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La dama di Panhüntzer
di Massimo Citi
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1.
– Come, credo.
Spinse in fuori le labbra come uno che chiama il gatto. – Novanta
su cento è runico. Sennò può anche essere paleoslavo. – Mi
considerò, treccine, maglia di un clone di Missoni, jeans tagliuzzati,
scarpe con le zeppe, come se fino a quel momento non si fosse
accorto del mio abbigliamento. – Ma come ti sei vestita?
– Non cambiare discorso. Dopo vado a una festa. Se va bene a
mio padre...
– A tuo padre va bene tutto quello che fai. – E non aggiunse,
come mi aspettavo: bel pirla tuo padre, cioè mio figlio.
– Senti, Bruno. – Odiava che lo chiamassi nonno. – Ma tu sai
giocare a dama?
– Chi, io? No, o almeno non troppo bene.
– E allora che te ne fai? – Indicai la scacchiera con le sue
sessantaquattro caselle bianche-nere-bianche-nere.
– É un bell'oggetto. L'ho portato a casa dalla Finlandia dopo
l'ultima guerra. L'avevo barattata con della gente che abitava in una
casa su un lago gelato e mi è costato dieci razioni di carne in scatola
É stata una trattativa a gesti e urla, ma alla fine l'ho spuntata. Poi ho
mangiato niente o quasi per una settimana, ma ne valeva la pena. A
tuo padre piaceva parecchio e così quando si sposò gliela lasciai, ma
adesso, visto che l'aveva chiusa in un armadio in soffitta, me la sono
fatta restituire.
Bruno, con la sua aria poco nonnesca e i suoi modi da attaché
diplomatico era l'unico delle famiglie dei miei a piacermi davvero.
Con i baffetti bianchi disegnati con un pennarello a punta fine e
capelli candidi tagliati a spazzola sembrava un ambasciatore alieno
uscito da una puntata di Star Trek. Da giovane doveva caricare come
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un maledetto, un po' per via dei famosi occhi mezzi teneri e mezzi
furbi e un po' per la sua capacità di raccontare fenomenali palle
senza nemmeno un'esitazione.
– Cos'ha di straordinario? Non sai nemmeno leggere quello che
c'è scritto.
– É un oggetto antico. Non che me ne intenda, ma dev'essere
stata fabbricata almeno sei o sette secoli fa. E non è minimamente
consumata. Lo vedi? Non è saltata via neppure una casella e le
pedine ci sono tutte. Pedine e tessere sono fatte di ambra –
un'ambra particolare, chiarissima – e ossidiana, il che mi fa
sospettare che in realtà venga da molto più lontano.
– E che cosa ci faceva in una fattoria finlandese?
– Ah, questo non lo so. Non era proprio Finlandia, allora, cioè lo
era stata per un po', dal 1920 al 1939. Prima doveva essere terra
dello Czar e prima ancora, probabilmente, un possesso svedese o
danese. Era un angolo di terra piuttosto conteso, per quanto poco
valesse, vicino al mare, più o meno a metà del golfo di Finlandia. La
scacchiera può essere stata la preda di qualche cavaliere téutone, o il
ninnolo di un boiardo o magari lo svago di un pope fuggito da San
Pietroburgo. In tutti i casi la scritta potrebbe essere in runico. E ciò
potrebbe significare che in realtà questo gioco di dama proviene
dall'Islanda, tra l'altro l'unico posto dove l'ossidiana è comune come
la paglia.
– Ma l'hai fatta vedere a qualche antiquario? A qualcuno che ne
capisca qualcosa?
– No.
– E allora come fai a...?
Sorrise. – Mi piace pensare che sia così, tutto qui. A te non capita
mai?
–Boh. Forse sì, ma non vuoi provarla? In fondo giocare a dama
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nella camera della padrona di casa era già calato il buio. Mi era
capitato di passarci, giusto il tempo di stabilire che stavano facendo
il ballo della mattonella, almeno quelli che non limonavano e si
strusciavano sul divano-letto di Eva schiacciandole tutti i peluche.
In completa paranoia mi misi a scrutare nella sua libreria,
sistemata in una nicchia del corridoio, dove al termine di
un'accurata indagine ripescai una scacchiera da viaggio. Le pedine
della dama non erano più grandi delle monetine dei pirati del Lego e
tutta la scacchiera era grande come una piastrella della cucina.
