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Tu vieni dalle stelle - gli aveva risposto un giorno sua madre.

Prima di allora non si era certo chiesto chi fosse, né da dove venisse.

Ma aveva sempre osservato, con solerzia e curiosità, le regole della natura - i suoi trucchi e i suoi
vacui interstizi. Aveva persino intuito una certa affinità tra vanità e necessità.

E tuttavia le possibili analogie tra osservato e osservatore non lo avevano mai realmente lambito.

Non ricordava di essere nato: ricordava solo di esserci stato, in quel luogo, in quello stato, da
sempre, contemporaneo a ogni ente, al mondo, alle risposte e alle domande, al cielo sopra la sua
testa, alla sua casetta di legno, all’erba fresca del giardino, alle colonne di cipressi e allo stagno
intorno casa; e a quanto al di là delle acque: al boschetto di querce, alla collina e alla grande
grotta rossa che svettava su quella cima, sovrastando ogni luogo.

Con lo stesso ritmo naturale con cui inspirava ed espirava, solo signore di tutto ciò che lo
circondasse, ogni giorno ripeteva le stesse azioni.

Insieme a lui, sempre viva, sua madre, in immagine e suono, giovane e vecchia, immutabile e
immutata, al tatto, nella luce, più che nel ricordo presente nelle fibre di ogni cosa, come un
rimbombo.

Del padre, assente dall’alba dei tempi, ignoto ingiustificabile, inseminatore e presunto fuggiasco,
egli non aveva mai osato chiedere, per timore, superbia, orrore, di chissà quanto di altrettanto
innominabile. Poche cose sembravano sfuggire al suo dominio, e ognuna di queste della stessa
volatile essenza del soffio del vento; suo padre, ovunque fosse nascosto, non lo intimoriva. Si
ingannava: sulle distanze, sul fine, sull’oggetto, su tutto.

Ogni giorno, senza domandare, compiva quel che gli era stato destinato: ciò che nella ritualità
quotidiana si esplicava come vita. La mattina usciva di casa, saliva sulla sua barca nera e
attraversava lo stagno; lì, pescava le anguille, e, sceso a terra, stanava e uccideva le serpi. Poi, le
metteva in un cesto, e caricatele sul carro, si avviava verso il boschetto di querce, dove,
pazientemente, avrebbe tagliato dei rami da ardere, con la sua lunga e ricurva falce. Infine
sarebbe salito sul carro, e giunto in cima alla collina, fin dentro la grande grotta rossa, avrebbe
alimentato la vita nel fuoco e grigliato quelle serpentiformi libagioni. È lì che, alla luce delle
fiamme, irradiandosi dorata sulle pareti, si rivelava la figura di una bellissima donna a cavalcioni di
un ariete, una pittura - un disegno della madre sulla pietra. Lì di fronte, in raccoglimento, dopo
aver abbrustolito e mangiato le anguille e le serpi, contemplava l’immagine e recitava una formula
cadenzata che sembrava una preghiera cantata, intonata al grido del fondo degli abissi - agli
stridii dei pipistrelli, allo squittire dei topi, allo scoppiettio della muta dei rettili sul rogo. Tornato a
casa, si infilava nel letto; e dormiva, fino al seguente mattino.

Accadde che un giorno, tornato a casa dalla grotta rossa, si sentì inspiegabilmente triste, vuoto,
desideroso d’altro, stanco ma privo di sonno. Conobbe un desiderio privo d’oggetto. Pensò a
lungo senza giungere in alcun luogo, e una vaga immagine a poco a poco venne a formarsi, simile
a quella di sua madre; danzando ella si muoveva, in ogni dove, spargendo profumo. Ci fu una
breve vibrazione, un suono acuto; e a seguire un’onda sonora regolare e melodiosa, all’udir la
quale sentì il sangue confluire in un punto preciso. Sembrava che il corpo stesse per ribellarsi al
suo controllo; viceversa, provò una folle sensazione di dispersione, un piacevole anelito di
rinnovamento. Seppe concretamente per la prima volta che qualcosa lo sovrastava, lo precedeva.
Qualcosa al quale voleva congiungersi. Poi ebbe una visione: e vide un altro se stesso, ridere e
sbuffare, trasformarsi in toro e montare sua madre come una bestia ne monta un’altra. Poi si
riebbe, e pianse, pianse, pianse e urlò contro sua madre; inveì chiedendole chi egli fosse - e cosa
fosse: ella rispose e il ritmo del suono cadde, infrangendosi in mille rumori. La sua casa divenne
uno specchio, il suo volto un mobile vecchio, la sua vita una pesante inezia da scrollarsi di dosso:
e lontani echi provenienti dal nulla risuonarono come voci di vivi nella sua mente.

Il sangue bussava al portone, pulsava impazzito, fremendo; battevano alla porta gli spiriti in
trappola, infuriati, in cerca di nuova vita, in fuga dal suo corpo, dal suo sesso. Allora li scacciò
tutti, senza riguardi, godendo solitario e rabbioso; e gemendo sgozzò sua madre. Una dolce fuga
da quel mondo lo pervase per lunghi secondi. Poi all’improvviso, inaspettato, sentì il respiro
venirgli meno. Soffocando, deambulò a stento in cerca d’aria, fino alla grande finestra che dava
sul giardino. Si affacciò, trasfigurato. Come pesci i suoi occhi boccheggiarono nel grande
acquario della notte, in cerca di cibo, tra i cipressi in fila in cerchio, mentre guizzanti
contemplavano lo stagno, e, tra le anguille e la melma, il vago baluginio delle stelle riflesse in
esso. Uscì di casa, si gettò nella melma e vi affondò. Poi guardò in cielo: ma non trovò che il muro
di un infinito tappeto di nubi. Allora ebbe un’agnizione: e vide se stesso con un arco imbracciato
mentre deponeva una freccia sul grande fuoco. In quel momento credette di avere un giramento
di testa: e invece si accorse che il cielo si stava capovolgendo, e così lo stagno: e
improvvisamente si trovò proiettato negli abissi.

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