultimi sei mesi, e una domanda profonda ma urgente gli corse alle labbra, per concludersi nel
nulla: «Come aveva potuto... come aveva potuto?». Forse questo «aveva» era rivolto a Paul Muniment; nasceva da
quell'aver vagheggiato la santità dell'amicizia.
Tre settimane dopo si trovava a Venezia, e inviava alla principessa Casamassima una lettera di cui riproduco i
punti più importanti:
«Questa è forse l'ultima volta che vi scrivo prima di tornare a Londra. Naturalmente voi siete stata in questo
luogo e potete facilmente comprendere perché qui, e soprattutto qui mi senta spinto a scrivervi. Cara Principessa, che
città incantevole, che impressioni ineffabili, che scoperta del sublime! Ho una stanza in un campiello davanti a una
vecchia chiesetta, con la facciata ricoperta di lastre di marmo incrinate e fra le incrinature crescono piccoli delicati fiori
selvatici di cui non conosco il nome. Sulla porta della chiesa c'è una vecchia tenda di pelle malandata, lucida e scura,
erta come un materasso e impunturata coi bottoni, come un sofà, e sbatte di qua e di là pesantemente, quando le donne e
le fanciulle, con gli scialli in testa e zoccoletti ai piedi, entrano ed escono. In mezzo al campo, una fontana che sembra
ancora più vecchia della chiesa, con un'aria primitiva, barbarica; ho idea che sia stata messa lì dai primi coloni - giunti a
Venezia dalla terraferma, da Aquileia. Notate quante notizie storiche ho già assorbito? Ma non vi sorprenderà, perché
non vi stupite più di nulla da quando avete scoperto che conosco un po' di Schopenhauer. Vi assicuro che di questi
tempi non penso affatto a quel tetro misogino, anzi, rivolgo sguardi interessati alle donne e alle fanciulle di cui vi ho
detto, che, con le loro brocche di rame antiche scivolano con un piccolo scalpitio verso la fontana. Il volto delle
veneziane è meravigliosamente dolce, e quando il loro pallido, mesto ovale (sembrano tutte malnutrite) è incorniciato
dal vecchio scialle scolorito, l'effetto è suggestivo. Hanno anche capelli incredibilmente attraenti, senza l'ombra di un
ricciolo, e sgusciano via a braccetto, a coppie o a gruppi di tre, senza mai guardarti negli occhi - così che gli sguardi
interessati vanno a vuoto - vestite di abiti leggeri di cotonina da poco prezzo, le cui pieghe lente formano quelle stesse
incantevoli linee che si ritrovano ovunque, in Italia. Il tempo è splendido e mi sento rosolato, ma mi piace;
evidentemente ero fatto per essere messo allo spiedo e «ben cotto» e scopro che ho avuto freddo per tutta la vita, anche
quando credevo di sentir caldo. Non ho visto nessuna di quelle bellezze patrizie che posavano per i grandi pittori -
creature stupende dai capelli d'oro intrecciati di perle - ma sto studiando l'italiano per poter parlare con le ciabattanti,
scalpitanti donzelle che lavorano nelle fabbriche di collane - sono deciso a farmi guardare in faccia per lo meno da una
o due di loro. Quando hanno riempito le vecchie brocche alla fontana, è divertente vedere come se le mettono in bilico
sulla testa e sgambettano via sopra le lustre pietre veneziane. È stupendo ritrovarsi in un paese dove le donne non
portano quelle odiose cuffiette inglesi. Perfino fra la gente della mia razza - perdonate l'espressione, ricordo che vi
offendeva - non ho mai conosciuto a Londra una giovane donna che mettesse il naso fuori di casa senza indossarne una;
e se aveste frequentato quel tipo di donne, come ho fatto io, sapreste a quali abissi di degradazione estetica possa
condurle quella malinconica consuetudine. Il pavimento della mia stanza è fatto di piccole mattonelle, e per rinfrescare
l'aria, in questa calura, lo si spruzza d'acqua, cosa che saprete di certo. A furia di spruzzarlo, finirò per nuotarci dentro.
Le imposte verdi sono chiuse e la stanza sembra un acquario. Dalle stecche entra la calda luce del campo. Interrompo
ogni tanto la scrittura per fumarmi una sigaretta e stendermi sul divano cremisi sbiadito. A portata di mano, le opere di
Leopardi e un dizionario usato. Sono molto felice - felice come non sono mai stato in vita mia, ad eccezione di Medley -
e non mi curo d'altro che del presente. Non durerà molto, perché sto spendendo tutto. Quando avrò terminato di
scrivervi, me ne andrò a vagabondare in questo splendido pomeriggio veneziano; e passerò la sera nell'incantevole
piazza San Marco che assomiglia a un immenso salotto all'aperto, ascoltando la musica e sentendo la brezza marina
sfiorare le due strane, vecchie colonne della piazzetta che sembrano farle da portale. È difficile credere che è di me che
sto parlando. Mi ripeto una dozzina di volte al giorno che Hyacinth Robinson non c'entra in tutto questo, e mi pizzico la
gamba per accertarmi che non sto sognando. Ma di qui a poco, quando avrò ripreso ad esercitare la mia professione
nella dolce Soho, allora toccherò con mano che si trattava proprio di me: lo capirò all'impatto con la dura realtà
quotidiana e con la penitenza che mi aspetta.
Questo, senza dubbio, equivale ad ammettere che sono profondamente demoralizzato. Ma in questo caso non
sarete voi a tirarmi la pietra addosso; perché la mia depressione ha avuto inizio dal primo momento che vi ho incontrata.
Può darsi che io vi abbia fatto del bene, ma voi non me ne avete fatto molto. Mi auguro che non travisiate il significato
delle mie parole e non vi suonino audaci e impertinenti. Può darsi che io vi abbia aiutata a capire e a compenetrarvi
delle miserie della povera gente - sebbene dichiari di saperne poco io stesso - ; ma voi avete guidato la mia
immaginazione per un binario assai diverso. Non pretendo con questo di dire che sia tutta colpa vostra se nelle mie
recenti avventure ho perso completamente di vista la sacra causa. E non posso neppure dire che non fosse lì presente,
perché è forse questo il risultato ovvio cui approdiamo quando si allarghi il nostro orizzonte - la constatazione, sempre
più vasta man mano che andiamo avanti, che l'indigenza, i travagli e le sofferenze sono il costante bagaglio della
stragrande maggioranza degli esseri umani. Li ho trovati ovunque, ma non ci ho dato peso. Perdonate il cinismo di
questa confessione. Quello che mi ha colpito sono le grandi conquiste di cui l'uomo è stato capace - splendidi retaggi di
pochi privilegiati, ai quali, senza dubbio, hanno contribuito in parte i molti miserabili. Il volto dell'Europa ne appare
coperto, e hanno attratto tutta la mia attenzione. Mi sembrano preziose e indicibilmente belle, ma ho preso più che mai
coscienza di quanto poco sappia di ciò che voi e Poupin intendiate farne, nell'ambito della grande rettifica.
Cara Principessa, ci sono cose che mi dispiacerebbe che perfino voi toccaste, sì, perfino voi, con le vostre mani
divine; e, se posso rivelarvi le fond de ma pensée, come solevate dire - mi sento capace di difenderle con le mie stesse
mani. Non dovete definirmi un traditore, perché sapete che considero il mio impegno assolutamente immutabile. I
monumenti e i tesori d'arte, i grandi palazzi e le grandi tenute, le conquiste della scienza e dell'estetica, tutta la vasta
fabbrica della civiltà quale noi la conosciamo, basata, se volete, sul despotismo, sulla crudeltà, le discriminazioni, i
monopoli e la rapacità del passato, ma grazie ai quali il mondo non è soltanto una «dannata turlupinatura» e la vita
meno triste - mi sembra che il nostro amico Hoffendahl la consideri di poco conto e voglia sostituirla con qualcosa in
cui, non so perché, non riesco a credere, mentre credo in tutto quello che è costato lacrime e sacrifici a intere
generazioni. Sapete bene che grande stima abbia di Hoffendahl - per non parlare di altri; ma una cosa è soprattutto certa;
che non proverebbe nulla per questa incomparabile, abominevole vecchia Venezia. Taglierebbe a striscioline i soffitti
del Veronese, perché ognuno ne potesse avere un pezzo. Io voglio che nessuno abbia un pezzo di niente, e ho un vero
orrore per quel genere d'irritante gelosia che è alla base del sistema di ridistribuzione. Direte che vi parlo così perché me
ne sto qui in ozio a fumare sigarette su un divano cremisi; e vi autorizzo a farvi beffe di me se quando torno a Londra
senza un soldo in tasca, dovessi cambiare linguaggio. Non so come sia accaduto, ma durante questi tre mesi si è
insinuato in me un grande scetticismo per le rivalse invidiose - l'intolleranza verso la posizione e il denaro di chi è più in
alto e più in vista di noi; e allo stesso tempo il timore che in passato possa aver agito mosso da questi motivi, e coltivo
la religiosa speranza che se devo morire giovane, non mi rimanga sulla coscienza quella macchia odiosa».

III

Passò i primi giorni del suo ritorno a Londra convincendosi che doveva cercarsi un alloggio: in realtà si
sforzava di riadattarsi al mestiere di vivere, uno sforzo che non gli riusciva né facile né gradevole. Come aveva detto
alla Principessa era demoralizzato, e la prospettiva di risalire le sudicie scale della bottega di Crook non gli era mai
sembrata più ardua. E prima di sprofondare nuovamente dentro Soho, oscillava: non voleva tornare a bottega prima di
essersi sistemato, e ritardava la sistemazione per non tornare a bottega. In questo periodo non vide nessuno, neppure il
signor Vetch; aspettava ad andare a trovare il violinista per non dargli l'impressione di essere tornato come un accattone
- voleva prima riprendere la sua occupazione ed essere in grado d'indicargli il proprio recapito - come aveva sentito
esprimersi una volta il capitano Sholto. Andò a South Street - senza l'intenzione di entrare, ma solo per dare uno
sguardo alla casa - ed ebbe la sorpresa di trovare, affisso alle finestre della residenza della Principessa, l'avviso di
un'asta. Non si era aspettato che fosse in città - l'ultima volta che aveva avuto sue notizie - tre settimane prima, non gli
aveva detto nulla dei suoi progetti; ma rimase perplesso nel vedere che si era trasferita del tutto. C'era tuttavia qualcosa
in questa faccenda che sentiva di aver sempre intuito; la concretizzazione del sospetto, sempre provato, ogni istante del
suo rapporto con la Principessa - la vaga apprensione che un giorno, stendendo la mano, non l'avrebbe più trovata al suo
fianco. Decise di suonare il campanello per avere notizie; ma nessuno rispose: l'immobilità di un pomeriggio d'agosto -
era trascorso un anno dalla sua prima visita - incombeva sul luogo, le persiane erano abbassate e il guardiano sembrava
essere assente. Di fronte a questa realtà si sentì perduto, a meno d'inviarle una lettera a Medley. Senza dubbio sarebbe
stata inoltrata, anche se il breve contratto d'affitto della casa di campagna era scaduto, come sapeva bene, già da qualche
settimana. Il capitano Sholto poteva essere un buon informatore, una probabile fonte di notizie: ma nulla poteva indurre
Hyacinth a ricorrere al suo aiuto.
Lasciò South Street con uno strano vuoto nel cuore; quel non saper nulla lo colpiva profondamente, con tutta la
forza di un fenomeno estremamente inquietante. Non andò dal vecchio Vetch fin quando non si ritrovò con l'ultimo
centesimo - cosa che accadde molto presto. Era sceso al London Bridge con soli diciassette centesimi in tasca e aveva
vissuto di quelli per tre giorni. Il vecchio violinista di Lomax Place stava mangiando la sua bistecca prima di andare a
teatro, e invitò Hyacinth a dividerla con lui, mentre mandava subito a comprare un'altra bottiglia di birra. Si portò il
giovanotto a teatro, dove non ebbe difficoltà a procurargli un posto, dato che in quella stagione c'erano pochi spettatori.
Sembrava che volesse tenerlo vicino, e lo scrutò in modo curioso di sopra gli occhiali - il signor Vetch portava delle
brutte doppie lenti, in questi ultimi tempi - quando apprese che Hyacinth aveva trovato alloggio non nel suo vecchio,
noto quartiere, ma negli sconosciuti dintorni di Westminster. Il nostro giovanotto era stato indotto a prendere quella
decisione perché il tragitto fino a Camberwell era relativamente breve da quella zona di Londra; prima della morte di
Pinnie era stata per lui una sofferenza trovarsi tanto lontano dai suoi migliori amici. Lo pungeva una spina in cuore, se
pensava a Paul Muniment, ma la prospettiva di passare di tanto in tanto una serata a Audley Court gli sembrava una
delle poche tangibili seduzioni del suo incerto futuro. Avrebbe potuto andare a vivere direttamente a Camberwell, ma
era troppo distante dal lavoro, mentre a Westminster si trovava più vicino al vecchio Crook di quando viveva a Lomax
Place. Disse al signor Vetch che sarebbe stato felice se anche lui avesse lasciato la sua abitazione e se ne fosse trovata
un'altra a Pentoville. Ma dopo un attimo il vecchio rispose che si sentiva riluttante a imporgli la sua presenza; se lo
avesse fatto, Hyacinth avrebbe potuto pensare che volesse sorvegliarlo.
«Che significa "sorvegliarmi"?.»
Il signor Vetch aveva cominciato ad accordare il suo violino e lo sfregò per un poco, prima di rispondere.
«Significa quello che è sempre significato. Lo saprai di certo che a Lomax Place ti tenevo gli occhi addosso. Ti
sorvegliavo come un bambino sorveglia dal bordo della vasca le barchette che ha costruito e ha messo a galleggiare
sull'acqua.»
«Non potevate certo scoprire molto, dal momento che mi vedevate tanto poco,» disse Hyacinth.
«Ho fatto quello che ho potuto. Quel poco era sempre meglio di niente.»
Hyacinth posò la mano, dolcemente, sul braccio del vecchio. Non aveva mai provato un affetto tanto acuto per
lui, neanche quando aveva accettato le trenta sterline prima di andare all'estero. «State certo che vi verrò a trovare.»
«Ti sono molto grato per le tue lettere,» continuò il signor Vetch senza dar peso a quelle parole e continuando a
sfregare le corde. Conservava sempre, anche nella trasandatezza della vecchiaia, l'impronta della buona educazione
britannica (composta di tanti strani elementi), era evidente nel modo in cui esprimeva la sua riconoscenza, pieno di
timidezza e di avversione per le frasi fatte, e che, tuttavia, a dispetto del tono frettoloso, vibrava di un accento sincero.
Hyacinth s'interessò poco allo spettacolo, una riesumazione scarsamente brillante. Era stato al Théatre Français
e quel ricordo era sufficiente a fargli apparire ogni altro stile di recitazione, a dir poco, rozzo e presuntuoso. Era seduto
in una delle prime file di poltrone, vicino all'orchestra, e man mano che la commedia andava avanti - o meglio indietro,
sempre più indietro, gli sembrava - i suoi pensieri vagavano lontano dalle fruste scene e dalle polverose tavole del
palcoscenico, per inseguire la domanda che era tornata insistentemente alla ribalta durante quelle ultime ore. La
Principessa era capricciosa, tale almeno era stato il commento di Madame Grandoni; e dunque, quella casa vuota,
impenetrabile, in South Street, era forse il segno che quel particolare capriccio che lo aveva intrigato, era giunto al
termine? Al suo ritorno a Londra il desiderio di trovarsi di nuovo con lei, nella stessa disposizione che a Medley, si era
fatto tormentoso come un dolore o l'incubo di una delusione - tanto acuta era la sensazione che la scoperta di una sua
crudele, abominevole disonestà aveva distrutto completamente la fiducia che aveva in lei. Tuttavia la magia dell'altra
esperienza, pur nel grande silenzio che era sopraggiunto, rimaneva sempre una magia. Le circostanze della sua visita
erano state eccezionalmente favorevoli, e non era detto che si sarebbero verificate di nuovo, né che quanto era stato
possibile per pochi giorni sarebbe stato possibile per sempre, in mezzo agli impegni e alle preoccupazioni londinesi.
Hyacinth si sentiva più povero che mai, ora che aveva avuto del denaro e lo aveva speso, laddove, in passato, non gli
era mai capitato. Neanche per un attimo aveva rimpianto la sua ricchezza sfumata, perché era convinto di aver fatto un
affare e di aver acquistato qualcosa di prezioso. Quel qualcosa era stata una cospicua esperienza - un'esperienza che
sarebbe diventata ancora più fruttuosa quando ne avrebbe riparlato, nelle condizioni più favorevoli che solo lei poteva
creare di nuovo, con la sola persona al mondo che gli premeva. La sua povertà non sarebbe stato un ostacolo alla loro
amicizia, fin tanto che gli sarebbero rimaste le gambe per arrivare alla sua porta; perché lei lo preferiva più trasandato
che agghindato e gli aveva dato troppe garanzie, avevano preso troppi impegni, sviscerato troppe idee perché si
lasciassero demoralizzare da ostacoli che appartenevano a un imperversante conformismo. Sarebbe andato con lei nei
bassifondi, le avrebbe fatto conoscere l'aspetto peggiore di Londra - doveva impratichirsene lui per primo - per
mostrarle la realtà di quegli orrori dai quali lei sognava di liberare il mondo. Per parte sua, non aveva più interesse per i
bassifondi, e aveva buone ragioni per non desiderare di passare il resto dei suoi giorni occupandosi di brutture; ma
avrebbe mantenuto il suo impegno. Forse si sarebbe comportato in modo distaccato e un poco meccanico, ma il fatto di
essere in sua compagnia avrebbe indorata qualsiasi bruttura. Ma se fosse cambiata, valendosi del diritto di non dover
dare spiegazioni per la sua incoerenza, cosa che egli riteneva il massimo dei lussi, se applicato nei confronti di gente da
nulla? E se, con quell'insolenza che egli sospettava sonnecchiasse nei meandri della sua natura, anche se non era mai
emersa alla superficie, se lei avesse gettato all'indietro il capo perfetto, con un gesto significativo del fatto che era un
volgare intellettuale e che non voleva avere più rapporti con lui? Questa sera la sua fantasia gliela faceva apparire
impenetrabile e sorda a qualsiasi preghiera, al di là di una barriera di luce accecante. La vedeva insieme ad altri, in
splendide stanze dove «i duchi» la possedevano, sorridente, appagata, arresa, coperta di gioielli. Quando la visione
divenne troppo intensa, si consolò al pensiero che, dopotutto, non era verosimile che lei lo gettasse a mare, finché fosse
rimasta così profondamente coinvolta nella causa clandestina - come apparentemente era - e che non le sarebbe stato
facile liberarsi da quel vincolo. A Medley le aveva detto quanto si fosse già compromessa, e ricordò con un sospiro di
sollievo perverso, che si era spinta davvero molto in là.
Negli intervalli della sciocca commediola, il signor Vetch che si era indugiato al suo posto nell'orchestra
mentre i suoi colleghi erano scesi nel piccolo cunicolo sotto il palcoscenico, si sporse dalla balaustra per fare qualche
domanda al suo giovane amico, mentre il suo sguardo percorreva quel triste locale, il soffitto fumoso e le gallerie
brunite, come aveva fatto per tanti anni. Ritornò sull'argomento delle lettere e disse: «Sai, erano proprio belle. Mi hanno
interessato enormemente. Ma mentre le leggevo pensavo alla povera Pinnie: avrei voluto che avesse potuto ascoltarle;
l'avrebbero resa così felice.
«Sì, povera Pinnie,» mormorò Hyacinth, mentre il suo amico continuava: «Mi trovavo a Parigi nel 1846;
alloggiavo in un alberghetto della rue Mogador. Dalle tue lettere vedo che è tutto cambiato. Esiste ancora la rue
Mogador? Sì, è cambiato tutto, forse in meglio, ma mi piaceva moltissimo com'era allora. In ogni caso, sbaglio a
pensare che sei riuscito a sentirti sollevato, proprio felice?.»
«Che bisogno avevo di sentirmi sollevato? Ero già abbastanza felice,» replicò Hyacinth.
Il violinista sollevò il vecchio viso bianco, saggio; aveva la viscida levigatura tipica di un mestiere sedentario,
di trent'anni passati in ambienti chiusi, fra il fumo delle lampade e l'odore della vernice delle scene. «Credevo che fossi
triste per Pinnie.»
«Quando mi sono buttato con tanta avidità sulla vostra idea di un viaggio? Povera vecchia Pinnie,» aggiunse
Hyacinth.
«Beh, spero che ti sia fatta un'opinione migliore del mondo. Non dobbiamo farci dei preconcetti, quando non
abbiamo ancora vissuto abbastanza.»
«Oh, io sono convinto che il mondo è un luogo estremamente ameno.»
«Estremamente ameno? Non direi. Ma piacevole sì, com'è piacevole indossare un vecchio paio di scarpe -
Quello che lo è meno è mettersene uno nuovo.»
«Che motivi avrei per lamentarmi?» chiese Hyacinth «Quando non ho ricevuto che bontà! Hanno fatto tutti
tanto per me.»
«Oh beh, certo che tutti ti hanno voluto bene. Ma è una cosa normale,» mormorò il signor Vetch, riprendendo a
grattare le corde. Di tutto il colloquio, a Hyacinth rimase solo che questo vecchio, che egli considerava decisamente un
uomo colto, aveva giudicato intelligenti le sue lettere. Ora si rammaricava di non averne scritte di più intelligenti; non
dubitava che ci sarebbe riuscito.
Si può facilmente immaginare che piacere provasse nel ritrovarsi alla bottega del vecchio Crook, quando
riprese il lavoro, e l'accoglienza fattagli dai suoi vecchi colleghi, che trovò nell'esatta posizione e negli stessi panni
(conosceva a memoria, odiandolo, ogni articolo di vestiario che indossavano) e con le stesse rozze battute sulle labbra.
Il nostro giovanotto provò una duplice sensazione; il luogo e la gente gli parvero odiosi, ma il maneggiare di nuovo i
suoi arnesi, stupendo. Quando scoprì che amava ancora il suo lavoro e che gli si affollavano ancora, come una volta,
una quantità d'idee su come risolvere una costa o una copertina, emise fra sé e sé un piccolo sospiro di sollievo. Anzi, le
idee sembravano ora più geniali, più suggestive, e constatò con soddisfazione che il suo gusto era migliorato, raffinato
dall'esperienza e che nelle rilegature di un libro si poteva realizzare l'espressione di una vastissima gamma di concetti
elevati. Stranamente le impressioni accumulate negli ultimi mesi si erano mescolate e confuse con la natura stessa del
suo mestiere, ed erano lì, pronte ad essere rese «tecnicamente;» prova sicura che il nostro piccolo eroe era un vero
artista. Ormai era deciso a tirare avanti come se nulla stesse per accadergli, e senza alcuna intenzione di rimanere un
piccolo rilegatore fino alla fine dei suoi giorni, mestiere in cui poteva profondere solo una parte della sua interiorità.
Eppure si era rivelata una vera, intatta risorsa, per il momento, e accanto alle motivazioni più generiche ora ne aveva
una specifica che lo stimolava a nuovi perfezionamenti - la previsione del lavoro squisito che doveva eseguire
quell'anno, per la Principessa, di cui era persuaso di esserle debitore. Una volta saldato quello e altri debiti si proponeva
di mettersi a scrivere. Era ancora lontano dal sapere cosa; l'unico punto fermo era che sarebbe stato assolutamente
notevole e del tutto estraneo ai soliti prodotti confezionati ad uso della società. Sarebbe stato un periodo di transizione -
verso la letteratura: rilegare un libro, per quanto affascinante, era un'occupazione assai meno importante che scriverlo.
Più di una volta era venuto in mente a Hyacinth che sarebbe stato bello comporre un canto di morte fuori del comune.
Non sorprende che in mezzo a simili sogni il tono dei discorsi dei suoi compagni di lavoro gli suonasse ben
povero di variazioni. Avevano un'idea fissa: che Hyacinth avesse ereditato mille sterline e fosse andato a spenderle in
Francia con una dama coi fiocchi. Sapeva che si era divulgata questa voce e fece del suo meglio per alimentarla, con il
più semplice degli accorgimenti, e cioè non negando nulla ma afferrando la palla e rilanciandola ancora più lontano, con
ricami e umoristiche esagerazioni finché Grugan e Roker e Hotchkin e tutti gli altri, che gli davano l'impressione di non
essersi lavati da quando li aveva visti l'ultima volta, sembrarono persuasi che aveva potuto effettivamente dilapidare una
somma simile in così poco tempo. Il risultato fu che riuscì a reinserirsi nel suo posto di lavoro; era naturale che, sebbene
lo trattassero in modo apparentemente irrispettoso, le sue qualità di uomo caustico e le fonti segrete cui attingeva tale
causticità, gli guadagnassero un notevole prestigio. Hyacinth non poteva fare a meno di compiacersi che lo
considerassero - anche se si trattava di un Grugan, un Roker e un Hotchkin - capace di far fuori mille sterline in meno di
cinque mesi, in particolare perché era una capacità per cui non aveva dovuto esibire prove. Tutto sommato, se l'era
cavata così a buon mercato da provarne quasi vergogna, e constatò che gli uomini di Crook mancavano completamente
di quell'invidioso risentimento sociale che in genere costituisce la molla di ogni drastico sovvertimento. Si trattava
senza dubbio di un caso, e non del fatto che fossero operai altamente specializzati - il vecchio Crook non aveva che
questi - e che potevano sempre contare su un impiego, perché nessuno era più specializzato di Paul Muniment il quale
tuttavia - sebbene non certo per invidia - aveva aderito all'idea della grande, spietata rivendicazione. A colpire
maggiormente Hyacinth, dopo che si era riadattato a indossare il grembiule e a curvare la schiena sul tavolo malconcio,
era stata la semplice, sistematica pazienza degli altri che, per tutto il tempo in cui lui era stato a riposarsi nei salotti di
Medley, a ciondolare fra boulevards e musei, e ad ammirare la purezza dei lineamenti delle fanciulle venete, avevano
continuato a tenere la schiena curva, e a maneggiare quelle ruvide tele. I rapporti con Poupin erano invece del tutto
diversi ma le giustificazioni che imbastì al suscettibile francese non potevano mortificarlo eccessivamente, dal momento
che aveva deciso di resistere il più possibile al pungolo di una consapevolezza che a volte lo lacerava come un morso
troppo tirato. Inoltre, c'era più dolore che rancore sul volto di Poupin quando apprese che il suo giovane amico e
discepolo aveva mancato di approfittare, a Parigi, delle preziose occasioni che gli aveva offerto. «Ti stai raffreddando,
figlio mio. C'è qualcosa di strano, in te! Non avrai mica la debolezza d'illuderti che sia stato fatto qualcosa, o che
l'umanità soffra una inezia di meno? Enfin, è una cosa che riguarda la tua coscienza.»
«Pensate che voglia tirarmi indietro?» disse Hyacinth con una smorfia. Quelle belle frasi sulla sorte
dell'umanità che una volta lo avevano tanto entusiasmato, gli suonavano, da qualche tempo, stranamente vuote e
roboanti.
«Non mi devi nessuna spiegazione: la coscienza di un individuo è indiscutibile, tranne naturalmente nel caso di
individui appartenenti a classi sociali fondate sulle infamie che non possiedono una coscienza. Ma parlami della mia
città, che è sempre divina» continuò Poupin. Mostrò però segni d'impazienza quando Hyacinth cominciò ad elogiare le
splendide creazioni dell'arcidiavolo di dicembre. Le sue colorite descrizioni lo avevano precipitato in un drammatico
dilemma - era appagato, come parigino e come patriota, ma sconcertato, come amante della libertà; gli costava uno
sforzo ammettere che ci fosse qualcosa d'imperfetto nei seuils sacrés, e tuttavia era ancora meno propenso ad ammettere
che questo qualcosa dovesse un suo fascino al mostro spergiuro del Secondo Impero, o all'ipocrita, mendace
repubblicanismo del regime che aveva schiacciato col sangue e col fuoco il sacro spirito della Comune. «Sì, sì, è
bellissimo, non c'è dubbio,» osservò alla fine, «ma sarà ancora più bello quando sarà nostro!» pistolotto che spinse
Hyacinth a riprendere il lavoro, con un senso di nausea. Ovunque era chiaramente visibile l'ulcera dell'invidia - l'avidità
di un partito che si teneva insieme con l'unico scopo di spogliare un altro dei suoi privilegi. Ma rinvenire il medesimo
atteggiamento in Eustache Poupin, uno dei pochi «puri,» questo era estremamente demoralizzante.

IV
Il pianerottolo in cima alle scale di Audley Court era sempre al buio, ma quel giorno sembrò ancora più scuro a
Hyacinth che fu costretto a brancolare alla ricerca del paletto dopo che la voce penetrante di Rose Muniment lo aveva
invitato ad entrare. Se non si sbagliava, in quell'attimo il suo orecchio aveva percepito il suono di un'altra voce, e questo
lo preparò un poco allo spettacolo che gli si offrì non appena la porta - il suo tentativo di trovare la maniglia era stato
vano, data l'improvvisa agitazione - fu aperta da Paul. Il suo amico era lì, alto e ospitale, e pronunciava parole vivaci e
gioviali che non riusciva a capire. In un lampo i suoi occhi avevano oltrepassato la soglia, mentre il passo vacillava per
un istante, per fermarsi poi, tuttavia, ubbidiente allo slancio della mano tesa di Muniment. Hyacinth aveva diretto lo
sguardo dritto davanti a sé, e sebbene la presenza di quattro persone facesse apparire affollata la piccola stanza di Rosy,
non vide nessun altro ad eccezione dell'oggetto della sua repentina intuizione - non altri che la principessa
Casamassima, seduta presso il basso sofà, il nuovo grandioso acquisto entrato in casa durante la sua assenza da Londra,
sul quale, avvolta nella famosa vestaglia rosa, Miss Muniment, ora, riceveva le visite. Si domandò in seguito perché si
fosse tanto meravigliato, quando aveva ripetutamente detto a se stesso e alla sua splendida amica che personalmente
non c'era pericolo che si meravigliasse di nulla: era chiaro che la nota dominante del comportamento della Principessa
sarebbe stata sempre una enorme libertà. Nel rendersi conto che era giunta fino a Camberwell senza di lui, fu colto da
un sottile scrupolo; arrossì un poco mentre entrava in mezzo alla piccola cerchia di cui Lady Aurora Langrish,
inevitabilmente, costituiva il quarto membro. Era forse l'intimità del rapporto che lo legava a loro a fargli provare un
senso di responsabilità per le azioni di lei, nei confronti di persone che la conoscevano così poco, responsabilità acuita
dal sospetto che la familiarità con cui si era introdotta fra loro fosse abbastanza ingiustificata? A dire il vero, al nostro
giovane venne in mente che ormai, forse, la conoscevano benissimo; e inoltre il comportamento di una donna parla da
solo se, lì seduta, con un semplice cappello e mantellina, sapeva apparire come un angelo radioso in grado di
immensamente interessarsi a quel gradevole angolo terrestre. Gli ci volle un istante per capire che era molto cambiata
da come era solito vederla. La sera che l'aveva conosciuta gli era apparsa circonfusa di bontà, e da allora non aveva mai
cessato di apparire comprensiva e indulgente, tranne nei riguardi del marito verso il quale - per ragioni senza dubbio
valide - sembrava che il suo cuore si fosse completamente irrigidito. Ma ora questa sublime mite dolcezza toccava punte
di carità attiva e rapita. Aveva smorzato il suo splendore, ma la sua bellezza era rimasta inestinguibilmente luminosa; si
era fatta tutta modesta, per la sua visita pietosa; vicino a Rosy (che nella vestaglia rosa appariva, delle due, vestita molto
più lussuosamente) aveva assunto l'atteggiamento di una infermiera; e dalle sobrie scarne linee dell'abito era facile
intuire quanto fosse tremendamente in buona fede. Se Hyacinth era tutto confuso, l'espressione di lei non tradiva il
minimo imbarazzo; evidentemente per lei era normale che questo strano, piccolo angolo di miseria e di dolore fosse un
luogo dove egli sarebbe comparso. Il dolce, immobile saluto che gli occhi di lei gli offrirono, poteva significare
squisitamente che lo stava aspettando, che sapeva sarebbe venuto, che c'era stato fra loro un tacito appuntamento,
proprio per quell'attimo. E dicevano anche altre cose, meravigliosamente care: dicevano: «Non mi guardate troppo e
non vi tradite. Ho tante cose da dirvi, ma ricordatevi che abbiamo il resto della vita per dircele. Abbiate riguardo per
queste persone, queste magnifiche persone che trovo incantevoli (perché non mi avete raccontato di più - molto di più -
sul loro conto?). Non sarebbe troppo lusinghiero per loro se mostraste di considerare la mia presenza qui un miracolo.
Sono felicissima che siate tornato. La tremante, nervosa "nobildonna" è straordinariamente interessante come tutti gli
altri.»
L'accoglienza che i vecchi amici fecero a Hyacinth fu tanto cordiale da cancellare quella punta d'ironia che,
quindici settimane prima, era echeggiata nel loro addio; senza clamorosi benvenuti, sembravano però volergli
significare che mancava solo lui per rendere quell'occasione già di per sé rara e piacevole, assolutamente perfetta. Meno
di tre minuti dopo il suo arrivo, si era già reso conto dell'impressione prodotta dalla Principessa, che chiaramente aveva
incantato fino all'adorazione la piccola compagnia. Si coglieva nell'aria, sul volto di tutti, nei sorrisi e nell'eccitazione
degli occhi e del colorito; perfino la pallida maschera di Rosy, sempre composta in una smorfia estatica, brillava della
luminosità delle grandi occasioni. Lady Aurora appariva più che mai frastornata, divisa fra interesse e stupore; le lunghe
ciocche dei serici capelli ondeggiavano come fili di ragno, mentre tutta tesa in una posa quasi religiosa, le mani alzate e
strette al petto in atteggiamento di preghiera, respirava a fatica. Non aveva mai visto nessuno come la Principessa; ma le
apprensioni di Hyacinth di qualche mese prima erano state prive di fondamento - evidentemente non la riteneva una
persona «vistosa.» La riteneva divina, un miracolo di bellezza e di bontà; e quella stanza così illuminata, così dilatata
dalla sua presenza, non poteva contenere opinioni dissenzienti. Era stata per prima cosa la sua bellezza ad averli
«conquistati,» Hyacinth lo vedeva benissimo, né gli sfuggì che Paul Muniment ne era rimasto preso come gli altri. Paul
non era per natura un entusiasta e neppure in questa occasione perse la testa; ma comprese la differenza fra l'idea che,
da uomo semplice e sospettoso si era fatto di lei - di una bella donna falsa e artificiosa - e la reale natura della persona
che gli stava di fronte. Era più bella, più gentile, più saggia di quanto perfino un esperto in chimica avesse mai potuto
immaginare. In poche parole, la Principessa aveva in mano quel terzetto, con Lady Aurora ridotta alla stessa stregua
degli altri, mentre lei si muoveva in modo mirabilmente estetico, in mezzo a loro. Prima che Hyacinth avesse il tempo
di chiedersi come fosse riuscita a scovare i Muniment - non aveva memoria di averle dato indicazioni precise - lei disse
che il capitano Sholto era stato così buono da presentarla; e lo fece come se dovesse a Hyacinth quella spiegazione e
volesse chiarire che era una donna scrupolosa. Fu un colpo per lui apprendere che aveva accettato la mediazione del
capitano, né si consolò quando lei aggiunse che era troppo impaziente per aspettare il suo ritorno: gli era sembrato tanto
soddisfatto della sua vita di vagabondaggi perché potesse contare di rivederlo. La Principessa avrebbe potuto almeno
capire che vederla di nuovo era più importante per la sua felicità di qualsiasi attrattiva di una vita errante. Nessuna
avventura era tanto prodigiosa come quella di starle il più vicino possibile.
Nella conversazione che ebbe con lei, ascoltata con rispettosa curiosità dai presenti, venne fuori che il capitano
Sholto l'aveva accompagnata lì la settimana prima, ma che quella volta aveva conosciuto soltanto Miss Muniment. «Mi
sono presa la libertà di tornare oggi da sola perché volevo conoscere tutta la famiglia,» aggiunse, guardando prima Paul
poi Lady Aurora, con allegro candore che spogliò la dichiarazione (per quel che riguardava Sua Signoria) di ogni
accento impertinente. La Principessa aggiunse poi con franchezza che questa volta era stata ben attenta a scegliere
un'ora in cui il signor Muniment sarebbe stato in casa. «Quando vado in cerca di uomini, mi piace trovarli,» continuò,
ed era una così gran dama che la dichiarazione suonò libera da ogni falso pudore: per lei, andare a trovare un giovanotto
impiegato in una grossa ditta di prodotti chimici era una cosa normalissima, visto che aveva un motivo per farlo.
Hyacinth capì che questo motivo era stato già espresso - l'enorme interesse per i problemi che il signor Muniment aveva
fatto suoi, e in particolare la reciproca conoscenza dell'uomo straordinario che si era impegnato a risolverli. E seppe in
seguito che aveva fatto il nome del grande, paziente, potente Hoffendahl. Quella luce negli occhi di Rosy veniva senza
dubbio, in parte, dalla dichiarazione che non aveva potuto trattenersi dal fare, circa la propria totale mancanza di
simpatia per quelle teorie malvagie - e naturalmente l'effetto di quella piccola protesta, intensamente individualistica,
partita dal sofà e dalla vestaglia rosa, fu di rendere - come sempre accade in situazioni simili - la casa dei Muniment
ancor più intima e originale. In questi casi Paul evitava con gentilezza di ribadire le proprie teorie; così che, a sentirlo,
la gente era indotta a credere che avesse delle idee proprie al solo scopo di «stuzzicare» sua sorella a parlare, perché i
loro ospiti vedessero con quanta arguzia e con quanta intelligenza lei sapesse confutarle. Questa, tuttavia, sarebbe stata
una ragione in più perché la Principessa gli si mettesse alle calcagna. Senza dubbio non si aspettava di sviscerare le idee
di Paul ad Audley Court; quell'opportunità si sarebbe presentata solo nel caso che lui avesse la cortesia - su cui era certa
di poter contare - di andare da lei e discuterne insieme.
Hyacinth le disse del proprio disappunto quando si era recato a South Street, e lei rispose: «Oh, l'ho lasciata,
quella casa - ne ho presa una molto diversa.» Ma non disse dove, e nonostante gli avesse dato il diritto di aspettarsi da
lei una notizia così importante per entrambi come un cambio d'indirizzo, la timidezza gl'impedì di chiederglielo.
I loro amici li osservavano come se si aspettassero di assistere a una scena interessante e clamorosa, ma
Hyacinth aveva troppo rispetto per la tacita preghiera della sua amica di non far trasparire il loro stretto legame, il che,
dopotutto, era molto più lusinghiero di qualunque pressante indagine, o della più sviscerata dichiarazione di sentimenti.
Non gli chiese quando fosse tornato; e del resto non passò molto prima che Rose Muniment s'incaricasse di farlo.
Hyacinth si azzardò però a chiedere se Madame Grandoni fosse sempre da lei, e perfino ad osservare - quando la sua
compagna ebbe risposto: «Oh sì, sì. Il grande rifiuto - come lo chiama Dante - non ha ancora avuto luogo». «Dovreste
portarla a trovare Miss Rosy; è una persona che Miss Rosy apprezzerebbe in modo particolare.»
«Sarei più che lieta di ricevere qualunque amica della Principessa Casamassima,» disse la giovanetta dal sofà;
e quando la Principessa ebbe risposto che senza fallo avrebbe portato con sé Madame Grandoni, un giorno di questi,
Hyacinth - pur dubitando che sarebbe mai accaduto - credette d'indovinare che alla Principessa sarebbe piaciuto molto
che la sua vecchia amica avesse potuto ascoltare le parole di quella strana, immobilizzata, piccola invalida.
C'erano soltanto tre sedie, perché la sistemazione del sofà - una faccenda studiata a fondo, in anticipo - aveva
reso necessaria l'eliminazione di alcuni oggetti; così che Muniment, in piedi, dominava il piccolo gruppo, con le mani in
tasca, ridendo di gusto, affabilmente, ma senza guardare la Principessa; come se fosse anche lui, Hyacinth ne era certo,
eccitato dalla presenza di lei.
«Dovresti raccontarci di quei paesi stranieri e delle cose grandiose che hai visto; ma la nostra distinta ospite
deve conoscerle già,» buttò là Muniment. Poi aggiunse: «In ogni modo, è sicuro che non hai visto nulla più degno di
rispetto di Camberwell.»
«È questa la parte peggiore?» chiese la Principessa, alzando il nobile viso pieno d'interesse.
«La peggiore, signora? Che idee grandiose dovete avere! Noi ammiriamo Camberwell immensamente.»
«Sono le idee di mio fratello ad essere grandiose» urlò Rose Muniment, tradendolo di proposito. «Vuole
cambiare tutto, proprio come voi, Principessa; sebbene lui sia più furbo e non si scopra mai. Considera tutta questa zona
una cosa terribile - come se la gente sporca non rendesse sempre sporco il luogo dove vive! Forse pensa che non ci
dovrebbero più essere persone sporche, e va bene! Ma se tutti fossero puliti, che merito ci sarebbe? Nessuno vi darebbe
credito, per il fatto che siete in ordine! In ogni caso, se è una questione di acqua e sapone, ognuno può cominciare a
maneggiarli. Mio fratello vorrebbe che ogni quartiere fosse bello come Brompton.»
«Ah, sì, è lì che vivono gli artisti e gl'intellettuali, vero?» chiese interessata la Principessa.
«Non l'ho mai visto, ma è molto ben sistemato,» rispose Rosy con aria di competenza.
«Oh, a me piace più Camberwell,» disse Muniment, con fare divertito.
La Principessa si volse verso Lady Aurora, e con l'aria di chiederle la sua opinione, le lanciò un'occhiata che in
un lampo andò dal nastro più alto del suo largo cappello sgraziato alla punta sformata delle sue grosse scarpe. «Dovrò
appellarmi a voi, perché mi diciate la verità,» sospirò. «Voglio tanto conoscere Londra - la vera Londra. Ma sembra così
difficile!»
Lady Aurora prese subito un'aria spaventata, e al tempo stesso riconoscente, e dopo un poco rispose: «Credo
che la maggior parte degli artisti viva in Saint John's Wood».
«Non m'importa nulla degli artisti!» disse la Principessa, scuotendo il capo lentamente, con quel piccolo sorriso
triste che faceva sembrare talvolta la sua bellezza così indicibilmente commovente.
«Come, dopo che vi hanno dipinto dei quadri così belli?» chiese Rosy. «Sappiamo dei vostri quadri - li
abbiamo ammirati moltissimo. Il signor Hyacinth ci ha parlato dei vostri oggetti preziosi.»
La Principessa volse lo sguardo verso Rosy e lo posò sulle fattezze avvizzite di quella giovinetta, con lo stesso
ineffabile moto del capo. «Mi lusingate troppo, non ho alcuna ricchezza.»
«Signore Iddio, erano tutte frottole?» urlò Rosy, lanciando a Hyacinth uno sguardo che non era mai tanto
eloquente come quando esigeva una spiegazione.
«Non ho nulla al mondo - nulla ad eccezione dei vestiti che porto,» ripeté la Principessa, molto seria, e senza
guardare la fanciulla indiscreta.
Quelle parole suonarono a Hyacinth come un monito e così, sebbene incuriosito, non fece alcun tentativo per
chiarire quella strana affermazione. «Intendevo dire gli oggetti ch'erano in casa. Naturalmente non sapevo a chi
appartenessero.»
«Non c'è più nulla in casa mia, ora,» continuò la Principessa; e nelle sue parole c'era un tono di rassegnazione
purissima.
«Dio mio, non mi piacerebbe una cosa simile!» dichiarò Rose Muniment, guardando compiaciuta le sue pareti
decorate. «Tutto qui mi appartiene.»
«Vi porterò Madame Grandoni,» disse la Principessa, irrelatamente ma con gentilezza.
«Pensate che non sia giusto avere intorno tante cose?» chiese Lady Aurora, con coraggio improvviso, puntando
il mento verso di lei ma guardando un angolo della stanza in alto.
«Penso che sia una cosa che ognuno deve risolvere da solo. A me non piace essere circondata da oggetti di cui
non m'importa nulla e inoltre m'interessa una sola cosa - ossia, un tipo di cose - alla volta. Cara signorina,» continuò la
Principessa, «temo di dovervi confessare che il mio cuore non spasima per i "bibelots". Quando a migliaia e decine di
migliaia non hanno un pezzo di pane da mettere sotto i denti, posso fare a meno di tappeti e ceramiche antiche.» E il suo
bel viso, magneticamente, accattivantemente teso verso Lady Aurora sembrava voler dire che, anche se povera, era
almeno onesta.
Hyacinth si chiese, un poco seccamente, che strana svolta avesse presa, e se questo anomalo denudamento
della sua personalità non rientrasse nei suoi famosi capricci, uno scherzo eccentrico, una perversità irritante. Intanto
sentì Lady Aurora chiedere ansiosamente: «Ma non credete che dovremo rendere più bello il mondo?»
«Non lo rende già bello abbastanza la Principessa, per il semplice fatto di esistere?» s'intromise Hyacinth,
sfogando in questa graziosa, innocua iperbole, la propria perplessità. Aveva notato che sebbene la signora in causa
avesse rinunciato alle ceramiche antiche e ai tappeti non aveva saputo però fare a meno di un immacolato paio di guanti
che le stavano a pennello.
«I miei posseggono un mucchio di cose, sapete, ma io non ho nulla,» disse Lady Aurora, come se dovesse
questa assicurazione a una così illustre paladina della umanità sofferente.
«Il mondo sarà bello quando diventerà buono,» riprese la Principessa. «C'è forse nulla di più brutto delle
ingiuste discriminazioni, dei privilegi dei pochi rispetto alla degradazione dei più? Quando si vuole abbellire qualcosa
bisogna cominciare dalla parte giusta.»
«Certo nessun pari nostro ha i privilegi che abbiamo noi!» esclamò con slancio Rose Muniment. «Che ne dite
voi dei vantaggi che ho io, che mi permettono di starmene sdraiata qui, tra due rappresentanti dell'aristocrazia, e con il
signor Hyacinth per soprannumero?»
«Siete senza dubbio fortunata... ad avere Lady Aurora Langrish. Vorrei che venisse a trovare anche me,»
sospirò la Principessa con fare cordiale, mentre si alzava.
«Ci vada, Lady Aurora, e mi racconti se è veramente così povera,» continuò gaiamente Rose.
«Per parte mia, credo che i quadri, le statue e le opere d'arte non siano mai troppi» s'interpose Hyacinth. «Più
ce ne sono e meglio è, che la gente sia affamata o meno. Non sono forse decisamente essi ad esercitare gl'influssi più
benefici?»
«Un pezzo di pane e burro serve meglio allo scopo, se avete lo stomaco vuoto,» dichiarò la Principessa.
«Robinson è stato corrotto dall'influenza straniera,» suggerì Paul Muniment. «Non gli piace più il pane e il
burro; ormai, preferisce la cucina francese.»
«Sì, ma di fatto ne faccio a meno. E avete mandato via anche quell'ometto, quell'italiano, con il cappello bianco
e il grembiule?» chiese Hyacinth alla Principessa.
Lei esitò un attimo, poi ridendo, per nulla offesa dalla domanda sebbene fosse un tentativo di coglierla in fallo,
dal quale Hyacinth, nella sua sorpresa di fronte a quelle proteste ascetiche, non si era potuto frenare, rispose: «L'ho
mandato via molte volte!»
Anche Lady Aurora si era alzata; rimase lì in piedi a guardare l'altra bella visitatrice, con una timidezza che
rendeva ancor più palese la sua ammirazione. «La vostra servitù vi deve essere molto devota.»
«Oh, la mia servitù!» disse la Principessa, come se solo enfatizzando la portata di quel termine fosse riuscita ad
ammettere il piacere di comandare a dei subalterni. Il suo modo di fare sembrava indicare che aveva solo una domestica
a ore. Hyacinth lo capì dal tono della voce, e poiché era chiaro che stava per andarsene, decise che avrebbe interrotto la
propria visita e l'avrebbe accompagnata. Dopo tre settimane a Medley si era illuso di conoscerla in ogni suo aspetto, ma
aveva trovato un campo completamente inesplorato. Lei si volse verso Paul Muniment e gli tese la mano, e mentre la
prendeva fra le sue Paul si trovò il viso scrutato dai più begli occhi che vi si fossero mai posati sopra. «Verrete a
trovarmi uno di questi giorni?» gli chiese con una voce purissima quanto lo sguardo.
Hyacinth attese la risposta di Paul con un'emozione che poteva attribuirsi soltanto al suo affetto per lui, alla
speranza che non tradisse il ritratto che ne aveva fatto alla Principessa, e all'interesse oggettivo di vederlo comportarsi
come l'uomo che, secondo lui, era. Muniment non balbettò né arrossì; si drizzò, e ricambiò lo sguardo con occhi
altrettanto aperti su tutto ciò che lo riguardava. Poi, come risposta, disse: «E ditemi, signora, che bene me ne verrebbe?»
e il tono era così umoristico e buono e totalmente impregnato di spirito puramente maschile, che pur non essendo quelle
parole galanti, Hyacinth non si vergognò per lui. Al tempo stesso notò che Lady Aurora stava osservando il loro amico
come se anche lei avesse identico interesse per quello che avrebbe detto.
«Nessuno; solo un po' a me, forse.» Con questa risposta e con una meravigliosa, dolce, indulgente dignità
scevra di qualsiasi superbia, orgoglio o risentimento, la Principessa lo lasciò e si avvicinò a Lady Aurora. Chiese se lei,
almeno avrebbe avuto la gentilezza di andarla a trovare. Le sarebbe piaciuto tanto conoscerla meglio, ed era convinta
che avessero molte cose da dirsi. Lady Aurora rispose che ne sarebbe stata felicissima, e la Principessa tirò fuori di
tasca un biglietto da visita e lo porse alla nobile signorina. Poi, trattenendole la mano, disse: «È stata davvero una gioia
incontrarvi. Vi prego, non lo considerate goffo da parte mia se vi dico che mi piacete molto!» Lady Aurora era
chiaramente commossa ed entusiasta. Ma quando la Principessa si congedò da Rosy l'esuberante invalida le assicurò
che sarebbe stata una gioia rivederla, ma aggiunse anche che, per parte sua, non avrebbe mai condiviso le sue idee.
«Se fossimo tutti uguali,» chiese Rosy, «che ne sarebbe della gratitudine che provo nel ricevere la visita di una
gran dama? È quello che dico sempre a Sua Signoria, e ritengo di averla sempre tenuta al suo posto, un pochino. No, no,
nessuna uguaglianza finché ci sono io qui!»
Gli amici sembrarono considerare normale che Hyacinth accompagnasse a casa la nobildonna, e non
esercitarono alcuna pressione per trattenerlo. La guidò, con l'aiuto di una lampada retta da Muniment, giù per le buie
scale, e al portone ci fu di nuovo un breve commiato dal padrone di casa, il quale, tuttavia, non dette alcuna indicazione
di avere capitolato o avere cambiato idea relativamente all'invito della Principessa. La calura si era addensata, e gli
abitanti di Audley Court sembravano voler trascorrere la serata all'aria aperta. Mentre Hyacinth aiutava la sua
compagna a farsi strada in mezzo a chiassosi mucchi di bambini, donne spettegolanti, con le braccia e il capo scoperti e
bambini al seno, e uomini ben piantati che fumavano pestifere pipe, gli sembrò che il loro progetto di esplorare i
bassifondi si stesse già realizzando. Non disse nulla finché raggiunsero la strada esterna, poi, fermandosi un attimo, le
chiese come sarebbe tornata a casa. Aveva una carrozza da qualche parte, o avrebbe dovuto cercarne una a nolo?
«Una carrozza, mio caro? Per chi mi prendete? Non vi disturbate, vado sempre a piedi, ora.»
«E se non ci fossi io?»
«Andrei sola,» e gli sorrise attraverso il torbido tramonto di Camberwell.
«Santo cielo? E dove, ditemi? Posso almeno avere l'onore di accompagnarvi?»
«Certo, se avete voglia di camminare fin là.»
«Fino a dove, cara Principessa?».
«Fino a Madeira Crescent, Paddington.»
«Madeira Crescent, Paddington?» esclamò esterrefatto Hyacinth.
«La chiamo così quando sono con persone con le quali voglio fare la raffinata, come voi. Ho preso una casetta
là.»
«Allora è proprio vero che avete rinunciato a tutte le vostre belle cose.»
«Ho venduto tutto per darlo ai poveri.»
«Ah, Principessa...!» gemette quasi il giovanotto; perché il ricordo di alcuni dei suoi tesori era vivissimo.
Si fece serissima, quasi dura, e con accento di rimprovero che sembrava indicare che l'aveva ferita sul vivo,
chiese: «Allora, quando vi dissi che ero pronta all'estremo sacrificio, pensavate che mentissi?».
«Non vi siete tenuta nulla?» continuò lui senza dar peso alla sfida.
Lo guardò per un attimo e disse: «Mi sono tenuta voi!» Poi gli passò una mano sotto il braccio e si mossero.
Hyacinth capì finalmente che cosa aveva fatto: era andata ad abitare in una casetta brutta, nuda, piccolo borghese, e
indossava abiti poveri; e la forza e la buona fede del suo comportamento, oltre alla brusca trasformazione, gli
mozzarono il fiato. «Credevo di farvi piacere,» aggiunse lei, dopo pochi passi. E prima che avesse il tempo di
rispondere, poiché attraversavano una zona piena di bottegucce, macellerie, fruttivendoli, rivendite di porchetta, tutte a
porte spalancate, con lampade sfolgoranti e una clientela umile, lei se ne uscì trionfalmente: «Ah, è così che mi piace
vedere Londra!»

