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La dama di Panhüntzer
di Massimo Citi
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A M. (G.), divenuta realtà dal sogno


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«Giovanotto, ma come puoi permetterti,


toccando le corde più segrete,
di penetrare in un'esistenza umana
che ti è restata estranea,
che doveva restarti estranea?»
(E.T.A. Hoffmann, il Consigliere Krespel)

1.

Aveva occhi sottili – da russo, ho sempre pensato – di un azzurro


allegro, occhi che parecchi dei miei amici avrebbero dato un braccio
per avere, che ti seguivano e sapevano che prima o poi avresti
combinato qualcosa di memorabile.
– Che cosa c'è scritto?
– P... sarà una P? Forse è un'H. Boh, ci rinuncio, non lo so. É
scritto in gotico.
Si abbassò a guardare personalmente. Sapeva di tabacco dolce, da
pipa. Lo teneva nella tasca del cardigan color castagna, in una busta con
un disegno scozzese e un pezzetto di carta dorata a chiuderlo.
La scritta era tracciata sui bordi della scacchiera, lungo i quattro lati,
piccola ma perfettamente leggibile, a patto di saperla leggere. Elegante,
non c'è dubbio, ma comprensibile quanto il testo di un manga.
– Non è gotico, è runico. – Mi guardò con aria certa e solida.
Ricambiai lo sguardo non proprio convinta. Sorrise con metà bocca.
– Credo.
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– Come, credo.
Spinse in fuori le labbra come uno che chiama il gatto. – Novanta
su cento è runico. Sennò può anche essere paleoslavo. – Mi
considerò, treccine, maglia di un clone di Missoni, jeans tagliuzzati,
scarpe con le zeppe, come se fino a quel momento non si fosse
accorto del mio abbigliamento. – Ma come ti sei vestita?
– Non cambiare discorso. Dopo vado a una festa. Se va bene a
mio padre...
– A tuo padre va bene tutto quello che fai. – E non aggiunse,
come mi aspettavo: bel pirla tuo padre, cioè mio figlio.
– Senti, Bruno. – Odiava che lo chiamassi nonno. – Ma tu sai
giocare a dama?
– Chi, io? No, o almeno non troppo bene.
– E allora che te ne fai? – Indicai la scacchiera con le sue
sessantaquattro caselle bianche-nere-bianche-nere.
– É un bell'oggetto. L'ho portato a casa dalla Finlandia dopo
l'ultima guerra. L'avevo barattata con della gente che abitava in una
casa su un lago gelato e mi è costato dieci razioni di carne in scatola
É stata una trattativa a gesti e urla, ma alla fine l'ho spuntata. Poi ho
mangiato niente o quasi per una settimana, ma ne valeva la pena. A
tuo padre piaceva parecchio e così quando si sposò gliela lasciai, ma
adesso, visto che l'aveva chiusa in un armadio in soffitta, me la sono
fatta restituire.
Bruno, con la sua aria poco nonnesca e i suoi modi da attaché
diplomatico era l'unico delle famiglie dei miei a piacermi davvero.
Con i baffetti bianchi disegnati con un pennarello a punta fine e
capelli candidi tagliati a spazzola sembrava un ambasciatore alieno
uscito da una puntata di Star Trek. Da giovane doveva caricare come
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un maledetto, un po' per via dei famosi occhi mezzi teneri e mezzi
furbi e un po' per la sua capacità di raccontare fenomenali palle
senza nemmeno un'esitazione.
– Cos'ha di straordinario? Non sai nemmeno leggere quello che
c'è scritto.
– É un oggetto antico. Non che me ne intenda, ma dev'essere
stata fabbricata almeno sei o sette secoli fa. E non è minimamente
consumata. Lo vedi? Non è saltata via neppure una casella e le
pedine ci sono tutte. Pedine e tessere sono fatte di ambra –
un'ambra particolare, chiarissima – e ossidiana, il che mi fa
sospettare che in realtà venga da molto più lontano.
– E che cosa ci faceva in una fattoria finlandese?
– Ah, questo non lo so. Non era proprio Finlandia, allora, cioè lo
era stata per un po', dal 1920 al 1939. Prima doveva essere terra
dello Czar e prima ancora, probabilmente, un possesso svedese o
danese. Era un angolo di terra piuttosto conteso, per quanto poco
valesse, vicino al mare, più o meno a metà del golfo di Finlandia. La
scacchiera può essere stata la preda di qualche cavaliere téutone, o il
ninnolo di un boiardo o magari lo svago di un pope fuggito da San
Pietroburgo. In tutti i casi la scritta potrebbe essere in runico. E ciò
potrebbe significare che in realtà questo gioco di dama proviene
dall'Islanda, tra l'altro l'unico posto dove l'ossidiana è comune come
la paglia.
– Ma l'hai fatta vedere a qualche antiquario? A qualcuno che ne
capisca qualcosa?
– No.
– E allora come fai a...?
Sorrise. – Mi piace pensare che sia così, tutto qui. A te non capita
mai?
–Boh. Forse sì, ma non vuoi provarla? In fondo giocare a dama
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con un oggetto tanto antico dev'essere un bel brivido.


– Un bel brivido... Sì, forse hai ragione. – Si accarezzò la punta del
naso con un dito. – Dovrebbe proprio essere un brivido.
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2.

La festa, quella sera, fu un aborto.


Innanzitutto Gianni non era potuto venire, e quindi per quanto
mi riguardava si partiva subito con il piede sbagliato. E poi Diana,
teoricamente la mia migliore amica, era di un umore tanto nero da
non poterci nemmeno scambiare due parole.
I genitori di Eva avevano chiuso a chiave il salotto e quindi
dovemmo schiacciare la festa tra la sua camera e il balcone sottile e
lungo che faceva il giro di mezza appartamento. Non essendoci
Gianni, Paolo si mise d'impegno a ronzarmi intorno come un tafano.
E a me faceva lo stesso effetto, di un tafano, intendo. Il problema era
che non lo sopportavo a pelle, nemmeno per farci due chiacchiere.
Magari si trattava di un problema di odore o di feromoni, o del
tentativo di apparire insieme paterno e poco raccomandabile, fatto
sta che tutte le volte che mi sfiorava mi veniva da spostarmi. Una
cosa imbarazzante.
Siccome tutti si annoiavano a morte qualcuno ebbe la bella idea
di scendere nel supermercato di fronte a comprare del whisky. Io ne
assaggiai appena un sorso nonostante le insistenze di Paolo, che
esibiva un sorriso saputo, lui credeva da Macchia Nera mentre al
massimo era da bagnino.
Com'era ovvio, dopo un'ora i virili bevitori facevano la fila davanti
al bagno per riemergerne – dopo rantoli e grugniti – pallidi e gravi.
Dopo poco più di un'ora di faticose battute e chiacchiere a vuoto,
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nella camera della padrona di casa era già calato il buio. Mi era
capitato di passarci, giusto il tempo di stabilire che stavano facendo
il ballo della mattonella, almeno quelli che non limonavano e si
strusciavano sul divano-letto di Eva schiacciandole tutti i peluche.
In completa paranoia mi misi a scrutare nella sua libreria,
sistemata in una nicchia del corridoio, dove al termine di
un'accurata indagine ripescai una scacchiera da viaggio. Le pedine
della dama non erano più grandi delle monetine dei pirati del Lego e
tutta la scacchiera era grande come una piastrella della cucina.
L'odore di plastica ancora nuova mi assicurò che comunque non si
trattava di uno dei giochi preferiti della padrona di casa.
Feci perdere le mie tracce e, autoesiliata a un'estremità del
balcone in compagnia di tre piante di geranio e dei giocattoli da
spiaggia di Eva seienne, ospitati in un grosso sacchetto di nailon
rigido e opaco, cominciai a disporre le pedine.
Terminata l'operazione le considerai con attenzione scettica. Mio
padre giudicava la dama un gioco cretino e preferiva gli scacchi,
anche se poi era una schiappa pure con quelli. Mia madre aveva più
considerazione per la cosa, ma non perdeva mai tempo in cose futili
come i giochi di società. A scala quaranta giocava volentieri, ma solo
quando non c'era in giro nemmeno una riga stampata alla quale
appendersi. Così io sapevo appena appena le regole e forse
nemmeno tutte. Ci si muoveva in diagonale e per mangiare si saltava
il gettone (o la pedina?) dell'avversario. Una volta approdati
dall'altro lato della scacchiera si faceva dama e questa, formata da
due gettoni sovrapposti, diventava il superman o l'arma segreta
della situazione rendendo la partita un massacro.
Cominciai a muovere. Sullo sfondo prima Morcheeba (buono),
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seguita da Backstreet Boys (carini, ma come musica il più delle volte


fanno vomitare, se non balli), qualche riciclato – originale o remix –
degli anni '60, di quelli che fanno ridere i miei e, infine, un mix
autostradale di mariachis, latino-americani mucho, che non penso
andassero troppo d'accordo con i limonatori sul divano-letto. Mixate
sullo sfondo anche le chiacchiere a volume altissimo di amici,
conoscenti e compagni di scuola: un gruppo di sedici-diciottenni
ancora troppo impegnati a tentare di divertirsi per sentire la fatica.
Non mi isolo volentieri. Mi piace di più sentirmi cretina in
compagnia che furbissima da sola, ma la colpa era della miseria
della festa, scarsissima, e di Bruno e delle sue bugie.
Mentre muovevo i pezzi cercando di ricordare qualcosa del gioco,
misericordiosamente dimenticata da Paolo e da tutti gli altri,
immaginavo di essere una principessa russa finita chissà come in
una festa di provincia e circondata da nobilotti ubriachi, rozzi e
maneschi e da contadine rubizze pronte a sollevare in un colpo solo
tutte le dodici sottane. Una nobildonna rifugiatasi nella biblioteca in
attesa che tutti risalissero sulle loro slitte e se ne andassero fuori dai
piedi. Concentrai l'attenzione sulle mie mani che scivolavano sulla
scacchiera e mi rammaricai di non avere unghie lunghissime e la
pelle più chiara.
Ho una predilezione per il colore nero, che è cominciata
dall'infanzia e che sicuramente va d'accordo con la mia simpatia per
le cause perse. Nelle rivista di enigmistica di mia nonna – la madre
di mia madre, non la moglie di Bruno – era sempre il bianco a
muovere e a vincere in tre, quattro o al massimo cinque mosse. E
perché? mi chiedevo, perché sempre il bianco? Così, per una volta
che controllavo la situazione, cominciai a far fare al bianco grosse
stupidaggini, aprendo le file come le valve di una cozza, in modo che
i miei fidi neri si infilassero in mezzo mangiando tutto quello che
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capitava.
Alla fine, come previsto, furono i neri ad arrivare a Dama e allora
si scatenò il finimondo. I bianchi fuggivano come pecore inseguite
da un branco di lupi, ma le mie dame nere se li pappavano come
tanti pac-man tarantolati da un sovraccarico di tensione. Ero
talmente presa che nemmeno mi accorsi di Paolo, scivolato alle mie
spalle.
Ebbe la bella idea di afferrarmi per un braccio e dirmi qualcosa
come: «chi vince?» Oppure «Ti diverti?» Che fesso. Tutto sommato
ancora adesso non riesco a provare dispiacere per quello che
successe dopo.
12

3.

– Con le unghie? E dove le hai tu le unghie?