L'odore di plastica ancora nuova mi assicurò che comunque non si
trattava di uno dei giochi preferiti della padrona di casa.
Feci perdere le mie tracce e, autoesiliata a un'estremità del
balcone in compagnia di tre piante di geranio e dei giocattoli da
spiaggia di Eva seienne, ospitati in un grosso sacchetto di nailon
rigido e opaco, cominciai a disporre le pedine.
Terminata l'operazione le considerai con attenzione scettica. Mio
padre giudicava la dama un gioco cretino e preferiva gli scacchi,
anche se poi era una schiappa pure con quelli. Mia madre aveva più
considerazione per la cosa, ma non perdeva mai tempo in cose futili
come i giochi di società. A scala quaranta giocava volentieri, ma solo
quando non c'era in giro nemmeno una riga stampata alla quale
appendersi. Così io sapevo appena appena le regole e forse
nemmeno tutte. Ci si muoveva in diagonale e per mangiare si saltava
il gettone (o la pedina?) dell'avversario. Una volta approdati
dall'altro lato della scacchiera si faceva dama e questa, formata da
due gettoni sovrapposti, diventava il superman o l'arma segreta
della situazione rendendo la partita un massacro.
Cominciai a muovere. Sullo sfondo prima Morcheeba (buono),
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capitava.
Alla fine, come previsto, furono i neri ad arrivare a Dama e allora
si scatenò il finimondo. I bianchi fuggivano come pecore inseguite
da un branco di lupi, ma le mie dame nere se li pappavano come
tanti pac-man tarantolati da un sovraccarico di tensione. Ero
talmente presa che nemmeno mi accorsi di Paolo, scivolato alle mie
spalle.
Ebbe la bella idea di afferrarmi per un braccio e dirmi qualcosa
come: «chi vince?» Oppure «Ti diverti?» Che fesso. Tutto sommato
ancora adesso non riesco a provare dispiacere per quello che
successe dopo.
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alpino dipinto dal cognato, una vera crosta, buona da regalare a una
festa di beneficenza.
– La stanza era più lunga, molto più lunga e la finestra era sul
fondo. Più lunga che larga, appuntita in cima. E avevo freddo, un
sacco di freddo.
Dopo qualche secondo di silenzio si alzò a raccogliere le pedine.
Lo guardai farlo senza nemmeno prendere in considerazione la
possibilità di aiutarlo. Ma a lui raccattare il mio disastro serviva a
raccogliere le idee, mentre a me serviva a cercare di mettere ordine
nel caos che avevo in testa.
Finita la sua raccolta mi guardò una sola volta, piuttosto a lungo.
– Gaia?
– Sì?
Annuì e prese in mano la scacchiera. Me la cacciò sotto il naso,
dal lato della scritta incisa. – Cosa c'è scritto, qui?
Stavo per mandarlo al diavolo. Voleva mica prendermi in giro?
Ma qualcosa di diverso nei caratteri agganciò la mia attenzione e mi
sforzai di leggere.
– É latino questo, non vado mica tanto bene di latino, io.
– Cos'è?
– É latino, non vedi? I caratteri non lo sono, sono strani, ma sono
parole latine.
– Sicura?
– Iram Vitoldii Panhuentzeris time... – Avevo attaccato bene,
non c'è che dire, avrebbe dovuto sentirmi quella strega della Moffo,
ma mi impiantai quasi subito. Non distinguevo più un tubo e tutta la
scritta mi sembrava una collezione di scarabocchi, di quelli che si
fanno su un pezzo di carta mentre al telefono qualcuno ti asfissia
con una storia d'amore infelicissima.
Bruno si accorse del mio naufragio e mi accarezzò una spalla. Gli
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– Come va?
Paolo ostentava la mano fasciata come un riccone ferito durante
la regata.
– Male, grazie.
Si aspettava giusto due parole da me e allora perché negargliele?
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Di solito a quell'ora dormo come un angioletto con tutti i miei
bellissimi capelli sparsi sul guanciale, ma quella notte non
funzionava come doveva.
Tutta colpa di un pensiero molesto che ne aveva generati altri,
altrettanto molesti se non di più. Il pensiero molesto riguardava
ancora quell'impedito di Paolo. É vero che sono anche capace di
essere perfida, in caso di necessità, ma questa volta avevo la
sensazione di aver passato la misura. E perché? E come mai? La
ridicola domanda di Gianni sulla possessione a quel punto era
tornata d'attualità, dandomi una sensazione di smarrimento che la
prima volta non era esistita.