La casa nella Madeira Crescent era un basso edificio dalla facciata a stucco, sita in uno squallido, slargato
semicerchio, e quando vi giunsero Hyacinth notò che i vetri del salotto, a livello della strada, erano decorati da una
gabbia di vetro contenente uccelli impagliati e sormontata da un cupido di alabastro. Conosceva sufficientemente la sua
Londra per capire quanto immenso fosse lo sbalzo che aveva fatto la Principessa trasferendosi lì dai dintorni di Park
Lane. Era una strada strettamente residenziale, non sordida, ma brutta, misera e di infima categoria, che trasudava il
massimo dell'angusto provincialismo, privo di qualsiasi stile o nobiltà, caratteristico di interi quartieri di Londra che
Hyacinth più di una volta aveva mentalmente paragonati all'alta, impettita architettura parigina. Si distingueva per
essere una summa di tutto ciò che poteva apparire detestabile agli occhi della Principessa; era brutta quasi quanto
Lomax Place. Quando si fermarono davanti alla porta stretta e mal verniciata, dove il numero civico spiccava su una
lastra di porcellana scadente dalla forma bizzarra, pensò che se durante la lunga camminata aveva potuto capire la
passione che aveva spinto la sua compagna a separarsi dal superfluo, ora sapeva che ci voleva un atto di eroismo
tutt'altro che romantico per andare a vivere in una strada così misera e disprezzabile. Comunque, se la Principessa aveva
deciso di mortificare la carne, aveva scelto il modo migliore mortificando lo spirito allo stesso tempo. Nell'aria
indugiava la lunga luce della grigia sera estiva, e Madeira Crescent mostrava un volto sudicio polveroso. Una pianola
suonava in sordina davanti alla casa accanto, e il carrettino della lavandaia del quartiere tirato da un asino, si fermò lì di
fronte. I bambini ballavano sul marciapiede al suono dell'organino, e da una finestra un uomo che fumava la pipa in una
sudicia veste da camera e che faceva pensare a Mr. Micawber, sorvegliava la scena. Hyacinth guardò a lungo la
Principessa prima di entrare in casa, e lei sorrise come se indovinasse i commenti che egli aveva taciuto.
La lunga tortuosa passeggiata dalla lontana zona meridionale di Londra era stata insolita e dolce; gli
rammentava stranamente, più di quanto avrebbe saputo esprimere, qualcuna delle passeggiate che aveva fatto nelle sere
estive con Millicent Henning. La Principessa non poteva somigliare meno a quella giovinetta, ma nel modo di gustare
quell'insolita avventura (per quanto ne sapesse Hyacinth mai prima d'allora, in una sera d'estate, si era inoltrata al
braccio di uno sdrucito artigiano, in quartieri di periferia) la distinta signora aveva qualche punto di contatto con la
commessa. Anche lei si era fermata a guardare le vetrine di negozi ordinari, e si era divertita a scovare gli orribili
oggetti che le sarebbe piaciuto possedere, scegliendoli con un metro nuovo, quello di chi ha pochi mezzi e si adatta,
come fa la «piccola borghesia», tutta felice al pensiero di appartenere ormai a quella classe oppressa. Hyacinth non
l'aveva mai vista così vibrante di lieve, fresca esaltazione e prima di giungere a Madeira Crescent aveva capito
chiaramente che l'attuale stato d'animo altro non era se non un brillante tour de force destinato a non durare a lungo per
il semplice motivo che una volta superato quel tempo di stranezza e di originalità, non sarebbe riuscita a sopportare il
contatto con tante brutture e volgarità. Per il momento, tuttavia, quel tipo di scoperte la divertiva, come sempre accade
per tutte le scoperte, e giocava a esplorare scientificamente - come un sociologo o uno studioso del comportamento
degli individui - i meandri del filisteismo britannico. Hyacinth rimase colpito più che mai dalle sue riserve di energia, di
capacità emotiva, dal suo spirito elevato, libero, temerario. Lo rivelavano man mano che procedevano, le infinite
battute, le stravaganti proposte che accendevano l'animo del giovane rendendolo consapevole della gioia con la quale,
fino alla morte, avrebbe inseguito con lei qualsiasi stravagante fantasia. In quel momento gli sembrò che giocasse con la
vita in modo tanto audace e sprezzante che inevitabilmente tutto sarebbe finito in una violenta catastrofe.
Voleva soprattutto che Hyacinth l'accompagnasse in un music-hall o in un caffé-taverna; confessò perfino di
essere curiosa di vedere l'interno di un pub. Ma poiché aveva ancora sufficiente autocontrollo per ricordarsi che non
vedendola rientrare a una data ora, Madame Grandoni si sarebbe preoccupata, furono costretti a contentarsi di una
«scappatella» meno suggestiva, come la Principessa definì, con perfetta esattezza, la sbirciata a un locale smagliante di
peltri e ottoni tirati a lucido, che portava il nome di «Terra felice.» Hyacinth aveva temuto che, quando la piccola porta
a molla, consunta dal contatto di tante mani si fosse richiusa dietro di loro, si sarebbe innervosita o quanto meno
sarebbe rimasta disgustata da quanto avrebbe udito e visto in un luogo simile, e avrebbe insistito per andar via
immediatamente. Per buona sorte c'erano all'interno solo due o tre avventori, ed evidentemente le esponenti del gentil
sesso non erano poi così rare che la presenza della Principessa potesse destare scalpore. Inoltre, il gentil sesso era
rappresentato da una donnona soda e rubiconda, la moglie dell'oste, che dava l'idea di essere avvezza a trattare con ogni
tipo di gente e di preoccuparsi principalmente di vedere che anche i clienti più raffinati mettessero sul banco il denaro
prima di essere serviti. La Principessa fece mostra di «prendere qualcosa» e di ammirare le decorazioni del bar; e
quando Hyacinth le chiese a bassa voce che cosa ne avrebbero fatto, quando fosse giunto il grande momento, di un tipo
invadente come quello, rispose di scatto: «Oh, l'annegheremo in una botte di birra!» Appena usciti dichiarò che la
«Terra felice» le era piaciuta enormemente e non ebbe pace finché Hyacinth non stabilì quando sarebbero andati
insieme al music-hall. Lo interrogò a lungo, a pezzi e bocconi, sulle sue avventure all'estero e sulle impressioni che
aveva riportato dalla Francia e dall'Italia, per interrompersi all'improvviso con qualche irrilevante ma quasi enfatico
apprezzamento su Rose Muniment e Lady Aurora, per poi ricominciare daccapo a chiedergli che cosa aveva visto e
fatto - senza darsi però la briga, in molti casi, di attendere la risposta. Era chiaro però che aveva prestato una notevole
attenzione a quello che lui aveva detto, perché alla fine, con la sua franchezza e confidenza sempre commoventi perché
sembravano esporla alla mercé degli altri, e dimostravano come si aspettasse altrettanta sincerità, fu in grado di dire:
«Bene, mio caro amico, non avete perso tempo; avete capito tutto, non vi è sfuggito nulla; ci sono tante cose che dovete
raccontarmi... faremo delle incredibili chiacchierate nelle sere d'inverno». Si riferiva evidentemente alla stagione che
stava per sopraggiungere, e quel tono di serena amicizia schiudeva infinite delizie, racchiudeva qualcosa che a Hyacinth
parve li legasse ancor di più. Vivere con lei fuori del mondo, perduti fra milioni di londinesi in uno strano, piccolo
rifugio «cockney», rappresentava il massimo dell'intimità e faceva intravedere rivelazioni travalicanti quelle che lo
avevano lasciato come stregato a Medley.
Trovarono Madame Grandoni seduta tutta sola nel crepuscolo, paziente, pacifica e troppo rassegnata alla nuova
situazione per preoccuparsi di una cosa così irrilevante come il fatto che la sua compagna non fosse rincasata a un'ora
conveniente per una signora. Si era messa ad una estremità del piccolo salotto pacchiano che dava su un giardinetto
fuligginoso, e dalla finestra aperta entravano insieme al buio della sera estiva, le note dell'organino e le voci dei bambini
che sgambettavano a suon di musica. Un rombo lontano e attutito avvertiva della presenza di Londra e per una ragione o
per l'altra all'improvviso, in quell'ora, quel luogo sembrò assumere, per il nostro giovane, l'aspetto della dimora di
un'esiliata - luogo e ora da ricordare con uno spasimo d'amore in anni futuri, in momenti di pericolo e di dolore. La
vecchia signora non si mosse dalla sedia, quando vide entrare la Principessa con il piccolo rilegatore, e guardò quel
componente della loro cerchia con familiarità, come se lo avesse visto uscire in compagnia di lei quel pomeriggio
stesso. La Principessa si fermò un attimo, sorridente, di fronte alla mite governante: «Ho fatto qualcosa di grande. Cosa
pensate che abbia fatto?» le chiese togliendosi i guanti.
«Lo sa Iddio! Ho smesso di pensare!» - e Madame Grandoni alzò gli occhi al cielo, le grasse mani vuote sui
braccioli della sedia.
«Sono venuta a piedi dall'estremità meridionale di Londra - quante miglia? quattro o cinque - e non sono stanca
neanche un poco!»
«Che forza, che forza!»sospirò la vecchia signora. «Vi metterà completamente a terra» aggiunse, volgendosi a
Hyacinth, con la sua abituale indulgenza.
«Povera cara, sente tanto la mancanza della carrozza,» disse Cristina, uscendo dalla stanza.
Gli occhi di Madame Grandoni la seguirono e Hyacinth vi scorse, nel fondo, una grande stanchezza, uno
sgomento penoso, una resa totale. «Non vi piace servirvi delle carrozze a nolo?» le chiese ansioso di offrirle un poco di
conforto e qualche suggerimento.
«Non è vero che senta la mancanza di qualcosa: la mia vita è fin troppo piena,» rispose. «Ho vissuto in
condizioni peggiori, nei brutti tempi andati.» Poco dopo proseguì: «Non vuole chiamare Assunta perché ci siete voi».
«Assunta... perché ci sono io?» Hyacinth non afferrò subito il senso di quelle parole.
«Avrete certamente visto la sua cameriera italiana, a Medley. Se l'è tenuta e se ne vergogna. Quando siamo
sole, Assunta viene a prenderle il cappello e le sue cose, ma a voi vuol far credere di fare da sola.»
«È una sua debolezza... mentre è così forte! E Assunta, che ne pensa?» chiese Hyacinth guardando gli uccelli
impagliati alla finestra, il cupido d'alabastro, i fiori di cera sulla mensola del camino, le fodere fiorite delle sedie, le
incisioni romantiche alle pareti - nelle cornici di papier maché e altro materiale, alcune avvolte in carta velina rosa - e i
prismi di vetro che pendevano ovunque.
«Dice, "che importanza avrà domani tutto questo?".»
«Il che significa che "domani" la Principessa avrà di nuovo tutti i suoi lussi? Non ha venduto allora tutte le sue
belle cose?»
Madame Grandoni fece una smorfia: «Se ne è tenuta qualcuna: le ha messe da parte».
«A la bonne heure!» urlò Hyacinth ridendo. Sedette vicino all'arguta vecchia, e passò circa mezzora
conversando d'un poco di tutto, prima che portassero le candele, mentre la loro amica era nelle mani di Assunta. Notò
con quanta determinazione la Principessa si fosse astenuta da qualunque tentativo di addolcire la pillola che aveva
deciso d'ingoiare, non mitigando la bruttezza della sua piccola casa volgare. Aveva rispettato tutti gli amuleti e tutti i
souvenirs, e aveva lasciato implacabilmente al loro posto quei ninnoli che incontravano tanto favore fra gli abitanti di
Madeira Crescent. Non aveva gettato drappi sopra la mobilia pretenziosa e non aveva disposto tappeti sopra la vistosa
moquette, ed era evidente come ritenesse che il modo migliore per capire i poveracci era di subire la tortura di una
esasperante pacchianeria. Di lì a poco entrò una cameriera - non la scettica Assunta, ma una giovane rachitica tuttofare,
la stessa che aveva aperto la porta alla coppia poco prima - ad annunciare che la Principessa desiderava informarlo che
era invitato a fermarsi per il tè. Apprese da Madame Grandoni che l'usanza di cenare presto, prima del frugale pasto
serale della servitù, era un'altra delle mortificazioni cui si era sottoposta Cristina, e quando poco dopo Hyacinth notò la
tavola apparecchiata nel salottino sul retro, che fungeva da sala da pranzo, e il tipo di vasellame che la guarniva,
convenne che per quanto di breve durata, la sincerità della Principessa era, tuttavia, per il momento, molto intensa.
Madame Grandoni gli raccontò per filo e per segno, mentre Cristina lo aveva fatto solo a sommi capi, i movimenti delle
due donne dalla partenza di Hyacinth da Medley, l'abbandono di quella bella casa e l'improvvisa decisione di Cristina di
cambiare sistema di vita, dieci giorni dopo essere tornata a South Street. Al culmine della season londinese, quando
tutta l'alta società anelava ad accoglierla come uno dei suoi più belli ornamenti, si era ritirata a Madeira Crescent,
tenendo nascosto a tutti il suo indirizzo - ma riuscendoci solo in parte - e aveva chiamato un celebre antiquario perché
venisse a stimare i suoi bibelots. Così si era separata con immenso sacrificio dalle sue cose. Aveva voluto evitare i nove
giorni di vendita all'incanto perché bisognava ammettere che pur desiderando di essere originale, non amava affatto la
pubblicità né i pettegolezzi. Era giunta a questa drastica decisione in seguito alle rimostranze del marito per le sue spese
eccessive, subito dopo la partenza da Medley: lui le aveva scritto che lo scherzo - come sembrava che lei lo
considerasse - era durato troppo a lungo, e che era ora la facesse finita. Niente avrebbe potuto irritarla di più di
un'intromissione proveniente da quella parte - poiché affermava di conoscere esattamente le entrate del Principe, di cui
la somma destinata al suo mantenimento non rappresentava che una porzione insignificante - e l'aveva fatta finita con
accanimento, come Hyacinth poteva constatare. Il giovanotto, a questo punto, fiutò quale fosse la massima
preoccupazione - cui non aveva mai pensato prima - che tormentava la degnissima signora: il pericolo che il Principe
esercitasse una tale pressione su Cristina, tagliandole gli alimenti, da costringerla a tornare a vivere insieme. Se fosse
accaduto, si sarebbe trovata in una situazione difficilissima, sebbene la teoria della Principessa era che portando la cosa
in tribunale, la legge le avrebbe assegnato un appannaggio fisso. Non era però nel suo stile ricorrere a tali mezzi, più
probabilmente avrebbe rinunciato ai suoi diritti e si sarebbe mantenuta dando lezioni di musica e di lingue,
arrotondando il bilancio con quel che rimaneva della proprietà lasciatale dalla madre. Che fosse capace di tornare dal
Principe per non rinunciare ai suoi lussi, era un pensiero che non avrebbe mai potuto sfiorare il nostro giovane, dopo
tutte le assicurazioni, da lei ribadite più volte, sul proprio anelito al sacrificio; e una preoccupazione del genere era più
che mai assente mentre ascoltava Madame Grandoni raccontare come la loro amica aveva messo in atto la rottura col
bel mondo. Va aggiunto che la vecchia signora emise un profondo sospiro al pensiero di come sarebbe andata a finire
quella faccenda, dal momento che alcune economie di Cristina erano terribilmente costose. E quando Hyacinth la
incalzò di domande, continuò dicendo che per il momento non era tanto preoccupata per quello che avrebbe potuto fare
il Principe, quanto dal timore che sua moglie si fosse seriamente compromessa con la sua temeraria, perversa
corrispondenza: lettere che arrivavano dall'estero, dio solo sapeva da dove (Cristina non gliel'aveva mai detto, né lei lo
avrebbe potuto sapere) che parlavano di ribellioni e di manifestazioni e di liberazioni - su questo non c'era alcun dubbio
- e di altre faccende che non dovevano riguardare la gente onesta. Hyacinth capiva solo a metà cosa intendesse dire
Madame Grandoni con tali allusioni, che sembravano mostrare come in quegli ultimi tempi la padrona di casa avesse
allargato in modo considerevole la cerchia dei suoi contatti con i rivoluzionari: pensò a Hoffendahl, guardandosi però
dal nominarlo, e si chiese se la sua amica avesse scritto al Maestro per intercedere per lui, per supplicarlo di lasciarlo
libero. Il volto gli andò in fiamme a quel pensiero ma si limitò a commentare che la loro straordinaria amica era amante
del pericolo. La vecchia signora avrebbe voluto vedere quanto le sarebbe piaciuto finire sulla forca - cosa che, du train
dont elle allait, non era poi tanto improbabile; e quando Hyacinth espresse la speranza che Madame Grandoni non lo
considerasse un istigatore, ella replicò: «Voi, mio povero ragazzo? Oh, vi ho conosciuto bene, a Medley, voi non siete
altro che un codino».
La Principessa ritornò per il tè, vestita sobriamente e con un mazzo di chiavi alla vita, e il modo in cui
controllò la tavola apparecchiata e la disposizione delle poche, umili vivande - una pila di pane imburrato, un barattolo
di marmellata d'arancio e un pezzo di bacon - non poteva suggerire meglio l'immagine di una economa donna di casa.
Riempì la teiera con foglie di tè contenute in un lucido barattolo di latta, tenuto sottochiave nella dispensa, dalla
serratura difficoltosa, e fece il tè con le sue superbe mani, dilungandosi tuttavia a spiegare a Hyacinth che quel regime
di austerità non si applicava a Madame Grandoni la quale sapeva benissimo che il droghiere era stato autorizzato a
rifornirla di qualsiasi leccornia desiderasse per sé. In quanto a lei, non si era mai sentita tanto bene come quando si era
messa a quella dieta casalinga. La domenica c'erano panini dolci e talvolta, per cambiare, aringa affumicata e perfino
una sogliola fritta. Hyacinth rimase incantato dalle adorabili maniere casalinghe della Principessa e dal nuovo sublime
ruolo di piccola borghese; anche ammesso che quel suo tentativo di abbinare la semplicità di vita con un modo di
pensare sofisticato fosse soltanto un gioco, era pur sempre il più raffinato spettacolo che gli avesse mai offerto.
Raccontò a Madame Grandoni di Lady Aurora descrivendola con grande umorismo, in tutti i particolari incluso il modo
di vestire, dichiarò che era una creatura deliziosa e una delle persone più interessanti che avesse incontrato da secoli, e
disse a Hyacinth che le sarebbe piaciuto ancora di più se la poverina si fosse fidata un poco più di lei. «Ma mi piacerà in
ogni caso,» dichiarò la Principessa. «Mi accorgo subito quando questo succede; non capita tutti i giorni. Da principio
tutto andrà bene e rimarrà "affascinata" - non è questo che la gente prova per me all'inizio? - ma non mi capirà affatto né
riuscirà a mettere a fuoco che strano esemplare io sia, per quanti sforzi potrò fare per mostrarglielo. Quando alla fine
crederà di avermi capita, mi volterà le spalle, disgustata, e non saprà mai di aver capito tutto il contrario. È successo
così con molte persone che mi piacevano, se la sono filata à toutes jambes. Sapeste quanta antipatia ho ispirato!» si
lamentò allegramente porgendo a Hyacinth una tazza di tè. Dal profumo egli capì che si trattava di una miscela per nulla
inferiore per qualità a quella che aveva gustato a Medley. «Non ho mai conosciuto nessuno che abbia voluto aiutarmi a
diventare migliore, perché, non appena comincio a migliorare, sotto l'influenza di qualcuno, questi non mi sopporta
più.»
«Mi avevi detto che andavi a visitare i poveri. Non capisco cosa ci facesse lì la tua Grafin» disse Madame
Grandoni.
«Anche lei, come me, faceva un'opera di carità - pare che ci vada spessissimo; insisterò perché mi porti con
sé.»
«Mi pareva che aveste promesso a me di accompagnarvi in queste peregrinazioni,» disse prontamente Hyacinth
in tono supplichevole.
La Principessa lo guardò un istante: «Caro signor Robinson, Lady Aurora ne sa molto più di voi.»
«Ma ci sono state occasioni in cui vi siete congratulata con me per la mia cultura.»
«Ma io parlo delle classi povere!» rispose lei; e stranamente lui non riuscì a negare le prerogative di Sua
Signoria. Poi tornò sul discorso che la padrona di casa aveva fatto poco prima, dicendo che non gli sembrava che né lui
né Madame Grandoni se la fossero data a gambe, e lei rispose: «Oh, scapperete anche voi, non temete!».
«Mi pare che se avessi voluto abbandonarti lo avrei fatto già da un pezzo: invece mi sono lasciata scappare
tutte le occasioni,» sospirò la vecchia signora. Hyacinth si accorse che i suoi occhi avevano perso, o abbandonato
volutamente, la loro consueta amabilità: c'erano troppe cose che la preoccupavano.
«È vero che se non mi avete lasciata quando ero ricca, non starebbe bene che mi lasciaste ora,» insinuò la
Principessa; e prima che Madame Grandoni replicasse disse a Hyacinth: «Mi è piaciuto molto quello strano individuo, il
vostro amico Muniment, quando ha detto che non sarebbe venuto a trovarmi. "Che gliene verrebbe" povero diavolo?
Proprio non so cosa gliene verrebbe. Voi non faceste tanto il difficile; avete resistito un poco mettendo avanti qualche
ostacolo, ma si capiva che poi avreste capitolato,» continuò posando sull'ospite un sorriso impenetrabile. «E poi, allora,
ero molto più elegante, più splendente; ero coperta di fronzoli e facevo pensare chissà a quali lusinghe mondane.
Probabilmente sarò apparsa più attraente. Ma il suo rifiuto mi è piaciuto,» ripeté; e di tutte le cose che disse quella sera
fu questa a far maggiore impressione al nostro eroe. Rimase ancora un'ora dopo il tè, perché lei si era alzata dal tavolo
ed era andata al piano - per non privarsi di questo conforto aveva acquistato un umile strumento del tipo cosiddetto «da
cottage» - e si era messa a suonare in un modo che gli rammentò lo sfogo celebrativo come lui avrebbe voluto definirlo,
del giorno del suo arrivo a Medley. L'aria si era fatta opprimente e dietro sua richiesta Hyacinth aprì la finestra del
salotto dove era il piano, che dava sulla facciata della casa, su Madeira Crescent. Sotto, nella via, si riunirono giovanotti
dei due sessi, quei sudici bighelloni che un'ora prima si erano affollati intorno alla pianola; ma in questa occasione non
si misero a ballicchiare: si appoggiarono silenziosi al muretto di cinta e ascoltarono la musica meravigliosa. Quando
Hyacinth la informò dell'incantesimo che aveva operato, la suonatrice affermò di esserne estremamente felice; aggiunse
che era proprio soddisfatta, quasi fiera di quella giornata: sentiva che aveva cominciato a fare qualcosa per il popolo.
Prima che egli si accomiatasse trovò ancora modo di ribadire la sua convinzione che lo strano individuo di Audley
Court non sarebbe andato da lei, ed egli si astenne dal contraddirla perché anche lui era certo che di fatto non ci sarebbe
andato.

VI

Hyacinth poté constatare l'esattezza delle previsioni della Principessa, quando aveva detto che Lady Aurora
sarebbe rimasta, sulle prime, affascinata, non appena si recò a Belgrave Square - una visita che si affrettò a fare spinto
da un profondo senso di riconoscenza per quanto la nobildonna si era prodigata nella circostanza della morte di Pinnie.
La trovò esattamente come quando era andata a trovarla l'anno prima; trascorreva la stagione morta nella casa paterna
vuota, in mezzo a un deserto di drappeggi marroni e ad echi assopiti di conversazioni vivaci. L'aveva vista così spesso
durante la malattia di Pinnie che sentiva - o aveva sentito allora - di conoscerla quasi intimamente, di essere diventati
amici, quasi camerati, e di potersi ormai sempre incontrare senza imbarazzo e senza cerimonie. La trovò però agitata e
nervosa, come l'altra volta, non distaccata ma invischiata in una nuova impacciata timidezza e quasi dimentica di quello
che li aveva ravvicinati. Hyacinth però amava molto la sua compagnia perché era l'unica persona al mondo che, senza
smancerie, delicatamente e con naturalezza continuava a trattarlo come un gentiluomo, e sembrava considerarlo
realmente tale. Non gli aveva mai parlato con quella meravigliosa lusinghiera familiarità che sgorgava dalle labbra della
Principessa, né gli aveva mai detto cosa pensasse di lui: ma i suoi modi timidi, schivi, ricettivi, che davano per scontata
ogni uguaglianza e comunione di idee, erano un omaggio alla signorile natura che gli riconosceva. Fu così che conversò
con lui, quel giorno, sull'argomento dei viaggi all'estero; Hyacinth si ritrovò a Belgrave a discutere dell'indirizzo
politico parigino e delle teorie ruskiniane su Venezia, secondo la moda dei cosmopoliti nati in quei paesi. Ma non gli ci
volle molto per capire che i pensieri di Lady Aurora erano altrove. Il sorriso deferente che le aleggiava sul volto mentre
sedeva con il capo in avanti e le lunghe mani allacciate in grembo, era un poco meccanico, il suo atteggiamento
svogliato. Quando le espose le sue teorie su alcune arrière-pensées di Monsieur Gambetta - che, a suo parere, non
mancavano del tutto di originalità - non lo interruppe, perché non era sua abitudine interrompere; ma approfittò di una
pausa per dire rapidamente e fuori di proposito: «Pensate che la Principessa Casamassima tornerà ancora ad Audley
Court?»
«Sono sicuro di sì, se loro vorranno.»
«Lo spero. È proprio meravigliosa,» disse Lady Aurora con enfasi.
«Sì, è proprio meravigliosa. Credo che sia stata contenta.»
«Rosy non parla d'altro. Le farebbe un gran bene rivederla. Non credete che sia diversa da chiunque altro?»
Poi, senza aspettare risposta, aggiunse: «Mi è piaciuta straordinariamente.»
«Anche voi le siete piaciuta tanto. So di certo che le fareste un piacere immenso se andaste a trovarla,» disse
Hyacinth.
«Incredibile,» ansimò la sua compagna, e si fece dare subito l'indirizzo della Principessa, annotandolo in un
vecchio taccuino. Il biglietto da visita che la Principessa le aveva dato a Camberwell non recava nessun indirizzo, e
Hyacinth riconobbe la svista - la Principessa era così distratta. Poi lei disse, un poco esitante: «S'interessa davvero ai
poveri?»
«Se non se ne interessasse,» rispose il giovane «non vedo che bisogno avrebbe di ostentarlo.»
«Allora è veramente una donna notevole - meritevole della massima stima.»
«Anche a voi interessano... dunque, perché lei dovrebbe essere più meritevole di voi?» chiese Hyacinth.
«Oh, ma è tutta un'altra cosa - lei è fantasticamente attraente,» rispose Lady Aurora facendo,
sconsideratamente allusione al proprio aspetto bizzarro di cui era destino che Hyacinth dovesse sentir parlare a lungo.
Non appena pronunciate quelle parole si sentì imbarazzata e per cambiare discorso proseguì rapidamente: «Mi
piacerebbe parlare con lei ma la cosa mi spaventa. È così incredibilmente intelligente.»
«Quanto sia "incredibile" lo scoprirete quando la conoscerete meglio,» disse lui con un profondo sospiro.
La sua amica lo guardò un poco e riprese in tono vago: «Che cosa interessante!» E un momento dopo continuò:
«Potrebbe fare tante altre cose. Potrebbe incantare il mondo intero.»
«Qualunque cosa faccia, lo incanta sempre,» sorrise Hyacinth.
«È quello che dico anch'io: molta gente si contenterebbe... bella com'è... C'è un merito enorme a rinunciare a
qualcosa.»
«Ha conosciuto molta gente cattiva e vuole conoscere qualche persona buona,» spiegò lui. «Perciò, vi prego,
andate da lei,» disse.
«Dà l'impressione di non aver mai conosciuto il male in tutta la sua vita,» disse, rapita, Lady Aurora. «Non me
la so immaginare in quei luoghi orribili dove dovrà andare.»
«Ci siete andata anche voi, e non vi è accaduto nulla di male,» disse lui.
«Che ne sapete? La mia famiglia dice di sì.»
«Mi fate apprezzare il fatto di non avere una famiglia,» disse il giovanotto.
«E la Principessa... ne ha una?»
«Ah sì, ha un marito. Ma non vivono insieme.»
«È forse una delle persone cattive?» chiese impulsivamente Lady Aurora, come una fanciulla che ascolti una
favola.
«Beh, preferisco non infierire visto che è già in disgrazia.»
«Se fossi un uomo ne sarei innamorato,» disse Lady Aurora. Poi aggiunse: «Mi chiedo se potremo lavorare
insieme.»
«È proprio quello che spera.»
«Non le mostrerò i luoghi peggiori,» protestò maliziosamente milady.
Il suo ospite rispose: «Mi aspetto che farete come tutti... esattamente quello che vuole lei!» Prima di congedarsi
le disse: «Sapete se a Paul Muniment è piaciuta?»
Lady Aurora rimase un momento a pensare, con evidente intensità: «Credo che la consideri straordinariamente
bella - la più bella donna che abbia visto.»
«La considera sempre un impostore?»
«Sempre?» chiese Lady Aurora come se non capisse.
«Alludo all'impressione che ne ebbe l'inverno scorso, quando gli parlai di lei.»
«Oh, sono certa che la considera una donna di fegato!» e questa fu tutta la soddisfazione che Hyacinth ricavò
dai supposti pensieri di Paul Muniment sulla Principessa.
Dopo qualche giorno tornò a Madeira Crescent, di sera, l'unico momento della giornata in cui fosse libero,
visto che la Principessa gli aveva esteso un generico invito ad andare a prendere il tè. Aveva deciso di comportarsi con
discrezione anche se non aveva motivo per non sentirsi autorizzato ad andarla a trovare subito e spesso. Era terrorizzato
che lei potesse abituarsi troppo alla sua presenza stancandosene - che la sua compagnia l'annoiasse; e al tempo stesso si
figurava che lei potesse annoiarsi senza di lui, durante le monotone sere d'estate, quando perfino la gente di Paddington
andava fuori città. Si domandava che cosa facesse, chi l'andasse a trovare, quali svaghi avesse, che cosa la trattenesse
dal buttare all'aria, all'improvviso, tutta quella faccenda. Si ricordò che c'era tutta una zona della sua vita che gli era
quasi sconosciuta - Lady Marchant e figlie, a Medley, oltre ad altre tre o quattro persone che erano andata a trovarla ne
costituivano la prova - e non sapeva neppure fino a qual punto, nonostante l'attuale metamorfosi, avesse mantenuto i
rapporti coi suoi vecchi amici; ma sapeva che non era lontano il giorno in cui avrebbe scoperto che quello che aveva
trovato a Madeira Crescent era meno interessante di quanto aveva perduto. La seconda volta che andò da lei dovette
però riconoscere che le aveva fatto un gran torto: la trovò piena di risorse, felice come mai: aveva tempo per leggere,
per scrivere, per suonare il piano e, soprattutto, per pensare - un delizioso distacco da quel mondo invadente, volgare,
pettegolo che aveva conosciuto fino allora. L'unica seccatura era la quantità di biglietti dei suoi vecchi amici -
interminabili preghiere perché si facesse viva, dicesse che cosa le era accaduto, andasse a stare con loro in campagna.
Ma riuscì a disfarsi di quei rigurgiti del passato nella maniera più semplice: bruciandoli senza rispondere. Disse subito a
Hyacinth che Lady Aurora era andata a farle visita due giorni prima, quando lei non era in casa, e che le aveva subito
rinnovato l'invito di venire a prendere il tè, una sera qualsiasi, alle otto, secondo la prassi seguita dagli abitanti di
Madeira Crescent nello scambiarsi visite - la Principessa sapeva tutto di loro, ormai, ed era ansiosa di farlo partecipe di
quanto sapeva; e per Lady Aurora, ne era certa, era più comodo andare da lei di sera, visto che le sue giornate erano
tutte prese dalle opere buone, dalle visite di carità. Milady arrivò dieci minuti dopo Hyacinth; assicurò la Principessa
che il suo invito era stato così lusinghiero che non aveva voluto lasciar passare un altro giorno. Fu presentata a Madame
Grandoni e venne subito servito il tè mentre Hyacinth provava un senso di gratitudine per la comprensiva assenza di
stupore di Lady Aurora nel trovarlo lì. Sapeva che Hyacinth frequentava quella casa, essendo stata testimone
dell'incontro fra lui e la nobildonna a Audley Court; ma avrebbe potuto sorprendersi nel constatare da vicino il posto
che vi occupava. Tutto ciò che, in quella occasione, la Principessa fece o disse, a quale scopo non si sa, ebbe l'effetto di
farla apparire ancora più eccezionale e rara; e il modo squisitamente raffinato con cui cercò di conquistare la fiducia di
Lady Aurora, e di mettersi sotto la pura e superlativa influenza della nobile zitella produsse in Hyacinth un
compiacimento raramente provato. Si fece piccola e umile, parlò di propri deboli sforzi e aspirazioni; la supplicò e la
persuase; posò la mano bianca su quella della gentile ospite, guardandola con interesse visibilmente sincero ma
accentuato dal contrasto tra la sua bellezza e la sua personalità da un lato, e i duri, tetri problemi della miseria e del
crimine dall'altro. Era uno spettacolo commovente, e Lady Aurora ne rimase commossa; lo si vide chiaramente quando
sedettero accanto sul sofà, dopo il tè, e la Principessa dichiarò che voleva sapere dalla sua nuova amica quello che
faceva - che cosa aveva fatto per anni - per poterla imitare. Le pose domande personali - talvolta imbarazzanti per la
loro immediatezza - era un'abitudine che aveva notato in lei fin dall'inizio - e la sua ospite, sebbene bramosa di piacerle,
affascinata ed eccitata, si sentì a disagio sotto quel fuoco di domande serrate e pubbliche. Il pubblico era composto da
Madame Grandoni e Hyacinth, ma la vecchia signora - il cui rapporto con la visitatrice era consistito quasi
esclusivamente in un'osservazione profonda e inquisitoria, a questo punto se ne andò via ciabattando, e fu possibile -
attraverso i sottili muri divisori che caratterizzavano Madeira Crescent - udirla salire in camera sua. Hyacinth pensò che,
per delicatezza, avrebbe dovuto ritirarsi anche lui, e intendeva farlo da un momento all'altro; è vero che - e soltanto
dopo due volte che si erano visti - Lady Aurora gli aveva confessato cose sul proprio conto come non avrebbe mai
sognato di aspettarsi da lei, ma esaurito quello sprazzo di egotismo non aveva mai più fatto riferimento né ai propri
sentimenti né alla propria situazione.
«Rimarrete in città, in questa stagione, per svolgere il vostro lavoro?» chiese la Principessa; e c'era qualcosa di
straordinariamente dolente nel tono in cui pose questa domanda - come se le pesasse di scoprire che la propria iniziativa
non era stata poi originale come aveva sperato. «Il signor Robinson mi ha parlato della vostra grande casa a Belgrave
Square - dovrete farmi venire da voi. Nulla mi renderebbe più felice che il vostro consenso a lasciarvi aiutare un poco -
per poco che sia. Vi fa piacere essere aiutata, o preferite fare da sola? Siete indipendente, o avete bisogno di un
appoggio, di un sostegno, di qualcuno da seguire? Perdonatemi se le mie domande possono sembrare impertinenti;
parliamo così - sapete - a Roma, dove ho trascorso gran parte della vita. Il pensiero di voi, tutta sola, nella vostra grande
casa triste, con tutte le vostre opere di beneficenza, mi pone di fronte a uno spettacolo tenero e commovente, che sembra
uscito da un romanzo inglese. Le donne inglesi sono così dotate, non vi pare? Io sono proprio una forestiera, sapete, e
sebbene viva qui da qualche tempo, ci vuole sempre parecchio per scoprire le cose au juste. Dunque, il lavoro che
svolgete per il popolo è solo una delle vostre occupazioni o è l'unica ad assorbirvi completamente? Vorrei che per me
fosse così. E la vostra famiglia approva che vi siate buttata in questa impresa o avete dovuto affrontare il loro scherno?
Penso che sia andata così; in questo, voi inglesi, siete maestri: nel sopportare di essere messi in ridicolo. Vi succede così
spesso, non è vero? Non so se io potrei sopportarlo. Non ci ho mai provato - ma insieme a voi mi sembra che potrei
affrontare qualunque cosa. E i vostri, sono intelligenti e comprensivi, no? Sono insomma come tutte le famiglie? Allora,
mia cara, dobbiamo formare noi una piccola famiglia. L'idea vi alletta o la respingete? Andate avanti alla giornata, o
siete sorretta da una fede, un grande ideale? Siete, par exemple, religiosa praticante? Svolgete il vostro lavoro per conto
di qualche pia associazione o fondazione caritatevole, per le missioni, o per i preti o per le monache? Io sono cattolica,
sapete... ma non certo per mia scelta! Non m'importerebbe nulla di aggregarmi a chiunque purché i risultati fossero
soddisfacenti. Mi sto spiegando male, ma forse mi capite lo stesso. Forse non sapete che io sono tra quelli che credono
fermamente nell'avvento di un nuovo sistema che non potrà rendere le cose peggiori di come già sono. Credo, in una
parola, che il popolo debba agire per conto proprio - nessuno lo farà mai per esso; e sono pronta ad agire insieme a lui,
in qualsiasi modo intelligente o intellegibile. Se questo vi dovesse turbare ne sarei infinitamente addolorata, perché
dall'impressione che mi sono fatta di voi credo di capire che non siete schiava dei soliti pregiudizi, così che se si
dovessero verificare certe cose non ne rimarreste spaventata. Siete meravigliosamente timida, non è vero? - ma non
siete vile. Penso che se foste convinta che l'ineguaglianza, l'oppressione, la miseria universali fossero un male
necessario e imperituro, non v'interessereste a quella gente di là dal fiume (la ragazza invalida e suo fratello, intendo)
perché il signor Robinson mi dice che sono socialisti ad oltranza - almeno il fratello. Forse mi obietterete che non
v'importa nulla di lui, che è la sorella ad interessarvi: è infatti una perfetta piccola femme du monde - parla meglio di
molte persone dell'alta società. Spero che non vi dispiaccia se dico questo, perché mi pare di capire che voi non volete
far parte dell'alta società. Figuratevi io! Non l'avete forse criticata, condannata, abbandonata anche voi, come me? Non
siete nauseata di tutto questo egoismo, snobismo, cattiveria, frivolezza, immoralità, ipocrisia? Non trovate un parallelo
fra le nostre due situazioni? Non parlo dei nostri caratteri, perché voi siete assai migliore di quanto sarò mai. Voi siete
divinamente buona. Quando incontro una donna del vostro stampo - e non mi accade spesso - cerco di essere un poco
meno cattiva. Voi avete aiutato centinaia, migliaia di persone: ora dovete aiutare me!»
Queste osservazioni che ho esposto tutte di seguito, naturalmente non uscivano dalle labbra della Principessa
così, come un fiume ininterrotto di parole; erano arrestate, e interrotte, da frequenti risposte inarticolate e da proteste
piene d'imbarazzo. Anche quando si sentiva lodata, Lady Aurora si schivava, sbattendo gli occhi, innervosita, sotto
l'abbagliante riflettore della simpatia della padrona di casa. Non c'è bisogno che stia qui a ripetere le sue risposte, tanto
più che nessuna trovò una forma completa, ma andarono a perdersi in risate nervose e occhiate schive, rivolte ora al
soffitto, ora al pavimento o alle finestre, sguardi che sembravano invocare una qualche potenza occulta e soprannaturale
che facesse sì che la conversazione diventasse più impersonale. In risposta all'allusione della Principessa circa le
convinzioni politiche della famiglia Muniment disse che fratello e sorella non erano d'accordo su questioni di ordine
pubblico, ma pensavano allo stesso modo sull'interessamento delle classi danarose verso la classe operaia, sul tentativo
da parte dei cosiddetti esseri superiori, ad inserirsi nella loro vita: lo consideravano un grande errore. A sentire questo la
Principessa mostrò un grande disappunto; voleva sapere se i Muniment ritenessero impossibile far loro del bene: «Oh,
ma io intendevo uno sbaglio da parte nostra,» disse Lady Aurora. «Loro non lo farebbero mai, al posto nostro; pensano
che faremmo meglio a occuparci dei nostri sfizi.» E poiché la sua nuova amica la guardava stupita, senza comprendere,
continuò: «Rosy ritiene che abbiamo il diritto di goderci i nostri privilegi, indipendentemente da quanto possano star
male i poveri, e suo fratello sostiene che ormai non abbiamo più molto tempo per goderceli e che in vista di questo
siamo dei grandi sciocchi a non approfittare finché dura.»
«Capisco, capisco, è un pensiero ardito,» mormorò la Principessa con aria ammirata.
«Lo credo bene. In ogni modo, qualunque cosa accada, dobbiamo fare qualcosa.»
«Credete dunque che accadrà veramente qualcosa?» disse la Principessa.
«Sì, dei mutamenti immensi. Ma io, sapete, non sto da nessuna parte.»
La Principessa considerò quelle parole e disse: «Neanch'io. Molti invece sì. Il signor Robinson, ad esempio.» E
volse la sua luce dorata su Hyacinth.
«Oh, se i cambiamenti dipendessero da me!...,» esclamò il signor Robinson arrossendo.
«Non appiccheranno fuoco al Tamigi... su questo siamo d'accordo!»
Lady Aurora si comportò come se ritenesse di non aver alcun diritto di conoscere i vincoli di Hyacinth; per cui
fissò con aria assente il pianoforte, e subito aggiunse, rivolta alla padrona di casa: «Sono sicura che suonate
meravigliosamente bene. Mi piacerebbe ascoltarvi.»
Hyacinth capì a volo che la loro amica considerava l'osservazione banale: non aveva chiesto a Lady Aurora di
passare la serata con lei per fare ricorso alle risorse delle persone qualunque. Rispose però con perfetta gentilezza che
sarebbe stata felicissima di suonare per lei; ma c'era una cosa che le sarebbe piaciuta molto di più: ascoltare Lady
Aurora narrare la sua vita.
«Per carità, non parliamo della mia; la vostra, piuttosto!» gridò milady arrossendo per l'emozione, e per la
prima volta, dal suo arrivo, abbandonandosi al gesto disinvolto di posare una mano su quella della Principessa.
«Con questo odore di confidenze nell'aria è meglio che me ne vada,» disse Hyacinth; e la Principessa non si
oppose. Fra lei e Lady Aurora stava evidentemente per nascere una grande, intima amicizia, e riflettendoci mentre
camminava verso casa, Hyacinth per uno strano motivo che non avrebbe saputo spiegare se ne sentì rattristato.

VII

La domenica successiva a questi avvenimenti, la passò quasi interamente dai Muniment, coi quali, da quando
era tornato al lavoro, non aveva più avuto occasione di scambiare quei lunghi, intimi colloqui di un tempo. Quello però
era un giorno felice; in particolare per la totale stima ormai recuperata per l'imperscrutabile Paul. La calda, luminosa
aria settembrina rendeva più gradevole perfino la lugubre Audley Court, e il fratello di Rosy e il suo visitatore, seduti
accanto a lei sul sofà, trascorsero la mattina discutendo allegramente una dozzina di progetti per rendere più festosa la
giornata. Negli ultimi sei mesi, c'erano stati momenti in cui Hyacinth si era convinto che non gli sarebbe più stato
possibile dividere quel genere di pensieri, dopo la strana metamorfosi subita, nella sua immaginazione, dall'uomo che
inspiegabilmente aveva rivolto la propria durezza - ma era costretto a fare il duro - verso il suo appassionato
ammiratore. Per il momento tuttavia quella nuvola scura si era dissipata, e la compagnia di Paul era tornata ad essere
una fonte di sicurezza e d'ispirazione. Non era mai stato tanto gentile, allegro, rassicurante; non gli era mai sembrato
tanto bello aggrapparsi a lui con fiducia. E un osservatore non avrebbe mai indovinato perché i due uomini avrebbero
dovuto evitare di guardarsi negli occhi. Rosy, naturalmente, prese parte ai progetti dei due amici - che stavano
dibattendo se limitarsi a fare una passeggiata fino a Hyde Park, o imbarcarsi su un vaporetto al Lambeth Pier per una
escursione a Greenwich, o prendere un treno per Hampton Court dalla stazione di Waterloo. Miss Muniment non aveva
mai visitato quei luoghi, ma disse ugualmente la sua; con fare competente parlò della ressa sul vaporetto e del disagio
che avrebbero provato al ritorno in compagnia di gente ubriaca, come se avesse sperimentato personalmente quegli
inconvenienti; ricordò che dalla collina di Greenwich la visibilità era scarsa a causa della foschia e che, in quella
stagione, tutta la gente bene - che era l'attrattiva maggiore della passeggiata - disertava Hyde Park; optò invece per il
vecchio palazzo di Wolsey, di cui sembrava conoscere intimamente la storia. Discusse con slancio e allegria il progetto
del fratello e Hyacinth ancora una volta dovette meravigliarsi dello stoicismo di quella forte, allegra creatura levigata
dal male, che sembrava non pensare mai alle proprie privazioni ed era capace di giacere nella sua afosa cameretta per
tutto il dorato pomeriggio senza scoppiare in lacrime pensando ai campi e ai giardini remoti che non avrebbe mai visto,
mentre i raggi del tramonto si facevano sempre più obliqui sulla scolorita, brutta, notissima carta da parato. Parlò a
lungo della Principessa, lamentando di non trovar parole che ne descrivessero la bellezza, la grazia, la bontà; dichiarò
che di tutti i bei volti che si erano curvati sul suo letto - e Rosy parlava come se avesse avuto infinite occasioni per fare
dei paragoni - quello di lei era di gran lunga il più nobile e il più consolante. La Principessa sembrava illuminare la
stanza con la sua presenza, e quando se ne andava lasciava come un alone, dietro di sé. Rosy riusciva ad evocare la sua
immagine proprio come se fosse un'aria già udita e raccontò, nel suo linguaggio caratteristico e delicato, come fosse
solita giacere lì, nelle ore più tranquille, ripetendo fra sé e sé quella bella melodia. La Principessa avrebbe potuto essere
di sangue reale, o imperiale, e Rosy notò che, personalmente, aveva ben poco da lamentarsi della monotonia della vita
se da un momento all'altro poteva accaderle di vedersi davanti un'apparizione simile. Con la sua presenza aveva
trasformato quel luogo imprimendogli un tocco di classe; se quella stanza era andata bene a una principessa, a maggior
ragione andava bene a lei; e si augurava che Paul non parlasse più di traslocare da un luogo che da ora in poi sarebbe
stato sempre colmo di quei ricordi meravigliosi. La Principessa era riuscita a trovare la strada per Audley Court, ma non
era detto che l'avrebbe trovata per un altro alloggio, né potevano aspettarsi che li inseguisse da un capo all'altro di
Londra, secondo il loro capriccio; e in ogni caso era rimasta bene impressionata da quella cameretta, così che,
standosene buoni buoni ad aspettare, chissà che non le fosse venuta voglia di mandare un tappeto o un quadro, o uno
specchio dalla cornice dorata, per renderla più gradevole? Era una peculiarità di Rosy passare tranquillamente
dall'entusiasmo più incondizionato al calcolo spiccio. La sua chiacchiera era sempre così vivace e arguta che si faceva
ascoltare volentieri ma oggi Hyacinth era meno paziente del solito perché, più lei parlava più Muniment taceva, e
Hyacinth era molto più curioso di conoscere le impressioni di Paul sulla Principessa. Rosy non fece cenno al fatto che
Hyacinth avesse goduto, tutta per sé, tanto a lungo, la compagnia di quella signora meravigliosa: si era mostrata sempre
bonariamente incredula verso le avventure sociali di Hyacinth, e questi presentiva già il momento in cui Rosy avrebbe
parlato di quella loro conoscenza importante come se fosse stata lei ad averla scoperta per prima. Si soffermò a lungo
sul rapporto nato tra Lady Aurora e la Principessa, gloriandosi di essere stata lei a far avvicinare quelle due illustri
donne. Le sembrava di sentirle quando, nel bel mondo avrebbero fatto allusione alla prima volta in cui si erano
conosciute... «da Miss Muniment, vi ricordate?»; e raccontò come Lady Aurora, che era tornata ad Audley Court il
giorno prima, le aveva dichiarato di aver contratto con Rosy un debito di riconoscenza che non sarebbe mai stata in
grado di pagare. Le due signore avevano avuto, una per l'altra, una simpatia quasi mai provata per nessuno; e non era
un'immagine stupenda pensarle mentre, la mano nella mano, si muovevano come due gigli gemelli, nelle alte sfere
luminose? Muniment chiese un poco grossolanamente e con ostilità che diavolo volesse da te quella, e Hyacinth
domandò a sua volta: «Che dici? Che vuole chi da chi?»
«Che vuole la bella delle belle dalla nostra povera, semplice Lady? È una donna di tutt'altro stampo. Non me
ne intendo di donne, ma questo lo capisco.»
«In che cosa sarebbero di stampo diverso, secondo te? Tutte e due hanno lo stampo della nobiltà!» urlò Rosy.
«Chi riuscirà mai a capire che vogliono le donne?» disse Hyacinth con la disinvoltura dell'uomo di mondo.
«Beh, ragazzo mio, se non lo sai tu! Forse se abbiamo la pazienza di aspettare ce lo dirà lei stessa un giorno».
«Dirci quello che vuole da Lady Aurora?»
«Poco m'importa di Lady Aurora, ma da noi, che cerca, con tutti i viaggi che ha fatto?»
«Non pensi di valere un lungo viaggio?» gridò Rosy allegramente. «Se non fossi mio fratello, il che è molto
comodo per vederti, e se non fossi confinata su un sofà, andrei da un capo all'altro dell'Inghilterra, per fare la tua
conoscenza. È innamorato della Principessa,» continuò rivolta a Hyacinth, «e fa delle domande insensate per non darlo
a vedere. Che cosa andiamo cercando, in genere, tutti noi?»
Alla fine fu deciso che i due amici sarebbero andati a Greenwich e dopo avere mangiato insieme a Rosy un
poco di pane e formaggio, si imbarcarono su un vaporetto, così affollato che si appoggiarono contro il parapetto
schiacciati da tutte le parti, a poppa della barca; e si misero a guardare le grandi, nere sponde del fiume giallo. Il fiume
aveva sempre esercitato su Hyacinth una enorme seduzione. Quel fascino ambiguo che aveva colto fin da bambino in
ogni aspetto di Londra lo ritrovava negli scuri contorni delle sue rive, nell'agitazione del suo sordido letto; negli archi e
nei pilastri grandiosi dei ponti, dove l'acqua andava a scagliarsi con forza e i fumaioli s'inchinavano e i rumori
rimbombavano, e che sembravano incombere sul capo come un'interminabile processione; nei chilometri di orribili
banchine e magazzini; nella svettante folla di comignoli, alberi maestri e gru; nelle insegne dipinte delle fabbriche
fuligginose che si fronteggiavano da una sponda all'altra; negli strani, piatti, ingombranti barconi che si affaccendavano
e urtavano in lavori di natura incomprensibile ma, comunque, notevolmente sudicia; nelle goffe navi da piccolo
cabotaggio e nelle carboniere che si facevano sempre più numerose man mano che proseguivano; nelle piccole
imbarcazioni da diporto oscillanti sulle creste oleose della scia del vaporetto che i gitanti fissavano con aria sprezzante e
sarcastica alzando gli occhi dai remi; in una parola, in tutta la macinante, sbuffante, fumosa, stillante attività del torbido
fiume. In mezzo a quella folla allegra, all'odore di tabacco cattivo, sotto la pioggia di corpuscoli fuligginosi e fra i suoni
della cornamusa di un tetro scozzese che accennava di tanto in tanto, in modo approssimativo, un passo di «reel»,
Hyacinth si astenne dal parlare al suo compagno di quello che più gli stava a cuore, ma più tardi, quando si sdraiarono
sull'erba scura, calpestata, di un pendio del Greenwich Park, guardando il fiume che si snodava e brillava al di là del
colonnato pomposo dell'Ospedale, gli chiese se ci fosse nulla di vero in quello che aveva detto Rosy, che era
innamorato della loro amica Principessa. Disse intenzionalmente «loro amica,» parlando come se le due volte che lei si
era recata ad Audley Court consentissero di supporre che Muniment la conoscesse quanto lui. Voleva fargli capire che
non era geloso, e desiderava sapere quanto ho detto per ovviare al fastidioso pensiero che, come era già accaduto la
prima volta, il suo compagno assumesse un atteggiamento di scherno. Era inconcepibile che un tipo come Muniment
cambiasse opinione da un giorno all'altro, ma dopo essere stato testimone di una delle più raffinate esibizioni di arte
propiziatrice mai offertagli dalla Principessa, (che, se nei rapporti sociali non era forse l'arte più frequentemente
esercitata, pur sempre rimaneva il più meraviglioso dei suoi artifici) rifletté che sarebbe stato davvero strano che un
giovanotto normale non ne fosse rimasto conquistato. Hyacinth sapeva bene che Muniment non era un uomo da
lasciarsi facilmente smuovere o blandire dalle donne, ma senza sminuire l'abilità della Principessa di operare miracoli,
poteva essere successo proprio questo. I due amici si erano aggirati nei grandi saloni e cortili dell'Ospedale, levando gli
occhi alla magnificenza della famosa sala affrescata e ammirando la lunga, minacciosa serie delle vittorie navali inglesi.
Muniment osservò che il suo amico doveva aver visto cose altrettanto belle nei paesi stranieri, da quel disgustoso
piccolo furfante viaggiatore che non era altro. Non avevano ordinato portate di pesce, né al «Trafalgar» né alla «Ship» -
in vista del frugale pasto con Rosy a base di tè e scampi, al loro ritorno - ma avevano scarpinato su e giù per i ripidi
declivi dell'incantevole parco naturale; avevano cercato di avvicinarsi ai miti daini seguendone l'insensato fuggire;
avevano guardato giovani ragazzi e ragazze, dalle facce ilari e rosse rotolarsi in promiscui accoppiamenti sui pendii;
avevano contemplato il piccolo osservatorio di mattoni, arroccato su un poggiolo, che marca l'ora della storia inglese e
che il compagno di Hyacinth osservò con occhio tecnico, da intenditore; si erano spinti fuori dai cancelli superiori e
avevano ammirato le impeccabili ville di Blackheath, che, secondo Muniment, rappresentavano il non plus ultra delle
abitazioni di lusso. Additò due o tre piccole case plurifamiliari, dalla facciata di stucco, e l'iscrizione «Mortimer Lodge»
o «The Sycamores» sul pilastrino del cancello e Hyacinth capì che era lì che avrebbe voluto finire i suoi giorni - in
quell'aria pura di collina, con una elegante finestra vicino al letto di Rosy, e fuori l'allegro spettacolo delle gite
suburbane. Rientrati nel parco, si sdraiarono sotto un albero, sentendosi un poco accaldati e stanchi, e fu allora che
Hyacinth cedette alla curiosità.
«Innamorato... innamorato di lei, ragazzo mio?» disse Muniment. «Sarebbe come essere innamorato della
cupola di San Paolo, che intravedo laggiù.»
«La cupola di San Paolo non ti viene a trovare, e non ti chiede di restituirgli la visita.»
«Oh, io non restituisco visite... ho già abbastanza da fare. E non ti sembra una risposta sufficiente, che non
voglia scomodarmi per la Principessa?»
«Non ne sono per niente convinto,» disse Hyacinth. «Se andassi a trovarla così, semplicemente ed
educatamente, solo perché ti ha invitato, non la considererei una prova che ti sei incapricciato di lei. È più sospetto che
la eviti: potrebbe significare che non ti fidi di te stesso - che temi d'innamorarti, conoscendola più intimamente.»
«È strano che tu voglia per forza farmela andare a genio. Non mi pare che ti gioverebbe,» riprese Muniment
guardando il cielo, le mani intrecciate sotto il capo.
«Pensi che abbia paura di te?» chiese il suo compagno. «E poi,» aggiunse Hyacinth poco dopo, «ormai cosa me
ne può importare?»
Per un attimo Paul non replicò nulla, si voltò su un fianco, col gomito a terra, e appoggiò la testa sulla mano.
Hyacinth si sentiva il suo sguardo sul viso, e sentendo anche che stava arrossendo, lo evitò. Si era ripromesso di non
lasciarsi mai andare a riferimenti tanto tragici, col suo compagno, e le parole appena pronunciate gli erano uscite di
bocca con troppa facilità. «Che vuoi dire?» chiese Paul alla fine; e quando Hyacinth lo guardò non vide altro che la
solita faccia, forte, fresca, imperturbabile, eternamente virile e vigorosa. Chi la possedeva aveva avuto tutto il tempo,
prima di parlare, di penetrare il significato delle sue parole.
Improvvisamente, un impulso mai liberato prima, al quale anzi aveva sempre resistito, s'impossessò del nostro
giovane. Bisognava chiarire il mistero che condizionava la sua felicità, e così dimenticò i suoi scrupoli, l'orgoglio, la
forza che credeva di avere - la forza di adempiere al suo dovere e di morire senza guardarsi indietro. Si tirò a sedere
sull'erba, con le braccia allacciate intorno alle ginocchia, e all'amico apparve come contratto dalla difficoltà. Per un
attimo due paia di occhi si confrontarono con lucidità strenua, poi Hyacinth proruppe nell'esclamazione: «Che essere
straordinario sei!»
«Non hai torto,» sorrise Paul.
«Non voglio far scene né vellicare i tuoi sentimenti, ma dimmi, che proverai quando mi vedrai sulla forca?»
«Parli della faccenda di Hoffendahl? Era questo cui alludevi poco fa?» Muniment rimase lì sdraiato
nell'identica posizione, masticando un lungo filo d'erba secca che reggeva tra le labbra con la mano libera.
«Non avevo alcuna intenzione di parlarne, ma dopotutto, perché no? È chiaro che ci ho pensato su parecchio.
«E che vantaggio ne ricavi?» rispose Muniment. «Avevo sperato che non ci pensassi - non ne parli mai. Non ti
piace, vero? Vorresti mandare tutto a monte,» aggiunse.
Non c'era neppure un filo d'ironia o di disprezzo nella sua voce, niente che tradisse una critica. Parlava calmo,
come se recitasse una cosa mandata a memoria, come se fin dall'inizio avesse deciso di essere indulgente verso simili
ripensamenti. Tuttavia proprio quel tono ragionevole raggelò l'animo di Hyacinth, come il tocco di una mano ferma e
morbida a un tempo, eppure straordinariamente fredda. «Non ho la minima intenzione di ripudiare l'impegno preso, ma
come hai potuto credere che mi piacesse?» chiese con una risata forzata il nostro eroe.
«Come ho potuto? Amico mio, i tuoi gusti sono diversi dai miei. Tu ami tutto ciò che è eccitante, emozionante,
ami i cambiamenti, le sensazioni straordinarie, laddove io prediligo la santa tranquillità, la dolce pace.»
«Se rifuggi dai cambiamenti e ami la quiete, perché ti sei associato a un movimento rivoluzionario?» chiese
Hyacinth con l'aria di chi fa centro.
«Proprio per quello!» disse tranquillamente Paul. «Non vedi che il nostro movimento rivoluzionario è fermo
come una tomba? Chi ne sa nulla? Chi ne conosce tutte le ramificazioni?»
«Vedo che a te interessa solo il lato tranquillo!»
Hyacinth non aveva intenzione di fare del sarcasmo, ma un minuto dopo aver pronunciato quelle parole, si fece
tutto rosso intuendo di aver sferrato un colpo basso. Ma Paul non se ne mostrò offeso, e quasi premuroso di trovare il
modo di consolare il suo piccolo amico, rispose, col tono più gentile e insinuante del mondo: «C'è una cosa che dovresti
ricordare - rientra nei disegni del fato che l'odiosa chiamata possa non arrivare mai.»
«Non vado in cerca di queste assicurazioni,» disse Hyacinth; «e per di più lascia che ti dica che non riesco ad
immaginarmi che tu possa essere immischiato in storie inconcludenti: sono convinto che quando ti impegni tu, le cose
vanno in porto.»
Muniment meditò un istante, come se il suo piccolo amico fosse adorabilmente ingenuo: «Ma io non c'entro
per niente, in questa faccenda!»
«Forse non con le modalità pratiche; ma di chi è stata l'idea? Mi è sembrato che ci fossi dentro parecchio, la
sera in cui mi hai portato da lui.»
Paul cambiò posizione, tirandosi su e sedendosi alla turca, vicino all'amico. Gli mise le braccia intorno alle
spalle e lo attirò a sé, studiandolo in volto; e poi, nel più affettuoso dei modi, disse: «Ci sono tre o quattro probabilità in
tuo favore.»
«Non so che farmene delle tue frasette consolatorie, sai,» disse Hyacinth, gli occhi fissi su quell'insieme di
fenomeni atmosferici che Londra era in quel momento.
«Ma che diavolo vuoi?» chiese Paul imperturbato, tenendolo sempre stretto.
«Beh, mi piacerebbe penetrare i tuoi pensieri; sapere quello che prova uno che sta per separarsi dal suo più
caro amico.»
«Separarsi?» rispose quello.
«Voglio dire, nella peggiore delle ipotesi.»
«Dovresti saperlo da te, dato che anche tu stai per separarti da me.»
A queste parole Hyacinth si lasciò cadere giù, e rotolò sull'erba, coprendosi il viso con le mani. Rimase a lungo
così, senza dir parola, mentre in un repentino afflusso di associazioni, gli tornavano alla mente tante cose. Più di tutto
sentiva su di sé il fulgore di quella splendida giornata; la calda immobilità, interrotta da grida allegre; la dolcezza di
quella parentesi oziosa in compagnia di un amico meraviglioso, anche se incapace di intuire quello che non riusciva a
dirgli. Anche Paul rimase immobile, e Hyacinth capì che era sinceramente perplesso. Ebbe voglia di rassicurarlo, così,
datosi un contegno, si voltò dicendo la prima cosa che gli venne in mente, per spostare la conversazione dal piano
personale ad uno più generale. «Te l'ho già chiesto una volta, e tu mi hai risposto, ma, non so come, non ho capito bene
- e così te lo domando di nuovo - secondo te quali sono i risultati positivi che se ne avranno?»
«Le conseguenze, dici? Beh, devi ricordarti che per il momento ne sappiamo tanto poco che è difficile misurare
la portata di quel lavoro, al quale del resto non mi sembra di aver mai attribuito grande importanza. Non credo che sia
molto importante neppure il compito specifico che forse ti sarà assegnato: se questo dovesse accadere, rimarrà un
particolare nel quadro generale di cui saranno estremamente benefiche le conseguenze ultime. Io credo fermamente,
mentre non sono affatto sicuro della tua fede, anche se la ostenti, nell'avvento della democrazia. Sarà bene allora che la
democrazia ammonisca le classi che la calpestano che è sua precisa intenzione prendere il sopravvento. Molto dipenderà
da questo. Hoffendahl è bravissimo a dare ammonimenti.»
Hyacinth ascoltò questa spiegazione con interesse non simulato, e dopo replicò: «Quando dici di credere nella
democrazia mi pare di capire che ti stai augurando che vada al potere, cosa che ho sempre saputo. Quello chi non ho
mai capito è questo - perché vuoi che un mucchio di persone che consideri quasi incondizionatamente dei somari, si
facciano avanti?»
«Oh, amico mio,» rise Paul, «quando si sceglie di mischiarsi nelle faccende umane, si deve essere preparati a
trattare materiale umano. E le orecchie più lunghe, sono le classi privilegiate ad averle.»
«Ti ho sentito dire che lottavi per equiparare le condizioni umane - e abolire le antichissime disuguaglianze.
Quindi, quello che desideri è che l'umanità raggiunga tutta lo stesso grado di asinità.»
«Bravo! L'hai imparato in Francia? Abbasso i troppo perfetti: sono nefasti quanto i troppo corrotti. La bassa
levatura dei nostri simili è una conseguenza delle loro condizioni abiette; sono le condizioni di vita che voglio cambiare.
Se daremo una spinta a chi non ha mezzi per cominciare, è inevitabile che poi saprà farsi strada. Voglio metterli alla
prova, sai.»
«Ma perché l'eguaglianza?» chiese Hyacinth. «Non so perché, ma è una parola che non mi dice più nulla.
Ineguaglianza... ineguaglianza? Non so, ma a furia di ripetermela, ha finito di smuovermi come un tempo.»
«Non è certo in Francia che ti hanno messo in testa queste idee!» esclamò Paul. «È il tuo punto di vista che è
cambiato. Hai fatto carriera.»
«Santodio, che carriera?»
«Proprio così. Sei sempre stato un piccolo snob!» e quell'individuo inestimabilmente prezioso in campo
professionale mollò al giovane amico una confidenziale pacca sulla schiena. Hyacinth si amareggiò molto nel sentirsi
accusato, sia pure scherzosamente, di essere passato dalla parte dei privilegiati, e gli bruciava sulla punta della lingua la
domanda se il suo amico sapesse di quali titoli si poteva fregiare: bastardo di un'assassina, generato nel fango, dove lo
aveva raccattato una povera cucitrice. Ma il riserbo di tutta una vita non era cosa da potersi violare tanto facilmente, e
prima che quelle parole abbattessero le sue difese, Paul se ne era uscito con un «Se ti sei ormai convinto che non
approderemo a nulla, la cosa è piuttosto imbarazzante, sai?»
«Dio mi sia testimone se so in che cosa credo!» disse Hyacinth con tono talmente lugubre che l'amico, per
smorzarne l'effetto, proruppe in uno scoppio d'ilarità. Ma il nostro giovane proseguì: «Tu non devi credere che voglia
disinteressarmi del popolo. E chi sono, io, se non il più povero e il più miserabile di tutti?»
«Tu, ragazzo mio? Ma tu sei un duca sotto mentite spoglie, l'ho creduto dal primo momento che t'ho visto. La
sera che ti condussi con me a quel prezioso "scambio d'idee" - m'è piaciuto il nome che gli dette quel tipo - avevi un
modo di fare tale da farmelo dimenticare per un attimo: intendo dire che il tuo travestimento era più efficace del solito.
Quanto ad interessarti al popolo, nessuno è obbligato a farlo,» continuò Muniment. «Se potessi farne a meno, me ne
disinteresserei anch'io - ci puoi giurare! Dipende tutto da quello che uno ha sotto gli occhi. I miei occhi, in quella fogna
di obbrobri laggiù, mi hanno portato a vedere che l'attuale stato di cose non può andare. Non può andare,» ripeté
placidamente.
«Sì, lo vedo anch'io,» disse Hyacinth, con lo stesso tono dolente usato poco prima, un rammarico che sgorgava
da un senso d'impotenza perché sempre gli accadeva di vedere troppe cose insieme per ognuna che gli cadeva sotto lo
sguardo. Vedeva l'incommensurabile miseria ma anche tutte le cose che grazie ad essa si erano salvate e redente e si
offrivano oggi agli sguardi; i tesori, le espressioni geniali, gli splendori, i successi che talvolta gli si configuravano
come una presenza enorme, sconfinata, abbagliante; un'irradiazione di luce nascente da oggetti non definibili, impastati
dall'aria di Parigi e di Venezia. A questo si sommavano ora gli infiniti orrori, che Muniment gli aveva svelato, dei
quartieri più poveri di Londra, visioni di incredibili abiezioni e sofferenze che gli tornavano alla mente resuscitando
l'eco della passione che allora avevano acceso.
«Non voglio che ti basi su quello che ti ho raccontato io, ma su quello che hai visto tu, personalmente. Ricordo
alcune cose che sei stato tu a dirmi, tutt'altro che sballate, in sé e per sé.» E detto questo Paul Muniment saltò in piedi,
come se la conversazione fosse giunta al termine o, in ogni caso, fosse ora di pensare al ritorno. Anche Hyacinth si alzò.
Paul stava lì in piedi e guardava lontano in direzione di Londra, con uno sguardo che esprimeva tutta la sana
compattezza della sua visione. Improvvisamente, come se sentisse la necessità di completare o quanto meno confermare
le affermazioni di poco prima, osservò: «Sì, non credo nel paradiso in terra, ma credo fermamente nella democrazia che
offra opportunità.»
A Hyacinth sembrò che con quelle parole impersonificasse lo spirito del popolo; rimaneva lì in tutta la sua
poderosa, solida modernità, con l'aria soddisfatta di chi ha capito tutto e sa quello che deve fare tanto che il nostro eroe
si sentì invaso dall'antico e ripetuto orgoglio di avere per amico un individuo tanto lungimirante e fiducioso. Passò la
mano sotto quel braccio tanto più lungo e forte del suo, e con un'impercettibile vibrazione nella voce disse: «Non serve
che tu mi dica di non giurare sulle tue parole. Lo farò sempre. E non pensare che ci sia nulla d'imbarazzante. Non so se
credo esattamente a quello in cui tu credi, ma credo in te, e non è forse la stessa cosa?»
Paul evidentemente apprezzò lo slancio e il candore di questo piccolo tributo, e lo diede a vedere con il
movimento del gomito con cui trattenne il compagno, prima di muoversi da quel luogo, e con lo sguardo pieno di
affetto e di ansia. «Non ti avrei mai portato con me quella sera, se non ti avessi giudicato pronto a buttarti in quella
faccenda. È stata quella tua alata arringa, al club, quando hai messo a terra Delancey perché aveva detto che avevi
paura, a suggerirmi l'idea.»
«E mi ci sono buttato... mani e piedi; ed era proprio quello che andavo cercando. È tutto vero,» disse Hyacinth
allegramente, mentre s'incamminavano. C'era, in quelle parole, uno sforzo eroico, un eroismo il cui vero significato
Muniment non seppe percepire attraverso il tremito del braccio intrecciato al suo. Hyacinth non avvertì quanto egli
fosse diabolicamente prosaico; ed eliminò il problema affettivo che lo aveva tanto turbato; assolse, giustificò, ammirò -
si immerse, ricavandone una subitanea pace, nella consapevolezza che Paul fosse un essere superiore, l'amicizia un
sentimento più puro dell'amore, e che loro due erano legati da un grande affetto. In quel momento non lo sfiorò il
dubbio che si trattava prevalentemente di un sentimento unilaterale.