Bruno sorrideva senza esagerare. E soprattutto senza sfottere.
I miei invece l'avevano presa malissimo e insieme mi avevano
riscaldato una porzione di rammarichi e sagge considerazioni da
bastarmi per un anno e passa.
«Mi sta sulle palle quel cretino. Non ho il diritto di togliermelo
dai piedi?»
Giusto, giustissimo, aveva detto mia madre – mio padre preferiva
non esprimersi sui miei gusti personali in fatto di sesso forte – ma,
cribbio, gli hai scavato la mano. Hanno dovuto persino portarlo al
pronto soccorso. Non bastava mandarlo a c... al diavolo?
Mia madre non parlava meglio di me, quando aveva la mia età,
ma una volta passati due volte gli anta, anche se la seconda volta di
poco, si preoccupava di più di non sembrare una ragazzina
invecchiata troppo in fretta.
«É stata un'esagerazione. Qualcuno troppo bevuto si è attaccato
al telefono. E comunque il Poveropaolo ferito è stata la cosa più
divertente della festa.»
I miei si sono guardati. Hanno un discreto grado di complicità e
penso che mi considerino parecchio. E poi si commuovono quando
sfodero i miei sarcasmi. Ho dovuto sgranare un po' gli occhi per
riconquistarli. Mi hanno spedito a letto con il divieto formale di
accendere la TV o di attaccarmi ad Internet, ma senza altre
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rappresaglie. Ho ubbidito in modo da riuscire ad ascoltare i loro


commenti al fatto del giorno, ma i furbastri parlavano troppo piano
perché riuscissi a distinguere qualcosa.

Bruno stava sempre aspettando una risposta alla cortese


domanda, così tornai in diretta. – Non lo so. Ho sollevato la mano
che teneva una dama nera e ho fatto per togliermi di dosso la pinna
di Paolo il tricheco. Ma è successo qualcosa. E diventato tutto bianco
e nero, come in un vecchio film. Mi sono sentita molto forte e molto
arrabbiata. E l'ho artigliato. – Mi guardai ancora una volta la mano
colpevole di artigliamento: unghie piatte e corte, tinte di smalto
verde mela.
– Come una dama importunata da un bifolco. Mi piaci, Gaia.
Parlo sul serio.
Era il massimo di sorriso gli avessi mai visto esibire: il sorriso di
Nonno Artiglio.
– Già. Ma tutta la storia suona pazzesca. Paolo ha visto il suo
sangue e si è messo a urlare come un bambino che si scotti con il
ferro da stiro. Sono arrivati tutti di corsa, qualcuno gli ha fasciato la
mano e Eva mi ha guardato come se avessi portato un lavavetri alla
sua festa. Io non mi sentivo affatto pentita e nemmeno confusa o
incazzata. Anzi, ho rimesso a posto la scacchiera con tutta la calma
necessaria, non ho detto nulla, non ho provato a spiegare e me ne
sono andata a casa. Se tu ci capisci qualcosa...
Bruno spinse in fuori le labbra, chiamando il suo invisibile micio
e si sistemò nella sua leggendaria poltrona bergére, accerchiata da
pile di romanzi gialli.
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– Non me lo spiego, sui due piedi. Ma adesso proviamo un po'... ti


dispiacerebbe prendere il mio tavolino veneziano? Ecco, portalo qui,
davanti a me. E mettiti qui anche tu. Ah, già, e prendi la dama,
quella che ti ho mostrato due giorni fa.
– Ma io non ho mica più voglia di giocare alla dama. Chissà cosa
può capitarmi la prossima volta che gioco...
– Non ti preoccupare. Fai quello che ti dico.
Ubbidii. La dama di Nonno Artiglio dava un sacco di punti alla
piastrella da cucina di Eva. Lucida ed elegante nonostante l'età,
aveva l'aria naturalmente autorevole che posseggono soltanto gli
oggetti davvero belli. Sedotta, la sfiorai con la punta delle dita: i
pezzi e la scacchiera erano freddissimi, come se avessero conservato
la temperatura del luogo di origine.
– Cazzo, ma sono gelati.
Ha inarcato un sopracciglio sospirando. Ha un concetto
sorpassato delle donne e non sopporta il turpiloquio pronunciato da
coralline labbra femminili. – É vero, è curioso. Dev'essere una
caratteristica della pietra con la quale sono stati costruiti.
Non ero tanto convinta ma lasciai perdere. Il freddo mi si era
appiccato alla punta delle dita e non mi sentivo troppo bene. La
voglia di giocare mi era passata di colpo.
Finì lui di disporre le pedine e mi fece segno di cominciare.
– Io gioco con il nero – gli comunicai. Lui prese atto e mosse per
primo.
In capo a dieci mosse avevo già praticamente perso, ma avevo
freddo, troppo freddo per ragionare su quello che facevo.
– Cosa capita?
– Niente, un po' di brividi.
– Siamo a maggio, quasi giugno. Posso chiudere la porta-finestra
del balcone, se vuoi.
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– Non è quello. – Già, ma allora cos'era? Un'influenza in arrivo,


un attacco di malaria? Nonno Artiglio mi guardò perplesso a arrivò a
Dama. Adesso una dama bianca se ne stava impettita in fondo alla
scacchiera, dalla mia parte, tronfia come una tacchina.
La fissai con antipatia. Era di un bianco appena dorato come il
cielo di una di quelle giornate nelle quali nevica dall'alba al
tramonto. Rabbrividii e mi presi in mano il mento tenendo il gomito
puntato contro il ginocchio, tanto per darmi un contegno. Non
guardavo né Bruno né la stanza, concentrata sulla scacchiera. Lui
aspettava una risposta e io non sapevo quale dei miei muovere senza
farlo massacrare dai suoi fottuti bianchi in attesa. Prendevo tempo
come fanno i campioni di scacchi, anche se non avevo grandi
possibilità né grandi progetti. A un certo punto ho alzato la testa
lasciando correre lo sguardo all'infinito, oltre la spalliera della
poltrona di Nonno Artiglio.
C'era una finestra con un'armatura a croce, in fondo alla stanza.
Era la prima volta che la vedevo. Non ebbi il coraggio di
distogliere lo sguardo nel timore di vederla scomparire com'era
apparsa. Non era una finestra di quelle che usiamo adesso, era fissa,
senza battente, stretta e alta e lasciava entrare una luce candida che
non aveva proprio nulla in comune con la luce di mezzo pomeriggio
di una fine primavera in Italia.
La fissai per un po', poi un brivido più forte mi obbligò a guardare
altrove. Bruno si era acceso la pipa e mi guardava in tralice,
fingendo di essere assorbito dalla partita. L'una dopo l'altra mi
accarezzai il dorso delle mani sottili e pallide e quindi, con un gesto
improvviso, spazzai la scacchiera facendo precipitare a terra tutte le
pedine.
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– Non mi interessa più giocare.


Dovevo aver detto così, o forse non mi frega più giocare, ma ne
dubito perché mi controllavo parlando con Bruno. Ma lui sobbalzò
come avessi tirato giù un bestemmione e gridò: – COS'HAI detto?
Guardai le pedine sparse per terra e la scacchiera messa di
sghimbescio e mi sentii un verme. – Scusa, Bruno. Mi dispiace,
davvero...
– Lascia perdere. Cos'hai detto? Sei capace di ripeterlo?
– Eh? Beh, ho detto «Non mi interessa più giocare» e poi ho fatto
questo macello...
– Non preoccuparti, non si è rotto niente. – Guardò di fianco,
come si aspettasse di veder scritta una spiegazione sul muro, quindi
mi puntò di nuovo. – Il fatto è, Gaia, che tu non hai detto nulla del
genere. O perlomeno non l'hai detto in italiano né, per quanto ne
capisco, in inglese, che poi è l'unica altra lingua che mastichi per
motivi scolastici, vero?
– Anche per le canzoni.
– Va bene, anche per le canzoni. Conosci qualche altra lingua?
– Alle medie ho fatto il tempo prolungato e so un po' di francese.
– Non era francese, quella roba.
Avevo smesso di avere freddo ed ero tornata in possesso delle mie
mani, mediamente abbronzate e mica tanto sottili e delicate. Un
brivido di tutt'altro genere mi diede un bello scossone. Sollevai le
mani davanti a me le mostrai a Bruno. – Guarda.
Scosse la pipa ormai spenta nel portacenere, uno di quei
portacenere con il fondo di pelle a soffietto che si vedono solo nei
salotti dei film anni '40. – Vedo. E allora?
– Sono normali, no?
– Abbastanza.
Nonno Artiglio non sorrise e così passò un esame non da poco,
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almeno per me.


– Mentre giocavamo erano pallide, con dita più sottili.
Sull'anulare della sinistra avevo un piccolo anello con una pietra
verde.
– Tu non porti mai anelli – osservò lui.
– Infatti. – Faceva solo finta di non vedermi, Bruno, ma era un
tipo attento. Sorrisi sentendomi all'improvviso più vecchia e quasi
donna. Ci si può illudere di esserlo perché c'è un brufolo–positivo
che ti guarda le tette, certo, ma un uomo di una certa età che ti
guarda le mani è davvero tutta un'altra cosa. – E c'è un'altra
stranezza... – Dissi «strane-ezza» in un modo nuovo per me,
strascicando le sillabe come Greta Garbo. E non finii la frase perché
avevo incominciato a chiedermi come mai mi fosse venuta in mente
Greta Garbo. Forse perché era l'unica diva del bianco e nero che
conoscessi un pochino. E perché anche lei aveva in un film mani
pallide e unghie lunghe e pericolose.
– Quale stranezza?
Non è che nonno Artiglio avesse un tono scazzato. Probabilmente
era solo teso e cominciava giustamente ad essere stufo della
sottoscritta.
– Scusa, comincio a delirare. Sulla parete dietro di te, c'era una
finestra. Fuori dalla finestra doveva esserci la neve. C'era proprio
quella luce... sai quella di quando nevica e non ha intenzione di
smettere.
Si girò senza fretta, lo dico perché al posto suo mi sarei slogata le
cervicali per l'impressione. Alle sue spalle, a non più di due metri di
distanza, c'era il vecchio contromobile di castagno che conoscevo da
quando avevo tre anni, con sopra appeso uno stucchevole paesaggio
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alpino dipinto dal cognato, una vera crosta, buona da regalare a una
festa di beneficenza.
– La stanza era più lunga, molto più lunga e la finestra era sul
fondo. Più lunga che larga, appuntita in cima. E avevo freddo, un
sacco di freddo.
Dopo qualche secondo di silenzio si alzò a raccogliere le pedine.
Lo guardai farlo senza nemmeno prendere in considerazione la
possibilità di aiutarlo. Ma a lui raccattare il mio disastro serviva a
raccogliere le idee, mentre a me serviva a cercare di mettere ordine
nel caos che avevo in testa.
Finita la sua raccolta mi guardò una sola volta, piuttosto a lungo.
– Gaia?
– Sì?
Annuì e prese in mano la scacchiera. Me la cacciò sotto il naso,
dal lato della scritta incisa. – Cosa c'è scritto, qui?
Stavo per mandarlo al diavolo. Voleva mica prendermi in giro?
Ma qualcosa di diverso nei caratteri agganciò la mia attenzione e mi
sforzai di leggere.
– É latino questo, non vado mica tanto bene di latino, io.
– Cos'è?
– É latino, non vedi? I caratteri non lo sono, sono strani, ma sono
parole latine.
– Sicura?
– Iram Vitoldii Panhuentzeris time... – Avevo attaccato bene,
non c'è che dire, avrebbe dovuto sentirmi quella strega della Moffo,
ma mi impiantai quasi subito. Non distinguevo più un tubo e tutta la
scritta mi sembrava una collezione di scarabocchi, di quelli che si
fanno su un pezzo di carta mentre al telefono qualcuno ti asfissia
con una storia d'amore infelicissima.
Bruno si accorse del mio naufragio e mi accarezzò una spalla. Gli
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franai sul petto, io con tutta la mia tenuta rigorosamente nera da


fanatico. Se non mi ricordo male devo anche aver pianto, ma non
saprei proprio dire perché.
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4.