E così il problema diventava: cosa è tipicamente mio, quali modi,
gesti e impulsi, e cosa non lo è? Una domanda non da poco.
Personalmente non conoscevo nessuno che almeno una volta non
abbia stupito tirando fuori difetti o pregi imprevisti. Quindi, se
anch'io avevo dimostrato insensibilità, crudeltà e violenza, avrebbe
anche potuto non esserci nulla di troppo strano. Per consolarmi mi
ricordai di quando, a sei anni, avevo piegato all'indietro un dito a un
bambino più piccolo facendolo piangere come una fontana e avevo
minacciato di picchiarlo se avesse detto qualcosa ai suoi. O di
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– Ho delle notizie.
Possibile che Bruno stesse aspettandomi? Eppure lo trovai
sistemato sulla poltrona come fosse in attesa. Posai la borsa e sedetti
di fronte a lui.
– Fai una partita?
– Come no. Però prima stammi a sentire. Sono andato da un
antiquario, anzi da una dozzina di antiquari. Ne ho trovato solo uno
che abbia saputo dirmi qualcosa di serio sulla scacchiera. Poi sono
andato alla Biblioteca Nazionale e ho messo insieme qualche altra
notizia. Ma quasi tutte le informazioni le ho trovate al consolato
lituano.
– Bene. Sono tutta orecchi.
Rise. – Decisa eh? In quanti ti hanno detto che ultimamente sei
strana, Gaia?
– É una domanda?
– No, solo un commento. Ma torniamo alle cose serie. La dama è
stata costruita a Vilnius nella seconda metà del 1300, da un
artigiano di origine tedesca, Witold Panhüntzer. Questa non è
l'unica, ce ne sono un'altra dozzina sparse per l'Europa Orientale.
– Vale molto?
– No, non moltissimo. Ma è preziosa per un altro motivo. Lo sai
dov'è Vilnius?
– Me ne guardo bene.
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Non era una bella giornata, il cielo era pesante di nubi che,
disposte su più strati, roteavano come immani foglie. Camminavo
veloce per evitare il classico acquazzone che, visto il mio
abbigliamento – nerissimo ma leggero – mi avrebbe inzuppata come
un pavesino. Mentre camminavo tenevo la testa bassa e inseguivo
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ritornare alla loro quiete. Non la vidi fare nessun gesto né riuscii a
farne io. Si voltò e si allontanò. Mi aveva riconosciuto e quindi non
aveva nulla da temere, da me.
stanca, vero?
– Sì. Sono esausta.
– Lo immaginavo. Devi aver corso come una matta per evitare la
pioggia. Il nonno mi ha telefonato cinque minuti dopo che eri uscita
da casa sua e un attimo dopo sei arrivata. Devi avere corso come se
ti inseguisse uno spettro.
Non mi sentivo all'altezza del suo umorismo, ma feci ugualmente
il possibile. – Effettivamente mi inseguiva uno spettro, ma pensavo
che ti saresti impressionato, a dirtelo.
Rise. – Già, è proprio così. Vieni qui.
Feci il giro del tavolo per raggiungerlo.
– Hai bisogno di qualcosa per dormire? Vuoi un sorso di whisky o
di qualcosa del genere?
– No, grazie.
Si morse la punta dell'indice, molto pensieroso. – Vuoi una
piccola luce accesa, quella di paperino che usavi da piccola? É nel
primo cassetto dietro di te, prendila.
La presi. Mi strinse forte, senza parlare, e mi accarezzò i capelli.
Mi lasciai coccolare, ero debole, confusa, stanchissima.
– Buonanotte, Gaia. Io resto sveglio ad aspettare la mamma.
Riposa e se hai bisogno, basta un fischio.
– Stai tranquillo.
– Sono tranquillo, con te.
Lo disse con solennità, come se ne fosse davvero convinto.
L'ho letto in un libro che mi ha passato lui. Probabilmente l'ha
fatto apposta. «...E i papà? Sembrano sempre da un'altra parte,
assorbiti dalle loro cose. E poi te li trovi vicino quando sei convinto
di essere rimasto solo, e scopri che di te sapevano anche ciò che
nemmeno tu sapevi.»
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8.