VIII

Una certa domenica di novembre, poco più di tre mesi da quando era andata ad abitare a Madeira Crescent, fu
una giornata così importante per la Principessa che è opportuno riferirne esaurientemente. Nelle prime ore del
pomeriggio giunse al suo orecchio il sonoro rintocco del battente che aveva un piglio così risoluto - quasi di sfida - da
farle alzare la testa dal libro e restare in ascolto. Era seduta tutta sola vicino al fuoco, immersa in un grosso trattato sul
Lavoro e il Capitale. Non erano ancora le quattro, ma le candele erano state accese da un'ora; un'oscura fitta nebbia
intorpidiva la luce del giorno senza peraltro dare una risposta all'interrogativo se la natura avesse inteso gettare un velo
sulla tristezza di quella giornata festiva o metterla in risalto. Non era satura di Madeira Crescent; avrebbe respinto
indignata una simile supposizione, ma la prospettiva di avere visite - si poteva anche trattare di un ambasciatore o di un
ministro o di qualche altro eminente personaggio, persone con le quali era stata solita intrattenersi prima di abbracciare
la vita ascetica - la rendeva felice. Pochi di loro tuttavia avevano bussato alla sua porta, e per più di un motivo: erano
fuori città e lei si era data un gran da fare a diffondere la notizia che aveva lasciato l'Inghilterra. Se li aveva convinti,
tanto meglio: era quello che desiderava; ma lo dimenticava istintivamente ogni qual volta avvertiva con una certa
sorpresa - perfino con una certa irritazione - che la gente girava alla larga da Madeira Crescent. Stava scoprendo quello
che molti avevano scoperto prima di lei, e cioè che nascondersi, a Londra, è la cosa più facile di questo mondo. Quello
però era il modo che aveva Godfrey Sholto per annunciare il suo arrivo ogni volta che compariva dopo l'intervallo di
tempo da lei esplicitamente impostogli, ed era stupido, per una persona di mondo come lui, voler asserire il proprio
diritto di trovarsi alla sua porta, con quel bussare imperioso. Quel pomeriggio lo avrebbe ricevuto: era completamente
distaccata dal vuoto, frivolo mondo nel quale lui si muoveva, ma la rinuncia era tanto recente che amava misurarla sul
passato, quando qualcuno interveniva a rammentarglielo: la vista di Sholto le avrebbe dimostrato quanto la scelta fosse
stata giusta. Non le passò neppure per la mente che potesse essere Hyacinth Robinson alla porta, avevano convenuto
che, salvo accordi diversi, sarebbe andato da lei soltanto di sera. Quando il domestico aprì, udì nell'ingresso una voce
che non riconobbe, ma un istante dopo la porta fu aperta e venne annunciato il signor Muniment. Va notato che se ne
rallegrò immediatamente perché aveva rinunciato ormai, pur desiderandolo, a rivedere lo straordinario amico di
Hyacinth - tanto sembrava improbabile che si sarebbe mai scomodato per lei. Come aveva detto a Hyacinth tre mesi
prima, era stata contenta che avesse declinato il suo invito; ma adesso che era venuto, era ancora più contenta.
Era seduto lì davanti a lei, dall'altra parte del caminetto il suo grosso piede accavallato sopra un grosso
ginocchio con le grosse mani guantate che si agitavano nervosamente e tiravano e lisciavano i guanti nuovi fiammanti
che sembravano dargli fastidio. Per le dimensioni delle sue estremità, l'atteggiamento e le movenze, avrebbe potuto
appartenere al gruppo dei suoi antichi amici. Mentre i particolari del suo abbigliamento rimanevano sfocati alla luce
della lampada, la testa spiccava poderosa, importante, così da renderlo assolutamente simile a uno dei più autorevoli
uomini mai conosciuti. Gli disse subito che non capiva cosa lo avesse finalmente indotto a presentarsi: quando glielo
aveva proposto, l'idea, chiaramente, non lo aveva troppo allettato. Da allora lo aveva visto solo una volta - il giorno che
lo incontrò di ritorno ad Audley Court, mentre lei ne usciva dopo aver fatto visita alla sorella e, come forse ricordava, in
quell'occasione non gli aveva rinnovato l'invito.
«Anche se lo aveste fatto, allora non sarebbe servito a nulla,» rispose Muniment con la sua spontanea risata.
«Oh, lo so bene; il mio silenzio fu tutt'altro che casuale!» dichiarò la Principessa con voluta allegria.
«Sono venuto oggi - visto che volete saperlo - perché mia sorella mi ha sottoposto, per settimane, a un vero e
proprio martellamento, per convincermi che dovevo venire. Oh, mi ha proprio tenuto sotto il timore della frusta! Se mi
avesse lasciato in pace, non sarei venuto!»
A quelle parole la Principessa arrossì, non per vergogna o per dolore, quanto per la felicità di sentirsi trattata in
modo così nuovo e schietto. Mai prima di allora un visitatore si era mostrato così franco né aveva detto cose tanto
originali. Mai aveva sperimentato l'insuccesso, e questo la incuriosiva enormemente, specialmente ora che sembrava
tramutarsi in successo. Aveva riscosso sempre un'ammirazione immediata, che si era manifestata sotto forma di un
monotono omaggio. Anche il povero piccolo Hyacinth aveva usato, all'inizio, un tono magniloquente. Ma quest'uomo
così particolare sembrava avere in mente tutt'altro che un linguaggio fiorito, e lei sperò vivamente che si sarebbe
allontanato ancora di più da quelle ipocrisie. «Ricordo che mi chiedeste... che cosa ci avreste guadagnato di buono. Non
seppi rispondere allora, e nonostante abbia avuto tanto tempo per pensarci, non so rispondere neanche adesso.»
«Spero che un qualche bene me ne venga,» disse il giovanotto. «Quando si è fatto un grande sforzo, ci si
aspetta una ricompensa.»
«A me del bene ne viene di certo,» rispose la Principessa, con spontaneità.
« chiaro che vi diverte sentirmi parlare. Io non lo faccio a quello scopo, ma tanto per darvi un'idea.»
«Mi date moltissime idee. E inoltre, so già molte cose di voi.»
«Dal piccolo Robinson, immagino,» disse Muniment.
Lei rimase in silenzio per un poco, poi disse: «Soprattutto da Lady Aurora».
«Oh, ma lei non sa molto di me,» protestò lui.
«È un peccato che diciate così, perché le piacete.»
«Sì, le piaccio,» ammise lui, serenamente.
Di nuovo la padrona di casa esitò: «E spero che lei pure vi piaccia».
«Sì, è una cara brava signorina!»
La Principessa rifletté che il suo visitatore non era affatto un gentiluomo come Hyacinth; ma nello stato
presente le importava poco. Che fosse o meno un gentiluomo non aveva nulla a che fare col suo interesse per lui
provocato in gran parte dalla felicità che egli sembrava trarre dalla propria indifferenza. «Non credo esista persona al
mondo che invidi di più,» osservò lei; una dichiarazione che cadde nel silenzio. «È riuscita a risolvere meglio di
chiunque altro il problema di estrinsecare se stessa - problema che noi tutti cerchiamo di risolvere, non vi pare? E c'è
riuscita molto più completamente di chiunque conosca. Si è abbandonata alla passione di fare qualcosa per gli altri. È
per questo che la invidio,» concluse con un sorriso accattivante, come volesse forzarlo a capirla.
«È un divertimento come un altro,» disse Muniment.
«Non come un altro! Se porta la luce nei luoghi più bui; se rende un poco meno misera tanta misera gente.»
«Ma quanta?» chiese il giovanotto, non per contraddirla, quanto per amor di discussione.
La Principessa si chiese perché avesse tanta voglia di discutere a spese di Lady Aurora. «Mah, per cominciare
è una persona molto vicina a voi.»
«Oh, è gentile, gentilissima; è assolutamente meravigliosa. Ma anche Rosy rende lei assai meno infelice,»
aggiunse Muniment.
«Sì, certo, e lo stesso vale per me.»
«Potrei chiedervi che motivi avete voi di essere infelice?» continuò lui.
«Nessuno al mondo; che è la cosa peggiore di tutte. Ma ora sono molto più felice di quanto sia mai stata.»
«Anche questo senza motivo?»
«No, per una specie di cambiamento che è avvenuto nella mia vita. Sono riuscita a fare alcune piccole cose.»
«Per i poveri, immagino. Vi riferite ai regali che avete fatto a Rosy?» chiese il giovanotto.
«Regali?» sembrò non ricordarsene. «Oh, ma quelle sono sciocchezze. Non si tratta di cose che si regalano, ma
di discorsi fatti, di convinzioni acquisite.»
«Le convinzioni sono una innocentissima fonte di piacere,» disse il giovanotto sorridendo alla sua
interlocutrice con occhi fieri, gradevoli, che sembravano proiettare la luce più intensa e profonda che avesse mai visto.
«Averle, non è nulla: quello che conta è metterle in pratica,» riprese la Principessa.
«Sì, non c'è dubbio, è una buona cosa anche quella.» Continuò a guardarla con aria paziente, come se gli
piacesse credere che fosse quella la ragione per cui lo aveva invitato. Non aggiunse altro, e lei continuò:
«Per un uomo, è molto più facile.»
«Non saprei. Le donne riescono molto bene in quello che vogliono. Tra voi e mia sorella siete riuscite a
portarmi fin qui.»
«Direi più vostra sorella di me. Ma dopotutto, perché vi era così sgradito venire?»
«Beh, dal momento che me lo chiedete,» disse Paul Muniment, «vi dirò francamente, ma senza offesa, che non
so cosa pensare di voi.»
«Molta gente non lo sa,» rispose la Principessa. «Ma generalmente accetta il rischio.»
«Ah, per questo, io sono l'uomo più prudente del mondo.»
«Ne sono convinta: questa è una delle ragioni per cui volevo conoscervi: so come la pensate - me lo ha detto
Hyacinth Robinson; e il motivo dell'interesse che ho per voi è la ponderatezza con cui vagliate le vostre azioni.»
«Vero... vero,» convenne lui.
Lo disse con quel tono furbo, tipicamente settentrionale, che sarebbe stato quasi ignobile se non l'avessero
controbilanciato quel volto pieno di carattere, quella forza giovane, quegli occhi quasi militareschi. La Principessa prese
atto sia dell'astuzia che dell'innata disinvoltura e replicò: «Ci si deve sentire al sicuro, a fare qualcosa insieme a voi. Si
deve provare la certezza della riuscita.»
«È quello che crede il povero Hyacinth,» disse lui.
La Principessa si meravigliò un poco che potesse alludere con tanta leggerezza alla fiducia che il loro giovane
amico aveva riposto in lui, date le conseguenze che potevano venirgli da una simile fiducia; ma queste qualità così
disparate non facevano che rendere il suo visitatore più interessante, nelle vesti di tribuno del popolo. Si astenne, per il
momento, da toccare il tasto della particolare posizione di Hyacinth, e proseguì: «Non vi ha parlato di me? Non vi ha
dato qualche spiegazione?»
«Oh, le sue spiegazioni sono qualcosa di grande!» rise Muniment. «È impagabile quando parla di voi.»
«Non lo tradite,» disse delicatamente.
«Non c'è nulla da tradire. Se foste presente, sareste la prima ad applaudirlo. E poi, io non tradisco,» aggiunse.
«Lo amo moltissimo,» disse la Principessa; e neppure il cinico più spudorato avrebbe potuto sorridere del
modo in cui quella dichiarazione fu fatta.
Il suo ospite l'accolse rispettosamente. «È un caro ragazzo e, lasciando da parte Sua Signoria, è la luce della
nostra casa.»
Dopo questo scambio di cortesie cadde una breve pausa, cui la Principessa mise fine domandando: «Non c'è
nessuno che potrebbe fare il suo lavoro altrettanto bene?»
«Il suo lavoro? Ma come, mi risulta che sia un maestro.»
«Non parlo di rilegature.» Poi aggiunse «Non so se lo sapete, ma sono in corrispondenza con una certa
persona. Se mi capite, allora sapete di chi parlo. Conosco molti dei nostri uomini più importanti.»
«Sì, lo so da Hyacinth. Me lo dite per mettervi al sicuro, per farmi sapere che posso fidarmi?»
«Non proprio; sarebbe una debolezza, no?» chiese la Principessa. «La mia integrità deve venire dall'interno -
una cosa che apprezzerete quando mi conoscerete meglio; non da salvacondotti e da raccomandazioni.»
«Non vi conoscerò mai meglio: e poi, sono cose che non mi riguardano.»
«Voglio aiutarvi,» disse lei; e mentre gli rivolgeva quell'appello sincero, il volto le si trasfigurò e assunse
l'espressione del più appassionato, del più puro desiderio. «Voglio fare qualcosa per la causa che voi rappresentate; per i
milioni di persone che marciscono sotto i nostri piedi, per tutti coloro che passano la vita all'estremo dell'inedia, così
che un nonnulla li porta alla tomba. Mettetemi alla prova, chiedetemi di partecipare a qualcosa che vi dimostri che sono
in buona fede, come hanno già fatto altri. So cosa significhi - con chi ci si deve misurare, confrontare, fare i conti, la
natura e l'immensità della vostra organizzazione. Non scherzo, no, non scherzo affatto.»
Paul Muniment la osservò con un sorriso fermo finché lo sfogo non ebbe termine. «Temevo che foste fatta così
- che avreste aperto le cateratte e fatto scoppiare fuochi d'artificio.»
«Permettetemi di dirvi che non avete pensato nulla di simile. Non c'è motivo per cui i miei fuochi d'artificio
v'infastidiscano.»
«Ho avuto sempre paura delle donne intelligenti.»
«Capisco... fa parte della vostra prudenza,» disse la Principessa con tono riflessivo. «Ma siete proprio l'uomo
che dovrebbe sapere come utilizzarle.»
Paul non rispose subito; il modo in cui la guardava sembrava indicare che non stesse ascoltando con troppa
attenzione ciò che diceva, ma piuttosto che valutasse alcuni dettagli affatto estranei alla conversazione - la sua bellezza,
ad esempio, e la grazia, la giovinezza, i modi e la classe di lei, che gli riuscivano tanto nuovi. Dopo poco, tuttavia, e
fuori contesto, se ne uscì con un: «Temo di essere stato molto maleducato.»
«Senza dubbio, ma non ha importanza. Quello che più mi secca è che non rispondiate alle mie domande. Non
c'è nessuno che potrebbe fare il lavoro di Hyacinth Robinson altrettanto bene? È proprio necessario un tipo così
delicato, così intellettuale? Non sarebbe meglio tenerlo in serbo per qualcosa di più elevato?»
«Più elevato di che?»
«Di quello che gli è stato detto di fare.»
«E, se è lecito, che sarebbe?» domandò il giovanotto. «Non ne sapete nulla, come non lo so io,» aggiunse un
istante dopo. «Quando ci vuole, ci vuole. E poi, anche ammesso che ci sia qualcun altro in grado di farlo, non si è fatto
avanti nessuno, soltanto Robinson.»
«Già, e così l'avete pizzicato subito!» replicò la Principessa.
Questa espressione fece ridere Muniment. «Sono certo che non avreste difficoltà a tenervelo, se lo voleste.»
«Vorrei farlo nel modo giusto - è questo che voglio,» disse la Principessa.
«Ma se non sapete neppure di che si tratta.»
«Può darsi che si tratti di niente,» disse puntando sul visitatore i suoi occhi seri. «Forse credete che vi abbia
voluto vedere per supplicarvi di lasciarlo andare. Ma non è questo. Sono affari suoi, e voi non potete farci nulla. Ma se
nel frattempo le sue opinioni fossero mutate, la cosa non cambierebbe aspetto?»
«Le sue idee? Ma non ne ha mai avute,» rispose Muniment. «Non è mica come voi e come me.»
«Allora i suoi sentimenti, i suoi legami. Ha perso quella passione per il trionfo del popolo che aveva quando lo
incontrai. È molto più indifferente, ora.»
«Ah beh, se per questo, ha tutte le ragioni.»
La Principessa sussultò: «Intendete dire che proprio voi vi date per vinto...?»
«Chi riesco a capire perfettamente è un bravo, rigido conservatore,» disse Paul. «Se fossi in alto, ci rimarrei.»
«Vedo che le vostre vedute non sono anguste,» disse con un sospiro di sollievo e di approvazione.
«Chiedo scusa, ma lo sono, invece. Non lo chiamerei essere di larghe vedute. Bisogna farsi piccoli per
penetrare fino in fondo.»
«Avrete sempre successo, qualunque cosa farete,» disse la Principessa. «Hyacinth no, ma voi sì.»
«Dipende da cosa chiamate successo!» replicò il giovanotto. E subito dopo, prima che lei avesse il tempo di
rispondere, aggiunse guardandosi intorno: «Avete una bella casa».
«Bella? Mio caro, è semplicemente orrenda. È perciò che mi piace,» si affrettò a spiegare.
«Beh, a me piace, ma forse senza sapere perché. Credevo che vi foste disfatta di tutto, che aveste buttato tutti i
vostri beni dalla finestra in un gran ripulisti».
«È esattamente quanto ho fatto. Avreste dovuto conoscermi prima.»
«Magari!» sorrise lui senza imbarazzo. «Mi piace vedere la vera ricchezza.»
«Ah, siete come Hyacinth, sono l'unica ad essere coerente!» disse la Principessa con un sospiro.
«Vi è rimasto ancora molto, per una persona che ha dato via tutto.»
«Questi non sono miei... questi obbrobri, o me ne sarei disfatta,» rispose senza artificiosità la padrona di casa.
Paul si alzò sempre guardandosi intorno. «Darei un occhio per un posto come questo. In ogni modo, non siete
ancora in miseria.»
«Mi è rimasto qualcosa... per aiutarvi.»
«Ci scommetterei la paga che vi è rimasto un bel po',» dichiarò lui col suo tono nordico.
«Potrei procurarmi del denaro... potrei procurarmi del denaro,» continuò, seria. Si era alzata anche lei e gli
rimase dritta davanti. Queste due interessanti persone si fronteggiavano scambiandosi un lungo sguardo penetrante, di
reciproca indagine. Sembrava che ciascuno di loro scandagliasse l'animo dell'altro. Poi, una strana espressione che la
Principessa non si aspettava, passò sul viso del suo ospite; compresse le labbra come per uno sforzo enorme, il sangue
gli salì alle guance e arrossì come un fanciullo. Abbassò gli occhi e guardando il tappeto ripeté: «Non mi fido delle
donne, non mi fido delle donne intelligenti!»
«Mi dispiace, ma in fin dei conti lo capisco,» disse lei; «perciò non insisto a chiedervi di farmi lavorare con
voi. Ma una cosa vi chiedo: aiutatemi un pochino... aiutatemi!»
«Che volete dire?» chiese lui alzando gli occhi che ora avevano uno sguardo nuovo, consapevole.
«Consigliatemi. Voi lo potete. Sono nei guai... mi sono spinta troppo in là.»
«Non ne dubito» rise Paul.
«Intendo, con alcune di quelle persone all'estero. Non ho paura, sono solo preoccupata. Voglio sapere che devo
fare.»
«No, non avete paura,» ripeté Muniment dopo poco.
«Ma sono in un brutto impiccio. Penso che voi possiate sistemare le cose. Vi dirò tutto, ma non ora, perché
saremmo interrotti - sento la mia vecchia amica per le scale. Per questo dovete tornare.»
Mentre parlava la porta si aprì e Madame Grandoni apparve, strisciando cautamente, quasi perplessa per
quanto stava succedendo in salotto. «Sì, tornerò,» disse Paul, piano ma chiaramente; e con queste parole se ne andò,
mentre incrociava sulla soglia Madame Grandoni, tralasciando di accomiatarsi con una stretta di mano. Nell'ingresso si
fermò un istante, sentendo che la padrona di casa lo aveva seguito; e capì che non era venuta per chiedergli conto di
quella scortesia, ma per ripetergli ancora, abbassando la voce, affinché la sua compagna non potesse udirla attraverso la
porta aperta: «Potrei procurare del denaro... lo potrei!»
Paul si passò la mano fra i capelli e, come se non avesse udito, disse: «Non vi ho detto neanche la metà delle
cose che Rosy mi aveva raccomandato.»
«Oh, poco importa!» rispose lei, voltandosi e tornando in salotto.
Madame Grandoni stava in mezzo alla stanza, avvolta in un vecchio scialle, e si guardava attorno con aria
vaga, mentre si sentiva la porta di casa chiudersi. «Se è lecito, quello chi era? Non è forse un viso nuovo?» domandò
l'anziana signora.
«È il fratello di quella persona che vi ho portato a trovare dall'altra parte del fiume... l'invalida chiacchierona
tanto affettata.»
«Ah, aveva un fratello dunque! Allora era per questo che ci andavi!»
Incredibile la buona grazia con cui la Principessa parò questa volgarità, che poteva essere uscita dalla bocca di
Madame Grandoni soltanto per colpa dell'età avanzata che la rendeva petulante e noiosa, e per colpa dell'odio che
nutriva per Madeira Crescent con tutto quello che comportava. Cristina si piegò con un sorriso calmo, amorevole sul
suo vecchissimo sostegno: «Non c'era nessuna possibilità d'incontrarlo perché, naturalmente si trovava al lavoro.»
«E io che ne so, mia cara? Ed è lui il successore?»
«Il successore?»
«Del piccolo rilegatore.»
«Mia cara,» disse la Principessa, «vi renderete conto di quanto sia assurda la domanda se vi dico che è il suo
migliore amico!»

IX

Mezz'ora dopo che il giovane perito chimico se n'era andato, si udì un altro toc-toc alla porta; ma questa volta
si trattava di un colpetto breve e discreto, seguito da un breve tintinnio. La persona che lo aveva prodotto fu subito fatta
entrare senza che Madame Grandoni si guardasse intorno, o meglio guardasse su dalla poltrona, bassa come un
semicupio e molto simile a quello nella forma, in cui era rimasta sprofondata, vicino al fuoco. Lasciò che lo facesse la
Principessa che, all'udire il nome del visitatore pronunciato erroneamente dalla cameriera (Assunta disse: «il signor
Petch»), si alzò perché aveva riconosciuto senza difficoltà il piccolo, grasso, «decaduto» violinista di cui Hyacinth le
aveva raccontato l'ingerenza nella sua vita, in qualità di amico intimo di Pinnie, accendendo in lei la curiosità di
conoscerlo. Hyacinth non le aveva detto che sarebbe venuto, e la sorpresa di vederlo apparire aggiunse nuovo motivo
d'interesse al momento. Per quanto amasse incontrare strani tipi ed esplorare remoti angoli sociali, ogni nuovo incontro
e rapporto di tal genere le provocavano sempre un certo nervosismo, il timore di non essere all'altezza della situazione,
di non trovare il tono giusto. Ma capì subito che il signor Vetch l'avrebbe presa così com'era e che non avrebbe dovuto
fare nessuno sforzo per adeguarsi: era un gentiluomo e una persona piena d'esperienza e avrebbe trovato lui il tono
giusto. Stava lì in piedi con il suo grande cappello lustro tra le mani - un cappello dalla foggia vecchia di dieci anni, coi
riflessi color ruggine e la falda ondulata - se ne stava lì senza salutare né parlare, ma con un sorrisetto fisso, acuto,
insinuante, che sembrava per metà interrogare e per metà spiegare. Quello che spiegava era che ci si poteva fidare della
sua intelligenza, e che se era venuto in quel modo, senza cerimonie e senza essere invitato, aveva delle ragioni che certo
lei avrebbe riconosciute valide, appena udite. C'era anche una certa spavalderia nei suoi modi - insinuavano che sapeva
come ci si presenta ad una signora e sebbene risultasse che, in effetti, lo sapeva, questo era l'unico connotato che lo
involgariva, evocando la lunga pratica con attrici e l'elargizione, durante le prove, di consigli e complimenti.
«So chi siete... lo so benissimo,» disse la Principessa pur vedendo che lui ne era assolutamente consapevole.
«Mi domando se sapete anche perché sia venuto da voi,» replicò il signor Vetch, mettendole di fronte la cupola
del suo cappello, come fosse uno specchio.
«No, ma non importa. Sono felicissima. Avreste potuto venire anche prima.» Poi, con la sua caratteristica
onestà, aggiunse: «Non sapete forse quanto m'interessi vostro nipote?»
«Mio nipote? Ah, il mio giovane amico Robinson. È per lui che ho osato disturbarvi.»
La Principessa era sul punto di spingere una sedia verso di lui ma si fermò a mezzo, guardandolo fisso con un
sorriso: «Spero che non siate venuto a chiedermi di rinunciare a lui!»
«Al contrario... al contrario!» rispose il vecchio sollevando le mani con gesto significativo, e piegando la testa
da un lato come se reggesse il violino.
«Che significa al contrario?» chiese dopo che si fu seduto, lasciandosi cadere al posto di prima. E poi, come
temendo che le sue parole potessero essere interpretate in altro verso, precisò: «Non avrà paura che smetta di essere una
sua buona amica?»
«Non so cosa temi o cosa speri,» disse il signor Vetch guardandola con uno sguardo più ardito della sua
antiquata cortesia. «Mi sarà difficile dirvelo ma devo provarci. A onor del vero, non è affar mio, dal momento che il
ragazzo non è un parente; ma lo conosco da quando era un soldo di cacio, neanche ora è molto di più, e non posso fare a
meno di dirvi grazie per la vostra bontà nei suoi confronti.»
«Una cosa che, tuttavia, credo non facciate volentieri,» dichiarò la Principessa. «Non vi dovrebbe essere
difficile parlare con me.»
«Mi ha detto molto poco di voi; non sa che ho fatto questo passo,» disse il violinista, volgendo intorno lo
sguardo e posandolo su Madame Grandoni.
«Perché parlate di "passo?" In genere è una parola che indica qualcosa di spiacevole.»
«È raro che faccia visita a signore. È molto tempo che non vado in una casa come quella della Principessa
Casamassima. Mi ricordo l'ultima volta,» disse il vecchio «quando andai a ritirare il denaro da una signora per la quale
avevo suonato a un ricevimento, un ballo.»
«Un'altra volta dovete portare il violino e suonare per noi. Naturalmente non per denaro.»
«Lo farò volentieri, come qualunque cosa che possa farvi piacere. Ma il mio virtuosismo è assai limitato.
Conosco solo musica popolare - quella che si suona nei teatri.»
«Non credo. Ci deve essere qualcosa che suonate per voi stesso - quando siete solo in casa vostra.»
Il signor Vetch fece una pausa. «Ora che vi vedo, vi sento parlare, riesco a capire.»
«Non credo che mi vediate davvero,» esclamò ridendo apertamente la padrona di casa; e dopo queste battute
egli s'informò se c'era pericolo che Hyacinth arrivasse mentre era lì. Lei rispose che veniva solo di sera, salvo accordi
diversi, e il visitatore la pregò di non dirgli della sua venuta. «Non occorre; se lo immaginerà; lo capirà d'istinto non
appena entrerà. È incredibilmente acuto» disse lei; e aggiunse che non era riuscita mai a tenergli nascosto nulla. E ben
le stava, per aver tentato di far mistero su cose di cui non valeva davvero la pena.
«Come lo conoscete bene,» commentò il violinista, mentre i suoi occhi si spostavano di nuovo su Madame
Grandoni che non gli prestava la minima attenzione, intenta com'era a guardare il fuoco. Era chiaro che procrastinava la
motivazione della visita e tale esitazione era dovuta senza dubbio alla presenza della vecchia signora. Pensava che la
Principessa lo avrebbe intuito dal suo comportamento; e si sforzò di farglielo capire chiaramente, anche se con
delicatezza. Invece lei interpretò che desiderava essere presentato alla sua compagna. «Dovete conoscere la più
deliziosa delle donne. Anche lei s'interessa molto al signor Robinson: un interesse diverso dal mio... molto più
sentimentale!» E poi spiegò alla sua amica, che sembrava immersa in pensieri diversi, che il signor Vetch era un illustre
musicista col quale lei, che ai suoi tempi ne aveva conosciuti tanti ed era così appassionata di quel genere di cose,
sarebbe stata contenta di discorrere. La Principessa disse «quel genere di cose» come se lei personalmente, ci avesse
rinunciato, sebbene Madame Grandoni la udisse spesso improvvisare per ore, al piano, canti rivoluzionari e peana.
«Credo che vi stiate facendo gioco di me,» disse il signor Vetch, mentre l'altra si girava lentamente dalla sedia
per guardarlo. Lo guardò esaurientemente da cima a piedi e poi sospirò:
«Strana gente... strana gente!»
«È proprio uno strano mondo, Madame,» replicò il violinista; e poi chiese alla Principessa se poteva parlarle da
solo a sola.
Lei si guardò intorno imbarazzata e sorridente. «Ma caro signore, ho solo questa stanza per ricevere. Viviamo
in ristrettezze.»
«Evidentemente Vostra Eccellenza si sta facendo gioco di me: le vostre idee almeno sono molto larghe.
Comunque, verrò volentieri in un momento più opportuno.»
«Mi fate credito di uno spirito maggiore di quanto abbia. Perché poi dovrei scherzare?» chiese la Principessa.
«Sarò felice di rivedervi. Sono molto curiosa di sapere che cosa volete dirmi. Posso incontrarvi da qualsiasi parte: nei
giardini di Kensington o al British Museum.»
Prima di rispondere la guardò a lungo e poi, mentre un po' di rossore gli saliva alla vecchie guance pallide,
esclamò: «Povero caro piccolo Hyacinth!»
Madame Grandoni cercò di sollevarsi dalla sedia, ma vi era così sprofondata che sulle prime non vi riuscì. Il
signor Vetch le offrì la mano per aiutarla e lentamente la vecchia si levò, sorreggendosi a lui per un attimo dopo che si
fu messa in piedi. «Che cosa mi ha detto? Che siete un grande musicista? E non vi basta? Dovreste contentarvi, mio
caro signore. È bastato a persone che non credo voi superiate in bravura.»
«Non supero nessuno,» disse il povero signor Vetch. «Non so per chi mi prendiate.»
«Allora non siete uno di quei perfidi rivoluzionari? Né un cospiratore o un assassino? Mi sorprende, ma, tanto
meglio così. In questa casa, non si sa mai. Non è una casa dignitosa, e se voi siete persona rispettabile, è un peccato che
ci veniate. Sì, lei è molto allegra, e io molto triste. Non so come andrà a finire. Dopo di me, spero. Certo, il mondo non
è un bel luogo; ma Dio soltanto può migliorarlo.» E poiché il musicista espresse la speranza di non essere lui a farla
andar via, lei continuò: «Doch, doch; siete proprio voi; ma perché non voi, se lo fanno tutti? Me ne vado sempre a causa
dell'uno o dell'altro, e lo faccio più volentieri quando si tratta di un onest'uomo, posto che lo siate - ma, come dico, chi
può saperlo? piuttosto che uno sterminatore. Io vago senza tregua. Però, ho una stanza molto bella, la migliore della
casa. Oggi mi sembra che ci sia il finimondo. Sul barometro, trovereste il bel tempo segnato dalla parte opposta. Buona
notte a voi, chiunque siate.»
La vecchia se ne andò ciabattando, nonostante le rimostranze del signor Vetch, e colei che aveva appena
criticato rimase dritta davanti al fuoco a guardarli, mentre lui apriva la porta. «Va, viene, pazienza. Crede che sia una
casa di malaffare, ma sa che senza di lei sarebbe peggiore. Adesso mi ricordo di voi,» aggiunse la Principessa. «Il
signor Robinson mi disse che in passato siete stato un grande democratico, ma che ora avete smesso d'interessarvi al
popolo.»
«Il popolo... il popolo? che termine sciocco. Che significa?»
Lei esitò. «Le persone di cui v'importava un tempo, per cui vi davate da fare; chi è schiacciato da tutti, da tutto,
dall'intero ordinamento sociale.»
«Vedo che mi considerate un rinnegato. Non mi è mai piaciuto che certe classi si arroghino l'etichetta di
popolo. Perché alcuni esseri umani sono il popolo e altri no? Anch'io appartengo al popolo, ho lavorato tutti i giorni
come un arrotino, senza far altro.»
«Non dovete permettermi di farvi arrabbiare,» disse ridendo, mentre si sedeva di nuovo. «A volte sono molto
irritante, ma voi dovete fermarmi subito. Non lo crederete, ma nessuno sa incassare meglio di me.»
Il signor Vetch abbassò gli occhi per un attimo, quasi a significare che aveva interpretato il discorsetto come
uno scherzo di quella perversa gran dama, e che sapeva benissimo di non poterlo prendere sul serio e metterlo in pratica
senza commettere una mancanza di rispetto. «Quello che voglio è questo,» cominciò dopo una pausa. «Che voi... che
voi,» ma s'interruppe senza andar oltre. Lei lo osservava, lo ascoltava; attese mentre lui taceva, e fu una lunga attesa;
tuttavia non disse nulla. «Principessa,» il vecchio se ne uscì, alfine, «darei la vita senza esitazione per quel ragazzo!»
«Gliel'ho sempre detto che dovevate amarlo molto,» gridò lei con esultanza.
«Amarlo? E chi ne potrebbe dubitare? L'ho costruito io, l'ho inventato io!»
«E lui lo sa,» sorrise la Principessa. «È un legame squisito.» E mentre il vecchio la guardava attentamente non
sapendo che pensare del suo tono di voce, continuò: «Per me, è un'occasione magnifica per sapere tante cose di lui.
Parlatemi dei suoi primi anni, com'era da bambino? Quando mi piace qualcuno, mi piace completamente, e voglio
sapere tutto.»
«Non avrei mai immaginato che ci fosse qualcosa che ancora non sapeste del nostro giovane amico. Vi siete
impadronita della sua vita,» aggiunse, serio.
«Sì, ma da quanto mi sembra di capire, non vi dispiace. Talvolta si finisce per fare più di quanto ci si era
proposti. Bisogna continuare ad esercitare la propria influenza,» continuò con l'aria nobile, buona e ragionevole che di
tanto in tanto le illuminava il viso. E poi, con leggerezza: «Conosco la storia terribile di sua madre. Me l'ha raccontata
lui quando stava da me. Non sono mai rimasta tanto turbata in vita mia.»
«È stata colpa mia... che lo venisse a sapere. Penso che vi abbia detto anche questo.»
«Sì, ma credo che abbia capito i vostri motivi. Se vi si offrisse di nuovo la possibilità, lo rifareste?»
«Ero convinto che gli avrebbe giovato,» disse il vecchio con semplicità e con una certa stanchezza.
«Mah, direi che infatti gliene è venuto un bene,» riprese lei, per incoraggiarlo.
«Non so cosa avessi in testa. Volevo che si ribellasse contro la società. Ora voglio che si riconcili con essa,»
osservò sinceramente il signor Vetch. Sembrava desideroso di farle capire che per lui questo era un punto importante.
«Ah, ma lo ha fatto!» disse immediatamente. «Parliamo sempre di questo; lui non è come me, che ne vedo tutti
i difetti. Lui è un piccolo tronfio aristocratico. Che volete di più?»
«Non è questo che dice a me,» - e il signor Vetch scosse mestamente la testa. «Sono terribilmente angosciato e
non capisco...! Non sono venuto qui presumendo di sottoporvi a un interrogatorio, ma vorrei proprio sapere se ho torto a
credere che sia andato con voi nei quartieri malfamati di Saint Giles e White Chapel.»
«Sì, siamo andati insieme a esplorarli e a indagare,» ammise la Principessa, «È nelle viscere di questa immensa
lussuosa, volubile, città dissipatrice, abbiamo visto spettacoli d'indicibile miseria e orrore. Ma non siamo stati solo nei
bassifondi; siamo stati anche al music-hall e a farci dire il futuro.»
Sul momento il violinista accolse questa dichiarazione in silenzio, e la signora continuò a parlare di alcuni
aspetti della vita che li avevano colpiti, descrivendo in modo colorito e allo stesso tempo moderatamente polemico,
varie scene che facevano poco onore alla «nostra tanto elogiata civiltà.» «C'è dunque da meravigliarsi se mi viene a dire
che le cose non possono andare avanti così?» chiese quando lei ebbe finito. «Soltanto qualche giorno fa diceva che si
considererebbe il più disprezzabile degli uomini se non facesse nulla per cambiare le cose, per migliorarle.»
«Nessuna meraviglia, certo. Ma se ha detto così è perché aveva avuto una giornata nera,» replicò la
Principessa.
«Cambia continuamente umore e stato d'animo. La miseria del popolo non gli sta a cuore sempre, a me ha detto
che per lui la gente può continuare anche a morire, purché le conquiste della civiltà non vadano sacrificate. In quei
momenti dichiara che saranno sacrificate - sacrificate totalmente - se le masse ignoranti andranno al potere.»
«Non c'è pericolo. Non accadrà mai.»
«Non saprei - possiamo però provarci,» disse lei.
«Provateci pure, signora, ma per amor di dio fate che il ragazzo esca da questo pasticcio.»
Parlando della causa in cui credeva, la Principessa si era improvvisamente eccitata, e non prestò subito
attenzione a quell'appello sgorgato dalle labbra del signor Vetch in un impeto di ansia. La sua bella testa si eresse
ancora di più e la luminosità continua dei suoi begli occhi si fece ancor più radiosa. «Sapete cosa dico al signor
Robinson quando parla così? Gli chiedo cosa intenda per civiltà. Che venga pure la civiltà, e poi ne riparleremo. Per il
momento, di fronte a quegli orrori, io la disprezzo, la nego!» e rise con un suono ineffabile, simile a una splendida
sirena della Rivoluzione.
«Il mondo è molto triste e odioso, e sono felice al pensiero che presto sarà finita per me. Ma prima di
andarmene voglio salvare Hyacinth» insisté il signor Vetch. «Se come dite, è un tronfio piccolo aristocratico ragione di
più perché lui non sia macinato dalla vostra ruota. Se poi neppure crede in quello che pretende di fare, è proprio una
bella situazione! Che cosa lo aspetta, signora? In quale maledetta follia si è imbarcato?»
«È uno strano miscuglio d'impulsi contraddittori,» disse la Principessa pensierosa. Poi, come raccogliendosi
per rispondere alla domanda del vecchio proseguì: «Come posso parlare con voi di cose che riguardano lui? Come
posso raccontarvi i suoi segreti? Per prima cosa non li conosco, e anche se li conoscessi... figuratevi!»
Il visitatore cacciò un lungo, profondo sospiro, quasi un gemito di scorata perplessità. Le aveva detto che ora
che l'aveva vista aveva capito come il loro giovane amico avesse potuto diventare il suo schiavo, ma non avrebbe saputo
dirle che capiva anche i motivi e i misteri di lei, che il suo sguardo aveva abbracciato l'enorme anomalia del suo
comportamento. Aveva di fronte una donna bella e perversa, un esemplare di complessità femminile più complicato di
quanti avesse incontrati fino allora, e si sentì impotente e confuso, e destinato a fallire. Era arrivato lì, preparato a
blandirla senza scrupoli, credendo che fosse il modo sicuro per venire a patti con lei, ma si accorgeva che,
incredibilmente, tali artifici primordiali, non potevano essere applicati a una natura come quella e il suo imbarazzo era
tanto più forte dal momento che lei, almeno, faceva uno sforzo per mostrarsi accomodante. Aveva posato il cappello in
terra, accanto a sé, e teneva le mani incrociate sul pomo dell'ombrello che da tempo ormai aveva rinunciato a rimanere
compatto; si afflosciò un poco e il mento gli cadde sulle mani. «Perché vi siete messa su questa strada? Perché credete a
queste cose?» chiese. E si rese conto che il tono delle sue parole era debole e la sfida inutile.
«Mio caro signore, che ne sapete voi in che cosa credo? Comunque, ho le mie buone ragioni, che sarebbe
lungo raccontarvi e che, dopotutto, non v'interesserebbero neanche. La vita va guardata come si può; senza dubbio
appare a ciascuno di noi in modo diverso. Lo so che mi considerate artificiosa e posatrice. Invece tento di essere
spontanea. Non siete voi stesso un poco incoerente?» continuò lei con quella vivace ma dura affabilità che gelò il signor
Vetch e allo stesso tempo gli fece capire che non doveva sperare nessun conforto da lei. «Voi non desiderate che il
nostro giovane amico indaghi sulla miseria londinese perché il suo senso di giustizia potrebbe esserne stimolato. Strana
cosa non desiderare di promuovere sentimenti di giustizia in qualcuno che si ami e si stimi.»
«Non me ne importa un fico secco del suo senso di giustizia - non m'importa un fico secco della miseria di
Londra, e se fossi giovane, bello, intelligente, brillante e nobile, come voi, me ne importerebbe ancora di meno. E avrei
ben poco in comune con un povero operaio - un ragazzo che si guadagna da vivere con un barattolo di colla e ritagli di
pelle antica.»
«Non travisate: non dipingetelo diverso da quello che è!» replicò la Principessa col suo sorriso conturbante.
«Sapete benissimo che è uno degli uomini più civilizzati che esistano.»
Il violinista rimase seduto, respirando a fatica. «Voglio solo trattenerlo... liberarlo.» Poi aggiunse: «Non riesco
a capirvi. Se lo amate perché appartiene alla classe operaia, come può piacervi perché è un aristocratico?»
Lei volse lo sguardo verso il fuoco, come se la domanda meritasse una certa considerazione, e poi rispose:
«Caro signor Vetch, sono certa che non avete intenzione di essere impertinente, ma dite cose che sortono proprio
quell'effetto. Niente è più irritante che veder messa in dubbio la propria sincerità. Non sono tenuta a darvi spiegazioni.
Chiedo agli amici di fidarsi di me, e a tutti gli altri, di lasciarmi in pace. E poi, qualsiasi cosa sgradevole abbiate potuto
dirmi - per pura goffaggine, non c'è dubbio - non è niente paragonato agl'insulti che ben presto mi pioveranno addosso.
Farò cose che me ne procureranno una buona dose - perché, sì, signore, farò molte cose! Ma sono preparata e non mi
farò turbare dagl'insulti. Andiamo, dunque, fatevi coraggio. Siamo tutti e due tanto presi dal giovane Robinson che non
c'è ragione al mondo di litigare per lui.» «Mia cara signora,» supplicò il vecchio, «non ho proprio nessuna intenzione di
mancarvi di rispetto né di perdere la pazienza; dovete scusarmi se non bado alle buone maniere. Come potrei, in questo
stato di preoccupazione e di esasperazione? Dio sa se voglio litigare. Come dico, voglio soltanto vedere Hyacinth
libero.»
«Libero da che?» chiese la Principessa.
«Da quell'abominevole società segreta - o lega internazionale che sia, alla quale appartiene, il cui solo pensiero
mi tiene sveglio la notte. È proprio il tipo di giovane da essere usato come capro espiatorio.»
«Mi pare che i vostri timori siano piuttosto vaghi.»
«Speravo che mi deste ragguagli più precisi.»
«Ma su che si basano i vostri sospetti? Che dati avete?» insisté lei.
«Beh, moltissimi; nessuno preciso, ma tutti convincenti - il suo aspetto, i suoi modi, il modo come lo vedo io.
Cara signora, queste cose si sentono, s'intuiscono. Conoscete quel povero pallone gonfiato di Eustache Poupin che
lavora con Hyacinth? È un mio vecchio amico e un onest'uomo, come lo possono essere i palloni gonfiati. Ma non fa
che cospirare, e scrivere, e muovere certi fili che emettono un tintinnio che lui scambia per il tocco di una campana
funebre che suoni a morte per la società. Non gli manca nulla e fa un ottimo mestiere. Ma vuole che tutti siano uguali,
che Dio lo perdoni; e quando li vedrà tutti uguali fonderà un'organizzazione per far sì che anche le stelle del firmamento
diventino tutte della stessa grandezza. Non è una persona seria, anche se si crede l'unico al mondo a fare sul serio; e le
sue macchinazioni senza dubbio quasi sempre innocenti, per lui sono un'abitudine, una tradizione, come la sua teoria
che Cristoforo Colombo, lo scopritore dell'America, fosse francese e come il pediluvio caldo ogni sabato sera. Non mi
ha proprio confessato che Hyacinth si è impegnato a fare qualcosa per la causa, che potrebbe avere penose
conseguenze, ma la sua evasività mi rende ancora più preoccupato. Tanto lui che sua moglie nutrono un grande affetto
per il loro giovane amico, ma non sanno decidersi a fare qualcosa; forse per loro, come per me, non esiste un mezzo per
intervenire efficacemente. Con la differenza che io non l'ho certo influenzato in quel senso... o l'ho proprio fatto, e per
primo! Quanto più un compito è privilegiato, tanto più grande è l'onore di svolgerlo; eppure i Poupin esalano sospiri
socialisti su lui ed evidentemente non si sentono tranquilli come dovrebbero se a Hyacinth fosse stato affidato un
mandato ineccepibile. Li ho interpellati in termini chiari, e mi hanno assicurato che non sopporterebbero che gli si
torcesse un capello, come se fosse un loro figlio. Tuttavia la cosa non mi ha rassicurato affatto per la semplice ragione
che sono convinto che la vecchia - la cui nonna, a Parigi, al tempo della rivoluzione, deve avere portato personalmente
in trionfo molte teste sanguinolenti conficcate a un palo, sarebbe capacissima di tagliare la testa del proprio figlio pur di
danneggiare i padroni. Inoltre dicono, che influenza hanno ormai più, loro, su Hyacinth? Non è altro che un vergognoso
vermiciattolo che adora falsi idoli. In una parola, non mi darebbero mai nessuna soddisfazione, e oso affermare che
sono essi stessi legati da qualche dannato voto, e temeranno qualche vendetta nel caso parlassero. È un brutto affare, e
proprio per questo potrebbe diventare una cosa seria.»
La Principessa aveva ascoltato attentamente, seguendo con pazienza il discorso del suo visitatore. «Non mi
parlate di francesi; non mi sono mai piaciuti.»
«Strano, dal momento che siete una socialista. È molto verosimile che ne incontrerete.»
«Perché dite che sono socialista? Detesto queste etichette a buon mercato,» dichiarò. Poi aggiunse: «Cos'è
esattamente che secondo voi farà il signor Robinson? - perché dovete pure immaginarvi qualcosa.»
«Mah, penso che abbia estratto a sorte una maledetta carta che lo impegni a fare qualcosa di stupido - qualcosa
in cui non crede neppure lui.»
«Non capisco a che alludiate. Ma se non ci crede neppure lui, può benissimo lasciar perdere.»
«Lo pensate capace di tirarsi indietro, una volta data la parola?» chiese il violinista.
La Principessa ci pensò a lungo. «Non possiamo giudicare gli altri finché non li abbiamo visti alla prova. E poi:
«Non vi siete neppure dato la pena d'interrogarlo?»
«E a che scopo? Non mi direbbe nulla. Sarebbe come se uno andasse spargendo la voce che sta per battersi a
duello.»
Rimase seduta per un poco immersa nei suoi pensieri, guardando il signor Vetch con un sorriso
compassionevole, indulgente. «Sono certa che vi state preoccupando per niente; ma non potete farne a meno, vero? Non
vedo ancora bene come potrei aiutarvi.»
«Volete dunque che commetta qualche azione atroce, pazza, vergognosa?» supplicò il vecchio.
«Mio caro signore, non voglio un bel niente. Non ho nulla a che vedere con nessun impegno di nessun tipo che
possa essersi preso. Fatemi l'onore di credermi» continuò la Principessa in tono piuttosto secco. «Non vedo cosa abbia
fatto per non meritare la vostra fiducia. E cercate di avere anche un po' di fiducia nel giovanotto. È un vero signore, e si
comporterà come tale.»
Il violinista si alzò, lisciando in silenzio il cappello col polso della giacca. Rimase lì, grottesco e miserevole,
oppresso dalle domande che ancora gli urgevano, conscio di essere stato congedato, mentre le due sensazioni
sbiadivano all'insorgere di una nuova imprevista considerazione. «È proprio quello che temo!» replicò. Poi aggiunse,
continuando a fissarla: «Ma deve, per forza, amare molto la vita.»
La Principessa non raccolse l'insinuazione contenuta in quelle parole. «Lasciate fare a me... lasciate che pensi
io a lui. Mi dispiace che stiate in pena, ma siete stato molto buono a venirmi a trovare. Mi ha reso felice conoscervi,
perché voi avete esercitato una forte influenza sul nostro amico.»
«Sfortunatamente sì! Se non fosse stato per me non avrebbe mai conosciuto Poupin, e se non avesse conosciuto
Poupin non avrebbe mai incontrato quel suo amico chimico... come si chiama... Muniment.»
«E pensate che gli abbia nociuto?» chiese la Principessa. Si era alzata in piedi.
«Certo: quel pensatore è stata la causa principale della sua infatuazione.»
«Siete riuscito a spazientirmi!» disse lei per tutta risposta, voltandosi.
E senza dubbio l'insistenza del visitatore era molto irritante. Continuò, con la testa in avanti e le braccia corte,
aperte, terminanti nell'ombrello e nel cappello che agitava in modo visibile per sottolineare o illustrare il discorso:
«Sospettavo da tempo che fosse stato Muniment o voi a metterlo in questa situazione. Sospettavo più di tutti voi... sì,
più di tutti; ma se non siete stata voi, deve essere stato lui.»
«Allora andate da lui!»
«Certo che ci vado. Lo conosco appena - l'ho visto una sola volta - ma gli dirò quello che penso.»
La Principessa suonò per la cameriera, che accompagnasse il signor Vetch alla porta, ma proprio mentre lui
posava la mano sulla maniglia, lo arrestò con un gesto rapido: «Ora che ci penso, non andate dal signor Muniment. È
meglio non coinvolgerlo. Lasciate fare a me,» aggiunse con un sorriso più tenero.
«Ma perché no? Perché no?» chiese lui implorante. E poiché lei non seppe rispondergli subito, aggiunse: «Non
è al corrente?»
«No, non sa nulla; non c'entra per niente.» Improvvisamente provò il desiderio di proteggere Paul Muniment
dall'accusa che il signor Vetch aveva formulata - l'accusa di una brutta responsabilità; e sebbene non fosse donna da
raccontare bugie, quella negazione le uscì dalle labbra prima che potesse arrestarla. E sempre quello stesso desiderio,
anche se non direttamente connesso alla questione, le fece aggiungere: «Non lo fate... rovinereste tutto!» E
improvvisamente eccitata andò verso di lui, e aprì personalmente la porta. «Lasciatelo a me - lasciatelo a me,» continuò
con tono persuasivo, mentre il violinista, stordito e soggiogato, si lasciava guidar via. Le era venuta di colpo un'idea
eccitante, e dopo che ebbe udito la porta chiudersi dietro al signor Vetch, si mise a camminare su e giù per la stanza, a
lungo, irrequieta, tutta presa da quel pensiero.