– Cazzo, ma è una storia fichissima.


Gianni è un ragazzo eccezionale, secondo me. Ha una fantasia che
io non avrei nemmeno se mi facessi di hashish dal mattino alla sera,
ma ha un grosso buco nel cervello nella zona dove dovrebbe stare la
sensibilità. Da lui non mi aspettavo una recensione alla mia storia,
ma almeno una pacca sulla spalla, o addirittura un abbraccio e un
bacio. Almeno un bacetto sulla guancia.
– Fa un centone.
– Eh?
– Ti sei divertito? Bene, allora paga il copyright.
Mi guardò allocchito. E sì che non è mica scemo. – Ma dai, Gaia,
vuoi mica dirmi che ti è capitata sul serio una cosa così?
– Certo che mi è capitata. E non mi sono affatto divertita.
– Cazzo, ma allora...
Mi aspettavo qualche altra considerazione entusiasta, se non
proprio una fila di pallini e asterischi, ma riuscì a sorprendermi
un'altra volta. Mi prese le mani tra le sue e le strinse forte. – Hai
avuto paura?
Era il primo a chiedermelo: – Sì. – Non mi era accorta di preciso
di cosa fosse quella specie di ansia che mi aveva preso, ma adesso
che qualcuno aveva pronunciato la parola, la riconobbi. – Ho avuto
una paura fottuta, una cosa che non avevo mai provato in vita mia.
Ma ero anche eccitata, attirata, come penso capiti dopo una riga di
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coca. Come se avessi dovuto attraversare la cripta dei fantasmi per


arrivare al posto più bello del mondo.
– Come in un videogioco.
– Già. Sono scarsa a paragoni. E la sai un'altra cosa strana? Le
mani, quelle mani che si muovevano sulla scacchiera erano
illuminate in un altro modo. Come nei fotomontaggi venuti male,
dove tutto è illuminato in un modo e un particolare, solo un
particolare, nell'altro. Ero presissima nella partita e così non davo
peso alla cosa, ma lo sapevo. Non so se il nonno se ne sia accorto o
se abbia notato qualcosa di strano, mi è mancato il coraggio di
chiederglielo. Mi sembrava già abbastanza scombussolato così.
Mi guardava e oscillava sul busto come Ray Charles. Continuava a
tenermi le mani, forse per evitarmi altre metamorfosi.
– Se non ci sono scacchiere in giro non capita nulla – mi sentii in
dovere di spiegargli.
Abbandonò l'oscillazione per grattarsi con gli indici il cranio
appena sopra le orecchie. Faceva così quando era nervoso o
sospettava di essere sul punto di fare una brutta figura.
Lo lasciai a grattarsi le idee per un'occhiata panoramica alla sua
stanza, che comunque conoscevo piuttosto bene. C'erano le solite
quattro serissime baggianate che si tengono appese ai muri alla
nostra età, più alcune altre unicamente sue, come foto di tifoni,
terremoti, eruzioni vulcaniche, maremoti. I maremoti erano la sua
passione. L'idea di onde alte trenta o quaranta metri lo mandava
particolarmente su di giri, e, in generale, qualunque evento
catastrofico naturale lo interessava allo spasimo.
Mio padre considerava normale per la nostra generazione questo
feticismo per i disastri, in fondo eravamo abituati fin dalla più
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tenera età a sentir parlare dei guasti irrimediabili inferti al pianeta,


ma io non mi sono mai sentita troppo attratta dall'Apocalisse.
Sicuramente i miei lo sono di più, altrimenti perché darmi il nome di
una moribonda?
– Senti, fai attenzione. Non ti capita di sentirti strana anche in
altri momenti? Non avverti la sensazione che ci sia un'altra
personalità che tenta di impadronirsi di te?
Se questo era il risultato del massaggio al cuoio capelluto, chissà
di cosa era capace quando si faceva uno shampoo. – Senti, Fox
Mulder, non sono un X-files e quindi puoi anche evitarti queste
scemenze. Non mi sento posseduta da nulla e da nessuno. So solo
che mi capita di vedere cose che non ci sono e questo mi fa venire i
brividi. Ma siccome mi succede solo quando gioco a dama, d'ora in
poi saggiamente eviterò qualsiasi tipo di scacchiera e sarò a posto.
– Ne sei proprio sicura? – Non sfotteva, aveva persino tirato fuori
una voce grave, da ESP-esperto o da psicanalista. – Tieni un bloc-
notes accanto a te sul comodino, nelle prossime notti. Secondo me
sognerai.
Non sapevo se prenderlo sul serio o mettermi a ridere. Dopo un
po' di indecisione optai per la prima possibilità. In fondo stava
dimostrando di preoccuparsi davvero per me e, dopo i miei, era il
primo a farlo. Non l'avrei creduto possibile, prima, e così baciarlo
venne assolutamente naturale e anche meglio del solito.

– Come va?
Paolo ostentava la mano fasciata come un riccone ferito durante
la regata.
– Male, grazie.
Si aspettava giusto due parole da me e allora perché negargliele?
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– Mi dispiace – declamai, bella e pura come un'eroina di Marion


Zeta Bradley.
– Va bene, va bene. Ma cosa ti è successo? Ti avevo solo toccata,
volevo soltanto chiederti se ballavi e tu...
Cascava male. Mi ero persino sfatta le treccine per non avere
un'aria frivola ed ero scesa fino al primo piano per avere il piacere di
entrare nella sua quinta a chiedergli scusa. E lui faceva il povero
figlio maltrattato dalla bella-e-crudele, anzi dalla carina/carogna.
Avrebbe dovuto dire cose tipo «non importa» o «non preoccuparti»
e invece eccolo lì, con l'espressione da cuoricino della mamma
scherzato dai ragazzacci. É vero che gli avevo arato una mano, ma se
lui fosse stato appena meno appiccicoso forse la cosa non sarebbe
finita così. Ma tutto sommato mi faceva un piacere con la sua
espressione da Pierrot di porcellana: mi ricordava perché non lo
sopportavo. Così presi fiato e gli dissi: – Lo so. Ma io non avevo
voglia di ballare con te.
Feci marcia indietro cambiando tipo di sorriso nella speranza di
risultare meno stronza di quanto non fossi, ma sospetto che il mio
tentativo non sia stato notato. Un paio di suoi compagni che
fingevano di leggere il libro di filosofia si soffiarono il naso un po'
troppo fragorosamente e lui non rispose al mio saluto.

Nel pomeriggio squillò il telefono e fu mia madre a rispondere.


Partì piana e gentilissima come fa lei quando ha a che fare con gente
che non le piace, ma in capo a un minuto la sua voce era già arrivata
allo zero assoluto, dando la sensazione di poter scendere ancora.
Purtroppo non potevo orecchiare troppo vistosamente perché,
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vedendomi, mi avrebbe incenerito sui due piedi, ma riuscii lo stesso


a cogliere un «... cosa vuole, anch'io sono piuttosto esigente in fatto
di uomini.» e un «... ma le belve basta lasciarle in pace, non crede?
Mio marito lo capisce benissimo quando è il caso di girare a largo.
Forse è solo una questione di esperienza...»
«Evvai, mamma!» Avrei voluto dirle, ma mi limitai a pensarlo.
Sul momento non avrebbe apprezzato.
25

5.

1.07
Di solito a quell'ora dormo come un angioletto con tutti i miei
bellissimi capelli sparsi sul guanciale, ma quella notte non
funzionava come doveva.
Tutta colpa di un pensiero molesto che ne aveva generati altri,
altrettanto molesti se non di più. Il pensiero molesto riguardava
ancora quell'impedito di Paolo. É vero che sono anche capace di
essere perfida, in caso di necessità, ma questa volta avevo la
sensazione di aver passato la misura. E perché? E come mai? La
ridicola domanda di Gianni sulla possessione a quel punto era
tornata d'attualità, dandomi una sensazione di smarrimento che la
prima volta non era esistita.
E così il problema diventava: cosa è tipicamente mio, quali modi,
gesti e impulsi, e cosa non lo è? Una domanda non da poco.
Personalmente non conoscevo nessuno che almeno una volta non
abbia stupito tirando fuori difetti o pregi imprevisti. Quindi, se
anch'io avevo dimostrato insensibilità, crudeltà e violenza, avrebbe
anche potuto non esserci nulla di troppo strano. Per consolarmi mi
ricordai di quando, a sei anni, avevo piegato all'indietro un dito a un
bambino più piccolo facendolo piangere come una fontana e avevo
minacciato di picchiarlo se avesse detto qualcosa ai suoi. O di
26

quanto, a otto anni, avevo nascosto la bicicletta nuova a mia cugina


che si rifiutava di farmela provare. Abbastanza criminali, come atti,
ma facilmente scusabili con l'età. Ma adesso avevo 17 anni, cioè
quasi il triplo e più del doppio, rispettivamente, e tra sei mesi sarei
stata maggiorenne. Se in me si annidava una sadica pericolosa avrei
fatto bene a scoprirlo in fretta.
Mentre conducevo la mia autoanalisi mi giravo e rigiravo nel
letto, sempre meno disponibile all'abbraccio di Morfeo. Era una
notte tiepidina, quasi calda per essere solo all'inizio di giugno, e così
dopo un po' di capriole e soste angosciose non ne potevo più del
tepore del letto. Decisi di trasferirmi sul pavimento di marmo, sia
pure in linea provvisoria. Arrivai anche ad architettare la possibilità
di tirare fuori il sacco a pelo dall'armadio, ma lasciai perdere per
non allarmare i miei senza necessità.
Curioso come a volte sia sufficiente cambiare letto perché cambi
anche la linea dei pensieri. Cominciai a immaginare di essermi
nascosta di fianco al letto per gioco, che portavo sciarpa e berretto
ed era una giornata fredda di febbraio e che i miei o degli amici mi
stavano cercando. Nel mio angoletto avevo freddo ma ero
introvabile, praticamente invisibile e

sto bene, sono finalmente tranquilla se rimarrò abbastanza a


lungo nascosta smetteranno di cercarmi, si dimenticheranno
finalmente di me nel cortile, a un passo dal mio nascondiglio,
posso sentire il respiro dei cavalli, i passi strascicati dei servi, i
richiami e le bestemmie, il clangore dei paioli trascinati fuori dalle
cucine per essere lavati nessuno mi sta cercando, per il
momento, o forse mi cercano fuori dalla Casa, nelle pianure solo la
condensa del fiato può tradirmi, e così respiro piano, cercando di
nascondere il vapore nella manica del vestito ho freddo ma
27

non me ne importa, mi sento meglio di come non mi sentivo da


giorni ogni tanto mi alzo in punta di piedi per guardare fuori
dalla finestra solo per un attimo, per non essere vista mio
fratello, nella casa dei nostri genitori, probabilmente sta ancora
dormendo e mio marito deve essere andato a caccia con i suoi
compari, a uccidere le poche lepri magre che ancora volano sulla
neve pesante di febbraio li odio entrambi, di un odio che so
di non riuscire a nascondere darei qualunque cosa per vederli
uccisi dai tèutoni o per ucciderli con le mie mani ma ho soltanto
mani di donna, mani deboli, fatte per cucire, accarezzare,
scompigliare i capelli ai bambini che restano immobili
quando lui giace sopra di me che non sanno tenere un'arma né
usarla perché sono nata in un corpo di femmina?
il loro Dio che tutto sa non sapeva forse che la mia natura mi
avrebbe condotto al peccato? perché non soffocare presto esistenze
come la mia, destinate alla dannazione? per loro lo sto
bestemmiando, ingiuriando, ma le domande non mi lasciano mai
anche in questo momento Lui sicuramente mi sta ascoltando,
per nulla stupito dei miei sentimenti è Lui il colpevole Lui
a volere la mia dannazione Lui il complice di mio fratello e di
mio marito loro lo venerano e si presentano profumati al
Suo cospetto, come dovessero appartarsi con la loro puttana
preferita ho freddo qui le mani sono bianche come la cera delle
candele mi sento male, svuotata come un vecchio tronco ucciso dal
gelo, scuro sulla neve pulita vorrei essere un albero dimenticato
nell'inverno nessuno verrebbe mai più a disturbarmi
nessuno potrebbe più chiamarmi perché non avrei più nome
nessuno mi cercherebbe più
28

– Gaia, ma cosa fai per terra?