– Voglio giocare.
Bruno mi sembrava più serio del solito. Non parlò né protestò,
fece un cenno di assenso e mise la scacchiera sul tavolo.
– Tu giochi con il nero, giusto? – Chiese. – Con la dama nera?
Erano ormai giorni che stavo al gioco della Dama nera. Ma non
potevo lasciare sempre a lei l'iniziativa. Stavolta il primo passo
l'avrei fatto io. L'idea di ritrovarmi nella sua testa o di fronte a lei mi
terrorizzava ma il nostro contatto era come l'ottovolante, ne avevo
una paura fottuta ma insieme avevo voglia di tornarci.
– Tocca a te, muovi. – Dissi a Bruno.
Ubbidì. Se era turbato dai miei modi stava molto attento a non
farmelo notare. Attaccai con la terza pedina a sinistra schierandola
di fronte alla seconda e bloccandolo. Mosse un'altra pedina alle
spalle della prima fila. Aveva aperto un varco, era solo questione di
tempo e sarei passata.
– Gaia?
Senza nemmeno aprire gli occhi capii che mi aveva sdraiato sul
suo caro, vecchio divano, ricoperto da una lunga pezza di seta
decorata a rombi. Mi piaceva la sensazione della seta, sotto le dita.
Mi era sempre piaciuta, anche da piccola, quando Bruno mi
sembrava altissimo e non riuscivo a smettere di guardargli i baffi.
– Come stai?
Aprii gli occhi. Torreggiava sopra di me come il Bruno di allora.
– L'ha ucciso. Come ha ucciso tutti i figli che ha avuto da lui.
– Ne sei certa?
Mi venne da ridere. Era incredibile come tutti, Bruno ma anche
Gianni o i miei, mi avessero ormai accreditata nel mio ruolo di
corrispondente da un passato e un luogo indefiniti.
– Sì, ne sono certa. Ora vive con il suocero e non la perdono mai
di vista. Non sanno di preciso e sospettano, ma la temono. La Dama
Nera. Non ha mai abbandonato il lutto per la sua famiglia e da anni
nessuno la vede vestita di un altro colore. Solo il padre del suo sposo
ha pietà di lei, chissà perché, e gioca ancora con lei. Proprio come
noi due: una ragazza e un uomo anziano seduti uno davanti all'altra,
e in mezzo la scacchiera. Tutto ciò che le è concesso è giocare, per
nessun altro motivo può abbandonare la sua stanza, neppure per le
funzioni religiose alle quali, comunque, non andrebbe mai.
Mi alzai a sedere. Mi girava la testa e avevo il colletto della polo
fradicio.
Bruno notò il mio gesto. – Hai sudato molto. E mi hai fatto un
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Erano gli ultimi giorni di scuola e, per fortuna, nel resto dell'anno
me l'ero cavata decentemente, altrimenti difficilmente sarei
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Non ero più passata da Bruno ed il tempo era pessimo. Contai sei
giorni di seguito di pioggia. Andavo a scuola solo quando ne avevo
voglia, cioè un giorno su tre. I miei non commentavano e
compilavano le giustificazioni. In fondo mancava solo una settimana
alla fine della scuola.
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Il lago
Ghiaccio spezzato sottile trasparente
Sotto gli abiti neri la mia pelle è rimasta chiara e morbida
la stoffa mi ha protetto mi ha lasciata com'ero lontano abbaiano
cani
il ghiaccio si illumina è giusto e sicuro come un padre
né Dio né loro mi troveranno più sarò acqua fango terra erba
corvi foglie neve ghiaccio li circonderò li stringerò li assedierò e li
vedrò invecchiare e morire
avrò un cuore di ghiaccio e non cambierò più
Mi aveva abbandonato.
Intirizzita, stordita mi alzai dal mio letto di pietra e tornai a casa.
Trovai i miei sulla porta, pronti a uscire.
– Sono sola, adesso. Se n'è andata.
Mi fecero entrare e mio padre mi versò un bicchierino di grappa
nel tè bollente. Non mi chiesero altro, mi diedero una coperta e
accesero la stufetta elettrica.
– Riposati, adesso. Io e la mamma facciamo una partita a carte. –
Si abbassò su di me. Sapeva di tabacco e di liquirizia, come sempre.
– Dovevi farlo da sola, vero?
Annuii.
– Capisco. Dormi, adesso.