LIBRO QUINTO

Quell'inverno Hyacinth trovò il modo di occupare abbondantemente le ore libere, le sere i giorni di festa e i
momenti di riposo, dando mano ai libri che a Medley si era ripromesso di rilegare in modo degno della nobiltà e dello
splendore della signora della sua vita - brillanti attributi a quel tempo non ancora scontati - e della confidente generosità
che gli aveva mostrato. Aveva deciso che avrebbe ricevuto da lui qualcosa di valore, e gli piaceva pensare che anche
quando non ci fosse stato più quei libri sarebbero passati di mano in mano come esemplari rari, mentre gli esperti si
sarebbero piegati sopra essi incantati, sorridenti e ammirati toccandoli delicatamente. Infiammato da tali fantasie,
inventava cento idee mirabili, molte delle quali realizzò a tarda notte. Spiegò tutta la sua abilità che ormai era di
prim'ordine. Il vecchio Crook gliene rese atto aumentandogli la paga; e sebbene i complimenti non fossero una
specialità del proprietario della bottega di Soho, che fino all'ultimo continuò ad indossare il grembiule, come i suoi
operai, il nostro giovane venne a sapere, come a caso che molti libri che gli aveva dato da rilegare, Crook se li era
portati via collocandoli sugli scaffali della sua villa, tra i suoi tesori, e li esibiva ai membri della sua cricca quando, la
domenica, andavano a prendere il tè da lui. Hyacinth stesso fu invitato a un grande avvenimento - una festa musicale,
dove fece la conoscenza di una mezza dozzina di signorine Crookenden - conoscenza che non andò oltre lo stare in
piedi in un angolo, dietro svariate schiene rotonde di vecchie signore, ad ammirare il susseguirsi al piano e all'arpa di tre
o quattro figlie del suo datore di lavoro, dalle dita pesanti. «Sapete, è una casa di gente pazza per la musica,» disse una
vecchia signora ad un'altra. Ma lo colpì soprattutto il modo di suonare delle signorine Crookenden, ineffabilmente
diverso da quello della Principessa.
Sapeva di essere l'unico della bottega ad essere stato invitato, ad eccezione del capomastro, un sessantenne con
parrucca che di per sé era già una specie di affermazione sociale, accompagnato da una piccola, spaventata, furtiva
moglie, la quale, ogni volta che la signora Crookenden le rivolgeva la parola, chiudeva gli occhi come abbagliata. I
Poupin non c'erano; e Hyacinth non ne fu sorpreso, sapeva bene che anche in caso d'invito - e non era questo il caso -
per principio si sarebbero rifiutati di metter piede chez les bourgeois. Non erano stati invitati perché, nonostante il nome
che Eustache s'era fatto nell'azienda, si era venuto a sapere che sua moglie non era proprio sua moglie, anche se certo
non era la moglie di nessun altro. E l'attendibilità di questa posizione irregolare si basava più o meno sul fatto che non
era mai stata vista altrimenti che coperta da una discinta camiciola. Senza dubbio si temeva che, invitata alla villa, si
presentasse con un numero inadeguato di ganci allacciati - quantunque Hyacinth, in due o tre occasioni, e soprattutto la
sera che aveva portato la coppia al teatro del signor Vetch, era stato testimone delle proporzioni a cui poteva ridurre la
propria corporatura quando desiderava dare l'impressione di attenersi alle regole.
Non capì bene come vennero a sapere, a Soho, del privilegio che gli era toccato; tuttavia la cosa non suscitò
gelosie, non essendo né Grugan, né Roker né Hotchkin persone da invidiare qualcuno per essere stato invitato a una
serata elegante, più di quanto non avrebbero invidiato una scimmia che si esibisse all'organetto: entrambe erano
dimostrazioni di una urbanità acquisita a caro prezzo. Ma Roker per poco non mozzò il fiato al suo giovane collega
osservando, mentre gli assestava una gomitata, che forse il vecchio gli aveva messo gli occhi addosso per uno dei
tesorucci che aveva in casa - e chiedendogli che ne sarebbe stato, in quel caso, di quel gingillo che si era portato in
Francia e che aveva trattato a champagne e aragosta. Era la prima volta che Hyacinth sentiva fare allusione al fatto che
un giorno potesse sposare la figlia del padrone come il virtuoso apprendista della favola; ma l'idea non gli sembrò molto
allettante, neppure dopo che si fu figurato un paio d'incidenti che potessero avallarla. Nessuna delle signorine
Crookenden gli aveva rivolto la parola - avevano tutti visi larghi, gambe corte, e assomigliavano in modo comico al
vecchio dalle narici dilatate, il padre; e a differenza delle signorine Marchant a Medley, sapevano benissimo chi fosse;
ma la madre che aveva sul capo una montatura di piume di cacatua miste a perline di vetro, lo aveva guardato con una
fissità amorosa, quasi impressionante, e gli aveva chiesto per ben tre volte se gradisse un bicchiere di grog.
Incontrò molte difficoltà a farsi dare i libri dalla Principessa perché, quando le rammentò la promessa fatta a
Medley di consegnargli tutti i volumi che avesse chiesto, lei rispose che le cose erano cambiate, da allora. Era
completamente dépouillée, non aveva più l'ambizione di possedere una biblioteca, e infine sarebbe stato meglio che non
ci pensasse più. Poteva prendersi tutti i libri che voleva, ma, come poteva constatare lui stesso, si trattava di edizioni
scadenti, alle quali non valeva certo la pena dedicare troppe cure. Chiese a Madame Grandoni di aiutarlo - di dirgli
almeno se, fra le cose che la Principessa aveva depositato in magazzino, non ci fosse qualche buon volume, dal
momento che gli risultava, dalle sue stesse ammissioni, che aveva permesso alla cameriera di imballare alcuni oggetti e
metterli in salvo al Pantechnicon. Questa era stata tutta opera di Assunta - la donna l'aveva implorata di mettere da parte
qualcosa che assicurasse loro un tozzo di pane per la vecchiaia; ma la Principessa, per parte sua, se ne era lavata le
mani. «Che, che, sono sicura che ci sono casse con un poco di tutto, in quel posto là,» aveva detto la vecchia signora, in
risposta alla sua domanda; e Hyacinth aveva confabulato con Assunta la quale aveva preso a cuore la faccenda, col suo
interessamento tipicamente italiano, affettuoso e loquace, e aveva promesso di pescargli qualsiasi pezzo di carta
stampata che ci fosse rimasto. Arrivò una sera a casa sua, in una carrozza a noleggio, con una bracciata di graziosi
volumetti, e quando le chiese da dove fossero spuntati, si mise l'indice sul naso con fare vago e significativo. Man mano
che i volumi erano pronti, li aveva portati uno alla volta alla Principessa che li aveva ricevuti scuotendo la testa, con un
sorriso gentile e triste. «Sarà bellissimo, ne sono certa, ma ho perso il gusto di queste cose. E poi ricorderete che un
giorno mi diceste che le donne, anche le più colte, sono incapaci di capire la differenza tra una rilegatura buona e una
scadente. Mi ricordo una volta mi raccontaste che alcune signore distinte erano venute a bottega con certi pezzi di pelle
sbalzata, chiedendovi di imitarla. Non sono certo quelle le sottigliezze che capisco meglio. Mio caro amico, queste cose
non mi dicono più nulla; sono affascinanti, non c'è dubbio, ma mi lasciano indifferente. Che volete, non si può servire
dio e satana.» I suoi pensieri erano fissi su cose ben diverse dalle delizie di leggiadre copertine, e Hyacinth che le aveva
tanto a cuore, evidentemente le appariva come l'imperatore folle che suonava la cetra mentre Roma era in fiamme. La
società europea era in fiamme, e l'emozione che provava nell'osservare quell'incendio non trovava surrogati. Poteva di
tanto in tanto ritrovare l'ilarità la gioia, la speranza, ma sempre in rapporto alla vita del popolo. Per vedere la gente del
popolo era andata con Hyacinth al music-hall in Edgeware Road e tutte le sue camminate e tutto il suo tempo libero,
quell'inverno li aveva dedicati alle classi per le quali si stava preparando un cambiamento fondamentale. Hyacinth
aveva ormai cessato di chiedersi se fosse in buona fede, e a dire il vero, qualunque fosse la risposta, non gl'importava
più molto. Profonda o superficiale, lo teneva avvinto così com'era, e in ogni caso le sue azioni erano sufficientemente
motivate per approdare a risultati concreti e positivi. E quello che faceva, aveva una sua serietà, anche nell'ipotesi che
fosse superficiale lei, e vi erano casi in cui egli stesso ne rimaneva turbato. Le domeniche in cui era andata con lui nei
luoghi più oscuri, nei più fetidi buchi di Londra, si era sempre portata dietro denaro in abbondanza per distribuirlo.
Aveva detto con tutta semplicità che non si poteva andare a osservare la gente tanto per ricavarne una qualche
impressione, senza pagarla, e distribuiva denaro a destra e a sinistra, indiscriminatamente, senza chiedere né vagliare,
proprio come la badessa di qualche convento presa d'assalto dai poveri, o come la dama di carità della superstiziosa
epoca prescientifica, che sperava di essere scortata in paradiso dalle sue elemosine. Hyacinth, pur pensando a volte che
protesa com'era alla modernità, avrebbe potuto amministrare il denaro destinato alla carità alla luce dei moderni principi
di economia, non glielo aveva mai detto; in parte perché non era donna che si lasciasse guidare e consigliare - sapeva
far proprie le idee di altri ma non la prassi. E poi, che importava? Che differenza c'era, per lui, se veniva coinvolto in
sistemi giusti o sbagliati, ora che gli era rimasto così poco tempo per rammaricarsi o rallegrarsi? La Principessa
impersonificava la passione - non rappresentava un sistema e il suo comportamento, dopotutto, era inteso più a sfogare
la propria passione che ad alleviare quelle altrui. E poi la miseria si trovava ad ogni angolo di strada così che il suo
denaro cadeva sempre in mani avide. Si meravigliava che avesse sempre tanto denaro disponibile ma lei gli spiegò
come lo ricavasse dal piano di austerità che aveva adottato. Quello che elargiva erano i suoi risparmi, quell'eccedenza
che era riuscita a crearsi; e ora che aveva provato la soddisfazione di mettere da parte quelle sommette per uno scopo
simile, considerava gli anni passati, così inutili e sprecati, pieni di esigenze totalmente personali, come un lungo,
stupido assopimento della coscienza. Fare qualcosa per gli altri non solo era molto più umano - era anche molto più
attraente!
Sotto la guida di Hyacinth fece strani incontri: ascoltò racconti straordinari ricavandone una sua teoria, sui fatti
e sulle persone che li narravano, che erano ancor più straordinarie. Si prese cotte romantiche per vagabondi dei due
sessi, tentò di stabilire con loro rapporti sociali, e scombussolò infinitamente il signore della casa accanto che fumava
sempre in finestra e che al nostro eroe ricordava molto il signor Micawber. Riceveva visite che erano lo scandalo del
quartiere, e Hyacinth tralasciò i propri impegni, quali che fossero, per vedere quale altro straccione si presentasse alla
sua porta. Tale andazzo, è vero, divenne più serio man mano che si faceva più profonda l'amicizia della Principessa con
Lady Aurora; Sua Signoria usava un sistema discriminatorio che la Principessa si risolse ad adottare, e prima della fine
dell'inverno l'assistenza del signor Robinson non fu più necessaria. Lasciò con sollievo e gioia il posto a Lady Aurora,
perché non gli era riuscito di dare un senso neanche al proprio comportamento, per tutti quei quattro mesi né si era mai
preso seriamente come cicerone. Si era immerso in un mare di barbarie, senza avere in sé l'energia per un'opera di
civilizzazione. Si rendeva conto che quella gente versava in un'orribile miseria - gli sembrava di accusarlo più di quanto
loro stessi facessero; spesso era colpito dalla loro insensibilità brutale che ottenebrava ogni volontà di miglioramento.
Ne era così conscio che quei contatti ripetuti nulla potevano aggiungere a tale convinzione; piuttosto offuscavano e
smorzavano le sue impressioni, impastandole di contraddizioni e difficoltà, di reazioni violente, di un senso
d'inevitabilità e irreparabilità. Allora la povertà e l'ignoranza delle masse sembrava così enorme e preponderante e si
imponeva così imperiosamente come legge di vita, che quanti erano riusciti a scampare al nero gorgo, costituivano una
minoranza eletta, munita di risorse e baciata dalla fortuna: in un certo senso suscitava l'interesse e la solidarietà che si
prova per i superstiti e i vittoriosi per chi sia uscito illeso da un naufragio o da una battaglia. La mente di Hyacinth era
essenzialmente occupata da un'idea in cui sembravano pulsare i battiti capillari dell'intera vita del suo tempo: l'idea che
la marea democratica avrebbe inondato il mondo, spazzando via tutte le tradizioni del passato, ma portando in sé, sia
pure come unica alternativa positiva, una energia prodigiosa e la garanzia che i propri adepti sarebbero stati tutelati.
Quando l'alta, benefica, entusiasmante ondata avesse sommerso il mondo e portato sulla sua cresta l'era nuova, sarebbe
stata colpa sua (e di chi altro?) se il bisogno, le sofferenze, la criminalità avessero continuato ad essere ingredienti della
sorte umana. Con la propria natura composita, e divisa, con le sue simpatie contrastanti, la sua eterna abitudine di
pencolare tra un punto di vista e l'altro, egli si rappresentava questa prospettiva con stati d'animo vari e di varia
intensità. Nonostante l'esempio di conciliazione dei contrasti che gli aveva offerto Eustache Poupin, temeva che la
democrazia non si curasse affatto di rilegature perfette né di conversazioni elevate. La Principessa aveva rinunciato a
tutto questo man mano che avanzava nella direzione audacemente scelta; e se lei aveva rinunciato, soltanto un'indole del
tutto fuori della norma avrebbe potuto restarvi aggrappata. In pari tempo c'era un senso di gioia e di esultanza nel
pensiero di abbandonarsi al riflusso dell'onda, e cavalcare le creste di cavalloni selvaggi toccate dal sole, più su del
limite raggiungibile con uno sforzo arido e solitario. Tale visione poteva sconfinare nell'estasi e rendere indifferente che
i destini ultimi di ciascuno, in un mare così gonfio, rischiassero di essere sommersi in abissi senza fondo, o frantumati
contro statici scogli. Hyacinth, stessero coi vinti o coi vincitori le sue simpatie personali, sentiva che la forza vittoriosa
era potenzialmente infinita, non aveva bisogno di pensose testimonianze.
Il lettore sorriderà senza dubbio dei suoi rovelli e della sua altalenante problematica, e non capirà perché mai
un bastardello rilegatore di libri dovesse annettere tanta importanza alle proprie conclusioni. Queste non avevano
rilevanza né per l'una né per l'altra causa, ma l'avevano per lui - non fosse altro perché l'avrebbero salvato dal tormento
della vita attuale, dalla perenne penosa traumatica lacerazione. Era sbattuto senza posa dalle due correnti che scorrevano
nella sua natura: il sangue della passionale madre plebea, e quello del padre d'alto lignaggio e squisitamente patrizio.
Esse continuavano a squassarlo da una parte all'altra; lo ponevano in uno stato d'intollerabili sfiducie e rivalse contro se
stesso. Aveva una grande ambizione: desiderava né più né meno di afferrare la verità e di portarsela in cuore. Col
candore della giovinezza credeva che fosse una cosa brillante e limpida, come un diamante regale; dovunque si voltasse
nello sforzo di trovarla percepiva la presenza, alle sue spalle, chinato su di lui in atto di biasimo, di un volto tragico,
ferito. Il pensiero di sua madre lo aveva colmato del vago e goffo fermento dei primi impulsi per una critica sociale; ma
dal momento in cui il problema era stato complicato dalla scoperta che molte cose nel mondo così com'era gli sarebbero
diventate intensamente care, aveva cercato sempre più di dare un volto riconoscibile e umano a suo padre - qualche
segno d'onore, di tenerezza, di credito, di sofferenza immeritata o almeno di espiazione adeguata. Ignorare una presenza
privilegiando l'altra - quell'ipotesi era già una fonte di vergogna, come lo sarebbe stato un tradimento; perché udiva
quasi la voce del padre che gli domandava se far propria l'opinione dei fanatici e dei cialtroni ed emularne la crudezza
fosse il modo di comportarsi di un gentiluomo. Aveva completamente superato il dato che non era certo suo padre a
poter parlare di quanto si confaceva a un gentiluomo, né rimuginava più sul fatto che il più grande cialtrone di Londra
non era meno degno di considerazione del figlio di tanto padre. Si era abbandonato a quei compromessi, interpretazioni,
ipotesi, che il «Times» letto nel British Museum in un indimenticabile pomeriggio, non aveva escluso. Sebbene i
momenti di ribollente risentimento contro l'uomo che gli aveva inflitto uno stigma che non lo avrebbe abbandonato mai
fossero stati abbastanza frequenti, anzi, fin troppo frequenti, in altri momenti si era abbandonato con un certo successo
allo sforzo di trovare in se stesso un'assoluzione e una giustificazione filiali. Gli riusciva abbastanza semplice, in
confronto, accettarsi come figlio di una francese terribilmente leggera; mentre un'onta maggiore, gli sembrava, avere
per padre un nobiluomo totalmente destituito di nobiltà. Era troppo povero per poterselo permettere. Talvolta, col
pensiero, sacrificava uno dei due responsabili della sua esistenza, e il sacrificato era molto più frequentemente Lord
Frederick; altre volte, quando gli veniva meno il convincimento che se suo padre fosse vissuto avrebbe fatto molto per
lui o quando andava in frantumi l'illusione che egli fosse stato l'unico amante di Florentine Vivier, allora malediceva
entrambi e li ripudiava; talvolta arrivava ad immaginarseli l'uno vicino all'altro che lo guardavano con occhi
indicibilmente tristi ma per nulla vergognosi, - e quegli occhi sembravano dirgli che erano stati entrambi infinitamente
sfortunati ma che non si erano mai degradati. Naturalmente i momenti peggiori, ora come sempre, erano quelli in cui
crollavano malignamente le basi per sostenere che Lord Frederick era stato, in realtà, proprio suo padre. Bisogna
aggiungere che li superava sempre perché da nessun'altra fantasticheria avrebbe ricavato analoghi eccitamenti
tormentosi e incorreggibili.
Ho voluto menzionare questi rimuginamenti confusi non perché occupassero un posto particolare nella storia
del nostro giovanotto durante l'inverno in cui la Principessa risiedette a Madeira Crescent, ma perché rappresentavano
un elemento costante nella sua vita spirituale, e vanno tenuti presenti ogni qualvolta ci occupiamo di lui. Ci furono delle
sere, in novembre e dicembre, in cui il suo cuore conobbe la felicità più grande mai provata, mentre calpestava i viscidi
marciapiedi fra Westminster e Paddington, facendosi strada a tentoni fra uno schermo e l'altro dei lampioni,
assaporando la nebbia condita di fumo. Ancora una volta l'influenza penetrante della sua Londra lo circuiva; le luci di
Parigi, di Milano e di Venezia tremolavano lontane, reminiscenze e visioni; e mentre la grande città che sentiva quasi
sua, giaceva sotto la sua coltre funerea come un immenso mostro ansimante, provava un eccitamento vago, vissuto altre
volte, ma che si rinnovava, ora, con maggiore consapevolezza, al pensiero che essa fosse la più ricca espressione della
vita dell'uomo. L'arco del suo orizzonte si era allargato enormemente, ma ora si colmava di nuovo di quella distesa che
inviava verso un cielo senza stelle tenui bagliori notturni e strani sfocati riflessi ed emanazioni. Al centro di questa
distesa egli teneva sospesa, per così dire, la propria sensibilità, perché trepidasse di gioia, di speranze di ambizioni come
anche dello sforzo della rinuncia. Il quieto caminetto della Principessa lanciava attraverso il buio e l'immensità bagliori
di certezze profonde, di incontri intimi; quel pensiero lo seguiva sempre, e i rapporti con la sua amante erano impostati
meglio di quanto non fossero stati all'inizio. Se alla causa prescelta poteva o meno giovare che lei si fosse ridotta a quel
semplice tenore di vita, certamente per il povero signor Robinson era vantaggioso. Gliela rendeva più accessibile,
facendola sentire più a suo agio; e di fronte al pericolo che lei si snaturasse e rimanesse contagiata dalla volgarità delle
cose che la circondavano, bastava ricordarla così com'era a Medley perché tutto tornasse nella giusta prospettiva. La sua
bellezza, a dire il vero, sembrava sempre trovare lo sfondo che più le si confaceva; costituiva l'elemento principale del
suo ambiente, e risplendeva perfino tra gli accessori più umili. La natura provvedeva a mettere in risalto quanto fosse
arduo e penoso che lei stabilisse rapporti con l'orribile popolazione londinese. Hyacinth si ritrovava a sorridere di questa
pretesa, durante le sue passeggiate notturne verso Paddington o verso casa; la plebaglia londinese era lì, sparpagliata sul
suo cammino, e lui si chiedeva per quale magia fosse stata toccata da tanta grazia. Certe sere gli sembrava che tutti
quelli che incontrava emanassero un sentore di gin e di sporco, e trasaliva al contatto a fior di gomito con quelle figure
ripugnanti, quasi di lebbrosi. Specialmente alcune donne e fanciulle avevano un aspetto pauroso - sature d'alcool e di
vizi, brutali, inzaccherate, oscene. «Che altro rimedio se non un nuovo diluvio quale altra alchimia se non
l'annientamento?» si domandava andando per la sua strada, e pensava quale destino fosse riservato, nel grande disegno
delle cose, a un pianeta straripante di parassiti, quale redenzione se non quella di essere scagliato contro una sfera di
fuoco distruttore. Attribuire la colpa, come sosteneva Paul Muniment, ai ricchi, ai congestionati, egoisti ricchi,
consenzienti al proliferare di simili abominii, contava poco, spostava soltanto la vergogna da una parte all'altra; dal
momento che il globo terrestre, fallimento visibile, produceva sia la causa che l'effetto.
Il nostro giovane non si era reso conto che l'atto della Principessa, di mettersi nelle mani di Lady Aurora per
investigare ulteriormente sulla condizione dei poveri, era stata una sottrazione di fiducia nei suoi riguardi. Non poteva
sentire alcuna gelosia per la nobile zitella; era troppo il rispetto per il suo spirito filantropico, la sua profonda cultura e
la capacità di rispondere a qualsiasi domanda salisse alla mente volubile della Principessa, e troppo acuta, d'altro canto,
la consapevolezza dei limiti e della superficialità della propria informazione sulla questione sociale. Gli bastava poter
fare del piccolo salotto di Madeira Crescent il centro dei suoi pensieri, e poter volgere là i suoi passi sentendosi a un
tempo protetto e privilegiato. Ci pensava quasi sempre colorandolo di tinte rare che senza dubbio gli erano estranee. I
rapporti con la Principessa da tempo non gli sembravano più appartenere a un mondo di fiaba; erano spontanei come
tutto il resto - tutto nella vita del resto era strano; e li aveva ormai assimilati, erano elemento indispensabile della loro
reciproca felicità. «Reciproca» - Hyacinth sentiva di poter rischiare a dirlo, perché non provava alcuna vanità
nell'accorgersi che la donna più interessante d'Europa fosse tutta presa di lui. La calma familiare fraterna accoglienza
che riceveva in quelle rigide sere d'inverno ne erano la prova. Sedevano insieme come vecchi amici, e le lunghe pause
di silenzio durante le quali si guardavano semplicemente negli occhi con dolcezza e amicizia non li turbavano affatto.
Non che i silenzi fossero l'elemento principale delle loro conversazioni, perché sopravvenivano soltanto dopo lunghe
chiacchiere. A Hyacinth, seduto dalla parte opposta del camino, a volta sembrava di essere sposato alla sua amica, tante
erano le cose che entrambi davano già per scontate. La Principessa era incomparabile in questo genere di rapporto,
intimo, semplice, allegro, circoscritto dalle tende tirate e dalle lampade schermate inframmezzato da racconti di
grattacapi domestici e di confidenze che finivano nello scherzo. Era convinta che la sua esistenza attuale non fosse altro
che una scampagnata, e tutti gli incerti del mestiere contrattempi felici. C'era una pace domestica nei suoi gesti e nei
suoi passi, nel modo di sedere e di ascoltare, di giocare col gatto di attizzare il fuoco o di piegare l'onnipresente scialle
di Madame Grandoni; e soprattutto nella tenacia con cui trascorreva le serate a casa, senza cenare fuori, o partecipare a
feste, ignara delle sregolatezze della città. C'era, nell'isolamento della stanza, quando il bollitore era tenuto in caldo e lui
aveva consegnato l'ombrello bagnato alla cameriera e la sua amica lo aveva fatto sedere in un certo modo, vicino al
fuoco, perché le scarpe gli si asciugassero meglio - c'era qualcosa che gli ricordava quella vie de province, di cui aveva
letto nei romanzi francesi. Il paragone francese gli venne in mente perché si adattava molto bene al tipo di compagnia
della Principessa, alla sua cultura e facilità di parola. Spesso si esprimeva proprio in francese, prendendo in prestito
quella lingua per alcune sfumature nella conversazione, sebbene avesse chiarito a Hyacinth il proprio punto di vista
«latino» riguardo al popolo che la parlava. Le sue incertezze linguistiche non erano affatto provinciali: aveva una
conversazione scorrevole e non c'era nulla di quanto le si dicesse che lei stessa non fosse in grado di dire. Si era liberata
di tutti i pregiudizi e da ogni remora convenzionalistica. Hyacinth ammirava il movimento - gli sembrava di vederlo -
col quale, intellettualmente riusciva a spalancare le finestre in ogni direzione. Era straordinariamente affascinante
questo impasto di libertà e umiltà - lo spettacolo di una creatura capace di voli immensi, seduta come una colomba con
le ali ripiegate.
Il giovanotto incontrò parecchie volte Lady Aurora, a Madeira Crescent - come le sue, anche le giornate di lei
erano riempite dal lavoro e veniva di sera - ed egli sapeva che l'amicizia con la Principessa aveva raggiunto una
compiuta maturità. Le due signore provavano l'una per l'altra un interesse quasi passionale, e ciascuna si rallegrava che
l'altra non fosse neppure un poco diversa. La Principessa aveva profetizzato apertamente che la sua visitatrice si sarebbe
stancata di lei - accadeva sempre così con le persone che le piacevano - ma l'acuto spirito di osservazione del nostro
eroe non aveva ravvisato segni rivelatori della fine dell'entusiasmo quasi ansimante di Sua Signoria; per lei, l'amica
straniera, non solo era la persona più distinta, più stupefacente, più ammirevole e più originale del mondo ma anche la
più divertente e deliziosa persona con la quale prendere il tè. Quanto alla protagonista, i suoi sentimenti per Lady
Aurora erano gli stessi provati da Hyacinth a suo tempo: la riteneva una santa, la prima che avesse mai conosciuto, e
l'esemplare più puro che si potesse immaginare buona in una maniera tutta personale, come San Francesco di Assisi, e
come lui tenera, delicata e trasparente, e con uno spirito di carità altrettanto sublime. Sapeva che quando nelle polverose
strade del mondo s'incontra un fiore così fresco, è il caso di coglierlo e di adornarsene; perciò voleva sempre inebriarsi
della fragranza di Lady Aurora, baciandola e tenendole la mano. La zitella era impressionata da tanta generosità e dai
fantasiosi ricami della sua immaginazione; voleva convincerla - come faceva da parte sua la Principessa - che le sue
esagerazioni distruggevano il loro sfortunato obiettivo. La Principessa si deliziava degli abiti di Lady Aurora, del suo
modo di portarli e di consumarli; delle economie per ottenere denaro da dare ai poveri e dell'abilità con cui riusciva a
far fruttare le sue misere risorse - del modo in cui parlava, una specie di sbigottita semplicità. Voleva imitarla nei
minimi particolari; imparare ad economizzare con maggior discernimento; acquistare gli stessi cappellini nello stesso
negozio, non curarsi, come lei, se i guanti calzavano bene, e dire con lo stesso tono di voce: «che seccatura che il marito
di Susan Crotty sia stato licenziato!» Diceva che Lady Aurora la faceva sentire una modista francese, e se c'era una cosa
che odiava al mondo erano le modiste francesi. Entrambe erano fortemente influenzate dalle reciproche idiosincrasie, e
ciascuna di loro voleva che l'altra rimanesse qual era, e ognuna voleva trasformarsi nell'immagine dell'amica.
Una sera in cui si era recato a Madeira Crescent più tardi del solito, Hyacinth incontrò la visitatrice di Belgrave
Square, che stava appena uscendo. Le apparve diversa, come non l'aveva mai vista prima, rossa e perfino un poco
sconvolta, come se avesse appena ricevuto una cattiva notizia. Gli disse: «Oh, come va?» con la sua solita, piccola, vaga
risata, ma se ne andò per la sua strada senza fermarsi a parlare. Tre minuti dopo Hyacinth disse alla Principessa di
averla incontrata, e lei rispose: «Peccato che non siate venuto prima, avreste assistito ad una scena.»
«Una scena?» ripeté lui, non comprendendo come avesse potuto nascere un qualche screzio fra quelle due
reciproche ammiratrici.
«Una scena di pianto, di rimostranze sincere fatta in buona fede, naturalmente. Ritiene che io stia esagerando.»
«Immagino che le diciate cose che non mi dite,» disse Hyacinth.
«Oh, voi, mio caro!» mormorò la padrona di casa. Parlava distrattamente, come se stesse ripensando a quello
che era accaduto e ritenesse scontata l'inutilità di dire certe cose al signor Robinson.
Lui non provò nessun dispiacere - il desiderio di stare al passo con le sue «idee» era spento. Ormai i loro
discorsi assumevano quasi sempre un tono di reciproca derisione mentre, scuotendo le spalle si commiseravano a
vicenda l'uno per la follia di lei e l'altra per la viltà di lui. Quando discutevano egli di proposito ricorreva a paradossi,
reazioni abnormi, ed era diventata un'abitudine e un divertimento per loro scagliarsi ogni sorta d'improperi. Avevano
rinunciato completamente ai discorsi seri; e quando non erano occupati a scambiarsi, in tono burlesco, i frizzi di cui ho
parlato, venivano a un compromesso e trattavano solo punti sui quali a nessuno dei due sarebbe venuto in mente di
dissentire. C'erano sere in cui lei parlava esclusivamente della propria vita e di tutta l'umanità che fin dai primi anni le
era sfilata davanti agli occhi in tanti paesi diversi. E l'evidente eccedenza negativa delle impressioni che l'avevano
colpita non le avevano impedito di conservarne un ricordo vivace e toccante, e il suo potere evocativo, mimetico,
drammatico rimaneva pur sempre il più efficace conosciuto da Hyacinth. Era irriverente e irritante, tuttavia Hyacinth
non poteva fare a meno di pendere dalle sue labbra; e quando gli riferiva aneddoti di paesi stranieri - egli amava sapere
come vivessero e parlassero i monarchi - nulla in lei lasciava supporre l'intenzione di partecipare a una cospirazione o in
lui il desiderio di tirarsene fuori. Tuttavia egli non poteva fare a meno di chiedersi che cosa ci facesse, lei, in simili tane,
e verso quali strane pene si stesse avviando. Se la interrogava, era ovvio che si sentisse rispondere a quale titolo si
permetteva d'indagare su certe cose, coi sentimenti che aveva. Questo però accadeva di rado, perché era il primo a
dubitare della validità dei propri motivi, ma, una volta che lei lo aveva sfidato, rispose, sorridente, esitante: «Beh, mi
sembra che da quanto vi ho detto dovreste riconoscermi un certo diritto.»
«Volete dire il vostro famoso giuramento di "agire" a comando? Ma quello non accadrà mai.»
«E perché non dovrebbe?»
«È una cosa assurda, vaga. Come quegli sciocchi intrighi che si leggono nei romanzi.»
«Vous me rendez la vie!» disse Hyacinth in tono melodrammatico.
«Non dovrete farlo mai,» continuò lei.
«È come se diceste che non lo voglio fare. Ma per lo meno mi sono offerto. Non è già questo un titolo
sufficiente?»
«Va bene, allora non lo farete,» disse la Principessa; poi si guardarono in silenzio per un paio di minuti.
«Lo farete voi, a giudicare da come vi agitate,» riprese il giovane.
«Che ne sapete voi dei miei movimenti? Non meritate di saperlo!»
Tuttavia lui lo sapeva; cioè a dire sapeva che lei era in contatto con strani colombi viaggiatori che aveva, o
almeno credeva di avere, molta carne sul fuoco, che reggeva alcuni di quei fili da tirare nei momenti cruciali. Riceveva
lettere che le attiravano occhiate di traverso da Madame Grandoni: più di una volta la vecchia signora, pur non
conoscendone il contenuto, ma sulla base di sospetti generici e di un fiuto per la tragedia che si era purtroppo acuito, ne
aveva parlato a Hyacinth. Madame Grandoni cominciava ad avere tetre visioni di interferenze da parte della polizia; era
ossessionata al pensiero di subire una perquisizione tesa alla ricerca di documenti compromettenti; di essere trascinata
anche lei, quale complice di oscuri intrighi, davanti al tribunale e forse anche in prigione. «Se almeno le bruciasse - se
almeno le bruciasse! Ma se le tiene... se le tiene!» si lamentava con Hyacinth nella sua cupa disperazione. Egli poteva
solo cercare d'indovinare che cosa si tenesse; e si domandava se non fosse coinvolta gravemente, sfruttata da falsi
fuorilegge, avventurieri rapaci che contavano sul fatto che a un dato momento lei si spaventasse e offrisse loro del
denaro per tacitarli, e svincolarsi da una complicità che essi per primi non avevano mai preso sul serio; ovvero se non
stesse per caso civettando con dei pezzi di carta, per procurarsi sensazioni a buon mercato, dibattendo piani che non
avrebbero mai avuto esito. Gli sarebbe stato facile sorridere alla pretesa della Principessa di essere "in", e concludere
che anche la donna più intelligente non sapeva riconoscere la propria futilità; ma gli era rimasta addosso ancora vibrante
una sensazione provata due anni prima, di cui aveva parlato alla Principessa, a Medley - la sensazione, esplosa come
una folgore e mai più sopita, che quelle forze che si erano schierate segretamente contro il presente ordine sociale,
fossero infiltranti e universali, e permeassero l'aria che si respirava, il suolo che si calpestava, la mano tesa di un
conoscente, lo sguardo di un estraneo che s'incrociava per un istante col nostro. Forze che ci si ritrovava sopra, sotto,
dentro, fuori, in ogni contatto e in ogni circostanza - che si nascondessero sotto spoglie particolari, improbabili, era
strano ma non sufficiente a negarne l'esistenza: presentarsi sotto forme improbabili era appunto la loro forza, e senza
dubbio potevano assumere aspetti ancora più eterogenei di quello della Principessa che ne partecipava effettivamente
nel momento stesso in cui più si compiaceva di appartenervi.
«È vero che vi esponete troppo,» le disse la sera che aveva incrociato sulla porta Lady Aurora.
E lei rispose: «Certo... è proprio quello che voglio. Altrimenti come faremmo a sapere se siamo davvero
coinvolti? Quella povera cara donna è un angelo, eppure non ne partecipa affatto,» aggiunse dopo un momento. Non
volle dargli altre spiegazioni: e poiché lui la incalzava, gli chiese se aveva portato la copia del Browning che le aveva
promessa. Se l'aveva con sé, doveva sedersi e leggergliela. In questi casi Hyacinth non aveva voglia di insistere: era più
che felice di non parlare di quell'eterno incubo. Tolse dalla tasca Men and Women e lesse ad alta voce per venti minuti.
Ma quando alla fine della lettura fece qualche commento su una delle poesie, si accorse che la sua compagna non lo
aveva ascoltato. Alle rimostranze contro la sua distrazione rispose pensierosa: «Ma dopotutto, com'è possibile esporsi
troppo? È un modo di parlare da codardi.»
«Volete dire che Sua Signoria è una codarda?»
«Sì, perché non ha il coraggio delle sue opinioni, delle sue deduzioni. Quanto è tipicamente inglese arrivare a
metà strada e fermarsi!» esclamò con impazienza la Principessa.
«Non è certo uno dei vostri difetti!» disse Hyacinth. «Mi sembra però che anche Lady Aurora, da parte sua, si
esponga parecchio.»
«Tutti abbiamo paura per un verso e siamo coraggiosi per l'altro,» continuò la sua amica.
«Quello che più teme Lady Aurora è la Principessa Casamassima,» replicò Hyacinth.
La sua compagna lo guardò ma si rifiutò di raccogliere quelle parole. «C'è una cosa sola che avrebbe il
coraggio di fare: sposare il suo amico... il vostro amico... il signor Muniment.»
«Sposarlo? Lo credete davvero?»
«E come non crederlo?» chiese la Principessa, «adora la terra che lui calpesta.»
«E che direbbero Belgrave Square e Inglefield e tutto il resto?»
«E che dicono già, e in che modo la condizionano? Lo farebbe subito, e sarebbe uno spettacolo meraviglioso,»
disse la Principessa, infiammandosi, come era solita fare, al pensiero di ogni grande manifestazione di libertà.
«Non sarebbe certo un esempio di quel fermarsi a mezza strada che dicevate,» dichiarò Hyacinth.
«Ah, non si tratterebbe di logica, ma di passione. Quando è in gioco questa, bisogna render loro giustizia, gli
inglesi non si arrestano.»
Tali divagazioni della Principessa non erano affatto nuove per Hyacinth che non reputava eroico, da parte della
loro ipersensibile amica, sacrificare la propria famiglia, il proprio nome, e i pochi costumi aristocratici che ancora
persistevano nella sua vita, sollevando uno scandalo e diventando la favola e il mostro dalle nove teste, per amore di
Muniment, dal momento che a parer suo il giovane chimico, come sappiamo, era esattamente il tipo d'uomo da
provocare simili sconvolgimenti passioni, rinunce. Più difficile stabilire se Muniment accetterebbe di unirsi a una
giovane donna che avrebbe dovuto rinunciare per lui alla propria classe sociale. Ovviamente un giorno si sarebbe
sposato, perché voleva provare tutto quanto fosse umano, naturale, produttivo, ma per il momento aveva la precedenza
quello che teneva fra mano. Inoltre, - e Hyacinth ne aveva le prove - era convinto che la gente non potesse rinnegare la
propria classe sociale; era convinto che lo stampo originario fosse indelebile e che la migliore cosa da fare fosse di
tenerselo e di lottare per esso. Era facile immaginarsi l'entità del suo disagio se si fosse legato a una persona che, come
Lady Aurora, si sarebbe trovata a lottare dalla parte sbagliata. «Non può sposarlo, se lui non glielo chiede, penso... e
non credo che lo farà,» rifletté.
«No, forse non lo farà,» disse la Principessa con aria pensierosa.