– Nulla, nulla. – Risposi senza essere del tutto sveglia. Mi alzai a
sedere irrigidita dal freddo, la maglietta arrotolata fin sotto al seno.
Mia madre tirò dritto per andare ad aprire la finestra. Non fece
commenti ma aprì l'armadio per prendermi la vestaglia. – Tirati giù
la maglia. – Mi disse, come faceva quando ero bambina.
Mi alzai in piedi e l'abbracciai. Aspirai il suo odore e sentii le sue
braccia tenermi stretta.
– Gaia, cosa c'è?
Scossi la testa senza staccarmi da lei. Non sapevo cosa c'era, ma
c'era qualcosa.

– Doveva avere la mia età, ma era già sposata. Odiava il marito, lo


odiava a morte. Ho sentito la sua nausea nel ricordare le notti che
aveva già trascorso con lui e il disgusto per quelle che sarebbero
venute. Era orfana di entrambi i genitori, ed era il fratello maggiore
a occuparsi delle terre, lo stesso che l'aveva data in moglie a un
uomo ricco ma di un'altra fede e di un'altra lingua.
Gianni era seduto sulla sedia della scrivania e teneva il gomito
appoggiato sul bordo in equilibrio instabile, un'altra delle sue buffe
abitudini. Non aveva ancora detto altro che «ciao come stai» quando
ero arrivata. Mi ascoltava immobile e serio come un investigatore,
senza farmi domande e, incredibilmente, senza perdere l'equilibrio.
– E c'è ancora una cosa, un ricordo. Lei era già stata incinta, si
ricordava di aver sentito qualcosa che le si muoveva nel ventre. Quei
movimenti invece di rallegrarla la turbavano. Odiava i sorrisi delle
altre donne della casa, le loro risatine e le loro frasi incomprensibili,
29

né riusciva a sopportare l'idea di vedere il suo corpo mutare. L'ha


fatto uccidere. Non voleva mettere al mondo un figlio di lui. É
andata da una donna molto anziana, un donna che puzzava e non
parlava. Le ha tolto il bambino spargendole una polvere rossa sul
ventre. Quella sera quando è tornata a casa, il marito la voleva ma
lei stava male. Ha avuto un'emorragia, ha riempito di sangue le
lenzuola e le coperte di pelliccia. Il marito l'ha picchiata, poi però si
è spaventato e ha chiesto aiuto alle serve. Il sangue nella luce delle
candele era nero, sgocciolava sul pavimento e lei si sentiva debole e
leggera. Ma era felice, so che era felice, perché anche se non era mai
riuscita a uccidere lui, sarebbe morta e non l'avrebbero mai più
ritrovata. «Vorrei essere un albero dimenticato nell'inverno.
Nessuno verrebbe mai più a disturbarmi, nessuno potrebbe più
chiamarmi perché non avrei più nome, nessuno mi cercherebbe
più.» Nel sogno c'erano queste parole, le ricordo così, anche se per
me i suoi pensieri non erano fatti di frasi e parole, ma fili che
partivano da lontano e finivano nel nulla, fili ritorti, densi, come una
vecchia ragnatela. Era certa che il loro Dio tanto potente e pieno di
rabbia l'avrebbe dimenticata, cancellata come si cancella un brutto
errore. E invece è sopravvissuta, all'aborto, e quando io l'ho
incontrata era nuovamente incinta.
– E la dama?
Lo guardai con una punta di ammirazione. Non mi sarei aspettata
nulla di meno. Un altro mi avrebbe porto la spalla perché potessi
piangerci su, ma non era questo ciò che volevo da lui, in quel
momento.
– Non lo so. Ho delle ipotesi, ma non so quanto valgano. Posso
immaginare che la dama fosse il gioco preferito da lui e che lei fosse
30

felice di batterlo, di umiliarlo, almeno nella finzione del gioco.


– Ma lui doveva essere un tipo violento. Probabilmente si
incazzava nero quando perdeva.
Scossi la testa. – Chissà? Certo non doveva essere un angelo, ma
forse non era peggiore della media degli altri uomini della sua
epoca. Ne sapevano delle donne come dei gatti o dei cinesi. E
nessuno lo trovava strano.
– Ma lui pensava di avere dei diritti su di lei. Avrà dovuto cedere
qualcosa per averla in moglie.
– Certo, era stato un matrimonio per contratto. Ma fino a un
secolo fa o anche meno i matrimoni decisi a tavolino erano normali
e la gente tirava avanti lo stesso. L'amore è un invenzione recente.
Prima c'era solo la passione, che veniva tollerata purché non
mettesse in pericolo i matrimoni.
Mi guardò, tra l'inorridito e l'ammirato. Non gli dissi che quella
era un'osservazione di mio padre, uno che era felice quando poteva
demolire un pregiudizio. – Preferisco non fare altre ipotesi, però.
Altrimenti finirò per farla ragionare come me. E non penso che
abbiamo molto in comune, a parte l'età e il sesso. – Alzai lo sguardo
con un movimento improvviso per sorprenderlo. Nulla, non aveva
l'aria scettica e furbetta che mi aspettavo. Corrugai le sopracciglia e
parlai con tono di sfida, per impedirgli qualunque commento idiota.
– Non è lei a possedermi, comunque, semmai sono io a
raggiungerla. Stanotte mi sono trovata nel suo cervello e ho sentito
quello che sentiva lei, ma sapevo di essere io a farlo, non c'erano
confusioni. Chiaro?
– Certo, chiarissimo. É chiaroveggenza, non possessione. E
comunque l'avevo imbroccata, con il sogno.
– Come no. E la prossima volta cosa devo aspettarmi?
Un'apparizione, uno spettro, materiale ectoplasmatico, scrittura
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automatica? Visto che sei un esperto, tanto vale che mi consigli.


– Non scherzare, Gaia. Sono cazzate, queste, ma chissà perché
sono anche cose serie. Perché è serio il modo in cui la gente le
prende.
– Cribbio, com'è vero. E vieni a dirlo a me?
– Scusa, hai ragione. Comunque non lo so. Non ho idea di come
entrerai ancora in contatto con lei. Né se accadrà ancora. – Si voltò e
aprì un libro sulla scrivania. Chiuse gli occhi e puntò un dito sulla
pagina. Li riaprì e lesse: – Laghi.
– Laghi?
– Proprio così, laghi. É scritto qui.
– Devo andare su un lago, la incontrerò così?
Si strinse nelle spalle. – Speravo in qualcosa di più evocativo, ma
questo c'era. Si chiama qualcosamanzia e tutto quello che serve è un
libro e un dito. Certo, probabilmente la Bibbia va meglio, ma in casa
non ne ho. Ti accontenti?
Doveva essere un modo per rilassarmi e come tale decisi di
prenderlo. – Sei un fattucchiero?
Si strinse nelle spalle e mi raggiunse sul divano. – No. Ma non
sono neppure un marito. Ricordatelo quando siamo intimi.
– Me lo ricorderò.
Avrei voluto dire qualcosa di più cretino, qualcosa che sollevasse
un po' l'atmosfera ma non mi venne altro. Lasciai che cominciasse
ad accarezzarmi, ma restai immobile come se non me importasse
nulla, il che non era proprio da me. A un certo punto gli fermai la
mano con un sorriso impacciato. – Lascia perdere. Ho la testa da
un'altra parte.
Corrugò la fronte e si alzò a sedere girandomi la schiena. – Se
32

vuoi. – Aveva la schiena ritta, rigida, una schiena carica di


frustrazione. Proprio come un bambino al quale porti via il gioco.
Probabilmente avrei fatto bene a tirar su i miei quattro stracci e
cancellare gli ultimi quindici minuti dalla mia vita, ma non ci
riuscivo. Mi guardavo il ventre solo parzialmente scoperto come non
l'avessi mai visto prima. Lo vedevo vibrare al ritmo del respiro:
chiaro e morbido, desiderabile – come immagino dovesse apparire a
un uomo – ma anche fragile, vestito solo di pelle sottile. «Piena di
grazia... Frutto del ventre tuo...» Avevo imparato l'Ave Maria da
bambina, ma non riuscivo a ricordarla. Mi venivano in mente solo
frasi sparse, miste ad altre che probabilmente non c'entravano nulla.
Tutte parlavano della figa senza mai nominarla.
– Che fai?
– Niente.
– Sei bella, sai?
– No, non sono bella. Sono una ragazza mezza nuda a gambe
aperte e tu mi trovi bella. Normale, no?
Avrebbe dovuto incazzarsi, sarebbe stato appena logico e invece
no: si mise a ridere. – Hai ragione, cazzo se hai ragione. Ma non
riuscirai a farmi sentire in colpa. Hai voglia di fare due passi? Tanto
oggi non è giornata.
– D'accordo.

Non so come si chiama, lei. Non so nemmeno come si chiama il


suo paese, qual'è la fede alla quale tiene tanto e che ha dovuto
abbandonare per sposarsi. Di lei conosco le mani e un angolo dei
pensieri. E non sono affatto sicura che Lei non mi influenzi.
Il mondo visto attraverso i suoi occhi è più nitido, più preciso. Ciò
che mi dava fastidio prima, adesso è intollerabile. É come se tutto
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fosse diventato più chiaro: di qui le cose e le persone importanti, di


là il resto. Non ho più voglia di ascoltare le mie compagne che si
lamentano dell'ultimo ragazzo idiota che si sono caricate o che si
vantano di «tenerli sulle spine». Mi viene da ridere, adesso, a
sentirle. Loro non capiscono e dicono male di me. Ma io mi siedo
più in là e sorrido al cielo fuori dalla finestra. E mi vesto di nero
anche più di prima, come lei, perché lei porta il lutto per la sua
bambina non nata e vuole che la credano pazza, che la lascino stare.
Dice di sentirla piangere, di notte, ed esce nella neve a cercarla. Loro
si segnano e la guardano dalla finestra della casa. Poi i servi vanno a
riprenderla e la chiudono a chiave in camera. Suo marito in quelle
notti la lascia stare: ha paura. Sempre più spesso si porta a casa
qualche contadina: le sente ridere e uggiolare mentre lui le prende.
Mi addormento aspettando che torni, e se mi sveglio di notte
cerco di ricordare i miei sogni, ma sono sogni stupidi, banali.
Sono passate tre notti e non ci siamo più incontrate, ma so di non
aver perduto il contatto. Mi guardo allo specchio più spesso e mi
vedo forte. Nera e forte.
34

6.

– Ho delle notizie.
Possibile che Bruno stesse aspettandomi? Eppure lo trovai
sistemato sulla poltrona come fosse in attesa. Posai la borsa e sedetti
di fronte a lui.
– Fai una partita?
– Come no. Però prima stammi a sentire. Sono andato da un
antiquario, anzi da una dozzina di antiquari. Ne ho trovato solo uno
che abbia saputo dirmi qualcosa di serio sulla scacchiera. Poi sono
andato alla Biblioteca Nazionale e ho messo insieme qualche altra
notizia. Ma quasi tutte le informazioni le ho trovate al consolato
lituano.
– Bene. Sono tutta orecchi.
Rise. – Decisa eh? In quanti ti hanno detto che ultimamente sei
strana, Gaia?
– É una domanda?
– No, solo un commento. Ma torniamo alle cose serie. La dama è
stata costruita a Vilnius nella seconda metà del 1300, da un
artigiano di origine tedesca, Witold Panhüntzer. Questa non è
l'unica, ce ne sono un'altra dozzina sparse per l'Europa Orientale.
– Vale molto?
– No, non moltissimo. Ma è preziosa per un altro motivo. Lo sai
dov'è Vilnius?
– Me ne guardo bene.
35

– Adesso, ma anche allora, era la capitale della Lituania, la più


meridionale delle Repubbliche Baltiche.
– Lituania, Lettonia ed Estonia.
– Esatto. Non sei così ignorante, per la tua età.
– Erano in un gioco di parole incrociate geografiche. L'ho fatto
con un atlante in mano.
– E poi dicono che l'enigmistica è una perdita di tempo. – Aprì il
contromobile di castagno e ne estrasse la scacchiera. – Stavolta ci
mettiamo sul tavolo frattino, così non vedrai più la finestra.
Ci spostammo e lui dispose i pezzi, schierando davanti a me le
pedine nere. Nel frattempo continuava a parlarmi. – Witold
Panhüntzer aveva una vera passione per la dama. Oltre ad essere un
eccellente artigiano era anche un ottimo giocatore e corrispondeva
con altri giocatori in Polonia, in Boemia e in Italia. Scriveva in
latino, l'unica lingua internazionale, all'epoca. Probabilmente l'aveva
imparato nel corso dell'addestramento dai Cavalieri Portaspada. Ma
a diciassette anni disertò l'Ordine e fuggì a Vilnius, cioè dai nemici
dei cavalieri, e lì trovò lavoro e moglie.
– Chi diavolo erano i Cavalieri Portaspada?
– Sono più famosi con il nome di Cavalieri dell'Ordine Teutonico.
Witold era tedesco da parte di padre e quindi avrebbe potuto essere
ordinato Cavaliere. Ma evidentemente la vita dell'Ordine era troppo
rigida per lui. E poi Vilnius, all'epoca, doveva essere una città
davvero interessante. Vi coabitavano pacificamente cattolici,
maomettani, ebrei, pagani, ortodossi. Ma verso la fine del XIV
secolo, con l'unificazione dei troni lituano e polacco e la conversione
al cattolicesimo del Granduca di Lituania, Ladislao Jagellone, la
convivenza terminò. Gli ortodossi e i pagani si rivolsero allo zio del
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granduca per conservare i propri diritti, ma questi venne trucidato e


furono in molti a dover abbandonare la città. Anche l'ormai anziano
Witold, che pure teoricamente era cattolico, dovette fuggire. Ed è
probabile che i suoi problemi nascessero proprio dalle scacchiere. Le
scritte che vi aveva inserito, infatti, celebravano la grandezza e la
magnanimità degli dei pagani, venerati dalla nobiltà lituana. Il Dio
del Tuono e gli dei dei boschi, delle fonti, dei fiumi e dei laghi...
– Laghi?
– Laghi. Probabilmente l'apprendistato presso i Cavalieri
Portaspada aveva reso Witold un po' meno ricettivo verso la Parola
di Cristo. – Bruno sorrise. – Muovo?
– No, aspetta ancora un momento. Dove le hai trovate tutte
queste notizie?
– In una cronaca della città scritta nei primi anni del 1400 da un
sacerdote polacco per conto di una famiglia nobile di Belarus,
l’attuale Brest, imparentata con i lituani. Ovviamente nella cronaca
si presentava Witold come un abisso di abiezione, tanto più per le
sue scacchiere, dove le scritte, in latino, erano state vergate
utilizzando gli alfabeti paleoslavo, runico, ebraico e gotico. Quelle
scacchiere erano maledette, secondo padre Krakow: «maleolenti
arche di dannazione, suggerite dal Principe Lucifero in persona
all'apostata Witold Panhüntzer, per sempre maledetto nel sacro
Nome del Signore.»
– Una bella tirata. Ma te la sei imparata a memoria?
– No. Ma credo che le parole fossero più o meno queste. E mi
riempie di gioia possedere un oggetto sfuggito all'intolleranza
cattolica.
– Ma tu, Bruno, sei anticlericale?
– No. Ma i cattolici possono essere gente pericolosa. Come dite
voi giovani? Incazzosi, ecco.
37

– Già, incazzosi. Ma mi spieghi come c'entra la Dama di


Panhüntzer con quella ragazza, quella che ho sognato?
– Questo non posso saperlo, naturalmente. Posso dirti che nel
museo di stato di Vilnius c'è una copia identica di questa scacchiera,
donata al Granduca Keistut, lo zio traditore del re di Lituania e
Polonia, da Witold in persona. Insomma, direi che il nostro
artigiano ha davvero fatto il possibile per farsi perseguitare.
Dev'essere fuggito verso il nord, verso l'Estonia. – Si alzò – Torno
subito.
Rimasta sola non potei fare a meno di osservare ancora una volta
la scacchiera. Era indiscutibilmente un bell'oggetto ma non
possedeva alcuna aura maligna. Anzi, le pedine del bianco, scavate
nell'ambra chiarissima avevano qualcosa di leggero, armonioso,
quasi celestiale. In contrasto, il nero – lucido, quasi plastico – dava
una sensazione di forza e di limpida rettitudine. Ma forse anche la
scelta dei materiali e il modo di lavorarli erano frutto delle
convinzioni di Panhüntzer. Ne so poco di storia, ma in tempi come
quelli avere delle idee personali doveva essere un bene inestimabile
e pericolosissimo. Soprattutto quando le città dove la gente vive in
pace, ciascuna con la sua fede, diventano un macello.
Accarezzai un lato della scacchiera sentendo sotto le dita il rilievo
delle parole scritte in quattro diversi alfabeti. C'era qualcosa di
eccitante e di assurdo nel suo lavoro, qualcosa di molto bello e
coraggioso, ma anche di tanto strano da essere giudicato diabolico.
– Ho terminato il tabacco, devo assolutamente uscire. Ti dispiace
rimandare la partita? – Bruno riapparve con addosso l'inseparabile
giacca di velluto grigio.
Scossi la testa. Questa volta nessun rumore, avevo eliminato le
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treccine. – Non ha importanza. In fondo non avevo voglia di giocare.


– Era solo una scusa per rivedere la scacchiera, vero? Ma io non ti
trovo strana. A proposito, lo sai come si chiamava la religione alla
quale erano devoti gli antichi lituani?
– Paganesimo, me l'hai detto.
– Esiste un nome più specifico, che va molto di moda in tempi di
New Age. Druidismo, ovvero il più antico avversario del
cristianesimo.

Pagani. Me li ero sempre immaginati con le toghe degli antichi


romani, a scambiarsi l'un l'altro confidenze sulle ultime avventure di
Giove o a sacrificare mucche, anzi giovenche, sull'altare di Marte.
Mai mi sarei sognata che alla fine del 1300 ne circolassero ancora,
non solo, che fossero ancora considerati nemici della cristianità.
In quanto ai druidi l'unico che conoscevo era Panoramix,
l'inventore della bevanda magica di Asterix. Mi venne da ridere
pensando che in qualche strano modo Nonno Artiglio gli
assomigliava.
39

7.

Abitava – Bruno non Panoramix – a meno di un chilometro da


casa dei miei e in genere arrivare da lui era più o meno una
passeggiata. Attraverso il piccolo quartiere formato dalle case
popolari dei ferrovieri, costruite all'inizio del secolo, tapinavo sul
cavalcavia che supera d'un balzo un fascio di linee ferroviarie dirette
alla stazione principale ed ero arrivata. Le vie sono ombreggiate da
vecchi platani e per quanto abbastanza sporche hanno un loro
fascino. Mia madre diceva che era per via delle decorazioni
rozzamente Art Decò, molto di moda all'epoca. Io, ancora piuttosto
ignorante, ero solo incuriosita dai buffi disegni delle ringhiere dei
balconi e dei tetti.
Conoscevo la strada molto bene, dovevo averla fatta almeno un
due o trecento volte, sia da sola che insieme ai miei, e non sarei
riuscita a perdermi nemmeno andando in giro bendata.

Non era una bella giornata, il cielo era pesante di nubi che,
disposte su più strati, roteavano come immani foglie. Camminavo
veloce per evitare il classico acquazzone che, visto il mio
abbigliamento – nerissimo ma leggero – mi avrebbe inzuppata come
un pavesino. Mentre camminavo tenevo la testa bassa e inseguivo
40

sottili sensazioni e ricordi confusi, probabilmente della mia prima


infanzia.
C'era qualcosa di strano nella luce, come se il sole, invisibile
dietro le nubi, avesse percorso un bel pezzo di strada nel cielo senza
rispettare l'orologio. Ma questa sensazione, tanto assurda da essere
quasi ignorata, la ricostruii solo dopo un po'. Sul momento mi
limitai a rallentare il passo e sollevare lo sguardo. Ero certa di aver
già superato il tracciato delle ferrovie e di essere discesa dall'altro
lato del cavalcavia. Subito dopo avrei dovuto girare a sinistra,
superare tre viuzze e infilarmi nella via principale del quartiere.
Invece mi trovavo su una piccola altura coperta di erba corta e
coriacea ed erica. Davanti a me un sentiero fangoso scendeva
dolcemente verso le sponde sassose di uno specchio d'acqua, scuro e
mosso da una leggera brezza. Non c'era un'anima e neppure,
stranamente, un albero. L'aria aveva un odore molto diverso, sapeva
di fumo e di acqua ferma, con una leggerissima traccia di salsedine,
segno che il mare non era lontano. Nelle acque del lago si
specchiavano il cielo limaccioso e le curve arrotondate delle colline
basse e grigie. Le nebbie ne nascondevano l'estremità più lontana.
Avrei dovuto essere terrorizzata, in preda al più cieco panico, ma
in quel paesaggio c'era qualcosa di familiare. Non avrei saputo dire
se familiare a me o a Lei, anche se la risposta era, credo, abbastanza
ovvia.
Ma forse no, forse non era così ovvia. Tutti abbiamo sognato una
luce, un luogo, un insieme di colori che non appartengono a nessuno
dei posti che abbiamo conosciuto e conserviamo in fondo alla
coscienza il loro ricordo. Ero preda di un'intensissima sensazione di
deja-vu che mi impediva di scegliere se sentirmi atterrita o felice.
Cominciai a scendere il sentiero. Camminavo facendo attenzione
a dove mettevo i piedi. Non era una strada molto battuta e le
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pozzanghere e i tratti fangosi erano molto frequenti. Scendendo la


sensazione di familiarità andava impallidendo, si rarefaceva. Se
osservavo troppo a lungo un particolare del paesaggio ne ricevevo
una forte sensazione di estraneità, di sorniona ostilità. Le rive del
lago erano vicine e potevo distinguere le forme tondeggianti delle
pietre chiare, pietre di fiume o forse pietre che avevano dormito per
secoli sotto la superficie marina. Ciuffi di canne basse crescevano
nelle piccole insenature o sulle secche piegandosi leggermente alla
brezza, come in un respiro disordinato. Arrivai dove il sentiero
scompariva e, caparbiamente, percorsi i pochi passi che mi
separavano dall'acqua. Avevo riconosciuto le sensazione che mi
accompagnava: attendevo qualcosa.
Lei comparve poco lontano da me, sul tratto successivo della riva,
ed era perfettamente visibile. Teneva per mano un bambino molto
piccolo. Come me era vestita di nero, ma il suo abito era formato da
un corpetto decorato e da una sottana molto ampia che cadeva sugli
stivaletti, graffiati e sporchi. Il bambino sapeva a malapena
camminare ma non piangeva.
Arrivarono alla riva. Le loro figure si specchiavano rovesciate,
scure e ferme. Passarono alcuni secondi d'immobilità, il bambino
fissava la leggera risacca del lago. Lei, la madre, guardava verso di
me. Non lasciava cadere la mano al piccolo, anche se il loro
cammino era terminato, e non gli parlava. Trascorsero secondi,
forse minuti. Il lago cullava le nostre immagini contro il riflesso del
cielo senza profondità. Non volevo restituirle lo sguardo, ma le
acque ci univano, come due figure dello stesso quadro.
Poi la minuscola figura rovesciata del bambino scomparve e Lei
rimase sola. Le acque scure si agitarono solo per un istante prima di
42

ritornare alla loro quiete. Non la vidi fare nessun gesto né riuscii a
farne io. Si voltò e si allontanò. Mi aveva riconosciuto e quindi non
aveva nulla da temere, da me.