II

Tutti i sabati pomeriggio Paul Muniment lasciava il lavoro alle quattro, e in una di queste occasioni, poco
tempo dopo la visita a Madeira Crescent entrò nella camera di Rosy alle cinque, vestito e spazzolato con cura, e ancora
tutto roseo per le refrigeranti abbondanti abluzioni. Rimase dritto ai piedi del sofà con un sorriso imbarazzato,
aspettandosi le inevitabili punzecchiature per la cravatta nuova, e finalmente dopo un poco, smettendola di cantarellare
e di tormentarsi le ciocche dei lunghi capelli neri, mentre con gli occhi puntati sulla sua persona ne scrutava tutti i
particolari lei disse: «Mio caro signor Muniment, state andando a trovare la Principessa.»
«Beh, hai qualcosa da ridire?» chiese il signor Muniment.
«Neanche una parola; sai che le Principesse mi piacciono. Sei tu che hai da ridire.»
«Beh, ragazza mia, non ne parlerò con te,» replicò il giovane. «Ci sarebbe da ridire su tutto, a prendersene la
pena.»
«Mi dispiacerebbe molto se si dicesse qualcosa contro il mio fratellone.»
«Colui che è sempre e solo lodato, è un ipocrita,» osservò Paul con presenza di spirito. «Se non potessimo
contare su una buona critica, da dove ci verrebbe uno sprone?»
«Sì, ma non una critica a ragion veduta,» disse Rosy, sempre felice di poter discutere.
«Più valide sono le ragioni, tanto più grande l'incentivo a misurarsi. Comunque, tu non ne verresti a sapere
nulla... se scagliassero la pietra contro di me.»
«Non ne saprò nulla? Perché, non so forse sempre tutto, io? Vorrei vedere che qualcuno avesse il coraggio di
tenermi nascosto qualcosa,» e Miss Muniment scrollò la testa.
«Ci sono molte cose che ti tengo nascoste, mia cara,» disse Paul in tono asciutto.
«Vuoi dire che ci sono cose che non voglio né mi prendo la briga di sapere. Non c'è dubbio che ci siano cose
che non vorrei conoscere per tutto l'oro del mondo - e di cui nessuno riuscirebbe mai a convincermi, neanche
mettendosi in ginocchio davanti a me. Ma se volessi, se solo volessi, ti giuro, com'è vero che sono qui distesa, che me le
rigirerei tutte sulla punta delle dita. D'altra parte, ce ne sono altre continuò la giovane donna ci sono alcuni punti
interrogativi che mi farai la cortesia di chiarire. Quando la Principessa ti chiese di andare a trovarla, tu rifiutasti
chiedendole cosa te ne sarebbe venuto di buono. Allora avrei voluto che tu ci andassi; lo avrei voluto perché ero curiosa
di sapere come viveva e se possedesse realmente oggetti belli o vivesse in miseria, come diceva. Ma non feci alcuna
pressione, perché non avrei saputo dirti i vantaggi che ne avresti ricavato tu. Ora ho saputo ogni cosa da Lady Aurora,
come tutto sia più che decoroso e ordinato - anche se neppure lontanamente degno di una Principessa - e come sia
bravissima a trasformare e mettere in mostra gli oggetti migliori, proprio come faccio io, anche se non dovrei dirlo.
Bene, tu ci sei stato e anche spesso, e io non ho avuto nulla a che farci; e me ne rallegro, per ragioni che conosci
benissimo - sei troppo onesto per fingere di non saperlo. Perciò, quando vedo che ci ritorni di nuovo, ti chiedo, proprio
come tu avevi chiesto a lei, che ci ricavi?»
«Mi piace... mi piace, mia cara,» disse Paul col suo sorriso fresco, sbarazzino.
«È evidente che ti piace. Piacerebbe anche a me, al tuo posto. Ma è la prima volta che ti sento dire che
dobbiamo fare tutto quello che ci piace.»
«E perché no, quando non facciamo male a nessuno?»
«Oh, signor Muniment, signor Muniment!» esclamò Rosy con esagerata solennità, puntando contro di lui l'esile
indice. Poi aggiunse: «No, non te ne viene alcun bene, da quella donna sfavillante.»
«Dalle tempo, mia cara, dalle tempo,» disse Paul, guardando l'orologio.
«Capisco la tua impazienza, ma devi starmi a sentire. Non ho dubbi che ti aspetterà... non perderai certo il
turno. Ma che faresti, dimmi, se un'altra persona ne rimanesse distrutta?»
«Mia dolce ragazza,» rispose il giovanotto, «se continui così finirò per infischiarmi di chi perde.»
«Oh, continuerò, non temere, se non altro per amore dei miei amici e per render loro giustizia,» disse Miss
Muniment - «quelle creature sensibili, delicate, che richiedono aiuto e protezione. Ti sei dimenticato che abbiamo
un'amica così?»
Il giovanotto andò alla finestra, con le mani in tasca, e guardò fuori la luce che andava scolorendo. «Perché ci
va, allora, se non le piace?»
Rose Muniment esitò un istante. «Sono felice di non essere un uomo!» esplose. «Sono convinta che una donna
paralizzata è più acuta di un uomo con le gambe buone. E dire che sei un uomo così meraviglioso!»
«Sei certo troppo acuta per me, mia cara. Se ci va lei - e per questo anche venti volte alla settimana - perché
non dovrei andarci io, una volta ogni tanto? Specialmente dal momento che a me lei piace, mentre a Lady Aurora no.»
«A Lady Aurora no? Pensi che sia un'ipocrita? Lady Aurora è incantata dalla Principessa; le sembra troppo
perfino sentirsi definire degna di lustrarle le scarpe. Non c'è bisogno che dica a te come sia capace di prostrarsi davanti
alle persone che ama. E sono convinta che di tutta questa storia non t'importi un fico secco; hai in testa qualcosa, un
qualche tiro malvagio, e ritieni che lei possa farlo maturare.»
A queste parole Paul si voltò e la guardò per un poco, sempre sorridendo, e fischiettando impercettibilmente.
«Perché non me ne dovrebbe importare? Non sono anch'io debole e sensibile?»
«Non avrei mai creduto di sentirti fare una simile domanda, dopo quanto ho visto in questi quattro anni. Per
quattro anni è venuta qui, e soltanto per te - come del resto è giusto; e tutto questo senza che le dessi mai segno di aver
capito quello che era pronta a fare per te, neanche fosse stata quel gatto di pezza lì sul tappeto!»
«Che vorresti che facessi? Che mi ci attaccassi al collo e le reggessi la mano, come fai tu?» chiese Muniment.
«Sì, mi farebbe bene, te lo assicuro. Sempre meglio di quello che sono costretta a vedere - quella povera donna
che diventa sempre più opaca e chiazzata, come uno specchio che abbia bisogno di una strofinata.»
«E perché dovrei strofinarla io?» chiese delicatamente Muniment. «Sai molte cose, Rosy, ma non sai tutto,»
continuò con un'espressione che negava ogni senso alle parole di lei. «Sei troppo romantica - hai la testa piena di corde
sonore e di toni argentini, come una vecchia arpa elegante. Non c'è nulla al mondo che m'interessi che Sua Signoria
sarebbe pronta a fare per me.»
«Ti sposerebbe su due piedi, questo lo farebbe di certo!»
«E a me questo non m'interessa affatto. A parte la considerazione che se glielo chiedessi, non metterebbe più
piede qui. E questo non lo vorrei - per te.»
«Lascia stare me; sono pronta a correre questo rischio!» gridò Rosy tutta allegra.
«Ma chi me lo farebbe fare se posso averla per te, senza rischi?»
«Non l'avrai né per me né per nessuno, quando sarà morta di crepacuore.»
«Morta di crepacuore un corno!» disse il giovanotto. «E dimmi, di che vivremmo, una volta che ti riuscisse di
mettere insieme questa coppietta - tutti e tre noi, senza contare i pargoli?»
Era chiaro che parlava solo per secondarla affettuosamente, e non perché volesse saperlo; ma sua sorella
rispose con veemenza quasi volesse metterlo al muro: «Non le entrano forse in tasca cento sterline all'anno del suo?
Credi che non sappia tutto dei suo affari, fino all'ultimo centesimo?»
Paul non espresse alcuna critica personale sulla correttezza o la signorilità dei metodi che Rosy sembrava
praticare; gli sembrava, a onor del vero, che la sua domanda probabilmente non avesse tanti secondi fini. Disse solo con
un piccolo sospiro delicato, paziente: «Non voglio il denaro di quella cara zitella.»
La sorella, nonostante l'impulsività, attese venti secondi; poi gli gettò in faccia la domanda: «Forse ti piace di
più quello della Principessa?»
«Se così fosse, sarebbe molto di più,» rispose lui con calma.
«Come potrebbe sposarti? Non ha già un marito?» urlò Rosy.
«Dio mio, sei proprio decisa a darmi moglie!» disse ridendo il fratello. «Figlie di pari, mogli di principi - non
ho che l'imbarazzo della scelta.»
«Non voglio parlare della Principessa, dal momento che esiste un principe; ma se non ti sei accorto che Lady
Aurora è una creatura bella, meravigliosa, eccezionale, e che non c'è l'uguale in tutto il mondo... beh, tutto quello che ho
da dire è che io me ne sono accorta!»
«Credevo fossi convinta,» obiettò Paul, «che i nobili dovessero rimanere nobili e dovessero restare al loro
posto.»
«Perché, credi che lei il suo posto lo perderebbe, sposando te?»
«Il suo posto a Inglefield di certo,» rispose lui, lucida mente, come se fosse impossibile che la sorella potesse
annoiarlo con la sua insistenza e pedanteria.
«Perché, non l'ha forse già perso? Ci va forse qualche volta?»
«Sembrerebbe di sì, da come la interroghi sempre in proposito.»
«Beh, la considerano già così pazza, che di più non potrebbero,» continuò Rosy. «Hanno rinunciato a
recuperarla, e se si sposasse con te...»
«Se si sposasse con me non la toccherebbero neanche con la punta delle dita,» la interruppe Paul.
Rosy esitò un poco, poi disse serenamente: «Che me ne importa?»
«Dovrebbe importartene invece, per amore di coerenza, anche ammettendo che lei non se ne curasse, e forse
non se ne curerebbe. Ti abbandoni più alla fantasia che alla logica - cosa del resto tipicamente femminile. È questo che
ti fa dire che Sua Signoria è afflitta, perché io vado nello stesso luogo dove lei va senza la minima voglia.»
«Ci va per tenere lontano te,» disse Rosy con decisione.
«Per tenere lontano me?»
«Per interporsi presso la Principessa, e in un certo senso interferire a suo danno. Per essere carina con lei, e
compiacerla, tutto per distrarla da te.»
«È lei che ti ha raccontato queste storie?» chiese Paul, questa volta con aria un po' sorpresa.
«C'è bisogno che mi si dicano, certe cose? Non sono mica un bel maschio forte, superiore; è per questo che so
capire da sola,» rispose Rosy con una piccola risata spavalda e una luce negli occhi che la faceva sembrare una piccola
maga.
«La dipingi come se fosse appassionata e calcolatrice a un tempo» riprese il giovane. «Non ha nessun
sentimento individualistico, non cerca nulla per sé. Vuole una cosa sola... rendere i poveri un po' meno poveri.»
«Proprio così; e ti considera uno di loro, uno scapolo indifeso, annaspante.»
«Lei sa benissimo che non sarò mai un indifeso fin tanto che ci sarai tu qui, e che i miei annaspamenti sono di
nessun conto fintanto che tu li stabilizzerai.»
«Allora vorrà assistere me, perché io possa assistere te!» esclamò la ragazza con quella leggerezza di cui
sempre era soffusa la sua spontaneità: come se uno spiritello saltasse su, nella disputa, a farsi gioco del suo impegno
polemico. «E poi, non è proprio questo che cerchi?» continuò. «Non stai tramando e operando e attendendo proprio
questo? Lei vuole gettarsi nella mischia - lavorare con te.»
«Ragazza mia, quella non capisce un'acca di che cosa penso. Non lo potrebbe capire neanche se volesse.»
«E immagino che secondo te anch'io non capisco più di lei.»
«Neanche tu, certo ma con te è diverso. Tu, se volessi, potresti capire. Comunque poco importa chi capisce e
chi non capisce. Si tratta di così poco! Neanche io faccio molto, sai.»
Rosy rimase immobile a guardarlo. «Deve essere una cosa seria, se ne parli così. Comunque non m'importa di
quello che farai succedere, so che sarò ben protetta.»
«Non succederà nulla... nulla,» replicò con semplicità Paul.
La risposta di lei a queste parole fu, dopo poco: «Da quando frequenti la Principessa hai un tono diverso.»
Aveva parlato con una certa severità, ma egli fece finta di non averla udita, e se ne uscì: «Mi piace l'idea di
queste femmine aristocratiche che si litigano uno sporco bruto come me.»
«Non so quanto tu sia sporco so solo che odori di sapone,» disse la sorella, inesorabilmente. «Non litigheranno,
non fa parte del loro stile. Sì hai assunto un tono diverso, ma quale sia la ragione non riesco ancora a capirlo.»
«Che vuoi dire? Quando mai ho assunto un qualche tono?» chiese Paul.
«Allora perché parli come se non fossi una persona notevole, infinitamente notevole - così notevole che
nessuno, né donna né uomo, buono o cattivo, aristocratico o plebeo riuscirà mai a soddisfarti?»
«Ma come ho fatto a farmene accorgere?» chiese quasi scherzosamente.
«Non conosco i tuoi segreti, e questo è uno di essi. Ma siamo tutti e due, tu e io, fuori del comune, e fra noi - a
porte chiuse - possiamo pure dircelo.»
«Lo ammetto per quel che riguarda te,» rispose pronto, con una risata, il giovanotto.
«Bene allora se io ammetto che risulta lo stesso per te, non c'è altro da aggiungere.»
I due si scrutarono in silenzio, quasi volessero apprezzare i reciproci connotati distintivi; poi Muniment disse:
«Se sono un essere così infinitamente superiore, perché non dovrei comportarmi come tale?»
«Ma lo fai, lo fai!»
«E nonostante ciò, non ti piace.»
«Non è tanto quello che fai tu, ma lei.»
«Che vuoi dire, che cosa fa lei?»
«Fa soffrire Lady Aurora.»
«Oh, per amore del cielo, basta» disse Paul. «Un uomo si sente ridicolo a sentir parlare di donne che "soffrono
per lui".»
«Beh, se le donne soffrono, mi pare che gli uomini potrebbero pure fare lo sforzo di sopportarlo,» lo rimbeccò
Rosy. «Ecco come sono gli uomini. Quando si tratta di sentirsi tristi, allora tutto diventa ridicolo!»
«Ci sono molte cose a questo mondo che mi rattristano,» ammise pazientemente, «e una di queste è che tu mi
tenga qui a chiacchierare quando ho voglia di uscire.»
«Oh, non m'importa nulla di procurarle dei contrattempi. Ma lei, lo fa apposta?» continuò Rosy.
«Dovete vedervela fra voi donne,» - e si lisciò il cappello con il polso della giacca. Era un cappello nuovo, il
più audace che avesse mai indossato, e dopo poco se lo calzò in testa come a sottolineare che era ora lo lasciasse andar
via.
«Beh, hai proprio un'aria distinta,» disse Rosy compiaciuta. «Non mi meraviglio che abbia perso la testa per te!
La Principessa, intendo,» specificò. «Non ti sei certo dato mai a spese pazze, per Sua Signoria.»
«Mia cara, la Principessa le vale, le vale proprio,» e lo disse, finalmente, con un tono del tutto serio.
«Ti aiuterà proprio tanto?» chiese Rosy, come se ne fosse rimasta toccata, con uno strano repentino abbandono
alla spontaneità.
«Beh,» disse Paul, «è proprio quello che spero.»
Si buttò in avanti sul sofà, con un movimento raro in lei e scuotendo le mani incrociate, esclamò: «Allora,
presto, vacci, vacci subito!»
Lui le andò vicino e la baciò come se la sua bizzarra incoerenza lo avesse colpito più del solito. «Non è poi
tanto male avere in casa una personcina che desidera tanto il successo di un povero diavolo.»
«Oh, lo so che loro si occuperanno di me,» e sprofondò la schiena sul cuscino, con un'aria di compiacimento
nel sentirsi protetta.
Egli sapeva che quando usava il termine «loro» senza specificare ulteriormente di chi parlasse, voleva indicare
la plebaglia che sarebbe insorta seguendolo, e con la sua usuale disinvoltura replicò: «Non credo che lasceremo fare
molto, a "loro".»
«No, sono sicura che non gli lascerete fare molto.»
Egli scoppiò in una risata, e disse: «Sei la più saggia di tutti Miss Muniment!»
Gli occhi le si accesero al complimento, e guardandolo esclamò: «Ah, mi fa pena anche la Principessa, sai.»
«Beh, non voglio essere presuntuoso, ma a me no,» replicò Paul passando davanti al piccolo specchio sul
caminetto.
«Sì, tu ce la farai e io pure ma... lei no,» continuò Rosy.
Lui si fermò per un attimo con la mano sulla maniglia e disse in tono grave, quasi sentenzioso: «Non è soltanto
bella - bella come una pittura, ma è anche straordinariamente acuta e ha un modo accattivante che non avevo mai
conosciuto.»
«Conosco i suoi modi,» replicò la sorella. Poi, mentre lasciava la stanza, gli gridò dietro: «E me ne infischio di
tutto, purché tu diventi Primo Ministro d'Inghilterra!»
Tre quarti d'ora dopo bussava alla porta di Madeira Crescent e fu subito introdotto nel salotto dove la
Principessa, in mantello e cappello, sedeva sola. Non fece alcun movimento quando lui entrò; lo guardò soltanto con un
sorriso. «Siete più coraggioso di quanto pensassi,» disse con la sua voce calda.
«Dovrò imparare per forza ad essere coraggioso, se continuerò a vedermi con voi. Ma non smetterò mai di
essere timido» aggiunse Muniment e dritto in piedi, dava l'impressione di torreggiare nel mezzo della piccola stanza. Si
guardò intorno in cerca di un posto per sedersi, ma lei non gli venne in aiuto; lo guardava in silenzio, dalla sua poltrona,
le mani tranquillamente piegate in grembo. Quando finalmente si fu seduto sulla sedia più scomoda, senza nessuna
obiezione da parte di lei la Principessa replicò: «È un altro nome per indicare il coraggio della disperazione. Mi sono
messa questi abiti, così, nella speranza che veniste, ma non vi aspettavo.»
«Bene, eccomi qui - e questo è quello che conta,» disse lui, di buonumore.
«Sì, senza dubbio, è quello che più conta. Ma conterà ancora di più quando sarete là.»
«Temo che vi facciate troppe illusioni,» osservò il giovane. «Dov'è? Non credo che me l'abbiate detto.»
La Principessa trasse di tasca una piccola lettera ripiegata e gliela porse. Lui si alzò per prenderla, l'aprì e la
lesse, rimanendo in piedi davanti a lei. Poi andò dritto verso il fuoco e ve la gettò sopra. Lei si alzò di scatto, a quel
gesto, come per salvare il documento, ma l'espressione del suo sguardo la fece arrestare. Il sorriso di lei, ora, era
diventato un poco forzato. «Di che cosa temete?» domandò. «Sono sicura che il posto è conosciuto. Se ci andiamo,
immagino che possiamo anche ammetterlo.»
Il viso di Paul non mostrava segno d'irritazione quando rispose pacatamente: «Niente roba scritta.»
«Siete terribilmente cauto,» disse la Principessa.
«Cauto per voi - sì.»
Lei sprofondò di nuovo sul sofà, chiedendo al suo compagno di suonare per il tè. Era molto meglio che lo
prendessero prima di uscire. Dopo che il tè fu ordinato continuò: «Mi accorgo che la cosa mi emoziona assai meno di
quando ho agito da sola.»
«È questo che v'interessa... l'emozione?»
«Senza dubbio, signor Muniment. Perché, a voi no?»
«Dio me ne liberi! Spero di provarne il meno possibile.»
«Naturalmente nessuno cerca la spacconata, tutti vogliamo fare qualcosa di concreto. Ma sarebbe troppo
difficile se non ci si provasse gusto.»
«Per me, quel che voglio, è mantenermi calmissimo,» disse Muniment.
«Anch'io. Ma dipende da quello che s'intende per calma. A me piace la calma in mezzo al tumulto.»
«Avete idee piuttosto strane, sui tumulti. Non sono cose troppo belle di per sé.»
La Principessa ci pensò su un momento. «Mi domando se non siate troppo prudente. Non mi piacerebbe. Se
qualcuno vi rivolgesse delle accuse... là dove stiamo andando... neghereste?»
«Se c'è questa prospettiva, sarebbe più semplice non andare affatto, non vi pare?» chiese con prontezza di
spirito.
«Quale prospettiva? Quella di essere scoperti o quella di dover mentire?»
«Suppongo che sapendo mentire bene non c'è pericolo di essere scoperti.» E di nuovo parlò come se si
divertisse.
«Vi rifiutate di prendermi sul serio,» disse la Principessa, senza irritazione né risentimento, ma con accettata,
intelligente mestizia. Eppure c'era un tono di lievissimo rimprovero nella sua voce quando aggiunse: «Sono convinta
che non volete andarci affatto.»
«E perché sarei venuto allora - se non vi prendessi seriamente?»
«Non è mai stata questa la ragione che ha impedito agli uomini di andare da una donna,» disse la Principessa.
«Generalmente è una ragione a favore.»
Paul guardò la stanza coi suoi occhi fermi, spostandoli da un mobile all'altro: faceva così quando s'impegnava
in una discussione, e suggeriva l'idea non tanto che stesse riflettendo sulle proposizioni del suo interlocutore quanto che
i suoi pensieri inseguissero una loro linea coraggiosamente autonoma. Poco dopo riprese il discorso: «Non capisco bene
cosa volete dire quando parlate di prendere seriamente una donna.»
«Ah, siete proprio perfetto!» gemette lievemente. «Non pensate che i cambiamenti in cui sperate andranno
anche a nostro vantaggio?»
«Non credo che possano alterare la vostra posizione.»
«Se non ci sperassi, non ne farei nulla,» disse la Principessa.
«Oh, sono sicuro che vi darete un gran da fare.»
La sua compagna rimase in silenzio per qualche minuto, e anche lui non disse nulla. «Mi domando quanto la
vostra coscienza vi permetta di lavorare con me,» osservò lei alla fine.
«Non è la coscienza a permettermelo,» disse lui ridendo.
La cameriera portò il tè e facendo posto sul tavolo al suo fianco, la padrona di casa replicò: «Beh, non
m'importa, perché so di avervi in mio potere.»
«Tenete tutti in vostro potere,» dichiarò Paul.
«Dire tutti è dire nessuno» rispose lei un poco seccamente. E un istante dopo gli disse: «Quella vostra
straordinaria sorellina... la prendete sul serio, lei?»
«Le voglio molto bene, se è questo che intendete. Ma non credo che la sua posizione potrà cambiare mai.»
«Alludete alla sua posizione nel letto? E state dicendo che non riavrà mai più la salute?» disse la Principessa.
«Ne sono molto, molto addolorata.»
«Oh, pazienza la salute. Voglio dire che continuerà ad essere, come tutte le donne amabili, una specie di
ornamento della vita.»
Aveva già notato altre volte che pronunciava la parola «amabile» in modo strano, ma aveva accettato questa
caratteristica per quella trasfigurazione che la sua fantasia operava e che gliene aveva fatto accettare tante altre. «Un
ornamento della vostra vita, certo non della sua.»
«La sua vita e la mia sono tutt'uno.»
«È una creatura prodigiosa,» - disse per concludere la Principessa. Ma mentre bevevano il tè osservò che per
essere rivoluzionario anche lui era indubbiamente un prodigio; ed egli volle sapere se non fosse una proprietà dei
rivoluzionari essere rivoluzionari. Bevve tre tazze, dichiarando che il tè della Principessa era veramente raro, migliore
di quello di Lady Aurora; l'osservazione lo indusse ad aggiungere, mentre posava la terza tazza e guardava la stanza con
ammirazione, quasi con desiderio: «Avete tutto ciò che volete: non capisco cosa andiate cercando.»
«Che cosa significa "cosa andiate cercando"?»
«Impegnandovi tanto.»
La luce del suo volto si accese di pura passione. «Pensate che ci stia dentro... proprio?»
«Fino al collo, signora.»
«E pensate che il y va della mia vita... voglio dire che sono in pericolo?» tradusse impetuosamente.
«Capisco il vostro francese. Bene, mi occuperò io di voi,» disse Muniment.
«Allora ricordatevi che decisamente non intendo mentire.»
«Neanche per me?» Poi, con lo stesso tono confidenziale, che non era né scorretto né irriguardoso, ma solo
spontaneo e familiare, indicativo di un'amicizia che si andava facendo più profonda: «Se fossi vostro marito verrei a
prendervi e vi porterei via.»
«Vi prego, non parlate di mio marito,» replicò in tono grave. «Non avete alcun titolo per farlo. Non sapete
nulla di lui.»
«So quello che mi ha detto Hyacinth.»
«Oh, Hyacinth!» sospirò lei con impazienza. Ci fu un altro silenzio di qualche minuto, conseguenza
dell'accenno al piccolo rilegatore; ma quando Muniment riprese a parlare non fu per ritornare su quell'allusione.
«Capisco che mi riteniate una persona semplice e plebea.»
«Indubbiamente non avete la signorilità di Hyacinth,» - la Principessa, da parte sua, non aveva alcun desiderio
di eludere l'argomento. «Ma quello è un dono di pochi,» aggiunse, «e non mi pare che stiamo lottando per le belle
maniere.»
«È vero. Non ci sarebbero di aiuto quando dovremo esautorare qualcuno,» aggiunse il visitatore. «Ma voglio
piacervi, voglio essere il più possibile simile a Hyacinth.»
«Non in quella direzione. Non glielo perdono - è molto sciocco.»
«Non dite questo: è un amabile, esile flauto!» protestò Paul.
«Ha un carattere delizioso, e qualità straordinarie. Ma è deplorevolmente convenzionale!»
«Sì, nel prendere tutto sul serio, lui è un maestro,» ammise Muniment.
«Vi ha mai raccontato la sua vita?» chiese la Principessa.
«Non ha avuto bisogno di raccontarmela. Me ne sono fatto un'idea.»
«Voglio dire, prima che lo conosceste.»
Paul ci pensò: «La sua nascita, la sua povera madre? Credo sia stata Rosy a dirmelo.»
«E come l'ha saputo, lei?»
«Ah, se mi chiedete come Rosy sa le cose...» ci rinunciò «Non le piace che la gente sia condizionata da questa
roba. Vorrebbe che avessimo tutti origini grandiose.»
«Allora vanno d'accordo, perché anche Hyacinth la pensa così.» La Principessa s'interruppe, poi riprese con
notevole sforzo: «Vorrei chiedervi una cosa: avete ricevuto per caso la visita del signor Vetch?»
«Il vecchio gentiluomo che suona il violino? No, non ho avuto questo onore.»
«Sono stata io a impedirglielo. Gli ho detto di lasciar fare a me.»
«Lasciare a voi cosa?» E Paul la guardò, placidamente perplesso.
«È molto preoccupato per Hyacinth - per i pericoli che corre mi capite.»
«Sì, capisco,» rispose Muniment lentamente. «Ma che c'entra, lui? Credevo si trattasse di un segreto
strettissimo.»
«E lo è, infatti. Non sa nulla ha solo dei sospetti.»
«E voi, allora, come lo sapete?»
Esitò un poco: «Oh, io sono come Rosy. Io scopro. Il signor Vetch, penso che lo sappiate, è stato vicino a
Hyacinth tutta la vita e s'interessa a lui con grande affetto. È convinto che lo minacci un grave pericolo e vuole
stornarlo.» S'interruppe di nuovo, ma il suo visitatore non disse nulla, e lei continuò: «Voleva venire da voi per
supplicarvi di fare qualcosa, di interporvi; aveva l'aria di pensare che aveste un gran peso in questa faccenda. Ma, come
dico, gli ho chiesto come favore particolare, di lasciarvi in pace.»
«E in che consiste il favore?» chiese Muniment.
«La soddisfazione di sapere che nessuno vi ha disturbato.»
Sembrò incuriosito dalla stranezza della spiegazione, data la posta che era in palio; così, riparò nello scherzo
quasi bruscamente: «Molto, molto gentile da parte vostra.»
«Non si tratta di un riguardo per voi; ma di un calcolo.» Detto questo, la Principessa raccolse i guanti e si
mosse verso il caminetto dove provvide a sistemare i nastri del cappellino allo specchio che decorava la mensola. Paul
la osservò con trasparente curiosità; nonostante l'immunità contro i nervosismi e il generico scetticismo che lei
gl'ispirava, non possedeva risorse sufficienti per reggere alla suspense, al clima di tensione che la Principessa creava in
quanti avevano rapporti con lei. Seguiva le sue mosse, ma era chiaro che le macchinazioni gli sfuggivano e ascoltò
quindi con estremo interesse la sua improvvisa dichiarazione: «Sapete perché vi ho chiesto di venirmi a trovare? e
sapete perché sono andata a trovare vostra sorella? È stato tutto un piano,» disse la Principessa.
«Speravamo che si fosse trattato semplicemente di un normale impulso, umano, sociale,» rispose il giovane.
«Umano, sì, e anche sociale, ma normale no. Volevo salvare Hyacinth.»
«Salvarlo?»
«Volevo potervi parlare così come faccio adesso.»
«Un'idea bellissima!» urlò candidamente Paul.
«Ho una stima immensa, incredibile per lui: molte sue idee mi spazientiscono ed è per questo che mi sono
lasciata scappare, poco fa, che è uno sciocco. Ma dopotutto non sono soltanto le loro idee a farci amare gli amici - e non
vedo perché dovrebbero costituire un motivo di ostilità. Robinson ha una natura eccezionalmente generosa, e
un'intelligenza acutissima, anche se a volte fa grosse confusioni. Poco fa voi stesso avete riconosciuto di trovarlo molto
interessante; dovremmo quindi essere perfettamente d'accordo. Voglio dire, d'accordo sul proposito di aiutarlo ad uscire
dalla sua penosa situazione.»
Muniment aveva l'aria di chi chieda un poco di tempo per aderire a tutte quelle proposte; e infatti uno dei suoi
limiti era di non saper aderire a quello che non capiva bene. Dopo poco rispose, riferendosi all'ultima osservazione che
sembrava compendiare tutte le altre, mentre scuoteva la testa alzando le pesanti sopracciglia: «La sua situazione non è
molto importante.»
«Pensavate il contrario quando ce lo avete indotto.»
«Pensavo che gli avrebbe fatto piacere.»
«Non è una buona ragione per lasciar fare alle persone cose per cui non sono adatte.»
«Non pensavo a quello che fosse adatto a lui, ma a quello che avrebbe danneggiato altri. Lui può fare ciò che
vuole.»
«È facile a dirsi; ma bisogna persuaderli a non mandarlo a chiamare.»
«Persuadeteli voi, allora, cara signora.»
«E come potrei?» disse lei. «Se lo avessi potuto, non sarei venuta a cercarvi. Non ho alcuna influenza, io, e
anche se l'avessi, si potrebbe sospettare dei miei motivi. Sta a voi farlo.»
«Devo dir loro che ha fifa?» chiese Muniment.
«Non è vero, non ha fifa!» dichiarò lei.
«E allora che spiegazione devo dare?»
«Dite che ha cambiato idea.»
«Non vi pare che questo lo farebbe sembrare un traditore - e per di più un ipocrita?»
«Allora dite che si tratta di un mio desiderio.»
«Non credo che ve ne verrebbe nulla di buono,» disse Paul con la sua risata spontanea.
«Mi metterei in pericolo? È proprio ciò che desidero.»
«Sì; ma da quel che ho capito, voi volete soffrire per il popolo, non per colpa del popolo. Dovete essere molto
innamorata di Robinson, non c'è altra spiegazione,» disse il giovane. «Ma dovreste sapere che nella strada che avete
scelta i nostri affetti, legami, le nostre paure, titubanze...» la voce gli si era fatta bassa e grave, e s'interruppe per un
istante, mentre gli occhi della Principessa, belli e profondi, fissavano il suo viso e mostravano quanto fosse commossa
da questa straordinaria supplica. Parlava, ora, come se la prendesse sul serio. «Tutte queste cose non contano, niente
deve avere alcun peso, all'infuori dei nostri servigi.»
Lei cominciò a infilarsi i guanti. «Siete straordinario.»
«È quel che mi dice Rosy.»
«Perché non lo fate voi?»
«Fare il lavoro di Hyacinth? No, perché è meglio che faccia il mio.»
«E il vostro qual è, se è lecito?»
«Non lo so,» disse Paul Muniment con perfetta calma. «Attendo istruzioni.»
«Avete prestato giuramento, come Hyacinth?»
«Ah, signora, dei giuramenti che presto, non parlo a nessuno,» rispose con tono grave.
«Oh voi...!» esclamò con un profondo sospiro ambiguo. Sembrava voler accantonare l'argomento e allo stesso
tempo fargli capire che lo riteneva molto fuori della norma. L'imputazione venne ribadita ulteriormente dalle parole che
seguirono: «E vorreste vedervi portar via così un caro amico?»
A queste parole il visitatore mostrò per la prima volta una certa impazienza. «Fareste meglio a lasciarlo a me, il
mio caro amico.»
La Principessa, con gli occhi ancora fissi su di lui emise un lungo fievole sospiro: «Bene, vogliamo andare?»
Lui raccolse il cappello ma non si mosse. «Se mi avete fatto l'onore di cercare la mia amicizia, di invitarmi da
voi soltanto per dirmi quello che mi avete detto or ora su Hyacinth, forse non c'è più bisogno di compiere la formalità di
andare là dove avete proposto di andare. Non era quello il vostro unico scopo?»
«Sono convinta che avete paura!» rispose lei con franchezza; ma a dispetto di questa esclamazione i due
uscirono insieme, fermandosi un poco sul gradino della porta a guardare su e giù, in cerca di una carrozza. Ma da
quanto si poteva vedere, nel buio ormai totale, non c'era traccia di un simile mezzo di trasporto. Voltarono a sinistra, e
dopo aver percorso per qualche minuto certe viuzze laterali, strette e silenziose, uscirono in una strada più affollata, coi
negozi illuminati, omnibus, e la prospettiva di trovare una carrozza. Si fermarono di nuovo, e ben presto passò infatti
una carrozza che, a un loro cenno, si avvicinò. Va notato che nel frattempo erano stati seguiti, a breve distanza, da una
figura d'uomo circospetta, che al momento in cui erano usciti di casa si trovava a Madeira Crescent, sul lato opposto
della strada, piuttosto distante. Al loro apparire si era ritratto un poco, tenendoli però sempre d'occhio, e quando si erano
mossi, si era mosso anche lui nella stessa direzione, controllandone i movimenti, sempre a distanza. Quando però si
erano immessi nella Westbourne Grove, non sapendo più frenarsi, si era avvicinato, e nell'attimo che si erano fermati
avrebbe potuto benissimo essere riconosciuto dalla Principessa se questa per caso avesse girato il capo. Se avesse
provato quell'impulso, avrebbe riconosciuto, alla luce del lampione, il suo nobile marito, in agguato dietro di lei. Ma era
occupata diversamente, e non si accorse che a un certo punto egli le si era avvicinato tanto che sembrava proprio aver
l'intenzione di comparirle davanti all'improvviso. Inutile dire al lettore che il suo unico desiderio era quello di scoprire
in compagnia di chi stesse sua moglie. Aveva poco tempo a disposizione, avendo intuito, con maggiore rapidità di
quanta normalmente impiegasse a capire le cose, che stavano cercando un mezzo, e che non appena questo fosse
arrivato, gli sarebbero sfuggiti - una riflessione che lo fece decidere a fermare la seconda carrozza che fosse
sopraggiunta. Vi sono zone di Londra dove è impossibile trovare una carrozza, ma nessuna dove se ne trovi una sola; la
fortunata regola permise al principe Casamassima di agitare fruttuosamente il suo bastone, non appena la coppia che
formava l'oggetto del suo inseguimento, si fu allontanata con fragore di ruote. Al buio, dietro di loro, non avrebbe più
temuto di essere visto. E poco dopo era saltato sulla carrozza, mentre il vetturino esclamava: «Va bene, signore!» con
un piccolo grugnito divertito e, a parere del Principe, tipicamente inglese, in risposta all'ingiunzione sibilata da sopra il
tetto del veicolo, in modo espressivo e tutt'altro che tipico di quel popolo: «Seguiteli, seguiteli!»

III

Un'ora dopo che la sua compagna aveva lasciata la casa insieme a Paul Muniment, Madame Grandoni era scesa
per la cena, un pasto che consumava in penosa solitudine nel salottino sul retro. Aveva allontanato il piatto ed era
rimasta seduta immobile, guardando la tovaglia sgualcita, le mani incrociate sul bordo del tavolo, quando si accorse che
un signore era stato fatto entrare nel salotto e stava in piedi davanti al fuoco attendendo discretamente. In quell'istante la
cameriera si avvicinò alla vecchia signora dicendo col fiato mozzo: «Il Principe, il Principe, signora! Ha chiesto di voi,
signora!» e Madame Grandoni, rimanendo al suo posto, chiamò il visitatore rivolgendosi a lui coi nomignoli di povero,
caro, nobile amico, e pregandolo di venire a porgergli il braccio. Egli obbedì con solenne sollecitudine e la accompagnò
nella stanza di fronte, vicino al fuoco. L'aiutò a sistemarsi nella poltrona e a ravvolgersi nello scialle; poi le si sedette
vicino guardandola coi suoi occhi tristi. Dopo un attimo lei disse: «Mi racconti di Roma. L'erba di villa Borghese deve
essere ormai fitta di fiori.»
«Gliene avrei portato qualcuno, se ci avessi pensato,» rispose. Poi volse lo sguardo per la stanza: «Sì, ha
ragione di chiedermelo, in un simile buco. Mia moglie non dovrebbe vivere in un luogo come questo.»
«Ah, amico mio, per quanto è sua moglie!...» esclamò la vecchia signora.
Il Principe saltò su preso da un'improvvisa agitazione e lei capì che l'impettita compostezza con cui era entrato
nella stanza e l'aveva salutata gli era stata imposta dall'educazione. Era in realtà tutto tremante. «È vero... è vero! Ha
proprio degli amanti... ce li ha davvero!» esclamò. «Li ho visti coi miei occhi e sono venuto qui per accertarmene!»
«Non so che cosa abbia visto, ma l'esser venuto qui non l'aiuterà di certo. E poi, se l'ha visto, lo sa già. In ogni
modo non sono più in grado di dirle nulla.»
«Lei ha paura... ha paura!» gridò il visitatore con un gesto furioso, accusatore. La vecchia signora lo guardò
con uno sguardo lento, meditabondo. «Si sieda e stia tranquillo... stia tranquillo. Ho cessato d'interessarmene... non me
ne curo più.»
«Bene, allora me ne curo io,» disse il Principe un poco più calmo. «Non sa che è andata in una casa, in un
quartiere orribile, con un uomo?»
«Lo ritengo estremamente probabile, caro Principe.»
«E lui chi è? È quello che voglio sapere.»
«Come potrei dirglielo? Non l'ho visto.»
Lui la guardò con occhi pieni di angoscia. «Mia cara, le pare gentile comportarsi così, quando avevo contato
tanto su di Lei?»
«Oh, non sono più gentile, ormai; non è più il caso. Sono adirata - quasi quanto Lei.»
«Allora perché non la sorveglia?»
«Non sono in collera con lei, ma con me stessa,» disse Madame Grandoni, immersa nei suoi pensieri.
«Vuole dire, perché è diventata così distaccata?»
«Al contrario... per essere rimasta qui.»
«Grazie a Dio è ancora qui, altrimenti mi sarebbe stato impossibile venire. Ma che alloggio, per una
Principessa!» esclamò il visitatore. «Potrebbe almeno vivere in un modo degno di lei.»
«L'ultima volta che è venuto a Londra le sembrava che sperperasse,» gridò lei.
Lui si guardò intorno. «Tutto quello che fa è sbagliato. È proprio tanto orribile la situazione da spingerla ad
andarsene?» continuò.
«È una pazzia... è una pazzia... una pazzia,» disse la sua amica lentamente e con tono convinto.
«Pazzia, che, che. È rimasto in casa circa un'ora, quello lì.»
«In casa? In quale casa?»
«Qui, dov'è seduta Lei. L'ho visto entrare, e quando è uscito, dopo molto tempo, lei lo accompagnava.»
«E Lei dov'era, nel frattempo?»
Di nuovo il Principe esitò: «Stavo sull'altro lato della strada. Quando sono usciti li ho seguiti. Più di un'ora fa.»
«È per questo che è a Londra?»
«Ah, perché sono venuto!... Per soffrire le pene dell'inferno!»
«Farebbe meglio a tornare a Roma,» disse Madame Grandoni.
«Certo che ci torno, ma soltanto se mi dice chi è quello lì! Come può ignorarlo, amica mia, se entra e esce
liberamente! - mentre io devo contentarmi di starmene alla porta per cogliere qualche attimo. Non era lo stesso dell'altra
volta.»
«Lo stesso?»
«Senza dubbio ce ne saranno cinquanta! Voglio dire quel piccoletto che incontrai quella domenica
pomeriggio.»
«Me ne sto sempre seduta in camera mia, ora,» disse la vecchia signora. «Scendo soltanto per mangiare.»
«Mia cara, sarebbe molto meglio se rimanesse qui,» replicò il Principe.
«Meglio per chi?»
«Intendo dire che se non si tenesse in disparte, potrebbe rispondere alle mie domande.»
«Ah, ma io non ho il minimo desiderio di rispondere,» replicò Madame Grandoni. «Si ricordi che non sono qui
per farle la spia.»
«No,» disse il Principe, con infinita improvvisa malinconia. «Se mi avesse tenuto informato non sarei stato
obbligato a venire di persona. Sono arrivato a Londra questa mattina, e oggi ho passato due ore a passeggiare su e giù,
qui di fronte, come uno stalliere in attesa del ritorno del padrone da una cavalcata. Volevo farmi un'idea personale. È
stato così che l'ho visto entrare. Non è un gentiluomo - neanche uno di quegli strani gentiluomini di questo paese.»
«Credo sia scozzese o gallese,» spiegò Madame Grandoni.
«Allora lo ha veduto!»
«No, ma l'ho udito parlare. Parla forte (i pavimenti di questa casa sono diversi da quelli che costruiamo in
Italia). E la sua voce l'ho sentita in quelle zone selvagge dove "si va a caccia." E poi, lei me ne ha parlato, un poco.
L'assistente di un chimico.»
«L'assistente di un chimico? Santo Dio! E l'altro, un anno fa, - più di un anno fa - era un rilegatore.»
«Oh, il rilegatore...!» gemette la vecchia signora.
«E non ha nessuna amicizia dignitosa? Non conosce altri?»
«Perché io le dica altro, Principe, deve aspettare che sia libera,» lo supplicò.
«Libera? Che intende dire?»
«Devo scegliere. O me ne vado, e posso dirle tutto ciò che ho visto, o rimango, e in tal caso devo tacere.»
«Ma andandosene non vedrà più nulla,» obiettò il Principe.
«Ah, ce n'è già molto - più di quello che mi aspettassi!»
Egli incrociò le mani in un gesto disperato di supplica, al tempo stesso sorridendole, come per accattivarsela,
corromperla. «Carissima amica, lei tormenta la mia curiosità. Se mi dice questo, non le chiederò altro: dove sono
andati? Per amor di dio, che casa è quella?»
«Non so nulla delle loro case,» rispose lei scrollando le spalle con impazienza.
«Allora ce ne sono altre? Molte?» Lei non rispose, ma rimase assorta, col mento che sporgeva dallo scialle. Il
visitatore continuò spinto dal suo dolore, pronunciando distintamente le parole all'italiana, come se le labbra tagliassero
e scolpissero il suono, mentre le belle dita frementi gesticolavano rapide, enfatiche: «La strada è una stradina buia come
tutte le brutte strade. Non ha importanza; è al termine di un lungo imbroglio. La carrozza è andata avanti venti minuti,
poi si è fermata e sono scesi. Hanno camminato insieme ancora per qualche minuto. C'erano molte svolte; sembrava che
le conoscessero bene. Per me, è stato difficilissimo - naturalmente ero sceso anch'io; dovevo rimanere a distanza,
attaccato alle case. Chiffinch Street, N.E. - è il nome della strada,» continuò il Principe, pronunciando con difficoltà
quella parola; «e la casa è al numero 32 - l'ho letto dopo che erano entrati. È un'orribile casa - peggio di questa; ma non
ci sono targhe di chimici né negozi. Hanno suonato - una volta sola, anche se hanno dovuto attendere molto; almeno, mi
è sembrato che non abbiano suonato di nuovo. Ci sono voluti parecchi minuti prima che la porta si aprisse, ed è stato un
momento pericoloso per me, perché guardavano in su e in giù. Fortunatamente, lo sa come sono quei luoghi! Non una
luce nella casa - né prima né dopo il loro ingresso. Non saprei proprio chi abbia aperto la porta. Ho aspettato circa
mezz'ora, per rendermi conto di quanto tempo sarebbero rimasti lì dentro e di che cosa avrebbero fatto dopo, ma alla
fine la mia impazienza mi ha portato qui, perché sapendola assente, potevo sperare di vedere Lei. Mentre stavo lì, sono
entrate due persone: due uomini che fumavano e avevano l'aria di essere due artisti - li vedevo male - ma non è uscito
nessuno. Pensavo che avrebbero portato i loro sigari - e che sigari! C'è da immaginarselo! - alla presenza della
Principessa. Un tempo, «proseguì il visitatore di Madame Grandoni, con un pizzico di scherno, non tollerava il fumo -
per lo meno il mio. È una strada tranquilla - ci passa pochissima gente. Allora, di che casa si tratta? È la casa dove abita
quell'uomo?» ansimò quasi.
La sua arrendevolezza, nonostante le iniziali proteste, lo aveva incoraggiato a parlare - capiva che lo stava
ascoltando; e si sentì ancora più incoraggiato quando, dopo poco, lei rispose alla sua domanda con un'altra domanda:
«Ha attraversato il fiume, per arrivarci? So che abita al di là del fiume.»
«Ah, no, non era da quella parte. Ho cercato di farmi spiegare dal vetturino, che mi ha portato indietro, come si
chiamasse quella zona, ma non mi ha capito. È gente tarda,» dichiarò il Principe. Poi continuò, accostandosi un poco
alla signora: «Ma che ci sono andati a fare? Perché c'è andata insieme a lui?»
«Pensano di essere dei cospiratori. Ecco!» disse Madame Grandoni.
«Vuol dire che sono andati a una riunione di qualche società segreta, di qualche banda di rivoluzionari e
assassini? Capisco bene - non è cosa nuova per me. Ma forse vogliono farlo credere,» aggiunse il Principe.
«E perché dovrebbero farlo credere? Non è nello stile di Cristina.»
«Ci sono altre possibilità,» osservò con sussiego.
«Certo, quando sua moglie se ne va in giro con estranei di bassa estrazione, al buio, e visita des maisons
louches, è autorizzato a credere quel che vuole, io non metto bocca. Ho la mia opinione, io, ma me la tengo, e non mi
metterò a difendere Cristina, perché non ci sono giustificazioni. Quando fa queste pazzie è provocatoria, e dà adito alle
peggiori congetture; e non aggiungo altro, tranne l'unico appunto che mi limiterò a fare; e cioè che se fosse veramente
una miserabile, capace di tutto, non si comporterebbe in questo modo, non si esporrebbe a nessuna congettura
infamante. Tutto sarebbe irreprensibile, all'apparenza. Sto dicendo semplicemente come la penso. Se credessi che le sue
azioni riguardassero solo lei, non direi nulla, - per lo meno non in questo luogo. Ma riguardano gli altri, tutti, ed è per
questo che alla fine apro bocca. È andata in quella casa per cambiare la società.»
«Per cambiarla, come già faceva?»
«Oh, molto di più! È completamente invischiata. È in rapporti con gente spiata dalla polizia. Non me lo ha
detto, ma me ne sono resa conto vivendo con lei.»
Il povero Principe sussultò. «E lei, è spiata anche lei dalla polizia?»
«Non lo so; è probabile - ma qui la polizia è diversa che altrove.»
«È più stupida.» Guardò la sua vecchia consolatrice col viso rosso dalla vergogna. «Coinvolgerà anche noi in
questo scandalo? Sarebbe la cosa peggiore di tutte.»
«C'è una speranza - la possibilità che se ne stanchi,» osservò la vecchia signora. «Tuttavia lo scandalo potrebbe
scoppiare prima.»
«Cara amica, è il demonio fatto persona,» disse il Principe sinistramente.
«No, non è il demonio, perché vuol fare del bene.»
«Che bene ha mai desiderato per me?» chiese con occhi accesi.
Lei scosse la testa con una tristezza pari a quella di lui. «Non potete farvi nessun bene, voi due. Dovete
starvene tranquilli, ciascuno dalla parte sua.»
«Come posso starmene tranquillo, quando vengo a conoscenza di simili scelleratezze?» Si alzò con violenza, e
disse con un tono che fece prorompere la sua compagna in una risata breve e incongrua: «Non le permetterò di cambiare
la società!»
«No, se ne annoierà a morte prima che il coup si maturi. Se ne convinca.»
«Era quello che mi aspettavo di trovare: che il capriccio fosse finito. È passata attraverso tante follie.»
«Le dia tempo - le dia tempo,» replicò Madame Grandoni.
«Il tempo di trascinare il mio nome in una Corte d'Assise? Quelli sono ladri, incendiari, assassini!»
«Non c'è nulla che possa dirmi sul loro conto che non abbia già detto a lei io stessa.»
«E in che modo si difende?»
«Difendersi? Ha mai visto Cristina difendersi?» chiese la vecchia signora. «L'unica cosa che mi ripete è: "Non
temete, vi prometto su tutto ciò che ho di più sacro che voi, personalmente, non soffrirete". Parla come se tutto
dipendesse da lei. D'accordo. Sarò soltanto una vecchia egoista, ma dopo tutto si deve avere un po' di cuore anche per
gli altri.»
«E anch'io ce l'ho, credo di poterlo affermare,» disse il Principe. «Mi dice di darle tempo, ed è certo che lei se
lo prenderà in ogni caso. Ma se non altro posso smettere di darle del denaro. Cielo, è mio dovere, credo, sono un uomo
onesto, io.»
«Lei dice che non gliene dà molto anche così.»
«Molto, cara signora? Dipende da quello che intende per molto. È certo sufficiente perché queste canaglie le
svolazzino intorno.»
«Non sono tutte canaglie, come non lo è lei, completamente. È questa la cosa più seccante!» sospirò con aria
stanca.
«Ma il tipo di questa sera - questo chimico - come lo chiamerebbe?»
«Lei me ne ha parlato come di un giovane perbene.»
«Ma per lei è una "cosa perbene" anche farci saltare tutti in aria,» replicò il Principe. «Non prende denaro,
lui?»
«Non so cosa prende. Ma vi sono delle cose - che non bisognerebbe dimenticare! La miseria di Londra è
spaventosa!»
«Che vuole? La miseria c'è dappertutto,» obbiettò il nostro personaggio. «È la volontà di Dio. Ci vuole
pazienza! E in questo paese non c'è nessuno che faccia elemosine?»
«Tutti, credo. Ma pare che non basti.»
Lui non aggiunse altro per un attimo; ma ben presto sembrò trovare una soluzione, quando domandò: «Che
cosa c'è da aspettarsi da un paese dove manca la vera fede?»
«Ah, la vera fede è una gran cosa, ma la sofferenza esiste anche in paesi che ce l'hanno.»
«Evidentemente. Ma aiuta a soffrire, e più tardi c'è la ricompensa; mentre qui...!» disse il visitatore con un
sorriso triste e inconcludente. «Se mi è permesso parlare di me, posso dire che, nella mia situazione, mi è di grande
aiuto.»
«Mi fa piacere,» replicò lei breve breve.
Egli rimase lì in piedi, gli occhi fissi sul pavimento.
«E il famoso Sholto - Godfrey Gerald - non viene più?»
«È un mese che non lo vedo. Non ne so nulla.»
«Forse non gli piacciono i chimici e i rilegatori, eh?» chiese il Principe.
«È stato lui a portarli qui - per contentare sua moglie.»
«Se l'hanno buttato fuori, tanto meglio. Ora ci vorrebbe qualcuno che buttasse fuori loro!»
«Aspetta aspetta!» disse la vecchia signora.
«Un ottimo consiglio, ma poco allegro da seguire.» Poi il Principe aggiunse: «Poco fa ha accennato a quel
giovane come se ci fosse qualcosa sotto; parlo del giovane artigiano che incontrai nell'altra casa. È ancora oggetto della
nostra ammirazione o ha pagato il prezzo delle sue colpe?»
«Ha pagato il fio, ma non so di che cosa. Non posso dire niente di male sul suo conto, tranne che la sua stella
sta tramontando.»
«Poverino!» esclamò il Principe.
«È proprio così che lo chiamai la prima volta che lo vidi. Non sapevo come, ma ero sicura che in un modo o
nell'altro sarebbe accaduto. È accaduto perché lui ha cambiato i suoi principi. Ora ha le stesse sue idee. Ci vuole
pazienza»
Il visitatore ascoltava con un'espressione di ansietà ferita, a bocca aperta, e un eccitamento nello sguardo, ogni
particolare che usciva dalle labbra di Madame Grandoni.«Almeno, è un modo di fare onesto. Allora lui non ci va a
Chiffinch Street?»
«Non so niente di Chiffinch Street, ho l'impressione che lui non vada dove vanno Cristina e quell'altro, lo
scozzese. Ma queste sono faccende delicate,» aggiunse la donna.
Erano però faccende che fecero molto effetto sul suo interlocutore. «Vuol dire che lo scozzese è... come dire...
il suo successore?»
Per un poco non rispose. «Ho idea che questa sia una cosa diversa. Ma non ci capisco niente; è stato l'altro, il
piccolino, a farle conoscere lo scozzese.»
«E ora si sono litigati... per mia moglie? proprio una storia edificante,» gemette il Principe.
«Non lo so, e non avrei dovuto parlare. So solo quel che mi dice Assunta.»
«Vorrei che raccontasse qualcosa anche a me,» disse lui con cupidigia.
«Ah, amico mio, se Cristina scoprisse che corrompe la servitù...!»
«Forse le cose potrebbero andar peggio per me? Ma non so perché parlo, come se m'importasse di lei, quando
invece non me ne importa nulla. Ci ho rinunciato.»
«Sono lieta di sentirlo,» disse, grave, Madame Grandoni.
«Proprio lei mi ha fatto capire la differenza. Finché si limitava a ingiuriarmi, in privato, potevo ancora
perdonare, aspettare, sperare. Ma dal momento che si è gettata senza pudore in progetti criminali, dal momento che, da
quanto lei dice, la sua mano è alzata, con uno scopo preciso, contro le più sacre istituzioni, è troppo, è proprio troppo!
Vada pure per la sua strada; non è più mia moglie. Neanche più un centesimo del mio le entrerà in tasca o nelle tasche
dei miserabili che la depredano, che l'hanno corrotta.»
«Caro Principe, credo che Lei abbia ragione, eppure mi dispiace,» sospirò la signora allungando una mano in
cerca di un appoggio per alzarsi. «Se diventerà povera veramente mi sarà molto più difficile lasciarla. Questa di ora non
è miseria, neanche una brutta copia della miseria, come lei vorrebbe che fosse. Ma che si direbbe di me se, dopo essere
rimasta con lei al tempo del suo splendore, le voltassi le spalle al momento del bisogno?»
«Cara signora, me lo chiede per farmi desistere?» chiese il Principe, sentendosi a disagio.
«Neanche per sogno; dopo quanto è stato detto e quanto si propone di fare, non mi rimane, per la decenza, che
fare fagotto: ho parlato troppo, come Lei ha ben visto.»
«Se Lei rimane, avrà tutto.» Parlò a bassa voce, come se si vergognasse di aver tentato quel ricatto.
Madame Grandoni gli lanciò uno sguardo stupito e si scostò da lui. «Che intende dire? Credevo che non le
importasse.»
Non so quale spiegazione il suo ospite avrebbe presentato per giustificare la propria incoerenza, se in quel
momento la porta della stanza non fosse stata aperta per far entrare Hyacinth Robinson. Egli si fermò di colpo vedendo
lo sconosciuto, ma prima che avesse tempo di aprire bocca, la vecchia signora gli disse brevemente: «Non siete
fortunato la Principessa non è in casa.»
«Me lo hanno detto ma ho voluto entrare ugualmente come ho fatto altre volte, nella speranza di vedervi,»
rispose il nostro giovane. Poi aggiunse, con tono ingraziante: «Vi faccio le mie scuse: non mi avevano detto che non
eravate sola.»
«Il mio visitatore se ne va, e anch'io,» disse Madarne Grandoni. «Devo salire in camera - sono a pezzi. Perciò
vi prego di scusarmi.»
Hyacinth aveva avuto il tempo di riconoscere il Principe, e anche questi lo riconobbe, come dimostra il fatto
che, presa da parte la sua compagna le chiese in italiano: «Non è il rilegatore?»
«Sicuro» disse la vecchia signora; mentre Hyacinth, bisbigliando parole di rammarico per saperla indisposta, si
voltava verso la porta.
«Un momento - un momento, vi prego!» s'interpose il Principe, alzando la mano con fare persuasivo e
guardando il signor Robinson con un sorriso esagerato, inaspettato. «Vi prego, presentatemi al signore,» aggiunse in
inglese a Madame Grandoni.
Madame Grandoni non si mostrò sorpresa dalla richiesta - non si meravigliava più di nulla - e pronunciò il
nome del principe Casamassima, e poi, in favore di Hyacinth, aggiunse: «Sa chi siete.»
«Mi permettete di trattenervi per un minutino?» chiese il Principe all'altro visitatore; e rivolto a Madame
Grandoni: «Parleremo per un poco, forse non è necessario che s'incomodi, se non desidera rimanere.»
Per un attimo raffiorò in lei l'antica arguzia, mentre, con una piccola risata sarcastica, diceva: «Si ricordi che se
parlerete troppo a lungo lei potrebbe tornare! Sì sì, me ne vado su. Felicissima notte signori.» Si avviò alla porta che
Hyacinth, piuttosto meravigliò, le teneva aperta.
Il desiderio del principe Casamassima di voler chiacchierare con lui gli riusciva misterioso; tuttavia per
rassicurare quel personaggio sulla sua disponibilità si stava apprestando a chiudere la porta dietro la loro amica quando
il Principe sollevò di nuovo cortesemente la mano obiettando: «Dopotutto, poiché la mia visita è finita e la vostra è
andata a vuoto, non potremmo uscire?»
«Certamente, verrò con voi» disse Hyacinth. La voce gli si era istintivamente irrigidita, a dispetto della
sorprendente affabilità del Principe e nonostante la pena per il nobiluomo che avrebbe potuto sentirsi profondamente e
dolorosamente colpito dall'ultima frase di Madame Grandoni, pronunciata in inglese. Ci è proibito formulare la
domanda di che cosa potesse intimamente turbare Hyacinth, faccia a faccia con un marito addolorato, ma senz'altro
congetturò, cosa del tutto naturale, che la situazione fosse abbastanza grave, anche se, a dire il vero, i modi del Principe
erano per il momento stranamente blandi. Lasciò il passo al suo nuovo importante conoscente, e un minuto dopo si
ritrovarono insieme in strada.
«Andate per di qua... o per di là?» chiese il Principe, mentre indugiavano ancora davanti alla casa. «Se lo
permettete, vengo nella vostra direzione.» Alla risposta di Hyacinth che gli era del tutto indifferente, disse, voltando a
destra: «Allora per di qua, ma adagio, se vi va bene, e solo per un breve tratto.» Il suo inglese era tutt'altro che perfetto,
ma i suoi errori erano come fiori artificiali: Hyacinth fu colpito dallo sforzo che faceva per esprimersi distintamente,
quasi timoroso che l'essere straniero lo ponesse in svantaggio di fronte a un piccolo inglese plebeo. Rapido nell'afferrare
e giudicare le situazioni, il nostro eroe notò con quanta classe sapeva mantenere la calma, e mentalmente lo ammirò per
la difficoltà dell'impresa. La giudicava un'impresa difficile perché l'argomento che il Principe stava per affrontare
esigeva un'infinità di spiegazioni ed era segno di razza destreggiarsi adeguatamente, in un idioma straniero, specie in
uno stato di agitazione, con una persona di ceto sociale tanto diverso dal proprio. Hyacinth sapeva bene quanto poco il
Principe dovesse stimare lui - non poteva farsi illusioni sul genere di persone che sua moglie accostava; ma
ascoltandolo mettere con cura una parola dietro l'altra, sorrise fra sé e sé al pensiero di quanto fossero inutili tante
precauzioni. Il nostro giovane considerava che avrebbero quasi potuto conversare nella sua lingua: durante il soggiorno
a Venezia aveva messo insieme un vocabolario italiano. «Con Madame Grandoni ho parlato di voi,» annunciò il
Principe con voce neutra, mentre s'incamminavano. «Mi ha detto una cosa interessante» aggiunse; «è per questo che sto
camminando con voi.» Hyacinth non disse nulla ritenendo preferibile rimanere a disposizione del suo interlocutore in
silenzio. «Mi ha detto che avete cambiato... che non siete più delle stesse idee.»
«Le stesse idee?»
«Riguardo alla questione sociale. Non volete più eliminare i ricchi.»
«Non ho mai voluto una cosa simile!» disse Hyacinth indignato.
«Oh, ma se ora avete cambiato idea, nulla di male a confessarlo,» dichiarò quello con tono d'incoraggiamento.
«È un bene che ci siano dei ricchi. Non sarebbe giusto che tutti fossero poveri.»
«Sarebbe bello se tutti potessero essere ricchi,» suggerì Hyacinth più equo.
«Sì, ma non rubando e sparando.»
«No, non rubando e sparando, non l'ho mai pensato.»
«Ah, senza dubbio Madame Grandoni si era sbagliata. Ma adesso ritenete che sia necessario pazientare?»
continuò il Principe quasi speranzoso che Hyacinth si lasciasse attribuire questa convinzione. «È anche il mio punto di
vista.»
«Oh certo, dobbiamo aver pazienza,» disse il suo compagno che ora, al buio, sorrideva fra sé e sé.
Intanto avevano raggiunto l'estremità dell'esedra, e qui il Principe si fermò sotto un lampione e scrutò per un
attimo il viso del piccolo rilegatore. Poi disse: «Se non sbaglio, conoscete molto bene la Principessa.»
Hyacinth si contenne: «È stata molto gentile con me.»
«È mia moglie - forse lo sapete.»
Ancora una volta il signor Robinson esitò, poi rispose: «Mi ha detto di essere sposata.» Non appena ebbe
pronunciato queste parole si accorse di quanto fossero sciocche.
«Suppongo che vogliate dire che non lo sapreste, se non ve lo avesse detto. Evidentemente non c'è nulla che lo
lasci capire. Potete immaginare quanto mi rallegri!»
«Non mi permetto di pensare né di giudicare nulla.»
«Avete ragione - non è possibile.» Il Principe rimase in piedi davanti al suo compagno, e nella fioca luce a gas
questi poté vedere meglio il suo viso: aveva un'espressione alterata, lo sguardo ansioso, teso; gli occhi sembravano
luccicare, e il nostro avido osservatore ebbe l'impressione che il nobiluomo fosse febbricitante, ammalato. Poco dopo
proseguì: «Naturalmente penserete che i miei discorsi siano un poco strani. Voglio che mi diciate qualcosa.»
«Temo che non vi sentiate bene,» disse Hyacinth.
«È vero, sto molto male; ma mi sentirò meglio se voi mi allerterete. È perché siete tornato a più miti consigli -
per questo ve lo chiedo.»
Il cuore di Hyacinth fu invaso da un sentimento di pietà per la situazione del Principe - intuì che soffriva senza
speranza, che era un vero gentiluomo, un individuo che non avrebbe mai fatto male a nessuno - tutte queste sensazioni
lo spinsero a desiderare di essere gentile con lui, e di rendergli qualunque servigio ragionevole gli avesse richiesto.
Pensò che doveva essere molto malato per chiedergli dei servigi, ma erano affari suoi. «Se volete che vi accompagni a
casa, lo farò senz'altro,» disse il nostro giovane amico. E mentre parlava pensò quanto fosse strano che si sentisse tanto
bendisposto verso una persona che fino a quel momento aveva ritenuto il peggior nemico della più rara delle donne.
Non riusciva a provare alcun risentimento per il Principe.
Questi gli rese atto della cortesia con un leggero inchino della esile persona: «Vi sono obbligatissimo, ma non
vado a casa. Non ci andrò finché non avrò saputo questo - in che casa è andata. Me lo direte?»
«In che casa?» ripeté Hyacinth.
«C'è andata con una persona che conoscete. Me lo ha detto Madame Grandoni. È un chimico scozzese.»
«Un chimico scozzese?» chiese sbigottito Hyacinth.
«Li ho visti, una o due ore fa. Ascoltate, ascoltate: sarò chiarissimo,» disse il Principe, posando le dita sulla
mano dell'altro, con fare supplichevole. «È venuto in quella casa - voglio dire questa, dove siamo stati - e c'è rimasto a
lungo. Ero qui in strada - ho passato tutta la giornata in strada! Sono usciti insieme e li ho osservati - li ho seguiti.»
Hyacinth ascoltava stupito, con l'animo sospeso; il Principe raccontava quelle cose rendendole estremamente
importanti e misteriose. Ma a questo punto lo interruppe: «Non sono affari miei - non posso ascoltarvi. Io non sto in
agguato. Non pedino, io!»
Il suo compagno lo guardò sorpreso, ma poi riprese, più velocemente di quanto avesse fatto fino allora: «Vi
rendete conto che sono andati in una casa dove si cospira, dove si preparano gesta orribili? Come potete tollerarlo?»
«E voi come lo sapete, signore?» chiese, grave, Hyacinth.
«Me lo ha detto Madame Grandoni.»
«Perché interrogate me, allora?»
«Perché non ne sono certo, non credo che ne sappia molto. Voglio saperne di più, per convincermi della verità.
Va in un luogo simile soltanto per amore della rivoluzione o per trovarsi sola con lui?»
«Con lui?» Il tono del Principe e i suoi occhi accesi avevano in qualche modo dato vita al sospetto.
«Con l'uomo alto - il chimico. Sono saliti insieme su una carrozza; la casa è molto distante, in quartieri
malfamati.»
Hyacinth si ricompose: «Non so nulla di questa faccenda, e non m'interessa. Se è tutto quello che volevate
chiedermi, sarà meglio che ci separiamo subito.»
La faccia del Principe si allungò: sembrava che fosse impallidito ancora di più: «Allora non è vero che odiate
quelle abominazioni!»
Hyacinth onestamente si stupì: «Come fate a conoscere le mie idee? In che modo possono interessarvi?»
Il Principe lo guardò con occhi malati; sollevò un poco le braccia e le lasciò ricadere: «Avevo sperato che mi
aiutaste.»
«Quando si è in due ad essere nei guai non ci si può dare molto aiuto,» esclamò il nostro giovane. Ma questa
seria riflessione andò a vuoto, perché il Principe, mentre parlava, si era voltato nella direzione da cui erano venuti,
all'altra estremità dell'esedra, l'attenzione improvvisamente polarizzata dal rumore di una veloce carrozza. Le ruote del
veicolo riecheggiarono in quel luogo silenzioso e vuoto. Guardò bieco la vettura attraverso l'oscurità, e dopo un istante
esclamò eccitato, a mezza voce: «Sono tornati - sono tornati! Ora potrete vederli anche voi - Sì, tutti e due!» La
carrozza aveva rallentato l'andatura e si era avvicinata al marciapiede la casa davanti a cui si fermò era senza dubbio
quella che i due uomini avevano lasciato poco prima. Hyacinth si sentì afferrare il braccio dal suo strano confidente che
velocemente, con grande sforzo, lo spinse avanti di parecchi passi. In quell'istante l'agitazione che aveva preso possesso
dell'infelice marito della Principessa gli si comunicò - un'ondata di ansietà gli corse per le vene - ansia per il rapporto
che esisteva tra le due persone che erano scese dalla carrozza: in una parola, sperimentò per parecchi istanti quello che
provano coloro che amano, squassati dalla gelosia. Se una mezz'ora prima qualcuno gli avesse detto che per alimentare
quella passione sarebbe stato capace di spiare di soppiatto, si sarebbe ritenuto insultato: e tuttavia si lasciò guidare dal
suo compagno fino al luogo più vicino, da cui, senza timore, potevano osservare i movimenti della coppia che scendeva
dalla carrozza. Si trattava infatti della Principessa e di Paul Muniment. Hyacinth notò che quest'ultimo pagava di tasca
sua il vetturino, che subito ripartì. Rimase con la Principessa ancora qualche minuto alla porta - minuti durante i quali il
signor Robinson sentì il proprio cuore battere furiosamente ignobilmente. Non sapeva perché.
«Che le sta dicendo? E lei che gli dice?» sibillò il Principe; e quando continuò: «Rientrerà con lei o se ne
andrà?» il nostro giovane, ferito, si accorse che il Principe aveva dato voce ai propri penosissimi pensieri. I due
parlavano in modo concitato, e poiché la porta non si apriva, era chiaro che la Principessa aveva indugiato a suonare il
campanello per prolungare la conversazione. «Saranno tre o quattro ore che sono insieme,» gemette il Principe.
«Ce ne stiano pure cinquanta!» rise Hyacinth mentre si voltava, vergognandosi di se stesso.
«È entrato - sangue di Dio!» urlò il Principe, afferrando di nuovo il braccio del compagno e costringendolo a
guardare. Tutto ciò che vide il nostro amico fu la porta che si chiudeva Paul e la Principessa erano dall'altra parte.
«Anche questo fa parte della rivoluzione?» ansimò il nobiluomo tremante. Ma il signor Robinson non rispose; guardò
un istante la porta chiusa e poi, svincolandosi dalla presa, se ne andò lasciando la vittima di quel torto che, anche in quel
momento, capiva essere ancora più profondo del suo, ad agitare, nel buio, un insulso sciocco bastone dal pomo dorato
verso la casa indifferente dove, al piano superiore brillava la luce della camera da letto di Madame Grandoni.
IV