Fu la pioggia a portarmi via da lì, a nascondermi alla vista il breve


tratto d'acqua dove il bambino era scomparso per sempre.
Lei non aveva riso e non aveva pianto, assorta e incolore era
tramontata alle spalle della piccola altura specchiata nel lago. E io
non avevo detto una sola parola né fatto un gesto che non fosse stato
già immaginato o deciso prima. Per tutto il tempo che ero rimasta là
non avevo udito alcun rumore se non il leggero risucchio del mio
passo sul fango del sentiero e il sommesso rotolare del lago sulle
pietre.
Senza curarmi della pioggia marciai verso casa e vi arrivai
fatalmente fradicia.
– Gaia, sei tu?
La voce di mio padre. Non risposi e andai dritta in bagno. Mi
spogliai completamente e mi sedetti sulla ciambella del water.
Mio padre bussò leggermente alla porta. – Gaia, tutto bene?
– Sì, papà, tutto bene.
– Sicura?
– Sì, sì. – Avevo voglia di uscire ed abbracciarlo, nascondermi
nelle sue braccia, ficcare la testa contro il suo petto e spingere,
prenderlo a pugni sul petto e sulle spalle. Lui mi diceva di smettere,
quand'ero piccola, ma io approfittavo di ogni occasione per
ricominciare a svolazzargli intorno come una mosca ubriaca, e
cercare di rubargli una fetta dell'attenzione che dedicava a mia
madre.
Nascosi il viso tra le mani e cominciai a singhiozzare senza
43

riuscire a piangere. Lui dovette sentirmi ma preferì non chiedermi


altro. Dopo qualche minuto lo sentii armeggiare in cucina.
Probabilmente mi stava preparando qualcosa di caldo. Era fatto
così: tra gesti e parole sceglieva sempre i gesti.
Uscii dal bagno e raggiunsi la mia camera. Mi infilai nel pigiama,
mi pettinai e lo raggiunsi.
– Ho preparato del caffè, ne vuoi?
– Grazie.
– La mamma è andata a una premiazione per conto della rivista.
– Sogghignò. – Avrei dovuto accompagnarla ma mi ha risparmiato.
Probabilmente non rientrerà neppure per cena. Cosa vuoi da
mangiare?
– Cosa stavi facendo?
– Niente, leggevo.
– Cosa?
Corrugò la fronte e si grattò una spalla. – Un libro.
Tipico. Leggeva più o meno un centinaio di libri l'anno, per
divertimento o per lavoro, ma non ricordava mai un titolo. E se lo
ricordava era sbagliato.
– Sei andata dal nonno?
– Da Nonno Artiglio?
Rise. – Bello, nonno Artiglio, da dove viene fuori?
– Da quella volta che ho artigliato Paolo. Mi sembra di averne
guadagnato in stima, perlomeno con lui.
– Che ne sai? Magari è sempre stato il mio sogno avere per figlia
una donna pericolosa.
– Papà Artiglio? – Il caffè era caldo, ben zuccherato e tutto
sembrava normale: la tovaglia con il disegno dei velieri, lo spot
44

puntato contro il soffitto che illustrava la necessità di una bella


riverniciatura, i mobili di cucina giallo senape che avevano
comprato dopo un'infinità di discussioni. Ero a casa, ma non mi era
mai sembrato di esserne stata tanto lontana. La vedevo con occhi
diversi, come una appena ritornata dopo un viaggio di anni e che
teme di dover ripartire presto e senza preavviso.
– Non suona mica tanto bene, papà Artiglio. E poi io ho delle
responsabilità, non posso essere libero e incosciente come mio
padre.
Non ho mai capito quale fosse il loro rapporto. Si parlavano a
monosillabi e papà, quando lo vedeva, inalberava un'aria
ferocemente scazzata mentre Bruno, in sua presenza, sorrideva
parecchio ma senza convinzione, come se non trovasse più
l'interruttore per smettere. Eppure per molte cose si assomigliavano,
anche se non l'avrebbero mai ammesso.
– Hai preso la pioggia, tornando?
Si era alzato a lavare le tazze e mi voltava le spalle. Era uno dei
suoi famosi passi di avvicinamento, che non obbligavano a nulla ma
davano una possibilità.
– Sì. – Non sono mai stata a corto di parole, ma il groppo era
davvero troppo grande per riuscire a scioglierlo tutto insieme. E poi
non mi sentivo mica tanto certa di trovarmi lì per davvero. Certe
cose, per raccontarle, bisogna aspettare che siano finite.
– Visto il tuo abbigliamento direi che stasera non hai intenzione
di uscire. Hai steso la tua roba?
– No.
– Bene, allora vai. Io intanto invento una cena.

– Sto leggendo un romanzo. La storia di uno che scopre di essere


45

innamorato di una donna, mentre pensava si trattasse di un


travestito.
– Com'è?
– Mediamente tossico. Ogni tanto la tipa cambia nuovamente
sesso e il protagonista le ritrova in mezzo alle gambe l'amato
ciondolino. É tutto un via vai di sessi, odori, sudori, fumo, alcool e
pere. Uno di quei romanzi scritti perché si parli dell'autore, a un
pelo dalla pornografia, ma senza il fegato di farne davvero.
– Non ti è piaciuto.
– No. Sarà il decimo del genere che leggo negli ultimi due anni.
Bevve un lungo sorso di birra e si alzò ad attaccare il microonde.
In fatto di sesso in casa siamo piuttosto espliciti e poi non conosco
nessuno come mio padre che sia meno imbarazzato dal tema. Sarà
per via di tutto il sesso letterario che ha digerito o per via dello
zodiaco, ma in confronto a lui i padri delle mie amiche in presenza
delle figlie sembrano degli imbranati terrificanti
– ... E poi i personaggi non esistono. Sopravvivono incollati alle
loro parole, ma appena smettono di parlare te li dimentichi. Ma non
è mica il solo. Di veri personaggi, memorabili, ne ho incontrati
pochi, ultimamente.
– Anch'io sto leggendo una storia.
– Com'è?
– Acchiappa. C'è uno dei personaggi che mi fa paura, ma davvero
una paura esagerata.
– Non deve essere male. É un uomo o una donna?
– Una donna. Cioè sarebbe una ragazza della mia età, più o meno,
ma è già sposata. Ed ha avuto almeno un figlio. Ma è morto.
Era alle prese con una pesca, una delle prime della stagione,
46

compatta come una zucca e con lo stesso colore. Sembrava


completamente immerso nell'operazione di sbucciatura ma ero
sicura che mi stesse ascoltando con tutte le orecchie che aveva,
quelle ai lati del cranio e quelle che aveva dentro.
– Come è morto, il bambino?
– É morto annegato. Tutti in casa diranno che si è allontanato da
solo e daranno la colpa alla bambinaia. Ma è stata lei. L'ha portata
sulla riva di un lago e l'ha spinto dentro una buca. É affogato senza
nemmeno un singhiozzo e lei non si è fermata neppure per un
momento. Se ne è tornata a casa, preparandosi a una scena di dolore
incontenibile. Nessuno l'ha vista uscire con il bambino e così
nessuno potrà dire come è andata davvero tutta la storia.
– Mi ricorda... Nulla, nulla, lascia perdere. Lo vuoi un altro caffè?
No? Dev'essere raccontata decentemente, la tua storia, perché direi
che ti ha preso molto. E perché ha ucciso una povera creatura
innocente, oltretutto carne della sua carne e sangue del suo sangue,
lo spiega il tuo narratore?
Probabilmente moriva dalla voglia di sapere quale storia gli stessi
in realtà raccontando, ma aveva il buon senso di rispettare la mia
finzione. E poi non sapeva bene dove sarei andata a parare, così
doveva stare al gioco per forza. A chiunque altro sarebbe parso
tranquillo, ma io lo conosco bene: ha qualcosa del gatto, ho sentito
la mamma dirglielo un'infinità di volte, e penso sia vero. Capace,
come un felino, di seguire con apparente disinteresse il volo di una
mosca e poi prenderla al momento giusto, quando avresti giurato
che ormai non gliene fregava più nulla.
– Non voleva figli, non da lui. L'ha ucciso in odio al marito. Un
marito che le hanno imposto e che lei non voleva.
– Ne voleva per caso un altro?
– Papà non ti racconto mica Kiss me Licia. É una storia seria.
47

– Certo, scusami. Allora non c'è un altro. O perlomeno il


narratore non dice se c'è.
– No. Non c'è. Ne sono sicura.
Come facevo ad esserne tanto certa? Eppure lo sapevo. Non
amava più nessuno, Lei, e se anche aveva amato, qualsiasi ricordo
era stato annullato, relegato in un angolo inaccessibile della sua
mente.
– Com'era il lago?
– Eh?
– Ti ho chiesto del lago, com'era il lago? Coperto dalla nebbia e
circondato da canne e neri salici? O freddissimo e circondato dalla
neve?
– Era piccolo, allungato. C'erano delle canne, scure e sottili, ma
solo in qualche punto delle rive. C'erano molti sassi, sassi chiari e
rotondi, come quelli che ci sono sulla riva del mare. E c'era un po' di
nebbia, ma lontano. Lei se ne stava in piedi sull'altra riva e si vedeva
benissimo. Era un lago lungo e stretto, ci avrei messo un paio d'ore a
girarlo tutto a piedi. L'acqua doveva essere fredda, molto fredda,
perché era un posto del Nord, ma non c'era ghiaccio e neppure neve,
probabilmente si era sciolta da poco. Infatti c'era molto fango, sul
sentiero.
Si versò il caffè e mi si sedette di fronte. – Curioso. Ho quasi la
sensazione che tu l'abbia visto, quel posto. E anche tutta la scena.
Molto recentemente. – Bevve un sorso. – Strano vero, come
funziona la letteratura? Sembra quasi un sogno o una visione, se si è
capaci di maneggiarla con cura. O forse sono i sogni e i ricordi a
dargli sostanza. – Sorrideva e fissava un punto della tovaglia più o
meno a metà tra di noi. – Sarai stanca Gaia. – Alzò lo sguardo. – Sei
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stanca, vero?
– Sì. Sono esausta.
– Lo immaginavo. Devi aver corso come una matta per evitare la
pioggia. Il nonno mi ha telefonato cinque minuti dopo che eri uscita
da casa sua e un attimo dopo sei arrivata. Devi avere corso come se
ti inseguisse uno spettro.
Non mi sentivo all'altezza del suo umorismo, ma feci ugualmente
il possibile. – Effettivamente mi inseguiva uno spettro, ma pensavo
che ti saresti impressionato, a dirtelo.
Rise. – Già, è proprio così. Vieni qui.
Feci il giro del tavolo per raggiungerlo.
– Hai bisogno di qualcosa per dormire? Vuoi un sorso di whisky o
di qualcosa del genere?
– No, grazie.
Si morse la punta dell'indice, molto pensieroso. – Vuoi una
piccola luce accesa, quella di paperino che usavi da piccola? É nel
primo cassetto dietro di te, prendila.
La presi. Mi strinse forte, senza parlare, e mi accarezzò i capelli.
Mi lasciai coccolare, ero debole, confusa, stanchissima.
– Buonanotte, Gaia. Io resto sveglio ad aspettare la mamma.
Riposa e se hai bisogno, basta un fischio.
– Stai tranquillo.
– Sono tranquillo, con te.
Lo disse con solennità, come se ne fosse davvero convinto.
L'ho letto in un libro che mi ha passato lui. Probabilmente l'ha
fatto apposta. «...E i papà? Sembrano sempre da un'altra parte,
assorbiti dalle loro cose. E poi te li trovi vicino quando sei convinto
di essere rimasto solo, e scopri che di te sapevano anche ciò che
nemmeno tu sapevi.»
49

8.