Hyacinth attese a lungo, ma quando finalmente Millicent venne alla porta, lo splendore di quell'apparizione
giustificò ampiamente l'indugio. Aveva udito per le scale un gran fruscio, seguito dallo scricchiolio di quella economica
struttura, e poi se la trovò davanti nello stretto corridoio dove era rimasto in piedi un quarto d'ora. Tutta rossa, emanava
un profumo forte e da poco prezzo, e gli affidò subito il manicotto, un arnese stretto, goffo, pieno di nastri, perché glielo
reggesse mentre infilava le grosse mani volgari nei guanti. Aprì la porta - era scontato che non si potesse parlare con
agio nel corridoio - e uscirono sulla scaletta esterna, fermandosi nella gialla luce di quella domenica di sole.
Un'esclamazione ammirata per la bella giornata sfuggì dalla bocca di Millicent anche se, come sappiamo, lei non era
facile agli entusiasmi. L'inverno non era ancora finito ma la primavera era già in atto e l'aria fumosa di Londra, come
per un bisogno di mutamento, lasciava filtrare una sorta di visione. La città rinnovava la sua conoscenza con il cielo e il
cielo lasciava distinguere la dimensione geografica della città. Certo, le fosche tinte essenziali delle prospettive basse
non erano scomparse, ma avevano ammorbidito le loro pieghe, e indugiavano come una macchia di bruma mista a
graziose pennellate di sole e a fioche trasparenze. C'erano calore, iridescenza, una visione di saracinesche abbassate, un
suono di campane. Miss Henning sottolineò che era una "pena" non possedere un luogo adatto per far accomodare un
gentiluomo; ma come era possibile, quando si doveva sgobbare per campare e si disponeva soltanto di una stanza per
rassettarsi, che non era più grande di un porta-pillole? Neanche lei sopportava di aspettare fuori della porta; ne sapeva
qualcosa quando portava a casa delle signore gli articoli da scegliere - si sarebbero scelte un marito col tempo che ci
mettevano a decidersi! - e la cosa la mandava in bestia perché era proprio una malvagità. Se avesse potuto avere tutto
secondo il suo desiderio sapeva bene cosa volere; e accennò a un discreto salottino dove un visitatore poteva sedersi e
stare a suo agio - con il giornale del mattino e una bella vista dalla finestra - e perfino un bicchiere di sherry - così che lì
accanto, ma in completa privacy, lei avrebbe potuto vestirsi senza agitazione, una cosa che le faceva sempre diventare la
faccia rossa. «Non so neanch'io come mi sono conciata,» osservò, offrendo lo spettacolo del suo splendore a Hyacinth,
il quale, intanto, si accorse che lei infilava nel manicotto un consistente volumetto. Lui le spiegò che, vista quella bella
giornata, era venuto a proporle una passeggiata, come facevano una volta. Avrebbero potuto passare un'ora o due al
parco, passeggiando lungo la Serpentina, o perfino andare in barca, se voleva, avrebbero potuto guardare gli agnellini o
dar da mangiare alle papere se lei si fosse portata dietro qualche crosta di pane. Millicent rifiutò decisamente la proposta
di andare in barca: non aveva nessuna intenzione di bagnarsi i falpalà, e lasciava quei rozzi divertimenti, specialmente
di domenica, alle ragazze di basso ceto. Ma non aveva difficoltà a fare un giretto, sebbene lui non meritasse tanto dopo
che non si era più fatto vivo con lei, neanche fosse morta nella sua soffitta. Non si lasciava piantare e riprendere a
seconda del capriccio di un uomo, lei - non teneva un'agenzia di collocamento di questo tipo. Era più che certa che se la
giornata non fosse stata così meravigliosa avrebbe mandato a quel paese il suo amico; era fortunato, lui, che fosse
disposta a perdonare, bastava che splendesse il sole - era fatta così, sensibile, generosa. C'era una cosa però - non
sopportava di cambiare le sue abitudini; e poiché era sua abitudine andare in chiesa, la domenica, le avrebbe rimorso la
coscienza a rinunciarci per uno sfizio. Già in passato Hyacinth era rimasto sorpreso nel vedere come la sua vecchia
compagna di giochi fosse rimasta attaccata alle pratiche religiose: di tutte le contraddizioni della sua natura, questo
aspetto devoto gli sembrava la più strana di tutte. Rimaneva a testa eretta per tutta la durata delle prediche, anche le più
lunghe e noiose, e si allontanava dalla chiesa con il viso sfavillante di virtù ostentata. Il laicismo di Hyacinth la
esasperava, specialmente confrontato alla sua rettitudine, ma faceva tornare i conti pensando che se non beveva né
faceva a pugni né rubava, sguazzava, tuttavia, in idee la cui malvagità era senza limiti - teorie così perfide, sufficienti a
far beccare alla gente dieci anni di carcere. Lui non le aveva ancora detto che, recentemente, le proprie idee avevano
perso molto della loro forza. Un'istintiva benevolenza gli aveva impedito di privarla di una preoccupazione che la
rendeva tanto affabile. Non aveva pensato che lei sarebbe stata ancora più addolorata, e per conseguenza più deliziosa,
privata di indicazioni che confortassero la condanna della sua empietà.
Quella mattina gli disse che l'attendeva una ricompensa se l'avesse accompagnata in chiesa; invano cercò di
farle capire che godersi la mattinata, così, diventava impossibile, perché dopo la chiesa lei avrebbe dovuto pranzare e
fra una cosa e l'altra ci sarebbe rimasto poco tempo. Rispose, scuotendo il capo, che lei pranzava all'ora che voleva;
inoltre, di domenica, mangiava un piatto freddo che le mettevano da parte: un ragionamento, questo, cui Hyacinth non
poteva rivolgere obiezioni perché, grazie alla rete di misteriosi vaghi accenni e riferimenti con cui aveva sempre
ravvolto i suoi affari privati, e nonostante tutte le lamentele, le eterne dichiarazioni di voler cambiare lavoro, di
promozioni imminenti e di allettanti richieste dei suoi servigi da parte di altre ditte, la sua ignoranza sull'andamento
delle faccende domestiche di Millicent era totale. Le camminò a fianco fino al luogo di culto da lei scelto - una scelta
che evidentemente nasceva da una lunga esperienza; e mentre procedevano pensava alla fortuna di non essere suo
marito. Dio, come lo avrebbe comandato a bacchetta, e ridotto a una poltiglia! E il peggio sarebbe stato che, con il suo
carattere mite, pacifico, le avrebbe obbedito come un cagnolino da circo. E a chi doveva obbedire un uomo, diceva
Millicent, se non alla propria moglie? Prese posto nel banco con una maestosità che sembrava ribadire tale concetto:
sembrava sentirsi responsabile di tutti i credi, comunioni, sacramenti; più che devota, sembrava quasi pontificante.
Hyacinth non aveva mai usufruito della protezione di una persona tanto prestigiosa; pensò alla principessa Casamassima
che, al confronto, sembrava una bohémienne, un'avventuriera da strapazzo. L'aveva cercata, oggi, non per la sua
austerità - la settimana era stata fin troppo lugubre - ma per il lato più estroso del suo carattere; eppure quello spettacolo
di severità che ora gli offriva gli parve un magnifico sfoggio, quasi una dilatazione della sua esuberante vitalità. Come
la Principessa, anche Millicent aveva i suoi capricci e i suoi momenti strani, e anche se diversi da quelli della signora di
Madeira Crescent, stavano tuttavia a dimostrare che anche lei era una donna coraggiosa. Soltanto una creatura
superiore, cosciente delle grandi riserve di arrendevolezza che le sarebbero occorse per farsele perdonare, poteva darsi
tante arie. La Principessa voleva distruggere la società, e Millicent voleva tenerla in piedi; e mentre al fianco della sua
compagna di giochi ascoltava quelle salmodie, frutto di lunghe consuetudini, avvolto dall'opulenza di tanto fervore, fu
costretto a riconoscere la prodigalità di quel destino che gli era sembrato a volte avaro e che in realtà gli offriva di poter
scegliere tra la bellezza genuina e il fascino delle convenzioni.
Fortunatamente questa particolare domenica non c'era la predica - fortunatamente intendo per la sua
insofferenza di eretico - così che quando i fedeli si furono dispersi, rimaneva ancora molto tempo per una passeggiata
nel parco. I due amici attraversarono quella spianata ininterrotta di erbacce indistruttibili che va da Birdcage Walk a
Hyde Park Corner, e si avviarono verso i Kensington Gardens fiancheggiando la Serpentina. Una volta assolto, per la
giornata, il dovere delle pratiche religiose - tanto era scrupolosa nell'assistere al servizio religioso della mattina quanto
non sopportava di ripeterlo di pomeriggio - e finite di innalzare preci e lodi, Millicent cambiò tutto il suo atteggiamento;
prese un andamento diverso, esprimendosi con disinvoltura, incurante se si notasse o meno che aveva indosso il suo
abito migliore e si accingeva a trascorrere la giornata all'aperto. Dapprima si lamentò per la lunga assenza di Hyacinth,
e come sempre gli chiese conto di quel che aveva fatto nel frattempo. Lui la ascoltava, rilassato, divertito, e soddisfatto
dei suoi rimbrotti che, strano a dirsi, gli sembravano salutari ed energetici, opponendo al tempo stesso un allegro reciso
rifiuto a darle soddisfazione. Dichiarò, come aveva avuto già occasione di fare, che non esigendo da lei nessuna
spiegazione il minimo che potesse aspettarsi era di essere lasciato in pace con altrettanta semplicità; e l'indignazione
con la quale lei accolse questa richiesta non valse a convincerlo della serietà di un eventuale chiarimento fra loro. Non
c'era niente da chiarire, niente da perdonare; erano due creature molto fragili, che si sentivano maggiormente unite dalle
proprie debolezze che da una costante fedeltà che potessero fingere di esercitare l'uno nei confronti dell'altro. Si trattava
della persona che gli era amica da più tempo - ad eccezione del signor Vetch - e stranamente ispirava a Hyacinth un
sentimento di indulgente rispetto. L'eventualità che la ragazza "si accompagnasse" ad altri uomini, ormai non lo
tormentava affatto; né sentiva indispensabile alla sua felicità stabilire se fosse o no vero. Poteva essere felice con o
senza tale certezza, e provava un insolito pudore ad intromettersi nelle sue faccende private. Si riconosceva così poco
autorizzato ad essere esigente con lei che la naturalezza con cui la ragazza lo riteneva consenziente al suo diritto di
metterlo a nudo gli parve ancora un indice della sua eterna inopportunità - inopportunità certo poco confortante e
tuttavia tanto spontanea e vitale che non poteva fare a meno di rendergliela cara.
«Se sei venuto a cercarmi soltanto per divertirti a mie spese facevi meglio a non farti vedere per niente,» disse
lei con dignità, mentre lasciavano il Green Park. «Prima di tutto è una cosa volgare, in secondo luogo è sciocca, e in
terzo luogo capisco dove vuoi arrivare.»
«Mia cara Milly, tutte le tue smorfie, i tuoi risentimenti non sono altro che il grumo di polvere che posso
spazzar via con un soffio,» replicò il suo compagno. «Ma non importa; continua - dì pure quello che ti pare. Sono
venuto a cercarti per distrarmi, per divertirmi senza sforzi. Non speravo però che mi avresti fatto ridere... sono stato di
umore così lugubre per tanto tempo. In realtà lo sono ancora. Vorrei avere il tuo carattere. La mia allegria, come vedi, è
un poco febbricitante.»
«La prima cosa che esigo da un amico è il suo rispetto,» annunciò Miss Henning. «Tu stai su una cattiva
strada: ho le mie opinioni, in proposito,» continuò.
«Ed è per un senso di rispetto verso di te che vuoi che mi metta su una strada migliore? Allora oggi è una
giornata guadagnata. Andiamo sull'erba,» continuò Hyacinth; «si prova un senso d'innocenza pastorale a calpestarla: è
bello stare insieme a te. Capisci tutto.»
«Non capisco tutto quello che dici, ma capisco tutto quello che nascondi,» asserì la ragazza, mentre la grande
spianata centrale del parco, intensamente verde come un pascolo, si allargava intorno a loro.
«Allora diventerò un mistero vivente perché d'ora in poi voglio smetterla coi misteri. Non saprai più nulla di
me... perché avrai tutto sotto il naso.»
«Non c'è niente di più bello della natura,» Millicent osservò a vanvera, mentre guardava le pecore brune che
pascolavano nei campi fra Knightsbridge e Bayswater Road. «Che farai quando starai tanto male da non poter più
andare a lavorare?» aggiunse cambiando improvvisamente discorso. E quando lui le chiese perché avrebbe dovuto stare
tanto male rispose che si vedeva che era febbricitante: non lo aveva notato subito perché non era mai stato più colorito
di un pezzo di cacio. Si era forse preso qualche malattia in quei bassifondi dove girovagava in preda alle sue idee
pazze? Gli stava bene, così imparava a fare il benefattore in posti da cui non poteva ricavare nessun bene. E i suoi begli
amici - erano proprio una bella razza a fargli fare le cose più ingrate - si sarebbero occupati loro di procurargli i dottori,
e un poco di Porto e soldi e tutto il resto, quando fosse costretto a letto, magari per mesi, per essersi lasciato ficcare in
testa tante sciocchezze e averle ficcate in testa ad altri che avevano, meno ancora di lui, la forza di sopportarle? Si fermò
sull'erba, nella luce del sole un poco annacquata, e posò sul suo compagno due occhi nei quali lui notò, ancora una
volta, uno sprazzo di curiosità, il guizzo di una spregiudicata amicizia, la promessa di un ardore, l'assicurazione di uno
schietto cameratismo. Improvvisamente, lasciando da parte l'enfatica irrisione fino allora usata, disse: «Piccolo,
impareggiabile furfante, stai covando qualcosa! Forse la Principessa ti ha dato il benservito?»
«Povera ragazza, che strano miscuglio è la tua conversazione,» sospirò con aria rassegnata. «Ma sia pure. Non
è poi un miscuglio tanto più strano della mia vita.»
«Beh, sono contenta di sentirtelo dire!» gridò Millicent, mentre camminava fra un ondeggiare di nastri.
«Che idee ti sei fatta delle mie idee!» gemette Hyacinth. «Sì, dovresti proprio vedermi all'opera, nei bassifondi!
Sono più borghese di te, Miss Henning!»
«Forse vuoi dire che usi un linguaggio più ridicolo del mio. Sono convinta che il più delle volte non sai
neppure tu quello che vuoi dire. Con tutti i tuoi ragionamenti non credo che tu sappia quello che pensi. È questo il tuo
malanno.»
«È sorprendente come tu riesca talvolta a mettere il dito sulla piaga,» replicò lui pieno d'interesse. «Ho
intenzione di non pensare più - di farla finita. E anche tu cerca di evitarlo, di evitarlo come un vizio funesto. Non arreca
nessuna vera gioia. Dovremmo vivere di pura, smemorata contemplazione - vivere solo per l'ora presente.»
«Non m'importa nulla di come vivo e di dove vivo!» gridò lei. «Pur di poter fare di testa mia. Quelli che stanno
in alto... sono loro che vanno per il sottile! Ma tu non mi hai mai dato nessuna soddisfazione... come dovrebbe essere fra
amici,» continuò, portando il discorso sul piano concreto e volgendo di nuovo verso il suo compagno quella sua bella
freschezza che non doveva temere di esibire alla luce del sole. «Ti ricordi il giorno che venni a Lomax Place, tanto
tempo fa, e feci visita alla povera cara Miss Pynsent - non mi poteva soffrire, non capì mai la mia indole - e aspettai che
tu tornassi e poi andammo a spasso insieme e ci sedemmo a prendere il tè? Bene, non esito a dirti che neanche quella
sera mi sei andato completamente a genio, e penso di essermi comportata fin da allora abbastanza bene, facendotelo
notare così poco. Hai sempre voluto farmi credere che mi raccontavi ogni cosa, mentre non mi hai mai detto nulla.»
«Che volevi che ti dicessi, ragazza mia?» bisbigliò Hyacinth in tono leggero, prendendola a braccetto. «Ti dirò
tutte le cose di questo mondo, tutto quello che vuoi.»
«O meglio, mi dirai un mucchio di sciocchezze. Non puoi negare che ho sempre usato la maniera dolce,»
dichiarò Miss Henning.
«Usala ancora, non ti scoraggiare,» disse il suo amico, mentre camminavano tenendosi stretti.
Si fermò a un tratto, staccandosi da lui, ma senza intenzioni: «Allora, è proprio vero che ti ha piantato?»
Hyacinth distolse lo sguardo; guardava la distesa verde, tra nebbia e sole, punteggiata di figure domenicali che
la facevano sembrare più vasta; la cinta boscosa del parco, oltre il fossato erboso dei giardini; un tratto luccicante della
Serpentina, da un lato, e dall'altro le lontane facciate di Bayswater illuminate dal sereno, luminose della loro posizione
privilegiata. «Beh, sai che non mi dispiace poi tanto?» rispose lui poco dopo.
«Ah, che bestia!» urlò lei, mentre riprendevano a camminare.
Circa un'ora dopo erano seduti sotto i grandi alberi di Kensington, che nei Giardini sono sparsi sul declivio che
sale dolcemente dalla parte dell'acqua nel punto più distante dal vecchio palazzo rosso. Si erano assicurati due sedie
messe lì ad uso di quei privilegiati per cui un penny non è una cifra proibitiva, e Millicent, con uno dei suoi tipici
ragionamenti, si era indugiata a congetturare se l'addetto incaricato di riscuotere il penny avrebbe per caso tralasciato di
venire a esigere il pagamento. A Miss Henning piaceva godersi gratis i suoi comodi, e anche che lo facessero altri, e
perfino sedersi in una sedia da un penny le procurava un gusto più profondo di quello provato se ne avesse tratto un
legittimo profitto. Tuttavia l'uomo passò e allora il piacere ripiegò nello stare seduta il più a lungo possibile per
ripagarsi della spesa. Esaurito l'argomento ne erano venuti fuori altri due o tre di maggior peso. Nel momento su cui si
ferma la nostra considerazione era piegata in avanti tutta seria e attenta, le mani incrociate sul grembo, mentre i suoi
innumerevoli braccialetti d'argento le calavano giù sui grossi polsi. Il viso, con le labbra socchiuse e gli occhi soffusi di
dolcezza, aveva un'espressione che Hyacinth non aveva mai visto e che gli fece dire: «Dopotutto, Milly cara, sei
davvero stupenda!»
«Perché non me l'hai raccontato prima - anni fa?» domandò.
«È sempre troppo presto per le corbellerie! Non so perché mi sono sbrodolato proprio oggi, seduto qui, in un
posto incantevole, in un'aria balsamica, tra piacevoli suggestioni, e senza moventi né obiettivi. È una storia odiosa e me
la sono tenuta dentro per tanto tempo! Sarebbe stato uno sforzo per me, uno sforzo impossibile in qualsiasi momento,
fare diversamente. Chissà perché proprio adesso non è stato più uno sforzo; e senza dubbio ho parlato proprio perché
l'aria è dolce, lo sfondo decorativo, la giornata festiva, la tua persona così amabile e la tua presenza così stimolante.
Tutto questo ha avuto lo stesso effetto che immergere un oggetto in un bicchiere pieno d'acqua - l'acqua trabocca.
Senonché nel mio caso non si tratta di acqua, ma di un liquido terribilmente schifoso. Scusami per il cattivo odore!»
Una vampata di eccitamento salì al viso di Millicent nell'ascoltare queste parole, e vi rimase diffusa; e poiché
un bel colorito, più attraente se scaturito da un sentimento repentino non è mai disdicevole a una bella donna, la sua non
comune espressione ne risultò arricchita. «Non ti avrei trattato con tanta durezza,» disse.
«Mia cara ragazza, non è quella la durezza!» protestò Hyacinth.
«Stai tremando tutto.» Allungò una mano e la posò su quella di lui come un'infermiera che sentisse il polso.
«È molto probabile. Sono un animale nervoso,» disse.
«Chiunque sarebbe nervoso al pensiero di una cosa così orribile. E quando poi si tratta di noi stessi!» I modi
della ragazza riflettevano l'orrore di una simile evenienza. «Hai bisogno di comprensione,» aggiunse con un tono che gli
strappò un ghigno perverso: quelle parole suonarono come una ricetta medica.
«Un cucchiaio ogni mezz'ora.» E le trattenne la mano che stava per ritrarre.
«Anche tu saresti stato più carino,» continuò Millicent
«Che vuol dire "sarei stato più carino"?»
«Beh, adesso mi piaci,» disse Miss Henning. E questa volta ritrasse la mano quasi a recuperare la propria
dignità dopo un discorsetto simile.
«Peccato che sia stato sempre tanto influenzato dalle donne,» sospirò Hyacinth, incrociando le braccia.
Si sorprese del tono delicato con cui lei replicò: «Ricordati che hanno molto da farsi perdonare.»
«Vuoi dire per via di mia madre? Oh, lei sì che si sarebbe fatta perdonare se gliene avessero dato il modo! Ma
il gentil sesso, in genere, è stato molto carino con me,» dichiarò. «È fantastica la gentilezza che mi hanno sempre
mostrata, e la gioia che mi è venuta dalla loro compagnia.»
Sarebbe forse indelicato indagare a fondo se l'accenno a fonti di conforto non scaturite dal suo seno avesse su
Milly un effetto irritante; in ogni modo rispose subito dicendo: «Lei lo sa... la tua Principessa da strapazzo,»
«Sì, ma non se ne cura.»
«Una gentilezza veramente eccezionale!» urlò la ragazza con una risata sarcastica.
«Mi secca profondamente,» la interruppe lui - anche se con un certo distacco - «sentirti affibbiarle epiteti
odiosi. Non sai nulla di lei.»
«E tu che ne sai di quello che so io?» gli pose questa domanda con il solito tono aggressivo, che le veniva
spontaneo, ma un istante dopo abbassò la voce come ricordandosi di doversi adeguare a una grande sventura. «Non ti ha
forse trattato in modo odioso, e proprio te che sei così dolce?»
«Neanche per sogno. Sono io che, per dirla con parole tue, l'ho raggirata. Ha voluto conoscermi perché
m'interessavo delle stesse cose che interessavano lei. Ma mentre il suo interesse è continuato, è aumentato, il mio, per
una ragione o per l'altra, è scemato. Lei è stata coerente, io stupidamente capriccioso.»
«È scemato il tuo interesse per la Principessa?» chiese Millicent interpretando erroneamente quella
dichiarazione un poco complicata.
«No mio dio. Solo per le idee che avevo un tempo.» E sembrava che stesse parlando di titoli fluttuanti, di
notevole entità, dei quali a un dato momento avesse perentoriamente incaricato il proprio agente di cambio di
sbarazzarsi.
«Bello davvero! Quando pensavi che tutto dovesse andare ai poveri!» e la risata di Miss Henning sembrava
indicare che, dopotutto, le idee di Hyacinth e i suoi cambiamenti d'opinioni non fossero cosa di suprema importanza.
«E la tua gran dama s'interessa ancora ai venditori ambulanti?»
«Vuole conoscere a fondo il grande tema della miseria - e vuole fare qualcosa per alleviare quella miseria. A
me non piacciono né i suoi modi, né i suoi sistemi. Ma quando penso a tutto il da fare che ci sarebbe, e al coraggio e al
fervore di coloro che si dedicano a queste cose mi sembra talvolta, di essere ben povera cosa, con tutte le mie riserve e i
miei scrupoli.
«Sei sì una povera cosa - visto che stai qui a scagliare simili accuse a te stesso!» esplose la ragazza. «Se non ti
basta l'animo, ti garantisco che ce l'ho io per te! Se non ti ha dato un calcio, in nome di cosa, poco fa, hai detto che te lo
ha dato? E perché la tua cara vecchia faccia è bianca come le calze che ho addosso?»
Hyacinth la guardò per un poco senza rispondere, come blandito da quella violenza. «Non lo so, non capisco.»
Lei allungò la mano e s'impadronì di quella di lui; per un minuto la tenne come se desiderasse controllarsi e
attingesse dal contatto un influsso benefico. Sedevano in silenzio guardando le volute decorative dell'acqua e il giardino
ben curato che vi si rifletteva, finché Milly girò di nuovo gli occhi e se ne uscì con queste parole: «Beh, anch'io l'avrei
trattato allo stesso modo!»
Gli ci volle un momento per rendersi conto che alludeva alla vendetta compiuta su Lord Frederick. «Non
parlare di questo; non mi sentirai mai dire una parola al riguardo. È tutto nel buio.»
«Ti ho sempre conosciuto per un gentiluomo,» continuò la ragazza con convinzione.
«Uno strano esemplare, cara mia,» continuò il suo compagno non troppo candidamente, visto che sappiamo
quali teorie avesse coltivato in proposito. «Certo hai sentito i pazzi vaneggiamenti della povera Pinnie. Mi esasperavano
quando era viva, ma ormai l'ho perdonata. Era ora, visto che ho cominciato anch'io a chiacchierare mi sembra di andare
a pezzi.»
«Non è stata colpa di Miss Pynsent; eri tu.»
«E che dicevo mai, se è lecito, allora?»
«Non si tratta di quello che dicevi,» rispose sottilmente. «Capii ogni cosa - tranne s'intende perché avesse
dovuto scontare la pena e perché fossi stato portato da lei quando era in punto di morte - il giorno stesso che tornai a
Lomax Place. Allora non ti sei accorto che ci stavo rimuginando? E te l'ho mai rinfacciato, anche quando c'è stata
qualche parola dura fra noi? Perciò quello che penso ora è né più né meno quello che pensavo prima. Soltanto, mi sei
diventato più caro.»
Era rozza, ordinaria, aveva perfino il vizio di esagerare senza motivo, dal momento che neppure lui capiva in
che modo la sua situazione potesse renderlo più amabile. Ma quando le sue capacità affettive vennero a galla, gli
trasmisero un senso di pace, quasi di protezione, e l'oziosa, economica passeggiata campestre, l'interludio nella routine
del lavoro settimanale, acquistarono un nuovo valore; e sebbene nessuno dei due avesse pranzato, si sarebbe sentito
pago di restarsene lì con lei tutto il pomeriggio. Aveva la sensazione di vivere una pausa nella crudele stretta che lo
stava accerchiando, una pausa che semplificava tutto, dilazionandolo. Aveva pensato ostinatamente, fino alla nausea,
ma ora i pensieri erano rimasti sospesi in aria con penosa indifferenza. Sarebbe forse troppo considerare la compagnia
di Millicent una forma di compensazione, tuttavia era una risorsa. Anche lei trovava quelle ore gradevoli, perché non
avanzò nessuna proposta di far ritorno a casa. Gli chiese della famiglia del padre, come era possibile che lo avessero
ignorato senza alzare neppure un dito; e dichiarò, sfumando il tono di una indignazione tesa a fargli piacere, anche se la
stranezza dell'uscita lo fece sorridere, che se lei avesse fatto parte di quella razza tronfia non avrebbe sopportato l'idea di
un parente alle prese con l'indigenza. Hyacinth sapeva già come la pensava Miss Henning a proposito del suo lavoro dal
vecchio Crook, e come giudicava meschino che un giovane come lui si accontentasse di un'esistenza risolta
semplicemente nel guadagnarsi la vita col lavoro manuale. E se aveva a che fare coi libri, questo lo faceva pure il
garzone di bottega che consegna la merce a domicilio; e ovviamente Millicent non si era mai data la briga di indagare se
il suo mestiere differisse da quello di un idraulico o di un sellaio. Non aveva mai dimenticato il trauma che le aveva
provocato il giorno in cui aveva raccontato che indossava il grembiule; guardava con disprezzo quel genere di attività,
dall'alto della condizione di una che indossava mantelli, giacche e scialli e lunghe serie di abiti esposti in vetrina su
manichini di fil di ferro, e tolti di lì per essere trasferiti sulla sua personcina sinuosa, senza che avesse avuto niente a che
fare con la loro confezione, ma con l'esclusiva occupazione di parlarne, esibirli, e persuadere la gente - per giunta
facilmente suggestionabile - della loro bellezza e della modicità del prezzo. Era stata per lei una consolazione illimitata,
durante la difficile ascesa, non doversi piegare a lavori manuali. Hyacinth rispose alle sue domande, come lei aveva
fatto in passato, ribattendo in che cosa la «sua famiglia» dovesse sentirsi debitrice verso il figlio di una persona che
aveva introdotto il delitto e il lutto nello splendore delle loro sublimi altezze, e se fosse davvero convinta delle pretese
che doveva avanzare verso quella gente. La domanda sembrò colpirla per un momento; poi riprese con il suo spirito più
sottile: «Beh, se ti trovavi così in basso, non era una buona ragione perché ti dessero una mano? Oh, è proprio una
crudeltà!» gridò. E aggiunse che al suo posto avrebbe trovato il modo di richiamare la loro attenzione. Non avrebbe
cercato di sbarcare il lunario a Soho, avendo nelle vene una metà di sangue blu! «Se si fossero accorti di te, ti avrebbero
voluto bene,» ebbe la bontà di osservare, ma immediatamente si ricordò che in quel caso glielo avrebbero portato via, di
sotto il naso. Non era disposta ad affermare che si sarebbe rassegnata a perderlo, anche se aveva avuto ben poco da lui.
In quel caso sarebbe stato legato a filo doppio con nobili veri, e sottolineò quel «veri» volendo colpire la signora di
Madeira Crescent - un mezzuccio sprecato, tuttavia, in quanto Hyacinth era sicuro che avesse ricavato da Sholto notizie
sufficientemente particolareggiate sulla Principessa. Millicent era tenera e teneramente disinvolta, ed egli fu colpito dal
fatto che la sua origine bastarda le facesse in realtà ben poca impressione: la considerava una circostanza accidentale
assai meno grave di quanto fosse sempre apparsa a lui. Era commossa e turbata, ma a turbarla era il racconto della
terribile vendetta della madre di lui, la sua lunga detenzione, e la visita fatta dal bambino al carcere e la successiva
scoperta della particolarità della sua nascita. Queste cose producevano in lei una nobile agitazione - qualcosa che
somigliava all'emozione provata talvolta alla lettura intensa del Family Herald. L'aveva vivamente colpita e seguitava a
tornarci sopra, tutto il contorno di Lord Frederick, e il misterioso fatto che Hyacinth avesse ricavato così poco
dall'essere figlio di quel nobile. Non poteva mandar giù che il suo amico non si fosse dato da fare, benché in proposito
avesse idee abbastanza vaghe. La cosa più strana del mondo era la sua apparente convinzione che se lui non fosse stato
così inetto avrebbe potuto «lavorarsi» tutto quel fosco episodio come una fonte di distinzione, di gloria, di guadagno.
Lei, se fosse stata la figlia di un nobile, non lo sarebbe stata invano. Oh, la mano sinistra valeva quanto la destra!
Almeno, il suo senso dell'onore era estraneo a tali sofisticherie! Il lungo silenzio di lui era poi la cosa più stupefacente;
le faceva perdere la pazienza; e c'era uno strano candore nella sua meraviglia che non si fosse vantato del proprio
casato. Le generazioni che lo rappresentavano erano vivide e concrete per lei, in confronto alle timide ombre evocate da
Pinnie in una girandola frenetica. Millicent batteva sul passato segreto di lui con il più strano miscuglio di entusiasmo e
di critica, e con le migliori intenzioni che sortivano però l'effetto di voci profane intente a destare echi sacri.
«Io sola... io e lei? Certo, dovrei sentirmi obbligata, benché sia tardi ormai. La prima volta che l'hai vista,
suppongo che glielo dicesti allora - quella sera che andasti nel suo palco a teatro, no? Lei ti poteva raccontare di peggio,
sono sicura, se avesse osato dire tutta la verità. E vorresti farmi credere che non hai mai rivelato la cosa al tuo grande
amico chimico?»
«No, non ne abbiamo parlato mai.»
«Come sono strani gli uomini,» esclamò Millicent. «Non gliene hai fatto neppure cenno?»
«Non era necessario. Lui sapeva i fatti per altra via... li sapeva attraverso sua sorella.»
«Che ne sai, se non ne ha mai parlato?»
«Perché è stato sempre un buon amico,» disse Hyacinth.
«Beh, non mi pare che abbia fatto un grande sforzo» replicò Miss Henning. «E la sorella, come l'ha saputo?»
«Oh, non lo so. L'avrà indovinato»
La ragazza lo guardò e grugnì: «Non erano affari suoi.» Poi aggiunse: «È stato un buon amico? Perché, non lo
è più?» Fece questa domanda con un timbro disinvolto, che squillò nella quiete luminosa del luogo.
Hyacinth lasciò passare un poco di tempo prima di rispondere; e quando parlò evitò di guardarla. «Non lo so.
Non ci capisco nulla.»
«Beh, allora lo capisco io!» e facendolo piroettare verso di lei lo scrutò coi suoi grandi occhi luminosi.
«Sciocco ragazzo, ti ha giocato un brutto tiro?» e lo incalzò con la sua curiosità; gli chiese se era quella la cosa che non
andava. Le labbra non pronunciarono parola, ma dopo un istante lei gli lesse in faccia la risposta: «Si è insinuato nelle
grazie di Sua Altezza Serenissima - è questo il tiro che ti ha giocato?» proruppe. «Vuoi dirmi che lei si degna di
guardare in faccia uno come lui?»
«Uno come lui? È una brava persona!» disse Hyacinth. «Hanno gli stessi interessi, stanno svolgendo lo stesso
lavoro.»
«Oh, allora lui non le ha cambiate le sue idee... come hai fatto tu?»
«No, lui sa quel che vuole; e ci crede.»
«Proprio lo "stesso lavoro", non c'è dubbio!» gridò Millicent con tono apertamente sarcastico. «Sa quel che
vuole e direi che lo otterrà.»
Egli si alzò in piedi e le voltò le spalle; ma anche lei si alzò e lo prese sottobraccio. «Sono affari loro; possono
fare quel che vogliono.»
«Oh, non fare il nobile oltraggiato! Mi fai perdere la pazienza,» rispose la ragazza con la sua tipica vivacità.
«Sono una coppia rara e sarei contenta di sentirtelo dire.»
«Non bisogna mai voltarsi contro i propri amici» continuò lui con tono di disperata sentenziosità.
«Sono loro che devono ricordarselo; non c'è pericolo che tu lo dimentichi.»
Avevano ripreso a camminare, ma lei lo fermò; improvvisamente prese a sorridergli, e il suo volto era radioso.
Continuò a casaccio, con tono carezzevole: «Tutte queste terribili cose che mi hai detto... ti hanno reso ancora più
caro.»
«Non vedo perché, ma certamente è vero per quello che riguarda te. Mia cara Millie, mi sei di grande
conforto,» aggiunse Hyacinth mentre s'incamminavano di nuovo. Poco dopo, con la complicità del tronco di un grosso
albero, egli le passò un braccio intorno alla vita e l'attirò a sé... così vicino che, mentre si fermavano ancora una volta, la
sentì aderire con il suo bel corpo giovanile, e anche con piena, totale partecipazione.

Non aveva nessuna intenzione di andare a Madeira Crescent e così le chiese, prima di salutarla, se poteva
rivederla dopo il tè. Le sue sere erano amare, ora, e le vedeva sopraggiungere con timore. L'oscurità era diventata un
incubo popolato di visioni persistenti anche davanti ai suoi occhi chiusi - dubbi acuti, timori e sospetti, premonizioni di
crudeltà, rivelazioni dolorose. Aveva bisogno di compagnia per alleviare la tristezza, e questo bisogno lo aveva spinto
di nuovo verso Millicent, non del tutto coerentemente col rispetto che tuttora riteneva di dovere alla parte più nobile di
sé. Non si sentiva più libero di recarsi a Madeira Crescent, e cercava di persuadere se stesso, nel caso che i sospetti si
rivelassero eccessivi, che le sue motivazioni nascevano da un sentimento di magnanimità. Se Paul e la Principessa erano
impegnati in un compito serio, se dovevano svolgere un lavoro che richiedeva tutta la loro spassionata attenzione (e la
domenica era chiaramente la giornata più adatta: avevano passato tanto tempo insieme la domenica precedente) la sua
assenza si giustificava col nobile proposito di lasciar campo libero all'amico. C'era qualcosa di inesprimibilmente
significativo nel modo in cui l'aveva visto improvvisamente decidersi a rientrare in quella casa, dopo la sosta all'esterno
con la sua amica, mentre stava lì ad osservarli con il Principe, attraverso la nebbia. Quel movimento gli ritornava
infinite volte alla mente, suggerendogli cose che non sopportava di sapere. Hyacinth aveva paura di essere geloso anche
quando ormai già lo era, e per smentirlo a se stesso era andato a trovare la Principessa una sera, a metà settimana. Non
aveva forse voluto che Paul la conoscesse, mesi e mesi prima, e perché avrebbe dovuto subire quel sentimento
degradante, al primo sentore di una intimità che posava interamente su quelle aspirazioni rispettate da lui stesso? La
Principessa non si trovava in casa, ed egli se n'era andato senza chiedere di Madame Grandoni: non aveva dimenticato
che, in occasione della visita precedente lei si era scusata per non rimanere da basso. Dopo che la cameriera di Madeira
Crescent gli ebbe detto che la signora non era in casa, si era allontanato, assalito da un'improvvisa curiosità - una
curiosità che per essere soddisfatta l'avrebbe portato a salire sul primo omnibus che viaggiava in direzione di
Camberwell. Forse Paul Muniment, famoso per stare in casa la sera, era fuori anche lui, e in quel caso Rosy avrebbe
avuto voglia di dire - perché certo lo sapeva - dove era andato? Hyacinth lasciò passare l'omnibus, perché
improvvisamente si rese conto, con un senso di tristezza, che stava correndo il pericolo di comportarsi come una spia.
Di proposito, per lasciare inappagata la propria curiosità, non si era più avvicinato da allora a Muniment. Tuttavia si
concesse di notare che la Principessa non gli aveva scritto neppure un rigo di rammarico, come usava gentilmente in
passato, quando aveva bussato alla sua porta senza trovarla. Erano già due volte che non la trovava in casa, eppure non
gli aveva mandato un cenno di disappunto, neanche di partecipazione alla sua delusione. Aveva deciso di tenersi
lontano per un poco di tempo, di fronte alla prova che lei era completamente assorbita dalle sue occupazioni. La vista di
lei che parlava con l'amico - il suo amico - di ritorno dall'escursione di cui gli aveva parlato il Principe, il ricordo della
figura incantata di Paul che varcava la soglia, non lasciava dubbi sull'intensità del suo interesse.
Milly intanto temporeggiava, alla sua proposta di finire insieme la giornata. Sorrise, è vero, e i suoi splendidi
occhi fissarono quelli di lui con aria d'indulgente meraviglia; sembravano chiedere se fosse valsa la pena - data la sua
prevedibile incredulità - citare la ragione reale che le toglieva il piacere di aderire alla sua adorabile insistenza.
Sicuramente lui l'avrebbe presa in giro, per quella spiegazione e non valeva meglio allora inventare una scusa qualsiasi
che potesse prendere come voleva, senza che lei ne rimanesse ferita? Non sappiamo la decisione presa infine da Miss
Henning; ma confessò che c'era un ostacolo alla probabilità di vedersi più tardi - la promessa di andare a trovare una
giovane donna, la sua caporeparto, costretta in casa da una nevralgia al viso, senza nessun diversivo per passare il
tempo. Le aveva promesso di tenerle compagnia per la serata e non se la sentiva di venir meno a quest'atto caritatevole.
Hyacinth non fece commenti; accettò in silenzio quelle scuse, guardando la ragazza con occhi tristi.
«So quello che ti passa per la testa!» esclamò improvvisamente Millicent. «Perché non lo dici subito e non mi
dai la possibilità di contraddirti? Non dovrebbe importarmene, ma me ne importa!»
«Smettila, smettila... non litighiamo!» disse Hyacinth in un tono supplice, stanco, che non gli aveva mai udito
prima.
Millicent si mise a ragionare: «Ho una mezza idea di raccontarle una frottola. È una vera signora, la migliore
amica che abbia - non conto gli uomini -» tirò su col naso in modo sarcastico - «e non c'è nessuno al mondo per il quale
farei una cosa simile, eccetto te.»
«No no, mantieni la promessa; non raccontar frottole a nessuno,» disse Hyacinth.
«Vedi che sei un vero gentiluomo?» rispose lei con una dolcezza che raramente traspariva nella sua voce.
«Specialmente...» cominciò Hyacinth, ma si fermò di colpo.
«Specialmente cosa? Qualcosa di offensivo, ne sono certa! Specialmente... perché non mi credi, vero?»
«Oh no! Non litighiamo!» ripeté lui.
«Litigare, amore mio? Litigherei per te!» dichiarò Miss Henning.
Dopo il tè Hyacinth si ritrovò a scegliere fra una visita a Lady Aurora e un pellegrinaggio a Lisson Grove.
Circa la prima soluzione era un poco perplesso, perché aveva il dubbio che la famiglia di Lady Aurora avesse fatto
ritorno a Belgrave Square. Tuttavia rifletté che questa non doveva essere una buona ragione per non andare a trovarla; i
suoi rapporti con lei non avevano niente di clandestino, e il suo gentile invito era stato fatto senza limitazioni. Se i suoi
altezzosi genitori erano in casa, lei probabilmente stava pranzando con loro: avrebbe corso quel rischio. Aveva già
rischiato altre volte, senza risultati disastrosi. Era deciso a non trascorrere da solo la serata, e la visita ai Poupin era una
solida alternativa, nel caso che Lady Aurora non fosse stata in grado di riceverlo.
Non appena venne aperto il grande portone di Belgrave Square capì che la casa era animata e piena di gente -
se si può parlare di animazione per un luogo che fino allora era andato sempre a coincidere con la sua idea di uno
splendido mausoleo. Era tutta soffusa di luci discrete e di alti domestici si ritrovò davanti una specie di colonnato di
statuari lacché, uno schieramento ancora più imponente del seguito della Principessa a Medley. La domanda gli morì
sulle labbra e rimase li in piedi a lottare contro quell'afasia. Era chiaro che si stava svolgendo un qualche grandioso
ricevimento, uno spettacolo in cui la sua presenza poteva soltanto stonare; e quando un grosso personaggio, non in
livrea, piegandosi verso di lui in attesa di parole che egli non pronunciò, suggerì, incoraggiante, che forse era Lady
Aurora che era venuto a trovare, egli replicò con distacco e disperazione: «Sì sì, ma non è possibile.» Il maggiordomo
non si prese la briga di reagire verbalmente a questa frase; si girò semplicemente con aria impettita per fargli strada, e
poiché due lacché, in quel momento, chiusero le due ante della porta dietro il visitatore, Hyacinth decise che era suo
dovere seguirlo. Così, passando per un corridoio, dove, nel silenzio perfetto dei servitori, udì lo scricchiolio delle sue
scarpe umili sul marmo del pavimento, si trovò introdotto in una piccola stanza, illuminata da una lampada velata, che
riconobbe - una volta rimasto solo senza altri commenti da parte della sua guida - per quella, soltanto ora più
abbondantemente decorata, delle sue precedenti visite. Lady Aurora lo fece attendere un poco, ma alla fine entrò
svolazzante, piena di ansiose, incoerenti scuse. Il suo aspetto aveva subito la stessa trasformazione dei saloni paterni:
indossava un abito dalle tinte chiare, un poco sgualcito, leggermente frusciante; il capo era ornato da una languida
piuma che finiva in minuscoli puntini rosa, e nella mano reggeva un paio di candidi guanti. Tutta la sua impetuosità
repressa era contenuta nel viso, e sorrideva quasi a prevenire qualunque scrupolo e imbarazzo del visitatore,
ammettendo francamente che la sua trasformazione e i suoi fronzoli potevano causare una forte sorpresa. Hyacinth disse
che una volta saputo del ritorno della sua famiglia sarebbe stato suo dovere ritirarsi; sapeva che le sue abitudini
sarebbero cambiate. Ma lo avevano costretto ad entrare, nonostante le sue proteste, ed era chiaro che le aveva interrotto
il pranzo. Lady Aurora rispose che nessuno che chiedesse di lei, a qualunque ora, era mai rimandato indietro; questo era
riuscito ad ottenerlo, e ne era felice. Normalmente lei non cenava - c'era tanta gente e la cena portava via tanto tempo.
La maggior parte dei suoi amici non poteva andare da lei all'ora delle visite, e non sarebbe stato giusto non poterli
ricevere mai. In questa occasione, in effetti, aveva cenato, ma la cena era finita; stava seduta lì soltanto perché era in
procinto di recarsi a una festa. I genitori avevano pranzato fuori, e lei stava in salotto con alcune sorelle. Quando erano
soli, non impiegavano troppo tempo, sebbene il dopo cena fosse lungo, quando salivano di sopra. C'era ancora tempo: la
carrozza non sarebbe giunta prima di una mezzora circa. Da mesi non andava a una festa di sera ma - forse non lo
sapeva anche lui? - qualche volta si doveva fare. Lady Aurora sentenziò che bisognava essere equi verso tutti, e che i
doveri non erano sempre gli stessi; certi, che si affacciavano sporadicamente, erano assolutamente indipendenti da altri.
Non era giusto ometterne qualcuno, ed era proprio il motivo per cui quella sera usciva. Niente d'importante, soltanto
una riunione fra parenti, una cosa che si usava fare la domenica, in una casa o nell'altra. Era lì che papà e mamma erano
andati a cena. E poiché le avevano concesso l'uso di quella stanza per qualsiasi ora - era proprio una bella comodità -
aveva deciso di andare a qualche festa di tanto in tanto, come si conveniva a una giovane rispettabile, per compiacerli:
anche se non riusciva a capacitarsi perché si rallegrassero tanto di vederla da qualche parte. Immaginava che forse così
si sventava il pericolo che la gente la giudicasse pazza e che non fosse prudente portarla in giro - il che naturalmente, è
un pensiero che nessuno gradisce per i propri parenti. Lady Aurora spiegò e si dilungò con una prolissità quasi ansiosa
parlava incessantemente, come Hyacinth non l'aveva mai udita fare prima, e il giovanotto pensò che fosse, come si suol
dire, squilibrata. Non gli sembrava verosimile che la eccitasse la prospettiva di tuffarsi di nuovo nel bel mondo che
aveva respinto, e si rese conto ben presto di averla anche lui, in qualche modo, sconvolta. Hyacinth era così acutamente
sensibile da capire che la sua presenza aveva risvegliato e smosso ricordi e ferite. Improvvisamente lei smise di parlare,
e i due rimasero lì a guardarsi in una strana, segreta comunione di dolore. Lui fece meccanicamente qualche
osservazione, spiegando in modo approssimativo la ragione della sua visita, e passati alcuni minuti gli sembrò che fosse
scattata fra loro una intesa più profonda, infinitamente profonda. Si scambiarono una tacita confessione, e ciascuno
comprese la situazione dell'altro. Non parlarono - era chiaro che non ne avrebbero parlato mai - perché si conoscevano
incapaci di degradarsi fino alla maldicenza. Inoltre il dolore che provavano era una angoscia sorda, una piega dell'anima
- non un risentimento preciso e pungente, sorretto da prove. Era nell'aria, nell'intimo affannoso battito, non si
concretizzava in un dato denunciabile in lamenti, passibile di consolazione. Per un caso singolare il destino dell'uno
sembrava trovare un corrispettivo nel destino dell'altro. Cos'altro era accaduto a entrambi se non perdere quello che né
lui né lei avevano mai avuto? Le cose erano andate male, ma se anche fossero andate bene, se la Principessa non si
fosse legata al suo amico straziandolo e straziando allo stesso tempo Lady Aurora - anche allora, quale il valore di
quella felicità, di quella conquista? Non altro che la completa sterilità. Era convinto che la singolare creatura che gli
stava di fronte non avrebbe mai avuto la possibilità di fare quel passo senza precedenti nel suo ceto, un passo che
l'avrebbe trovata pronta a lasciare per sempre Belgrave Square; Hyacinth aveva avuto modo di constatare quanto poco
una simile complicazione sorridesse a Paul Muniment, e si era fatta strada nel suo animo una certa pietà per Sua
Signoria. E anche ora, nel momento in cui maggiormente si sentiva circondato dal suo affetto e dalla sua comprensione,
si chiedeva quali ipotesi poteva aver fatto sulle future vicende di lui, nell'eventualità che non fosse stato soppiantato -
quale certezza, quale ruolo più dignitoso, quale successione soddisfacente e onorevole di eventi gli sarebbero toccati?
Erano infelici perché erano sfortunati, ed avevano tutte le ragioni per non lagnarsene.
«Oh, mi piace vedervi... mi piace parlare con voi,» disse lei semplicemente. Parlarono per un quarto d'ora, e lui
le fece la tipica visita che un qualsiasi bravo gentiluomo avrebbe reso a una gentildonna. Si scambiarono opinioni sul
ritardo della primavera, sulla mostra d'arte alla Burlington House che Hyacinth era andato a vedere pagando il suo
bravo scellino - sulla questione dell'apertura dei musei la domenica, sul pericolo di leggi troppo tenere verso la classe
lavoratrice. Lui si dichiarò lieto di vederla animata dalla volontà di divertirsi; non era normale farne a meno, e si
augurava che una volta compiuto il primo passo non si sarebbe fermata. A queste parole lei abbassò gli occhi,
sorridendo, sul suo modesto abito da sera e disse: «Forse incomincerò ad andare ai balli! Chissà?»
«È quello che sostengono i nostri amici di Audley Court, sapete... che il peggiore sbaglio che possiate fare è di
non cogliere fin che è possibile i frutti che avete.»
«Allora lo farò... Lo farò per loro!» esclamò Lady Aurora. E in quanto a questo, forse non li ho ascoltati
sufficientemente.» Fu l'unica allusione ai Muniment.
Hyacinth si alzò, si era fermato abbastanza, dato che lei doveva uscire, e mentre le tendeva la mano la guardò
come un'eroina. Avrebbe cercato di coltivare gli svaghi del suo ceto, se i fratelli di Camberwell lo ritenevano giusto -
avrebbe provato perfino a diventare una signora alla moda, per consolarsi. Paul Muniment non si curava di lei, ma lei
era capace di considerare suo dovere regolare la propria vita seguendo quei consigli stessi che aprivano un abisso fra
loro. Hyacinth non credeva al successo di quel tentativo; si figurava con gli occhi della mente la povera signorina che
tornava a casa e si spogliava delle sue piume, dopo una serata trascorsa ad osservare dall'esterno l'eccitazione della sala
da ballo, con il viso pallido, imperturbabile. «Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!» disse lui ridendo.
«Oh, non m'importa di morire.»
«A me sì, credo,» dichiarò Hyacinth mentre si voltava per andarsene. Nessuno aveva nominato la Principessa.
Era abbastanza presto per tentare una visita a Lisson Grove; calcolò che i Poupin dovevano essere ancora in
piedi. Quando raggiunse la casa vide che aveva calcolato giusto: lo sfavillio della luce alla finestra sembrava annunciare
che Madame aveva visite. Salì senza indugio - i visitatori potevano aprire liberamente il portone di casa - e dopo aver
bussato obbedì all'invito della padrona di casa di entrare. Poupin e sua moglie erano seduti ad un tavolo al centro della
stanza, in compagnia di una terza persona, intorno a una lampada a cherosene dalla luce accecante, adorna di un globo
di vetro la cui trasparenza era mitigata tutt'intorno da un semplice motivo di grappoli d'uva. La terza persona era l'amico
Schinkel, membro del gruppetto che si era recato da Hoffendahl quella tetra notte di pioggia. Nessuno disse nulla al suo
entrare; ma i tre si alzarono in silenzio, guardandolo, gli parve, come era già stato guardato prima, in altra occasione,
solo non così esplicitamente.