– Voglio giocare.
Bruno mi sembrava più serio del solito. Non parlò né protestò,
fece un cenno di assenso e mise la scacchiera sul tavolo.
– Tu giochi con il nero, giusto? – Chiese. – Con la dama nera?
Erano ormai giorni che stavo al gioco della Dama nera. Ma non
potevo lasciare sempre a lei l'iniziativa. Stavolta il primo passo
l'avrei fatto io. L'idea di ritrovarmi nella sua testa o di fronte a lei mi
terrorizzava ma il nostro contatto era come l'ottovolante, ne avevo
una paura fottuta ma insieme avevo voglia di tornarci.
– Tocca a te, muovi. – Dissi a Bruno.
Ubbidì. Se era turbato dai miei modi stava molto attento a non
farmelo notare. Attaccai con la terza pedina a sinistra schierandola
di fronte alla seconda e bloccandolo. Mosse un'altra pedina alle
spalle della prima fila. Aveva aperto un varco, era solo questione di
tempo e sarei passata.

Vinsi la prima partita, poi la seconda, la terza e anche le altre.


Bruno non faceva commenti. Ogni volta schierava nuovamente i
pezzi e ricominciavamo. Prevedevo senza fatica le sue mosse e
conducevo le mie con un'abilità della quale non mi sarei mai creduta
50

capace. Le mie mani correvano sulla scacchiera candide come uccelli


invernali, sicure ed eleganti, con una precisione che non era mai
stata mia.
– Adesso basta, Gaia.
Alzai gli occhi, rapida ed eccessiva come una diva del muto.
– Gioca, gioca ancora.
– Ho detto basta. Adesso basta, per favore.
Non era la voce di Bruno, e quella frase non era stata pronunciata
in italiano.
– Non sei ancora stanca di uccidere?
Uccidere? La parola giusta non era mangiare? Mangiare le
pedine, giungere a dama, uccidere il nemico cosa mi restava
altrimenti? era un conto tra il loro Dio e me lui non
c'entrava più mi avrebbe toccato ancora No, non dormiva
più con me da settimane o mesi o forse anni ma Dio stesso mi
avrebbe toccato ancora e mi avrebbe condannato a portare
un'altra vita
– Non sei stanca? Non vuoi ritirarti a riposare?
Non riposo, non dimentico di notte cammino, attraverso
distese interminabili di neve, ma gli alberi, le case, i corvi sono
sempre gli stessi giro intorno a un lago, una lago nero coperto
di ghiaccio Sotto il ghiaccio mi chiamano mi cercano nuotano
sorridono giocano si nascondono in mezzo alle alghe scure
scivolano tra le pietre respirano l'acqua gelida l'acqua santa dove
devo tuffare la mano per sposarmi lascio che nuoti nelle mie acque
che fanno ondeggiare i peli del mio ventre neri e lunghi e lenti e
senza rumore il mio cavaliere il mio uomo non li teme e respira
acqua come un pesce e mi chiama di giorno e di notte mi chiama
perché ha paura di me e vuole che lo consoli che lo stringa tra le
braccia lo conduca al lago ancora al lago a gettare le pietre
51

nell'acqua che muovono il cielo sopra di noi

– Gaia?
Senza nemmeno aprire gli occhi capii che mi aveva sdraiato sul
suo caro, vecchio divano, ricoperto da una lunga pezza di seta
decorata a rombi. Mi piaceva la sensazione della seta, sotto le dita.
Mi era sempre piaciuta, anche da piccola, quando Bruno mi
sembrava altissimo e non riuscivo a smettere di guardargli i baffi.
– Come stai?
Aprii gli occhi. Torreggiava sopra di me come il Bruno di allora.
– L'ha ucciso. Come ha ucciso tutti i figli che ha avuto da lui.
– Ne sei certa?
Mi venne da ridere. Era incredibile come tutti, Bruno ma anche
Gianni o i miei, mi avessero ormai accreditata nel mio ruolo di
corrispondente da un passato e un luogo indefiniti.
– Sì, ne sono certa. Ora vive con il suocero e non la perdono mai
di vista. Non sanno di preciso e sospettano, ma la temono. La Dama
Nera. Non ha mai abbandonato il lutto per la sua famiglia e da anni
nessuno la vede vestita di un altro colore. Solo il padre del suo sposo
ha pietà di lei, chissà perché, e gioca ancora con lei. Proprio come
noi due: una ragazza e un uomo anziano seduti uno davanti all'altra,
e in mezzo la scacchiera. Tutto ciò che le è concesso è giocare, per
nessun altro motivo può abbandonare la sua stanza, neppure per le
funzioni religiose alle quali, comunque, non andrebbe mai.
Mi alzai a sedere. Mi girava la testa e avevo il colletto della polo
fradicio.
Bruno notò il mio gesto. – Hai sudato molto. E mi hai fatto un
52

lungo discorso. Ma non ne ho capito neppure una parola.


– Certo. – Osservai, seria ma assurda. – Dov'è la scacchiera?
– Sul tavolo. Ma non...
– Non voglio giocare ancora. Io sono una schiappa, a dama.
Se si rese conto di come avevo calcato la voce su quell'Io decise
che comunque questo non meritava commenti.
– É ancora sul tavolo.
Mi avvicinai soffocando una violenta sensazione di nausea. Ma il
mondo intorno mi sembrava abbastanza stabile e la nausea doveva
essere del tutto mia. Mi limitai a guardare la scacchiera e a scorrere i
caratteri scritti sulle quattro facce verticali. Nulla, nebbia, silenzio.
Questo mi avrebbe dovuto tranquillizzare. Lei sapeva leggere quelle
frasi, e chissà quante volte le aveva lette mentre giocava con il
suocero. Io, viceversa, no. Perché Lei sicuramente aveva giocato con
la Dama di Panhüntzer, la dama pagana, maledetta dalla chiesa del
Papa. Ma gli dei non potevano aiutarla, erano impotenti. Era
prigioniera di un altro Dio meschino e brutale, che le aveva imposto
figli e matrimonio, a Lei che non desiderava né l'uno né gli altri, e
che cercava di riempirla ancora di un'altra vita. Lei che non avrebbe
mai voluto crescere né cambiare, diventare madre e invecchiare
davanti al fuoco, ciabattare tra le camere il cortile e le cucine, morire
poco alla volta seppellita in fondo alla pianura, contando i lunghi
inverni e le brevi estati mentre la sua pelle diventava grigia e rugosa.
Lei, la Strana, l'Estone che non parlava la loro lingua, che aveva occhi
neri come i corvi, che fingeva di sputare quando incontrava il prete e
dormiva seduta davanti alla finestra, come un uccello rinchiuso.

Erano gli ultimi giorni di scuola e, per fortuna, nel resto dell'anno
me l'ero cavata decentemente, altrimenti difficilmente sarei
53

approdata alla quinta.


L'incidente di Paolo mi aveva reso interessante ma, suppongo, un
po' spaventosa. Quando mi avvicinavo a un gruppo le conversazioni
diradavano e dopo un paio di minuti tutti se ne tornavano al loro
posto. Anche gli insegnanti avevano uno strano ritegno nel parlarmi,
come se fossi diventata fragile e pericolosa come un pezzo di vetro.
Avrei dovuto sentirmi una paria, una diseredata, e invece mi sentivo
benissimo. Continuavo a vestirmi di nero, indossavo soltanto
biancheria nera, portavo orecchini e braccialetti neri e mi ero
tagliata i capelli cortissimi. I miei non avevano fatto commenti,
com'era nelle loro abitudini, mentre Gianni era diventato serio e
cauto, troppo attento a ogni minima frase o gesto. Ogni tanto, se lo
guardavo troppo a lungo, nasceva in me un inaspettato fastidio,
un'insofferenza per il suo sorriso e per le sua voce. Cercavo di
resistere ma finivo per non parlare quasi, tollerando appena la sua
presenza senza dare né poter ricevere nulla.
La solitudine tanto desiderata mi rendeva forte come non ero mai
stata, ma non appena mi fermavo avvertivo per intero le dimensioni
del vuoto che lentamente cresceva in me. Raggelata e affascinata
insieme, lo contemplavo, aridamente soddisfatta.
Adesso avevo paura di addormentarmi e rimanevo alzata fino a
tardi a leggere, installata in salotto sotto l'alogena, seduta per terra,
con la schiena appoggiata al divano.
Ogni tanto a farmi compagnia c'era mia madre, una lettrice
furiosa o forse una furiosa insonne. Ma ci scambiavamo in tutto
dieci parole e non era certo una come lei a poter trovare strano il
mio comportamento. O forse non era così e semplicemente non
sapeva che pesci pigliare con me. Fin dalla festa di Eva.
54

Non ero più passata da Bruno ed il tempo era pessimo. Contai sei
giorni di seguito di pioggia. Andavo a scuola solo quando ne avevo
voglia, cioè un giorno su tre. I miei non commentavano e
compilavano le giustificazioni. In fondo mancava solo una settimana
alla fine della scuola.

Non ero nervosa ma neppure tranquilla. Ero diversa: intensa,


lontana. Attendevo, semplicemente, e sapevo che presto ci saremmo
incontrate ancora.
55

9.

I miei avevano un piccolo appartamento in montagna. Era un


rifugio per quando non ne potevano più del mondo. Qualche volta
andavo con loro, più spesso restavo a casa e invitavo Gianni, in un
anticipo di vita matrimoniale.
– Noi andiamo in montagna, vieni anche tu?
Probabilmente mi avrebbe fatto bene un fine settimana a
guardare vecchi film in TV, cazzeggiare, nuotare nel loro grande
letto, mangiare porcherie comprate al banco gastronomia del
supermercato senza pensare a nient'altro, sempre che ci fossi
riuscita, ma c'era qualcosa di più urgente.
– Vengo, sono pronta tra dieci minuti.
I miei mi sembrarono perplessi ma non scontenti. Mia madre
arrivò in camera a controllare che avessi preso tutto quello che mi
serviva, come quando avevo dieci anni. Non mi offesi, sotto c'era un
po' di apprensione per me, il desiderio di non perdermi di vista.
Arrivammo dopo un'oretta di viaggio, passata a discutere di
politica internazionale e di nuovi cantanti. Ci tuffammo volentieri in
quella parentesi di normalità prosaica, che ci fece sentire almeno per
poco una famiglia normale.
Del primo argomento ne sapevo poco ma non così poco come la
media dei miei compagni di scuola, mentre sul secondo ero
56

preparata, ma, maledizione, lo erano anche loro. Era difficile che li


sorprendessi con un nome nuovo e non tanto più facile sorprenderli
con una canzone. Guardavano MTV, alle volte anche dopo che io ero
andata a letto, e non perdevano occasione per fare commenti
caustici su qualcuno dei miei idoli. In compenso talvolta avevamo
entusiasmi comuni, tanto che i soldi dei miei CD alle volte li
mettevano loro.
Il tempo non era dei migliori. Aveva tutta l'aria di aver smesso di
piovere da cinque minuti e che tra cinque minuti – o anche meno –
avrebbe ripreso. Salimmo fino a casa e sistemammo bagagli e
frigorifero. Praticamente c'eravamo solo noi, e non si sentiva un solo
rumore o una sola voce. Un Eden per mia madre, che era diventata
sempre più insofferente al casino.
Mangiammo dopo aver acceso il riscaldamento, alzandoci a turno
a spiare come buttava il cielo. Finito di mangiare, comunque, non
aveva ancora ripreso a piovere.
– Scendo un attimo al bar.
Mia padre fece un cenno di assenso, mentre la mamma aprì la
bocca come per dire qualcosa ma poi sembrò rinunciarci. Ma venne
alla porta dopo che ebbi infilato le scarpe e mi guardò.
– Gaia...
– Dimmi.
Non sapeva quale parole usare, ma sicuramente sapeva che cosa
voleva dirmi.
La baciai. – State tranquilli. Faccio solo un giro.
– Va bene.