LIBRO SESTO

«Ragazzo mio, sei sempre il benvenuto», disse Eustache Poupin afferrando fra le sue la mano di Hyacinth e
tenendola stretta per alcuni istanti. Il nostro giovanotto ebbe immediatamente l'impressione che prima del suo arrivo
fossero intenti a parlare di lui e che avrebbero preferito continuare in pace. Gli sembrò perfino di scorgere sul volto di
Poupin quel genere di imbarazzo di chi è stato colto o interrotto nel mezzo di una cattiva azione. Ma con Poupin era
difficile stabilirlo: aveva sempre un'aria accaldata ed esaltata, tanto simile a quella di un cospiratore che sfidi l'incalzare
della giustizia. Hyacinth osservò gli altri; stavano in piedi come se avessero rimosso dal tavolo qualcosa che non
volevano far vedere, quasi fossero stati occupati a fabbricare monete false. Poupin continuò a tenergli la mano; gli occhi
ardenti del francese, fissi, imperturbabili, che sembravano sempre considerare ogni occasione, qualunque fosse, un
avvenimento importante, non gli erano mai sembrati tanto sporgenti. «Ah, amico mio, nous causions justetement de
vous » osservò Eustache come se si trattasse di un fatto straordinario.
«Oh, nous causions, nous causions...! » esclamò la moglie quasi deplorando l'enfasi della dichiarazione. «Si
può ben nominare un amico, mi pare, così per parlare, senza prendersi tanta libertà.»
«Anche un gatto può guardare il re, come dice un vostro proverbio inglese,» aggiunse Schinkel con fare
scherzoso. Sorrise con tanta convinzione della propria facezia che gli occhi gli si chiusero e disparvero - un fenomeno
che Hyacinth, che già l'aveva osservato altre volte, considerava particolarmente sgradevole, quasi un tocco ultimo alla
perfezione della sua bruttezza. Il suo volto avrebbe guadagnato molto attenendosi a una totale imperturbabilità.
«Oh, un re un re!» obiettò Poupin, scuotendo su e giù il capo. «Brutta cosa essere un re, au point ou nous en
sommes.»
«Sono venuto soltanto per augurarvi la buonanotte,» disse Hyacinth. «Temo sia piuttosto tardi per una visita,
sebbene Schinkel sembri pensare il contrario.»
«È sempre troppo tardi, mon très cher, quando vieni tu,» replicò il francese. «Sai bene che c'è sempre posto per
te al nostro focolare»
«Lo tengo in troppo conto per abusarne,» disse Hyacinth sorridendo e guardando a turno i tre.
«Ci possiamo mettere pure seduti; formiamo una bella compagnia. Mettiti vicino a me.» E il francese spinse
una sedia vicino a quella lasciata vuota poco prima, intorno al tavolo.
«Ha camminato tanto, è stanco... certamente accetterà un bicchierino,» disse con tono deciso Madame Poupin,
andando verso il vassoio contenente il piccolo servizio dorato da liquori.
«Ne accetteremo tutti uno, ma bonne; è un'ottima occasione per bere un goccio di fine,» disse il marito, mentre
Hyacinth si sedeva sulla sedia indicatagli dal padrone di casa. Schinkel si rimise al suo posto, dall'altra parte; guardava
il visitatore senza parlare, ma la sua faccia allungata continuava a distendersi in un'espressione gioiosa. Indossava una
giacca verde che Hyacinth gli aveva già visto; era un indumento da cerimonia che il nostro giovane riteneva fosse
impossibile trovare a Londra, di quei tempi. Era di marca prettamente tedesca, e di foggia antica, con un collo alto,
rigido e goffo che gli arrivava agli orecchi e nascondeva quasi del tutto la sua eterna benda. Quando Hyacinth si fu
seduto, Eustache Poupin rimase discosto dalla propria sedia e in piedi dietro di lui gli posò una mano sul capo. A quel
contatto Hyacinth provò qualcosa che gli fece salire il cuore in gola. Il pensiero che lo attraversò - suggeritogli da tutto
l'atteggiamento di Poupin, dalla sua carezza intenzionalmente rassicurante e dall'improvvisa, impacciata offerta di bere
qualcosa da parte della moglie, spiegava l'imbarazzo del piccolo gruppo e richiamò il nostro eroe all'impegno assunto
con se stesso di mantenere la massima calma quando fosse giunta, nel suo destino, una certa crisi. Ebbe la sensazione
che quella crisi fosse nell'aria, vicinissima - che se avesse fatto una sola mossa avrebbe potuto toccarla. La pressione
della mano del francese, intesa a mitigarla, non era altro che un avvertimento. Mentre guardava Schinkel, provò un
giramento di testa e un poco di nausea; per un istante ebbe la sensazione che la stanza gli vorticasse intorno. L'impegno
di starsene calmo gli sembrò molto facile da mantenere: non avrebbe potuto fare altrimenti; neppure pronunciare una
parola. Sapeva che la voce gli sarebbe tremata ed evitò di rispondere alle smielate parole pronunciate da Schinkel, dopo
un attimo di esitazione: «Also, mio caro Robinson, hai passato bene la domenica? Hai trascorso una felice giornata?»
Perché erano tutti così subdolamente miti? I suoi occhi interrogarono il tavolo, ma incontrarono soltanto una superficie
lustra, levigata negli anni ai gomiti conviviali del francese e di sua moglie, e dal sudicio mazzo di carte dei «solitari»
della signora - evidentemente quando Schinkel era entrato lei era appunto impegnata in questo svago - che dava un poco
l'impressione che dei giocatori sorpresi sull'atto avessero fatto scomparire in fretta la posta. Madame Poupin, tuffandosi
in un armadio, ne emerse con una bottiglia di chartreuse verde, apparizione che fece esclamare al tedesco: «Lieber Gott,
voi vrancesi, voi vrancesi, come vi arrangiate sempre, voi! Che volete di più?»
La padrona di casa servì il liquore, ma il nostro giovane non riuscì a mandarlo giù, e lasciò che i suoi amici se
lo godessero da soli. La sua indifferenza verso una cosa tanto prelibata provocò discussioni e congetture, e quegli altri si
misero a scambiare teorie e confutazioni e perfino scherzi innocui, sopra il suo capo - e tutto con un cambiamento di
umore che gli sembrò artificioso. Secondo Poupin e Schinkel un uomo che non si leccava i baffi per un goccio di quel
liquore doveva essere ridotto proprio male: o era innamorato o lo tormentava qualche cruccio ancora più insidioso. Vero
che Hyacinth era sempre innamorato - non era certo un segreto per i suoi amici - ma non si era mai visto che l'amore gli
avesse tolto la sete. La francese disdegnò tale punto di vista, dichiarando che quella tenera passione aveva casomai
l'effetto di far apprezzare di più le gioie del convivio - quando tutto andava per il giusto verso, bien entendu ; e come si
poteva rimanere sordi alle parole insinuanti di una persona tanto attraente - e a comprova di quanto detto confessò che
non aveva mai mangiato e bevuto con maggior gusto di quando (oh, tanto tempo fa, ormai) si era sentita tutta presa di
quel furfante di suo marito. Per Madame Poupin chiamare «furfante» il compagno delle sue tribolazioni era sintomo di
grandissima euforia. Hyacinth sedeva guardando la tavola vuota sentendosi in qualche modo un testimone distaccato,
irresponsabile del proprio destino. Alla fine alzò gli occhi e disse a tutti i suoi amici insieme: «Che sta succedendo? Che
diavolo avete tutti?» Fece seguire alla domanda l'invito a rivelargli cosa avevano detto di lui, dal momento che, secondo
la loro ammissione, era stato l'argomento della loro conversazione. Madame Poupin rispose a nome di tutti che avevano
semplicemente parlato di quanto lo amavano, ma gli avrebbero tolto il loro affetto se fosse diventato sospettoso e
grincheux! Aveva fatto le carte al signor Schinkel e se Hyacinth voleva, le avrebbe fatte anche a lui. Per il signor
Schinkel non era saltato fuori molto, soltanto che un giorno avrebbe trovato una cosa che aveva perduta, ma che
probabilmente l'avrebbe persa di nuovo, e tanto peggio per lui! Schinkel aveva obiettato che non aveva mai posseduto
nulla che potesse perdere, né prevedeva che si sarebbe mai verificato, ma quella era un'osservazione sciocca perché si
stava avvicinando a gran passi l'ora in cui tutti avrebbero posseduto qualcosa - c'era da sperare però che Schinkel,
allora, se la sarebbe tenuta stretta. Eustache rimproverò la moglie per la sua leggerezza, rammentandole che il loro
giovane amico non aveva nessun interesse per i giochetti di una vecchia, e si dichiarò convinto che Hyacinth fosse
venuto a parlare di tutt'altro: della faccenda - visto che era così gentile da prenderla a cuore, come aveva sempre fatto
per ogni cosa che li riguardava - di quali condizioni Monsieur Poupin avrebbe posto a Croock nell'accettare - cosa che
faceva per un dovere verso se stesso, la propria dignità è un giusto ma non esagerato senso del proprio valore - il posto
di capomastro nella ditta di Soho; offerta che non era stata ancora avanzata formalmente, ma che era palesemente
nell'aria e che sarebbe arrivata - così almeno sembrava - da un giorno all'altro. L'attuale titolare aveva intenzione, ora
che era vecchio, di mettersi in proprio. Il francese annunciò che prima di accettare una simile proposta avrebbe dovuto
avere delle garanzie più che sicure: «Il me faudrait des conditions très particulières.» A Hyacinth sembrava irreale che
Monsieur Poupin parlasse con tanta disinvoltura di queste belle prospettive mentre il baratro che divideva lui dal futuro
si era improvvisamente duplicato. I padroni di casa gli sedevano uno da una parte e uno dall'altra, e Poupin fece un
quadro a fosche tinte della situazione di Soho, elencando alcuni elementi disfattisti che intuiva stessero operando
nell'azienda e coi quali non sarebbe venuto a patti a meno di non possedere carta bianca. Lo capiva Schinkel?... E allora
perché rideva? Lo capiva Schinkel che il povero Eustache era vittima di una esaltazione assurda e che non c'era la
minima probabilità che gli fosse offerto quel posto di responsabilità? Gli era più difficile oggi fronteggiare gli operai
inglesi di quanto fosse stato, all'inizio, lavorare accanto a loro, e il vecchio Crook non si era mai sbagliato in vita sua,
per lo meno nel maneggiare i suoi arnesi. Hyacinth rispondeva a malapena e meccanicamente, e alla fine smise di far
mostra di partecipare alla conversazione del suo ospite.
«Ci sono delle novità... delle novità sul mio conto, che tu conosci,» esplose d'un tratto, rivolto a Schinkel.
«Non ti garba, non ti garba dovermele dire, e sei venuto a chiedere ai nostri amici di aiutarti. Ma non credo che ti
aiuteranno molto, poveretti! Perché ti preoccupi? Non te ne dovrebbe importare più di quanto importi a me. Ma non è
questo il modo di fare.»
«Qu'est-ce qu'il dit, qu'est qu'il dit, le pauvre chéri?» chiese ansiosamente Madame Poupin, mentre Schikel
guardava fisso il marito, quasi a chiedere una direttiva.
«Mio caro ragazzo, vous vous faites des idées!» esclamò quest'ultimo posando di nuovo la mano in atto
carezzevole sul suo giovane amico. Ma Hyacinth spinse indietro la sedia e si alzò. «Se avete qualcosa da dirmi è una
crudeltà da parte vostra farmelo capire così, come avete fatto, senza soddisfare la mia curiosità.»
«Perché dovrei avere qualcosa da dirti?» gemette quasi Schinkel.
«Non lo so - eppure sento che è così. Io le cose me le immagino, le indovino subito. È sempre stata una mia
caratteristica, e oggi ancora di più.»
«Non c'è dubbio, è una cosa fantastica,» ammise debolmente Schinkel.
«Signor Schinkel, volete farmi la cortesia di andarvene... non m'importa dove... fuori di questa casa?» proruppe
in francese Madame Poupin.
«Sì, sarà meglio, e io vengo via con te,» disse Hyacinth. «Se te ne andassi, ragazzo mio, mi faresti un grande
favore,» replicò Poupin parlandogli in tono indulgente, come a perdonargli quello sfogo. «Non vuoi renderci giustizia e
credere che puoi lasciare tranquillamente i tuoi interessi nelle nostre mani?»
Hyacinth dibatté la questione in perfetta semplicità; era ormai chiarissimo che Schinkel aveva una qualche
comunicazione da fargli e la curiosità di sapere quale fosse era divenuta insostenibile. «Mi meraviglio della vostra
debolezza,» disse a Poupin con tutta la fermezza di cui era capace.
Il francese lo guardò fisso e poi gli si attaccò al collo: «Sei sublime, amico mio... sei veramente sublime!»
«Vuoi essere tanto gentile da dirmi che cosa hai intenzione di fare a quel giovanotto?» chiese Madame Poupin
gettando uno sguardo feroce a Schinkel.
«Non sono affari suoi, mia povera signora» replicò Hyacinth sottraendosi alla stretta del marito. «Schinkel,
vorrei che venissi via con me.»
«Calmons-nous, entendons-nous, expliquons-nous! È una cosa semplicissima,» continuò Poupin.
«Certo che vengo, se ti fa piacere,» disse Schinkel ossequiosamente.
«Allora mi darete prima quella lettera, quella sigillata,» ordinò al tedesco Madame Poupin, alzandosi.
«Moglie mia, sei bien sotte! » mugolò Poupin, alzando le braccia e voltandosi.
«Sarò quel che vuoi ma non voglio essere una complice... no, dio mi aiuti, non di questo!» protestò la brava
donna, piantandosi davanti a Schinkel per impedirgli di muoversi.
«Se hai una lettera per me, diavolo, potresti anche darmela!» disse Hyacinth a Schinkel.
«Non hai nessun diritto di darla ad altri.»
«Te la porto a casa, mio buon amico,» replicò Schinkel con uno stolto ammiccamento che sembrava alludere
alla necessità di tener conto di Madame Poupin.
«A casa sua... ci vado io a casa sua!» urlò la signora. «Ti considero - ti ho sempre considerato un figlio mio,»
continuò rivolta a Hyacinth, «e se non è questa l'occasione per una madre...!»
«Siete voi che la state facendo diventare un'occasione straordinaria. Non so cosa stiate dicendo,» disse
Hyacinth.
Aveva cercato di scrutare la faccia di Schinkel e gli era parso di scorgervi una strana, convulsa, onesta supplica
di fidarsi di lui. «Forse è meglio che vi tolga il disturbo.»
Poupin si era voltato di nuovo: afferrò per un braccio, con forza, il giovanotto, come per impedirgli di
andarsene portando con sé un'idea falsa. «Come te ne può importare, quando sai benissimo che è tutto cambiato?»
«Che volete dire... che tutto cambiato?»
«Le tue idee, le tue predilezioni, tutto il tuo atteggiamento. Non lo approvo... Je le constate. Hai tolto la fiducia
al popolo, hai detto cose, proprio lì dove sei ora, che ci hanno addolorato molto, me e mia moglie.»
«Se non fosse per il bene che ti vogliamo potremmo dire che ci hai tradito orribilmente!» disse lei ribadendo il
concetto del marito.
«Oh ma io non vi tradirò mai orribilmente,» disse Hyacinth con un sorriso un poco languido.
«Non ci denuncerai mai... naturalmente. Ma non hai alcun diritto di agire in nome del popolo quando hai
cessato di credere nel popolo. Il faut etre conséquent, nom de Dieu! » continuò Poupin.
«Scordati di agire in nome mio... je ne permets pas ça!» aggiunse pomposamente sua moglie.
«Forse non si tratta di nulla d'importante... solo una parolina di considerazione,» suggerì Schinkel rassicurante.
«Ti ripudiamo, ti rinneghiamo, ti denunciamo!» urlò Poupin con superbo impeto.
«Amici miei, siete voi che avete trasceso, non io,» disse Hyacinth. «Vi sono molto grato per la vostra premura,
ma siete voi ad essere incoerenti. In ogni modo, buonanotte.»
Voltò le spalle e stava per lasciare la stanza quando Madame Poupin si gettò su di lui, come aveva fatto poco
prima suo marito, ma in silenzio e con straordinaria veemenza e disperazione. Essendo massiccia e poderosa riuscì ad
avere la meglio e se lo strinse sull'ampio seno in un lungo, muto abbraccio.
«Non capisco cosa vogliate da me,» disse Hyacinth non appena riuscì a parlare. «Sta a me giudicare le mie
opinioni.»
«Vogliamo che tu non faccia nulla perché lo sappiamo, che sei cambiato» insistette Poupin. «Forse che non
salta agli occhi, non lo si legge nel tuo sguardo e in ogni respiro che ti esce dalle labbra? È soltanto per questo, perché
questo cambia tutto.»
«Cambia forse anche il mio voto solenne? Ci sono cose che uno non può cambiare. Io non ho promesso di
credere... ho promesso di obbedire.»
«Vogliamo la tua sincerità - è quella la cosa principale,» disse Poupin in tono moralistico. «Andrò a trovarli -
farò in modo che comprendano.»
«Avresti dovuto farlo prima!» proruppe la sua povera moglie.
«Non so di chi stiate parlando, ma io non permetterò a nessuno di mischiarsi nelle mie faccende.» Hyacinth ora
parlava con foga; quella scenata era tremenda, i suoi nervi non erano in condizione di sopportarla.
«Quando è in ballo Hoffendahl non serve a niente impicciarsi,» aggiunse Schinkel in tono grave.
«E chi è mai Hoffendahl, e di quale autorità è investito?» domandò Madame Poupin, che aveva capito. «Chi lo
ha messo al di sopra di noi? È possibile che ci rimanga soltanto di prostrarci nella polvere davanti a lui? Si sbrighi da
solo i suoi piccoli affari, invece di affibiarli a fanciulli innocenti, stiano per noi o contro di noi quei poveretti.»
Queste proteste si erano spinte al punto che Poupin sentì il dovere di riportare la conversazione su un piano più
dignitoso. «Non ha altra autorità che quella che gli riconosciamo; ma sai bene quanto lo rispettiamo perché è uno dei
puri, ma bonne. Hyacinth si può regolare esattamente come gli pare; lo sa quanto noi, come sa che nessuno gli fa la più
lieve pressione; sa anche che per parte mia avevo smesso da tempo di aspettarmi qualcosa da lui.»
«Certo che non è obbligato,» disse Schinkel. «Si tratta di prendere o lasciare. Però è con loro che bisogna fare i
conti.»
Hyacinth rimase lì in piedi davanti a quei tre ad occhi bassi. «Naturalmente posso fare come mi pare e quel che
mi pare è quello che farò. E poi, che andiamo blaterando con tanta improvvisa passione?» chiese, alzando gli occhi.
«Non ho mandati, non un segno, non un ordine. Quando mi chiameranno ci sarà tempo per discuterne. Che mi chiamino
o no, non è affar mio.»
«Ganz gewiss, non è affar tuo,» disse Schinkel.
«Non riesco a capire perché Monsieur Paul non abbia fatto nulla, in tutto questo tempo, sapendo che ora le
cose avevano preso una piega diversa» buttò là Madame Poupin. «Sì, ragazzo mio, non lo capisco il nostro amico,»
osservò il marito, guardando Hyacinth con occhi sospettosi.
«Non sono affari suoi come non sono affari nostri; non sono affari di nessuno!» osservò onestamente Schinkel.
«Muniment riga dritto; la cosa migliore che possiate fare è imitarlo» disse Hyacinth cercando di scavalcare
Poupin che si era messo davanti alla porta.
«Promettimi almeno questo - che non farai nulla senza dirmelo,» supplicò il francese in tono quasi doloroso.
«Mio povero vecchio amico, siete molto debole,» e Hyacinth aprì la porta e uscì, nonostante quello tentasse
d'impedirglielo.
«Ah bene, se sei dalla parte nostra, questo mi basta!» Hyacinth lo sentì urlare da cima alle scale, con voce
diversa, con un timbro improvvisamente forte, istrionico.
II

Hyacinth si era precipitato giù per le scale ed era uscito senza però la minima intenzione di perdere di vista
Schinkel. Lo strano comportamento dei Poupin lo aveva sorpreso e innervosito e voleva scuotersi di dosso
quell'impressione. Era sinceramente sorpreso della preoccupazione che, bontà loro, sembravano nutrire per lui, dal
momento che non li aveva visti recedere dalla loro convinzione che la cambiale firmata a Hoffendahl sarebbe mai stata
pagata. Che cosa aveva potuto dire e fare, dopotutto, perché si sentissero in dovere di appiccicargli addosso il marchio
dell'apostata? Aveva sempre criticato liberamente ogni cosa, e non c'era da meravigliarsi se talvolta, anche nel piccolo
ritrovo di Lisson Grove, si fosse espresso in modo consono ai suoi principi di libertà; soltanto con la Principessa si era
veramente permesso di attaccare le viscide classi «inferiori» e di dar sfogo a tutto il suo scetticismo. Avrebbe
considerato inopportuno mostrare disprezzo per le opinioni dei suoi amici stranieri ai quali era legato da ricordi che
glieli rendevano inviolabili; e poi, per Hyacinth, cambiare parere era un naturale procedimento, un'occasione per
mettere a tacere la pubblicità, una forma di riservatezza a ritroso: non poteva assolutamente eccitare né aggressività né
giubilo. Di fronte alla scoperta dell'altra faccia della medaglia non si ha voglia di vantare il proprio acume - neppure
quando le nuove convinzioni proiettino ombre interpretabili come spettri del passato.
Indugiò in strada, un poco discosto dalla casa, tenendo d'occhio l'uscita, disposto a rimaner lì ad aspettare
Schinkel fino all'alba se fosse stato necessario. Aveva appena finito di dire al terzetto sovreccitato che non lo
riguardavano le modalità scelte per trasmettergli quella comunicazione che loro vedevano così di malocchio - che
fossero cioè semplici o complicate. In teoria questo era vero, ma in realtà aveva il desiderio impellente di sapere che
cosa intendesse Madame Poupin quando aveva alluso a una busta sigillata destinata a lui, che era in possesso di
Schinkel - allusione che aveva ricevuto conferma dall'assenso di Schinkel. Era stata tale urgenza a fargli lasciare
frettolosamente la casa, perché aveva buone ragioni di credere che il tedesco non l'avrebbe deluso, e nella sua ansia era
pieno di rancore contro quegli sciocchi Poupin che facevano di tutto per mettersi in mezzo e intralciare la consegna
della missiva. Attese a lungo nella certezza che Schinkel stesse trattando con loro con la sua lenta categorica flemma
tedesca, e gli rimproverava solo di avere tergiversato nella sua sacrosanta consegna. Perché non lo aveva cercato
direttamente, qualunque fosse il misterioso documento, invece di andare a parlarne con quegli inconcludenti francesi? I
passanti, a quell'ora, erano radi a Lisson Grove, e la maggior parte delle luci erano spente; non c'era nulla da guardare,
all'infuori delle case basse e nere, dei fiochi lampioni alternati, dei gatti vagabondi che di tanto in tanto sfrecciavano
attraverso la strada, e delle lontanissime stelle tremendamente misteriose, che gli apparivano più che mai sapienti della
umana impotenza e rigidamente restie a porgere aiuto. I passi di un poliziotto scricchiolarono dal lato opposto della via;
lo guardò, passando, e poi si fermò per qualche istante all'angolo, come per tenerlo d'occhio. Hyacinth ebbe tutto il
tempo di riflettere che forse non era lontano il giorno in cui un poliziotto lo avrebbe tenuto d'occhio per una ragione
seria - e avrebbe camminato avanti e indietro, avanti e indietro, montando la guardia per lui.
Forse passò solo mezzora prima che Schinkel uscisse, ma gli sembrò un'eternità. Nell'immobilità della strada
udì Poupin che accompagnava alla porta il suo ospite, e a quel rumore Hyacinth indietreggiò nella rientranza di una
porta, sullo stesso lato della strada, così che, guardando fuori, il francese non potesse vederlo. Ci fu un altro indugio,
perché i due rimasero a chiacchierare all'infinito sulla soglia, ma senza che si potesse afferrare nulla della
conversazione. Alla fine però Poupin rientrò in casa e Schinkel s'incamminò nella direzione che il nostro amico,
sapendo per caso da che parte abitasse, aveva intuito. Quando ebbe udito rientrare Poupin, si fermò e guardò in su e in
giù: era chiaro che pensava che Hyacinth lo stesse aspettando. Il nostro eroe uscì dall'esigua rientranza contro la quale si
era appiattito, e andò dritto verso di lui e i due uomini rimasero lì, faccia a faccia, nella strada buia, vuota, sordida.
«Non gli hai mica dato la lettera?» «Oh, no, me la sono tenuta,» disse Schinkel, mentre gli occhi gli diventavano più che
mai due punti invisibili. «Allora non ti pare che dovresti darmela?» «Si vedrà... si vedrà» Schinkel non fece nessun
gesto per contentarlo ma continuò a tenere le mani nelle tasche dei pantaloni con l'aria esasperante di chi pensa di avere
tutta la notte davanti. Per essere uno degli «scatenati» era intollerabilmente ligio all'ordine. «Perché si vedrà? Non l'hai
già contemplato abbastanza tutta la sera, con quella gente? Che cosa hanno a che fare loro con la lettera? E che diritto
hai tu di tenerti una cosa che mi appartiene?» a Erlaubensiel: fammi accendere la pipa» rispose semplicemente il
tedesco; e si dedicò meticolosamente a quella faccenda, mentre la luce del fiammifero sfregato contro la ringhiera
arrugginita lì presso, rivelava la faccia pallida, eccitata di Hyacinth. «Non sarà tua finché non te l'avrò data,» continuò
Schinkel, mentre proseguivano. «Pazienza, e te lo dirò,» aggiunse nel suo inglese storpiato prendendo sotto braccio il
compagno. «La tua strada non è questa? Andremo verso il parco.» Hyacinth fece appello alla sua pazienza e si
concentrò sulle parole che Schinkel aggiunse: «Lei ha tentato di prenderla; mi ha aggredito con le mani. Ma non ero
andato lì per questo, per consegnarla a loro.» «Ma è pazza? Non li riconosco più!» - si scandalizzò Hyacinth. «No ma ti
vogliono bene.» «E allora, perché cercano di disonorarmi?» «Non lo prendono per un disonore, dal momento che sei
cambiato.» «Questo può valere per lei, ma è penoso da parte di lui, e sono esterrefatto.»
«Oh, lui ha capito, e ha cercato di aiutarmi, scansando la moglie. È stato uno shock,» disse Schinkel.
«Non avresti dovuto traumatizzarli, mio caro,» continuò Hyacinth
«Io stesso ero scosso... mio malgrado.»
«Dio come siete tutti eccitabili!» Era sempre più conscio, ora, di poter contare su una sua superiorità.
«La prendi bene. Io ne sono molto addolorato. Ma è una bella occasione,» continuò Schinkel, fumando a tutto
spiano.
Per un poco sembrò assorbito dalla sua pipa, così che dopo una pausa Hyacinth riprese: «Abbi la bontà di
ricordarti che in tutto questo frangente non ho ancora la minima idea di che stai parlando.»
«Beh, è successo questa mattina presto,» disse il tedesco. «Sai, al mio paese non poltriamo nel letto fino a
tardi, e quel che si usa al mio paese cerco di farlo dovunque: mi pare che sia giusto. D'inverno naturalmente mi alzo
molto prima del sorgere del sole, e d'estate quasi alla stessa ora. Vedrei il bello spettacolo dell'alba, se a Londra fosse
possibile vederlo. La prima cosa che faccio la domenica è quella di fumare la pipa alla finestra, che dà sulla strada,
ricordi, una stradina sporca. A quell'ora non c'è nulla da guardare - voi inglesi siete così lenti a lasciare il vostro letto.
Comunque c'è poco da vedere a tutte le ore; la mia non è una strada importante. Ma la prima pipa della giornata è quella
che mi godo di più, non desidero altro mentre la fumo. Guardo fuori la nuova, fresca luce del giorno - anche se a Londra
non è poi tanto fresca - e penso che sta per iniziare una nuova giornata. Mi chiedo che cosa porterà quella giornata - se
porterà qualcosa di buono per i poveri diavoli come noi. Ma ne ho viste passare tante, senza che succedesse niente.
Questa mattina, doch, è successo qualcosa - per lo meno per te. Dal lato opposto della strada ho visto un giovanotto che
stava dritto davanti a casa mia e guardava la finestra. Mi ha fissato senza cerimonie, e io ho continuato a fumare la pipa
e a guardarlo. Mi sono domandato cosa volesse, ma lui non ha fatto nessun cenno e non ha detto parola. Era un giovane
molto a posto; aveva un ombrello e portava gli occhiali. Siamo rimasti così, faccia a faccia, forse un quarto d'ora, e alla
fine ha tirato fuori l'orologio - aveva anche quello - e l'ha tenuto in mano guardandolo ogni tanto, come per farmi capire
che non aveva intenzione di dedicarmi l'intera giornata. Allora m'è venuta l'idea che volesse parlarmi! Tu l'avresti capito
subito, ma noi tedeschi siamo un poco lenti. Però, una volta che abbiamo capito, ci mettiamo subito in moto; così gli ho
fatto un cenno per indicargli che sarei sceso. Mi sono messo giacca e scarpe perché avevo indosso soltanto la camicia e
le calze, e anche, si capisce, i pantaloni - e sono sceso in strada. Appena mi ha visto arrivare si è allontanato lentamente,
ma fatti pochi passi si è messo ad aspettarmi. Quando mi sono avvicinato ho visto che era proprio un ragazzo a modo -
giovanissimo e col viso aperto, cordiale. Era impeccabile e aveva i guanti e un ombrello di seta. Mi è piaciuto
moltissimo. Mi ha detto che dovevo girare l'angolo e così abbiamo girato l'angolo. Credevo che lì ci sarebbe stato
qualcuno ad aspettarci; ma niente - soltanto i negozi chiusi e il chiarore del primo mattino e una nebbiolina primaverile
che prometteva una bella giornata. Non sapevo cosa volesse; forse si trattava della nostra causa - è quello che ho
pensato da prima - o forse era solo uno scherzo. Sono rimasto perciò un poco guardingo. Non l'ho invitato a salire a
casa. Gli ho detto però che doveva perdonarmi se non avevo capito subito che voleva parlarmi; ha risposto che non
aveva importanza - che avrebbe aspettato anche tutto il giorno il momento di vedermi. Ho replicato che ero lieto di
avergli risparmiato almeno quell'incomodo, e la nostra conversazione si è tenuta su un tono molto educato. Era proprio
un giovane amabilissimo. Ma tutto quello che voleva era mettermi in mano una lettera; come ha detto lui stesso era
soltanto un bravo postino privato. Mi ha dato la lettera - che non recava nessun indirizzo; e quando l'ebbi presa, gli ho
chiesto come sapeva di non correre il rischio che non fossi il destinatario giusto di quella lettera. Ma questo non l'ha
scomposto: ha detto che sapeva tutto ciò che doveva sapere - che sapeva esattamente quello che doveva fare e come.
Credo che sia un compagno prezioso. Gli ho chiesto se la lettera esigeva risposta, e lui m'ha detto che questo non lo
riguardava: doveva soltanto metterla nel le mie mani. M'ha raccomandato di aspettare a leggerla finché non fossi
rientrato a casa. Abbiamo chiacchierato ancora un poco - sempre cordialmente; e lui ha detto che era venuto così di
buon ora perché temeva che arrivando tardi potessi esser uscito, e anche perché aveva un mucchio di cose da fare e
doveva approfittare del poco tempo a disposizione. In effetti aveva proprio l'aria di chi è indaffarato... e con un ottimo
impiego. Devo aggiungere che ha parlato sempre in inglese pur non essendo inglese; pronunciava le parole come se le
avesse imparate alla perfezione: era chiaro che aveva imparato tutto alla perfezione. Non credo fosse tedesco -
altrimenti mi avrebbe parlato in tedesco. Ma ce ne sono tanti, qui, di altri paesi! Gli ho detto che se aveva molto da fare
non l'avrei trattenuto oltre; sarei tornato in camera mia a leggere la lettera. Ha risposto che non era importante. E allora
gli ho chiesto se voleva entrare anche lui a riposarsi. Ho aggiunto che il mio alloggio non era molto bello - perché lui
aveva l'aria di abitare in una casa molto confortevole. Poi ho capito che intendeva dire che non era importante che
continuassimo a parlare, e se ne andò senza neanche fare la mossa di stringermi la mano. Non so se avesse altre lettere
da consegnare ma se ne andò, ripeto, come un postino che fa il suo giro, senza darmi altre informazioni.»
Ci volle molto a Schinkel, per raccontare questa storia - nella sua pignoleria e flemma non si curava della
spasmodica curiosità che poteva accendere nell'ascoltatore. Procedeva passo passo a delucidare ogni dettaglio come se
fossero tutti ugualmente interessanti per il suo compagno. Questi non fece alcun tentativo per incalzarlo, e a dire il vero
ascoltò con eccezionale paziente concentrazione: di fatto era molto interessato alla cosa e inoltre sapeva che non doveva
temere nulla da Schinkel, il quale, alla fine avrebbe appagato la sua curiosità. Non voleva irritarlo col mettere
condizioni, anche se aveva commesso l'errore, giustificabile del resto di discutere la faccenda a Lisson Grove. Poco a
poco Hyacinth apprese che, tornato nella sua stanza e aperto il plico che gli era stato consegnato, il signor Schinkel si
era trovato di fronte due oggetti distinti: uno, una lettera chiusa, con sopra il nome del nostro giovane, e l'altro, un foglio
di carta contenente la richiesta, in tre righe, che nel giro di due giorni consegnasse la lettera al «giovane Robinson». Le
tre righe in questione erano firmate D.H., e la lettera era scritta con la stessa grafia. Era di pugno - un pugno nitidissimo
in tutti i suoi svolazzi - di Dietrich Hoffendahl. «Bene, bene,» disse, appoggiandosi al braccio di Hyacinth come per
consolarlo. «Ti accompagnerò fino alla porta di casa tua e te la darò lì, a meno che tu non preferisca che la tenga io fino
a domattina, per poter dormire tranquillo - voglio dire nel caso contenga qualcosa di spiacevole. Ma probabilmente non
è niente d'importante
forse si tratta soltanto di due parole per dirti di non pensare più al tuo progetto.»
«E perché poi?» chiese Hyacinth.
«Può darsi che abbia sentito dire che ti sei raffreddato.»
«Che mi sono raffreddato? ,- Il nostro eroe lo fermò bruscamente; erano appena arrivati in cima a Park Lane.
«Ho forse autorizzato qualcuno a dire una cosa simile?»
«Ah, bene, se non l'hai fatto, tanto meglio. Allora sarà per un altro motivo.»
«Non fare l'idiota Schinkel,» riprese Hyacinth mentre s'incamminavano. E dopo un attimo continuò:»Per quale
motivo sei andato a confabulare coi Poupin?»
«Perché ho pensato che avrebbero avuto piacere di saperlo. E poi mi pesava questa responsabilità; e mi
sembrava che l'avrei sopportata meglio se lo sapevano anche loro. E poi, io sono come loro... ti voglio bene.»
Hyacinth non rispose alla dichiarazione; disse soltanto, un minuto dopo: «Perché il tuo giovanotto non ha
portato direttamente a me la lettera?»
«Ah, non gliel'ho chiesto! Forse non si tratta di un motivo complicato, ma ovvio - quelli che l'hanno scritta
conoscevano il mio indirizzo e non il tuo. Non sono stato uno di quelli che hanno garantito per te?»
«Sì, ma non il più importante. Il più importante era Paul Muniment. Perché questa comunicazione non mi è
stata fatta tramite Paul Muniment?» E capi che nei suoi pensieri quella domanda sarebbe diventata sempre più
ossessiva.
«Mio caro Robinson, vuoi sapere troppe cose. Stai certo che una buona ragione c'è sempre. Anch'io avrei
preferito... si... che avessero scelto Muniment. Ma se non lo hanno fatto...!» E con ciò, la chiarezza di Schinkel venne
meno e andò a perdersi in una densa nuvola di fumo.
«E allora, se non lo hanno fatto...?» insisté Hyacinth.
«Sei tu che sei un grande amico suo... Che posso dirti io?»
Hyacinth lo guardò con la coda dell'occhio e colse negli occhietti miti del compagno uno sguardo ambiguo,
evasivo. «Se hai qualcosa da dire contro di lui, proprio perché sono suo amico sono anche l'uomo più adatto a sentirla.
Posso difenderlo.»
«Mah, è probabile che non siano soddisfatti.»
«Che significa, che non siano soddisfatti?»
«Come dire... che non si fidino di lui.»
«Non si fidano? E invece si fidano di me!»
«Ah, ragazzo mio, stai pur certo che i motivi ci sono,» replicò Schinkel. E subito dopo aggiunse: «Sanno
tutto... tutto, sono come il grande dio dei credenti: scrutano i cuori, e non solo i cuori, ma la vita intera degli individui...
le giornate, le notti, le parole dette e non dette. Oh, scavano in profondità e vanno dritti allo scopo.»
I due percorsero in silenzio il resto della strada; Hyacinth era rimasto colpito da una frase sfuggita al suo
compagno mentre rispondeva alla sua domanda su quale fosse stato il commento di Eustache Poupin quando Schinkel
quella sera gli aveva esposto il motivo per cui era andato a trovarlo: «Il vaut du galme... il vaut du galme» era stata la
versione tedesca delle parole del francese, e Hyacinth ripeteva fra sé e sé quelle parole parecchie volte quasi con lo
stesso accento. Avevano un certo effetto sedativo. In effetti il buon Schinkel, in qualche modo, era stata una compagnia
salutare: il nostro eroe se ne accorse quando alfine si trovarono di fronte alla porta del suo alloggio a Westminster, e
rimasero lì faccia a faccia mentre Hyacinth indugiava... indugiava. L'impazienza pungente era sfumata ed egli
osservava, per nulla irritato, i gesti amorevoli con cui il suo compagno, scrollata la cenere dalla grossa pipa consumata
fino in fondo e con tanta foga, riponeva l'oggetto nel suo astuccio. Terminata questa cerimonia con la consueta cura dei
particolari, soltanto allora disse: «Also, e ora la lettera,» e infilata una mano all'interno del panciotto estrasse la fatale
missiva. Questa passò istantaneamente nella presa di Hyacinth, e il nostro giovane la trasferì nella propria tasca senza
guardarla. Gli parve di cogliere una certa delusione sul brutto volto bonario di Schinkel, quando capi che non sarebbe
venuto a conoscenza - nessun sollievo, almeno per il momento - del suo contenuto; ma preferì questa soluzione
piuttosto che riascoltare una consolatoria quanto sciocca interpretazione del messaggio. Questa volta Schinkel ebbe
l'intelligenza o il buon gusto di non ripetere quel commento, e mentre la lettera stava li premuta contro il cuore,
Hyacinth se la sentiva penetrare dentro distintamente, non come un inutile balsamo alla sua apprensione, ma come un
coltello letale. L'amico disse semplicemente: «Ora che ce l'hai, sono contento.» «più facile, per me,» e abbozzò un
sorrisetto forzato.
«Lo credo bene!» esclamò Hyacinth. «Se non avessi fatto il tuo dovere l'avresti pagata cara.»
Schinkel borbottò qualche parola accomodante senza accennare ad andarsene; poi, quando Hyacinth si voltò e
mise la chiave nella toppa, esclamò all'improvviso: «E se tu non farai il tuo, la pagherai anche tu.»
«Sì, come dici tu, loro vanno dritti allo scopo! Buonanotte,» e il nostro giovane entrò in casa.
Il corridoio e la scala erano sempre al buio, e i pensionanti o cercavano a tentoni, con l'infallibilità
dell'abitudine, la strada del letto, o strofinavano sul muro un fiammifero trovato a caso che, nell'oscurità appena meno
fitta durante il giorno, produceva come un'immensa, cruda lacerazione. La stanza di Hyacinth era al secondo piano, sul
retro, e avvicinandosi notò con sorpresa una luce che filtrava dalla fessura inferiore della porta, la cui imperfetta
connessura sembrò terribilmente squallida. Si fermò a considerare l'ulteriore novità venuta a inserirsi in quel momento
critico, e il primo impulso fu di collegarla con la storia che Schinkel gli aveva or ora presentata - che altro poteva
accadergli che non facesse parte della stessa faccenda - non c'era da meravigliarsi che lo stesse aspettando lì un qualche
altro fatale evento. Pensò anche che forse, quando era uscito dopo il tè per andare da Lady Aurora, aveva lasciato accesa
la candela di sego, e la padrona di casa - che sapeva così parca per conto proprio - aveva dato prova di cinismo non
entrando a spegnerla. Alla fine gli balenò che in sua assenza c'era stato un visitatore, e che questi si era installato nella
sua stanza in attesa del suo ritorno, e aveva giustamente cercato d'ingannare l'attesa procurandosi quel misero conforto.
Quando aprì la porta della stanza, quest'ultima congettura si rivelò esatta, sebbene l'occupante non fosse nessuna delle
persone che si era immaginato. Il signor Vetch era seduto al tavolinetto sul quale Hyacinth era solito scrivere, la testa
stanca sorretta da una mano, e gli occhi apparentemente chiusi. Ma quando comparve il giovane alzò il capo: «Oh, non
ti avevo sentito, hai fatto molto piano.»
«Faccio piano quando rientro tardi, per riguardo ai pensionanti - anche se devo dire che sono il solo ad usare
tanta cautela. E poi, vi eravate addormentato,» disse Hyacinth.
«No, non dormivo» replicò il vecchio. «Non dormo un gran che di questi tempi.»
«Allora eravate assorto nei vostri pensieri.»
«Sì, stavo pensando.»E il signor Vetch spiegò che la padrona di casa si era rifiutata di farlo entrare senza aver
ricevuto prima ogni assicurazione che le sue intenzioni erano oneste e che era inoltre il più vecchio amico che il signor
Robinson avesse al mondo. Era lì da un'ora: aveva pensato che se fosse arrivato a tarda sera lo avrebbe trovato in casa.
Il signor Robinson si dichiarò lieto che lo avesse aspettato e felice di vederlo, rammaricandosi di non aver
potuto prevedere la sua visita per procurarsi qualcosa da offrirgli. Si sedette sul letto con un indefinito senso di
sospensione; si domandava quale motivo speciale avesse condotto fin là il violinista, a un'ora tanto insolita. Aveva però
detto la verità, dichiarando di essere contento di vederlo. Hyacinth aveva salito le scale con un desiderio talmente
doloroso di rimanere a tu per tu con la rivelazione che si portava in tasca che la vista dell'ospite gli aveva procurato un
benefico refrigerio, allontanando il momento di quel solitario confronto. Aveva messo la lettera là dove il cuore gli
batteva forte, eppure era grato al vecchio amico che lo obbligava a lasciare le cose come stavano ancora per un poco.
«Ho dato un'occhiata ai tuoi libri,» disse il violinista. «Ci sono due o tre esemplari tuoi. Oh si, il tuo lavoro lo conosco
subito, da alcuni piccoli tocchi raffinati Si direbbe che lavori alla maniera dei grandi maestri d'arte. Con una mano così
e con una simile sensibilità, il tuo avvenire è assicurato. Ti farai una fortuna e diventerai famoso.»
Mentre delineava questa prospettiva, il signor Vetch si protese in avanti; posò le mani sulle ginocchia e guardò
dritto il suo giovane amico, come per sfidarlo a smentire un'osservazione tanto rassicurante e soprattutto tanto
perentoria. Quello che Hyacinth scorse sul suo viso ebbe l'effetto di fargli intuire in un baleno che il violinista era al
corrente di qualcosa, sebbene fosse impossibile indovinare come. I Poupin, mettiamo, non avevano avuto tempo di
mettersi in contatto con lui, pur volendo ritenerli capaci di una simile bassezza - del tutto inconcepibile, anche se
Hyacinth, poco meno di un'ora fa, li aveva visti abbassarsi di gran lunga al di sotto del loro stile abituale. Di fronte a
tale sospetto sentì l'esigenza di dissimulare ogni cosa, col suo visitatore: credesse quel che voleva, lui non gli avrebbe
dato la minima soddisfazione, o meglio lo avrebbe portato alla conclusione, se possibile, che i suoi sospetti erano delle
«fisime.» Hyacinth dette una scorsa ai libri che l'altro aveva tirato giù dallo scaffale e ammise che erano lavori
soddisfacenti e che, a meno di non diventare cieco o invalido, riuscire a produrre quelle cose era motivo di legittima
soddisfazione. Poi, improvvisamente, mentre continuavano a guardarsi, l'incalzante curiosità del vecchio, l'espressione
dei suoi occhi inquisitori, supplici, espressione che negli ultimi tempi era diventata strana e tragica e aveva cambiato
totalmente la loro fisionomia, divenne così intollerabile che per difendersi il nostro eroe assunse un tono aggressivo e
gli chiese spavaldamente se avesse intrapreso quel pellegrinaggio notturno soltanto per guardare i suoi libri di cui a
Lomax Place aveva una mezza dozzina di esemplari.
«Mio caro vecchio amico, avete qualcosa dentro - qualche timore fantastico, qualche idée fixe estremamente
falsa. Ma perché stasera in particolare? Qualunque ragione abbiate avuto per venire qui a quest'ora assurda, spinto da un
qualche impulso, non volete o non potete dirmelo. Naturalmente dovrei essere grato all'occasione che vi conduce da me
e lo sono infatti, purché ne siate felice anche voi. Ma non posso rallegrarmene se la cosa vi rende infelice. Mi sembrate
una madre inquieta per il bambino che dorme di sopra, che vada a vedere ogni cinque minuti se sta bene - se si è
scoperto o se è caduto dal letto. Caro signor Vetch, vi prego, non vi preoccupate; la mia coperta è tirata su fino al mento
e non sono ancora caduto.»
Hyacinth si senti pronunciare queste parole come se stesse ascoltando un'altra persona: la loro sfrontatezza gli
sembrò, in quel triste momento piuttosto eccezionale. Ma era convinto di stare per intraprendere un'azione che
richiedeva la massima impudenza, e tanto valeva metterla in pratica senza indugio. Il modo in cui il vecchio lo guardò
sembrava palesare che anche lui era in grado di valutare la sua perversità - giudicandolo un falso a starsene seduto li a
dichiarare che tutto era normale mentre un'ordinanza rivoluzionaria, nuova di zecca, gli bruciava in tasca. Ma dopo
poco, come se di fatto si sentisse rassicurato, il signor Vetch disse molto serenamente: «È fantastico come sai leggermi
nel pensiero. Non mi fido di te: penso che le prospettive siano terribili. Non è vero in ogni caso che vengo a trovarti
ogni cinque minuti. Non sai quante volte mi sono forzato a respingere i miei timori - e mi sono imposto di lasciarti in
pace.»
«Avreste fatto meglio a lasciarmi venire a vivere con voi, dopo la morte di Pinnie, come vi avevo proposto.
Allora avreste potuto tenermi sempre sott'occhio,»disse sorridendo Hyacinth. Il vecchio si alzò con impeto, e poiché
Hyacinth aveva fatto lo stesso, posò saldamente le mani sulle sue spalle, tenendoselo vicino. «Ci vuoi venire adesso,
ragazzo mio? Ci vuoi venire stanotte?»
«Stanotte, signor Vetch?»
«Non so perché, ma stanotte sono più preoccupato che mai. Dopo il tè ho fumato la pipa e bevuto un bicchiere,
ma non riuscivo a stare calmo, mi sentivo male, malissimo. Ho cominciato a pensare a Pinnie - mi sembrava che fosse lì
nella stanza. Era come se allungando una mano potessi toccarla. Se credessi negli spiriti, nei messaggi premonitori dei
morti, affermerei di averla vista. Ma non era venuta senza una ragione; era venuta ad aggravare i miei timori - a
parlarmi di te. Ho tentato di zittirla, ma senza risultato - mi ha condotto fuori di casa. Erano circa le dieci, ho preso
cappello e bastone e sono venuto qui. Giudica te se non mi sembrava importante... ho preso una carrozza!»
«Ma perché spendere il denaro così stupidamente?» chiese Hyacinth con un affettuoso tono di rimprovero.
«Ci verrai stasera?» disse il suo compagno per tutta risposta, sempre stringendolo.
«Ma sarebbe più semplice se restaste qui voi: è evidente che siete nervoso e ammalato. Potete prendervi il
letto, e io passerò la notte sulla poltrona.»
Il violinista ci pensò un poco. «No, mi odieresti se ti obbligassi a stare così scomodo, ed è proprio ciò che non
voglio.»
«Da voi sarebbe lo stesso. Anche lì dovrei dormire in poltrona.»
«Prenderò un'altra stanza. Staremo insieme,» continuò il violinista.
«Volete dire che prenderete un'altra stanza a quest'ora di notte, con la casa piena zeppa e tutti i vostri
coinquilini a letto? Mio povero Anastasius, siete ridotto male; la vostra mente vacilla,» disse Hyacinth pieno di verve.
«Benissimo, prenderemo un'altra stanza domani. Mi trasferirò in una casa dove ce ne siano due vicine.» Il tono
del «suo ragazzo» evidentemente lo aveva calmato.
«Comme vous y allez!» continuò il giovane. «Perdonatemi se vi rammento che se dovessi lasciare questo posto
dovrei dare quindici giorni di preavviso.»
«Ah, ti stai tirando indietro,» lamentò il signor Vetch, lasciando cadere le braccia.
«Pinnie non avrebbe detto mai una cosa simile,» riprese Hyacinth. «Se agite e parlate per bocca sua, dovete
agire e parlare come avrebbe fatto lei. Lei mi avrebbe creduto.
«Creduto? creduto cosa? cosa c'è da credere? Se mi farai una promessa, ti crederò.»
«Vi farò tutte le promesse che volete,» disse Hyacinth.
«Oh, tutte le promesse che vorrò... non è questo che voglio! Voglio solo una piccola prova tutta speciale - ed è
per questo in realtà che sono venuto qui stasera. Mi è venuto in mente che sono stato un cretino in tutto questo tempo a
non chiedertela prima. Dammela ora e me ne andrò a casa tranquillo e ti lascerò in pace.» Hyacinth, accettando a priori,
gli chiese di nuovo di formulare la sua domanda, e allora il signor Vetch disse: «Bene, promettimi... sul tuo onore, da
quel gentiluomo che sei, che dio ti aiuti, a quel galantuomo che sono, che mai, per nessun motivo, " farai qualcosa ".»
«Farò qualcosa...?»
«Qualcosa che quella gente si aspetta da te.»
«Quella gente?» ripeté Hyacinth.
«Ah, non tormentarmi facendo mostra di non capire - preoccupato come sono,» gemette il vecchio. «Sai
benissimo di che gente parlo. Non posso fare nomi perché non so come si chiamano. Ma tu li conosci e loro conoscono
te.»
Hyacinth non aveva intenzione di tormentarlo ma capiva che indovinando i suoi pensieri troppo facilmente
avrebbe rischiato di tradirsi. «Forse so di che gente parlate,» disse poco dopo, «ma temo di non capire la necessità di
tutte queste scene.»
«Non vogliono forse servirsi di te?»
«Capisco,» disse Hyacinth. « Voi credete che mi vogliano far deragliare qualche treno. Bene; se è questo che vi
preoccupa, potete dormire su due cuscini: non farò mai niente del genere.»
Un bagliore radioso illuminò il viso del violinista; spalancò gli occhi come se la promessa fosse troppo bella
per essere vera: «E me lo giuri? Mai niente, niente niente?»
«Mai niente di niente.»
«Me lo giuri sulla memoria di quella brava donna di cui abbiamo parlato ora e che entrambi amavamo?»
«Sulla memoria della mia cara vecchia Pinnie? Volentieri.»
Il signor Vetch si accasciò nella poltrona e nascose il viso fra le mani. Un istante dopo il suo compagno lo udì
singhiozzare. Trascorsi dieci minuti accettò di congedarsi e Hyacinth uscì con lui per cercargli una carrozza. Ne
trovarono una, vecchissima, a quattro ruote, posteggiata languidamente all'incrocio, e prima di salirvi il vecchio chiese
al suo giovane amico di baciarlo. Il giovane lo abbracciò baciandolo su tutte e due le guance, secondo l'espansiva
usanza straniera, e poi rimase a guardare il veicolo che si metteva in moto e rotolava via. Lo vide voltare l'angolo li
presso, poi si avvicinò al lampione più vicino ed estrasse dalla tasca interna la lettera sigillata che Schinkel gli aveva
consegnato.