Evitai il bar e mi infilai nel bosco di faggi e betulle in fondo alla


discesa. Camminai per un quarto d'ora, poi scelsi accuratamente un
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pietrone liscio e coricato, meno umido degli altri e mi sedetti. Gli


alberi sopra di me avevano foglie leggere, di quel verde chiaro che
c'è solo all'inizio della stagione. L'autunno mi piaceva di più, le
foglie cambiavano colore e diventavano gialle, rosse o brune, ma
anche la luce grigia di un giugno piovoso mi faceva sentire bene. Mia
madre era capace di passare un'ora seduta in un bosco, senza
muoversi né parlare, ma io non ero come lei, anche se, come mio
padre, la invidiavo.
Un vento leggero agitava le foglie giovani e dava un'illusione di
movimento. Era tutto talmente lento e solitario che sembrava di
stare in un film russo. Mi distesi sulla pietra fino ad appoggiare la
nuca. Sopra di me i rami si incurvavano a formare una cupola. Come
in una chiesa. Attraverso la stoffa della felpa sentivo il freddo della
roccia, il gelo della terra che non si è ancora liberata dall'inverno.

Mentre gli altri sono in chiesa

Non mi mossi. Lasciai che lo sguardo si perdesse nel movimento


delicato dei rami, nel cielo incolore e remoto. Sapevo che era
l'ultima volta, che non avrei saputo altro di Lei.

Esco dalla mia stanza e scendo le scale


Sento i maledetti burattini cantare in coro per il loro Dio
l'orizzonte è lontanissimo e meraviglioso
cammino veloce mi sento forte
respiro aria fredda senza odore e finalmente il silenzio
c'è ancora la neve e il sole è bianco dietro le nuvole
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Inspiro profondamente e ascolto. Come un sogno o un ricordo.


C'è del sollievo, del desiderio in Lei. É tutto più calmo, tutto finito.

Il lago
Ghiaccio spezzato sottile trasparente
Sotto gli abiti neri la mia pelle è rimasta chiara e morbida
la stoffa mi ha protetto mi ha lasciata com'ero lontano abbaiano
cani
il ghiaccio si illumina è giusto e sicuro come un padre
né Dio né loro mi troveranno più sarò acqua fango terra erba
corvi foglie neve ghiaccio li circonderò li stringerò li assedierò e li
vedrò invecchiare e morire
avrò un cuore di ghiaccio e non cambierò più

Mi distesi completamente sulla roccia per sentirne il freddo sulla


pelle. Rabbrividivo e sorridevo, guardavo il cielo cercando di non
chiudere gli occhi neppure per un istante. Graffiavo la pietra e il
muschio con la punta della dita e le annusavo. Odore di vento, di
tempo. Un tuono cresceva dal profondo della terra sotto di me, la
roccia vibrava. Respirava.

Scendo nel ghiaccio


– troveranno i miei abiti e avranno paura –
l'acqua scura raggiunge le ginocchia
nasconde il ventre
l'onda trema e ansima come un amante timido
vela il seno accarezza la gola bacia la bocca e gli occhi
fisso il buio e la luce ritagliata nel ghiaccio
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nel lenzuolo d'acqua sopra di me


il mio nome fugge da me come vapore come respiro sono
un'ombra bianca che scivola verso il fondo come il ventre di un
pesce
ora sono ciò che non potrete mai più riconoscere
ciò che non si potrà mai più nominare

Mi aveva abbandonato.
Intirizzita, stordita mi alzai dal mio letto di pietra e tornai a casa.
Trovai i miei sulla porta, pronti a uscire.
– Sono sola, adesso. Se n'è andata.
Mi fecero entrare e mio padre mi versò un bicchierino di grappa
nel tè bollente. Non mi chiesero altro, mi diedero una coperta e
accesero la stufetta elettrica.
– Riposati, adesso. Io e la mamma facciamo una partita a carte. –
Si abbassò su di me. Sapeva di tabacco e di liquirizia, come sempre.
– Dovevi farlo da sola, vero?
Annuii.
– Capisco. Dormi, adesso.

Dormii per quindici ore e qualcosa. Ogni tanto i miei dicono di


avermi chiamata per chiedermi se desideravo qualcosa, ma non
desideravo nulla, a quanto pare, solo dormire.

Un mese. Tanto vicine da essere come due gocce che scivolano


accanto su un vetro. Avevo avuto solo Lei e ora mi sentivo vuota,
60

come se la testa e il corpo fossero pieni soltanto d'aria. Parlavo


troppo forte, ridevo troppo forte, tutto di me mi sembrava eccessivo
o forse nuovo. Non sapevo come giudicare il mio passato, tanto
breve. Tolleravo Gianni e nulla di più. Non l'avrei definito amore
neppure prima, ma ostinatamente continuavo a cercarlo e a vederlo.
Mi sentivo esposta, fragile come non mi era mai accaduto prima.
Evitai la cena della classe dopo la fine dell'anno scolastico: anche un
gruppo di tre o quattro persone era divenuto per me una folla.
Passavo molto tempo a prendere appunti disordinati nelle pagine
non usate dei vecchi quaderni delle elementari. Quelle righe grandi,
ordinate mi davano un senso di quieta libertà.
Scrivevo di me, enumeravo tutti i piccoli fatti che ricordavo, i
nomi dei compagni di scuola delle elementari e delle medie,
inventariavo i miei parenti e mi ascoltavo, pronta ad afferrare anche
la minima eco risvegliata da un episodio, da un nome e cognome. Mi
svolgevo come una figura geometrica cercando le regole per
costruirmi. Non ne trovavo e ogni giorno dovevo inventarle.
Continuai per più di un mese, confusa ma non infelice.

Rividi Bruno soltanto dopo le vacanze in montagna. Ci eravamo


sentiti per telefono, ma erano state conversazioni neutre, cariche di
domande non fatte e risposte non date.
– Tutto bene?
– Bene. Strana, penso, ma bene.
– É finita?
– Sì. Siamo separate. E non tornerà.
– Mi piacerebbe sapere come fai a esserne sicura. – Scosse la
testa, ma era scaramanzia, la sua, non vera preoccupazione. – Siediti
sul divano, non credo che tu abbia ancora voglia di giocare a dama.
61

A proposito, ho pensato di venderla. Un antiquario francese mi ha


telefonato, c'è un collezionista che sarebbe disposto a pagare un
mare di denaro per averla. Tu cosa ne dici?
– No, tienila. Fa parte della mia eredità.
Produsse uno dei suoi sorrisi diplomatici e tamburellò le dita sul
bracciale della poltrona. – Ben detto. Vuoi portarla via già ora?
– No. Sta bene qui da te.
– Almeno finché sarò in circolazione. Hai provato a cercare
qualche spiegazione per quello che ti è successo?
– Me l'ha chiesto anche Gianni. No, non ho nessuna spiegazione.
So solo che prima c'era e ora non c'è più. Mio padre mi ha regalato
un vecchio libro: «La donna dai tre volti» e mi ha scritto come
dedica: «Leggilo, l'ha letto anche Alfred Hitchcock». Ma non credo
pensi che sia una vera schizzo. E in quanto alle spiegazioni
paranormali continuo a credere che spettri, fantasmi, possessioni
eccetera siano stronzate.
Strinse le labbra, coerente. – Penso anch'io che siano
stupidaggini, però a te qualcosa è accaduto.
Indicai il contromobile di castagno che conteneva la scacchiera. –
Dev'essere colpa di Panhüntzer. E dei suoi druidi.
– Scherzi?
– Certo, scherzo. Ma me lo sono chiesta. Come mi sono chiesta se
in realtà non esista nessuna spiegazione. Non so perché proprio a
me è toccato rivivere una vita consumata secoli fa, ma se ci penso
non so neppure perché proprio io debbo vivere questa, di vita. O
interpretarla, se preferisci. Perché non posso essere troppo diversa
da me, qualunque cosa significhi me, io, te. Ogni tanto le carte si
rimescolano, le identità si confondono. C'è un motivo vero perché
62

rimangano per sempre separate o no, in realtà non c'è nessun


motivo? E come lo vogliamo chiamare, questo motivo? Dio, destino,
caso, sfiga nera? Lei è morta da tanto tempo mentre io sono ben viva
e il tempo adesso ci separa di nuovo come un braccio di mare. Ma
come io sono stata lei, lei forse è stata me e non posso sapere chi di
noi è penetrata per prima nei sogni dell'altra. Se il tempo è un
oceano non esistono né un prima né un dopo ma solo un qui ed un
là, veri nello stesso momento.
Se Bruno era il tipo da profondi interrogativi filosofici non l'aveva
mai dato a vedere. Ma anch'io, in fondo, non ero mai parsa troppo
appassionata dal tema dell'identità. Comunque resse bene e non si
nascose dietro il fumo della pipa.
– Ho capito, credo. Ma il passato è irraggiungibile e tu sei anche
ciò che ognuno di noi conosce di te.
– Già, è vero. Ma non mi basta, non basta a nessuno. Nessuno è
fatto di riflessi, nessuno riesce a vivere soltanto di ciò che gli altri
dicono di lui. Io no, e neppure lei. Vagava per la sua camera, per
molte ore del giorno e della notte. Cercava di non pensare, stava
seduta oscillando il capo e ripeteva le stesse poche parole fino a
quando la testa non le girava e la mente non diveniva asciutta. Ma i
ricordi, la paura trovavano sempre la strada per ritornare da lei.
Poco alla volta il suo destino è diventato nulla, un punto. Il suo
unico potere stava nella paura superstiziosa che riusciva a incutere
negli altri. Allora rideva, rideva quando i servi le portavano da
mangiare e fuggivano e rideva quando qualcuno dei suoi parenti
incontrandola cercava di evitarla o si faceva il segno della croce. Le
risuonavano nella testa, quelle risate, come i conati di vomito di chi
non ha più nulla da vomitare. Vivere era addormentarsi sperando di
non svegliarsi più. – Sentivo su di me lo sguardo di Bruno, intenso
come un raggio di sole. Ma non riuscivo a fermarmi. – Lei era
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un'assassina, una creatura disperata e pazza, ma ho vissuto con Lei,


o di Lei. Ho interrotto la sua solitudine e Lei mi ha regalato la sua.
Sono stata la sua complice e la sua unica compagna. Non
preoccuparti, lo so bene: mi passerà. Diventerò finalmente adulta e
allora tutto mi sembrerà piccolo e opaco. Tutto, piccolo e opaco. E
sarà in quel momento, non ora, che sarò davvero diventata un'Altra.

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