III

«E Madame Grandoni?» chiese, restio ad andarsene. Sentiva che non avrebbe mai più bussato a quella porta e
aveva un gran desiderio di rivedere per l'ultima volta la vecchissima, afflitta dama di compagnia della Principessa, che
gli era sempre piaciuta. L'aveva vista perennemente nel ruolo un poco ridicolo della confidente di tragedie, in cui
l'eroina, vittima di un riserbo che non giovava allo sviluppo del dramma, avesse smesso di confidare.
«È andata via, caro signorino,» disse Assunta, sorridendogli mentre teneva aperta la porta.
«È andata via? Diomio, e quando?»
«Da cinque giorni, caro signorino. È tornata nel nostro bel paese.»
«Possibile?» In un certo senso gli sembrava una perdita personale.
«È possibilissimo.» Poi Assunta aggiunse: «Tante volte è stata lì lì per andarsene, ma questa volta, capisce...» e
senza terminare la frase questa esiliatissima romana ed espertissima cameriera "personale", si abbandonò a una sottile,
suggestiva, indefinibile mimica con la partecipazione di mani e spalle oltre che di labbra e sopracciglia.
Hyacinth la guardò quel tanto che gli bastò per capire cosa volesse intendere, ma senza darlo a vedere. Si
limitò a rispondere con tono grave: «In una parola, se n'è andata.»
«Eh, e il peggio è che probabilmente non tornerà più. Da molto tempo minacciava di andarsene, senza farlo
mai; ma quando finalmente si è decisa...!» e le mani aperte di Assunta che spazzavano l'aria resero l'idea
dell'irrevocabilità della decisione della vecchia signora. «Peccato! » concluse con un sospiro.
«Mi sarebbe piaciuto rivederla.. avrei voluto dirle addio.» Indugiava, improvvisamente debole, sebbene,
informato della temporanea assenza della Principessa, non avesse motivi per rimanere tranne la possibilità che lei
tornasse prima che se ne fosse andato. Tuttavia era una probabilità molto esile, dal momento che erano appena le nove -
l'inizio della serata - troppo presto perché tornasse a casa se, come aveva detto Assunta, era uscita dopo il tè. Guardò in
su e in giù la parabola della strada, facendo dondolare gentilmente l'ombrello, e si rese conto, all'improvviso, di essere
oggetto di un affettuoso interesse da parte della sua umile amica.
«Sareste dovuto tornare prima; forse allora Madama non se ne sarebbe andata, povera vecchia,» riprese subito
dopo. «È passato troppo tempo da quando siete venuto qui l'ultima volta. Voi le piacevate - lo so.»
«Le piacevo ma non le piaceva che venissi qui,» disse Hyacinth. «Non se n'è forse andata per questo... perché
noi continuavamo a venire?»
«Ah, quell'altro... con le gambe lunghe..., sì, certo: ma voi siete migliore.»
«La Principessa non lo crede, e sta a lei giudicare,» disse sorridendo Hyacinth.
«Eh, e chi lo sa quello che pensa? Non sta a me dirlo. Ma è meglio che entriate e l'aspettiate. Può darsi che non
tardi molto e sarà contenta di trovarvi qui.»
Hyacinth se lo domandò: «Non ne sono troppo sicuro.» Poi chiese: «È uscita sola?»
«Sola Oh non temete, voi siete stato il primo!» e Assunta, deliziosamente, apertamente insidiosa, spalancò la
porta del salottino.
Rimase lì un'ora, seduto nella poltrona che la Principessa usava di solito, sotto il paralume, circondato da una
dozzina di oggetti che sembravano fare parte di lei, quasi fossero state le pieghe stesse del suo abito o le cadenze della
sua voce. I suoi pensieri cozzavano come i pezzetti di ghiaccio dentro una bevanda che aveva visto mescolare
destramente in un «american bar», ma era troppo stanco per agitarsi. Non era andato al lavoro, e aveva camminato tutto
il giorno per ammazzare il tempo; così appoggiò semplicemente il capo su uno dei cuscini della Principessa, i piedi su
uno dei suoi sgabellini - uno di quelli brutti, che appartenevano alla casa - col respiro affannato di chi è in ansia. Sotto la
stanchezza sentiva serpeggiare l'agitazione, ma non per l'attesa della Principessa; attingeva a più profonde fonti di
emozione, e al momento la intensità «nervosa» che lo aveva sostenuto durante le ultime venti ore lo aveva abbandonato.
La notte precedente non aveva chiuso occhio e la giornata non lo aveva risarcito di quella tortura. Era stato preda di
febbrili elucubrazioni, piroettando negli spazi della sua fantasia attraverso cerchi di amplissimo raggio; così mentre
sedeva al posto della Principessa, pensando a tante cose, si chiese perché, dopotutto, fosse venuto a Madeira Crescent e
che interesse poteva avere a incontrarsi con la padrona di casa. Non era forse finito tutto fra loro? non si era forse
spezzato quell'anello che per una breve stagione li aveva tenuti così saldamente legati l'uno all'altro? E non soltanto
perché da molto tempo ormai non riceveva un cenno da lei, non un invito a tornare, né una domanda sul perché avesse
interrotto le sue visite; non era neppure perché l'aveva vista entrare e uscire con Paul Muniment, e il principe
Casamassima si era preso la briga di trarre la conclusione di tale comportamento; e neanche perché, indipendentemente
dal pensiero del Principe, la ritenesse tutta presa dalla nuova amicizia con quel giovane eccezionale molto più di quanto
non fosse stata presa di lui. Si rese conto, nel turbinare di quei pensieri, che l'unica autentica reazione a tutto questo era
una strana, distaccata curiosità - strana e distaccata perché ogni elemento costitutivo del suo passato era sprofondato
nell'abisso che si era spalancato quando, andato via il signor Vetch, era rimasto lì sotto il lampione della misera
Westminster Street. In quel momento tutti i suoi sentimenti abituali erano stati inghiottiti, eppure, da quella rovina, era
nato l'impulso che l'aveva portato a questa attesa.
La soluzione dei suoi problemi - s'illudeva di averla raggiunta - comportava la liquidazione dei propri affari
privati; e poiché in assenza di soluzioni estreme avrebbe ugualmente capito di essere stato liquidato e considerato un
conforto poterle dire addio, ora, il desiderio di rivederla per l'ultima volta mentre correva verso il proprio destino lo
attirava irresistibilmente. Anche se per lui era andata male, era pur sempre in grado di chiedersi se a lei le cose
andassero meglio. Provò un desiderio perverso, e tuttavia umano, di compatirla. Erano sentimenti strani che nell'arco
della mezzora l'apatia della stanchezza era andata affievolendo. Mentre pensava quanto diversa era l'attesa di ora da
quella della prima visita a South Street, chiuse gli occhi e perse conoscenza. Quello stato di deliquio si protrasse per
circa mezz'ora - così almeno calcolò in seguito; terminò quando avvertì di fronte a sé la presenza della padrona di casa.
Assunta la seguiva, e quando lui aprì gli occhi, stava prendendo il mantello e il cappello di cui lei si disfaceva. «È
carino da parte tua avermi aspettata,» disse la Principessa sorridendogli con tutta l'antica bontà. «Sei stanco, non ti
alzare; quella è la sedia migliore ed è per te.» Lo fece restare dov'era; si mise vicina a lui su un sedile più piccolo;
dichiarò che lei invece non era stanca; non capiva che cosa le succedeva - niente riusciva a stancarla, ora; commentò
che era passato tanto tempo da quando era venuto a trovarla l'ultima volta, come se rivedendolo lo avesse
improvvisamente rammentato; e insistette che prendesse il tè - aveva proprio l'aria di chi ne ha un gran bisogno. Lo
scrutò più attentamente e volle sapere cosa avesse - che cosa avesse fatto per sciuparsi così; aggiungendo che doveva
riprenderlo sotto le sue cure, perché quando lei si occupava di lui, non era mai accaduta una cosa simile. Hyacinth di
rimando fece una solenne confessione: ammise di non essere andato a lavorare e di essersi soltanto divertito - divertito a
oziare tutto il giorno per le strade di Londra. Ma non gli aveva fatto bene - lo capiva ora che era più maturo; perché
senza dubbio era un indice di maturità considerare privi di senso simili capricci e avvertire non solo più producente ma
anche più corroborante l'attaccamento al proprio mestiere. Comunque, in linea generale, a lavorare c'era andato; e
questa era in parte la ragione per cui un giorno di libertà - per chi non c'era abituato - finisce per essere un poco una
delusione. Come sempre quando non vedeva la Principessa per qualche tempo, incontrandola di nuovo si rinnovava in
lui quella straordinaria ammirazione per la sua bellezza, e questa sera gli accadeva in misura ancora maggiore. Benché
fosse sempre stata splendida, in questa occasione sfolgorava, più chiara e luminosa che mai, come una lampada ad olio
ben curata, come se - ammesso che qualcosa di superlativamente bello potesse abbellirsi ancora di più - la sua nuova
vita l'avesse liberata da ogni inquinamento terreno lasciandola purificata e consacrata. La sua gentilezza, quando la
manifestava, era assolutamente divina - aveva quel fascino irresistibile della umiltà in uno spirito elevato, e in quel
momento lei ne era tutta pervasa. Forse perché era cosciente di posare gli occhi su di lei per l'ultima volta, o forse
perché lei desiderava essere particolarmente amabile con lui quasi a farsi perdonare di averlo trascurato in quegli ultimi
tempi, presa nel vortice di altre preoccupazioni - probabilmente erano vere tutte e due queste ragioni - certo è che
osservandola in tutta la sua magnificenza, spontaneità, naturalezza, elementi che s'imponevano tutti con grande autorità
- si sentiva tanto privilegiato come quando, un anno addietro, era andato nel suo palco a teatro. Emanava un fluido
consolatorio, lo sollevava dal peso che l'opprimeva, che lo faceva sentire come una verticale, inerme cariatide
schiacciata sotto un pesante cornicione. Lasciò che lei lo coccolasse e gli sorridesse un poco distrattamente, sia pure di
un sorriso smagliante. Era in un tale abbattimento che la situazione non poteva peggiorare se queste elargizioni
costavano ben poco alla Principessa. Aveva mandato Assunta a fare il tè, e quando il vassoio arrivò lei gli versò una
tazza dopo l'altra con tutta la grazia di un'ospite perfetta. Ma non gli ci volle neppure un quarto d'ora per capire che dava
ben poco peso alle parole che lui le diceva e a quelle che lei stessa pronunciava. Se faceva la «carina», con tutte le
migliori intenzioni di farsi perdonare era però alquanto vago perché volesse farsi perdonare. Due cose erano
chiarissime: primo, che stava pensando a tutt'altro che al suo rapporto presente passato e futuro con Hyacinth Robinson,
secondo, che lui era stato senz'altro soppiantato. Era una cosa tanto ovvia che a lei non venne neppure in mente che tale
sensazione di spodestamento potesse risultare tanto crudele a chi era già debole e ferito. Se si mostrava gentile verso la
sua debolezza, non dipendeva forse da una natura buona e perché lui non si era più fatto vedere, piuttosto che dal fatto
di avergli inflitto un dolore? In fin dei conti, forse, male non gli aveva fatto, perché Hyacinth ebbe l'impressione che
l'essere escluso, oggi, dalla vita privata di lei, non poteva significare, dopotutto, una gran perdita per una banderuola
come lui. Da certe espressioni, da ogni suo gesto e modulazione di voce, e dallo splendore stesso della sua bellezza, era
evidente che la sua vita privata era tutta presa da rapporti intimi e da profonde tensioni. Se la visita di Hyacinth era stata
dettata dalla curiosità per il successo di lei, era sufficientemente chiaro che questo successo era raggiunto: gli parve che
più che mai stesse vivendo una vita fatta di altissime speranze di piani coraggiosi, di alleanze ad ampio respiro. Dal suo
punto di vista ormai queste cose non rappresentavano esattamente il segreto della felicità, ed esserne coinvolto non era
tanto il segno di una vita spesa non inutilmente, ma piuttosto la realizzazione della propria miseria, alla quale, per
amore di pace era arrivato or ora. Gli chiese perché da tanto tempo non veniva da lei come rilevasse semplicemente una
mancanza di buone maniere, e sembrò a malapena notare la pretestuosità del suo argomento, quando lui disse che si era
tenuto lontano perché la sapeva tutta presa dalle sue faccende. Non respinse tuttavia l'appunto; ammise che aveva avuto
da fare come mai in vita sua. E lo guardò come se dovesse capirla, e lui disse che gli dispiaceva molto.
«Perché pensi che sia tutto uno sbaglio? Sì, lo so. Forse lo è, ma in tal caso è uno sbaglio meraviglioso. Se ti
facevo paura due o tre mesi fa, non so cosa penseresti oggi... Se sapessi! Ho rischiato "tutto"» disse semplicemente e
tuttavia con un tono quasi fatale.
«Fortunatamente non ne so nulla,» disse lui.
«Certo che no. Come potresti saperlo?»
«E, se devo essere sincero,» continuò, «è proprio questa la ragione per cui non sono più venuto qui, fino ad
oggi. Ho preferito non sapere - ho temuto e detestato di sapere.»
«Allora perché, poi, sei venuto?»
«Mah, per una curiosità del tutto irrazionale.»
«Allora, forse, ti piacerebbe che ti dicessi dove sono stata stasera, eh?» chiese.
«No, la mia curiosità è stata soddisfatta. Ho saputo quel lo che mi premeva sapere, senza che tu me lo dicessi.»
Lei lo guardò fisso per un istante: «Ah, vuoi dire se Madame Grandoni se n'era andata? Immagino che Assunta
te lo abbia detto.»
«Sì, Assunta me lo ha detto, e mi è dispiaciuto.»
La Principessa prese un'aria grave, come se la partenza della sua vecchia amica fosse una faccenda del tutto
imbarazzante. «Puoi immaginarti quanto mi manchi! Mi sono ritrovata completamente sola; e agli occhi del mondo la
mia situazione è cambiata completamente. Ma in ogni modo lei non riusciva più a sopportarmi; pare che io stia
diventando ogni giorno di più uno scandalo... ed era inevitabile!» Quando Hyacinth chiese cosa avrebbe fatto, ora, la
vecchia signora, lei disse: «Immagino che andrà a stare con mio marito. Buffo, vero? che debba per forza stare con uno
di noi due, importa poco con chi.» Dopo cinque minuti gli chiese se fosse stato lontano da Audley Court per la stessa
ragione per cui era rimasto lontano da lei. Il signor Muniment le aveva detto che da più di un mese non si faceva vivo
con lui e con sua sorella.
«No, non si tratta del timore di scoprire qualcosa che mi metterebbe a disagio: prima di tutto perché, non so
come, non mi riesce di sentirmi a disagio con Paul, e poi perché comunque lui non lo darebbe a vedere... quello che
sente e prova. È solo questione di sentire genericamente che i nostri punti di vista sono divergenti. E quando questa
divergenza diventa troppo acuta, ci sono formalità e false scuse...»
«... che è meglio non sforzarsi di mantenere in vita? È facile capire cosa intendi - quando si è così
assolutamente sinceri. Ma potresti andare a trovare sua sorella.»
«La sorella non mi piace,» ammise francamente Hyacinth.
«Neanche a me!» disse la Principessa, mentre il visitatore indugiava a pensare alla compostezza, all'assenza di
falsi pudori con cui lei aveva fatto il nome del loro comune amico. Ma poi non disse altro, e lui pensò che si era
trattenuto eccessivamente e che aveva preteso anche troppo dalla sua attenzione volta a tanti pensieri. Si alzò, e stava
per augurarle la buonanotte, quando lei se ne uscì con un «a proposito, il fatto che tu non vada più a trovare un buon
amico come il signor Muniment perché adesso disapprovi il suo operato, mi fa pensare che ti troverai in un brutto
impiccio, con tutti i tuoi giudizi negativi quando sarai chiamato a servire la causa alla quale ti sei votato.»
«Oh, ma ci ho pensato, naturalmente,» sorrise Hyacinth.
«E sarebbe indiscreto chiedere quello che hai pensato?»
«Ah, tante cose, Principessa! Ci vorrebbe molto tempo per raccontartele.»
«Non te ne ho mai parlato perché mi sembrava indelicato e perché la consideravo una cosa tutta tua, nella
quale neppure un'amica intima come io sono stata per te aveva diritto di immischiarsi. Ma mi sono spesso domandata
vedendoti sempre meno interessato - alla faccenda voglio dire, sempre di meno - come avresti conciliato il mutamento
delle tue idee con il compito che ti sei impegnato ad assolvere. Provo una gran pena per te, mio povero amico,»
continuò con nobile benevolenza, «perché non so pensare a niente di più terribile che dover fronteggiare un impegno e
allo stesso tempo rendersi conto che lo spirito da cui era nato ci è morto dentro.»
«Terribile, terribile veramente,» e la guardò con aria grave.
«Ma prego Dio che questo non sia il tuo destino!» La Principessa fece una pausa, dopo di che aggiunse: «Vedo
che lo senti. Dio ci aiuti tutti! Perché non dovrei dirtelo che sono in pena?» continuò. «Poco tempo fa ho ricevuto la
visita del signor Vetch.»
«Sei stata gentile a riceverlo,» disse Hyacinth.
«Ti assicuro che mi è parso delizioso. Ma sai perché è venuto? Per pregarmi in ginocchio di tirarti fuori.»
«Fuori da che?»
«Dal pericolo che ti pende sul capo. Era proprio commovente.»
«Oh si, ne ha parlato anche con me,» disse il giovanotto. «Ne ha avuto sentore, ma è completamente in alto
mare. E come si aspettava che avresti potuto tirarmene fuori?» «Questo lo lasciava a me: lui aveva solo una generica
fiducia - mi ha lusingato - in un ascendente mio su di te.»
«E pensava che lo avresti usato per convincermi a tirarmi indietro? Non ti rende giustizia. Non lo faresti mai! E
rise sottilmente Hyacinth. «In tal caso, falsità per falsità, non ti troveresti in una posizione migliore della mia.»
«Oh, seriamente parlando, sono assolutamente tranquilla tanto per te che per me. So che non ti chiameranno,»
replicò la Principessa.
«E potrei sapere come fai ad esserne certa?»
Lei attese un poco. «Il signor Muniment mi tiene informata.»
«E lui, come lo sa?»
«Ne siamo al corrente. Mio povero amico,» continuò la Principessa, «sei così al di fuori di tutto che se te lo
raccontassi temo che neanche capiresti.»
«Sì, non c'è dubbio che ne sono fuori; tuttavia credo di avere il diritto di rispondere alla tua accusa di poco fa:
"la faccenda vera e propria" m'interessa oggi come sempre.»
«Mio povero Hyacinth, mio caro, esaltato, piccolo aristocratico, ti ha poi interessato mai tanto?»
«Abbastanza, se ancor oggi mi rende disposto a dare la vita per qualcosa di veramente utile.»
«Sì e naturalmente spetta a te stabilire se lo sia o no.»
«Non l'ho stabilito quando ho dato la mia parola. Accettai di attenermi alle decisioni altrui,» rispose Hyacinth.
«Bene, poco fa hai detto di aver pensato molte cose riguardo a questa tua faccenda,» continuò la sua amica.
«Hai mai pensato per caso a qualcosa che possa fare il loro lavoro?»
«Il loro lavoro?»
«Il lavoro del popolo.»
«Ah, tu mi chiami con appellativi fantastici, ma anch'io sono uno di loro!» gridò.
«So quello che stai per dire,» lo interruppe la Principessa. «Stai per dire che farebbero bene a fare come te... a
lavorare e a guadagnarsi la paga. Niente da eccepire, fintanto che funziona. Ma cosa proponi per tutte quelle migliaia e
centinaia di migliaia di persone per le quali non c'è lavoro su questa terra sovrappopolata, sotto un cielo impietoso? C'è
sempre meno lavoro, nel mondo, e c'è sempre più gente che vuole fare quel poco che c'è da fare. Gli antichi, spietati
egoisti devono cadere. Ma poiché non sono disposti a cadere con le buone, bisogna intervenire.»
Il tono con cui aveva parlato gli dette il batticuore; c'era qualcosa di così suggestivo in quella mescolanza di
bellezza, di sincerità e di forza che gli balenò in tutto il suo perduto splendore l'immagine di un eroismo non meno
grande - la suggestione di un rischio tremendo e di un sacrificio mortificato. In un momento simile, una donna simile
che sapeva brillare come l'argento e tintinnare come un cristallo, tramutava in meschina prudenza ogni scrupolo e in
vigliaccheria ogni titubanza. «Voglia Dio che io sappia vedere le cose come te!» gemette dopo averla ammirata, muto,
per qualche secondo.
«Io so soltanto questo: che vale, se non altro, la pena di tentare, e che dal momento che nessuno di coloro che
dispongono del potere e hanno posizione e mezzi se ne danno per inteso, la responsabilità ricada pure sul toro capo e
sul loro capo scorra il sangue!»
«Principessa!» disse Hyacinth torcendosi le mani e sentendosi tremare. «Carissima Principessa, se ti dovesse
accadere qualcosa...!» ma la voce si ruppe e di nuovo gli si parò davanti, come già nel corso delle sue sinistre
elucubrazioni, una folla di visioni intollerabili delle ipotetiche azioni delittuose di cui lei avrebbe dovuto pagare la pena:
visioni peggiori di quante immaginate fino allora per se stesso.
Lei gettò la testa indietro, guardandolo quasi con rabbia: «A me! E se è lecito perché non a me? A che titolo
dovrei essere esonerata, protetta, io più di un altro? Perché dovrei essere così sacra e preziosa?»
«Soltanto perché non esiste e non è mai esistita un'altra come te.»
«Oh, grazie tante!» disse la Principessa impazientemente. E si scostò da lui quasi con un battito di grandi ali
bianche che la librassero al di sopra dell'atmosfera nefasta dei valori personali, portandola troppo in alto perché la
conversazione potesse proseguire, indifferente ai suoi sentimenti verso di lei, addirittura sprezzante tanto che gli occhi
gli si riempirono di lacrime. Le lacrime tuttavia rimasero nascoste perché lui piegò il capo sulla mano che aveva
afferrato per baciare e subito dopo lasciò la stanza senza più guardarla.

IV

«Ho ricevuto una lettera di tuo marito,» le disse la sera dopo Paul Muniment entrando nella stanza. La notizia
era data così, senza giri di parole, e con una disinvoltura che denotava come fosse semplicemente una delle tante visite
che le faceva. La Principessa mostrò non poca sorpresa e chiese subito come diamine il Principe conoscesse il suo
indirizzo. «Non potrebbe averlo avuto dalla vecchia?» disse Muniment. «Deve averla incontrata a Parigi: è da lì che
scrive.»
«Che incorreggibile mascalzone!» esclamò lei.
«Non vedo perché... per avermi scritto? Ho in tasca la lettera e se vuoi te la mostro.»
«Grazie, per nulla al mondo toccherei un oggetto toccato da lui.»
«Però tocchi il suo denaro, mia cara signora,» osservò Muniment con un'uscita spontanea, tipica di uno che
vede le cose come stanno.
La Principessa ci pensò sopra: «Sì, faccio quell'eccezione perché è una cosa che lo ferisce, che lo fa soffrire.»
«Al contrario, direi che è una cosa che lo soddisfa perché ti mette in uno stato di debolezza, di dipendenza.»
«Non quando sa bene che non lo uso per me. Quello che lo esaspera è sapere che quel denaro è destinato a
scopi che lui odia quasi quanto odia me e che tuttavia non si possono chiamare egoistici.»
«Non ti odia,» Muniment disse con lo stesso tono gradevolmente ragionevole - il tono di chi domina non uno
ma tutti gli aspetti della questione. «La sua lettera ne è la prova.» La Principessa sgranò gli occhi e gli chiese dove
voleva arrivare con quell'accenno che sembrava indurla a voler tornare a vivere con suo marito «Non so se arriverei a
consigliartelo,» replicò lui. «Non mi sembrerebbe giusto dopo che ho goduto del privilegio di goderti qui, nella tua
condizione presente. Ma sento di poter azzardare la previsione che fra non molto tornerai da lui.»
«E su cosa si basa questa straordinaria previsione?»
«Soltanto sul fatto che non avrai di che vivere. Ti rifiuti di leggere la lettera del Principe, ma se lo facessi
capiresti cosa intendo dire. Mi avverte di non contare più sul tuo aiuto, dal momento che tu stessa non riceverai altro
denaro da lui.»
«Si rivolge a te in termini così crudi?»
«Non li chiamerei " crudi " dal momento che la lettera è scritta in francese, e naturalmente mi è stato piuttosto
difficile capirla nonostante abbia sempre perseverato nello studio di quella lingua e nonostante l'esempio che mi ha dato
il povero Robinson. Ma credo che il nocciolo della lettera sia questo.»
«E riesci a riferirmi questi insulti senza scomporti minimamente? Sei davvero l'uomo più straordinario che
esista!» esclamò la Principessa.
«Perché lo chiami un insulto? È la pura verità. È vero che prendo il tuo denaro,» disse Muniment.
«Lo prendi per una causa santa, non per te stesso.»
«Il Principe non è tenuto a fare tante distinzioni,» rispose lui divertito.
La sua compagna fece una pausa. «Non sapevo che stavi dalla parte sua!»
«Ma tu lo sai benissimo da che parte sto!»
«Cosa sa, lui? Chi lo autorizza a parlarti in questo modo?»
«Immagino che sappia tutto da Madame Grandoni, come dicevo. Gli avrà detto che ho una grande influenza su
di te.»
«Peggio per lei se glielo ha detto!» si sfogò la Principessa.
«Per cui ha dedotto che una volta informato che non hai più nulla da dare alla causa ti lascerò.»
«Più nulla? E me stessa, e tutte le vibrazioni del mio essere, tutte le risorse della mia natura, tutto questo,
secondo lui, non è nulla?» gridò la Principessa con occhi lampeggianti.
«Evidentemente ritiene che per me sia così.»
«Ah, se è per questo, so bene che t'importa assai più del mio denaro che di me. Ma non cambia nulla,» disse lei
sottilmente.
«Allora, come puoi constatare tu stessa, i calcoli del Principe erano giusti.»
«Mio caro signore,» replicò la padrona di casa, «il mio interesse per te non è mai dipeso dal tuo per me, ma
soltanto da un senso di rispetto per i tuoi grandi ideali. Immagino che quello che avevi incominciato a dirmi,» continuò,
«è che il Principe troncherà il mio appannaggio.»
«Dal primo del mese prossimo. Ha chiesto il parere di un legale. Appare inoppugnabile - così mi dice - che ti
sei giocata i tuoi alimenti.»
«E non potrei rivolgermi anch'io a un legale?» domandò lei. «Potrei combattere i miei diritti fino all'ultimo.
Soltanto una mia azione precisa potrebbe farmi perdere le mie entrate. La nostra separazione è stata determinata da una
sua presa di posizione: mi ha buttata fuori casa di forza.»
«Certo,» disse il visitatore, dando prova di una grande abilità dialettica anche in questa discussione d'affari:
«Ma da allora ci sono state azioni precise da parte tua...!» Si fermò un poco, sorridendo, poi continuò: «Il fatto stesso
che fai parte di una lega che avrà pure scopi nobilissimi ma che è inequivocabilmente avversa alla luce del giorno e che
si sottrae all'occhio della polizia - questo costituisce di per sé una presa di posizione; e lo stesso si può dire del gusto -
che provi in così alta misura - di sovvenzionarla col denaro estorto a un'antica famiglia principesca e cattolica. Sai
quanto sia poco auspicabile che queste cose vengano alla luce.»
«Ma perché mai dovrebbero venire alla luce? Naturalmente può avere un mucchio di indizi, ma neanche la
minima prova. Anche supponendo che Madame Grandoni testimoniasse contro di me, supposizione inimmaginabile,
neanche lei sarebbe in grado di produrre un qualsiasi dato preciso.»
«Sarebbe però in grado di testimoniare che per un mese ti sei tenuta in casa un piccolo rilegatore.»
«E questo che c'entra?» chiese subito lei. «Se intendi dire che potrebbe mettermi in cattiva luce agli occhi del
Principe, non c'è forse dall'altra parte il non trascurabile particolare che mentre il nostro giovane amico stava presso di
me, Madame Grandoni - una persona altamente e notoriamente rispettabile - non ritenne di dovermi privare della sua
presenza e della sua protezione? E poi, perché non dovrei avere il mio legatore personale, così come potrei disporre - e
il Principe dovrebbe senza dubbio apprezzare che me ne privi - di un medico o di un confessore personale?»
«Non sono forse io il tuo confessore?» chiese Muniment di nuovo in tono faceto. «E dimmi, normalmente i
legatori pranzano alla tavola delle principesse?»
«E perché no, se sono artisti? Nei tempi antichi, lo so, gli artisti mangiavano con la servitù, ma non ai giorni
nostri.»
«Starebbe alla corte giudicarlo,» disse lui. E poco dopo aggiunse: «Permettimi di richiamare la tua attenzione
sul fatto che Madame Grandoni, in effetti, ti ha proprio lasciata - ti ha privata esattamente della sua presenza e della sua
protezione.»
«Ah, ma non per via di Hyacinth!» replicò la Principessa con un tono che avrebbe fatto la fortuna di un'attrice,
ammesso che ci fosse stata un'attrice capace di captarlo.
«Per colpa del legatore o per colpa del confessore, poco importa. Sono puri dettagli. In tutti i casi,» osservò lui,
«non dovrebbe importarmene affatto se finisci in tribunale.»
La Principessa posò per un attimo gli occhi su di lui senza pronunciare parola. Poi, alla fine, disse: «Proprio
ora stavo parlando del tuo grande avvenire, ma dici o fai sempre qualcosa che mi costringe a dubitarne. Succede quando
assumi un'aria pavida, che contrasta completamente con la tua eccezionalità.»
«So bene che fin dal primo momento che mi hai conosciuto mi hai considerato poco più che un individuo
viscido e infido. Ma che importa? Non ho la minima pretesa di essere eccezionale.»
«Oh, sei proprio impossibile e irritante!» disse lei con uno sguardo grave.
«Non ti ricordi,» continuò lui senza badare al significativo commento, «non ti ricordi che l'altro giorno mi
accusasti di essere non solo un codardo, ma un traditore - di barare, di desiderare di tirarmi indietro, come dicesti?»
«Lo ricordo benissimo: ma come posso fare a meno di credere, a volte, che tu non abbia qualche imperdonabile
secondo fine e ti serva di me - di tutti noi, con consumata abilità? Bene, non me ne importa nulla!»
«Non è vero, sono in buona fede» disse Muniment con semplicità e con un tono che sembrava voler liquidare
quella discussione oziosa. E cambiò discorso troppo bruscamente per le regole della buona creanza «La migliore
ragione per non portare la cosa in tribunale è questa: una volta che ti troverai senza un soldo sarai costretta a tornare da
tuo marito.»
«Che significa "quando non avrò più un soldo"? Non ho forse le mie proprietà?» chiese la Principessa.
«Il Principe mi assicura che hai attinto dai tuoi beni in misura tale che la rendita supera ormai di poco i mille
franchi - quaranta sterline all'anno, di questo ne è assolutamente certo. Dovrei aggiungere che tuo marito fa capire che
fin dall'inizio la tua fortuna era ben poca cosa.»
«Hai un tono straordinario,» rispose lei grave. «Un tono che sembra voler esprimere semplicemente questo: dal
momento che non ho più denaro da darti non valgo più di quelle foglie di tè, già sfruttate, nella teiera.»
Muniment si guardò per un attimo i solidi stivali. Le parole della sua compagna gli avevano fatto avvampare le
guance; sembrava voler riconoscere, di fronte a se stesso e alla sua amica, che al punto in cui la conversazione si era
spinta, urtava contro un'intima difficoltà a spiegarsi. Ma dopo poco alzò il capo, mostrando un viso alquanto
imbarazzato, più per lei che per se stesso: «Non ho alcuna intenzione di dirti parole dure o offensive, ma dal momento
che mi hai lanciato questa sfida, forse è meglio precisare che nel dare il tuo denaro - o meglio il denaro di tuo marito -
alla nostra causa, hai dato il tuo migliore contributo.»
«È il giorno della verità!» scandì lei con pacatezza. «Allora per te non contano nulla la dedizione e
l'intelligenza - anche modeste - che ho messo a tua disposizione?»
«Tengo in gran conto la tua intelligenza, ma non la tua dedizione, e l'una non vale nulla senza l'altra. Non ci si
fida di te... beh... là dove questo è importante!»
«Non si fidano?» ripeté la Principessa col suo sguardo luminoso. «Come! Credevo che avrei potuto essere
impiccata anche domani!»
«Potrebbero benissimo permettere che fossi impiccata senza per questo permetterti di agire. C'è il caso che ti
stanchi di noi» continuò, «e a dire il vero credo che tu sia già stanca.»
«Ah, devi essere per forza un uomo straordinario - sei così brutale!» replicò lei, notando, come era accaduto
altre volte, che pronunciava la parola «stanca» con accento dialettale.
«Non ho detto che eri stanca di me,» disse lui con un certo imbarazzo. «Ma non potrai mai vivere poveramente
- non sai neppure lontanamente cosa voglia dire.»
«Oh no, non sono stanca di te» dichiarò come augurandosi di esserlo. «Per poco non mi fai piangere di rabbia,
e nessun uomo c'è più riuscito da anni. Ero poverissima da bambina,» aggiunse in tono diverso. «Lo hai riconosciuto tu
stesso, poco fa, parlando dell'esiguità della mia fortuna.»
«Per essere esigua, doveva essere una fortuna,» sorrise Muniment. «Tornerai da tuo marito!»
Lei non rispose, lo guardò soltanto, mentre gradatamente la sua collera si diradava. «Dopotutto non vedo
perché dovrebbero fidarsi di te più di quanto si fidino di me,» disse alfine.
«Non è detto che si fidino, infatti. Proprio stasera ho sentito dire qualcosa che indicherebbe il contrario.»
«E si può sapere di che si tratta?»
«Di una comunicazione che avrebbe dovuto essere fatta tramite mio e che invece è stata fatta per mezzo di
un'altra persona.»
«Una comunicazione.. ?»
«A Hyacinth Robinson.»
«A Hyacinth...?» La Principessa si alzò di scatto; era improvvisamente impallidita.
«Ha ricevuto il suo incarico; ma non glielo hanno trasmesso per mezzo mio.»
«Vuoi dire la sua "chiamata"? Era qui ieri sera,» disse la Principessa.
«Un compagno, un operaio di nome Schinkel, un tedesco che tu non conosci, credo, ma che era stato uno dei
testimoni, insieme a me e ad un altro, della decisione di Hyacinth, è venuto da me stasera. La chiamata è stata trasmessa
a lui, e domenica sera l'ha comunicata a Hyacinth.»
«Domenica sera?» La Principessa sgranò gli occhi. «Ma come, era qui ieri, e parlava della cosa, ma non mi ha
detto nulla.»
«Ha fatto benissimo, che sia benedetto il suo coraggio,» replicò Muniment.
Lei chiuse gli occhi un istante e quando li riaprì lui si era alzato e le stava di fronte, in piedi. «Cosa vogliono
che faccia?» chiese.
«Io sono come Hyacinth; ritengo sia meglio non dirtelo... almeno finché tutto non è finito.»
«E per quando sarà?»
«Gli hanno dato parecchi giorni e istruzioni minuziose, credo,» disse Paul, «e allo stesso tempo una certa
libertà di scegliere il momento propizio. Gli hanno reso le cose piuttosto. facili. Tutto questo l'ho saputo da Schinkel che
neanche lui, domenica, sapeva di più in quanto aveva dovuto semplicemente accertarsi che Hyacinth ricevesse la
"cosa", e infatti lo ha rivisto ieri mattina.»
«Allora Schinkel si fida di te?» osservò la Principessa.
Muniment la guardò fisso. «Sì, ma non si fiderebbe di te. Hyacinth riceverà l'invito ad andare in una certa casa
importante,» spiegò, «un invito col nome lasciato in bianco che potrà riempire egli stesso. È valido per i due grandi
ricevimenti che vi si terranno a pochi giorni di distanza. È per questo che hanno affidato a lui la cosa, perché in un
grande ricevimento si troverà come a casa sua.»
«Gli piacerà proprio!» disse lei meditabonda... «ripagare l'ospitalità con un colpo di pistola.»
«Se non gli piace, non è obbligato a farlo.»
Lei non replicò, ma dopo un attimo disse: «Mi sarà facile sapere di che luogo si tratta... la casa dove si terranno
i ricevimenti a pochi giorni di distanza, e dove il padrone di casa... o si tratta forse dell'ospite d'onore?... vale la vostra
polvere da sparo.»
«Facile, certo. E vuoi avvertirlo?»
«No, voglio arrivare per prima, perché la cosa non sia lasciata ad un altro. Se Hyacinth sembrerà perfettamente
al suo posto in un grande ricevimento, non lo sembrerò a maggior ragione io? E poiché conoscerò l'individuo, potrò
accostarmi a lui senza destare il minimo sospetto.»
Muniment sembrò considerare per un poco la cosa come se fosse fattibile e interessante; ma poco dopo rispose,
alquanto pacatamente: «Sarebbe una fine troppo bella per lui, cadere per mano tua.»
«In qualunque modo cadrà, varrà almeno a qualcosa?» chiese la Principessa.
«Varrà la pena di provare. È una vera e propria istituzione nefasta.»
«E tu non hai intenzione di andare da Hyacinth?»
«No, voglio lasciarlo libero.»
«Ah, Paul Muniment!» disse lei. «Sei proprio un uomo eccezionale!» Sprofondò sul sofà, e rimase seduta a
guardarlo. «In nome di Dio, perché me lo hai detto?»
«Perché tu non abbia a rinfacciarmi in seguito di non averlo fatto.»
Lei si buttò distesa sul divano, nascondendo il viso nei cuscini e rimase per qualche minuto in silenzio. Lui la
guardò per un poco senza parlare, poi alla fine disse: «Non voglio esasperarti, ma tornerai da lui!» Queste parole non le
fecero neppure alzare il capo e dopo poco - quasi fosse il migliore rimedio alla propria durezza, Paul uscì dalla stanza.

Che avesse chiuso con lui, chiuso per sempre, era stata l'impressione più viva che Hyacinth si era portata dietro
lasciando Madeira Crescent, la sera prima. Andò a casa e si gettò sul suo lettuccio, dove di nuovo scese su di lui un
sonno consolatore. Ma alle prime luci dell'alba era già sveglio e l'inizio di un nuovo giorno portò con sé il rinnovarsi del
dolore. Si sentiva superato, quasi vago, estinto. Gli tornarono alla mente le parole di Sholto e la compassione che
Madame Grandoni gli aveva profeticamente dimostrata. Di Paul Muniment si domandò soltanto se quel grande
compagno sapesse nulla. Un irrefrenabile bisogno di rendergli giustizia proprio per il fatto che si sentiva tentato a
dubitare di lui, gl'impediva di mettere in questione l'operato dell'amico, perfino con la fantasia. Si domandò vagamente
se lui, Paul, sarebbe mai stato spodestato; ma questa eventualità si sfaldò sotto una luce più forte - una visione
abbagliante di un qualche grande tribunato, che gli passava davanti, ripetutamente, e dove la figura della stessa
Principessa era sommersa e sbiadita.
Una volta alzato in pieno mattino, gli fu impossibile soffermarsi oltre nella stanza per la crescente irrequietezza
che lo agitava insieme alla ricorrente inappagata domanda «dopotutto, dopotutto...? formulata dalla Principessa la sera
prima, quando aveva parlato così coraggiosamente in nome della rivoluzione. «Dopotutto, dopotutto,» dal momento che
niente altro è stato tentato né sarà mai tentato...! La decisione che riteneva ormai presa gli parve sgretolarsi di nuovo,
ma a sua volta quella sensazione si tramutò in un fremito ormai familiare - l'orrore di resuscitare nella propria persona le
mani di sua madre lorde di sangue. L'orrore della ripetizione stranamente non era stato acuto, fino al momento in cui
sulla sua spalla si era posata quella dura, grande mano; nella congerie delle precedenti elucubrazioni la crescente
riluttanza ad agire per il «partito dell'azione» non s'innestava nel timore della macchia personale ma nell'accresciuta
bramosia di conoscere. Eppure ora il pensiero del marchio personale lo nauseava terribilmente; sembrava rendergli
impossibile quel compito. Lo sfiorava, o meglio, lo fronteggiava, come una percossa restituita alla madre già così
orribilmente sfigurata; lasciare che il marchio si rinnovasse nella vita di suo figlio era un modo di riportare a galla la sua
dimenticata, scontata corruzione. Lo accompagnava soprattutto il pensiero che aveva tempo, aveva tempo; di questo era
grato: del fatto che gli avessero lasciato un margine di tempo e non lo avessero condannato a sottostare alla pressione
dell'ora. Era stato un gesto delicato, misericordioso. Aveva ancora un giorno, due, forse anche tre, forse molti. Sapeva
che lo avrebbero sfinito prima ancora che si esaurissero; ma poteva sempre troncarli, quando avesse voluto.
Comunque uscì di nuovo nelle strade, nelle piazze, nei parchi, spinto da un irrazionale desiderio d'immergersi
ancora una volta nella grande città indifferente, che conosceva e amava e che aveva ricevuto tanti suoi sorrisi, lacrime,
confidenze. Era una giornata grigia e umida, sebbene non piovesse, e gli parve che Londra sfoggiasse più che mai
superbamente e apertamente l'impronta della sua storia imperiale. Lentamente attraversò avanti e indietro il ponte di
Westminster e guardò i neri barconi che scivolavano sul grande fiume bruno - guardò l'immenso palazzo frastagliato
che si levava simile alla fortezza di quell'ordine sociale che lui, come il giovane David doveva attaccare con la fionda e
una pietra. In ultimo si avviò verso il parco di Saint James, dove vagabondò à caso, sedendosi incantato ad osservare i
cigni. S'incamminò per il passaggio che porta a Pimlico, li si fermò e tornò indietro; poi, sullo stesso lato del
marciapiede, ripercorse i suoi passi in direzione ovest. Guardò i negozi e in particolare guardò la lunga vitrea distesa del
grande magazzino dove, a quell'ora, Millicent Henning svolgeva le sue mansioni. Da quando era uscito l'immagine di
lei gli si era insinuata dentro, lo aveva accompagnato nel suo peregrinare, gli si era appiccicata addosso rifiutandosi di
lasciarlo. A dire il vero non aveva fatto nessuno sforzo per allontanarla; anche lui le si aggrappava, mentre quella gli
sussurrava parole strane. Era stata così carina con lui, domenica; aveva un carattere così forte, semplice, aperto, con il
suo cuore generoso, immune da qualunque contraffazione sociale. Tutto quello che aveva sempre amato in lei gli
tornava ora più affinato, e quando ancora stava gingillandosi sul ponte che attraversava il laghetto del parco, distratto
all'apparenza dalle prodezze di un giovinastro in barca, c'era stato un istante in cui si era chiesto se in fondo non avesse
sempre provato più attrazione per lei che per chiunque altra. Si sforzò di credere che fosse così, voleva crederlo; e gli
sembrò quasi di vedere lo sguardo dei suoi occhi, se le avesse giurato che era proprio così. Qualcosa del genere era
effettivamente accaduta fra loro, domenica; ma gli avvenimenti successivi avevano spazzato via tutto. Ora il sapore
dell'indefinibile, primitivo piacere provato quella domenica tornava a galla, e si chiese se non avrebbe potuto attingervi
una seconda volta e in misura maggiore. E dopo aver pensato che forse non avrebbe più avuto occasione di desiderare
qualcosa, si trovò a desiderare di poter credere che Millicent avrebbe fatto qualcosa per lui. Non poteva forse aiutarlo -
non poteva forse tirarlo fuori dalla sua situazione? Stava guardando una vetrina - non quella del negozio di lei - quando
lo attraversò la visione di una breve fuga con lei, senza uno scopo ben preso, verso un luogo imprecisato; e si rallegrò
che in quel momento voltasse le spalle ai passanti, perché il suo viso si fece improvvisamente rosso fino alla radice dei
capelli. Nondimeno si abbandonò ripetutamente alla riflessione che sono spesso gli animi più istintivi, più ignoranti, ad
inventare qualcosa, ad avere qualche ispirazione. Che Millicent ci riuscisse o meno poco importava - avrebbe se non
altro potuto sentire intorno a sé la solida rotondità delle sue braccia. Non sapeva che bene gliene sarebbe venuto, né
quali porte gli si sarebbero aperte, ma gli avrebbe fatto piacere. Era un impulso poco rinviabile, ma certo non avrebbe
potuto appagarlo prima di sera. Lui aveva lasciato andare tutto, ma lei sarebbe stata impegnata l'intera giornata; e
tuttavia era sempre meglio vederla prima di sera, scambiare con lei tre parole - sarebbe stato come pregustare ciò che lo
aspettava. Lottò contro la tentazione di entrare nel negozio, sapendo che la cosa non le garbava - ci aveva provato una
volta - molto tempo addietro - poichè le visite di signori, anche se esibivano le loro qualità di clienti (c'era sempre
qualcuno che spiava e che sapeva dire esattamente chi fosse questo o quello) la compromettevano agli occhi dei
superiori. Tuttavia questa volta si trattava di un'occasione speciale, e sebbene indugiasse a lungo, indeciso, imbarazzato,
un poco vergognoso, finalmente entrò, quasi sospinto dall'unica, ultima, dolorosa esigenza superstite. Le avrebbe
chiesto un appuntamento e per questo sarebbero stati sufficienti uno sguardo e una parola.
Ritrovò la strada in mezzo a quel labirinto; sapeva che il suo reparto era al piano superiore. Attraversò il
negozio affollato come se avesse il diritto di trovarcisi quanto chiunque altro; e poiché quando si era alzato al mattino si
era divertito ad indossare il vestito delle feste nel quale faceva una così bella figura, nessuno lo sospettò di intenzioni
meno corrette della ricerca di un qualche oggetto da donare a una signora. Salì le scale e si trovò in una sala ampia,
dove si allineavano le confezioni e dove, nonostante la presenza di una ventina di persone, capì al primo sguardo che
non avrebbe trovato Millicent. Forse stava nella sala attigua, nella quale entrò passando attraverso una larga apertura.
Anche qui c'era un gran numero di clienti, per la maggior parte signore; di uomini se ne vedevano solo tre o quattro e la
vendita della merce era affidata a giovani donne ben curate che indossavano abiti neri dalle lunghe code. Gli sembrò
dapprima che la signorina che desiderava non si trovasse neppure qui, e stava già per andarla a cercare altrove quando
notò improvvisamente un signore alto, in piedi al centro della stanza e che altri non era se non il capitano Sholto. Allora
comprese che la persona in piedi davanti al capitano, immobile come un manichino, che gli voltava le spalle, era
l'oggetto delle sue ricerche. Nonostante avesse il viso voltato riconobbe all'istante Millicent; e riconobbe le sue maniere
da commessa, l'acconciatura all'indietro dei capelli e le vistose curve della sua figura drappeggiate in un abito che era
l'ultimo grido della moda. Esibiva quel prezioso indumento al capitano, perduto in contemplazione. Già una volta si era
recato li con Hyacinthj che aveva finto di essere un acquirente; ma ora la sua imitazione era migliore di quella del
nostro giovanotto, mentre, squadrando in lungo e largo il personale della loro bella amica, con aria pensierosa si
accarezzava lentamente il labbro inferiore col bastone da passeggio. Millicent stava lì dritta, ammirevolmente immobile
- quello che Hyacinth vedeva del dietro del suo abito era stupendo - e anche lui rimase per un momento immobile come
lei. Ma dopo un minuto capì che Sholto lo aveva visto, e per un attimo pensò che stesse per indicarlo a Millicent. Ma
Sholto si limitò a fissarlo per pochi secondi, senza denunciare la sua presenza avrebbe atteso che l'intruso se ne fosse
andato, per concedersi quella soddisfazione. Hyacinth ricambiò lo sguardo per un tempo ugualmente lungo. Cosa si
dissero le due paia di occhi forse non richiede spiegazioni; poi se ne andò.
Quella sera verso le nove la Principessa Casamassima si recò in carrozza all'abitazione di Hyacinth, a
Westminster. La porta di casa era socchiusa e un uomo stava in piedi sul gradino fumando una grossa pipa e guardando
su e giù. Da lontano la Principessa aveva sperato che fosse Hyacinth, ma la sua figura si rivelò molto diversa da quella
del suo devoto amico. Non aveva un viso scostante, anzi la guardò dritta in faccia mentre lei scendeva dalla carrozza e
si avvicinava alla porta. Lei era abituata alle più volgari occhiate e non ci badò. Pensò che fosse uno degli inquilini. Lui
si scostò per lasciarla passare e la osservò mentre si sforzava di risvegliare un'eco dall'inerte campanello a fianco della
porta. Ma non ne ricavò alcuna risposta udibile, così gli disse: «Desidero notizie del signor Hyacinth Robinson. Forse
potete dirmi...»
«Sì, anch'io,» rispose l'uomo con un sorrisetto compiaciuto. «Anch'io sono qui per la stessa ragione.»
Lei sembrò meravigliata. «Dovete essere il signor Schinkel. Ho sentito parlare di voi.»
«Mi avete riconosciuto dal mio cattivo inglese,» disse l'interlocutore con un pizzico d'innocua civetteria.
«Il vostro inglese è straordinariamente buono, vorrei parlare il tedesco altrettanto bene. Avete soltanto un lieve
accento ed evidentemente un ottimo vocabolario.»
«Credo di avere anch'io sentito parlare di voi,» replicò Schinkel con disinvoltura.
«Sì, ci conosciamo un poco tutti nella nostra cerchia, non è vero? Siamo tutti fratelli.» La Principessa era
angosciata, quasi febbricitante - ma riusciva tuttavia a compiacersi per essere lì, in quella viuzza miserabile, a
fraternizzare con un personaggio che somigliava a un cavallo docile, infastidito dai finimenti. «Allora è in casa, spero;
deve scendere per incontrarvi?» continuò.
«È proprio quello che non so: sto aspettando.»
«Sono andati a chiamarlo?» Schinkel la guardò per un poco, fumando la pipa. «L'ho chiamato ma non dice.»
«Che vuole dire: "ma non dice"?»
«La porta è chiusa a chiave: ho bussato tante volte.»
«Forse è uscito,» disse la Principessa.
«Sì, forse è uscito,» ripeté giudiziosamente Schinkel.
Rimasero un attimo faccia a faccia, poi lei disse: «Avete qualche dubbio?»
«Oh, es kann sein. Soltanto che la donna della casa mi ha detto cinque minuti fa che era rientrato.»
«Bene, allora probabilmente è uscito di nuovo.»
«Sì, ma lei non lo ha sentito.»
La Principessa rifletté, rendendosi conto di essere arrossita. Sapeva che Schinkel era al corrente della effettiva
situazione del loro giovane amico e voleva essere chiara e indurlo a esserlo anche lui. Era tuttavia piuttosto turbata dal
suo comportamento cauto - giustamente cauto. Era cortese e impenetrabile, proprio come alcuni di quegli importanti
personaggi - ambasciatori e ministri - che era solita incontrare nel gran mondo. «La donna è rimasta sempre in casa?»
chiese dopo poco.
«No, è uscita per dieci minuti, una mezz'ora fa.»
«Allora può essere uscito di nuovo in quell'intervallo,» propose ancora la Principessa.
«È quello che ho pensato anch'io. È per questo che ho aspettato», disse Schinkel. «Non ho nulla da fare,»
aggiunse, serenamente.
«Neanch'io,» replicò lei. «Possiamo aspettare insieme.»
«Peccato che non sia un posto bello per voi,» disse il tedesco in tono comprensivo.
«Al contrario; qui andrà benissimo: lo vedremo prima, quando torna.»
«Sì, ma forse ne avremo per molto.»
«Non importa, aspetterò. Spero che non abbiate nulla in contrario se vi tengo compagnia.»
«Va benissimo, va benissimo,» rispose Schinkel attraverso il fumo.
«Allora manderò via la carrozza.» Tornò indietro e pagò il vetturino che disse con convinzione: «Grazie,
Milady», e se ne andò.
«Gli avete dato troppo,» osservò Schinkel quando lei si fu riavvicinata.
«Oh, sembrava un gran brav'uomo. Sono certa che se lo merita.»
«È molto caro,» continuò Schinkel affabilmente.
«Sì, e io non ho soldi - ma ormai è fatta. Non c'era nessun altro in casa mentre la donna era fuori? E riprese la
Principessa.
«No, sono tutti fuori; tiene solo uomini. Gliel'ho chiesto. Ha una figlia ma la figlia è andata a trovare sua
cugina. La madre si è allontanata solo cento metri, là dietro l'angolo, per comprare un poco di latte. Ha chiuso la porta a
chiave e ha messo la chiave in tasca. Dal droghiere, dove ha comperato il latte, s'è fermata a chiacchierare con un'amica
che ha incontrato. Sapete come sono le donne - nicht wahr? Io sono arrivato mezzora dopo. Mi ha detto che lui era in
casa e sono salito fino alla sua stanza. Ma non c'era nessun rumore, come vi ho detto. Sono sceso e le ho parlato di
nuovo, e mi ha ripetuto quello che vi ho detto.»
«Allora avete deciso di attendere, come me,» disse la Principessa.
«Oh sì, voglio vederlo.»
«Anch'io, moltissimo.» Non disse altro per un minuto, poi aggiunse: «Credo che vogliamo vederlo tutti e due
per la stessa ragione.»
«Das Kann sein... das Kann sein.»
I due rimasero lì nella sera bruna, scambiandosi qualche parola saltuaria e priva d'interesse. Dopo dieci minuti
la Principessa disse a bassa voce posando la mano sul braccio del suo compagno: «Signor Schinkel, la cosa non mi
piace. Sono intollerabilmente preoccupata.»
«Sì, è tipico delle signore,» rispose saggiamente il tedesco.
«Voglio salire,» disse la Principessa. «Sarete così gentile da mostrarmi la sua stanza.»
«Non servirà a nulla, dal momento che non c'è.»
«Non sono sicura che non ci sia.»
«Be, se non parla, vuol dire che preferisce non ricevere visite.»
«Oh, forse preferirà ricevere me più che voi,» suggerì lei con franchezza.
«Das Kann sein - das Kann sein.» Ma Schinkel non si mosse per introdurla in casa.
«Non c'è nulla stasera... mi capite?» osservò lei con uno sguardo profondo.
«Niente stasera?»
«A casa del duca. Il primo ricevimento è per giovedì, il secondo martedì.»
«Schon. Non vado mai ai ricevimenti, io» disse Schinkel.
«Neanch'io.»
«Eccetto questo: è una specie di ricevimento... voi ed io» e rise orrendamente.
«Sì, e la padrona di casa non lo approva.» Il passo della sospettosa padrona si era fatto udibile nel corridoio,
attraverso la porta aperta che fu subito chiusa con un gesto piuttosto deprecabile. Quel colpo sembrò accelerare al
massimo e l'impazienza e i sospetti della Principessa; il timore di essere cacciata via la spronò maggiormente a
concludere la faccenda per la quale era venuta. «Per amor di Dio, signor Schinkel, portatemi su; altrimenti andrò da
sola,» lo supplicò.
Il suo viso ora si era fatto bianco e l'angoscia, non c'è bisogno di dirlo, lo rendeva bellissimo. Il tedesco lo notò
e poi, senza aggiungere altro, si volse, riaprì la porta e si avviò, seguito da presso dalla sua compagna.
C'era una luce, in basso, che mitigava l'oscurità della scala - almeno fino al primo piano; per il resto, era così
buio che i due avanzavano lentamente, e Schinkel prese per mano la sua compagna. Ma quando girarono un angolo
acuto, al secondo piano, questa soffocò un urlo: «Buon Dio, è quella la sua porta... con la luce accesa?»
«Sì, c'è una luce sotto la porta. C'era anche prima,» disse lui senza scomporsi.
«E perché non me lo avete detto, in nome di Dio?»
«Perché pensavo che vi avrebbe preoccupato.»
«E a voi, non preoccupa?»
«Un poco, ma non ci bado,» ammise Schinkel. «Probabilmente l'ha lasciata accesa.»
«Non lascia mai candele accese!» replicò lei con furia. Salì in fretta i pochi gradini rimasti e si fermò con
l'orecchio contro la porta, afferrò la maniglia e la girò, ma la porta resistette. Poi, ansimando, disse al suo compagno:
«Dobbiamo entrare... dobbiamo entrare!»
«Ma come se è chiuso?» obiettò lui.
«Dovete buttar giù la porta.»
«È molto costosa,» disse Schinkel.
«Non siate disgustoso!» urlò la Principessa. «In una casa come questa le serrature non valgono nulla. Cederà
subito.»
«E se non c'è... se torna e vede quello che abbiamo fatto?»
Lei lo guardò per un attimo attraverso l'oscurità, attenuata soltanto dal piccolo bagliore che usciva dalla
fessura. «Ma c'è, invece! Dio lo sa, se c'è!»
«Schon, schon,» disse il suo amico, come contagiato dalla sua paura e tuttavia deciso a rimanere calmo e
ragionevole. Lei assicurò che sarebbero bastate un paio di forti spallate e la serratura sarebbe saltata - non c'era dubbio
che si trattava di un miserabile pezzo di latta - e si spostò per lasciargli spazio. Lui si avvicinò, si appoggiò perfino alla
porta, ma non spinse forte, e la Principessa attese con le mani premute contro il cuore. Schinkel evidentemente stava
ancora soppesando la cosa. Finalmente emise un profondo sospiro. «Lo so che gli hanno procurato la pistola, è soltanto
per questo,» mormorò. E un minuto dopo lo vide oscillare violentemente avanti e indietro, nel buio. Udì un «crak» e
vide che la serratura cedeva. La porta precipitò a terra: si trovarono in una piccola stanza che sembrava affollata di
oggetti. La luce era quella di una sola candela, sulla mensola del camino; era tanto fievole che in un primo momento lei
non riuscì a distinguere nulla. Ma prima che quel momento passasse, gli occhi le s'incollarono al piccolo letto. C'era
qualcosa ... una cosa nera, ambigua, distesa. Schinkel la trattenne, ma solo per un attimo; lei aveva visto e a quella vista
si era gettata, vicino al letto, in ginocchio. Hyacinth giaceva lì, quasi fosse addormentato, ma c'era una cosa orribile, un
grumo di sangue sulla coperta, sul fianco, sul cuore. Il braccio ciondolava verso terra senza vita, al lato del piccolo
giaciglio: aveva il viso bianco, gli occhi chiusi. Questo fu quanto vide Schinkel, ma solo per un secondo; un movimento
convulso della Principessa che si piegava sul corpo, mentre uno strano urlo sommesso le saliva alle labbra, gli coprì la
vista. Si guardò intorno in cerca dell'arma, della pistola, ma nella foga lei l'aveva spinta con le ginocchia facendola
sparire. «Peccato che gliel'abbiano procurata... se soltanto non l'avesse avuta con sé!» le bisbigliò a bassa voce. Era
deciso a mantenere la calma, così che, girandosi all'arrivo della piccola padrona di casa, che era salita di corsa, bianca in
viso, spiritata, atterrita, al rumore della porta scardinata, fu in grado di dire con voce lenta e grave: «Il signor Robinson
si è sparato al cuore. Deve averlo fatto mentre eravate a comprare il latte.» La Principessa si alzò, udendo un'altra
persona nella stanza, e allora Schinkel vide il piccolo revolver che giaceva sotto al letto. Lo raccolse e lo posò con cura
sulla mensola - tenendosi per sé, con altrettanta cura, la riflessione che sarebbe stato certamente molto meglio averlo
usato per il duca.

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